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L L a a L L e e g g g g e e n n d d a a d d i i M M i i l l o o s s a a o o Istituto Comprensivo Statale Maida Scuola Secondaria 1° grado Vena di Maida XIV Rassegna Culturale Folcloristica per la valorizzazione delle minoranze etniche Maggio 2007 - Ricerca concorso “Un viaggio tra passato e presente, tra miti e leggende”

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Page 1: La Leggenda di Milosao 1 Leggenda di...erano rifugiati sui monti e parte alla volta dell’ Italia dove, per l’aiuto dato al re di Napoli, gli viene concesso il territorio su cui

LLaa LLeeggggeennddaa ddii MMiilloossaaoo

Istituto Comprensivo Statale MaidaScuola Secondaria 1° grado Vena di Maida

XIV Rassegna Culturale Folcloristica per la valorizzazione delle minoranze etniche Maggio 2007 - Ricerca concorso

“Un viaggio tra passato e presente, tra miti e leggende”

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Tanti anni fa o forse sarebbe meglio dire tanti secoli fa, un popolo proveniente dall’Albania e di lontana origine illirica venne a stabilirsi in un casale semidistrutto ed abbandonato sull’altopiano a ridosso dei fiumi Pesipe e Amato. Il casale, inizialmente chiamato S. Andrea de li Greci, dal nome del Santo protettore, era stato dato ad un gruppo di soldati albanesi, con familiari al seguito, dal re aragonese di Napoli in riconoscenza dell’aiuto ricevuto nella lotta di sottomissione dei baroni angioini ribelli alla sua autorità, tra i quali c’erano anche i Caracciolo, padroni della contea di Nicastro e signori del ducato di Maida. Dopo l’insediamento essi si dedicarono prevalentemente ad attività agricolo-pastorale, coltivando i terreni assegnati e allevando bestiame, ma svolgendo anche attività militare di sorveglianza dei territori vicini a favore del re aragonese di Napoli.

Controllavano cioè le mosse dei baroni, compresi i Caracciolo, che erano ostili ed insofferenti all’autorità del re. Perciò inizialmente essi si stabilirono in una zona strategica, a ridosso del fiume Pesipe, per meglio controllare i nemici. Poi, quando la situazione storica cambiò, venne abbandonato il primo sito e la popolazione spostò la propria sede in una località più vicina a due abbondanti “vene” d’acqua (sorgenti) e forse per questo venne cambiato il nome originario in quello di “Vena”. All’inizio ci furono forti contrasti e dissidi con le popolazioni vicine, dovute a interessi, mentalità, cultura, religione e lingua diversa.

Gli albanesi diedero aiuto militare e politico agli aragonesi e ciò era in contrasto con gli interessi dei baroni e

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delle popolazioni locali e provocò con le altre comunità o etnie vicine (specie con quella di Maida) attriti, intolleranze, incomprensioni, soprusi e vessazioni di ogni genere che continuarono a lungo anche nelle generazioni successive.

Un vago ricordo di ciò rimane negli epiteti ingiuriosi che si usavano nei confronti dei maidesi soprannominati “kakavirdet” forse perché vegetariani e perché si nutrivano prevalentemente di broccoli, cavoli e ortaggi vari che coltivavano in abbondanza in contrada “giardini”, oppure nell’uso di espressioni rimaste proverbiali come: “derk e leti mos e ngul ne shtepi se te cane poce e kusi” (maiale e forestiero non farlo entrare in casa che ti rompe pignatta e caldaia). A loro volta i vicini con disprezzo chiamavano gli Albanesi “grieci e gjegji” per la loro provenienza e per la loro lingua incomprensibile o usavano frasi fatte ed offensive come: “si vidi lu griecu e lu lupu, spara lu griecu e sarva lu lupu”.

Alla guida della comunità di albanesi c’era un valoroso condottiero, di nome Milosao, forte e coraggioso, che aveva strenuamente combattuto per difendere la sua patria contro l’oppressore turco. Milosao non si era mai sottomesso in patria alle pressioni turche e non aveva mai accettato di diventare il loro vassallo. All’inizio i Turchi usano lusinghe e promesse, mandando delegazioni per fare opere di persuasione e di riconciliazione, poi interrompono le relazioni e i negoziati e passano alle aperte minacce di sottomissione con la guerra. Milosao rafforza allora le difese del suo castello, ricostruisce le parti danneggiate, aumenta le riserve di armi e di viveri, proponendo a resistere.

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Quando i Turchi passano il confine, Milosao, dopo aver controllato ogni cosa e dato tutte le istruzioni ai suoi aiutanti, esce dal castello e porta le donne, i vecchi e i bambini sui monti dove dovevano rimanere nascosti per tutta la durata della guerra.

Qualche giorno dopo una sentinella di vedetta annuncia l’arrivo dei nemici. Dopo un rapido cannoneggiamento essi si lanciano contro le mura del castello a ondate successive, agitando scimitarre, bandiere, aste e vessilli.

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Molti soldati cadono negli scontri; l’esercito più grande del tempo si scaglia con furia incontenibile lungo tutta la lunghezza delle mura. Gli assalti continuano uno dopo l’altro, con ondate successive; i nemici si riversano contro le mura che vengono danneggiate in molti punti, appoggiando le scale, salgono, si azzuffano, indietreggiando e si lanciano di nuovo con furia raddoppiata.

Milosao, che era rimasto fuori dal castello con un suo battaglione, li attacca alle spalle ogni notte. Ma i nemici, dopo aver sepolto i soldati morti durante il giorno sotto le mura, si azzuffano con gli assalitori nella notte e il giorno dopo si affrettano di nuovo ad assaltare le mura. Gli assalitori hanno davanti due possibilità: o la strada facile della sottomissione e della schiavitù o la strada difficile della lotta e della morte onorata. Essi scelgono la seconda.

Il furore dei nemici arriva infine al culmine. Essi assaltano per l’ennesima volta il castello da ogni parte e lo riducono a un cumulo di macerie insanguinate. Milosao, dopo il crollo del castello, raduna i superstiti e quelli che si erano rifugiati sui monti e parte alla volta dell’ Italia dove, per l’aiuto dato al re di Napoli, gli viene concesso il territorio su cui sistemarsi con tutto il suo seguito. Un giorno mentre Milosao, nel suo nuovo insediamento, insegue a cavallo un cinghiale, che aveva ferito durante una battuta di caccia, giunge sulla sponda del fiume Pesipe in una località denominata Trovante, in prossimità di un vecchio mulino ad acqua.

Sulla riva opposta del fiume alcune ancelle, sotto la guida della figlia del duca di Maida, donna Bella, fanno il bucato di primavera, lavano cioè coperte e panni invernali e

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li stendono ad asciugare al sole, giocando e cantando allegramente. L’animale ferito ed inferocito passa a guado il fiume e si avventa contro le fanciulle ferendone alcune e creando molta paura e scompiglio. Ma sopraggiunge in quel momento Milosao che colpisce a morte l’animale impazzito.

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La figlia del duca, riavutasi dallo spavento, guarda il cavaliere negli occhi con molta riconoscenza e lo ringrazia per averla salvata dalla ferocia dell’animale, poi, al momento del congedo, chiede di conoscere il nome del suo coraggioso salvatore. Da quel fortuito incontro nasce tra i due giovani un sentimento profondo di stima e quasi di venerazione che però fu in tutti i modi contrastato per i forti pregiudizi e le note ostilità ed incomprensioni tra le due etnie.

Pochi mesi dopo la giovane si ammala e muore, colpita da un male sconosciuto. Lui quasi impazzisce per il dolore e non riesce a darsi pace. Un giorno, mentre percorre una strada infossata in una cava, il cavallo ha uno scarto, s’impenna e Milosao viene sbalzato pesantemente a terra, battendo la testa contro un masso. Rimane a lungo a terra

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privo di sensi e durante lo svenimento gli appare in sogno una diafana figura di donna, bellissima che lo aiuta e lo conforta.

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Dopo questa visione decide di fare erigere un santuario su un poggio poco distante, a perenne ricordo. E il santuario, detto di Bellacava, del nome della donna e dal luogo

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dell’apparizione, venne eretto in un luogo ameno, in mezzo al verde degli alberi su una ridente collina che si affaccia sulla valle del fiume Amato, dove ancora oggi la gente del luogo si reca in processione e si raccoglie in preghiera.

Dei luoghi, citati in questa storia, rimane qualche traccia, l’oblio però ha steso il suo manto sui protagonisti e le loro vicende che, come tutte le cose, terrene ed umane, sono state avvolte dalla notte dei tempi; di essi rimane soltanto il flebile, vago, tenue ricordo della leggenda popolare.