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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI VERONA DIPARTIMENTO DI FILOSOFIA, PEDAGOGIA E PSICOLOGIA SCUOLA DI DOTTORATO DI SCIENZE UMANE E FILOSOFIA DOTTORATO DI RICERCA IN SCIENZE DELL’EDUCAZIONE E DELLA FORMAZIONE CONTINUA XXIV° ciclo La letteratura femminile come mediazione educativa e fonte di sapere pedagogico: pratiche di libertà La literatura femenina como mediación educativa y fuente de saber pedagógico: prácticas de libertad S.S.D. M.PED/01 Coordinatori: Università di Verona: prof. Alberto Agosti Universidad de Barcelona: prof. José Luis Medina Tutor: Università di Verona: prof.ssa Anna Maria Piussi Universidad de Barcelona: prof.ssa Remei Arnaus i Morral Dottoranda: dott.ssa Ma. José Gil Mendoza

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI VERONA

DIPARTIMENTO DI FILOSOFIA, PEDAGOGIA E PSICOLOGIA

SCUOLA DI DOTTORATO DI SCIENZE UMANE E FILOSOFIA

DOTTORATO DI RICERCA IN

SCIENZE DELL’EDUCAZIONE E DELLA FORMAZIONE CONTINUA

XXIV° ciclo

La letteratura femminile come mediazione educativa e fonte di sapere pedagogico:

pratiche di libertà

La literatura femenina como mediación educativa y fuente de saber pedagógico:

prácticas de libertad

S.S.D. M.PED/01

Coordinatori:

Università di Verona: prof. Alberto Agosti

Universidad de Barcelona: prof. José Luis Medina

Tutor:

Università di Verona: prof.ssa Anna Maria Piussi

Universidad de Barcelona: prof.ssa Remei Arnaus i Morral

Dottoranda: dott.ssa Ma. José Gil Mendoza

Abstract

La ricerca di carattere teorico ed empirico affronta le relazioni tra letteratura femminile,

educazione e ricerca pedagogica. La prima parte è dedicata alla riflessione su come la

pedagogia puó trovare nella letteratura scritta da donne stimoli e idee utili per il suo

arricchimento e sviluppo. Le scrittrici le cui opere sono state oggetto di studio sono Virginia

Woolf, Clarice Lispector e Carmen Martín Gaite. La seconda parte della ricerca, di tipo

qualitativo, è dedicata all’analisi, alla narrazione e all' interrogazione di pratiche educative,

formali e non formali, in cui viene utilizzata la mediazione di testi letterari femminili. Le

domande guida all’attività di ricerca sono nate vincolate a una questione di fondo: se e come i

testi delle scrittrici possono essere una mediazione educativa significativa ed efficace nei

processi di formazione di adolescenti e donne adulte. L’intento è stato comprendere come

vengono mediati i testi, da dove si metteno in gioco nella relazione educativa, quali contesti si

creano, se e di quali cambiamenti sono generatori, che effetti hanno nei soggetti partecipanti e

come circola (se lo fa) il sapere femminile in essi racchiuso. E ancora: quali domande

pongono i testi in relazione all’educazione, al suo senso e alla sua realizzazione. La ricerca si

è svolta attraverso un doppio movimento, tra un approccio fenomenologico, basato

sull’avvicinamento alla comprensione dei fenomeni educativi a partire dalla prospettiva delle

persone coinvolte e dei significati che attribuiscono a questi fenomeni, e un approccio

etnografico. La possibilità di usare metodi diversi è praticata nella ricerca educativa quando

essi hanno dei presupposti in comune: in questo caso per entrambi sono centrali la voce e

l’esperienza dei soggetti coinvolti. Infatti è stato proprio il pensiero dell’esperienza il filo che

ha attraversato l’attività di ricerca, sia nel leggere i testi delle scrittrici sia nell’avvicinamento

ai contesti oggetto di studio.

Resumen

La investigación de carácter teórico y empírico afronta las relaciones entre literatura

femenina, educación e investigación pedagógica. La primera parte está dedicada a reflexionar

sobre como la pedagogía puede encontrar en la literatura escrita por mujeres estímulos e ideas

útiles para su enriquecimiento y desarrollo. Las escritoras cuyas obras han sido objeto de

estudio son Virginia Woolf, Clarice Lispector y Carmen Martín Gaite. La segunda parte de la

investigación, de carácter cualitativo, está dedicada al análisis, a la narración y a la

interrogación de prácticas educativas, formales y no formales, en las que se utiliza la

mediación de textos literarios femeninos. Las preguntas que han orientado la investigación

nacen vinculadas a una cuestión de fondo: si y cómo los textos de las escritoras pueden ser

una mediación educativa significativa y eficaz en los procesos de formación de adolescentes y

mujeres adultas. La intención ha sido comprender cómo se median los textos, desde dónde se

ponen en juego en la relación educativa, qué contextos se crean, si y cuáles son los cambios

que generan, qué efectos provocan en los sujetos participantes y cómo circula (si lo hace) el

saber femenino contenido en los mismos. La investigación se ha desarrollado a través de un

doble movimiento, entre un enfoque fenomenológico, basado en el acercamiento a la

comprensión de los fenómenos educativos a partir de la perspectiva de las personas

involucradas y de los significados que atribuyen a dichos fenómenos, y un enfoque

etnográfico. La posibilidad de usar métodos diferentes es practicable en la investigación

educativa cuando comparten algunos presupuestos: en este caso es central para ambos la voz

y la experiencia de los sujetos implicados. De hecho, es precisamente la experiencia el hilo

que atraviesa la actidad de investigación, tanto en la lectura de los textos de las escritoras

como en el acercamiento a los contextos objeto de estudio.

Abstract

The present theoretical and empirical research addresses the relationship between women's

literature, education and pedagogical studies. The first part is devoted to a reflection on how

pedagogy as a practical knowledge of education can find in the literature written by women

stimuli and helpful ideas for its enrichment and development. The writers whose works have

been the subject of this study are: Virginia Woolf, Clarice Lispector and Carmen Martín

Gaite. The second part is a qualitative research that analyses describes and interrogates the

educational practices, formal and informal, in which women’s literature is being used. The

guiding questions of the research activity were born bound to a fundamental question:

whether and how the texts of writers can be of a significant and effective educational role in

the process of formation of adolescents and adult women. The aim was to understand how

texts are mediated, where they are put into play in the educational relationship, what contexts

are created, and if and where they are generators of changes, which effects they have on the

participants and how it circulates (if it does) the female knowledge contained in them.

And again: what questions to ask the texts in relation to education, its meaning and its

implementation. The research was carried out through a double movement, between a

phenomenological approach, based on the understanding of educational phenomena from the

perspective of the people involved and the meanings they attach to these phenomena, and an

ethnographic approach. The possibility to use different methods is practiced in the educational

research when they have presuppositions in common: in this case the voice and the experience

of those involved is of central importance for both methods. In fact it was the train of thought

of this experience to cross the research activities, both in reading the texts of the women

writers as well as in approaching the contexts under study.

A mi madre. A mi hermana,

que se ocupó de mí cuando ella no pudo.

Ringraziamenti

Sono molte le persone che, per diverse vie, hanno reso possibile questo lavoro. A tutte loro,

grazie.

In particolare, ringrazio Anna Maria Piussi per aver accolto il mio desiderio e averlo

sostenuto durante questi anni. Grazie per lo sguardo attento e la fermezza in quei momenti in

cui la distrazione rischiava di portarmi altrove. Grazie per l’affetto e per avermi dato fiducia.

A Remei Arnaus per aver accettato di accompagnarmi, per le nostre conversazioni sulla

ricerca, grazie alle quali la struttura della tesi è nata. Per les seues mans e la seva veu suau,

così presenti a riscaldarmi il cuore nei momenti di sconforto.

A Asunción López per avermi offerto la sua casa e la sua compagnia durante i soggiorni di

ricerca a Barcelona. Sono state molte le cose che ho imparato insieme a lei, piccole cose

legate alla vita quotidiana e alla convivenza. E di questo le sono profondamente grata.

Ringrazio Virginia Woolf, Clarice Lispector e Carmen Martín Gaite. La vostra scrittura è

stata e continua a essere fonte di felicità per me.

Ringrazio Maria Lluïsa Cunillera, che rispetto e ammiro come donna e maestra. È stato per

me un onore e un privilegio conoscerla e partecipare alle sue lezioni. Grazie a Tatiana, Marta,

Andrea e Adrià, “giovani” straordinari e pieni di vita, con cui ho condiviso insieme a Maria

Lluïsa dei moments màgics, come chiama Adrià l’accadere dell’inatteso.

Grazie a Luisa Fortes e le donne della “Tertùlia” della libreria Pròleg di Barcelona: Pilar,

Rosanna, Xus, Elizabeth, Carmen, Mónica, Carol, Eva e altre. Ascoltare le loro storie è stata

una avventura appassionante, come appassionato è il loro amore per la letteratura femminile.

A Nora Almada e alle partecipanti al suo laboratorio di lettura e scrittura: Carmen, Pepita,

Eva, Yolanda e Paz.

A Àngels Grasses, fondatrice della Libreria delle donne di Barcelona, e a sua figlia Nùria, per

aver avermi aperto il loro spazio e aver lasciato che mi aggirassi liberamente con la macchina

fotografica e la mia curiosità.

Ringrazio Chiara Zamboni e Elisabeth Jankowski per la lettura della tesi e la loro presenza al

seminario autogestito del 2011, in cui mi hanno dato dei suggerimenti preziosi. Grazie ancora

a Chiara per il successivo incoraggiamento a finire la tesi. Quando una donna a cui si

riconosce autorità ti dice “Va avanti”, il desiderio si risveglia e le energie si rinnovano.

Ringrazio anche Rosanna Cima per la lettura e i commenti al testo.

Grazie alle persone del progetto Edulife, in particolare al suo fondatore Antonello Vedovato,

per l’aiuto che mi hanno dato in questi anni. Un ringraziamento anche alle mie colleghe e

colleghi di lavoro per la loro comprensione, specialmente a Emilia Leopardi, che oltre che

collega è un’amica.

Ringrazio Guru Dev Singh per i suoi insegnamenti e la sangat, mia famiglia spirituale:

Patwant, Nirver, Siri Gopal, Sangeet, Simrat…

Grazie a Sergio per avermi accompagnata in questo lungo cammino.

Grazie a Kathrin per il suo sostegno e per avermi insegnato che la forza non è estranea alla

grazia. Grazie a Tesa per essere andata alla ricerca di libri introvabili un’estate a Madrid e per

ricordarmi che la diga si sta aprendo. Grazie a Ana per aver letto le mie poesie, scrittura in cui

il testo della ricerca ha trovato aria fresca per ossigenarsi. Grazie a Eleni per avermi portato

fuori quando rischiavo di appassire davanti alla scrivania.

Ringrazio Marco per avermi sostenuta e accompagnata sin dall’inizio, prendendosi cura di

me, della casa e della nostra gatta; per la pazienza con cui ha letto e riletto i testi che man

mano scrivevo e per le volte in cui mi ha fatto trovare pronto il pranzo o la cena al mio ritorno

a casa.

Infine, con le parole di Wisława Szymborska:

Ti ringrazio cuore mio:

mi sono svegliata di nuovo

e benchè sia domenica,

giorno di riposo,

sotto le costole

continua il solito viavai prefestivo.

due donne che parlano di libri di donne, Mimì Gnoli (1995)

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INDICE

Introduzione

Capitolo 1. La domanda per il senso: origini della ricerca

1.1. Tutto ebbe inizio con un sì

1.2. Un passo indietro

1.3. Viaggiare in metropolitana

1.4. Ritornando al passato prossimo

Capitolo 2. Il percorso della ricerca

2.1. Mettersi in cammino

2.2. Le motivazioni di una scelta

2.2.1. Perché mi piace: il piacere come misura

2.2.2. Perché mi emoziono: il sentire alla radice del pensare

2.2.3. Perché (mi) fa bene: recuperare la lingua materna

2.3. Le madri di tutte noi. Virginia Woolf, Clarice Lispector e Carmen Martín Gaite

2.4. Contesti d’indagine

Premessa

2.4.1. “Germanes de Shakespeare”

2.4.2. “Mirades de dones”

2.4.3. La “Tertùlia” nella Libreria delle donne di Barcelona

2.5. Riferimenti teorici ed esperienziali

2.5.1. La pedagogia della differenza sessuale

2.5.2. Imparare ad amare la madre leggendo le scrittrici

2.5.3. Mettere in circolo sapere femminile: la «doppia mediazione»

2.6. Linee metodologiche e strumenti della ricerca

2.6.1. La fase di campo a Barcelona

2.6.2. Le interviste

2.6.3. Elaborazione dei dati: i fili di senso

2.7. Passaggi della ricerca.

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Capitolo 3. Le scrittrici, le mie maestre

Premessa

3.1. Leggere le scrittrici: alla ricerca di pietre preziose

3.2. Virginia Woolf: la pratica della conversazione

3.2.1. Pensare assieme

3.2.2. Essere in relazione

3.2.3. Celebrare il mondo reale

3.2.4. Perdere il legame

3.2.5. Aprire al senso del reale

3.3. Clarice Lispector: il metodo della passività

3.3.1. Obbedirsi ciecamente

3.3.2. Il cammino della rosa

3.3.3. Prendersi cura del mondo

3.4. Carmen Martín Gaite: genealogia femminile e lingua materna

3.4.1. Una conversazione eccezionale

3.4.2. Scendere nel bosco

3.4.3. De su ventana a la mía

3.4.4. Farsi ritmare dalla lingua materna

Capitolo 4. Una stanza tutta per sé

Premessa

4.1. Raccontare i contesti

4.2. “Germanes de Shakespeare”: la letteratura a partire dalla libertà

4.2.1. Genealogia di un desiderio

4.2.2. Il piacere di educare: una vocazione

4.2.3. Abracadabra: si apre la diga, si apre…

4.2.4. Rimanere vicino alla sorgente e farsi trovare

4.2.5. Un viaggio che continua

4.3. La Tertùlia di Pròleg: una pratica della relazione

4.3.1. La libreria delle donne di Barcelona: la forza della passione

4.3.2. Aprire un nuovo inizio

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4.3.3. Pensare attraverso le nostre madri

4.3.4. La lepre nell’erba

4.3.5. Il gioco delle dame

4.3.6. Il laboratorio di lettura critica e scrittura creativa “Mirades de dones”:

uno sguardo in controluce

Capitolo 5. Libere composizioni

Premessa

5.1. Mediazioni per un’azione vivente

5.2. Verso la fine...

Riferimenti bibliografici

Galleria di fotografie

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Ma ora cambierà il mio linguaggio:

da pianto in canto,

ora è tornato il tempo bello…

Christine di Pizan, Poema di Giovanna d’Arco

Esta tesis es un milagro.

Diario di ricerca, 20.04.2012

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Introduzione

Trovare una parola per iniziare è sempre difficile. Gli inizi sono delicati e hanno bisogno di

attenzione e di cura, lo sanno bene le madri. E anche se io non lo sono ancora, intuisco che

richiedano anche una grande dose di coraggio per inoltrarsi in quella notte scura che, come ci

racconta Giovanni della Croce, l’anima deve attraversare per incontrarsi con l’amato. Notte

oscura in cui tuttavia è possibile vedere, se ci si affida ad un tipo di sapere che non tutto sa,

che addirittura non sa niente, eppure sapere è (Muraro, 2012a, p. 106). Le madri quando

decidono di esserlo dicono sì e quell’affermazione apre un nuovo inizio. È un gesto immenso

di amore e di fiducia, che ci dice di un modo altro di stare al mondo. E anche se non sanno,

eppure sapendo1, decidono di mettersi in cammino, dejando su cuidado entre las azucenas

olvidado…2.

Un inizio è una lunga strada che si apre, di cui vediamo il principio ma non la fine. Un inizio

è qualcosa di nuovo che mettiamo al mondo altrimenti non è inizio, ma ripetizione. Ci sono

delle parole che iniziano; ci sono delle donne che con la loro parola hanno iniziato; ci sono

delle donne la cui vita è stata inizio per altre.

Questa ricerca è stata per me un inizio: dal pianto al canto. Il pianto è per me l'impossibilità

di dire e la frustrazione e il dolore che quella impossibilità provoca3. Non un dire qualunque,

ma un dire ciò che in me chiede di essere detto, ciò che chiede di essere pensato e nominato

per dare senso al mio stare nel mondo: come donna e formatrice. Dire, ancora, con parole

proprie che aprano un nuovo inizio, il mio. Il canto è allora il risveglio della parola

(Zambrano, 1977, p. 25), la propria, la parola dell’inizio, appunto, quella imparata insieme

alla madre (o chi per essa). Parola che ha il sapore di quella relazione prima di fiducia radicale

(di radice, quindi fondativa dell’essere), senza la quale non è possibile venire al mondo:

fiducia della creatura nella madre, fiducia della madre nella creatura. Senza la quale non avrei

1 Si veda Winnicott (1987), in particolare le pagine dedicate alla «madre normalmente devota» (pp. 1-11).

2 Il verso di Giovanni della Croce (che ho leggermente alterato sostituendo il mi originale con su) si trova in

Salita al Monte Carmelo e appartiene all’ultima strofa delle Canzoni «nelle quali l’anima canta la felice ventura

che le toccò, di passare, attraverso la notte oscura della fede, nella sua nudità e purgazione, all’unione con

l’Amato» (Della Croce, 1993, p. 79). Riporto la traduzione del verso in italiano: «Dimentica, acquietata / il

volto reclinai sull’Amato, tutto cessò e rimasi, / lasciando ogni mia cura, / circondata da gigli, obliata» (ivi, p.

80-81). Riporto anche la intera strofa in spagnolo, che cito a memoria: «Quedeme y olvideme/el rostro recliné

sobre el amado,/cesó todo y dejeme/dejando mi cuidado entre las azucenas olvidado». 3 Come scrive Luisa Muraro, «il pianto segreto di un stare nel mondo senza la totalità di sé e delle proprie

energie» (2009a, p. 54, trad. mia).

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potuto portare avanti il mio lavoro di ricerca. È tornato il tempo bello… Il risveglio della

parola rende l’oscurità abitabile; annuncia il tempo dell’aurora: luce che riscalda e infamma il

cuore, senza accecarlo, e prepara per la battaglia. Non dimentichiamo che le parole di

Christine de Pizan annunciano la storia di Giovanna d’Arco, una ragazzina di sedici anni

(non è cosa soprannaturale?)…

La mia tesi è un milagro. Gli inizi hanno un che di soprannaturale, di miracoloso. Sono

momenti che nascono da una grande necessità e in cui si ha bisogno di tutto. È l’esperienza

della «fragilità degli inizi», come l’ha chiamata Luisa Muraro (2012a, p. 53). Momenti in cui,

già da adulti, non è – o almeno non solo – la sicurezza nelle nostre proprie forze a darci la

spinta a iniziare, ma soprattutto l’affidarci a qualcos’altro. Cosa sia qualcos’altro, non lo so,

anche se cercherò di parlarne a proposito dell’esperienza di alcune scrittrici e della pratica

educativa di alcune donne. Sono ancora le parole di Luisa Muraro a farmi intuire che

qualcos’altro c’è, quando dice: «L’inganno comincia quando cominciamo a sottovalutare

l’enormità dei nostri bisogni e ci mettiamo a pensare che bisogna commisurarli alle nostre

forze, che sono naturalmente limitate. O quando il criterio di realtà diventa la coincidenza con

un già detto, un già stabilito, un già desiderato da altri, che sempre meno si sa chi sono» (ivi,

p. 39). E ancora, e qui arriviamo al punto centrale: «Se pensiamo il reale da solo, scorporato

dal suo possibile, se lo guardiamo da soli, senza lo scambio con altri, non lo vediamo

veramente» (ivi, p. 155).

Quando si vuole iniziare a uscire dall’inganno e cominciare a dire la verità, che è risvegliare

la propria parola, si ha bisogno di tutto. Ed è qui che si apre lo spazio al miracoloso.

L’esperienza del miracolo può viversi quando si trova (o ci si fa trovare da) un chiaro nel

bosco – ne ha parlato María Zambrano (1977) –, oppure in un contesto più metropolitano,

quando si arriva all’uscita del dedalo di strade di una città sconosciuta, non si sa bene come;

più radicale intuisco che sia l’esperienza di vedere un figlio o una figlia nascere e crescere. Di

solito ci si perde quando ci si inoltra nella notte oscura, quando con i propri passi si disegnano

delle strade nuove, degli itinerari che prima non c’erano: in potenza, ognuno e ognuna di noi

è, in sé, l’inizio di un cammino. C’è nell’accadere del miracolo l’accettazione che non tutto

dipende da noi, il trovarsi come direbbe Luisa Muraro, in una condizione di mancanza.

Condizione che se riconosciuta e significata, ovvero, pensata a partire da ciò che per ognuno

ed ognuna significa essere mancante di qualcosa, può diventare un passaggio verso un modo

altro di vivere (e di fare ricerca, come in parte ci suggerisce Luigina Mortari quando,

seguendo María Zambrano, parla della passività come metodo) (2006, pp. 100-119). Per me

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iniziare questo percorso di ricerca, riconoscendomi mancante di ciò di cui avevo bisogno per

portarlo a termine, perchè eccedeva le mie forze, naturalmente limitate, è significato

ritrovarmi in una condizione di bisogno tutta nuova per me. Bisogno di me, della mia forza

per rispondere alla necessità di prendere sul serio il mio desiderio – come esortava Adrien

Rich (1982) alle donne, tra cui le sue studentesse universitarie –, e di mediazioni significative

per metterlo al mondo, che per me sono state innazittutto altre donne: le mie tutor, le autrici di

riferimento, le stesse scrittrici fuoco della ricerca, le maestre e formatrici che ho incontrato nei

contesti in cui ho fatto indagine, alcune mie colleghe di dottorato. Inizio nato in relazione e

dalla relazione, perché non è possibile altrimenti, come ce lo mostra il modo in cui siamo

venute e venuti al mondo e alla parola.

Questa ricerca è stata per me un inizio: spazio di presa di parola per raccontare di saperi di

donne che sono state per me inizio a loro volta, in quanto con la loro parola hanno risvegliato

la mia. Ne ho scelte tre: Virginia Woolf, Clarice Lispector e Carmen Martín Gaite. Le

motivazioni sono riconducibili alla mia esperienza personale: tutte e tre in modi e tempi

diversi sono state per me mediazione educativa, in quanto nelle loro narrazioni ho trovato

modelli di un’esistenza libera femminile, che mi hanno offerto una misura, «una relazione con

il mondo che dà ordine e permette di nominare ciò che è difficile da nominare» (Wilson,

1998, p.73, trad. mia). Le parole che cito sono della filologa Caroline Wilson, una delle donne

che ha studiato l’opera di Carmen Martín Gaite, partendo dalla sua esperienza di lettura della

romanziera spagnola. Un movimento simile al suo, ma con uno sguardo pedagogico, è quello

che ho cercato di compiere in questo lavoro di ricerca. A partire dalla mia esperienza di

lettura di Virginia Woolf, Clarice Lispector e Carmen Martín Gaite, dal significato che hanno

avuto per me da un punto di vista educativo, mi sono fatta questa domanda: quanto e come i

loro testi possono essere una mediazione per pensare la pedagogia, intesa questa, come sapere

prassico dell’educazione, come sapere utile per comporre in modo creativo la propria vita

(Bateson, 1992)?

Il punto di partenza è stato intuire che nei testi di queste scrittrici ci sono delle visioni del

mondo – un mosaico di idee sull’essere donne, la famiglia, le relazioni, l’educazione, la

politica, la letteratura, la scrittura, il sapere e la conoscenza4 – che possono essere fonte di

sensi nuovi sull’educare. Visioni, e non contenuti espliciti, che mostrano un modo di essere, o

4 Si veda a questo proposito la ricca e variegata produzione di queste scrittrici che oltre ai romanzi comprende

scritti di critica letteraria, politici, giornalistici nonché lettere e diari, riflesso del loro modo di vedere il mondo e

del luogo da cui scrivevano.

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meglio, di divenire5, ma che non vogliono dimostrare niente o convincerci di qualcosa, perché

se c’è un filo che lega queste scrittrici è l’assenza nei loro scritti di un’intenzionalità didattica

o pedagogica. Perché sarebbe come «(…) mettere il cartellino del prezzo sulla propria opera»

(Rampello, 2005, p.168), avrebbe detto Virginia Woolf. La loro scrittura prende le mosse non

da una volontà di insegnare ma dal desiderio di rimanere fedeli alla propria esperienza di sé e

del mondo e di nominarla in modo libero. Un modo, come molte studiose hanno messo in luce

(Fusini, 2009; Battella, 2007; Wilson, 1998), che non ha la pretesa di analizzare il reale e

comprenderlo in maglie esplicative o descrittive, ma che aspira piuttosto a restituire la sua

complessità e la trama di relazioni che lo sostengono. Ed è questo spostamento – una

«schivata», come direbbe Luisa Muraro6 –, a rendere così potente e trasformativa la loro

scrittura, e così interessante da un punto di vista educativo. L’effetto che ne risulta è una

parola che riesce a dire l’essenziale, a toccare la persona che legge e a suscitare in essa delle

domande, più che dare delle risposte.

Questo è stato il paradosso fecondo che ha attraversato il processo di indagine nei testi delle

scrittrici, processo che non poteva quindi radicarsi nella pretesa di identificare dei possibili

contenuti pedagogici come qualcosa di già dato, bensí nel tentare di mettere in luce, a partire

dalla mia esperienza e dalla mediazione di altre autrici, cosa in essi interrogava l’educare e me

come formatrice. Allora: come leggere queste scrittrici? Da dove?

La mia riflessione e la mia pratica di avvicinamento ai testi si sono sviluppate attorno all’idea

centrale della lettura come esperienza (Woolf, 1998a; Sontag, 1969; Larrosa, 2003). È stato

un processo in cui ho seguito un doppio movimento tra «diletto e distanza» (Wandruzska,

1992). Diletto, perché sono testi con cui sentivo di avere delle affinità e che ritenevo

importanti per le risonanze formative che hanno avuto in me; distanza, perché li recuperavo in

un percorso di ricerca in cui, partendo dall’intuizione che essi potevano essere una fonte di

sapere per la pedagogia, sono andata alla scoperta di quelli che potevano essere i punti

5 Nell’opera collettanea curata da Paola Bono e Laura Fortini, Il romanzo del divenire. Un Bildungsroman delle

donne? (2007), le autrici mostrano come le storie di formazione scritte da donne, “piccole narrazioni” da cui

parte la riflessione, non trattano di Bildung cioè di processi lineari chiari e conclusi (Moretti, 1986, pp.9-12), ma

di un evolversi molteplice e aperto, un divenire. Processi di formazione molto in sintonia con una «visione

“complessa” della maturità» (Loro, 1992, p. 87), in cui l’ideale di maturità e ciò che Demetrio chiama

«maturescenza» (2003, p.21) (il divenire verso la maturità) mantengono un relazione dialogica continua tra sé e

con altri percorsi femminili. 6 Sulla «schivata» si veda Muraro (2009b, pp. 5-12). Ho sentito Luisa Muraro parlare di «schivata» a proposito

del modo originale e libero con cui Virginia Woolf decise di affrontare il tema “Le donne e il romanzo” in Una

stanza tutta per sé. Ne parlo nel capitolo IV (4.2.1. Genealogia di un desiderio). L’occasione nella quale ho

ascoltato Luisa Muraro è stata il seminario “Scrittura della ricerca. Ricerca della scrittura”, organizzato

all’Università di Verona da Graphein, dalla Facoltà di Scienze della formazione e dal Cesdef, il 23 settembre

2010.

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parlanti e significativi per pensare l’educazione e la formazione (pietre preziose, li ho

chiamati). Si è trattato di un modo di indagare in cui ho tentato di non sovrappormi ai testi,

nonostante il mio coinvolgimento, ma di stare con una disposizione attenta (Weil, 1972, p.

80)7

a ciò che (mi) dicevano; un indagare in cui, rimanendo vicina ai testi ho azzardato delle

«ipotesi a rischio» (Zamboni, 1990, pp. 9-24), ovvero, delle letture che aprivano a qualcosa

che in essi non c’era (un sapere sull’educare) ma verso la quale si orientavano. Un processo di

scoperta in cui, proprio per la sua natura euristica, è stata centrale la mediazione di altre

autrici (filosofe, pedagogiste, filologhe, storiche, scrittrici) che prima di me li avevano letti.

Sono state loro a darmi dei suggerimenti preziosi su come e da dove interrogare i testi,

mostrandomi, così facendo, la portata e profondità del pensiero delle scrittrici. Da questo

modo di leggere dunque, in una circolarità relazionale tra le scrittrici, me e altre autrici

significative, sono nati i fili di senso che ho proposto per pensare l’educazione a partire dai

testi letterari di Virginia Woolf, Clarice Lispector e Carmen Martín Gaite.

Il progetto di ricerca ha previsto un ulteriore passaggio8: conoscere pratiche educative di

donne, in situazioni formali e non formali, in cui si mettessero in circolo testi letterari

femminili, che non dovevano essere necessariamente quelli delle scrittrici da me scelte. Le

domande guida (Bruni, Fasol, Gherardi, 2007) all’attività di ricerca – cosa sta succedendo

qui? Come funziona la pratica educativa osservata? – sono nate vincolate ad una questione di

fondo: se e come i testi delle scrittrici potevano essere una mediazione educativa significativa

ed efficace nei processi di formazione di adolescenti e donne adulte. Il desiderio che mi ha

guidata è stato conoscere, più che verificare un’ipotesi. In particolare, comprendere come

venivano mediati i testi, da dove si mettevano in gioco nella relazione educativa, quali

contesti si creavano, se e di quali cambiamenti erano generatori, che effetti avevano nei

soggetti partecipanti e come circolava (se lo faceva) il sapere femminile in essi racchiuso. E

ancora: quali domande ponevano i testi in relazione all’educazione, al suo senso e alla sua

realizzazione (Contreras, Pérez de Lara, 2010, p. 50).

Ho deciso di condurre una ricerca qualitativa, per la possibilità che mi offriva di raccontare in

profondità le pratica osservate e dare conto della mia esperienza di ricercatrice in relazione a

7 Per la filosofa la pratica dell’attenzione consiste nel fare il vuoto, nell’essere disponibili, permeabili all’oggetto

mantenendo «in prossimità del proprio pensiero, ma ad un livello inferiore e senza contatto con esso, le diverse

conoscenze acquisite che si è costretti a utilizzare» (1972, p. 79). 8 I passaggi non sono da intendere in modo sequenziale ma si sono aperti parallelamente, intrecciandosi in una

relazione dialogica continua tra ricerca teorica e indagine empirica, tra pensiero dell’educare ed esperienza viva.

12

esse, rimanendo vicino al loro senso e alle domande che nascevano man mano, più che alle

risposte. La ricerca si è svolta attraverso un doppio movimento, tra un approccio

fenomenologico, basato sull’avvicinamento alla comprensione dei fenomeni educativi a

partire dalla prospettiva delle persone coinvolte e dei significati che attribuiscono a questi

fenomeni, e un approccio etnografico. La possibilità di usare metodi diversi è praticata nella

ricerca educativa quando essi hanno dei presupposti in comune (Mortari, 2008): in questo

caso per entrambi sono centrali la voce e l’esperienza dei soggetti coinvolti.

L’approccio etnografico, come segnala Chiara Bove (2009, p. 52), utilizzato in ambito

educativo, acquista il suo senso nel «conoscere per cambiare», ovvero, nella possibilità di

«interpretare e descrivere per cogliere delle possibilità di trasformazione e di cambiamento

utili ai protagonisti degli eventi ossservati». E non solo. Se pensiamo la ricerca come «pratica

di relazione di scambio vivo» (Arnaus, 2010a, p.165, trad. mia), come spazio di un «pensare

in presenza» (Zamboni, 2009), in cui ci esponiamo in prima persona, l’attività di ricerca puó

diventare un’esperienza trasformativa anche per la persona che indaga. In questo senso,

l’intento della mia ricerca è stato quello di essere più che una ricerca sull’educazione, una

ricerca educativa (Blanco, 2010).

La ricerca pedagogica (Blanco, 2006, 2008) ha messo in luce come i saperi messi in

circolazione negli spazi formativi siano legati a chi insegna e, nell’aspettattiva di chi insegna,

anche alle allieve e allievi. In questo senso, il sapere non è una cosa oggettiva, indipendente

dalla persona che lo fa circolare, ma «qualcosa di dinamico, mai risolto, che è soltanto, che

esiste soltanto, nella misura in cui viene vissuto nelle menti di coloro che lo elaborano o di

coloro che lo ricreano e lo attualizzano e che gli conferiscono significazione nel riceverlo ed

operare in esso» (Contreras, Pérez de Lara, 2010, p.49, trad. mia). I saperi, nel rapporto

didattico, sono quindi frutto di trasformazioni da parte delle persone che vi partecipano;

vengono sempre mediati, più o meno consapevolmente, in primis, da chi li mette in gioco.

Nell’esplorazione delle realtà oggetto della ricerca ho cercato di comprendere, da una parte,

quanto la selezione dei testi delle scrittici e il modo di mediarli da parte delle

insegnanti/formatrici fosse una scelta consapevole e rispondente ad un pensiero proprio e,

quindi, come circolava (se lo faceva) il sapere femminile contenuti nei testi; e, dall’altra, quali

effetti avesse questa «doppia mediazione» (Martinengo, 1992, p.16) nei soggetti partecipanti

nello scambio educativo. La doppia mediazione – idea elaborata da Marirì Martinengo a

partire dalla sua pratica educativa come insegnante e che mi ha orientata nell’avvicinarmi ai

13

contesti – sta ad indicare uno stretto vincolo tra i testi e la persona che li mette in gioco; la

relazione tra ciò che essi dicono, il sapere che ne scaturisce, e lo spazio simbolico dove si

colloca chi li media. Significa, nel caso di una donna, portare con sé, nella mediazione del

testo, «tutta la cultura della propria esperienza femminile» (Rich, 1982, p. 74), in modo da

rendere significativa e incarnata la mediazione che del testo fa. E significa anche mettersi in

relazione a partire da sè con gli allievi e le allieve, per creare e ricreare insieme il sapere del

testo, potenziando così le sue possibilità trasformative.

Le realtà oggetto di studio sono state tre, tutte localizzate a Barcelona (Spagna): il corso

facoltativo “Letteratura catalana del XX secolo” (conosciuto familiarmente come “Germanes

de Shakespeare” [“Sorelle di Shakespeare”], che la prof.ssa Lluïsa Cunillera propone nel

Liceo Antoni Cumella di Granollers (Barcelona); il laboratorio di lettura critica e scrittura

creativa “Mirades de dones” [“Sguardi di donne”], tenuto da Nora Almada e che si svolge

nella libreria Pròleg (Libreria delle donne di Barcelona) e la “Tertùlia” (che traduco

provvisoriamente come incontro letterario ma il suo senso va oltre), coordinata da Luisa

Fortes, una volta al mese nella stessa libreria. La scelta di Barcelona è stata una decisione

motivata, innazitutto, dall’incontro con alcune docenti spagnole con cui collabora la mia tutor,

la prof.ssa Anna Maria Piussi, – tra cui Nieves Blanco, dell’Universidad de Málaga; Remei

Arnaus y Asunción López, della Universidad de Barcelona – grazie alle quali sono venuta a

conoscenza di certe esperienze educative significative, la maggior parte di esse a Barcelona, il

che non è un caso data l’importante presenza in quella città di donne impegnate nella cultura

e nel pensiero femminile. Inoltre, il successivo accordo di cotutela con l’Universidad di

Barcelona ha rafforzato questa scelta, dato che esso prevedeva la permanenza nella cittá di

almeno sei mesi nell’arco del percorso di dottorato, per svolgere attività di ricerca e

formazione.

L’esplorazione dei contesti sopra citati è avvenuta attraverso la combinazione di diverse

tecniche di indagine (osservazione, intervista, analisi della documentazione) e la

composizione di differenti materiali a sostegno della ricerca (taccuini; registrazioni delle

interviste, delle sessioni di osservazione e degli incontri di confronto con le mie tutor

sull’andamento del processo; fotografie). Inoltre, lungo il percorso della ricerca ho tenuto un

diario di ricerca9, in cui ho preso nota delle impressioni e riflessioni – prima e dopo le

interviste, le sedute di osservazione, gli incontri con le mie tutor e ogni qualvolta ne sentivo il

9 Lo citerò con l’espressione “diario di ricerca”; dopo la citazione indicherò tra parentesi: DR (iniziali di “diario

di ricerca”, se prima non è stata esplicitata la fonte) e data in cui ho scritto il frammento. Con modalità analoga, i

taccuini (T) contenenti le note di campo.

14

bisogno – , che sono state il punto di partenza per la rielaborazione del percorso della ricerca e

per il resoconto dei contesti oggetto di studio. Il diario è stato uno strumento particolarmente

significativo nel cercare di mantenere il pensiero vicino all’esperienza di ciò che (mi)

accadeva all’interno della ricerca: come dice Liliana Rampello, a proposito di ciò che

muoveva Virginia Woolf a scrivere i suoi diari, per cercare di «restituire il pensiero assieme al

flusso che lo circonda, lo anima, lo muove, lo incarna» (2005, p. 30). Infatti è stato proprio il

filo del «pensiero dell’esperienza» (Buttarelli, Giardini, 2008) ad attraversare la mia attività di

ricerca, sia nel leggere i testi delle scrittrici sia nell’avvicinamento ai contesti oggetto di

studio. Pensiero, il cui processo si è articolato in tre passaggi: «affetto, effetto e mediazione.

Ci capita qualcosa (affetto), che produce modificazioni (effetto), che cerchiamo di tradure in

parole» (ivi, p. 15).

La tesi si articola in cinque parti.

Nel primo capitolo La domanda per il senso: origini della ricerca, ripercorro i passaggi della

mia biografia personale e professionale, che mi hanno portato a fare questo lavoro di ricerca.

Ho ritenuto che il racconto di ciò che è venuto prima non fosse qualcosa di aneddotico o

prescindibile – qualcosa di previo alla ricerca – ma una parte costitutiva della stessa perché,

come spiegano José Contreras e Nuria Pérez de Lara a proposito della ricerca educativa,

«questa esplorazione delle origini, motivazioni e formulazioni iniziali delle nostre domande è

l’orizzonte situazionale da cui prende forma la nostra indagine» (2010, p. 76, trad. mia). Se

tutte le domande hanno una storia, da lì dovevo partire.

In sintesi, sono tre i passaggi in cui mi sono soffermata: gli ultimi anni dell’università in cui è

nato in me il desiderio di indagare l’opera di alcuni autori e autrici, con le difficoltà che ho

incontrato nel portare avanti il mio desiderio; la mia esperienza professionale come

insegnante di spagnolo a donne immigrate in una scuola per adulti e successivamente come

ideatrice e coordinatrice di un laboratorio di lettura e scrittura creativa in una fondazione

orientata alla formazione e integrazione sociale di persone immigrate; e, infine, il ritorno

all’università, già a Verona, per iniziare un percorso di ricerca in ambito linguistico (in

particolare, sulla didattica delle lingue) e la decisione di cambiare strada per riprendere lo

studio di alcune scrittrici per me significative, tuttavia non più da uno sguardo linguistico-

letterario, ma prevalentemente educativo-formativo. Tutto ciò, intrecciato con la mia passione

per la lettura e l’insegnamento, il pensiero illuminante di alcune donne che sono state per me

15

riferimento nella mia crescita umana e professionale e le domande che emergevano nel

rievocare il passato, in relazione all’attività di ricerca che avevo deciso di iniziare.

Nel secondo capitolo espongo il percorso della ricerca: oggetto, desideri e intenti, le domande

generative, le motivazioni per cui ho deciso di intraprendere questo percorso e scegliere le

scrittrici oggetto di studio; e delle microricerche: accesso ai contesti d’indagine e

rielaborazione della fase di campo a Barcelona. Un’attenzione speciale è dedicata ai

riferimenti da cui sono partita per riflettere sul significato educativo di quanto vissuto, in

relazione alle scrittrici e alle pratiche formative aperte alla loro mediazione. In concreto, ho

scelto la prospettiva simbolica, teorica ed esperienziale del femminismo della differenza

sessuale (Diotima, 1987) e più concretamente in ambito educativo, la pedagogia della

differenza, iniziata alla fine degli anni Ottanta (Piussi, 1989). Ho tenuto conto anche del

pensiero della differenza sviluppato in Spagna, principalmente da Duoda10

(il Centro

interdisciplinare di studi della differenza sessuale della Universidad de Barcelona) e da

Sofías11

, realtà che ho avuto modo di frequentare da vicino.

Una parte del capitolo presenta i metodi e le tecniche scelte per esplorare le pratiche

formative in cui si mediano testi scritti da donne. Uno degli strumenti che ho trattato in modo

dettagliato è stato l’intervista, in quanto luogo privilegiato di incontro, per cogliere e

comprendere i significati che i soggetti coinvolti attribuivano a ciò che accadeva all’interno

dei contesti. In questo senso ho pensato l’intervista come una conversazione, uno spazio in cui

sia io che le intervistate potessimo pensare insieme; in cui sia le mie necessità come

ricercatrice che le loro in quel momento (p.e. la necessità di raccontare determinati

passaggi)12

, trovassero un modo di articolarsi. Un altro aspetto importante è stata la fiducia

che, come ricercatrice, ho progressivamente acquisito lungo il percorso della ricerca, la quale

mi ha dato la possibilità di stare in modo più libero nelle sessioni di osservazione e,

soprattutto, nelle interviste. Questa disposizione credo abbia avuto delle ricadute in quella

10

http://www.ub.edu/duoda/ 11

Sofías. Relazioni di autorità in educazione è una rete di pratica politica formata da donne, docenti

universitarie, insegnanti e ricercatrici interessate al mondo dell'educazione, che ogni anno organizza un incontro

in presenza in cui si trattano temi legati all’educazione e alla politica delle donne. I protocolli delle conversazioni

tenute durante gli incontri vengono raccolti e pubblicati ogni due anni in un volume cartaceo (si veda la collana

Cuadernos inacabados della casa editrice horas y Horas, Madrid). http://circuloSofías.wordpress.com/ 12

È stato il caso di Carmen, una delle partecipanti alla “Tertùlia”, la quale durante l’intervista mi ha raccontato

per esteso i suoi anni in Argentina durante il periodo della dittatura militare di Videla e, successivamente, la sua

esperienza di immigrata in Spagna, in particolare, a Barcelona. Passaggi questi necessari, come ho capito dopo la

nostra conversazione, perché lei potesse pensare il significato che la tertùlia – come spazio di incontro, confronto

e pensiero assieme ad altre donne – aveva avuto e stava avendo nella sua vita.

16

delle mie interlocutrici, nel senso di una maggiore apertura da parte loro (Woods, 1995, p.

78).

Le scrittrici: le mie maestre è il titolo del capitolo dedicato al resoconto dell’esperienza di

lettura di Virginia Woolf, Clarice Lispector e Carmen Martín Gaite, con una particolare

attenzione al modo in cui mi sono avvicinata ai testi. Nella premessa al capitolo ho provato a

mettere in luce il filo paradossale su cui mi sono mossa nella esplorazione dei testi, in quanto

essi sono estranei a qualunque tipo di intenzionalità educativa o didattica. Sono partita

dall’idea che il non avere la volontà di insegnare apra i testi a possibilità educative inedite, da

scoprire dunque, e che questa assenza di «volontà buona» (Zambrano, 2000b, p. 32) da parte

delle scrittrici suggerisca una “pratica”, mostrare più che dimostrare, che può essere preziosa

per le persone che lavorano in ambito educativo.

La parte centrale del capitolo raccoglie le proposte per ripensare l’educazione a partire dalle

opere delle scrittrici. In Virginia Woolf ho trattato la pratica della conversazione, da lei amata

e coltivata sia nella vita (gli incontri del gruppo di Bloomsbury a casa di Virginia ne sono un

esempio) sia nella scrittura e nella lettura (come pratica agita dai suoi personaggi ma anche

come modalità propria di mettersi in relazione con altri testi, di cui i suoi articoli di critica

letteraria danno conto). Ho pensato questa pratica, partendo dalla Woolf, in particolare dai

suoi Diari (2011) e con la mediazione di altre autrici e autori (Zamboni, 2001, 2009; Zeldin,

2002), come una modalità trasformativa di relazione, che va oltre la comunicazione, in cui le

persone si espongono in prima persona nell’interazione e creano pensiero in relazione. Nella

riflessione su Clarice Lispector ho percorso il tema della passività come “metodo” (Mortari,

2006) per conoscere e rapportarsi con il mondo, di cui la sua scrittura è testimone. Sono

partita dall’idea dell’obbedienza a sé, che costituisce la cifra della sua poetica – «ciecamente

mi obbedisco» (Lispector, 1997) –, a fondamento di una libertà di tipo relazionale (Zambrano,

2003), che si realizza attraverso il riconoscimento dei vincoli con cui siamo venuti al mondo,

in quanto creature relazionali. La genealogia femminile e le sue possibilità trasformative nei

processi di formazione delle donne è la questione che affronto in relazione all’opera di

Carmen Martín Gaite. Le relazioni tra donne, che attraversano i suoi romanzi e ne

costituiscono la tematica centrale, sono il punto di partenza per una riflessione sugli effetti

che la mediazione di una donna può avere nella vita di un'altra. Una particolare attenzione è

data alla pratica dell’affidamento e, con essa, al concetto di autorità (Libreria delle donne di

Milano, 1987), da intendere, non come potere, ma come autorevolezza: «una comprensione

17

fatta di sapere ed esperienza» (Comba, 2011, p.289), che si mette in gioco nella relazione e

che viene data perché, innazittutto, riconosciuta.

Il quarto capitolo, Una stanza tutta per sè, è articolato intorno alla ricomposizione dei

significati emersi dalle narrazioni raccolte nei contesti d’indagine oggetto di studio. La

modalità scelta per comunicare ciò che (mi) è accaduto e che ho scoperto in relazione alle

domande generative della ricerca e ai fili di senso emersi dalle letture ricorrenti dei materiali è

stato il racconto; si trattava della forma che più mi si addiceva per rimanere vicino

all’esperienza dei soggetti coinvolti – così come me l’hanno raccontata – e alla mia propria,

così come l’ho pensata, a partire da ciò che ho visto, sentito, letto e scritto durante la ricerca.

Il titolo del capitolo raccoglie la proposta di Virginia Woolf della «stanza tutta per sé» e la

rilancia per pensare il corso di letteratura “Germanes di Shakespeare” e la “Tertùlia” della

libreria Pròleg come spazi di libertà femminile, in quanto generatori «di un senso libero di

quello che una donna è e può diventare per sé stessa, in relazione con altre e altri,

indipendentemente dalle costruzioni della sua identità» (Muraro, 2012a, p. 32). Spazi di

incontro, di scambio e presa di parola, nati dalla relazione e per amore della relazione e della

letteratura femminile; luoghi di (tras)formazione, le cui invenzioni, guadagni e scoperte

stimolano anche gli adolescenti che li frequentano alla ricerca di un senso libero per sé.

L’ultimo capitolo, Libere composizioni13

, tenta di tessere il collegamento tra il sapere delle

scrittrici e le esperienze educative narrate. Sia le scrittrici sia le insegnanti e formatrici,

attraverso la loro mediazione, nel comporre la propria vita (Bateson, 1992) sono generatrici di

invenzioni, che spostano il simbolico perché mettono al mondo nuovi sensi che prima non

c’erano (perciò indisponibili); gesti di libertà che trasformano il reale perché lo aprono ad un

di più di senso. Per svolgere quest’idea ho recuperato la pratica della «doppia mediazione»

(Martinengo, 1992, pp. 13-29), che mi ha permesso di articolare due passaggi: ci sono delle

scrittrici che mettono al mondo senso indisponibile (tra cui Virginia Woolf, Clarice Lispector

e Carmen Martín Gaite) (prima mediazione), il quale provoca – dato che, come dice Cristina

Mecenero, «chi sperimenta in libertà, provoca» (2012, p. 2) – chi le legge, per esempio le due

insegnanti Lluïsa Cunillera e Luisa Fortes. Queste donne, mosse dalla provocazione delle

scrittrici e con la mediazioni di altre, mettono in circolo il loro sapere nei propri contesti di

azione, a partire da sé e dalle domande che esse hanno suscitato in loro, generando delle

invenzioni (seconda mediazione), le quali provocano chi vi è coinvolto (adolescenti, donne

adulte) e aprono nuovi sensi su come stare in questo mondo e nell’educazione.

13 Riprendo quest’espressione da Mecenero (2004, p. 41), la quale si ispira a Bateson (1992).

18

Per finire, il capitolo presenta delle proposte per rilanciare e ripensare il rapporto tra

letteratura femminile e pedagogia e il contributo che le scrittrici possono dare all’idea di

formazione.

Pratiche di libertà è il sottotitolo di questa tesi di dottorato, un modo per indicare una

bussola, una tensione verso. Due parole i cui significati sono andati delineandosi lungo il

percorso della ricerca; un’intuizione che ha preso corpo e consistenza nelle conversazioni con

le scrittrici e con le insegnanti e formatrici che ho incontrato. È in questa chiave che

propongo di pensare la scrittura di Virginia Woolf, Clarice Lispector e Carmen Martín Gaite

assieme al fare educativo di Maria Lluïsa Cunillera in “Germanes di Shakesperare” e di Luisa

Fortes nella “Tertùlia” della libreria delle donne di Barcelona: come pratiche di libertà

femminili che hanno messo nel mondo comune di donne e uomini nuovi sensi sull’educare.

Pratiche che intendo, seguendo il pensiero della differenza, come «un processo a cui si dà

inizio, per dare una risposta inventiva ad un contesto e facendo così lo si modifica. Produce

degli effetti che non sono progettabili nè prevedibili, ma che si possono cogliere ed

apprezzare nel corso stesso del processo» (Zamboni, 2006a, p. 1). Processi sperimentali

quindi, che nascono vicini alla realtà, ai soggetti che la abitano e ai loro desideri e necessità;

processi narranti perché il loro essere è radicato nella loro riconoscibilità, che può soltanto

avvenire attraverso la parola, il racconto; processi a rischio, risultato di una scommessa, e

dunque azzardi, invenzioni che non vengono proposti come validi una volta per tutte, ma

rimangono aperti, e sono persino a scadenza se non servono più.

Pratiche di libertà, perché pratiche libere di donne, che parlano a partire da sé (Diotima,

1996), il che non significa su di sé, ma a partire dalla propria esperienza del mondo e in

relazione ad esso, riconoscendo i vincoli e le mediazioni necessarie: rendendo pensante e

significante la loro differenza sessuale, mostrando quindi il luogo simbolico dove si

collocano. Pratiche di libertà che generano libertà, perché nell'esporsi con un senso libero di

essere donne nella vita e nell’educare, mettono nel mondo nuovi significati disponibili anche

per altre e altri.

Il racconto di queste pratiche vuole essere una risposta a partire da me, ovvero, mediata dalla

mia esperienza e dal modo con il quale ho approcciato il processo di ricerca, a quella che

sento oggi, insieme ad Anna Maria Piussi e altre «una necessità diffusa di senso, anche se

poco esplicita: di dare senso all’insegnare/all’imparare, al fare scuola e università» (2011, p.

19

32). Necessità diffusa oggi, perché innanzi alla crisi di narrazioni che non reggono più (e se

reggono lo fanno a costi altissimi; quello che sta succendo in Spagna parla da sè), in quanto

costruite lontane dal sapere dell’esperienza, da ciò che (ci) accade e quindi incapaci di dare

risposta a ciò che veramente conta (come poter rendere il mondo un luogo abitabile per tutte e

tutti), c’è il desiderio di molte e di alcuni di mettere al mondo nuovi sensi dell’educare a

partire da sé.

I movimenti di protesta dell’Onda Anomala in Italia (ottobre 2008), nati in risposta alla

riforma Gelmini, e le manifestazioni più recenti contro la riforma Profumo (ottobre 2012);

quelli del 15 M de los indignados in Spagna (2011), che continuano oggi sotto forme diverse

(es. le proteste degli studenti delle superiori a Valencia, nel febbraio 2012), per citare le

esperienze a me più prossime, mostrano quanto sia grande il desiderio nel mondo della scuola

e dell’università, partendo da studentesse e studenti, di fare e pensare l’educazione in un

modo altro: più libero, più significativo, più vicino alla vita materiale (Duras, 1988).

Un modo di pensare l’educazione più vicino alla vita significa custodire i corpi, accogliere

l’esperienza umana femminile del mondo, ovvero, il modo di conoscere, di creare e

trasmettere cultura delle donne, insieme a quella maschile, mantenendo vive le differenze e

quindi le loro possibilità significanti e trasformative. Si tratta di una scommessa per rendere la

scuola e l’università fertili14

, che il pensiero e la pedagogia della differenza sessuale stanno

giocando dagli anni Ottanta, e che giovani donne e uomini oggi hanno fatto propria con il loro

rifiuto di un’educazione astratta, pronta all’uso e consumo (da e verso il mercato), e la loro

richiesta di «conoscenze vive, capaci di entrare in dialogo con le loro domande e il loro

interesse a comprendere sé stessi e il mondo, il mondo che è (anzitutto) di due sessi» (Piussi,

Arnaus, 2011, p. 16). Richiesta che comincia a essere intuita anche da parte di alcuni docenti

maschi15

.

Le pratiche di libertà che questo lavoro di ricerca presenta sono invenzioni simboliche – in

quanto generatrici di nuovi sensi – per pensare il fare scuola e università in modo fertile, a

14

Riprendo l’aggettivo fertile dal titolo di un libro recente sul senso che la presenza femminile ha oggi

all’università, L’università fertile. Una scommessa politica (2011). Il libro è nato da due ricerche – Essere

universitarie al presente, coordinata da Remei Arnaus e Anna Ma. Piussi e Il desig femení a la universitat [Il

desiderio femminile all’università] coordinata da Remei Arnaus – e ha coinvolto diverse università, tra cui

l’Università degli Studi di Verona, l’Università di Barcellona e l’Università di Malaga, principalmente. 15

A questo proposito, risulta interessante il percorso di José Contreras, professore ordinario dell’Università di

Barcellona (UB), nel Dipartimento di Didattica e Organizzazione Educativa della facoltà di Pedagogia, che da

anni si confronta creativamente con il pensiero della differenza sessuale. Particolarmente significativi sono i suoi

contributi nell’ambito della formazione delle e degli insegnanti. Si veda Contreras (2010); Contreras, Pérez de

Lara (2010).

20

partire dal pensiero e la parola delle scrittrici16

. Uno spazio magmatico questo, aperto e vivo,

spesso paradossale, che non è possibile ridurre a contenuti o prescrizioni didattiche, se

vogliamo mantenere accesa la sua forza trasformativa; e a cui bisogna avvicinarsi «passando

talvolta attraverso l’opposto di ciò che è la meta» (Lispector, 1982, p. 4)17

. Uno spazio

tuttavia dal quale è possibile farsi toccare, farsi attraversare dalle domande che suscita in noi,

come molte donne, tra cui io stessa, stanno facendo per dare un senso più libero e umano

all’educare.

16

In questo senso sono anche pratiche politiche, se intendiamo la politica, seguendo Luisa Muraro, come un

saper agire per generare libertà per sé e per gli altri. 17

È Clarice Lispector a parlare, rivolgendosi agli «eventuali lettori» di La passione secondo G.H. (1982; ed.or.

1964).

21

Cap. 1

LA DOMANDA PER IL SENSO: ORIGINI DELLA RICERCA

Tudo no mundo começou com um sim.

Clarice Lispector, A hora da estrela

1.1. Tutto ebbe inizio con un sì

Quando ero all’università, la mia insegnante di Letteratura Ispanoamericana alla fine di un

colloquio nel suo studio mi disse: «Tienes que aprender a gestionar tu deseo» [«Devi imparare

a gestire il tuo desiderio»]. Ero andata da lei perché desideravo fare una tesina sul romanzo

poliziesco argentino e volevo mi consigliasse la bibliografia al riguardo. Non ricordo bene i

dettagli ma immagino che durante la nostra conversazione lei mi avesse chiesto su quali

aspetti volevo lavorare, quali autori, insomma, cosa avevo intenzione di fare, ed io

probabilmente non seppi risponderle (nonostante lo sapessi o, almeno, lo intuissi). Tuttavia

ricordo bene la sensazione che provavo: un forte desiderio di dire, di parlare di qualcosa che

mi aveva toccato (nel corso avevamo letto Ricardo Piglia, un romanziere argentino, e ne ero

rimasta affascinata), un’energia che chiedeva di prendere forma, e subito dopo, una

stanchezza18

, che comparve all’improvviso e che cresceva man mano che le parole stentavano

a rispondere. Fu allora che mi disse: Tienes que aprender a gestionar tu deseo. Magari le era

venuto in mente quando, qualche giorno dopo un convegno in cui aveva fatto un intervento su

Clarice Lispector, le dissi quanto mi fosse piaciuta e quanto volessi studiare la sua opera. Di

fatti, subito dopo la conferenza, ero andata a prendermi una raccolta dei racconti della

18 In un articolo di Adrienne Rich sulle donne scrittrici, trovo queste parole: «Scrivevo molto poco, in parte per

stanchezza, quella stanchezza femminile fatta di rabbia repressa e di perdita di contatto con se stessi (…) »

(1982, p. 34). In effetti, c’era tanta energia dispersa, tanta voglia di dire e nello stesso tempo un’incapacità di

farlo derivata dal non avere delle misure, dei riferimenti.

22

Lispector, alcuni di essi tradotti da Cristina Peri-Rossi, una delle mie scrittrici preferite. Prima

di iniziare a leggerli, nella prima pagina scrissi: «5-11-03. Mossa dal desiderio, non esente da

paura, ho comprato questo libro. Inoltriamoci». Seguendo l’invito di Juan de la Cruz19

, mi

inoltrai nel bosco ma mi persi. Non ne parlai più, così come non lo feci del romanzo

poliziesco dopo la nostra conversazione nel suo studio. Ciò che avevo provato leggendo

Riccardo Piglia e Clarice Lispector restò in me, muto, ed io non seppi cosa farmene. Eppure

era qualcosa di importante, almeno per me, nonostanti pensassi che, visto che non ero capace

di sostenerlo, il mio desiderio di dire fosse una finzione.

Adesso so che allora non avevo nè le forza nè le mediazioni necessarie per rendere dicibile e

reale qualcosa che avevo dentro, qualcosa che era più di un commento su un libro, che

chiedeva di essere detto e che, in qualche modo, mi avrebbe trasformata se solo fossi riuscita

a metterlo in parole. Così l’ho capito, in parte, grazie alle parole di Anna Ma. Piussi, quando

dice:

La crescita delle piccole richiede che in loro venga attivata la capacità di esplicitare il

desiderio, di accettare le proprie dipendenze e di cercare le necessarie mediazioni, in primo

luogo femminili. Abbiamo visto più volte come in molte il desiderio si spegne perché non

viene sostenuto da una misura femminile o dal riferimento ad una donna più grande per ciò

che occorre. E quanto più grandi sono le aspirazioni, tanto più rischiano di cadere nella

fantasticheria o nel vicolo cieco del “tutto o niente”: in ogni caso di non trovare la via della

realizzazione (1992, p. 31).

Il desiderio si spegne non solo nelle piccole ma anche nelle giovani donne che, come me,

effettivamente hanno bisogno di qualcuno che le aiuti a gestire una forza così grande e intensa

che, se non trova le vie per realizzarsi, si trasforma in frustrazione e sofferenza. In fitte.

Si tratta quindi di cercare una misura, un contenitore che dia forma senza costringere, ma

dove? Dove trovare i riferimenti, la parola e il pensiero, che ci permettano di comporre la

nostra vita in modo creativo? In altre donne, posso rispondere adesso. Donne che scelgono e

significano con libertà il loro essere donne e riconoscono la propria appartenenza ad una

genealogia20

: ad una storia, un sapere, un linguaggio ed una corporeità femminili. Donne che

19

Mi riferisco al «entremos más adentro en la espesura» [«addentriamoci ancora più nel folto» (trad. it, Della

croce, 1993, p. 57)], che è uno dei versi del Cántico Espiritual. 20

Intendo per ‘genealogia’ il vincolo profondo che unisce ogni donna con le altre (del presente e del passato) e

che permette la trasmissione e circolazione di sapere femminile, riconducendolo ad un’origine comune: la

madre. Si veda Rich (1982, pp. 65-97), Flecha (2006, pp. 46-65).

23

fanno della propria differenza fonte di richezza per sé e per gli altri e le altre. Donne che

hanno la forza e il coraggio di dire, di dare e prendersi parola; che hanno la passione e

l’amore per il pensiero, e soprattutto, per essere al mondo in libertà.

La necessità per una donna (piccola, giovane, adulta che sia) del sostegno di un’ altra, di altre

per essere in libertà, non è qualcosa di scontato, qualcosa che si sa. Tranne qualche grande

eccezione21

, non s’insegna a scuola (non parliamo dell’ università) perchè a scuola non si

parla di «l’amore della madre alle donne» (Muraro, 2006, p. 13) – attraverso l’arte, la

letteratura, la storia, la matematica, ecc. –, e quindi non s’insegna l’amore delle figlie verso la

madre22

. Perché mai?

Con questo panorama, come è possibile che una donna possa pensare di trovare il sostegno

primario per crescere in un'altra donna? Quale valore puó attribuire alla cultura femminile, la

quale apparentemente non è mai esistita oppure non è riconosciuta come tale? Viene quindi

naturale guardare alla tradizione maschile, il che non è un male in sé (ci sono grandi uomini

come ci sono grandi donne). Il problema è quando questa diventa il primo ed unico

riferimento possibile, perché una donna ha bisogno di mediazioni “in primo luogo femminili”.

Per un uomo, non amare la madre può significare, nel migliore dei casi (se ci sono), un

impoverimento, perché si perde la metà dell’esperienza del mondo; nel peggiore, l’ambizione,

il potere, quello che Virgina Woolf riassume nella filastrocca: «Giro girotondo, giro intorno al

mondo; lo voglio tutto io, è mio, è mio» (Woolf, 2010, p. 96), con tutto ciò che ne consegue,

tra cui la solitudine e la sofferenza; basta dare un’occhiata ai giornali. Per una donna, non

amare la madre significa trovarsi nel deserto dei padri, in cui puó «seguire il corteo degli

uomini colti» (ivi, p. 93) (e quindi giocare anche lei al girotondo) oppure rimanere nel

silenzio, nella povertà di pensiero e parola liberi, nella frustrazione e nel lamento continuo.

Per una donna, amare la madre è vitale, nel senso di necessario per la vita, e condizione prima

per la felicità23

.

Capire questo è stato e continua ad essere una grande scoperta. Sapermi all’interno di una

genealogia femminile, quindi riconoscermi “nata da donna” e in relazione ad altre, mi ha dato

21

In questo lavoro di ricerca ne troveremo un esempio. 22

Quando parlo della madre voglio dire sia la donna in carne ed ossa che ci ha dato la vita sia la cultura

femminile, ovvero, i saperi, il pensiero e il linguaggio legati alla vita delle donne. Il riconoscimento di quella

cultura passa dal riconoscimento di essere nate o nati da una donna, in carne ed ossa; dalla gratitudine del dono

ricevuto, gratis et amore. 23

Nonostante possa suonare vaga ed ingenua, continuo ad usare questa parola perché, come dice Luisa Muraro

conservarla, «è un bisogno ed è sbagliato rinunciarvi: si rinuncia forse alla luce del sole? Se difetta, mancherà.

Aiutiamoci a sopportare la mancanza ma non a rinunciare. Il senso della mancanza tiene la porta aperta» (2011,

p. 36).

24

la fiducia necessaria in me e nel mondo per prendermi cura di ciò che mi sta a cuore. Il

riconoscimento di quello che mi è stato dato come un dono, gratis et amore, ovvero la vita, ha

aperto un spazio di libertà in cui mi sono riconosciuta come ciò che sono24

. Da lì ho tratto la

forza che mi mancava per prendere sul serio il mio desiderio e cercare, o riconoscerle quando

le ho trovate, le necessarie mediazioni, in primo luogo femminili, per realizzarlo. Questo

percorso di tesi ne è una prova.

Durante la ricerca, attraverso lo studio dei testi delle autrici e di altre pensatrici, e la relazione

con alcune donne che mi hanno accompagnato o che ho incontrato, questa sensazione si è

rinforzata, dandomi la possibilità di coinvolgermi in modo amoroso con il mio lavoro di

ricerca e di valorizzarlo, curando di più i processi e le relazioni. Ciò ha significato più

presenza nelle situazioni di ricerca (osservazione, intervista, ecc.) e più attenzione alla

persone coinvolte e alle loro parole, sia durante le conversazioni sia durante l’elaborazione dei

dati.

Questo lavoro di ricerca è nato da un sì: mio e dalle donne che mi hanno accolta. Sì come

principio fondativo che dà inizio.

1.2. Un passo indietro

Nonostante faticassi a “gestire” il mio desiderio, sono riuscita a laurearmi in Lingua e

Letteratura spagnole, indirizzo letterario. Sono stati degli anni molto belli (leggevamo in

continuazione!), anche se a momenti rovinati dallo stress degli esami e dal dover sezionare i

testi con teorie di analisi letteraria che, la maggior parte delle volte, più che portare alla luce i

significati del testo, soffocavano le parole sotto un ammasso di concetti, alcuni dei quali non

ho mai capito. Io avrei voluto fare in un altro modo. Avrei voluto fare un tipo di critica più

delicata, più vicina a ciò che sentivo mentre leggevo, a ciò che apriva in me la scrittura, ma

senza che per questo il mio discorso dovesse rimanere nel privato. Dopo ho scoperto che ci

sono altri modi, più creativi e “a rischio” di approcciarsi ai testi25

. Di questo parleró nel terzo

capitolo.

24

Il successo della canzone Born this way [Nata così] di Lady Gaga, che è diventato un inno per la comunità gay

ma anche per molti e molte giovani, mostra quanto grande sia il desiderio di essere in libertà, di riconoscere e

valorizzare ciò che si è ma in relazione alla propria origine. Così la canzone inizia: «Mia mamma mi diceva

quando ero giovane che siamo nati/nate tutti/tutte superstar. Mi arricciava i capelli e mi metteva il rossetto nello

specchio del suo bagno (…)» (in inglese non c’è il genere grammaticale quindi in lingua originale sarebbero

“born” e “everybody”). 25

Questo tipo di approccio al testo l’ho trovato teorizzato in AA. VV. (1992b, pp. 31-43) e Sontang (1969).

25

Insieme alla letteratura, un’altra mia passione era ed è l’insegnamento. Sin da piccola ho

provato un’immenso piacere nel raccontare ad altri quello che avevo imparato (e che quindi

mi piaceva). Con il tempo, queste storie a volte coincidevano con quelle che alcuni avevano

bisogno di sentirsi raccontare e allora il gioco era fatto. Così prima in modo più spontaneo

(scuola media) e dopo più organizzato (scuole superiori) ho aiutato alcune mie compagne

nello studio di materie quali storia, lingua e letteratura.

Successivamente, durante l’università e in un contesto formale, ho insegnato spagnolo per tre

anni a un gruppo di donne russe e saharawi, in una scuola per adulti26

. Ricordo che una delle

studentesse, Tatjana, nonostante i suoi settant’anni, non perdeva mai una lezione. Aspettava il

mio arrivo insieme alle altre, sempre puntualissime, davanti all’inferriata bianca della scuola,

spesso con un libro in mano (scrittori russi, sopprattutto). Era arrivata a Valencia da qualche

anno per vivere insieme alla figlia, una docente dell’Universidad Politécnica, sposata con uno

spagnolo, anche lui docente. Tatjana mi chiedeva sempre di spiegarle la grammatica,

nonostante io a lezione cercassi di concentrarmi sulle “funzioni comunicative”. Voleva partire

dalle singole parole, chiamarle per nome (verbo, aggettivo, articolo, ecc), analizzarle come se

si trattassero di piccole particelle (Tatjana era una fisica), per capirne la forma e l’uso. Le

piaceva fare esercizi, riempire spazi con la parola o la desinenza giusta. Per lei era importante

imparare a usare bene la lingua, curare le parole (Mortari, 2004), perché è attraverso di esse

che il pensiero prende forma e con esso, la nostra soggettività. Questo Tatjana lo sapeva

bene. A volte si arrabbiava quando non riusciva a farsi capire; allora io le chiedevo di

riprovare e lei, con un gesto della mano, mi rispondeva di lasciare stare: o diceva quello che

voleva dire oppure stava zitta. La capisco molto bene. Nonostante Tatjana, data anche la sua

età e situazione familiare, fosse in grado di sopravvivere con uno spagnolo rudimentale, credo

che per lei, una donna abituata a pensare, fosse vitale continuare a farlo in quella che era

diventata la sua nuova lingua. Altrimenti sarebbe stato come non esserci per intera27

.

26

Si trattava della EPA (Escuela para adultos) del quartiere La Coma, nella periferia di Valencia. Il corso di

spagnolo per donne immigrate formava parte di un progetto di sviluppo comunitario del quartiere, promosso

dalla Generalitat valenciana, la comunità dei vicini del quartiere e le associazioni che vi lavoravano. 27

A volte l’incontro con un’altra lingua, la necessità di averla per dire, diviene uno scontro. La scrittrice

ungherese Agota Kristoff racconta in questo modo la sua esperienza: «Ed è così che, all’età di ventun anni, al

mio arrivo in Svizzera, e assolutamente per caso in una città in cui si parla francese, vengo confrontata con una

lingua per me del tutto sconosciuta. È qui che comincia la mia lotta per conquistare questa lingua, una lingua

accanita e lunga, che di certo durerà per tutta la mia vita » (2005, p. 28) (il corsivo è mio). Questa lingua

«accanita e lunga», Agota Kristoff la definisce «lingua nemica», sia per la sua difficoltà ad impararla sia,

sopratutto – è lei che parla – «perché sta uccidendo la mia lingua materna». Quasi tutta la produzione letteraria di

Agota Kristoff è in francese. Un approccio meno sofferto e più valorizzante dello stare tra più lingue lo troviamo

nell’opera curata da Eva-Maria Thüne (1998), All’inizio di tutto la lingua materna, in cui la prospettiva rispetto

all’esperienza della Kristoff è capovolta: per le autrici il contatto con una lingua altra non porta necessariamente

26

Sempre durante gli anni dell’università mi fu proposto da una mia cara amica di tenere un

laboratorio di lettura e scrittura creativa. Lei organizzava delle attività ludico-formative

all’interno di una fondazione orientata alla formazione e integrazione sociale degli immigrati.

Conoscendo la mia passione per la letteratura e il mio percorso di studi mi parlò del progetto

ed io accettai entusiasta. Fu una bellissima esperienza, che ricordo con affetto, anche se faticai

molto perché non era facile preparare gli incontri: bisognava cercare i testi, rileggerli,

proporre delle attività di scrittura, e poi esserci con le persone in aula, sentire come andavano

le cose… Allora la mia preoccupazione più grande era di non sembrare abbastanza

accademica, di non usare i termini giusti, di non ricordare le definizioni da manuale. Con

questo non voglio dire che non fosse importante usare il linguaggio e i contenuti di una

disciplina con proprietà, anzi, ma mi mancava lasciarmi un po’ andare, azzardare, fare a modo

mio e anche avere la sufficiente serenità per riconoscere che alcune cose non le sapevo oppure

che non le avevo pensate28

. Infatti, il momento in cui mi sentivo più libera era quando, dopo

la parte “teorica”, si iniziava a parlare di ciò che il libro aveva provocato in noi. Ed era strano

perché, non è che a un certo punto nei miei interventi io non parlassi più di letteratura (non

attingendo quindi a contenuti propri di quella disciplina o anche di altre) o mi limitassi a

rimanere sul personale, senza cercare di dare un significato più ampio alla mia esperienza di

lettura. No, continuavo a parlare di letteratura ma a partire da me. Mentre commentavo il

testo, sentivo «l’annodarsi insieme» di quello che dicevo, sapevo ed ero (Muraro, 2010, p.4),

il che rendeva le mie parole vive, presenti e in divenire, aperte all’imprevisto, perché non

sapevo mai dove ci avrebbe portato il nostro pensare a voce alta. Credo che la libertà che

provavo nascesse dal mio esserci in modo creativo, nelle parole, nel corpo. Poi, ad un certo

punto, “bisognava” tornare a fare delle cose serie. Accademiche, per intenderci29

. Ancora non

mi autorizzavo a pensare che in quella esperienza di libertà potesse esserci un passaggio verso

un modo diverso di parlare in classe di letteratura30

.

alla lotta ma puó divenire possibilità per ritrovare la propia lingua. Sul significato che ha per me come

ricercatrice pensare e scrivere in un altra lingua parlerò nella parte dedicata a Carmen Martín Gaite. 28

Mi vengono in mente le parole di una insegnante di primaria, riportate in una ricerca sulle buone pratiche

didattiche. Rispetto all’aula come luogo dove fare esperienza, l’insegnante racconta della sua reazione ad una

domanda posta da un bambino, la cui risposta lei non conosceva: «Ho detto non so, cerchiamo di scoprirlo, io mi

informo, informatevi voi intanto. Momenti così sono molto belli» (Mortari, 2010, p. 96). Io allora non

immaginavo che momenti così potessero essere una possibilità di scoperta per me e anche di bellezza. 29

Durante la ricerca sul campo, soprattutto nel contesto della scuola, è emersa più volte l’associazione che fanno

i ragazzi e le ragazze tra serietà e accademico, dove l’accademico è ciò che gode di prestigio e accettazione. 30

Un esempio l’ho scoperto grazie a questa ricerca, in particolare, nella pratica educativa di Lluïsa Cunillera e

nel suo modo di vivere la letteratura nel corso facoltativo «Germanes di Shakespeare», uno dei contesti in cui ho

svolto la mia indagine.

27

Sia l’insegnamento dello spagnolo che il laboratorio di letteratura furono per me, in modi

diversi, delle occasioni per espormi, per mettere in gioco il mio desiderio, per condividere la

mia passione per la lingua e la letteratura. Non sempre fu facile. A volte l’energia che sentivo

dentro di me era così intensa, che pensavo che non avrei retto (come un sistema elettrico

vecchio che, se troppo carico, va in cortocircuito). Perché avevo tante idee, tanta voglia di

fare e nello stesso tempo mi sentivo così stanca (ancora la stanchezza, il «vicolo cieco del

“tutto o niente”» (Piussi, 1992, p.31). Eppure sapevo che la posta in gioco era alta perché lì

c’era qualcosa di importante, lì in quella emozione che provavo quando, nel laboratorio,

parlavo di una scrittice, cercando di mettere in parole ciò che aveva significato per me

leggerla, il mondo che mi si era aperto davanti agli occhi, spesso assai diverso dal mio.

Credo che quella emozione nascesse dall’intuizione di una scoperta; intuizione che per

rivelarsi, per avere degli effetti sul reale, chiedeva di essere raccontata. Un invito quindi a

esplorare, che mi riporta ancora una volta alle parole di Juan de la Cruz, entremos más

adentro en la espesura, ovvero, andiamo in fondo alle cose che ci stanno a cuore, pensiamole

perché non vadano perse (Praetorius, 2002, p. 5), con coraggio e senza artifici, con tutto ciò

che siamo. Tuttavia, spesso si declinano gli inviti perché ci crediamo non adatti alle

circostanze oppure immaginiamo che ciò che ci propongono non sia alla nostra portata, senza

pensare che non c’è un solo modo di andare alla festa ma molti. Il più delle volte le nostre

scuse sono un alibi perché non vogliamo rinunciare alla comodità di ciò che conosciamo; altre

volte, nonostante il grande desiderio di andarci, è un’incapacità reale, una paura che paralizza,

anche un po’ di debolezza… Poi c’è la distrazione e la dimenticanza – il non vedere o il non

ricordare di aver visto – , entrambe forme di sradicamento. Allora si fa finta, si finge, si volta

lo sguardo e si mettono le energie altrove, al sicuro. Però c’è sempre una parola, un’immagine

che riesce ad aprire una fessura; un ricordo improvviso, una sensazione che tutto ad un tratto

ci mette di fronte a ciò che vogliamo e a ciò che desideriamo. Ci rende presenti in carne ed

ossa.

Mi viene in mente uno dei racconti di Clarice Lispector, Amore. Ana, la sua protagonista, sta

tornando a casa con la spesa. È in tram. Anna è una casalinga, madre di due figli sani e moglie

attenta.

L’uomo con cui si era sposata era un uomo vero, i figli che avevano avuto erano figli veri.

La sua passata gioventù le appariva anomala come una convalescenza della vita. Ne era

gradualmente emersa per scoprire che si viveva anche senza la felicità (…) Quello che era

28

accaduto ad Ana prima di avere una casa era definitivamente confinato al di fuori della sua

portata: una turbata esaltazione che molto spesso si confondeva con una felicità insostenibile.

Aveva elaborato in cambio qualcosa di finalmente comprensibile, una vita da persona adulta.

Così lei aveva voluto e scelto.

La sua precauzione si riduceva a stare attenta in quell’ora pericolosa del pomeriggio, quando

la casa era vuota e non aveva bisogno di lei, il sole alto, e tutti i componenti della famiglia

distribuiti a seconda dei propri impegni (Lispector, 1986, p. 17).

Ad un certo momento, con le mani nella borsa di maglia sopra le ginocchia, Ana vede

attraverso il finestrino un cieco masticare una gomma. Il tram è fermo. La visione la

sconvolge al punto da lasciarle cadere la borsa, quando il tram riprende la corsa. Le uova si

spaccano.

La rete di maglia era aspra tra le dita, non intima come quando l’aveva lavorata ai ferri. La

rete aveva perso la sua sensibilità e lo stare sul tram era una lacerazione; non sapeva cosa

farsene della spesa che teneva in grembo. E come una musica incomprensibile, la vita

attorno a lei riprendeva il suo ritmo. Il male era fatto (ivi, p. 19)31

.

Ana, quando si accorge che la sua fermata è passata, si alza e scende dal tram. Non sa dove si

trova. «Le sembrava di essere piombata nel cuore della notte» (ivi, p. 20). Cammina

nell’oscurità fino ad arrivare al Giardino Botanico della città. «Depositò a terra i pacchetti, si

sedette sulla panchina di un vialetto e vi rimase a lungo» (ivi, p.20). Avvolta dai rumori e dai

profumi del parco, Ana entra in un’estasiata e voluttuosa sonnolenza. «Era un mondo irreale e

fantastico – e nello stesso tempo un mondo da mangiarsi con i denti, popolato da voluminosi

tulipani e dalie. (…) Il Giardino era tanto bello che lei ebbe paura dell’Inferno» (ivi, pp. 21-

22). All’improvviso il ricordo dei figli la fa raddrizzare «con un’esclamazione di dolore» ed

alzarsi. In fretta si dirige verso casa. «Finchè non arrivó al portone di casa, era come se

barcolasse sull’orlo di una catastrofe» (ivi, p. 22). Dopo aver abbracciato il figlio più piccolo

(«non permettere che la mamma si scordi di te»), esausta si lascia cadere su una sedia,

chiedendosi di cosa aveva vergogna, desiderando di fuggire: «il suo cuore si era riempito

della peggiore voglia di vivere» (ivi, p. 23)32

. E infine:

31

Il corsivo è mio. 32

Il corsivo è mio.

29

È ora di andare a dormire, disse lui, è tardi. Con un gesto, che non era suo, ma che parve

naturale, prese per mano la moglie e la portò con sé senza guardare indietro, allontanandola

dal pericolo di vivere (ivi, p. 25)33

.

Il racconto è molto di più, ma adesso vorrei soffermarmi su ciò che per me significa, in

relazione all’invito ad esplorare ciò che in noi ci chiama, ci tocca nel profondo, per esempio,

nel mio caso, l’esperienza della lettura di alcune scrittici.

Nella storia di Ana vedo la dimenticanza come l’unica via di salvezza dall’incapacità di dare

senso ad un’esperienza che la travolge (la visione del cieco) e che la porta ai limiti del mondo

che ha pazientemente inventato per catapultarla in uno vero, un mondo fatto per essere

mangiato con i denti, un mondo di grandi dalie e tulipani. Nel Giardino Botanico, in cui «la

morale era un’altra» (ivi, p.21), Ana è costretta a sentire la vita nel suo dispiegarsi: il vibrare

nel prorio corpo dei suoni, dei colori, degli odori; l’abbondanza, così ricca «che marciva»;

un’intensità inaudita, acuta, sofferente, dalla quale lei si sente affascinata quanto disgustata.

Tutte queste sensazioni contradittorie, incomprensibili e minacciose, nonostante (o proprio

per) la loro capacità di attrazione, la loro promessa di un mondo altro, si aggrovigliano in

Ana, le si piazzano nel grembo al posto della borsa di maglia. Finchè le lascia cadere e, dietro

il ricordo dei figli, si dirige verso casa. Ma lei la matassa se la porta appresso, attaccata con un

filo, e alla fine sembra che non sappia cosa farsene se non dimenticare. Ma la vergogna e la

paura restano.

Penso che nella possibilità di dare o no senso a «ciò che mi succede» (Larrosa, 2009, trad.

mia) ci giochiamo il nostro essere nel mondo in modo libero e creativo. Ma non sempre si è

consapevoli di quanto sia importante nominare con cura ciò che sentiamo, ciò che è

importante per noi, nè si hanno le parole che ci permettono di avvicinarci a ciò che vogliamo

dire, a ciò che vogliamo raccontare perché non vada perso. Ogni parola che dà senso, che

illumina il nostro stare nel mondo è un guadagno che fa leva sul nostro desiderio di essere.

Capirlo non è da tutti34

e lo si fa insieme, attraverso mediazioni che «vincolino senso,

esperienza e realtà» (Arnaus, 2010a, p. 154, trad. mia), il che per una donna significa

mediazioni anzitutto, anche se non solo, femminili.

33

Il corsivo è mio. 34

Le donne però l’hanno capito molto bene, come racconta Luisa Muraro (2011).

30

1.3. Viaggiare in metropolitana

Sono rare (e preziose) le occasioni in cui ci capita di vedere il disegno che gli eventi della

nostra vita tracciano lungo il nostro percorso, percepire i collegamenti, le coincidenze, come

nella metropolitana35

. Tuttavia, a volte nella contingenza del quotidiano si aprono momenti di

silenzio, improvvisi alcuni, desiderati altri, in cui si intuisce qualcosa che bisogna raccontare,

poichè «la storia» – come scrive Hannah Arendt – «rivela il significato di ciò che altrimenti

rimarrebbe una sequenza intollerabile di meri eventi» (1990a, p.169). Intollerabile o mai

esistita.

La domanda sul senso della mia ricerca, sulle sue motivazioni, mi ha portato un passo

indietro, al racconto di alcune esperienze della mia infanzia, della adolescenza, del periodo

dell’università, senza le quali sarebbero mancati dei frammenti necessari per completare la

mappa che qui mi propongo di ricostruire. Certo, si tratta della mappa di una ricerca che,

tuttavia, come la mappa di una metropolitana, è formata dall’intrecciarsi di innumerevoli linee

colorate, che formano un tessuto complesso e vivo, come il vibrare dei vagoni sotto terra.

Bisogna quindi cercare le coincidenze perché è lì che si trova il senso, nei punti di luce tra un

tunnel e l’altro.

Quanto la letteratura sia stata e continui ad essere fonte di piacere e felicità36

per me è

qualcosa che riscopro man mano che riguardo i pezzetti e li colloco al posto giusto. Così, per

esempio, parlare del laboratorio e del suo significato mi ha restituito un frammento

dell’insieme, una sequenza, che, messa in relazione ad altre, mi permette di capire perché ho

fatto una tesi dottorale sulla letteratura e, in particolare, sulla letteratura scritta da donne.

Inoltre mi aiuta a pensare come mai ho scelto di parlare di letteratura dal punto di vista della

pedagogia e non della linguistica o della teoria letteraria. Non è un caso. È un desiderio che

viene da lontano e le forme che ha preso, anch’esse, bisogna rintracciarle nel passato.

Il racconto di ciò che è stato prima, della storia che mi ha portato a fare questa ricerca, non è

quindi qualcosa di aneddotico o prescindibile - «qualcosa di previo alla ricerca» - ma diviene

significante, «una parte costitutiva della stessa» perché, come spiegano José Contreras e Nuria

Pérez de Lara, «quest’esplorazione delle origini, motivazioni e formulazioni iniziali delle

35

Per questo frammento ho trovato l’ispirazione nell’articolo della mia amica e compagna di studi Ana Lozano

de la Pola. Si veda Lozano (2006). 36

Sono d’accordo con Jorge Luis Borges quando dice «La letteratura è una delle forme della felicità» (1979,

p.10). Ho passato molte ore felici insieme ad autrici come Carmen Martín Gaite, Virginia Woolf, Agatha

Christie; e anche autori, il più recente, ma non nuovo, Gilbert Chesterton.

31

nostre domande è l’orizzonte situazionale da cui prende forma la nostra indagine» (2010, p.

76).

Se tutte le domande hanno una storia, una radice, è da lì che devo partire. Mi sembra un buon

modo per cominciare il viaggio, l’unico possibile. Per camminare più leggera e con passo

fermo. Come dice María Zambrano:

Vedere e sentire che ciò che abbiamo fatto prima rimane sempre nostro dopo dà una certa

fermezza, fermezza priva di aggressività o di rigida sicurezza, ma capace di produrre al

contrario una tranquillità predisposta ad ogni indulgenza, perfino alla più difficile: sorridere

un po’ di se stessi (1996, p. 9).

1.4. Ritornando al passato prossimo

La possibilità di iniziare a pensare la mia relazione con alcune scrittrici, ciò che per me aveva

significato e significava la loro scrittura, è arrivato dalla mano di una docente di pedagogia

dell’Università di Verona, Anna Maria Piussi. Eravamo a casa mia, credo fosse estate. Ci

eravamo date appuntamento per rivedere insieme la traduzione che avevo fatto di un suo

articolo. È stato questo il motivo della nostra conoscenza. Quando abbiamo finito, siamo

andate nello studio e lì abbiamo parlato del dottorato. Non so come sia nata la conversazione.

Io le ho raccontato che mi stavo preparando per l’esame di ammissione al dottorato in

linguistica, dato che volevo approfondire la didattica delle lingue37

. Sin dall’inizio, avevo

scartato la possibilità di fare un dottorato in letteratura, nonostante fosse il mio vero desiderio,

poichè nella disciplina letteraria, così come l’avevo imparata all’università (non solo a

Valencia ma anche a Verona38

), sembrava non ci fosse lo spazio per una critica radicata nel

sentire del testo piuttosto che costruita a partire da teorie esterne ad esso, le quali, più che

servirlo, ne usurpano il posto (Sontag, 1969, p. 10). A me interessava partire dall’esperienza

che avevo avuto dei testi, ciò che avevano significato per me, perché sapevo che in

quell’esperienza c’era qualcosa che chiedeva di essere pensato. Un pensiero che partiva da me

ma che poteva anche, come mi ha fatto capire recentemente Luisa Muraro39

, rivolgersi al

mondo.

37

Allora mi dedicavo a tempo pieno all’insegnamento dello spagnolo (lavoro che mi piaceva molto) e il

dottorato poteva essere un’occasione per sviluppare la mia professionalità. 38

Negli anni 1998 e 1999 ho frequentato la facoltà di Lettere e Filosofia a Verona. 39

Da gennaio ad aprile del 2011 ho frequentato la Scuola di Scrittura Pensante organizzata da Luisa Muraro e

Clara Jourdan nella Libreria delle donne di Milano. Una delle questioni su cui abbiamo lavorato riguardo la

32

Non ho detto tutto questo ad Anna Maria nè con le stesse parole, ma il senso è bastato perché

prima di andare via mi facesse un’invito: «Perché non fai un dottorato in pedagogia?». Le sue

parole sono rimaste come una eco per giorni. Mi si presentava l’occasione di far emergere

quella corrente sotterranea, che per anni avevo contenuto e che, finalmente, trovava un

cauce40

, una mediazione reale.

scrittura è stata proprio la capacità di esprimere un pensiero a partire da noi ma senza restare attaccate

all’autobiografia. Quello che Milagros Rivera spiega molto bene quando scrive: «partirè da sé [nel pensare] per,

uscendo da sé, dire quello che succede, quello che è» (Rivera, 2007, p. 25). 40

«È indispensabile che un fiume abbia un letto, altrimenti non si avrebbe un fiume ma un pantano» (Zambrano,

1996, p.12). Il corsivo è mio.

33

Cap. 2

IL PERCORSO E I RIFERIMENTI DELLA RICERCA

2.1. Mettersi in cammino

Dende aiquí vexo un camiño que non sei

adonde vai; po lo mismo que non sei quixera

o poder andar41

.

Rosalía de Castro

Attraverso una ricerca di carattere teorico ed empirico sto riflettendo sulle relazioni tra

letteratura femminile, educazione e ricerca pedagogica.

L’obiettivo della prima parte42

è quello di riflettere, da un lato, su come la pedagogia in

quanto sapere prassico dell'educazione puó trovare nella letteratura scritta da donne stimoli e

idee utili per il suo arricchimento e sviluppo, e dall’altra di comprendere quali possono essere

le mediazioni necessarie per mettere a frutto questo sapere nella pratica educativa. Le

scrittrici, le cui opere ho scelto di considerare come fonte di ispirazione pedagogica ed

educativa, sono Virginia Woolf (Londra, 1882 – Lewes, Sussex, 1941), Clarice Lispector

(Čečel’nyk, Ucraina 1925 – Rio di Janeiro 1977) e Carmen Martín Gaite (Salamanca 1925 –

Madrid 2000)43

.

41

Come racconta la scrittrice spagnola Carmen Martín Gaite (1987, p.37), Rosalía de Castro scriveva i suoi

poemi nella sua stanza, in un tavolo davanti ad una finestra dalla quale si intravvedeva un cammino. Ne vedeva

l’inizio ma non la fine; e questo non sapere della fine stimolava il suo desidero di mettersi in cammino, di «o

poder andar». 42

Questa divisione in parti risponde al tentativo di dare una struttura, in ogni caso flessibile, al processo di

ricerca. Quindi l’elaborazione delle parti non sta seguendo una sequenzialità temporale, bensì i diversi segmenti

della ricerca si vanno tessendo ed intrecciando in una relazione dialogica continua. 43 Virginia Woolf, Clarice Lispector e Carmen Martín Gaite oggi sono riconosciute tra le più grandi autrici e

autori della letteratura in lingua inglese, portoghese e spagnola, rispettivamente.

34

La seconda parte della ricerca, di tipo qualitativo, è dedicata all’analisi, alla descrizione e all'

interrogazione di pratiche educative, formali e non formali, in cui venga utilizzata la

mediazione di testi letterari femminili, per comprendere se e a quali condizioni questo tipo di

letteratura può essere una mediazione educativa efficace nei processi di formazione di

adolescenti e donne adulte. A partire dall’avvicinamento e dall’esplorazione di queste pratiche

educative, desidero osservare, narrare, comprendere quali contesti si creano, come e da dove

(da quale luogo simbolico) si mettano in gioco i testi nella relazione educativa, di quali

cambiamenti siano generatori, che effetti abbiano nei soggetti partecipanti e come circoli (se

lo fa) il sapere femminile in essi racchiuso. Tento di mantenere una postura euristica di

dialogo continuo e circolare tra ricerca teorica e indagine empirica, tra pensiero dell'educare

ed esperienza viva, mantenendo i processi conoscitivi aperti a una rimodulazione reciproca tra

le due dimensioni, in modo da pervenire – se pur provvisoriamente – ad un sapere utile ad

accrescere le possibilità evolutive dei soggetti e la qualità del vivere.

Nel formulare il mio progetto di ricerca ho considerato l'importanza della svolta narrativa/

interpretativa che tradizionalmente si fa risalire a J. Bruner, svolta avvenuta anche nella

pratica della ricerca pedagogica ed educativa come in altri ambiti, e l'utilità di indagini e

sperimentazioni narrative-based in un processo circolare tra i diversi punti d’azione e di

verifica, il cui obiettivo è anche quello di potenziare o attivare in itinere risorse personali,

sociali e istituzionali. La mia attenzione è rivolta, da un lato all'educazione di adolescenti,

femmine e maschi, nella prospettiva della differenza sessuale e del valore della cultura

femminile; dall'altro, alla formazione di donne adulte nell'ottica del lifelong learning.

I metodi narrativi, ai quali possono dare un contributo significativo gli scritti letterari

femminili, hanno già trovato ampia conferma della loro valenza sia nella formazione (ad es.

delle professioni educative e di cura, ma non solo) sia nella ricerca, e la loro utilità consiste

nel porre in feconda connessione le esperienze vissute, risvegliate (Benjamin, 1981) e

risignificate in chiave narrativa, con la costruzione sociale e situata della conoscenza.

Le domande guida del processo di ricerca, intese come domande generative, aperte, sono:

in quale misura la letteratura femminile può essere fonte di sapere pedagogico e come si mette

in circolazione questo sapere? A quali condizioni essa può favorire i processi di formazione e

composizione creativa (Bateson, 1992) della propria vita, di strutturazione propulsiva della

propria singolarità, intesa come inesauribile tessitura di esperienze apprenditive? E in

particolare, le adolescenti e le donne adulte possono trovare nella letteratura scritta da donne

immagini, figure, storie, itinerari di crescita che rimandino ad un’idea-valore delle esistenze

35

femminili e al loro dispiegarsi in una prospettiva di libertà? E ancora: può una consapevole

mediazione narrative-based, che si avvalga del sapere letterario femminile, produrre effetti

trasformativi anche nei contesti di vita e istituzionali? Ho considerato infatti i contesti scelti

come oggetto della mia ricerca, di cui parlerò più avanti, come «comunità di pratica»

(Wenger, 2006) attorno a un'intrapresa comune, in cui si creano, si negoziano, si

implementano significati, si producono apprendimento e sapere distribuito e situato, con

effetti trasformativi sui contesti stessi e oltre i confini dei contesti44

.

L’avvicinamento alla realtà, alla pratica quotidiana, non viene da me motivato dalla necessità

di verificare un’ipotesi – la quale è al più uno stimolo, un orientamento provvisorio per

esplorare il mio campo di indagine –, ma risponde alla curiosità conoscitiva di vedere e

interpretare ciò che sta accadendo, ciò che accade nei soggetti e nei contesti coinvolti, ma

anche ciò che accade in me quando mi metto in relazione con una determinata realtà (Larrosa,

2009); di aprire una porta e transitare per un paesaggio conosciuto e sconosciuto nello stesso

tempo. Concretamente, significa per me ritornare e stare negli spazi in cui si legge, si scrive,

si insegna e si apprende attraverso la letteratura (la scuola, il liceo, i laboratori di scrittura e

lettura), che è come parlare del mondo, e farlo da un luogo nuovo, quello di ricercatrice, come

osservatrice privilegiata. Tornare e stare nella pratica educativa di donne per dare conto di

storie e di saperi e per trovare domande, più che risposte, che possano aprire e man mano

orientare il cammino (el andar) in una relazione dialogica tra teoria e pratica.

La prospettiva simbolica, teorica ed esperienziale dalla quale parto e desidero riflettere sul

significato educativo di testi letterari scritti da donne e su pratiche formative aperte alla loro

mediazione, è il femminismo della differenza sessuale e più concretamente in ambito

educativo, la pedagogia della differenza, iniziata alla fine degli anni Ottanta45

. Il pensiero

della differenza è stato sviluppato anche in Spagna, principalmente da Duoda46

(il Centro

interdisciplinare di studi della differenza sessuale della Universidad de Barcelona, con cui tra

l'altro collaboro) e da Sofías. Relaciones de autoridad en la educación (rete di pratica politica

44

Per la mia indagine ho scelto dei contesti di interazione in presenza. Tuttavia, dato il moltiplicarsi oggi anche

di percorsi, di esperienze, di sperimentazione di donne che scrivono e discutono di letteratura in rete, potrebbe

essere interessante allargare la ricerca anche a questi contesti (anche ai contesti misti: on line/off line, i così detti

blended), per osservare quali sono le modalità di relazione, le dinamiche che si creano, le invenzioni. 45

In Italia il pensiero della differenza sessuale fu inizialmente elaborato all’interno della Libreria delle donne di

Milano (www.libreriadelledonne.it), cominciando dalla pubblicazione del Sottosopra verde, intitolato Più donne

che uomini (gennaio1983); successivamente la comunità filosofica Diotima

(www.diotimafilosofe.it/riv_online.php) diede continuità alle idee pubblicate in quel Sottosopra, elaborandole

teoricamente e rendendole pubbliche. Per la nascita della pedagogia della differenza, si veda Piussi (1989). 46

http://www.ub.edu/duoda/

36

formato da donne, docenti universitarie, insegnanti e ricercatrici interessate al mondo

dell'educazione)47

.

2.2. Le motivazioni di una scelta

Potrebbe sembrare troppo semplice e poco accademico spiegare i motivi per cui ho messo al

centro di questa ricerca la riflessione sul significato di testi letterari scritti da donne, con

parole come piacere, emozione e benessere; anche se, come dice Winnicott (1987, p. 33), è la

verità a rendere le cose semplici. Tuttavia è nell’intreccio di queste parole che la mia ricerca

trova il suo senso di essere, quindi so di non poter aggirare l’ostacolo, senza che ciò significhi

la perdita di un frammento necessario per completare il disegno. È per questo che cercheró di

spiegare cosa intendo dire, partendo proprio da qui.

2.2.1. Perché mi piace: il piacere come misura

Perché c’è poco da scherzare con il piacere.

Il piacere è noi.

Clarice Lispector, La nascita del piacere

Il piacere ha delle ramificazioni profonde, capillari, che si estendono per tutto il nostro

organismo e si intrecciano alla nostra storia. Per questo, credo, sia così difficile parlare del

piacere, perché è una questione delicata, complessa, oscura persino, che richiama in noi volti,

gesti, parole, silenzi,… , così vivi che bisogna essere prudenti nell’avvicinarsi. È per questo

che non voglio fare un discorso sul piacere, perché ci sono tante cose che non so dire, perché

non tutto si puó dire.48

Scelgo piuttosto di muovermi in questa incertezza e di provare ad

avvicinarmi, restare nei dintorni e tentare qualche parola che possa iniziare ad aprire il

cammino.

47

http://circuloSofías.wordpress.com/ 48

Si veda Luisa Muraro (2011), in cui la filosofa fa riferimento all’impossibilità del linguaggio di sostituirsi alla

realtà. Nel cercare di farlo c’è un gesto di onnipotenza e comunque la cosa, quando si cerca di afferrarla, ci

sfugge.

37

Spesso il piacere lo si contrappone al dovere, inteso quest’ultimo come ciò che va fatto,

confinando il piacere a quei momenti in cui, esenti da vincoli esterni, è possibile muoversi

liberamente e fare ciò che si vuole (il che, più che una realtà è un’illusione non

necessariamente desiderabile). Tuttavia il piacere puó nascere dall’obbedienza a ciò che in noi

ci chiama (Zambrano, 1988). Ed è in questo senso che mi piace pensare il piacere: come un

sentimento che ti orienta nella vita e ti permette di fare e dire quello che è più vicino al tuo

sentire.

Il piacere peró non è facile, a volte è persino doloroso. Bisogna allenarsi, farne esperienza e

attraversarlo (la tentazione di scappare è grande), per «lasciarsi inondare dalla gioia a poco a

poco, perché è la vita che nasce» (Lispector, 2001, p. 149). Piacere e vita che nasce. Sembra

che queste parole vogliano dirci che accogliere e sentire il piacere sia un modo di avvicinarsi

alla vita, a ciò che è e che si rinnova ogni giorno: «Incipit vita nuova» (Zambrano, 1977, p.

14).

Mi vengono in mente le parole di Carmen Martín Gaite quando scrive:

La routine non è tanto nelle cose quanto nella nostra incapacità di trovare ad ogni momento

un vincolo originale con esse, nella nostra tendenza a leggerle con la falsariga della

quotidianità, del già appreso. Bisogna lasciare sempre aperta la porta della stanza dei giochi

(1988, p. 60, trad. mia).

Mi chiedo se sia possibile pensare il piacere come quel vincolo originale con le cose,

originale nel suo doppio significato di cosa prima (origine) e unica (particolare, proprio di

ognuna e ognuno di noi). Vincolo da rinnovare ogni giorno e che ci riconduce al momento in

cui insieme a nostra madre, o chi per essa, abbiamo creato il mondo, come in un gioco,

sentendo nascere la vita ad ogni parola, ad ogni gesto. In questo senso, mi piace pensare il

piacere come misura, come principio creativo di relazione con il mondo e con gli esseri che lo

abitano. Un piacere insito nel corpo, nelle cellule, vincolato alla gioia della nascita, che si

risveglia in noi quando siamo capaci di creare e ricreare i legami con le cose e le persone, a

partire da quello che siamo; quando restiamo vicini alla vita e alle sue necessità, quali

l’amore, la fiducia, l’accoglienza, la relazione creativa con l’altro da sé, la bellezza, il

benessere e tutte quelle «parole buone» che fanno che l’essere non finisca nel nulla

(Praetorius, 2002, p. 5).

38

La lettura di alcune scrittrici suscita in me questo piacere, accende in me il «desiderio di

essere nel presente» (Rivera, 2007, p. 51), che intendo come il desiderio di divenire ciò che si

è, andando alla ricerca, in modo creativo, «con passioni allegre» (Piussi, 2006, p. 31)49

e

senza paura perché non siamo sole. Le loro parole mi aiutano a ricordare quanto sia piacevole

(e necessario) (ri)dare nome alle cose50

, a ciò che per noi è importante nominare, così come

abbiamo imparato da piccole. Prendendo sul serio il gioco, come fanno le bambine e i

bambini, perché in quel gioco c’è un sapere che riguarda il senso del nostro essere al mondo.

2.2.2. Perchè mi emozionano: il sentire alla radice del pensare

Leggendo alcune scrittrici ho provato una forte emozione, qualcosa che mi tocca da vicino e

che si vincola al modo in cui stiamo al mondo. All’improvviso è come se mi sentissi

ricollocata, in un luogo nuovo, ma non sconosciuto, più comoda, più in me; un luogo da cui

posso guardare e vedere cose che prima non mi era dato di vedere; nè di sentire (oppure

sentivo ma non riuscivo a nominare). Sembra come se le parole di un’altra donna (donna per

azzardo e per scelta) potessero restituirmi una richezza dimenticata, farmi riscoprire un modo

di dire e di creare mondo, che risuona in me profondamente perché così «vivo di vita»

(Lispector, 2004, p.14, trad. mia). È come incontrarmi con me stessa e questo è un bene51

.

Così lo rifaccio ancora una volta e vado alla ricerca di quelle parole che mi riportano in me:

parole scritte con il corpo che mi restituiscono il mio.

Provo a spiegarmi, prendendo in prestito le parole che Lluïsa Cunillera, insegnante nel liceo

Antoni Cumella di Granollers (Barcelona), scrive nel suo diario di classe, il 9 ottobre del

2007. Si tratta di un diario che Lluïsa e le sue allieve e allievi del corso di Letteratura

Catalana del XX secolo – trasformata da Lluïsa in “Germanes de Shakespeare” [“Sorelle di

Shakespeare”] –, scrivono ogni settimana e condividono attraverso la lettura ad alta voce. Le

lezioni di Lluïsa costituiscono uno dei contesti educativi in cui ho svolto la mia ricerca sul

campo, di cui parlerò più avanti, nel capitolo IV52

.

49

Contrariamente a quanto ci offre oggi il mondo dell’educazione e della formazione, caratterizzato da un

crescente pessimismo ed utilitarismo. 50

C’è in questo rinominare, un desiderio di creare un altro mondo, di fare delle cose con le parole. 51

Come racconta il narratore di L’ora della stella: «Incontrarsi con sè stessa era un bene che fino a quel

momento non aveva conosciuto» (Lispector, 2004, p. 38, trad. mia). 52

Si veda anche in questo capitolo la parte dedicata alla delineazione dei contesti della ricerca.

39

Scrive Lluïsa:

In classe viviamo momenti di emozione. Emozione che può essere di diversi tipi e causata da

diversi motivi. Emozione che ognuno e ognuna vive in modo diverso. Perciò ci emozionano i

testi di Carmen Riera53

e i propri che scriviamo, partono da noi stessi, dalla nostra esperienza

e dal nostro sapere, propiziando in classe che vengano alla luce. E così, emozionandoci,

scopriamo. Perchè io credo che senza emozione è difficile la scoperta e, ancora meno,

l’apprendimento (D, 09.10.2007, trad. mia)54

.

Credo di poter chiamare emozione ciò che ho sentito e sento quando leggo alcuni testi di

donne, quando li condivido con altre e altri. Emozione che nasce dal sentire vere le parole che

leggo perché hanno senso (Muraro, 2006, p. 25) e le riconosco valide per dire la mia

esperienza. Sono parole che emozionano perché, come dice Lluïsa, non «suonano come un

eco lontano che ci sfugge, ma come piccoli battiti di vita. E la vita ci emoziona» (D, 09.10.

2007, trad. mia).

Voler dare significato a quell’emozione e alle sue ramificazioni, pensarla per farla esistere e

farne tesoro come una fonte di senso per la mia pratica come donna e formatrice è il

movimento che mi ha portato di ritorno alla letteratura femminile, ai testi letterari di donne e

ai contesti educativi dove essi diventano mediazione, alla ricerca di saperi e parole che mi

aiutino a decifrare ciò che sento (Zambrano, 1977, p. 35). Sentire che se trova parole che lo

accolgano, potrà trasformarsi in sapere utile per la vita, la mia e magari quella di altre e altri,

che credo sia il senso della ricerca educativa. E questo movimento di ritorno, lì dove il

desiderio mi muove a stare come donna ricercatrice, lo realizzo con, ovvero, in relazione ad

altre donne e alcuni uomini, le cui parole vanno illuminando il mio cammnino, come ad

esempio, Lluïsa.

2.2.3. Perché (mi) fa bene: ricuperare la lingua materna

L’ incapacità di alcune donne (giovani e adulte) di dire con parole vere la propria esperienza,

ciò che Carolyn G. Heilbrun, facendo riferimento alla biografia di alcune donne, chiama la

53

Si tratta di una delle scrittrici che Maria Lluïsa Cunillera propone nel suo corso «Germanes di Shakespeare».

Carme Riera è nata a Palma di Maiorca nel 1948. In italia sono stati tradotti i romanzi Dove finisce il blu (Fazi,

Roma, 1997; tr. Francesco Ardolino) e Verso il cielo aperto (Fazi, Roma, 2002; tr. Francesco Ardolino); 54

Citerò il diario di classe di Maria Lluïsa Cunillera con la lettera “D”, seguita dalla data in cui stato scritto il

frammento riportato.

40

«retorica dell’incertezza» (1990, p. 21), Luisa Muraro la collega alla mancanza di autorità

simbolica, «l’autorità cioè di affermare quello che è, che la lingua possiede e che noi

facciamo nostra imparando a parlare» (2006, p. 34). L’autorità della lingua, la sua capacità di

dire il mondo, prosegue, è inseparabile dall’autorità della madre, perché è lei a garantire la

continuità tra parola e vita. È così che il mondo acquista significato, in relazione alla madre (o

chi per essa) perché è lei, con le sue parole, quella che ci introduce alla vita, che siamo uomini

o donne. Perciò è così importante riconoscere il vincolo della relazione con la madre, perché è

primo e fondativo: della vita, del pensiero e del linguaggio. E durante il nostro divenire

donne, nell’adolescenza, nella maturità, nella vecchiaia è vitale mantenere vivo quel vincolo e

renderlo significante, in relazione ad altre donne: «saperlo tradurre in autorità per il pensiero e

il linguaggio nel proprio contesto di discorso e di azione» (Piussi, 1992, p. 26).

Perdere il vincolo con l’origine materna porta con sé la perdita del mondo, che intendo come

la perdita della capacità di «affermare ciò che è», ciò che si è (o si anela di essere), a partire

da sé e in relazione, come soggetti (e non oggetti) della nostra storia. Riconoscere l’opera

materna e ristabilire la sua continuità in noi, accettare la necessità della mediazione femminile

per poter dire e pensare sposta l’immagine di povertà e fa nascere l’immagine di una richezza

possibile per la trasformazione del mondo, «che è anzitutto una trasformazione simbolica»

(ibidem).

Credo che i testi letterari di alcune scrittrici abbiano la capacità, il dono direi, di smuovere

qualcosa in noi; di riportarci al nostro corpo e con esso al corpo da cui siamo nate e nati. Sono

testi scritti in lingua materna, «la prima che impariamo a parlare, vicina al confine dove il

bisogno di mangiare passa in bisogno di comunicare, vicina alle soglie fra la parola e il

silenzio e al commercio fra i corpi e le idee» (Muraro, 2012a, p. 29). Lingua in cui la vita

scorre tra le parole, aprendo dei passaggi (dei buchi, che sono anche silenzi); che non si

sovrapone alla realtà ma l’accoglie in sé per dire ciò che è.

Dice Milagros Rivera, «toccare la realtà è uno dei vissuti più grati e difficili che ci sia perché

la felicità consiste proprio in ciò, in toccare la realtà, quando la lingua accede a portarmela,

unendomi a essa» (2005, p. 159, trad. mia). Mi è capitato di leggere dei testi che mi hanno

permesso di toccare la realtà: L’ora della stella, di Clarice Lispector è uno di essi; ne parlerò

più avanti. È un momento sconcertante: come una scossa, una scintilla, e tutt’ad un tratto, le

parole di un’altra mi riportano in me. Mi è capitato anche di dire parole di realtà; a volte

ispirata da altre, per esempio, le scrittrici. Parole in cui mi sono ritrovata come quella che

sono: una donna. E questo è un bene.

41

2.3. Le madri di tutte noi. Virginia Woolf, Clarice Lispector e Carmen Martín Gaite

Tra maggio dell’ 83 e giugno dell’ 84, un gruppo della Libreria delle donne di Milano si riunì

periodicamente per leggere e discutere opere di donne – iniziando dalle opere e dalla biografia

delle loro scrittrici preferite: Virginia Woolf, Jane Austen, Emily e Charlotte Brontë, Elsa

Morante, Gertrude Stein e molte altre - per «vedere se i loro scritti (…) facessero apparire un

simbolico delle donne» e se in essi potevano trovare «le prime figure di libertà» (Libreria

delle donne di Milano, Biblioteca delle donne di Parma, 1982, pp. 1-2). I risultati

dell’esperienza diedero forma ad una serie di testi di teoria e pratica politica raccolti nel

Catalogo Giallo Le Madri di tutte noi (1982). Madri di tutte noi perché le donne della Libreria

le avevano riconosciute come maestre, come mediazione per essere al mondo in libertà, il che

significa scrittrici che con la loro parola ed azione avevano mostrato una via possibile, per

dare senso, in modo libero, al fatto di essere nate donne, ognuna diversa.

Quando ho deciso di affrontare la domanda se e come certa scrittura femminile può aiutare a

ripensare la pedagogia, perché fonte di un sapere sull’educare e sull’essere al mondo, anch’io

sono partita dalle mie scrittrici preferite: Virginia Woolf, Clarice Lispector e Carmen Martín

Gaite. Tutte e tre mi hanno fatto vedere delle cose che prima non vedevo perché con le loro

parole hanno aperto passaggi imprevisti, che a volte mi hanno addirittura provocato delle

vertigini. Per esempio, quando ho letto Nubosidad Variable (1992)55

e ho sentito un desiderio

grande di fare come Sofía, una delle protagoniste del romanzo: scrivere racconti. Poi ho

capito, con loro e insieme ad altre, che per farlo crescere quel desiderio aveva bisogno di

relazioni, sostegni, di agganci: quello che in questa tesi chiamo mediazioni, che poi scopro

essere, innanzitutto femminili. E anche di coraggio, di tanto coraggio, come dice spesso

Virginia Woolf nei suoi Diari quando parla del dono della scrittura, il quale se non viene

coltivato, quindi se non si scrive molto ma molto, rimane una potenzialità che non viene alla

luce. Coraggio, dicevo, che lei stessa, Virginia, incarna nella sua ricerca attenta e paziente di

parole che le permettano di toccare e farsi toccare dal reale, di accogliere i fenomeni

(questione centrale per chi fa un certo tipo di ricerca soprattutto se educativa). Vertigini anche

dopo aver letto alcuni passaggi di Clarice Lispector, nonostante con lei la sensazione sia

diversa. Spesso è come uno spaesamento, un non sapere dove si è, un non riconoscersi. Come

quando, nel laboratorio di scrittura con Angela Chiantera ed Emanuela Cocever, leggevo i

55

Per l’edizione italiana, si veda Martín Gaite (1995), con traduzione di Michela Finassi Parolo.

42

pezzi che avevo scritto56

. Parole che non riconoscevo come mie, eppure venivano da me. Così

anche con Clarice: perché capitava e capita ancora, che leggerla mi provochi la scrittura,

risvegli la mia parola, come direbbe María Zambrano (1977, p. 25).

Spesso leggerle è stato scomodo, una «gioia difficile», con le parole di Clarice Lispector

(1982, p.3), che a volte arrivava, tuttavia senza garanzie, dopo un grande sforzo di attenzione.

Ricordo una volta, in un incontro con Liliana Rampello, una delle studiose italiane più

importanti di Virginia Woolf, che una delle ragazze lì presenti disse qualcosa come: «la

lettura è un piacere che richiede fedeltà»57

. La parola che mi rimase impressa fu “fedeltà”;

fedeltà alla parola, alla scrittura, senza la quale il piacere viene a meno. Ne ho parlato prima a

proposito di ciò che mi ha spinto a fare questa ricerca, in particolare, quando ho vincolato il

piacere all’obbedienza con ciò che in noi ci chiama.

È stata proprio la Rampello a dire di Virginia Woolf, che la sua è «una scrittura che dà, alla

vita che è data, la forma di una vita che diventa propria» (2005, p. 28). Parla appunto di

Virginia Woolf ma credo valga anche per le altre. Forme diverse, forme proprie che non

possono essere la mia, ma in cui ho trovato un’ispirazione. Ed è questo il filo che ora vorrei

seguire.

Di ispirazione ha parlato un’altra delle donne la cui parola mi provoca un profondo tremore

quando la leggo: la poetessa polacca Wisława Szymborska, la quale, nel ricevere il premio

Nobel, disse che l’ispirazione non è esclusiva dei poeti, ma di tutte le persone che «scelgono il

proprio lavoro e lo compiono con amore ed immaginazione» (2010, p. 50, trad. mia)58

. Questo

per me significa che l’ispirazione, sia data o ricevuta come un dono (gratis et amore come la

vita), non uno senza l’altro, appartiene alle persone che compiono un gesto grande di libertà,

56

Si tratta degli esercizi fatti durante il laboratorio “Mettere in forma l’esperienza: scrittura e percorsi di

pensiero”, tenuto da Angela Chiantera ed Emanuela Cocever all’interno della Scuola Estiva Pratiche di scrittura,

organizzata da Graphein (Società di Pedagogia e Didattica della Scrittura), in collaborazione con la Libera

Università dell’Autobiografia di Anghiari. Il laboratorio delle prof.sse si è ispirato all’esperienza di Elisabeth

Bing (1977), la quale nella sua pratica laboratoriale concepisce la scrittura come l’azione cognitiva di prendere

atto di chi si è e di dove si sta. Da questa prospettiva, lo scopo della scrittura non è soltanto scrivere bene e in

modo esteticamente valido, ma anche, e soprattutto, quello di trovare le proprie parole, un linguaggio proprio che

ci permetta di appropriarci della nostra esperienza e del mondo. Riguardo alla mia esperienza, alcune consegne

hanno provocato in me degli spaesamenti cognitivi, perché mi hanno spinto a guardare me e la realtà da luoghi

non (più) frequentati. La perdita di riferimenti nel paesaggio e il tempo limitato che avevamo a disposizione per

la scrittura, mi obbligavano a un’immediatezza espressiva che faceva emergere modi di dire inediti. Le parole, in

qualche modo, accadevano e dopo, nel momento della lettura, talvolta mi sentivo come se qualcun’altra parlasse

al posto mio. C’era lo stupore e la gioia (anche per ciò che di difficile emergeva) della (ri)scoperta di una parte di

me. 57

L’incontro si è tenuto il 20.03.2012, in occasione della pubblicazione del libro Voltando pagina (2012), una

raccolta di saggi di critica letteraria di Virginia Woolf, curata e commentata da Liliana Rampello. Ad introdurre

la Rampello, sono state Annarosa Buttarelli e Chiara Zamboni. 58

Discorso pronunciato all’Accademia Reale di Svezia in occasione del conferimento del premio Nobel alla

letteratura, anno1996.

43

la qualcosa, nel caso delle scrittrici che mi riguardano, è l’aver scelto di essere al mondo a

partire da sé e scriverne, in un circolo virtuoso di vita e parola. Scriverne azzardando forme

nuove, mettendo al mondo nuovi sensi per aprire il reale ad un di più, che possa accogliere la

novità che ognuna di loro, come ogni creatura umana che nasce, porta con sé (Arendt, 2009)

A essere fonte di ispirazione per me è stato il gesto di libertà di queste donne, Virginia Woolf,

Clarice Lispector, Carmen Martín Gaite, che ha trasformato profondamente il loro ambito di

azione, ovvero, la scrittura, rivoluzionando, come è stato a loro riconosciuto, ognuna in ciò

che le è proprio e a partire della propria lingua materna, i modi di intendere il romanzo, la

critica letteraria, il giornalismo, il linguaggio e le sue manifestazioni e con esso il mondo. Mi

hanno ispirato, e lo fanno tutt’ora, nella mia vita, come donna e insegnante/formatrice59

,

dimensioni che formano un unico movimento dell’esistenza, perché mi hanno fatto vedere

alcuni aspetti del mondo, tra cui quello dell’educazione, sotto un’altra luce.

Per questo sono partita da loro: perché farlo mi sembrava l’unico inizio possibile.

2.4. Contesti d’indagine

Premessa

I contesti in cui ho svolto l’indagine sono tre, tutti localizzati a Barcelona. In un primo

momento avevo l’intenzione di allargare la ricerca a diverse situazioni formative formali e

informali: contesti scolastici ed extrascolastici (educazione con donne adulte nei Centri

territoriali di educazione permanente in Italia, o nei Cursos de verano molto diffusi in Spagna,

le Scuole estive delle donne in Italia - in particolare quelle promosse dalla Società Italiana

delle Letterate, ecc.) in cui si utilizzasse intenzionalmente la mediazione di testi letterari

femminili. Tuttavia ho deciso di concentrare le mie energie a Barcelona per diverse

motivazioni: linguistiche, culturali e relazionali. Di fatto, i rapporti di collaborazione della

mia tutor la prof.ssa Anna Maria Piussi con il centro di ricerca Duoda dell’Universidad de

Barcelona e con la rete nazionale Sofías. Relaciones de autoridad en la educaciòn, mi hanno

dato la possibilità di incontrare diverse docenti spagnole, grazie alle quali sono venuta a

59 Dal 2009 collaboro in alcuni progetti di formazione (scuole, università, aziende) promossi dalla Fondazione

Edulife. Il più importante, che si è concluso a giugno del 2012, è stata la creazione di una comunità di pratica

formata da 17 università della rete IUS (Instituzioni Salesiane di Educazione Superiore) dell’America Latina ed

Europa, per lo sviluppo del profilo di competenze del docente universitario. Un progetto molto interessante e con

tante scoperte (soprattutto nate dalla relazione con i e le docenti) nonostante le tante criticità legate all’approccio

per competenze: in questo senso, si veda, il contributo della pedagogista Angelique del Rey, L’ecole des

compétences: une solution mécanique et abstraite au problème de l’efficacité de nos enseigments, Collectif

Malgré Tout: http://malgretout.collectifs.net/spip.php?article102

44

conoscenza di alcune esperienze educative significative, molte delle quali a Barcelona; il che

non è un caso, data l’importante presenza in quella città di donne impegnate nella cultura e

nel pensiero femminile (es. Duoda, la libreria Próleg60

, la cooperativa Drac Màgic61

, ecc.).

Inoltre, il successivo accordo di cotutela con l’Universidad di Barcelona ha rafforzato questo

orientamento, dato che l’accordo prevede la permanenza nella cittá di almeno 6 mesi nell’arco

del percorso di dottorato, per svolgere attività di ricerca e formazione.

Di seguito, riporto l’elenco dei contesti per procedere subito dopo a delinearli brevemente:

il corso62

“Germanes de Shakespeare” (è il modo «familiare» con cui è conosciuto il

corso facoltativo “Literatura catalana del segle XX”) e, in un secondo piano, i corsi

obbligatori di “Literatura catalana” (gruppo A e B), tenuti dalla prof.ssa Lluïsa

Cunillera nel Liceo Antoni Cumella di Granollers (Barcelona);

il laboratorio di lettura critica e scrittura creativa “Mirades de dones”, tenuto da Nora

Almada, che si svolge nella libreria Pròleg (Barcelona);

la “Tertùlia” letteraria, coordinata da Luisa Fortes, che si svolge nella libreria Pròleg

(Barcelona).

Prima di procedere vorrei fare una precisazione. Il mio avvicinamento ai contesti è partito

dalla necessità di capire cosa succede in determinati spazi educativi, formali e non formali,

quando si mettono in gioco testi letterari scritti da donne. Testi che non appartengono

necessariamente alle scrittrici di cui ho parlato prima, anche se in alcuni casi ci sono state

delle coincidenze (la qualcosa è significativa; ne parlerò nella parte dedicata al racconto dei

risultati dell’indagine). Questo significa che nel mio percorso di ricerca, come ho già spiegato

all’inizio di questo capitolo, ci sono state due dimensioni: la mia esperienza di lettura delle

scrittrici e l’indagine di campo nei tre contesti che mi accingo a delineare. Contesti nei quali

sono entrata da un punto di vista etnografico, con il proposito di raccontare ciò che accadeva

in essi, partendo dalle loro dinamiche e prendendo come riferimento i libri che circolavano al

loro interno. Due correnti, come dicevo, legate da un filo comune che è capire il significato

60

Si tratta della libreria delle donne di Barcelona fondata a maggio del 1991 da Àngels Grasses insieme ad altra

donne. Due delle attività in cui ho fatto ricerca si svolgono al loro interno. http://www.llibreriaproleg.com/ 61

La cooperativa promotrice di Mezzi Audiovisi Drac Màgic, gestita da Marta Selva, produce attività e materiali

didattici per la scuola primaria e secondaria e per la formazione degli insegnanti. Da qui nasce nel 1993 la

Mostra Internacional de Films de Dones de Barcelona, che Marta Selva codirige con Anna Solà.

http://www.dracmagic.cat/ 62 Più che un corso è un’«esperienza educativa», come lei stessa lo chiama (Cunillera, 2007a).

45

che l’esperienza di lettura di certi testi letterari scritti da donne ha per le persone coinvolte

nella ricerca, tra cui io stessa.

2.4.1. “Germanes de Shakespeare”

“Germanes de Shakespeare. La literatura des de la llibertat” [“Sorelle di Shakespeare. La

letteratura a partire dalla libertà”] è una programmazione completa di letteratura di scrittrici

catalane messe in dialogo con autrici di altre letterature. Si tratta di un corso di letteratura

inizialmente pensato per le studentesse e gli studenti delle superiori, anche se i suoi contenuti

posso essere proposti anche nella scuola media e in altri ambiti. Il titolo del corso è un

omaggio a Virginia Woolf, la quale nella sua opera Una stanza tutta per sé (1998b) si

chiedeva se sarebbe stata possibile l’esistenza di una sorella di Shakespeare. Quando la

scrittrice rifiuta questa possibilità sta denunciando la mancanza di un contesto sociale e

culturale favorevole che permettesse alle donne di scrivere. Tuttavia lungo la storia,

nonostante le difficoltà che hanno trovato le donne che volevano scrivere, ci sono state tante

scrittrici: quelle che appunto Lluïsa chiama le sorelle di Shakespeare.

La prima volta che ho sentito parlare di “Germanes de Shakespeare” è stata durante un pranzo

con un gruppo di docenti spagnole che si trovavano a Verona per partecipare al seminario

Come abitare l’Università. Donne e uomini nell’università del presente63

. È stata la prof.ssa

Nieves Blanco a parlarmi di Lluïsa Cunillera, un’insegnante di letteratura in un liceo di

Barcelona, che aveva rivoluzionato un corso facoltativo di letteratura catalana del XX secolo,

proponendo unicamente testi scritti da donne. Per molto tempo Lluïsa si era dedicata a

leggere, studiare ed indagare opere letterarie femminili, molte delle quali portava nelle sue

classi, insieme alle opere indicate dal programma ufficiale. Un anno di congedo le ha

permesso poi di articolare nella scrittura la sua pratica e le sue riflessioni degli ultimi anni,

dando preziosi contributi ai possibili modi di rendere visibile in classe l’opera creativa delle

donne. Da qui è nata una proposta educativa, formata da nove unità didattiche (il che non è un

caso, come ci tiene Lluïsa a sottolineare) intitolata Germanes de Shakespeare, una

experiència desde la llibertat, che la Generalitat di Catalunya ha pubblicato nel 2007,

all’interno di una collana dedicata a programmi di innovazione educativa.

63

Seminario tenuto all'Università di Verona nel febbraio del 2009, nell'ambito del progetto di ricerca Ser

universitarias en el presente [Essere universitarie nel presente] finanziato dall'Instituto Nacional de la Mujer

[Istituto Nazionale della Donna].

46

Così racconta Lluïsa le origini di “Germanes di Shakespeare”:

È stata la mia personale esperienza di donna ed educatrice a portarmi ad iniziare un processo

di autoriforma dei presupposti delle mie lezioni, somigliante in più di un aspetto al

movimento iniziato ormai anni fa dalle docenti delle università italiane. (…) come le docenti

italiane, ho iniziato a modificare il curriculum, perchè in quel momento mi è sembrato ciò

che dovevo fare (2005, p. 6).

Tuttavia, il processo di autoriforma di cui parla Lluïsa non si limita ad un cambiamento dei

contenuti, ma comporta soprattutto un cambiamento di sguardo rispetto al suo modo di

insegnare. Uno spostamento che le ha permesso di prendersi la libertà di fare quello che

sentiva di dover e voler fare, sia all'interno della classe, nel modo di mettersi in relazione con

le ragazze e i ragazzi, sia anche nella scelta dei contenuti da assumere come mediazioni

educative e di apprendimento, contenuti e linguaggi in cui sono parlanti pensieri,

immaginazioni, emozioni di donne e quella libertà femminile che lei stessa incarna e intende

far vivere nello scambio educativo.

È stato proprio il pensiero libero che Lluïsa ha trovato in alcune scrittrici, come Virginia

Woolf, la leva che le ha dato la possibilità di partire da sè nella scelta dei testi e nel modo di

vivere la relazione educativa con le allieve e gli allievi delle sue classi: la libertà di essere in

aula in un altro modo, da un luogo simbolico altro, per «stimolare nei ragazzi e nelle ragazze

il partire da sé», trasmettendo loro il suo amore e la sua passione per la letteratura.

2.4.2. “Mirades de dones”

Passione per la letteratura è quello che muove anche un gruppo di donne a rinuirsi l’ultimo

sabato di ogni mese, per riflettere insieme su testi scritti da donne e scrivere a partire da essi.

“Mirades de dones” [“Sguardi di donne”] è il nome di un laboratorio di lettura e di scrittura

creativa che da dieci anni coordina Nora Almada a Pròleg, la libreria delle donne di

Barcelona. La mia cotutor, la prof.ssa Remei Arnaus, è stata la prima a parlarmi di questo

laboratorio durante il primo soggiorno di ricerca a Barcelona (ottobre 2009).

Il laboratorio è uno spazio di incontro tra donne, «fatto di donne e per donne» (Almada, 2006,

p. 7, trad. mia), in cui si pensa, si crea e si scambiano esperienze, partendo dalla parola di altre

donne, le scrittrici. I testi vengono proposti da Nora all’inizio dell’anno, cercando di

rispondere al desiderio e alle preferenze delle partecipanti, ma senza perdere la possibilità di

47

conoscere e riconoscere scrittrici poco conosciute o poco lette. «Si tratta» – dice Nora –

«d’indagare in diversi stili e temi. Abbiamo deciso di dedicarci alle autrici per diffonderle e

capire altri sguardi e altri modi di interpretare la letteratura» (ivi, p. 7).

Il laboratorio si articola in due parti. La prima è dedicata al commento dell’opera che le

partecipanti hanno letto. Nora prepara sempre un dossier in cui raccoglie alcune informazioni

che possono essere interessanti per avvicinare la scrittrice: note bibliografiche, interviste (se

ci sono), frammenti di altre sue opere e, in alcuni casi, passaggi di critica letteraria. Inoltre,

quando c’è la possibilità, propone dei collegamenti tra la scrittrice ed altre donne (soprattutto

pittrici). Dopo una breve presentazione del dossier, ognuna delle donne racconta la sua

esperienza di lettura del testo, esperienze molto diverse tra di loro, sia per il tono che per il

contenuto. Nora guida la conversazione, riprendendo alcuni aspetti interessanti oppure

rilanciandone altri, per poter andare oltre. Nella seconda parte, invece, le partecipanti leggono

i testi che hanno scritto a partire dalla consegna che Nora ha dato loro alla fine della

precedente sessione. Le consegne prendono sempre avvio dall'ultimo testo letto e il cui

contenuto riprende l’aspetto che secondo Nora, a partire da ciò che è emerso durante la

conversazione, è il più significativo. Dopo ogni lettura, le altre partecipanti danno un loro

parere, condividono le impressioni, un aspetto significativo, qualcosa che non funziona

oppure da valorizzare. È un momento in cui il testo di ricrea e si trasforma grazie ad un

pensare insieme, come prima era successo durante la discussione sull’opera che avevano letto.

Ci sono donne che frequentano il laboratorio da quasi dieci anni, altre sono da poco arrivate e

alcune vanno e vengono con la stessa libertà che caratterizza il laboratorio: uno spazio in cui,

come loro stesse dicono, ognuna sa di poter esprimere ciò che pensa, dove spesso non si è

d’accordo ma si sente la fiducia necessaria per poterlo dire.

2.4.3. La “Tertùlia” della Libreria delle donne di Barcelona

Passione, libertà e fiducia. Con queste parole arrivo alla tertùlia, parola che l’Hoepli traduce

come «incontro» e anche come «salotto» (es. «il salotto della contessa»). In effetti più che

come un incontro letterario potremmo pensare la “Tertùlia” come un salotto64

, in cui donne di

64

Salotto che trova delle risonanze nella pratiche delle preziose. Le preziose erano «donne per lo più

della aristocrazia e in parte borghesi, che, nella Parigi del periodo di Luigi XIII e Luigi XIV, cioè tra

gli inizi e la seconda metà del Seicento, segnarano la storia politica e culturale della Francia di allora»

(Zamboni, 2002, p. 176). Queste donne decisero di trasformare i loro salotti da scenario di attività mondane a luoghi di incontro in cui uomini e donne discutevano di argomenti morali, sociali e politici, con un

48

diversa età e provenienza si trovano per stare insieme e conversare di letteratura.

È stata Nora a farmi conoscere la “Tertùlia”, uno spazio libero e aperto che da dieci anni

Luisa Fortes organizza alla libreria Pròleg. Alla “Tertùlia” può andarci chiunque (anche se è

frequentato unicamente da donne), a patto che il libro sia stato letto e che alla fine, si lasci una

piccola offerta per coprire le spese quando serve. I libri vengono scelti a settembre tra tutte le

presenti e comprendono autrici contemporanee e non: da Charlotte Brönte a Merce Rodoreda

a Magda Szabó, oltre a Clarice Lispector, Virginia Woolf e Carmen Martín Gaite, le cui opere

sono lette anche nel laboratorio. Non c’è un limite di partecipanti, solo quello che lo spazio

impone; il numero varia a seconda dell’autrice. Per esempio, nell’incontro sui racconti di

Katherine Mansfield c’erano una trentina di donne o più.

Il ruolo di Luisa Fortes durante la “Tertùlia” è molto simile a quello di Nora, anche se Luisa

lascia più spazio alle donne perché siano loro a guidare la conversazione. Potremmo dire che

il suo compito è quello di dare il tono alla conversazione, partendo dal desiderio che lo

scambio porti a un di più di senso, «il desiderio stesso di pensiero» (Zamboni, 2009, p. 15).

Perché come scrive Pilar Dalmases, una delle partecipanti, «la Tertùlia di Pròleg non è

soltanto uno spazio letterario. Trascende lo strettamente letterario perché è una pratica di

relazione tra donne» (Dalmases, 2009, p. 2, trad. mia). Una pratica in cui le donne, dialogando

tra di loro e con i testi, cercano insieme parole che creino pensiero, che aprano a una

possibilità di dirsi e dire il mondo a partire da sé e in libertà. Una pratica in cui ognuna si

mette in gioco nell' aprirsi all’altra, all’altro da sé, per lasciarsi trasformare dalle parole che si

sentono vere, quelle che risuonano e risvegliano il desiderio di esporsi.

In queste esperienze ho trovato degli stimoli per indagarle, in quanto tutte e tre, anche se con

caratteristiche diverse e in modi diversi, nascono come tentativi di essere spazi di libertà, di

relazione per il piacere della relazione, di incontro, scambio e presa di parola. Luoghi di

profondo coinvolgimento, mantenendo tuttavia il piacere della relazione. Come racconta Benedetta Craveri

(2001, p. 17), il loro ideale di conversazione, «coniugava la legerezza con la profondità, l’eleganza con il

piacere, la ricerca della verità con la tolleranza e con il rispetto dell’opinione altrui». I salotti furono delle vere e

proprie invenzioni simboliche, frutto del modo con cui le preziose concepivano il mondo e le relazioni. Luoghi

di diletto e di agire politico, «i salotti delle preziose diventarono fonte di una loro autorità culturale e politica,

che segnò i rapporti con la corte» (Zamboni, 2002, p. 177). La tertùlia diventa anche essa un luogo politico

quando le donne metteno al centro la pratica della relazione come mediazione per la ricerca di un senso libero –

fuori dalle categorizzazioni e astrazioni esterne – per sé, per gli altri e per il mondo; quando la volontà di avere

ragione viene sostituita dalla riconoscenza tra donne e dall’autorità femminile – «la qualità di senso che una

donna apporta, come un di più, alle relazioni umane che lei stabilisce o accoglie», così l’ha nominata Milagros

Rivera (2007, p. 64) –, ora esercitata ora riconosciuta, in un movimento a spirale aperto e fecondo.

49

creazione e ricreazione del mondo, di trasformazione. Ognuno di essi diventa una stanza tutta

per sé, per quelle (e quelli) che la vogliano abitare.

2.5. Riferimenti teorici ed esperienziali

Molti approcci pedagogici hanno segnalato l’utilità della letteratura come strumento (auto)

educativo e di conoscenza. Nel contesto italiano, un riferimento importante è nella ricerca che

da tempo conduce Duccio Demetrio sulla relazione tra pedagogia e memoria così come tra

formazione e narrazione. Un’attenzione particolare viene data da Demetrio (1996) al genere

autobiografico, segnalando il suo valore educativo e terapeutico, nella duplice manifestazione

di lettura e scrittura. Per Demetrio assumere uno sguardo pedagogico, che colloca al centro la

narrazione in senso amplio e, in particolare, la narrazione di sé, significa riconoscere il narrare

come elemento costitutivo dell’essere65

: impariamo, cambiamo e diveniamo donne e uomini

attraverso le storie, quelle che ascoltiamo e assumiamo e quelle che restituiamo (Demetrio,

1998).

Così la narrazione si manifesta, sia nell’uso dei testi letterari nei processi educativi, che nel

modo attraverso cui organizziamo la nostra esperienza, il nostro modo di pensare e di

conoscere. Scaratti, prendendo come riferimento il paradigma narrativo che si sviluppò

soprattutto a partire dal pensiero di Bruner (1988, 1992), segnala che nel contesto formativo è

presente una «dimensione narrativa», sia nell’uso dei testi (e qui include quelli provenienti

dalla letteratura) come strumento di conoscenza e di interpretazione, sia nello stesso processo

formativo, inteso come una narrazione (testo-tessuto), che si intesse a partire dall’incrocio

delle narrazioni dei soggetti coinvolti e che trova i pretesti per il suo originarsi nel contesto

stesso (Scaratti, 1998, p. 29).

Lo spazio formativo può dunque immaginarsi come uno «spazio narrante» (Bompiani, 1978),

un luogo di incontro tra le voci che narrano (tra queste il testo letterario) e il desiderio di

ascoltare. Uno spazio in cui, attraverso lo scambio di storie, si scambiano esperienze, le quali,

se messe in una relazione dialogica con l’esperienza unica e singolare di ognuna delle persone

partecipanti, possono assumere nuovi significati diventando una fonte di sapere (Nannicini,

1998, p. 96).

65

Conosciamo ed impariamo attraverso le storie. Come segnala Bateson: «Ogni sistema vivente risulta avere una

sua storia, che consiste nell’evoluzione dei suoi processi auto-organizzativi; di conseguenza conoscere significa

raccontare storie» (Bateson, 1990).

50

Fare spazio alle diversi voci che partecipano all’incontro educativo, riconoscendo la loro

differenza come fonte di senso, diventa un elemento centrale per co-costruire un testo

significativo, vivo e reale; un’esperienza educativa che apra possibilità (tras)formative alle

persone coinvolte e risponda al loro desiderio di essere al mondo in libertà.

2.5.1. Pedagogia della differenza sessuale

Riconoscere e accogliere la differenza significa, innanzitutto, riconoscere la differenza

sessuale come «differenza qualitativa e fondatrice di tutti gli aspetti della vita, inclusa

l’educazione» (Piussi, 2006, p. 19). Attualmente, « la presenza di tante allieve nelle classi

esige che ciò che oggi succede al loro interno non possa essere lo stesso di quando non

c’erano» (Flecha, 2006, p. 50, trad. mia) e diventa necessario che «l’universo teorico e pratico

dell’educazione e della trasmissione del sapere, la scuola e i processi formativi, dimettano il

loro carattere fittizio per diventare finalmente qualcosa di vero, corrispondente appunto alla

reale esistenza dei due sessi, alle loro differenti e autonome esigenze di crescita umana e

culturale» (Piussi, 1989, p. 12). Il che significa non solo constatare la crescente presenza

femminile nei luoghi formali della formazione ma renderla significante; recuperare un dire e

un fare femminili nell’educazione: «il senso e il significato che (le donne) le davano, l’ordine

simbolico in cui si produceva, come toccava la propria vita e quella delle altre» (Flecha, 2006,

p. 55, trad. mia), e farli circolare nel presente, alla luce delle parole di donne che hanno

riconosciuto la propria differenza e l’hanno trasformata in fonte di sapere.

Questo è ciò che nelle ultime decadi stanno facendo le donne che hanno messo al centro del

loro pensiero, parola e pratica politica un senso libero della differenza di essere donne. Mi

riferisco al movimento femminista della differenza sessuale, e più concretamente in ambito

educativo, al gruppo della pedagogia della differenza, nato a Verona (Italia) alla fine degli

anni Ottanta66

. Come spiega Cristina Mecenero, maestra e ricercatrice:

66

In Italia il pensiero della differenza sessuale è stato elaborato nei suoi inizii all’interno della Libreria delle

donne di Milano, a partire dalla pubblicazione del Sottosopra verde, intitolato «Più donne che uomini» (gennaio

1983). Successivamente la comunità filosofica Diotima (di cui formano parte alcune delle donne della Libreria)

ha dato seguito alle idee pubblicate in quel Sottosopra, elaborandole e rendendole pubbliche (si veda Diotima,

1987). Su Diotima, scrive Anna Ma. Piussi: «è una comunità filosofica femminile (…), che opera all’Università

di Verona da circa 20 anni, una creazione sociale e politica di donne legate dalla fedeltà a sé e dall’amore per il

lavoro del pensiero. Al centro abbiamo messo il fatto di essere una donna e di significarlo in modo libero nel

mondo e nel sapere: non più però nel modo della denuncia, della critica a un’oppressione millenaria, ma

piuttosto come ricerca positiva di forme, di concetti che esprimano una libera affermazione», (2011a, p. 41). Per

la genesi del gruppo della pedagogia della differenza, si veda Longobardi e Zamarchi (1989).

51

La pedagogia della differenza si è fondata su una scommessa politica: essere donna e essere

uomo è un dato significativo nell’ educazione e ogni agire a scuola è prima di tutto un atto

relazionale. In questa prospettiva, la nostra origine di esseri umani e l’origine

dell’educazione sono visti e considerati femminili perché la prima relazione è quella con la

madre ed è attraverso essa che si impara a parlare e si acquisisce la mediazione necessaria

per stare nel mondo (2010, p. 28)67

Accettare questa scommessa politica – politica perché ciò che sta in gioco è la possibilità di

mettere al mondo sensi nuovi per dire il reale trasformandolo, quindi politica dell’ordine del

simbolico, non dei partiti – significa anche riconoscere «che non c’è un modo di parlare senza

riconoscimento delle forme sessuate dell’esperienza e del conoscere» (Contreras, Pérez de

Lara, 2010, p. 61, trad. mia).

Nelle diverse dimensioni della vita, tra cui anche l’educazione, riconoscere ciò che siamo

comporta, innanzitutto, riconoscere la nostra differenza sessuale come fonte di senso che

illumina il nostro stare nel mondo perché, come scrive Remei Arnaus, «la differenza sessuale

non è un dato biologico senza significato e senza alcun senso politico e culturale ma una

grande chiave di senso fondamentale e radicale – di radice – per le donne e la loro creatività»

(Arnaus, 2010a, p.165, trad. mia). Significare quella differenza in libertà, vale a dire partendo

da sé, dalla propria esperienza umana e dal proprio desiderio, esige uno spostamento, dal

detto e pensato, ad un luogo altro, e richiede parole e saperi pensanti, in grado di trasformare

il mondo, e con esso anche la scuola e l’università, in uno spazio che accolga gli esseri che lo

abitano con la loro singolarità.

Dall’opera letteraria di alcune donne ci arrivano riflessi – io faró riferimento a Virginia

Woolf, Carmen Martín Gaite e Clarice Lispector –, di un linguaggio e di un sapere delle

relazioni, del corpo e del suo significato, del modo di avvicinarsi al mondo ed essere al

mondo (a sua volta in stretta relazione con che cosa significa educare, fare e produrre

conoscenza, ricerca), che ci suggeriscono un cammino, intrapreso da molte e da alcuni, aperto

e in continua trasformazione.

Pensarsi e pensare l’educazione insieme e attraverso la mediazione di altre donne, in questo

caso scrittrici, può aiutare le donne adulte, le giovani e le adolescenti, nella ricerca di percorsi

propri che permettano loro di riconoscersi come soggetti liberi e riconoscere il proprio

67

Si veda anche Piussi, Mañeru (a cura di) (2006).

52

potenziale creativo, capace di trasformare il mondo arrichendolo68

. E non solo le donne.

Esistono evidenze del fatto che oggi il pensiero femminile contagia anche adolescenti, giovani

e uomini adulti69

, provoca spostamenti simbolici e muove il desiderio di cercare una lingua

abitabile, un modo libero e più civile di creare legame sociale, di dirsi e di essere nel mondo

in relazione ad altri ed altre. Rendere pensante e parlante la differenza sessuale anche nel

lavoro di ricerca, nella costruzione della conoscenza, nella formazione, non è una

complicazione senza la quale vivremmo meglio, ma una ricchezza grande, un dono, «una

fonte inesauribile di senso» (Rivera, 2005, p. 11, trad. mia).

2.5.2. Imparare ad amare la madre leggendo le scrittrici

Molte esperienze ci parlano della possibilità di una donna adulta di trovare, nell’opera

letteraria di altre donne, una misura, un ordine che le permetta di dare un senso libero alla

propria appartenenza sessuale, facendola diventare una fonte di sapere per sé e per il mondo.

In primis, la mia, ne ho parlato nel primo capitolo di questa ricerca, alla quale aggiungo

soltando accennandola, l’affronterò per esteso nel capitolo quarto, quella di alcune donne che

ho incontrato durante l’indagine sul campo.

68

I movimenti del 15 M dimostrano quanto sia grande il desiderio di fare e di pensare l’educazione in un altro

modo: più libero, più significativo, che tenga conto delle necessità delle persone, che stia vicino alla vita. In

questo senso, uno degli aspetti a cui sta lavorando molto la «Comisión de Educación y Cultura» [«Commissione

di Educazione e Cultura»] del movimento è proprio la formazione delle e degli insegnanti, questione questa

sentita come centrale. La grande scommessa è, come molte e molti hanno messo in luce (Contreras, 2010; Piussi,

Arnaus, 2011), nelle qualità dei contenuti messi in circolo nella formazione: se i saperi per la formazione

permettono alle e agli insegnanti di vivere un’esperienza di trasformazione e se rispondono alle loro aspettative

di incontrare conoscenze vive, capaci di entrare in dialogo con le loro domande («Chi sono io come

insegnante?», «Quali sono le mie idee sulla scuola, sull’educazione, sulla formazione, ecc.?») e con il loro

interesse a comprendere sé stessi e il mondo (Piussi, Arnaus, 2011). Come segnala Contreras (2010), «il sapere

di cui abbiamo bisogno per vivere (e per viver-ci come docenti) è quello che è unito a noi, che ci costituisce, che

fa corpo in noi, che abbiamo in-corporato. Un sapere che non procede da una semplice appropriazione di quei

saperi esterni che si sono costituiti a partire dalla separazione dal soggetto e dall’esperienza della vita [Contreras

si riferisce alla conoscenza accademica], bensì un sapere che si è coltivato, che ha preso forma, legato al vivere e

a qualcuno/-a che vive» (p. 63, trad. mia). In questo senso, credo che nella formazione delle e degli insegnanti

possa essere molto arricchente la mediazione di certi testi letterari femminili (quelli delle autrici oggetto di

questo lavoro di ricerca ne sono un esempio) in quanto fonte di esperienze di ciò che significa pensare e scrivere

a partire da sé, ovvero, mettendo in gioco ciò che si sente e si vive, mantenendo aperta nella scrittura la relazione

tra verità e vita (Rivera, 2008, p. 9). Relazione tra verità e vita che nell’elaborazione del pensiero sull’educare è

oggi più che mai necessaria. Testi da cui è possibile attingere un sapere per vivere, per viversi come docenti, che

non si presenta pronto all’uso ma che si ricrea nell’esperienza di lettura, un’attività – come dice Jorge Larrosa a

proposito della lettura come formazione – «che ha a che vedere con la soggettività del lettore: non soltanto con

ciò che il lettore sa ma con quello che è» (2003, p. 25, trad. mia). 69

Alcuni esempi in questo senso li possiamo trovare in Deriu, (2002), Aa.Vv. (2009), Ciccone (2009), Demetrio

(2010).

53

Ora vorrei soffermarmi sugli studi di Giovanna Providenti, la quale ha dedicato parte del suo

lavoro come ricercatrice ad analizzare alcune opere scritte da donne, tra la fine del XVIII

secolo e durante il XIX. Come lei stessa racconta in un articolo intitolato Imparare ad amare

la madre leggendo romanzi. Riflessioni sul femminile nella formazione (2005), Giovanna

decide di rileggere i suoi romanzi preferiti dell’adolescenza, tra cui, Jane Eyre, Piccole donne

e Indiana, per «imparare ad amare in modo più profondo il sapere trasmessomi da queste

madri simboliche, che nel corso della mia adolescenza mi hanno aiutato ad uscire dalla

trappola della cultura maschilista in cui vivevo» (ivi, p. 170). Il criterio di scelta dei testi per

la ricerca è quindi radicato nell’esperienza di Giovanna adolescente: sono romanzi in cui lei

riusciva a ritrovare se stessa e un mondo a misura propria in cui poteva rinoscersi (il piacere e

il benessere provocati dalla lettura sono indicatori non poco significativi) e che le offrivano

uno spazio molto più reale di quello che trovava a scuola, satura com’era di riferimenti e

figure maschili, dove l’opera materna era praticamente assente. Sono state narrazioni di donne

in cui lei ritrovava «la vita reale per come la vedevo io» (ivi, p. 152), a fare dunque da

mediazione tra lei e il mondo, in un momento in cui ciò che le insegnavano in classe «non

aveva nessuna connessione con la mia vita nè coi miei desideri e il tumulto di emozioni che

mi ha investita durante la adolescenza» (ivi, p. 151).

Seguendo un itinerario molto simile a quello che io stessa ho seguito, Giovanna decide di

rileggere i suoi romanzi ormai da adulta e da studiosa, alla ricerca di una risposta alla

domanda da cui prende le mosse la sua indagine e che ha delle risonanze con una domanda

precedente: quella che la filosofa Luisa Muraro formula all’inizio di una delle sue opere più

conosciute e che ha marcato un prima e un dopo nella vita di molte donne, L’ordine simbolico

della madre (2006).

Improvvisamente mi accorgo che l’inizio cercato è davanti a me: è il sapere amare la madre.

Che lo sia è certo, perché altri inizi non sono possibili per me: questo soltanto rompe il

circolo vizioso e mi fa uscire dalla trappola di una cultura che, non insegnandomi ad amare

mia madre, mi ha privata anche della forza necessaria a cambiarla, lasciandomi soltanto

quella di lamentarmi, indefinitamente. Ma come imparerò? Chi mi insegnerà? (ivi, pp. 13-

14).

54

Domanda alla quale, partendo dall’esperienza di (ri)lettura delle scrittrici e attraverso il

percorso di ricerca del senso di quell’esperienza – da un «zappare»70

, come lei stessa chiama

il suo modo di procedere –, Giovanna dà una sua risposta: «Ho imparato ad amare la cultura

delle mie madri ritrovando nei romanzi non soltanto l’amore, ma anche la fiducia, il coraggio,

la certezza del valore del sapere e dei valori femminili» (2005, p.170). In particolare, sono tre

i fili di senso che Giovanna riesce ad estrarre dai testi da lei studiati e che riformulo così: la

relazione madre-figlia intesa come relazione educativa e luogo di trasmissione di sapere

femminile71

; il valore della connessione, intesa come capacità di aprirsi all’altro, all’altra,

all’altro da sé72

e il linguaggio del corpo come espressione della dimensione emozionale del

pensare (ibidem).

Il desiderio di Giovanna Providenti di cercare nelle scrittrici una fonte di sapere per la propria

vita per metterlo anche a disposizione del mondo (delle donne e degli uomini) è lo stesso da

cui presero slancio le riunioni del gruppo della Libreria delle donne di Milano, da maggio

1983 a giugno 1984, di cui ho parlato all’inizio del capitolo, durante le quali furono letti e

discussi testi di scrittrici, «scelti liberamente tra quelle del passato recente, del passato, del

presente…» (Martinengo, 1992, p. 14). A parlare è Marirì Martinengo, una delle donne che

prese parte all’esperienza e che con queste parole la racconta:

Un gruppo di donne che si riunisce per leggere e discutere opere di donne.

Una mediazione sessuata.

Ci siamo mosse scartando la critica letteraria, tentando diversi approcci: entravamo in

rapporto diretto con la vicenda del romanzo, con la protagonista o le altre personagge

femminili, con l’autrice; il filo che si dipanava nel labirinto doveva portarci a vedere “se i

70

La parola mi fa venire in mente un parallelismo che la filosofa Chiara Zamboni ha fatto durante un incontro,

tra il movimento dell’aratro nello smuovere la terra e il movimento del pensiero filosofico: verso il basso, per

radicarsi bene nell’esistenza, e da lì verso l’alto, per aprirla a un di più, in un movimento ricorsivo e continuo.

Credo che il modo di procedere della Providenti nella lettura e analisi dei testi delle scrittrici da lei scelte per la

sua ricerca abbia seguito un movimento simile. L’incontro a cui mi riferisco ha avuto luogo nel maggio del 2010,

nella bilioteca Frinzi dell’Università degli Studi di Verona, in occasione della presentazione del libro di Salvatore

Piromalli, Vuoto e inaugurazione. La condizione umana nel pensiero di Maria Zambrano e Jean-Luc Nancy

(2009). 71

Idea che potrebbe esprimersi anche così: «la madre è la prima maestra», anche perchè l’apprendimento primo

– imparare a parlare e a nominare – lo facciamo in relazione a lei o a chi per essa (Muraro, 2006). 72

Connessione che il corpo femminile esprime nella sua capacità di accogliere il processo di creazione

dell’umano dentro di sé. Ciò che Milagros Rivera ha nominato come «la capacità di essere due, una capacità

che, per caso, ma necessariamente, le è propria» (Rivera, 1996, p. 9, trad. mia), la quale appunto non è soltanto

un dato biologico ma una fonte di senso culturale e politico. A questo proposito, in particolare nell’ambito della

ricerca educativa, si veda Arnaus (2010a, pp. 153-174).

55

loro scritti (i romanzi delle scrittrici in questione), magari in misura ridotta, a sprazzi,

momenti, facessero apparire un simbolico delle donne”73

(ivi, pp. 14-15)

Saperi e parole di donne, sguardi femminili sul mondo, che furono raccolti nello studio

intitolato Le madri di tutte noi (Libreria delle donne di Milano, Biblioteca delle donne di

Parma, 1982), conosciuto familiarmente come Catalogo Giallo, e che le donne del gruppo

furono in grado di riconoscere come propri in virtù della presa di coscienza della propria

differenza (tra loro e le scrittrici e tra loro stesse) e nello stesso tempo dell’esistenza di un

vincolo profondo che unisce ogni donna con il resto e che permette la trasmissione e la

circolazione del sapere femminile, riconducendolo a un’origine comune: la madre. Questo

vincolo profondo è stato nominato «genealogia femminile» (Libreria delle donne di Milano,

1987; Irigaray, 1989; Flecha, 2006).

L’esperienza di Le madri di tutte noi fu, per molte delle donne che vi parteciparono, un

passaggio vitale, in quanto liberò in tante la parola, dando vita ad un pensiero nuovo che

nasceva in relazione, le donne tra di loro e in conversazione costante con le scrittrici, e si

rinforzava man mano che si andava avanti nel pensare, nell’aprire ancor di più. E «si

venivano sempre più precisando convinzioni politiche74

: prima fra tutte quella della forza che

proviene dal riferimento primario alle proprie simili» (Martinengo, 1982, p. 15).

Oggi il desiderio di leggere scrittrici per cercare un arricchimento per pensarsi e pensare il

mondo in cui ci è dato vivere continua vivo e presente in molte donne, per esempio, come

vorrebbe mostrare questa ricerca, in Lluïsa Cunillera, insegnante di lingua e letteratura

catalana in un liceo di Barcelona e nelle sue allieve e allievi del corso “Germanes di

Shakespeare”; in quelle che l’ultimo sabato di ogni mese si riuniscono, ormai da dieci anni,

nella Libreria delle donne di Barcelona; in me stessa.

Anche alcuni uomini hanno iniziato ad intuire il valore che la letteratura scritta da donne può

avere nei processi di formazione femminile (e non solo). Un esempio significativo a questo

proposito nel campo della pedagogia lo troviamo nell’opera a cura di Ermenegildo Guidolin,

Donne. Figure di maturità (1994), in cui lo studioso propone una raccolta di saggi su testi di

scrittrici, filosofe e artiste, che tracciano «un itinerario di pienezza umana che riguarda donne

che, con la loro opera e la loro esistenza, hanno espresso un’integrità e una coerenza di valori

73

La citazione all’interno è del testo introduttivo del Catalogo giallo. Le madri di tutte noi (1982, p. 1). 74

Nel senso di politica del simbolico come già spiegato nel presente capitolo, nella parte dedicata al pensiero

della differenza sessuale.

56

intellettuali, etici, artistici, sociali, religiosi, politici..., tali da confermare una capacità di

dispiegamento soggettivo e culturale che le pone storicamente accanto all’uomo» (ivi, p. 7).

Accanto all’uomo, sono d’accordo, ma in un luogo altro, differente appunto, in un altro ordine

simbolico, che si propone come orizzonte di senso anche per gli uomini.

2.5.3. Mettere in circolo sapere femminile: la «doppia mediazione»

La ricerca pedagogica (AAVV, 1992a; AAVV, 1992b; Cosentino, 2006; Blanco, 2006, 2008)

ha messo in luce come i contenuti, intesi come l’«insieme di saperi o forme culturali» (Coll,

1992, p. 13), che si mettono in circolazione nella scuola siano legati a chi insegna, le e gli

insegnanti, e attraverso le loro aspettative, alle allieve e agli allievi. Sarebbero questi gli

ingredienti principali del curriculo: i contenuti, chi insegna e chi impara (anche se chi insegna

impara e viceversa), a formare una triangolazione di tipo relazionale e circolare. Come scrive

Nieves Blanco:

Nel vocabolario specializzato, parliamo di curriculo per far riferimento al contenuto della

trasmissione culturale, alla selezione della cultura che mettiamo a disposizione delle allieve e

degli allievi. E al modo con cui la presentiamo, concretando il nostro compito mediatore: con

la conoscenza che insegniamo e con le allieve e gli allievi. Non possiamo quindi insegnare

senza un curriculo e senza dei materiali, dato che sono essi a trasformare le nostre idee su ciò

che è adeguato in una proposta concreta, articolata e disponibile per il lavoro in aula (Blanco,

2008, p. 12, trad. mia).

I contenuti quindi non sono una cosa a sé, oggettiva, ma vengono sempre filtrati, selezionati

dall’insegnante, più o meno inconsapevolmente, in base a criteri legati alla propria

collocazione simbolica, cioè, ai significati di cui una donna o un uomo sono portatrici, nati in

relazione alla propria esperienza vitale e che costituiscono la sua visione del mondo. Inoltre, i

saperi vengono ricreati nella relazione didattico-educativa sia da chi insegna sia da chi

apprende perché chi apprende non è una persona passiva ma filtra a sua volta e, se motivata e

accolta, rilancia.

La mediazione dà conto di questo processo dinamico e aperto in cui saperi, insegnanti, allievi

e allieve sono profondamente coinvolti, sia nella selezione dei contenuti da trasmettere e dei

materiali per veicolarli che nel modo in cui lo si fa. Tuttavia l’idea di professionalità

57

predominante nella scuola, «che si presenta con i caratteri della scientificità per essere

inattaccabile e per conquistare attendibilità» (Lelario, 1998, p. 200), spinge molti insegnanti e

alcune insegnanti a chiudersi in un atteggiamento asettico invece di «giocarsi nella scuola

tutto il proprio sapere e le proprie passioni» (ibidem). Assumono come proprie espressioni

quali “io sono fedele al programma” oppure “io sono fedele al testo”, spostando la fedeltà a sé

a qualcosa che è fuori di sé, in virtù di un’oggettività inesistente, come sta mostrando da

alcuni anni a questa parte una ricerca sistematica che, come dice Nieves Blanco, «ci sta

permettendo di sapere cosa contengono i libri scolastici, sia dal punto di vista scientifico che

ideologico o pedagogico» (2008, p. 13, trad. mia). Perciò, continua:

è necessario insistere sul fatto che quando utilizziamo un libro scolastico o un altro

materiale, non stiamo semplicemente insegnando (e imparando) Matematica, Storia, Lingua

o Musica; stiamo insegnando (e imparando) come è il mondo, come è diventato ciò che è,

chi ha contribuito a ciò e in quale modo, cosa è importante e cosa è insignificante… E

insegniamo anche (e impariamo) chi siamo noi, cosa ci si aspetta che facciamo, cosa è

possibile e cosa è appropriato, quali attese è ragionevole avere, chi possiamo prendere come

modello, dove è la nostra genealogia… (ibidem).

La scelta dei contenuti e dei materiali ma anche del modo di presentarli non è quindi neutra

ma appare sempre legata al chi, l’uomo o la donna che sta presente in classe, e a ciò che

accade tra quel o quella chi e le allieve e gli allievi con cui si mette in relazione. Molte

maestre e docenti (e qualche maestro) hanno iniziato a mettere in luce questo vincolo; hanno

deciso di partire dalla valorizzazione della propria differenza e dal sapere femminile

autonomamente prodotto e assumersi il rischio della propria scommessa, esponendosi nel

proprio agire e pensare. Hanno osato portare avanti un proprio progetto educativo nato dal

desiderio e dalla vocazione, nel senso di María Zambrano (1996, p. 10), fatto di invenzioni,

azzardi ma anche di incertezze e vicoli ciechi, che richiedono ripensamenti, nuove strade,

perché il gioco dell’educare, se vissuto a partire da sé e in relazione ad allieve e allievi, è

sempre aperto e imprevidibile. Un educare «vivo di vita» (Lispector, 2004, p. 14, trad. mia),

che nasce dall’esperienza di chi vi è coinvolto e proprio per questo generatore di

trasformazioni.

Questa scelta consapevole e significante, che è una scelta politica in quanto mette in circolo

nuovi sensi sul mondo e sull’educare, Marirì Martinengo l’ha nominata «la doppia

58

mediazione» (1992). Come racconta nell’omonimo testo, pubblicato in L’insegnante, il testo e

l’allieva, la grande ricchezza che Martinengo guadagna dall’esperienza vissuta durante

l’elaborazione di Le madri di tutte noi suscita in lei il desiderio di portarla nella sue classi.

Inizia allora a pensare come farlo: quali testi scegliere, che aspetti rilevare e soprattutto, come

presentarli, da dove.

Sentivo che era il modo di pagare il debito contratto con le madri. Io avevo avuto parola,

dovevo a mia volta dare parola. Il ruolo dell’insegnante è sempre stato questo, ma ora si

trattava di uscire dal neutro e di farsi mediatrici di cultura femminile75

.

Poiché in Libreria, durante il lavoro con le scrittrici, il nostro desiderio e la nostra passione

(…) erano ben presenti, spostandomi sul piano pedagogico e didattico ho pensato che se non

fossi partita dalla differenza che comporta essere corpo di donna, il discorso sulle scrittrici e

sul romanzo, che vogliamo porre a fondamento di una didattica rinnovata, sarebbe rimasto

neutro (Martinengo,1992, p. 16).

La doppia mediazione sta ad indicare l’esistenza di uno stretto vincolo tra i testi e la persona

che li mette in gioco, in quanto scelti a partire da sè; la relazione tra ciò che essi dicono, il

sapere che ne scaturisce, e lo spazio simbolico dove si colloca chi li media. Significa, nel caso

di una donna, portare con sé, nella mediazione del testo, «tutta la cultura della propria

esperienza femminile» (Rich, 1982, 74), in modo da rendere significativa ed incarnata la

mediazione che del testo fa: farsi mediatrici di cultura femminile. E significa anche mettersi

in relazione a partire da sè con gli allievi e le allieve, per creare e ricreare insieme il sapere del

testo, potenziando così le sue possibilità trasformative. Non si tratta, come scrive Antonietta

Lelario, «di introdurre nella scuola la critica femminista o il punto di vista femminile» ma

piuttosto «del darsi la libertà di immettere nella scuola la propria esperienza sessuata per i

significati di cui è portatrice e che producono mutamenti di sguardo» (1998, p. 196).

75

Il corsivo è mio.

59

2.6. Linee metodologiche e strumenti della ricerca

Quando osserviamo queste cose esse possono

diventare una parte di noi. E ci si dimentica di sé.

(Barbara McClintock, raccontando la sua

esperienza di osservazione dei cromosomi del

mais)76

.

Remei Arnaus77

, facendo riferimento al significato che per lei ha avuto la conoscenza del

modo di fare ricerca della biologa Barbara McClintock, scrive:

soprattutto mi ha dato una chiave di senso molto grande, dato che nelle mie viscere ho

percepito una pratica di ricerca assolutamente amorevole e sincera; [McClintock] si sentiva

guidata dal suo desiderio di comprendere il vivente in ciò che è in se stesso, ponendo

attenzione a quello che c’è, percependo ciò che è diverso e sottile, perché come lei stessa

dice: «l’importante è sviluppare la capacità di scoprire un chicco che è diverso e fare che ciò

sia comprensibile, (…) senza quell’attenzione la ricerca ignora ciò che sta accadendo,

trascura la realtà»78

.

Queste parole mi sono servite d’ispirazione per comprendere che il sentire e il riflettere su ciò

che guida la mia ricerca (quale è il mio desiderio) e su come, da dove e verso dove,

nononostante l’orizzonte sia incerto, intendo fare ricerca è una premessa necessaria per

identificare la metodologia adeguata. Premessa che, d’altra parte, non può ovviare la domanda

sul perché. Domandarsi perché si fa ricerca non è, come segnala Nieves Blanco (2010), una

domanda retorica bensì centrale in quanto la ricerca non è mai neutrale ma nasce legata alla

realizzazione di determinati valori (dimensione etica) e non semplicemente alla ricerca di

76

La citazione appartiene alla biografia della biologa premio Nobel scritta da Evelyn Fox Keller (1984, trad.

mia). 77

Questo passaggio forma parte della prima stesura del testo El sentido político de la creación femenina, che

tuttavia non appare nella versione definitiva. L’ho recuperato perché esprime molto bene quello che voglio dire.

Per la versione definitiva si veda Arnaus (2010b, pp. 155-184). La traduzione è mia. 78

La citazione all’interno sono parole di Barbara McClintock, tratte da Evelyn Fox Keller (1984).

60

conoscenza (dimensione intellettuale). Si tratta di una questione di grande importanza che

tuttavia non ha un’unica risposta perché «non è possibile stabilire – una volta per tutte – cosa

è un bene pubblico o come una ricerca può aiutare a migliorare la pratica. Possiamo e

dobbiamo farci le domande rilevanti e cercare le risposte con onestà» (ivi, p. 584, trad. mia).

Aspiro a fare una ricerca che possa essere significativa per me e per i soggetti coinvolti, intesi

come soggetti e non come oggetti della ricerca, il che significa mettere al centro le relazioni e

viverle come un’esperienza di apprendimento e di trasformazione di sé. Una ricerca che mi

permetta di comprendere la realtà di esperienze concrete, ciò che accade al loro interno, a

partire dalla prospettiva delle persone in esse coinvolte e dalla mia propria come ricercatrice.

Una ricerca quindi in cui sia la mia esperienza sia quella delle persone con cui entro in

relazione (insegnanti, maestre, studenti e studentesse) sia presente e significante nel processo

di elaborazione della conoscenza poiché «la conoscenza è qualcosa che si costruisce più che

qualcosa che si scopre» (Eisner, 1998, p. 89, trad. mia). Una conoscenza dunque che nascendo

vicina alle pratiche educative e alle persone che le agiscono possa contribuire a migliorarle.

Per cercare di spiegare meglio il tipo di ricerca che ho scelto di condurre, vorrei fare

riferimento alla distinzione tra ricerca sull’educazione e ricerca educativa proposta da John

Elliot in un testo intitolato Classroom Research: Science or Commonsense? (1978) e

successivamente sviluppata da altri autori, tra cui Nieves Blanco (2010), che seguirò nel mio

ragionamento. Per Elliott, entrambe le modalità di ricerca hanno delle funzioni importanti ma

differenti. Se la ricerca sull’educazione aspira alla generalizzazione e ha come proposito lo

sviluppo di norme e astrazioni o semplicemente l’aumento della conoscenza specializzata, la

ricerca educativa è radicata nel concreto79

e cerca di comprendere pratiche educative o

elementi vicini ad esse che permettano di migliorarle, generando dei cambiamenti.

Miglioramento inteso sia come «perfezionamento delle insegnanti e degli insegnanti, sia come

realizzazione nella pratica di valori considerati educativi, vale a dire, desiderabili come parte

di una vita buona e degna» (Blanco, 2010, p. 576)80

.

La riflessione di Elliott trae spunto dal pensiero di Lawrence Stenhouse (1987), in particolare,

dalla sua concezione dell’insegnamento come ricerca e dalla sua caratterizzazione delle e dei

79

A questo proposito – come suggerisce Nieves Blanco (2010) – sono significative le parole di Frederik Erikson

(2002), il quale parlando della ricerca condotta dagli insegnanti indica che la loro scelta di rimanere vicini alla

pratica, alla loro pratica, non è tanto motivata da un’incapacità di fare delle astrazioni bensì dal fatto che nel loro

lavoro «il concreto ha una dignità e una centralità irriducibile» (2002, p. 10, trad. mia). 80 La traduzione di tutte le citazioni tratte da Blanco (2010) è mia.

61

docenti come ricercatori. Infatti, per Stenhouse «la ricerca è educativa nella misura in cui può

mettersi in relazione con la pratica dell’educazione» (1987, p. 42, trad. mia). E, aggiunge

Nieves Blanco, soltanto può contribuire al suo perfezionamento se «aiuta le insegnanti e gli

insegnanti a sviluppare le loro idee, facilitando la riflessione sul loro insegnamento e i criteri

che lo reggono» (2010, p. 576).

La ricerca educativa, a differenza della ricerca sull’educazione, è sviluppata

prevalententemente da insegnanti che vogliono elaborare e creare cambiamenti educativi di

valore nelle loro classi e in altri ambienti di apprendimento (Elliott, 2005). Tuttavia si

considera educativa anche la ricerca che, nonostante non siano gli insegnanti a condurla

effettivamente, coinvolge insegnanti e studenti come partecipanti attivi del processo di ricerca

(ibidem), lasciandosi orientare da valori educativi e mettendo i risultati al loro servizio. Essere

al servizio di significa, seguendo Stenhouse (1987), che la conoscenza che generano i

ricercatori professionali non deve sovrapporsi al sapere dei docenti ma «deve complementarlo

e arricchirlo» (ivi, p. 69, trad. mia). Essere al servizio di implica dunque, da una parte, che i

ricercatori si pensino come un supporto affinchè i docenti sviluppino al meglio il loro lavoro:

come realizzare valori educativi nella pratica (Blanco, 2010, p. 582); in questo modo, possono

collaborare con i docenti nella ricerca di soluzioni ai problemi che si pongono nella

quotidianità dell’aula. E dall’altra, come segnalano Marilyn Cochran-Smith y Susan Lytle

(2002, p. 31, trad. mia), riconoscere «i ruoli dei docenti nei processi di produzione di

conoscenza pedagogica sull’insegnamento e l’apprendimento nelle aule», il che

rappresenterebbe secondo le autrici «una sfida radicale ai presupposti sulle relazioni tra teoria

e pratica, tra scuola e università, e tra struttura sociale e riforma educativa» (ivi, p. 17).

Cristina Mecenero, in un testo risultato di una ricerca educativa sul sapere delle maestre di

scuola elementare ed intitolato in modo significativo Voci maestre (2004), segnala che non

esiste «il presupposto che dalla pratica quotidiana nella classe possa generarsi un sapere

all’altezza della conoscenza che circola negli ambienti accademici» (ivi, p. 155). Questo

perché, continua Mecenero, «nella nostra cultura il sapere pratico è posto in subordine rispetto

al sapere teorico» (ibidem). La ricerca educativa, nel riconoscere il ruolo dei protagonisti

dell’azione come centrale, fa un taglio nella gerarchizzazione tra la ricerca e la pratica, tra chi

fa ricerca (dall’università) e chi insegna (nelle aule), aprendo uno spazio in cui le relazioni si

giocano all’insegna della collaborazione e dello scambio fertile. Da questo punto di vista, la

ricerca educativa non è soltanto una modalità di ricerca ma una «presa di posizione

epistemologica» (Cochran-Smith, Lytle, 2009, trad. mia) che «ridefinisce sia il senso della

62

ricerca e chi la realizza sia i luoghi più adeguati per svilupparla. Una presa di posizione che

valorizza la conoscenza che si genera in contesti locali, vale a dire, valorizza la conoscenza

che esiste nella pratica docente» (Blanco, 2010, p. 580, trad. mia).

Oltre al ruolo delle persone coinvolte nell’indagine, la ricerca educativa presenta delle

particolarità relative sia ai concetti che utilizza e al tipo di teoria in corso di sviluppo, sia agli

aspetti metodologici. A questo proposito, la ricerca empirica che ho svolto è di tipo

qualitativo e prevalentemente esplorativo. Questa mi è sembrata la scelta più rispondente ai

miei intenti euristici e più adatta all'oggetto di indagine, costituito da casi particolari di

pratiche e di esperienze educative, di azioni umane, con i loro significati da illuminare e da

comprendere, e la cui complessità richiede di essere accostata e approfondita da una

conoscenza attendibile che salvi le caratteristiche distintive dei fenomeni, senza forzature

(generalizzazioni improprie, ad es.) o soluzioni riduttive (ricorso alla logica esplicativa causa-

effetto, ecc.). Perciò non cerco di verificare ipotesi preconcette, ma di interrogare la realtà e

capire il significato dei processi in atto, tenendo conto degli scenari e di ciò che fanno,

sentono e pensano le persone che agiscono in essi (inclusa me come persona che indaga).

Inoltre, la ricerca qualitativa contiene una dimensione creativa ed immaginativa in quanto chi

fa ricerca «deve creare i propri metodi. È un artefice» (Arnaus, 1996, p. 25, trad. mia) : quindi

gli strumenti e i metodi che sceglie sono messi al servizio delle ricerca, dato che è la ricerca

quella che indica il cammino da seguire81

. In questo senso, la ricerca si presenta come uno

spazio sperimentale di apprendimento, che richiede una «forma di stare artigianale»

(Caramés, 2010, p. 205, trad. mia), attenta a ciò che succede, impegnata in ciò che succede.

Uno stare che ha cura delle persone, delle cose e dei luoghi con i quali ci si mette in relazione

nel percorso di ricerca.

Ho deciso quindi di condurre una ricerca qualitativa per le sue caratteristiche82

e per la

possibilità che essa offre di raccontare in profondità le esperienze che ho indagato e anche la

mia esperienza di ricercatrice in relazione ad esse, rimanendo vicino al loro senso. Mi sono

fatta orientare dunque da un modo di fare ricerca che non indaga su oggetti ma con/tra

81 Sono significative a questo proposito le parole di Marco Deriu sulla natura della ricerca scientifica, la quale

«ha a che fare non solo col rigore ma anche con il caos, la fantasia e l’immaginazione. Non è o o ma e e. Ordine

e caos. Rigore e immaginazione. (…) Per questo è importante avere un metodo di ricerca non monolitico, un

pensiero non troppo fissato su un’unica cosa, non rigidamente disciplinare» (Deriu, 2004, p. 5). 82 Ad esempio, carattere induttivo, conoscenza situata, coinvolgimento della persona che indaga nella ricerca,

creatività e flessibilità nell’uso di metodi e strumenti. Circa questo aspetto, v. Arnaus (1996, p. 23-25) e Mortari

(2004, 2008, 2010).

63

soggetti, che partecipano in modo attivo nella co-costruzione di una trama comune i cui

significati si cercano di interpretare in relazione: alle persone, ai contesti, agli eventi. Compito

interpretativo che non si esaurisce nel racconto approfondito dei fenomeni educativi ma che

va oltre, «per cogliere delle possibilità di trasformazione» (Bove, 2009, p. 52) utili alle/ai

partecipanti nei loro contesti.

L’avvicinamento alle tre realtà di studio è avvenuta attraverso la combinazione di diverse

tecniche d’indagine come l’osservazione, l’intervista in profondità e l’analisi della

documentazione. Inoltre, lungo il percorso ho composto differenti materiali a sostegno del

processo di ricerca: taccuini in cui registravo le note di campo; registrazioni delle interviste,

delle sedute di osservazione e degli incontri con le mie tutor; fotografie, e un diario di ricerca.

Il diario di ricerca è stato particolarmente significativo in quanto mi ha permesso di

raccogliere delle riflessioni, centrali per poter elaborare l’intero percorso della ricerca e darne

conto. Dato che il punto di arrivo a cui ci conduce (provvisoriamente) la ricerca «non nasce

dal nulla ma da un lavoro quotidiano, nasce in un modo di stare, di un fare» (Caramés, 2010,

p. 205, trad. mia) è necessario esplicitare non solo il punto di partenza ma anche i passaggi

intermedi: i processi di pensiero, i collegamenti, le decisioni e i loro perché, gli incontri, le

parole significative, i cambiamenti fatti strada facendo, in modo che la persona che legge

possa ripercorrere la strada e verificarne la sua validità83

. Questo è necessario per garantire

rigore a un ricerca qualitativa.

Poiché le cose non nascono dal nulla, nel diario di ricerca ho trovato uno spazio molto utile

per poter elaborare le esperienze vissute sul campo, mettendole in relazione con le altre

dimensioni della ricerca e della mia propria vita. In questo senso, credo che il diario ci dia la

possibilità all’interno della ricerca di «restituire il pensiero assieme al flusso che lo circonda,

lo anima, lo muove, lo incarna» (Rampello, 2005, p. 30). Questo è stato l’intento di Virginia

Woolf quando scriveva i suoi diari, la sua grande impresa: mantenere il pensiero vicino alla

vita. E qui sento che c’è un indizio sul valore che può avere il diario e il racconto del percorso

della ricerca, intesi quindi non tanto come una registrazione di fatti ma come una trama di

83 Per stabilire la validità di un racconto è quindi centrale la persona che ascolta. A questo proposito mi vengono

in mente le parole di Luisa Muraro, che in un articolo intitolato Possiamo dire la verità, pubblicato il 21.03.2006

ne Il Manifesto, dice: «la verità come ciò che può avvenire, avere luogo, nella parola scambiata con altri,

sapendo, bisogna aggiungere, che il suo luogo preferito non è dalla parte di chi dice ma da quella di chi ascolta.

Questo privilegiamento dell’ascolto, nella generazione della verità, era un’antica dottrina mistica e si ritrova in

Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé, dove dice parole che faccio mie: io vi racconterò quello che ho pensato,

come l’ho pensato, e voi, se c’è del vero, lo riconoscerete». Si veda articolo completo in:

http://www.nazioneindiana.com/2006/03/28/la-verita-in-democrazia/

64

significati, di movimenti del pensiero legati all'esperienza viva, in cui radicano il loro senso,

la loro cifra di verità.

2.6.1. La fase di campo a Barcelona

Di seguito entrerò nel merito delle attività in cui si è articolato il percorso di indagine,

descrivendo modalità, motivazioni e andamenti attraverso i quali si sono sviluppate. Per

averne un quadro di insieme, le riporto schematicamente nella seguente tabella (Tabella A)

specificandone il luogo, la tipologia e il contenuto.

Tabella A

CONTESTO PERIODO OSSERVAZIONE INTERVISTE

Germanes de

Shakespeare

Ottobre 2009 - Colloquio di Lluïsa

con una sua studentessa.

- Classe “Germanes de

Shakespeare” (4)84

.

- Classe letteratura

gruppo A.

- Classe letteratura

gruppo B.

- Intervista a Lluïsa (4)85

.

- Intervista di gruppo alle

studentesse e allo studente

di “Germanes de

Shakespeare”.

Aprile - Maggio

2010

- Classe “Germanes de

Shakespeare” (5).

- Classe letteratura

gruppo A (3).

- Intervista a Lluïsa (4).

- Intervista di gruppo alle

studentesse e allo studente

di “Germanes de

Shakespeare”.

- Intervista a collega del

dipartimento di Lluïsa.

- Intervista a insegnante del

centro.

Febbraio - Marzo

2011

- Intervista a Lluïsa.

Mirades de dones Maggio 2010 - Sessione di laboratorio. - Intervista a Nora Almada

(coordinatrice del

laboratorio).

- Intervista a Yolanda

(partecipante).

- Intervista a Eva

(partecipante).

84 Tra parentesi vengono indicate il numero delle volte in cui l’osservazione si è ripetuta. 85 Tra parentesi vengono indicate il numero di interviste realizzate. Si tenga conto, che nel caso di Lluïsa

Cunillera, dato che era molto impegnata, le interviste si svolgevano nel liceo, tra una classe e l’altra oppure

nell’ora di pranzo. Da lì la necessità di fare più incontri.

65

Novembre 2010 - Sessione di laboratorio. - Intervista a Paz

(partecipante).

Febbraio 2011 - Sessione di laboratorio. -Intervista a Nora Almada

(coordinatrice del

laboratorio).

- Intervista a Pepita

(partecipante).

- Intervista a Carmen

(partecipante).

Tertùlia Aprile - Maggio

2010

- Sessione della Tertùlia. - Intervista a Luisa Fortes

(coordinatrice della tertúlia).

- Intervista a Pilar

(partecipante).

- Intervista a Rosanna

(partecipante).

Novembre 2010 - Sessione della Tertùlia. - Intervista a Xus

(partecipante).

- Intervista a Mónica

(partecipante).

- Intervista a Carmen

(partecipante).

- Intervista a Carol

(partecipante).

Febbraio - Marzo

2011

- Sessione della Tertùlia. - Intervista a Núria e

Àngels, fondatrice della

libreria Próleg, in cui si

svolgono il laboratorio

“Mirades de dones” e la

“Tertùlia”.

Delineando il campo di indagine

Il 6 febbraio 2009 si è tenuto all’Università di Verona il seminario Come abitare l’Università.

Donne e uomini nell’università del presente, al quale la prof.ssa Anna Maria Piussi mi ha

invitato ad assistere. Il seminario era il secondo di tre incontri itineranti realizzati all’interno

del progetto internazionale di ricerca dal titolo Ser universitarias, hacer universidad en el

presente [Essere universitarie, fare università nel presente], che coinvolgeva cinque

università europee: Universitat di Barcelona (coord.), Universitat di Girona, Universidad di

Málaga, Universidad de Zaragoza e Università di Verona. Da questo progetto di ricerca è nato

66

il libro di recente pubblicazione in Italia, L’università fertile. Una scommessa politica (2011),

a cura di Anna Maria Piussi e Remei Arnaus86

.

Oltre alla possibilità di riflettere su alcune questioni centrali oggi per l’università (per

esempio, quali sono i criteri per legittimare la scientificità di un testo; quale linguaggio è

ritenuto scientifico; è possibile un altro modo di fare scienza), il seminario è stato anche un

luogo di incontri. Ho avuto il piacere di conoscere personalmente alcune prof.sse spagnole, in

particolare, Remei Arnaus i Morral, Asunción López Carretero, María-Milagros Rivera

Garretas (la cui conoscenza è stata per me molto significativa87

), Assumpta Bassas e Nieves

Blanco García, con le quali ho condiviso il mio progetto di ricerca e dalle quali, in modo

diretto o indiretto, ho ricevuto osservazioni e suggerimenti preziosi per il mio lavoro. Uno di

questi è venuto da parte di Nieves Blanco García. Mentre eravamo a pranzo, e dopo averle

spiegato l’oggetto e gli intenti della mia ricerca, Nieves mi ha accennato al progetto di

un’insegnante di letteratura, che aveva trasformato il curriculum di un corso facoltativo di

letteratura catalana del XX secolo, proponendo unicamente testi di scrittrici, quelle per lei più

significative: le “Germanes de Shakespeare” [“Sorelle di Shakespeare”]88

.

Subito dopo il seminario ho contattato Lluïsa Cunillera, la sua autrice, per raccontarle la

ricerca che stavo svolgendo e manifestarle il mio interesse per la sua esperienza. Poiché il

lavoro che aveva svolto comprendeva più di quattrocento pagine, Lluïsa mi ha spedito una

memoria riassuntiva perché avessi una visione generale di quanto aveva fatto. Dopo aver letto

la memoria, ho chiesto a Lluïsa di spedirmi tutta la programmazione, articolata in nove unità

didattiche, composte a loro volta da testi e attività. Posteriormente le ho accennato alla

possibilità di includere l’esperienza di “Germanes” nella mia ricerca; questo significava poter

condurre osservazione nelle sue lezioni ed intervistare lei e le sue allieve e allievi. Lluïsa ha

accettato. Nei mesi successivi ho negoziato con Lluïsa l’accesso al campo e insieme alla mia

tutor, la prof. Anna Maria Piussi, ho delineato e preparato la prima fase di indagine.

86

Il libro prende le mosse anche da un secondo progetto di ricerca intitolato Il desig femení a la universitat [Il

desiderio femminile all’università] coordinato da Remei Arnaus. 87

Durante la stesura del progetto di ricerca (nel 2008), dietro suggerimento di Anna M. Piussi, ho letto il suo

libro Nombrar el mundo en femenino (2003), che mi ha aperto una finestra su nuovi paesaggi: saperi di donne

lungo la storia, che non conoscevo e che hanno aumentato il mio desiderio di ricerca. Dopo ne sono arrivati altri:

Mujeres en relación. Feminismo 1970 – 2000 (2001), La diferencia sexual en la historia (2005), ecc. 88

Si veda il testo di Nieves Blanco, Los saberes de las mujeres y la transmisión cultural en los materiales

curriculares [I saperi delle donne e la trasmissione culturale nei materiali curricolari], (2008, pp. 11-22) in cui

presenta la proposta educativa di Maria Lluïsa Cunillera.

67

Primo soggiorno di ricerca

Dal 10 ottobre al 21 ottobre 2009 ho svolto un periodo di formazione e ricerca della durata di

dieci giorni a Barcelona (Spagna). Prima di partire ho concordato con la mia tutor le finalità

del viaggio che sinteticamente riporto di seguito:

condurre osservazione nelle lezioni della Prof.ssa Lluisa Cunillera presso il IES

(Institut d’Ensenyamente Secondari) Antoni Cumella di Granollers (Barcelona), ed

intervistare l’insegnante e gli studenti e studentesse presenti nel corso;

avviare contatti personali con l’Università di Barcelona per formalizzare l’accordo di

co-tutela tra la suddetta Università e l’Università degli Sudi di Verona;

discutere con la mia co-tutor, la prof.ssa Remei Arnaus i Morral, su lo stato della

ricerca e i sui futuri sviluppi;

partecipare al X Incontro di Sofías, relaciones de autoridad en la educación: ¿Qué

ocurre con el cuerpo femenino en el presente? Paradojas de la libertad femenina, a

Zaragoza, dal 16 al 17 ottobre de 2009;

avviare contatti personali con Ana Mañeru, direttrice dell’Instituto de la Mujer

(Madrid) e presente nell’Incontro di Sofías, per raccogliere informazioni su progetti,

ricerche ed iniziative relazionate col tema della mia ricerca;

valutare alcuni ambiti di interesse per ipotizzare un percorso di ricerca sul campo da

svolgere nell’anno accademico 2010.

Tra il 13 e il 20 di ottobre ho fatto osservazione nell’Instituto Antoni Cumella di Granollers

(Barcelona), sia nelle lezioni della materia oggetto della mia ricerca, “Literatura catalana del

segle XX” (corso facoltativo conosciuto in modo familiare dalle colleghe di Lluïsa e dai suoi

allevi e allieve come “Germanes di Shakespeare”) sia nel corso obbligatorio “Literatura

catalana”. Il motivo per cui ho deciso di condurre osservazioni in entrambi i contesti è stato

verificare se e in quale modo il sapere e le pratiche maturate da Lluïsa insieme alla classe nel

corso facoltativo avessero delle ricadute nel corso obbligatorio, contesto questo molto più

complesso, sia dal punto di vista del numero di allieve e allievi, sia dal punto di vista del

curriculum (molto più rigido, trattandosi di un corso obbligatorio). Mi interessava capire se

l’esperienza di “Germanes di Shakespeare”, concepita come uno spazio di libertà, avesse

degli effetti trasformativi non soltanto sulle ragazze e i ragazzi del corso ma anche sulla stessa

68

Lluïsa e sulla sua pratica professionale nonchè su un contesto diverso, quello di un corso

obbligatorio.

Nonostante avessi già negoziato con Lluïsa i termini della mia ricerca sul campo, il primo

giorno ci siamo trovate un’ora prima della lezione a cui avrei assistito per la prima volta, per

confermare quanto ci eravamo dette tramite posta elettronica. Avrei condotto l’osservazione

con l’aiuto di carta e penna e, inoltre, avrei registrato quanto sarebbe successo nelle lezioni,

previo consenso della classe. Lluïsa si è mostrata d’accordo e posteriormente anche i ragazze

e le ragazze, ai quali ho inoltre spiegato il motivo della mia presenza nell’aula quel giorno e i

successivi.

Prima di partire per Barcelona, insieme alla mia tutor, ho elaborato una serie di domande

guida per orientare l’osservazione:

chi fa parte della classe? Quali sono le caratteristiche che sembrano più rilevanti?

qual è il comportamento dei soggetti coinvolti?

che tipo di relazioni esistono tra di loro? Che tipo di relazione hanno con sé stessi?

chi propone i contenuti? vengono negoziati o modificati in itinere?

Nonostante queste domande mi siano state molto utili, durante l’osservazione alcune delle

sensazioni che sperimentavo non rientravano nella traccia che avevo preparato: sensazioni

relative all’ambiente della classe, alla disposizione delle persone e degli oggetti, alle reazioni

a situazioni impreviste, ecc. Allora mi sono permessa di sentire ciò che accadeva e di

registrare le cose che mi sembravano più significative. Altre volte però non sapevo che cosa

guardare o che cosa ascoltare. Posteriormente ho riflettuto su quanto accaduto e la prima cosa

emersa è stato il bisogno da una parte, di lasciare libera l’osservazione senza delimitarla

previamente e dall’altra, di elaborare delle domande più dettagliate che potessero orientare il

mio sguardo, in modo da riconoscere ciò che di significativo potevo aver trascurato. In questo

senso, e per quanto riguarda la metodologia della ricerca in generale, mi ha aiutato molto la

lettura del libro di Remei Arnaus, Complicitat i interpretació. El relat d’una etnografia

educativa [Complicità e interpretazione. Il racconto di un’etnografia educativa] (1996), in

particolare la parte dedicata all’accesso al campo.

Parallelamente all’osservazione ho intervistato Lluïsa in quattro momenti diversi e realizzato

un’intervista di gruppo ai ragazzi e alle ragazze del corso “Germanes di Shakespeare”.

69

L’esperienza di ricerca sul campo è stata molto ricca sotto diversi punti di vista: personale, da

un lato, perché mi ha permesso di entrare a contatto con delle realtà a me care (il mondo della

scuola e l’insegnamento della letteratura); scientifico, dall’altro, poiché ha fatto emergere

alcune importanti questioni, tra cui ad esempio, la necessità di approfondire il contesto in cui

si svolgevano le lezioni di Lluïsa, coinvolgendo altri soggetti (il direttore del centro e qualche

collega di Lluïsa), per comprendere meglio ciò che accadeva all’interno del corso a partire

dalla percezione esterna di persone non direttamente coinvolte.

Per quanto riguarda le altre due realtà oggetto di indagine, la prof.ssa Remei Arnaus – che è

diventata la mia “co-tutor” dopo la formalizzazione dell’accordo di co-tutela tra la

Universidad de Barcelona e l’Università degli Sudi di Verona – mi ha accennato all’esistenza

di un laboratorio di lettura critica e scrittura creativa che ogni mese si svolgeva nella libreria

Pròleg, la libreria delle donne di Barcelona. Il nome del laboratorio era ed è tuttora “Mirades

de dones”. Seguendo il suo suggerimento, mi sono messa in contatto con Nora Almada,

coordinatrice del laboratorio. Dopo una breve conversazione in cui le ho spiegato l’oggetto

della mia ricerca e l’interesse che avevo per il suo laboratorio, siamo rimaste d’accordo che

nel mio prossimo viaggio sarei andata a presenziare ad una sessione. Da quel momento ho

mantenuto una comunicazione saltuaria con Nora, nel corso della quale le ho raccontato con

più dettaglio gli obiettivi della ricerca nonché le implicazioni che per lei avrebbe avuto

includere il laboratorio nell’indagine – possibilità di fare osservazione e di intervistare lei e le

partecipanti – e abbiamo concordato la data in cui sarei venuta al laboratorio. In una delle sue

mail, Nora ha accennato ad una Tertùlia (incontro letterario) che si svolgeva a Pròleg, sempre

l’ultimo sabato del mese e che, secondo lei, mi sarebbe molto interessata. Si è offerta a fare da

mediatrice con Luisa Fortes, la coordinatrice della Tertùlia, con cui, qualche settimana dopo,

mi sono messa direttamente in contatto.

Successivamente, dopo il rientro in Italia, ho organizzato ed elaborato le informazioni raccolte

nel contesto “Germanes di Shakespeare”, con l’obbiettivo di ottenere dei dati significativi che

mi aiutassero a preparare meglio le tappe successive del lavoro sul campo, che ho articolato in

altri due momenti: a metà del corso (febbraio) e alla fine (maggio). In questo modo potevo

riuscire ad avere una visione complessiva dell’evoluzione del corso.

70

Secondo e terzo

Il secondo e terzo soggiorno a Barcelona (dal 16 aprile al 11 maggio 2010 e novembre 2010,

rispettivamente) sono stati caratterizzati da un’intensa attività di ricerca sul campo. I mesi

precedenti alla partenza sono stati molto importanti per organizzare il lavoro che avrei voluto

e dovuto svolgere durante le tre settimane di permanenza. Le prime esperienze fatte durante la

prima fase mi avevano aiutato a rendermi conto di quanto fosse importante preparare il

momento che precede l’incontro con le persone con cui avrei fatto ricerca. Questo significava

che dovevo curare i processi e accompagnarli prima, durante e anche dopo la mia presenza sul

campo, perché sentivo che esisteva un continuum che, sebbene andasse delimitato per

necessità di studio, era lì come un flusso e quindi andava accolto: se volevo che la ricerca

rimanesse vicino alla realtà, alla vita mentre si svolgeva, bisognava che non perdesse quel

filo.

Per quanto riguarda “Germanes di Shakespeare”, tra il 26 di aprile e il 7 di maggio 2010 ho

continuato con le osservazioni delle lezioni della prof.ssa Lluïsa Cunillera presso il IES

(Institut d’Ensenyament Secondari) [Istituto di Insegnamento Superiore] Antoni Cumella di

Granollers (Barcelona). Oltre alle sessioni di osservazione, ho intervistato Lluïsa in quattro

momenti diversi, due delle sue colleghe (una dello stesso dipartimento e un’altra dello stesso

centro, insieme alla quale Lluïsa ha lavorato in progetti di coeducazione) e ho realizzato

un’intervista di gruppo ai ragazzi e alle ragazze del corso “Germanes di Shakespeare”. Inoltre

ho raccolto alcuni materiali riguardanti il corso: diario di classe di Lluïsa relativo all’anno

2009/2010, testi prodotti dagli studenti e studentesse (testi di creazione, diario di classe), unità

didattiche realizzate (sia dalla classe che da Lluïsa), autovalutazioni della classe, documenti

ufficiali (obiettivi del centro, obiettivi del dipartimento, ecc.).

Anche nel caso dei due nuovi contesti che volevo esplorare, il laboratorio di scrittura e la

Tertùlia letteraria, il lavoro di preparazione precedente all’incontro è stato molto importante.

Appena arrivata a Barcelona, il 24 aprile, ho registrato e condotto osservazioni in una

sessione, sia della tertúlia sia del laboratorio. Nei giorni successivi ho realizzato alcune

interviste, sei in totale, tra cui una alle coordinatrici di entrambi gli spazi, Luisa e Nora,

rispettivamente. Le osservazioni e le prime interviste mi sono servite per capire se queste

esperienze potevano essere o meno di interesse per la mia ricerca.

A fine maggio ho ricevuto da parte della prof.ssa Nieves Blanco l’invito a partecipare con una

relazione al Convegno Internazionale Reinventar la profesión docente, organizzato dalla

71

Facoltà di Scienze dell’Educazione della Universidad de Málaga, di cui lei forma parte. Ho

colto l’occasione come una seconda possibilità di raccogliere e comunicare quanto avevo

registrato, scritto, letto e pensato nei mesi precedenti (inclusa la seconda fase di ricerca sul

campo, tra aprile-maggio 2010), con la libertà aggiunta di poter sviluppare alcuni aspetti che

nel progetto per la richiesta della co-tutela presentato all’Università di Barcelona avevo potuto

soltanto accennare. Il risultato è stato un testo dal titolo «Dalla sua finestra alla mia»: la

letteratura femminile come fonte di sapere pedagogico, che ho presentato l’8 novembre a

Málaga, nel citato convegno. L’oggetto centrale della relazione è stata la riflessione sul

significato che per il processo di crescita di una donna può avere la lettura di testi letterari

scritti da altre donne, partendo dalla mia esperienza e con la mediazione di altre autrici

(comprese quelle che stavano partecipando alla ricerca). Ho intrecciato ciò che era emerso nel

lavoro sul campo fino a quel momento con l’elaborazione teorica svolta da me, a partire dai

testi letterari che avevo scelto e le letture che man mano avevo realizzato. A questo proposito,

una delle parti della relazione l’ho dedicata all’analisi di tre dei fili tematici che sono emersi

dalla lettura di alcune opere di Carmen Martín Gaite (1987, 1992) e Virginia Woolf (2003,

2009), e che ho nominato come segue: le relazioni tra donne, il desiderio di libertà e il

linguaggio come esperienza della realtà.

A novembre del 2010 sono tornata in Spagna per partecipare al Convegno Internazionale

Reinventar la profesión docente e successivamente per realizzare un secondo soggiorno di tre

settimane di formazione e ricerca a Barcelona. Il convegno ha avuto un grande significato per

me e per l’avanzamento della ricerca perché per la prima volta ho presentato una

comunicazione e perché la socializzazione del mio lavoro mi ha permesso di capire se ciò che

cercavo di trasmettere veniva compreso e se poteva avere un senso per le persone che erano

presenti. A questo proposito, è stato molto importante il contributo di Lluïsa Cunillera,

l’insegnante di “Germanes di Shakespeare” anche lei presente al Convegno, in quanto mi ha

restituito il punto di vista di uno dei soggetti coinvolti nella ricerca.

Dopo l’esperienza di Malaga, ho svolto a Barcelona un ulteriore soggiorno di ricerca e

formazione tra il 10 e il 27 novembre del 2010. Ho condotto diverse osservazioni nel

laboratorio di scrittura creativa e lettura critica, “Mirades de dones”, e nella tertúlia letteraria

di Luisa Fortes. Inoltre ho intervistato cinque delle partecipanti, di cui una del laboratorio e

quattro della tertúlia. Infine, come parte delle attività vincolate all’accordo di cotutela, ho

frequentato i corsi “Experiencia educativa y saber didáctico” [“Esperienza educativa e sapere

didattico”] e “Intervenciones sociales y educativas” [“Interventi sociali ed educativi”]

72

entrambi all’interno dei master organizzati dal DOE [Dipartimento Orientamento Educativo]

dell’Università di Barcelona, Máster en investigación en didáctica, formación y evaluación

educativa [Master in ricerca in didattica, formazione e valutazione educativa] e Desarrollo

humano, sociedad actual y políticas sociales [Sviluppo umano, società attuale e politiche

sociali]. Il corso “Experiencia educativa y saber didáctico” mi è stato particolarmente utile

perchè insieme al prof. José Contreras, abbiamo condiviso gli intenti dei nostri progetti di

ricerca e riflettuto attorno a questioni, a mio avviso centrali, quali: come pensiamo la ricerca?

Cosa significa pensarsi nella ricerca? Cosa pretendiamo con la ricerca educativa? Perché

vogliamo farla? Quale il nostro desiderio? Durante una delle sessioni, il prof. Contreras ci ha

fatto vedere un documentario intitolato Children full of life89

, che racconta la pratica educativa

di un maestro, Toshiro Kanamori, in una scuola di primaria di Kanazawa (Tokio). Il

documentario, che ha ricevuto diversi premi, accompagna il maestro durante un intero anno

scolastico e ci mostra il modo in cui approccia la relazione educativa con bambine e bambini.

Ciò che mi ha profondamente colpito è che per il maestro Kanamori la cosa più importante da

imparare è ad «essere felici». Felicità che non è una parola da dimenticare perché troppo

vaga o ingenua bensì, come dice Luisa Muraro, «è un bisogno ed è sbagliato rinunciarvi»

(2011, p. 36). Il maestro mette al centro del suo insegnamento questo bisogno, ponendo in

relazione il processo di insegnamento-apprendimento con i desideri di bambini e bambine e

con le loro differenze. Dopo la visione del documentario e la discussione in classe, il prof.

Contreras ci ha proposto di pensare la seguente domanda: quale relazione c’è tra

apprendimento, desiderio e senso? Che nel percorso dell’indagine in cui come ricercatori e

ricercatrici ci trovavamo coinvolti abbiamo riformulato come: quale relazione c’è tra ricerca

educativa, desiderio e senso? «Credo che questa domanda, più che le sue possibili risposte, se

le diamo spazio nel nostro percorso, se la manteniamo viva e aperta, presente; se permettiamo

che ci accompagni, possa aiutarci a orientare lo sguardo e a definire dove vogliamo collocarci

quando facciamo ricerca» (DR, 17.11.2010).

89 La versione che abbiamo visto era in catalano con sottotitoli in castigliano, si trova in Youtube:

http://www.youtube.com/watch?v=Wj2c5O4jom4 Nello stesso sito esiste una versione in inglese:

http://www.youtube.com/watch?v=armP8TfS9Is

73

Quarto e quinto

Nel 2011 ho svolto due soggiorni di ricerca e formazione a Barcelona. Il primo soggiorno si è

svolto dal 13 febbraio fino al 6 marzo.

Per quanto riguarda i contesti legati alla libreria delle donne di Barcelona, dal 13 febbraio fino

al 6 marzo, ho svolto diverse osservazioni nel laboratorio di lettura critica e scrittura creativa

“Mirades de dones” e nella “Tertúlia” letteraria di Luisa Fortes. Inoltre ho intervistato due

delle partecipanti al laboratorio e la sua coordinatrice, Nora Almada. Nora l'avevo già

intervistata a maggio del 2010. Dopo la lettura di quell’intervista, ho sentito la necessità di

approfondire con lei un aspetto che riguardava la sua pratica e che ho formulato così: «Cosa

orienta il tuo stare nel laboratorio? Cosa ti permette di capire o di sentire che stai accogliendo

il desiderio delle donne che frequentano il laboratorio?». Inoltre, ho condotto un’intervista

alle proprietarie della libreria delle donne di Barcelona (Pròleg), in cui si svolgono entrambe

le attività. Ho capito che per avere una comprensione più chiara del senso del laboratorio e

della Tertùlia, l’energia che li muove e le motivazioni per cui tante donne vi partecipano,

dovevo soffermarmi sullo spazio che li accoglie.

La stessa necessità di andare più in profondità, in questo caso su aspetti relativi alla

valutazione, mi ha portato a fare un’ultima intervista a Lluisa Cunillera, l’insegnante di

letteratura di “Germanes di Shakespeare”. Così, nonostante l’anno scolastico (2009-2010) in

cui avevo fatto ricerca fosse finito, abbiamo fatto un incontro conclusivo del percorso, che

oltre a informazioni preziose, mi ha dato spunti di riflessione circa il modo di stare nelle

interviste. Dopo questa seconda fase di ricerca sul campo, ho revisionato il materiale raccolto

e, dato che mi è sembrato abbastanza ricco e significativo, ho deciso di concludere l’indagine,

lasciando tuttavia aperta la possibilità ad eventuali approfondimenti.

Per quanto riguarda l’attività formativa, come parte delle attività vincolate all’accordo di

cotutela ho partecipato al corso “El sentit de la recerca biogràfico- narrativa” [“Il senso della

ricerca biografico narrativa”] all’interno del Máster en investigación en didáctica, formación

y evaluación educativa [Master in ricerca in didattica, formazione e valutazione educativa],

organizzato dal DOE dell’Universidad de Barcelona, di cui avevo già frequentato un corso

l’anno precedente (“Experiencia educativa y saber didáctico”). La maggior parte delle

studentesse e degli studenti che frequentava il corso – anche se lo definirei piuttosto un

laboratorio – era in quel momento alle prese con l’elaborazione del progetto di ricerca. Quindi

la prima parte del corso è stata dedicata al racconto, da parte delle partecipanti, dell’origine

74

della propria ricerca e delle motivazioni per cui avevano deciso di farla90

. Dato che io mi

trovavo in uno stadio più avanzato del processo ed ero in qualche modo un’invitata, nel senso

che non condividevo con loro il percorso formativo del master, ho deciso di non partecipare a

questo momento introduttivo, anche se avrei avuto la libertà di intervenire nelle discussioni

successive. Durante il corso ho potuto percepire come i diversi racconti abbiano aperto uno

spazio di scambio, prima di esperienze personali e successivamente di riflessioni sugli effetti

trasformativi che il racconto della propria esperienza e l’ascolto di quella di altre stavano

avendo nella loro ricerca: sia sul modo di concepire il proprio progetto, sia sulla loro

collocazione nei confronti della ricerca stessa. Questo mi ha aiutato a capire quanto fosse

necessario anche per me fare quel viaggio di ritorno, ripensare i passi e, soprattutto, elaborarli

attraverso la scrittura, perché, come dice Remei Arnaus, «le cose non nascono dal nulla»91

.

Cosí, una volta rientrata a Verona, finita l’indagine sul campo, ho deciso di “iniziare”92

a

scrivere la tesi proprio da lí, dall’inizio. Inoltre l’esperienza del corso mi ha fatto pensare a

quanto sia importante in un percorso di formazione di dottorandi dedicare del tempo proprio

agli inizii, al senso, alle motivazioni per cui ci mettiamo alla ricerca, in ricerca. Esplorarli

partendo da sé e quindi rischiando, mettendosi in prima persona in ció che si dice, che è

quello che è accaduto nel seminario – da lí i momenti di intensa emozione, di silenzio, di

dubbio – credo sia qualcosa di essenziale in un processo formativo con queste caratteristiche e

anche molto chiarificatorio per il proseguimento dell’indagine. Infine, il corso mi ha dato la

possibilità di venire a conoscenza di alcune ricerche narrative, tra cui quella di Marta Caramés

(2008), che mi hanno aperto una nuova via di lavoro in relazione alla narrativa. Credo che lo

scrivere attento di ció che si fa e succede all’interno della ricerca, tenendo conto di chi parla,

del suo contesto e anche del contesto della conversazione trovi dei collegamenti con una

metodologia e uno scrivere che ha molto a che vedere con la narrazione e l’approccio

narrativo. Se consideriamo l’educazione in quanto esperienza e la ricerca educativa come

indagine di quell’esperienza (Contreras, Pérez de Lara, 2010, p. 22), penso sia importante

trovare dei modi di raccontare, che ci permettano di rimanere vicino al senso dell’esperienze

che stiamo indagando e anche alla nostra esperienza di ricercatori in relazione ad esse. Nel

90

Uso il femminile perchè la classe era composta predominantemente da donne (se non ricordo male, 8 donne e

2 uomini). 91

Questo lo collego all’importanza di rendere significante l’origine, tra cui quella della propria vita. 92

“Iniziare” perché in un certo senso la scrittura era già iniziata con la stesura del progetto di ricerca. Credo che

il testo della ricerca si componga in diversi luoghi. Forse l’inizio della scrittura si puó collegare con il momento

in cui si decide di mettere ordine, di rielaborare le scritture precedenti, alle luce delle nuove esperienze, vissuti,

ecc., e certamente, con la creazione di qualcosa di nuovo.

75

lavoro di Marta Caramés, in cui ho percepito questo desiderio di «toccare l’esperienza»

(2008, p. 18)93

, ho trovato una fonte di ispirazione, che succesivamente ho approfondito con

la lettura di alcuni testi, tra cui, D. Jean Clandinin e F. Michael Connelly (2000)94

.

Vorrei sottolineare come, in quest’ultima fase di ricerca sul campo, mi sia sentita molto più

sicura, sia nelle sessioni di osservazione sia, sopratutto, durante le interviste. Scrivo nel diario

della ricerca, in data 25 febbraio, dopo l’intervista alle proprietarie della libreria Pròleg:

Sono più presente nelle interviste, mi sento più libera per intervenire, per conversare. Non è

un forzare perché qualcosa venga fuori ma creare qualcosa insieme; trovare un punto di

incontro. Esserci senza dimenticare perché sono qui.

E più avanti: «Sono con più presenza (…), di più in ció che c’é». Essere «in ció che c’è» è

un’espressione che si ripete spesso nel diario e che intendo come un’invito a stare nelle cose,

alle parole, alla persone, alla situazioni, che si potrebbe collegare con ció che María

Zambrano (1989) suggerisce a coloro che vanno in cerca di un sapere vivo: la pratica del «non

cercare». Credo che una delle cose che ho imparato durante l’indagine sul campo sia stata

l’autorizzarmi a stare in modo più libero nelle sessioni di osservazione e, soprattutto, nelle

interviste. Questo ha significato darmi la possibilità appunto di «non cercare», senza perdere

il senso della mia presenza; di muovermi senza preconcetti, riguardanti anche il modo di far

ricerca. Quindi facendomi guidare dall’intuizione e da ció che nasceva nel tessuto relazionale

della conversazione.

2.6.2. Le interviste

Come segnala Chiara Sità (2012), «l’intervista individuale è una tecnica per la raccolta di dati

che può assumere una molteplicità di configurazioni differenti, in base agli obiettivi di

conoscenza che si perseguono, al disegno della ricerca, allo status riconosciuto ai soggetti

individuati» (ivi, p. 49). Per quanto riguarda questa indagine, l’accesso ai contesti – pratiche

educative formali e non formali in cui venissero mediati testi scritti da donne – nasceva dal

93 Scrive Marta Caramés: «La ricerca narrativa mi ha dato la possibilità di toccare una parte dell’esperienza, mi

ha dato la possibilità di ricercare-scrivere, tenendo come senso della ricerca l’avvicinamento alla comprensione

della pratica educativa. La scrittura narrativa mi ha consentito di avvicinarmi alla complessità della pratica

educativa e di poterla mostrare in questo testo di ricerca, cercando di condividere questa complessità» (2008, p.

18, trad. mia). 94

A questo proposito, scrivono: «Experience happens narratively. Narrative inquiry is a form of narrative

experience. Therefore, educational experience should be studied narratively» (2000, p. 19).

76

desiderio di conoscere come funzionavano queste pratiche, cosa accadeva in esse. L’intento

quindi è stato quello di comprendere più che verificare un’ipotesi; esplorare l’esperienza dei

soggetti partecipanti per conoscere i significati che attribuivano ad essa, gli effetti che aveva

avuto su di loro, le possibili trasformazioni; in definitiva, il loro «mondo interiore» (ivi, p.

52). Perché questo fosse possibile, era necessario che tra me e la persona intervistata si

creasse un «vincolo dialogante» (Carmen, I, 26.11.2010)95

, che intendo come il legame

relazionale che permette lo scambio di parola a partire da sé. Fare legame come condizione

prima perché l’intervista diventasse fonte di conoscenza ed esperienza di apprendimento sia

per me che per le intervistate96

. Così ho pensato l’intervista come un luogo di pensiero in

relazione, in cui sia le mie necessità conoscitive come ricercatrice che quelle delle intervistate

in quel momento (p.e. raccontar(si) determinati passaggi)97

, trovassero un modo di articolarsi.

Quindi le interviste sono partite da una traccia mentale provvisoria e hanno assunto la forma

di una conversazione guidata. Per esempio, nel caso delle interviste alle partecipanti al

laboratorio di scrittura “Mirades de dones” e alla “Tertùlia”, ho scelto di partire da quattro

nuclei tematici: breve accenno alla autobiografia, traiettoria nel laboratorio/“Tertùlia”,

partecipazione, dinamica nel laboratorio/“Tertùlia”, che ho proposto di trattare attraverso

domande aperte o formule quali «Parlami di…», la cui finalità è stata di permettere alle

intervistate di raccontare la loro sperienza in modo libero, seguendo le proprie associazioni

mentali. Per ognuno dei temi proposti, ho elaborato delle domande più concrete, che non

ponevo esplicitamente ma che mi servivano da guida. Una volta iniziata l’intervista ho cercato

di intervenire il meno possibile; se volevo che un argomento fosse approfondito o ripreso,

riassumevo alcuni passaggi, riformulandoli, oppure riprendevo alcune parole che mi erano

sembrate significative e le riproponevo (Castiglioni, 1999, p. 87), attraverso espressioni quali:

«Cosa vuoi dire con…?», «Cosa è per te …?», «Hai parlato di…». Alcuni nuclei non previsti

a priori sono emersi in itinere e in alcuni casi ho deciso di prediligere un filo discorsivo a

scapito della traccia preparata precedentemente.

95

Carmen è una delle donne che frequenta la tertùlia della libreria Pròleg; le parole citate sono tratte

dall’intervista che ho condotto in data tra parentesi. 96

In questo senso, sono significative le parole di Mónica, un’altra delle donne che frequenta la Tertùlia e che ho

intervistato, la quale dopo il nostro incontro mi ha detto quanto fosse stata importante per lei la conversazione

che avevamo tenuto, perché le aveva fatto pensare a cose cui non aveva mai pensato, per esempio, come mai

frequentava la tertùlia da più di dieci anni. Il contesto dell’intervista le aveva dato la possibilità di elaborare ciò

che aveva vissuto e trasformarlo in esperienza; appropriarsene ed incorporarlo nella propria vita. In questo senso,

l’intervista, se si creano le condizioni necessarie, può essere una possibilità di apprendimento e (tras)formazione

(poiché si incorpora una nuova esperienza che arricchisce e ricompone il sé) sia per la persona che fa ricerca che

per le persone coinvolte. 97

Come è successo con Carmen, la quale durante l’intervista mi ha raccontato per esteso i suoi anni in Argentina

durante il periodo della dittatura militare di Videla.

77

Le interviste sono state una delle esperienze più sfidanti e gratificanti del mio percorso di

ricerca. Ho imparato molto dall’incontro con le persone che ho intervistato e questo ha

modificato profondamente anche il mio modo di essere e di stare nelle interviste. Vorrei far

riferimento a due questioni che per me sono state centrali: l’ascolto e la fiducia.

Saper(si) ascoltare

Come ho già accennato nella parte dedicata alla fase di ricerca sul campo a Barcelona, dopo

aver concluso l’indagine nelle lezioni di Lluïsa Cunillera e nonostante l’anno scolastico

(2009-2010) fosse finito, ho chiesto a Lluïsa di tenere un’ultima conversazione. Alcuni aspetti

della valutazione non mi erano chiari e quindi ho deciso che sarebbe stato utile confrontarmi

con lei. A un certo punto della conversazione, dopo quasi un’ora di scambio, mi sono chiesta

se fosse il caso di concludere. Nonostante ci fossero ancora delle questioni in sospeso,

qualcosa mi diceva che eravamo giunte alla “fine”. Eppure ho posto a Lluïsa un’ultima

domanda:

Sapevo di avere materiale sufficiente ma cercavo una chiusura, una conclusione di

“Germanes”, qualcosa che potesse mettere “la ciliegina”. Ma non c’è stata una chiusura. Le

ho chiesto ancora delle trasformazioni che secondo lei erano avvenute nella classe. Ne

avevamo già parlato ma volevo qualcosa di più “concreto”. A volte, come scrivono Paola

Dusi e Chiara Sità, «si rischia di “obbligare” a dare spiegazione a ogni cosa» (2010, p. 49).

Le pratiche sono processi aperti, dove sono in campo relazioni vive; le trasformazioni lei le

intuiva ma non poteva affermare, soltanto suggerire e non tutto trovava parola per essere

detto. Così, Lluisa ha risposto, a modo suo, seguendo i propri percorsi, prima soffermandosi

in “Germanes” e poi spostandosi nel corso obbligatorio, nei corsi precedenti… (DR,

24.02.2011).

Scrive Chiara Zamboni:

Uno scambio guidato dal desiderio di fare pensiero con altri per sua natura non sfocia in una

idea precisa, che ne sarebbe il momento finale o la sintesi (…) E tuttavia, anche se non c’è

una conclusione, la maggioranza dei partecipanti sente quando il discorso su di un tema

termina (2009, p. 11).

78

C’è un momento in cui la conversazione finisce, in cui bisogna sospendere le domande, fare

silenzio dentro di noi, perché andare oltre sarebbe forzare. Capire quando ci si arriva è

possibile soltanto attraverso l’ascolto attento del tono della conversazione, del suo andamento

e dalla capacità di cogliere la ricchezza delle parole, di stare a ciò che esse dicono. Per

preservare la vitalità della conversazione e quindi, in un certo senso, la sua autenticità,

bisogna seguire il filo delle piccole cose, ovvero «imparare a non aspettare chissà quale

“grande rivelazione”» (Rampello, 2005, p. 114) oppure una conclusione.

I vincoli della fiducia

Soltanto ciò che ci tocca ci genera un autentico interesse, che a sua volta, verrà percepito

come tale dalle persone con le quali entriamo in relazione. Il rispetto verso quelle persone

sarà il pilastro sul quale costruire la fiducia che dobbiamo generare per raggiungere la

necessaria comprensione su ciò che indaghiamo. La credibilità dei dati che otterremo

dipende, innazitutto, dalla fiducia che saremo capaci di generare in coloro che ce li offrono.

Quindi si tratta di un criterio di ordine etico con chiare ricadute di ordine epistemologico

(Nieves Blanco, 2010, p. 585, trad. mia).

La fiducia nel mio lavoro di ricerca l’ho acquistata un po’ alla volta, per diverse vie, in

particolar modo durante gli ultimi due anni. Come se qualcosa fosse scattato o, meglio, si

fosse aperto. Quanto in tutto questo la scrittura della ricerca abbia avuto un ruolo centrale,

l’ho capito man mano che procedevo con la stesura dei capitoli.

La fiducia l’ho ricevuta dalla relazione con le mie tutor e con altre donne che mi hanno

accompagnato, le quali mi hanno dato l’autorità di parlare a partire dalla mia esperienza; da

un impegno crescente, che è venuto naturale man mano capivo che c’era in gioco qualcosa

che mi stava molto a cuore.

La fiducia mi ha permesso di mettere radici, di accogliere la progressiva consapevolezza, da

una parte, della necessità di espormi in prima persona nella ricerca e, dall’altra, di cercare

delle mediazioni che sostenessero e dessero misura al mio desiderio. Questo si è tradotto in un

mio coinvolgimento più consapevole e attento, in una maggior cura dei processi, nel

valorizzare e approfondire le conversazioni con le mie tutor, in quanto interlocutrici

autorevoli, e al tempo stesso in una maggior autonomia nel lavoro.

79

Sono convinta che la progressiva fiducia e rispetto del mio lavoro e di me come donna

ricercatrice abbia modificato il mio stare nelle interviste. E non solo. Anche la disposizione

delle mie interlocutrici credo sia cambiata verso una maggiore apertura (Woods, 1995, p. 78).

2.6.3. Elaborazione dei dati: i fili di senso

Il processo di elaborazione delle interviste è iniziato nel momento stesso della trascrizione.

Inizialmente ho pensato di trascrivere soltanto alcune parti, quelle che ritenevo più

significative. Tuttavia mi sono resa conto quasi subito di quanto questa scelta rendesse quasi

impossibile seguire il filo della conversazione e, di conseguenza, rimanere fedele allo scambio

intercorso.

Scrivo nel diario di ricerca:

(…) E non è soltanto questione di contenuto ma del tono della conversazione, dell’ambiente

che si crea. Dopo si possono ovviare alcune cose, le ripetizioni, anche se queste possono

essere significative (e molto!). Non è qualcosa di lineare. [La trascrizione completa] aiuta

anche molto a resituarti perché non sei più lì [intendo nel contesto della conversazione] e hai

perso dei riferimenti che dopo ritrovi man mano nel testo. Il testo crea il contesto

dell’ascolto, altrimenti, credo sia difficile che l’ascolto si possa dare (DR, 03.10. 2011).

In questo senso, credo che la trascrizione non sia un processo meccanico ma la prima

possibilità di entrare in contatto con il testo. Come segnala Magnus Englander «(…) è

consigliable che il ricercatore faccia questo lavoro da sé, poiché questo aiuterà il ricercatore a

raggiungere una profondità nella comprensione dell’esperienza ed inoltre aiuterà la

transizione verso il primo paso dell’analisi dei dati» (2010, p. 54).

Durante le trascrizioni ho fatto delle annotazioni ai margini circa ciò che l’intervista mi

suggeriva, cercando di tenere molto presente l’intero contesto della ricerca. Quindi i

commenti riguardavano sia il contenuto dell’intervista e i possibili collegamenti con il

contesto a cui apparteneva e con altri contesti della ricerca (inclusa la mia esperienza di lettura

delle scrittrici), sia il processo stesso di trascrizione. Mi ci è voluto del tempo per trascrivere

questo primo gruppo di interviste; tempo che non ritengo perso ma molto utile per potermi

addentrare, immergermi in esse (Woods, 1995, p. 89).

80

Dopo la fase di trascrizione, ho effettuato alcune letture ricorsive dei protocolli, durante le

quali, in un primo momento, ho segnato in grassetto delle parole e dei passaggi significativi.

A partire da essi ho identificato i nuclei tematici, i fili di senso che attraversavano le

interviste. Questo l’ho fatto senza perdere di vista il filo conduttore della mia ricerca: la

mediazione educativa dei testi, intesa come «doppia mediazione» (Martinengo, 1992, 15).

Come risultato di questa prima fase, sono emersi diversi fili di senso, che inizialmente ho

formulato come domande, tra cui le principali: quali sono le qualità della mediazione

dell’insegnate/formatrice? Quale sono le qualità che sostengono il contesto che lei genera?).

Dato il loro elevato numero li ho poi raggruppati come segue:

traiettoria di relazione dell’insegnante/formatrice con le scrittrici: significato

dell’esperienza di lettura delle autrici (prima mediazione);

la collocazione simbolica dell’insegnante/formatrice (la questione centrale è capire se

l’esperienza di lettura delle scrittrici ha portato ad uno spostamento simbolico, nel

senso di valorizzare la propria appartenenza sessuale e significarla con libertà; e quali

ricadute ha questa collocazione nel modo dell’insegnante/formatrice di mettersi in

relazione con i testi) (seconda mediazione);

il senso dell’insegnamento della letteratura (qui ci sarebbe la questione del tipo di

sapere che l’insegnante/formatrice mette in circolo);

la pratica della mediazione: qualità della mediazione e senso della mediazione: effetti

della mediazione dei testi nei contesti.

Successivamente ho capito che i primi quattro fili erano accomunati da un’idea: essere dei

passaggi previ alla mediazione, ovvero, il sostrato in cui essa si radica e che la sostiene; non si

tratta tuttavia di un sostrato fisso, ma in continua trasformazione. Per questa affinità, li ho

raggruppati a loro volta sotto il titolo: “condizioni che sostengono la pratica della

mediazione”.

Infine ho pensato alla possibilità di seguire questa traccia a modo di orientamento (quindi i fili

potrebbero aumentare, ridursi o modificarsi in funzione di ciò che sarebbe emerso man

mano), sia per elaborare le interviste e i dati raccolti nel contesto “Germanes de Shakespeare”

sia per i dati degli altri due: la “Tertùlia” e “Mirades de dones”.

La traccia è rimasta come segue:

81

1. Traiettoria della relazione con le scrittrici (autrici).

2. La collocazione simbolica.

3. Il senso della letteratura.

4. Il senso dell’insegnamento della letteratura.

5. La pratica della mediazione:

qualità della mediazione;

effetti della mediazione.

Durante l’analisi dei dati ho seguito questa traccia cercando tuttavia di non farmi

condizionare; questo mi ha dato la possibilità di cogliere degli aspetti che non erano emersi in

una prima analisi. Inoltre, nel caso del contesto della Tertùlia e del laboratorio di lettura e

scrittura creativa ho dovuto calibrare alcuni dei fili in relazione alla specificità di ognuno di

essi (per esempio, «il senso dell’insegnamento della letteratura»), dato che i contesti hanno

caratteristiche e dinamiche diverse.

2.7. Passaggi della ricerca

Se dovessi sintetizzare in un’espressione ciò che ha significato per me questo percorso di

ricerca, userei questa: mettere radici. Non a caso scrivo nel diario di ricerca, in data 22

febbraio 2011: «Anclaje», che in italiano significa “ancoraggio”. All’inizio del processo era

soltanto, e non è poco, un desiderio; alla fine una realtà, che si è concretizzata in due

momenti: la conclusione della fase di indagine su campo e l’elaborazione del profilo

strutturale della tesi. Momenti che hanno richiesto dei passaggi intermedi, con tanti scarti,

deviazioni, ritrovamenti, qualche sorpresa, e un impegno crescente, che è venuto naturale man

mano capivo che in questa ricerca c’era in gioco qualcosa che mi stava molto a cuore.

Molte di queste scelte è possibile rintracciarle in diversi punti del testo della ricerca.

Mantenerle vicine ai contesti che le hanno generate, tra cui anche quello della scrittura, mi è

sembrato il modo migliore per restituire il loro senso in modo più articolato. Di altre, prese

all’inizio del percorso d’indagine, parlo di seguito.

82

a. Contesti d’indagine

Nel primo disegno di ricerca, elaborato insieme alla mia tutor, si appuntavano due possibili

orientamenti della ricerca:

sviluppare all’interno della scuola o in situazioni formative extrascolastiche, un

percorso formativo sperimentale a partire della scelta dei testi letterari in funzione del

contesto formativo e verificare le potenzialità di questa mediazione;

individuare situazioni scolastiche ed extrascolastiche (educazione permanente con

donne adulte, percorsi formativi con soggetti in difficoltà nei Centri territoriali di

educazione permanente, o nei Cursos de verano molto diffusi in Spagna, le Scuole

estive delle donne in Italia, ecc.) in cui si utilizzi intenzionalmente la mediazione di

testi letterari femminili.

Sin dall’inizio avevo abbastanza chiara l’idea di intraprendere il secondo orientamento, non

perché non fossi interessata al primo (anzi, il mio desiderio era proprio partito da lì) ma

perché prima di proporre qualcosa di nuovo, preferivo guardare nella realtà e vedere ciò che

stava accadendo: viene utilizzata la letteratura femminile come mediazione educativa (sia in

situazioni scolastiche che in situazioni extrascolastiche)? In questo caso, quali condizioni e

quali contesti si creano, quali processi educativi vengono messi in atto per farla diventare una

vera mediazione? E questa mediazione ha delle potenzialità tras-formative (ha provocato

effetti)? Ci sono stati cambiamenti? In che direzione? Sapevo che queste esperienze

esistevano e volevo raccontarle. La decisione, quindi, di intraprendere la seconda strada

portava con sé la necessità, oltre che per quanto detto prima e dirò più avanti, di ampliare lo

sguardo e di includere altri generi narrativi. Tuttavia, il desiderio di riprendere lo studio dei

romanzi di formazione scritti da donne (le domande che ne nascono sono tante e

appassionanti) e di proporre un percorso formativo rimane una possibilità aperta e viva, che si

relaziona col mio amore per l’insegnamento e per la letteratura.

b. Testi oggetto di studio

Inizialmente avevo scelto come genere il romanzo di formazione scritto da donne, perché mi

sembrava il più adatto a dar conto di una riflessione e di un sapere, che parte da una donna e

83

si rivolge ad altre donne, riguardo ciò che sono o potrebbero essere i processi di crescita e di

formazione femminile. Inoltre alcuni romanzi mettono in luce come le donne hanno un modo

diverso di raccontare l’esperienza della Bildung. Infatti le storie di formazione scritte da

donne non trattano di Bildung, ovvero di processi lineari chiari e conclusi (la tensione al

configurarsi di un Io compiuto), ma di un evolversi molteplice e aperto, un divenire del sé.

Sono storie che parlano di crescita in relazione, non esente dal conflitto, del dolore di non

trovare un posto nel mondo, del recupero del linguaggio dell’infanzia e della sua funzione

restauratrice; un linguaggio che «parte da una coincidenza tra l’essere e il dire» (Farnetti,

2007, p. 84) capace di creare ordine e di riaprire per la donna che scrive - e anche per le

donne (e gli uomini) che la leggono - le possibilità di ricchezza e i significati presenti nel

mondo e che vengono da lontano.

La scelta di occuparmi dei romanzi di formazione scritti da donne nasceva anche dalla mia

esperienza personale. Tre romanzi hanno segnato la mia adolescenza e il passaggio alla

maturità: Nada di Carmen Laforet, Nubosidad Variable di Carmen Martín Gaite y Recóndita

Armonía di Marina Mayoral. Tutti i tre romanzi narrano la storia di donne e del loro processo

di crescita (nel primo, la protagonista è una adolescente; nel secondo, due donne adulte, e nel

terzo due ragazze che poi diventano donne). Nelle storie raccontate ho trovato parole,

immagini, figure e affetti che mi hanno aiutato a dare un senso a ciò che nel momento in cui li

leggevo accadeva in me e fuori di me. Dare un senso a ciò che accade partendo da me con la

mediazione delle parole di un'altra, raccontarmi e raccontare il mondo, mi ha dato la

possibilità, quando l’ho messa in atto, di essere presente nella realtà mettendo in gioco la mia

energia e il mio sapere.

Tuttavia la possibilità di trovare nella letteratura scritta da donne modelli femminili di libertà

e un linguaggio che permetta alle adolescenti e alle donne adulte di dirsi e dire il mondo a

partire da sé non si limita a un particolare genere letterario o a una modalità narrativa. È vero

che il romanzo di formazione può offrire una riflessione e un sapere di una donna su come è o

dovrebbe essere l’educazione femminile. Tuttavia, è altrettanto vero che questo sapere e

riflessione può essere presente, in qualunque testo scritto da una donna che riconosca e

valorizzi la propria differenza, in modo più o meno esplicito e intenzionale. I testi di Virginia

Woolf, Clarice Lispector Etty Hillesum, Cristina Peri-Rossi, Alejandra Pizarnik, Wyslava

Szymborska, Fleur Jaeggy, Karen Blixen, Mercé Rodoreda, Marguerite Duras, e le già citate,

Carmen Laforet, Carmen Martín Gaite e Marina Mayoral, per nominare solo alcune scrittici a

me care, sono storie di formazione (o meglio, storie di un divenire) senza che necessariamente

84

raccontino in modo esplicito il processo di crescita di una adolescente o di una donna. Le loro

opere, come quelle di altrettante scrittrici, propongono modi di vedere il mondo e di vedersi

che partono dal desiderio di dirsi, di parlare, di trovare uno spazio abitabile dove crescere in

libertà insieme ad altre donne e uomini. Sono storie che parlano di una ricerca di senso.

85

Cap. 3

LE SCRITTRICI, LE MIE MAESTRE

Non tutto ciò che scrivo si realizza in qualcosa di

concreto, si trasforma piuttosto in un tentativo. La

qualcosa è comunque un piacere. Perché non credo di

raggiungere sempre tutto. A volte desidero

semplicemente sfiorare. Poi ciò che sfioro a volte

fiorisce e gli altri possono coglierlo a piene mani.

Delicatezza, Clarice Lispector

Premessa

Virginia Woolf, Clarice Lispector e Carmen Martín Gaite sono state mie maestre senza

volerlo. Ed è qui che, secondo me, è radicata la loro grandezza. Proprio perché non volevano

mi hanno insegnato molto; proprio perché non sono mosse da questa volontà, nella loro

scrittura è possibile trovare delle tracce per pensare l’educare sotto punti di vista inediti:

inediti perché a venire, perché soltanto suggeriti e da inventare a partire da quello che, senza

dire, mostrano. Immagini, mi viene da pensare, è ciò che offrono; visioni mai risolte così da

mantenere vivo il loro potere evocativo, la loro vibrazione, per conservare presenti «il rumore

del mare e degli uccelli, l’alba e il giardino, a svolgere la loro funzione sotterranea» (Woolf,

2011b, p. 199).

Il lavorio delle loro parole è dell’ordine del sotterraneo, dell’invisibile (Zamboni, 2001, p.

142), come spesso è l’educare, i cui effetti non sono immediati nè sempre prevedibili, al

contrario seguono i propri tempi e le proprie vie, e si manifestano secondo forme spesso così

sottili, che richiedono un’attenzione profonda per svelarli. Uno sguardo che ritrovo in queste

scrittrici quando decidono di affacciarsi al mondo per raccontarlo. «Mujeres ventaneras»

chiama Carmen Martín Gaite (1987) quelle donne, di cui sua madre è l’archetipo, che si

86

mettono in ascolto delle cose e delle loro storie, per amore del mondo, per il piacere di una

buona narrazione. E così facendo si fanno «mediazione vivente» del reale, «creando vincoli

che sono origine di qualcosa di nuovo» (López, 2006, p. 135) perché nel guardare, comporre,

legare, mettono in gioco i significati di cui sono portatrici, la genealogia in cui si riconoscono

(che anche quando non viene esplicitata, affiora a umidificare la terra, come l’acqua di un

torrente che scorre in profondità). E con tutto ciò, a mantenere vivo il movimento della

creazione, la novità che la singolarità dei loro corpi di donne annuncia come promessa.

Virginia Woolf, Clarice Lispector e Carmen Martín Gaite sono mie maestre perché sono

donne che hanno avuto il coraggio di parlare a partire dalla propria esperienza, rivolgendosi al

mondo, senza voler dimostrare nulla. Perciò la loro scrittura non cerca di provare, spiegare,

confutare ma di raccontare la vita così come a loro è stata data di viverla, rendendendola

propria attraverso la presa di parola. La forza del loro pensiero è radicata nella capacità di

esplicitare i legami da cui esso nasce, i percorsi che seguono per cercare di nominare ciò che

in loro chiede di essere detto, qualcosa che viene dal profondo e che va oltre: «impersonalità»,

lo chiama la Woolf. Nominare con parole vere perché cercate nello spazio tra ciò che può

essere detto e ciò che non può essere detto98

, perché non tutto è dicibile eppure si continua a

provare. Ed è proprio di questo tentativo che la loro scrittura dà testimonianza. Una scrittura

che ha la forza di scuotere le fondamenta del linguaggio, di agire uno scarto rispetto al già

detto e pensato per aprire ad altro, in divenire, e rimanerci vicino; una scrittura che cammina

su una corda tesa, come dice di sé Clarice Lispector quando scrive, capace di farci sentire il

sibilare del vento tra i vuoti lasciati dalle parole insieme al loro fragore nello scagliarsi contro

le rocce, onde che «trascinano e nascondono e mescolano alghe e perle mentre si rivoltano»

(Woolf, 2011a, p.28).

Proprio perché non volevano insegnare hanno insegnato molto. La lettura di queste scrittrici

ha lavorato d’impasto con la lettura delle pratiche educative oggetto della ricerca, testi teorici

di autrici, tra cui alcune pedagogiste, intrecciando anche passaggi del mio stesso percorso

formativo, mettendo in luce quanto il sapere di queste scrittrici sia stato fonte di ispirazione

dell’agire e pensare di molte donne. Saggezza che, proprio perché tale, non è visibile a prima

vista ma va ricreata. Questo è il paradosso fecondo in cui mi muovo; la corda sulla quale

cammino nel leggere le scrittrici: andare alla ricerca di un sapere pedagogico lì dove questo

sapere non c’è intenzionalmente. E già nell’assenza di un’intenzionalità didattica nella loro

98

Questa espressione è di Maria Livia Alga e l’ho raccolta in uno degli incontri del martedì della comunità

filosofica Diotima (18.12.2012).

87

scrittura trovo un’indicazione preziosa per le persone che, come me, lavorano nell’ambito

dell’educazione e della formazione. Cerco di spiegarmi, e concludo, con queste parole di

María Zambrano tratte dal testo Perché si scrive:

Quel che si pubblica serve perché qualcuno, uno o tanti, viva tenendo presente quanto è

venuto a conoscere, perché viva in modo diverso dopo averlo conosciuto; serve a liberare

qualcuno dalla prigione della menzogna, o dalle nebbie del tedio, che è la menzogna vitale.

Ma forse a tale risultato non si può giungere se, filantropicamente, lo si assume come

obiettivo in sé. Quel che si pubblica, che lo si voglia o no, libera ciò che ha il potere per

questo o per il contrario, ma senza tale potere non serve a nulla il volerlo (1996, p. 29).

3.1. Leggere le scrittrici: alla ricerca di pietre preziose

Leggere un romanzo è un’arte difficile e complessa.

Dovete essere in possesso non soltanto di una grande

finezza di percezione, ma anche di un’ardita larghezza

di immaginazione, se volete approfittare di tutto ciò

che il romanziere – il grande artista – vi offre.

Virginia Woolf, Come dobbiamo leggere un libro?

Carmen Martín Gaite, in uno dei saggi appartenenti ad una raccolta di testi di critica letteraria

intitolata Desde la ventana (1987, pp. 43-62), parla della necessità e delle difficoltà delle

donne di esprimere ciò che sentono, in uno stile fedele alla propria esperienza, che non

riproduca il già pensato. Non a caso il saggio in questione si intitola Cercando il modo, in cui

l’uso del gerundio ci dà il senso di una ricerca che non è finita ma in divenire, come vedremo.

Per l’autrice, un esempio di questa ricerca si trova nella scrittura di Teresa d’Avila, la quale,

dinnanzi all’ordine dei padri della chiesa di scrivere le sue esperienze mistiche, nonostante la

resistenza a parlare delle sue relazioni di amore con Dio, accetta l’incarico. Dice a questo

proposito Carmen Martín Gaite: «Partí dall’obbedienza ma per disobbedire, per fare le cose a

modo suo» (ivi, p. 49). Questo a modo suo mi dà un indizio su come Teresa d’Avila decise di

affrontare un lavoro che le si presentava arduo e difficile dato il contenuto dell’esperienza e,

soprattutto, perché mancava di riferimenti che la sostenessero nel suo voler dire. Lo fece a

88

modo suo, il che significa che Teresa d’Avila non si perse in astrazioni ma partí

«dall’esperienza, da ciò che sapeva, sentiva e le era successo» (ivi, p.58).

La scelta di Teresa d’Avila mi serve di ispirazione per spiegare il modo in cui mi sono

avvicinata ai testi letterari, per rendere conto di quali sono stati i passaggi che mi hanno

portato a mettere in luce i punti parlanti e significativi per pensare l’educazione e la

formazione, in relazione a questi testi. Mi serve d’ispirazione in quanto mi indica un cammino

possibile per raccontare il come: radicarmi nella mia esperienza di lettura dei testi, per

elaborarla successivamente con l’aiuto del pensiero di altre e altri.

Il punto di partenza è stato intuire che nei testi di Clarice Lispector, Virginia Woolf e Carmen

Martin Gaite, c’è un sapere che potrebbe illuminare alcuni aspetti, secondo me centrali,

dell’educare. Quest’intuizione è nata dal sentire gli effetti che queste autrici hanno avuto su di

me, ovvero, come la loro scrittura è stata una mediazione formativa, in quanto mi hanno dato

una misura, concetto che Caroline Wilson – parlando di ciò che la lettura di Carmen Martín

Gaite ha significato per lei – definisce come «una relazione con il mondo che dà ordine e

permette di nominare ciò che è difficile da nominare» (1998, p.73, trad. mia). Una misura per

pensare l’educazione e la mia relazione con l’educare è proprio ciò che ho trovato in queste

scrittrici.

Inoltre, nel loro gesto di libertà, che per me significa collocarsi come soggetti di pensiero e di

creazione, riconoscendosi come donne e scrittrici, nei confronti del mondo – davanti quindi a

questioni pregnanti quali l’essere donne, la famiglia, le relazioni con altre e altri,

l’educazione, l’impegno politico, la letteratura, la scrittura, e un lungo eccetera99

–, alla

ricerca di un linguaggio proprio per raccontare e raccontarsi a partire da sé100

, ho trovato il

coraggio per mettermi in relazione ai loro testi in modo più libero, da un luogo altro, guidata

appunto da un’intuizione. Come se nella scrittura di queste autrici fosse implicito un modo

per leggerle, un cammino suggerito che non è altro se non quello aperto da ciò che sentiamo

in relazione ai testi.

Tuttavia, per capire il modo in cui mi sono avvicinata ai testi (già in questo verbo

“avvicinarsi” è possibile trovare un indizio sul metodo), ribadisco che non credo che nei testi

di queste scrittrici ci sia un sapere inteso come una cosa che è lì immobile, accessibile a tutti,

99

Si veda a questo proposito la ricca e variegata produzione di queste scrittrici che oltre ai romanzi comprende

scritti di critica letteraria, politici, giornalistici nonché lettere e diari, riflesso del loro modo di vedere il mondo e

del luogo da cui scrivevano. 100

Scrive Virginia Woolf nel suo diario «voglio ripensare la politica molto lentamente in un linguaggio tutto

mio» (1979-1985, vol. V, p. 114).

89

ma qualcosa in attesa di essere scoperto, come pietre preziose sparse qua e là. Quando parlo

della possibilità che questi testi siano una fonte di sapere pedagogico, intendo il sapere,

seguendo José Contreras e Nuria Pérez de Lara (2010), come «qualcosa di dinamico, mai

risolto, che è soltanto, che esiste soltanto, nella misura in cui viene vissuto nelle menti di

coloro che lo elaborano o di coloro che lo ricreano e lo attualizzano e che gli conferiscono

significazione nel riceverlo ed operare in esso» (ivi, p. 49, trad. mia). Ed è qui che si trova il

senso della mediazione, intesa come quel passaggio che ti permette di vedere, di fare delle

scoperte.

Così, seguendo questo filo, il senso dell’indagare nei testi non si è radicato nella pretesa di

«descrivere, spiegare o comprendere una “realtà” (intesa come qualcosa che è lì fuori, in

attesa di essere descritto, spiegato, compreso)» - nel caso concreto dei testi, di identificare dei

possibili contenuti pedagogici come qualcosa di già dato, anche perché queste scrittrici non si

pongono nella posizione esplicita di insegnare qualcosa, tutt’altro - «bensí nel rivelare,

svelare, suscitare la questione pedagogica che c’è in essa» (ivi, p. 39). Ovvero, nei movimenti

di avvicinamento ai testi, a partire da ciò che essi suscitavano in me, ho cercato di mettere in

luce cosa in loro interrogava l’educazione e me in relazione ad essa.

Se pensiamo quindi il sapere come qualcosa che non è possibile al di fuori di noi, nel senso

che non è una cosa che si prende o si possiede ma di cui si fa esperienza in prima persona, in

questo movimento di andirivieni tra me e i testi, è stata centrale la mediazione, soprattutto, di

altre donne, le quali mi hanno aiutato ad avvicinarmi ai testi, a farne esperienza diretta. Senza

di loro il piacere e la ricchezza (di parola, di pensiero, di vita) che avrei ottenuto da questi

testi sarebbe stata più povera.

Riporto un passaggio del diario della ricerca, scritto durante una delle letture di L’ora della

stella (1977) di Clarice Lispector:

Leggere scrivendo. Ci sono due letture e parole sparse in mille fogli. In uno sforzo per

mettere ordine, dedico un taccuino ad ogni scrittrice101

. Due letture dicevo: la prima è più

passionale, di un fiato: lasciarsi andare, farsi toccare dal testo. Tuttavia ci sono momenti in

cui mi fermo perché il pensiero possa aprirsi o semplicemente perché le parole che ho letto si

accomodino in me, «momenti in cui il nostro essere viene centrato, rinchiuso; come sempre

101

Ad ogni scrittrice ho dedicato un taccuino in cui ho scritto ciò che la lettura dei testi scelti suscitava in me.

Sono riflessioni di diversa natura: sui testi (in senso più stretto), sul mio modo di leggerli, su altri aspetti della

ricerca che collegavo ad essi (epistemologici e metodologici, informazione emersa dall’indagine sul campo…) e,

in modo più amplio, su svariate dimensioni della mia vita. Li citeró con l’espressione “taccuino di lettura” (TL),

indicando con le iniziali V.W., C.L., C.M.G., la scrittrice a cui fa riferimento.

90

accade sotto il colpo violento dell’emozione personale» (Woolf, 1998a, p. 237). Non posso

nemmeno evitare di prendere delle annotazioni, nei taccuini, ai margini dei testi, adesso nel

diario. Con Clarice Lispector sento ancora più necessario questo lasciarsi andare, entrare nel

flusso della narrazione e ammettere che non si sa, che non tutto si capisce, come una spinta

per continuare, senza sapere, ma continuare, nel divenire della narrazione.

La seconda lettura è più attenta, più in ascolto. Dopo il significato più immediato, resto in

attesa che altri più profondi, più sottili si manifestino (questo lo relaziono anche con la

grazia, di cui parlava Santa Teresa, nel testo di Maria Luise Wandruszka, la grazie di capire

per via divina e non grazie allo sforzo dell’intelletto). Così finchè il tempo e la voglia lo

permetteranno, perché non c’è un momento in cui il senso del testo si esaurisce: rimane

sempre un qualcosa di inafferrabile, un inaudito possibile, ma mi muovo in quella tensione.

Letture ricorrenti, rimanendo vicina al testo, a ciò che il testo mi vuole rivelare, questa volta

insieme ad altre donne che sono passate attraverso l’esperienza dello stesso testo, sia come

critiche sia come filosofe. In questa seconda lettura non è più soltanto la mia relazione con il

testo ma, come dice Anna Maria, una triangolazione: io – le scrittrici – altre donne

significative. Donne autorevoli (TL, CL, 18.11.2011).

Queste parole suggeriscono, in modo immediato e intuitivo (qualità proprie della scrittura del

diario di ricerca), un percorso di lettura, di avvicinamento ai testi, che nasce vicino alla mia

esperienza di lettura. Proprio per questo ho voluto partire da qui perché, con parole di Hannah

Arendt, «non credo che possa esistere qualche processo di pensiero senza esperienze

personali. Tutto il pensiero è meditazione (Nachdenken), pensare in seguito a una cosa»

(1990b, p. 28). Quindi quello che vorrei adesso nella scrittura della ricerca è cercare di

decifrare questa cosa, di renderla più articolata e concreta. Per farlo, mi affideró al pensiero di

due donne: Virginia Woolf e Marie Luise Wandruszka, la prima scrittrice e “critica

letteraria”, la seconda studiosa e docente di letteratura, in cui ho trovato una mediazione

significativa, nel senso in cui prima parlava Caroline Wilson.

In un saggio del 1926, Come dobbiamo leggere un libro?, nato come una conferenza per una

scuola femminile, Virginia Woolf riflette sulla possibilità di rispondere alla domanda posta

nel titolo, premettendo che «il solo consiglio che si può dare sulla lettura è quello di non

seguire nessun consiglio, bensì il proprio istinto; fare uso della propria ragione, trarre le

proprie conclusioni» (1998a, p. 229).

91

Il testo di Virginia Woolf è innazitutto un invito alla lettura, a farne esperienza diretta senza

nessuna mediazione, con il solo desiderio di avvicinarsi per conoscere. In questo senso,

propone di predisporsi alla lettura con la menta aperta, senza concetti previ su ciò che si sta

per leggere, in modo che «certi segni e accenni di una sottigliezza quasi impercettibile, fin

dalla struttura e dal giro delle prime frasi, vi metteranno in contatto con un essere umano

diverso da tutti gli altri» (ivi, p. 230)102

. Seguite questa strada, ci dice, e presto scoprirete ciò

che l’autore cerca di darvi.

Nel suggerimento di Virgina Woolf vedo un’indicazione su cosa puó significare per lei la

lettura: un incontro con l’altra, con l’altro e anche con l’altro da sé (luoghi, sentimenti,

emozioni…); uno spazio quindi di relazione, di interlocuzione, che risponde a quella pratica

cara a Virginia Woolf del conversare che, con parole di Liliana Rampello, potremmo

intendere come «l’esperienza dell’essere in relazione» (2005, p.15).

La pratica del conversare alla radice e a sostegno dell’atto della lettura. Tuttavia perché quel

incontro possa avvenire è necessario esporsi in prima persona, aprire e lasciare spazio a ciò

che dalla relazione puó nascere; lasciarsi attraversare dalle parole, abitarle e farsi abitare da

esse, da ciò che provocano in chi legge, affinchè la lettura possa diventare una vera e propria

esperienza (vera e propria nel senso letterale). Inoltre è condizione necessaria perchè questo

accada che anche il testo si apra alla relazione con la persona che legge, ovvero, che la

scrittura preveda quell’incontro, dei passaggi di accesso. Significa quindi, come io lo vedo,

avere il coraggio di assumersi un rischio, che è prendersi la responsabilità di essere lì, in ciò

che si fa, in questo caso leggere, come soggetto pensante e vivente, donna o uomo, senza che

siano altre o altri a farlo per noi. Perciò, ci suggerisce ancora Virginia Woolf, «se vogliamo

ottenere da un libro il massimo piacere» bisogna completare «l’operazione di leggere» con un

«secondo processo», ovvero, «giudicare e confrontare» (1998a, p. 238).

Credo che questo «secondo processo» consista nell’audace salto, non esente da difficoltà, di

prendersi la libertà di esprimere un pensiero originale rispetto al libro, a partire da sé; in

questo senso parlavo anche di responsabilità. Azzardare un’idea, aprire il testo a qualcosa che

lì non c’è, lasciandosi guidare dall’intuizione, da tutte le sensazioni che il testo ha suscitato in

noi perché è attraverso il sentimento che impariamo (ivi, p. 240). Azzardare per andare oltre,

con giudizio e immaginazione, perché soltanto così «potremmo fare pieno uso di ciò che

l’autore (…) ci offre» (ivi, p. 232). E in questo ci offre, trovo un altro indizio prezioso nella

mia ricerca di un modo: l’idea che ciò che il testo porta con sé ci viene dato come un dono.

102

Il corsivo è mio.

92

Marie Luise Wandruszka, nell’introduzione all’opera collettanea da lei curata Scrivere il

mondo (1996), che raccoglie sei ritratti di donne, per le quali «la scrittura ad un certo punto

della loro vita è diventata una pratica necessaria» (ivi, p. 7)103

, segnala la ricerca della

impersonalità come un elemento che accomuna la scrittura di queste donne. Ricerca che la

studiosa collega al concetto di «attenzione» di Simone Weil, «che non è concentrazione ma

“fare il vuoto”» (ivi, p.12). Fare il vuoto che potremmo intendere come farsi passaggio

perché la scrittura avvenga, più che come un atto di volontà come un atto di obbedienza a ciò

che in noi ci chiama. E ancora: riconoscere che nell’atto creativo non si è soli, ma in

connessione con qualcosa che va aldilà dell’io. Così lo racconta Marguerite Duras: «Non mi

posso spiegare le cose che scrivo se non così, che ci sono delle cose che non riconosco in

quello che scrivo. Allora mi arrivano da un’altra parte, non sono sola a scrivere quando

scrivo. Ma questo io lo so. È una pretesa, quella di credere di essere soli davanti alla pagina

quando tutto arriva da ogni parte» (ivi, p. 12).

Aprirsi a quello che arriva da un’altra parte, farsi passaggio e nello stesso tempo avere una

maniera propria di esserci, di dire e scrivere il mondo, il che, seguendo Marie Luise

Wandruszka «significa forse che, paradossalmente, è proprio l’impersonalità, il rifiuto delle

pretesa di “essere soli” a garantire un sé, un segno caratteristico. Come se questo sé fosse un

dono che arriva solo dopo la rinuncia all’Io, e alla sua ansia di mostrarsi» (ibidem).

Credo che la natura dell’esperienza della lettura e dell’esperienza della scrittura siano

intimamente legate in questa disposizione a farsi passaggio come condizione perché qualcosa

ci venga rivelato o concesso come un dono. Nella proposta di Virginia Woolf sul come

leggere, ritrovo quest’idea della ricerca dell’impersonalità, caratteristica anche della sua

scrittura104

, come via propria e originale di mettersi in relazione con il testo; via che consiste,

apppunto, nel farsi passaggio, stare a ciò che il testo ci dice per, a partire da questa apertura,

iniziare una conversazione autentica con esso.

Ritorniamo a Marie Luise Wandruska, la quale in un bellissimo testo dal titolo Diletto e

distanza, leggendo le scrittrici (1992), riflette sul significato della lettura di testi letterari

scritti da donne nel’ambito dell’insegnamento. Per iniziare il suo ragionamento prende spunto

103

Le scrittrici-pensatrici ritratte sono Margherita Porete, Cristina Campo, Marina Cvetaeva, Emily Dickinson, e

Simone Weil. 104

Così lo racconta Liliana Rampello (2005, p. 46): «Nel rendere presente a sé la propria vita Virginia Woolf

procede giorno dopo giorno a mostrarla, nuda di ogni dimostrazione, a un io che cede progressivamente la

propria sovranità perché si presenta assieme alle sue relazioni, al suo rapporto con il tempo che passa, con la

natura che abita, con il corpo che invecchia, con la grande storia che ci rende anonimi».

93

dai consigli che Teresa d’Ávila rivolge alle sue consorelle circa il modo di leggere un libro o

ascoltare una predica. La «grazia divina» è, secondo Teresa d’Ávila, la via per comprendere

significati che stanno aldilà della nostra comprensione: «(…) guardatevi sempre d’applicarvi

troppo il pensiero, nè affaticarvi (…). Quando sua divina Maestà si compiacerà di

comunicarci simili intelligenze senz’altra fatica, nè sollecitudine ci troveremo a saperle» (ivi,

p. 31). Ci troveremo a saperle. Quindi lasciate il lavorio del pensiero, sospendete i vostri

giudizi e rimanete in attesa di ciò che vi sarà dato sapere; procedete senza fatica e sforzo e

soprattutto senza forzare ciò che tentate di comprendere. Ci troveremo a saperle.

Predisponetevi in un atteggiamento passivo, di passività in stato vigilante, della vigilia, con

gli occhi aperti a ricevere l’altro da sé.

Per Wandruszka la «grazia divina» di cui ci parla Teresa d’Ávila è «l’intuzione che ci viene

non sforzandoci di “interpretare” un testo ma “semplicemente” guardandolo che, ovviamente,

non è una cosa semplice» (ivi, p. 32). Non lo è affatto. Scrivo nel diario di ricerca: «Lasciare

che la scrittura ti tocchi. Entrare nello spazio della scrittura: uno spazio denso, carico di

emozioni… Rimanere lì, non scappare, in ascolto, lasciando che il tutto decanti». Più avanti:

«Bisognare entrare nei testi, rimanere tempo a contatto con i testi, ritornarci; immergersi nelle

parole» (DR, 26.02.2011). Quindi ci vuole tempo, in un movimento ricorrente di andata e

ritorno, di attese, non tanto per entrare nel testo quanto per lasciare che il passaggio si mostri

e questo puó accadere se si rimane vicino al testo, alle parole, se le si guarda.

Il guardare, come la ricerca dell’impersonalità di cui ci parlava prima, Wandruszska lo

collega alla pratica dell’«attenzione» (il termine è di Simone Weil), che non consiste come

spesso si crede nel focalizzare il nostro sguardo verso un qualcosa da capire, tendendo i nostri

sforzi di comprensione verso di essa (l’immagine che descrive Simone Weil delle sopracciglia

aggrottate e il respiro trattenuto), ma «nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo

disponibile, vuoto e permeabile all’oggetto, nel mantenere in prossimità del proprio pensiero,

ma a un livello inferiore e senza contatto con esso, le diverse conoscenze acquisite che si è

costretti a utilizzare» (Weil, 1972, p. 75-76). Farsi passaggio, cedere il controllo, aprirsi alla

percezione del testo, con ciò che si è e che si sa e, soprattutto, con ciò che non si sa,

nell’incertezza, per poter farne esperienza.

Sembrerebbe che il cammino da seguire nel leggere un testo non sia quello dello sforzo

dell’interpretazione, a partire da categorie più o meno definite, che più che mostrarci l’opera,

la nasconde sotto il fogliame quando non la violenta fino a sfigurarla, bensí la leggerezza

dell’intuizione, della pazienza dell’ascolto e della capacità immaginativa di aprire il testo a un

94

di più. Qualità che mirano ad un modo di leggere, di fare critica letteraria se vogliamo, mossa

dall’amore verso il testo, dal piacere di leggere testi che ci stanno a cuore, come mostrano gli

scritti di Virginia Woolf e tante altre, tra cui Susan Sontag, che nelle prime pagine di Contro

l’interpretazione, scrive «mi ripugna scrivere su cose che non ammiro» (1969, p. 7, trad. mia).

E ancora: «quanto ho scritto non è critica (…) ma motivo di studio per un’estetica, una teoria

della mia personale sensibilità» (ibidem).

Ed è proprio la sensibilità ad essere al centro di questo movimento di avvicinamento al testo e

radice del pensiero, che scaturisce dal contatto con esso; e anche dalla distanza. Perchè per

poter esprimere un pensiero circa un altro testo è necessario, ci dice Marie Luise Wandruszka

– partendo dai saggi di Virginia Woolf su Jane Austen, sulle sorelle Brönte o su Christina

Rosetti (e questo ci dà un altro indizio sul modo di leggere della Woolf) -, riconoscere anche

la distanza che ci separa da esso, distanza che «è rispetto della differenza dell’altra» (1992, p.

36). Questa distanza ci salva dall’immedesimarci nell’autrice o nell’autore del testo, dal

proiettare il nostro io nelle sue parole e sostituirci ad esse con le nostre; perciò è così

importante rimanere fedeli al testo, a ciò che le parole ci dicono, riprenderle nel nostro

pensiero e lasciare che sia la loro eco a guidare il nostro pensare.

Da questa tensione tra familiarità e distanza (ivi, p.36), in un movimento di abbandono

attento, mosso dal piacere provocato dalla lettura, è possibile allora indagare il testo a partire

da domande radicate nella nostra esperienza; azzardare ciò che Maria Luise Wandruszka

chiama, con Chiara Zamboni «ipotesi a rischio» (ivi, p. 37), ovvero, letture inaudite che

aprono il testo a nuovi sensi che non esauriscono le possibilità nè sono date una volte per

tutte, perché a rischio. Questo è quello che volevo dire all’inizio con l’audace salto, l’aprire il

testo a un di più, qualcosa che nel testo non c’è, ma verso la quale si orienta. In particolare,

nella mia esperienza di lettura delle scrittrici, ha significato cercare di connettermi con ciò che

i testi mi davano da pensare in relazione al mio processo formativo, per poi da lì trovare dei

fili di senso che mi aiutassero a pensare l’educazione. Ciò che dico potrebbe leggersi in

paralello al senso che per José Contreras e Nuria Pérez de Lara ha la ricerca educativa, la

quale «non si risolve mai con il “rendere conto della realtà” ma sempre sta guardando più in

là: cosa è l’educativo e come si manifesta, cosa sono queste esperienze che studiamo e cosa ci

rivelano, cosa ci aiutano a capire, a domandarci, a formularci sull’educazione, sul suo senso e

la sua realizzazione» (2010, p. 50, trad. mia). Il che significa per me, in relazione ai testi delle

scrittrici: cosa rivelano i testi in relazione all’educazione? Quali domande pongono? Quali

spazi di pensiero possono aprire? Domande che si generano in un’esperienza di lettura che è

95

unica, la mia, ma che ha trovato sostegno per la sua formulazione ed elaborazione nel

pensiero, non solo ma soprattutto in altre.

Ciò che lega il pensiero delle donne a cui ho fatto riferimento è, a mio avviso, la loro proposta

di una lettura vivencial, intesa come una lettura viva e vissuta in prima persona, che permette

di accogliere la vita presente nel testo, rispettandola nella sua singolarità e differenza. Con le

parole di Liliana Rampello (2005): «il desiderio di comunicare il senso di una lettura legata

alla vita che tutti ci accomuna, di sottrarre i libri ad ogni forma di astrazione che esclude

perché entrino nel cerchio di una relazione appassionata e non per questo meno lucida e

rigorosa» (ivi, p. 38). Per questo motivo mi sono affidata al loro pensiero, per dare parola ad

un modo di leggere intuitivo (quello che traspare dalla scrittura del diario di ricerca, che è

anche quello dei miei primi incontri con i testi), che mi si presentava come l’unico possibile

se volevo rimanere vicina alla vita, al cuore pulsante della scrittura. In quale altro modo avrei

potuto leggere, ad esempio, Clarice Lispector senza che diventasse un martirio, una cosa

impossibile?

Sensazione leggendo le prime linee: lasciarsi andare, entrare nel flusso del linguaggio,

arrendersi, entrare in una dimensione altra di significato. Le parole sono aperte come le rocce

di lava, pulsanti dentro, ardenti, vive. La parola facendosi, cercandosi (…). Leggere Clarice

Lispector è come leggere una ferita aperta: sangue che pulsa sotto la fina pelle tesa attorno

alla crosta della parola» (TL, CL, 18.11.2011).

Nella forma amorevole di leggere i testi che queste scrittrici propongono, ho trovato la

mediazione più adeguata per nominare un modo di leggere che più che descrizione di una mia

pratica compiuta di lettura è un orizzonte entro e verso il quale mi muovo: una possibilità

perché la lettura sia «un amato spazio di rivelazioni e non di ripetizioni» (Peri Rossi, p.64,

2004).

Da una prima esperienza di lettura delle scrittrici, tra il diletto e la distanza, ho individuato

alcuni punti che secondo me possono mettere in luce nuovi modi di pensare l’educare e il

sapere sull’educazione. Dato che gli aspetti emersi erano tanti, ho provato a cercare dei fili di

senso che li legassero, in modo da poterli ordinare. Alcuni di questi fili sono riscontrabili in

tutte le scrittrici, pur in modi diversi. Inizialmente avevo pensato di strutturare un racconto a

96

partire dai fili, in cui si sarebbero intrecciate, quando possibile, le opere delle tre scrittrici.

Tuttavia, ho pensato che se volevo preservare la singolarità e le particolarità della loro

scrittura, dovevo mettere al centro proprio le scrittrici. Così mi sono decisa per la possibilità

di sviluppare per ognuna, a partire dai fili individuati, quel aspetto che, secondo me, è più

presente nelle loro opere, lasciandomi comunque la libertà di mostrare delle connessioni tra le

tre autrici.

3.2.Virginia Woolf: la pratica della conversazione

Ho agitato le acque della conversazione, come sempre

faccio, valorosamente, così che la vita non vada

sprecata.

Virginia Woolf, Diario di una scrittrice

Il diario che Virginia Woolf scrive a partire dal gennaio 1897 fino a quattro giorni prima della

sua morte, nel 1941, è una delle fonti più feconde per mettere in luce la costellazione di

significati che per la scrittrice ha la conversazione105

. Infatti, esso raccoglie diversi passaggi

in cui Virginia ricorda e riflette sulle conversazioni, di cui spesso ricrea dei frammenti106

,

mantenute con le persone che conosceva.

Il brano che ho scelto come exergo è particolarmente significativo perchè contiene delle idee

che mi mostrano una direzione nella quale guardare per iniziare a pensare la conversazione in

Virginia Woolf come io la vedo. Idee che ho assunto come «concetti sensibilizzanti» (Blumer,

2008), per indagare se e come questa pratica può contribuire a vedere sotto un’altra luce le

modalità di interazione all’interno dei rapporti educativi e formativi.

105

Dei diari di Virginia Woolf (in totale veintisei quaderni), prendero come principale riferimento la selezione a

cura di Leonard Woolf, pubblicata in Italia con il titolo Diario di una scrittrice (ed. or. 1953). Inoltre ho

consultato The Diary of Virginia Woolf (1979-1985), articolato in cinque volumi a cura di A.O. Bell e A. Mc

Neillie, altri scritti autobiografici raccolti in Momenti di essere (ed. or. 1976) e le lettere, in particolare quelle

relative al periodo 1932-1935 (si veda Woolf, 2002). Per quanto riguarda l’opera letteraria e i testi di teoria della

scrittrice, ho tenuto conto di: i romanzi La signora Dalloway (ed. or. 1925) e Al faro (ed. or. 1927), che per

questo lavoro ho letto nelle edizioni italiane (2011 e 2009, rispettivamente), tradotti da Nadia Fusini; Una stanza

tutta per sé (ed. or. 1929) nell’edizione spagnola tradotta da María Milagros Rivera Garretas (2008) e Le tre

ghinee (ed. or. 1938) nell’edizione italiana con introduzione di Luisa Muraro (2010); Come dobbiamo leggere un

libro? (ed. or. 1926), nell’edizione italiana con traduzione di Nadia Fusini (1998). 106

Si veda, per esempio, una delle sue conversazione con l’amico Lytton Strachey in Woolf (2011b, p. 48-49).

97

Tre sono le parole che vorrei rilevare dal frammento sopra citato: agitare, valorosamente,

vita. La prima fa riferimento ad un’azione: l’agire di colei che parlando agita, batte, muove.

La seconda è un modo, il come. Parlare, come dice Hannah Arendt (2009, p. 136), richiede

«lasciare il proprio riparo e mostrare chi si è, svelando ed esponendo se stessi», movimento in

cui, secondo la filosofa, è già presente il coraggio. Virginia Woolf è consapevole che la scelta

di prendere la parola ha in sé un rischio: «corrida» (Fusini, 2009a, p. 50) è una delle immagini

che Virginia utilizza per evocare l’esperienza della conversazione, la quale, come ci tiene a

sottolineare, esige vivere «audacemente, prendendo il toro per le corna e tremando sui

precipizi» (Woolf, 2011b, p. 83). Restare quindi in bilico e allerta per cogliere la vita, terzo

concetto guida; impegnarsi nella ricerca delle parole più adeguate perché non vada sprecata.

Il tutto nel movimento incessante, antica massima della conversazione (Woolf, 2011b, p. 60),

di dare, ricevere, ricambiare e rilanciare. Un movimento «a spirale»107

, che si mantiene aperto

e orientato dal desiderio di pensare assieme.

3.2.1. Pensare assieme

Una delle sperienze che Virginia Woolf ricorda con più intensità nei suoi scritti autobiografici

sono le serate di Bloomsbury108

. Dopo la morte del padre (la madre era scomparsa nel 1895),

le sorelle Stephen (Vanessa e Virginia) insieme ai suoi fratelli abbandonano la casa familiare

in Hyde Park Gate e si trasferiscono al quartiere di Bloomsbury. A partire dal 1910 il salotto

della nuova casa diventa lo spazio di incontro di un gruppo di intellettuali, tra cui Lytton

Strachey, Edward Morgan Foster, John Maynard Keynes, Clive Bell, Leonard Woolf, tra gli

altri, tutti amici del fratello minore di Virginia, che presero l’abitudine di riunirsi ogni giovedì

per discutere sui più svariati temi. «Gente speciale» – come racconta Nadia Fusini, una delle

biografe di Virginia Woolf – «originale, eccentrica, con una grande voglia di vivere in modo

diverso dai padri. Giovani pieni di estro e inventiva e ironia» (2009a, p. 46). Anche le sorelle

Woolf hanno una grande voglia di vivere in modo diverso, a modo loro, e le serate di

Bloomsbury, in cui prendono parte attivamente insieme agli altri, diventano il primo luogo in

cui potersi sperimentare in libertà: la possibilità di inventarsi una nuova vita (ivi, p. 51).

107

Scrive Chiara Zamboni (2001, p. 137): «(…) il movimento della spirale rimane sempre aperto e dinamico

perché non viene mai restituito un valore equivalente o eguale. L’immagine della spirale mostra il movimento di

un dare, ricevere e ricambiare attratto da un di più, che non si sa definire con le parole consuete. Il simbolo del

cerchio è più adeguato allo scambio tra due tra i quali non c’è trascendenza. Ma là dove c’è qualcosa che attrae,

che eccede e che impegna i due, allora il cerchio che ritorna su di sé non è figura adatta». 108 Si veda in particolare il testo intitolato Vecchio Bloomsbury in Woolf (2003, pp. 229-253).

98

Per evocare l’ambiente delle riunioni e rendere il senso degli scambi di parola all’interno del

gruppo, riporto uno dei brani in cui la Fusini (ivi, p. 50) descrive l’evolversi delle serate:

Le due sorelle non stavano in sé dall’eccitazione. I giovani entravano esitanti, quasi

volessero scomparire, strisciavano contro le pareti della stanza e in silenzio andavano a

sedersi sui divani. Non era più il salotto vittoriano, e non c’erano convenzioni da rispettare,

nè a cui aggrapparsi per la conversazione che sarebbe seguita. Se qualcuno provava con delle

frasi fatte, cadevano nel vuoto. A volte vinceva il silenzio, ma era un silenzio problematico,

non imbarazzato, niente affatto ottuso. I giovani non si facevano nessun problema di

restarsene seduti a guardare il pavimento, finchè non trovavano la cosa da dire.

La conversazione nel gruppo di Bloomsbury, così come poi praticata da Virginia Woolf, non

era una semplice chiaccherata superficiale109

, almeno non nasceva con quell’intenzione,

nonostante il ritmo incalzante degli scambi oppure lo spostarsi tra temi diversi, caratteristica

questa propria della conversazione – come segnala Chiara Zamboni (2001, p. 142) – «che

passa da un argomento ad un altro, senza esaurirlo (…), con una apparente incoerenza, ma per

un nesso profondo che il pensiero coglie e da cui rimane attratto». Era semmai proprio questa

«leggerezza» (ibidem), ovvero, l’assenza di convenzioni, di regole prefissate (se non

l’impegno con ciò che chiedeva di essere nominato), la possibilità di abbandonarsi alla libera

associazione delle idee, a rendere la conversazione uno spazio così propizio per le scoperte e

le invenzioni; così ricco: «abbiamo parlato in modo fertile, senza mai sfruttare troppo un

argomento» (2011b, p. 158), scriverà Virginia Woolf anni più tardi, in merito all’incontro con

un amico. Non una semplice chiacchierata dunque, neanche un discorso pedante, la

conversazione era vissuta dai partecipanti come un’attività giocosamente seria, da cui

traevano piacere e divertimento, ma che li impegnava profondamente nella creazione di un

pensiero che nasceva in relazione e a partire da sé, vale a dire, a partire da ciò che le parole

altrui facevano vibrare nel corpo, nell’anima; dalla scossa che provocavano oppure da silenzi

che aprivano. Silenzi in cui si restava in attesa seduti a guardare il pavimento, finchè non

109

Il che a volte capita, come ci racconta Virginia Woolf : «Ho preso il tè con Lady Cunard (…). Non era la sua

atmosfera quella di una conversazione a due. È troppo scaltra per aprirsi e ha bisogno di un pubblico per

diventare irruente e volubile com’è il suo genere. Ridicola donnetta dalla faccia di cocorita (…)» (2011b, p.

161), in cui la Woolf riconosce delle qualità: «una sua acutezza, una sua mordente visione della vita» (ivi, p.

162), che non riescono tuttavia a sollevare la conversazione dalla superficialità delle cose. «E noi due sedute là

finivamo quasi per essere un po’ banali e convenzionali» (ibidem). E anche una sera da Lady Colefax: «fu una

serata in superficie; e ne ebbi la prova accorgendomi di non riuscire a fumare il sigaro che avevo portato con me.

Quello era a un livello più profondo. Tutto fu mantenuto allo stesso livello superficiale dall’ospitalità di Sibyl

[Lady Colefax]. Storielle, complimenti» (ivi, p. 348).

99

trovavano la cosa da dire. In attesa di parole pensanti e non pensate, direbbe Chiara Zamboni.

A Bloomsbury spesso sarà Virginia Woolf ad iniziare la conversazione, anche se non sempre

intenzionalmente: «Magari Vanessa, incauta, cominciava a raccontare di essere andata ad una

mostra e usava la parola “bellezza” e a quel punto uno di loro alzava la testa e chiedeva: che

cosa intendi per bellezza?”. E tutti drizzavano le orecchie» (Fusini, 2009a, p. 50). Si riapriva

il gioco del pensiero: «Che fosse la bellezza, o il bene, o la verità, le energie si concentravano

sul senso di quella parola» (ibidem).

Nel rimuginare su «quelle parole semplici che sono i nodi della nostra esistenza» – dice

Chiara Zamboni (2009, p. 15) – è radicato il senso primo del pensare, il quale «nasce dalla

distanza che ad un certo punto avvertiamo tra il linguaggio e i nostri vissuti. Si incomincia a

ragionare su queste parole per riallacciare un legame vitale tra tali parole e quel che viviamo.

È in questo modo che si scoprono dei concetti nelle parole più semplici». Credo che nel

gruppo di Bloomsbury il desiderio di riallacciare un legame vitale tra le proprie parole e

vissuti – desiderio che a mio avviso risuona anche oggi in tanti giovani donne e uomini110

– ,

la voglia di vivere in modo diverso dai padri (scommessa che per Virginia Woolf sarà

dell’ordine del simbolico e che metterà al centro della sua creazione letteraria111

) fosse la

spinta che muoveva i suoi membri ad incontrarsi nello spazio della conversazione, in cui

«ognuno di loro provava a tirare la propria freccia per cogliere il concetto, per fissare l’idea.

Si sfidavano, si aizzavano l’un l’altro, e le tesi più stravaganti prendevano corpo e nascevano

pensieri nuovi» (Fusini, 2009a, p. 50).

Theodore Zeldin, nel suo libro La conversazione. Di come i discorsi possano cambiarci la

vita (2002), riflette su un tipo di conversazione che segue molto da vicino quella praticata dal

circolo di Bloomsbury e, in particolare, da Virginia Woolf. Scrive Zeldin (ivi, p. 27):

La conversazione che mi interessa è quella che intavoliamo con la disponibilità di uscirne un

po’ cambiati. Si tratta immancabilmente di un esperimento, i cui risultati non sono mai

garantiti. Implica dei rischi. È una avventura nella quale diamo la disponibilità a cuocere il

mondo insieme ad altri, per dargli un gusto meno amaro.

110 A questo proposito e per fare un esempio nell’ambito universitario mi viene in mente il gruppo Studiare con

lentezza, creato all’interno dell’Università di Verona da un gruppo di studenti e studentesse desiderosi di avere

uno spazio proprio di pensiero e di scambio dove poter godere dell’esperienza universitaria, aldilà di schemi

rigidi e di ritmi frenetici che un certo modo di vedere l’università impone. 111 Scrive nel Diario (2011b): «(…) ho mobilitato il mio essere; imparato a dargli uno sfogo completo; perché

insomma mi sono costretta in una certa misura a rompere ogni schema e a trovare una forma inedita di essere –

cioè di espressione – per ogni cosa che sento e penso» (p. 252). Il corsivo è mio.

100

Oltre la metafora gastronomica e la sua finalità di addolcire un mondo difficile da digerire,

trovo nelle parole di Zeldin alcune qualità interessanti della conversazione così come qui

propongo di pensarla: la disposizione a lasciarsi trasformare da parte di chi vi partecipa, il suo

carattere sperimentale e imprevedibile, la sua componente di rischio, la sua dimensione

relazionale che è anche simbolica, in quanto spazio di cocreazione di pensiero.

Le stesse qualità, anche se nominate in un altro modo, mi sembra di coglierle in ciò che

Chiara Zamboni ha chiamato la «pratica del pensiero in presenza», a cui ha dedicato un intero

libro, intitolato in modo significativo, Pensare in presenza. Conversazioni, luoghi,

improvvisazioni (2009). Scrive la filosofa:

Immaginiamoci la situazione di una conversazione. Sul tema più persone intervengono. Per

un po’ si ripetono pensieri già pensati. Quando il processo incomincia a snodarsi

autonomamente, si inizia a discutere avviandosi per un percorso di cui non si vede

l’andamento nè il disegno complessivo. Ci si fida ad andare avanti, senza avere una trama o

un progetto. Si tratta di un salto nel vuoto (ivi, p. 8).

O nell’arena, per seguire l’immagine della Woolf; salto che, nonostante la sua apparente

disinvoltura, necessita di esercitazione:

La pratica del pensiero in presenza richiede apprendistato, autodisciplina e l’accettazione del

caso, dell’imprevisto, dove è proprio la casualità che permette l’improvvisazione (ivi, p. 9).

E ancora:

Uno scambio guidato dal desiderio di pensiero con altri non sfocia in un'idea precisa, che ne

sarebbe il momento finale o la sintesi. Ci sono sì nel corso del processo delle invenzioni

concettuali, che provocano dei veri e propri salti simbolici. Ci possono essere alcuni risultati

teorici e risposte a problemi, ma mai nella forma della conclusione, bensì in quella di una

svolta, di una nuova apertura di ricerca. E tuttavia, anche se non c’è una conclusione, la

maggioranza dei partecipanti sente quando il discorso su di un tema termina (ivi, p. 11).

In questi tre passaggi, scanditi dalle forme diverse con cui Chiara Zamboni nomina la

conversazione: pratica di pensiero in presenza, scambio guidato dal pensiero, vedo il

101

movimento invisibile che seguono le serate a Bloomsbury: l’alito che le animava, il loro

senso, la scommessa in gioco. Scommessa che Virginia farà, come sa di essere il suo dovere

(Woolf, 2011b, p. 110), ogni volta che l’incontro con un altro essere umano le darà occasione.

3.2.2. Essere in relazione

Se Virginia Woolf dice che fare conversazione è un suo dovere è perché percepisce che nello

scambio creativo di parola c’è in gioco qualcosa che va oltre l’esercizio della mente: «Ho

agitato le acque della conversazione, come sempre faccio, valorosamente, così che la vita non

vada sprecata» (ivi,p. 74)112

. Non si tratta quindi soltanto di rispondere a una specie di

obbligo morale nei confronti dell’intelligenza, come potrebbe essere il caso di alcuni suoi

amici intellettuali113

; e a muoverla non è assolutamente il rispetto delle convenzioni sociali,

nei confronti delle quali Virginia Woolf si sentiva una “outsider”. A coinvolgerla

profondamente nella conversazione è la vita. La vita con la quale Virginia desidera di avere un

rapporto intimo e intenso; che cerca di accogliere nelle sue parole per comprenderla e

comunicarla, perché non vada persa. Così per lei la parola, scritta o scambiata in presenza,

sarà il balsamo con cui alleviare il sentimento di perdita irreparabile che l’accompagnerà nella

sua esistenza. Parole che tuttavia, e di ciò Virginia ne è consapevole, non riescono a cogliere

tutto perché non tutto è dicibile. Eppure lei continua a provarci. E nei suoi tentativi, chi la

legge, riesce a sentire l’eco della vita.

L’aspetto delle cose ha un forte potere su di me. Anche adesso non posso fare a meno di

osservare i corvi che sbattono le ali contro il vento forte, e continuo a chiedermi

istintivamente: «Qual è la frase adatta?», e mi sforzo di rendere sempre più viva la violenza

delle correnti aeree e il fremito delle ali dei corvi che sbattono come se l’aria fosse piena di

increspature e di onde e di asperità. (…) Ma quanto poco riesco a trasmettere alla mia penna

di ciò che è così vivo ai miei occhi, e non ai miei occhi soltanto: anche a qualche fibra

nervosa, a qualche membrana a ventaglio propria della mia specie» (Woolf, 2011b, p. 157).

Ciò che è così vivo, Virginia Woolf cerca di trasmetterlo nei modi migliori e più adatti per

112 Il corsivo è mio. 113 A suggerirlo è Chiara Zamboni, la quale ha studiato la conversazione in Virgina Woolf, facendo riferimento

anche all’esperienza del gruppo di Bloomsbury. A questo proposito si veda Zamboni (2001, pp. 141- 148).

102

sé114

, sapendo che non tutto potrà essere detto, riconoscendo in quella impossibilità la

possibilità stessa perché sia la vita a farsi sentire attraverso la sua voce; la vita come lei la

vede ma con gli occhi di una comprensione profonda, che si fa attraversare dalla visione e

nella parola cerca di evocarla senza esaurirla. «Quando scrivo» – dice Virginia – «non sono

che una sensibilità» (Woolf, 2011b, p. 65). Facoltà che nella scrittrice – come mette in luce

Nadia Fusini, a partire dalla lettura attenta della sua vita e opera – è «poetica e conoscitiva

insieme» (2009a, p. 137); «intuizione pura, cui lei giunge attraverso la disciplina del silenzio

e l’esercizio della sua arte» (2009b, p.11).

Nella conversazione, come nella scrittura, non era soltanto l’intelligenza a guidare Virginia,

quel tipo di intelligenza che i suoi amici intellettuali sentivano di dover coltivare nella

conversazione, ma soprattutto quella che Clarice Lispector chiama, «sensibilità intelligente»:

il dono di leggere le cose con un «cuore intelligente, in sommo grado tale che la guida e guida

tutti gli altri, come un vero e proprio radar» (2007, p.61, trad. mia).

Leggere le cose con il cuore, evocare senza esaurire per fare posto ad altro, perché il

movimento del pensiero si mantenga vivo, trovando nei vuoti e nei silenzi la spinta per

continuare a scorrere. Nello stesso modo in cui la musica ha bisogno del silenzio per essere

così anche la parola, per non diventare frastuono, per avvicinarsi alla vita senza sovrapporsi

ad essa. Silenzio che nasce dall’amore per il mondo reale, per il suo canto:

Vorrei riuscire a esprimere questa sensazione; la sensazione del canto del mondo reale,

quando la solitudine e il silenzio respingono dal mondo abitato; la sensazione che mi prende

di essere imbarcata in un’avventura; di essere stranamente libera (…) di fare qualunque cosa

(Woolf, 2011b, p. 175).

L’amore per ciò che è vivo è ciò che muove Virginia Woolf anche nella conversazione ad

andare in «uno strato più profondo» (Woolf, 2011b, p. 244), oltre la superficialità del

chiacchiericcio. È il desiderio di accogliere la vita, senza ingabbiarla, a rendere il discorso

poroso, pieno di buchi. Un «discorso ellittico», come suggerisce Chiara Zamboni (2001, p.

114

Dalla lettura dei suoi scritti ho la certezza che la parola sia stato il modo a lei più vicino anche se non l’unico.

Non mi è dato di conoscere come guardava (ci sono tante foto ma non possono sostituirsi allo sguardo vivo) o

parlava, anche se ho potuto ascoltare la sua voce in alcune delle trasmissioni che fece per la radio londinese.

Nemmeno mi è possibile interrogarmi sugli effetti della sua presenza, anche se una via potrebbe essere quella di

andare alla ricerca delle testimonianze delle persone che la conobbero. Non so dire del suo odore, del suo modo

di camminare, di cucinare, di ordinare la casa e predisporre, per esempio, i mobili, anche se nei suoi Diari è

possibile trovare dei passaggi significativi in proposito. Resta comunque il fatto che per lei l’essere era

strettamente legato all’espressione, alla parola per dire ogni cosa che sentiva o pensava.

103

144), che senza dire tutto riesce «a portare più esattamente e più velocemente all’essenzialità

(…) perché l’eccedenza del discorso, segnalata dall’incompletezza, produce la capacità di un

movimento creativo» (ibidem).

Abbiamo parlato in modo fertile

Una conversazione diventa scambio vivo di pensiero se si riesce a stare in relazione con gli

altri, mantenendosi tra ciò che si è e si sa e tra ciò che si può divenire e che non si sa ancora.

Nell’affidarsi alla relazione vi è il riconoscimento di una mancanza e la necessità di colmarla

ma anche la consapevolezza di avere qualcosa da offrire; qualcosa che si ritiene importante

dire, che preme per essere detto, altrimenti non si corre il rischio di esporsi. Nella

conversazione viva si genera un movimento creativo di dare e lasciarsi dare che ha a che

vedere con il dono, «un gesto di abbondanza non calcolata» che «apre e al medesimo tempo

vincola. (…) È un legame libero, a cui non siamo costretti come nei debiti di denaro, ma che

avvertiamo comunque in modo profondo» (Zamboni, 2001, p. 129). Ed è l’ordine del dono,

con la dismisura che introduce nella relazione, e non la legge della compensazione che

annullerebbe la sua potenza creatrice (Weil, 2001) a far girare la conversazione in quel

movimento a spirale aperto e dinamico, di cui ci parlava Chiara Zamboni.

Penso a una scena di Al faro. La signora Ramsay, protagonista del romanzo, è nella stanza dei

suoi figli: James, Cam e Mildred. Sono le undici di sera e i bambini sono ancora svegli a

chiaccherare. Cam non riesce a dormire perché la spaventa un teschio che è attaccato al muro.

Come gli era venuto in mente a Edward di mandargli quell’orrendo teschio? Allora la sig.

Ramsay si toglie lo scialle, copre il teschio e le dice:

guarda com’è bello ora, piacerebbe alle fatine, sembra un nido d’uccello, somiglia a una

meravigliosa montagna (…) con valli e fiori e campane che suonano e gli uccelli che cantano

e le caprette e le antilopi… (Woolf, 2009, p. 128).

Dopo un po’ la figlia comincia a imitarla:

Mentre le pronunciava vedeva le parole che echeggiavano ritmicamente nella testa di Cam, e

Cam ripeteva con lei somiglia a una montagna, al nido di un uccello, a un giardino, ed ecco

le piccole antilopi… (ibidem).

104

Le parole della sig. Ramsay hanno la capacità di svelare nel teschio un mondo segreto, un

mondo che non è percepibile a prima vista ma che lei e Cam riescono ad immaginare insieme.

Insieme perché Cam si affida alle parole della madre e le accoglie, ripetendole, e così

facendo, le offre di nuovo a sua madre perché anche lei possa ascoltarle. È soltanto una

attimo, il tempo sufficiente perché Cam si addormenti, ma basta perché le piccoli antilopi

accadano.

Della scena della sig. Ramsay, così ricca a mio avviso di suggestioni, mi interessa la tessitura

delle sue parole, la sostanza di cui sono fatte; la loro capacità di svelare, di far accadere delle

cose, di creare mondo. Il linguaggio della conversazione quando genera pensiero fertile credo

sia molto vicino alla lingua della sig. Ramsay e al vincolo da cui essa si nutre: la fiducia.

Affidarsi agli altri nella conversazione è condizione prima perché il pensiero vi possa nascere.

Quanto Virginia ne fosse certa, lo accenna questo frammento del Diario, che scrive dopo aver

saputo della morte della scrittrice Stella Benson:

E ora, così presto, è sparita quella che avrebbe potuto essere un’amicizia. Affidabile e

paziente, e molto sincera: questo penso di lei. Cercavamo di arrivare, in una di quelle serate

difficili, a uno strato più profondo; e certamente l’avremmo raggiunto, se ne avessimo avuto

la possibilità (Woolf, 2011b, p. 244).

Capita, in effetti, che non sempre sia possibile iniziare una conversazione perché mancano le

condizioni necessarie, come sembra sia il caso di cui ci parla la Woolf, per esempio, il tempo

a disposizione, il grado di accoglienza del luogo in cui si è (mi riferisco alla cura, alla bellezza

ma anche alla disposizione degli oggetti nello spazio); condizioni queste che oggi certa scuola

e università dimentica. Ma succede anche, ed è su questo aspetto che vorrei soffermarmi, che

il movimento della conversazione si interrompa o nemmeno abbia inizio perché non si

riconosce il vincolo relazionale che lo scambio creativo di parola richiede nè si accetta di

affidarsi a esso. Un esempio lo troviamo in Al Faro, nel personaggio di Charles Tansley. Si

tratta di un giovane studente, discepolo del signor Ramsay, e per questo legame spesso

presente nella casa familiare. Sono diverse le scene in cui lo vediamo alle prese con la vita

sociale, nei confronti della quale si mostra insicuro, diffidente e impaurito. La sua incapacità

di godere del momento, di esserci nelle cose, lo porta a rispondere agli stimoli che gli arrivano

dall’esterno in modo goffo e inadeguato; spesso crudele e prepotente. La conversazione è per

105

lui più che un momento di relazione e di accoglienza, due delle massime di questa pratica115

,

un’occasione per affermare il suo ego; a spingerlo a parlare non è il desiderio di pensare con

altri ma la vanità116

:

E perché mai Charles Tansley si arrabbiava? Si precipitò (solo perché Prue non era carina

con lui, pensò la signora Ramsay) a denunciare i romanzi di Waverley quando non ne sapeva

nulla, ma proprio nulla, pensò la signora Ramsay, mentre piuttosto che ascoltarlo lo

osservava. Vedeva di che si trattava dai suoi gesti – voleva affermarsi, e avrebbe fatto così

finchè non avesse ottenuto la cattedra, o non si fosse sposato; allora forse avrebbe smesso di

dire “io-io-io”. Perché, in fondo, a questo si riducevano le sue critiche al povero Scott, o a

Jane Austen. “Io-io-io” (2009, p. 121).

Anche Virginia Woolf nel suo Diario dà testimonianza di casi in cui il movimento creativo

della conversazione si interrompe a causa del “troppo io”. A volte sono i suoi amici, come

spiega molto bene Chiara Zamboni (2001), a spezzare il filo del discorso «quando essi si

circondano di parole come in un piacere personale e solitario, pur sembrando parlare con lei»

(ivi, p. 145):

L’atmosfera maschile mi sconcerta. Diffidano di te? Ti disprezzano? E se è così, perché

restano lì seduti per tutto il tempo della tua visita? La verità è che quando Murry dice una

cosa mascolina e ortodossa (su Eliot, per esempio), minimizzando la mia premura di sapere

che cosa ha detto di me, io non mollo; penso a quale scosceso precipizio spacca in due

l’intelligenza maschile e come vanno fieri di un certo punto di vista che somiglia molto alla

stupidità. Trovo molto più facile parlare con Katherine [Mansfield]; lei cede e resiste come

mi aspetto che faccia; insieme percorriamo molta più strada in molto meno tempo (Woolf,

2011b, p. 24)117

.

115 Come segnala Benedetta Craveri (2001), a caratterizzare un buon conversatore è la sua capacità di mettere in

luce le qualità degli interlocutori, senza per questo rinunciare al proprio punto di vista (ivi, p. 485). 116

A proposito della vanità nello scrittore scrive María Zambrano (1996): «La vanità è una gonfiatura di

qualcosa che non è riuscita a essere e si gonfia per coprire il suo vuoto interiore. Lo scrittore vanitoso dirà tutto

ciò che deve essere taciuto per mancanza di entità, tutto ciò che per non essere davvero non deve essere messo in

chiaro, e per dirlo, tacerà ciò che deve essere rivelato, lo passerà sotto silenzio o lo falserà con la sua

intromissione vanitosa» (p. 28). Nonostante María Zambrano parli dello scrittore credo che le sue parole siano

molto significative anche nel contesto della conversazione. 117 Sull’egocentrismo maschile nella conversazione si veda anche Woolf (2011b), di cui riporto il seguente

frammento: «E l’egocentrismo degli uomini continua a sorprendermi e a urtarmi. Credo che non ci sia neppure

una donna, tra le mie conoscenze, che sarebbe capace di star seduta sulla mia poltrona dalle tre alle sei e mezzo

senza l’ombra di un sospetto che io possa aver da fare o essere stanca, o annoiata; e che, lì seduta, potrebbe

parlare, mugugnando e brontolando, delle sue difficoltà e delle sue preoccupazioni, e poi mangiare cioccolatini,

106

3.2.3. Celebrare il mondo reale

La conversazione è per Virginia Woolf un momento di celebrazione: spazio di incontro con

l’altra, con l’altro da sé: una Nessa [sua sorella Vanessa], un Duncan, un Roger; la possibilità

di «poter aprire una di quelle porte» – scrive Virginia – «che ancora apro con tanta audacia e

trovare una persona vera, viva e interessante (…). Una persona nuova, il cui spirito cominci a

vibrare» (2011b, p. 162). Perché di questo si tratta, di aprire e di sentire ciò che la presenza e

la parola dell’altro provocano e vibrare nella conversazione insieme alla vita. La

conversazione acquista sotto questa luce un significato inedito, quasi sacro, in quanto rituale

che convoca e onora la vita, celebrandola.

A ispirarmi quest’idea è La signora Dalloway, romanzo della Woolf pubblicato in 1925. La

storia racconta una giornata nella vita di una donna dell’alta società londinese, Clarissa

Dalloway, che vuole dare una festa. Le scene del romanzo si susseguono dalla mattina quando

esce per comprare dei fiori fino al ricevimento serale, centro di gravità del racconto. Vorrei

soffermarmi su un momento particolare della giornata: Clarissa è tornata a casa dopo una

intensa mattinata a girare per le vie di Londra in cerca del necessario per la festa. Sono le tre

del pomeriggio. Suo marito Richard è a una riunione alla Camera de Comuni. Elizabeth, la

figlia, è nella sua stanza con l’amica, la signorina Kilman. Seduta nel divano, Clarissa guarda

le rose che suo marito, uomo di governo, impegnato nella causa degli armeni, le ha portato. E

si lascia andare ai pensieri, diventando d’un tratto «disperatamente triste»:

Era piuttosto una sensazione, una sensazione sgradevole, di prima, forse; qualcosa che aveva

detto Peter [Walsh, un amore di giovinezza] (…); e poi una cosa detta da Richard s’era

aggiunta, ma che cosa aveva detto? Eccole lì, le sue rose. La festa! Era la festa! Le sue feste!

Tutti e due la criticavano molto slealmente, ridevano ingiustamente, per le sue feste. Era

quello! Era quello! (Woolf, 2011a, p. 111).

Ora che Clarissa sa, cerca di capire come difendersi dalle accuse. Non le piace imporsi, nè

circondarsi di gente famosa, di uomini importanti. No, non è una snob. «Sbagliavano tutti e

due. A lei, semplicemente, piaceva la vita» (ivi, p. 112).

poi leggere un libro e finalmente andarsene, con l’aria di essere soddisfatta di sé e come avvolta in una specie di

vescica di nebuloso omaggio a sé stessa. Non certo le ragazze di Newham o di Girton. Sono troppo attive, troppo

educate. Una simile presunzione non rientra nel loro carattere» (ivi, p. 164)

107

(…) la presenza di quella cosa che sentiva così chiara diventò fisicamente concreta; rivestita

dei suoni della strada, assolata, col fiato caldo, bisbigliava, gonfiava le tende. (…) tutto

quello che poteva rispondere era (e non poteva aspettarsi che qualcuno capisse): sono

un’offerta. (…) Ma per andare più a fondo, al di là di quello che dice la gente (e come sono

superficiali, frammentari, quei giudizi!) nella mente sua, che significava per lei, questa cosa

che chiamava la vita? Oh, era davvero strano. C’era il Tal dei tali a South Kensington, o il

Tal altro ancora, ad esempio, a Mayfair. Lei aveva costantemente il senso della loro

esistenza, e pensava che spreco, e provava pietà, e sentiva se soltanto li si potesse mettere

tutti insieme, e lo faceva. Ed era un’offerta: mettere insieme, creare. Ma per chi? Un’offerta

per amore dell’offerta, forse. Comunque lei aveva quel talento (ibidem).

Mettere tutti insieme, perché la vita non vada sprecata…

Anche la signora Ramsay ha il dono di questa forma particolare di creazione, al punto che è la

sua presenza a sostenere e orientare la conversazione:

In ogni modo la conversazione era ripresa. Ora non c’era bisogno che lei ascoltasse. Non

sarebbe durato lo sapeva, ma per il momento i suoi occhi erano così penetranti che sembrava

facessero il giro del tavolo denudando uno a uno i convitati, i loro pensieri e i loro

sentimenti, senza sforzo, come una luce che si insinui sott’acqua a illuminare le increspature

leggere del fondo, le alghe, i pescetti in equilibrio, le trote veloci e silenziose tutte sospese,

tremanti. Li vedeva, li udiva, ma qualunque cosa dicessero la qualità era questa; era come se

ciò che dicevano prendesse la movenza di una trota, quando si vedono la insieme l’onda e la

ghiaia del fondo, una cosa a destra, un’altra a sinistra, e tutto tiene (Woolf, 2009, p. 122).

Tutto tiene finchè la signora Ramsay sente che è ora di andare: « (…) appena se ne andò, ci fu

una specie di disintegrazione: gli altri esitarono incerti, poi si dispersero in direzioni diverse»

(ivi, p. 126).

La presenza di certe persone può avere degli effetti nello svolgersi del pensare assieme nel

senso di orientare la conversazione verso una maggiore profondità oppure di chiamare alla

presenza gli altri. A questo proposito, Chiara Zamboni (2009) dedica una parte della sua

riflessione sul pensare in presenza alla figura della psichiatra e psicanalista Frieda Fromm

Reichmann e agli effetti che la sua presenza aveva nelle persone che lavoravano con lei. Mi

sembra molto significativa l’idea che a qualificare la presenza della Reichmann, la quale

«provocava l’effetto di portare il discorso alla semplicità di ciò che è veramente importante,

108

tralasciando l’inessenziale (…)» (ivi, p. 87), fosse la profonda consapevolezza che lei aveva di

sé e di ciò che accadeva attorno a sé. Scrive la filosofa: «La condizione di consapevolezza

allargata la porta al distacco e alla solitudine. Eppure lei risulta comunque pietra di paragone

per gli altri studiosi [quelli presenti nella discussione], perché questo atteggiamento nasce da

una accoglienza delle relazioni e dunque rende più intensa e significante anche la relazione

con loro» (ivi, p. 88).

La signora Ramsay ha il dono di cogliere il disegno profondo di ció che (le) accade, di

scoprire i collegamenti precisi, guidata da quella sensibilità intelligente di cui ci parla Clarice

Lispector. Come nel caso di Frieda Fromm Reichmann, è questa consapevolezza, che nasce

dallo «stare in silenzio, sola» ritirandosi «con un senso di solennità», a rendere vera la scena

che osserva, a chiamare alla presenza il signor Ramsay, Lily Briscoe, Charles Tansley, il

signor Bankes… «Non si doveva dire nulla; non si poteva dire nulla. Era lì, li avvolgeva tutti»

(Woolf, 2009, p.120).

Nel non dire nulla c’è un invito all’ascolto, e paradossalmente, anche alla parola. Perché

l’ascolto nella conversazione è la dimensione necessaria perché il pensiero venga alla luce:

ascolto di sé, dell’altro da sé; dei propri silenzi e di quelli altrui. Un «silenzio problematico»,

ad esempio, come a volte capitava nelle serate di Bloomsbury, «come se il livello delle cose

degne di essere dette si fosse elevato a tal punto che era preferibile non rompere il silenzio per

dire cose che non erano degne» (Woolf, 2003, p. 239). Cogliere l’essenziale e andare in

profondità. La qualità dell’ascolto di certe persone, come la signora Ramsay, hanno la

capacità di aprire il presente al suo essenziale, al centro che lo anima e lo muove. In questo

senso l’ascolto è legato alla consapevolezza: si è consapevoli quando, oltre al chiacchiericcio,

al frastuono delle parole non degne di essere dette, si riesce ad ascoltare ciò che è: «il canto

del mondo reale», direbbe la Woolf (2011, p. 175). E così facendo si provoca anche negli altri

un maggior senso di realtà.

Quanto l’ascolto fosse una massima della conversazione lo sapevano bene le preziose, donne

per la maggior parte aristocratiche ma anche borghesi, che tra gli inizi e la seconda metà del

Seicento fecero della conversazione un’arte dell’essere in relazione. Arte in cui, come segnala

Benedetta Craveri (2001, p. 16), «il talento di ascoltare era più apprezzato che quello di

parlare». Talento che, a mio avviso, ha a che vedere con la consapevolezza a cui prima

accennavo: una capacità di esserci nella relazione, di percepirsi e percepire le sensazioni che

la relazione provoca, il loro flusso nel divenire, e fare di esse fonte di conoscenza,

fondamento dell’agire e del parlare. Qualcosa che si avvicina al modo con cui Virginia Woolf

109

aspirava a scrivere: «tenere la cosa, tutte le cose, le innumerevoli cose, insieme» (2011b, p.

239).

Nella signora Ramsay e nella signora Dalloway sento risuonare l’eco delle preziose: nella loro

capacità di cogliere l’essenziale e andare in profondità con leggerezza; nello sforzo «del

legare e del fluire e del creare» (Woolf, 2009, p. 102), di cui facevano sfoggio nei suoi salotti

Madame de Sévigné e Madame de La Fayette – per citare le più famose – , luoghi di relazioni

complesse, di equilibri precari, come tra l’altro lo sono anche la sala da pranzo di Mrs

Ramsay o la casa di Clarissa in un giorno di festa. E, sopprattutto, nella loro vocazione a

celebrare la vita.

«Un suo dilettarsi naturale della vita», sono le parole che usa Virginia Woolf per descrivere, in

un brillante saggio su Madame de Sévigné, la vitalità che la caratterizzava: «un incontenibile

godimento», «una vivace effervescenza», uno «svolazzare tutte le sue piume insieme, facendo

brillare tutte le sue sfaccettatture» (2011c, p. 592). Mi sembra di vedere Clarissa Dalloway,

camminando per le vie di Londra in cerca di fiori per la sua festa: «tutto la assorbiva, tutto,

anche i taxi che passavano (...) quello che lei amava era qui, ora, di fronte a lei, quella grassa

signora in taxi» (Woolf, 2011a, p. 8). E anche la signora Ramsay, seduta a tavola insieme ai

suoi ospiti, «sospesa in aria come fa il falco; come una bandiera sventolava in un elemento

che era la gioia, che le riempiva ogni nervo del corpo con dolcezza» (Woolf, 2009, p. 120).

Persino la stessa Virginia Woolf, ai tempi di Bloomsbury insieme a sua sorella Nessa,

entrambe per terra a conversare fino a notte fonda con gli altri membri del gruppo: «una

conversazione come quella di stasera mi dà un senso di vitalità, di stimolo; le angolosità, le

zone oscure si smussano e si illuminano» (Woolf, 2011b, p. 161).

Certo le tonalità sono differenti perché di donne differenti si tratta, ma l’energia che scorre in

profondità nei loro corpi è un’ «intensa passione (…) per la relazione viva che (…) lega agli

altri, alla vita, al mondo» (Rampello, 2005, p. 20). Energia sotterranea che ha la vibrazione

dell’esperienza del primo rapporto con la madre e che mostra la continuità, come alcune

studiose hanno messo in luce118

, «tra quel rapporto originario con la madre e la costruzione

dei successivi rapporti con persone, cose e fatti del mondo, compreso il rapporto con sé

stessi» (Piussi, 1992, p. 22). Esperienza dell’essere in relazione, che segna l’ingresso nel

mondo della creatura e l’attraversa, rendendola umana, e che costituisce il cuore pulsante

della pratica della conversazione, così come vissuta da Virginia Woolf e dalla donne che

118

Si veda in particolare Piussi (1992), in cui la filosofa e pedagogista, discutendo le teorie di Jean Baker Miller,

Nancy Chodorow, Carol Gilligan, Jane Flax e Jessica Benjamin, ripensa la relazione materna come relazione di

autorità simbolica e il significato che ciò può avere nella vita della scuola e dell’educazione.

110

l’accompagnarono.

L’esperienza non è dalla parte dell’azione, o della pratica, o della tecnica, ma dal lato della

passione. Perciò, l’esperienza è attenzione, ascolto, apertura, disponibilità, sensibilità,

vulnerabilità, es/posizione (Larrosa, 2009, p. 38, trad. mia).

È in questa terra che la conversazione diventa feconda, creatrice di mondo.

Cam ripeteva con lei somiglia a una montagna, al nido di un uccello, a un giardino, ed ecco

le piccole antilopi….

3.2.4. Perdere il legame

Scrive Virginia Woolf nel suo Diario:

Ho la curiosa sensazione, quando muore una scrittrice come S.B. [Stella Benson], che la mia

eco risulti indebolita: Qui e ora non sarà iluminato da lei; la vita è impoverita. La mia

effusione – ciò che emano – è meno porosa e splendente, come se la materia del pensiero

fosse una trama che si feconda soltanto se anche altri (…) la pensano: ora non ha vita

(2011b, p. 245).

Il modo in cui Virginia Woolf concepiva la scrittura era simile alla conversazione, così come

da lei vissuta e praticata: un modo di rinnovare il legame con la vita, di nominare l’esperienza

di essere in relazione che per lei, non è altro che l’esperienza di essere vivi. Ciò che scriveva

aveva senso in quanto destinato ad un lettore: colui o colei che leggendo avrebbe fecondato la

sua parola, mai completa, sempre in attesa di altro: «immagini che non si risolvono, ma

suggeriscono appena» (Woolf, 2011b, p. 199). Come in una buona conversazione, anche nella

scrittura suggerire, procedere per immagini – lontani dal metodo dei realisti119

–, perché il

pensiero possa nascere in relazione a chi legge, continuare il suo corso, che nemmeno nella

scrittura è possibile prevedere perché una volta scritto il libro, non rimane uguale a come lo

scrittore l’ha concepito ma si trasforma nelle letture successive. Così l’opera rimane viva e

aperta, come testimonianza del legame, come celebrazione del mondo.

119

Si veda il saggio Bennett e la signora Brown (Woolf, 1998, pp. 244-266).

111

Quanto fosse vitale per Virginia Woolf il confronto con i suoi lettori lo mostra il tempo che

dedicava a leggere e rispondere alle loro lettere, la sua preoccupazione per le recensioni dei

supplementi letterari e i pareri dei suoi amici (Rampello, 2005), il che, oltre ad una certa

vanità e insicurezza come alcune sue studiose hanno rilevato (Fusini, 2009a), ci fa capire

quanto Virginia ci tenesse a sapere se aveva trovato la forma giusta, se la sua «piccola

freccia» era arrivata a segno, come già dai tempi di Bloomsbury era solita chiedersi dopo un

suo intervento nelle discussioni del giovedì sera (Woolf, 2003, p. 239). Ma è per via negativa

che si riesce a cogliere la necessità che la scrittrice aveva di un interlocutore, necessità in cui è

radicata la possibilità stessa della scrittura. Se Virginia Woolf scrive che la sua eco si

indebolisce quando un’altra scrittrice muore è perché sente che la sua voce è legata agli altri,

che il suo essere scrittrice è in stretta relazione di possibilità all’esistenza di altre voci che

possono arricchire la sua, trasformarla, come a volte accade in una conversazione. Sono

attraverso gli altri, sembrerebbe dire la Woolf, sono in quanto gli altri ci sono e possono

ascoltarmi e parlare a loro volta. Quando una voce tace, soprattutto se viene considerata

autorevole, come è il caso di Stella Benson, la propria si indebolisce. Questa interrelazione

che emerge dalle parole della Woolf, a mio avviso, sta a significare il legame vitale che lei

sentiva tra sé e gli altri, legame fecondo che quando viene a mancare, provoca una

diminuzione del senso di realtà. Ed è così che la scrittrice nominerà l’effetto più devastante di

quella che è – come scrive nel suo diario – «la peggiore fra tutte le esperienza della mia vita»

(2011b, p. 360).

Siamo nel giugno del 1940, anno in cui la Germania entra in guerra contro l’Inghilterra:

Mi ha colpita una strana sensazione: l’“io” che scrive è svanito. Nessun pubblico. Nessuna

eco. Questo è parte della propria morte. Non dico del tutto sul serio, perché correggo Roger,

da inviare finalmente, spero, domani; e potrei finire P.H.[Pointz Hall] Ma è un fatto: la

sparizione di un’eco (2011b, p. 382).

E qualche settimana dopo:

(…) la guerra – questa attesa mentre si affilano i ferri per l’operazione – ha demolito il muro

esterno della sicurezza. Non rimanda nessuna eco. Io non ho ambiente. L’impressione di

avere un pubblico è così scarsa che non ricordo se Roger deve uscire o no. Quelle familiari

circonvoluzioni – quei parametri – che per anni hanno offerto un’eco e addensata così la mia

identità, sono vaste e sconosciute, ora, come il deserto (ivi, pp. 383-384).

112

Nella guerra tutto perde significato per la separazione che sembra causare: non è più il canto

del mondo reale a farsi sentire, non sono più le voci dei suoi lettori, a volte nemmeno la

propria, ma «queste grandi forme senza forma», come Virginia Woolf descrive le famose

parole di Churchill: Non ho nulla da offrire se non sangue, lacrime e sudore, che la scrittrice

riproduce nel suo diario, forse per esorcizare il loro potere distruttivo. Famose parole che

«non hanno sostanza: ma rendono ogni altra cosa minuscola» (ivi, p. 377). Ogni altra cosa

che viene sepolta dal freddo e dalla neve, come raccontano le cronache dell’epoca, di quello

che è «l’inverno più freddo degli ultimi quaranta cinque anni» (Thompson, 1968, p. 13); dalle

bombe degli aerei tedeschi, a partire da 1941; dalla impossibilità di fare progetti, perché si

vive «senza futuro, coi nasi schiacciati contro una porta chiusa» (Woolf, 2011b, p. 413) e con

la paura di morire in ogni momento.

Nessun pubblico. Nessuna eco. Questo è parte della propria morte120

.

Il senso di irrealtà che consuma gradualmente le energie di Virginia Woolf, già dimezzate a

causa della sua malattia, è risultato della perdita di interlocutori validi con cui confrontarsi, tra

cui anche se stessa, quando le forze per scrivere e per parlare vengono a meno (il cibo inizia a

scarseggiare). Chiunque abbia letto Virginia Woolf sa che non c’è l’avrebbe mai fatta senza la

possibilità di cogliere la vita che passa attraverso la parola, senza potersi raccontare agli

amici, ai suoi lettori, a sé stessa. Non un dire qualunque, come abbiamo visto, ed è qui si trova

la chiave, ma un dire a modo suo, con tutta la forza necessaria, per far vibrare la parola e con

essa chi la legge, chi la ascolta: «e che mi piace la vita umana presa alla grande, con calore e

avventura: cani, fiori, figli, case» (Woolf, 2002, p. 236) 121

.

In un saggio su Montaigne del 1925 scrive: «La comunicazione è salute; la comunicazione è

verità; la comunicazione è felicità» (Woolf, 2011c, p. 218). Ci proverà con coraggio e «con

quella coscienza e diligenza da insetto» (Woolf, 2011b, p. 404) che caratterizza il suo

procedere nella scrittura finchè l’arrivo della guerra non coprirà tutto con un velo di irrealtà,

la stessa che sembra invadere la casa del faro dopo la morte della signora Ramsay:

120 Sulle cause del suicidio di Virginia Woolf, si legga la riflessione di Nadia Fusini (2009a, pp. 265-269), che

guidata da una profonda sensibilità vincola la morte della scrittice anche al contesto storico della seconda guerra

mondiale e ai suoi effetti devastanti nella vita della scrittrice (come nella vita di un’intera generazione), tra cui,

come ho accennato, la perdita del legame con il pubblico, con ciò che ne consegue. 121

Il corsivo è mio.

113

…cominciò un diluvio di tenebra immensa. Niente, sembrava, si sarebbe salvato

dall’inondazione, da quel profluvio di tenebra, che si insinuava nelle serrature, entrava in

ogni fessura, di soppiatto dalla persiane penetrava nelle camere da letto, inghiottiva qui una

brocca, lì un catino, là un vaso di dalie rosse e gialle, lì gli spigoli affilati e la massa pesante

di un cassettone. Non solo i mobili erano scomparsi; non era rimasto quasi nulla del corpo e

della mente, perché si potesse dire “è lui”, “è lei”. A volte una mano si alzava, come per

afferrare o allontanare qualcosa, oppure qualcuno gemeva, qualcun altro rideva forte, come

se scherzasse col nulla (Woolf, 2009, p. 139).

3.2.5. Aprire al senso del reale

La conversazione, come ho cercato di raccontare finora seguendo il filo della mia esperienza

di lettura di Virginia Woolf, è uno stile di comunicazione in cui è in gioco lo scambio creativo

di parola «a partire da sé», che non è parlare di sé ma appunto da sé, esponendosi in ciò che si

dice e si pensa, per nominare ciò che si vive, con la disponibilità a uscirne un po’ cambiati; il

piacere di conversare quindi e non di avere ragione, mettendosi in ascolto attento di sé e

dell’altro da sé e nelle discontinuità, nelle fessure, nei silenzi, trovare dei passaggi che fanno

vivere la parola, «aprendo al senso del reale» (Piussi, 1992, p. 31).

La conversazione, se pensata come spazio intersoggettivo in cui si cerca di dare senso in

relazione, richiama il rapporto originario madre-figlio/-a. È questa l’esperienza paradigmatica

a cui si ispira e di cui si nutre, almeno nelle modalità in cui viene messa in pratica da Virginia

Woolf e da altre donne a lei vicina, come ho già accennato in precedenza, e che qui propongo

di seguire. A suggerirmi questo vincolo è Anna Maria Piussi quando parla dell’opera materna

e della sua continuità nel lavoro educativo:

La madre non è semplicemente lo specchio (Lacan) della creatura, non si limita a

rispecchiarne sentimenti e conquiste, ma proprio per dare vita a quella «danza

armoniosa» (Winnicott) che permette la condivisione dell’esperienza e la creazione

comune, lei deve aprire al senso del reale. L’attenzione verso la più piccola non

produce crescita, se non è finalizzata allo spostamento: esiste dunque una tensione,

sempre delicata e problematica, tra attenzione e spostamento, che richiede sempre

nuove combinazioni tra i due, perché la crescita si dia (1992, p. 31).

114

Mi viene in mente il movimento a spirale della conversazione, raffigurante il suo divenire

sempre aperto (Zamboni, 2001), in virtù di parole che spostano in avanti. Parole che si

sottraggono alla legge della compensazione (inviare e ricevere informazioni) e si iscrivono

nell’ordine del dono, come la parola materna, rilanciando la posta in gioco. È l’assenza di

compensazione, l’andare oltre il dare quanto si riceve in un rimandare chiuso in sé stesso, ad

introdurre lo squilibrio, «elemento strutturale della relazione primaria (come di tutte le altre

relazioni umane, se pur in modo diverso)» (Piussi, 1992, p. 32). Squilibrio che penso come

eccesso: la parola che sposta in avanti è quella che toccando profondamente la persona che

l’ascolta apre in essa uno spazio che la eccede, in quanto aldilà di quanto detto e pensato; è la

novità della parola, in quanto inaudita, a provocare lo spostamento in uno spazio intermedio

tra ció che si sa e non si sa, tra ció che si è e non si è, perché l’eccesso è sempre in relazione

ad un limite. E sono i propri limiti che l’eccesso mostra.

Se si riesce a rimanere in attesa in quello spazio intermedio, tra il sé e l’altro da sé che la

parola donata invoca; se ci si assume il rischio di procedere, esponendosi alla oscillazioni,

riconoscendo la necessità di mediazioni che la ricerca di senso a qualcosa che ci eccede esige

e quindi affidandosi all’altro, all’altra, allora capita che il reale si schiuda. Sono «momenti di

essere», come li chiama Virginia Woolf (2003), «momenti in cui traluce il darsi, il

manifestarsi di qualcosa, che in fondo non è niente di raccontabile. Niente di indicabile come

qualcosa di preciso e concreto» (Zamboni, 2009, p. 170). Eppure è verso quel cuneo di ombra

che la parola si avventura, giocandosi nel presente della relazione viva, facendosi attraversare

ed spostare verso luogi ignoti, spesso scomodi.

Nella danza della conversazione la scoperta/elaborazione del senso avviene nel movimento

della relazione, nello scambio creativo di parola in cui si da un incontro tra sapere ed essere.

La parola e l’esperienza si toccano e da quel contatto scattano scintille che illuminano il reale;

sprazzi di un sapere che ha la materialità delle cose e degli esseri che abitano il mondo cani,

fiori, figli, case, come scriveva la Woolf in una delle sue lettere.

Il sapere che nasce dall’incontro con persone e in situazioni concrete è «un sapere inedito»

(López, 2010, p. 212, trad. mia) – come racconta Asunción López a partire dalla sua

esperienza d’indagine con giovani in situazione di abbandono – , che si crea nel «movimento

di ascoltare e ascoltar-si per trattare di apprendere qualcosa dall’esperienza degli altri e dai

loro saperi» (ivi, p. 220). Un sapere che non tutto sa perchè c’è sempre qualcosa che sfugge

alla comprensione ma è proprio questa mancanza a mantenere aperte la danze. «La sua

autenticità, paradossalmente, è in relazione con la sua provvisorietà» (ibidem), qualità che lo

115

rende così difficile da cogliere, da trasmettere senza tradire l’esperienza vissuta da cui si

nutre.

Bloomsbury. Erano serate che meritavano di essere registrate e descritte. E tuttavia, com’è

difficile farlo – impossibile. I discorsi – persino dicorsi che sortirono effetti così straordinari

sulla vita delle due signorine Stephen – persino discorsi di tale interesse e importanza, sono

più sfuggenti del fumo. Sale in volute su per il camino, ed è già scomparso (Woolf, 2003, p.

236).

Eppure Virginia Woolf ci ha mostrato e fatto sentire attraverso la sua pratica di scrittura, la sua

esperienza di lettura e la sua riflessione teorica quanto la conversazione possa trasformare il

nostro modo di vedere il mondo e anche il mondo (Zeldin, 2008, p. 28), tra cui l’educare.

3.3. Clarice Lispector: il metodo della passività

Sou uma mulher,

sou uma pessoa, sou uma atençao,

suo um corpo olhando pela janelai.

Assim come a chuva não é grata

por não ser uma pedra.

Ela è una chuva.

Clarice Lispector, Tanta mansidao122

Ecco Clarice, in queste poche preziose parole. E qui potrebbe finire tutto: Clarice

semplicemente accetta di essere, «mi sottometto con piacere al mio luogo» (Lispector, 2001,

p. 415), e questo è il suo insegnamento. Tuttavia, non un esserci qualunque. Esserci donna,

persona, corpo che guarda attraverso la finestra la pioggia che cade. Con tanta mansidao.

Mansedumbre. Mansuetudine. «Considero letteralmente la parola mansuetudine: abitudine di

dare la mano» (Cixous, 2001b, p. 186, trad. mia). Hélène Cixous, lettrice appassionata di

Clarice Lispector. La sua lettura accompagna la mia; il suo sguardo mi offre una mediazione

122 «Sono una donna, sono una persona, sono un’attenzione. Così, la pioggia non è grata per non essere stata

pietra. È una pioggia» (trad. mia).

116

per addentrarmi nella scrittura dell’autrice brasiliana, «nata in Ucraina, d’origine ebrea».

Scende con me nel bosco e mi autorizza a chiamare C.L. semplicemente Clarice.

«Dare la mano a qualcuno è sempre stato quanto mi sono aspettata dalla gioia» (Lispector,

1982, p. 11). Clarice, la finestra, la pioggia: esperienza dell’essere in relazione nella parola

che chiama a sé le cose, le risveglia con cura, procedendo nella prossimità più estrema ma

senza cadere nella trappola (definire, dimostrare, tradurre, sovrapporsi); come «dita

infinatamente attente, che non prendono niente, che attraggono e lasciano venire» (Cixous,

2001b, p. 190, trad. mia).

Sou uma atençao. Sguardo Clarice, olhando pela janelai, che contempla e attende paziente:

«A volte, la vita ritorna», scrive in La passione secondo G.H. (Lispector, 1982, p. 63). E già

dal titolo ci arriva un segnale: passione, forza divorante che è passività e patimento. Sguardo

che non si distoglie, rimane vicino alla sorgente e si fa trovare; che si sporca le mani per

cercare di toccare il cuore delle cose, per svelare il loro segreto, «la verità di ciò che accade

nel seno nascosto del tempo è il silenzio delle vite, e che non può essere detto», per María

Zambrano (1996, p. 25). «Ma è ciò che non si può dire» – continua la filosofa – «che bisogna

scrivere» (ivi, p. 26). Allora Clarice scrive per rispondere al mandato che in lei la chiama:

Clarice-rosa, Clarice-blatta, Clarice-G.H., Clarice-Macabéa (una piccola donna che non sa

fare altro che piovere) (Lispector, 1989, p. 47)123

.

Eccomi, sono Clarice. Come la pioggia non ringrazia per il fatto di non essere pietra, così

Clarice dice eccomi. Non ostenta, è. Non dimostra, si mostra. Si espone, si spoglia, (si) lascia

cadere, rinuncia, (si) obbedisce. Ascolta. Approccio Clarice: essere attraverso.

Io, corpo neutro di blatta, io e una vita che infine non mi sfugge poiché la vedo finalmente

fuori di me – sono la blatta, io, sono la mia gamba, sono i miei capelli, sono il tratto di luce

più bianca sull’intonaco della parete – sono ogni pezzo infernale di me – in me la vita è così

insistente che se mi taglieranno in due, come una lucertola, i pezzi seguiteranno a vibrare e a

muoversi (Lispector, 1982, p. 58).

Servano questi frammenti per introdurre Clarice Lispector; solo così, frammentando, posso

iniziare ad avvicinarmi, seppur lontanamente, al suo universo e alla ricchezza della sua

scrittura. Li propongo come stelle comete da seguire nella scoperta del metodo Clarice, del

suo attento e appassionato approssimarsi alle cose. Traiettoria vitale che incarnano i suoi testi:

123

Sono tutti protagonisti delle opere di Clarice Lispector, come vedremo.

117

romanzi, racconti, lettere, cronache e annotazioni sparse nonchè i testi più difficilmente

classificabili: «lievi impressioni» e «pulsazioni» (Battella, 2007, p. 15)124

. Tutti loro, come

cercherò di mostrare, sono fonte di «parole buone» (Praetorius, 2002, p. 5), parole che

nascono da un «guardare bene la realtà» (ibidem), per nominare l’educazione e la formazione

con un lingua vicina alla vita e alla sua materialità.

Prima di procedere vorrei fare due precisazioni. Ho pensato il metodo Clarice, come indicato

dal titolo, in relazione alla passività, così come agita da María Zambrano (2000): una passività

attiva che fa del patire condizione prima dell’agire, intendendo il patire come la capacità di

«riscattare ciò che (ci) accade attraverso il sentire e il pensare (…); la capacità di fare pensiero

dell’esperienza» (Buttarelli, 2006, p. 2).

Inoltre, la parola «metodo» la utilizzo nel suo senso etimologico e seguendo anche qui la

filosofa spagnola, ovvero, come «cammino» che si manifesta nel suo stesso farsi e di cui si è

consapevoli una volta percorso; percorrere che non è azione bensì una «passione» (Zambrano,

1989, p. 20). Patire il cammino più che percorrerlo, come ci mostra Clarice Lispector.

Esiste la traiettoria, e la traiettoria non è soltanto un modo di procedere. La traiettoria siamo

noi stessi (Lispector, 1982, p. 161).

124

Luisa Muraro in un incontro su Clarice Lispector (Libreria delle donne di Milano, il 5 novembre 2011), la più

grande scrittrice della letteratura brasiliana del sec. XX, segnalava che esiste una vera difficoltà di leggerla oggi

in Italia perché le sue opere non sono facilmente reperibili. Tutte sono fuori catalogo nelle case editrici che

l’hanno pubblicata per la prima volta (Feltrinelli, Sellerio, La Tartaruga), perciò non è più possibile acquistare i

suoi libri. Un’eccezione è la recente pubblicazione delle sue lettere, a cura della casa editrice Archinto-RCS (si

veda Lispector, 2008). Bisogna quindi avere la fortuna che qualche amica, collega che li ha (soprattuto donne del

femminismo della differenza, per quanto mi risulta) ce li presti oppure affidarsi alle biblioteche. Nel caso di

Verona, ho trovato alcuni suoi libri, pochi, non La passione secondo G.H., nella biblioteca Civica mentre nella

biblioteca Frinzi, biblioteca dell’Università di Verona, non c’è alcunché. Un’esempio di risposta creativa a

questo disinteresse, più o meno voluto, è la traduzione e pubblicazione “clandestina” di Un soffio di vita (ed. or.

1978; ed. it. 2010), a cura di Edizioni amore fuori legge (200?). In Spagna, tuttavia, la situazione è ben diversa,

dato che da alcuni anni a questa parte la casa editrice Siruela sta pubblicando l’opera completa della scrittrice.

118

3.3.1. Obbedirsi ciecamente

Avevo l’impressione, o meglio la certezza, che

più tempo mi fossi data, più la storia avrebbe

detto senza convulsioni quello che doveva dire.

Penso che sia sempre una questione di

pazienza, di amore che genera pazienza, di

pazienza che genera amore.

Clarice Lispector, La scoperta del mondo

L’esperienza di lettura di Clarice Lispector è difficile da spiegare. È come contemplare il

«pensiero vivo mentre si va facendo» (Zamboni, 2009, p. 14). Vivo perché in divenire come la

scrittura; vivo perché aperto per rimanere in contatto con l’evento: l’incontro con l’altra, con

l’altro da sé; per poterlo accogliere.

Scrivo nel taccuino di lettura: «Leggere Clarice Lispector è come leggere una ferita aperta»

(CL, 18. 11. 2011). Ferita: in latino vulnus, da cui ‘vulnerabile’. Ho scritto un racconto in cui

parlavo del riconoscimento della propria vulnerabilità come via per fare esperienza del

mondo. Tutto ebbe inizio con una ferita (come la vita, a pensarci bene): un taglio banale al

dito e da lì è nato un testo che intitolai, appunto, Vulnus. Vorrei riportarne un frammento

perché mi indica una via per fare un altro passo verso la scrittura di Clarice Lispector e la sua

comprensione:

La vulnerabilità del mio corpo mi fa pensare a mia madre, a quando mi dice di non lavorare

troppo, di divertirmi, di prendermi cura di me. Mi riporta al mio corpo e al corpo da cui sono

nata, ricordandomi la fragilità e la preziosità della vita che mi è stata data come un dono e

che quindi va curata, nello stesso modo in cui mia madre ha fatto quando sono venuta alla

luce.

Mi chiedo se sia possibile pensare il mondo e il mio stare nel mondo a partire dalla

vulnerabilità: dove mi colloco se riconosco la ferita, piú che come una lacerazione (quindi da

evitare, da temere) come una apertura? Più vicina alla vita e alle sue necessità.

(…)

La mia ferita oggi mi fa sentire piú viva e meno sola.

119

La scrittura di Clarice Lispector è di una vulnerabilità e insieme di una forza disarmanti

perché spoglia: «vita primaria che respira, respira, respira. Materia porosa (…)» (Lispector,

1989, p. 11). È una scrittura che nasce tra ciò che si può dire e ciò che non si può dire: rimane

sulla soglia ed è da quel confine che esige essere letta. Una scrittura, come dice Luisa Muraro

della lingua materna, «vicina alle soglie fra la parola è il silenzio e al commercio fra i corpi e

le idee» (2012a, p. 29).

Che (…) io abbia il coraggio di lasciare che quella forma si formi da sola come una crosta

che da sola indurisce, la nebulosa di fuoco al contatto con la terra. E che io abbia il grande

coraggio di resistere alla tentazione di inventarmi una forma (Lispector, 1982, p. 9).

La materia prima di Clarice Lispector è la lingua così come ci è stata donata, gratis et amore;

lei non inventa una forma ma rimane a contatto con la parola quotidiana e scopre che può dire

qualcosa di vero.

Essere a un passo da me

A parlare è la protagonista del romanzo A paixão segundo G.H. (1969), che Clarice Lispector

– come lei stessa racconta in un’intervista (Battella, 2007, p. 397) – scrive in appena un anno.

In breve: una donna borghese (G.H., le iniziali sulla pelle di una valigia), scultrice, decide di

sistemare la stanza della domestica, che ha lasciato la casa il giorno prima. G.H. ha davanti a

sé una mattina senza impegni, il giorno ideale quindi per «mettere in ordine» (Lispector,

1982, p. 27), una delle sue attività preferite, che già da subito pregusta immaginando lei G.H.

– «quello che gli altri mi avevano sempre vista essere, e in questo modo io mi conoscevo»

(ivi, p. 17) – lì, in quella stanza, «che doveva essere in uno stato pietoso, nella sua duplice

funzione di camera da letto e ripostiglio-deposito di stracci, valigie vecchie, giornali annosi,

carta da pacchi e inutili cordicelle» (ivi, p. 28). E G.H. si avventura per il «buio corridoio»,

distratta da sé e dalla vita che è in agguato dietro la porta (si pensi ad Ana seduta nel tram di

ritorno a casa, con la borsa della spesa in grembo125

).

125 Ana è la protagonista di Amore, racconto di Clarice Lispector che ho commentato nel primo capitolo, a

proposito della possibilità per una donna di dare senso a ciò che (le) succede a partire da sé.

120

La stanza si differenziava talmente dal resto dell'appartamento che, per entrarvi, era come se

prima io fossi uscita dalla mia abitazione e avessi bussato alla porta. Il locale era l'esatto

opposto di ciò che io avevo creato in casa mia, l'opposto della squisita bellezza che era il

risultato del mio talento nel mettere ordine, del mio talento di vivere, l'opposto della mia

ironia serena, della mia dolce e disattenta ironia: era una violazione delle mie parentesi, di

quelle parentesi che facevano di me una citazione di me stessa. La stanza era la fotografia di

uno stomaco vuoto (ivi, p. 36).

Uno stomaco vuoto che provoca la nausea. Ma non una nausea sartreana, come avrebbe detto

il critico e amico Benedito Nunes, a proposito dell’effetto nel lettore di A paixão segundo

G.H. «È una nausea che la gente sente davanti a qualcosa che è vivo», precisa Lispector

(Battella, 2007, p. 398, trad. mia). Qualcosa che è vivo e che vive nonostante G.H., attraverso

G.H., oltre G.H., in G.H. stessa perché quella stanza all’interno della propria casa le dice di

una presenza che lei non aveva previsto nell’immagine che si era costruita di sé; in quel

mondo così in alto, all’ultimo piano di un palazzo di appartamenti in Rio de Janeiro. È

l’imprevisto di quella presenza ad aprire un buco nel racconto di G.H., da cui inizierà a

sgretolarsi l’edificio del suo discorso, mostrando la precarietà del proprio «essere».

Se fino al giorno in cui entra in quella stanza la domestica faceva parte integrante della sua

casa – scrive Nadia Setti – , quello che la sconvolge è la rivelazione della radicale differenza:

G.H. crede di tenere presso di sé una simile o assimilata, ma l'ospite è invece il suo rovescio,

l'altra (l'autrui) radicalmente differente. Questo è soltanto un primo rovesciamento

annunciatore di ben altri e più terribili (si pensi alla vicenda centrale tra la donna e la blatta,

l'animale immondo) (2008, p. 8).

La vicenda centrale della donna e la blatta per coloro che ancora non hanno letto A paixão:

siamo all’inizio del suo itinerario. Dopo la scoperta della stanza, G.H. osserva l’estraneità

dello spazio in cui si trova, lascia vagare lo sguardo fino a soffermarsi su un armadio, vicino a

un letto. L’idea di pulirlo, farlo diventare l’armadio e non più un armadio – «ben bene

alimentato d’acqua, ben bene imbottito d’acqua in tutte le sue fibre» (Lispector, 1982, p. 39),

come se con la volontà del ben bene volesse ammutolirlo, renderlo assimilabile dal suo

sguardo – rappresenta per lei la possibilità di impossessarsi di quello spazio. Ritrovato il

coraggio si avvicina con le forze rinnovate, per aprire una delle ante di quello che ormai è

nella mente di G.H. l’armadio, il suo armadio. Ma l’anta si apre appena perché bloccata dal

121

piede del letto. Lei ci riprova ma non riesce completamente, soltanto lo spazio di una fessura;

quindi ci infila il viso per vedere ed è lì che avviene il secondo e più terribile rovesciamento.

Allora, prima di capire, il mio cuore è diventato bianco come bianchi diventano i capelli (ivi,

p. 40).

La grossa blatta, radicalmente differente, comparsa dall’oscurità per portare all’estremo della

sopportazione l’esperienza dell’alterità.

Sta di fatto che affinché l'incontro dell'altra possa avvenire cioè costituisca un evento, lo

spazio dell'abitazione, il suo tempo (la dimora, la durata, lo stare) saranno profondamente

sconvolti: questa è la condizione del ricevere, accogliere, far posto: una violenza. Come è

violenza per un cieco vedere improvvisamente la luce. Uno sconvolgimento del mondo che

credeva suo (Setti, p. 8).

Ricordo Ana, scesa dal tram, sconvolta dalla visione di un cieco. Perché un cieco? Smarrisce

la via di casa e arriva nel Giardino Botanico, o Jardim Botánico luogo così amato da Clarice

dove ogni tanto la scrittrice si rifugiava «solo per guardare. Solo per vedere. Solo per sentire.

Solo per vivere» (Lispector, 2001, p. 411). Anche Ana resta a lungo a guardare attorno a sé ma

poi ritorna in sé (Ana fuori dal giardino) e si affretta verso casa, allontanandosi «dal pericolo

di vivere» (Lispector, 1986, p. 25). Per G.H. è tuttavia troppo tardi per tornare indietro. Ciò

che ha visto nell’altra (la domestica, la blatta), «quella cosa sovrannaturale che è vivere»

(Lispector, 1982, p.11), e attraverso l’altra, «la sconosciuta che ero» (ivi, p. 46), non è più

possibile dimenticarlo; non le è più possibile addomesticarlo. Non le resta che sentire(si) fino

in fondo, in un movimento di sprofondamento verso il basso. Questa è la condizione del

ricevere, accogliere, far posto: una violenza. Farsi attraversare, patire secondo G.H.

(…) è solo attraverso la passione – scrive María Zambrano – che si realizza questa

liberazione dell’essenza nascosta nell’immagine sacra, solo attraverso il patire di qualcuno

che, senza sapere, si azzarda a vivere quell’immagine, a esserla, verificando l’identità della

sua essenza. Ogni incarnazione di una essenza nelle viscere umane è sempre un patimento

glorioso e terribile (1997, p. 110).

L’immagine sacra di sé, la propria essenza, svelata dallo sguardo dell’altra: luce improvvisa

122

che arriva come un ricordo di qualcosa che si è sempre saputo ma che si era dimenticato;

immagine riflessa anche nella figura di donna che G.H. vede nel muro della stanza, «l’inatteso

affresco» – opera clandestina della domestica –, che precede l’incontro con la blatta e lo

annuncia.

Sapevo che non sarei ma stata altro all’infuori di quella donna sulla parete, io ero lei

(Lispector, 1982, p. 57).

G.H. non vuole rinunciare ad essere, l’ha fatto in passato ma non più ora. Vuole vivere

quell’immagine nella parete – immagine sacra come sacri erano i disegni rupestri protostorici

(Eliade, 1976) –, esserla; decifrare il disegno, che «non era una decorazione: era una scritta»

(ivi, p. 33); una verità rivelata in un linguaggio sconosciuto eppure così necessario. E G.H. va

all’incontro, così come lei – Clarice stessa – scrive: «spogliandomi di tutti gli attributi, e

avanzando appena con le mie viscere vive» (ivi, p. 90).

La passione – scrive Luisa Muraro in Commento alla Passione secondo G.H. – è (…)

inaugurazione del pensiero o, meglio, ciò che prende il posto del pensiero per lei che non vi è

preparata. È il suo sporsi corpo e mente alla verità che le si presenta senza che lei ne sappia

ancora dire il senso (1987, p. 71).

Patire è la condizione prima nella ricerca di una parola propria per dire ciò che (le) accade,

alla luce della propria esperienza, delle proprie viscere, che pagina dopo pagina G.H. compie

con una pazienza sovrumana. Parola che lei riesce a guadagnare quindi nel lasciarsi

attraversare – «andare dall’altra parte dell’io» (Cixous, 1988, p. 35) – per incontrare l’altra,

l’altro da sé, svuotandosi del già detto e pensato. E ancora: nella rinuncia, scelta «nell’esatto

momento in cui pur non avendo trovato, non può andare oltre nella sua ricerca», perché

«andare oltre sarebbe mentire» (Muraro, 1987, p. 69).

Improvvisamente, come un rumore che si interrompe, la mia tensione si è allentata (…).

E il primo autentico silenzio ha cominciato ad alitare. Fino a quel momento non avevo del

tutto avvertito la mia lotta, tanto ne ero stata coinvolta. Ma adesso grazie al silenzio in cui

ero infine caduta, sapevo che avevo lottato, che avevo finito col soccombere e che avevo

ceduto.

E che ero, adesso sì, davvero nella stanza (Lispector, 1982, p. 57).

123

«Allora la parola si arresta e il suo silenzio rivela la presenza dell’essere» (Muraro, 1987, p.

69). Silenzio che comincia ad alitare.

Cammino su una corda tesa…

Agli incauti lettori e lettrici della Passione secondo G.H., Clarice Lispector avverte:

Questo libro è un libro come un altro, ma avrei piacere fosse letto soltanto da persone con

l’anima già formata. Quelle persone sanno come l’avvicinamento a ogni cosa avvenga per

gradi e con sofferenza – e passando talvolta attraverso l’opposto di ciò che è la meta. Quelle

persone e solo loro capiranno che questo libro non toglie nulla a nessuno. A me, per esempio,

il personaggio di G.H. ha dato a poco a poco una gioia difficile, eppure il suo nome è gioia

(Lispector, 1982, p. 3).

Leggere Clarice Lispector è innanzitutto un atto di obbedienza. «Dammi la mano» (Lispector,

1982, p. 91): bisogna seguirla nella lettura, assecondarla e lasciare che sia lei a guidarci;

cedere con dolcezza mentre si legge; «lasciar venire a galla un senso» (ivi, p. 9). Non cercare

eppure rimanere in attesa; disporsi ad accogliere spogli, disarmati, vulnerabili, ovvero, aperti

all’altro, all’altra, a lei Clarice, che guarda e dice guarda(ti). Questione di fedeltà: affidarsi

alle sue parole e avere il coraggio e la forza di accettare il dono che portano con sè: la vita

come una ferita aperta. Sono tutte azioni della passività che trovano compimento nel: Eu

aceito. La passione secondo G.H. è la storia dell’ eu aceito: una guida alla lettura di Clarice;

una guida alla lettura del mondo secondo Clarice.

Accettai.

Tutto ciò che potesse accadere. Tutto ciò che può accadere. Accetto. Eu aceito.

Non ho proiettato nessun desiderio, nessuna rete, nessun timore.

Non l’ho fermata. Non le ho messo davanti una delle mie persone.

Non le ho rivolto una preghiera. Non l’avevo già trovata?

E ormai non avevo niente da chiederle (Cixous, 2001a, p. 130, trad. mia).

Hélène Cixous è una delle donne che ha letto Clarice Lispector dalle viscere e a partire da lì

ha pensato e nominato la sua esperienza di incontro con la scrittrice: «Mi sono lasciata

124

leggere secondo C.L., la sua passione mi ha letta » (Cixous, 1988, p. 36). Ferita aperta che

parla di/ad un’altra ferita aperta: «Ciò che segue è un momento di una lettura di C.L. fatta

nella corrispondenza C.L. con ogni donna» (ibidem). Nella narrazione, il suo sguardo è

situato: donna che legge C.L., perché «nella corrente bruciante e umida del leggere» (ibidem),

non è possibile nascondersi.

Tutto ciò che bisogna saper far venire affinché lo svelarsi di un donna sia possibile, affinché

pensare di lasciare un tu svelarsi ci divenga necessario – Clarice lo fa accadere, ce lo fa

sentire, sapere. Affinché una donna le avvenga, dentro di lei, perché lei lo vuole; affinché

ogni donna vada da sé, e ogni cosa da sé, incontro a noi. (…) Tutto ciò che bisogna saper

lasciarsi sapere affinché le cose arrivino al loro posto, al loro ritmo, senza che con la nostra

impazienza noi le precipitiamo, (…) alla scuola di Clarice impariamo a pensarci (ivi, p. 37).

Eu aceito. Obbedienza è una parola difficile ma non sono stata io sceglierla. Scrive Clarice in

Agua viva, opera pubblicata in 1973, in cui la scrittrice ci dà la cifra della sua poetica:

(…) la vita è sovrannaturale. E cammino reggendo un ombrello sopra una corda tesa.

Cammino fino al limite del mio sogno grande. Vedo la furia degli impulsi viscerali: viscere

torturate mi guidano. Non mi piace quello che ho appena scritto – ma sono costretta ad

accettare tutto il pezzo perché mi è accaduto. E rispetto molto quello che io mi accado . La

mia essenza è inconsapevole di se stessa ed è per questo che ciecamente mi obbedisco

(Lispector, 1997, p. 26).

Ciecamente mi obbedisco come un’eco che ritorna, come una vibrazione che risuona in

profondità: lo schiudersi dell’io per aprirsi a qualcosa che arriva dal dentro/fuori. Cerco di

spiegarmi meglio, prendendo come punto di partenza la morfologia della parola «obbedienza»

che, come ci mostra Letizia Comba, contiene in sé una mappa per decifrare il suo senso

originario: «ubbidire da ob, di fronte, e audire, udire» (2011, p. 289). Obbedienza quindi non

come sottomissione sterile, vincolante solo esteriormente, ma come processo di modificazione

profonda di sé risultato della risposta ad una chiamata.

Perché ciò accada, occorre veramente che uno abbia perso l’idea dell’essere al centro del

mondo e sappia, con la testa e col cuore, che alle proprie proiezioni bisogna sostituire il

proprio bisogno, e che sembra più difficile cambiare sé stessi del mondo ma, a buon conto,

125

cambiare sé stessi è la sola cosa che si possa fare. Allora nasce un interesse per l’altro e una

possibilità di ascolto, un interesse «disinteressato» che conduce a poter ubbidire – a sé,

all’altro, alla vita (ibidem).

Ecco Clarice. Vi è in Clarice Lispector un’assoluta e totale necessità e imprescindibilità di

rispondere a ciò che in lei la chiama, a ciò che le cose chiamano in lei. Lasciarsi chiamare dal

mondo perché si sa bisognosa di tutto per essere. Allora lei va alla ricerca di sé («….cerco,

cerco» – inizia A Paixão) nell’altro da sé e in se stessa, nelle profondità dell’inconscio: lì

«dove si trova la verità che è la stessa del mondo» (Lispector, 2001, p. 244).

Essere umani non dovrebbe essere un ideale per l’uomo che è fatalmente umano, essere

umani deve essere il modo in cui io, cosa viva, obbedendo in libertà al percorso di quanto è

vivo, io sono umana (Lispector, 1982, p. 115).

Benedire la sete

Il bisogno è quello che ci rende umani, sembrerebbe dire Clarice Lispector. Scoprire la

propria mancanza e accettarla, senza cercare di colmarla, è il riconoscimento che ci apre al

mondo, rendendoci vulnerabili, così come siamo venuti alla vita. Quello che potrebbe

sembrare un limite – ed è così che spesso viene vissuto quando non ci si fa attraversare dalla

domanda, dalla carenza – è tuttavia l’unica via possibile per toccare e farsi toccare dal mondo,

per accedervi:

Solitudine è non aver bisogno. Non aver bisogno lascia un uomo molto solo, assolutamente

solo. Ah, aver bisogno non isola una persona, la cosa ha bisogno della cosa: basta vedere il

pulcino che avanza per accogersi che il suo destino sarà quello che la carenza farà di lui (…).

Ah, amore mio non avere paura della carenza. (Lispector, 1982, p. 155).

Il bisogno è quello che ci rende umani, attraverso il riconoscimento dei vincoli e le

dipendenze che ci legano al mondo, ma è anche il cammino per andare oltre, per aprirci ad

altro: «la solitudine è avere solo il destino umano» (ibidem). Accettare il bisogno e benedirlo,

farne leva per una comprensione più profonda del mondo e di noi, significa collocarsi in uno

spazio altro, in un’economia diversa, azzarderei dire, femminile, come mi fa capire Luisa

Muraro quando scrive della relazione di amore tra le beghine e Dio, segnata dall’intermittenza

126

tra il pieno della presenza e il vuoto dell’assenza, dove «la dolorosa carenza che impedisce la

fusione è la breccia da cui può passare altro amore ancora, e ancora» (2012a, p. 141). Direbbe

Clarice: «È solo questione di aver bisogno ed ecco che io ho» (ivi, p. 135).

Riuscire a pensare che la solitudine è non aver bisogno, che aver bisogno già da adesso

significa rompere la solitudine, è la suprema lezione di umiltà, in cui la sete in sè stessa già

rinfresca, poiché avere sete è darsi all’esperienza, decidersi a bere, ad aprire la porta.

Aver bisogno è tendere spiritualmente la mano all’altro, e tendere non è chiedere, è salutare

il mondo, dar luogo. Aver bisogno è un fiducia muta. È una forza (Cixous, 2001b, p. 186,

trad. mia)126

.

La forza Clarice. Lei che senza voler essere scrittrice è la scrittrice più grande della letteratura

brasiliana. Lei che niente vuole insegnare è maestra di tante donne, tra cui io, che nello

sguardo di colei che ha raggiunto delle «zone spaventosamente impreviste» (Lispector, 1989,

p. 7), ho trovato un invito ad essere.

(…) non ho trasformato lo scrivere i libri in una «professione», né in una «carriera». Li ho

scritti solo quando mi sono venuti spontaneamente, e solo quando l’ho realmente voluto.

Sono una dilettante? (Lispector, 2001, p. 142).

3.3.2. Il cammino della rosa

Il mio mistero è di essere solo un mezzo e non un fine

e ciò mi dà la più scaltra delle libertà.

La gallina e l'uovo, Clarice Lispector127

Cosa ci insegna Clarice? Clarice ci insegna a diventare traiettoria per avvicinarci alle cose.

Dice: stai attento, ascolta, contempla come la cosa si mostra e segue le vie che lei ti offre. Non

sovrapporti. Solo così arriverai a toccarla. Il suo cammino è una fenomenologia incarnata

perché, anche se il punto di arrivo è l’altro, la traiettoria siamo noi. Non c’è quindi possibilità

126

Il corsivo è mio. 127

Traduzione in italiano di Nadia Setti (vid. Cixous, 1988, p. 37).

127

di conoscenza senza esperienza dell’attraversamento: farsi attraversare dall’esperienza

dell’incontro con la rosa. Divenire rosa.

Per arrivare al cuore della rosa, non dobbiamo fare altro che prendere il cammino della rosa,

andare verso di lei secondo la sua strada. Avvicinarsi con una tale assenza di sé, con una tale

leggerezza, senza turbare la sua prossimità, entrare a passi di profumo nell’acqua del suo

profumo senza turbarla. Ora c’è una rosa nella camera. Nello spazio aperto della sua venuta,

noi abitiamo (Cixous, 1988, p. 42).

Nello spazio aperto della sua venuta, noi abitiamo. Helène Cixous legge Clarice prendendo il

cammino Clarice: si fa attraversare e così facendo ce la restituisce.

Divenire rosa significa anche lasciarsi crescere le spine perché, come ci ricorda Nadia Setti, a

proposito della metamorfosi di G.H. in A paixão, «questa è la condizione del ricevere,

accogliere, far posto: una violenza» (2008, p. 7). Lo sanno bene le madri, Rich (1977), quanto

l’esperienza della maternità, esperienza radicale di accoglienza in sé, sia sconvolgente (con

tutto ciò che il verbo sconvolgere può suggerire).

Lo sa bene il narratore di L’ora della stella (1977) quando dice:

Io non ho inventato questa ragazza. Lei ha forzato la sua esistenza dentro di me (Lispector,

1989, p. 30)

«Ascoltare l’altro dentro di sé»128

Questa ragazza, Macabéa, è la protagonista di A hora da estrela, romanzo pubblicato in 1977,

anno della morte di Clarice Lispector. Macabéa è una nordestina miserabile che dal sertão129

di Alagoas arriva nella città grande che è Rio de Janeiro. Come lei «ci sono migliaia di

ragazze sparpagliate in miserevoli pensioncine, in stanzette d’affitto, impegnate in un lavoro

spossante dietro a un banco» (Lispector, p.12, 1989). A parlare è la voce di Rodrigo S.M.,

128

Pérez de Lara, 2009, p. 45, trad. mia. 129

Regione secca del Nord-est brasiliano, che si estende per quasi un milione di kilometri quadrati. È più della

decima parte del territorio nazionale. Così la descrive Dinha Rodrigues: «Gli alberi (…) sono bassi, il suolo è

argilloso, sassoso e gli arbusti, pieni di spine e di rami contorti, durante la stagione più secca perdono

completamente le foglie. Queste bevono assetate la rugiada della notte, fredda garanzia di vita per gli animali del

sertão. L’altopiano si apre in tagli fondi e improvvisi, immense ferite incise nel corpo della terra madre. Ma lì,

nel sertão, lo scenario è mutevole. Il largo altopiano si immerge nelle rientranze di una gola umida e fertile:

altopiano, sabbia, arbusti e acqua, parti necessarie al respiro del sertão e quando piove i fiumi si riempiono quasi

repentinamente, creando torrenti di acqua, annegando le valli, inondando le terre (2006, p.59)».

128

scelto da Clarice (l’autrice «in verità»130

) come voce narrante della storia. Ed è al configurarsi

di questa voce che sono dedicate le prime pagine, e non solo, di L’ora della stella: la storia di

Macabéa che è anche la storia di come raccontare Macabéa. Lei una di tante, scambiabile,

insignificante, che passa inosservata, anche se non per Clarice, che probabilmente un giorno

ha visto una Macabéa e la sua visione l’ha costretta a raccontarla:

(…) ho il dovere di raccontare di quella ragazza tra migliaia di sue simili. E ho il dovere,

malgrado la modestia del mio talento di rivelarle. Perché ha diritto al grido. Allora io grido.

Grido puro e senza chiedere la carità (ivi, p. 12)131

.

Alcune ricerche educative, quelle più accurate, più rispettose del reale – Caramés (2008),

Mecenero (2010), per citarne due che ho seguito da vicino – mostrano quanto sia difficile

raccontare l’esperienza, avvicinarsi ad essa senza sovrapposizioni, senza che la voce narrante,

ovvero la propria, si sostituisca alle altre. E lo fanno esplicitando il proprio percorso di

pensiero, i nodi che affiorano, i vicoli ciechi, i limiti che il linguaggio trova quando vuole

toccare le cose ma anche i passaggi che fanno nascere la parola. “Così è come l’ho pensato e

così ve lo racconto” – sembrano dire (in estrema sintesi) – “sta a voi che ascoltate decidere se

crederci o meno”. Non si tratta di una riflessione che occupa un capitolo oppure dei singoli

paragrafi ma è piuttosto una collocazione dello sguardo che impregna tutto il percorso di

indagine e che costituisce il fondamento della sua veridicità. Verità che sappiamo riconoscere

– ci dice Chiara Zamboni – «ancora prima di poterla spiegare, perché c’è in essa qualcosa per

la quale c’è un nostro annuire con tutte noi stessi» (2009, p. 51). Lo spazio della scrittura

diventa così spazio di ricerca di una parola che si avvicini a ciò che vuole nominare; spazio di

creazione e di rivelazione.

Secondo un movimento simile, e con le dovute differenze, L’ora della stella ci mostra il

processo di configurazione di uno sguardo che tenta di avvicinarsi all’esperienza per

raccontarla con parole che possano rivelare la verità che essa contiene: la verità di Macabéa.

Non si tratta di una semplice narrazione [annuncia la voce narrante], è innanzi tutto vita

primaria che respira, respira, respira. Materia porosa (…) (Lispector, 1989, p. 11).

130

La traduzione di L’ora della stella utilizzata è quella di Adelina Aletti, salvo per queste frase in corsivo, in

cui ho seguito da vicino il testo portoghese. 131

Idem.

129

L’ora della stella ci mostra il pensiero mentre si va facendo; il formarsi di una forma.

Ho una sola certezza: questa storia tratterà di un cosa delicata: la creazione di tutta una

persona, che è viva come lo sono io. Prestate attenzione a lei dato che il mio potere si limita

ad indicarvela affinchè la possiate individuare quando in strada cammina leggera perché la

magrezza le dà ali (ivi, p. 18).

Che è viva come lo sono io. Allora come preservare la vita nella scrittura, come preservare

Macabéa? L’ora della stella è questa domanda, che rimane aperta.

Al momento voglio andare nudo o in cenci. Voglio almeno una volta sperimentare la

mancanza di sapore che dicono propria dell’ostia. Mangiare l’ostia sarà provare l’insapore

del mondo, e immergersi nel non. Il mio atto di coraggio consisterà nell’abbandonare antichi

sentimenti ormai confortanti (ivi, p. 19).

La vita non è come noi la pensiamo o come vorremmo che fosse, semplicemente è: ora

Macabéa, così difficile da digerire, quasi insopportabile, perchè priva di sapore, bisognosa di

tutto eppure lei, «così sciocca che a volte, per strada, sorride agli altri. Nessuno le ricambia il

sorriso, neppure la vedono» (ivi, p. 14).

E una volta mentre lui diceva che si sarebbe arricchito [lui è Olímpico di Jesús, quello che

non è mai stato il fidanzato di Macabéa]:

- Non sarà solo una tua fantasia?

- Va’ all’inferno! Sei solo capace di diffidare. Se non dico una parolaccia è perché sei una

signorina.

- Devi far attenzione a queste tue preoccupazioni, dicono che fanno venire l’ulcera.

- Macchè preoccupazioni io ho la certezza di riuscire nella vita. Ma, e tu non hai

preoccupazioni?

- No, nessuna. Non credo di dover riuscire nella vita (ivi, p. 53)132

.

Non credere di dover riuscire nella vita? Disarmante.

Il narratore vorrebbe prendersi cura di lei: «Ah, se potessi afferrare Macabéa. Farle un buon

bagno, darle un piatto di zuppa calda, un bacio sulla fronte e rimboccarle le coperte per farle

132

Il corsivo è mio.

130

ritrovare, al risveglio, il semplice e grande lusso di vivere» (ivi, p. 63). Vorrebbe compensare

la mancanza che Macabéa testimonia con la sua presenza. È consapevole tuttavia che solo

rinunciando a ciò che crede di sapere, alle proprie proiezioni e accettando che Macabéa non

esige nulla da lui, nulla, potrà andarle incontro, offrirle la mano, mostrarcela. Altrimenti non

sarà lei a venire ma il suo cadavere.

Come ogni altro scrittore sono tentato di usare termini succulenti: conosco aggettivi

sfolgoranti, sostantivi carnosi e verbi così affilati da attraversare acuti l’aria nel loro processo

di azione. La parola infatti è azione, no? Non abbellirò tuttavia la parola poiché se io toccassi

il pane della ragazza questo pane si tramuterebbe in oro e la giovane (ha diciannove anni)

non potrebbe mangiarlo morendo quindi di fame (ivi, p. 13).

Il pane della ragazza è povero e per mantenerlo tale, alimento di Macabéa, bisogna dire la

verità, esporsi, andando all’essenza perché la parola diventi passaggio, perché la vita non vada

persa. Tuttavia ci vuole coraggio per dire la verità, perché si sa del suo potere trasformativo in

colui, colei che la pronuncia, non si può restare immuni (G.H. immonda – perché dentro al

mondo – ce lo mostra), e accade spesso che si sceglie di distogliere lo sguardo, di far finta. Le

modalità del non voler vedere sono tante, molti personaggi di Clarice lo testimoniano: ciò che

le accomuna è a mio avviso un troppo voler fare e dire per coprire, per non ascoltare l’altro e

la sua richiesta: essere così come sono.

- Segui una dieta dimagrante, bambina?

Macabéa non sapeva cosa rispondere.

(…)

Il medico la osservò, e sapeva perfettamente che non si trattava di dieta. Gli era comunque

assai più comodo insistere, sconsigliandole una cura dimagrante (…). E lui aggiunse, irritato,

senza scoprire il motivo di così repentina irritazione e del suo senso di rivolta:

- Questa storia della dieta a base di panini è una nevrosi bell’e buona, quel che ti occorre è

uno psicanalista!

Leì non capì un’acca, ma ritenendo che il medico si aspettasse da lei un sorriso, gli sorrise

(ivi, p. 73).

Macabéa è magra perché mangia poco e male, perché è un’erede del sertão. Macabéa non è

una bambina, è una donna. Lo sguardo del dottore neutralizza il corpo di Macabéa: lo rende

131

inoffensivo, senza offesa nei suoi confronti, senza capacità di toccarlo. Vedere Macabéa

sarebbe uno sconvolgimento del mondo che crede suo. Il narratore invece vuole vedere; ha un

mandato, è Clarice che lo invia a cercare Macabéa, e deve obbedire: patire ciò che in lui lo

chiama.

(Che passione essere l’altro. In questo caso, l’altra133

. Tremo squallido tale e quale e lei) (…)

(ivi, p. 30)

Per amore del mondo

Mi sono chiesta perché Clarice scelga un uomo come voce narrante; perché non sia lei a

raccontare la vita di Macabéa. Io donna mi sono chiesta: perché un uomo per andare incontro

a Macabéa? Ad una prima lettura la risposta è ambigua.

(…) quello che scrivo potrebbe essere scritto da un altro. Un altro scrittore beninteso, ma che

dovrebbe essere un uomo, perché una donna rischia di incorrere in piagnucolosi

sentimentalismi (ivi, p. 12).

Ad una seconda lettura, l’enigma rimane. Ed ecco che trovo una mediazione:

Un io risponde per Clarice: una donna forse avrebbe sentito pietà (…) E la pietà non implica

rispetto. Tuttavia il valore supremo è la mancanza di pietà, ma una mancanza di pietà colma

di rispetto (…) La pietà è deformante, è paternalista o maternalista, vernicia, copre, e ciò che

Clarice Lispector pretende, qui, è spogliare, nella sua minuscola grandezza, quell’essere

(Cixous, 2001b, p. 168, trad. mia).

Avere pietà sarebbe trasformare il pane di Macabéa in oro: «la tentazione di essere infelice e

di sentire pietà per sé stessa» (Lispector, 1989, p. 41) le toglierebbe la felicità di essere viva.

Perché Macabéa nella sua ignoranza è felice.

Quella giovane non aveva coscienza di quello che era, proprio come un cagnolino non sa di

essere un cagnolino. Quindi non si sentiva infelice. L’unica cosa cui aspirava era vivere. A

qual fine non lo sapeva, non si poneva domande. Chissà, trovava che nel vivere ci doveva

133

Il corsivo è mio.

132

essere una certa piccola gloria. Pensava che la gente è costretta a essere felice. E allora lo era

(Lispector, 1989, p. 28).

Come allora preservare Macabéa nel racconto, quel minuscolo corpo di donna? Come arrivare

nella sua prossimità più estrema, «evitando di cadere nella trappola della proiezione,

dell’identificazione» (Cixous, 2001b, p. 190, trad. mia)? Scegliendo la più radicale delle

alterità: essere uomo. Clarice si spoglia di sé fino a nominarsi Rodrigo S.M., «in verità

Clarice Lispector» (ivi, p. 9), per poter nominare Macabéa.

Il testo lotta incessantemente contro il movimento di appropriazione che, anche quando

sembra il più innocente, continua ad essere fatalmente distruttore: non è forse distruttrice la

pietà? L’amore mal pensato è distruttore; la comprensione misurata male è annientatrice.

Crediamo di tendere la mano. Colpiamo. L’opera di Clarice Lispector è un immenso libro del

rispetto. Il libro della corretta distanza (Cixous, 2001b, pp. 177-178, trad. mia).

Distanza che per Clarice non è indifferenza ma un avvicinamento radicale all’altro, in cui lei

si offre, spoglia dell’io per aprirsi alla relazione, mostrando la propria incapacità,

riconoscendo la propria ignoranza; «mettendo fine agli sforzi della volontà umana di fare il

bene e conoscere il vero» (Muraro, 2012a, p. 98). Ricordiamo le parole di G.H.:

Io non volevo fare nulla per la blatta. Mi stavo liberando della mia moralità (…). Non farò

nulla per te, io pure mi trascino. Non farò nulla per te dato che io non so più il significato di

amore come prima io pensavo di sapere (Lispector, 1982, p.79).

Macabéa blatta. Clarice non vuole fare niente per lei e così, (non) facendo, svuotandosi da

ogni volontà, la chiama a sé.

Lei: - Scusa ma non credo di essere una vera persona.

Lui: - Ma tutti sono persone, mio Dio!

Lei: - È che non mi sono abituata.

Lui: - Abituata a cosa?

Lei: - Ah, non so spiegare.

Lui: - E allora?

Lei: - Allora, cosa?

Lui: - Senti, me ne vado, sei impossibile!

133

Lei: - Ma so solo essere impossibile, non so altro. Cosa devo fare per diventare possibile?

(Lispector, 1989, p. 52)

Leggere la storia di Macabéa è un colpo nello stomaco; spesso un vuoto che provoca la

nausea e la rabbia, eppure (o proprio per questo) così viva, a tratti affascinante nella sua

ignoranza di sé. Clarice ce la restituisce tutt’intera, con i suoi dolori – di cui Macabéa non sa

molto o preferisce non sapere – e i suoi piaceri: nella notte sotto le coperte ritagliare gli

annunci pubblicitari e incollarli su un album. Momenti di gioia difficile – come direbbe

Clarice – eppure gioia. La storia di Macabéa è difficile ma esiste. Tutto qui. Non sta a noi

decidere. E Clarice non può che obbedire a quella visione, un giorno qualunque, nelle strade

di Rio de Janeiro, una nordestina, venuta dal sertão…

Raccontare la vita di una donna, diceva Letizia [Comba], «significa cercare ciò che essa dice,

o non dice, attraverso il mio sguardo e le sue parole. E così posso prestare attenzione alla

lenta trasformazione di cui facciamo parte, una collana iniziata prima di me e destinata a

proseguire oltre me, di cui siamo semplici anelli, indispensabili come ogni altro per la

trasmissione di sangue e di parola» (Spillari, 2011)134

.

134

Il corsivo è mio.

134

3.3.3. Prendersi cura del mondo

Perché non so fare niente,

perché non ricordo niente e

perché è di notte,

perciò

allungo la mano e salvo un bambino.

Clarice Lispector, A Legião Estrangeira

Alla scuola di Clarice si impara ad andare incontro all’altro/all’altra con umiltà:

Quando parlo di umiltà, non mi riferisco all’umiltà in senso cristiano (come ideale che si

possa raggiungere o meno); mi riferisco all’umiltà che viene dalla piena consapevolezza di

essere realmente incapaci. E mi riferisco all’umiltà come tecnica. (…) L’umiltà come tecnica

è quanto segue: solo avvicinandosi con umiltà a una cosa questa non sfugge del tutto

(Lispector, 2001, p. 77).

L’umiltà è l’assenza di pietà – così come la intende Helène Cixous e la stessa Clarice – ovvero

l’assenza di moralismo, di una visione buonistica e salvifica, secondo cui ci si ritieni

indispensabili per l’altro, in un movimento ad una sola direzione, che non guarda in faccia

nessuno.

Soltanto posso salvare un bambino – scrive la scrittrice algerina seguendo Clarice – a due

condizioni: (una non è che la condizione dell’altra) a condizione di non precederlo, a

condizione di non sapere più di lui o di lei; di non possedere la pesante, vecchia e tremenda

memoria che schiaccerà la giovane memoria in erba del bambino. È solo a partire dalla mia

notte che posso tendere la mano e soccorrere con tenerezza (Cixous, 2001b, p. 182, trad.

mia).

«La volontà buona è meglio non averla», ci dice María Zambrano (2000b, p. 32). Spesso la

volontà buona è necessità di compensare, mettere, coprire, perché non si riesce a tollerare la

mancanza o la sofferenza, annullando così le possibilità di senso che possono nascere

135

dall’esperienza; è sostituirsi alla presenza dell’altro con un troppo pieno di ciò che si sa già, di

ciò che sarebbe bene o male fare: perché di fare si tratta e non di affidarsi a ciò che

dall’incontro può o meno nascere. È un educare ad «armarsi per non soccombere» (Piussi,

2008b, p. 179), secondo un’idea di educazione che non salva ma condanna alla diffidenza

chiunque vi sia coinvolto; educare a sopravvivere come puro esistere senza possibilità di

trascendenza all’essere, a vivere il futuro come minaccia e non come promessa (Benasayag,

Schmit, 2004, p. 40). E lungo la strada si dimentica il presente «e il discorso tende a sostituirsi

alla realtà, anziché con essa dialogare generandosi e generandola creativamente: ne derivano

pensieri senza pensiero, idelizzazione senza ideali, individualismi senza soggetti, discorsi

sull’altro senza relazioni con altro» (Piussi, 2008b, p. 179). La volontà buona farebbe

diventare il pane di Macabéa immangiabile per lei, toccato dallo sguardo violento di

colui/colei che la vorrebbe in salvo, per farle ritrovare, al risveglio, il semplice e grande lusso

di vivere135

.

Non avere la volontà buona è accompagnare la realtà aiutandola a svelare i suoi disegni e

presagi; sospendere il tempo «senza tregua» – quel tempo «che non ammette sosta e non dà

tempo di prepararsi e quasi neanche di guardare» (Zambrano, 2002, p. 8)136

– , e aprire un

tempo altro, in cui le cose vengono alla presenza: il tempo della blatta, di Macabéa, di Anna,

della rosa… Di G.H.: «il tempo presente (…) che è, che sta essendo (Lispector, 1982, p. 80)».

Non avere la volontà buona è vedere secondo Clarice, con stupore e amore, sulla via di una

passività attenta che non nuoce, che allunga le mani dall’oscurità e nell’oscurità cerca.

Per «vedere» l’uovo, bisogna non stra-vedere: tentare di non rompere l’uovo con un colpo

d’occhio, di non divorarlo con gli occhi. Ma attendere il momento in cui l’uovo, deludendo

ogni aspettativa, cederà all’attenzione tranquilla, disinteressata, aperta che gli consente di

non venire o di venire, secondo la sua modalità alla luce. Talvolta l’uovo giunge (ma può

succedere tutt’altro o niente) (Cixous, 1988, p. 45)137

.

135 Mi vengono in mente le parole di Remei Arnaus, in una delle lezioni del suo corso “Educazione delle persone

adulte”, che ho frequentato nell’Università di Barcelona, durante il mio secondo soggiorno di ricerca, tra il 16

aprile e l’11 maggio 2010: «Quando sei davanti a una persona che soffre puoi vedere il suo dolore, riconoscerlo,

accompagnarlo ma non trasformare la persona in una vittima. Si tratta di capire come rimanere vicini ad essa

senza cercare di governare la sua vita. È importante saper riconoscere le emozioni e identificarle ma poi

allontarnarsi, mantenere un certo distacco; “sentire con l’altra”, come dice Luigina Mortari. Non puoi

riconoscere una creatura se non riconosci le sue origini, da dove viene, chi è» (DR, 20.04.2010). 136 Citata in Laurenzi (2006, p. 19). 137 Cixous si riferisce all’uovo di L’uovo e la gallina, racconto di Clarice Lispector appartenente a A Legião

Estrangeira (si veda versione spagnola in Lispector, 2002, pp. 190-199).

136

Talvolta l’uovo giunge… L’imprevisto iscritto nel talvolta è educare secondo Clarice; la

delicatezza e la forza del suo approccio consistono in prendersi cura del mondo per amore del

mondo.

Sono una persona molto occupata: mi prendo cura del mondo. Tutti i gioni guardo dal

balcone il pezzo di spiaggia e mare, e vedo che a volte la spuma sembra più bianca, e che a

volte durante la notte l’acqua è avanzata inquieta, lo vedo dai segni che le onde hanno

lasciato sulla sabbia. Guardo i mandorli della mia strada. Faccio attenzione se il cielo di

notte, prima di addormentarmi e prendermi cura del mondo in forma di sogno, se il cielo di

notte è stellato e color blu oltremare, perché certe notti invece che nero sembra blu

oltremare. L’universo mi tiene molto occcupata, soprattutto perché vedo che Dio è

l’universo. Dell’universo, mi prendo cura con certa riluttanza. (…)

Si faccia caso al fatto che non menziono nemmeno una volta le mie impressioni emotive: in

maniera lucida, mi limito a parlare di alcune delle migliaia di cose e persone di cui mi

prendo cura. E non si tratta di un lavoro, perché non guadagno soldi per farlo.

Semplicemente imparo com’è il mondo.

Se prendersi cura del mondo costa fatica? Sì. E mi ricordo di un viso terribilmente

inespressivo di una donna che ho visto per strada. Mi prendo cura delle migliaia delle

persone che vivono nella favelas sui pendii della città. Osservo dentro di me il mutare delle

stagioni: io muto in maniera evidente con esse. (…)

Prendersi cura del mondo esige (…) molta pazienza: devo aspettare il giorno in cui mi

apparirà di nuovo una formica. Pazienza: osservare i fiori che impercettibilmente e

lentamente si aprono (Lispector, 2001, p. 273).

Clarice Lispector: un’osservatrice appassionata del mondo.

La pazienza, questa virtù femminile che soli pochi uomini eccezionali conoscono, è

essenziale all’anima che patisce, e il patimento è la condizione perché si compia la sua

metamorfosi. L’anima immersa nel tempo deve avere la pazienza di patirlo momento dopo

momento, come se il tempo cristallizzasse dentro di lei (Zambrano, 1997, p. 112).

Ecco Clarice, un’anima immersa nel tempo, il tempo che “sta essendo”: tempo delle

rivelazioni, delle presenze, e lei si fa trovare, per prendersene cura, con parole buone perché la

vita non vada persa. Parole nate dal silenzio dell’ascolto, che è lo stato naturale della mente, a

cui lei accede con l’innocenza di una bambina che si prende cura delle formiche. Parole

137

«trovate in quello spazio relazionale di attesa e fiducia che è lo spazio di ogni essere che

comincia» (Muraro, 2012a, p. 156).

Cosa sono allora? Sono una persona che ha un cuore che a volte percepisce, sono una

persona che ha preteso mettere in forma di parole un mondo inintelligibile e un mondo

impalpabile. Soprattutto sono una persona il cui cuore batte di una gioia sottilissima quando

riesce a dire qualcosa che riguardi la vita umana o animale (Lispector, 2001, p. 143).

Epilogo

Non si può leggere Clarice Lispector per contrapposizioni altrimenti si rischia il falso.

Bisogna assumere una posizione altra, «una posizione simbolica, che accetta che nelle nostre

vite ci sia del non essere e dell’essere, e che i piani di esperienza rimangano sconnessi tra di

loro, senza cadere nell’illusione di riuscire a creare una falsa continuità di essere» (Zamboni,

2005, pp. 109-110). Bisogna camminare su una corda tesa.

Ci sono dei momenti in cui «essere ha un limite» (Lispector, 2001, p. 70) e la scrittura di

Clarice diventa un grido violento. Momenti in cui «il reale si crepa», direbbe Chiara Zamboni

(2005), e allora non resta che tirare fuori le unghie e prendere ciò di cui si ha bisogno perché

ne va della propria vita. Scrive la scrittrice il 6 gennaio 1948 a sua sorella Tania:

Per adattarmi all’inadattabile, per vincere le mie repulse e i miei sogni, mi sono dovuta

tagliare gli artigli – ho tagliato in me la forza che avrebbe potuto fare male agli altri e a me

stessa. E così ho tagliato anche la mia forza (Lispector, 2008, p. 60).

Clarice ci mette davanti ad una ferita aperta: «fare del male agli altri o perdere io la forza

necessaria?», una questione che Luisa Muraro mette al centro del suo ultimo libro Dio è

violent (2012b), in cui non separa l’uso misurato della forza dalla violenza, operazione

«difficile se non impossibile», ma le intreccia, seguendo Simone Weil, «che parla della

violenza come di ciò che patisce l’anima della persona che subisce impotente la forza di un

altro» (Muraro, 2012c, p. 3).

Una ferita aperta. Clarice ne è consapevole ma sceglie di rischiare piuttosto che di rimanere

nel tepore dell’indifferenza e ritrovarsi un giorno con un'estranea, un oggetto. Così esorta sua

sorella:

138

Prendi per te ciò che ti appartiene, e ciò che ti appartiene è tutto quel che la tua vita esige.

Sembra una morale amorale. Ma quel che è davvero immorale è avere desistito da te stessa

(Lispector, 2008, p.61).

Parole in cui sento risuonare l’invito di Luisa Muraro a ritrovare «la libera disponibilità della

nostra forza per creare un minimo di equilibrio nei rapporti di forza, altrimenti ci ritroviamo

ciecamente sottoposti al dominio di una forza impersonale, sue vittime e suoi burattini»

(2012c, p. 5).

L’amore di Clarice Lispector per il mondo non le ha impedito di far uso della propria forza e

di combattere quando ha sentito che era necessario, sapendosi a rischio, esposta anche lei (non

è di questo che ci parla A paixão?). Al contrario, l’ha spinta a scrivere, campo di battaglia

dove si è giocata tutta per la possibilità di dire la verità, cioè, nominare le cose come sono

tranquilla, senza nessuna pietà, prendendo ciò che era mio… (Lispector, 2007, p. 100)

Ecco Clarice.

3.4. Carmen Martín Gaite: genealogia femminile e lingua materna

¿Acaso el argumento de lo contado es separable del

narrador que lo cuenta y del interlocutor – soñado o real

– a quien se lo cuenta? ¿Y puede aislarse todo esto de

los motivos y de la situación que, a su vez, condicionan

tanto la relación entre el que cuenta y el que oye come

la forma que va tomando el cuento?

Carmen Martín Gaite, El cuento de nunca acabar

Risulta curioso il fatto che ognuna delle scrittrici che ho affrontato in questo lavoro di ricerca

mi abbia chiesto un modo diverso di raccontarla. Nonostante avessi un’intuizione di partenza

sul legame tra i loro scritti e una dimensione educativo-formativa, letta in relazione alla mia

esperienza di vita e professionale, sento che sono state loro ad indicarmi il come. Cammino,

creatosi riga dopo riga, che non solo mi ha indicato la direzione ma che ha dato forma al mio

139

pensiero. Questo, che già sapevo e sentivo, lo dico ora, in parte perché Carmen Martín Gaite mi

ha messo in uno strano stato di mutismo iniziale che ha sospeso l’ “entrare subito in materia”.

Mi sono chiesta perché e ho deciso di esplicitare qui la riflessione che ne è derivata, perché

anche essa è parte della “materia”, è già inizio del cammino che Carmen Martín Gaite mi

mostra.

Credo che le parole di Carmen Martín Gaite non raccontino solo la storia della scrittrice e dei

suoi personaggi, ma anche la mia. Percepisco, mentre leggo i suoi testi, che io e lei

condividiamo una storia e questa storia riesco a sentirla in fondo alle parole; come un corso

d’acqua che scorre in profondità. Si direbbe che le sue parole parlino a più livelli: uno in cui si

narrano, per esempio, le vicissitudini di Mariana e Sofía, protagoniste di Nuvolosità variabile

(1992); un altro, in sordina, in cui è la mia vita che viene narrata: il luogo in cui sono nata, i

miei aneliti più intimi, la mia infanzia a Madrid, quando andare in centro alla città in bus era l’

avventura più eccitante che potesse capitare ad una bambina della mia età. Due livelli, e dico

due per facilitare la comprensione, ma immagino siano di più e tutti mescolati insieme nel

flusso del vivere; come le onde del mare, direbbe la Woolf, che trascinano e mescolano quello

che trovano sul loro passo. E non tanto livelli bensì migliaia di fili intrecciati a fare un tessuto,

simile a quello del «ragno che fa la ragnatela con un bava che gli esce dalle interiora» (Muraro,

2012a, p.25). Perché è nelle mie viscere che sento vibrare i suoni della lingua di Carmen Martín

Gaite; una lingua lontana eppure familiare, che scopro essere la mia; una lingua materiale, che

insieme alle parole porta con sé luoghi, volti, oggetti, emozioni così vive. Leggere Carmen

Martín Gaite è ritornare a casa. Io e lei condividiamo una lingua comune, che è anche una

storia comune138

.

Provo a rimanere nella commozione della scoperta, senza perdere il tremore; lasciando che si

apra la distanza necessaria per costruire pensiero, per nominare la mia esperienza di lettura

della scrittrice spagnola, vicina all’intenzione che muove questo lavoro di ricerca. Nello spazio

dell’attesa, mi rendo conto che il filo che propongo di seguire nella riflessione, cioè la lingua

materna e la genealogia femminile è aggrovigliata alla matassa della mia storia, delle storie che

racconta Carmen Martín Gaite e come lei, altre donne. Corpo, parola e pensiero – e qui la

138

Eppure c’è dell’altro. Così Milagros Rivera, parlando della sua esperienza di lettura di María Zambrano,

scrive: «Penso che la mia fedeltà a María Zambrano provenga dalla cultura per la lingua che entrambe

condividiamo: una cultura che non consiste nel fatto di parlare lo stesso idioma, lo stesso sistema storico di segni

e significati, ma in qualcosa che ha a che vedere con la natura della relazione – la sua e la mia – con la nostra

lingua, con la lingua materna» (2006, p. 69). Si tratta, a mio avviso, di riconoscere nella lingua materna il dono

offertoci da nostra madre gratis et amore con la nascita. Lingua grazie alla quale siamo venute al mondo e che,

oltre l’idioma, ci dà la possibilità di ri-creare e mantenere un legame vivo con esso.

140

scrittura spicca il volo – che, come il femminismo della differenza ha messo in luce,

costituiscono luogo simbolico da cui le donne, in relazioni significative con altre possono trarre

senso libero per sé e la forza necessaria per comporre la propria vita in modo creativo e gioioso,

abbandonando lo schema dell’oppressione come unico orizzonte rappresentativo, che

categorizza tutte le donne come uguali nella discriminazione, per azzardare nuove forme e

possibilità dell’essere donne, ognuna diversa. Lingua materna e genealogia femminile come

luogo simbolico di rivelazioni e trasformazioni alla portata di tutte e anche di tutti, in un mondo

comune di uomini e donne.

Vorrei precisare, perchè adesso lo so, che parlo di lingua materna, non solo per nominare la

lingua assunta come propria, nel mio caso lo spagnolo, bensì come la lingua che «riconduce

alla via attraverso la quale si è imparato a parlare, sostenuta dalla fiducia nei confronti di chi ci

insegnava, ed accenna ad un modo sorgivo di stare in rapporto al parlare quotidiano» (AAVV,

1998, p. 9). Ciò significa che io che sono madrelingua spagnola posso far risuonare la lingua

materna anche in una lingua che “non è mia”, nonostante la senta tale, come l’italiano, se nel

parlare bado «al lato affettivo e carnale del senso, alla natalità e al legame con la madre» (ivi, p.

8). Se nel parlare riattivo per me, per altre e altri, per i luoghi in cui mi trovo, i significati che la

lingua che ho imparato insieme a mia madre porta con sé, perché imparando a parlare si impara

anche a convivere (Rivera, 2007, p. 15). Posso far risuonare la lingua materna anche in italiano,

uscendo così dalla malinconia e dal silenzio; dallo scontro e dall’angoscia della perdita che

l’uso di un’altra lingua che non è la propria potrebbe provocare139

, e scrivere di Carmen Martín

Gaite in un abitare tra l’italiano e lo spagnolo, in cui scopro che il contatto può essere fonte di

ricchezza e possibilità per ritrovare la mia lingua, che non è una ma ormai quasi due. Entrambe

«legame e apertura» al mondo (Zamboni, 1998, p. 139) se mi lascio ritmare dalla lingua

materna.

En la lengua que hablo vibra la lengua materna, lengua de mi madre, menos lengua que

música, menos sintaxis que canto de palabras, bello Hochdeutsch, calor ronco del Norte en el

fresco habla del Sur. El alemán materno es el cuerpo que nada en la corriente, entre mis

orillas de lengua, el almante materno, la lengua salvaje que da forma a las más antiguas a las

más jóvenes pasiones, que se hace noche lacteada en el día del francés. No se escribe: me

139

Si veda nota 27.

141

atraviesa, me hace el amor, amar, hablar, reír al sentir su aire acariciarme la garganta. Mi

madre alemana en la boca, en la laringe, me ritma (Cixous, 2006, p. 38)140

.

3.4.1. Una conversazione eccezionale141

Nuvolosità variabile, romanzo di Carmen Martín Gaite pubblicato nel 1992, racconta la storia

di due scritture, quella di Sofía Montalvo e Mariana León, due amiche dell’adolescenza che,

dopo molti anni e diverse vicissitudini, si ritrovano già adulte ad una festa. Mariana, prima di

lasciare la festa, chiede a Sofía che scriva, come quando era giovane. Non importa su quale

argomento, ma che scriva. Allora Sofía risponde alla chiamata e scrive quella che sarà la

prima di una serie di lettere che andranno componendo la narrazione, come frammenti di uno

specchio, in un gioco di riflessi e rimandi: «Cara Mariana», «Cara Sofía». Non è un caso che

l’exergo del romanzo sia il prologo a La città e la casa di Natalia Ginzburg, scrittrice che

Carmen Martín Gaite ammirava e di cui aveva tradotto alcune opere142

:

Devo dire – è Natalia Ginzburg a parlare – che scrivendo romanzi, ho sempre avuto la

sensazione d’avere in mano degli specchi rotti, e tuttavia sempre speravo di poter ricomporre

finalmente uno specchio intiero. Ma non mi è mai successo e via via che andavo avanti a

scrivere la speranza si allontanava. Questa volta però, fin dal principio, non speravo nulla.

Lo specchio era rotto e io sapevo che ricomporne i pezzi sarebbe stato impossibile. Non

avrei mai il bene di avere davanti a me uno specchio intero (Martín Gaite, 1995, p. 4).

Eppure alla fine del romanzo, si ha il bene dello specchio davanti a noi, costruito nello spazio

relazionale e discorsivo che Mariana e Sofía recuperano per sé dopo il loro incontro;

ricomposto in uno spazio tra, dove il frammento è testimone di una mancanza che non è

fallimento, bensì promessa di ricchezza, uno stimolo per andare incontro all’altro, all’altra da

140

Il corsivo è mio. La lingua in cui scrive Helène Cixous è il francese. Di madre tedesca e padre francese, nasce

e vive nell’infanzia ad Algeri. La traduzione in spagnolo è di Irene Agoff. Esiste una traduzione in italiano del

frammento, a cura di Donata Monaco, che ho trovato in Zamboni (1998, p. 148) e che trascrivo: «Nella lingua

che parlo, vibra la lingua materna, lingua di mia madre, meno lingua che musica, meno sintassi che canto di

parole, bello Hochdeutsch, calore rauco del Nord nel fresco parlare del Sud. Il tedesco/La mandorla

(L’allemand) materno/a è il corpo che nuota nella corrente, fra le sponde della mia lingua, l’amante materna, la

lingua selvaggia che dà forma alle più antiche alle più giovani passioni, che fa la notte lattea nella luce del

francese. Non si scrive: mi attraversa, mi fa l’amore, amare, parlare, ridere nel sentire la sua area accarezzarmi la

gola. La mia madre tedesca/mandorla (allemande) alla bocca, alle laringi, mi dà il ritmo». 141

L’espressione è di Carmen Martín Gaite (2000, p. 221). 142

Tra cui, Tutti i nostri ieri (1952), Lessico famigliare (1963) e Caro Michele (1973). Sul vincolo tra Carmen

Martín Gaite e Natalia Ginzburg, si veda Calvi (2011, pp. 33-37).

142

sé per creare una forma. Come segnala Maria Vittoria Calvi, «per Carmen Martín Gaite (…)

l’estetica del frammento produce piuttosto godimento e aumenta la consapevolezza che ogni

narrazione, sia autobiografica che di finzione, è una costruzione discorsiva» (2011, p. 37, trad.

mia).

Il desiderio di raccontare e la necessità di avere degli interlocutori adeguati è il filo centrale

dell’opera letteraria di Carmen Martín Gaite, come lei stessa scrive in uno dei suoi testi più

importanti di teoria, La búsqueda de interlocutor (1972)143

. Una persona, spiega la scrittrice,

che sia «un destinatario propizio» delle nostre narrazioni «perché le “nostre cose” non le

possiamo raccontare a chiunque e in una forma qualunque» (2000, p. 26, trad. mia). E

aggiunge tra parentesi: «voglio chiarire che in questo caso il possessivo non suppone una

relazione obbligatoria di ciò che si racconta con la vita privata del soggetto che lo racconta,

ma si riferisce piuttosto alla significazione che per lui ha» (ibidem). Soggetto che, nei romanzi

di Carmen Martín Gaite, è soprattutto una donna che racconta a un’altra, e viceversa.

Adrienne Rich (1982) e la Libreria delle donne di Milano (1987), per fare due nomi

significativi, hanno parlato della necessità per una donna di avere interlocutrici magistrali. Si

tratta di una necessità vitale perchè l’incontro con l’altra apre per una donna la possibilità di

«scoprire e esplorare il legame profondo che la lega a tutte le donne» (Rich, 1982, p. 88) – la

genealogia femminile –, per riattivare in sé e nella realtà in cui vive esperienza umana

femminile del mondo, facendone fonte di nutrimento del proprio agire e pensare; vitale perché

se una donna vuole «articolare la propria vita in un progetto di libertà e darsi così ragione del

proprio essere donna» (Libreria delle donne di Milano, 1987, p. 18) ha bisogno di sentirsi

riflessa in altre, di ascoltare le loro storie, in un movimento tra «diletto e distanza», come ci

insegna Marie Luise Wandruszka (1992) nel leggere le scrittrici.

Che una donna necessiti di interlocutrici magistrali per comporre in modo creativo la propria

vita, Carmen Martín Gaite non lo esplicita in nessuno dei suoi testi di teoria oppure

autobiografici. Tuttavia lo mostrano i suoi romanzi, in cui la ricerca da parte delle

protagoniste, per la maggior parte donne, di una interlocutrice valida per sé e gli effetti

trasformativi della sua scoperta costuiscono il cuore pulsante, l’impalcatura della narrazione.

Lo mostra il profondo affetto e riconoscenza che la scrittrice spagnola prova nei confronti

della Ginzburg, di cui danno testimonianza queste parole, scritte dopo la sua morte:

Rimango (…) con il rimpianto di non essere stata amica di Natalia Ginzburg, o che lei,

143

[La ricerca di interlocutore]. L’opera non è stata tradotta in italiano.

143

almeno, avesse saputo quanto mi sentissi sua amica, la quantità di volte che ho citato nelle

mie conversazioni frasi sue o dei suoi personaggi. Fino a che punto, insomma, si era

incorporato in me il suo “lessico famigliare” (Martín Gaite, 1993, p. 348, trad. mia)

E come la Ginzburg, altre autrici autorevoli, a cui si affida nella ricerca di una voce propria,

come racconta in Desde la ventana (1987)144

, un omaggio alle sue madri simboliche: Teresa

d’Avila, Rosalía de Castro, le sorelle Brönte, Elena Fortún e Virginia Woolf, da cui acetta

l’invito a «pensare il passato attraverso le nostre madri» (we think back through our mothers if

we are women) (Woolf, 1998b, p. 383).

Nello spostamento di Carmen Martín Gaite verso «modelli di scrittrici illustri del suo passato,

più o meno distante», la studiosa Joan Lipman Brown vede una «strategia per superare i suoi

dubbi circa la propria legitimità [come scrittrice]» (2011, p. 6). Oltre a una strategia, io vedo

una scelta che è dell’ordine del simbolico, perché nel riconoscere il legame che la unisce a

queste donne e accettarlo come misura per sé, la scrittrice spagnola si sta orientando verso

un’orizzonte di senso altro, quello femminile. Gesto simbolico e politico, in quanto

trasformativo di sé e del proprio modo di relazionarsi con il reale, che svela l’esistenza di una

genealogia – «il mondo comune delle donne» (Rich, 1982) – e ne garantisce la continuità.

Continuità incarnata dalla lingua materna, che Carmen Martín Gaite riprende per raccontare e

raccontarsi con parole, fedele a sé e alla sua esperienza e conoscenza del mondo (Wilson,

1998, p. 81).

Credo che le protagoniste di alcuni romanzi di Carmen Martín Gaite compiano un gesto

simile; agiscano uno scarto rispetto al già detto e pensato, in cui non trovano misura, e

prendano la parola per dirsi e pensarsi in modo libero e a partire da sé, ognuna a modo suo e

con le mediazioni che trovano nelle proprie vite, spinte dall’incontro con un’interlocutrice

magistrale.

Provo a spiegarmi, tornando al momento in cui si verifica l’evento che dà il via alla

narrazione di Nuvolosità variabile (1992): l’incontro tra Mariana e Sofía a un cocktail. Sono

passati trent’anni dall’ultima volta che si sono viste, lo capiamo dalle loro parole, perché il

ritrovarsi si produce per il lettore quasi in medias res, con pochissime informazioni circa la

storia delle protagoniste, eppure dal modo in cui viene raccontato e dall’intimità dello

scambio si capisce che qualcosa di importante è accaduto, qualcosa che affonda le sue radici

144

Si tratta della raccolta di quattro conferenze che Carmen Martín Gaite tenne nella Fondazione Juan March nel

novembre del 1986, con il titolo El punto de vista femenino en la literatura spagnola [Il punto di vista femminile

nella letteratura spagnola].

144

nel passato, quando Mariana e Sofía erano compagne al liceo. A descrivere l’improvviso

incontro è Mariana, in una lettera indirizzata a Sofía, qualche giorno dopo:

Mi accorsi (…) quanto le altre persone che venivano a salutarmi, cercando di interrompere la

nostra conversazione, erano per te né più né meno che marziani. Era come se mi stessi

chiamando da un giardino incantato. Io lo intuivo, ma facevo fatica a entrare, non trovavo il

cancello, o non sapevo spingerlo. «Succede come nei sogni» – dicesti – «saltano sempre

fuori le comparse di un’altra storia. S’intrufolano per fare confusione. Sono quelle che fanno

più baccano, ma non contano niente. Non devi farci caso». Io stavo di fronte a te, quasi

avessi bisogno, ad ogni momento, di chiederti scusa per il fatto di conoscere tante persone,

sorridere loro, parlare con loro, e rispondere ai loro salamelecchi. Mi faceva rabbia pensare

che dopo tanti anni avessimo dovuto incontrarci di nuovo in un posto così poco appropriato e

te lo dissi. Ma tu non eri d’accordo. Mi hai guardato sollevando un dito: «Ti ho beccata,

Mariana, ricorda quanto mi hai detto prima: la sopresa è una lepre. Coloro che le dànno la

caccia non la vedranno mai dormire nell’erba: non hai detto così? Non sarà mica stata

soltanto una citazione». E dopo mi hai chiesto in tono divertito: «O forse le stavi dando la

caccia?». Rimasi sconcertata, ormai eri tu che tenevi, come al solito, le redini del gioco, nelle

tue mani era la chiave dell’enigma. Ti guardai e stavi sorridendo. Che cosa volevi dire? No,

non le stavo dando la caccia. E a tutto questo aggiungi le comparse che passavano e mi

chiamavano per nome e mi davano baci, come era difficile entrare nel giardino incantato. Ma

tu continuavi imperterrita: «Allora se non stai andando a caccia, non si cerca, si trova. E ci

siamo trovate in questo posto. Svanirà se lo rifiutamo. È il posto giusto perché è qui,

Mariana, che la lepre dorme nell’erba, anzi è qui che se ne sta rannichiata, ad aspettarci, la

sorpresa». Poi cominciasti a dire che la vita è fatta di frammenti di specchi, ma che in ogni

frammento ci si può guardare, e ti veniva voglia d’intingere il pane nei quadri di Gregorio

perché erano uova fritte spiaccicate contro la tela, e quanti messaggi arrivano da ogni parte e

noi non sappiamo coglierli. Ed ecco che mi resi conto che se volevo seguire la tua irruenza

verbale avevo bisogno di recuperare una certa fede infantile che tu non hai perduto e io sì,

credere nella trasformazione del locale, fare in modo che si operasse il miracolo poetico della

sua nuova investitura (Carmen Martín Gaite, 1995, p. 28-29).

Allora Mariana accetta l’invito di Sofía e si lascia andare all’irruenza delle sue parole, così

vive di vita, come direbbe Clarice Lispector; ed entrambe iniziano a parlare. Più avanti,

veniamo a sapere che la conversazione delle due amiche aveva richiamato l’attenzione.

«Perché il miracolo di parlare davvero è guardato con stranezza e invidia», ci spiega Carmen

145

Martín Gaite (2000, p. 221, trad. mia). E continua:

Quando io ero giovane il fatto che in una riunione affollata qualcuno, senza motivo

apparente, si allontanasse per parlare con un’altra persona (specialmente se si trattava di uno

sconosciuto) veniva considerato come una chiara trasgressione della norma, qualcosa di

sospetto. “Segreti in riunione sono segno di cattiva educazione”, solevano sentenziare le

signore» (ibidem).

Il miracolo di parlare davvero è un miracolo poetico, ci dice Mariana. Effettivamente

qualcosa di grande accade quando due donne decidono di parlarsi davvero, qualcosa che ha a

che vedere con la capacità della poesia di dire ciò che è difficile da dire eppure così necessario

perché la vita non vada persa, e con essa la propria; con la sua capacità di creare mondo:

poiesis. «La poesia è segreto parlato», scrive María Zambrano (1996, p. 26). Segreto che

Sofía svela a Mariana attraverso la lingua che le invita a parlare, e che è la lingua stessa, nata

vicina all’inizio di ogni vita. «La lingua che umanizza», dice Milagros Rivera (2007, p. 67),

cioè, che rende umano ciò che non lo è più perché ha perso una certa fede infantile.

Verso la fine, quando era giunta per me l’ora di andare via, cominciavo a notare intorno a noi

un’aura che ci isolava dalle comparse, allontanandole da noi due; e si era spezzato

l’incantesimo nel locale, che andava spogliandosi della sua ingannevole apparenza, era il

luogo in cui dormiva la lepre, cominciavo a vederla lì in mezzo alla stanza, in mezzo al

giardino incantato, come un simbolo bianco e immobile (Carmen Martín Gaite, 1995, p. 29).

«La sopresa è una lepre» – dice Sofía – «coloro che le danno la caccia non la vedranno mai

dormire nell’erba» (Martín Gaite, 1995, p. 28). E loro due, quella sera, improvvisamente la

vedono la lepre, in mezzo al giardino incantato, come un simbolo bianco e immobile. Per me

quel simbolo è la lingua materna, ritrovata nel «tra donne» (Rivera, 2007); è ritrovarsi nelle

parole che si dicono e, di riflesso, in quelle che dall’altra ci arrivano. La lepre è la casa nel

chiaro del bosco.

La conversazione tra Mariana e Sofía è eccezionale, perché ha il potere di trasformare il

locale in cui si trovano in una stanza tutta per loro, uno spazio simbolico dove le amiche non

sono le uniche a parlare ma, attraverso le loro voci, parlano le donne che le hanno precedute,

tra cui la propria madre, dalla quale (o chi per essa) hanno ricevuto la lingua che ora si

scambiano. Stanza che apre un nuovo inizio: la possibilità di ricomporre in modo creativo e

146

libero la loro relazione e la propria vita (Bateson, 1992). E farlo ricuperando per sé una certa

fede infantile – come dice Mariana – oppure «la fiducia in quella ragazzina» (Martín Gaite,

1995, p. 154): lei, Sofía, la signorina Montalvo, che da grande avrebbe scritto romanzi, come

presagiva Pedro Larroque, il loro professore di letteratura. Fede infantile e fiducia che

evocano la relazione prima con la madre, «la relazione in cui ciascuna e ciascuno impara,

simultaneamente, a parlare e a convivere» (Rivera, 2007, p. 15) e riattivano la sua potenza

generativa, ovvero la messa in circolo di nuovi sensi su come vedere, udire e vivere nel

mondo in un’altra maniera (ibidem). Un modo di stare alla realtà e alle parole che ritrovo

nello sguardo che le due protagoniste andranno costruendo in relazione, attraverso lo scambio

epistolare, «quel genere che tanto senso ha avuto e ha tra le donne per narrare le proprie

esperienze e condividerle con altre e altri» (Cunillera, 2010, p. 2, trad. mia):

Le dieci. Non potevo fermarmi un minuto di più. Mi resi conto che avevamo appena sfiorato

il capitolo Vite rispettive e che il tempo del nostro nuovo incontro era volato via in un soffio.

Ma dovevo mettermi a correre come Cenerentola (…) Fu quando ti chiesi per favore di

scrivere, di metterti a scrivere quello che ti veniva in mente, ma subito, quella sera stessa

appena arrivata a casa, non potevo lasciarti scomparire senza fartelo promettere (…)

«Continui, signorina Montalvo, continui sempre». Ecco, in questo momento io sono il

professor Pedro Larroque. Per favore Sofia, continua come vuoi e parla di quello che vuoi,

perché tutto ciò che tocchi diventa oro, e quanto vi è di più sordido e routinario lo trasformi

in letteratura. Non hai il diritto di sprecare questo dono (Martín Gaite, 1995, p. 29).

E Sofía risponde alla chiamata:

«Tenga sempre con sé il retino per le farfalle, signorina Montalvo», mi diceva da qualche

tempo il prof. Larroque, o il suo fantasma. Eppure quella frase non mi emozionava né mi

serviva granché: in ogni caso era rivolta a una ragazzina lontanissima ed esangue (che non ha

niente a che vedere con me), condannata a cacciare per tutti i secoli dei secoli farfalle di cera

cosparse di dittonghi. Carino, se vuoi, surreale. Ma si tratta di una scena imbalsamata, dove

l’aria non c’è né ci sarà mai, almeno fino a quando non avrò ritrovato la fiducia in quella

ragazzina, e finchè non avrò restaurato il mio grado di parentela con lei, usando metodi che

non siano quelli del respiratore automatico. Invece, se tu scrivi con la tua calligrafia

inconfondibile, dopo tutti questi anni senza ricevere una tua lettera: «Continui, signorina

Moltalvo, continui sempre», allora è diverso. La parola “sempre” acquista il potere di un

talismano, solleva il coperchio della bara in cui giaceva la Bella Addormentata, facendo

147

ritornare contemporaneamente alla signorina Montalvo e a me, che adesso mi chiamo

signora Luque, il colore sulle guance (ivi, p. 154).

Mariana León e Sofía Montalvo (oppure signora Luque) sono Cenerentola e la Bella

Addormentata in un giardino incantato in cui la lepre dorme nell’erba, ad aspettarle. E lo sono

in virtù della lingua che Mariana risveglia in Sofía e che Sofía offre a Mariana come un dono,

in un movimento di andata e ritorno, in cui entrambe si narrano, con quello «sguardo da

fiaba» che Vita Cosentino e Federica Marchesini ci invitano ad avere in un testo intitolato,

C’era, non c’era… (2006). Uno sguardo che permette di riaprire nelle loro vite una

dimensione dell’esistenza che sembrava scomparsa, la loro infanzia, in cui tutto è possibile,

come racconta la storia di Sara Allen, la bambina protagonista di Capuccetto rosso a

Manhattan (Martín Gaite, 1990), e il suo sogno di libertà145

. Un tutto è possibile che sta a

quello che c’è ma attento a ciò che ancora non c’è e si desidera far accadere, che si nutre di

quel «sentimento che il mondo non si esaurisce tutto in quello che si vede, che ci può essere

qualcos’altro a cui ti senti destinata; il sentimento che è possibile stare al mondo con

grandezza, a prescindere da ricchezza o povertà, da vivere in città o in campagna, o da tutte le

altre determinazioni delle singole esistenze» (Cosentino, Marchesini, 2006, p. 14).

Lo sguardo da fiaba, la loro forza dirompente, come la lingua che trascina Mariana nel bosco

incantato, è sostenuto dalla relazione significativa tra chi narra e chi ascolta, ora Mariana e

Sofia, ora Sofia e Mariana, in un circolo virtuoso infinito che permette di spezzare la catena

delle identificazioni accomodanti (moglie e madre perfetta; amante tormentata),

dell’indifferenza verso i propri desideri e del dolore, per far circolare di nuovo l’aria. Per far

ritornare il colore sulle guance.

145 «(…) un libro con la storia di Robinson Crusoe adattata per bambini, un altro con quella di Alice nel Paese

delle Meraviglie, e un altro ancora con quella di Capuccetto Rosso furono i primi tre libri di Sara, ancora prima

che sapesse leggere bene. Ma avevano dei disegni così dettagliati e così belli, che facevano conoscere

perfettamente i personaggi e lasciavano immaginare i paesaggi in cui si svolgevano le diverse avventure. Anche

se poi non erano tanto diverse, perché l’avventura principale era l’andare in giro per il mondo da soli, senza un

padre o una madre che li tenesse per mano, dicendo loro di stare attenti e vietando loro qualunque cosa.

Nell’acqua, nell’aria, in un bosco ma da soli. Liberi. E che naturalmente potessero parlare con gli animali, a Sara

sembrava più che logico. E che Alice cambiasse di statura, perché anche a lei succedeva in sogno. E che il signor

Robinson vivesse su un’isola, come la Statua della Libertà. Tutto aveva a che fare con la libertà» (Martín Gaite,

1990, p. 14). Andando avanti nella narrazione scopriamo che la libertà Sara la raggiunge grazie alle relazione

con due donne: la nonna, Rebecca Little – ex-cantante di music hall – e Miss Lunatic – «una donna molto

anziana, vestita di stracci con in testa un cappello a larghe tese (…) (ivi, p. 59)», che gira la città con una

carrozzina vuota, di antiquariato, e che sa leggere il futuro nella mano delle persone.

148

3.4.2. Scendere nel bosco

Tu stesso ti fai grosso

col falso imaginar, sì che non vedi

ciò che vedresti se l’avessi scosso.

Beatrice a Dante nella Divina Commedia

Nella sua terza lettera a Sofía, siamo quasi a metà della narrazione, Mariana fa riferimento ad

un quadro di Remedios Varo146

che s’intitola Spezzare il circolo vizioso: «rappresenta una

donna con dentro al petto un bosco cinto dal fino spinato» (Martín Gaite, 1995, p. 146).

L’immagine mi ricorda Águeda, la protagonista di Lo strano è vivere (1996), una donna di una

trentina d’anni che ha perso sua madre di recente. L’espressione «lo strano è vivere» è il titolo

di una delle canzoni che Águeda compone da giovane, negli anni dell’università, delle notti

insonni e dell’alcool: «allora ero capace di scavalcare qualsiasi ostacolo per far piacere al

corpo» (Martín Gaite, 1998, p. 54). Un piacere tuttavia amaro e non esente da dolore, come

traspare dal testo della canzone, che Águeda ricorda come un vecchio motivo, eppure così

presente:

L’idea di considerarlo vecchio mi aveva fatto riflettere, in quanto le parole, gli accordi e la

pena d’amore che lo avevano originato stillavano ancora sangue recente dalla mansarda

tappezzata in azzurro, il primo rifugio quando me ne andai dalla casa di mia madre, che

lontano, che vicino, che strano, «lo strano è vivere, rock di ori e spade, intrarock da vivere con

angosce amputate, rock da sopravvivere» (ivi, p. 31).

Questo è uno dei tanti frammenti che affiorerano alla memoria di Águeda durante la narrazione

e che andrano a comporre il mosaico della sua storia: un viaggio alla ricerca di sé e del senso

della sua vita, che è anche il senso delle parole per nominarla, come vedremo. Viaggio che

prende la mosse da ciò che Vladimir Todorov chiama nella Morfologia della fiaba, la rottura

dell’equilibrio della situazione iniziale (1966, p. 31), che in estrema sintesi e trascurando aspetti

146 Pittrice surrealista nata ad Anglès (Spagna) nel 1908. Il pittore catalano Esteban Francés la introduce nel

circolo dei surrealisti guidato da André Breton. Dopo l’inizio della guerra va in esilio in Messico dove, tra

diversi viaggi all’estero, vive e lavora fino alla sua morte. Si veda Varo (1967) e Kaplan (1988). Una breve

lettura della sua opera dalla prospettiva del pensiero della differenza si trova in Mercader (2009, pp. 199-201).

149

che in una vita non sono secondari, è come segue: Águeda vive con Tomás, un uomo che la

ama e si prende cura di lei e in cui lei vede più un rifugio che un vero compagno; rifugio è

anche il suo lavoro nell’archivio nazionale, dove va ogni giorno «a bere oblio» (Martín Gaite,

1998, p. 40), tra un mare di carte estranee al suo mondo.

Equilibrio iniziale che nel caso di Águeda è di per sé precario, perché costruito a forza di

amputare e dimenticare; suturare vecchie ferite che tuttavia, come lei stessa ci racconta,

continuano a sanguinare. Una di queste, la prima e origine di tutte, si trova celata in queste

parole: quando me andai dalla casa di mia madre.

Il romanzo inizia con l’arrivo di Águeda alla casa di cura in cui vive suo nonno. Il direttore l’ha

chiamata perchè, dopo la morte della madre, ormai sono passate otto settimane, nessuno è

venuto a trovare l’anziano, nemmeno lei. Inoltre ha qualcosa da chiederle: sostituire la madre

mentre lui trova il modo più adeguato di comunicare la notizia della sua morte al nonno, molto

affezionato alla figlia. Prima di entrare nella casa di cura, Águeda si sofferma sulla porta dove,

sotto la targhetta con il nome del luogo, scorge la figura di una Maria Ausiliatrice

di media grandezza, nel solito atteggiamento ieratico da icona, gli occhi fissi nel vuoto mentre

regge di malavoglia il bambino147

con la testa piegata che sembra un asparago, mal nutriti tutti

e due, lei con il velo sulla testa; quasi tutte le madonne del mondo stringono le mani del loro

bambino come per dovere, e lasciano trapelare un sorriso pieno di apprensione, chissà cosa si

aspettano dopo che mi avranno dipinto ‘sto ritratto e mi avranno appeso attorno gli angioletti,

dovrò sopportare la maternità e la leggenda insieme (Martín Gaite, 1998, p. 10).

La percezione di Águeda della relazione materna «introduce l’idea che non solo la maternità è

un peso ma anche i miti che la circondano, non ultimo la santificazione della natura divina della

relazione tra la vergine Maria e suo figlio Gesù» (Wilson, 2012, p. 717, trad. mia)148

. Da essa

traspare anche il conflitto con la madre; un conflitto latente perché non manifesto, non accolto

né messo in parole che possano spezzare il circolo vizioso. A questo proposito, il dialogo tra

Águeda e il direttore ci dà un ulteriore indizio:

147 La traduzione di Lo raro es vivir che ho utilizzato è quella di Michela Finassi Parolo, salvo in alcuni casi

come questo, in cui ho seguito da vicino il testo spagnolo. 148 Come segnala ancora Wilson, «Luce Irigaray mostra le implicazioni del fatto che nell’iconografia

occidentale, ad iniziare da Maria e Gesù, non esistano rappresentazioni di una madre con una bambina. Come lei

suggerisce, le ricadute di ciò per le donne, che si trovano senza rappresentazione simbolica di quella relazione,

sonno immense» (2012, p. 717, trad. mia). Sulla rimozione culturale del rapporto delle donne con la madre e le

sue conseguenze, si veda anche Muraro (2006).

150

«Intende dire che non frequentava sua madre?»

«Diciamo che avevamo allentato i rapporti».

«Beh, in ogni caso», disse con voce grave, «partecipo al suo dolore, al poco o tanto che le

abbia causato la sua morte. Era una donna straordinaria».

«Grazie. Lo so».

«E le voleva bene»

«Questo invece non lo so. Ma non importa», aggiunsi, sollevando gli occhi verso l’uomo alto

con una reazione improvvisamente dura, nel tentativo di far abortire le sue possibili

argomentazioni al riguardo. «Non sono venuta qui per parlare di questo, come comprenderà»

(ivi, pp. 13-14).

Di certo, quell’uomo appena conosciuto non è l’interlocutore più adatto per parlare della

relazione con sua madre. Poi a un certo punto, Águeda cade in una sorta di sogno in cui vede

sua madre in una scena identica a quella che lei sta vivendo con il direttore, che inizia a ruotare

intorno a lei, come se di un pianeta si trattasse, con le pareti di cristallo, attraverso cui può

vedere l’uomo che si avvicina alla donna, non più lei ma la madre, offrendole un fazzoletto

bianco per asciugarsi le lacrime, di vetro «come quelle che bagnano i volti delle Madonne

Addolorate» (ivi, p. 16).

(…) l’arredamento era identico, perfino la luce azzurrata che giungeva a tratti, come il fascio

luminoso di un faro, era il riflesso della nostra lampada a stelo, che avevamo acceso per avere

un po’ di intimità; alla mamma tremavano le spalle, che cosa si stavano dicendo?, sentirli non

li sentivo, si avvertiva soltanto il ronzìo stridente di quel pianeta oblungo che sorvolava le

nostre teste come un dirigibile, così in basso, così rasente al suolo che mi sentii cogliere dal

panico. Io e lo sconosciuto ci saremmo disintegrati nello spazio prima che lui avesse avuto il

tempo di raccontarmi la storia. Non c’era via di uscita. Tutto stava girando (ibidem).

E Águeda sviene.

«È stato un malessere strano», disse. «E così improvviso, poi! Non sarà mica incinta?»

«Incinta io?», protestai. «Per nulla al mondo. Dio me ne guardi! Non voglio avere figli, non ne

avrò mai, mai. Mai in vita mia!»

(…)

Mi tese un fazzoletto bianco, e solo allora capii che stavo piangendo (ivi, p. 17).

151

Prima di svenire, Águeda dice: «Sto male, sì sto malissimo….» (ibidem).

Nella sua visita alla casa di cura, prima sequenza del romanzo che ha tutto il sapore di una

fiaba, Águeda dice delle frasi che non sono rivolte solo al suo interlocutore e il cui significato

va oltre l’orizzonte di senso che lo scambio delimita. Un esempio è la frase che ho appena

citato: «Sto male, sì sto malissimo». Frase che risponde alla domanda del direttore sulla sua

salute, ma che, a mio avviso, è in realtà una chiamata a sé: il riconoscimento di un dolore

profondo del corpo e dell’anima che ora, nel ricordare la madre, si fa sentire. Un altro esempio

lo troviamo mentre Águeda attende l’arrivo del direttore, in una saletta dove oltre a lei vi è un

uomo in tuta blu che sta sistemando dei cavi. Una volta concluso il suo lavoro, si rivolge ad

Águeda:

«Se non avete bisogno d’altro…», disse, fermandosi qualche istante quando mi passò davanti.

«No. Io non ho bisogno di niente», risposi, dopo un’impercettibile esitazione.

«Allora buonasera. Il cavo era completamente fuso. Rischiavate di avere un cortocircuito»

(ivi, p. 12).

Che lei non ha bisogno di niente, Águeda lo fa capire un po’ a tutti quelli che la circondano,

anche a coloro che con lei c’entrano poco; e nel farlo, lo ricorda anche a sé per amputare il

desiderio di uscire dal guscio che si è costruita e guardare fuori, alla luce del sole. Che il cavo è

completamente fuso, l’uomo dalla tuta blu lo dice in senso letterale nella realtà della stanza

della casa di cura; le sue parole tuttavia nascondo altri sensi, che nello spazio della fiaba sono

un avvertimento all’eroina ma anche l’annuncio celato di un lieto fine, rischiavate. Lieto fine

per giungere al quale, Águeda avrà bisogno di tutto.

(…) avevo capito che la visita al nonno aveva messo allo scoperto una serie di cavi di

provenienze diverse che erano sul punto di provocare un cortocircuito. Ma commisi l’errore di

credere che dedicarmi completamente al mio lavoro – l’unica decisione che mi restituì un po’

di tranquillità mentre mi asciugavo i capelli – fosse un modo per allontanarmi da quel fitto

garbuglio (ivi, p. 27)149

.

149

Anche qui ho seguito da vicino il testo originale, in cui l’aggettivo è «tupida» (1996, p. 29), che rende meglio

l’idea del bosco, immagine che Carmen Martín Gaite usa nel romanzo e che sto seguendo per articolare il

racconto.

152

Ad aprire una breccia nell’apparente equilibrio e quindi dare inizio all’avventura sarà la

richiesta che il direttore formula ad Águeda; richiesta che, come un incantesimo, chiama alla

presenza la madre e provoca nella protagonista «qualcosa di profondo e oscuro come uno

smottamento di terra» (ivi, p. 68). D’ora in avanti, il romanzo si svolgerà secondo un

susseguirsi di scoperte che riporterano Águeda alle sue origini, tra cui la relazione con la

madre, seppellita e messa a tacere dopo la sua morte.

Quel che mi stupiva maggiormente era l’essermi abituata così in fretta a pensare a mia madre

come a qualcuno che non avrebbe mai più sofferto il caldo, né si sarebbe mai più affacciato

alla finestra di notte per guardare i tetti di Madrid, qualcuno che apparteneva al passato (…).

Non sente più – mi dicevo –, non può più fornire spiegazioni, neanche se gliele chiedessi, non

può più mentire né difendersi, se n’è andata in punta di piedi con le sue cose, con il suo

sguardo indecifrabile, non soffre più il caldo, e si è portata via la parte della mia infanzia che

le si era aggrovigliata addosso. Non pensavo “se la porterà via”, ci pensavo come facevo altre

volte immaginando come un sussulto la sua assenza, bensì “se l’è portata via”, ci pensavo

come a qualcosa di inesorabile. E il cordone ombelicale delle storie in sospeso si ricopriva di

ruggine.

Dire “si è portata via parte della mia infanzia” era vedermi volare fra le sue braccia ancora

giovani verso un luogo remoto; interrompevo i giochi e le domande, gli atlanti restavano

aperti, le pedine del parchís150

tutte in giro, il puzzle a metà, le matite colorate con la punta

150

El parchís è un gioco da tavolo molto diffuso in Spagna. Ogni giocatore (da due a quattro) ha quattro pedine

di un colore (rosso, verde, giallo o blu), che deve portare in un quadrato centrale, secondo un percorso

Spezzando il circolo vizioso (dettaglio), Remedios Varo.

Tecnica mista, 1962.

153

spezzata, la bici abbandonata per terra, «sbrigati!», e un vortice ci trascinava su su fino in

cielo, «vieni, non aver paura, tienti forte a me»; era come un razzo spaziale, ma io sapevo che

poi sarebbe caduto conficcandosi nelle viscere della terra, e chiudevo gli occhi, tremando. (…)

la mia infanzia giaceva mutilata sulla moquette, avrei dovuto farle la respirazione artificiale o

forse l’autopsia, cercare fotografie, carte, ricordare come si vestiva lei, l’espressione dietro cui

celava le sue rabbie, prepararmi, in una parola, all’incontro con il nonno (…) (ivi, p. 53).

Incontro in cui rivedremo Águeda cambiata – «una persona vera», rinoscerà in lei il medico –,

in virtù del viaggio che decide di compiere, «scendere nel bosco», alla ricerca di sua madre, in

un movimento dal basso all’alto, come nella Divina Commedia, che le darà la possibilità di

uscire dall’isolamento e dal rancore e di riprendersi la sua vita, di darle un senso e mettere fine

alla sofferenza: «passo la vita a tenermi sulla difensiva senza sapere se sto facendo del male a

qualcuno, e intanto lo faccio a me stessa» (ivi, p. 104).

Scendere nel bosco è una metafora inventata da Águeda bambina per riferirsi ai suoi viaggi in

metropolitana. Viaggi che, ci racconta, ha smesso di fare da molto tempo perché non è più

sicuro. Preferisce la superficie, non solo rispetto alle modalità di movimento nella città ma

anche a quelle che hanno a che fare con las cosas de la vida y las cosas del querer151

.

A me, quando viaggio in metropolitana, vengono sempre in mente tanti pensieri, e con scosse

di alto voltaggio per giunta: lampi che generano domande senza risposta per sfociare nella

perdita di se stesse, nei tratti oscuri del viaggio interiore dove si accentua la sconnessione tra

la logica e il terrore. L’ho saputo fin da bambina e mi faceva paura, pur provandone piacere. È

vero che allora lo sgomento di sentirmi viva in mezzo a sconosciuti aveva un palliativo:

potevo contare, come punto di riferimento, su qualcuno che, oltre a servirmi di anello di

congiunzione con il mondo, la sapeva lunga sui viaggi sotterranei, mia madre (ivi, p. 29).

La madre è l’anello di congiunzione con il mondo, che permette ad Águeda bambina di sentirsi

viva tra gli altri, di «osare il reale, il vivente» (Cixous, 1988, p. 43), pensando con parole che

liberano la propria capacità di desiderio, come delle scosse, senza perciò dimenticare i limiti

che al mondo la legano, e che la presenza della madre le ricorda. In un testo intitolato Ascoltare

predefinitino nel tavoliere e con l’aiuto di un dado. Data la sua natura popolare, le regole variano a seconda della

regione, della città e persino della famiglia di appartenza. A questo proposito, ricordo accesse discussioni che

rendevano molto animate e divertenti le partite. 151

L’espressione appartiene a una famosa canzone di Antonio Amaya (1923-2012), Las cosas del querer, che

nel 1989 divenne popolare tra le generazioni più giovani grazie all’interpretazione di Angela Molina y Manuel

Bandera nell’omonimo film di Jaime Chávarri.

154

la madre (1998), Elisabeth Jankowski spiega che quando la madre insegna la lingua al suo

bambino o bambina, «oltre alla nominazione provvede anche a mettere in relazione gli oggetti e

le persone fra di loro, all’interno della triade madre-bambino-mondo, e crea, per il bambino, un

luogo di senso, che è quello di stare all’interno di una rapporto triadico mediato dalla lingua»

(ivi, p. 21-22). Quando Águeda smette di ascoltare sua madre, non perché sia morta né, prima

ancora, perché la loro relazione sia stata difficile, ma piuttosto perché ad un certo punto non

riconosce più la forza del legame madre-figlia, rifiutandolo come fonte di energia e nutrimento

per sé, l’anello di congiunzione si spezza. E ciò che nasceva come un gesto di indipendenza si

trasforma in filo spinato che cinge il bosco: spazio rinchiuso che devitalizza la parola e il senso

del proprio essere. Mi viene in mente il racconto di Luisa Muraro su i suoi inizii nella

filosofia152

:

Come capita spesso, quello che lì mi attirava e quello che lì mi bloccava, era in fondo la stessa

cosa. Ero attirata dalla filosofia perché cercavo l’indipendenza simbolica dalla realtà data.

Volevo non trovarmi più mentalmente in balia di eventi casuali e imprevisti. Ma non riuscivo

ad arrivarci, perché la filosofia che poteva mettermi al riparo dal dominio cappriccioso del

reale, come finalmente ho capito, mi metteva al tempo stesso contro mia madre, la cui opera io

giudicavo, implicitamente, malfatta. Volevo andare al principio delle cose per capire e capirmi,

e invece andavo contro mia madre. (…) Perché mai? Perché c’era dentro di me, a mia

insaputa, un’oscura avversione verso l’autrice della mia vita, che la filosofia venne come a

rianimare, e perché fra questa e quell’oscuro sentimento si era formato un circolo vizioso. Più

io cercavo l’indipenza simbolica e più crescevano in me il timore e la soggezione verso la

realtà data (2006, p. 8).

E ancora:

Il circolo vizioso che dicevo prima, si chiudeva proprio su questa figura deformata della

madre. Io sentivo e agivo come se la donna che mi ha messa al mondo fosse nemica della mia

indipendenza simbolica. E come se quest’ultima comportasse necessariamente la mia

separazione da lei e la sua fine. Che è una maniera di pensare comune a molte. Non è esatto

chiamarla un pensare; si tratta piuttosto di un sottinteso, quasi uno schema sottostante a tutto

un modo di sentire e agire, che niente da fuori viene a confutare quando si tratta di una donna,

152

Inizii segnati dalla presenza di alcuni filosofi, come Platone, «in trasparente rivalità, almeno nel linguaggio

usato, con tutto quello che appartiene alla matrice della vita. Basta pensare a Platone e all’insistenza con cui egli

oppone la ricerca dell’essere e della verità al regno della generazione» (Muraro, 2006, p. 9).

155

come se fosse naturale che lei detesti sua madre e se ne creda detestata. Si tratta in realtà di un

terribile disordine simbolico (ivi, p. 9)153

.

Recuperare il legame con la madre significa recuperare la lingua da lei insegnata, che sono

parole ma anche suoni, affetto, fiducia, «relazionalità, reciprocità, empatia, necessità»

(Jankowski, 1998, p. 19), un modo di essere al mondo di cui si fa esperienza quando si nasce e

si impara a parlare. Un momento questo, «la prima esperienza con la madre: esperienza né

soggettiva né oggettiva, né culturale né biologica, ma precedente tutte queste distinzioni»

(Zamboni, 1998, p. 147), che è fonte di senso profondo per la vita, di donne e uomini, se si

accoglie il carattere che lo contraddistingue; se ci si lascia toccare dalla scintilla divina che lo

rende possibile. Perciò trovo questa scena così significativa e paradigmatica della valenza

simbolica che per la crescita di Águeda avrà il cammino da lei iniziato:

Mi accorsi di una cosa sorprendente. Ogni volta che mi fermavo, il borbottìo di Gerundio [il

gatto di Águeda], messo a tacere dalle mie parole, riprendeva con accenti sempre più

scontrosi, come le proteste di un bambino quando teme che non ci si occupi più di lui. Non è

ancora piangere. Non credo che sul dizionario esista una voce per descriverlo, ha un qualcosa

del gemito erotico. Suona come una u chiusa che cerca l’uscita dal naso. A un tratto ricordai

che mia madre lo chiamava “ninfrare”, una delle tante parole che inventava lei, io da bambina

emettevo quel suono quando la sera veniva a raccontarmi una favola e si fermava

intempestivamente, forse per verificare che non mi fossi già addormentata. Ecco il primo dato

segreto, dissotterrare un sassolino perduto. Accarezzai la coda del gatto (Martín Gaite, 1998, p.

80).

Nell’introduzione all’opera collettanea Il cuore sacro della lingua (2006), curata da Chiara

Zamboni, le autrici raccontano la storia di Cuore sacro, film del regista turco Ferzan Ozpetek.

La donna protagonista, mossa dal desiderio di sapere di più sul conto di sua madre, morta da

anni, ritorna in quella che era stata la sua stanza. Lì scopre dei segni sul muro, un linguaggio

indecifrabile che risulta essere quello di sua madre. «La donna non riesce a capirlo» – scrivono

le autrici – «ma l’averlo trovato le permette di comprendere che la vita della madre portava con

sé un segreto e l’averlo sfiorato la provoca a un agire a lei stessa nuovo, imprevedibile rispetto

alla sua vita di prima» (AAVV, 2006, p. 9). E più avanti: «È il contatto con la lingua segreta

153

Disordine provocato da una cultura in cui «non s’insegna l’amore della madre alle donne. Eppure è il sapere

più importante, senza il quale è difficile imparare il resto ed essere originali in qualcosa…» (Muraro, 2006, p.

13).

156

della madre a mettere la giovane donna in rapporto con se stessa e con l’ascolto di qualcosa di

vivo che non s’impone, ma che ha risonanze infinite in lei» (ivi, p. 10).

L’esperienza della donna, pur diversa da quella di Águeda, ci offre un punto di contatto

significativo: la scoperta della potenza creatrice della lingua materna e della sua capacità di

rimettere in circolo «delle forze passionali con l’attività della mente» (Muraro, 2006, p. 23).

Cosa significa? Scoprire che l’origine della lingua e del pensiero sono nel corpo materno,

lasciare riaffiorare le sue tracce nel proprio, avvicinare la parola al momento della nascita per

fecondarla della costellazione di sensi ad essa legati, tra cui, il desiderio di essere, la fragilità, la

necessità dell’altra per essere, in un movimento creativo tra «il tutto e il possibile» (Jankowski,

1998, p.12), bellissima espressione di Elisabeth Jankowski, che è radice e cielo aperto verso cui

crescere, espandendosi. E ancora: non dimenticare che «siamo sempre legati all’evento della

nostra incarnazione ed è la madre che compie con noi questo cammino» (ivi, p. 13), perché sarà

quella consapevolezza a guidarci e non perderci nell’esercizio astratto del pensiero, nel falso

imaginar…

Il circolo infinito

Caroline Wilson in un testo intitolato The Restoration of the Maternal Order. A circle of

Infinite? The Mother-Daughter Relationship in Carmen’s Martín Gaite’s Lo raro es vivir (2012)

offre una lettura della storia di Águeda in cui trovo delle risonanze con ciò che cerco di dire.

Partendo da una citazione di Irigaray da Ethique de la difference sexuelle (1985), riferita alla

circolarità e natura potenzialmente infinita tra madre e figlia, e tenendo presente il pensiero

della differenza italiano, Wilson vede nel percorso compiuto da Águeda il processo di

restaurazione di un’ordine perduto, quello della madre. L’autrice segnala come già nel

significato del nome della protagonista, Águeda, sia possibile vedere l’inizio di questo

movimento, in quanto esso evoca il martirio di Santa Águeda, il cui petto fu tagliato più volte

dall’imperatore Quintiliano.

«Sono famose » – scrive Wilson – «le parole che [la santa] rivolge a Quintiliano: “Crudele

tiranno, non ti vergogni di torturare in una donna lo stesso petto da cui tu ti sei nutrito da

bambino?”» (Wilson, 2012, p. 714, trad. mia). L’autrice continua mostrando come nel romanzo

quest’ordine sia assente all’inizio poiché Águeda, non riconoscendo la relazione con sua madre,

«rifiuta la sua collocazione nella linea genealogica dell’ordine materno» (ivi, p. 719),

rimanendo quindi sospesa, senza radici a cui affidarsi per dare un senso alla propria vita.

157

Un aspetto che mi sembra interessante rilevare della riflessione della Wilson è che ad essere al

centro non è la qualità della relazione madre-figlia, che come traspare dal racconto di Águeda è

difficile e conflittuale, ma il riconoscimento del vincolo materno, del fatto che – con le parole

di Luisa Muraro – «per la sua esistenza libera una donna ha bisogno, simbolicamente, della

potenza materna, così come ne ha avuto bisogno materialmente per venire al mondo. E che può

averla tutta dalla sua parte in cambio di amore e riconoscenza» (2006, p. 9)154

.

Quando Águeda decide di scendere nel bosco per andare incontro a sua madre, quando

permette che i suoi ricordi affiorino, i più dolorosi insieme ai «momenti straordinari», un po’

alla volta, in associazione libera, e con essi le sue parole dell’infanzia, qualcosa si apre, un

chiaro nel bosco e inizia a vedere con più chiarezza, «basta con le idealizzazioni» (Martín

Gaite, p. 131, 1998), si dice, gettando nel cestino l’incubo di un amore passato che ancora la

perseguita. È come se in lei fosse nata una forte necessità di mettere ordine nella propria vita: in

casa, quando decide di sgomberare la tavola della cucina per crearsi un tavolo di studio e

concludere finalmente la sua tesi dottorale; tra i ricordi che vuole conservare e quelli che ormai

non le servono più; ma soprattutto nei rapporti di cui è fatta la sua vita, in primo luogo la

relazione con sua madre, per ritrovarne il senso. Si tratta di fare ordine simbolico, come mi

suggeriscono le parole di Antonietta Lelario (1998, pp. 198-199), una docente che ha visto nella

«lettura libera della differenza sessuale», quindi nel significare il proprio essere donna a partire

da sé e in relazione ad altre, tra cui la madre, «un imprevisto storico che modifica tutto l’ordine

di senso a cui siamo abituati» (ivi, p. 195).

Dal lavorio profondo della lingua materna ritrovata e delle storie e significati di cui è portatrice,

si sprigiona in Águeda un’energia improvvisa che nella narrazione viene dosata in tante piccole

azioni che le servono per riprendere i fili della propria vita lasciati in sospeso. Quelli che, come

avvertiva l’uomo dalla tuta blu, rischiavano di fondersi e di provocare un cortocirtuito,

nonostante la profondità in cui Águeda li aveva seppelliti o la lontananza in cui l’oblio li aveva

cacciati. Uno di questi è la relazione con Rosario Tena. In breve: Rosario è una docente

universitaria che Águeda stima perchè con lei ha imparato molte cose155

ma dalla quale si

154

Mi vengono in mente le parole di Diana Sartori a proposito del debito che una donna ha nei confronti della

madre, in particolare, quando scrive che tra i modi di restituire simbolicamente questo debito vi è anche

«qualcosa che si riferisce al perdono. Sapere perdonare la madre, per essere lei, proprio lei, nella sua

contingenza, diversa, in ogni caso, dalla madre» (2002, p. 72, trad. mia). 155

Mi sembra significativo questo passaggio in cui vediamo Rosario, attraverso le parole di Agueda, spiegare la

Divina Commedia. Credo sia un esempio di amore e passione per l’insegnamento di una intensità tale, da

provocare in chi ascolta una forte emozione e suscitare il desiderio di approfondire di più. Così succede ad Agueda

158

allontana dopo che Rosario abbandona l’insegnamento per dedicarsi alla pittura, diventando

l’assistente della madre di Águeda, una famosa pittrice. Il reincontro a una mostra di Rosario,

che agli occhi della donna si è trasformata in una «banale imitazione» di sua madre, sia per

quanto riguarda i suoi quadri che per il modo di vestire, «e perfino un poco nella voce» (ivi, p.

183), marca l’inizio di un conflitto.

A un certo punto, quando mi avvicinai per salutarla, notai che si era accorta di quello che

pensavo dei suoi quadri e di tutto il resto, sebbene non glielo avessi detto. E allora mi parve di

scorgere in fondo al suo sguardo affabile il balenìo di una spada sguainata. Fu allora che mi

apparve per la prima volta l’immagine di Anna Baxter in Eva contro Eva (ibidem).

Dopo la morte della madre di Águeda, sono molti i messaggi che Rosario le lascia nella

segreteria, chiedendole di incontrarla: si sente a terra, sta per abbandonare la città, ma prima

di andare via vuole parlarle. Invece Águeda non risponde, lascia perdere, fa finta di niente,

finchè verso la fine del romanzo, con le energie rinnovate, accetta. Di fronte al corpo a corpo,

spesso condannato ad un vicolo cieco sterile, Águeda sceglie la via del «tra donne» che

riescono a confliggere senza annientarsi né rinunciare alla relazione e alle sue possibilità. E lo

fa in virtù della lingua che le è stata insegnata, con parole che nascono vicine al proprio

sentire, al suo desiderio di avvicinarsi a Rosario:

Non si trattava di interrogarla sul tipo di rapporti che aveva avuto con mia madre, non

c’erano conti da saldare, né panni sporchi da lavare. Ora si trattava di noi due, del nostro

presente, del fatto che potevamo fare la pace, in una guerra che ero consapevole di avere

attizzato io. Lo strano è vivere, era stata proprio lei a sottolineare tale straniamento alla fine

di una lezione indimenticabile di arte e di vita per la quale ancora non avevo avuto

che, rientrata in casa, si mette a leggere l’opera di Dante: « (…) mi resi conto – fatto strano per me – che stavo

prendendo appunti come se scattassi fotografie (…). Una lupa, una pantera e un leone compaiono successivamente

ai piedi della collina. Poi arriva Virgilio, una sorta di ombra che comincia a parlare. In realtà li stavo proprio

vedendo, ed ero pronta ad andare ovunque mi conducesse la voce di quella ragazza con gli occhialini, che aveva

soltanto otto anni più di me e quattro meno di Dante quando si ferma perplesso nella selva oscura del principio,

confessando di aver smarrito la strada. Parlava senza guardare nessun libro, e intanto faceva i suoi commenti “a

grande linee”, come disse lei, ma inframmezzandoli di citazioni che sembrava conoscere a memoria, sorvolando il

testo con una sorta di ingenua padronanza. E a partire dalla selva oscura dove il poeta si era smarrito, senza sapere

come avesse fatto ad arrivarci, Virgilio si mise a guidare Dante, così come Rosario Tena fece con me, prima in un

immenso e terrificante imbuto incassato al centro della terra, e poi su su, per una montagna formata dalle rocce che

Lucifero aveva spostato durante la sua caduta, per arrivare finalmente, dopo aver superato le sette cornici,

all’anelata sommità del giardini dell’Eden, dove il poeta trova Beatrice che guarda nel sole con occhi d’aquila, e

gli dice: «Tu stesso ti fai grosso/col falso imaginar, sì che non vedi/ciò che vedresti se l’avessi scosso» (Martín

Gaite, 1998, pp. 168-169).

159

l’occasione di ringraziarla, molto strano sì, però noi due eravamo ancora vive, e così pure

suo fratello Miguel e Águeda Luengo156

, finchè fossimo state capaci di tirare su la testa dal

caos per invocarli e contemplare il fulgore dei loro astri che pulsano in un altro emisfero,

volevo parlare principalmente di questo con Rosario, ero venuta a restituirle quello che lei mi

aveva insegnato, a ricordarglielo affinchè adesso le fosse di aiuto (ivi, p. 191).

Parole vere, quelle di Águeda, che hanno l’effetto di ridare a Rosario fiducia e calore, di

sciogliere la tensione del corpo e trasformarle il viso, in cui ora riaffiora l’espressione di

quell’insegnante appassionata che era stata. «Dammi retta» – la esorta Águeda – preparati per

il concorso! È per questo che sei nata, punto e basta» (ivi, p. 199). E ancora, a sostenere il

desiderio rinato di essere: «Non sprofondiamo mica, sai?», le dissi sottovoce. «Stiamo

uscendo. E lei ci guida. Aggrappati a me» (ivi, p. 193).

Nell’epilogo del romanzo, veniamo a sapere che Águeda e Tomás sono andati a vivere

nell’attico della madre, «così trasformato che la mamma, se lo vedesse, non lo

riconoscerebbe» (ivi, p. 215)157

. Ma non sono gli unici ad abitare la casa, perché oltre a loro e

al gatto Gerundio, c’è una nuova arrivata: Cecilia. E qui, un altro tra i tanti fili sparsi, quello

della maternità, chissà se il più importante, passa ad intrecciare il tessuto dell’esistenza di

Águeda e della sua genealogia; a chiudere il cerchio e a riaprirlo in un movimento infinito.

Energia creativa che fa ordine e di cui troviamo l’incarnazione nel luogo casa costruito da

Águeda e Tomás; nella piccola scrivania dell’angolo della cucina, dove tra fogli sparsi la tesi

dottorale di Águeda continua a prendere forma; e nell’immagine che chiude il racconto:

madre e figlia che guardano attraverso la finestra, con i due volti molto vicini. Guardano

lontano, «al di là. E Cecilia fa un gesto lento e circolare con la mano, come se volesse

indagare su tutto quanto, abbracciare tutto quanto» (ivi, 217).

3.4.3. De su ventana a la mía

Desde la ventana (1987) raccoglie tre conferenze dedicate alla scrittura femminile, in cui

Carmen Martín Gaite riflette sulle opere di Virginia Woolf, Teresa de Jesús, Rosalía de Castro,

Natalia Ginzsburg, Carmen Laforet, tra le altre, riconoscendo nello sguardo di queste autrici

156

Il fratello di Rosario muore molto giovane in un incidente di moto, ai tempi in cui Rosario insegnava

all’università, Come traspare dal racconto, erano molto uniti. Agueda Luengo è la madre di Agueda. 157

Il corsivo è mio.

160

un modello a cui ispirarsi. Sguardo che si manifesta nell’uso originale e creativo della lingua e

in un modo tutto a partire da sé di affrontare, per esempio, questioni di tipo teorico usando un

tono narrativo, come è il caso di Virginia Woolf in A Room of One’s Own, dove «più che

lanciare conclusioni definitive da una sorta di olimpo astratto (…) ci va dando in ogni

momento riferimenti del cammino concreto che va percorrendo sul bordo del suo viaggio

intellettuale» (Martín Gaite, 1987, p.12, trad. mia). Uno stile simile segue la scrittrice

spagnola nella stesura di Desde la ventana, che si chiude con una «Appendice Arbitraria», in

cui troviamo un testo che inizia così:

New York, 21 de enero de 1982

Anoche soñé que le estaba escribiendo una carta muy larga a mi madre para contarle cosas

de Nueva York, pero era una forma muy peculiar de escritura. Estaba sentada en esta misma

habitación, desde cuyos ventanales se ve el East River, y lo que hacía no era propiamente

escribir, sino mover los dedos con gestos muy precisos para que la luz incidiera de una forma

determinada en un espejito como de juguete que tenía en la mano y cuyos reflejos ella

recogía desde una ventana que había enfrente, al otro lado del río. Se trataba de una especie

de código secreto, de un juego que ella había estado mucho tiempo tratándome de enseñar.

(Como cuando me quería enseñar a coser y me decía que era cuestión de paciencia. “¿Ves

como si te pones te sale bien? Mira, el secreto está en no tener prisa y en atender a cada

puntada como si ésa fuera la cosa más importante de tu vida”). Y la felicidad que me invadía

en el sueño no radicaba sólo en poderle contar cosas de Nueva York a mi madre y en tener la

certeza de que ella, aun después de muerta, me oía, sino también en la complacencia que me

proporcionaba mi destreza, es decir, en haber aprendido a mandarle el mensaje de aquella

forma tan divertida y tan rara, que además era un juego secretamente enseñado por ella y que

nadie más que nosotras dos podía compartir (Martín Gaite, 1987, pp. 113-114)158

.

158

Dato che non esiste traduzione italiana, scelgo di mantenere il frammento in lingua originale per preservare

tutta la ricchezza della lingua materna della scrittrice, che è anche la mia, e lasciarla risuonare nel testo. In ogni

caso, propongo una traduzione per facilitare la comprensione da parte delle persone che non conoscono lo

spagnolo: [«Ieri notte ho sognato che stavo scrivendo una lettera molto lunga a mia madre per raccontarle cose di

New York, ma era una forma molto particolare di scrittura. Ero seduta in questa stessa stanza, dalle cui finestre

si vede l’East River, e ciò che facevo non era propriamente scrivere, bensì muovere le dita con gesti precisi

perché la luce incidesse secondo un certo modo in un piccolo specchio, simile a un giocattolo, che avevo nella

mano e i cui riflessi lei raccoglieva da un’altra finestra che c’era dirimpetto, dall’altra parte del fiume. Si trattava

di una sorta di codice segreto, di un gioco che lei per molto tempo aveva cercato di insegnarmi. (Come quando

voleva insegnarmi a cucire e mi diceva che era questione di pazienza. “Vedi che quando ti ci metti ti riesce bene?

Guarda, il segreto sta nel non avere fretta e nel restare attente ad ogni punto come se quello che stai facendo

fosse la cosa più importante della tua vita”). E la felicità che mi invadeva nel sogno non era radicata solo nel

poter raccontare cose di New York a mia madre e nell’avere la certezza che lei, persino dopo morta, mi sentiva,

ma anche nella soddisfazione che mi dava la mia destrezza, cioè, l’aver imparato a mandarle il messaggio in quel

161

Ritengo molto significativo che a chiudere una riflessione sulla possibile esistenza di una

scrittura femminile sia il racconto di un sogno che, come un amico fa notare alla scrittrice,

soltanto una donna avrebbe potuto scrivere così. Affermazione su cui Carmen Martín Gaite

non indaga ma che provoca in lei un certo piacere, perché sentita come vera, soprattutto

perché nella voce dell’amico «non c’era nessuna traccia di ironia né di disprezzo» (ivi, p. 18,

trad. mia). Un racconto che ci parla di una lingua segreta imparata da sua madre, secondo un

gioco di riflessi e di rimandi (non posso non pensare al movimento amunt i avall della

genealogia femminile); delle qualità del suo insegnamento (della lingua ma anche del cucito,

che hanno delle affinità in quanto in entrambe è in gioco una certa abilità per mettere insieme,

intrecciare…): affetto, fiducia, pazienza, attenzione, tempo, impegno, passione, como si ésa

fuera la cosa más importante de tu vida. E ancora: del piacere e la gioia che nascono dalla

scoperta che si è imparato qualcosa. Tutto ciò scritto in una lingua così: viva, vicina

all’esperienza, dove le parole sono anche riflessi del mondo che le ha fatte nascere, della

relazione da cui hanno avuto origine e che i loro suoni evocano. E così, sulla scia della lingua

materna, il sogno di Carmen continua, risale all’infanzia, alle sere in cui sua madre cuciva

vicino alla finestra e, a tramonto arrivato, restava qualche secondo nella crescente oscurità

della stanza, chiedendo di lasciarla sola, nel passaggio dal giorno alla notte:

Yo me venía allí con mis cuadernos para hacer los deberes, y desde niña supe que la hora

que más le gustaba para fugarse era el atardecer, esa frontera entre dos luces, cuando ya no

se distinguen bien las letras ni el color de los hilos y resulta difícil enhebrar una aguja; supe

que cuando abandonaba sobre el regazo la labor o el libro y empezaba a mirar por la ventana,

era cuando se iba de viaje. «No encendáis todavía la luz – decía –, que quiero ver atardecer».

Yo no me iba, pero casi nunca le hablaba porque sabía que era interrumpirla. Y en en aquel

silencio que caía con la tarde sobre su labor y mis cuadernos, de tanto envidiarla y de tanto

mirarla, aprendí non sé cómo a fugarme yo también (ivi, p. 115)159

.

modo così divertente e così raro, che in più era un gioco segretamente insegnato da lei e che nessuno oltre a noi

poteva condividere»]. 159

[«Io andavo lì con i miei quaderni per fare i compiti, e sin da bambina seppi che l’ora che più le piaceva per

fuggire era quella del tramonto, quella frontiera tra due luci, quando ormai non si riesce più a distinguere bene le

lettere né i colori dei fili e risulta difficile infilare un ago; seppi che quando abbandonava nel grembo il cucito o

il libro e iniziava a guardare dalla finestra, era quando andava in viaggio. “Non accendete la luce ancora – diceva

–, che voglio vedere imbrunire”. Io non me ne andavo, ma quasi mai le parlavo perché sapevo che sarebbe stato

come interromperla. E in quel silenzio che cadeva con il pomeriggio sul suo cucito e i miei quaderni, era così

tanta l’invidia e così tanto il guardarla, che imparai non so come a fuggire anch’io»].

162

Su labor y mis cuadernos. Il racconto del sogno, come lei stessa scrive (1987, p. 17), Carmen

Martín Gaite lo recupera da uno dei suo vecchi «cuadernos de todo»160

dove, come il titolo

indica, la scrittrice insieme ai suoi disegni e ai suoi famosi collages registrava pensieri,

riflessioni, reazioni alle letture che faceva, impressioni sul mondo, sogni. Una sorta di diario,

come quello di Virginia Woolf, che dà testimonianza di ciò che per la scrittrice significava

vivere scrivendo (Pittarello, 2011, p. 11). Scrittura che trova nella lingua insegnata dalla

madre una mediazione per nominare il mondo, per raccontare «lo que a uno le enciende la

sangre» (Martín Gaite, 2002, p. 601), rimanendo fedele a sé, «senza dimenticare mai che la

ricerca interiore solo ha senso se il filo esce fuori (…) e se lo sforzo riesce a risvegliare

l’interesse di un lettore» (Chirbes, 2011, p. 3, trad. mia). Una lingua che la radica alle sue

origini e le permette di parlare secondo quel movimento del partire da sé che consiste nel

«parlare del mondo e al mondo collocandosi nel punto in cui si è, il punto della nostra

soggettività intessuta di legami riconosciuti (o silenti ma significativi), per giudicare, pensare

e agire» (Piussi, 2008a, pp. 15-16).

In un’intervista rilasciata a Maria Vittoria Calvi, una delle studiose più importanti della sua

opera, Carmen Martín Gaite riprende il legame tra vita e narrazione, come lo aveva espresso

ne La búsqueda de interlocutor (2000). Calvi le chiede come le venne in mente l’espressione

«narración tanathos», creata dalla scrittrice per riferirsi ad un tipo di narrazione raccontata

male, in contrapposizione a una «buona narrazione», i cui ingredienti principali sarebbero

«partecipazione, attenzione verso l’interlocutore e capacità per far vedere le cose» (Calvi,

1990, p. 169). E lei risponde:

Mi venne in mente osservando i bambini (…). Da sempre ho avuto molti bambini in giro per

la casa e facevo molta attenzione alle loro reazioni, e mi ricordavo com’ero io da bambina.

Io credo che questo tipo di atteggiamenti infantili li riconosco molto bene, so quale bambino

dice bugie perché lo si prenda in considerazione e, al contrario, quale bambino si mette a

creare, con quel tipo di bugie che io chiamo narrative o aperte. Succede la stessa cosa con i

grandi: molte persone ti raccontano bugie inutili perché vogliono che una non smetta di

ascoltarli; ti dispiace ma non sono dei buoni narratori, ti annoiano, come un cattivo relatore.

Ciò che veramente sento è che la gente è malata perché non parla; a me mancano di più le

persone che ho perso in quei momenti in cui realizzo che si è spezzato il filo della

160

Carmen Martín Gaite scrisse più di ottanta quaderni una parte dei quali è stata pubblicata in un’edizione

postuma a cura di Maria Vittoria Calvi (2002).

163

conversazione; ciò che mi manca di più delle persone che mi sono venute a mancare è la

parola, l’idioma che fai in comune con la gente, il linguaggio diverso che hai con ognuno di

loro. Nei miei libri credo di metterci molto di questo e credo che sia il motivo per cui essi

arrivano alle persone, e i lettori diventano amici miei per questo. Ho molti lettori giovani e

magari è gente che non parla, ma ne sentono la mancanza (Martín Gaite, 1990, pp. 170-171,

trad. mia).

Nei libri di Carmen Martín Gaite trovo un invito a raccontare «buone narrazioni» nello spazio

relazionale del tra, poiché è l’ascolto dell’altro, dell’altra da sè a metterci nella necessità di

trovare mediazione per rendere dicibile la propria esperienza. Per una donna, come mostrano i

romanzi di cui ho parlato, lo spazio tra è innazi tutto tra donne, una pratica che la Libreria delle

donne di Milano ha nominato affidamento: «la forma della mediazione sessuata femminile in

una società che non prevede mediazioni sessuate ma soltanto quella maschile rivestita di

validità universale» (1987, p. 187). Significa raccontare il mondo e raccontarsi nel mondo in

relazione ad altre donne, a cui si riconosce autorità perché il loro pensiero e la loro pratica sono

orientamento significativo per la propria azione nel mondo. E lo sono in virtù della lingua

materna che le dà consistenza, lingua le cui «risorse infinite (…) ci permettono di stare in

rapporto vivo con la realtà, anche quando si parla e si scrive in un'altra lingua» (Zamboni,

1998, p. 141).

3.4.4. Farsi ritmare dalla lingua materna

Cristina Mecenero nel suo libro Voci maestre (2004), nell’affrontare la questione della

soggettività nella scuola, dice che per esprimere il chi, l’uomo o la donna che sta presente in

classe con tutto ciò che è, e ciò che accade tra quel o quella chi e gli allievi e le allieve con cui

si mette in relazione, «si pone la necessità di scegliere un altro linguaggio e porsi in un’altra

posizione da cui parlare» (ivi, p. 33). Uno sguardo diverso e un linguaggio altro che permetta

di interrogare l’esperienza educativa, per significarla con parole proprie e a partire da ciò che

si sa161

; un linguaggio vicino all’esperienza, al corpo, a ciò che si è, perché non può essere

altrimenti, perché «non diamo se non ciò che siamo» (Cosentino, Longobardi, 1996, p. 31), e

se lo neghiamo entriamo in una schizofrenia, in una sofferenza e frustrazione senza fine.

161

Perché ciò che sappiamo non può separarsi da ciò che siamo (Contreras, Pérez de Lara, 2010).

164

In un momento in cui i mondi della scuola, dell’università, della formazione vengono

devitalizzati e mortificati da un linguaggio tecnico e burocratico che non riconosce le

differenze e quindi la complessità e la ricchezza dell’esistente, diventa vitale raccontare

“buone narrazioni”, come ci suggerisce Carmen Martín Gaite. Storie vere, perché nominano

quello che è, illuminano il senso di ciò che (ci) accade, nei luoghi in cui ci troviamo a lavorare

come maestre, formatrici, per aumentare la realtà162

e riuscire a cogliere le contraddizioni, i

vicoli ciechi, le possibilità. Per comprendere, in definitiva, come «giocarsi il proprio sapere e

le proprie passioni» (Lelario, 1998, p. 200); dove investire le proprie forze e dove è meglio

sottrarle, avere il coraggio di lasciar cadere perché sia altro a venire.

Buone narrazioni ritmate dalla lingua materna, la lengua salvaje que da forma a las más

antiguas a las más jóvenes pasiones....163

162

Scrive Anna Maria Piussi: «L’autorità simbolica della madre» - di cui la lingua materna è portatrice - «rivive

quando nella classe, nel gruppo, nelle singole, linguaggio-pensiero-conoscenza entrano in circolo fecondo con

l’esperienza viva, i desideri trovano ordine e corrispondenza, mondo interiore e mondo esteriore si tengono

insieme nel potenziamento reciproco e nel reciproco aumento di realtà» (1992, p. 29). 163

Per un esempio di ricerca pedagogica ritmata dalla lingua materna, si veda Caramés (2002), da cui ho tratto

ispirazione per questo passaggio.

165

Due pagine di un «cuaderno de todo» di Carmen Martín Gaite

Visión de Nueva York, collage di Carmen Martín Gaite

166

167

Cap. 4

UNA STANZA TUTTA PER SÉ

Credo che se ci fossero soltanto scrittori sentiremmo

la mancanza di qualcosa, magari neppure lo

sapremmo perché siamo molto abituati a fare così ma

io credo che effettivamente ci mancherebbe la visione

femminile del mondo e le voci delle donne e quindi

uno dei livelli sarebbe come mutilato, mancherebbe

qualcosa per farci stare in libertà (…).

Ciò che io mi aspetto è che abbiano uno spazio dove

essere in prima persona, dove poter vivere in prima

persona164

.

Maria Lluïsa Cunillera

Premessa

Per introdurre il racconto dei contesti in cui ho svolto la mia ricerca, vorrei partire

dall’immagine della «stanza tutta per sé», che dà titolo ad una delle opere più importanti di

Virginia Woolf (1998b) e che la scrittrice utilizza per dire ciò di cui una donna ha bisogno per

fare un lavoro intellettuale. La “stanza tutta per sé” indica, da una parte, indipendenza

materiale che, in parole molto concrete, significa soldi per vivere e mantenersi da sé,

attraverso quello che nella sua epoca Virginia reclamava per le giovani donne, tra cui anche

lei: una libera professione che desse loro la possibilità di pensare in modo indipendente,

appunto. Libera professione che non andava esercitata nello stesso modo degli uomini

dell’epoca, il «corteo degli uomini colti» – come li chiamerà in un’altra delle sue opere più

importanti, Le tre ghinee (2010) – ma «portando con sé tutta la cultura della propria

esperienza femminile» (Rich, 1982, p. 74).

Questo valore ci collega al secondo senso che la “stanza tutta per sé” ha, ed è questo il filo

che mi interessa e che propongo di seguire, ovvero, quello di essere uno spazio di libertà

164 La traduzione è mia.

168

femminile. Spazio di libertà femminile in quanto generatore «di un senso libero di quello che

una donna è e può diventare per se stessa, in relazione con altre e altri, indipendentemente

dalle costruzioni sociali della sua identità» (Muraro, 2012a, p. 32). Parlo quindi di

indipendenza simbolica (Muraro, 2006). Mettere in parole il senso libero di essere donna,

condizione prima per svolgere un lavoro intelletuale, che intendo come un modo di pensare e

nominare la propria esperienza, significa avere innanzitutto mediazioni femminili, parole e

pensiero di donne: «quelle che prima di me hanno parlato», dicono le autrici della Libreria

delle donne di Milano (1987). Senza questa dimensione, continuano queste autrici, la stanza,

più che una finestra, intesa come apertura verso il mondo, può diventare una gabbia, come lo

sono i discorsi sull'emancipazione femminile, ad esempio. In questo senso, ci tengono a

spiegare:

Virgina Woolf ha scritto che, per fare lavoro intelletuale, bisogna avere una stanza tutta per

sé. Ma nella stanza può essere impossibile restare ferme e applicarsi al lavoro perché i testi e

ciò di cui parlano si presentano come blocchi stranei, opprimenti, di parole e fatti in cui la

mente, paralizzata da emozioni senza rispondenza con il linguaggio, non riesce a farsi strada.

La stanza per sé va allora intesa in altro senso, come collocazione simbolica, come luogo-

tempo provvisto di riferimenti sessuati femminili, dove stare significativamente per un prima

e un dopo di preparazione e conferme (ivi, p.11).

Ciò che accomuna le esperienze che mi dispongo a raccontare in questo capitolo è che

entrambe – il corso di letteratura “Germanes di Shakespeare” e la “Tertùlia” di Pròleg –

nascono come tentativi di essere spazi di libertà, innanzittutto femminili, che usano come

mediazione la letteratura scritta da donne. Spazi di incontro, di scambio e presa di parola, di

creazione e ricreazione del mondo, nati dalla relazione e per amore verso la relazione e la

letteratura femminile; luoghi di (tras)formazione, le cui invenzioni, guadagni e scoperte

possono contagiare anche gli uomini e i giovani adolescenti che li frequentano, se sono

disposti a mettersi in gioco a partire da sé. Stanze tutte per sè, in definitiva, per quelle (e

quelli) che le vogliano abitare.

169

4.1. Raccontare i contesti

In data 26.03.2012 scrivo nel diario di ricerca:

Dopo aver nominato i fili di senso mi trovo nella difficoltà di come procedere. Mi chiedo

quale possa essere il modo migliore per rendere conto di ciò che emerso dalla mia ricerca,

rimanendo il più possibile fedele alla parola e alla esperienza delle persone coinvolte. I fili di

senso sono per me come degli inizi, dei percorsi possibili da seguire, ma non vorrei che

diventassero una maglia troppo stretta, una griglia entro la quale selezionare, distribuire e

classificare i “dati”, spezzare un qualcosa che è un continuum, che non ha un inizio e una

fine perché in divenire. Una materia viva in cui i fili che ho deciso di seguire s’intrecciano

intimamente tra di essi e con altri ancora, molti dei quali tanto sottili da non riuscire a

nominarli e tuttavia così presenti e necessari per sostenere la trama. Come quindi potermi

avvicinare all’intero disegno, senza perderlo di vista; restituire anche soltanto una minima

parte della sua ricchezza e complessità?

Un primo suggerimento me lo dà una scrittrice poetessa, che ha fatto della parola il suo

strumento di ricerca: Adrienne Rich, la quale in un testo intitolato, Segreti, silenzi, bugie. Il

mondo comune delle donne (1982), scrive:

Non esiste la “verità” o “una verità”: la verità non è una cosa, nè un sistema. È una

complessità che cresce di continuo. Alla superficie, ammiriamo il disegno del tappeto. Se

diventiamo tessitori e lo osserviamo da vicino, scopriamo la fitta e invisibile trama dei fili

che lo percorrono e i nodi sotto il tappeto (ivi, p. 133).

Un primo tentativo di risposta, potrebbe dunque essere: diventando una tessitrice attenta, il

che mi fa pensare a un’arte, come è anche quella del tessere: il raccontare. Raccontare che – in

relazione alla questione che ora sto affrontando, ovvero come rendere conto dei risultati di

un’indagine, in questo caso la mia – immagino come un prendere i fili di senso e intrecciarli

secondo la direzione che la lettura attenta delle trascrizioni delle conversazioni e di tutti gli

altri materiali raccolti, indica di seguire. Indica di seguire sotto forma di intuizioni, le quali

non nascono dal nulla ma sono ben radicate nei vissuti della ricercatrice, i miei, in quella sorta

di caldo sabroso, cotto a fuoco lento (la metafora è della mia co-tutor Remei Arnaus) e

170

cucinato con tutti gli ingredienti che il percorso di indagine vi mette: parole, voci, luoghi…,

esperienze. Arte del tessere, per niente facile, perché richiede un profondo silenzio per sentire

dove vibrano le parole; che parte o parti del corpo e della mente fa risuonare; quali

collegamenti, come onde nell’acqua dopo aver buttato una pietra, provoca. E anche per sentire

i punti di resistenza, i nodi, di cui ci parla Adrienne Rich, spazi saturi di significati che

richiedono di essere attraversati per aprirsi.

Un secondo suggerimento, per procedere col ragionamento, lo trovo in Luisa Muraro (2012a),

in un brano in cui parla dell’arte del disfare le maglie. La figura è la stessa, una tessitrice, la

quale tuttavia invece di fare, appunto, disfa:

Disfare una maglia consiste, in breve, nel fare a ritroso il lavoro della sua confezione

passando abilmente attraverso le sue vicissitudini sia ordinarie sia straordinarie: macchie di

erba, sangue o altro, strappi, buchi di tarme o di pallottole, parti lise, cuciture, ricami,

rammendi… Quest’arte ha il pregio che, finito il lavoro di disfare (…) restano i gomitoli del

filo a disposizione per nuove opere o altri tipo di scambi. Insomma, un nuovo punto di

partenza (ivi, p. 55)165

.

L’immagine della donna che disfa mi affascina e mi fa pensare, ancora in relazione a ciò che

ora mi occupa, alla possibilità, una volta letto e “analizzato” tutto il materiale raccolto, di

disfarsene. Anche se non completamente; disfare la trama dei testi (interviste, osservazioni,

materiali vari), ma restare con i gomitoli di filo per tessere qualcosa di nuovo, ciò che io

ricercatrice in relazione a quello che ho vissuto riesco a creare. Quindi un testo nuovo che non

vuole essere replica di quelli precedenti, nemmeno sostituirsi ad essi, ma un nuovo punto di

partenza.

Questa è la corda sulla quale sono andata avanti e indietro, a fare e disfare, per cercare

appunto di rimanere fedele a ciò che (mi) è accaduto nei contesti in cui ho fatto indagine, alle

esperienze vissute con le persone che ho incontrato, alla loro verità.

Movimento che trova delle risonanze, almeno nei suoi tentativi, in un esempio che Chiara

Zamboni (2009, pp. 34-39) riporta quando spiega cosa significa raccontare un’esperienza e le

difficoltà in cui ci si può trovare nel tentare di farlo. La protagonista della storia è la scrittrice

Gisella Modica, la quale – ci racconta Chiara Zamboni – in un convegno intitolato Memoria

e racconto delle donne, tenutosi a Palermo nel 1998 e in cui la filosofa era presente, parla

165

Si veda anche L’arte del disfare le maglie, in Muraro (2000, p. 153-164).

171

delle interviste fatte da lei alle donne che avevano agito nelle lotte contadine degli anni ’40

nei paesi delle Madonie. A questo proposito, dice Chiara Zamboni, «al convegno riportava il

senso di quelle interviste ma era insoddisfatta perché non sapeva trovare il bandolo della

matassa» (ivi, p. 35). E continua più avanti, seguendo il filo delle parole di Gisella:

Le interpretazioni che lei aveva fatto finora erano state misere al confronto della vitalità delle

interviste. Come riuscire a far parlare la verità di quella loro esperienza? La via era stata quella

lasciar da parte il tentativo di interpretare le interviste come documenti di storia orale e invece

di ricreare in singole narrazioni la situazione che ogni intervista lasciava trasparire. Narrare

visioni attraverso un’immaginazione del cuore166

, una vera e propria meditazione sperimentale

(ivi, p. 36).

Quando Chiara Zamboni parla di immaginazione, segue da vicino Hannah Arendt, come lei

stessa scrive (ivi, p. 35), in particolare nel passaggio in cui la filosofa tedesca definisce

l’immaginazione come «il dono di un “cuore comprensivo”», come la facoltà che ci permette

di comprendere l’altro, l’altra, «tutto ciò che esiste», nelle sue parti meno chiare, più opache e

meno evidenti.

Questa possibilità di andare più in profondità nella comprensione dei fenomeni del reale si

gioca a mio avviso in quel muoversi tra rimanere fedele alle parole e alle sensazioni,

lasciandosi attraversare da esse, e distaccarsene, disfarle con amore per, nella distanza,

azzardare delle «ipotesi a rischio» (Zamboni, 1990, p. 9). Appunto, tra diletto e distanza:

ricreazioni, più che interpretazioni, che predono slancio da ciò che è per andare “altrove”,

«quel luogo vuoto da interrogare» (ivi, p. 20), popolato da sensi ancora non detti e quindi

inauditi (perché mai sentiti prima), che è possibile dare a un’esperienza a partire da sé.

Passaggio questo non facile nè immediato, che richiede dei doni: chiamiamoli

«immaginazione del cuore» (Zamboni, 2009, p. 36) o anche «intelligenza dell’amore»

(Muraro, 2012a, p.103)167

, la capacità di leggere il reale con il cuore: intus legere: «leggere le

cose nella loro intima essenza» (ivi, p. 112). Esperienza ricca e complessa, propria delle

donne, non a caso sono loro a parlarne, tra cui anche Clarice Lispector, «sensibilità

intelligente» (2007, p.61, trad. mia) 168

la chiama, di cui la sua scrittura dà testimonianza.

166

Il corsivo è mio. 167

Nell’opera citata Luisa Muraro parla di intelligenza dell’amore a proposito dell’esperienza di dio nelle

beghine. Porto il testo come esempio, poiché questo tema viene trattato dalla filosofa in diversi suoi scritti. 168

Scrive in una delle sue cronache: «Ho un’amica, per esempio, che, oltre ad essere intelligente, ha il dono della

sensibilità intelligente, e, data la sua professione, usa continuamente quel dono. Il risultato è che lei ha ciò che

172

Narrare i contesti quindi, sintagma di vasi comunicanti, in cui i contesti, accanto al verbo

“raccontare”, riacquistano il loro carattere dinamico, mobile, in cambiamento, contrariamente

a quanto potrebbe sembrare quando li si accosta a verbi e aggettivi che li riducono a oggetto,

cosa a sé stante, che sembra si dia a priori e indipendentemente da. Niente di tutto questo se

pensiamo i contesti come risultato di ciò che le persone che li abitano li fanno diventare: il

modo in cui ci stanno, gli scopi, i significati che attribuiscono alle esperienze che vivono. Uno

spazio complesso e in divenire, come la vita, perché è la vita che ci sta dentro, con il suo

intrecciarsi di esperienze e significati. Come le scene di un romanzo di Virginia Woolf, anche

lei un cuore intelligente, oppure di uno dei suoi libri di critica letteraria, «scene abitate e vive»

(Rampello, 2005, p. 114), come è la vita che vogliono raccontare. In un rimando in cui la vita

si crea e si ricrea; si fa e si disfa.

4.2. “Germanes de Shakespeare”: la letteratura a partire dalla libertà

Prima di dare il via alla narrazione, vorrei dare alcune indicazioni affinchè la lettura del testo

sia più agevole e comprensibile. In primo luogo, è importante tenere presente che i corsi che

Lluïsa impartisce all’interno del liceo Antoni Cumella – il corso obbligatorio “Lengua i

literatura catalana” [“Lingua e letteratura catalana”] e il corso facoltativo “Germanes di

Shakespeare” [“Sorelle di Shakespeare”] – costituiscono un continuum. È stata Lluïsa a

farmelo capire sin dall’inizio: prima, quando nel nostro primo incontro mi ha invitato alle sue

classi del corso obbligatorio e, in un secondo momento, durante le nostre conversazioni

attraverso il racconto della sua pratica, in cui le esperienze in entrambi i corsi si intrecciavano

come parte di un unico flusso; certo, con le dovute differenze proprie di ognuno dei contesti,

ma con dei fili che le attraversano. Fili di senso consistenti, linee maestre che man mano che

andavo avanti nella ricerca ho sentito parte costituente del disegno che volevo mostrare.

Quindi ad un certo punto, ho deciso di approfondire ciò che Lluïsa mi raccontava sul corso

obbligatorio perché ho capito che, in caso contrario, il paesaggio sarebbe rimasto incompleto.

Scrivo nel diario di ricerca:

Ho preparato le domande dopo aver letto le prime due conversazioni. Sono più collegate al

corso obbligatorio ma credo sia importante aprire anche lì uno spazio. Lo spazio di

chiamo cuore intelligente, in sommo grado tale che la guida e guida tutti gli altri, come un vero e proprio radar»

(2007, p. 61, trad. mia).

173

«Germanes» è, diciamo così, privilegiato, protetto, dove alcune cose vengono già date.

Invece nel corso obbligatorio il lavoro sulle condizioni è più faticoso e credo che lì posso

trovare degli indizi su ciò che significa insegnare letteratura come Lluïsa lo fa, sulla sua

pratica e sulle ricadute di essa nella classe. (…) All’inizio le mie domande cercavano di

incanalare il racconto verso il corso facoltativo dopo però ho sentito che era come tagliare

qualcosa che è unito. Era anche come non dare ascolto a ciò che Lluïsa riteneva necessario

che io sapessi per capire ciò che fa; il modo come lei intende la letteratura e il suo

insegnamento. Non so. Credo sia stata una buona scelta (15.10. 2009).

In effetti lo è stata. Se avessi fatto diversamente e mi fosse concentrata soltanto sul corso

“Germanes di Shakespeare”, credo che avrei perso buona parte delle sfumature di senso,

legate all’esperienza di Lluïsa e dei suoi allievi. Ci tengo a chiarire questo passaggio dato che

è centrale per comprendere perché nella narrazione siano presenti riferimenti a entrambi i

corsi, nonostante la mia ricerca tenga come “oggetto” il corso facoltativo “Germanes de

Shakespeare”.

In secondo luogo, e per quanto riguarda la trascrizione delle conversazioni con Lluïsa, le sue

colleghe, allievi e allieve, ho cercato di rimanere il più possibile fedele alla lingua orale,

mantenendo quindi nei protocolli molte delle sue caratteristiche: salti, ellissi, sospensioni,

ripetizioni, interiezioni, ecc, perché credo che restituiscano, nella parola scritta, anche se non

completamente, certo, la vivacità e l’espressività che connotano la lingua in relazione. La

lingua usata da loro è stata prevalentemente il catalano, tranne che in alcuni casi (Choni, per

esempio) oppure all’inizio della nostra relazione, in cui è stato scelto il castigliano, magari

perché c’era poca confidenza o perchè sapevano che non ero catalana e che probabilmente

non avrei capito. In questi casi, e dato che conosco bene il catalano, ho incoraggiato il suo uso

nelle persone di cui sapevo essere la loro lingua madre, perché sentivo che nel loro racconto

la rispondenza tra la lingua catalana e l’esperienza vissuta era maggiore. Un chiaro esempio è

Lluïsa. Nei nostri primi incontri ho osservato che quando raccontava un passaggio

particolarmente importante o intenso per lei, quando riproduceva le parole di qualche sua

allieva o allievo oppure quando cercava di dare enfasi o di trovare la parola giusta per dire

una cosa, allora il catalano compariva a sprazzi. Ricordo bene la parola espurnes, “scintille”,

che lei ha usato per riferirsi a quei momenti in cui riesce a connettersi con le sue allieve e

allievi.

Successivamente alla trascrizione, la traduzione in italiano dal catalano o dal castigliano dei

brani citati all’interno del racconto ha seguito due criteri: essere fedele alla lingua originale

174

(catalano o castigliano) e, nello stesso tempo, rendere il più possibile comprensibile il testo in

italiano; equilibrio non sempre facile che, d’altra parte, ogni buona traduzione dovrebbe

riuscire ad ottenere. In alcuni casi, ho deciso di mantenere una o più parole in lingua

originale, in corsivo, con la traduzione in italiano subito dopo tra parentesi perché non sono

riuscita a trovare, oppure non esiste, un corrispettivo letterale in italiano o che potesse rendere

il senso espresso dalla parola in lingua originale.

Infine, per l’elaborazione del racconto sono partita da diversi tipi di materiali, che sono citati

come segue:

bibliografia varia (testi e articoli di teoria, romanzi, ecc.): riferimenti secondo le norme

della A.P.A.;

protocolli delle interviste: dopo il frammento riportato e tra parentesi: I (iniziale di

“intervista”, se prima non si è specificato); 1, 2 o 3 (fase della ricerca sul campo in cui

si è svolta l'intervista: ottobre 2009, aprile-maggio 2010, febbraio-marzo 2011); data

dell’intervista. Quando prima della citazione non compare il nome della persona che

parla, lo aggiungo tra parentesi, prima dell’iniziale, per esempio, (Lluïsa, I, 2,

04.05.2010);

diario di classe di Lluïsa, studente e studentesse del corso «Germanes di

Shakespeare»: dopo il frammento riportato e tra parentesi: D (iniziale di “diario”, se

prima non si è specificato) e data in cui il frammento è stato scritto. Quando prima

della citazione non compare il nome della persona che scrive, lo aggiungo tra

parentesi, prima dell’iniziale, per esempio, (Lluïsa, D, 8.02.2010);

«Carta a la Lluïsa» (“Lettera a Lluïsa”): dopo il frammento riportato e tra parentesi: L

(iniziale di “lettera”, se prima non si è specificato) e data in cui il frammento è stato

scritto. Quando prima della citazione non compare il nome della persona che scrive, lo

aggiungo tra parentesi, prima dell’iniziale, per esempio, (Andrea, L, 9.10.2010);

attività di scrittura creativa realizzate dalla classe: dopo il frammento riportato e tra

parentesi: SC (iniziali di “scrittura creativa”, se prima non si è specificato) e data in

cui il frammento è stato scritto. Quando prima della citazione non compare il nome

della persona che scrive, lo aggiungo tra parentesi, prima dell’iniziale, per esempio,

(Andrea, SC, 15.10.2009);

diario di ricerca: dopo il frammento riportato e tra parentesi: DR (iniziali di “diario

della ricerca”, se prima non si è specificato) e data in cui ho scritto il frammento. In

175

questo caso, non si pongono problemi di ambiguità per quanto riguarda l’attribuzione

del diario della ricerca, dato che sono l’unica ricercatrice sul campo.

Per quanto riguarda la citazione dei materiali didattici che Lluïsa usa a lezione, mi riferisco a

quelli elaborati da lei oppure in collaborazione con le sue allieve e allievi, ho preferito usare

delle note a piè pagina dato che mi davano la possibilità di spiegare la natura dei materiali e la

loro provenienza.

4.2.1. Genealogia di un desiderio

E ciò vuol dire in primo luogo,

prenderci sul serio: riconoscere le fondamentali

responsabilità che ogni donna ha verso di sé…

Adrienne Rich, Segreti, silenzi, bugie

La storia di “Germanes di Shakespeare” è un cammino di scoperte. Scoperte che non si

susseguono una dopo l’altra ma che spesso arrivano insieme, intrecciate: a volte sotto la veste

di intuzioni; altre, come vere e proprie rivelazioni; scoperte vincolate a situazioni, persone,

storie e sentimenti, che si mescolano, in un andirivieni continuo e vivo. Nel tentativo di

raccontare questo cammino ho cercato di dare una forma al percorso, rispettandone la

complessità e la ricchezza ma anche il modo come io l’ho pensato, a partire da ciò che ho

visto, sentito, letto e scritto durante la ricerca. Procederò quindi per scene, la forma che mi si

offre e più mi si addice per rimanere vicino all’esperienza di Lluïsa e delle sue allieve e

allievi, così come me l’hanno raccontata, e alla mia propria.

176

«Sono una maestra, sono una donna»169

Lluïsa Cunillera è una maestra e una donna. Così si presenta al mondo e ai suoi studenti e

studentesse ogni volta che l’anno scolastico inizia. Inizio che per Lluïsa non è un «atto

formale» ma un vero e proprio «atto inaugurale, che è l’origine della relazione che desidero

iniziare con ognuno e ognuna delle allieve dei miei gruppi» (Cunillera, 2010, p. 1, trad. mia).

Le donne ci insegnano che gli inizi sono fragili e vanno curati perché sono momenti fondanti,

e quindi preziosi per la novità che portano con sé, di un modo originale di stare in relazione –

al mondo, in classe, al lavoro, ecc. – in quanto ogni inizio annuncia qualcosa che prima non

c’era.

Lluïsa questo lo sa bene e perciò sa che in quel «atto inaugurale» c’è qualcosa di grande in

gioco: la possibilità di iniziare a creare un vincolo. Ed è per questo che si presenta tutt’intera,

con nome e cognome, mostrando i suoi legami paterni e materni; come maestra, madre,

nonna, moglie, compagna, perché «più che un’identità sono un tessuto di relazioni» (ivi, p. 1),

perché l’identità non è altro, ci dice citando María Zambrano, che un divenire in relazione.

Dunque Lluïsa si presenta come una donna ed è da quel luogo che intende mettersi in

relazione con i nuovi e le nuove arrivate, dicendo loro: «Sono la vostra maestra e mi piace

esserlo. Sono una donna e desidero esserlo. Ed è come la donna che sono che mi metterò in

relazione con voi (ivi, p. 1)».

E qui qualcosa di grande accade, qualcosa di gioioso, che ha a che vedere con la libertà di

essere e di stare a partire della propria differenza di essere donna, libertà che Lluïsa si prende

e mette in gioco; qualcosa che apre uno spazio, anch'esso grande, una porta: «credo che

questo primo contatto così personale e diretto, apra delle porte, che possono essere o meno

attraversate, però le apre» (ivi, p. 2).

Si tratta di un invito a pensare insieme, a trasformarsi insieme, a crescere insieme a partire da

ciò che si è e che si sa; dai propri desideri e i propri limiti; dalle proprie gioie e dolori; dalla

novità che ognuna e ognuno porta con sé, in quanto possibilità di inizio per gli altri e le altre.

169 L’espressione l’ho tratta dal titolo del testo presentato da Maria Lluïsa Cunillera nell’incontro di Sofías

tenutosi a Bilbao nel 2010, che costituisce una delle principali fonti da cui sto attingendo per la stesura del

resoconto, insieme alla relazione finale del congedo di studio (si veda Cunillera, 2005). Un riassunto del testo

presentato a Sofías è stato pubblicato, prima, negli atti del convegno «Reinventar la profesión docente», tenutosi

all’Università di Málaga (Spagna), nel novembre 2010, con il titolo ¿Qué es ser una maestra hoy? [Cosa

significa essere maestra oggi?]: http://www.doe.uma.es/repository/fileDownloader?rfname=3746c36f-833f-

4e82-aa1f-28c7eb249792.pdf, e successivamente, nella rivista «Cuadernos de Pedagogía» (2011, pp. 59-61), con

il titolo Un ejercicio de amor y libertad [Un esercizio di amore e libertà].

177

Così lo spiega Lluïsa: «dalla prima parola che pronuncio sta iniziando una nuova relazione,

sto nascendo una volta e un’altra ancora. Perciò ogni atto inaugurale è unico, anche se il tema

che metto sul tavolo è lo stesso» (ivi, p.1).

Ma perché l’invito diventi uno spazio reale, si incarni in una pratica concreta, Lluïsa comincia

con le invenzioni: la prima ma non ultima170

, la Carta a la Lluïsa. Chiede alla classe di

scrivere una lettera, «quel genere epistolare che tanto senso ha avuto e ha tra le donne per

narrare le proprie esperienze e per condividerle con altre o altri» (ivi, p. 2). Una lettera e non

un tema, ad esempio, e la differenza è significativa in quanto la lettera richiede la prima

persona. Quindi un invito a parlare di sé e a partire da sé, perché lei desidera sapere di loro ed

è in ascolto (altrimenti, perché la richiesta?). Un invito a che ognuno ed ognuna le racconti

quello che per lei o lui è importante che lei sappia, così come lei ha fatto prima.

Un invito, che è “qui e adesso”, non per un eventuale domani ma per il presente in cui si

trovano a vivere: «in qualche modo stai dicendo loro: “voglio che tu ti metta in gioco, non è

che un giorno potrai farlo, no, no; voglio che tu mi parli; io ti ho parlato prima, parlami (…)

dimmi tu» (I, 1, 13.10.2009).

In questo atto inaugurale che è l’inizio del corso, sempre diverso perché sono diverse le

persone che si incontrano:

Non solo è il mio corpo che si fa presenza ma invito loro a mettersi in gioco a partire da ciò

che sono, a partire dalla differenza di essere ragazze o ragazzi, dando loro l’opportunità di –

con le parole di Chiara Zamboni – significare la loro esperienza di essere viventi che sentono

e parlano e che rendono conto di ciò che gli si manifesta (Cunillera, 2010, p. 2, trad. mia).

Quando Lluïsa nel presentarsi alla classe dice «io sono una donna», le sue parole vengono

accompagnate da un certo stupore; spesso si crea un silenzio; in alcune casi, ci sono delle

risatine. Nella Carta a la Lluïsa, molti dei suoi studenti e studentesse, scrivono che nessuno si

era presentato in questo modo. Per esempio, «una ragazza», racconta Lluïsa, «mi disse che [e

qui è la ragazza a parlare] “all’inizio mi fece ridere però poi capii che lei ci stava dicendo

qualcosa, che lei si sente così”» (I, 1, 13.10.09).

Che Lluïsa dica «sono una donna» in un momento così significativo come è l’inizio di una

relazione, in questo caso educativa, è per me un gesto grande di libertà. Gesto che in alcuni

170

Ce ne sono altre, di cui parlerò più avanti, alcune delle quali messe in pratica proprio nei primi giorni

dell’anno scolastico, per esempio, Perqué sóc axí? [Perché sono qui?]), Com aprendo? [Come imparo?], Qual è

la nostra visió de la literatura? [Qual è la nostra visione della letteratura?]).

178

casi smuove chi ascolta, capii che lei ci stava dicendo qualcosa anche se ancora non importa

capire che cosa – dipenderà anche da come ognuna e ognuno cercherà di nominarlo, delle

mediazioni che troverà per farlo –, ma si tratta di un qualcosa che richiede di essere pensata

aldilà della sua ovvietà o proprio a partire da essa.

Quando Lluïsa (ci) dice «sono una donna» non (ci) sta soltanto dicendo che è una donna (il

che in un certo senso è sì un’ovvietà, in quanto è visibile e quindi evidente171

, da lì le risatine)

ma che sceglie di esserlo. Ed è lo spazio in cui il suo essere donna – liberamente scelto e

pensato - la colloca, il luogo da dove Lluïsa vive ed insegna letteratura e da dove si mette in

relazione con le sue studentesse e i suoi studenti.

Così lo spiega lei:

(…) si tratta di scegliere, ossia, essere donna si nasce ma c’è anche quel punto di libertà,

come quando io dico loro di essere una donna, di dire che scelgo anche di esserlo, ossia,

sono nata così ma è che voglio esserlo, scelgo di esserlo, a modo mio, come io interpreto

essere donna. (…) io sono la prima a dire che voglio fare bene il mio lavoro, che è stare

insieme ad adolescenti, che è avere la letteratura come mediazione di relazione tra di noi, ma

come io la vedo e come io la sento [si riferisce alla letteratura], perché così è come posso

spiegarla meglio…, certo, la posso condividere, è che soltanto così la posso condividere (…)

(I, 1, 13.10.09).

Lo spazio in cui Lluïsa sceglie di collocarsi è uno spazio simbolico altro172

, uno spazio aperto

e in divenire, di pensiero, di parola e di pratiche, generato dalle donne in relazione tra loro e

con il mondo e gli esseri che lo abitano. Una fonte di ricchezza da cui Lluïsa attinge e da cui

si fa accompagnare, quando la necessità e l’obbedienza173

a ciò che in lei la chiama (la sua

vocazione, ovvero, essere maestra) – la porta a «chiudere il libro e cominciare dall’origine»

(Cunillera, 2011, p.1, trad. mia), a fare il vuoto nel già detto e pensato e permettere che

accada altro, qualcosa più vicino al suo sentire di donna, di donna e maestra.

171

Non a caso, Lluïsa Cunillera trova molto significativa questa frase sentita da Luisa Muraro: «Le donne

evidentemente esistono e io sono una di quelle» (citata in Cunillera, 2010, p. 2). 172

Altro rispetto a quello dato come neutro e universale, in realtà maschile, senza per questo disprezzarlo ma

riconoscendo la sua parzialità. 173

A questo proposito, si veda il capitolo terzo, in particolare la parte dedicata a Clarice Lispector.

179

Fare il vuoto

Il percorso professionale di Lluïsa comincia subito dopo l’università, quando inizia ad

insegnare lingua catalana in un liceo. Erano i primi anni in cui si insegnava il catalano e non

era una situazione facile. Aveva paura, «ero bassa e piccola» (I, 1, 20.10.2009) – dice –, e per

superarla dimostrava di sapere («mi sentivo così fiera di ricordare tutto…») (I, 1, 20.10.2009).

I suoi colleghi le consigliavano di tenere mano dura e di preparsi molto bene le lezioni, il che

significava tenere tutto sotto controllo, «un buono schema, una temporizzazione che

consegnava un tempo ad ogni cosa, una presentazione del tema, uno sviluppo, una

conclusione. Sembrava importante non lasciare spazi vuoti perché allora poteva succedere

qualcosa di terribile» (Cunillera, 2010, p. 3, trad. mia)174

.

Lluïsa cercava di fare bene il suo lavoro e si preparava con coscienza, così come le avevano

detto i suoi colleghi, così come lei pensava di dover fare. Tuttavia qualcosa non andava e

Lluïsa lo percepiva; se aveva scelto di insegnare in un liceo invece che all’università era

perché sapeva per esperienza che il contesto universitario era troppo accademico e non le

avrebbe permesso di stare in classe come lei voleva; di mettere in pratica quel «insegnare

differente», che aveva trovato in due sue insegnanti del liceo, le più amate, tanto da voler

essere come loro. Perché se una cosa Lluïsa sentiva forte dentro di sé, già da piccola quando

giocava insieme a sua sorella, era di voler essere maestra.

Tutto ebbe inizio come un gioco, con tutta la carica di senso che esso porta con sé per chi

gioca, ma quello che succedeva in classe invece, di senso, sembrava non averne affatto, nè per

Lluïsa nè per la sua classe.

Ci racconta Lluïsa:

Normalmente, non facevano delle domande. Come potevano farle se io avevo detto tutto!

(…) Di quanto avevo spiegato, non sembrava interessasse loro niente, almeno non avevano

curiosità per sapere di più o meglio, non avevano dei dubbi e ciò era molto sospetto. Non ero

riuscita a risvegliare in loro nessun interesse, non avevo provocato la loro intelligenza, non li

avevo smossi e, quindi, le mie lezioni non potevano trasformare nè loro nè me (Cunillera,

2010, p.3).

174

Il corsivo è mio.

180

E conclude dicendo: «Mi resi conto che io uscivo dell’aula così come ero entrata.

Sicuramente più vuota (ivi, p.3)».

In questo momento del racconto mi viene spontaneo rallentare il ritmo della scrittura; aprire

delle fessure per lasciare che le parole di Lluïsa prendano lo spazio necessario per farsi

sentire. Fare anch’io un vuoto nella narrazione perchè possiamo ascoltare assieme il silenzio

del dopo; il dopo aver parlato175

.

Credo che quando Lluïsa fu in grado di mettere in parole ciò che stava succedendo in classe,

qualcosa avvenne. Qualcosa che Lluïsa riassume in un’azione: «chiudere il libro». Un gesto,

come lei stessa dice, fisico e simbolico, che diede inizio ad un cammino.

È possibile che Lluïsa non avrebbe mai fatto questo passaggio se non le fosse piaciuto così

tanto essere maestra. Perché di questo si trattava, recuperare il piacere di essere maestra, come

quando ci giocava da bambina. Quindi il gesto è doppio, come lei stessa dice, chiudere il libro

per ritornare all’origine. Fare il vuoto per ascoltare ciò che in lei la chiama, per accogliere in

sé il suo desiderio – che penso intimamente legato al piacere – e, a partire da lì, trovare le

mediazioni necessarie per portarlo al mondo. Un vuoto che allora non è deserto ma promessa;

un vuoto fecondo, i cui frutti peró non sono previdibili, ma si sta nel gioco del paradosso, in

quel paesaggio dell’altro mondo,176

in cui si impara a stare in relazione.

Un cammino di libertà

Nel nostro secondo incontro, chiedo a Lluïsa di parlarmi delle origini di “Germanes di

Shakespeare”. Questo è il nome con cui viene chiamato in modo familiare all’interno del

liceo, sia dagli insegnanti che dagli studenti e studentesse, il corso facoltativo “Letteratura

catalana del segle XX” [“Letteratura catalana del XX secolo”]. Un cambiamento di nome che

sta ad indicare una nascita, qualcosa di nuovo: un’invenzione con cui Lluïsa mette al mondo

175 Parlando dei tipi di silenzi che ci possono essere in una conversazione, Chiara Zamboni si sofferma su un

particolare genere di silenzio, «che ha a che fare con il valore di verità di una frase appena ascoltata». Un

silenzio, continua, «che ha a come effetto quello di ampliare la risonanza di ciò che è stato affermato» (2009, p.

50). In un certo qual modo, mentre scrivo, nonostante lei non sia con me, sento di essere ancora in conversazione

con Lluïsa. In questo senso credo che il silenzio di cui parla Chiara Zamboni si avvicini molto al tipo di silenzio

a cui accenno. 176

Dell’altro mondo ma che è in questo mondo, nel senso che il paradosso apre dei passaggi a possibilità di

significato impreviste, che creano realtà e la trasformano.

181

qualcosa che prima non c’era ma che lei desidera ci sia. Invenzione che incarna la sua presa di

parola e di libertà.

Lluïsa mi guarda dall’altra parte del tavolo, è seduta di fronte a me, e sorride: «Si, bene, certo,

tutto è un po’ alla volta, vero?» (I, 1, 20.10.2009). Todo es poquito a poco, il che preannuncia

il racconto della storia che Lluïsa inizierà subito dopo, una storia che non si conclude in

questo incontro ma che continuerà nei successivi e andrà arricchendosi, a registratore spento,

nei pranzi condivisi insieme, nelle chiacchierate nei corridoi tra una lezione e l’altra, nelle

occasioni in cui ci siamo ritrovate, per esempio, nel 2010 a Malaga (Spagna), in un congresso

organizzato dalla Facoltà di Pedagogia, intitolato “Reinventar la profesión docente”177

. A

proposito di invenzioni.

La storia degli origini di “Germanes di Shakespeare” e di ciò che accade al suo interno si

intreccia intimamente con la storia di Lluïsa come maestra e come donna; con la storia di una

scoperta, la scoperta della libertà femminile e degli effetti che essa ha avuto nella pratica

educativa di Lluïsa e nella sua visione della letteratura.

Si tratta di «un processo», è lei che parla, «lento e progressivo, mai finito, che si è arrichito

man mano che sono entrata in relazione con altre donne» (Cunillera, 2011, p.3, trad. mia). E

tra queste le sue studentesse. Di fatto sono loro le prime a farle capire che qualcosa cambia in

lei quando parla di alcune scrittrici:

Io facevo il programma ufficiale178

, quello che veniva fatto e che dicevano i libri. Quando

toccava la scrittrice, questa catalana179

, io mi sentivo meglio, qualcosa era diverso in me,

però la cosa curiosa, quello che mi ha fatto rendere conto che qualcosa stava succedendo,

sono stati gli allievi e soprattutto le allieve che mi dicevano, “è diverso, quando tu parli,

177

In particolare, ci siamo trovate a partecipare in una tavola rotonda dal titolo “El desarrollo profesional de las

mujeres enseñantes. Ser una maestra, una profesora, hoy” [“Lo sviluppo professionale delle donne insegnanti.

Essere una maestra, una professoressa, oggi”]. In quell’occasione, Lluïsa ha condiviso un testo dal titolo ¿Qué es

ser una maestra hoy?, sintesi del testo che avrebbe presentato nell’incontro di Sofías 2010 (si veda nota 169).

Inoltre, io ho presentato una comunicazione intitolata De su ventana a la mía: la literatura femenina come fuente

de saber pedagógico [Dalla sua finestra alla mia: la letteratura femminile come fonte di sapere pedagogico]. Le

due coordinatrici della tavola rotonda, Nieves Blanco e Remei Arnaus, a partire della lettura delle

comunicazioni inviate, hanno rilevato alcuni fili di senso, attorno ai quali si è sviluppata la riflessione comune:

vivere l’insegnamento come una vocazione; la felicità e la necessità di avere una genealogia. Riconoscere

autorità femminile; la ricerca di pratiche con senso, che mettono al centro la relazione e il partire da sé; la

relazione con l’istituzione, con l’istituito. 178

Lluïsa sta parlando del corso obbligatorio “Lingua e letteratura catalana”. 179

Si riferisce alle poche scrittrici che comparivano nel programma ufficiale del corso obbligatorio di letteratura

catalana. Normalmente erano scrittrici del XX secolo, periodo che si insegna alla fine del corso, e non

superavano le tre o quattro, tra cui: Mercé Rodoreda (in Italia sono stati pubblicate molte delle sue opere, tra cui

La piazza del Diamante (2008) e Aloma (2011), entrambi nella casa editrici la Nuova Frontiera) e Caterina

Albert (che utilizzava come pseudonimo Víctor Català).

182

quando tu spieghi Rodoreda…, ti piace molto, vero?”. (…) mi dicevano, “c’è qualcosa di

diverso quando spieghi le opere delle donne, quando ci leggi un testo in classe, quando ci

parli della sua biografia…”, loro notavano la differenza, di cui io non mi ero resa conto,

ossia, io non l’avevo pensato (I, 1, 20.10.2009)180

.

Grazie ai suoi allievi e soprattutto alle sue allieve, Lluïsa comincia a pensare. Perché qualcosa

di importante non vada perso – qualcosa di importante per sé ma anche per gli altri e le altre –

Lluïsa dà ascolto alle parole delle sue studentesse, si fa toccare da esse, e da questo “farsi

toccare”, nascono le domande sul senso (Contreras, Pérez de Lara, 2010, p. 53) di ciò che (le)

accade: «cavolo, sembra che qualcosa stia succedendo» (I, I, 13.10.2009).

Così Lluïsa, mossa da questa ricerca di senso, inizia a portare in classe testi che sono

importanti per lei, che le piacciono e la fanno star bene, tenendo il piacere e il benessere come

misura. Due coordinate, il piacere e il benessere, che hanno orientato anche il mio percorso di

ricerca e da cui la ricerca stessa ha preso lo slancio: l’hanno fatta nascere vicino agli inizii, al

mio desiderio di dire, insieme alle mediazioni di cui ho avuto bisogno per farlo.

Testi importanti, come dicevo, perchè formano parte di lei in quanto hanno un significato per

la sua vita: un poema di Maria Mercé Marçal, un romanzo di Monserrat Roig, donne che «nel

leggerle come persona che legge, come lettrice, non necessariamente come insegnante, a me

dicono qualcosa» (I, 1, 13.10.2009). Dire nel senso letterale della parola: sono autrici che

dicono perché le loro parole si sentono vere; perché portano il mondo con sé, un mondo al

femminile, perché il mondo è uno ma i sessi sono due (Irigaray, 1985).

Sono piccoli i gesti iniziali di Lluïsa, piccoli ma così grandi che riescono a farle capire e

sentire che lo spazio accademico non occupa tutto, che è possibile aprire uno spazio di libertà,

anzi, più che aprirlo come atto della volontà, che ci si apra in risposta ad un desiderio grande:

«(…) mi si aprí uno spazio per mettere e man mano che mettevo, mi sentivo meglio» (I, 1,

13.10.2009).

Mettere. Dare di sé. Portare se stessa nell’aula, sia attraverso la sua presenza incarnata,

tutt’intera, sia attraverso i testi che per lei contano e che sono la mediazione tra lei e la sua

classe. Mettere. Aprire e aprirsi a ciò che succede perché anche i ragazzi e le ragazze possano

portare sé stessi – «entrate come ciò che siete, con ciò che siete» (I, 1, 13.10.2009), è l’invito

di Lluïsa – e abbiano la possibilità di stabilire un vincolo significativo e trasformativo, proprio

perché significativo, con Lluïsa e con i testi che lei mette in gioco. Testi di donne, la maggior

180

Il corsivo è mio.

183

parte dei quali, probabilmente, non avrebbero mai conosciuto (almeno non a scuola), come

loro stessi dicono, se Lluïsa non si fosse decisa a mettere.

(…) pensavo, “vedi cosa succede quando porto testi di donne?”. Io vedevo loro [si riferisce

alle ragazze] e pensavo, “sto dando qualcosa a loro che altrimenti non hanno, e anche ai

ragazzi, ma anche a loro, sopratutto a loro” (I, 1, 20.10.2009).

Poquito a poco. Un po’ alla volta, il desiderio di sapere porta Lluïsa a cercare, insieme ad

altre donne, tra cui, in primis, sua madre, «la mia prima maestra» (Cunillera, 2011, p. 3, trad.

mia), la quale le ricorda che molte cose le sa già, perché apprese da e con lei. Un cercare

quindi che è un ritrovare parole e gesti dimenticati per dare nome e corpo, quindi realtà, a ciò

che si sa.

In questo lungo cammino di apprendimento in relazione ad altre donne, vorrei soffermarmi su

alcuni momenti, a mio avviso significativi, in quanto creano una discontinuità. La parola è di

Chiara Zamboni e la usa, facendo riferimento al movimento femminista degli anni '70,

quando parla della valenza trasformativa della pratica del pensare insieme, messa in opera

dalle donne in quel contesto. Dice:

È dalla rivoluzione delle donne che ho imparato che si crea una vera e propria discontinuità

nei confronti del simbolico dominante – cioè nei confronti dei significati dati, che ci

restituiscono un mondo già interpretato – incontrandosi con chi avverte lo stesso disagio, la

stessa estraneità e ne vuole fare un discorso condiviso mettendosi in gioco personalmente

(Zamboni, 2009, p.1).

Credo che l’incontro di Lluïsa con alcune donne, anche loro in cammino, abbia creato delle

discontinuità circa alcune questioni vitali quali, per esempio, il modo di stare al mondo di una

donna, l’educare e più concretamente, l’insegnamento della letteratura. Discontinuità che

immagino come dei passaggi, delle soglie verso un luogo oltre – non contro – il già detto e

pensato; un luogo tutto da fare, da inventare.

Sul non andare contro ma oltre, il che ci dà il senso di come alcune donne si mettono in

relazione con la tradizione maschile, porto come esempio l’esperienza di Duoda. Si tratta del

Centro interdisciplinare di studi della differenza sessuale della Universidad de Barcelona,

«chiamato così da alcune studentesse», come spiega Milagros Rivera Garretas, una delle sue

fondatrici, «in memoria della scrittrice, pedagoga e teologa del IX secolo, Duoda» (2011, p.

184

39). Il centro è uno spazio di relazione tra donne, nel quale il senso libero della differenza

sessuale femminile impregna la ricerca e la didattica e le cui pratiche politiche e scientifiche:

non hanno distrutto la tradizione maschile del sapere, l’hanno vagliata, discernendo ciò che

continua a essere valido da ciò che è rimasto indietro rispetto al presente. E non solo non

sono state distruttive, ci hanno altresì permesso di ottenere quello che desideravamo – non

sempre con successo, ovviamente – senza esercitare potere e senza lottare per ottenerlo nè

per distruggerlo (ivi, p. 49).

Questa capacità di mediare, femminile ma senza determinismi come direbbe la stessa

Milagros Rivera, di prendere ciò che di buono e utile già esiste e di adattarlo ai propri

desideri, dandogli una misura propria, quindi tagliando, aggiungendo, cucendo..., come

quando si fa un patchwork; ma anche di trovare uno spiraglio lì dove sembrava fosse tutto

chiuso, costituisce il cuore delle pratiche di Lluïsa all’interno del liceo, delle sue invenzioni.

Pratiche che non vogliono distruggere ma che desiderano essere mediazioni, aperture di

libertà perché «la vivencia della sessuazione umana» (2011, p. 51)181

possa essere messa in

parole nella scuola. Ed è proprio questo il motivo per cui il fare di Lluïsa non crea un corpo a

corpo con il sistema accademico e ufficiale del liceo (anche se apre dei conflitti), perché lei si

colloca in un luogo simbolico altro, quello in cui la differenza femminile libera esiste: non è

un impensato (Jourdan, 2007, p. 69). Ed è proprio il riconoscimento di questo fatto, il vedere

che è accaduto, ciò che permette Lluïsa di capire che nel liceo esiste un ampio spazio di

manovra per educare come desidera e sente che va fatto: basta appunto che lo desideri e che si

autorizzi a fare, con tutta la forza necessaria.

Certo, io vedevo l’opportunità…, certo quando fai lezione hai delle ore a tua disposizione in

cui puoi fare tante cose liberamente, nessuno ti controlla, nè il Dipartimento di Educazione

sa cosa sto facendo, nè la Direzione del centro… Hai una libertà così grande che, certo, io

decisi di fare queste lezioni [si riferisce a “Germanes di Shakespeare”] (I, 2, 30.04.2010).

181

Nella versione italiana, Clara Jourdan traduce «vivencia» con «vissuto». Io preferisco lasciare il termine in

spagnolo perché a mio avviso, «vissuto» non rende il carattere aperto e sorgivo di «vivencia».

185

Prima

L’esperienza di lettura di alcune scrittrici è stata una delle leve che hanno dato a Lluïsa la

possibilità di mettersi in gioco e mettere in gioco nelle sue classi saperi, gesti e parole, che

altrimenti sarebbero rimasti fuori dalla porta. Vorrei sottolineare la parola esperienza perché

ci da un indizio sul modo in cui Lluïsa legge queste scrittrici – e che ha delle risonanze con il

mio modo di approcciare la lettura dei testi, come ho cercato di spiegare nel capitolo III –, che

presuppone uno spostamento del luogo da cui si legge:

Passare da leggerle ad ascoltarle; scoprire il loro senso della libertà, di essere al di là dei

limiti che imponeva loro la società patriarcale; vedere ciò che c’era, invece di vedere ciò che

mancava, fu per me un'autentica rivelazione (Cunillera, 2011, p.3, trad. mia)182

.

Fare esperienza delle parole di altre potrebbe essere proprio questo: ascoltarle, accoglierle

dentro di sé, perché facciano il loro lavorio e vadano in profondità, aprendo spazi lì dove

prima non si poteva respirare183

. Lasciarle decantare… E a volte la rivelazione arriva. Spesso

peró non si tratta di una folgorazione, ma di una scintilla, di qualcosa che si accende:

un'intuzione, una domanda. Cerco di spiegarmi affidandomi alle parole di Carmen Martín

Gaite, quando racconta la sua esperienza di lettura di un testo centrale per la vita di tante

donne, Una stanza tutta per sé, di Virginia Woolf:

Quando chiusi il libro, avevo l’intuizione che un uomo non si sarebbe mai confrontato in

quel modo con temi simili. Ma in cosa consisteva quel modo? Per me risultava difficile

giustificare quell’intuizione e tanto meno trasformarla in teoria. E, tuttavia, la domanda mi

era stata formulata, partiva dal libro di Virginia Woolf e restava nell’aria» (Martín Gaite,

1987, p.12, trad. mia).

Risulta sorprendente come alcune scrittrici rimandino ad altre e queste ad altre ancora, come

se ci fosse un filo invisibile ad unirle: un filo di alta tensione, attraverso cui scorre il pensiero

182

Il corsivo è mio. 183

A proposito di respirare, mi vengono in mente le belle parole di Anna Maria Piussi quando spiega la sua

scoperta del femminismo della differenza e dei suoi effetti nella sua vita di donna e insegnante: «È stata una

scoperta di libertà uscire dal corpo a corpo della continua comparazione con l’altro sesso, abbandonare la

decostruzione critica dei suoi sistemi sociosimbolici falsamente universali, spostarmi dallo schema

oppressore/oppresso: come tornare a respirare, trovare una lievità sconosciuta senza cadere nella vertigine del

vuoto» (2008, p. 67).

186

di donne che si sono prese la libertà di parlare a partire da sé; un filo che non è uno ma molti,

migliaia, intrecciati, e che formano una rete, che si fa e si disfa, con i loro corpi e parole,

«come il ragno che fa la ragnatela con un bava che gli esce dalle interiora» (Muraro, 2012a,

p.25). È la genealogia femminile a farsi sentire, in un gioco di echi e rimandi, di

riconoscimento reciproco; «le madri di tutte noi», come le chiama la Libreria delle donne di

Milano (1982), che sono diverse a seconda della donna che le invoca. Per me e per Carmen

Martín Gaite, come dicevo, ma anche per Lluïsa, come vedremo, Virginia Woolf è una di

esse. Non a caso la sua invenzione si chiama “Germanes di Shakespeare”.

Durante l’estate feci un corso tenuto donna che si chiamava Marta Pesarrodona, che è anche

una poetessa e si è molto dedicata alla letteratura. Mi iscrissi a quel corso perché era un

corso di letteratura di donne, che aveva un nome in tedesco che significava “le scrittrici in

prima persona”. Questo titolo attirò la mia attenzione perché era la prima volta che ne

sentivo parlare: le scrittrici che parlavano di sé stesse, che non significava soltanto opere

autobiografiche, ma parlare di sé e a partire da sé. Lì ho conosciuto, dico conosciuto perché

sapevo che esisteva, ho conosciuto leggendola e parlando di lei con questa insegnante,

Virginia Woolf e le sorelle di Shakespeare. E lei, l’insegnante, un giorno disse: “dove sono

le sorelle di Shakespeare? Disse la frase. E a partire da quel momento io dissi: “dove sono le

sorelle di Shakespeare?” (risate)» (I, 1, 20.10.2009).

Risate. Lluïsa ride mentre (si) chiede dove sono le sorelle di Shakespeare. Credo sia una

domanda rivolta al mondo e a sè: “dove sono le nostre sorelle?”, “dove sono le mie sorelle?”.

Dal tono della sua voce e dalle risate, dalla sua presenza, sento che è una domanda gioiosa,

perché sembra una di quelle domande che aprono a qualcos’altro, che annunciano. Se Lluïsa

si chiede dell’esistenza delle sorelle di Shakespeare, se Marta e Virginia se lo chiedono, allora

significa che esse esistono. Ed esistono davvero, «perché» - come dice Lluïsa - «il patriarcato

non ha occupato tutto» (Cunillera, 2007a, p. 7, trad. mia).

Proviamo ad andare più in profondità. Se alla domanda sulla possibile esistenza di una sorella

di Shakespeare, Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé nega questa possibilità per la

mancanza di un ambiente culturale favorevole e quindi delle condizioni materiali che

permettessero ad una donna di scrivere (una stanza e dei soldi, così essenziali e importanti),

invitandoci a superare questa situazione, nello stesso tempo ci svela molti ambiti di libertà

femminile del suo tempo e della storia della letteratura. Libertà femminile di cui lei stessa è

187

esempio e che respira, nata in relazione alle donne che amava – sua madre, sua sorella, le sue

amiche, le scrittrici – e che si incarna nel suo pensiero e nella sua parola. Come in Una stanza

tutta per sé, in cui Virginia Woolf non solo parla di libertà femminile ma la mostra, attraverso

il suo metodo di avvicinarsi ad un tema così vasto e complesso come «Le donne e il

romanzo»184

. Perché già dalle prime righe la scrittrice ci fa capire che non ha intenzione di

prendere la questione di petto, ovvero di cercare di giungere ad una conclusione o dire una

verità sulla vera natura delle donne e del romanzo, verità tra l’altro impossibile a dirsi,

sopratutto quando «un argomento si presenta fortemente controverso – e qualunque problema

relativo al sesso lo è» (Woolf, 1998b, p. 300). L’unica cosa che lei può fare è dare una sua

opinione in proposito e mostrare il suo processo di pensiero, ovvero, come è andata creandosi

quest’opinione. E lo fa attraverso un racconto, che prende le mosse da un luogo immaginario,

Oxbridge185

, perché soltanto attraverso la narrazione è in grado di restituire la complessità del

reale e la trama di relazioni che lo sostengono; perché soltanto così «la lingua si lascia

attraversare da una molteplicità di punti di vista che si configurano e si precisano nel loro

dialogare» (Rampello, 2005, p. 144). Lo fa quindi a modo suo, come lei sente che va fatto,

come lei sa fare.

La preferenza data al racconto, «l’invenzione di scene abitate e vive» (ivi, p.144), rispetto alla

struttura logico-concettuale classica del saggio – che Virginia conosceva bene186

e questo è un

dettaglio che non va trascurato – è una mossa che permette a Virginia Woolf di «togliersi da

un corpo a corpo che avrebbe potuto ammutolirla» (ivi, p.144). Una mossa che vorrei

nominare, con parole di Luisa Muraro, schivata. Virginia Woolf fa proprio una schivata in

quanto si sposta da una traiettoria già marcata, per fuggire da maglie troppo strette che

avrebbero potuto incastrarla, costringendo il suo pensiero femminile ad allontanarsi dal suo

sostrato più prezioso: la vita. Schivata anche perché nel suo raccontare non è in rapporto

reattivo con la società che critica ma, come lei stessa dice di Jane Austen – scrittrice che

Virginia Woolf ama e riconosce come una mente libera – scrive «senza odio, senza amarezza,

senza paura (Woolf, 1998b, p. 374)». Con amore.

184 Una stanza tutta per sé, nasce da due conferenze che Virginia Woolf tenne nell’Università di Cambridge nei

collegi universitari che vi si trovavano - Girton Collegue e Newham College –, conferenze che rivide e ampliò e

che nel 1929 la Hogarth Press pubblicó sotto il titolo A Room of One’s Own. 185

Oxbridge è il nome di un luogo immaginario che Virginia Woolf costruisce a partire dai nomi delle due tra le

più famose università al mondo, Oxford e Cambridge. 186

Fra l’altro, il padre di Virginia Woolf, sir Leslie Stephen, era all’epoca una delle figure più rappresentative

della tradizione saggistica inglese (prevalentemente, se non esclusivamente maschile).

188

Ed è qui che vorrei arrivare al nocciolo della questione del come, del modo con cui Virginia

Woolf si trova ad affrontare la questione che le si pone davanti e sul quale Carmen Martín

Gaite si interroga. Un modo tutto originale (avevo l’intuizione che un uomo non si sarebbe

mai confrontato in quel modo con temi simili), così libero, così potente da non lasciare

indifferente nessuna delle donne (e qualche uomo) che ha letto quest’opera preziosa. Una tra

queste, Ma. Milagros Rivera Garretas, che nell’introduzione alla sua traduzione di Una stanza

tutta per sé dice di Virginia Woolf, «la pietra angolare che rende affascinante il suo pensiero è

il suo metodo. Un metodo che è l’amore: l’amore per la creatura umana e per le relazioni che

creano e ricreano il vivente» (2008, p. 10, trad. mia). E prosegue più avanti: «l’amore è un

metodo che si impara dalla madre, da ogni madre concreta e personale, quando si impara a

parlare (…) » (ivi, p.12).

Quello che Virginia Woolf fa in una Stanza tutta per sé è mettere in parole il senso libero di

essere donna, tenendo conto della madre, delle donne che l’hanno preceduta e di quelle che

l’accompagnano nel presente. La potenza simbolica di questo gesto di amore verso la vita, un

gesto grande e coraggioso, ha accompagnato e accompagna il cammino di tante donne, tra cui

me stessa, che cercano parole per nominarsi in modo libero.

Se ho dedicato tanto spazio per parlare di Virginia Woolf e di una Stanza tutta per sé è perché

dalla lettura dei protocolli delle interviste e del materiale raccolto, posso intuire quanto sia

stata preziosa anche per Lluïsa l’esperienza di lettura di questo testo e, più ampiamente,

l’incontro con Virgina Woolf mediato da Marta Pesarrodona. Non è un caso, in effetti, che il

nome del suo progetto prenda ispirazione da Una stanza tutta per sé e che sia una risposta,

originale e in divenire, a quella domanda che la faceva sorridere e che è stata per lei un altro

inizio: Dove sono le sorelle di Shakespeare?

Seconda

Rendere visibile l’opera delle donne nella storia della letteratura, attraverso un progetto fatto a

partire da testi scritti da donne, che parlano del mondo delle donne «che è il mondo»

(Cunillera, 2005, p. 5), non basta, anche se questo è un inizio e non da poco. Un inizio che

risponde all’invito di Virginia Woolf di recuperare una genealogia femminile, di mostrarla,

ma che necessita di un passo ulteriore: il doppio movimento che, come abbiamo visto, la

stessa Virginia Woolf aveva compiuto in Una stanza tutta per sé.

189

Si tratta quindi non soltanto di quali testi portare in classe, ma di come metterli in gioco: da

dove, perché; come far circolare il sapere contenuto in essi; ciò che Marirì Martinengo

chiama «la doppia mediazione» (1992, p. 16)187

: l’esistenza di uno stretto vincolo tra i testi e

la persona che li mette in gioco, in quanto scelti a partire da sè; la relazione tra ciò che essi

dicono, il sapere che ne scaturisce, e lo spazio simbolico dove si colloca chi li media. E

significa anche mettersi in relazione a partire da sè con gli allievi e le allieve, per creare e

ricreare insieme il sapere del testo, potenziando così le sue possibilità trasformative.

Questo Lluïsa lo sa, anche se non da subito. Lo scopre strada facendo, insieme alle sue allieve

e i suoi allievi, nel loro fare quotidiano in classe. Dice:

All’inizio è stato quello: come compensare, mettere più autrici e compensare un po’. Dopo

ho iniziato a pensare, “questo autore non ci interessa, non ci commuove. Vediamo, più

autrici”. E dopo ancora ho capito, mi è arrivato, che la questione non era soltanto che fossero

autrici ma quali testi e come lavorarli (I, 2, 30.04.2010)188

.

Rispetto ai testi, l’abbiamo già visto, in principio189

sono di donne, non tutte, ma quelle che

piacciono a Lluïsa, che la fanno star bene, perché piacere e benessere sono in una relazione

intima e profonda; quelle le cui parole ha sentito come vere. Sono le sue allieve a farglielo

notare, quindi è qualcosa che si vede. Inizia dunque a portare in classe i testi di queste donne,

le sue maestre, e osserva con attenzione quello che (le) accade e sperimenta in relazione alle

sue allieve e ai suoi allievi. Perché non si tratta soltanto di lei ma anche di loro. E ribadisce:

(…) non è soltanto la necessità o il desiderio di mettere testi di donne ma come lavorarli, il

modo di dar spazio a ciò di cui loro hanno bisogno (I, II, 30.04.2010)190

.

Se la scuola estiva con Marta Pesarrodona e la conoscenza di Virginia Woolf avevano aiutato

Lluïsa a capire cosa voleva fare (i contenuti di “Germanes di Shakespeare”), saranno alcune

donne incontrate direttamente o indirettamente attraverso il master organizzato da Duoda191

187

Sulla «doppia mediazione» si veda nel capitolo II la parte intitolata Riferimenti teorici ed esperienziali. 188

Il corsivo è mio. 189

Nella terza parte di questo racconto, vedremo come Lluïsa lascerà spazio anche a testi scritti da uomini,

proprio per accogliere il desiderio dei suoi allievi. 190

Il corsivo è mio. 191

Duoda è il Centro interdisciplinare di studi della differenza sessuale della Universidad de Barcelona. Si veda,

http://www.ub.edu/duoda/ Il Master a cui faccio riferimento è il “Master en Estudios de la Libertad Femenina”,

che ha una durata di due anni. Vid. programma in:

http://www.ub.edu/duoda/upload/datos_master_2_2.pdf

190

quelle che l’aiuteranno ad articolare e mettere in parole il come. Mettere in parole qualcosa

che c’è già in lei. Perché Lluïsa non parte da zero: ha un sapere, appreso in primis da sua

madre, poi dalle sue maestre e dalle relazioni che l’hanno toccata; un sapere che ha messo in

pratica (e riscoperto) come madre e come nonna, e che cerca di portare anche in classe, come

maestra, insieme alle sue allieve e i suoi allievi; ha delle intuizioni e un sentire che le fanno

capire quanto sia importante nell’aula, per esempio, accogliere il desiderio

dell’altro/dell’altra, quello di cui loro hanno bisogno. Un aspetto questo essenziale, vitale,

perché si dia quella trasformazione di sé di cui l’educazione dovrebbe essere portatrice.

Altrimenti si fa finta, ci si nasconde dietro un ruolo, e questo Lluïsa sa di non volerlo:

(…) io so quello che voglio fare e non è quello che stiamo facendo, non voglio fare le cose

che si stanno facendo nel liceo, ciò che fa la gente, non voglio farlo perché non sono io,

perché mi maschero, mi maschero di qualcosa che non sono io (…) (I, 1, 13.10.2009).

L’esperienza del master di Duoda, che Lluïsa realizza come allieva durante gli anni 2003-

2005, sarà decisiva per aiutarla a capire che effettivamente in classe si può fare in modo

diverso. In particolare, uno dei corsi che frequenta durante il primo anno del master, “La

relazione educativa: dal sapere dell’esperienza femminile all’esperienza di sapere”, di cui

Lluïsa parla in diversi momenti delle nostre conversazioni con affetto:

Sono successe delle cose incredibili durante quel corso (…), sono successe delle cose molto

grandi in quel corso a livello di persone, vissuti personali, alcune delle donne che ho

conosciuto… Ci sono stati dei momenti in cui abbiamo pianto e… non so… È stato, è

stato… Ma sono state loro ad aprire quello spazio perché ciò fosse possibile e senza dubbio

io mi resi conto di molte cose (…) (I, 2, 30.04.2010).

Loro sono «la Remei e la Nuria»192

, le insegnanti del corso, che mostrano e aprono uno spazio

tutto nuovo da esplorare, da pensare insieme, e lo aprono proprio perché, nel loro modo di

muoversi, di stare e di fare in classe, ciò che sono, sanno e dicono coincidono. Qui sta, a mio

avviso, la potenza trasformativa dell’esperienza, la possibilità che accadano cose grandi,

192

Si tratta delle professoresse dell’Universidad de Barcelona Remei Arnaus i Morral y Nuria Pérez de Lara.

191

impreviste. Come imprevisto sarà ciò che verrà dopo il master: un congedo per studio193

per

dare vita alla sua invenzione, le “Germanes di Shakespeare”.

Dalle parole di Lluïsa e anche da ciò che non riesce a dire, posso intuire l’importanza che per

lei ha avuto riflettere insieme ad altre sul contributo delle donne all’educazione, a partire dalla

propria esperienza e sul senso e l’origine dell’educare, e quanto questa riflessione abbia

contributo ad operare quel passaggio, preannunciato dal titolo del corso, dal sapere

dell’esperienza all’esperienza di sapere, che Lluïsa riconosce così, quando (si) dice: «“Vedi

come avevo ragione?”, “vedi come stavo facendo ciò che dovevo fare?”» (I, 1, 13.10.2009). E

proprio in questo passagio in cui, secondo Anna Maria Piussi (2011b, p. 7, trad. mia), «si

radica la competenza simbolica, intesa come saper stare al mondo con la capacità di dirne e di

innovarne il senso, rimodellandoci inventivamente, che in qualsiasi età della vita ci qualifica

come soggetti nel nostro rapporto con il mondo cui partecipiamo».

Lluïsa guadagna la coscienza di avere competenza simbolica grazie alla relazione con altre

donne e questa è la leva che le permette di ripensare la sua pratica educativa (sia il cosa sia il

come), di darle un senso nuovo a partire da sé e da ciò che per lei è importante. È la spinta di

cui ha bisogno per «fare il salto senza rete» (Bóo, 2004, p. 132, trad. mia). Si tratta di

un’espressione di Carmen Bóo, un’altra delle fonti di ispirazione per Lluïsa:

“Quando diventai madre scoprí ciò che era l’educazione o portai la vita nell’aula”, qualcosa

del genere. (…) lei parla di quello, di come la sua esperienza di madre la condusse a portare

la vita nell'aula (…) Lei parla di un processo simile a questo [il suo]; mi è molto piaciuto, è

stato molto significativo. Lei dice che ad un certo punto ha deciso di “fare il salto senza

rete”. Adesso lo penso ed è la stessa cosa; diceva, “non voglio più avere sicurezza”, sai?,

“non voglio più la rete” (…). Ed io ho pensato: lei mi ha appena detto ciò che avevo bisogno

di ascoltare: di fare il salto senza rete (I, II, 30.04.2010).194

Fare il salto senza rete. Mi vengono in mente le parole di Clarice Lispector quando all’inizio

della La passione secondo GH (1982, p. 5) scrive:

193

Il Dipartimento di Educazione della Generalitat de Catalunya, nell’ambito della formazione degli insegnanti,

ogni anno mette a disposizione delle borse della durata di dodici mesi tramite bando a concorso, rivolte a

insegnanti in esercizio per la realizzazione di attività di formazione, ricerche educative o elaborazione di

materiali curriculari, direttamente relazionati con il proprio ambito di lavoro. 194

Il corsivo è mio.

192

Ho perso una cosa che mi era essenziale e che non lo è già più. Non mi è necessaria, così

come se avessi perduto una terza gamba che mi impediva di camminare ma che di me faceva

uno stabile treppiedi. E sono tornata a essere una persona che non sono mai stata. Sono

tornata ad avere quanto non ho mai avuto: null’altro che le due gambe. E so che soltanto con

le due gambe io posso camminare.

La terza gamba di cui ci parla Clarice Lispector è «l’andare a coincidenza con un già detto o

un dicibile da parte di altri» (Muraro, 2006, p. 30). Senza di essa si è più insicuri, non si ha

più la rete, ma se la posta in gioco è la possibilità di stare in modo libero al mondo, che deriva

da «un saper stare al mondo con la capacità di dirne il senso» (competenza simbolica) (ivi,

p.61), il che significa pensare veramente195

, allora il rischio vale la pena, anzi, ne va della

propria vita, del proprio camminare.

Vorrei ritornare ad un’idea: come la capacità di Lluïsa di dire il senso dell’educazione e di

innovarlo a partire da sé, quindi di mettersi al centro come soggetto pensante e vivente del suo

fare educativo, sia in stretta relazione con le mediazioni femminili che ha trovato. Ovvero,

come la possibilità di «fare il salto senza rete», che non è mai uno solo e definitivo, di darsi

l’autorità per fare ciò che sente «di voler e dover fare» (I, II, 13.10.09), le provenga da altre.

Altre che l’aiutano a ricordare che lei sa. Lluïsa me lo racconta così:

(…) evidentemente e per qualche motivo, dentro di me c’era già tutto ciò ma mi avevano

dato, un po’ come nel teatro, il via: “sì, sì, puoi passare da qui; non succede niente se passi”

(I, 2, 13.10.09).

Come il «Va’ avanti» di Bryer alla sua amica H., la poetessa Hilda Doolittle196

.

Il darsi autorità per agire come soggetto nel mondo, in un rapporto creativo e vitale con esso,

ha per me il senso di un riconoscimento. In questo senso, affermano le autrici della Libreria

delle donne di Milano (1987, p. 153):

195

«(…) pensare, che è attività allo stato puro, vuol dire pensare l’impensato, per definizione» (Muraro, 2006,

p.30). 196

«Va avanti» è la risposta che l’amica dà a H. quando ella le chiede: «Che ne pensi? Devo fermarmi o devo

continuare?» (Doolittle, 1973). H.D. si riferisce a dei segni sul muro, «immagini di luce» che vede proiettate

nella parete; segni che soltanto lei vede e che le provocano dei profundi dubbi: deve continuare a osservarli e

trattare di interpretarli oppure è meglio allontanare lo sguardo perché, come il «Professore» avrebbe detto anni

più tardi (si tratta di Freud), sono un «sintomo pericoloso»? «Va avanti» è ciò che le risponde Bryer. Questa

storia la raccontano le autrici della Libreria delle donne di Milano (1987, pp. 19-23) per significare la necessità

che ogni donna ha di interlocutrici magistrali, se vuole «articolare la propria vita in un progetto di libertà e darsi

così ragione del proprio essere donna» (ivi, p. 18).

193

non pensiamo che il darsi autorità sia un atto individuale. L’autorità si riceve,

originariamente da un altro essere umano che è in posizione di poterla dare, che ha l’autorità

di darla. Ma non puó averla se chi ha bisogno di riceverla non gliela riconosce.

Lluïsa trae l'autorità di cui ha bisogno dal riconoscimento della genealogia femminile a cui lei

stessa appartiene e, in particolare, dal riconoscimento della necessità che per essere al mondo

necessita della mediazione di donne più grandi di sé, grandi non necessariamente in età, ma in

quanto donne che hanno qualcosa che lei cerca per sé. In altre parole, Lluïsa nel riconoscere il

sapere di un'altra donna come valido per sé, sta riconoscendo la possibilità che al mondo ci

siano altre mediazioni oltre alle già esistenti, le già pensate e agite – mi riferisco a quelle

maschili, presentate come neutre e universalmente valide – e così facendo sta aprendo a

qualcos’altro: la libertà femminile di stare al mondo.

Perché di libertà si tratta; perché “Germanes di Shakesperare” è «la letteratura a partire dalla

libertà» (Cunillera, 2007a, trad. mia)197

.

“Germanes de Shakespeare”: la letteratura a partire dalla libertà

La scuola estiva di Marta Pesarrodona, il primo anno di master, la pubblicazione di un suo

testo all’interno della collana di Sofías e altri eventi – di cui Lluïsa non mi parla ma che sento

in sottofondo e alla radice, come una costellazione di gesti, di parole di donne e uomini che

l’accompagnano – creano le condizioni perché nel 2004 Lluïsa decida di richiedere il congedo

«per mettere in ordine, pensare e fare un passo più in là» (I, 2, 30.04.2010).

Da quest'anno, che Lluïsa ricorda come «il più fantastico in molti, molti anni (…), in cui poca

gente ha lavorato come io ho lavorato. Lo facevo con un piacere tale, che non c’erano nè fine

settimana nè niente; io scrivevo e scrivevo e leggevo e leggevo (…), era come una pazzia» (I,

1,13.10.2009); da quest'anno, dicevo, nasce Germanes di Shakespeare: la letteratura a partire

dalla libertà.

197

Questo è il titolo del report finale che Lluïsa presenta come risultato del congedo per studio (si veda

Cunillera, 2005), pubblicato dalla Generalitat di Catalunya nella collana “Programes d’innovaciò educativa”

[“Programmi di innovazione educativa”] (si veda Cunillera, 2007a).

194

Una proposta a partire dalla libertà è il luogo in cui io mi colloco. Devo confessare che

quando iniziai il lavoro [Germanes de Shakespeare] non sapevo molto bene cosa volevo in

questo senso e che l’aiuto della mia tutor, Remei Arnaus, è stato molto utile per iniziare una

cammino che non ho ancora terminato. A partire dalla libertà vuole dire dunque a partire

dalla mia libertà di essere donna, che mi porta a scegliere dei testi, a leggere delle autrici, a

lavorare in un modo determinato in classe; a partire dall’alterità (…). E vuole dire anche la

relazione che gli e le allieve ed io manteniamo in classe ogni giorno e che ha molto a che

fare con il di più che noi donne apportiamo all’educazione, nello stesso modo in cui lo

apportiamo alla famiglia e al mondo (Cunillera, 2005, p.5, trad. mia).

Il luogo in cui io mi colloco. Ci sono delle immagini, delle frasi, delle parole che ci danno la

cifra, il senso di un discorso. Ci predispongono all’ascolto. Eccone una.

Credo che la genealogia di “Germanes di Shakespeare” ci parli proprio di questo (non a caso è

una genealogia): di uno spostamento simbolico che ha degli effetti sia nella scelta dei

contenuti sia nella mediazioni che di essi si fa in classe. Uno spostamento che implica

prendersi la libertà di mettersi al centro del proprio dire e fare, riconoscendo chi si è e da dove

si viene. La libertà di una donna di dire come vive e pensa l’educazione, la letteratura, la

relazione con le sue allieve e i suoi allievi e il senso di tutto ciò per lei, in relazione al mondo

e con il mondo. Una libertà guadagnata insieme ad altre. È quel «salto senza rete» che

significa «far conoscere il nostro lato femminile che ha sempre più saggezza che qualunque

titolo o discorso accademico, è, nè più nè meno, il luogo in cui io abito» (Bóo, 2004, p.132,

trad. mia) 198

.

Il luogo in cui mi colloco e il luogo in cui abito.

198

Il corsivo è mio.

195

4.2.2. Il piacere di educare: una vocazione

Parlo da maestra… non da insegnante,

ci tengo a sottolineare la differenza (…).

Cristina Mecenero, Vite maestre199

Vorrei parlare adesso del senso che per Lluïsa ha la letteratura e il suo insegnamento,

partendo proprio dal fatto che Lluïsa si presenta innazitutto come una maestra. Maestra in

quanto la sua funzione prima e preziosa, come lei stessa dice, è quella di mediare tra le sue

allieve e allievi e il mondo; dar loro una misura, accompagnandoli nella loro «crescita, nella

loro formazione umana, di vita e di verità» (Cunillera, 2010, p.14, trad. mia). Continuare il

lavoro della madre, la prima maestra. Perché questo sia possibile è necessario iniziare una

relazione con le sue studentesse e studenti, creare insieme a loro un legame fondato sulla

fiducia reciproca per, a partire da lì, poter pensare assieme: sulla letteratura, su sé stessi/su di

sé, sulla scuola, sul mondo… In altre parole, creare le condizioni necessarie perché sia

possibile in classe uno scambio creativo, che apra uno spazio alle e agli adolescenti (e anche

alla stessa Lluïsa) per essere ciò che sono, per esporsi con coraggio, pensando e agendo a

partire da sé. In questo senso, la letteratura è per Lluïsa prima di tutto «una mediazione di

relazione» (I, 1, 13.10.2009), ovvero, quel filo che la lega alla classe e viceversa; quello

spazio in cui è possibile incontrarsi e dove, se opportunamente mediati, i testi possono

diventare dei contesti (Piussi, 2007, p. 54) trasformativi e quindi di crescita.

La scelta di Lluïsa, sia dei contenuti sia del suo modo di stare in classe, è una scommessa, i

cui esiti quindi non sono prevedibili a priori, «si sa dove si inizia, ma non si sa dove si sta

andando» (Zamboni, 2009, p. 11)200

. In essa c’è una componente sperimentale, di rischio,

fatta di piccole invenzioni, di azzardi, che ci dà la cifra del suo modo di fare scuola: aperto e

vivo. È anche uno stare attento alle cose e alle persone, ai luoghi, perché l’importante non

vada perso; una disposizione paziente ad accogliere quei momenti che Lluïsa chiama

199

Dalla relazione per il Convegno nazionale del Movimento dell’Autoriforma, Le maestre e il professore,

Roma, 27/28 aprile 2001. Gli atti del Convegno sono consultabili al sito internet http://autoriformagentile.too.it 200

Chiara Zamboni usa queste parole a proposito del pensare in presenza, quando paragona questa pratica al fare

musica improvvisando, come è il caso del jazz. Come cercherò di spiegare più avanti, il fare di Lluïsa in classe è

a mio avviso molto vicino alla pratica del pensare in presenza, in quanto creazione in comune di parola e

pensiero.

196

«magici» (I, 2, 20.10.2009); momenti speciali «in cui il vincolo diventa presente e fecondo»

(Cunillera, 2010, p. 5, trad. mia) e da cui scaturiscono vere e proprie scintille di sapere

guadagnato in relazione, di volta in volta, come un dono più che come un risultato previsto.

È per questo che oltre alla sua visione della letteratura e dell’insegnamento della letteratura,

parlerò anche della pratica educativa di Lluïsa – delle qualità della sua mediazione –, tenendo

ben presente che entrambe le dimensioni sono intimamente legate tra loro e al luogo

simbolico in cui lei si colloca e da cui parla e agisce. Luogo simbolico che, come cercheró di

mostrare, è quello che Luisa Muraro (2006) ha chiamato «ordine simbolico della madre».

«Che questo sia come la vita» (I, I, 13.10.09)

Maternità201

Il tempo di essere madre arriva e va via, il tempo, sempre il

tempo. Va via il tempo di generare una creatura però mai di

poter essere madre. Il sentimento di maternità, nonostante ci

faccia aspettare, è atemporale e resiste al terrificante passare

del tempo.Tempo di vita, tempo di una attesa, una attesa di

nove mesi o di tutta una vita, che ci trattiene ma nello stesso

tempo ci libera. La possibilità di trattare la maternità come il

tema di Sant Jordi mi ha fatto pensare molto e non ho potuto

togliermi dalla testa la grande importanza di questa parola,

di questo fatto che racchiude vita, amore...

Allieva del corso «Lingua e letteratura catalana»

(2006/2007)

201 Il 23 di aprile di ogni anno si festeggia il Día de Sant Jordi (giorno di San Giorgio), patrono di Barcellona.

Oltre alla dimensione religiosa e politica dell’evento (è un’occasione che i gruppi nazionalisti approffittano per

reivindicare la cultura e la lingua catalana), la festa ha una connotazione marcamente letteraria in quanto

coincide con il giorno del libro. Durante questo giorno si promuove la vendita di libri – con delle bancarelle nella

zona della Ramblas e limitrofi, in cui è possibile comprare libri scontati e incontrare gli autori e autrici – , e si

realizzano diverse attività nelle biblioteche e nelle scuole. Questa è una delle celebrazioni, insieme al 25 di

novembre e l’8 marzo, che Lluïsa e le sue colleghe del Dipartimento organizzano all’interno del liceo. Sono delle

opportunità, come lei stessa mi racconta, per dare continuità al lavoro di visibilizzazione dell’opera delle donne

che fa all’interno delle sue classi. Una delle attività ricorrenti è un concorso letterario rivolto agli studenti e

studentesse delle superiori, il cui tema nel 2007 fu la maternità. Il brano che qui riporto (trad. mia) appartiene a

una delle studentesse di Lluïsa che vi partecipò. Una nota aggiuntiva circa il frammento: il titolo originale del

testo è Maternitats, quindi al plurale. Mi sembra una scelta significativa da parte della ragazza che scrive in

quanto sembra dirci che l’esperienza della maternità non è una sola ma che ogni donna la fa propria in modo

diverso, nel pensarla e darle parola, così come lei stessa fa attraverso il suo testo.

197

Tutti gli studenti che frequentano “Germanes di Shakespeare”, tranne i nuovi e le nuove

arrivate al liceo, sono passati dal corso obbligatorio “Lingua e letteratura catalana”. È questo

il caso di Adrián, Andrea, Tatiana e Marta, le studentesse e lo studente che hanno frequentato

Germanes di Shakespeare durante l’anno 2009-2010, periodo in cui ho svolto la mia indagine.

Il corso “Lingua e letteratura catalana” è il primo contatto con Lluïsa e con la letteratura nelle

superiori. Si svolge nel primo anno, un momento di passaggio delicato, difficile in alcuni casi

perché le differenze con la scuola media sono tante e grandi. Lluïsa mi spiega che molti degli

studenti sono spaventati:

(…) bisogna pensare che vengono dal quarto anno della E.S.O.202

; pochi mesi fa erano in

quarta, hanno appena iniziato le superiori e ancora non sanno dove sono. C’è gente che

mollerà. Io li incoraggio ma c’è gente che lo lascerà [il liceo] perché non ce la faranno. Ci

sono degli insegnanti che li spaventano a morte perché dicono loro che non ce la faranno.

Non so perché, ma è così. E quindi all’inizio non sanno, si sentono spaesati (…) (I, 1,

13.10.2009).

I primi giorni di lezione sono per Lluïsa fondamentali nel senso letterale della parola; è lì che

si gioca la possibilità di entrare a contatto con i suoi studenti e studentesse, di stabilire un

vincolo con loro. Così Lluïsa – nonostante i ritmi incalzanti e la pressione del programma da

seguire, a cui sono sottoposti sin dall’inizio sia studenti che professori– prende tempo. Il

tempo che lei sente necessario per accogliere il desiderio dei nuovi e le nuove e arrivate e

condividere il proprio, come donna e maestra, cercando di rispondere alla loro necessità (non

sempre nominata) di riconoscimento e alla sua propria di essere riconosciuta. Quindi inizia

col presentarsi, ne ho già parlato, raccontando di sé, per poi invitare la classe a fare altrettanto,

attraverso una lettera (“La carta a la Lluïsa”), nello stesso modo in cui lei l’ha fatto: con

parole di verità.

Invito loro a narrare le proprie esperienze di essere viventi che sentono e parlano; di

adolescenti che cercano esistenza, che di solito non trovano perché le aule sono piene di ciò

che altri hanno già pensato. Sto dicendo loro che sono disponibile e in ascolto e che desidero

202

E.S.O. sta per “Enseñanza Secundaria Obbligatoria” [“Insegnamento Secondario Obbligatorio”] e comprende

il periodo di formazione obbligatoria tra i 12 e i 16 anni. È un ciclo formato quindi da quattro anni, dopo i quali i

ragazzi possono accedere al mondo del lavoro oppure continuare con gli studi, frequentando la tappa successiva

che è il bachillerato (due anni).

198

sapere di ognuna e ognuno di loro, individualmente, come ora sanno di me. Dico loro “sono

qui e adesso, e anche voi” (Cunillera, 2010, p. 2, trad. mia).

Sono qui e adesso e anche voi. Ci sono delle parole che hanno il potere di riportarci al

presente, al proprio corpo e al luogo in cui si è. Parole che hanno l’effetto su chi ascolta di

alzare lo sguardo, di girarsi, di uscire dalla distrazione. Quando parlo delle parole le penso

insieme al corpo che le dice, che le pronuncia, che le fa vibrare; quindi parole incarnate che

nascono da un’esperienza di vita, da un particolare modo di essere al mondo. Parole che, se

dette in un determinata situazione, come quella in cui Lluïsa si trova a parlare – in classe, il

primo giorno, davanti alle sue studentesse e studenti– acquistano una forza imprevista, quasi

magica, di invocare alla presenza chi le ascolta (Zamboni, 2009, p. 124).

Sono qui e adesso e anche voi. Gli avverbi «qui» e «ora» sono due deittici, ovvero, dei segni

che hanno la funzione di indicare, un luogo e uno spazio, rispettivamente. Si tratta di parole

semanticamente vuote, in quanto assumono il loro significato in relazione al contesto in cui

vengono ennunciate. In questo caso, il primo giorno del corso “Lingua e letteratura catalana”,

nel liceo Antoni Cumella di Granollers a Barcelona. Anche il pronome di prima persona “io”

(che non è presente ma è implicito nel verbo «sono») e il pronome personale «voi» sono due

deittici. “Io” è Lluïsa che, come lei stessa si definisce, «più che una identità sono un tessuto di

relazioni» (Cunillera, 2010, p. 1, trad. mia); e «voi» sono i nuovi e le nuove arrivate, ragazzi e

ragazze, con nomi e cognomi e quindi, anche loro, intessuti di storie e relazioni.

Se mi soffermo su questi particolari è perché credo che nel dire la frase, «Sono qui e adesso e

anche voi», Lluïsa compia un movimento molto simile a quello che avviene quando afferma

«Sono una maestra, sono una donna». Un movimento che a mio avviso trova il suo valore di

rivelazione proprio nell’ovvietà dell’affermazione, che non è tale, se riusciamo a cogliere il di

più di senso che queste parole contengono.

Sono qui adesso e anche voi è, a mio avviso, l’espressione del desiderio di Lluïsa di portare la

vita all’aula (Bóo, 2004, p. 132). È una chiamata ai corpi, alla presenza203

, all’esserci, lì – in

quel luogo e in quel momento: “io sono qui, come donna e maestra e vi vedo, vi riconosco:

ognuna ed ognuno con la propria singolarità”. Una chiamata per mettersi in cammino insieme:

con ciò che si è si sa, ma soprattutto con ciò che non si sa, con le tante domande e desideri,

203

Chiara Zamboni, riflettendo su cosa sia la presenza, scrive: «Non si tratta di coincidenza tra la mente e il

corpo ma del fatto che il corpo nel suo mostrarsi agli altri, porta con sé un intreccio di relazioni – già vissute e

molto concrete – con luoghi, cose, persone» (2009, p. 135). Il corpo è la storia che ognuna porta con sé e la

presenza è il racconto di quella storia, la sua attuazione.

199

perché – è ancora Lluïsa a parlare – «nella funzione mediatrice della maestra o del maestro si

trova la saggezza per far vedere all’allievo o allieva che ha tempo per scoprire cammin

facendo, per disfare il nodo della paura di non sapere, a sbagliare o a non essere capito o

accolto, o a non ricevere risposta alla sua domanda» (2010, p. 14, trad. mia). Paura di non

sapere che anche Lluïsa prova – il tremore del maestro prima di iniziare a parlare, di cui ci

parla María Zambrano (2002, p. 112) –, ma che nel circolo relazionale, se si riesce a entrarci e

a rimanerci, può diventare apertura, possibilità perché la classe sia uno spazio di rivelazioni e

non di ripetizioni (Peri Rossi, 2004, p. 64).

Educare per stimolare «il desiderio di essere nel presente»204

Io, voi, qui, ora. Lluïsa è consapevole che non basta dichiarare le cose ma che è necessario

creare degli spazi perché accadano, «spazi reali»:

una cosa è dire “qui abbiamo la libertà di parlare, quindi, cosa volete dire?” E allora ci

guardiamo tutti in faccia e nessuno parla perché [si chiedono le ragazze i ragazzi] “cosa

significa cosa volete dire? se nessuno ci ha insegnato a dire”. Costa molto dire (I, 1,

13.10.09).

Allora Lluïsa apre degli spazi: apre, apre, apre perché lei crede che loro «c’è l’hanno già» (I,

1, 13.10.2009). Che cosa? Qualcosa da dire. E così, la “Carta a la Lluïsa”. E poi, una serie di

piccoli passi, piccole invenzioni per iniziare a mettere radici, qui e ora, «aprendo nel presente

un presente vivo» (Piussi, 2006, p. 9). Piccoli passi che assumono la forma di domande, la

prima: perché sono qui?

Invito loro a pensare perché sono al liceo (…) Vengono fuori delle cose molte interessanti

perché cominciano a dire “per imparare, per formarmi per il futuro…”. Per il futuro…

(Lluïsa ride). Allora chiedo loro, “e il presente? Non avete presente voi, avete soltanto

futuro?” (ridiamo insieme) (I, 1, 13.10.09).

Scrive María Milagros Rivera: «Non è raro tra donne che il riso segnali e accompagni il

comparire del simbolico, come se fosse il passaggio ad un'altra cosa, a ciò che viene dopo il

nominare, a ciò che si sente quando le parole, le cose e il suo corpo coincidono» (2009, p.10).

204 (Rivera, 2001, p.73)

200

Durante le nostre conversazioni io e Lluïsa ridiamo spesso. Sono dei momenti che, per la loro

intensità, assomigliano ai momenti di silenzio. Ci vuole presenza di animo per entrarvi, per

accogliere la possibilità di andare più in profondità, più vicino; per permettersi di sentire

l’intimità che nasce dal riconoscimento della presenza dell’altra, dell’altro in noi. Con intimità

voglio dire la non separazione tra noi e ciò che (ci) accade attorno, quindi anche dentro, più

dentro (intimum), attraverso. Un fluttuare libero. Rimanerci non è facile perché è tutto il corpo

a vibrare, a mettersi in moto e si è tentati di andare avanti, di passarci sopra senza lasciarsi

toccare. Il silenzio e il riso, dopo aver parlato, possono essere dei passaggi e in alcuni

momenti delle conversazioni tra me e Lluïsa, io li ho vissuti così.

La domanda sul presente che Lluïsa fa alle sue allieve e allievi vibra in me quando lei la

riformula nella conversazione, perché anch’io mi sento interpellata. E tutt’ad un tratto, rido

con lei. È un riso di sollievo perché mi riporta lì dove sono, insieme a Lluïsa, a conversare su

come vive e mette in pratica la sua idea di educazione e di insegnamento della letteratura. Mi

solleva perché sento che non devo fare niente, soltanto esserci. Ed è Lluïsa con le sue parole e

la sua presenza a permettermelo. Siamo in uno dei nostri primi incontri e abbiamo iniziato a

parlare da poco. La mia mente è piena di pensieri su cosa dovrei o non dovrei fare, dovrei o

non dovrei dire; su cosa mettere di mio e cosa no; su cosa mi aspetto che succeda (che lei mi

dica), su quello che succederà dopo… Perché c’è sempre il dopo e, nel percorso di ricerca, a

volte si rischia di perdersi nel dopo e di non vivere ciò che sta accadendo; di considerarlo più

un fine per raggiungere uno scopo – la raccolta di dati – che un momento unico e

irripetibile205

, in cui si è coinvolti. È la vita che accade, la mia come ricercatrice e quella di

Lluïsa come maestra. Allora il riso arriva per ricordarmelo, risvegliando il corpo, e tutto

205

Quanto ciò che dico sia vero, l’ho capito (proprio perché sentito profondamente) dopo l’ultima conversazione

che ho tenuto con Lluïsa, nella prima fase della ricerca sul campo (ottobre 2009). Era stata una conversazione

particolarmente speciale per l’intensità delle sue parole, per la qualità dell’ascolto (del mio e del suo verso di sé

in quel momento), per l’agio che si era creato. Quando sono salita sul treno per tornare a Barcelona, felice di

aver concluso la prima parte della ricerca, mi sentivo come se avessi un tesoro nella tasca, una pietra preziosa.

Ho voluto ascoltare subito la registrazione, un po’ impaurita e un po’ emozionata (quando si sa di avere qualcosa

di grande tra la mani ci si sente con una grande responsabilità). Ho premuto il pulsante del “play” ma non ho

sentito nulla. Avevo perso la registrazione. A casa ho cercato di ricostruire la conversazione, almeno i passagi

più importanti. Mi sembrava che ci fosse più o meno tutto: il rapporto con la famiglia, i primi anni all’università,

le sue esperienze di maestra alle prime armi. E tuttavia qualcosa di essenziale mancava. Scrivo nel diario di

ricerca: «La registrazione dell’intervista a Lluïsa si è persa. Ancora non ho capito cosa sia successo ed è proprio

il non sapere che mi fa rabbia e mi fa sentire così triste perché ho perso qualcosa che non potrò mai ricuperare».

Poi ho capito che non sarei riuscita a ricuperarlo nemmeno se avessi riascoltato la registrazione. Era qualcosa

che avevo sentito insieme a lei, una profondità e una verità nelle sue parole, nella qualità dei silenzi, un

benessere che avrei potuto soltanto ricordare ma non rivivere nello stesso modo perché legato alla nostra

presenza. In questo senso, credo che certe conversazioni anche se registrate siano momenti unici e irrepetibili;

non sono completamente trasferibili nè riducibili a ciò che si può esprimere in parole.

201

rimane – la paura, il non sapere, le aspettative – ma più leggero, in sottofondo: smette di

occuparlo tutto per farmi spazio e fare spazio a Lluïsa.

Scrivo nel diario della ricerca (4.05.2012): «Quando farai ricerca, non dimenticarti di te, della

tua storia, di ciò che senti e vivi adesso ma anche di ciò che hai sentito e vissuto». Credo che

Lluïsa nella sua domanda per il presente – così l’ho vissuta io – inviti le sue studentesse e

studenti a non dimenticarsi di essere, qui e ora; a portare con sé in classe il loro desiderio di

esistenza.

Se Lluïsa invita le sue allieve e allievi a mettere in gioco in classe il proprio desiderio è

perché è disposta ad accoglierlo (così come lei ha fatto con il proprio) e soprattutto, como

spesso accade, a stimolarlo lì quando rischia di spegnersi o di rimanere assopito,

inconsapevole, debilitato perché senza mediazioni significative che lo riportino in vita. Ed è

proprio questa la scommessa di Lluïsa: provare a «farsi mediazione vivente qui e ora per un di

più di senso e di vita » nell’educare (Piussi, 2006, p. 9). Si tratta di una scommessa, come lei

stessa dice, che non avrebbe mai accettato se non le fosse piaciuto tanto essere maestra, se per

lei non fosse una vocazione: una chiamata, ci suggerisce María Zambrano (1996), a cui non è

ci è dato di non rispondere se vogliamo che la vita diventi veramente nostra206

.

Allora, “cosa è che in voi vi chiama”, sembra chiedere Lluïsa, “qui e adesso?”. Una domanda

che, seguendo Anna Maria Piussi, sento come un’invito a «reimmaginare il reale al presente

per aprirlo al suo oltre, al suo di più» (2008b, p. 195, trad. mia), collocando studentesse e

studenti nello spazio della classe (anziché come «risorsa futura» da formare, immagine così

comune oggi in certi modi utilitaristici di pensare la scuola), come «interlocutrici e

interlocutori al presente in un mondo comune da rendere insieme più abitabile» (ibidem).

Ma c’è dell’altro… Come dice Clarice Lispector – e la bellezza e verità delle sue parole mi

spiazza e mi fa vedere un senso possibile dell’educare – «si può essere chiamati e non sapere

come arrivare» (2007, p. 202, trad. mia). Allora mi viene da pensare che la via sia proprio

quella di affidarsi a un'altra, a un altro perché ci accompagni, perché ci aiuti a trovare le

parole per dire: il nostro desiderio, la nostra visione del mondo e di noi nel mondo, per farla

accadere.

206

Scrive María Zambrano: «E la vocazione è l’essenza stessa della vita, ciò che la fa essere vita di qualcuno

oltre che vita, una vita» (1996, p. 10). [«Y una vocación es la esencia misma de la vida, lo que la hace ser vida de

alguien, ser además de vida, una vida» (2008, p. 18)].

202

«Abbiamo bisogno di fiducia»: riconoscere l’origine

“…per avere un buon lavoro in futuro”. Va bene. Ma vengono fuori man mano anche: “per

metterci in relazione”, “per convivere”; escono delle cose… E lì io sempre introduco una

parola, voglio dire, delle parole, parole con il con: convivere, condividere, coeducarci… e

alla fine sempre tiro fuori la parola: “per fare tutto ciò abbiamo bisogno di fiducia” (I, 1,

13.10.09)207

.

Non è consueto che nel liceo si parli di fiducia. Di solito sono altre le parole che si mettono in

gioco: apprendimento, insegnamento, didattica, metodologia, contenuti, programma,

successo, fallimento, valutazione, le famose competenze… C’è una reticenza a parlare di

fiducia magari perché troppo soggettiva, troppo legata alla sfera del sentimento, della

relazione; irriducibile a una teoria, a una tecnica da applicare e trasferire. Parola troppo viva

per contenerla. E che dire dell’amore. Mi racconta Lluïsa in proposito:

Ricordo una sessione di valutazione terribile, è che nelle sessioni di valutazione si dicono

cose terribili, in cui ho parlato di amore e un’insegnante, che ha anche un brutto carattere, mi

dice: “Amore in classe!, amore in classe!”, gridando, eh?, sembrava me lo stesse sputando,

come se dicesse, “ma sei pazza? Amore per gli allievi…, ma con tutto ciò che ci fanno tu

credi di poter parlare di amore…?” (I, 1, 13.10.2009).

Quando la fiducia manca, il risentimento, la sofferenza e la stanchezza che ne deriva

prendono il sopravvento. Anche in chi la scuola la fa. Allora si dicono cose terribili. Capita.

Eppure di fiducia si parla ben poco.

Lluïsa crede di poter parlare di fiducia. Anzi ne è convinta. E lo fa, sin dall’inizio. Non è

possibile per lei pensare la relazione educativa senza la fiducia perché è ciò che la rende

appunto pensabile, reale:

C’è un'altra cosa che io noto nelle lezioni e che si sviluppa man mano che io ho, diciamo, più

fiducia in ciò che faccio. Mi lascio andare e allora cambiano le relazioni, senza pensarlo le

relazioni cambiano perché non sei in quell’atteggiamento di…, quella quasi impossibilità di

parlare con…, allieva-insegnante, ma tu inizi a dare spazio senza pensarci troppo, ti rendi

conto che le cose vanno in un altro modo e che ti piacciono di più… (I, 2, 30.04.2010).

207

Il corsivo è mio.

203

Fiducia quindi, «che qualcosa possa avvenire senza volontarismi o intenzionalità

prefiguranti» (Piussi, 2006, p. 9) perché «quando esci dallo schema, la struttura così

accademica che viviamo nei centri [di educazione] e lasci questo spazio, è quando accadono

delle cose bellissime» (I, 2, 6.05.2010)208

. Fiducia, come dice Adrián uno degli studenti del

corso “Germanes de Shakespeare”: «che porta con sé la libertà di poter dire ciò che volevamo

dire ma anche la fiducia di…, di tutto, di stare, di essere stanco e poter dire “io sono stanco e

non parleró” o di poter parlare, parlare di più, di poter ridere. In altre parole, la fiducia di

poter esserci semplicemente” (I, 2, 07.05.2010)209

.

Fiducia in sé e negli altri e le altre; nel mondo; fiducia che è alla radice e anche attraverso;

che circola per rendere abitabile la classe, feconda di incontri e disincontri; di scoperte, di

conflitti, di nodi che non si sciolgono ma anche di porte che si aprono. Fiducia per accogliere

la complessità di ciò che accade in classe, complessità che più che gestita chiede di essere

vissuta, toccata. Appunto: «che questo sia come la vita» (I, 1, 13.10.2009) è l’augurio che

Lluïsa (si) fa all’inizio del corso, ma abbiamo bisogno di fiducia perché senza fiducia non è

possibile la trasformazione ma soltanto il far finta, il simulare, mettersi una maschera.

Il primo giorno quando mi presento lo spiego: “io non voglio lasciare là [fuori dall’aula] ciò

che sono, entrare mascherata, nè voglio che voi lo facciate: entrate come siete, con ciò che

siete. Ci saranno giorni che non ci capiremo per niente, ci saranno giorni in cui ci capiremo a

metà, ci saranno giorni in cui ci capiremo meglio…”. Per questo, dopo parlo della fiducia

(…) (I, 1, 13.10.2009).

Fiducia è una delle parole generatrici che guidano la pratica di Lluïsa, che l’aiutano ad

educare, rimanendo vicina all’origine. Perché è proprio all’origine che la fiducia riporta, alla

relazione prima con la madre, insieme alla quale abbiamo imparato a parlare, gratis et amore.

Dice Milagros Montoya, anche lei maestra e una delle fonti di ispirazione per Lluïsa:

«Imparare, nella sua origine, è una esperienza di godimento di una lunga relazione di fiducia»

(2006, p. 91, trad. mia). Fiducia della madre nella possibilità del suo bambino o bambina di

imparare e nella sua propria di sapere insegnare, di saper dare ciò di cui la creatura avrà

bisogno per essere al mondo. Fiducia del bambino o la bambina, che si affida completamente

perché non può fare altrimenti, perché ha bisogno di tutto. Ed è questo un gesto radicale – di

208

L’aggettivo che Lluïsa usa è “precioses”. Preciòs significa in catalano ‘bello’ ma anche ‘prezioso’. 209

Il corsivo è mio.

204

radice – che ci attraversa sin dalla nascita e che nella vita può essere motivo di sofferenza e

frustrazione oppure fonte di godimento e di senso, a seconda delle mediazioni che si trovano

per nominarlo.

Che della fiducia in classe c’è bisogno e che la fiducia ci riporta alla relazione prima con la

madre sono alcune delle cose che Lluïsa chiede di pensare alle sue allieve e allievi perché

soltanto così possono essere portate alla luce, viste e ricuperate oppure scoperte; possono

diventare appunto fonte di senso per loro. Perché di pensare si tratta e di dare nome: «una

delle cose che mi propongo nelle mie classi è farli pensare. È un cammino diverso dal

funzionamento accademico che neutralizza il pensare, coprendolo tutto di discorso

prestabilito» (Cunillera, 2010, p. 7, trad. mia). Pensare che allora è uno sgomberare, fare

spazio a ciò che accade quando si inizia a prendere parola.

Un'altra attività è “Come apprendo?”. Anche qui dicono le cose tipiche; sono molto

accademici perché dicono “leggendo, sottolineando, ripetendo, chiedendo…”. Dicono anche,

“ascoltando gli altri, guardando gli errori, i miei e quelli degli altri…”. Ma anche qui io cerco

di far sì che si rendano conto che le grandi cose che impariamo, non le impariamo a scuola,

ma che le impariamo a casa con la madre. La mia attenzione è il riconoscimento, dire, “¡Eh!

La prima maestra la abbiamo avuto in casa”. E costa, costa moltissimo che si rendano conto.

E dopo, quando lo dici, dicono “certo”, e alcuni dicono “e anche da mio padre”, “e dalla

nonna!”. Ma fa sorridere perché non forma parte di loro… (…). Sono così dentro la cosa

accademica che apprendere è studiare, è imparare una cosa a memoria (…) (I, 1, 15.10.

2009).

Riconoscere che le cose più importanti («le grandi cose») non si imparano a scuola ma a casa,

insieme alla madre o chi per essa, permette a Lluïsa di ristabilire la continuità tra il lavoro

educativo della madre e il suo proprio e riportare il senso dell’educare all’agire materno, la

cui aspirazione è mettere al mondo i nuovi e le nuove arrivate, offrire loro le mediazioni

necessarie perché vi possano entrare. Mediazione prima è il linguaggio. A questo proposito,

dice Milagros Montoya:

Imparare a parlare è il primo e fondamentale apprendimento, inizio di tutti gli altri. E in questo

apprendimento iniziale tutte le madri (o chi per esse), attraverso la fiducia nelle possibilità

della loro creatura e con l’imperativo dell’amore, hanno e hanno avuto successo. Loro sono

maestre nel primo apprendimento con cui ci hanno avviato alla vita. Tuttavia, il sapere

205

accademico nega quest’evidenza, la rende oscura, opaca, invisibile. E se non riconosciamo

l’origine del sapere e della capacità di apprendere, la conoscenza si svincola dalla vita, si

allontana dalla realtà, si scollega dall’esperienza e diventa astratta (…). Questo è il problema

di molte teorie pedagogiche e verità scientifiche: non riconoscere l’origine, non riconoscere

che tutti e tutte abbiamo imparato dalle nostre madri (2006, p. 89, trad. mia).

Che nel «tempo degli insetti» e in «quello siderale» (Szymborska, 2012, p. 479) qualcosa

possa avvenire. Come nella vita anche nella scuola: quando si ha fiducia che qualcosa possa

avvenire allora qualcosa avviene. Non si sa che cosa, è un imprevisto. Allora si sta a guardare

con attenzione, ci si predispone per accompagnare ciò che sta nascendo, per coglierlo ed

accoglierlo.

Seminare

Penso al modo di fare e di stare di Lluïsa nel corso di “Germanes di Shakespeare”: un

giardino, grande, all’aria aperta, con tante piante e fiori diversi; il susseguirsi delle stagioni: la

pioggia, il sole, le foglie che cadono, ancora la pioggia, il profumo. Il tempo che passa e

all’interno del tempo, un altro tempo: più lento, più corporeo in cui si attende, si osserva, si

ascolta, si fanno delle scoperte: è sbocciata una foglia nuova. Allora, è viva! C’è anche un

sottofondo di passi, un mormorio inintelliggibile, delle parole, qualche silenzio, risate…, a

volte stanchezza… Qualcuno o qualcuna legge a voce alta, è Lluïsa oppure Tatiana? No, è

Marta.

Mi piace pensare la mediazione di Lluïsa come una “mediazione-semina”, che si prende il

tempo necessario, che apre spazi, come quando nel campo si smuove la terra per prepararla

all’arrivo dei nuovi semi: le sue parole generatrici (madre, maestra, libertà, amore, presente,

desiderio, accoglienza, fiducia) e quelle delle scrittrici, spesso lette a voce alta. Parole buone,

come direbbe la teologa Ina Praetorius, che aiutano a che «l’essere non finisca nel nulla»

(2002, p. 5).

Una mediazione che lancia e aspetta fiduciosa.

Raccolgo man mano piccole cose (…). Io non voglio dire una cosa e poi spiegare tutto, ma

lascio le cose lì; io so che sono lì e so che un altro giorno le riprenderó, altrimenti finirei per

fare un discorso. È meglio partire da cose che stanno succendo per poi dire, “vedete, vi

206

ricordate di quello che avevamo detto quel giorno? Adesso lo state dicendo con altre

parole210

”(I, 1, 15.10.2009).

Accendersi

Allora capita, non sempre ma capita, che ci sia un «accendersi» (Zamboni, 2009, p. 96):

Esce man mano e qualche volta c’è qualcuno o qualcuna che dice: “Ora capisco” (…).

Queste sono cose che io credo che siano…, come se fossero…, non so come si dice…,

scintille! (…). Come scintille che sono lì e che in un determinato momento…, e non tutto il

mondo, non tutti e tutte hanno la stessa disposizione, nè ricordano, ma c’è gente che lo

raccoglie… (…) Riesci a fare quella connessione e allora si rendono conto (…)» (I, 1,

13.10.2009)211

.

Ora capisco. È il momento in cui le parole, le cose e il corpo coincidono. Scintille «che

portano luce alle viscere», (Rivera, 2009, p. 3). Dice Adrián, uno degli studenti di “Germanes

di Shakespeare”:

a partire dalla letteratura e a partire da questo corso, mi è successo che, non so, a volte fai

delle riflessioni e vai a casa pensando e dici, “caspita, ma quello che oggi abbiamo detto è

vero”, è come una sorta di messa (ride) ma più divertente (I, 2, 07.05.2010).

E ancora Lluïsa:

Lo vivo nelle mie lezioni quando a volte troviamo una perla, che non sempre ci viene data,

ma quando ci viene data, è preziosa. Ho visto negli occhi delle mie allieve e allievi quella

scintilla speciale innanzi a ciò che è appena successo a lezione e quello è un regalo che ci

portiamo ognuna e ognuno (…). È un momento magico, è un inizio (Cunillera, 2010, p. 6,

trad. mia).

210

L’apprendimento appare, da questo punto di vista, come «un’attività di rielaborazione e ri-creazione del senso

di ciò che viene trasmesso. Si tratta di ri-creare il senso che contiene quello che viene trasmesso e questa

ricreazione è “rivelazione”. La rivelazione non è però nella parola che si dà (la parola del maestro), ma nel suo

“rinnovamento” o, detto altrimenti, nella parola che il discente può pronunciare» (Bárcena, Mèlich, 2009, p.

124). Parola che il maestro o la maestra che sa ascoltare accoglie e rilancia, in un movimento di scambio aperto

alla trascendenza. 211

Il corsivo è mio.

207

Momento ancora più magico se nella prossima lezione o nel diario settimanale qualche

ragazzo o ragazza racconta di aver condiviso in casa ciò di cui si era parlato in classe; di

averlo rimuginato tra sé e sé (come Adrián) con chissà quale esiti…

Così, il vissuto a lezione trascende lo spazio dell’aula quando passa attraverso il corpo;

diventa vivo perché proviene dalla vita ed è reale perché nasce dall’esperienza (ibidem).

Sono momenti, come spiega Chiara Zamboni, «nei quali semplicemente si è (…). E questo

perché ci stiamo affidando agli altri presenti» (2009, p. 96). Soprende che Adrián usi delle

parole simili per nominare la fiducia che lui sente nelle classi di “Germanes si Shakespeare”:

«la fiducia di poter esserci semplicemente».

Scintille che portano luce alle viscere. Piccole scariche di senso, simili ad una scoperta

(“Ecco!”), che hanno il sapore di quelle che María Zambrano chiama «le verità della vita»:

«quelle che, penetrando in essa, la fanno muovere, ordinatamente; quelle che l’accendono e

traggono fuori di sé, trascendendola e mettendola in tensione» (1996, p. 70).

«Legare, fluire, creare»212

Impegno è una delle parole che ritornano quando penso alla mediazione di Lluïsa. È un

termine con una lunga storia, spesso – come mi ha fatto notare Remei Arnaus – legata a

racconti di militanza politica, di appartenenza ad una determinata ideologia oppure di

adempimento di un dovere nei confronti di qualcosa o qualcuno. Il che è molto diverso da un

dovere nei propri confronti213

. In effetti, se si guarda la definizione del termine “impegno” in

un comune dizionario, il suo campo semantico nelle diverse accezioni della parola è cosparso

da termini quali «obbligo», «buona volontà», «posizione ideologica» (Devoto, Oli, 2004, p.

1324) e via dicendo. Tuttavia non sono questi i sensi che mi interessano, senza nulla togliere

alla loro validità, nè è questa la storia che vorrei raccontare. Piuttosto propongo di esplorare la

parola impegno e di pensarla da un luogo altro, prima alla luce delle parole di Marta Caramés

e poi a partire dalla esperienza di Lluïsa Cunillera e dalla mia propria all’interno della ricerca.

212

Woolf, 2009, p. 102. 213

Sull’idea dell’obbedirsi, nel senso di rispondere a ciò che in noi ci chiama, ho parlato nella prima parte di

questo capitolo, nella sezione intitolata Genealogia di un desiderio nonché nel capitolo III, nella parte dedicata

a Clarice Lispector.

208

Marta Caramés, insegnante e ricercatrice all’Universidad de Barcelona, nel raccontare il senso

del suo fare educativo e scientifico, scrive:

Stare all’università aveva per me la forma di un mestiere. Cercare di mantenere un filo di

senso tra le classi e la ricerca era una forma artigianale di essere nel lavoro perché,

nonostante le difficoltà, la finalità era lì e non altrove. Indagavo il mestiere di educatrice

sociale mentre facevo lezione negli studi di educazione sociale. La finalità aveva a che

vedere con il mio impegno educativo nelle aule dell’università (2010, p.203, trad. mia)214

.

E più avanti – ispirata da quanto Richard Sennett dice a proposito dell’artigianato:

«L’artigiano rappresenta la condizione specificamente umana dell’impegno (Sennett, 2009, p.

32, trad. mia)» –, continua: «L’artiginato sarebbe quindi l’impegno con il lavoro in sé stesso,

fare il lavoro bene per il semplice (anche se non così semplice) fatto di farlo bene» (2010, p.

203, trad. mia).

Di impegno, Lluïsa parla con frequenza nelle nostre conversazioni per riferirsi alla «relazione

educativa» (I, 2, 6.05.2010) oppure al «vincolo che si crea man mano» (I, 1, 15.10.09) tra lei e

le sue allieve e allievi. Vincolo in virtù del quale è possibile che accadano delle cose

impreviste, ad esempio, che un’allieva decida di rimanere in classe invece di andare in

biblioteca a studiare altre materie, nonostante le pressioni degli esami di fine corso.

La ragazza in questione si chiama Tatiana ed è una delle studentesse che frequenta “Germanes

di Shakespeare” nell’anno scolastico 2009-2010. Sia lei che le sue compagne – Marta e

Andrea – e il suo compagno di classe – Adrià – sono all’ultimo anno del liceo. A maggio,

verso la fine del corso, percepisco come l’ambiente nell’aula sia diventato più teso rispetto

alla mia prima visita di ottobre: i ragazzi sono stanchi, gli esami da fare sono tanti, la maturità

è alle porte e il tempo a disposizione è poco, sempre troppo poco. Siamo in un momento

cruciale di passaggio: la fine della scuola superiore, quindi gli addii a amici, insegnanti,

personale della scuola (la bidella, la coppia che gestisce il bar…), luoghi… e l’inizio della

tappa universitaria, con nuovi paessaggi che si schiudono davanti allo sguardo; eppure, non si

direbbe. Lo spazio per sentire (gioia, tristezza, paura…) è soffocato dalla frenesia del fare:

214

Vorrei sottolineare come anche l’attività di ricerca che Lluïsa Cunillera ha svolto e svolge, di cui la

pubblicazione Germanes de Shakespeare. La literatura des de la llibertat (2007a) ne è un esempio, nasce dalla

sua esperienza come maestra: «(…) le pubblicazioni che ho fatto, le innovazioni che ho fatto in [nel corso di]

letteratura, in [nel corso di] lingua, sono state sempre vincolate all’aula (…). Voglio dire che, quando ho fatto

cose di questo tipo, di ricerca, sono state sempre legate a ciò che estavo facendo in classe e sempre nascevano da

una domanda che io sentivo nella classe» (I, 2, 3.05.2010).

209

esami, esami, esami. In questo caos, “Germanes di Shakespeare” è «un soffio di aria fresca»,

come dice Adrià (I, 2, 07.05.2010).

Lluïsa non fa esami, non tanto perché sia contraria ma perché il processo che lei vuole seguire

insieme alle sue allieve e allievi è un altro:

La valutazione che propongo è in linea con il tipo di lavoro che facciamo. Se lavoriamo

attraverso la partecipazione, lo scambio, la creazione; se si tratta di mettersi in gioco ogni

giorno, per me non ha nessun senso un esame» (Cunillera, 2007a, allegato 1, p. 13, trad.

mia).

E continua in una delle nostre conversazioni:

non succede niente se si fa un esame ma tu stessa puoi vedere le conseguenze degli esami…,

cosa provocano in loro… Quindi per me, fare esami rompeva un po’ quel vincolo che io

cercavo di creare con questo modo altro di intendere l’apprendimento… La vita fa già troppi

esami (…), ma io non posso andare per la vita pensando di star facendo continuamente degli

esami, perché è schizofrenico (…). È arrivato un momento in cui abbiamo costruito

l’educazione come qualcosa pensato per passare degli esami ed e ciò che succede in questi

giorni, in questi giorni non si chiedono se stanno imparando o meno. (…) Una mia allieva mi

diceva: “Lluïsa a casa mi hanno insegnato ad amare il sapere, la cultura, a imparare perché

ho voglia di imparare, invece qui con l’obiettivo dell’esame non apprendo…”. Era molto

arrabbiata e mi stava dando un esempio di ciò che cerco di dirti: l’obiettivo è passare l’esame

non godere di ciò che apprendo, non è imparare da dentro… (I, 2, 04.05.2010).

È l’obbiettivo di passare l’esame (uno dei tanti in quei giorni) ciò che spinge Tatiana a

pensare di andare via ma, se poi ci ripensa e decide di rimanere a lezione, non è per un senso

di obbligatorietà ma perchè sente di doverlo fare in quanto è importante per sé. Così lo spiega

Lluïsa: «Il gesto di Tatiana è un gesto di dire “rimango perchè devo rimanere, perchè questo

forma parte di me, io formo parte di questo”» (I, 3, 24.02.2011). L’impegno, da cui è partita

questa mia riflessione, alla luce di questo episodio appare così più legato all’autorità che

all’autoritarismo.

Per cercare di spiegarmi, riporto un brano in cui Lluïsa racconta il senso che ha per lei la

presenza dei suoi studenti e studentesse in classe, prendendo come esempio la sua esperienza

con Tatiana:

210

Nel liceo abbiamo l’obbligo di fare l’appello, ogni giorno, ogni giorno. Io non lo faccio. Se

l’assenza è sporadica allora non ne tengo conto. Tuttavia, ad esempio, Tatiana manca spesso

e quindi le dicevo, “Tatiana ci manchi, siamo un gruppo di quattro e se manchi tu, manca un

pezzo importante”; io le dicevo così. “Inoltre, stiamo facendo delle cose che sono convinta

che a te interessano e tu te le stai perdendo. Pensa nei diari dei tuoi compagni, i testi…215

”.

Ed io glielo dicevo in questo modo, non glielo dicevo in chiave punitiva, di dire “non sei

venuta a lezione…” (…). Andare a lezione ha per me un peso nella valutazione perché stai

partecipando e stai apportando e stai facendo, non perché tu stia o non seduta sulla sedia.

Quando vai a lezione…, io credo che hai l’opportunità di apportare delle cose e di

mostrarti216

e di dire “io penso questo, io penso quello” (I, 3, 24.02.2011).

Credo che Marta, Andrea, Adrià e la stessa Tatiana vadano a lezione di “Germanes di

Shakesperare”, anche quando le condizioni sono avverse, perché sanno che qualcosa di

grande è in gioco. I legami che li vincolano a Lluïsa e al luogo in cui due volte alla settimana

conversano di letteratura scritta da donne passano attraverso fili che non sono dell’ordine

dell’imposizione bensí del riconoscimento. Ed è qui che la parola autorità entra in gioco.

L’autorità intesa appunto come riconoscimento dell’altra, dell’altro come mediazione valida

per essere al mondo e in virtù della quale ci affidiamo a quella persona. L’autorità che Lluïsa

mette in circolo nelle sue classi è l’autorità riconosciuta a sua madre e alle donne che l’hanno

accompagnata – donne vitali per lei in quanto datrici di parola, di ispirazione per cercare la

parola per dirsi –, tra cui le scrittrici. Autorità che passa attraverso di lei e che lei stessa

incarna dal momento in cui la riconosce in sé. Ed è questa autorità – «la qualità di senso»

(Rivera, 2007, p. 64) che Lluïsa apporta alla relazione con le sue allieve e allievi – che, se

sentita e riconosciuta da loro, fa sì che vadano a lezione, perché sanno che lì c’è una

opportunità, l’opportunità di dire io penso questo, io penso quello. Un dire e un pensare che è

condizione sine qua non perchè la relazione educativa sia possibile. Ed è qui che l’impegno

sta: nell’essere presenti, nel non sottrarsi, «nel mostrare chi si è, svelando ed esponendo sé

stessi» (Arendt, 2009, p. 136).

L’impegno appare così costellato da parole quali «autorità», «fiducia», «mostrarsi»,

«vincolo», che gli conferiscono un sapore e un tessitura relazionale e viva, una corporeità

215

In tutti i corsi in cui insegna, Lluïsa chiede alle sue allieve e allievi di tenere un diario settimanale. Inoltre, le

attività di scrittura creativa sono numerose, in particolare, in “Germanes di Shakespeare”. Nel brano citato,

quando Lluïsa parla di “testi”, si riferisce ai testi creativi scritti dagli studenti. 216

Il corsivo è mio.

211

necessaria (che sono volti, situazioni, bisogni e desideri concreti, di persone concrete) perché

l’impegno possa nascere. Altrimenti restiamo nella costrizione oppure nella solitudine del

“non ti impegni abbastanza”.

Scrivo nel diario di ricerca, a proposito dell’impegno:

Prendersi un impegno significa prendere la decisione di essere soggetto attivo nella propria

vita. Un impegno che è un vincolo; impegno che ha a che vedere con la cura di quel vincolo

(…). C’e un legame tra il riconoscimento e l’impegno con la nostra vita, “l’impegno

amoroso” (sono parole di Mariana217

) con ciò che fai. Sento che il riconoscere la ricchezza

ed essere grata di ciò che mi è stato dato come un dono, intendo il mio corpo di donna e la

genealogia femminile alla quale appartiene e appartengo, mi permette di accogliere di più il

mio desiderio, prendermi cura di esso. Mi aiuta a collocarmi al centro della mia vita, per

dirla ed immaginarla con le mie parole. Questo, in qualche modo, ha a che vedere anche con

il mio lavoro di ricerca, con quanto prendo sul serio il vincolo che ad esso mi lega. Tuttavia

c’è la difficolta di prendere sul serio quel impegno; riconoscere il dono e la ricchezza; non lo

si può fare da sole… Imparare a vedere… (DR, 03.03.2011).

Se è «impegno» la parola che mi ritorna in mente quando penso al fare educativo di Lluïsa è

proprio nel senso che la sua è una mediazione artigianale: attenta a ciò che accade in classe,

che si prende tempo, fatta di piccoli gesti e movimenti (dell’anima ma anche delle mani, degli

occhi, del corpo). Una mediazione impegnata in quanto legata ad una chiamata (la vocazione

di Lluïsa), vivente nel suo mostrarsi incarnata e attraversata di relazioni. Una mediazione che

ci racconta di un modo artistico di fare educazione: «capacità di tessere, intrecciare risorse,

desideri e bisogni (Piussi, 2006, p. 10)». Come la signora Ramsay in Al faro: «legare, fluire,

creare». Un impegno “amoroso” con la vita perché questa possa scorrere nell’aula.

Mi sento come una guida che accompagna e, in qualche modo, con questa autorità, l’autorità

che mi dà il fatto di essere quello che sono e di fare quello che faccio. Pensando ai testi che

ci sono lì [i testi che leggono in classe], alle donne che ci sono [le scrittrici] e con tutto ciò

che ho appreso da altre donne io sento questa autorità come una cosa naturale che fluisce

217

Mariana è una delle mie compagne del “Máster en investigación en didáctica, formación y evaluación

educativa” [“Master in ricerca in didattica, formazione e valutazione educativa”], organizzato dal Departamento

de Orientación Educativa della Facoltà di Pedagogia della Universidad de Barcelona, alcuni corsi del quale ho

frequentato durante il soggiorno di ricerca a Barcelona di ottobre 2011.

212

(…). Credo che dopo riescono [si riferisce ai suoi allievi] ad acquisire la fiducia per lasciarsi

andare e sanno che nel momento in cui sia necessario io prenderó l’iniziativa, se occorrerà»

(I, 2, 04.05.2010).

Il filo che annoda le cose.

«In mezzo a tutto, la letteratura» (Adrià, I, II, 07.05.2010)

Quando mi chiedo perché amo la letteratura,

mi viene spontaneo rispondere:

perché mi aiuta a vivere.

Tzvetan Todorov, La letteratura in pericolo

Siccome di pensare si tratta – è questo il desiderio di Lluïsa: avere la possibilità di «fare

pensiero in relazione» (Cunillera, 2010b, p.6, trad. mia) con le sue allieve e allievi –, allora

Lluïsa procede con le domande. Sono domande, come ho cercato di mostrare fino qui, che

aprono delle fessure lì dove il già detto e pensato si è solidificato occupando tutto; che aiutano

a sgomberare quel che di troppo c’è, per fare spazio alla novità che le nuove e i nuovi arrivati

portano con sé, ai loro desideri e bisogni, insieme a quelli di Lluïsa. Sono domande che non

hanno un’unica risposta e che spesso restano nell’aria per giorni, per settimane, addirittura per

tutto l’anno scolastico e oltre.

“Cosa è la letteratura?” “Magia, sogni, illusione; solidarietà, voluntariato, lavoro in gruppo,

relazione, unione, familiarità. Opportunità, apprendimento, studio, lavoro”, queste sono le

più, quelle di sempre…“Diversità culturale e linguistica; solitudine, razzismo, morte; mezzo

di comunicazione”, anche questa è tipica, “bellezza, infinitezza”… È che la letteratura non

ha fine, molto bene. “Benessere, tranquillità, pausa, sicurezza, guardare al passato, viaggio al

futuro, libertà, emozione, felicità, gioia, sentimenti” (…) (I, 1, 15.10.09).

Tutte le domande che Lluïsa pone alla classe all’inizio del corso sono contestualizzate

all’interno di diverse attività. Queste attività permettono a Lluïsa, attraverso modalità

differenti (ne abbiamo già visto un esempio nella Carta a la Lluïsa; ne vedremo un altro in

213

seguito), di introdurre le domande con la dovuta cura, in modo che esse siano percepite come

qualcosa di importante, che è come Lluïsa le sente (e che in verità lo sono: “come mi

presento?”, “Perché sono qui?”, “Come apprendo?”, “Cosa è per me la letteratura?”) e non

come domande pronte all’uso e consumo, di facile formulazione e pronta risposta, come a

volte accade: domande aperte e subito soffocate. A lezione da Lluïsa le domande, le sue e

quelle delle sue allieve e allievi, hanno uno spazio proprio; uno spazio propizio per mettere

radici, che andando in profondità, smuovono e commuovono. Di fatto non a caso Lluïsa

chiede di rispondere alle domande per iscritto – la scrittura come racconterò parlando di

“Germanes di Shakespeare”, è per Lluïsa uno degli spazi reali in cui è possibile creare

pensiero a partire da sé – e di condividere poi i testi, prima in piccoli gruppi e,

successivamente, con tutta la classe. Un modo di procedere che richiede tempo, sforzo e

impegno da parte di Lluïsa e delle sue allieve e allievi: «facciamo un lavoro più di riflessione,

più di.., non so, di pensare a partire da sé, che costa, costa moltissimo (I, 1, 13.10.09).

L’attività che fa da cornice alla domanda che adesso ci occupa, “Cosa è la letteratura?”

(domanda in cui è implicito il “per te”, dato che non è possibile per Lluïsa un pensiero neutro,

intendo, indipendente dal corpo che lo pensa), Lluïsa l’ha chiamata Paesaggi interiori. La

letteratura nella mia biografia personale. Un titolo per niente casuale se teniamo conto di

quanto sia centrale per Lluïsa l’intreccio tra letteratura e vita – centralità presente e

significante, come ho cercato di rendere manifesto nel capitolo III, anche nell’opera e nel

pensiero di Virginia Woolf, Clarice Lispector e Carmen Martín Gaite – e che quindi ci dà un

primo indizio sul significato che per Lluïsa ha la letteratura e sulle coordinate del luogo da

dove vuole iniziare a pensarla insieme alle sue studentesse e studenti.

«Tra le foto che vi presento, scegline una che rifletta la tua visione della letteratura. Pensa

individualmente esperienze che associ alla letteratura a partire da ciò che l’immagine ti

suggerisce»218

. Divertita, Lluïsa mi racconta che ogni anno è una grande fatica: dopo aver

spiegato l’attività, lei scende di corsa nell’ingresso della scuola e sparge per terra una serie di

immagini, che sono quelle tra cui i ragazzi dovranno scegliere. «Li lascio allucinati. I primi

giorni li lascio spiazzati» (I, 1, 15.10 2009). Il termine che usa Lluïsa in spagnolo è

descolocar, ovvero, spostare dal luogo in cui qualcosa o qualcuno si trova. Ed è proprio

218

Testo tratto dal progetto di “Innovazione in coeducazione (2006-2009)” elaborato da Lluïsa Cunillera, il cui

titolo è Fem il nostre llibre de literatura. Les dones sabem fer e fem saber [Facciamo il nostro libro di

letteratura. Le donne sanno fare e fanno sapere], p. 13. Come ho già accennato nella prima parte di questo

racconto, nel corso obbligatorio “Lingua e letteratura catalana” non c’è un manuale del corso, ma sono i ragazzi

e le ragazze con l’accompagnamento e il sostegno di Lluïsa a costruire il proprio.

214

quello avviene nelle sue studentesse e studenti, sia fisicamente che simbolicamente. I ragazzi

prima pensano da soli e poi in piccoli gruppi. Successivamente, quando arriva il momento di

condivere con tutta la classe ciò che si è pensato insieme, si sceglie un portavoce e Lluïsa

inizia a raccogliere le parole che ognuno e ognuna mette in gioco. Finita la lezione, Lluïsa si

porta il materiale a casa ed elabora delle mappe mentali, che serviranno al gruppo (lei

compresa) da guida, qualora smarrissero la strada. «Questa è la fotocopia [me la allunga] ma

lo faccio tutto a colori e risulta molto bello (sorride)» (I, 1, 15.10.2009). Il dettaglio del

sorridere non è gratuito: ci parla della cura e dell’amore che Lluïsa mette nel suo lavoro.

La letteratura a partire da sé

Con questo che cosa ho ottenuto? Parlare su che cosa è la letteratura ma a partire da sé, non

una definizione da dizionario, “la letteratura è l’arte di non so che cosa…”. A partire da sé, e

così sono venute fuori tantissime cose… (…) viene fuori anche la parola “amore”..., che la

letteratura è anche amore, vedi? (I, 1, 15.10.2009).

Amore («Ma sei pazza? Amore in classe…», chiedeva esterrefatta una collega a Lluïsa). Di

amore si parla in classe: ne parlano le sue allieve e qualche allievo; ne parla Lluïsa e ne

scrive: amore per relazione con le sue allieve e allievi, con le donne che l’hanno preceduta e/o

accompagnata (una genealogia letteraria ed educativa) (Cunillera, 2007a, Allegato 1, p.150);

amore verso la letteratura (Cunillera, 2007b), che a mio avviso, è amore verso il mondo.

Quando mi presento parlo già di amore, anche per la letteratura, per ciò che faccio, fare

l’insegnante di letteratura è una cosa che mi piace e sempre mi è piaciuta la letteratura

perché la letteratura mi permette di mettere in relazione ciò che leggo con la mia vita (…) (I,

1, 15.10.2009).

Mi viene allora spontaneo chiederle sulla sua visione della letteratura: la condivide con la

classe?

(…) faccio loro leggere gli obiettivi [si tratta degli obiettivi ufficiali del corso secondo il

Ministero di Educazione] e gli chiedo di sceglierne uno. Allora alcuni scrivono, ad esempio,

“fare un uso corretto della lingua”, bene, “fare conoscenza grammaticale”, ma arriva il terzo

215

obiettivo che dice “potenziare la capacità d’immaginazione e di astrazione per scoprire la

letteratura come via di rappresentazione e interpretazione del mondo e della vita, la quale

cosa comporta un arricchimento personale direttamente relazionato con la capacità di godere

del piacere estetico”. Certo è una definizione del Dipartimento di Educazione ma quando

dico loro “dai, leggeteli e sceglietene uno” e iniziano a dire, e quando uno dice il tre, oppure

non lo dicono, io dico “sapete qual è il mio? Il mio è il tre!” (I, 1, 15.10.2009).

Si tratta di una definizione ufficiale, ma Lluïsa la fa sua e la rende concreta nel suo modo di

vivere la relazione educativa e di mediare i testi che porta in classe. Testi innazitutto di donne

perché sono quelli che meglio l’aiutano a interpretare il mondo e la sua vita; a trovare le

parole per significare il suo essere donna e nominare (che è scoprire e quindi apprendere) il

suo desiderio di essere al mondo (I, 1, 20.10.2009). Sono i testi che più la fanno godere

perché fonte di quelle piccole scosse, come scintille, che scaturiscono dall’incontro con sé

stessa e con la realtà, esperienza che a volte, come dice Clarice Lispector, «si ottiene

attraverso l’incontro di un essere con un altro essere» (2007, p. 203, trad. mia): di una donna

che legge con un’altra donna che scrive.

(…) mi dicono cose, prima mi dicono cose importanti, a me stessa, cose veramente

importanti non perché lo siano accademicamente ma perché veramente importanti; cose che

mi fanno riflettere su me stessa, riflettere sulle mie relazioni con gli altri, che mi insegnano

veramente come vivono altre persone, come sono, come ridono o come piangono. Attraverso

le donne, la voce delle donne vedo un mondo che per me ha senso, che non è l’unico mondo

che mi avevano insegnato, ma che è anche il mondo e spesso si tratta di un mondo che mi era

passato inosservato oppure che nessuno mi aveva fatto notare, che spesso non è esistito

perché non è esistita la visione femminile del mondo, sì che è esistita ma non è esistita

ufficialmente (I, 2, 3.05.2010).

Nominare il mondo al femminile

Allora qual è per Lluïsa il senso dell’insegnamento delle letteratura scritta da donne?

Mostrare la libertà femminile nelle scrittrici che hanno scritto e che hanno detto e che hanno

spiegato il mondo, come l’hanno visto, come lo hanno voluto vedere e spiegare, che ci serve

per mostrare molti spazi di libertà di molte donne nel corso della storia (I, 1, 13.10.2009).

216

In particolare, parlando del criterio che l’ha guidata nella scelta dei testi che popolano la

proposta di “Germanes de Shakespeare”, dice:

(…) con le voci di queste donne volevo riflettere il mondo delle donne ma il mondo delle

donne è il mondo. Quindi, volevo trarre da questi testi alcuni, dato che ce ne sono tanti, che

fossero esattamente quello, vale a dire, che potessimo sentire realmente la voce dell’autrice

che sta parlando di sé e vedere anche come queste donne parlano del mondo e delle loro

relazioni con gli altri; parlano di conflitti, parlano di tutto (…). È come se fosse una sorta di

mosaico o di puzzle, che sarebbe il mondo (…). Ciò che ho cercato di fare è che venisse

fuori il mondo attraverso le voci delle donne, che escano loro, che esca la loro visione del

mondo e quindi che esca il mondo. (…) l’asse è quello che ti dicevo, questa significazione

del mondo attraverso la voce femminile (I, 2, 03.05.2010).

La proposta di “Germanes di Shakespeare” comprende principalmente scrittrici catalane del

XX secolo e si articola in nove unità didattiche, ognuna delle quali affronta una tematica

diversa: dal racconto della memoria all’esperienza del viaggio; dalla disparità tra donne e le

diverse forme di vivere il corpo femminile (maternità, sessualità) agli spazi di libertà tra

donne nel corso della storia (genealogia femminile); dal patriarcato alle relazioni tra i due

sessi, la violenza contro le donne e la politica del simbolico. Poiché, come segnala Lluïsa,

«ogni opera creativa ha un precedente nella tradizione, è imprescindibile la relazione e

comparazione con donne di altre epoche» (Cunillera, 2005, p. 16, trad. mia). Perciò, insieme

ai testi delle scrittrici catalane, ci sono riferimenti a donne molto diverse per provenienza e

caratteristiche, per esempio, Saffo di Lesbo, Hildegarda di Bingen, Isabel di Villena. Le

scrittrici e i relativi testi scelti da Lluïsa, nonché alcune autrici non catalane ad esse vincolate,

sono, secondo l’ordine delle unità e citando solo le opere più significative219

:

Unità 1. La memòria è la nostra ànima [La memoria è la nostra anima]

Carme Riera (Palma de Mallorca, 1948): Dins el darrer blau (1994), Temps d’una espera

(1999); Maria Àngels Anglada (Vic, 1930 – Figueres, 1999): Les Closes (1979). Il filo

conduttore è la memoria attraverso uno sguardo femminile sul passato, che vuole recuperare

storie che restano ai margini del discorso ufficiale.

219

Per ognuna delle opere scelte, Lluisa propone dei frammenti. Per quanto riguarda la lingua dei testi delle

scrittrici non catalane, Lluisa si rifa alla traduzione in catalano che ha disposizione. Se non esiste, traduce lei

stessa oppure li lascia in castigliano.

217

Unità 2. L’atracció del viatge [L’attrazione del viaggio]

Aurora Bertrana (Girona, 1892 – Berga, 1974): El Marroc sensual i fanàtic (1936), Entre dos

silencis (1958). Il coraggio e la passione per il viaggio sono gli aspetti che caratterizzano la

scrittice catalana e costituiscono la traccia che Lluisa propone di seguire anche in Mary

Wollstonecraft (1759-1797): Cartas escritas durante una corta estancia en Suecia, Noruega y

Dinamarca (1976) ed Edith Wharton (1862-1937), Viaje por Francia en cuatro ruedas

(1908), entrambe tra le pioniere dell’esplorazione femminile del mondo.

Unità 3. Viure en un cos de donna [Vivere in un corpo di donna]

Mercè Rodoreda (Barcelona, 1908 – Girona, 1983): Aloma (1938), La plaça del Diamant

(1962), El carrer de les Camèlies (1966), Mirall trencat (1974); Maria Teresa Vernet

(Barcelona, 1907-1974): Les algues roges (1934). La ricerca di una forma originale di essere

attraverso l’innovazione del linguaggio accomuna l’opera di queste scrittrici, che Lluïsa

confronta con Felicitat (1921) di Katherine Mansfield (1988-1923) e Mrs. Dalloway (1925)

di Virginia Woolf (1882-1941).

Unità 4. La donna transvestida [La donna travestita]

Caterina Albert i Paradís (La Escala 1869 – 1966): Solitud (1905), La infanticida (1967);

Charlotte Perkins Gilman (1860-1935): El paper de paret groc (1892), entrambe donne che,

senza rinunciare alla propria esperienza sessuata, decisero di mascherarsi da uomini per

trovare uno spazio di libertà.

Unità 5. L’aventura de ser dona: esposa, mare, escriptora [L’avventura di essere donna:

moglie, madre, scrittrice]

Clementina Arderiu (Barcelona, 1889-1976): Cançons i elegies (1913-1916), L’alta llibertat

(1916-1920), Cant i paraules (1936); Anna Murià (Barcelona, 1904 – Terrassa, 2002):

Crònica de la vida d’Agustí Bartra (1967), L’obra de Bartra (1975), Aquest serà el principi

(1986); Silvia Plath (1932-1963): Tres mujeres (1962), La campana de vidre (1963), Cartas a

mi madre (1975). Tutte loro sono donne, madri e scrittrici; ognuna diversa ma legate dal

desiderio, non esente di conflitti e sofferenze, di mantenere insieme la cura della casa e la

famiglia con la propria professione.

Unità 6. Tres voltes rebel [Tre volte ribelle]

Maria-Mercè Marçal (Barcelona 1952 – 1998): Cau de llunes (1977), Bruixa de dol (1979),

Sal oberta (1982), La germana, l’estrangera (1985), Desglaç (1989), Raó del cos (2000);

Rosa Leveroni (Barcelona 1910 – 1985): Epigrames i cançons (1938), Presència i record

218

(1952). Due poetesse che hanno fatto del linguaggio poetico espressione del proprio corpo

femminile, che Lluisa mette in relazione dialogica con i poemi di Saffo di Lesbos.

Unità 7. L’hora violeta [L’ora viola]

Montserrat Roig (Barcelona 1946 – 1991): Els catalans als camps nazis (1977), L’hora

violeta (1980), El cant de la joventut (1989), La veu melodiosa (1987); Dolors Monserdà

(Barcelona 1845 – 1919): La fabricanta (1904), Sense timó (1908), Maria Glòria (1917);

Isabel-Clara Simó (Alcoi, 1943), Dones (1997), Els ulls de Clídice (1990), La salvatge

(1993); Carmen Martín Gaite (Salamanca, 1925 – Madrid, 2000): Usos amorosos de la

posguerra española (1981), Desde la ventana (1987), Caperucita en Manhattan (1990).

Si tratta di scrittrici, come spiega Lluïsa, che formano parte di un’epoca e di una generazione

che visse l’esplosione del femminismo (anche se Dolors Monserdà appartiene a una

generazione precedente, il suo pensiero anticipa molte delle idee che fioriranno anni dopo).

Tutte loro, ognuna a modo suo, s’impegnarono nella cultura e nel pensiero femminile, una

decisione spesso presa con difficoltà e contraddizioni ma che seppero trasmettere con la loro

scrittura.

Unità 8. Feliçment, jo sóc una dona [Felicemente, io sono una donna]

Maria Aurèlia Capmany (Barcelona, 1918 – 1991): Feliçment, jo sóc una dona (1969), Lo

color més blau (1982), Aquelles dames d’altres temps (1990), La dona a Catalunya (1966);

Frederica Montseny (Madrid, 1905 – Tolosa, 1994). Furono due donne che parteciparono in

modo attivo alla vita politica e sociale del loro tempo, combattendo per il diritto al voto delle

donne e affrontando l’esilio dopo la Guerra Civile spagnola.

Unità 9. Espais di llibertat femenina [Spazi di libertà femminile]

Con questa unità Lluïsa ricorda che il patriarcato nel corso della storia non ha occupato la

realtà intera, mettendo in luce luoghi in cui le donne hanno creato e vissuto in libertà. Spazi di

grandezza femminile in cui si ritrovano Isabel di Villena, Teresa di Avila, Hildegarda di

Bingen, Clara Schumann, Fanny Mendelsonn, Christine de Pizan, Charlotte Perkins Gilmann

e moltre altre donne, la maggior parte anonime.

Ma. Milagros Rivera Garretas, nell’introduzione al suo libro Nombrar el mundo en femenino,

scrive:

Nominare il mondo al femminile si riferisce all’opera di riconoscimento e di creazione di

significato delle relazioni sociali fatta nel corso del tempo dalle donne. Quest’opera di

219

creazione di significato, di riconoscimento del senso del mondo in cui viviamo viene

chiamata oggi fare ordine simbolico. Non si tratta tuttavia di un progetto del XX secolo.

Credo che in tutte le epoche della storia vi siano state donne che hanno vissuto e hanno detto

il mondo al femminile a partire dalla loro esperienza personale (2003, p. 11, trad. mia).

Si tratta di donne, del passato e del presente, alcune più conosciute di altre, una buona parte

anonime, che hanno messo se stesse al centro del proprio pensiero, del loro modo di dire ciò

che desiderano e ciò di cui hanno bisogno; del loro modo di vedere il mondo, cosa conta per

loro e cosa non le interessa. Donne che mostrano un modo altro e possibile di stare al mondo:

a partire da sé e in relazione, non solo con gli uomini (non è lì la scommessa) ma anche – è

ancora Milagros Rivera a parlare – «con le donne e le bambine, gli uomini, i bambini,

l’ecosistema che mi ospita: ovvero, con il mondo» (ivi, p. 13, trad. mia). Donne il cui

coraggio e la cui forza è fonte di ispirazione per altre e anche per altri, se lo desiderano; che

insegnano con l’esempio della loro vita e parola ad accogliere il proprio desiderio di

esistenza, in libertà, gli uni insieme agli altri, mai senza.

Molte di queste donne, quella sopra citate, Lluïsa le invita a interloquire con lei e le sue

allieve e allievi perché sa – ne ha fatto esperienza –, che la loro parola apre spazi e crea silenzi

fecondi; tocca e fa vibrare nel profondo, se ci si lascia andare, commuovere, termine che nel

contesto di “Germanes di Shakespeare” significa, «muoversi in relazione» (Lluïsa, D,

09.10.2007).

4.2.3. Abracadabra: si apre la diga, si apre…220

Che cosa succede quando Lluïsa porta il suo desiderio in classe, desiderio che si incarna nei

testi delle scrittrici che la toccano, nel suo modo di vivere e pensare l’educazione e anche

nella cura e nell’ornamento del suo corpo221

, nell’attenzione alla disposizione dello spazio222

?

220 La frase è di una mia cara amica, Teresa Mateo, scritta in risposta a una mia poesia che le avevo inviato

perché la leggesse e mi desse un parere. La poesia, “Catchflyer”, è la prima di una raccolta che ho intitolato,

Andrò via nuda, in attesa di pubblicazione. Le parole di Teresa sono per me il riconoscimento che qualcosa è

accaduto (l’avvento della parola, della mia parola), riconoscimento che è anche uno scongiuro affinchè l’energia

liberata non si fermi, come il «va’ avanti» di Bryer alla sua amica, la poetessa Hilda Doolittle (si veda nota 196).

Nelle lezioni di Lluïsa ci sono dei «momenti magici», come lei li chiama, in cui «abracadabra», il pensiero e la

parola propri vengono alla luce; nei quali, qualcosa si apre. Ho scelto le parole di Teresa per dare nome alla terza

parte del racconto su “Germanes di Shakespeare” perché vorrei parlare proprio di questo: dei momenti magici

che nascono dalla pratica del pensare in relazione in classe; di ciò che accade quando la diga si apre. 221 A questo proposito, scrive Lluïsa: «Chiara Zamboni, quando parla del pensare in presenza, dice che le donne

mettono in gioco nel pensare assieme ad altri, non soltanto la parola, ma anche il corpo, il colore del vestito, del

foulard e tutto ciò che quel giorno è vitale per loro. Per questo motivo trovo così suggestivo il libro Il profumo

220

Che cosa succede quando fa circolare pensiero libero femminile e invita le sue studentesse e i

suoi studenti a fare altrettanto, ovvero, a mettere in circolo il proprio; tuttavia non un pensiero

qualunque, ma la cosa che domanda di essere pensata da loro (Muraro, 2012a, p. 147)? E

ancora: che cosa succede quando Lluïsa si fa traiettoria, così come ci insegna Clarice

Lispector, e apre lo spazio necessario per accogliere la domanda che ogni ragazza e ogni

ragazzo porta con sè, domanda profonda, piena di senso che – come dice Milagros Montoya –

«è l’espressione stessa della libertà» (2009, p. 109, trad. mia), in quanto interroga l’esistente a

partire da sè, aprendo a qualcosa di nuovo. In sintesi: che cosa succede quando Lluïsa porta il

suo corpo di donna in tutto ciò che è?

Scrive Lluïsa in proposito:

Quando sono in classe in presenza e lascio lo spazio perché loro lo siano, questa presenza

reciproca produce benessere, felicità, perché ognuno ed ognuna mette il suo corpo in tutto

ciò che è, si sente ascoltato e tesse man mano insieme esperienza e sapere (…). Mettere il

corpo in tutto ciò che è rende possibile la parola sincera e l’ascolto reciproco. Ascoltarsi

nell’aula è qualcosa di poco frequente, almeno non è ciò che prevede il sistema accademico.

Parla l’insegnante, parla il libro e gli allievi e le allieve ascoltano e ripetono. Lasciare spazio

alla parola, ascoltare le parole delle altre permette di tessere man mano pensiero in relazione,

che è un pensiero creativo e trasformativo (Cunillera, 2010, p. 5, trad. mia).

Sulla scia delle parole di Lluïsa, vorrei parlare del benessere e della felicità che nel corso di

“Germanes di Shakespeare” produce il pensare assieme ad altri e altre (tra cui le scrittrici) e

delle trasformazioni che questa pratica provoca negli allievi e le allieve, e anche in Lluïsa.

della maestra, che mostra quel desiderio di abbellirsi, di profumarsi per andare a lezione, perché ciò che

andiamo a fare e le persone con le quali ci metteremo in relazione lo meritano. Così è come io lo sento e per me

è un modo di stare con il mio corpo di donna; vestirmi e ornarmi accompagna la mia presenza nell’aula»

(Cunillera, 2010b, p.9, trad. mia). Sulla questione del senso dell’ornamento del corpo femminile e del suo

collegamento con la visibilizzazione dell’opera materna (lavoro che, come abbiamo visto, Lluïsa svolge in

classe), si veda Rivera (2003), di cui riporto il seguente brano: « (…) credo che nel XX secolo l’ornamento del

corpo femminile formi parte dell’ordine materno, è una forma di amare l’opera della madre, è un linguaggio che

vincola (o può vincolare) le donne con l’origine femminile della vita umana, con la creazione di vita dalla carne,

non dal niente (…)» (p. 133, trad. mia). 222

Dice Marta, una delle studentesse che frequenta “Germanes di Shakespeare”, nell’anno 2009/2010: «in classe

eravamo seduti in cerchio e ciò ci dava più fiducia per parlare liberamente, avere il contatto più diretto con

Lluïsa; potevi guardarla più da vicino e vedere che non è soltanto il ruolo di insegnante ma anche una persona

come te e le puoi raccontare delle cose … (I, 2, 07.05.2010). Sulla disposizione dei luoghi per il pensare

assieme, si veda Zamboni (2009, p. 137-155).

221

L’ordine delle piccole cose

Le trasformazioni a cui vorrei accennare non sono, come Lluïsa ci tiene a precisare quando le

chiedo di raccontarmi di Adrià, Tatiana, Andrea e Marta223

, immediate nè sempre evidenti:

Non funziona a livello di risultati come nel caso di un’azienda e neppure questi sono

immediati. Questo io credo che succede in generale nell’educazione, che i risultati non

sempre li vedi, spesso non li vediamo (…). Per noi [si riferisce agli insegnanti delle

superiori], a volte è molto effimero, non riesci a vedere una vera e propria evoluzione, vedo

delle piccole cose (…)» (I, 2, 04.05.2010).

Siamo quindi nell’ordine delle piccole cose ma non per questo meno importanti. Un ordine

che richiede attenzione per vedere e cura per accogliere, e dove le trasformazioni sono degli

inizi, delle aperture: «modificazioni improvvise dell’essere» (Zamboni, 2001, p. 2), che

scattano come scintille; parole che soprendono per la loro verità; silenzi e risate; gesti

impercettibili all’inizio, più o meno evidenti col passare del tempo; e anche, per esempio,

decidere di restare in classe per il piacere di pensare insieme (anche senza dire una parola).

Piccole cose che assumono forme diverse e accadono in tempi diversi, spesso non come, nè

quando le prevediamo, proprio perché impreviste. A questo proposito dice Milagros Montoya

(2006, p. 108, trad. mia): «così è il tempo dell’educazione, non si vedono i risultati quando li

si aspettano, ma quando arrivano, ma non bisogna smettere di aspettare nè di avere fiducia

perché la vita ti sorprende gratamente quando appaiono quei risultati, anche se è per altre vie,

diverse da quelle tracciate»

L’ordine delle piccole cose nella gestione

Prima di procedere con il racconto, vorrei riprendere una domanda, il cui tentativo di risposta

può darci un altro indizio, da una prospettiva diversa come vedremo, sul modo di procedere di

Lluïsa è quindi sulla qualità degli effetti della sua mediazione, che come dicevo, sono

dell’ordine delle piccole cose. La domanda è questa: che cosa succede quando Lluïsa porta il

suo corpo di donna in tutto ciò che è, in particolare, nelle attività di gestione amministrativa

che svolge all’interno del liceo?

223

Sono le studentesse e lo studente di Lluïsa che hanno frequentato il corso «Germanes di Shakespeare»

nell’anno scolastico 2009-2010.

222

Lluïsa oltre a insegnare è la capa (è proprio questo il termine ufficiale) del Dipartimento di

Lingua e letteratura catalane; ha quindi a suo carico la pianificazione e gestione di tutte le

attività del dipartimento nonché la supervisione delle insegnanti che vi lavorano.

L’ordine delle piccole ha a che vedere con un procedere per piccoli passi, un «ir haciendo»

[«fare man mano»] (I, 2, 03.05.2010) – come dice Choni, insegnante di religione e compagna

di Lluïsa nelle attività di coeducazione che entrambe organizzano nel liceo224

– che risponde

non tanto ad un pianificare preventivo (con tanto di fasi e obiettivi), ma piuttosto ad uno stare

in ascolto di ciò che le situazioni e le persone, man mano necessitano. In questo senso, credo

che quest’ordine sia presente oltre che nel modo in cui Lluïsa educa, anche nel modo in cui

svolge il suo incarico di capa di dipartimento. Cerco di spiegarmi meglio, affidandomi alle

parole di Marta, una delle sue colleghe (I, 2, 04.05.2010):

(…) Nel dipartimento non c’è concorrenza per vedere chi fa di più e questo è grazie a lei

come capa (…) Ognuna di noi fa, ma nello stesso tempo condividiamo, e questo mi piace

moltissimo. C’è molta libertà, ma nello stesso tempo condividiamo (…) Facciamo man

mano, non è un “faremo questo, faremo l’altro”, magari non abbiamo pianificato niente e poi

tutt’ad un tratto… (…) non perdiamo il tempo facendo verbali, riunioni ufficiali, ecc. E

nonostante ciò il lavoro si fa, sai?, e gli allievi lo vedono… Perché andiamo molto alla

giornata… Parliamo molto, condividiamo molto… Esiste questa intercomunicazione senza

fare grandi riunioni, nè grandi ceremonie però Lluïsa raccoglie tutto, alla fine del corso ha

tutto raccolto (…) Lluïsa ha un quaderno dove segna tutto (…), poi ci troviamo durante l’ora

della ricreazione, oppure qui [si riferisce allo studio che condividono, il dipartimento], in

modo più ufficiale; il resto è attraverso “guarda, ho fatto questo”, oppure ci incontriamo nei

corridoi225

e le dico, “Lluïsa, ho pensato di fare questo con i piccoli, lo attacco nel

dipartimento, va bene?”, “perfetto!”.

224

Lluïsa è una outsider – una delle figlie della Società delle Estranee, come direbbe Virginia Woolf (2010) – ,

rispetto al funzionamento e pensiero accademici e tuttavia è ben presente nella quotidianità della vita del liceo. 225

Nei giorni duranti i quali ho accompagnato Lluïsa nel suo lavoro, ho sperimentato di prima mano la fecondità

dei corridoi come luoghi di collegamenti (simili alle stazioni della metropolitana) e di incontri: tra Lluïsa e

allieve e allievi di altri anni, ma anche dell’anno in corso, tra Lluïsa e altre colleghe e colleghi; di scambio: libri,

bigliettini, parole, sguardi, saluti; di pensiero: tra Lluïsa e le sue colleghe, come diceva Marta; tra Lluïsa e me. A

questo proposito, sono state molto significative alcune brevi conversazioni che abbiamo mantenuto Lluïsa e io

prima o dopo una classe, camminando dall’aula al dipartimento e viceversa oppure dal dipartimento alla mensa o

all’ingresso, se la giornata era finita. Momenti di passaggio, limitati nel tempo, in cui io stranamente mi sentivo

più libera di dire, magari perchè appena uscita di classe, con tutto ciò che (ci) era accaduto fresco sulla pelle;

magari perchè non era il tempo “ufficiale” della ricerca, ma un tempo al margine in cui non c’era niente da

osservare, da annotare, da chiedere. Paradossalmente, alcuni di questi momenti sono stati preziosi per me e per

l’andamento delle ricerca perché, in certi casi, mi hanno fatto vedere delle fessure, delle strade nuove da

percorrere, aldilà di quanto avevo pensato e/o creduto; in altri, mi hanno aiutato a dare corpo a delle intuizioni. A

questo proposito, scrivo nel diario di ricerca (4.05.2010): «Cosa succede quando spengo il registratore? Che la

223

E ancora:

È un modo di lavorare molto fluido, senza carte oppure “adesso dobbiamo fare la

programmazione”…, no, facciamo man mano. Credo sia un modo perfetto per lavorare e

crea un buon ambiente, si sente, sai? Questo è molto importante. (…) Lluïsa non mi ha mai

chiesto, “come va con il programma?”, mai, e potrebbe chiedermelo come capa… Tuttavia

non me l’ha mai chiesto, sono io a dirle, “Lluïsa, non abbiamo tempo”, e lei: “Va bene,

quindi dove arrivate”. E la ringrazio moltissimo per questo, perché il lavoro è già abbastanza

duro e se addirittura c’è qualcuno che ti rende la vita impossibile...

Infine:

(…) Se entri nel dipartimento trovi delle carte dapperttutto, sembra un caos, ma tutto è lì, c’è

un ordine.

I risultati arrivano; le cose si fanno; si aprono degli spazi di pensiero, di relazione e di co-

creazione. È un altro modo di fare, diverso dall’ufficiale, eppure funziona, anzi. Funziona

perché non è soltanto la volontà a far accadere le cose, ma anche e soprattutto il desiderio che

accadano e una certa passività attenta, che è stare in ascolto profondo e accogliere ciò che

viene, così com’è, e darsi e dare il tempo necessario. Ha anche a che vedere con il

«godimento della presenza» (Zamboni, 2009, p. 57), quell’amore per la relazione, proprio

delle donne, ma senza determinismi, che è alla radice del loro essere al mondo.

Continuo a credere nella forza di volontà, mi piace pormi degli obiettivi e nuove sfide e

affrontarle con il mio sforzo e quel poco di fortuna che sempre aiuta. Tuttavia ho imparato

che non sempre si può riuscire ad avere ciò che si vuole, che non sempre abbiamo le idee

così chiare, nè sappiamo così bene ciò che vogliamo, perché ciò che vogliamo oggi non è

detto che lo vorremo domani. È più importante ciò che sto imparando giorno per giorno in

me stessa e sto imparando a tenerne conto nella relazione con le persone che mi circondano.

Questo io lo chiamo apertura o accoglienza – lo chiamano anche empatia – e mi riesce molto

vita continua. L’osservazione in aula e le interviste sono spazi delimitati che decido e concordo con Lluïsa. Dopo

ci sono altri spazi: i corridoi, la mensa, l’uscita e l’ingresso al liceo. Tutti quei momenti sono opportunità di

scambio e di osservazione. La vita è un continuum e la vita nel liceo si svolge in diversi momenti e in diversi

spazi. Ovunque».

224

difficile dire ciò che devono o dovrebbero fare gli altri, quando spesso non so del tutto che

cosa devo o dovrei farei io stessa (Lluïsa, D, 8.02.2010, trad. mia).

La pratica del pensare assieme

Insomma, non rifacciamo l’errore che fu della

filosofia, di cominciare con l’«io penso» e

ricordiamoci com’è andata, come va, agli inizi: che il

pensiero comincia con l’apertura di quella dimensione

che si chiama ascolto e con una parte più o meno

grande di attesa. Ascoltati e ascoltanti, aspettati e

aspettanti, così siamo venuti al mondo e abbiamo

imparato a parlare, e così viene il pensiero.

Luisa Muraro, Il Dio delle donne

Le lezioni di “Germanes di Shakespeare” sono delle conversazioni, spazi di pensiero in

presenza in cui partecipano Lluïsa, le sue allieve e allievi e le scrittrici che quel giorno sono

state invitate. La letteratura è soltanto il punto di partenza, perchè in “Germanes” ci sta il

mondo. Così lo spiega Lluïsa:

La grandezza di Germanes è proprio quello, che Germanes non è un corso, ma una tertùlia,

dove lavoriamo con i testi letterari, ma esce il cinema, esce la pittura, esce la musica, esce la

vita personale, escono i sogni… Questa è la sua grandezza… (I, 2, 30.04.2010).

La parola che usa Lluïsa è tertulia, termine che l’Hoepli traduce come “incontro”. Io

propongo il termine “conversazione”, perché rende di più il senso della tertùlia, in quanto

pratica in cui un gruppo di persone decidono di incontrarsi liberamente (non c’è costrizione, e

questo è un elemento centrale di cui ho già accennato quando ho parlato dell’idea di impegno)

con un desiderio condiviso: pensare assieme attorno ad un tema. Ancor di più: un incontrarsi

per amore della relazione e del pensiero in presenza, come nelle serate del gruppo di

Bloomsbury, organizzate da Virginia Woolf e da sua sorella Vanessa. “Germanes de

225

Shakespeare” non è Bloomsbury, ma l’energia che scorre in profondità è la stessa: un

desiderio grande di libertà:

Quello che io voglio, ossia, il mio desiderio è che possano avere questo senso di libertà,

mettersi in relazione con la letteratura a partire dalla libertà, che a me è quello che mi ha

permesso e mi permette di sentire tante cose e che mi apre tanto (…). Che possano avere

questa libertà, che possano esprimere quello che hanno nel profondo, perché c’è l’hanno, ma

il sistema ha detto loro che non ci sta. Quindi io voglio dire loro che ci sta, “si che ci sta il

tuo desiderio, ci sta la tua relazione, il vincolo che tu stabilisci con un testo letterario o con

l’arte in generale e quindi, siccome dovrete andare via e io non potrò più ripetervelo…”, non

so, per me è importante che quell’idea resti dentro loro (…) (Lluïsa, I, 2, 04.05.2010).

Quest’idea di cui ci parla Lluïsa, ovvero la libertà di vivere e di dire la letteratura a partire da

sé, molte delle sue allieve e allievi l’hanno già sperimentata nelle sue classi del corso

obbligatorio ed è il motivo per cui alcuni di loro decidono di frequentare “Germanes di

Shakespeare”, di continuare il viaggio intrapreso con lei. Mi racconta Marta:

Ho scelto questo corso personalmente per il fatto che siamo in pochi e anche per Lluïsa,

perché ho fiducia in lei e so che posso aprirmi di più in questa classe, voglio dire, aprirmi di

più da un punto di vista personale, perché in altri corsi siamo in molti di più e non c’è questa

fiducia nè questa relazione che c’è con Lluïsa (I, 2, 16.10.2009).

E Adrià:

Sapevo che sarebbe stato un gruppo ridotto e quindi penso che siano delle classi molto

comode, che ti permettono di stabilire una relazione con le tue compagne e con la tua

insegnante, che non si stabilisce nei corsi normali, perché è una relazione più vicina e perché

Lluïsa ci rende le cose facili, ossia, lei riesce a mediare la classe in modo tale che la

relazione di prossimità sia molto intensa (…). Quindi ci sentiamo molto a nostro agio e

molto liberi di dire ciò che vogliamo, di partecipare quando vogliamo e di non partecipare se

non ci sentiamo comodi, perché magari non abbiamo voglia (…) (I, 2, 16.10.2009).

Nelle parole di Marta e Adrià percepisco un stretto collegamento tra la libertà di dire – che

come abbiamo visto implica un esporsi e, quindi, l’assunzione di un rischio – e la fiducia.

226

Perché, come scrive Clarice Lispector in una delle sue cronache giornalistiche, Giocare a

pensare (2007, p. 62, trad. mia):

soltanto ci azzardiamo a pensare davanti a qualcuno, quando la fiducia è così grande che

non ci sentiamo scomodi nell’usare, se necessario, la parola altro. Inoltre si esige molto da

chi ci vede pensare: che abbia un cuore grande, amore, affetto e l’esperienza di essersi a

propria volta dato a pensare.

«Come un campo aperto» (I, I, 16.10.2009)

Il pensiero in relazione necessita di terra fertile e radici forti per poter nascere, scorrere

liberamente. Necessità di impegno, quello che Lluïsa chiama «vincolo affetivo» (I, 2,

06.05.2010), che non è altro che la relazione educativa, fatta di fiducia e amore; necessita di

valore per mostrarsi e di una certa passività attiva per accogliere ciò che l’altra o l’altro ha da

dire. E anche di silenzio, di tanto silenzio.

(…) necessita di uno spazio grande dove ci sta quasi tutto, dove ognuno può parlare a partire

da sé, dove si improvvisa per seguire il filo di ciò che stanno dicendo le altre e gli altri e

dove si mette in gioco la fiducia per capire ciò che veramente si vuole dire, anche se non

sempre si trovano le parole o ci sia ritrova un apparente disordine. Dove sorge il conflitto che

dà l’opportunità di cercare e trovare mediazioni di relazione. Ognuna e ognuno mette

qualcosa di suo, sappiamo come inizia il dialogo ma non come andrà ri-creandosi, vale a

dire, andrà creandosi, andrà nascendo per tornare a crearsi, per tornare a nascere. La maestra

si rende disponibile e in ascolto; rimanere aperta all’inaudito, a quel pensiero originale, dà

come regalo ciò che Ana Mañeru chiama, «il miracolo dell’imprevisto» (Cunillera, 2010, p.

6, trad. mia).

Proprio perché ciò che accade nel pensare in relazione è imprevedibile, quando chiedo a

Lluïsa come prepara le lezioni di “Germanes di Shakespeare”, mi risponde che la parte

precedente alla lezione è lei stessa: l’esperienza di lettura dei testi che propone in classe, il

suo vissuto di essi e di altri – «i testi sono in me, formano parte di me» (I, 2, 04.05.2010) – ;

ciò che come donna e maestra ha imparato lungo la propria vita oppure che sapeva già; quello

che la relazione con le sue allieve e allievi suscita in lei.

227

Per quanto riguarda le unità che ho elaborato, all’inizio, se abbiamo deciso di vedere un testo

per la prossima lezione allora rileggo il testo, vedo cosa posso estrarre, cerco di recuperare

da me ciò che in altri momenti mi ha suggerito il testo. Tuttavia il mio ingresso nell’aula è

più: “come l’avete vissuto, cosa avete capito, cosa vi ha suggerito”, quindi automaticamente

mi colloca in un luogo in cui la parte che precede la lezione non ha troppo senso per me (…)

mi serve di più entrare lì [in classe] e vedere cosa succede: chi parla, come parla il testo, cosa

si propone, verso dove vanno le cose e allora io entro in quello. Per esempio, gli interventi

che ho fatto oggi li ho creati in quel momento, voglio dire, è proprio questo ciò che di

magico ha questo corso: ti trovi in una realtà innazi alla quale rimani in silenzio in alcuni

momenti per lasciare che loro dicano; in altri ho voglia di partecipare come uno di loro, dico

ciò che mi suggerisce e mi fa pensare ma sto creando in quel momento oppure sto

ricuperando da dentro qualcosa (…) per me è più arrivare aperta alla classe, vedere cosa

succede e allora entrare in gioco in ciò che succede e dopo pensare, essere lì attenta e

disponibile per vedere cosa viene fuori (I, 2, 30.04.2010).

Questo modo di Lluïsa di porsi in classe, di mettersi in relazione con l’insegnamento della

letteratura e con le sue allieve e allievi, apre degli spazi di libertà reali, che loro percepiscono

come possibili, appropriandosene. Faccio un esempio. Verso metà del corso Adrià, Tatiana,

Marta e Andrea propongono Lluïsa di fare l’ultima unità didattica del corso: sarà un’unità

propria, costruita con i testi che hanno sempre voluto studiare ma che fino ad allora non

hanno trovato spazio nella classe. Sono testi che hanno già letto o che vogliono leggere, e che

avrebbero piacere di condividere per pensarli insieme. Saranno loro a scegliere i frammenti da

studiare, a formulare le domande e a proporre le attività creative, seguendo lo schema delle

unità di “Germanes”, ma lasciandosi la libertà di creare qualcosa di nuovo. Tuttavia non sono

testi di donne, neppure hanno una tematica comune, almeno apparentemente; a legarli è il filo

del desiderio. E Lluïsa accetta, dice di sì226

, accoglie il loro desiderio e si mette a

disposizione, per accompagnarli durante quelle lezioni che, più che mai, saranno una scoperta.

Quando i temi sono così aperti e liberi come in questi giorni io entro in classe e chiedo

“avete portato dei testi?”, perché non so che testi hanno intenzione di portare. Oggi Adrià ha

portato quel testo di Alice, quindi io non potevo avere qualcosa di pronto ma devo vedere

cosa esce lì [a lezione] e come ci mettiamo in relazione con ciò (Lluïsa, I, 2, 30.04.2010).

226 Mi viene in mente il “si” della signora Ramsay, che dà inizio a Al faro (Woolf, 2009): principio fondativo che

dà inizio alla parola; il sì materno che dà inizio alla vita come il sì di Lluïsa quando accoglie il desiderio delle

sue allieve e allievi.

228

Così, gli ultimi giorni di aprile e qualcuno di maggio – tra un esame e un altro e un altro

ancora – le lezione di “Germanes di Shakespeare” si trasformano in una stanza tutta per loro.

C’è una realtà data, ma è una realtà che non è chiusa, che credo provochi e lasci liberi e dopo

alcune lezioni vedono che hanno questa libertà di sentire, di desiderare, di volere, di cambiare,

di proporre, di fare delle letture che rispondano a ciò che pensano, che sentono, ciò che

provoca in loro la lettura, che non c’è un’unica lettura. Io credo che scoprano man mano il

cammino del desiderio e che possono, possono desiderare (…) (Lluïsa, I, 2, 04.05.2010).

Adrià dice che «Germanes di Shakespeare» è «come un campo aperto» (I, 1, 16.10.2009).

«…dove potete correre…» – continuo io. «Si, siamo delle capre» – risponde. E noi ragazze e

lui ridiamo227

.

Siamo delle capre. Credo che queste parole racchiudano in sè il desiderio di libertà di cui mi

parla Lluïsa. In spagnolo c’è un modo colloquiale per dire che qualcuno è pazzo: “estar como

una cabra”. L’espressione allude a un tipo di pazzia, diciamo, leggera, intesa come

un’eccitazione gioiosa e non certo come una malattia mentale. Credo che il desiderio di

libertà e la pazzia in questo senso, siano in qualche modo legati. In entrambi c’è una

dismisura, un qualcosa che eccede e che è in intimo contatto con ciò che Antonietta Potente

chiama le nostre coordinate anarchiche228

, quella dimensione profonda, imprevista e

incontrollabile, che rende il nostro fare e pensare vivo. In tutti i luoghi della vita ma ancor più

nella scuola, questo eccesso necessita di essere accolto, piuttosto che represso o controllato, in

modo tale da rendere l’esperienza educativa veramente trasformativa; richiede una

mediazione significativa che possa accompagnarlo. Credo che in “Germanes di Shakespeare”,

i ragazzi e le ragazze abbiano la possibilità di mettere in circolo la propria energia creativa, di

correre come delle capre in un campo aperto, lasciandosi andare con fiducia – quella «fiducia

radicale» senza la quale non è possibile il risveglio della parola (Zambrano, 1977, p. 25, trad.

mia) – perché sentono che se necessario, sarà Lluïsa a contenerli, a mediare il loro desiderio,

sostenuta dal pensiero e dalla parola delle scrittrici. «Abbiamo potuto essere» (I, 2,

07.05.2010), dice Marta alla fine del corso.

227

Le due interviste che ho realizzato a Adrià, Tatiana, Andrea e Marta sono state di gruppo. 228

Intervento di Antonietta Potente al Grande Seminario di Diotima «La festa è qui», novembre 2011, intitolato

¿Cuándo? Ahora… Le anarchiche coordinate del tempo politico esistenziale. Ora in Potente (2012).

229

Dare il tono

Il pensiero delle scrittrici, messo in circolazione in primis dalla lettura dei loro testi – integri o

frammenti di essi; a voce alta in classe oppure altrove, nell’intimità – e poi mediato dalle

parole di Lluïsa danno la tonalità. Cosa voglio dire con «tonalità»?

Cerco di spiegarmi, affidandomi a Chiara Zamboni, la quale parlando del pensare in presenza

dice: «Ci sono alcune donne e certi uomini che hanno la capacità di dare il tono alla

discussione. Credo dipenda da un loro modo di tendere verso la verità, vista come il punto

irrapresentabile di tangenza tra linguaggio ed essere, tra simbolico e reale (2009, p.14)».

Questo per me significa che la tonalità deriva da un particolare modo di dare nome a ciò che

richiede in noi di essere pensato, di decifrare quello sentiamo in relazione ad esso, con parole

radicate nella propria esperienza, che tuttavia non parlano soltanto alla persona che le ha

pensate ma che parlano al mondo, si dischiudono per accogliere l’altra, l’altro da sé,

diventando passaggio. Partirè da sé nel pensare per, «uscendo da sé, dire quello che succede,

quello che è» (Rivera, 2007, p. 25). La tonalità è quindi un movimento verso, «il desiderio

stesso di pensiero» (Zamboni, 2009, p. 15), che apre spazi di silenzi e risonanze in chi ascolta,

ispirando e stimolando il pensiero: «un essere chiamati alla propria singolare capacità di

pensare, in rapporto al desiderio di verità di chi dà il tono. Da chi, con la propria capacità,

suscita negli altri il desiderio di stare in rapporto a quel tono» (ibidem).

Anche se le scrittrici che propone Lluïsa in “Germanes di Shakespeare” non sono presenti con

i loro corpi nello spazio della classe, credo che le loro parole (che potremmo considerare

tracce dei loro corpi, come direbbe Helène Cixous) mediate da Lluïsa, abbiano l’effetto di

suscitare il desiderio di pensare; abbiano la capacità appunto di dare il tono alla

conversazione. E credo che questa capacità sia collegata a quanto i testi delle scrittrici siano in

grado di toccare qualcosa di essenziale nei ragazzi e nelle ragazze, qualcosa di profondo; a

una dimensione emotiva che Lluïsa sa essere necessaria, perché il pensiero si metta in moto.

Il sentire alla radice del pensare229

L’idea dei testi non è una sola. Da una parte c’è la parte dell’impressione che provoca il

testo: provoca sentimenti, reazioni, che possono farti arrabbiare, ridere, piangere, entrare in

229

Scrive Maria Zambrano in Chiari del Bosco (1977): «(…) pensare è innazittutto decifrare ciò che si sente,

intendendo per sentire, “il sentire originario”». Sul luogo originario del sentire come primum dell’esperienza

umana, si veda Buttarelli (2006, pp. 5-7).

230

conflitto con il testo; sentimenti che ti permettono di appropriarti del testo. Ossia, c’è una

parte della letteratura, come nel caso dell’arte, che ha a che vedere con la parte più

sentimentale, più affettiva, più personale. Dopo, c’è l’altra parte, quella riflessiva. Io ho la

sensazione che nei libri scolastici, nella selezione che fanno dei testi, ci sia una volontà di far

riflettere, soprattutto di far riflettere più che di far sentire, io credo; di far riflettere, perché le

domande dei libri sono focalizzate nel farti pensare, per esempio, chi è il personaggio

principale, di quale tema tratta il libro, senza coinvolgere tanto… Quindi nei testi che io

scelgo, credo, ci siano le due cose o almeno cerco che ci siano (…), cerco di scegliere testi

che arrivino alla persona, che tocchino, e non significa che tocchino sempre sentimenti di

amore, di tenerezza; possono provocare sentimenti diversi, perché i sentimenti umani sono

molti, ma diciamo che c’è questa parte di cercare di toccare (…) (I, 2, 04.05.2010).

Che i testi delle scrittrici che Lluïsa propone in classe tocchino, me lo suggeriscono le parole

di alcuni studenti e studentesse che scelgono di continuare il cammino intrapreso con Lluïsa,

frequentado “Germanes di Shakespeare”. Per esempio, Adrià, il quale nella sua Carta a la

Lluïsa dell’inizio del corso scrive: «Sono predisposto ad emozionarmi, voglio che la pelle mi

diventi d’oca. Questo è ciò che mi aspetto da «Germanes di Shakespeare», ciò che mi aspetto

e che ti chiedo (L, 17.09.2009). E Marta, la quale nella stessa lettera, ancora con il sapore

dell’esperienza del corso obbligatorio “Lingua e letteratura catalana” fatto insieme a Lluïsa,

predice a modo di augurio: «Ci aspetta un corso con molte emozioni e nuove esperienze da

ricordare» (L, 17.09.2009).

Che i testi tocchino, che le ragazze e i ragazzi si lascino toccare e che da questo contatto,

quando avviene, nascano delle domande di senso (Contreras, Pérez de Lara, 2010, p. 69):

“cosa sta cercando di dirmi?”, “Come lo vivo e lo sento io?”, me lo suggeriscono anche certi

episodi vissuti in prima persona durante le sessioni di osservazione delle lezioni di Lluïsa. A

questo proposito, ricordo bene una lezione di “Germanes di Shakespeare” durante la quale

Andrea ha letto un testo scritto da lei. Apro una breve parentesi per dare qualche nota sul

contesto. Ogni unità di “Germanes di Shakespeare” prevede una parte, che Lluïsa ha chiamato

Ara et tocca a tu! [Ora tocca a te!], in cui propone alla classe di creare un testo letterario, il

quale deve ispirarsi ai temi, generi e stile della scrittrice che hanno "incontrato" nell’unità. Il

senso di quest’attività, Lluïsa lo spiega così:

Invito loro a fare il passo, un passo in qualche modo di empatia. Per esempio, “dei testi che

ho letto che cosa mi è piaciuto, che cosa mi interessa, quindi vado a vedere…”. Non è un

231

imitare, non si tratta di prendere un testo e copiarlo, ma di lasciarsi andare a partire da ciò

che ti ha dato l’altra persona, lasciarsi ispirare e mettersi nei suoi panni, partendo da sé ma

vedendo cosa preoccupa a lei [la scrittrice che si ha letto] (…). È dare loro [le sue allieve e

allievi] un’opportunità, io credo, di pensare altre cose, altre situazioni, altre persone, anche

per capire un po’ di più il mondo (…) (I, 2, 04.05.2010).

Torniamo all’episodio che voglio raccontare. Siamo all’inizio del corso, la scrittrice su cui

stanno lavorando è Carme Riera e il titolo dell’unità, La memòria è la nostra ànima. Nel testo

di introduzione all’unità, scrive Lluïsa:

Stiamo per ascoltare le voce di alcune donne che ci parlano a partire dalla loro esperienza e

anche dalle esperienze umane di altre epoche, recuperate attraverso la memoria. Una

memoria che vuole fare spazio alla vita e che vuole imparare dalla vita. Una memoria che

vuole recuperare la genealogia femminile e che ci arriva attraverso lo sguardo accogliente

delle donne nei confronti di ciò che è altro, di ciò che appare come emarginato, vale a dire,

escluso. La loro è una scommessa per la femminilizzazione del mondo, per l’amore verso la

relazione, una relazione possibile tra donne e anche con gli uomini (Cunillera, 2007a,

allegato 1, p. 18, trad. mia).

Dopo le lezioni dedicate alla lettura di diversi frammenti e al commento di alcune opere di

Carme Riera, tra cui Dins el darrer blau (1994)230

e Temps d’una espera (1999)231

, arriva il

momento della creazione personale. Momento strettamente legato a ciò che Lluïsa chiama «la

vivencia della letteratura» (I, 2, 04.05.2010) e alla messa in parole di quella esperienza, in

questo caso, a ciò che i testi di Carme Riera hanno toccato in Tatiana, Adrià, Marta e Andrea:

«ciò che ha provocato in loro l’ascolto della voce di una donna che ti ha parlato della

persecuzione degli ebrei o della maternità» (Lluïsa, I, 2, 04.05.2010). La scrittura avviene a

casa e dopo, in classe, si leggono i testi che ognuno ed ognuna ha scritto. Mi interessa in

230

«Dins del darrer blau, che è la storia di una emarginazione, l’ho scritto probabilmente perché sono una donna

e come donna posso essermi sentita emarginata e identificata con ciò che successe nel XVII secolo agli xuetes o

ebrei convertiti che vivien en Palma [de Mallorca]. Fu un brutale genocidio: la messa al rogo pubblica di

trentotto discendenti degli ebrei per ordine dell’Inquisizione» (Carme Riera in un’intervista di Virginia Mascaró,

intitolata Les dones som creadores per naturalessa [Le donne siamo creatrici per natura] e pubblicata nel

supplemento del giornale Avui, 05.07.1998, trad. mia). Citata in Cunillera, 2007a, allegato 1, p. 23. 231

Si tratta di un romanzo che Carme Riera scrisse in forma di diario (dal 23.09. 1986 al 01.05. 1987) mentre

attendeva la nascita di sua filglia Maria. «Oltre ai riferimenti alla gestazione e ai cambiamenti fisici e psicologici

che si producono nel corpo di una donna, l’autrice mantiene un dialogo con la figlia e introduce opinioni e

riflessioni su molti altri aspetti relazionati con la condizione femminile: il fatto biologico di essere donna, la

sessualità, la maternità, le relazioni con le altre e gli altri» (Cunillera, 2007a, allegato 1, p. 37, trad. mia).

232

particolare il racconto di Andrea. Mi interessa perché la sua storia, letta a voce alta da lei

(credo che se l’avessi letta io in silenzio l’effetto sarebbe stato diverso) mi ha colpito

profondamente e non solo me, come vedremo.

Si tratta di una lettera scritta da una adolescente. Sembra che il destinatario sia il suo ragazzo,

anche lui adolescente. Inizia così:

Immagino che sarai sopreso di ricevere questa lettera e se ti dico la verità in questo

momento non capisco bene perché lo faccio. Suppongo di non avere sufficiente coraggio

per dirti le cose in faccia (…). Sono incinta (SC, 15.10.09).

Più avanti, si capisce che in realtà lui lo sa già, non è la lettera ad annunciarglielo. La lettera è

il racconto dei giorni precedenti al momento in cui la ragazza scrive, di come li ha vissuti, del

senso che hanno avuto e hanno per lei: la scoperta di essere incinta, la paura, la convidisione,

il rifiuto di lui («non abbiamo abbastanza soldi», dice. Lei pensa che lui si riferisca ai soldi

per curare il bambino ma lui sta parlando di aborto) e poi l’abbandono (lui scompare) e la

solitudine di prendere una decisione che in qualunque caso (sia che decida di diventare madre

o no), le cambierà la vita. Quando la ragazza sta per comunicargli la sua decisione, la

narrazione in prima persona si ferma. Una voce in terza persona ci racconta di come lei

strappi la lettera in mille pezzi e rimanga seduta, in silenzio, davanti alla sua scrivania. Non ci

è dato di sapere.

Colpisce il tono della voce di Marta e soprattutto la maturità delle sue parole, lo stile chiaro e

asciutto, essenziale, e nello stesso tempo una presenza che sconcerta. Dopo la lettura restiamo

tutti in silenzio, qualcuno e qualcuna di noi piange. Lluïsa nel suo diario di classe parla di

«commozione» (D, 19.10.2009). È vero, ci siamo commossi, che nel contesto di «Germanes

di Shakespeare» significa muoversi in relazione. Qualcosa in noi si è mosso; si percepisce

nella qualità del silenzio che segue all’ultima parola del racconto di Andrea. Come se

suonasse. «Ruminare parole di verità», lo chiama Chiara Zamboni (2009, p. 53). «Sono

momenti impagabili perché è qualcosa che è emerso da uno di noi che è riuscito a lasciarci

senza parole, quindi quei momenti sono meravigliosi (I, 2, 07.05.2010)», dice Adrià.

Credo che la lettura dei testi di Carme Riera, quelli che raccontano dell’attesa della figlia

Maria, abbiano toccato qualcosa in Andrea, abbiano fatto vibrare le acque, e da lì sia nato il

racconto che ci ha regalato in classe. Racconto che a loro volta ci ha toccati e da cui sono nati

233

altri testi, orali e scritti, pensieri vivi tessuti in relazione, che si creano e si ricreano, in un

darsi e lasciarsi dare senza fine232

. Un regalare, dicevo. È Adrià a suggerirmi l’idea quando

dice: «(…) è un condividere con gli altri, un dire: “guarda, io ti regalo ciò che sto pensando e

tu mi regali ciò che stai pensando”» (I, 2, 07.05.2010). E anche Lluïsa, quando scrive nel suo

diario di classe, dopo il racconto di Andrea: «(…) spesso mi resta la sensazione che ci siamo

regalati parole che dicono cose importanti della letteratura e della vita» (D, 19.10.2009).

«Il risveglio della parola»

Es de dócil condición la palabra, lo muestra en

su despertar cuando indecisa comienza a brotar

como un susurro en palabras sueltas, en

balbuceos apenas audibles, como un ave

ignorante, que no sabe a dónde ha de ir, más

que se dispone a levantar su débil vuelo.

Claros del bosque, María Zambrano

Quando ero al liceo e anche all’università mi innervosivo molto quando mi facevano una

domanda. Era una strana mescolanza di eccitazione e paura: eccitazione perché avevo

l’opportunità di dire ciò che pensavo; paura perché temevo che la mia risposta non sarebbe

stata quella giusta. Questa contraddizione mi portava spesso a dire cose che non sentivo

veramente, il che mi lasciava delusa e insoddisfatta e, qualche volta, nemmeno rispondeva

alle aspettative delle mie e i miei insegnanti. Verso la fine dell’università e, sopprattutto,

durante il mio periodo di ricerca ho iniziato a capire veramente che di risposte non ce n'è

soltanto una e che certe mie insegnanti (e anche qualche insegnante uomo) dell’università

volevano veramente ascoltarmi e così anche le mie tutor negli ultimi quattro anni. Con loro,

durante le nostre conversazioni, sono riuscita un po’ alla volta a dire ciò che pensavo e

sentivo – uno insieme all’altro – , a volte in modo non molto articolato, con tanti punti di

sospensione, mole ellissi…, eppure a parlare. Credo che questo sia stato possibile grazie alla

232

Senza fine perchè lo scambio avviene all’interno di una relazione non strumentale, nata dal amore per la

relazione e dal piacere che da essa si trae; senza fine perché si svolge secondo un movimento di dare, ricevere e

anche rilanciare, che mantiene aperto il flusso creativo di pensiero. Su «la relazione che non ha fine», si veda

Rivera (2007).

234

relazione di fiducia che si è creata tra di noi. Fiducia che ha richiesto tempo, cura e sforzo da

entrambi le parti e una grande dose di coraggio, almeno da parte mia, per mettersi in gioco

nella relazione. Seguendo questo filo, mi vengono in mente le parole di Lluïsa quando mi

racconta di quella che lei dice essere stata un’esperienza «drastica» (I, 2, 04.05. 2010), che

l’ha cambiata profondamente, il corso sulla relazione educativa con Remei Arnaus e Nuria

Pérez de Lara. In particolare, di quei momenti in cui le allieve (tra cui Lluïsa) facevano in

classe degli interventi non “adeguati”, nel senso che magari erano fuori tema oppure non

chiari, e loro, le maestre, nonostante ciò, li accoglievano: «iniziavano accogliendo e dopo, se

era necessario, lo portavano verso dove volevano…, perché, certo, erano le maestre…» (I, II,

04.05.2010).

Nell’educare credo ci sia questa tensione tra l’accogliere e l’orientare; l’aprire, facendo un

vuoto perché ciò che è sia, senza perdere però l’intenzione educativa che guida e connota la

sua presenza classe. Se si riesce a stare in quel crinale, allora può accadere che nelle allieve e

negli allievi la parola si risvegli. Lluïsa lo spiega molto bene quando scrive, qualche anno più

tardi, dopo la nascita di “Germanes Shakespeare”:

Dico loro “so che siete lì e sono disposta ad ascoltarvi”. Allora si produce un momento

grande in cui devo stare molto attenta, in ascolto di ciò che veramente vogliono mostrare,

anche se non sempre trovano le parole. È il momento di accogliere, senza giudicare, senza

presupporre, senza vedere fantasmi dove ci sono dei dubbi e contraddizioni anche e anche

senza avere la pretesa di arrivare alle delle conclusioni quando spesso non c’è bisogno

perché l’importante è manifestare ciò che c’è, quello che succede (…). Non sempre è facile

perché la timidezza e il pudore degli e delle adolescenti frenano o limitano la loro capacità

espressiva e allora bisogna capire non soltanto quello che si dice ma anche quello che non si

dice. Posso con la mia esperienza di donna più grande, dar loro misura perché a volte

percepisco che la stanno richiedendo e credo che ciò formi parte del mio coinvolgimento

come maestra. E questo coinvolgimento crea un vincolo che si basa nella fiducia, una fiducia

che soltanto è possibile lontano dal discorso, nella apertura a ciò che è altro, a partire dalla

lingua materna (Cunillera, 2010, p. 11, trad. mia).

235

Letteratura in lingua materna

Mi chiedo da dove venga la capacità di toccare che alcune parole hanno, parole scritte o dette

a voce alta, anche sussurrate; la capacità di aprire uno spazio profondo di silenzio in noi,

silenzio necessario perché l’imprevisto accada, perché sia la vita a farsi sentire.

In un testo intitolato Si fa storia quando si dà senso a ciò che si vive, Milagros Rivera riflette

sulla scrittura femminile della storia, a partire da testi di Leonor López de Córdoba, Christine

de Pizan e Giovanna d’Arco. Questo tipo di scrittura, dice:

esplora il vissuto personale femminile o maschile, degli avvenimenti insieme al loro

accadere, senza separazioni (…). Sono testi che contengono i corpi, testi che leggiamo con

entusiasmo un secolo dopo l’altro perché camminano sul bordo dell’isteria senza caderci

dentro: cioè perché sono testi con echi delle viscere, non testi scritti nel corpo ma neppure

separati da esso. Sono testi che ci toccano con la loro realtà messa finalmente in parole. E

per questo innamorano (2009, pp. 3-4).

Credo sia proprio questo: la realtà vissuta messa finalmente in parole. Realtà che è anche

l’esperienza di maternità di Carme Riera, raccontata a partire da sé, in una lingua che nasce

dal suo corpo, di donna e futura madre, per andare oltre e parlare al mondo, ad Andrea, per

esempio. Realtà che è tale perché è la lingua materna a raccontarla, ad accoglierla in sé, lingua

che «aldilà dell’idioma che si usi per comunicare, è la lingua che si impara in relazione alla

madre, vale a dire, in modo tale che nell’imparare a parlare, la lingua accomuna la relazione

di comunicazione, il senso di ciò che si dice, le parole che si usano e le cose di cui si parla»

(Contreras, Pérez de Lara, 2010, p. 61, trad. mia). Lingua viva e incarnata che spesso viene

soffocata dal linguaggio astratto del discorso accademico; astratto perché non tiene conto

della realtà e delle sue contraddizioni e perché riduce la differenza sessuale di chi parla ad un

neutro universale, senza riconoscere «che non c’è una manera di parlare senza riconoscimento

delle forme sessuate dell’esperienza e del conoscere» (ibidem). Per questo motivo le parole in

lingua materna ci toccano e risuonano in noi, perché riconoscendo ciò che è lo dicono.

Quando in classe Lluïsa inizia a parlare come donna e maestra; quando vi porta i testi di

donne che hanno saputo dare un senso alla propria esperienza con parole di verità, ovvero,

parole in cui c’è una corrispondenza tra ciò che si dice e ciò che è; quando invita le sue allieve

e i suoi allievi a pensare a partire da sé, affidandosi all’altra, all’altro, a ciò che in quel

momento succede, predisponendosi all’ascolto, lasciandosi attraversare dalle emozioni che le

236

parole, i gesti e i silenzi sucitano in loro, accade che il linguaggio si trasformi. È come se il

discorso cominciasse a sgretolarsi, a forarsi – come dice Chiara Zamboni –, per dar passo al

movimento della vita: come il fluttuare delle onde del mare, «alghe e perle» (Woolf, 2011a, p.

28) che si mescolano.

Lo sento in me stessa quando lascio da parte il discorso appreso, che prima mi suonava

molto coerente e di alto livello e recupero la lingua materna. Allora vedo che le mie allieve e

allievi mi ascoltano in un altro modo e pensano in relazione in modo molto più creativo. È

curioso perché si rompe il dialogo forzato che obbliga a dire una cosa dopo l’altra, senza

pensarla o senza sentirla perché è ciò che tocca fare» (Cunillera, 2010, p. 8, trad. mia).

La lingua materna è la lingua che si ha in comune, «è la sorgente prima alla quale ci

rivolgiamo spontaneamente per parlare assieme agli altri» (Zamboni, 2009, p. 7). Un vincolo

che ci riporta alla nostra origine relazionale e che, se recuperato, apre spazi, come accade in

“Germanes”, in cui non è più una voce neutra a parlare ma Lluïsa, Tatiana, Adrià, Marta e

Andrea. «Momenti magici» (I, 2, 07.05.2010), li chiama Adrià, in cui si fa presente la lingua

materna e con essa il vincolo di fiducia con l’altro, con l’altra ma anche con sé, come ci

racconta Tatiana:

Non mi piace quasi niente di ciò che scrivo ma quando lo leggevo in classe, magari per quei

silenzi che si facevano oppure per i commenti che dopo si facevano con i compagni…

Voglio dire, io finivo di leggere il testo e mi sentivo bene con ciò che avevo fatto e credo che

questa sia una cosa che abbiamo saputo trovare nella classe che è anche e ancora la fiducia,

verso se stessi e anche verso le cose che facciamo, ognuno di noi (I, 2, 07.05.2010).

«Abbiamo potuto essere», dice Marta, parole che significano la possibilità reale di parlare e

pensare in libertà – ovvero, in relazione trasformatrice con sé e tra di loro –, di emozionarsi

(come desiderava Adrià) con i testi di Carme Riera ma anche con i propri che scrivono (le

lettere, i diari, gli esercizi creativi…); testi che partono dalla loro esperienza e il loro sapere e

che nello spazio della classe vengono alla luce. «E così, emozionandoci», scrive Lluïsa nel

suo diario, «scopriamo. Perchè io credo che senza emozione è difficile la scoperta e, meno

ancora, l’apprendimento» (D, 09.10. 2007).

Quando Lluïsa vincola l’emozione all’apprendimento sta restituendo i legami tra il conoscere

e il sentire, riportando «la vita all’aula, l’aula alla vita» (Lluïsa, I, 3, 24.02.2011). La classe si

237

trasforma così in «un amato spazio di rivelazioni e non di ripetizioni» (Peri Rossi, 2004, p.64,

trad. mia):

Avevo pensato di definire con un una sola parola questo corso, questo viaggio. Non posso.

Ci sono state troppe sensazioni, troppi cambiamenti, troppi momenti che rendono

impossibile ridurre tutto in un termine. È stato un corso da condividire e da apprendere:

apprendere sulla letteratura, apprendere su/da le mie compagne e il mio compagno,

apprendere sul presente e il passato, apprendere su cose che non sapevo…, apprendere sulla

vita perché alla fine ciò che conta è proprio quello: saper risolvere i problemi che si pongono

davanti a te lungo il cammino (Andrea, L, 09.10.2010).

«Il nostro corso è un viaggio»

Un viaggio che non finisce. Leggo e rileggo la trascrizione dell’intervista che ho fatto al

gruppo alla fine del corso di “Germanes” insieme alle lettere che hanno scritto a Lluïsa nello

stesso periodo. La sensazione che ho è che per loro questo corso sia stata una vera e propria

esperienza: esperienza in prima persona della relazione educativa e, mediante essa, dei testi

delle scrittrici. Scrive Marta: «Non posso dire che il corso, il nostro corso sia finito, perché

come ben dice mio padre “non finisce mai niente se c’è qualcosa a ricordarcelo”» (L, 09. 05.

2010).

A ricordare “Germanes” e il viaggio intrapreso con Lluïsa a Marta, Adrià, Andrea e Tatiana

saranno le emozioni vissute («troppe», diceva Andrea, per poter darne conto, anche se i suoi

testi creativi ne sono una bella dimostrazione), i silenzi (i «momenti magici», di Adrià), le

contraddizioni (l’andirivieni di Tatiana, per esempio, ma anche del resto della classe, tra

prendere sul serio il suo desiderio di restare a lezione da Lluïsa o andare in biblioteca a

studiare altre materie ritenute «più serie» perché più accademiche) e tutto ciò che hanno

imparato, cose importanti per essere al mondo, che aiutano a vivere. Come la scoperta di una

genealogia femminile, «la saggezza» – sono parole di Tatiana – «di certa letteratura poco

conosciuta» (L, 25.05. 2010). Si riferisce, certo, alle voci delle donne che hanno ascoltato in

classe, con le quali hanno conversato insieme a Lluïsa e che Adrià celebra, molto

poeticamente, con un brindisi, riconoscendo in questo modo il dono di sua madre così amata,

come ho avuto il piacere di vedere: «alle parole che ci hanno emozionato, alle rime di

Clementina e al mondo straziante di Silvia Plath (…); al sogno di Alice e ai ricordi che

238

ballavano gioiosi attorno a noi e ci dicevano all’orecchio che qualsiasi forma d’arte ha a che

vedere con noi» (L, 10.05.2010). E anche Andrea, con uno stile diverso, più contenuto ma

non meno sentito, dice: «ho imparato molto di letteratura ma non solo di letteratura, abbiamo

imparato molto della vita e della situazione delle donne e…, non so, credo che sia stato un

apprendimento generale e siamo migliorate come persone» (I, II, 07.05.2010). Dice Virginia

Woolf, attraverso le parole di Nadia Fusini (2009a, p. 28): «Se scrivo è per andare alle cose

centrali”, e vuole dire le cose che contano. Magari scrivendo non raggiungo niente, ma

divento una persona migliore». Nel caso particolare di Andrea, credo che la possibilità di

scrivere liberamente in “Germanes di Shakespeare” sia stata per lei vitale, in quanto le ha

permesso di dar forma alla propria energia creativa; di dar via libera ai suoi sentimenti, tra cui

spesso anche la rabbia: «prima scrivevo molto ma adesso un po’ alla volta ho smesso di farlo,

probabilmente per mancanza di tempo, per mancanza di voglia… (…) allora va bene che sia

parte dei compiti [si riferisce alla scrittura creativa] perché altrimenti ti dimentichi di farlo ed

è una cosa che per non perderla bisogna farne pratica, quindi, io sono molto grata e molto

contenta di aver fatto gli esercizi creativi, si…» (I, 2, 07.05.2010).

Mi riesce difficile restituire la complessità e la ricchezza dei racconti di Adrià, Tatiana,

Andrea e Marta, di ciò che ho visto e sentito stando con loro in classe. Per questo, più che fare

un discorso generale, in cui rischierei di perdermi, preferisco ancorarmi ad alcuni episodi,

scene significative che, a mio avviso, ci danno la chiave di lettura di questo viaggio.

Siamo a maggio, mancano pochi giorni alla fine dell'anno scolastico. All’orizzonte tanti esami

e poi ancora la maturità. Oggi la lezione inizia con ritardo perché il gruppo ha avuto un esame

di filosofia. Lluïsa ricorda loro che le lezioni non sono ancora finite e che hanno la

responsabilità di continuare a fequentare “Germanes”. Non è arrabbiata; credo che stia

ricordando loro che c’è un vincolo reciproco e che lei si aspetta che lo rispettino. È giorno di

lettura di diari: Andrea racconta dello stress, del tempo che non è mai abbastanza, degli

esami… e conclude dicendo: «È importante avere una buona vita»233

. Poi la lezione procede:

Adrià legge i testi del Piccolo Principe che ha scelto per elaborare la sua unità didattica; c’è

qualche scambio di parole con Lluïsa e Tatiana; Andrea e Marta sembrano assenti. Alzo lo

sguardo verso Andrea e vedo che sta scrivendo qualcosa: «I just wanna be». Ad un certo

punto Lluïsa dice: «Voi non siete presenti». E qualcosa cambia. Qualcosa cambia perché

Lluïsa sente che quel giorno il gruppo ha bisogno di altro – un «soffio di aria fresca», altre

parole che Adrià usa per riferirsi a «Germanes» – e lo accoglie.

233

Ho elaborato questa parte a partire dalle note di campo prese durante le osservazioni.

239

Dice Tatiana:

Questo corso ci ha riempiti di felicità in molti aspetti, perché era il luogo dove potevamo

riposare e essere tranquilli, in confronto con altri corsi. (…) Abbiamo potuto lasciarci portare

dagli impulsi e dalle sensazioni verso un testo senza nessun tipo di vergogna nè tabù, e

questo mi piace (L, 25.05.2010).

E Andrea:

Credo che Lluïsa ci abbia dato molta tranquillità, quando eravamo stressati, perché

quest’anno è molto difficile e credo che sia stata una classe dove abbiamo potuto uscire da

dove eravamo e viaggiare nella nostra immaginazione, lasciarci andare e avere più fiducia,

tutti con tutti, per poterci spiegare cose personali anche e ridere e anche piangere quando…

c’è stato bisogno… (I, 2, 07.05.2010).

Anche Marta:

Abbiamo potuto essere, ossia, scrivere ciò che ci piaceva senza nessun tipo di muro o

qualcosa che ci dicesse che non potevamo scrivere quello che volevamo, il che significa

avere la libertà di poter scrivere ciò che uno vuole e lasciar volare l’immaginazione e credo

che Lluïsa quello l’abbia fatto molto bene, ha saputo provocarci quel sentimento di poter

scrivere ciò che ci piaceva, ciò che volevamo, poter evocare i nostri sentimenti nella

scrittura, smettere di pensare ai nostri problemi ed avere un momento di calma e tranquillità,

di cui abbiamo avuto molto bisogno durante quest’anno, perché che anno… (I, 2,

07.05.2010).

Nell’ultimo incontro con Lluïsa, otto mesi dopo la conclusione di quello che sarà l’ultimo

corso di “Germanes di Shakespeare”, parliamo di quanto sia stato importante per il gruppo

aver trovato uno spazio dove poter prendersi una pausa dal ritmo frenetico dell’anno

scolastico:

quando li vedevo così angosciati dicevo loro “adesso avete un’ora di relax” e vedevo che

questo faceva bene loro; a volte iniziavamo parlando di “Germanes” e finivamo parlando di

240

altre cose, perchè loro avevano la necessità di parlarne, quindi andava bene così (I, 3,

24.02.2011).

Qualcuno o qualcuna, come dice Lluïsa (tra cui anche qualche allieva) potrebbe pensare che

in questi momenti lei non faccia letteratura. Tuttavia…

la letteratura è sempre presente. Se è così, allora cosa vuol dire? Significa intendere la

letteratura in un modo molto più ampio… che la letteratura è vita. (…) il senso di qualsiasi

cosa artistica sta nella necessità umana di esprimersi, di vivere, di condividere, di

sperimentare, di innovare, di scoprire. Io credo che quello che facciamo non sia altro che

lasciare alla letteratura lo spazio che ha e il senso che ha (I, 3, 24.02.2011).

Ed è così, credo, che Adrià, Tatiana, Andrea e Marta ricorderano la letteratura in “Germanes

di Shakespeare”: come l’esperienza di esprimere se stessi e se stesse in relazione. «Grazie per

fare che sia chi sono e come sono», scrive Marta in chiusura della sua carta a Lluïsa.

Ha a che vedere con i testi delle donne, evidentemente, però va oltre, non rimane soltanto nei

testi; ha più a che vedere con ciò che intessiamo con i testi gli uni con gli altri, ma nel mezzo

anche la nostra voce e la nostra relazione (Lluïsa, I, 2, 06.05.2010).

Vorrei finire facendo un breve cenno ad un momento che attraversa tutti i racconti del gruppo

alla fine dell’anno. Un momento, e anche i giorni successivi, che nel flusso degli avvenimenti

del corso, credo abbia aperto un soglia, un passaggio verso una maggiore profondità e

presenza, nella relazione di fiducia tra Lluïsa e le sue allieve e allievo.

Mia sorella è morta il 14 gennaio, ma nel mese di dicembre il giorno 10, dieci di dicembre,

non so se lo sai, mia sorella era ricoverata e allora mi dovevano telefonare per dirmi se la

ricoveravano soltanto per un controllo, oppure perché la situazione era grave. Quindi mi

hanno telefonato per dirmi che stava male; mancava qualche minuto per finire la lezione. Io

avevo già avvisato loro che poteva squillare il telefono, che non porto mai a lezione. Quindi

quando hanno visto che prendevo il telefono e hanno visto la mia faccia… (…) Hanno

vissuto quel momento con me (…) (I, 2, 04.05.2010).

Lluïsa e sua sorella, Maria Francesca («la mia unica sorella, più piccola di me, confidente e

amica») erano molto unite, così me l’aveva fatto capire durante le nostre conversazioni e così

241

l’ho sentito quando ho letto la mail in cui comunicava la sua scomparsa. Ricordo una parola:

sororidad [sororità]234

.

Vorrei mettere in risalto la fiducia che ci ha dato Lluïsa nel raccontarci ciò che le è accaduto

durante questi mesi, come si è sentita e come ci ha dato quel sentimento, ci ha aperto le porte

della sua tristezza, di come si sentiva per la morte di sua sorella e l’ha condiviso con noi. Io

penso che questo abbia creato un vincolo tra gli allievi, ossia, noi e lei, molto forte e lo

ricorderò… È stato un momento speciale quando ce l’ha raccontato e abbiamo potuto

abbracciarla, abbiamo potuto stare con lei e… Credo sia stato un momento importante del

corso che ha aperto più fiducia tra di noi (Marta, I, II, 07.05.2010).

La fiducia è un movimento a doppio senso: non si può chiedere fiducia se non si è disposti a

darla. Si può, certo, ma allora non funziona. Lluïsa chiede alle sue allieve e allievi di mettersi

in gioco, perché è lei la prima a farlo; chiede loro di andare in classe con tutto ciò che sono e

che sentono perché è lei la prima a farlo. Se non è così, si resta nel discorso.

portare la vita all’aula, l’aula alla vita (…) normalmente ci hanno spiegato che ciò non forma

parte della classe, che tutto ciò che è personale resta fuori e continua ad esserci gente che lo

dice; ci sono insegnanti che non vogliono che gli si facciano domande nè sentir parlare di

tutto ciò… Certo, io non vado alla ricerca della vita personale degli allievi, io non faccio

nessun tipo di interrogatorio, nè costringo loro a niente, ma quando c’è questo vincolo di

fiducia, queste cose succedono (…) (I, 3, 24.02.2011).

Succede che non si fa finta di niente, che si accoglie e si condivide ciò che si sente. E questo

nell’educazione mi sembra vitale.

234 Ho cercato la parola sia nel Grande Dizionario Italiano dell’Uso (1999), ideato e diretto da Tullio De Mauro,

sia nel Dizionario della Lingua Italiana (2006), a cura di Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli, e non compare in

nessuna delle due opere. Si invece, sororale: «(…) del lat. soror, - oris, “sorella” (…)» (De Mauro, 1999, p. 212)

(da cui anche, “suora”) e anche sorellanza (termine che però non è presente in Devoto, Oli (2006): «(…) 2. Negli

anni Settanta all’interno dei movimenti femmininisti, sentimento di solidarietà tra donne, dettato dalla

condivisione di comuni esperienze, condizioni e sim.: si sentivano unite da un rapporto di sorellanza» (De

Mauro, 1999, p. 210). La sororità invece credo faccia riferimento ad un vincolo più profondo, che va aldilà della

solidarietà, e che ha più a che vedere con la genealogia femminile a cui ogni donna appartiene, ovvero, con la

trama di saperi, parole, esperienze e relazioni che unisce ogni donna con le altre; con un ordine simbolico, il cui

origine è la relazione prima con la madre, da cui ogni donna (e uomo) è nata. Vincolo che è un vincolo amoroso

ed è proprio in questo senso che Lluïsa, a mio avviso, lo usa.

242

Sono entrata nell’aula intera, non mi era possibile dividermi in due, la maestra

“professionale” e la donna che aveva appena perso una persona così amata. In classe io ero

donna sorella maestra, tutto nello stesso tempo. Ancora una volta la mia ubbidienza interiore

portava libertà all’aula. La lezione è andata avanti e abbiamo commentato alcuni testi, ma

abbiamo fatto uno spazio grande alla vita, alla verità e all’amore (Cunillera, 2010, p. 10, trad.

mia)235

.

Ubbidienza interiore che genera libertà perché sa stare in presenza di ciò che è, anche nei

momenti più difficili, senza nascondersi dietro parole finte o azioni compensatorie. Perché ciò

che è sia, come ci insegna Clarice Lispector.

Alla fine del corso, con gli esami alle porte, è ancora troppo presto per cercare di capire il

significato che “Germanes di Shakespeare” ha avuto per Andrea, Marta, Adrià e Tatiana. I

tempi dell’educazione, come ci ricorda Milagros Montoya, sono lenti. E poi il tempo di una

conversazione sembra sempre così breve… Eppure quanta ricchezza si riesce a intuire.

io credo che non ci rendiamo conto, ma è qualcosa di realmente grande, è un tesoro molto

heavy ciò che abbiamo ottenuto (…) era magia tutto, sai?, ci sono stati dei momenti in cui

questo era…, questo è arte, è pura arte…, non so… (Adrià, I, 2, 07.05.2010).

In un futuro non troppo lontano, sarebbe molto interessante sapere, attraverso un incontro

oppure una lettera, cosa stanno facendo, come sta andando la loro vita e come ricordano

l’esperienza di “Germanes di Shakespeare”. Come dice, ancora Milagros Montoya, «sapere

cosa succede quando è finita la presenza della maestra o maestro e la vita continua fuori dalle

aule e ognuno e ognuna deve imparare a stare al lavoro, in altri studi, nella famiglia e deve

imparare a vivere la propria vita» (2009, p. 104, trad. mia).

235

Il corsivo è mio.

243

4.2.4. Rimanere vicino alla sorgente e farsi trovare

La grandezza umana – pochi lo sanno ma le fiabe

lo insegnano – sta nell’impegnarsi per il meglio al

massimo delle proprie forze, sapendo che il

risultato non dipenderà dai nostri sforzi ma ci verrà

incontro, sorprendente come un regalo splendido e

inatteso.

Luisa Muraro, Il dio delle donne

Muoversi al livello che suggerisce Luisa Muraro è una scommessa. Non si sa a priori quello

che può accadere e gli scacchi sono tanti. Scacchi che possono essere vissuti come sconfitte

oppure come inizi, possibilità nuove di riaprire i giochi, di ricominciare. Incipiti vita nuova.

All’inizio di ogni anno scolastico Lluïsa apre una porta, propone le sue allieve e allievi di

entrare in uno spazio di libertà, in cui sarà il vincolo della fiducia reciproca e dell’amore a

sostenere la trama che andranno a costruire insieme. È uno spazio di cambiamento, ogni

giorno è diverso come ogni anno, dove gli equilibri sono vulnerabili perché vulnerabili sono

le cose legate alla vita. Come l’educazione e i corpi con cui ha a che fare: ragazze e ragazzi,

maestre e maestri. È uno spazio mobile, i cui confini vanno disegnati e ridisegnati in comune

e dove non è la costrizione a muovere, ma il desiderio e l’amore per la relazione e la

letteratura.

Le porte aperte possono essere attraversate ma a volte si resta sulla soglia. O si sta in un

andirivieni.

A questo proposito dice Adrià:

siccome non facciamo esami a volte hai la sensazione che sia meno serio [si riferisce al corso

di “Germanes”] (…), siccome è più libero, più… Allora tendiamo a dare priorità ad altre

materie, sopprattutto durante il periodo degli esami, e dici «caspita ho tre esami questa

settimana, allora non vado a “Germanes de Shakespeare”». Allora questo è un problema

perché non dovremmo avere quella visione del corso, ossia, non dovremmo prenderlo così

liberamente… (…). È un problema ma non so quale soluzione ci sia, perché se applichi dei

244

metodi perché la lezione sia più seria, più formale, allora stai chiudendo tutto il senso della

classe (I, 2, 07.05.2010).

Un andirivieni che resta aperto, la cui direzione credo abbia a che vedere con quanto, in

questo caso, Adrià, Tatiana, Marta e Andrea prendano o meno sul serio il proprio desiderio e,

ancora prima, con quanto il desiderio sia presente in loro, perché come dice Chiara Zamboni,

parlando proprio sul pensare in presenza, il desiderio si impara (2009, p. 24). Così Andrea,

nonostante sia così grata a Lluïsa per aprire degli spazi in classe di scrittura creativa e di

quanto le piaccia farlo, spesso non porta i testi. Si lascia distrarre da ciò che va fatto, più che

fare quello che in lei la chiama.

Direzione di questo andirivieni, dicevo, che dipende anche, ed è in stretta relazione con il

desiderio, da come intendono la libertà in classe: se come l’assenza di una struttura rigida,

formale, e quindi la possibilità di fare quello che vogliono oppure come quel vincolo di

fiducia, «che accetta i legami e le dipendenze» (Piussi, 2008b, p. 194, trad. mia) è in virtù del

quale la loro relazione educativa è possibile e anche quei momenti magici in cui la parola si

risveglia. Credo che il gruppo si muova in quella contraddizione, come ci suggeriscono le

parole di Adrià, e che starci, o meglio rendersene conto, formi parte dell’apprendimento reso

possibile da “Germanes”.

Lluïsa porta il suo desiderio in classe. Tuttavia non sempre viene accolto e capita che non ci

siano degli spazi di incontro, delle linee di fuga possibili. Così mi racconta dell’anno in cui il

gruppo di ragazzi che frequentava “Germanes” non è riuscito ad entrare, a varcare la soglia:

percepivi in loro una certa irritazione, loro non sapevano, non so perché ma non sapevano

che facevamo soltanto scrittrici (…). Facevano fatica a mettersi in prima persona, le ragazze

sì, è il gruppo di ragazze con cui continuo a vedermi, e ci scriviamo e facciamo qualche

merenda o cena. Io credo che siano stati presi da una sorta di rivalità. Io facevo degli sforzi

enormi per mettere in risalto la grandezza di quando riuscivano a partire da sé e spiegavano

le cose da dentro e non erano semplicemente accademici, ma c’erano degli attriti (I, 1,

13.10.09).

Attriti che sono rimasti irrisolti…, aperti e che pongono delle domande236

:

236 Una, ad esempio, potrebbe essere se c’è un rapporto tra l’oblio storico del nome della madre lungo il XX

secolo e la violenza crescente sulle donne (Rivera, 2007, p. 24) e se è così, molte pensiamo di sì, quanto il

mondo dell’educazione e della scienza sia chiamata a prendere posizione, ad esempio, rendendo visibile l’opera

245

Un giorno non sono venuti [i tre ragazzi del corso] a lezione e quel giorno, non so se per via

dei diari, oppure dei testi che stavamo commentando, le ragazze iniziarono a dire, a parlare

molto molto, c’e stata tantissima comunicazione e alla fine sono andate vie tutte con la

sensazione di dire “come siamo state bene oggi”. Questo è venuto fuori nei diari della

settimana dopo, in tutti i loro diari, la sensazione di benessere. E loro, i ragazzi, si sono

arrabbiati perché, certo, “noi non c’eravamo”. Ossia, loro hanno dedotto, e magari avevano

ragione, “siete state molto bene, fantasticamente bene, meglio che se non ci fossimo stati,

quindi non avete bisogno di noi”. Si sono arrabbiati moltissimo; c’è stata una vera e propria

guerra dei sessi, una cosa terribile, come una sorta di, non so, io credo di gelosia. Si sono resi

conto che si erano persi qualcosa di molto grande (…). Le ragazze cercavano di conciliare,

“non volevamo offendervi” e loro arrabbiati, irriconciliabili…(I, 1, 13.10.09)

Gli scacchi, come dicevo, possono essere delle opportunità, dei nuovi inizi, se ci mettiamo in

ascolto di ciò che ci dicono. «Nodi», li chiama Lluïsa, che ti costringono a fermarti per

cercare di disfare la matassa con cura e attenzione, a non perdere nessun filo e così

ricominciare a tessere. A volte è così intricato che non si riesce nemmeno ad iniziare,

soprattutto quando dall’altra parte non c’è la disposizione a lasciarsi toccare. Altre volte

invece, qualcosa si scioglie:

Qualche giorno fa nella prima unità, abbiamo letto dei testi Carme Riera in cui si parlava di

violenza maschilista e alla fine Adrià ha detto che si sentiva molto male perché si stavano

associando caratteristiche come ricerca della pace, di accoglienza, di empatia, al femminile e

la violenza e il negativo, al maschile. E lui diceva: “allora io…”. Quindi ne abbiamo parlato,

contestualizzandolo un po’, spiegandolo… Qualche giorno dopo nel suo diario diceva: “mi

sono sentito molto bene dopo perché ho pensato che io ero uno degli uomini che partecipava

della capacità di ricerca della pace, dell’accoglienza insieme alle donne” (I, 1, 13.10.2009).

Mi racconta Lluïsa che è da un po’ di tempo che queste situazioni, e altre analoghe vissute nel

corso obbligatorio – il malessere dei ragazzi, il dolore che crede di percepire in loro,

soprattutto in quelli che, come Adrià, si mettono in gioco a partire da sé – le stanno facendo

di civilizzazione resa dalle donne nella storia e riconoscendo, quindi, le forme femminili dell’esperienza e del

conoscere.

246

pensare come poter «dare accesso al maschile in classe (…). Il maschile positivo, diciamo» (I,

2, 13.10.2009).

Quello che dice Carme Riera, lo dice a uomini e donne, quindi lì c’è già il mondo, non

soltanto il mondo delle donne. Tuttavia… (…). Per esempio, a Adrià piacciono molto i

personaggi femminili e il mondo delle donne, ha una fiducia in sua madre grandissima e mi

provoca dolore pensare che in un determinato momento io non possa…, io credo che lui lo

capisca, ci conosciamo e credo che lo capisca…, dolore di non sapere accoglierlo… (I, 2,

12.05.2009).

Una possibilità è introdurre in “Germanes” testi scritti da uomini, sia testi di creazione sia

testi di riflessione sul senso della propria appartenenza sessuale, «testi di nuove mascolinità,

riflessioni che molti uomini stanno facendo sul fatto di essere uomo oggi e in cui, inoltre, c’è

un riconoscimento del femminismo, della lotta delle donne, dei valori femminili…» (I, 2,

12.05.2009). Ci sta pensando…, «non lo ho ancora risolto», dice. Ad Adrià, da parte sua,

sembra che la cosa non lo preoccupi eccessivamente, almeno questo è ciò che mi dice: «se ci

fossero autori uomini non mi dispiacerebbe, ma mi piace così com’è, mi piace perché la

visione di un uomo e di una donna sono differenti, quindi penso che sia bello vedere le due

facce della moneta» (I, 2, 16.10.2009). E più avanti: «(…) il corso è quello che è e siamo a

nostro agio… Se Lluïsa trovasse un autore di cui realmente pensasse “questo è per il mio

gruppo”, allora sì, sarebbe interessante farlo, ma io non credo sia necessario…» (I, 2,

16.10.2009).

Rimanere vicino alla sorgente e farsi trovare. Dal mio primo giorno in cui Lluïsa entra in

classe e si presenta come donna e maestra la porta di “Germanes di Shakespeare” rimane

aperta, come un invito. Non le è dato di sapere cosa accadrà, ma qualcosa accadrà di sicuro. E

lei rimane vicino alla sorgente, che è la lingua materna, la vita che scorre nell’aula, e si fa

trovare. Il farsi trovare lo collego con la pratica dell’attenzione e dell’ascolto, un prediporsi a

ciò che può accadere, ma che non si aspetta, si desidera, certo, ma non si forza; quindi non

tanto un’aspettativa che conforma, ma qualcosa legata ad un accogliere. Azione questa

passiva, che annuncia che ciò che arriverà, se arriva, sarà un dono (un regalo, lo chiama lei)

più che un risultato delle nostre forze, nonostante esse siano impegnate al massimo. Tuttavia

247

non sempre capita che Lluïsa si faccia trovare, perché nemmeno questo le è sempre dato. Ma

lei continua a provare con tutta la forza necessaria237

.

Devo riconoscere che spesso esco delusa dalla lezione perché non ho saputo trovare quel

momento speciale in cui il vincolo si fa presente e fecondo oppure non sono riuscita a

destreggiarmi nel conflitto. La realtà della classe a volte è molto dura, ancor di più

nell’insegnamento obbligatorio, e non tutta la classe è disposta al dialogo, i gruppi sono

numerosi e diventa difficile quella relazione prossima e personale. Tuttavia non mi arrendo e

ritorno il giorno dopo con energia e con il desiderio rinnovato di fare pensiero in relazione

(Cunillera, 2010b, p. 5-6, trad. mia).

4.2.5. Un viaggio che continua

Durante le lezioni di “Germanes di Shakespeare”, ci sono stati dei momenti in cui avrei voluto

essere una di loro; prendere parte come allieva a quello spazio di relazione così ricco. Ci sono

stati degli attimi in cui ho persino dimenticato ciò che stavo facendo lì e, per qualche secondo,

abracadabra, mi sono lasciata andare all’ascolto delle loro parole. È stato molto piacevole e

benefico.

Mi dispiace che questo corso non si faccia più, non è soltanto per i contenuti ma perché

realmente è prendere le cose, imparare, studiare, essere a scuola, in un modo molto

diverso…(Lluïsa, I, 3, 24.02.2011).

In una mail del 31 agosto del 2010, Lluïsa mi annuncia la fine di “Germanes di Shakespeare”.

Non ci sono soldi, quindi hanno eliminato alcuni corsi e ridotto il numero di insegnanti. «Non

è prioritario per il centro; questa è la verità» – scrive Lluïsa. Tuttavia, nonostante sappia che

nel corso obbligatorio le cose non saranno come a “Germanes”, accetta la sfida e dice: «Va

bene, dovrò mettermi a lavorare con più energie nell’altro gruppo [il corso obbligatorio] e

portare di più quel senso di libertà nell’educazione».

Il cammino continua quindi, per Lluïsa, per le sue allieve e allievi, presenti e futuri, e anche

per quello e quelle che sono già andate via: Adrià, Marta, Andrea e Tatiana. Continua con

loro e attraverso di loro. Scrive Tatiana nella Carta alla Lluïsa di fine anno:

237

Si veda Via Dogana (marzo 2012).

248

Le sorelle di Shakespeare ci hanno unito molto e ci hanno dato molte idee e modi di pensare

di cui io, personalmente, terró conto nella mia vita personale e professionale, poiché voglio

dedicarmi all’educazione (L, 25.05.2010).

4.3. La Tertùlia di Pròleg: «una pratica della relazione»238

Carmen Martín Gaite scrive in La búsqueda de interlocutor (2000) [La ricerca di

interlocutore]:

(…) sentir parlare una persona è anche scoprire le tracce del racconto nel volto che lo emette,

«vederla parlare», in una parola. I cambiamenti di gesto e di tono sono come un secondo

testo che rinforza il primo. Rendere visibili quei gesti richiede nel romanzo una serie di

strategie più o meno riuscite che si aggiungono al discorso stesso, nello stesso modo in cui si

descrive il luogo dove andrà a celebrarsi. Sono le premesse che ornano e conferiscono

garanzia all’evento principale: quello della parola (ivi, p. 213, trad. mia).

Queste parole mi hanno accompagnato nella stesura del racconto di ciò che succede nella

Tertùlia della libreria delle donne di Barcelona, ricordandomi, ancora una volta, la necessità

che le parole non perdano il vincolo con le cose, con i volti, con i luoghi, perché è quel

vincolo a radicarle nel racconto, a conferirle garanzia.

Ci tengo a precisare che con ciò che accade nella Tertùlia intendo quello che mi hanno

raccontato alcune delle donne che vi partecipano – ho privilegiato le donne che frequentano la

Tertùlia con una certa regolarità – in dialogo con ciò che ho sentito, visto e letto in proposito.

Ho quindi elaborato il testo a partire dalle interviste che ho condotto, dai taccuini – in

particolare dalle note relative alle sessioni di osservazione – e dal diario di ricerca. Come

materiale di sostegno ho fatto ricorso a bibliografia varia (testi e articoli di teoria, letterari,

ecc.), tra cui un posto centrale lo occupano le scrittrici oggetto di studio di questa ricerca.

Particolarmente importanti per il loro valore documentale e interpretativo, sono stati due

articoli scritti da donne vincolate direttamente alla Tertùlia: L’amor a un projecte i les seves

conseqüències: 16 anys de la Llibreria Pròleg [L’amore ad un progetto e le sue conseguenze:

16 anni della Libreria Pròleg], di Àngels Grasses (2007), fondatrice della libreria; e Las

238

L’espressione è tratta dall’articolo Las Tertùlias de Pròleg, una práctica de la relación [Le tertùlias di Pròleg,

una pratica della relazione] (Dalmases, 2009).

249

Tertùlias de Pròleg, una práctica de la relación [Le Tertùlias di Pròleg, una pratica della

relazione]239

, di Pilar Dalmases (2009), una delle partecipanti più fedeli alla Tertùlia.

Per quanto riguarda la trascrizione e la traduzione delle interviste (unicamente dal castigliano

poiché nessuna delle intervistate ha usato il catalano), valgano le osservazioni riportate nella

parte relativa al resoconto di “Germanes di Shakespeare”. Inoltre, in casi di ambiguità

all’interno dei testi citati, ho introdotto dei chiarimenti tra parentesi quadra.

Infine, prima di procedere con la narrazione, vorrei dare alcune brevi indicazioni riguardanti

le modalità di citazione dei diversi materiali nel testo:

bibliografia varia: riferimenti secondo le norme dell’A.P.A.;

protocolli delle interviste: dopo il frammento riportato e tra parentesi: I (iniziale di

“intervista”, se prima non si è specificato) e data in cui si è svolta l'intervista. Quando

prima della citazione non compare il nome della persona che parla, lo aggiungo tra

parentesi, prima dell’iniziale, per esempio, (Àngels, I, 04.02.2011);

taccuini: dopo il frammento riportato e tra parentesi: T (iniziali di “taccuino”, se prima

non si è specificato) e data dell’osservazione. Per quanto riguarda l’attribuzione, non

si pongono problemi di ambiguità, dato che sono l’unica ricercatrice sul campo. Esiste

la possibilità che le note dei taccuini siano trascrizioni letterali degli interventi delle

partecipanti alla Tertùlia. In questi casi, ho scelto di usare l’iniziale R, di

“registrazione”, preceduta dal nome della persona che parla (se non è stato specificato

prima) e seguita dalla data dell’osservazione.

diario di ricerca: dopo il frammento riportato e tra parentesi: DR (iniziali di “diario

della ricerca”, se prima non si è specificato) e data in cui ho scritto il frammento. Per

quanto riguarda l’attribuzione, vale quanto detto per i taccuini.

239

Il testo è stato scritto da Pilar nel corso tenuto da Assumpta Bassas La creativitad femenina en el arte

contemporáneo [La creatività femminile nell’arte contemporanea], all’interno del master Estudios de la

Diferencia Sexual [Studi della Differenza Sessuale], organizzato dal centro di ricerca DUODA dell’Università di

Barcelona (UB).

250

4.3.1. La libreria delle donne di Barcelona: «la forza della passione»

Avanzare sulla strada del proprio desiderio

è una sfida che ci fa diventare persone,

a volte vulnerabili, ma con la forza della passione.

Àngels Grasses, L’amore per un progetto e le sue conseguenze:

16 anni della Libreria Pròleg240

Non è possibile comprendere il senso della Tertùlia che ogni sabato si svolge nella libreria

Pròleg, l’energia che la muove, le motivazioni per cui tante donne vi partecipano, se prima

non ci si sofferma sullo spazio che l’accoglie. Un luogo fisico, innazitutto, le cui

caratteristiche ci danno già un primo indizio: la bellezza degli oggetti che lo abitano: ricordo

in particolare un vecchio mobile nell’ingresso, sulla sinistra; una fotografia di Elsa Morante

da giovane, in una cornice nera poggiata per terra; un mobile241

appeso al soffito, con decine

di fil di ferro raffiguranti un soffione, a cui sono attaccate etichette con la scritta bird, noi

donne come uccelli; certe edizioni: la carta, l’inchiostro, la scelta dei colori…242

; la cura nella

disposizione dei libri, alcuni di essi con la copertina in vista: Carmen Martín Gaite, Doris

Lessing, Virginia Woolf, Mercè Rodoreda, Luce Irigaray…, donne, come dice Àngels, la

fondatrice di Pròleg, «che ti sostengono la libreria (…) delle grandi donne, sai?, delle grandi

donne» (I, 25.02.2011). Vi è l’accoglienza che si respira qui e là, nei piccoli dettagli: qualche

lampadina accesa, le tazze per il thé o il caffè nella saletta che antecede il bagno, la poltrona

in uno degli angoli, che sembrerebbe lasciata lì per caso. Si ha la sensazione di essere in una

240 La traduzione è mia. 241

I mobiles o sculture cinetiche si ispirano all’opera di Alexander Calder. Clarice Lispector ne regala uno alla

sua piccola amica Andréa Azulay e così glielo descrive in una lettera: «(…) ti regalo questo oggetto. Spero che ti

piaccia. Il suo nome è mobile. Ma io gli ho dato sette nomi. Il primo: la donna è mobile qual piuma al vento. Il

secondo nome è: vertigine. Il terzo è: anno 2000. Il quarto è: delicatissimi sussurri. Il quinto è: sospiri. Il sesto è:

uccello azzurro. Il settimo è: Andréa Azulay» (Lispector, 2002, p. 89). 242

Mi riferisco ai libri della casa editrice femminista horas y Horas e in particolare alla sua collana “La cosecha

de nuestras madres” [“Il raccolto delle nostre madri”], che raccoglie testi di scrittrici considerate madri

simboliche, tra cui anche Virginia Woolf, Clarice Lispector e Carmen Martín Gaite. Oltre ad essere edizioni

molto curate per quanto riguarda, per esempio, la scelta delle traduttrici – donne con una lunga traiettoria nel

movimento delle donne; basti pensare ad Un cuarto proprio [A Room of One’s Own] di Virginia Woolf, tradotto

da Maria Milagros Rivera (2008) –, sono degli oggetti preziosi: carta pregiata, font raffinato, attenzione ai

dettagli (es. il colophon alla fine del libro, in cui la data di stampa è messa in relazione con un passaggio

importante della vita di una donna autorevole). Non sono mere questioni formali o esterne ma ci parlano della

passione amorevole che queste donne editrici hanno per il loro lavoro, così come ce ne parla la bellezza della

libreria.

251

casa più che in un negozio. Sarà che la libreria, nella sua posizione attuale, non è direttamente

sulla strada e per accedervi bisogna varcare un portone di legno e attraversare un piccolo

patio interno, con piante verdi sulla sinistra e un grande tavolo dove si trovano diversi

volantini che diffondono iniziative promosse da donne, tra cui anche il master organizzato da

Duoda.

A guardare da fuori, dalla soglia del portone, si intuisce che non si è arrivate in una libreria

qualunque. Poi quando finalmente si apre la porta a vetri si ha la conferma, il luogo è il primo

a mostrare che lì si può comprare certo un libro ma anche fare tanto altro. Basta averne il

desiderio e una piccola dose di coraggio per chiedere.

È uno spazio dove si lavora il testo di e per le donne, il testo scritto, da lí quindi sono emersi

i laboratori di lettura, di scrittura, di autoconoscenza; i dibattiti, le conferenze, le

presentazioni di libri (…). È molto importante che si conosca la storia del femminismo,

adesso sono i femminismi fortunamente, ma la sua base è questo collocarsi nella vita come

persona e come donna, con la tua libertà, e aggiungo che è l’unica rivoluzione che è stata

fatta senza versare sangue. Questo è molto importante, perciò è importante che gli uomini e

le donne ci leggano, leggano la nostra storia. Questo è il nostro lavoro, questo è il grande

lavoro delle librerie delle donne. Io credo che ci mantenga in vita il desiderio di far

conoscere questi testi meravigliosi che abbiamo qui, che stai vedendo ora. Ci mantiene

questo (Àngels, I, 25.02.2011)243

.

Sono le quattro del pomeriggio e tra poco dovrebbe arrivare Nùria, la figlia di Àngels, anche

lei alla guida della libreria. Il portone è aperto ma la porta a vetri è ancora chiusa. Filtra un

po’ di luce e si sente della musica classica. Mi viene in mente Virginia Woolf, così scrivo nel

diario di ricerca (25.02.2011), quando rivolgendosi alle destinatarie di A Room of One’s Own,

sottolinea quanto le condizioni materiali, tra cui un ambiente in cui ci si senta a proprio agio,

siano necessarie per una buona conversazione, essendo «l’impalcatura umana» quella che è «e

cioè cuore, corpo, cervello tutti mescolati insieme e non sistemati in compartimenti separati»

(1998b, p. 317).

Non è stato facile per Àngels trovare un momento da dedicarmi; il lavoro, mi dice, è sempre

tanto e quasi invisibile, «un lavoro molto, molto, silenzioso (…) da formichina (…)» (I,

25.02.2011). Senza l’aiuto di altre donne, racconta, sarebbe stato impossibile aprire la libreria

243 Il corsivo è mio.

252

nel 1991 e sarebbe stato altrettanto impossibile essere andate alla ricerca di un altro spazio più

grande, la sede attuale di via Sant Pere més Alt.

Se non fosse stato per le donne non avremmo riaperto le porte (…). Non avevamo nessuna

voglia di continuare, non perché non fosse utile ma perché eravamo stanche; eravamo

esauste. C’è stato molto riconoscimento reciproco: loro ci hanno riconosciuto e noi loro; bè,

è l’effetto dell'azione politica di ciò che si è sviluppato durante questi anni… (Àngels, I,

25.02.2011).

A guidare la libreria sono Àngels e Nùria, ma a sostenerla, a seconda dei propri desideri

(come socie, simpatizzanti, frequentatrici, ecc.) è una ampia rete di donne, che ha sentito e

compreso oppure intuito la necessità di essere insieme ad altre, di fare riferimento ad un'altra

per trovare misura per sé.

Alcune donne sono entrate dalla porta senza sapere ció che cercavano… (...) E noi abbiamo

fatto questo lavoro durante molti anni, trovare che cosa possiamo offrire loro tra tutto ció che

abbiamo (…) e quella donna che magari ha chiesto, dopo due, tre o quattro anni ti ringrazia

perché le è cambiata la vita (Nùria, I, 25.02.2011).

Uno spazio che ti può cambiare la vita. Dalla sua fondazione, ciò che la libreria continua ad

offrire244

è la possibilità di conoscere la cultura delle donne, di entrare a contatto con essa e di

viverla in prima persona. Di riconoscersi donna, il valore della propria differenza, insieme e

grazie ad altre, per cercare una forma di espressione propria.

È un luogo di relazione, un luogo protetto, ormai ce ne sono pochi, dove tu ti senti sicura,

comoda, a tuo agio, bene. È in definitiva un luogo politico (Àngels, I, 25.02.2011).

La libreria è un luogo politico perché pone al centro la pratica della relazione tra donne come

mediazione per la ricerca di un senso libero – fuori dalle categorizzazioni e astrazioni esterne

244

In passato alla libreria arrivavano donne in cerca anche di orientamento rispetto a questioni relative all’aborto,

il divorzio, la violenza sulle donne. «Venivano perché le indirizzassimo verso chi le potesse aiutare. Allora era

impensabile parlare di questi temi…» - dice Àngels - «Oggi fortunamente ci sono dei luoghi dedicati a risolvere

queste problematiche (…). Ma abbiamo aperto delle strade» (I, 25.02.2011). Come segnala Milagros Rivera, «le

librerie delle donne furono per il femminismo degli anni settanta (…) una porta aperta sulla strada che

corregge[va] la divisione tra pubblico e privato, un modo di render[si] accessibile al bisogno, all’esigenza o alla

curiosità di chi passa[va] di lì» (2011, p. 48).

253

– per sé, per gli altri e per il mondo. Un luogo che trae la sua energia dalla riconoscenza tra

donne e dall’autorità femminile – «la qualità di senso che una donna apporta, come un di più,

alle relazioni umane che lei stabilisce o accoglie», così l’ha nominata Milagros Rivera (2007,

p. 64) –, ora esercitata ora riconosciuta, in un movimento a spirale aperto e fecondo.

Movimento tuttavia non esente da arresti, da momenti di secca, quando si gioca al ribasso e

non ci si assume il rischio di esporsi.

Questo è il terreno in cui affonda le sue radici la Tertùlia di Pròleg e che nutre la sua

scommessa: essere uno spazio di presa e di scambio libero di parola; di interrogazione sul

senso di sé e del mondo in cui si vive, a partire da una libera soggettività femminile,

guadagnata insieme ad altre, tra cui le scrittrici. Scommessa sempre aperta che si rilancia in

ogni incontro, con esiti imprevedibili.

4.3.2. Aprire un nuovo inizio

Tudo no mundo começou com um sim.

Clarice Lispector, A hora da estrela

Anche la Tertùlia è iniziata con un sì. «Una molecola disse sì ad un'altra molecola e nacque la

vita» (Lispector, 2004, p. 14, trad. mia). Un’affermazione che risuona in alcuni dei romanzi di

Carmen Martín Gaite, per esempio, Nuvolosità Variabile (1995) o Lo strano è vivere (1998),

in cui il «sì» sta a significare l’apertura di un nuovo inizio quando due donne si incontrano e

decidono di parlarsi davvero: Sofía e Mariana; Águeda e Rosario.

A dire sì nella storia che sto per raccontare è stata Luisa Fortes, nata a Vélez (Málaga), la terra

di María Zambrano, una delle donne che Luisa ama (il verbo «amare» è suo), il che non è un

caso come non è un caso che siano state le parole di Clarice Lispector e quelle di Carmen

Martín Gaite a dar inizio alla narrazione. Sono nomi che ricorrono nella biografia di molte

delle donne che ho incontrato durante il mio percorso di ricerca e che testimoniano l’esistenza

di una genealogia femminile: figure di autorità in cui queste donne hanno riconosciuto,

ognuna a modo suo, una «comprensione del mondo fatta di sapere ed esperienza» (Comba,

2011, p. 291) e ne hanno fatto misura per sé. Donne che si sono affidate ad altre donne,

254

secondo un movimento simile a quello che spinse Àngels, la fondatrice di Pròleg, a chiamare

Luisa per chiederle di occuparsi della Tertùlia:

Mi chiamò Àngels disperata… Io e lei siamo molto amiche, lei dice che sono come una

sorella (…) ha una grande fiducia in me e anch’io in lei. Lei di solito mi racconta, mi chiede

consiglio: «cosa ti sembra questo, quest’altro», c’è un vincolo profondo (Luisa, I,

22.04.2010).

In virtù del vincolo che la unisce a Luisa, più di venticinque anni di amicizia, Àngels le affida

la Tertùlia, all’inizio per un giorno:

(…) quindici o sedici anni fa, insomma sono più o meno sedici anni che conduco la Tertùlia,

mi chiamò Àngels: «Luisa, la ragazza che si occupava dello spazio mi ha lasciata

completamente, mi ha abbandonata. Potresti venire oggi a occuparti della Tertùlia?» Io le

dissi: «Ascolta, io non so che cosa sia, non ho la più pallida idea di che cosa tu mi stia

parlando» (Luisa, I, 22.04.2010).

E Luisa, nonostante non sappia, accetta, dice «sì». Non è da sola a farlo, dall’altra parte del

telefono, insieme a Luisa c’è una sua grande amica, interlocutrice magistrale che la incoraggia

a farlo. Si tratta di Rosa Vallespì, pubblicitaria, scenografa e scultrice catalana, molto presente

nella cultura e nel pensiero femminile della città a quel tempo (una delle sale del Centro di

Cultura delle Donne Francesca Bonnemaison di Barcelona245

porta il suo nome):

Una donna molto importante nel mio mondo e nella mia vita; le ho voluto molto bene, parlo

al passato perché è morta tre anni fa (…) Era un'artista, molto impegnata… Ho imparato

molto con lei… La conoscevano tutti, dalla tua tutor di tesi [Remei Arnaus] a Milagros

[Rivera]; molte donne sono passate da casa sua, anche le italiane [si riferisce alle donne del

pensiero della differenza]; era una donna molto molto amata e molto importante per me (I,

22.04.2010)246

.

Da quel «sì» nato nella relazione tra donne e per amore alla relazione tra donne «prese corpo

la Tertùlia» (Luisa I, 22.04.2010).

245

http://bonnemaison-ccd.org/ 246

Si veda l’omaggio di Elizabeth Uribe nella rivista «Duoda» (2007).

255

L’amore per la letteratura, la parola, la scrittura… la vita

Luisa non è estranea al mondo della letteratura: né per passione, né per professione. Dopo

essersi laureata in Lingua e letteratura spagnole e prima di dedicarsi alla pubblicità con l'aiuto

di Rosa Vallespì, lavora molti anni in un’agenzia letteraria, «una delle poche che c’erano in

questo paese; adesso ce ne sono di più ma allora solo due erano importanti: quella di Carmen

Balcells247

e l’altra dove io lavoravo» (I, 22.04.2010). Tuttavia le condizioni non sono buone

e decide di abbandonare. Quindi l’incontro con Rosa le apre nuove possibilità lavorative:

(…) non sapevo niente del mondo della pubblicità ma iniziai ad entrare, entrare, entrare e…

Non è che sia un settore con cui abbia molte affinità perchè in definitiva è un settore molto

aggressivo ma ho imparato molte cose e c’è un versante in cui è molto importante essere in

contatto, in relazione con le persone e questo mi piace molto (…). Nonostante la mia anima

sia con la letteratura, sono molto grata a questo lavoro perché mi ha dato degli strumenti con

cui posso muovermi in questa selva scura, dove c’è tantissima competitività, moltissime

esigenze. Ma io mi muovo molto bene lì, non perché mi interessi la competitività ma perché

ho imparato delle cose, ho acquistato man mano sicurezza e non so, semplicemente ho

pensato che ciò che facevo dovevo farlo molto bene (…) (I, 22.04.2010).

In questo frammento di intervista trovo suggerite molte delle qualità che caratterizzano il

lavoro di mediazione di Luisa nella Tertùlia.Vorrei cogliere l’opportunità che il racconto mi

offre e anticiparle brevemente. Per esempio, la disponibilità verso gli altri e il piacere per la

relazione. Credo che uno degli elementi cha ha contributo a mantenere viva la Tertùlia

durante quasi vent’anni sia il piacere che Luisa trae dall’essere in relazione con le persone, in

particolare, con le donne. A questo proposito, ricordo la prima volta che sono andata alla

Tertùlia: appena entrata nella sala, ciò che più mi ha colpito è stato il modo in cui Luisa mi ha

accolta, la sua generosità e gentilezza; l’interesse nei miei confronti e rispetto al lavoro di

ricerca che stavo conducendo. E ancora, la gratitudine, l’umiltà (di cui Clarice Lispector ha

fatto il suo modo di avvicinarsi al mondo) e quella passione per la vita, di cui mi parla in un

momento della nostra conversazione, che si traduce nel fare bene ciò che le è dato e che

sceglie di fare, per esempio la Tertùlia, che Luisa cura, gratis et amore.

247

Carmen Balcells è stata la più importante agente letteraria nell’ambito della letteratura in lingua spagnola. Tra

gli scrittori e scrittrici che ha rappresentato si trovano Gabriel García Márquez, Mario Vargas Llosa, Julio

Cortázar, Carlos Fuentes, Pablo Neruda, Juan Carlos Onetti, Isabel Allende, Rosa Montero, Rosa Regás e un

lungo eccetera di figure di grande rilievo.

256

Come diceva León Felipe, quel grande poeta, “passare una volta per tutto, una volta sola e

leggero” (…). Anch’io ser en la vida romero [essere nella vita pellegrino] e passare per tutto

una volta, per tutto ciò che la vita ti permetta; mi piace, mi piace la vita… (I, 22.04.2010).

Alla scoperta del mondo

La biografia di Luisa è ricca di presenze femminili: le sue amiche Àngels, Rosa, Rosanna,

Pilar, per citarne alcune già comparse nel racconto e altre che presenterò a breve; le scrittrici:

la sua amata María Zambrano e poi Chantal Maillard, Juana Castro, Marina Cvetaeva, Ana

Ajmátova, Emily Dickinson, «poetesse che vivono con me, convivono» (Luisa, I,

22.04.2010). Marina Tsveáieva la scopre in uno dei suoi primi viaggi a Londra, ancora

universitaria.

(…) una delle poetesse più straordinarie che abbia dato la Russia (…). A Londra leggevamo

molta poesia; iniziai a tenere dei contatti con delle poetesse di Londra, americane, insomma,

con gente che stava lì, della mia stessa età, con degli interessi che ci univano… (Luisa, I,

22.04.2010).

Gente, tra cui Pilar Dalmases, una delle partecipanti alla Tertùlia, «una donna di grande

valore» – mi racconta Luisa – «con una grande capacità di pensiero» (I, 22.04.2010); donne

che decisero di viaggiare all’estero alla ricerca di un ambiente più libero e meno oppressivo di

quello che allora si viveva in Spagna.

Quando mi laureai [in filosofia] – mi racconta Pilar – decisi di andare a Londra (…). La mia

intenzione era di andare a Cuba a fare un dottorato ma le cose si complicarono, mi resi conto

che per andare a Cuba dovevo in qualche modo “vendere un’immagine” ma non ero disposta

a farlo… Ero quello che ora chiamano “antisistema” (risate). Quindi, invece di andare a

Cuba a fare un dottorato, decisi di andare a Londra a fare letti. Lì imparai molto, oltre

all’inglese, che qui in Spagna erano pochi a conoscerlo. Mi si aprirono molte prospettive

(…). È stata un’esperienza molto interessante nella mia vita, che mi ha molto segnata: era il

contatto con un altro mondo, quello che…, qui anelavamo e non avevamo… (…). Sono stata

lì un paio di anni è lì incontrai Luisa in un party (risate). In un party conobbi Luisa (I,

25.04.2010)

257

Invece di andare a Cuba decisi di andare a Londra a fare letti. Questa frase mi colpisce e mi

colpisce la determinazione di Pilar giovane, raccontata attraverso la voce dolce e calma della

Pilar che ho davanti a me: una donna di cinquantanove anni, insegnante in pensione di

filosofia, con due figli già grandi, che a venti decise di andare a vivere in una comuna.

«Abbiamo vissuto delle esperienze molto intense…in un’epoca molto oscura, come lo fu il

franchismo» (Pilar, I, 25.04.2010). Sono gli stessi anni in cui Luisa, mossa dalla necessità di

«uscire oltre le frontiere di qui e di là…» (I, 22.04. 2010), abbandona momentaneamente

l’università e inizia a viaggiare: Londra, Berlitz, dove lavora per alcuni anni «pagata molto

male, un ricordo orribile, facevo lezioni di spagnolo per guadagnarmi il pane…» (I, 22.04.

2010). Due donne coraggiose, come tante altre che frequentano la Tertùlia, in un’epoca in cui

era meglio non fare troppo rumore, non mostrarsi troppo. Eppure il loro desiderio è stato più

forte: ciecamente mi obbedisco… «Sono sempre stata una persona che aspira a leggere e

scoprire» (Luisa, I, 22.04.2010), mi dice Luisa. Sappiamo quanto in passato (e purtroppo

ancora oggi anche se con meccanismi più sottili) la lettura e il pensare da sé siano stati

considerati delle attività pericolose.

Donne attente, che ascoltano e decidono di esserci quando sentono che qualcosa di grande sta

per accadere, tenendo insieme esperienza personale e dimensione collettiva.

Quando ritornai da Londra non avevo l’intenzione di rimanere ma decisi di restare per la

transición248

, perché scoprii che stavano succendo delle cose in questa città: dove potevo

andare se qui era così pieno di animazione, pieno di vita? (Pilar, I, 25.04. 2010).

Che decidono di mettersi all’opera quando qualcosa in loro le chiama249

: «La Tertùlia, sì, ci

andai per caso e a partire da lì io mi misi all’opera» (Luisa, I, 22.04.2010).

248

Periodo centrale nella storia di Spagna del s. XX, poiché segnò il passaggio (da lì il termine transición) dal

regime dittatoriale del generale Francisco Franco alla democrazia. La transición inizia nel 1973, con l’assassinio

da parte di ETA di Luis Carrero Blanco, successore di Franco, e si conclude nel 1977, anno delle elezioni

democratiche, in cui vinse il partito guidato da Alfonso Suárez, UCD (Unión de Centro Democrático).

Interessante documento storico, con immagini, interviste, racconti dei testimoni, è la serie che per la televisione

spagnola (RTVE) realizzò la giornalista Victoria Prego, che fu emessa nella stessa rete tra luglio e ottobre di

1985: http://www.rtve.es/archivo/la-transicion-serie/ Sulle contraddizioni della transición a proposito di ciò che

si chiamò «pacto del olvido», rimando al testo di Milagros Rivera, La historia que rescata e redime il presente

(2007). 249

È la vita materiale (Duras, 1988) e le sue necessità contingenti a chiamare ad un’azione tempestiva (Muraro,

2012c), ovvero, un’azione che nasce in risposta ad un bisogno concreto ed è effettiva proprio perché nata

dall’ascolto attento della realtà, di ciò che accade. Come dice Delfina Lusardi, «si tratta della forza di un agire

che sta in presenza di ciò che è». Alcune di queste suggestioni li ho raccolte nel ritiro della comunità filosofica di

Diotima (estate 2012).

258

Lisistratas250

Anch’io scrivo, sono poetessa, e ciò mi viene dalle origini, da quando iniziai studiare… (…).

Ho sempre scritto poesia prevalentemente, che è il registro in cui mi trovo più a mio agio e

poi faccio anche critica letteraria e qualche racconto. Tuttavia la cosa che più mi piace è

scrivere poesia (Luisa, I, 22.04.2010).

La poesia occupa uno spazio centrale nella traiettoria vitale di Luisa: poesia letta, scritta,

ascoltata e pensata; la propria e quella di altre. Poesia che Luisa danza insieme ad altre in uno

spettacolo, che lei ricorda con particolare attenzione e affetto:

un progetto molto bello che durò un anno, siamo state un anno coinvolte, lavorandolo molto

(…). Eravamo quattro o cinque poetesse, poi c’era una donna musicista, che anche lei

partecipò, Rosa fece la coreografia, che era bellissima, ancora viveva Rosa, ed è stato uno

spettacolo che abbiamo portato in molti luoghi di Barcelona, anche a teatro, e il risultato è

stato molto bello per essere una cosa così che facevamo per la prima volta. Abbiamo raccolto

molti soldi e li abbiamo inviati a Lima per finanziare una casa di donne con problemi (Luisa,

I, 22.04.2010).

Donne che amano la poesia, le cui voci risuonano dall’altra parte dell’oceano; donne che si

incontrano per parlare di poesia in un convegno – «il titolo della mia relazione era La poesia:

verso un sapere dell’anima» (Luisa, I, 22.04.2010) – un altro ricordo che Luisa mette a fuoco

fra le tante immagini che scorrono davanti a sé mentre pensa, cercando di rispondere alla mia

domanda: Quando dici che per te è stato molto importante scrivere, cosa vuoi dire? Mi

sorprende che nella risposta il passaggio che apre sia popolato da altre donne: lei insieme ad

altre non lei da sola mentre scrive. Lei che pratica la poesia nella vita assieme ad altre.

Luisa: Al convegno sono venute moltissime poetesse della grandezza di Juana Castro che, a

proposito, presto verrà a Barcelona, verrà a Pròleg, e resterà a dormire a casa mia. È una

poetessa straordinaria; anche le donne di Duoda la conoscono, Milagros e Remei, chiedi a

250

Ispirato a Lisistrata, personaggio della commedia omonima di Aristofane, è il nome di un gruppo di poetesse

a cui appartenne Luisa per molto tempo. La scelta del nome è significativa se si tiene conto che la storia racconta

di come Lisistrata convince le donne di Atene e quelle di Sparta a unirsi per far cessare la terribile guerra che

allora (siamo nel 411 a.C.) contrapponeva le due città. Il mezzo scelto è semplicissimo: sciopero del sesso, a

oltranza, fino a che i maschi delle due collettività non la smetteranno di combattersi.

259

Remei, “ascolta, chi è Juana Castro?”. È una poetessa che a me piace tantissimo. Chantal

Maillard che è una poetessa straordinaria anche lei. Suppongo che non la conosci.

Ma. José: No (I, 22.04.2010).

E inizia a raccontarmi di lei: poetessa belga che scrive in spagnolo, laureata in filosofia…

Questa scena è il cuore da cui nasce la Tertùlia: una donna che racconta a un'altra di una terza

donna la cui scrittura ama. Una donna che ascolta perché si affida, perché sente che lì sta per

accadere qualcosa di grande: una scoperta tra donne.

Meglio non dire nulla.

Sarebbe inutile. È già passato.

Fu una scintilla, un istante. Accadde.

Io accaddi in quell’istante.

Forse anche Lei lo fece.

Succede con le poesie (…)251

.

Letteratura agita insieme ad altre, la letteratura vissuta in vivo, come dice Luisa. È qui che la

Tertùlia trova il suo centro di gravità.

Dare corpo alla Tertùlia: «una questione di desiderio» (Luisa, I, 27.11.2010)

La Tertùlia è innazitutto uno spazio aperto: l’unica condizione per accedervi è aver letto il

libro in programma perché – come dice Carol, una delle partecipanti più giovani – «forma

parte dell’accordo (…). La Tertùlia: leggi un libro e parli» (I, 27.11.2010). Ciò nonostante è

frequentata solo da donne. All’inizio, anche se per un breve periodo, c’erano uomini e si

leggeva qualche scrittore. Poi con il tempo, le cose sono iniziate a cambiare fino a prendere la

forma che oggi ha la Tertùlia: uno spazio tra donne. La genealogia della Tertùlia così come è

oggi, credo possa sintetizzarsi in queste parole che usa Luisa quando le chiedo di raccontarmi

delle sue origini: «se fue dando» (I, 22.04.2010).

Se fue dando è un tempo verbale difficile da tradurre; scelgo quindi di lasciarlo in spagnolo

per preservare il significato di incompiutezza e passività che esso esprime. Qualcosa che se va

dando è qualcosa che ci si offre (dare) ma non subito e non tutto, perché l’azione dura nel

251 Versi tratti da Matar a Platón (Maillard, 2004); traduzione di Gloria Bazzocchi in

http://www.filidaquilone.it/num012luquepinilla.html

260

tempo e quindi richiede attesa, pazienza e una certa disposizione all’imprevisto: qualcosa che

ci viene dato spesso non segue i cammini da noi prestabiliti. Soprattutto in questo caso, una

forma passiva impersonale, in cui l’agente è ignoto o non è importante in sé: diventa

passaggio perché ciò che si deve dare arrivi. Qualcosa che se va dando ha bisogno di spazio

per essere; bisogna perciò non fare ingombro con le proprie aspettative in modo che il irse

dando continui a farlo. Le aspettative possono animare, orientare ma è necessario che

rimangano in sottofondo, come una lieve musica, altrimenti c’è il rischio che si

sovrappongano al flusso dell’accadere. Qualcosa che se va dando non finisce mai di darsi e

perciò richiede che la partita sia sempre aperta e noi vigili per farsi trovare. Se fue dando

potrebbe essere, azzardo a dire, la sintesi del cammino che G.H. segue alla ricerca di una

parola propria in A paixão di Clarice Lispector. Se fue dando è il cammino che la Tertùlia

prese per essere oggi uno spazio di parola tra donne.

Come ho fatto? Utilizzai il passaparola, prima chiamai tutte le mie amiche, dissi loro: “c’è

questa Tertùlia che c’era già prima ma adesso me ne prendo cura io e quindi, non so, perché

non venite e iniziamo a darle corpo?”. All’inizio eravamo pochissime, i primi anni, non

saprei, venivano quattro o cinque. E poi non è che io avessi una concezione già prestabilita,

di dire “andiamo a leggere donne”. No. Diciamo che tutto se fue dando (Luisa, I, 22.04.

2010).

Le prime ad arrivare sono le amiche di Luisa: Rosa, Rosanna… E poi altre. Nel frattempo

Luisa inizia a pensare quali testi leggere: «(…) “questa è una libreria specializzata in autrici

quindi io credo che dovremmo…”, questo io lo andavo ruminando». Non decide subito ma

rimugina: gusta la sua intuizione, «con il cuore, inteso come intelligenza affettiva che

coinvolge tutta la persona» (Zamboni, 2009, p. 51); aspetta, si dà tempo per pensare alle

scrittrici che lei ama, per esempio le poetesse conosciute a Londra: Marina Cvetaeva, Ana

Ajmátova…, il significato che hanno per lei, e così inizia «a mettere autrici» (Luisa, I, 22. 04.

2010). Ma non decide da sola.

Abbiamo visto che c’era un filone di tutte le donne, donne scrittrici di una grandissima

qualità letteraria, che la maggior parte delle donne non aveva letto, allora abbiamo iniziato a

leggere donne (Luisa, I, 22.04.2010).

261

Luisa inizia a proporre e le donne dicono sì. La sua scelta non viene motivata da un’esigenza

esterna, per esempio un canone da rispettare, ciò che va letto secondo i critici, ma da una

chiamata interna, la sua esperienza di lettura delle scrittrici: ciò che per lei è importante

leggere perché per lei lo è stato. Nella scelta dei testi si fa orientare da quella intelligenza

affettiva che le permette di rimanere vicino a sé e al suo sentire in ciò che ora la occupa: dare

corpo alla Tertùlia. Si tratta di una scommessa, certo, perché Luisa non può prevedere gli esiti

della sua proposta e proprio come tale la offre alle altre donne, che dicono sì: vogliamo

leggere autrici. E lei si prende cura del loro sì.

Le autrici reclamarono la mia attenzione e l’attenzione delle donne che iniziavano a venire;

la Tertùlia andò crescendo, le une lo dicevano alle altre, da due o tre che eravamo all’inizio,

di colpo eravamo, che ne so, otto, e più avanti eravamo già in dodici e da dodici siamo

passati a quindici, bene, fino ad arrivare all’altro giorno che eravamo più di trenta, però

possiamo arrivare fino a quaranta (Luisa, I, 22.04.2010).

E ancora:

La Tertùlia andò prendendo forma e alla fine abbiamo deciso per unanimità e per una

questione di desiderio che volevamo leggere donne, basilarmente, in quello spazio volevamo

leggere donne e non uomini perché avevamo trovato un filone, perché ci piacevano, perché

ci trasmettevano, perché volevamo anche riscattare molte di loro dall’oblio (…). Tutte

volevano leggere donne, c’era un desiderio molto potente, non è che io l’abbia imposto, io

iniziai a suggerirlo (…). Se fue dando perché era un desiderio delle donne, di condividere

con altre e anche di leggere donne. Perché, certo, ciò che non c’è non può darsi, si dà ciò che

c’è (…) (Luisa, I, 22.04.2010).

Prendersi cura

La Tertùlia così come la conosciamo oggi nasce perché Luisa decide di prendersene cura.

All’inizio, subito dopo la Tertùlia, passavo tutta la settimana studiando, cercando, scrivendo.

A quel tempo io avevo una casa in campagna, che condividevo con altre due amiche, con

Rosa [Vallespí] e con Rosanna, la mia altra sorella, diciamo di amicizia, l’italiana che ti ho

fatto conoscere l’altro giorno [anche lei partecipante alla Tertùlia e che ho intervistato] (…).

E lì in giardino cercavo dei dati… Ora non più, adesso la cosa va da sé perché io ho molta

262

pratica ormai e non ho bisogno di prepararmi tante cose (ride) perché voglio che la gente

parli… (Luisa, I, 22.04. 2010).

Decide di prendersi cura della Tertùlia, dedicando il proprio tempo, energia e passione perché

possa crescere e quando è pronta a camminare da sola – quando le donne iniziano a parlare –

l’accompagna con pazienza. Quel tipo di pazienza, di cui Clarice Lispector dice essere la

condizione prima per potersi prendere cura del mondo, che è «osservare i fiori che

impercettibilmente e lentamente si aprono» (Lispector, 2001, p. 273). Pazienza che è

attenzione, capacità di ascolto e di farsi passaggio perché siano le altre a parlare, per non

occupare tutto. E anche dare misura, perché non di rado succede che al desiderio di ascolto e

di creazione di pensiero in relazione si sostituisca l’imporsi dell’ego: aver ragione e non

conversare, direbbe Virginia Woolf.

Luisa è di un’umiltà tremenda, non compete con la gente, parla… Luisa ti spiega delle

cose… Amo Luisa in questo senso, è una cosa più facile per me (…) perché la cosa della

competizione c’è l’ho dentro, è meglio un luogo in cui vi è contenimento, come Luisa (…) È

terribile la concorrenza che nasce e, invece, in generale, Luisa si destreggia molto bene con

ciò, riesce a fermare certe persone (…). Io con Luisa mi sento contenuta (…) Credo che

Luisa in questo senso abbia una cosa molto buona che è che non compete e che contiene

(Carmen, I, 26.11.2010).

Anche Rosanna, amica di Luisa e partecipante alla Tertùlia, ci offre una visione simile della

sua mediazione anche se da una prospettiva diversa:

Luisa ha un grande merito, con tutti i difetti che possa avere, il merito di aver portato avanti

questa Tertùlia, io credo che se ha successo, nel senso che la gente va con piacere e ripete

(…), io credo che buona parte è merito di Luisa perché è accogliente, perché sa accogliere le

persone e le dà quel tono, chiamalo casalingo se vuoi, ma di familiarità simpatica, non è un

luogo dove si va, che ne so, per farsi vedere o per spiccare, “io so più dell’altra, ecc.”,

capisci?, ma le dà quel tocco di partecipazione, del piacere di condividere, per esempio, i

pensieri che sono nati dalla lettura, la lettura stessa, sì…(I, 05.05.2010).

Il tocco di Luisa è il suo amore per la Tertùlia, inteso come «passione e come energia

conoscitiva (…), come sapere dell’anima liberamente vincolata al proprio sentire» (Piussi,

263

2008a, p. 42), che riesce ad accompagnare ciò che accade, a cogliere le contraddizioni e le

rigidità, proprie e del gruppo quando la parola non riesce a circolare liberamente; e anche

come fedeltà a sé, al suo progetto, che è anche di tutte le donne che partecipano alla Tertùlia.

Soltanto una volta ho mancato al mio appuntamento con la Tertùlia e ormai sono sedici anni

quasi diciassette. Un mese dopo l’altro, dopo l’altro e sono nove mesi, i mesi che dura un

parto (…). I mesi che dura la gestazione, no? Non so, io sono felice quando arriva, non so,

mi piace tanto sistemarmi, eh?, abbellirmi per la mia Tertùlia, no?, per condividere con le

altre (Luisa, I, 22.04.2010).

E più avanti:

La Tertùlia si è arricchita da me ed io da essa e da tutte le mie compagne. Ossia, dico sempre

che è un merito condiviso, è un merito di tutte. Di tutte quelle che vengono e vengono perché

vogliono… Adesso la Tertùlia è come una luce; te l’ho già detto, all’inizio sgobbavo

tantissimo, lavoravo tanto e pensavo “verranno, non verranno”, soffrivo. Adesso sempre dico

che qualcosa accadrà e qualcosa di molto bello252

, quella certezza c’è l’ho adesso. Ma è una

certezza impressionante (Luisa, I, 22.04.2010).

Se fue dando, se fue dando, ripete Luisa. Le autrici chiamarono altre autrici; le donne

chiamarono altre donne e Luisa accetta, «si fa nuovo inizio» (Piussi, 2008a, p. 9). Così nasce

un paesaggio inaspettato, di volti, di storie, di esperienze, di saperi: «uno spazio vivo dove si

costruisce continuamente, si apporta e si costruisce, ognuna differente» (Xus, I, 17.11.2010).

Ognuna differente: «Ti riferisci alle sessioni della Tertùlia oppure alle donne?» – chiedo a

Xus, un’altra delle partecipanti, tra le più appassionate nella discussione. «Entrambe» – mi

risponde.

252

L’aggettivo che Luisa usa è “precioso”. Precioso significa in castigliano ‘bello’ ma anche ‘prezioso’.

264

4.3.3. Pensare attraverso le nostre madri

Perché, se siamo donne,

dobbiamo pensare il passato attraverso le nostre madri.

Virginia Woolf, Una stanza tutta per sè

La Tertùlia di Pròleg si svolge l’ultimo sabato del mese, dalle sei alle otto, anche se spesso

Àngels e Nùria devono «cacciare» le donne dalla libreria: «si trovano così a loro agio che

spesso finiscono tardissimo (…); pensa che dopo alcune vanno a cena e continuano a

discutere» (Àngels, 25.02.2011). Succede, come mi spiega Luisa, che a volte una questione

resti aperta – per esempio, il comportamento di un personaggio (come è successo con Iza,

protagonista di La ballata di Iza, di Madgda Szasbó253

) –, e allora «se la portano dietro»:

«continuiamo condividendo, dialogando, pensando…» (Luisa, I, 22.04.2010).

Nella sessione di settembre si scelgono i libri che verranno letti nei successivi nove mesi, da

ottobre a giugno:

(…) chiedo sempre che portino una proposta, diciamo, un desiderio alla Tertùlia, una

proposta di testo, di qualcosa che è piaciuto loro (…). Anche questo si è dato perché io

volevo accogliere il desiderio delle donne (…) massimo due testi a persona, poi la gente fa le

proprie proposte e c’è una votazione per alzata di mano e così vengono scelti i nove testi

(Luisa, I, 22.04.2010).

Non basta tuttavia proporre il titolo di un libro, bisogna spiegare anche il perché, le

motivazioni per cui è stato scelto, mi spiega Xus, una delle voci più polemiche della Tertùlia:

253

Il romanzo ambientato in Ungheria alla fine degli anni sessanta narra la storia di Iza, una donna che, in

estrema sintesi, dedica completamente la sua vita alla professione medica e alla militanza nel partito comunista,

trascurando così la sua sfera affettiva, tra cui la relazione con la madre. Il comportamento di Iza accese una

appassionata discussione tra le partecipanti alla tertùlia quel sabato, in cui ero presente. Alcune sostenevano le

scelte del personaggio oppure cercavano di comprenderle e altre le criticavano, senza arrivare ad una

conclusione. L’aspetto più interessante è che la discussione attorno al personaggio fece emergere temi molto

significativi a mio avviso, tra cui il valore dei lavori domestici perché essenziali per il sostegno e la cura della

vita; la relazione di una donna adulta con i suoi genitori, in particolare con la madre; il trattamento che viene

dato alle persone anziane nella società odierna («cosa vogliamo fare noi?, si chiedeva una delle partecipanti) (T,

17.04.2010); la solitudine di una donna che lascia tutto per la sua professione; il modo di far politica delle donne

che, come diceva un’altra delle partecipanti, «si basa sui sentimenti e sulla relazione, ma questo lo capisci dopo

aver fatto un certo tipo di militanza…» (T, 17.04.2010).

265

Io ho proposto Jeannette Winterson, una delle scrittrici che mi piacciono di più in questo

momento; è un libro di fantascienza, che lavora molto con tutto ciò che è cyborg254

(…). Ci

sono delle riflessioni molto profonde sulla filosofia, sull’umanità, l’amore, la coscienza di

essere, di essere umano nel mondo, il perché dei cyborg, le cyborg pensanti che vogliono

sentirsi umane… (I, 17.11. 2010).

La Tertùlia: «uno spazio aperto»255

Xus è una giovane donna che si autodefinisce una «nomade nel mondo e nella vita» e a cui

piace «muoversi liberamente», andando lì dove può imparare – «mi sono sempre mossa con

gruppi di donne» (I, 17.11.2010). Frequenta la Tertùlia da tre anni anche se già da tempo ne

era a conoscenza, grazie al suo lavoro nel centro di cultura Francesca Bonnemaison di

Barcelona:

Il fatto di essere nel comitato direttivo della Bonnemaison, più l’incoraggiamento di alcune

amiche vicine mi hanno spinto a provare (…) Sono andata un giorno e mi è piaciuto molto,

così ho iniziato a partecipare, alcune volte con la presenza e ascoltando, e altre attraverso un

intervento più diretto, contribuendo con idee o polemizzando, perché riconosco che mi piace

molto polemizzare (risate). Io mi riconosco a volte come provocatrice. All’interno della

Tertùlia c’è un gruppo dove siamo più provocatrici, ci piace molto polemizzare, ci piace

moltissimo questionare molte cose (silenzio) (Xus, I, 17.11.2010).

Penso a quanto sia ricco (e perciò complesso) lo spazio della Tertùlia: ricco per la diversità

delle donne che la frequentano; ricco per le autrici che le convocano ogni sabato a pensare

insieme, anche esse così differenti: un mese, Katherine Mansfield e quello successivo,

Jeannette Winterson.

Ci sono alcune compagne a cui non piace la fantascienza, fanno fatica, ma nella Tertùlia

bisogna che ci sia di tutto, deve essere ricca… Allora so che sarà un libro che scuoterà le

254

Il titolo del libro a cui si riferisce Xus è The Stone Gods (2007), pubblicato in italiano da Mondadori con il

titolo Gli dei di pietra (2008). Sul cyborg e la corrente del cyber-femminismo si veda Haraway (1995). Per una

lettura del cyber-femminismo dalla prospettiva del pensiero della differenza sessuale, si veda l’articolo di Chiara

Turozzi, Caverne cibernetiche, in «Per amore del mondo», n. 3, 2005:

http://www.diotimafilosofe.it/riv_wo.php?id=11 255

Dalmases, 2009, p. 1, trad. mia

266

persone e sarà fonte di molte discussioni passionali, sono convinta… (…) Lo so perché tocca

dei temi molto intensi, molto intensi, tocca il tema della pederastia, che costringe le donne a

operarsi per diventare giovanissime… (Xus, I, 17.11.2010).

L’intensità con cui parla della Winterson la ritrovo quando mi racconta della sua lettura della

Mansfield256

:

(…) era una personalità totalmente libera ma al contempo tormentata, tormentata perché era

una donna molto trasgressiva per la sua epoca e nello stesso tempo con una tremenda e

profonda solitudine. Anche se era circondata da persone aveva una profonda solitudine e i

quattro racconti che abbiamo letto sono impregnati del suo vissuto, della sua esperienza,

della sua personalità (…). Quindi a me…, sei la prima che lo sa (risate), questo è ciò che mi

ha trasmesso Katherine Mansfield ed è quello che voglio trasmettere nella Tertùlia perchè, a

partire da lì, sia possibile iniziare un dialogo (…). Quello che mi interessa della Tertùlia è

questo: che cosa ha provocato in te il testo, cosa ha provocato in me che non è altro che

l’esperienza dell’autrice come ognuna delle partecipanti l’ha ricevuta… (Xus, I, 17.11.2010).

Ci sono dei fili maestri che sostengono la trama della Tertùlia, condizioni senza le quali la

Tertùlia non sarebbe quello che è: «essere donne innazittutto», come dice Carol, una delle più

giovani (I, 27.11.2010), la passione per la letteratura e il piacere di stare in relazione con altre.

E poi altri fili che vanno a intrecciarsi per confezionare il tessuto, che in ogni incontro è

diverso perché diversi sono gli sguardi con cui si approccia il testo e l’autrice; perché la stessa

autrice è diversa e quindi la tonalità della conversazione cambia («la Tertùlia ha sempre il

livello del libro» - dice Eva (I, 24.04.2010) un’altra delle partecipanti). A caratterizzare la

Tertùlia è dunque la diversità: delle donne che la frequentano e delle autrici che si leggono.

Diversità che si coglie a prima vista, nel modo in cui ognuna si veste, si atteggia, si muove

nello spazio della libreria e che, una volta iniziata la conversazione, viene confermata dagli

interventi che si susseguono; nell’elenco delle autrici scelte, da Jeannette Winterson a

Katherine Mansfield, come abbiamo visto. Ed è questa diversità a rendere la Tertùlia uno

spazio così interessante per molte delle donne che vi partecipano.

256

Katherine Mansfield, scrittrice neozelandese nata nel 1888, tra le più amate da Clarice Lispector (si veda la

cronaca del «Jornal do Brasil» del 24 febbraio 1973) e da Virginia Woolf (si veda Fusini, 2009a, pp. 120-124).

La raccolta di racconti Prelude (1917) è stato il testo attorno al quale si è conversato nella tertùlia del 27.11.

2010.

267

Mi sembra molto positivo che sia una Tertùlia aperta perché all’improviso può comparire

una donna che non era mai venuta prima (come nel mio caso la prima volta) e che nessuna sa

da dove viene e io credo che se le donne che vengono si sentono comode sia bene che diano

la loro visione, ciò che ha provocato in loro la lettura del testo (…). Ciò che dà personalità a

questa Tertùlia credo sia che qualunque donna può partecipare, basta che abbia letto il

testo… (Pilar, I, 25.04. 2010).

Certo, continua Pilar, non si tratta di una chiacchierata davanti ad un caffè e quindi ci sono

delle regole tacite da rispettare, per esempio, non intervenire per dire qualcosa che è già stato

detto, non prendere troppo tempo per sè nè accanirsi su certe idee: «Ci sono delle personalità

che se fossimo in meno (e non ci fosse la mediazione di Luisa) probabilmente

monopolizzerebbero la parola, per ripetere le stesse cose oppure per difendere una

determinata visione» (Pilar, I, 25.04.2010).

Anche Rosanna, l'amica italiana di Luisa, considera un valore il carattere aperto della

Tertùlia:

Le donne che hanno frequentato la Tertùlia sono state sin dall’inizio molto interessanti nel

senso che essendo differenti, provenendo da esperienze diverse, hanno dato dei contributi

molto ricchi. Non so, ci sono state delle donne che venivano da associazioni di donne, di

quartiere; donne maltrattate, donne che hanno sofferto violenze di genere (…), non so,

psicanaliste, casalinghe, un po’ di tutto, sai?, docenti, insegnanti, filosofe, storiche, una

buona percentuale di dottoresse; sposate, divorziate, vedove, con figli, senza figli, con figli

adottivi; (…) venivano da luoghi diversi, che ne so, straniere, per esempio, tutto un gruppo di

latinoamericane che sono arrivate insieme o separate, alcune come rifugiate politiche, che

provenivano dalla dittatura di Uruguay o Cile o Argentina [per esempio, Carmen], e allora…

Donne che venivano da altri luoghi della Spagna, di immigrazione interna, diciamo, da

Andalucía, da Extremadura, da altri luoghi… Anche le straniere come me, che ne so,

dall’Italia, dalla Germania, a volte. Insomma, una varietà interessante che ha contribuito con

un punto di vista molto interessante (…). Omossessuali, eterossesuali, nonne, madri, figlie,

sai?, tutto un ventaglio, se vuoi, delle possibili relazioni familiari o affettive…, quindi un

panorama molto ricco (Rosanna, 05.05.2010).

Rosanna appartiene al gruppo delle «fedeli alla Tertùlia sin dall’inizio» (I, 05.05.2010) ed è

quindi una testimone privilegiata delle trasformazioni di uno spazio che lei continua a

frequentare dopo quasi vent’anni:

268

Attraverso la parola, nel commento di un libro che ti può essere o meno piaciuto, vengono

svelate delle cose della persona che parla (…); entri a contatto con una ricchezza umana che

non è sempre possibile percepire nel mondo, quindi poter esser partecipe, poterne formar

parte… Credo che la Tertùlia abbia questo grande valore, non perché sia un luogo di

psicodramma o qualcosa del genere: la gente si sente molto a proprio agio, non si sente

censurata oppure particolarmente giudicata e può rivelare cose intime, molto personali…

Voglio dire che ci sono dei fili che uniscono (…) queste persone, queste anime, queste

sensibilità e ciò permette che affiorino, non so, questi dettagli, che non in tutti gli spazi

succede, perché in altri spazi c’è un desiderio di prevalere, una rivalità (…) una lotta

tremenda di egos e di “qui io posso di più e ora dimostro ciò che so, ecc.” e qui… Guarda,

dopo tutto questo tempo, tutti questi anni non mi sembra che questi aspetti siano

predominanti ed è questo il motivo per cui la gente torna con piacere (Rosanna, I,

05.05.2010).

I fili che uniscono

Nelle parole di Rosanna ci sono tante suggestioni per avvicinarsi al mondo della Tertùlia e

alla pratica della relazione che le donne pongono in essere. Vorrei seguirne due. Da una parte,

la messa in circolo di esperienza femminile svelata dalle parole delle donne che intervengono

nella Tertùlia, «la visione della donna sul mondo che è il tema che ci interessa» (Carol, I,

27.11.2010), visioni più che visione anche se nel dire visione, intuisco che Carol faccia

riferimento a qualcosa che accomuna le diversità, dei fili che uniscono e che lei sintetizza

nell’espressione: «essere donne» (I, 27.11.2010). Esperienza femminile che propongo di

leggere come l’«immagine di una ricchezza possibile» che viene alla luce quando le donne

decidono di darsi ascolto, quando comprendono che «qualcuna lo ha detto per me prima di

me» (Libreria delle donne di Milano, 1987, p. 2) e, così facendo, riconosco l’esistenza di una

genealogia femminile. Dall’altra, la qualità della parola messa in circolo, che Luisa Fortes

dice appartenente ad «una lingua sciolta, non legata» (I, 22.04.2010) – e che a mio avviso si

collega a quel sentimento di agio e di libertà nel parlare, cui accennava Rosanna –, indizio che

cercherò di decifrare partendo dal modo in cui si leggono i testi nella Tertùlia e da come

vengono pensati nello spazio della conversazione tra donne.

269

«La passione per la letteratura e il desiderio di condividere» (Luisa, I, 22.04.2010)

Leggere un libro per la Tertùlia richiede impegno; non si legge soltanto per sé ma per

condividere con altre la propria lettura. Si tratta di una lettura più «presente», come dice Xus,

meno «assorta», come scrive Pilar Dalmases:

(…) non è lo stesso leggere per sé (…) che leggere sapendo che si tratta di un’esperienza

che dopo sarà condivisa con altre: lì il piacere cresce, probabilmente perché aumenta

l’attenzione verso l’opera e verso sè stesse, verso ciò che quell’opera provoca nella lettrice

mentre legge (2009, p. 1, trad. mia).

Una lettura che esige di mettere in parole ciò che il testo ha suscitato in sé, fare uno sforzo di

significazione per, a partire dalla propria esperienza, andare oltre, all’incontro con le altre per

iniziare a pensare assieme.

Nei turni di parola i commenti possono focalizzarsi su aspetti letterari, psicologici, sociali,

storici, filosofici in funzione del bagaglio di ognuna, ma, a mio avviso, ciò che risulta più

interessante è che insieme a questi commenti (…) appaiono sensazioni, dubbi, emozioni,

persino commozioni. Perché non sono commenti puramenti teorici, sono commenti fatti in

prima persona, ovvero, a partire da sé. (…) Si tratta quindi di commenti “vivi”: provengono

da e sono, a loro volta, esperienza. E ciò permette vivenciar257

che, effettivamente, a partire

da un’opera letteraria impariamo, ci arricchiamo per la nostra quotidianità (…) (ibidem, trad.

mia).

Nel nostro incontro chiedo a Pilar di spiegarmi meglio cosa significhi per lei l’espressione a

partire da sé:

257

Il corsivo è mio. Non ho trovato un termine equivalente in italiano che renda in modo compiuto il senso del

verbo vivenciar (una possibile traduzione potrebbe essere l’espressione “fare esperienza vissuta”). Il Diccionario

de la Real Academia Española non raccoglie la parola ma sì il sostantivo da cui deriva, “vivencia”, che definisce

così: «Da vivere, formata dal filosofo José Ortega y Gasset per tradurre il termine tedesco Erlebnis. 1. f. Fatto di

sperimentare qualcosa e il suo contenuto. 2. f. Fatto di vivere o essere vivo. (…)»

(http://www.rae.es/rae.html,trad. mia).

270

Il partire da sé è vincolato alla propria esperienza e soprattutto alla propria esperienza non da

un punto di vista anedottico bensì da quello che veramente ti ha lasciato touchè, vale a dire,

che in qualche modo ti tocca in profondità nel tuo essere (I, 25.04. 2010).

Nelle parole di Pilar trovo l’eco del pensiero delle autrici a cui mi sono affidata per dare conto

del modo in cui mi sono avvicinata ai testi delle scrittrici fuoco di questa ricerca: innazitutto,

la stessa Virginia Woolf e il suo Come dobbiamo leggere un libro? (1998a), ma anche Marie

Luise Wandruska, che propone quell'andirivieni tra «diletto e distanza» (1992) come spazio

privilegiato di incontro con il testo. Privilegiato, azzarderei dire, dalle donne, che trovano in

quel movimento il passaggio per accedere al testo e nominare la propria esperienza di lettura a

partire da sé. Diletto e distanza che ritrovo nelle parole di Rosanna quando parla del piacere

che la lettura di certe scrittrici hanno provocato in lei, scrittrici che – come direbbe Pilar –

l’hanno lasciata touchè, perché toccata nel profondo. E ancora quando mi racconta delle

domande che esperienze così diverse dalla propria suscitano in lei e che per essere nominate

hanno bisogno di distacco, dello spazio necessario perché il proprio pensiero venga alla luce:

…si tratta di accedere ad altre esperienze, io lo chiamo in questo modo (…) E ti fai delle

domande sulla tua (…). Mi sembra che l’incontro con gli altri serva per chiederti di ciò che ti

riguarda, attraverso l’altro tu ti fai delle domande, ti vedi o non ti vedi, dipende, o ti vedi fino

ad un certo punto… (Rosanna, I, 05.05.2010).

Dalla commozione che la lettura provoca nascono delle domande, perché è difficile che il

pensiero si metta in moto se non è il sentire ad accenderlo. Commozione che poi nel momento

della condivisione con le altre non si perde del tutto, rimane sotto forma di tremore, ad

alimentare la parola che nel rivivere ciò che si è pensato in solitudine si trasforma nello spazio

della relazione:

Devi essere molto acuta e osservare dettagliatamente… Ma a me è successo: arrivare con

un’analisi fatta e nel momento dell’intervento, non so perché, qualcosa mi è venuto come un

elemento nuovo e anche se ero andata, diciamo, con quella base, qualcosa di nuovo mi è

arrivato che mi ha permesso di fare un’altra cosa, vale a dire, lavorare con un elemento

nuovo per trasmettere nella Tertùlia ciò che in quel momento volevo. Bisogna avere la

capacità, la libertà di improvvisazione (…) (Xus, 17.11.2010).

271

Raccontare la propria esperienza di lettura a partire da sé non significa rimanere nella

biografia oppure in uno spazio solipsistico in cui solo la persona che parla sa di cosa sta

parlando, bensì rivolgersi alle altre con parole pensanti che aprano l’opera dell'autrice ad un di

più, che siano un invito a pensare assieme, che diventino mediazione per avvicinarsi al testo

ma anche parole per dare nome a ciò che si vuole dire oppure per affinarlo, renderlo più

essenziale (l’«elemento nuovo», a cui faceva riferimento Xus).

Quando parli di quello che hai letto, si accede ad una parte molto profonda (…). Ma si tratta

di parlare oltre il sentimentalismo o il dettaglio biografico, il perdersi nel dettagliare…, è

accedere realmente ad un luogo profondo. Tuttavia, non perché si abbia la volontà di

accerdervi ma perché ci si arriva… (Eva, I, 24.04.2010).

A muovere il racconto non è la difesa di una posizione, come dice Pilar (Dalmases, 2009, p.

2), ma «il desiderio di comunicare il senso di una lettura legata alla vita (…), di sottrarre i

libri ad ogni forma di astrazione che esclude perché entrino nel cerchio di una relazione

appassionata e non per questo meno lucida e rigorosa» (Rampello, 2005, p. 38). La Rampello

sta parlando del lavoro di critica letteraria di Virginia Woolf – chiunque abbia letto i suoi

saggi sa quanto queste parole siano vere – ma credo possano applicarsi anche alla Tertùlia se

non per descrivere una realtà, diciamo compiuta, per indicare la direzione verso la quale

tende, spesso intravista in quei momenti in cui la parola diventa pensiero dell’esperienza

(Buttarelli, Giardini, 2008), nato in relazione ad altre. Sono questi momenti, come

percepiscono molte delle donne che ho intervistato, a fare la differenza rispetto ad altri spazi.

Ed ecco che arriviamo ad un passaggio centrale, che Rosanna coglie in questo suo intervento

già citato:

(…) in altri spazi c’è una volontà di prevalere, una rivalità (…) una lotta tremenda di egos e

di “qui io posso di più e ora dimostro ciò che so, ecc.” e qui… Guarda, dopo tutto questo

tempo, tutti questi anni non mi sembra che questi aspetti siano predominanti ed è questo il

motivo per cui la gente torna con piacere (Rosanna, I, 05.05.2010).

«Conversare e non avere ragione», come scrive Virginia Woolf nel suo Diario, è lo spirito

che anima la Tertùlia e che quando circola liberamente la fa diventare «uno spazio di scambio

creativo» (Xus, 17.11.2010), in cui le donne che vi partecipano si sentono a loro agio perché

possono essere se stesse (Pilar, 25.04. 2010), esprimere il proprio pensiero, che non è dire la

272

prima cosa che viene in mente, ma comporlo in relazione, attraverso la pazienza e la capacità

di ascolto («il cammino della rosa», come si impara da Clarice Lispector), verso di sé e verso

le altre, in un movimento continuo tra il proprio sguardo e quello altrui.

Formiamo parte di un vincolo dialogante; vi è un vincolo dialogante tra estranee (Carmen, I,

26.11.2010).

Vincolo dialogante in virtù del quale si fa esperienza della letteratura in prima persona, la si

vive, in «una lingua sciolta, non legata», come dice Luisa (I, 22.04.2010), lontana dal

linguaggio accademico e da interpretazioni già date secondo categorie più o meno definite. Si

tratta della lingua materna – che è la lingua con cui scrivono molte delle scrittrici che si

leggono nella Tertùlia, tra cui anche Clarice Lispector, Virginia Woolf e Carmen Martín

Gaite. Ed è questa lingua comune tra estranee a preservare la vita, a farla circolare all’interno

della Tertùlia, «uno spazio vivo dove si costruisce continuamente, si contribuisce con il

proprio pensiero e si costruisce, ognuna è diversa…» (Xus, 17.11.2010).

Donne che sanno esserci

Quando agisco, intreccio il mio filo in un grande

tessuto, che non ho fatto io ma che esisteva prima

di me. Il mio filo ha un colore e una struttura

inconfondibili, cioè, il mio fare è libero e unico e

nuovo, ma non è indipendente, perché senza il

tessuto delle altre e degli altri rimane sospeso

nell’aria.

Ina Praetorius, La filosofia del saper esserci

Nella Tertùlia ci sono delle voce autorevoli – dei «referenti», come dice Carol – «donne che

quando parlano tu dici “vediamo cosa dicono”, anche se non sempre quello che dicono

coincide con la mia opinione (…), donne che hanno letto molto e che hanno un bagaglio

culturale e artistico oppure che vedono la letteratura come io la vedo (…) donne che per me

sono dei referenti, che dici, “che donna”» (I, 27.11.2010). Donne che nel condividere con le

273

altre la propria esperienza di lettura, ci mettono qualcosa di proprio e che le altre riconoscono

come un di più; un pizzico di sale che rende la parola più gustosa.

La parola «“sapienza”, dal latino sapientia» – ci racconta Milagros Rivera (2011) – «deriva

da sapere, un termine che, attraverso una parola greca che significa “succo”, è in rapporto con

“sapore”, cioè con il senso del gusto» (ivi, p. 41). Nella Tertùlia ci sono donne che mettono in

circolo parole gustose, parole sapienti, seguendo l’accostamento che ci propone Milagros

Rivera, e che altre donne ricevono, rimuginano con piacere nel palato che, collegato al

cervello, fa scattare delle sinapsi, delle connessioni inattese.

L’altro giorno parlando con Rosanna di questo libro [si riferisce a En la bahia di Katherine

Mansfield], lei mi dice, “sto finendo di leggere la sua biografia…”, e io ho pensato “Mio dio,

questa donna, cosa mai tirerà fuori nella Tertùlia”. Perché evidentemente metterà in

relazione il libro con la vita della Mansfield. Magari leggesse un frammento, qualcosa!

(Carol, 27.11.2010).

Carol, la donna più giovane della Tertùlia (non più di trent’anni), attende le parole di Rosanna

(colei che per la prima volta le ha parlato della Tertùlia) perché riconosce in quella donna

qualcosa che, in un certo senso, la rende tale e autorevole per sé: la sapienza, che

comunemente «la gente associa con le donne e con il femminile libero» (Rivera, 2011, p.

41)258

. Vediamo cosa dice – attende Carol – perché quando la libertà di una donna parla la si

vede.

A questo proposito, mi viene in mente un passaggio di Retahílas259

(1974), uno dei romanzi di

Carmen Martín Gaite, che meglio esprime a mio avviso la capacità di far vedere ciò che le

proprie parole dicono; parole la cui verità e sapienza creano una visione nella persona che

ascolta. La persona che parla è una donna, Eulalia, ma non è la sua voce che ascoltiamo bensì

quella del suo interlocutore, Germán, che rivolgendosi a Eulalia, ci fa partecipi dell’effetto

che le parole della donna hanno su di lui:

258

Il corsivo è mio. 259

«Sotto la voce retahíla (...) il Diccionario de la Real Academia Española recita: (...) “Serie di tante cose che

si trovano, si producono o vengono citate per ordine”. E il Diccionario crítico-etimológico di J. Corominas: (…)

“Derivato da hilo (filo); la prima componente è di origine incerta; forse si tratta di una parola colta che proviene

dal plurale recta fila = file diritte”. E vorrei aggiungere a queste autorevoli testimonianze il senso figurato di

“disquisizione”, “tiritera” o “menata” – come si dice oggi – senso in cui da bambina, a Salamanca, ho sentito

utilizzare questa parola» (Martín Gaite, 2003, p. 7).

274

(…) mi hai contagiato con il tuo fuoco. Perché tutto quanto si collega ai fuochi, a come sei

fatta tu, a come parli, Eulalia, a come ti splendono gli occhi mentre parli (…) tu non ti rendi

conto di come sei quando parli, una volta papà disse che fu vostro padre a volerti dare il

nome Eulalia che in greco significa “ben parlare” (…); non è soltanto parlare bene, tu

abbagli le persone, ti guardo mentre parli e ti vedo una faccia incredibile, da ragazza, da

bambina, da strega, cambi di continuo, alla luce delle parole che getti nel fuoco.

(…)

Ecco perché capisco quello che dici tu e ci credo, perché riesci a mettermelo davanti agli

occhi, mi sembra di vederlo. E come faccio a non crederci se lo vedo? Vedo la mamma

appena arrivata da Palencia, la nonna che beve il liquore al caffè, l’uomo a cavallo, Basilio e

Gaspar rifugiati in montagna, Andrés che dorme in aereo, Adriana con i capelli sciolti che

attende l’amante in giardino, Juana che disegna gli dèi oceleri; e a quest’ora della notte è

come se tutti i personaggi delle tue sfilze di parole, i finti e i veri, venissero a salutarci dopo

lo spettacolo, sono tutti qui in giro, li vedo (…) (Martín Gaite, 2003, pp. 193-197).

Le parole di Eulalia hanno un effetto di verità sul giovane Germán perché in esse vi è lei con

tutta sé stessa (en cuerpo y alma) e insieme a lei la storia che racconta, con le cose, le persone,

i luoghi, i colori… Un effetto di verità potrei dire sinestesico, in quanto nel riceverla non è

solo l’intelletto ad essere coinvolto ma tutti i sensi del corpo. Credo che non sia un caso che a

parlare sia una donna, perché come ci mostra il pensiero delle donne, la verità non è a priori

nè fuori da sé ma si compone in relazione con l’altro/l’altra, nello scambio creativo di parola.

Una verità che ha il sapore della vita da cui proviene.

Perchè nella Tertùlia avvenga lo scambio creativo di pensiero bisogna saper esserci. Si tratta,

con le parole di Xus:

di saper accogliere e riuscire a creare una certa alchimia, tutti quegli elementi che servono

per alimentare lo spazio, il gruppo. E quella alchimia si produce quando hai la capacità di

vivere e di mettere in pratica tutto ciò (…) Bisogna avere una presenza, che dia equilibrio e

serenità al gruppo (…) tutto ciò unito alla conoscenza che quella persona ha del tema che si

sta trattando (I, 17.11. 2010).

Come in una improvvisazione jazzistica (Zamboni, 2009, p. 7) è necessario avere l’udito

attento per cogliere il filo centrale della conversazione ed intervenire quando è il momento

275

adeguato, per far andare avanti il movimento della creazione comune. Xus, che da anni suona

il sax e il jazz lo ascolta spesso, condivide quest’idea260

:

Si tratta di un registro comune all’interno del quale vai creando quel filo, vai facendo quella

creazione attraverso le entrate, le improvvisazioni; non ci deve essere per forza un unico filo,

all’interno del registro comune puoi muoverti e andare creando armonia (Xus, I,

17.11.2010).

Creare armonia non significa necessariamente assecondare l’altra ma cogliere quel filo

centrale che si insinua nelle parole scambiate; qualcosa che preme per venire alla luce e di cui

si percepisce l’importanza. Perciò è necessario non fuorviare con le proprie parole e lasciarsi

chiamare «alla propria singolare capacità di pensare, in rapporto al desiderio di verità di chi

dà il tono. Da chi, con la propria capacità, suscita negli altri il desiderio di stare in rapporto a

quel tono» (Zamboni, 2009, p. 15). Quel tono, continua la filosofa, che «è il desiderio stesso

di pensiero» (ibidem).

A dare il tono alla Tertùlia è Luisa che, una volta iniziata la conversazione, «è una donna

come le altre, che dà la sua opinione» (Carol, 27.11.2010), con la differenza che lei rimane

sempre vigile, attenta a che il troppo voler dire, proprio e altrui, non arresti il flusso del

pensiero. Perciò si occupa di dare il turno di parola – «apre la parola», dice Carmen

(26.11.2010) –, come una direttrice di orchestra, il che non è facile perché non c’è una

partitura previa e perché ci sono donne che al desiderio di pensiero in relazione sostuiscono la

volontà di prevalere sull’altra oppure il parlare di sé. Quindi anche la mediazione di Luisa è

un'improvvisazione, che segue le vie che la melodia le mostra, con degli esiti imprevedibili:

«io mi metto in gioco (…). Io ci sono» (Luisa, I, 22.04.2010). E poi insieme a lei,

accompagnandola alla ricerca di passaggi che facciano nascere la parola, ci sono Rosanna,

Pilar o Elizabeth261

, per citarne alcune significative.

260 Idea che ad un certo punto dell’intervista, anch'essa spazio di pensiero in presenza, ci viene incontro per

aiutarci nel nostro ragionare. 261 Elizabeth Uribe Pinillos appartiene al gruppo di ricerca Duoda dell’Università di Barcelona. Ho avuto il

piacere di condividere due tertùlias con Elizabeth e i suoi interventi mi sono sembrati in entrambi i casi molto

armoniosi, cioè, pertinenti, in quanto hanno avuto la capacità di far riprendere il filo del discorso, di riportare

l’attenzione al nocciolo della conversazione. Per esempio, nella tertùlia sui racconti di Katherine Mansfield in

cui, ad un certo punto, la questione della obbligatorietà o meno della maternità ha scatenato un'accesa

discussione tra le donne più anziane, tra cui Carmen (non invece in quelle più giovani, come Carol), che

rischiava di finire in un vicolo cieco se non fossero uscite dal corpo al corpo con la madre e dalla rabbia. Credo

che l’approccio di Elizabeth, sentito e lucido nello stesso tempo, abbia alleggerito molto, aprendo una via per

andare oltre la dialettica “istinto materno sì/no” e spostare lo sguardo verso le parole della Mansfield e il

significato di ciò che Elizabeth ha chiamato la sua «opera materna». «La scrittura di queste donne è la loro opera

276

È un sapere molto ben distillato, lo dicono nel giusto momento (…) non è un sapere pedante

e nessuna di loro viene qui per fare una lezione, tutte stanno molto in ascolto di ciò che dirà

l’altra (…). Io sto con le orecchie aperte per ognuna di loro, e sono donne che sanno molto e

questa è la cosa bella, perché credo che non vengono con quell’idea di, “io dirò loro che…”.

No. Ognuna viene con quella doppia voglia di ascoltare per capire di più e anche condividere

il proprio punto di vista (…) E ciò è proprio di donne molto intelligenti, no? (Carol,

27.11.2010).

Certo, sono donne molto intelligenti perché sanno leggere ciò che (gli) accade e hanno la

capacità di nominarlo con parole fedeli alla propria esperienza, suscitando nelle altre il

desiderio di pensare assieme, in relazione alla scrittrice che quel sabato le convoca.

Il luogo del libro? L’autrice vive con noi. Io dico sempre: oggi invitiamo ad un tè Marina

[Svetajeva] per conversare con lei (…). Il testo e l’autrice sono quelli che ci convocano, ci

portano fino lì, fino a quello spazio che è Pròleg, che è uno spazio femminile. È una sorta

di…, non so se chiamarlo mediazione, come l’autrice ci porta per mano in quello spazio per

parlare con lei del testo che lei ha prodotto, della sua scrittura (…) (Luisa, I, 22.04.2010).

Una ricchezza senza fine

L’opera della scrittrice come mediazione. Mi sembra una parola che rende l’idea di come la

voce dell’autrice porti nella Tertùlia una visione femminile del mondo, una angolazione altra

da cui lo si può guardare per pensarlo, per decifrarlo, per accedervi. Ci sono degli sguardi più

autorevoli, misura per tante delle donne lì presenti perché sono capaci di svelare parti del

reale fino al momento nascoste, facendo emergere nuovi sensi, nuove combinazioni di parole

per dirsi e dire il mondo. Per citarne uno, Clarice Lispector, che, come dice Pilar «è passata ad

essere uno dei referenti della Tertùlia» (I, 25.04.2010).

Io credo che Clarice Lispector sia una mistica senza essere credente (silenzio), che

comunica, che entra a contatto con la quotidianità e la vita; la vita e la quotidianità diventano

esperienza del sacro (silenzio). Perciò mi piace così tanto Clarice Lispector (silenzio). Si

materna. Si tratta di autorizzare l’opera femminile in noi; recuperare il vincolo con queste donne, in modo da non

litigare; di fare le cose senza azzuffarsi» (R, 27.11.2010). Purtroppo, nonostante il reciproco interesse, non ho

avuto la possibilità di intervistare Elizabeth perché non si sono date le condizioni materiali per farlo.

277

tratta di valutare il fatto di essere vivi, entrare a contatto con ciò che ci avvolge tutti, il

divino; è il mondo, è la materia, è… la blatta… (Pilar, I, 25.04.2010).

Piccole scoperte i cui riflessi vengono accolti dalle donne lettrici della Tertùlia e che a loro

volta riflettono, in un gioco continuo di rimandi, di riconoscimento reciproco. E dal tessuto di

relazione della conversazione nascono tanti testi quante voci, come mi racconta Luisa.

L’hai già visto, hai visto come una grande passione, no?, cioè, la letteratura si vive in vivo

(…). È pura passione (…). Suppongo che le autrici sarebbero felici di tutto ciò che si dice sul

loro conto, forse loro non avrebbero mai immaginato che si potesse dire tanto, da punti di

vista così diversi, così variopinti… (Luisa, I, 22.04.2010).

È questa la ricchezza della Tertùlia. Una ricchezza, come dice Carol, «che è lì, senza fine» (I,

27.11. 2010). Lì, nei testi delle autrici che a settembre le donne propongono e che l’ultimo

sabato del mese, da ottobre a giugno, sono le voci che aprono i giochi. Lì, nelle lettrici che

sanno esserci e che, esponendosi, provano a nominare la propria esperienza di lettura con

parole proprie per creare pensiero in relazione. Senza fine perché un «libro non ha una sola

autrice, un libro non è mai finito finchè continua ad essere letto» (Muraro, 2012a, p. 29).

Senza fine perché le donne che frequentano la Tertùlia decidono di andare per il semplice

fatto che si trovano bene insieme, a loro agio. In tutte le donne che ho intervistato è il piacere

a dare loro misura: il piacere di stare insieme e di convidere la propria passione e amore per la

letteratura; il piacere di imparare cose nuove, a cui è strettamente collegata la gioia delle

scoperte, di cui parlerò tra poco.

Prima di tutto è un piacere, un piacere condividere una lettura con altre donne e la visione

che ognuna porta così diversa perché personale e interessante, perché impari tantissimo.

Anche se io magari non la condivido oppure la mia esperienza è differente, ma è molto

arricchente vedere come pensano le altre, sai?, come hanno vissuto la lettura, che dopo gli ha

suggerito certi interventi, non so, certe associazioni con la loro vita, con i loro sentimenti…

Questa è la cosa più bella e dopo, attraverso il dialogo, si sono creati dei legami affettivi

interessanti, cioè, belli (…). Diciamo che molte di queste donne sono entrate più o meno

nella mia vita. Ti sembra poco che qualcuno entri nella vita di una persona? Fanno parte

della tua…, della tua vita (Rosanna, I, 05.05.2010).

278

Non mi sembra poco, anzi. Accade che quando due o più donne decidono di conversare,

dandosi ascolto e pensando attraverso le loro madri (Woolf, 1998b), si schiudano paesaggi

improvvisi in chi parla, nelle interlocutrici e nel mondo che si trovano a condividere, perché

quando si inizia a parlare davvero con il desiderio di nominare con parole adeguate le cose

che nella relazione chiedono di essere pensate, si apre un tempo altro: il tempo della creazione

e delle scoperte.

Tra i diversi punti di vista a volte ci sono dei disaccordi, persino posizioni antagoniche

perché, certo, la vita non è omogenea né può essere imprigionata nei limiti di un’unica

percezione individuale. Quando ciò accade – e accade con certa frequenza, alcune opere

sono più controverse di altre – non si tratta tanto di difendere una posizione, anche se in

alcune c'è accanimento, bensì di ascoltare e comprovare che un’altra lettura è possibile

perché un’altra forma di esperienza è possibile. Non si tratta di imporre opinioni ma di

accogliere la diversità. Mi chiedo se in tutto ciò non si stia già dando un cambio di ordine

simbolico, nel modo di ascoltarci le une con le altre (Dalmases, 2009, p. 2, trad. mia).

4.3.4. La lepre nell’erba

All’inizio di Nuvolosità variabile (1995), romanzo di Carmen Martín Gaite, Mariana, una

delle protagoniste, scrive alla sua vecchia amica Sofía, dopo averla incontrata per caso a un

cocktail, una lunga lettera, di cui il frammento è parte:

Io stavo di fronte a te, quasi avessi bisogno, ad ogni momento di chiederti scusa per il fatto

di conoscere tante persone, sorridere loro, parlare con loro, e rispondere ai loro salamelecchi.

Mi faceva rabbia pensare che dopo tanti anni avessimo dovuto incontrarci di nuovo in un

posto così poco appropriato, e te lo dissi. Ma tu non eri d’accordo. Mi hai guardato,

sollevando un dito: «Ti ho beccata, Mariana, ricorda quanto mi hai detto prima: la sorpresa è

una lepre. Coloro che le danno la caccia non la vedranno mai dormire nell’erba: non hai

detto così? Non sarà mica stata soltanto una citazione». E dopo, mi hai chiesto in tono

divertito: «O forse le stavi dando la caccia?» (Martín Gaite, 1995, p. 28).

Ad accomunare la Tertùlia e l’incontro tra Sofía e Mariana e la lepre nell’erba è il filo libero

della scoperta tra donne e della scoperta legata al non cercare.

279

La pratica del pensiero in presenza richiede apprendistato, autodisciplina e l’accettazione del

caso, dell’imprevisto, dove è proprio la casualità che permette l’improvvisazione (Zamboni,

2009, p. 9).

Credo che la capacità di lasciarsi cogliere dall’imprevisto e seguirlo per le vie ignote che ci

mostra, senza sapere bene dove ci porterà, ma mantenendo vigile l’attenzione e vivo il

desiderio di pensiero, cioè di mettere in parole ciò che (ci) accade, sia la condizione prima per

trovare la lepre nell’erba: per fare delle scoperte. Questo procedere, che potrebbe anche

applicarsi alla vita di tutti i giorni, è nel contesto della Tertùlia – «pratica di pensiero in

presenza» (ibidem) – un’esigenza perché avvenga un vero e proprio scambio creativo.

Un modo altro di stare tra donne

Lasciarsi cogliere dall’imprevisto richiede la fiducia necessaria per sbarazzarsi dei pregiudizi

e offrirsi all’esperienza; per ascoltare l’altra e darle l’opportunità di sorprenderci.

Quello che dicono le altre… All’inizio facevo fatica perché magari c’è gente che non ha letto

così tanto come te oppure che lo analizza in un altro modo… Ma poi Luisa riscattava quello

che avevano detto, quell’idea che tutte hanno una voce… E quindi ciò mi è servito molto per

imparare ad ascoltare perché io faccio una specialità medica…, sei nel laboratorio con le

bestioline, e non ho esercitato molto l’ascolto… (…) Allora imparare a non avere pregiudizi,

non pensare “queste persone non sono specialiste, non sanno…” (Eva, I, 24.04.2010).

E allora arriva l’imprevisto, come quando Eva, leggendo Mirall trencat della scrittrice

catalana Mercè Rodoreda, scoprì che si poteva scrivere in modo diverso da quanto lei finora

aveva conosciuto:

io sempre avevo letto molto, a casa mia mio padre era un lettore incallito, c’erano molti libri

ma, certo, io leggevo i libri che aveva mio padre allora (…), ciò che in quell’epoca andava di

moda, il XIX secolo, non so come dire, autori… (risate). Mirall trencat c’è l’aveva una delle

mie zie, l’ho letto a quindici anni (…) Ricordo ancora che sono rimasta paralizzata, non

sapevo che si potesse scrivere così262

(…). Il tutto veniva spiegato in quel modo sottile che

ha Mercè Rodoreda, cioè, non è che la protagonista dicesse “sono disperata”, no, è il lettore

262

Il corsivo è mio.

280

che lo sente… (…). Non sapevo niente della sua biografia, Mercè Rodoreda, che in

quell’epoca, ti parlo dell’anno '75, non era una autrice conosciuta, compariva solo una

bellissima foto in bianco e nero di una donna di mezza età super misteriosa e quel libro mi

colpì moltissimo, l’ho riletto tantissime volte… (Eva, I, 24.04.2010).

Mirall trencat è il libro che porta Eva alla libreria Pròleg per la prima volta; è stato l’annuncio

di un laboratorio di scrittura creativa e letteratura critica, “Mirades de dones” [“Sguardi di

donne”], che aveva in programma il romanzo della Rodoreda, a richiamare la sua attenzione.

«Non sapevo nulla, non conoscevo la libreria, sono arrivata al laboratorio» (Eva, I,

24.04.2010). A partire da lì, poiché l’esperienza le era piaciuta, Eva inizia a frequentare il

laboratorio e poi, dopo esserne venuta a conoscenza grazie ad Àngels, anche la Tertùlia. E qui

arriviamo al secondo imprevisto:

Esiste una cosa che mi irrita molto, vediamo come te lo spiego, sembra che le donne per

mettersi in relazione tra di loro debbano utilizzare la loro biografia come un lasciapassare.

Sembra che se una donna non inizia spiegando cose della propria vita, intendo cose anche

molto personali e che non c’entrano con il tema, sia una donna fredda e ostile. Sembrerebbe

che noi donne solo ci mettiamo in relazione attraverso l’autobiografia senza andare oltre

(Eva, I, 24.04.2010).

Ad un certo punto della conversazione, riprendiamo l’argomento.

Quando ho iniziato a frequentare la Tertùlia formavo parte di un gruppo di donne, alcune del

mondo della comunicazione, altre relazionate con la politica, che volevano fare un gruppo di

discussione… Allora abbiamo cercato di portarlo avanti ma non ha funzionato. Non ha

funzionato perché non siamo state capaci di uscire dallo schema «mio marito, questo; mia

figlia, l’altro». E allora io dicevo che ci eravamo riunite non per chiacchierare ma per

discutere, magari di una legge che era appena uscita sulla violenza degli uomini. «Ho

bisogno di parlare, sono molto preoccupata…», diceva una donna. Bene, non saprei, che ne

parli altrove, con le sue amiche ma non qui. Invece nella Tertùlia anche se tu parli a partire

dalla tua biografia, bisogna parlare in un altro modo, e da un luogo altro (Eva, I, 24.04.2010).

Ritornano le semplici e perciò belle parole di María Milagros Rivera per nominare il partire

da sé: «partire da sé per, uscendo da sé, dire quello che succede, quello che è. Partire da sé,

partire da me uscendo da me e andando verso l’altro o l’altra» (2007, p. 25).

281

Che le donne tra donne possano mettersi in relazione a partire da sé, per creare pensiero in

relazione è qualcosa di inedito per Eva; qualcosa che scopre quando inizia a frequentare la

Tertùlia.

Sì, mettersi in relazione con le donne dallo spazio del pensare assieme. Sono convinta che ci

manca quell’esercizio, pensare assieme, rispettarci come interlocutrici intellettuali. Io credo,

almeno la mia generazione, che ci manca imparare ad entrare nelle relazioni in un altro

modo, che non sia quello della confidenza e del mostrare la vita privata (Eva, I, 24.04.2010).

E ancora: che una donna può essere per lei un’interlocutrice autorevole, anche se non è

un’esperta di letteratura; anche se non ha titoli accademici, perché l’autorità non passa

dall’accademia ma è sapere ed esperienza umana femminile e capacità di metterla in parole, di

mostrarla, di farla circolare.

Inizi a vedere che quello che dicono le altre, anche se non sono delle esperte, è interessante

perché…, si tratta dell’ascolto; la Tertùlia e il laboratorio mi hanno allenato molto l’ascolto

(Eva, I, 24.04.2010)263

.

Terreno fertile in cui radicarsi

Ascolta: io ti lascio essere, lasciami essere allora.

Clarice Lispector, Acqua viva

«Mi chiamo Carmen González Barreiro, sono argentina, sono arrivata otto anni fa per vivere a

Barcelona, ho due figlie, una abita a Barcelona e l’altra abita in Francia» (I, 26. 11. 2010).

Così si presenta Carmen quando le chiedo di parlarmi brevemente di lei. Una presentazione

che già dal tono preannuncia quella che sarà una lunga conversazione, più di due ore. Il tema

che ci convoca è la sua esperienza nella Tertùlia della libreria Pròleg, ma prima di arrivare

263 Come mi raccontano Àngels e Nùria, sono state molte le donne che nella tertùlia hanno imparato a darsi e

dare ascolto: «Le donne sono molto cambiate. C’erano alcune con degli ego molto forti, non ci entravano dalla

porta, tanto erano grandi (…). Hanno imparato dei valori, diciamo, femminili; a mettersi in relazione da un luogo

altro (…). Con più rispetto, imparando ad ascoltare, che è un apprendimento che nella tertùlia si fa molto (…)»

(25.02.2011).

282

nello spazio di Luisa Fortes, percorriamo insieme la sua infanzia. Nata da padre spagnolo e

madre argentina («sono sempre stata la gallega nera»; “gallego” è il termine che in Argentina

si usa per riferirsi a coloro che sono nati in Spagna; “nera”, fa riferimento al colore della sua

pelle scura); la sua giovinezza: gli anni alla facoltà di giurisprudenza, la sua militanza nella

sinistra argentina degli anni 60 e poi il matrimonio, la maternità e la separazione dal marito:

«non volevo che uccidessero le mie figlie. “Ma tu sei matta, come ti viene in mente che

saranno capaci di uccidere bambini (…), stai delirando”. 495 bambini sono scomparsi (…).

Mio marito è scomparso nell'aprile del '76 (…). La repressione è stata terribile (…). Ho

divorziato da lui nel '73, gli ho detto, “se vuoi morire, fallo da solo” (…). Non ho mai avuto

nulla e non l’ho potuto seppellire. Non è l’unico». Poi passiamo alla sua passione per la

lettura, quasi un’ossessione: «sono una bibliofila incallita», sfioriamo la Tertùlia, soltanto un

attimo, per ritornare di nuovo in Argentina, il suo lavoro nel dipartimento della donna durante

il governo di Alfonsín e poi sotto il peronismo, in cui si occupava della «capacitazione

giuridica delle donne». E ancora, le letture di Catharine MacKinnon264

e di altre «signore del

femminismo puro e duro», ecc.; la maternità, «volevo loro un bene profondo e volevo avere

figlie (…)», ma se avesse dovuto e potuto scriverne liberamente – mi dice – di sicuro i toni

non sarebbero stati rosei: «Sentivo molte cose negative della maternità, di come mi soffocava,

di come non mi lasciava essere me stessa, di come non potevo andare da nessuna parte, di

come non questo, di come non quello, di come non l’altro»265

.

Sono questi frammenti di più di settant’anni di vita che non trovano il tempo per raccontarsi

in una conversazione di due ore; ancor meno in queste poche righe, mediate dalla mia sintassi,

che tuttavia azzardo a scrivere per preparare il terreno alla scoperta alla quale io e Carmen ci

avviciniamo insieme.

264

Catharine Alice Mackinnon è nata nel 1946 in Minnesota, Stati Uniti. Giurista e docente universitaria è stata

una delle protagoniste del così detto “femminismo radicale”, nato alla fine degli anni sessanta negli Stati Uniti

grazie al movimento femminista delle Redstockings (Kate Millet, Shulamith Firestone, tra le sue figure più

importanti). L’attivista nord americana è nota e influente sulla scena internazionale per la sua lotta contro la

pornografia, le molestie sessuali e gli stupri di guerra. Alcuni suoi testi sono Feminism Unmodified: discourses

on life and law (1987), Toward a Feminist Theory of the State (1989), Only words (1993) e il più recente, Le

donne sono umane? (2012), di cui si veda il commento di Ida Dominijanni, pubblicato in Il Manifesto

(20.09.2012), con il titolo Se si chiude lo spazio tra politica e diritto. Il radicalismo giuridico di McKinnon. In

rete: http://host.uniroma3.it/uffici/stampa/ecostampa/pdf/1KL0/1KL0VX.PDF 265

A questo proposito si veda la nota 261.

283

Ho sentito un grande rifiuto quando sono arrivata qui, sai?, sono passata da essere la gallega

Carmen [quindi non argentina] alla sudaca266

di merda. (…) quando credevo di essere

arrivata a casa perché pensavo che la Spagna fosse la mia casa, non era la mia casa per

niente, nessuno ci voleva e siamo state maltrattate, e non solo in Catalogna, dappertutto

(Carmen, I, 26.11.2010).

Del suo percorso esistenziale, Carmen parla a tratti con durezza (alcune parole le ho sentite

come pietre), in modo scarno e con un certa ironia. Una donna che ha sofferto e che è

sopravissuta ad una vita non facile.

Ho viaggiato molto e sempre ho cercato un luogo femminista (…). Quando sono arrivata a

Barcelona la prima cosa che ho cercato sono state le librerie. Così ho scoperto Pròleg (…).

Per me è stata una delle cose più importanti che ho trovato quando sono arrivata e ti dico una

cosa che non l’ho mai pensata e la penso mentre te la dico, ascolta, io credo che una delle

buone cose di radicamento che ho avuto sia stata la Tertùlia di Pròleg perché lì non ho mai

sentito nessun tipo di disprezzo, nessuna mi ha mai fatto un brutto gesto (…). Io mi sono

sempre sentita accolta e contenuta (…). Pròleg a me dà un luogo e credo che questo sia opera

della Luisa (Carmen, I, 26.11.2010).

Verso la fine della conversazione, quando ormai entrambe abbiamo bisogno di chiudere,

riaffiora il femminismo e con esso, la seconda scoperta:

Carmen: Io vivevo il femminismo toccandolo ma in nessun luogo ne parlavamo (…). Non

ero abituata a riflettere insieme ad altre donne, sì nei gruppi di lavoro ma io ero la capa e

quindi non si trattava di una riflessione vera e propria perché loro lavoravano, con uno

stipendio.

Ma. José: Allora il primo gruppo di riflessione, dove tu hai riflettuto insieme ad altre donne è

stato…, la Tertùlia…

Carmen: …la Tertùlia…

E allora qualcosa si apre, un chiaro nel bosco; non l’abbiamo cercato, ci è venuto incontro. E

in mezzo al bosco, la lepre:

266

Sudaca è il termine dispregiativo che viene usato in Spagna da alcune persone per insultare coloro che

provengono dall’America del Sud.

284

Credo che la Tertùlia mi stia dando una visione delle donne, tutto e che le donne sono molto

variegate (…). Innanzitutto, mi ha dato che per la prima volta mi sento di appartenere a

questa città, se non fosse per Pròleg io non mi sentirei di qui, Pròleg e andare al Liceu267

(…). Ed è importante che queste siano le mie congéneres, sono donne come me, diverse ma

che possono pensare con caratteristiche simili alle mie o almeno ci può essere un dialogo,

anche se non siamo uguali, formiamo parte di un vincolo dialogante, questa è la cosa

importante, esiste un vincolo dialogante, esiste un vincolo dialogante tra estranee (Carmen, I,

26.11.2010).

A chiudere la storia, ricompare la figura della nonna a restaurare la genealogia femminile:

Per me la cosa più importante è il riconoscimento dell’essere persona (…). Per me il

riconoscimento di persona è riconoscere persona mia nonna, quella donna che cenava sempre

nella cucina perché mio nonno non la fece mai mangiare a tavola, «così Marcelina porta tutto

caldo», e lei non si lamentò mai. Poi quando il nonno morì, siamo andate via noi due per

quattro anni, andavamo in aereo, io avevo otto anni (…), passavamo quattro mesi a

Montevideo, andando a ristorante, a teatro (…). Ho vissuto come una regina con quella

signora durante quegli anni (…). Ed è stata persona. L’essere persona è quello, poter godere

delle tue possibilità nello stesso modo che chiunque altro e in Pròleg quello lo puoi sentire

(Carmen, I, 26.11.2010).

Siamo molte, siamo molte…

L’entusiasmo di Carol è contagioso. In un castigliano molto fluido, Carol è francese ma da

due anni abita a Barcelona, mi racconta della sua scoperta della letteratura scritta da donne:

Mi sono laureata in filologia francese [lingua e letteratura francese]. In Francia avevo letto

solo autori, uomini, Stendhal, Balzac, Hugo, tantissimo, ma nessuna donna, proprio nessuna,

eppure ci sono nella letteratura francese ma non ne ho letta nessuna (I, 27.11.2010).

Arrivata a Barcelona, dopo un primo viaggio esplorativo di un anno, inizia a frequentare un

corso all’Universidad di Barcelona, “Dones i literatura” [“Donne e letteratura”]. Ha già preso

la decisione di restare in Spagna e le servono alcuni corsi di letteratura per poter convalidare il

267

El Liceu è il teatro dell’opera di Barcelona: http://www.liceubarcelona.cat/

285

suo titolo di studi. Grazie al corso e alla mediazione della prof. ssa Marta Segarra entra in

contatto con un mondo finora sconosciuto: «abbiamo letto solo donne e molte di esse francesi

(…) per me è stata una scoperta» (I, 27, 11, 2010).

All’università conosce Rosanna che le parla per la prima volta della Tertùlia:

Sono andata un giorno e poi non ne ho potuto fare a meno. È stato incredibile vedere tante

donne che sapevano tanto e provenienti da ambiti così diversi (…). Non saprei come

spiegartelo, l’ho raccontato a tutti, l’ho spiegato ai miei genitori, “ascoltate, sono andata a

una tertùlia con delle donne incredibili” (27, 11, 2010).

E ancora:

Non volevo perdere il vincolo con la letteratura condivisa, perché all’università tu leggi un

libro e te lo spiegano, ti danno delle chiavi di lettura e ti danno l’opportunità di sapere di più

di quell’opera e avevo paura di perdere quella ricchezza. Quando leggi da sola non c’è quello

scambio, allora ho deciso di provare… E realmente tu vai con un libro, con la tua lettura ed

esci con trenta libri diversi perché ognuna ha visto una cosa che tu non hai visto, puoi essere

più o meno d’accordo ma è una ricchezza molto grande (…) Anche se non mi è piaciuto il

libro, vado alla Tertùlia perché dico “vediamo cosa mi diranno del libro queste donne”,

“vediamo che dialogo si dà, che aspetto mi spiegheranno”, e io dirò, “non l’avevo visto”, e

sì, anche se il libro non mi è piaciuto quello è il sentimento che provi, che sicuramente ci

sarà qualcosa che…, che sarà interessante (I, 27.11.2010).

Qualcosa accadrà, anche se non si sa bene cosa, perché lo spazio è propizio: donne che

leggono altre donne e che riescono con la loro mediazione a mettere in circolo quella

ricchezza di cui Carol parla spesso: esperienza umana femminile, di cui non può fare a meno.

Ci sono solo donne e mi piace, è un momento nostro, di trovarci e di partire dalla stessa

esperienza, perché evidentemente ogni donna ha la propria esperienza e inoltre ci sono donne

di tutti i paesi (…), ma abbiamo qualcosa in comune, no?, questo di essere donne e, non so,

credo che, ora parlo per loro, ma credo che tutte abbiamo questa volontà, no?, di leggere

donne per dare loro un peso e il punto di vista di ognuna è completamente differente perché

ognuna ha la propria esperienza di lettura, tuttavia ciò che risuona in ognuna a me interessa

(I, 27.11.2010).

286

Un’altra delle parole che Carol associa alla Tertùlia è iniezione, ma non nel senso di

“puntura”, ci tiene a precisare, ma come qualcosa che ti dà una spinta: energia vitale

necessaria per andare avanti un altro mese, fino al prossimo incontro.

È il mio momento di letteratura, un’iniezione, è riunirti con donne che sanno molto, che

stimolano in te la voglia di leggere ancora di più, e che inoltre hanno un’esperienza di vita

molto ricca (…). Ed è molto arricchente perché vedi che non sei sola nella tua bolla, siamo

molte, siamo molte… (…) È così che vieni a conoscenza di tutta una letteratura scritta da

donne che non è per niente conosciuta (I, 27. 11. 2010).

Siamo molte, siamo molte… Una lunga genealogia di storie di donne, visioni femminili del

mondo, che esiste, che si fa sentire nelle parole di Carol, come un fragore di onde che

scagliandosi contro le rocce, «trascinano e nascondono e mescolano alghe e perle mentre si

rivoltano» (Woolf, 2011b, p. 28). Una necessità forte di essere tra donne per poter convidere

«conoscenza ed esperienze» (Carol, I, 27.11.2010) e diventare anche lei parte di quel tessuto

relazionale. Altrimenti si rimane sospese per aria…

Il motivo per cui non hanno mai messo un libro di donne nel mio corso di laurea è che ci

manca questa storia, ci manca un vincolo, diciamo, non esiste autorità in letteratura scritta da

donne, ci manca questo, ci manca metterci insieme per parlarne… (…). Mi piace partecipare

a questo recupero della letteratura scritta da donne e credo che il ruolo della lettrice o del

lettore sia importante perché siamo noi ora coloro che diamo vita a delle opere che sono state

scritte, per esempio, da Virginia Woolf. Ma se non ci fossimo noi, le lettrici, non ci sarebbe

questa autorità; se non ci fossero lettrici di Virginia Woolf, l’avremmo dimenticata. È perché

ci sono lettrici che Virginia Woolf continua ad essere viva, diciamo, le sue opere continuano

ad essere lette e hanno così tanto peso e sono fonte di ispirazione per altre generazioni di

scrittrici e credo sia molto importante questo lavoro e mi piace esserne partecipe (I,

27.11.2010).

Diventare tessitrici per continuare l’opera della nostre madri simboliche e creare mondo in

relazione ad altre ed altri; con i nostri fili, ognuno diverso eppure tutti chiamati ad esserci

nella trama comune dell’esistenza.

287

La mia partecipazione nella Tertùlia? Io sono consapevole di essere la più giovane e anche

l’unica giovane, perché loro me lo dicono ma io l’età non l’ho mai avuta come un

riferimento, no?, come qualcosa che ci differenzia. Loro mi dicono, “no, tu hai un’altra

esperienza, noi vogliamo che qui vengano delle ragazze giovani per dare il loro punto di

vista”, allora io devo parlare nelle Tertùlias. Quando non parlo me lo dicono, “ehi, oggi non

hai parlato, avevamo bisogno che parlassi…” (I, 27.11.2010).

Leggere poesia in metropolitana

C’è un’altra donna che mi sta piacendo molto, si chiama Chantal Maillard, per me è stata una

scoperta; l’ho scoperta nella Tertùlia, è incredibile, incredibile (…). Mi viene la pelle d’oca

quando la leggo (…). La poesia, io che sono molto compulsiva, la riservo per i momenti

speciali, no? Cioè, a volte vado in un giardino a Montjuïc e mi porto due libri di poesia..., mi

piace che ci sia un’atmosfera speciale. Insomma, non mi piace leggere poesia in

metropolitana, invece con questa donna, con Chantal Maillard, ho letto poesia in

metropolitana, una cosa che io… (Pilar, I, 25.04.2010).

Vorrei finire con queste parole di Pilar perché la sua scoperta ha il sapore della libertà

femminile. È una piccola ma significativa manifestazione dei suoi effetti: la capacità di aprire

dei passaggi, di sciogliere dei confini ed ecco che la poesia esce dal dominio dell’intelletto e

dei suoi luoghi deputati ed entra nella vita, nei suoi binari più profondi, a tutta velocità, nella

quotidianità di una donna che non sapeva che c’è una poesia che può essere letta in

metropolitana e in virtù della quale (e di una poetessa filosofa), oggi è possibile vederla

leggere poesia nel metrò:

Meglio non dire nulla.

Sarebbe inutile. È già passato.

Fu una scintilla, un istante. Accadde.

Io accaddi in quell’istante.

Forse anche Lei lo fece.

Succede con le poesie (…)268

.

268

Da Matar a Platón (Maillard, 2004); traduzione di Gloria Bazzocchi in

http://www.filidaquilone.it/num012luquepinilla.html

288

4.3.5. Il gioco delle dame

Scrivo nel diario di ricerca, in data 26.02.2011:

Oggi sono uscita dalla Tertùlia molto stanca, con un senso quasi di oppressione. Siamo

cadute nel negativo ma non il negativo che ti dà forza269

ma quello che ti sfianca, ti riduce al

pessimismo, ad una certa rassegnazione che non porta da nessuna parte. Xus diceva, «puta

sociedad». Non ho percepito che qualcosa si sia aperto, di sicuro ci sono state delle aperture

ma siamo andate da un’altra parte. Molta densità nella testa, e molta negatività… E poi

quando Carla270

ha iniziato a parlare a voce alta, molto eccitata… Sono proprio sfinita (…).

Ci sono stati dei bei momenti, pochi e non se ne è approfittato. Non ho percepito libertà (…),

le donne erano unite da una rabbia comune; molte erano arrabbiate: «Il libro mi ha fatto

incazzare» (…). Parole forti. Importante: l’opinione delle più giovani271

: «è stato deprimente,

negativo».

Mi sono chiesta cosa sia accaduto quel giorno nella Tertùlia, cosa abbia arrestato lo scambio

creativo di pensiero, perché alla passione si sia sostituita la rabbia e all'emozione lo sconforto

e la stanchezza.

Ci sono diverse variabili, come direbbe uno scienziato, di cui bisogna tenere conto per

garantire il successo di un esperimento. Lo scienziato che mi parla, mi si permetta

l’intrusione, è il professore di scienze di Victor Frankestein, il protagonista dell’ultimo film di

Tim Burton. In breve: Victor è un bambino molto intelligente che ha un cane, Sparky, il suo

migliore amico. Un giorno il cane muore e Victor, mosso dall’amore e dalla mancanza, lo

riporta alla vita usando l’energia elettrica di un lampo (così come fece il dott. Victor

Frankestein di Mary Shelley272

). Il miracolo deve rimanere segreto perciò V. prega il suo cane

di rimanere nascosto in soffitta fino al suo ritorno dalla scuola. Tuttavia il cane, come è

naturale, esce ed è visto, fatalità, da uno dei compagni di V., il più sinistro. Venuto a

conoscenza del prodigio, e poiché a breve ci sarà il festival della scienza con in palio un

premio per la migliore scoperta scientifica, il compagno sinistro esige da V. di rifare

l’esperimento, questa volta con un pesce. Allora V. ripete tutto tale quale la prima volta e il

pesce rinasce, anche se non come prima ma sotto le vesti di un temibile scheletro di pesce di

269

Mi riferisco a quello pensato dalla comunità filosofica Diotima in La magica forza del negativo (2005). 270

Non si tratta del suo vero nome. 271

Quel sabato c’era per la prima volta Marien, una studentessa universitaria appena arrivata da Madrid. 272

La scrittrice inglese Mary Shelley è l’autrice di Frankenstein, pubblicato nel 1818.

289

cui è possibile vedere solo l’ombra. L’amico sinistro va via contento col suo pesce invisibile.

Tuttavia, dopo qualche giorno il pesce si disintegra. Nel parcheggio della scuola V. chiede al

suo professore di scienze, il sig. Rzykruski, di spiegargli dov’è la differenza tra il successo e il

fallimento di un esperimento. Ed è allora che lo scienziato professore parla delle variabili. V.

ricorda ognuno dei passaggi e alla fine dice qualcosa come: «questa volta non volevo farlo,

non vedevo l’ora che finisse». A me spettattrice sono subito venute in mente la sequenze che

precedono il ritorno alla vita del cane: V. che lo abbraccia con affetto, V. che ci piange sopra,

V. che attende fiducioso. Nessuna di queste nella resurrezione del pesce. Lo scienziato non

usa la parola amore ma si capisce che è quella parola a fare la differenza: la variabile amore.

Tornando alla Tertùlia e in relazione alla variabile “amore”, di cui non darò una definizione

ma il cui nome evoca un’esperienza riconoscibile, credo che quel giorno la misura del piacere

fosse venuta meno; non percepivo voglia di stare insieme, al contrario una certa impazienza

perché la discussione si concludesse. Impazienza che ho provato leggendo Jeannette

Winterson, la scrittrice che quel giorno aveva convocato le tertuliantas. Anch’io, come

Victor, non vedevo l’ora che quel racconto di cyborgs che vogliono essere umane, donne che

si operano per sembrare bambine – mi riferisco al romanzo The Stone Gods (2007) –

arrivasse alla fine. Una storia scritta molto bene, non c’è dubbio, a tratti interessante, qualche

idea stimolante e un certa liricità, ma che mi ha lasciato una profonda amarezza. Non so se sia

stato l’argomento (di certi passaggi faticavo a capire il senso nell’economia del racconto)

oppure l’approccio con cui viene narrata, uno sguardo così irreale, così disincarnato che non ti

lascia appigli, nemmeno il proprio corpo. In effetti, è la vita in un certo senso a mancare,

seppellita sotto le macerie e l’acciaio.

Non voglio dilungarmi sulla mia esperienza di lettura, anche se essa mi fa pensare a quanto la

scrittrice possa orientare il pensiero in una direzione o in un’altra; a quanto le sue parole siano

o meno ispirazione per un parlare libero, aperto, vitale, che non significa non parlare del

negativo ma farlo in modo fertile. E quanto questo abbia a che vedere con il desiderio della

scrittrici di avvicinarsi al mondo reale, di toccarlo con le proprie parole, per amore del mondo.

A dare la tonalità nella Tertùlia, cioè a stimolare il desiderio di pensiero, sono innanzittutto le

scrittrici che vengono lette e credo che il romanzo di Jeannette Winterson abbia orientato

verso un pensiero più legato ad una costruzione intellettuale – «pensiero del pensiero»

(Buttarelli, Giardini, 2008, pp. 9-10) – che all’esperienza.

290

Qualcosa che scatta quando si smette di ascoltare la vita che (ci) accade; una sorta di

meccanismo che prende il sopravvento e per cui la parola si sradica dall'esperienza, dal corpo

ed inizia a camminare per conto suo. Allora capita, per esempio, che il tono della voce si alzi

e a regolare il gioco non sia più il conversare ma l’avere ragione.

Propongo di riprendere il già citato frammento di Al faro di Virginia Woolf:

E perché mai Charles Tansley si arrabbiava? Si precipitò (solo perché Prue non era carina

con lui, pensò la signora Ramsay) a denunciare i romanzi di Waverley quando non ne sapeva

nulla, ma proprio nulla, pensò la signora Ramsay, mentre piuttosto che ascoltarlo lo

osservava. Vedeva di che si trattava dai suoi gesti – voleva affermarsi, e avrebbe fatto così

finchè non avesse ottenuto la cattedra, o non si fosse sposato; allora forse avrebbe smesso di

dire “io-io-io”. Perché, in fondo, a questo si riducevano le sue critiche al povero Scott, o a

Jane Austen. “Io-io-io” (2009, p. 121).

A dire io, io, io, nella Tertùlia in questione è, per esempio, Carla e insieme a lei altre che,

perso il filo della conversazione, intraprendono la strada dell’autoaffermazione finchè

l’intervento di un’altra donna, Luisa, non restituisce l’ordine: quello dell'ascolto, della parola

che si guadagna in relazione e che dalla relazione nasce. Si susseguono altri interventi in cui

non è la difesa di un’opinione in particolare ma la totale proiezione di ciò che si dice ad

occupare tutto, come mi fa notare Asunción López273

, a volte sotto forma di lamentela, finchè

un'altra delle tertuliantas dice: «non entriamo nell’autobiografia» (R, 26.02.2011). Mancano

alcune donne autorevoli, per esempio Elizabeth e Pilar, che potrebbero intercettare ciò che il

lamento vorrebbe far sentire e che il chiacchiericcio copre. Troppo io, in definitiva, che non

lascia circolare pensiero libero femminile. L’autrice, in questo caso, non aiuta. Qualcuna dice:

«un gioco intellettuale, un esercizio di vanità, (…)» (R, 26.02.2011); ed inizia a percepirsi una

certa stanchezza, i corpi sembrano non trovarsi a loro agio e cercano, a destra e sinistra, la

posizione nella sedia, ormai troppo stretta. Allora Carla, come se volesse sorridere un po’ di

sè stessa, parla di un’umorista e alcune ridono. Finalmente un po’ di leggerezza.

273 Asunción López è docente nella facoltà di Pedagogia dell’Universidad de Barcelona. Mi è stata molto vicina

durante tutto il percorso della ricerca, sia come interlocutrice autorevole sia come amica. Incuriosita dalle mie

narrazioni sulla tertùlia, ha deciso di accompagnarmi a presenziare ad una delle sessioni, quella dedicata ai

racconti di Katherine Mansfield. Per Asun, in quella sessione, nonostante il materiale emerso fosse molto ricco,

manca quel partire da sé, che ti porta oltre, necessario per produrre pensiero dell’esperienza.

291

C’è un’altra criticità che ho individuato nella sessione della Tertùlia di cui sopra, ma che si

verifica anche nelle altre: l’elevato numero di donne che vi partecipa, vicino alla trentina in

quell’occasione. Ciò rende molto difficile la tessitura di un pensiero comune, anche quando le

condizioni sono favorevoli, perché non permette la partecipazione di tutte né il lavoro di

mediazione di Luisa.

Il gioco delle dame è il titolo dell’introduzione italiana a Donne in relazione (2007), in cui

Milagros Rivera racconta la sua esperienza di un “ritiro” di Diotima:

I “ritiri” di Diotima sono, in realtà, (…) un’invenzione simbolica che mi evoca il nome del

gioco della dama quando osservo che tutte le partecipanti si mettono in gioco con il pensiero,

con la parola, con il corpo, con il colore e con tutto quanto quel giorno portino all’incontro.

E lo fanno riconoscendo autorità; ossia, senza gerarchie predeterminate né preparativi

strutturati che spaventino la spontaneità (…). Nei ritiri, ogni partecipante cerca di mettere

nella relazione del momento tutto quello che ha, tutto quello che lei è (…) (ivi, p. 4).

Nel gioco della dama, continua Milagros Rivera, ogni pedina si muove liberamente e a

regolare il gioco non è il potere che ogni pedina ha e che prefigura le sue possibili traiettorie

nel tavoliere, come accade nel gioco degli scacchi, ma «l’apertura alla circolazione dello

spirito, al suo scambio» (ibidem).

Quando nella Tertùlia di Pròleg si gioca il gioco delle dame, perché a giocare sono le signore

che sanno esserci, allora sì è possibile parlare di «pratica della relazione» (Cigarini, 1995).

Una pratica – è ancora Milagros Rivera a parlare – che «consiste (…) nello scambiare spirito,

presenza: spirito e presenza che si condensano, con una certa frequenza, in parole che dicono

nuovo senso, che fanno simbolico» (2007, pp. 3-4).

Epilogo

Luisa Fortes conclude la conversazione che ha dato inizio al resoconto della Tertùlia con una

poesia di Cristina Peri Rossi, che qui riporto come testimonianza della bellezza dello scambio

che abbiamo avuto e di cui la ringrazio:

292

Infanzia274

Là, all’inizio,

tutte le cose stavano insieme,

infinite nel numero

e nella piccolezza.

E mentre tutto stava insieme

il dolore era impossibile

la piccolezza, invisibile.

Scrivo nel diario di ricerca:

Finiamo con una poesia come non poteva essere altrimenti. Si tratta di una fine che è un

inizio perché apre uno spazio a tutto ciò che non abbiamo detto, né vogliamo o possiamo dire

ma la cui presenza intuiamo. Perciò andiamo via colme, io almeno, e curiosamente chiamo

mia madre. Non credo sia un dettaglio insignificante. È un inizio e un ritorno all’origine per

poter continuare andando avanti (22.04.2010).

4.4. Il laboratorio “Mirades de dones”: uno sguardo in controluce

L’indagine nel laboratorio “Mirades de dones”, l’osservazione di alcune sessioni, le

conversazioni con la sua coordinatrice Nora Almada e con alcune delle partecipanti, la

successiva trascrizione e riflessione sul materiale raccolto, ecc., mi hanno permesso di

comprendere, anche se in controluce, quanto la potenza trasformativa di un testo letterario

non sia un contenuto già dato ma vada attivata e ricreata secondo certe pratiche, poiché sono

queste pratiche a renderlo mediazione educativa nei processi formativi e di crescita. Pratiche

che ho chiamato di libertà.

Nei resoconti delle esperienze di “Germanes di Shakespeare” e della “Tertùlia” di Pròleg ho

cercato di narrare queste pratiche e di mettere in luce le loro qualità ed effetti. Nonostante la

loro singolarità, propria dell’essere «risposte inventive ad un contesto» concreto (Zamboni,

2006a, p. 1), credo che ad accomunarle sia l’agire consapevole della «doppia mediazione»

(Martinengo, 1992, p. 16). In entrambe le pratiche, la scelta delle scrittrici e/o lo sguardo con

cui vengono letti e proposti i testi, sono risultato di uno spostamento simbolico: un processo

274

In Europa después de la lluvia (1987, p. 9, trad. mia).

293

di trasformazione esistenziale e politico – in quanto la modificazione di sè ha degli effetti nel

reale –, vissuto in prima persona e in relazione ad altre, tra cui le scrittrici, e in virtù del quale

Lluïsa Cunillera e Luisa Fortes fanno parlare e vivere i testi secondo uno sguardo femminile

libero, che agisce uno scarto rispetto al simbolico dominante, mettendo al mondo sapere

sessuato femminile. «Sono una maestra, sono una donna», è il modo con cui Lluïsa Cunillera

si presenta alle sue studentesse e studenti, a mostrare il vincolo fecondo tra l’atto creativo del

sapere, la relazione educativa e la genealogia femminile libera in cui si riconosce. Vincolo che

è al centro della scommessa di queste pratiche e che modifica il modo di stare nella relazione,

rende viva la mediazione dei testi e riesce ad attivare e mettere in circolo il sapere contenuto

in essi, la loro forza espressiva, provocando degli effetti trasformativi in chi vi partecipa, in

quanto ciò che i testi dicono, mediati dalla voce della maestra/formatrice, riesce a toccare in

profondità.

Nel caso di “Mirades de dones”, a differenza degli altri contesti, gli effetti della mediazione di

Nora Almada, la coordinatrice del laboratorio, sono limitati per quanto riguarda la possibilità,

sia di schiudere la ricchezza dei testi, sia di aprire nella relazione con le donne che

frequentano il laboratorio uno scambio di pensiero creativo e trasformativo. Credo che ciò

dipenda dalla collocazione di Nora rispetto ai testi e quindi dalle qualità della sua mediazione,

meno esperienziale e più intellettualistica. Inoltre, nonostante molti dei testi che Nora sceglie

siano significativi perché fonte di ispirazione e trasformazione di sé, non è questo il criterio

che ne orienta la scelta, perché come lei stessa riconosce, ci sono alcuni testi che le

interessano meno eppure li propone perché sono funzionali alla spiegazione di questioni

relative all’analisi testuale oppure perché parlano di qualcosa o qualcuna che a lei interessa far

conoscere. E qui arriviamo alla questione centrale: nel proporre e mediare i testi la finalità di

Nora Almada non è mostrare gli effetti di libertà che quei testi hanno avuto in lei, in quanto

visioni di esperienza femminile in cui ha trovato una misura per stare al mondo. Al contrario,

il suo interesse è più orientato verso l’offrire degli strumenti, che attingono soprattutto alla

teoria letteraria, perché le donne che partecipano al laboratorio possano interpretare i testi.

Vorrei aggiungere che le partecipanti al laboratorio non hanno espresso delle criticità in

questo senso. Anzi, dalle testimonianze che ho raccolto, si evince che per loro è un’esperienza

positiva, grazie alla quale imparano tanto (come analizzare un testo, come intepretarlo…) e

vengono a conoscenza di tante autrici. Non è da trascurare che i testi che propone Nora sono

scritti da donne, con provenienze ed esperienze molto diverse, e questo di per sé è una

294

ricchezza. Tuttavia la mediazione di Nora Almada non mette in luce le possibilità

trasformative di questi testi perché alcuni non trovano ancoraggio nella sua esperienza

personale. E se lo trovano, questo vincolo lei non si autorizza completamente a esplicitarlo.

Uno degli intenti di questa ricerca è stato raccontare pratiche in cui testi letterari scritti da

donne venissero utilizzati come mediazione educativa nei processi formativi e di crescita.

Non è questo il caso di “Mirades di dones”. Perciò una volta terminato il processo di ricerca

in questo contesto, ho valutato opportuno non includere il suo resoconto. Tuttavia, l’accesso

al campo mi ha fornito una ricchezza di prospettiva, ottenuta da una parte, dallo sguardo su

una realtà che non conoscevo e verso la quale sentivo un particolare interesse (sia perché ho

lavorato in contesti simili in passato, sia perché si trattava di uno spazio in cui venivano

proposti testi letterari femminili); dall’altra, dal confronto tra la visione che “Mirades di

dones” mi ha offerto e gli altri contesti da me indagati. Uno sguardo in controluce che mi

aiutato a comprendere meglio, anche se per via negativa, il senso della doppia mediazione, un

processo di attraversamento – «la traiettoria siamo noi stessi», ci insegna Clarice Lispector

(1982, p. 161) – in cui il testo parla attraverso la donna che lo propone. Perchè non si tratta

solo «di introdurre nella scuola [nella formazione ] la critica femminista o il punto di vista

femminile» ma piuttosto «del darsi la libertà di immettere nella scuola [nella formazione] la

propria esperienza sessuata per i significati di cui è portatrice e che producono mutamenti di

sguardo» (Lerario, 1998, p. 196).

295

Cap. 5

LIBERE COMPOSIZIONI

Sólo da la libertad quien es libre.

María Zambrano, Hacia un saber sobre el alma

Premessa

A tessere il rapporto tra le scrittrici e le maestre/formatrici protagoniste di questa ricerca è il

filo della libertà. Un filo intrecciato da altri fili più sottili perché la libertà di cui le loro

pratiche danno testimonianza è una libertà dalla trama complessa, che non si risolve in un

diritto, ma che viene agita nell’ascolto attento di ciò che si desidera, in relazione alla realtà in

cui si vive e ai bisogni che essa pone. Una libertà che cammina su una corda tesa, alla ricerca

di una forma per sé, diversa in ognuna, che si apre al mondo e dai vincoli con esso prende

slancio. Le donne del pensiero della differenza, seguendo le tracce di altre, per esempio María

Zambrano275

, l’hanno nominata libertà relazionale, che va oltre l’idea individualistico-

moderna e si spiega come «possibilità creativa, apertura verso un di più, un bene personale

che ha bisogno delle relazioni significative con altre e altri per vivere e alimentarsi e che trova

non il suo limite, al contrario il suo incremento, nella libertà altrui» (Piussi, 2008a, p. 25).

Una libertà quindi che si gioca tra il desiderio di trascendenza e la realtà in cui ci si trova a

vivere, mai una senza l’altra. Parlo di trascendenza che «altro non è se non la capacità che

tutti gli esseri umani hanno di uscire da sé, abbattendo i propri limiti, lasciando un’impronta

in un altro essere, producendo un effetto, attuando al di là di sè stessi, quasi che l’essere di

ogni cosa terminasse in un’altra» (Zambrano, 2008, pp. 105-106)276

. In questa prospettiva, «la

realtà non è semplicemente contravoluntad, ciò che resiste al progetto umano (…) bensì

275

Sull’idea di libertà in María Zambrano, si legga Elena Laurenzi (2006, pp. 15-33), a cui mi sono affidata per

alcuni passaggi della riflessione. 276

Seguo la traduzione di Laurenzi (2006, p. 44) perché più vicina al testo originale.

296

sostén, terreno in cui affondano le radici e che nutre, horizonte che delimita e orienta l’azione

(Laurenzi, 2006, p. 25)277

.

Al termine, per quanto provvisorio, di questo lavoro di ricerca, un risultato sembra emergere

con forza: la libertà mostrata da queste donne, tra la fedeltà al proprio desiderio e la fedeltà

alla realtà in cui si sono trovate a vivere; tra «il movimento di traduzione di sé dall’intimità

indicibile all’esistenza nel mondo» (Muraro, 1990, p. 196) – un altro modo di nominare la

trascendenza –, e le mediazioni necessarie per compiere il passaggio, che in una donna, come

esse stesse mostrano, sono innazitutto parola, pensiero e autorità femminili.

All’inizio del femminismo italiano della differenza – come ricorda Anna Maria Piussi (2008a,

p. 28) – Carla Lonzi diceva: «il soggetto femminile non cerca la cosa di cui ha bisogno, ma la

fa esistere» . Loro l’hanno fatta esistere, ognuna a modo suo e con differenti ricadute e

risonanze, attraverso pratiche di libertà: inventive, aperte, rischiose, trasformative, perchè

danno testimonianza di un processo esistenziale che le ha viste al centro, in carne e ossa,

impegnate in ciò che cercavano, desideravano e volevano per sé. Pratiche di libertà che sono

esperienze di vite «disseminate di discontinuità e conflitti» (Bateson, 1992, p. 19), di vite in

cui lo slancio della passione e l’amore per il mondo si intreccia con la capacità di cogliere e

accettare le sue contraddizioni, «contraddizioni che, più che il pensiero, sono quelle che

muovono l’intelligenza, il sentimento e un po’ tutta la nostra vita» (Zamboni, 2005, p. 109).

Alla base di queste pratiche di libertà, ognuna diversa, il gesto rivoluzionario è stato il

medesimo: partire da sé (Diotima, 1996), che la politica delle donne e la pedagogia della

differenza sessuale hanno messo al centro del proprio agire e pensare. Ho usato

quest’espressione in diverse occasioni; vorrei riprenderla ora e metterla anch’io al centro, a

fecondare questo momento conclusivo, perché in essa vi è una qualità di essere al mondo, alle

cose, alla propria esistenza, che costituisce il sostrato comune delle esperienze professionali

ed esistenziali raccontate in questo lavoro di ricerca, e che può essere fonte d’ispirazione per

comporre un nuovo sguardo sull’educazione e la formazione.

Partire da sé è innanzitutto iniziare un cammino, partire, quindi mettersi in moto perché si è

chiamati a fare qualcosa: scrivere, essere maestra, prendersi cura di uno spazio tra donne in

cui l’amore per la letteratura possa diventare leva e mediazione per la scoperta di sé, di una

lingua propria, per le donne che vi partecipano. Ad accendere l’azione è la scintilla del

277

I termini in corsivo appartengono a María Zambrano. Laurenzi mantiene in spagnolo solo il primo;

traducendo in italiano gli altri.

297

desiderio, senza però fare a meno della volontà e della sua forza, anche se entrambe orientate

da quella sensibilità intelligente che riconosce il momento in cui bisogna fermarsi perché

andare oltre sarebbe mentire (Muraro, 1987, p. 69)278

. Si tratta di un partire-patire che fa

tesoro della passività attenta, del prendersi tempo per pensare, per attendere e «farsi dare

l’impulso ad agire da necessità esterne» (Praetorius, 2002, p. 6). Non posso non pensare a

Clarice Lispector come a una delle donne che vedono il loro agire nel mondo «non come un

decidere e produrre autonomamente ma piuttosto come un intrecciare e tessere» (ibidem).

Insegnamento di vita che Lluïsa Cunillera mette al centro di “Germanes di Shakespeare”, in

cui la cura della relazione, la creazione di un legame di fiducia e impegno reciproco tra lei e le

sue studentesse e studenti costituisce la base del processo educativo.

Partire da sé è «osare il reale (…), osare il vivente» (Cixous, 1988, p. 43), avere il coraggio

di «giudicare, pensare e agire: esporsi nello spazio aperto delle relazioni plurali, nel gioco

rischioso della realtà» (Piussi, 2008a, p. 16) perché la vita non vada persa, come ci insegna

Virginia Woolf e la pratica della conversazione, così come da lei agita e vissuta. Significa

nominare ciò che è con parole vicine al proprio sentire e alla propria esperienza, confrontarsi

con altre e altri, non per avere ragione, ma per il piacere di creare pensiero in relazione,

mettendo al mondo sensi nuovi, che è la forma più elementare di politica. Come dice

Milagros Rivera, «quando faccio politica del simbolico, mi occupo di cambiare non tanto la

realtà quanto il mio rapporto con la realtà; perché è il cambiamento del mio rapporto con la

realtà ciò che mi cambia immediatamente la vita e che poi andrà cambiando la realtà in

quanto lo diventi via via possibile» (2007, p. 24). È sotto questa luce che vanno pensate le

parole di Àngels Grasses, la fondatrice di Pròleg, quando dice che la libreria «è un luogo

politico» (I, 25.02.2011).

Partire da sé comprende anche riflettere sulla lingua quotidiana, sulle parole che ci stanno a

cuore ma anche su quelle che ci si piantano come chiodi arrugginiti (Sartori, 2005, p. 14), per

dare senso al proprio essere al mondo. «Chi è persona solo per necessità» – scrive María

Zambrano – «teme la realtà e la pianifica in modo piatto, scheletrico, quasi a immagine della

morte. Invece, per colui che si è accettato come persona, la realtà diventa reale e

contemporaneamente acquisisce un ordine. La realtà è viva per lui» (2000a, pp. 197-198)279

.

Accettarsi come persona significa innazitutto riconoscere il fatto di essere creature umane

sessuate e significarlo in libertà, a partire di ciò che si è, si sa e si sente, un sentire che non è 278

Rimando alla lettura di Luisa Muraro della Passione secondo G.H. (1969) di Clarice Lispector. 279

Citazione tratta da Laurenzi (2006, p. 26), di cui ho mantenuto la traduzione da lei proposta perché più fedele

all’originale.

298

mai slegato dal corpo; dai propri desideri e dai propri limiti; dalle proprie gioie e dolori; dalla

novità che ognuno e ognuna porta con sé, in quanto possibilità di inizio per gli altri. «Sono

una donna e desidero esserlo. Ed è come la donna che sono che mi metterò in relazione a voi»

(Cunillera, 2010, p. 1, trad. mia). Così dicendo, Lluisa Cunillera si presenta alle sue allieve e

allievi il primo giorno di lezione e, così dicendo, apre nello spazio dell’aula l’imprevisto che

la sua presenza mette in campo. Una presenza viva in virtù della quale la realtà diventa reale

e contemporaneamente acquisisce un ordine. Parole che come un filo vanno ad intrecciare

“Germanes di Shakespeare”, la “Tertùlia” di Pròleg e, risalendo nel tempo, la scrittura di

Virginia Woolf, Clarice Lispector e Carmen Martín Gaite, in una tessitura di esperienze

esistenziali e professionali, fatte di passione per la vita e per amore del mondo e delle creature

che lo abitano, perché la presenza viva di sé chiama a quella delle altre e degli altri.

Esperienze che nascono vicine al desiderio di dire e dirsi in libertà (nella scuola, nelle

relazioni con altre, nel mondo) in fedeltà a sé, affidandosi alla lingua materna e ai significati

di cui essa è portatrice: relazionalità, reciprocità, empatia, affetto, fiducia e anche la necessità

della mediazione.

Partire da sé è riconoscersi appartenenti ad una tradizione, per una donna, ad una genealogia

di saperi e pratiche relazionali depositarie di secoli di pensiero ed esperienza umana

femminile. Significa partire da «un’altra che prima di me ha parlato», come dicono le autrici

della Libreria delle donne di Milano; seguire la traccia nella propria voce dell’eco di quelle

che ci hanno preceduto oppure che ci accompagnano e a cui si riconosce autorità (da augere,

‘far crescere’) perché quello che dicono, pensano e sono, ci danno misura, ci aiutano a

«consistere in un orizzonte autonomo di senso» (Piussi, 1995, p. 15). Si tratta di pensare

attraverso le nostre madri, secondo l’invito di Virginia Woolf in A Room of One’s Own, idea

ispiratrice di “Germanes di Shakespeare” e della Tertùlia di Pròleg, uno spostamento

simbolico che fa ordine nella propria esistenza, come raccontano le storie di donne narrate da

Carmen Martín Gaite.

Partire da sé è quindi farsi mediatrici di cultura femminile, una scelta più o meno

consapevole nel caso delle scrittrici, che nei contesti educativi e formativi narrati diventa

scommessa, perchè al centro della propria proposta. Credo che le genealogie di “Germanes di

Shakespeare” e della Tertùlia di Pròleg ci parlino proprio di questo: di uno spostamento

simbolico che ha degli effetti sia nella scelta dei contenuti sia nella mediazione che di essi si

fa. Uno spostamento che implica anche prendersi la libertà di mettersi al centro del proprio

pensare e agire, riconoscendo il proprio sapere e le proprie competenze. La libertà di dire

299

come si vive e si pensa l’educazione, la letteratura, la relazione, con allieve e allievi nel caso

di “Germanes di Shakespeare”, con altre donne, nella “Tertùlia”, in entrambi i contesti luogo

privilegiato di creazione di pensiero. Una libertà guadagnata insieme ad altre da cui prende

slancio un «salto senza rete» che significa «far conoscere il nostro lato femminile che ha

sempre più saggezza che qualunque titolo o discorso accademico, è, nè più nè meno, il luogo

in cui io abito» (Bóo, 2004, p.132, trad. mia) 280

.

Partire da sé è infine rendere parlante il luogo in cui si abita, impregnare le proprie parole

della differenza sessuale femminile, creando e ricreando, nello scrivere, nell’educare, nel

vivere assieme ad altre e altri, come le donne protagoniste della ricerca mostrano, ciò che

Milagros Rivera chiama «genealogia femminile di pensiero» (Rivera, 2011, p. 41) e che la

comunità filosofica Diotima, come la storica segnala, ha nominato «il pensiero

dell’esperienza» (Buttarelli, Giardini, 2008), secondo pratiche «che non hanno distrutto la

tradizione maschile del sapere, l’hanno vagliata, discernendo ciò che continua a essere valido

da ciò che è rimasto indietro rispetto al presente» (Rivera, 2011, p. 49).

Partire da sé secondo pratiche che si offrono come mediazioni, aperture di libertà perché «la

vivencia della sessuazione umana» (ivi, p. 51) possa essere messa in parole nella scuola,

nell’università, nel mondo comune di uomini e donne.

5.1. Mediazioni per un’azione vivente

Certo si possono leggere libri e articoli che parlino

del pensiero femminile, però si avverte che

diventano una vera misura per l’agire politico,

quando si conoscono personalmente donne che

fanno della propria soggettività in relazione con altre

un percorso di vita politica. Allora quei testi, da un

contributo culturale, si trasformano in orientamenti

per un’azione vivente.

Chiara Zamboni, Pensare in presenza

280

Il corsivo è mio.

300

Il cammino che ho seguito nel percorso di ricerca, in estrema sintesi, si articola in tre

passaggi, i quali non vanno intesi in modo sequenziale ma come diversi livelli che concorrono

a creare uno «spazio narrante» (Bompiani, 1978), composto da una molteplicità di voci: le

scrittrici, maestre e formatrici, allievi e allieve, donne adulte, io ricercatrice. L’intento è

quello di offrire una visione d’insieme, emergente e parziale, per mettere in luce la valenza

educativa di questa proposta.

Ci sono scrittrici che hanno scritto a partire da sé, mettendo al mondo nuovi sensi che hanno

aperto il reale ad un di più, perché non tutto quello che c’è è visibile, come ci ricordano le

fiabe (Cosentino, Marchesini, 2006). Il loro è stato uno lavoro di svelamento del mondo

attraverso la parola, finalità ultima della scrittura, ci insegna María Zambrano (1996, pp. 23-

31), che tuttavia non è obbiettivo programmabile bensì anelito profondo che si insinua

nell’anima e da cui essa si fa attraversare. Sono donne che hanno accolto il mondo nella loro

scrittura, l’hanno letto con il proprio sguardo, «per offrire a sé e agli altri nuove vie da

seguire. Condivise» (Zamboni, 2012). Chiara Zamboni parla di Ida Travi, una poetessa; io ne

ho preso in considerazione altre. Tuttavia le somiglianze ci sono, in primis, l’uso della lingua

materna, «parole quotidiane» (ibidem), vicine al mondo e alla sua materialità, in cui si

radicano i misteri dell’esistenza. Lasciandosi guidare da ciò che sentono e andando alla

ricerca di parole per nominarlo, esse si fanno mediazione vivente del mondo, che è la pratica

del partire da sé, come Anna Maria Piussi mi fa notare. Mediazione che significa mettere

insieme due cose che prima erano separate, «creare vincoli che sono origine di qualcosa di

nuovo» (López, 2006, p. 135). Questo perché il mondo non è qualcosa di già dato, ma

qualcosa che va scoperto e ri-creato, come ci insegna nostra madre quando veniamo al

mondo, aiutandoci attraverso la parola, la fiducia, l’affetto, il contatto fisico, tutto insieme, a

varcare la soglia, la prima di tante. Dalla qualità delle mediazioni che si trovano dipende il

nostro sguardo sul mondo, azzarderei dire il nostro amore per esso e il desiderio di esserci

(quindi di agire e pensare in grande). Virginia Woolf, Clarice Lispector e Carmen Martín

Gaite sono per me modelli di mediazione vivente.

«Chi sperimenta libertà provoca. La provocazione è un’onda che investe il nostro

immaginario e il nostro concreto esserci» (Mecenero, 2013, p. 88). Ci sono maestre,

formatrici, che hanno trovato nelle scrittrici una misura per sé. Si sono lasciate provocare dal

301

loro gesto di libertà: prendere la parola e, così facendo, agire uno scarto rispetto al già detto e

pensato. Le donne di cui ho parlato sono due: Lluïsa Cunillera e Luisa Fortes. Fonte di

ispirazione per loro sono state Virginia Woolf, Clarice Lispector e Carmen Martín Gaite, ma

anche tante altre scrittrici e donne a loro vicine, con cui hanno condiviso un cammino di

trasformazione che le ha portate a riconoscere e autorizzare il proprio sapere, aprendo nei

luoghi in cui si trovano ad agire un imprevisto: “Germanes di Shakespeare” e la Tertùlia di

Pròleg. Invenzioni che partono dalla valorizzazione della propria differenza e dal sapere

femminile autonomamente prodotto e mettono al centro «la cura delle relazioni che aiutano a

crescere nutrite dal senso dell'alterità e della fiducia; il desiderio, le passioni, e non solo il

bisogno, come movente delle soggettività di chi insegna e di chi apprende» (Piussi, 2013, p.

6). Pratiche aperte e coraggiose, in cui conflitti e contraddizioni vengono accolti come

dimensioni di un agire complesso, che stanno in presenza di ciò che è, quindi sempre aperte e

in divenire. Percorsi di (auto)conoscenza e cambiamento vissuti in prima persona e a partire

da sé. Ed è qui che si trova la loro valenza trasformativa, perché facendosi mediazione vivente

di esperienza umana femminile, mostrandola con il corpo, la parola, la presenza consapevole,

Lluïsa Cunillera e Luisa Fortes provocano ragazze e ragazzi, donne, a esporsi, a osare il reale.

Partendo dalla mia esperienza di lettura di Virginia Woolf, Clarice Lispector e Carmen Martín

Gaite, affidandomi quindi alla loro mediazione, ho voluto nominare ciò che nella loro

scrittura mi suggeriva una via nuova per pensare il mio lavoro come insegnante e formatrice.

Vie, più che via, che ho scoperto essere in parte già percorse da Lluïsa Cunillera in

«Germanes di Shakespeare» e da Luisa Fortes nella Tertùlia. Scoperta che mi ha permesso di

dare corpo alle mie riflessioni in un movimento tra i testi delle scrittrici, i contesti da me

indagati e il lavoro di tessitura del testo della ricerca.

Virginia Woolf mi ha mostrato una pratica in cui la conversazione diventa processo

trasformativo di sé e della realtà, in quanto spazio di messa in gioco di chi vi è coinvolto, di

creazione di pensiero in relazione a partire da ciò che si è e si sa. Un movimento ritmato dal

dare, ricevere e rilanciare, sempre aperto e in divenire, che è ricerca condivisa di parola per

dare senso al proprio essere al mondo. Un “muoversi con” che trascende ciò che è per aprire a

qualcosa di nuovo, mobilitato dal desiderio di trovare «una forma inedita di essere» (Woolf,

2011b, p. 252) e sostenuto dalla fiducia e dall’impegno reciproco. Perché l’apprendimento è

ricerca e scoperta fatta in relazione, come testimoniano «Germanes di Shakespeare» e la

Tertùlia della libreria Pròleg.

302

Clarice Lispector ci insegna che la disposizione dell’anima e della mente nel prendersi cura del

mondo è quella che non si fa guidare dal buonismo o dal volontarismo ma dall’ascolto

profondo. Ascolto che è saper stare a ciò che è, spogliandosi «di tutti gli attributi e avanzando

appena con le (…) viscere vive» (Lispector, 1982, p. 90), avendo il coraggio di lasciarsi toccare

fino a rimanere immondi. Sottrarsi da posizioni accomodanti e/o compensatorie, per orientare il

proprio agire dalla passione per l’alterità, l’attenzione verso ciò che è vivo, aprendo spazi

perchè il reale si schiuda nella sua complessità imprevedibile e rischiosa. Significa farsi

traiettoria perché l’essere sia, esperienza mistica di attraversamento, che Clarice sceglie come

unica via possibile per dire il mondo con parole vere. Esempio vivente di ciò che la scrittura di

Lispector propone è la mediazione educativa di Lluïsa Cunillera, nel suo lavoro di

visibilizzazione dell’opera delle donne nella storia della letteratura.

Le storie di Carmen Martín Gaite mi ricordano la necessità della mediazione per essere al

mondo che, nel caso di una donna come raccontano i suoi romanzi, è in primo luogo femminile.

Si tratta di dirsi e dire affidandosi a un'altra a cui si riconosce autorità, perché nel suo pensare e

agire si trova una misura per sé. E ancora: di mettere in campo nella relazione educativa saperi

vivi, nati vicini alla propria esperienza sessuata, perché non può essere altrimenti, perché «non

diamo se non ciò che siamo» (Cosentino, Longobardi, 1996, p. 31), e se lo neghiamo entriamo

in un circolo vizioso di sofferenza e frustrazione. Le genealogie di “Germanes di Shakespeare”

e della “Tertùlia” della Libreria delle donne di Barcelona nonché della stessa libreria mettono

in luce gli effetti di libertà del tra donne, che sintetizzo con l’espressione «sapere di sapere»:

la presa di coscienza, anche improvvisa, guadagnata nella relazione politica tra donne, della

necessità di disporre di una misura simbolica propria e di una mediazione femminile per stare

con sapienza alla realtà assecondandone il cambiamento, senza tuttavia identificarsi con essa e

senza negarla illusoriamente. (…) Si tratta della consapevolezza di un sapere, nato dalla

pratica politica di riferimento ad altre donne, che si produce ricorsivamente dall’interrogazione

di sé, del proprio agire, del senso del mondo (Piussi, 1995, p. 7-8).

Molti passaggi del mio lavoro di ricerca hanno evidenziato una qualità delle relazioni che crea

dinamismo, che mobilita desideri, azioni, parole, e che nominerei come il movimento fertile

dell’autorità femminile con i suoi effetti di libertà. Autorità messa in circolo quando si decide

di partire da sé e che viene riconosciuta e rilanciata quando un’altra donna l’assume per sé,

come orientamento per la propria azione. Mediazione vivente, ora agita ora riconosciuta, che

303

non risiede quindi in un’unica donna né è un contenuto fisso ma circola secondo un gioco di

riflessi e rimandi, in un movimento a spirale, relazionale e aperto alla trascendenza, come è

quello della conversazione. Libertà femminile oggi presente e significante, di cui questa ricerca

è debitrice.

5.3. Verso la fine…

Finisco di scrivere che è quasi primavera, tempo dello svelamento e della raccolta; tempo

gioioso e tiepido. Sono convinta che non sia un caso: si sa che in un qualche modo i ritmi

umani vengono scanditi dal tempo della natura. In un qualche modo perché secondo

dinamiche sottili, che spesso non ci sono date di sapere, e perché i tempi che oggi ci troviamo

a vivere sono, mi si permetta la semplificazione, strani e frenetici. Possiamo mangiare arance

di estate e mettere camicette a maniche corte in pieno inverno (negli spazi chiusi, si intende,

che più che luoghi per abitare sembrano allevamenti, tanto è il caldo); lavorare per cinque

giorni consecutivi, dimenticandoci di respirare, per poi arrivare al fine settimana esausti e così

stanchi da non ricordare il senso per cui facciamo le cose; così eccitati e adrenalici da non

riuscire a vedere la vita che scorre. E ancora: fabbricare conoscenza pronta all’uso e consumo,

just in time, secondo il motto publish or perish; erogare contenuti e proporre pacchetti

formativi, senza che nessuna di queste espressioni diventino schiuma nella bocca, come

scriveva il poeta peruviano César Vallejo (1988, p. 206) a proposito dell’impossibilità di

scrivere in un lingua che ha perso i vincoli con la vita. Si tratta di frammenti di realtà con cui

mi trovo a convivere, e credo possano dare il senso di ciò che voglio dire quando parlo di un

tempo che non si prende il tempo, slegato dalla materialità, in cui l’attesa sembra essere stata

messa al bando perché ingombra, ci spazientisce. Meno male che i nostri corpi, ognuna e

ognuno il proprio, ci ricordano che di tempo abbiamo bisogno, e si fanno sentire, sia che

abbiamo la disponibilità o no di dare loro ascolto.

La questione che vorrei porre alla fine di questo lavoro di ricerca come suggestione, proposta

e rilancio per ripensare il rapporto tra letteratura femminile e pedagogia, intesa come sapere

utile per stare al mondo con senso, è proprio il prendersi tempo. Una pratica, così propongo di

pensare l’espressione “prendersi tempo”, che da anni alcune maestre e docenti (e qualche

maestro) hanno messo al centro del proprio agire e pensare (Lelario, Cosentino, Armellini,

1998; Piussi, Mañeru, 2006). Prendersi tempo in un momento in cui il tempo sembra essersi

304

ridotto a merce di scambio tra fornitori e utenti/clienti; il mondo della scuola e dell’università

ne sa qualcosa. Dico «sembra» perché il presente, nella sua infinita complessità e ricchezza,

serba sempre delle sorprese e degli imprevisti per chi sa coglierli, che mantengono aperte le

danze. Un esempio recente è l’esperienza di ricerca di un gruppo di docenti universitarie

(Piussi, Arnaus, 2011) che hanno narrato pratiche di insegnamento, di apprendimento e di

relazione all’interno dell’università, raccolte sotto il significativo titolo Università fertile.

Espressione che nel nominare una realtà intessuta di azione e pensiero vivo e (tras)formativo,

mette in campo una scommessa politica: «il mondo dell’università si può abitare abitando un

altro orizzonte simbolico» (Piussi, 2011, p. 33). E non solo il mondo dell’università.

Un mondo in crisi, si dice e si ripete. María Zambrano, in un testo appartenente a Verso un

sapere dell’anima (1996), ci invita a riflettere sul significato della vita in crisi e sulle possibili

modalità di starci. Ne riporto il frammento iniziale:

Non sembra necessario giustificare la nostra condizione di vivere oggi in una situazione di

crisi; è ormai diventato un luogo comune, e come tanti luoghi comuni ci fa correre il pericolo

di passarci sopra, senza andare in fondo. Ma se ciò accade sarà come passar sopra la nostra

stessa vita. E la cosa grave è questa: passar sopra la propria stessa vita senza addentrarvisi

può avvenire con molta facilità. È necessario pertanto tentare di sviscerare ciò che costituisce

la realtà a cui alludiamo parlando di crisi. È necessario, però non possiamo azzardarci a

definirla davvero. Il nostro compito è di fare solo ciò che in realtà già si fa, ma che non è

facile confessare, a causa dell’uso indebito di una parola che è stata un tempo, umile ed

espressiva come tante, e cioè l’attività umana chiamata meditazione (ivi, p. 79).

Certamente i tempi di María Zambrano sono altri, ma ritengo che le sue parole siano più che

mai attuali. E più che mai necessaria è la sua proposta di meditare sulle cose, su ciò che (ci)

accade, come risposta ad una situazione di crisi storica come quella che oggi stiamo vivendo –

la cui portata e significato va oltre la crisi finanziaria e politica, anche se esse ne sono un

segnale – , e «che ci rivela chiaramente un conflitto essenziale della vita umana» (ivi, p. 81).

Conflitto che, come mette in luce Anna Maria Piussi, è dell’ordine del simbolico perché

«riguarda un modello di civiltà e di convivenza umana, paradigmi di conoscenza, di sapere, di

relazioni tra generazioni, non più sostenibili e che non danno felicità» (Piussi, Arnaus, 2011,

p. 14).

305

L’attività umana chiamata meditazione. La meditazione è per me, innazitutto, una pratica che

nella quotidianità della mia vita apre uno spazio di silenzio necessario perché ciò che non ho

previsto oppure pensato venga alla luce; che mi permettte di attingere forza ed energia da

sorgenti che nemmeno conosco eppure sento di avere; sorgenti che sono in me ma che

trovano continuità fuori di me. Meditare è anche sviluppare il pensiero intuitivo e la mente

neutrale; accogliere quello che (mi) accade secondo l’intermittenza dei moti dell’anima, in un

processo aperto, a spirale, come il movimento delle galassie, dove il principio e la fine sono

uno e lo stesso. Meditare è pensare e agire in modo creativo e fiducioso; ma che queste parole

non traggano in inganno perché non parlo di vivere nell’illusione. Al contrario, la vera

fiducia, come dice Chiara Zamboni, ha la capacità di vedere quello che funziona e ci fa bene,

ma anche «là dove succede, lo svilirsi dei luoghi di lavoro, di relazioni d’amore, e di

sopportare l’amarezza della disgregrazione. Ci fa reggere una posizione ambivalente nei

confronti della realtà» (2005, p. 109). Perché c’è qualcosa di più profondo, «quel nucleo di

calma, di quiete, quella specie di radice della nostra anima sulla quale ci eleviamo senza

ricordarcelo» (Zambrano, 1996, p. 82). Meditare è rendere forte la radice che ci lega al mondo

per poter esserci oppure non esserci281

, in quello stato di passività attenta che ci fa attendere il

momento adeguato per «agire efficacemente» (Muraro, 2012c, p. 1).

Meditare è ancora, e forse questo è il senso verso il quale si orientano le parole di María

Zambrano, «guardare bene la realtà, il mondo in cui mi muovo, e anche me stessa nella mia

vita e nel mio agire, e trovare parole adeguate» (Praetorius, 2002, p. 5). «Parole buone» –

continua la teologa – per pensare bene e dire quello che è, cioè la verità. Per aprire nel tempo,

un altro tempo: «il tempo delle presenze», lo chiama Hèléne Cixous (1998, p. 39), in cui si ha

la consapevolezza di sé e di sé nel mondo; si intuiscono i collegamenti, le trame, «la struttura

che connette tutte le creature viventi» (Bateson, 1984, p. 21), si ha un’altra percezione del

tempo.

Quando ci mettiamo a pensare, del tempo si forma. Noi non abbiamo mai il tempo, temiamo.

Ma c’è il tempo; è là sotto, in quantità smisurata, alla misura delle nostre esigenze: basta

pensare e pensare, e pensare e tocchiamo la falda. Pensare dà il tempo. E tutti gli esseri, fino

alle più infime cose, sono pieni di tempo; spetta solo a noi pensarci (Cixous, 1998, p. 39).

281

Sul movimento tra l’esserci e non esserci si veda Chiara Zamboni (2005, pp. 99-112).

306

Pensare, che è meditare sulle cose, sulle parole, su ciò che (ci) accade – come leggo nelle

proposte di Zambrano e Cixous – permette di attingere al tempo della vita e apre il passaggio

perché sia questo tempo a ritmare la nostra azione. Prendersi tempo significa allora sottrarsi a

relazioni, a strutture in cui non circola l’aria, spazi di saturazione del tempo, in cui non si

riesce ad agire in modo creativo perché troppo pieni, troppo veloci, troppo rumorosi. Significa

lasciarsi orientare da un tempo altro, il tempo dello sbocciare di una rosa, «che è

manifestazione di una potenza non appariscente e inesauribile di essere» (Muraro, 2012c, p.

6), in cui Luisa Muraro vede la forma di un’azione efficace.

Scrive Clarice Lispector in una delle sue cronache giornalistiche:

Una cosa di cui vado fiera è che avverto sempre in anticipo il succedersi delle stagioni:

qualcosa nell’aria mi avverte che sta arrivando una cosa nuova, e io, non so perché mi agito

tutta.

La primavera dell’anno scorso una mia grande amica mi ha regalato una pianta, una primula,

tanto misteriosa che nel suo mistero è contenuta la spiegazione inesplicabile di una presenza

divina: il segreto del cosmo.

Questa pianta, che apparentemente non ha niente di singolare, è signora del segreto della

natura.

Quando la primavera si approssima, le sue foglie muoiono e al loro posto nascono diversi

fiori in bocciolo. I colori sono un violetto acceso e bianco, e anche se chiusi hanno un

profumo femminile e maschile estremamente inebriante.

Il segreto di questi fiori chiusi è che proprio il primo giorno di primavera si aprono e si

danno al mondo. Come? Ma come fa a sapere questa modesta pianta che la primavera è

appena iniziata? E i fiori si aprono senza nessun preavviso. Noi siamo seduti davanti a loro,

guardando distratti, ed ecco che lentamente si aprono affidandosi alla nuova stagione, sotto i

nostri occhi meravigliati. E la primavera allora si installa (Lispector, 2001, p. 235).

Spesso mi sono chiesta da dove derivasse la capacità di alcune scrittrici di toccarmi, di

risvegliare in me il desiderio di esserci, di riportarmi alla realtà; di aprire nel frastuono, come

la pratica meditativa, uno spazio profondo di silenzio, necessario perché l’imprevisto accada,

perché sia la vita a farsi sentire, a rivelarsi. Forse una risposta: esse sono signore del segreto

della vita. La loro scrittura si schiude nello stesso modo in cui la rosa, la primula, fioriscono.

In virtù di un’intelligenza che va oltre la ragione e si collega «all’energia dell’essere che

307

hanno le cose, energia positiva quando riusciamo a significarle, anche quelle dolorose»

(Muraro, 2012c, p. 3). E lo fa con la «forza del potere che ha la vita nelle creature viventi per

la sua spontanea volontà di durare e svilupparsi» (ibidem), linfa da cui le parole si nutrono e

che riversano, pagina dopo pagina, in chi sa essere lettrice, lettore, una ricchezza senza fine.

Scrittura nata da un ascolto attento e originale della realtà e perciò così efficace. Un’«azione

tempestiva» che avviene «quand’è il suo momento» (ivi, p. 6)282

: penso a Lluïsa Cunillera

che, davanti all’impossibilità di riuscire a risvegliare l’interesse della sua classe, un giorno si

ferma e chiude il libro. Gesto fisico e simbolico con cui apre uno spazio per ripensare a partire

da sé e in relazione alle sue allieve e allievi il proprio agire educativo. Da qui nascerà

«Germanes di Shakespeare».

E la primavera allora si installa.

282

L’esempio di azione efficace che propone Luisa Muraro è quella di alcune maestre di scuola «che, davanti

alle assenze causate dallo sgombero del campo rom, si alzarono e andarono a cercare le loro alunne e alunni,

dispersi nella città per decisione della giunta comunale» (ibidem).

308

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Galleria di fotografie

I. Le scrittrici: le mie maestre

Clarice Lispector

(Čečel’nyk, Ucraina, 1920 – Rio de Janeiro, 1977)

Virginia Woolf

(Londra, 1882 – Lewes, Sussex, 1941)

Carmen Martín Gaite

(Salamanca, 1925 – Madrid, 2000)

II. Stanze tutte per sé

“Germanes di Shakespeare”

La Tertùlia della libreria delle donne di Barcelona