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La memoria dell’Occidente Carlo Scirocchi Uno dei problemi che la comunicazione moderna deve affrontare è, a mio giudizio, quello dell’inflazione di significati. L’uso corrente, spesso a sproposito, di termini importanti come pace, libertà, e giustizia, che compaiono sulla bocca di personaggi di tutti i tipi, rende tali termini altrettanto estranei che se fossero completamente cancellati dal dizionario. In realtà ci troviamo di fronte a parole che sottendono intere filosofie, intere visioni del mondo e della vita su questo pianeta e che forse meriterebbero quel momento di silenzio e di riflessione che il loro fluire indiscriminato impedisce. Uno dei termini che ha smarrito il suo profondo significato, sopraffatto da lotte e beghe politiche e di parte, trangugiato dal tamburo battente dei mezzi di comunicazione di massa, spesso attratti più dagli estremismi che dalle verità e sottigliezze storiche, è questo strano termine che suona come: Islam. Il significato originale di tale parola non ha nulla a che vedere con terrorismo o sopraffazione o discriminazione o altre situazioni poco edificanti ma, in accordo con la radice araba della parola, SLM, che implica i concetti di pace, purezza, sottomissione e ubbidienza, vuole semplicemente indicare: sottomissione alla volontà di Dio. Ora se è vero, come è vero, che noi occidentali apparteniamo prevalentemente a religioni monoteiste, si deduce che nessun vero credente troverebbe da ridire sul fatto che la Fede impone la sottomissione all’Onnipotente. Uno dei principi affermati dal Corano, che è il libro sacro del mondo musulmano, è la tolleranza e il rispetto per la vita e forse pochi sanno che Gesù è citato nel Corano in ben 93 versetti. Se per un momento mettiamo da parte la questione teologica della Sua natura secondo il punto di vista cristiano, che sicuramente non coincide con il punto di vista musulmano, Egli è comunque considerato, proprio per tale menzione coranica, un Profeta di prima grandezza anche dai musulmani. Insomma a voler anche di poco scavare nelle cose appare subito chiaro che i punti di contatto tra culture apparentemente lontane come quella cristiana e quella musulmana, sono in realtà molti e importanti. Per questo certi anatemi o guerre sante scagliati e dichiarate dall’una e dall’altra parte trovano ben poco fondamento nello spirito e nella lettera dei rispettivi testi sacri. Che poi in tutte le epoche ci sia stato chi, facendo leva sull’ignoranza dei fanatici, abbia piegato lo spirito della religione ai propri scopi è un motivo in più per cercare di non farsi travolgere da visioni emotive e superficiali nel giudizio dei fatti umani. Non credo che si possa giudicare e capire il messaggio cristiano, per esempio, analizzando

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La memoria dell’Occidente

Carlo Scirocchi

Uno dei problemi che la comunicazione moderna deve affrontare è, a mio giudizio, quello dell’inflazione di significati. L’uso corrente, spesso a sproposito, di termini importanti come pace, libertà, e giustizia, che compaiono sulla bocca di personaggi di tutti i tipi, rende tali termini altrettanto estranei che se fossero completamente cancellati dal dizionario. In realtà ci troviamo di fronte a parole che sottendono intere filosofie, intere visioni del mondo e della vita su questo pianeta e che forse meriterebbero quel momento di silenzio e di riflessione che il loro fluire indiscriminato impedisce. Uno dei termini che ha smarrito il suo profondo significato, sopraffatto da lotte e beghe politiche e di parte, trangugiato dal tamburo battente dei mezzi di comunicazione di massa, spesso attratti più dagli estremismi che dalle verità e sottigliezze storiche, è questo strano termine che suona come: Islam.

Il significato originale di tale parola non ha nulla a che vedere con terrorismo o sopraffazione o discriminazione o altre situazioni poco edificanti ma, in accordo con la radice araba della parola, SLM, che implica i concetti di pace, purezza, sottomissione e ubbidienza, vuole semplicemente indicare: sottomissione alla volontà di Dio. Ora se è vero, come è vero, che noi occidentali apparteniamo prevalentemente a religioni monoteiste, si deduce che nessun vero credente troverebbe da ridire sul fatto che la Fede impone la sottomissione all’Onnipotente. Uno dei principi affermati dal Corano, che è il libro sacro del mondo musulmano, è la tolleranza e il rispetto per la vita e forse pochi sanno che Gesù è citato nel Corano in ben 93 versetti.

Se per un momento mettiamo da parte la questione teologica della Sua natura secondo il punto di vista cristiano, che sicuramente non coincide con il punto di vista musulmano, Egli è comunque considerato, proprio per tale menzione coranica, un Profeta di prima grandezza anche dai musulmani. Insomma a voler anche di poco scavare nelle cose appare subito chiaro che i punti di contatto tra culture apparentemente lontane come quella cristiana e quella musulmana, sono in realtà molti e importanti. Per questo certi anatemi o guerre sante scagliati e dichiarate dall’una e dall’altra parte trovano ben poco fondamento nello spirito e nella lettera dei rispettivi testi sacri.

Che poi in tutte le epoche ci sia stato chi, facendo leva sull’ignoranza dei fanatici, abbia piegato lo spirito della religione ai propri scopi è un motivo in più per cercare di non farsi travolgere da visioni emotive e superficiali nel giudizio dei fatti umani. Non credo che si possa giudicare e capire il messaggio cristiano, per esempio, analizzando

semplicemente la storia dell’Inquisizione. Da questo punto di vista sembrerebbe molto più corretto chiamare ‘fondamentalisti’ coloro che vanno al fondamento delle cose, cioè allo spirito unificante delle religioni e delle culture, piuttosto che quelli che credono che la base della predicazione dei Santi e dei Profeti sia una incitazione alla guerra anziché un richiamo alla pace e alla concordia. La parola jihad non vuol dire affatto ‘guerra santa’, che è un termine inventato ad uso e consumo di propagande e fanatismi di parte, ma ‘sforzo’ e fa riferimento allo sforzo e alla volontà di elevare se stessi verso Dio per collocarsi tra coloro di cui Lui si compiace attraverso l’applicazione degli insegnamenti che Egli, attraverso i suoi Profeti, ha inviato agli uomini. Del resto appare ormai molto azzardato, in base all’analisi storica, vedere nello spirito delle Crociate contro gli infedeli di medioevale memoria, l’attualizzazione dello spirito del Vangelo ignorando le lotte per il potere politico ed economico che esistevano allora come oggi. In questo senso la storia si ripete visto che la storia è fatta dagli uomini che, come si sa, possiedono quelle particolari caratteristiche chiamate: egoismo e avidità.

In realtà l’Occidente deve quasi tutto ciò che sa alla cultura araba, sia d’Oriente che di Occidente. Quando il mondo musulmano si estese su tutto il Mediterraneo, dalla Turchia alla Spagna, realizzò ciò che pochi secoli prima aveva già fatto il mondo romano: l’unificazione e, in taluni casi, l’integrazione delle culture. Come sappiamo alla caduta dell’Impero d’Occidente scomparve un modello di organizzazione che, bene o male, aveva favorito le comunicazioni e la circolazione di elementi culturali diversi, la assimilazione ed espansione, attraverso il veicolo delle legioni, di importanti civiltà come quella greca, etrusca ed egizia. La cultura greca, che tanta influenza ebbe su quella romana, doveva a sua volta molto a quella egizia, come testimoniato dallo stesso Erodoto. Con la conquista dell’Egitto da parte di Alessandro Magno la compenetrazione tra le due culture si fece ancora più stretta e Alessandria d’Egitto divenne il faro della cultura di quei tempi, luogo d’incontro della tradizione egizia, ebraica, e greca. Divenuta successivamente la capitale della provincia romana d’Egitto continuò questa funzione unificatrice divenendo più tardi anche polo della cultura cristiana. Quando nel 642 la città fu conquistata dagli arabi la sua grande cultura si trasmise a questi ultimi che, peraltro, avevano già avuto contatti con la grande tradizione spirituale greca, specialmente attraverso i Siriani. Prima della conquista araba esisteva già una tradizione di interscambio tra culture diverse attraverso l’opera di scuole di traduzione di dotti bilingui e i nuovi dominatori incoraggiarono e incrementarono l’opera di traduzione in arabo dei grandi testi classici. Si ricorda in particolare l’istituzione della Bayt al-Hikma (La Casa della Sapienza) da parte del califfo abbaside al-Mamun che diede un impulso senza precedenti all’opera di traduzione. Attraverso questi imponenti lavori autori come Galeno, Tolomeo, Euclide, Aristotele, Giamblico e Porfirio entrarono nel mondo islamico, ‘emigrando’ dal mondo antico al Medioevo. I sapienti musulmani fecero proprie le grandi conquiste matematiche e filosofiche dei Greci, dei Babilonesi e degli Egizi, facendo del mondo musulmano il nuovo depositario della sapienza antica. Dopo la conquista araba della Spagna e il fiorire di quella straordinaria cultura, nata dalla commistione dei musulmani maghrebini con il mondo latino, questo imponente corpo di opere classiche venne tradotto dall’arabo al latino, principalmente ad opera della scuola di traduttori di Toledo, sorta grazie al mecenatismo del re di Castiglia Alfonso il Saggio,

e finalmente questi testi cominciarono a circolare anche in un Occidente che li aveva praticamente dimenticati. I sapienti arabo-spagnoli che sorsero numerosi, come Ibn Arabi di Murcia e Averroè di Cordova, erano rispettati e studiati in tutta Europa e presso le nuove istituzioni culturali, che erano le università arabo-spagnole, si recavano a studiare, in un clima di grande tolleranza, sia ebrei che cristiani. Ci sono stati pochi esempi, nella storia del mondo, di profonda e proficua collaborazione e reciproco rispetto come il periodo della dominazione musulmana della Spagna, a testimonianza che non è affatto vero considerare la cultura musulmana come sinonimo di intolleranza. Per fare un esempio autorevole del clima di quel periodo citerò Gerberto d’Aurillac che, dopo aver studiato presso le università di Cordova e Toledo, divenne Papa con il nome di Silvestro II°. Dalla Spagna la cultura classica, attraverso l’opera di studiosi e monaci che da tutta Europa confluivano in Spagna spinti dalla ricerca delle fonti del sapere, estese la sua influenza sulla scolastica cristiana permeando la cultura Europea ed influenzandola praticamente fino ai giorni nostri. In particolare, oltre ai testi scientifici, venne trasmesso il corpo della tradizione ermetica e spirituale, che gli arabi avevano salvato nella loro lingua, e a tale corpo di conoscenze attinsero gente come Tommaso d’Aquino, Ruggero Bacone, Raimondo Lullo, Nicola Flamel. Questi a loro volta influenzarono l’opera di altre grandi personalità come Marsilio Ficino, Pico della Mirandola e Giordano Bruno, contribuendo a quel grande movimento di rinnovamento culturale che fu il Rinascimento. Giova notare che negli stessi anni che videro il fiorire della cultura araba di Spagna fiorì nell'Italia meridionale un altro importante e fiorente polo culturale: la corte palermitana di Federico II°, lo 'stupor mundi'. Grazie a lui, che si attorniava di guardie moresche, di medici ebrei, di trovatori provenzali e di poeti andalusi, l'influenza musulmana penetrò fino al cuore del mediterraneo, trasformando Palermo e la Sicilia in un polo culturale che aveva visto pochi precedenti di tale livello nell'Occidente mediterraneo. Per merito delle corti di Alfonso e Federico per la prima volta il mondo cristiano europeo poteva compararsi sul piano della qualità con la civiltà bizantina e orientale.

La religione musulmana fu perciò un potente collante tra culture antiche e nobili come quella persiana, egizia, siriana, maghrebina, bizantina, andalusa, e ciò che era nato tra le tribù seminomadi dell’Arabia si giovò ben presto dell’apporto di tali antiche culture che già possedevano una lunga tradizione di sviluppo. Sia pure a grandi linee si può intravedere ancora una volta la forza portante delle civiltà del Mediterraneo nello sviluppo dell’Occidente, civiltà che, pur attraverso spesso la contrapposizione e la lotta, diedero vita ad un fermento culturale e a mutue influenze che abbracciano uno spazio di interi millenni.

Il corpo di conoscenze che la cultura araba trasmise all’Occidente comprendeva, oltre alle cognizioni scientifiche e ai trattati filosofici, anche la tradizione alchemica. Riprendendo le antiche conoscenze greche e babilonesi, fu Jabir ibn Hayyam, conosciuto dagli alchimisti europei come Geber, a riproporre la Grande Opera. Lo stesso termine alchìmia deriva dalla parola araba al kemia, cioè la chimica, così come al tanur divenne per l’Occidente l’athanor. Tra i grandi alchimisti europei che attinsero le loro conoscenze dagli arabi ritroviamo ancora i nomi di Raimondo Lullo, Ruggero Bacone e Alberto

Magno che fu maestro di Tommaso d’Aquino. Toledo era considerato il centro della trasmissione di tali conoscenze assumendo presto la reputazione di ‘cattedra delle scienze occulte’. A Toledo studiò Gerardo da Cremona che, appreso l’arabo, tradusse e diffuse l’opera di Geber, oltre ad altri importanti trattati come quello di matematica di al-Khuwarizmi. A tale proposito giova ricordare che proprio dall’opera di tale autore, nato a Baghdad intono al 780, si deve l’introduzione della parola ‘algebra’ che deriva da al jabr con un significato che fa riferimento alla trasposizione dei termini delle equazioni.

Nei secoli in cui l’Islam occupava praticamente tutto il Mediterraneo sorsero anche le grandi opere letterarie di Rumi, originario dell’Afganistan e morto in Turchia, di Omar Khayyam, poeta, filosofo e matematico persiano, e quel monumento dai significati molteplici e stratificati che conosciamo come le fiabe delle ‘Mille e Una Notte’. La stessa Commedia di Dante, come messo in luce brillantemente dall’illustre islamista gesuita spagnolo Asìn Palacios nel suo Dante e l’Islam, è grandemente debitoria nella sua struttura e nei suoi significati simbolici alla cultura islamica. Il fatto che un personaggio come Dante ritenne di realizzare uno dei massimi capolavori della letteratura di tutti i tempi coniugando la tradizione cristiana con il simbolismo e la cultura araba, è la migliore testimonianza della forte influenza musulmana sulla nascente o rinascente cultura europea. Del resto la grande influenza che la cultura Islamica ebbe su Dante è stata abbondantemente confermata da studi successivi a quelli di Palacios, anche ad opera di autorevoli studiosi italiani come Maria Corti. Lo stesso Dante fa intravedere i riferimenti della sua cultura nel ‘Convivio’, scritto in latino con lo scopo di riassumere la cultura della sua epoca, citando astronomi, matematici e filosofi musulmani tra cui Ibn Arabi, Avicenna e Averroè.

Sarebbe troppo lungo in questa sede analizzare i collegamenti che molti studiosi hanno evidenziato tra altri importanti fenomeni storici dell’Europa e la cultura musulmana come, per esempio, il sorgere dell’Ordine dei Templari, la letteratura cavalleresca, il fenomeno dei trovatori e dei Liberi Muratori. E’ interessante però notare come il fantasma della raffinatezza e vastità della cultura dell’Islam si aggira anche nella produzione cinematografica rivolta al grande pubblico. Anni fa, per esempio, Hollywood mise in circolazione un film sulla vita romanzesca di Omar Khayyam dove veniva enfatizzata la sua poliedrica personalità.. Successivamente Peter Brook si occupò, in un suo film, della vita di quello straordinario e misterioso personaggio venuto dall’Oriente che era Gurdjieff che, per primo, portò in occidente metodi di insegnamento Sufi, e il sufismo, almeno come lo conosciamo oggi nella sua formulazione più visibile, è stato veicolato attraverso la cultura musulmana. Più recentemente nel Robin Hood interpretato da Kevin Kostner, appare l’insolita figura di un saraceno che, fuggito dalla prigione insieme al protagonista, lo aiuta nelle sue imprese. Nel film tale personaggio è rappresentato come grande guerriero, forte e leale, imperturbabile di fronte alle avversità, e, soprattutto, come uomo di vasta cultura al cui cospetto il mondo dei castelli e castellani inglesi appare primitivo e grossolano. Sembra proprio l’archetipo di quei personaggi tra il filosofo e lo scienziato, tra il poeta e il guerriero che conosciamo con il termine, già citato, di Sufi. L’importanza di questi ultimi non solo per il mondo musulmano ma per tutta la civiltà d’Oriente e di Occidente richiederebbe una trattazione

a parte. Basti ricordare che sia Rumi che Khayyam sono considerati anche maestri Sufi. Rumi è forse più conosciuto in Occidente come il fondatore dell’Ordine dei Dervisci Danzanti, tuttora attivi a Konia. Alla Sua scuola di spiritualità accorrevano studenti da tutto il mondo conosciuto e si narra che ai Suoi funerali fosse presente anche un buon numero di cristiani. Di lui e della sua vasta opera poetica si è anche recentemente occupato il mondo della musica e del teatro d’avanguardia attraverso lo spettacolo teatrale, rappresentato in tutta Europa, ‘Monster of Grace’, dove la lettura dei testi è stata accompagnata da immagini digitali e dalla musica di Philip Glass.

Insomma, a conclusione di questo breve excursus, appare abbastanza chiaramente l’esistenza di profondi e insospettati legami tra mondo musulmano e mondo cristiano, al di là delle strumentalizzazioni contingenti. L’obiettività storica e l’onestà intellettuale impongono di porre nella giusta prospettiva una cultura, come quella musulmana, che appare vasta e articolata e, nei suoi fondamenti, ricca di tradizioni umanistiche da cui non solo l’Occidente ha attinto largamente ma a cui deve la continuità della sua memoria con il mondo classico che, per molti secoli, aveva praticamente dimenticato. Limitare l’analisi e la conoscenza alla situazione attuale, dominata da malintesi culturali e interessi di parte che preferiscono la contrapposizione e la diversità alle affinità dettate dalla Storia, significa restringere l’orizzonte delle nostre stesse radici che in Occidente affondano soprattutto nella vasta area che gravita intorno al Mediterraneo e, in ultima analisi, negare un contributo possibile alla reciproca comprensione e cooperazione in vista di un mondo migliore.

Riferimenti Bibliografici

Miguel Asìn Palacios: Dante e l’Islam. L’escatologia islamica nella Divina Commedia - Milano - Nuova Pratiche Editrice - 1997

Italo Borzi: Introduzione a Dante. Tutte le Opere - Grandi Tascabili Economici Newton - Roma - 1993

Idries Shah: I Sufi - Edizioni Mediterranee - Roma - 1990

Gabriele Mandel: Il Corano senza segreti - Rusconi - Milano -1991

Adriano Lanza: Dante e la gnosi. Esoterismo del Convivio - Edizioni Mediterranee - Roma - 1990

F. Yates: Giordano Bruno e la tradizione ermetica - Laterza - Bari - 1981

R. Guènon: L'esoterismo di Dante - Atanòr – 1976

LETTERATURA ARABASviluppatasi nell'Arabia, fu prodotta e apprezzata dalla Spagna alla Cina. Sebbene la letteratura araba classica fosse improntata a temi religiosi ed eruditi, grande è il suo intrinseco valore artistico e letterario. A una prosa dallo stile particolarmente vivace si affianca una produzione poetica vigorosa e realistica, in perfetto accordo con l'asprezza dell'ambiente da cui proviene. La ricchezza della lingua araba conferisce varietà e colore a una letteratura dominata da motivi obbligati, quasi stereotipati. Per gli arabi antichi, la lingua era il principale strumento dell'espressione artistica, poiché sia la poesia sia la prosa furono concepite per essere ascoltate. La poesia e l'oratoria possono suscitare tuttora la passione e gli entusiasmi di una folla araba.

*Il periodo medievale*

L'esempio più straordinario della letteratura araba è rappresentato dal Corano, che i musulmani considerano dettato direttamente da Dio al suo profeta Maometto nel deserto arabo (VII secolo) e che essi venerano in tutto il mondo. Questo testo sacro costituisce l'equivalente della Torah per gli ebrei e del Vangelo per i cristiani. Il suo stile, ritenuto inimitabile dai musulmani, deriva da quello degli indovini arabi preislamici, i quali si servivano di brevi locuzioni caratterizzate dal ritmo e dalla rima ma prive di metro. La qualità letteraria delle prime surat (plurale di surah, "capitolo") del Corano può essere apprezzata appieno solo nel testo originale arabo Il Corano è la maggiore espressione della creatività letteraria araba, ma non la più antica. Si sono conservate, infatti, centinaia di odi e poesie, composte circa un secolo prima di Maometto, che raccontano la vita dei beduini: gli amori, i viaggi attraverso il deserto, i combattimenti, le rivalità, le ambizioni. I poeti celebravano le loro tribù, i loro sceicchi e spesso se stessi; nel contempo schernivano i loro avversari, sfidandoli a rispondere con la spada o con una satira altrettanto tagliente. I poeti più significativi furono al-ASHA, Amr ibn KULTHUM e Imru l-QAYS. Le migliori poesie degli ultimi due furono incluse nelle muallaqat (poesie "appese"), che tradizionalmente venivano affisse all'interno della grande moschea della Mecca. La poesia continuò a fiorire sotto la dinastia omayyade (661-750), pur tendendo a diventare artificiosa e a perpetuare forme proprie di un genere di vita ormai al tramonto. I poeti più rappresentativi di questo periodo furono al-FARAZDAQ e Giarir ibn ATIYYA, tra i quali vi fu una lunga e famosa rivalità poetica. L'ultimo dei grandi poeti arabi del X secolo fu al-MUTANABBI. Nei secoli seguenti, poeti didattici come Abu l-Ala al-MAARRI, trattarono questioni politiche e religiose. I primi esempi di prosa araba - che, come la poesia, fiorì in tempi antichissimi - elaborano storie preislamiche che celebrano guerre tribali e furono scritti molto tempo dopo la morte di Maometto. Con la diffusione dell'Islam l'attenzione dei letterati arabi e musulmani si concentrò sulla storia del Profeta e sulle conquiste islamiche. La ricerca di regole di condotta in questioni religiose, personali e legali inaugurò la letteratura degli hadith ("conversazioni", che concernono la tradizione) e del fiqh ("diritto canonico"). La maggior parte della letteratura araba medievale è costituita da commentari su questi argomenti e da voluminosi dizionari biografici sulla autorità che avevano ispirato le leggi e i costumi locali. In centri della vita islamica come Bassora, Cufa e Baghdad, ma anche in terre non arabe dell'Iran e della Spagna, furono fondate accademie per lo studio della filologia, teologia, giurisprudenza e filosofia. Il pensiero filosofico islamico era stato stimolato dallo studio degli antichi filosofi greci (vedi Filosofia greca), le cui opere erano state tradotte da eruditi arabi, siriani ed ebrei nelle loro rispettive lingue. Fu soprattutto attraverso gli scritti di al-FARABI che anche la filosofia neoplatonica venne introdotta nel pensiero arabo. In contrasto con la sua opera, che idealizza lo stato come emanazione di Dio e il Profeta come suo leader ideale, altre opere sull'arte politica, come quella di al-MAWARDI, affrontano i problemi più pratici, politici e legali, dello stato musulmano. Idee opposte sull'essenza di Dio, sul libero arbitrio e sulla natura eterna del Corano stimolarono la discussione filosofica e crearono scuole di pensiero dissenzienti. Nei secoli XII e XIII, il sufismo islamico, movimento mistico, trovò la sua espressione letteraria nella poesia di Ibn al-FARID e Ibn al-ARABI. Alcuni dei maggiori filosofi, AVERROÈ (Ibn Rushd), AVICENNA (Ibn Sina) e al-GHAZALI, scrissero in arabo le loro opere, che, studiate in Occidente, esercitarono un notevole influsso sullo sviluppo della filosofia scolastica. Accanto alle opere erudite, si sviluppò una etteratura popolare consistente in narrazioni recitate dai cantastorie nei bazar, da cui ebbe origine una tradizione orale ancora oggi viva. Gli eroi dell'antichità e il famoso califfo del secolo VIII Harun ar-Rashid furono protagonisti delle romatiche storie fantastiche incluse nel Romanzo di Antar e nelle celebri Mille e una notte.

Concepite per il divertimento delle masse, queste opere rifiutavano lo stile e la lingua classici, e furono per questo denigrate dagli eruditi. Più consone al gusto degli studiosi e dei ceti più alti furono le celebri maqamat (brevi omposizioni in prosa rimata) del poeta al-HAMADHANI e quelle dello scrittore al-HARIRI. Al fervore intellettuale del Medioevo subentrò un periodo di stagnazione. Nei sei secoli che eguirono i letterati si dedicarono quasi esclusivamente a commentari sulle opere degli antichi maestri; a compendi dei loro studi storici, teologici e legali e ad antologie di testi antichi. Il limite principale di queste opere pur non prive di un certo interesse per gli storici e studiosi moderni è nella loro accettazione incondizionata della tradizione, senza che questa venga sottoposta a un'analisi critica."Araba, letteratura," Enciclopedia Microsoft(R) Encarta(R) 98. (c) 1993-1997 Microsoft Corporation. Tutti i diritti riservati.

LETTERATURA MAGHREBINAL'area linguistica e culturale del Maghreb si è costituita nel corso dei secoli attorno alle popolazioni berbere autoctone, che subirono in numerose ondate la dominazione straniera. Così, la letteratura di ciò che gli arabi considerano da sempre l'"Occidente" (in arabo al-Maghrib) subì di volta in volta influssi punici ed ebraici, greci e latini, vandali e bizantini, arabi, turchi e francesi, prima che si formassero le moderne nazioni indipendenti. La lenta e progressiva adesione all'Islam, iniziata nel secolo VIII d.C., fu uno degli elementi unificanti della cultura maghrebina, la quale, tuttavia, ha saputo conservare una propria identità, distinta sia da quella europea sia da quella araba. L'alfabeto libico-berbero è affine al tifinagh, la scrittura degli ttuali tuareg e la lingua berbera viene di solito definita come appartenente al ramo camitico del gruppo camito-semitico. Del periodo preislamico restano alcuni testi in lingua punica, stele otive o trattati tecnici, privi tuttavia di un interesse letterario propriamente detto. Dopo la conquista romana dell'Africa settentrionale, si diffuse l'uso del latino e del greco scritti. I testi latini più importanti furono scritti a partire dal I secolo d.C. fino al VI; si stima intorno al 430, alla morte di sant'Agostino, l'apogeo della letteratura latina d'Africa, la quale tuttavia si colloca nel solco della tradizione latina o latino-cristiana (Letteratura latina).

*La letteratura in lingua araba*La conquista araba non islamizzò, né tantomeno arabizzò, immediatamente le popolazioni del Maghreb: l'identità arabo-islamica nacque poco a poco, in uno spazio in cui le vie di comunicazione che collegavano le diverse parti dell'impero consentivano a molti studiosi maghrebini di andare a perfezionare la loro formazione in Oriente. La cultura arabo-islamica privilegiava soprattutto le discipline coraniche, giuridiche e teologiche, ma grande spazio era dato anche alla filologia e alla storia. La città di Kairouan, centro del dominio arabo nel Maghreb orientale, ebbe un ruolo culturale di primo piano, ma le dinastie locali godevano di una certa autonomia rispetto al potere centrale. Da questa attività culturale derivò un intenso fermento religioso che contribuì in modo decisivo a diffondere il sistema malikita, il quale ben presto si affermò nel Maghreb e originò una ricca produzione letteraria. Tra gli scritti più importanti figura la Raccolta di leggi di Sahnun (776-855). Kairouan servì da modello per tutto il Maghreb: generazioni di letterati si formarono nelle università di Tunisi, Tlemcen e Fez, ma anche di Marrakech, Meknès e Bejaïa, che divennero influenti centri di diffusione culturale. Dalla moschea alla zawiya (scuola coranica) si perpetuava la tradizione: gli studenti intraprendevano viaggi lunghissimi per andare ad ascoltare gli eruditi e ottenere da loro l'igaza (la licenza di insegnamento). Tra gli esempi più celebri si annoverano lo storico Ibn KHALDOUN e lo scrittore Ibn BATTUTA, che narrò dei lunghi viaggi tra l'Asia e l'Estremo Oriente, in Cina e in Russia fino all'Africa nera (1373).

MEDIO EVO E ISLAMdi Alessandra Collan. 2 (gennaio-marzo 2005) del trimestrale "Eurasia", in cui tratto di apporti e rapporti culturali fra Islam ed Europa nel Medio Evo.«Tu ti fidavi della tua malizia e dicevi: "Nessuno mi vede", la tua saggezza e la tua scienza ti hanno sviata e tu dicevi in cuor tuo: "Io, e nessun altro fuori di me"»(Isaia 47:10)«Non ha Dio reso stolta la sapienza di questo mondo?»(Paolo di Tarso, Prima Lettera ai Corinzi I,1,20)«Nec vero impios libros [...] scriptos habere aut legere aut describere quisquam audeat: quos diligenti

studio requiri ac publice comburi decernimus»(Codex Iustinianeus, 1.5.6.1)1 «A colui che procede lungo una via nella ricerca d'una scienza Dio spiana una via al Paradiso.» «Colui che lascia la sua casa alla ricerca della scienza è nella Via di Dio sino al suo ritorno»«Ricercate la scienza, fosse anche fino in Cina.»(Maometto, Detti)«La prima cosa che Dio ha voluto dai suoi servi è che essi Lo conoscano per mezzo dei diversi aspetti attraverso i quali Egli si fa conoscere da loro. Infatti Egli si è fatto da loro conoscere attraverso la creazione del mondo [...]. La conoscenza precede ogni cosa ed è la radice di ogni cosa.»(Shaykh al-Muhâsibî, maestro sufi del IX secolo) «Non seguite le congetture, non la menzogna, ma esibite una scienza»(Corano, VI.148) «Al di sopra di ogni uomo che possiede una scienza ve ne è uno più sapiente ancora»(Corano, XII.76) La grande piazza è già gremita nonostante l'ora ancora grigia. Il cielo di Parigi è di quell'algido azzurro che hanno i cieli del nord, così diversi da quelli sontuosi del Mediterraneo; le brume mattutine si sollevano, e i raggi del sole illuminano il rogo non ancora acceso che campeggia nel centro della piazza. Da lontano si odono rullare i tamburi che annunciano la processione — autorità civili e religiose, capitoli delle cattedrali, monaci di diversi ordini convergono tutti verso il luogo in cui sarà condannata l'eresia, e in cui verranno pubblicamente bruciati gli empi libri che contengono l'ultima cosa di cui la Chiesa ha bisogno: il seme del dubbio. Popolani, borghesi, perditempo, studenti e monelli si affollano intorno alla pira. Nell'aria si addensa il fumo dei ceri, i tamburi tacciono per lasciare il posto agli squilli di tromba che precedono la pronunciazione solenne di una condanna tanto formale quanto definitiva: «Chiunque stamperà o farà stampare, o conserverà presso di sé, o leggerà e commenterà in pubblico, o renderà noto il contenuto di questi libri empi ... senza nostra autorizzazione ... incorrerà nella pena di morte e nella perdita di tutti i suoi beni, e il suddetto libro sarà bruciato pubblicamente come questi che noi consegnamo al fuoco purificatore della verità». Le fascine ammucchiate s'incendiano lambite dalle torce, e non appena le fiamme divampano gli "eretici muti", i "portatori di eresia" vi finiscono tra un salmodiare di penitenti e i mormorii rabbiosi che qualcuno, tra la folla, ha ancora il coraggio di levare. Le pagine si accartocciano, le rilegature anneriscono, in breve diventa cenere la materia che ha contenuto lo spirito.Potrebbe essere il 1210, o il 1215. Non ha molta importanza. Anche le parole della condanna non sono precise — le ho ricostruite sulla base di documenti analoghi di epoca posteriore. Nemmeno questo ha molta importanza. Quello che importa è che sul rogo sono finiti gli scritti ormai perduti di Amalrico di Bène2, filosofo e teologo francese, e i Quaternuli di Davide di Dinant, filosofo fiammingo o forse bretone, entrambi accusati di eresia. Davide riuscì a fuggire dalla Francia prima di essere arrestato e processato, e morì chissà dove dopo il 1215. Amalrico era già morto, forse nel 1207: sul rogo finì il suo cadavere, riesumato per l'occasione secondo una prassi consolidata all'epoca, e i suoi resti vennero dispersi3. In questa storia cupa di un tempo che vide tutta la luce del mondo, l'unica data certa è proprio quella del 1210: l'anno in cui il sinodo della provincia ecclesiastica di Sens, riunito a Parigi, condanna gli scritti di ispirazione panteistica dei due pensatori e prescrive che a Parigi non si leggano "né in pubblico né in segreto" i libri metafisici e fisici di Aristotele. Eppure l'università di Parigi è appena stata riconosciuta tale — nel 1200, col privilegio di Filippo Augusto4. Com'è possibile che nel giro di un decennio venga colpito d'interdetto proprio l'insegnamento aristotelico che costituisce il fulcro del movimento di idee del tumultuoso XIII secolo? Le date, si sa, sono una convenzione: ogni civiltà si affida a un proprio metodo di datazione, e anche nel caso in cui si arrivi a una sistemazione generale del modo di computare lo scorrere degli anni, ogni società mantiene l'accento su particolari ricorrenze del calendario che segnano la sua propria storia differenziandola da quella di altri gruppi. A volte, però, accade che le date dicano molto più di quanto traspare dal loro semplice ruolo di segnavia sui sentieri del tempo: ed è quello che accade, appunto, nell'anno 1198 della nostra èra.Il 1198, dunque, è compreso fra due avvenimenti altamente significativi per un mondo ancora molto lontano dal villaggio globale dei nostri tempi, e purtuttavia già virtualmente unificato dalla presenza sempre più concreta del cristianesimo di Roma — "nulla salus extra ecclesiam", ecco la parola di passo che percorre

l'Impero. Così, la morte dell'ultranovantenne papa Celestino III (al secolo Giacinto di Pietro di Bobone), avvenuta l'8 gennaio 1198 all'età di 92 anni dopo soli sette anni di pontificato5, dà il via alla frenetica ricerca di un altro papa, meno moderato (meno debole, dicono alcuni) e più motivato nell'edificazione di un potere non meno temporale che spirituale — il prescelto sarà l'astuto, autoritario Innocenzo III. Ed è un fatto che la scomparsa di Celestino III segna davvero la fine di un'epoca: il XIII secolo che sta per schiudersi porterà con sé una nuova dimensione del papato, trionfale e trionfante in un Medio Evo che soltanto allora potrà dirsi veramente "cristiano". L'ideologia del binomio Sacerdozio/Regno si consolida e si annette un terzo, fondamentale elemento: il Sapere — lo Studium.Ma il 1198, aperto da una morte, si chiude con un'altra morte non meno importante: quella del pensatore arabo Averroè, che scompare a Marrakech il 10 dicembre. Abu al-Walid Muhammad ibn Ahmad ibn Muhammad ibn Rushd (questo il suo nome originale e completo) è un gigante del pensiero — medioevale e non solo. Grazie a lui l'Occidente cristiano beneficerà del sapere aristotelico, al cui commento Averroè si dedicherà con tanto impegno e tanta passione da essere citato, in quegli abbaglianti secoli "bui", semplicemente come "il Commentatore" per eccellenza. Dante stesso lo ricorda come «colui che 'l gran Comento feo»6 — e sarà quel Commento a fare di quest'Arabo di Spagna il convitato di pietra del sec. XIII. Lo studium, si diceva. Più precisamente, la parola indica un tipo particolare di sapere: quello universitario, dispensato in alcuni centri qualificati e sottoposti al rigido controllo della Chiesa. Le università non sono un'invenzione del sec. XIII — Bologna, la più antica università europea, era attiva già nel 1088; e la più antica del mondo è quella di al-Azhar al Cairo, voluta intorno al 970 dal califfo sciita Fatimide Almuiz —, ma è in questo secolo che sbocciano in tutta la loro complessa fecondità. Si tratta, in buona sostanza, di spazi riservati agli specialisti, ai professionisti del sapere: maestri e studenti insieme costituiscono un'autentica corporazione, l'universitas, appunto, che proprio in quanto corporazione gode di suoi specifici privilegi. Il sapere che circola su suolo italiano, francese, spagnolo e britannico non è puramente intellettuale nel senso di fine a se stesso, ma ricopre un ruolo profondamente sociale: è grazie ad esso che si formano i quadri dei nuovi Stati e dei nuovi corpi politici orgogliosamente levati in faccia all'Impero — papato e Chiesa affermano la loro potenza anche e soprattutto attraverso la costruzione e la diffusione di un sapere teologicamente orientato ed elevato a sistema normante di una spiritualità in espansione. (Ma si badi: spiritualità — e non solo. Perché la soluzione che il problema dell'organizzazione degli studi in una data società riceve è sempre immancabilmente rivelatrice delle tendenze intellettuali presenti nella medesima società, della quale tradisce la concezione ad essa sottesa del sapere e della funzione che gli si attribuisce nella vita sociale, culturale, economica e politica). Ora, la storia del pensiero occidentale nel sec. XIII è dominata da un avvenimento capitale di portata incalcolabile: l'introduzione, in un Occidente che si vuole cristiano e per ondate successive comprese fra la metà del sec. XII e la fine del XIII, di una cospicua letteratura filosofica e scientifica di origine greca, ebraica ed araba — "pagana", secondo il termine profondamente negativo che all'epoca connota ogni pensiero non-cristiano. L'incontro fra cristianesimo e paganesimo, che già nel sec. IV si era tentato di contenere7, degenera inevitabilmente in scontro. A fronte dell'atteggiamento tipicamente "pagano", consistente nell'attribuire alla filosofia un senso compiutamente totalitario e a concepirla quindi come sistema generale delle scienze e sapienza integrale al cui coglimento è teso tutto lo sforzo del pensiero umano — a fronte di questo atteggiamento, dunque, si leva compatta l'idea fondamentale che ha guidato l'organizzazione degli studi durante tutto l'alto Medio Evo: l'eliminazione della filosofia pagana non soltanto come sintesi del sapere ma addirittura come saggezza di vita. E questo perché la sapienza del Vangelo, nell'ottica del cristianesimo trionfante, ha detronizzato la sapienza umana: «le parti della filosofia antica, alle quali spettava la missione di compiere la sintesi del sapere e conferirgli il carattere d'una sapienza teoretica e pratica, sono abbandonate a vantaggio della scienza delle Scritture, sorgente copiosa di tutte le verità speculative o morali che devono nutrire l'intelligenza cristiana. Persino la filosofia o fisica naturale sembrano vantaggiosamente sostituite dagl'insegnamenti della Bibbia circa l'origine e la natura del cosmo»8.Che piaccia o no, insomma, il mondo delle cattedrali gotiche, di Wiligelmo e dell'Antelami, di Chrétien de Troyes e di Peire Vidal deve confrontarsi con l'elemento tutto nuovo che irrompe sulla scena dell'Europa continentale: la penetrazione massiccia di un pensiero raffinato e fecondo che — incredibile a dirsi — non affonda le sue radici nelle Sacre Scritture giudeo-cristiane. Con la presenza araba, il mondo creato da Carlo Magno sta già facendo i conti da tempo: le invasioni germaniche del V-VII secolo «non misero fine né all'unità mediterranea del mondo antico né a quello che si può considerare essenziale nella cultura romana,

così come si conservava ancora nel V secolo, cioè nell'epoca in cui non fu più un imperatore di Occidente. Malgrado i turbamenti e le perdite risultate da questo fatto, non apparvero nuovi princìpi direttivi né nel campo economico, né in quello sociale, né nello stato della lingua, né in quello delle istituzioni. Ciò che sussiste di civiltà è mediterraneo; la cultura si conserva presso le rive del mare e di là prendono origine i fenomeni nuovi: monachesimo, conversione degli Anglo-Sassoni, arte barbarica etc. L'Oriente resta il fattore fecondante; Costantinopoli il centro del mondo [...]; la rottura della tradizione antica ebbe per suo strumento l'avanzata rapida ed imprevista dell'Islam. Questa ebbe come conseguenza la separazione dell'Oriente dall'Occidente, mettendo fine all'unità mediterranea. Paesi come l'Africa e la Spagna, che avevano continuato a partecipare alla comunità occidentale, da allora in poi gravitarono nell'orbita di Bagdad. Apparve un'altra religione, un'altra cultura: il Mediterraneo occidentale, divenuto un lago musulmano, cessò di essere la via degli scambi commerciali e delle idee, che non aveva cessato di essere fino a quel momento. [...] l'Europa, dominata dalla chiesa e dalla feudalità, prese allora una fisionomia nuova. Il Medioevo — per conservare la locuzione tradizionale — cominciava. La transizione fu lunga [...] L'evoluzione terminò nell'800 con la costituzione del nuovo impero, che consacrò la rottura dell'Occidente dall'Oriente per il fatto stesso che dava all'Occidente un nuovo impero romano»9.La rottura di cui parla il Pirenne diventa ben presto insanabile — lo è ancora oggi. A fronte di un Carlo Magno semi-analfabeta, sta il raffinato califfo Harun al Rashid (786-809), il cui periodo di governo è considerato il più splendido della storia islamica. E mentre fra l'VIII e l'XI secolo l'Occidente cristiano edifica cattedrali fino a ricoprire il mondo «di un bianco mantello di chiese»10, compone inni e inventa storie, l'Oriente musulmano impara a fabbricare la carta (793), scopre i segreti della chimica (800 ca.), codifica l'astrologia11 (810 ca.), costruisce osservatori astronomici (829), studia l'ottica e l'acustica (850 ca.), indaga la precessione degli equinozi (900 ca.), si occupa di medicina (915 ca.), dà inizio alla storiografia (950 ca.), elabora i fondamenti della trigonometria (990 ca.). E nell'Anno Mille, nell'apocalittico Anno Mille che non esiste12 e che pure ancora oggi evoca terrori senza nome nell'Occidente rimasto superstizioso, un figlio dell'Oriente magico delle Mille e una notte dà alle stampe un trattato di medicina in trenta volumi...13 Ma torniamo al Duecento: questo XIII secolo ha fame di Aristotele. Le sue analisi, il suo sistema, le sue intuizioni sono i mattoni di cui necessita l'erigendo sapere curiale per giustificare se stesso e la sua logica intrinseca. Eppure Aristotele cela in sé un pericolo — la sfrenatezza del pensiero. Imparare ad analizzare è rischioso, e a furia di confutare si può cadere facilmente nell'eresia... A fronte della muta accettazione del dato di fede, non c'è niente di peggio della scelta: perché è proprio questo che significa "eresia"14. Mai come in questo secolo riecheggia il "kalòs gàr ò kìndynos" di Platone — il rischio è bello, e affascina studenti e maestri fino a perderli. Ma i tempi sono quelli che sono: ad aristotelizzare troppo non si rischia soltanto l'allontanamento o l'espulsione — è in gioco la vita. Fioccano le accuse di eresia, e per arginare la marea montante di costoro che pensano, invece di credere, la Chiesa dovrà escogitare nuovi mezzi adeguati ai tempi - la Santa Inquisizione. Ma ancora prima della sua nascita (accadrà nel 1232), lo spirito del tempo è permeato dalla certezza che il dubbio sia diabolico. Basta soltanto una parola, e si è fuori — nulla salus extra ecclesiam... Il XIII secolo annuncia l'apogeo della cristianità medioevale, è vero, ma paradossalmente sarà anche il secolo d'oro delle eresie15. Ed è per far fronte a quella che viene percepita come la minaccia per eccellenza che la Chiesa, prima ancora di procedere alla creazione di un organismo apposito per il controllo dell'ortodossia, si arrocca intellettualmente a difesa del suo sistema ideologico più che dottrinario — l'università. Così Innocenzo III (Lotario dei conti di Segni), eletto papa nel 1198, non indugia nella realizzazione del suo ambizioso progetto di egemonizzazione della cultura: meno di due anni dopo benedice l'iniziativa di Filippo Augusto, che riconosce con un decreto la corporazione degli studenti di Parigi e dei loro maestri; e nel 1215 incarica il legato pontificio di pubblicare a Parigi un'ordinanza che stabilisce il curriculum delle facoltà delle arti e di teologia. Alla sua morte gli succede Onorio III (Cencio Savelli), che poco prima di morire concede altri riconoscimenti all'ateneo parigino; finalmente, nel 1231, il suo successore Gregorio IX (Ugolino dei conti di Segni) compie l'opera estendendo all'università di Parigi il privilegio pontificio di riconoscere la validità legale dei diplomi da essa erogati.Sembra raggiunto un punto d'arrivo: basta sfogliare un qualsiasi testo universitario per perdersi in una miriade di nomi e opere, più o meno celebri, a testimonianza dell'inaudito fervore che percorre l'Europa del tempo. Gli anni dal 1230 al 1250 circa sembrano scorrere in una quieta operosità intellettuale, che fa di Parigi un centro di primaria importanza; il ricambio di maestri e discepoli è intenso e incessante, le idee

circolano, il mondo della cultura è affollato di ingegni che segneranno un'epoca. Eppure sulla storia del pensiero sta per addensarsi una tempesta che non porterà nulla di buono: perché la presenza di Aristotele non è più soltanto fondamentale — sta diventando ingombrante. Tant'è che, proprio in quel 1231 segnato dall'approvazione pontificia, lo stesso Gregorio IX si premura di diffondere una lettera invocante la revisione delle dottrine di Aristotele. Appena l'anno prima, infatti, a Parigi hanno cominciato a circolare gli scritti (e le idee...) di Averroè, che proprio sulla base di Aristotele si sforza di enunciare in termini precisi e corretti i rapporti tra la filosofia e la teologia, cercando di salvaguardare l'autonomia della prima.L'intuizione è ardita, e fa proseliti. Anche perché cominciano a emergere differenze fondamentali fra l'islam e il cristianesimo, e per di più non riconducibili soltanto all'ambito meramente confessionale: per esempio, fin dal momento della sua fondazione l'islam si è costituito immediatamente in religione e in Stato, a differenza appunto del cristianesimo. Ancora, nell'islam non esistono due teorie antagonistiche del potere spirituale e del potere temporale, come accade invece nell'Europa dell'epoca che vede la netta opposizione fra le pretese del papa e quelle dell'imperatore. Da ultimo, ecco che all'islam è estranea la sicurezza dell'accettazione, come accade invece nel cristianesimo: l'islam è il rischio e i pericoli dell'interrogazione, della ricerca e della discussione, della spiegazione continua alla ricerca della conferma di un'unica Verità — quasi un ottavo del Corano, cioè settecentocinquanta versetti, «esortano i credenti a studiare la natura, a riflettere, a fare l'uso migliore della ragione nella ricerca del Supremo e a fare dell'acquisizione della conoscenza parte integrante della vita comunitaria. Il Sacro Profeta dell'Islam, che abbia la pace, diceva ai suoi seguaci che la ricerca della conoscenza e la scienza sono fondamentalmente obbligatorie per ciascuno, per ogni musulmano, uomo o donna. Ora, quale altra religione, se si considerano tutte le religioni del mondo, enfatizza così fortemente l'atteggiamento scientifico come fa l'Islam?»16. Verso il 1250, però, le cose precipitano: nel 1245, all'università di Tolosa (fondata nel 1229) viene interdetto l'insegnamento di Aristotele; nel 1256 Alberto Magno scrive il "De unitate intellectus contra Averroem", in cui attacca il sistema di pensiero del Commentatore, mentre a Parigi Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia animano la corrente filosofica dell'aristotelismo radicale attirandosi l'accusa di filopaganesimo; gli scontri a suon di libelli continuano per una decina d'anni, mentre la Santa Inquisizione (fondata come si ricorderà nel 1232) affina le sue tecniche; nel 1263 Urbano IV rinnova i divieti promulgati da Gregorio IX nel 1231; finché, nel 1267, il ministro generale dei francescani Bonaventura da Bagnorea, in termini sempre più espliciti e violenti, denuncia a tre riprese il pericolo incombente del nuovo paganesimo propugnato da "molti maestri parigini". La comunità docente e discente dello studium parigino non se ne dà per inteso: l'entusiasmo suscitato dalla lettura di Aristotele e dai suggestivi commenti dei maestri arabi è ancora fortissimo. Tre anni dopo, nel 1270, scende in campo anche Tommaso d'Aquino con un opuscolo dal titolo quasi identico a quello del suo maestro Alberto Magno: "De unitate intellectus contra averroistas", che sarà considerato a buon diritto come il perno della controversia sull'averroismo nel sec. XIII. Con estrema durezza, Tommaso conclude la sua disamina filosofica e teologica definendo senza mezzi termini Averroè «non tanto peripatetico, quanto piuttosto corruttore della filosofia peripatetica»17, ed estendendo quest'invettiva contro il filosofo arabo a tutti i suoi discepoli e seguaci in generale, e in particolare a uno di essi, che Tommaso non vuole nemmeno nominare ma che sfida a rispondergli — verosimilmente si tratta di Sigieri di Brabante, che raccoglie il guanto e replica al De unitate... con un De intellectu, oggi purtroppo perduto. L'accusa di eresia incombe su maestri e studenti: il 10 dicembre 1270 Etienne Tempier, vescovo di Parigi, emette una condanna durissima dell'aristotelismo eterodosso (questo il nome della corrente di pensiero incriminata), stigmatizzando tredici "errori" ispirati all'esecrabile filosofia pagana. Il conflitto non è soltanto dottrinale o ideologico, come può sembrare a noi quasi settecentocinquant'anni dopo: la facoltà di filosofia a Parigi registra scontri violenti e sollevazioni fra gli studenti della facoltà delle arti — i filosofi — e quelli della facoltà di teologia, anche in occasione dell'elezione del nuovo rettore. Nonostante l'ostilità sempre più palpabile, Parigi resta il fulcro dell'aristotelismo eterodosso, i cui seguaci si arroccano orgogliosamente in una difficile posizione di risoluta minoranza a difesa di un pensiero libero che rivendica la propria autonomia contro un crescente appiattimento sul pensiero unico di matrice rigidamente cristiana. Ancora pochi anni, ed ecco che il 2 settembre 1276 viene emanato un altro decreto contro l'insegnamento occulto delle dottrine proibite; meno di tre mesi dopo, il 23 novembre, Sigieri di Brabante è convocato dall'Inquisitore per render ragione dei suoi atti e del suo pensiero; agli inizi dell'anno nuovo, il 18 gennaio 1277, il pontefice Giovanni XXI (il portoghese Pietro Ispano, già studente a Tolosa e Montpellier) indirizza una durissima lettera al vescovo di Parigi, Tempier; e finalmente, il 7 marzo 1277, ecco il clamoroso decreto, risultato di un'infelice iniziativa del solito vescovo Tempier: il quale, dopo aver radunato in tutta fretta una

raffazzonata commissione di teologi, che in tre settimane conducono un'inchiesta frettolosa e incoerente sui testi giudicati "sospetti", perviene alla condanna degli errori riscontrati e scomunica tutti coloro che ne hanno partecipato — chi li ha insegnati, chi li ha ascoltati, chi li ha commentati contribuendo alla loro diffusione... A meno che tutti i reprobi non si presentino entro sette giorni al vescovo o al suo cancelliere per ricevere la pena proporzionata alla loro colpa18.Pur avendo effetto soltanto locale, limitato cioè alla sola università di Parigi, è chiaro che il decreto del 7 marzo 1277 segna la crisi dell'intelligenza cristiana, scossa dall'irruzione massiccia del sapere cosiddetto pagano, e si configura innanzitutto come la reazione degli uomini di chiesa contro la nuova minaccia rappresentata dal "paganesimo" defilato ma non vinto. E che questo evento si produca proprio nella metropoli intellettuale della cristianità di allora, in quella Francia tradizionalmente considerata come la figlia diletta e primogenita della Chiesa, significa che la filosofia è fermamente intenzionata a sostenere la propria autonomia e indipendenza nei confronti di una teologia sempre meno sapienziale e sempre più dogmatica: la condanna del 1277 altro non è, dunque, che l'estrema difesa della teologia cristiana contro le audacie dottrinali del libero pensiero.Fino alla fine del sec. XIII Aristotele e Averroè sembrano sparire dai programmi di studio, e il pensiero umano è ricondotto a forza nell'alveo della teologia e delle verità rivelate dalle Scritture. Ma il cavallo bianco di Platone morde il freno, e all'inizio del sec. XIV un altro filosofo, il francese Jean di Jandun19, leverà alta la voce professando apertamente delle dottrine averroiste. Anche se più nessun arabo salirà alla ribalta del pensiero nei secoli a venire, il seme che l'islam ha gettato germoglierà vigoroso: la sua fecondità è testimoniata dalla presenza costante e qualificata di termini, idee e intuizioni nel sapere cosiddetto occidentale; e la sua validità è confermata dalla diffidenza e addirittura dall'ostilità che l'Occidente disorientato di oggi nutre ancora nei suoi confronti, tanto da invocare scontri di civiltà per mantenere le distanze... Ma una è la preghiera che tutti i sapienti, pur senza saperlo, levano in cuor loro: «Signor mio, accresci la mia scienza»20. Note 1 «Di fatto nessuno osi detenere, leggere o commentare i libri empi [...]: questi abbiamo deliberato di sottrarli a uno studio onorevole e di bruciarli pubblicamente» (trad. mia; di seguito l'originale latino. «CJ.1.5.6.1: Imperatores Theodosius, Valentinianus - Nec vero impios libros nefandi et sacrilegi nestorii adversus venerabilem orthodoxarum sectam decretaque sanctissimi coetus antistitum ephesi habiti scriptos habere aut legere aut describere quisquam audeat: quos diligenti studio requiri ac publice comburi decernimus.»).2 Amaury de Bène o de Bennes, secondo altre fonti.3 «Il corpo di Amalrico di Bène, che era stato il capo di questa malvagità, fu dissotterrato e sepolto in terra comune. Nel contempo, fu decretato che a Parigi nessuno avrebbe potuto leggere libri della scienza detta fisica per i tre anni seguenti; e si misero per sempre al bando i libri di Mastro Davide di Dinant»: Cesario di Heisterbach, Dialogus de miraculis (1220 ca.), libro V.4 In realtà l'Università di Parigi era stata fondata intorno al 1150, ma ci vollero due decreti di papa Alessandro III nel 1180, un privilegio di Filippo Augusto (1200, appunto) e un concordato nel 1206 per arrivare, ma solo nel 1215, all'assegnazione degli statuti ufficiali dal legato del papa che ne decretarono la legittimazione. Storia analoga ebbero l’Università di Salamanca in Spagna, fondata nel 1218, e quella di Oxford che nacque per volontà di Enrico II nel 1167.5 Giacinto era asceso al soglio di Pietro il 30 marzo 1191, alla già veneranda età di 85 anni. Dopo 47 anni di cardinalato, durante i quali era stato legato in Spagna (1154-1156 e 1172-1174), in Francia (1162-1165) e presso Federico Barbarossa (1158), succedette a Clemente III.6 «Genti v'eran con occhi tardi e gravi, / Di grande autorità nei lor sembianti: / Parlavan rado, con voci soavi. / .../ Colà diritto, sopra il verde smalto, / Mi fur mostrati gli spiriti magni, / Che di vederli in me stesso m'esalto. / .../ Poi che innalzai un poco più le ciglia, / Vidi il maestro di color che sanno / Seder tra filosofica famiglia. / Tutti l'ammiran, tutti onor gli fanno. / Quivi vid'io Socrate e Platone, / Che innanzi agli altri più presso gli stanno. /.../ Averrois, che 'l gran comento feo.» (Inferno, IV 112-144).7 Nel 397 Agostino d'Ippona compone il De doctrina christiana, ad uso dei vescovi e dei religiosi incaricati dell'insegnamento della dottrina cristiana, appunto. L'opera, che eserciterà un enorme influsso sul pensiero medioevale, contiene in nuce l'idea della "philosophia ancilla theologiae", già presente in Clemente

Alessandrino — che negli Stromata (I,5) definisce la filosofia "ancilla fidei", ancella della fede — e che prenderà piede più avanti con Alberto Magno, maestro di Tommaso d'Aquino: «ad theologiam omnes aliae scientiae ancillantur», tutte le altre scienze servono alla teologia (Summa theologiae, I,VI,I,6).8 Fernand van Steenberghen, La filosofia nel XIII secolo, Vita&Pensiero 1972, p. 47. 9 Henri Pirenne, Maometto e Carlomagno, Laterza 1987, pp. 275-276.10 Rubo l'espressione al monaco cluniacense Rodolfo il Glabro, che nel sec. XI scriveva: «Verso il terzo anno dopo l'anno mille [...] soprattutto in Italia e in Francia si ricominciò a costruire basiliche [...] Si sarebbe detto che il mondo [...] si coprisse di un bianco mantello di chiese».11 Nel 321 l’imperatore Costantino, convertito alla nuova religione, vietò la pratica dell’astrologia, pena la morte. Nel corso dei secoli l’astrologia scomparve dai paesi cristiani portando con sé le conoscenze astronomiche e causando un notevole ritardo nella cultura scientifica, sebbene i Padri della Chiesa avessero tentato di distinguere le scienze astronomiche dall’astrologia.

Sergej S. Averincev è nato a Mosca nel 1937. Discende da una famiglia di intellettuali: suo padre, professore di Zoologia, nato nel 1875, lavorò a Heidelberg e a Napoli agli inizi del XX secolo, e partecipò al clima culturale, legato alla grande tradizione dell'intelligencija russa prerivoluzionaria. Averincev ha studiato alla facoltà di Filologia dell'Università di Stato di Mosca “Lomonosov”, dove si è laureato nel 1961. Nella seconda metà degli anni '70 sono usciti i suoi studi su Splenger, Huizinga, Jung e Maritain,

con caratteri e temi del tutto unici nel panorama sovietico.La sua biografia intellettuale è caratterizzata dal tentativo di ricomposizione delle fratture inflitte all'identità culturale del popolo russo durante il periodo sovietico. Dal 1969 al 1971 tiene lezioni alla Facoltà di Storia dell'Università di Mosca sull'importanza della filosofia patristica nella comprensione dell'arte bizantina. Furono un “evento” nella cultura moscovita, ben presto proibito dalle autorità sovietiche. Nel 1987 pubblica il suo lavoro fondamentale: “Le poetiche della letteratura antico-bizantina”, che gli vale una serie di riconoscimenti accademici. Nel 1989 è eletto nel Parlamento sovietico, dove si schiera con il gruppo di AndreJ Sacharov e si distingue per i suoi interventi in favore della libertà di coscienza. L'affermazione e la difesa dei diritti umani sono, per Averincev, il principale obiettivo per la nascita ed il consolidamento della democrazia in Russia. Dal '94 Averincev insegna Letteratura Russa all'Università di Vienna. E' membro dell'Accademia Universale della Cultura di Parigi e della Pontificia Accademia di Scienze Sociali. In Italia sono stati pubblicati e tradotti: “L'anima e lo specchio: l'universo della poetica bizantina” (1988), “Cose attuali, cose eterne” (1989), “Atene e Gerusalemme. Contrapposizione e incontro di due princìpi creativi” (1994), “Dieci poeto, ritratti e destini” (2001).

Gerusalemme , madre comune - Principio creativo d'EuropaIl mare, che divide e insieme unisce tutti e tre i continenti del Vecchio Mondo, l'Europa, l'Asia e l'Africa, il mare lungo il quale già i navigatori fenici compivano il loro viaggio dalle rive asiatiche fino a Cartagine nell'Africa settentrionale e, di là, sino alle miniere della Spagna, il mare che, in seguito, portò l'apostolo Paolo da Gerusalemme, attraverso Creta e Malta, sino a Roma al giudizio del cesare, per la predicazione e il martirio – questo mare già nel VII secolo, come testimonia l'autore cristiano più colto di quei tempi, Isidoro di Siviglia, era solitamente chiamato Mediterraneum.Nella formula dall'intonazione arcaica si parla del “mare centrale di tutta la terra”. Tale valore semantico dell'espressione “Mare mediterraneo”, rinnovata nel verso di Chesterton, ci spinge a ricordare le idee arcaiche dei popoli sul centro del cerchio terrestre. I greci volevano vedere “l'ombelico del mondo” nel tempio di Apollo a Delfi, situato, secondo l'osservazione di Strabone, come al centro dell'Ellade”; ma questa è la prospettiva greca, importante in forza del significato paradigmatico della Grecia e, tuttavia, poco convincente al di fuori dei confini del mondo ellenico.Maggiore persuasività geografica ha la versione biblica, che esamina come concentrazione di popoli e “ombelico del mondo” la Terra Santa e, in modo speciale, Gerusalemme: e non è davvero forse là che tutti i tre continenti del Vecchio Mondo si avvicinano l'un l'altro, non è forse là che lo spazio, dall'inizio stesso della storia del Vecchio Testamento, venne colmato dalla presenza delle culture del Medio Oriente asiatico e delle terre africane della cerchia egizia, alle quali, in seguito, si unirono le correnti culturali dell'ellenismo? In questo punto né la geografia, né la storia contraddicono l'antico simbolismo sacrale, si diffusero nel mondo intero tutte le tre grandi religioni “abramitiche”, quali raggi, che si dipartono dal centro verso la periferia (Se Maometto ben presto dichiarò la Mecca il centro della terra, all'inizio persino lui accettava Gerusalemme in tale ruolo). Ma quelle conclusioni di civiltà e di geografia, che in maniera inattesa rafforzano dal punto di vista razionale lo status mitologico di Gerusalemme, sono significative anche per il Mediterraneo (al quale la Terra Santa si accosta ad Oriente).Anche il Mediterraneo si stende tra continenti e culture come luogo di loro incontro – all'incirca come i Romani scendevano dal Campidoglio, dal Palatino e dall'Aventino e da altri colli per incontrarsi a commerciare, discutere e accordarsi nella depressione del Foro, tra i colli. Certo, tutti ricordano che quegli incontri erano ben lontani dal'essere sempre pacifici: citiamo Salamina, la stessa Lepanto, in greco chiamata Naupaktos e situata nient'affatto lontana dalla prima. E comunque le grandi e piccole battaglie erano solo un intermezzo sanguinoso tra la quotidianità dei rapporti commerciali e culturali. Come straordinario che lo scambio intellettuale al di sopra dei confini delle religioni, avvenisse persino nel settore del pensiero teologico e, per di più, in un'epoca come il tardo Medioevo.L'innografo e pensatore ebreo Shelomoh Ibn Gabirol, nato verso il 1021 nel porto mediterraneo di Malaga, creò, accanto ad inni, ancora oggi facenti parte della pratica sinagogale, anche un lavoro filosofico-teologico, scritto in arabo, in seguito, a differenza dei primi, completamente dimenticato dalla tradizione ebraica; tuttavia quest'opera, dal titolo “La fonte della vita”, fu tradotta in latino, e gli scolastici cattolici la studiavano con assiduità, non sapendo chi ne fosse l'autore – il misterioso “Avicebron” o “Avencebrol” – un cristiano, un musulmano, un giudaico? (Soltanto alla metà del XIX

secolo l'ebraistica chiarì chi aveva scritto “La fonte della vita”, e si trattò di una scoperta sensazionale).E' ben nota l'importanza per quegli stessi scolasti delle traduzioni dall'arabo. E, poco più tardi, gli studiosi ebrei in Italia tradurranno in ebraico dei passi scelti di Tommaso d'Aquino. Pensatori di diverse religioni non attesero né la situazione tollerante, né i programmi “superecumenici” contemporanei, per realizzare nella propria attività professionale quello che ora noi chiameremmo il dialogo; non in forza delle idee sul dialogo ma, semplicemente perché, senza di esso, il pensiero non può funzionare. Non a caso il dialogo tra i rappresentanti di varie religioni è di grande importanza per quell'epoca come forma e tema letterario: si può ricordare, da parte cristiana, ad esempio il “Dialogus inter Philosophum, laudaeum e Christianum”, del famoso Pietro Abelardo, da parte ebraica – “Kusari” di Jehudah Hallewi. Ma nello spazio del Mediterraneo la prospettiva del dialogo acquisiva una realtà particolare, cosa che ricordano, insieme a molte altre ancora, anche la vita e le iniziative di pensiero del catalano Raimondo Luilo, che tanto fece per cambiare il paradigma delle crociate con quello del missionarismo.Si intende che la situazione del dialogo tra i rappresentanti di varie culture religiose poteva acquisire un'altra forma più scettica e secolare, come si può vedere dalla parabola dei tre anelli, entrata nel “Decamerone”, giornata I, nov.3, e solo di là, mantenendo la memoria della propria origine mediterranea, passata nel dramma di Lessing “Nathan il Saggio”. E i contorni del Mediterraneo sono come il chiaro diagramma di tale dialogo, già in forza della localizzazione geografica di questa regione. Nel XIV secolo l'italiano Opicinus de Canistris, creò una carta del Mediterraneo, sulla quale sono evidenti figure antropomorfe, che piegano l'uno verso l'altra le proprie teste ad occidente, accanto a Gibilterra: quella maschile è l'Europa, la figura della signora è l'Africa. Di per se stesse, simili rappresentazioni figurative dei continenti sono consuete per la cartografia antica: ad esempio, su una carta del XVI secolo, l'Europa è rappresentata sotto l'aspetto di una figura umana, diverse parti della quale corrispondono agli uni o agli altri paesi – ma l'idea di Opicinus è interessante, perché elabora nella propria composizione proprio il tema dell'incontro viso a viso dei continenti, che si avvicinano l'un l'altro, della loro comunicazione. Tutta l'esperienza millenaria del Mediterraneo lo ha abituato all'apertura verso una prospettiva mondiale, e non ha dovuto attendere i tempi di Colombo, il famoso figlio del porto mediterraneo di Genova, per portare la sua dinamica al di fuori dei propri confini, negli spazi dell'Oceano Atlantico.Ancora al limite tra l'Antichità e il Medioevo, in un periodo di crisi e distruzioni molto difficile per la civiltà, sorse la rotta marittima di contatti culturali, che andavano dall'Oriente ellenistico attraverso la Spagna oltre le Colonne d'Ercole e, a nord, fino alla stessa Irlanda; in questo paese, che aveva sviluppato una straordinaria attività creativa e missionaria di ampiezza europea, proprio sullo sfondo dei cosiddetti “Secoli bui”, gli impulsi della spiritualità orientale -mediterranea e del pensiero cristiano entravano in fruttuosa interazione con la tradizione celtica; senza di esso la comparsa di Giovanni Scotto Eriugena, il primo pensatore originale dell'Europa medioevale, sarebbe del tutto inspiegabile.Torniamo, tuttavia, dalle lontananze oceaniche allo spazio chiuso del Mediterraneo, dove tutto è così vicino, dove si sente fisicamente la vicinanza dell'Africa e, in parte, anche dell'Asia. Come è strano, non paragonabile a nulla, il mondo della lingua, che risuona a Malta: paradigmi arabi, e in essi, accanto ai prevalenti lessemi arabi del dialetto maghrebino, si pongono con naturalezza altri termini e radici latino-italiana. Entrano in chiesa e nella formula: “In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” le parole “nome” “Padre”, “Figlio” sono arabe, quelle “Spirito Santo” romanze. Quale emozione fu per me intendere questo! E più oltre, al sud, c'è la stessa Africa, tra l'altro, patria di Tertulliano e di Cipriano, i luoghi dove per la prima volta si formò il latino cristiano, quando i cristiani di Roma continuavano ancora a servirsi abitualmente del greco. Poi tutto questo fu cancellato dal flusso dell'Islam e della cultura araba; ma ad oriente, in Egitto, continua ancora la sua, ora drammatica, esistenza, la tradizione del cristianesimo copto. Mi permetto di nuovo un ricordo molto personale: dopo aver visitato Alessandria, dieci anni fa, mi è rimasto soprattutto in mente come, durante la liturgia copta, risalente ancora all'Egitto dei Faraoni, e le parole erano così pesanti, come fuse con il peso dei millenni...L'Africa del Maghreb e dell'Egitto, le terre libanesi, siriane e palestinesi dell'Asia, - ma come si presenta l'Europa nel punto della sua vicinanza ad esse, avvolta nel loro respiro? E' l'Europa sovranazionale, l'Europa Nord-Occidentale, talvolta forse persino troppo tecnica. Non a caso lo scrittura russo Gogol, che amava in modo appassionato l'Italia, la contrapposizione polemicamente

alla razionale Parigi. Ma noi, senza avere di aderire alla sua intenzione polemica, diremo soltanto che l'emozione del Mediterraneo ci libera da una visione troppo univoca dell'identità europea. L'Europa, come la vediamo dalle sponde del “mare centrale di tutta la terra”, è più una creazione divina, che un progetto.Per la fisiognomica spirituale dell'Europa è molto tipico che si tratta del più piccolo dei continenti del Vecchio Mondo, piccolo, come le sacre terre dell'Attica e della Giudea sono piccole rispetto agli infiniti spazi desertici del Sahara o della Siberia. La massima densità di pensiero, di storia, di particolarità estetica in uno spazio minimo. Questa è la legge dell'Europa: ma il Mediterraneo europeo è un luogo particolarmente adatto per sentirlo. Ogni volta che vediamo un'antica città italiana, siamo colpiti dalla sua originalità rispetto a qualsiasi altra città vicina. Quale contrasto tra la limitazione quantitativa e l'illimitatezza qualitativa! E noi sentiamo quanto l'Europa, maturata nel corso della storia, sia più significativa di qualsiasi concetto astratto “sull'Europa”, di qualsiasi progetto “di Europa”. Voglia Dio che si realizzi il desiderio dell'unità, contenuto nei millenari destini del Mediterraneo. E voglia Dio che questa unità non si trasformi in unificazione, che le città e i paesi più piccoli rimangono unici al mondo, unici come il nostro stesso mondo.(traduzione di Claudia Sugliano per IL SECOLO XIX – 27/05/2001

EUROPA, “OCCIDENTE”, ISLAM: PROFILO STORICO E PROSPETTIVE *di Franco Cardini *

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DUE FONDAMENTALISMI DA SMASCHERARE. Esiste senza dubbio un "fondamentalismo" islamico: è ormai così che siamo abituati e definire - con un termine preso a prestito dal lessico delle sette cristiane statunitensi - l'atteggiamento di una quantità di gruppi e di scuole (peraltro differenti e sovente in conflitto tra loro), nati intorno agli Anni Venti e sviluppatisi soprattutto nei Sessanta-Settanta del XX secolo, alcuni dei quali postulano un'applicazione della normativa giuridica emergente dal Corano e dalla Tradizione (sunna) letteralmente accettati e senz'alcuna elaborazione esegetica, mentre altri sostengono di voler reinterpretare l'Islam nel suo complesso per ricondurlo alla purezza delle origini. Atteggiamenti del genere, com'è noto, sono stati e in qualche misura sono propri anche di alcune sètte o Chiese cristiane che, dal medioevo alla Riforma fino ai giorni nostri, hanno proposto un impossibile "ritorno alle origini" della "Chiesa primitiva", quella "degli Apostoli". Nel mondo islamico, le pretese accampate da questi gruppi fondamentalisti possono in realtà, in qualche misura, rifarsi alle tesi di movimenti religioso-politici del passato (si sono di recente chiamati in causa, un po' impropriamente, gli sciiti ismailiti della cosiddetta "Setta degli Assassini", fra XI e XIII secolo). Ma nell'insieme si tratta di istanze nuove, che ben si potrebbero qualificare come "moderniste": anche - e soprattutto - quando pretendono di rifarsi a un passato remoto. La loro nascita e il loro sviluppo di situano significativamente tra l'indomani della prima guerra mondiale e la sconfitta araba nella "Guerra dei Sei Giorni" del

giugno 1967: dinanzi alla frustrazione profonda del mondo arabo-islamico e islamico ingenerale, che alla fine del Settecento aveva accolto con quasi unanime entusiasmo le proposte di modernizzazione che gli provenivano dall'Occidente ma che ormai si sentiva da esso ripetutamente ingannato, tradito e umiliato (inganni, tradimenti e umiliazioni che non erano affatto solo immaginari), nasceva quasi spontanea l'idea di tornare alla purezza della tradizione musulmana come unico rifugio e unica base per una nuova partenza spirituale, sociale e politica. Ma l'implausibilità delle tesi fondamentaliste - respinte difatti dalla stragrande maggioranza del mondo islamico - consiste tanto nell'impossibilità obiettiva d'un'applicazione letterale e normativa di Corano e di Tradizione come fondatrice d'una vera convivenza civile, quanto nell'arbitrarietà di tale strada mai proposta finora e quanto, infine, nel carattere non religioso bensì politico della tesi secondo cui il dovere principale del musulmano sia la lotta contro il "satana occidentale". Questa tesi è una sorta di leninismo politico applicato alla fede, che sostituisce la lotta di classe con la lotta religioso-culturale: dovere del musulmano è, semplicemente, uniformarsi con intimo consenso alla volontà di Dio. Tale il significato della parola Islam, la radice della quale è la stessa della parola Salam ("pace"). Sarebbe bene non confondere quindi il sostantivo "Islam" e l'aggettivo "islamico" (o, meglio, "musulmano", che rispetta di più il termine originario), che indica il fedele dell'Islam, con i brutti neologismi "islamismo" e "islamista", che tuttavia potrebbero venir usati per indicare le idee e i sostenitori della sciagurata riduzione dell'Islam a ideologia politica. Una manovra, questa, che si autodefinisce antioccidentale: mentre al contrario - accettando proprio uno dei peggiori prodotti della cultura occidentale, l'ideologismo politico - denunzia proprio una perniciosa dipendenza dall'Occidente nei suoi aspetti meno positivi. Esiste d'altronde, com'è noto, anche un "fondamentalismo" occidentalistico: figlio della caratteristica intolleranza illuminista, che usa com'è noto travestirsi da tolleranza ma che al contrario è profondamente convinta che il mondo delle democrazie liberali e del liberismo economico sia il migliore dei mondi possibili e l'unico, finale e necessario traguardo possibile di qualunque umana cultura. Questo disprezzo per l' "Altro-da-sé", capace di tollerare culture differenti dalla sua solo nella misura in cui le ritiene fasi transitorie da percorrere per giungere alla "maturità" occidentale e che in ultima analisi non concepisce niente che nella breve o nella lunga durata possa sfuggire al suo Pensiero Unico e ai modi di vita e di produzione da esso proposti, sembra aver di recente guadagnato anche alcuni ambienti cattolici, magari d'origine "tradizionalista". . Siamo dinanzi a un nuovo, inatteso totalitarismo. E difatti, ne ha i connotati. Annah Arendt sosteneva che il totalitarismo, in quanto tale, ha bisogna di un "nemico metafisico": ed ecco il "borghese" per il comunismo, l' "ebreo" per il nazismo. Ma alla luce dello sviluppo di parte del pensiero liberal-liberista in Europa e nel resto dell'Occidente, segnatamente negli Stati Uniti, nell'ultimo mezzo secolo, si direbbe che anch'esso sia o stia diventando un totalitarismo - pur non avendone i segni espliciti esteriori e apparenti: l'organizzazione del consenso, il controllo delle masse eccetera - perché, sperimentalmente anche se non teoricamente, non sembra poter fare a sua volta a meno di un "nemico metafisico".Tale è stato e rimane per sempre il nazismo; tale è stato, dopo la sconfitta di esso, il comunismo (o quanto meno, come riduttivamente qualcuno preferisce sostenere, lo stalinismo e i suoi postumi). Spariti questi due mostri, rispettivamente del tutto nel 1945 e in una certa misura nel 1989, sembra che i liberal-liberisti non si siano sentiti comunque del tutto a loro agio

finché non hanno individuato un nuovo mortale avversario nell'Islam. A tale scopo, naturalmente, una manovra riduzionistica era necessaria: ed ecco che i fondamentalisti nostrani - con la pretesa di monopolizzare l'intero pensiero democratico e di rappresentare il Bene e il Giusto - hanno decretato che tutto l'Islam è per sua natura fondamentalista o suscettibile di divenirlo; e che tutti i gruppi fondamentalisti sono filoterroristi o potenzialmente fiancheggiatori e simpatizzanti del terrorismo. E, con una caratteristica manovra ricattatorio-intimidatoria tipica di tutte le Cacce alle Streghe che si rispettino, gli studiosi, i politici e i pubblicisti che si oppongono a questa manipolazione livellatrice e fanatica della realtà, sono accusati di essere filoislamici (quindi, si sotintende, filofondamentalisti e filoterrorisii) essi stessi.E' un comportamento identico a quello tenuto, tra Quattro e Cinquecento, dai teologi e dai giuristi fautori della realtà dei poteri stregonici: chi non ci credeva, veniva segnato letteralmente a dito come stregone o protettore di streghe egli stesso. Diciamo la verità. Siamo dinanzi al pericolo di un vero contagio intellettuale e massmediale, che potrebbe dar luogo a un nuovo fenomeno maccartista. D'altronde, l'immagine dell'Islam come "millenario avversario" del nostro Occidente ha largo corso in un mondo disinformato, dotato di scarsa e superficiale conoscenza della storia, abituato agli schemi scolastico-bignameschi, poco abituato a pensare per categorie religiose incline quindi a sottovalutarle e a considerare semplicisticamente i fenomeni che le riguardano, senza far le dovute distinzioni) e infine profondamente scosso dopo i tragici fatti dell'11 settembre del 2001. Bisogna dire che questo errore di prospettiva, irresponsabilmente avallato da alcuni mass media e opinion makers, riceve purtroppo un'apparente conferma indiretta nel comportamento di alcuni ambienti musulmani, essi stessi molto poco informati sia della sostanza della loro fede, sia della -del resto molto complessa - realtà politica e culturale del nostro mondo, nel quale essi magari si trovano per esigenze di lavoro o di sopravvivenza, che credono di conoscere sufficientemente perché ne parlano un po' le lingue e ne guardano i programmi televisivi, ma che nel nucleo profondo sfugge loro tragicamente.In questo modo, i fondamentalisti nostrani e quelli islamici, magari entrambi in buona fede, fanno entrambi il gioco degli agenti terroristi il fine dei quali è, appunto, tradurre in pratica l'infausta profezia di Samuel Hungtington e giungere allo scontro fra civiltà. Esiste un antidoto? Sì: ma va assunto subito, e in massicce dosi, prima che sia troppo tardi. Non è verso il melting pot multiculturale che bisogna andare, bensì verso il salad bowl della convivenza entro uno stesso quadro pubblico e istituzionale, nel rispetto delle medesime leggi e nel mantenimento di quelle tradizioni proprie a ciascuna cultura che con tali leggi non siano in contrasto. Bisogna moltiplicare - a cominciare dalle istituzioni, dai posti di lavoro, dalle scuole - le occasioni d'incontro, approfondire le nostre rispettive identità e al tempo stesso studiare e conoscere meglio e più da vicino quelle altrui. Io non credo nella tolleranza astratta: valore debole e retorico, che vacilla al primo soffiar del vento della retorica e del fanatismo, che crolla alla prima ingiusta violenza di cui si sia vittime o spettatori e che non si riesca a razionalizzare e ad analizzare nella sua struttura storica. Io credo nell'incontro, nell'interesse e nella simpatia reciproci che ne nascono, nel confronto tra le tradizioni e le culture condotto nel rispetto reciproco e nel desiderio di rafforzare la propria identità attraverso l'accettazione di quel che è accettabile nelle culture altrui e l'arricchimento che ne deriva. A chi è più vicino un credente cattolico occidentale: a un ateo occidentale o a un ebreo o a un musulmano che condividono la

sua fede nel Dio d'Abramo e nella Rivelazione, nel dialogo tra Dio e l'uomo? A chi è più vicino un euro-meridionale: a un arabo-mediterraneo o a un baltico? Occidente e Islam: le sei fasi di un confronto storico. Un primo nemico da battere è proprio il pregiudizio psuedostorico, l'aberrante - e a prima vista del tutto naturale, verosimile e fededegna - presupposto della tesi di Samuel Hungtington. Che potrebbe essere anche buon profeta, dal momento che il futuro storico è inipotecabile, che la storia non ha alcun senso immanente e che non c'è futurologia che tenga; ma senza dubbio è un cattivo storico, un incompetente nelle questioni del nostro passato. L'aberrante presupposto di Hungtington è che quattordici secoli di storia dimostrano che fra Occidente e Islam la guerra è stata continua: da tale presupposto errato egli fa derivare - con sconcertante semplicismo deterministico - la conseguenza che così sarà anche in futuro. La grottesca fragilità di tale inconsistente ragionamento è palese.

Tuttavia, anche se esso fosse rigorosamente corretto, il presupposto resterebbe errato. L'arabo, l'arabo-musulmano, il musulmano tout court come nemici costanti dell'Occidente (e lasciamo perdere il fatto che tra Europa e Occidente è ormai molto discutibile esista una perfetta e totale identità dopo il XVI secolo).

Diciamolo chiaro. Questa della guerra costante e della continua inimicizia tra Occidente e Islam è una balla che può esser bevuta solo dagli ohimè troppi nipotini del benemerito garibaldino ed editore Enrico Bignami, inventore del sapere scolastico ridotto in pillole. I molti pacifisti che ieri accusavano di "revisionismo" gli storici i quali si ostinavano a sostenere che la crociata era qualcosa di molto differente da quella guerra di religione ispirata dal fanatismo che essi credevano (Voltaire ridotto appunto in bignamesche pillole...) e che oggi invece si fanno fautori di nuove necessarie crociate per la difesa della libertà, del progresso e magari anche della Borsa, debbono rassegnarsi a tornare a scuola.

E arrendersi all'evidenza che la storia, quella vera, insegna. Che cioè i lunghi secoli del confronto tra Europa e Islam furono certo caratterizzati da crociate e controcrociate, e non certo senza episodi violenti e sanguinosi; ma che la crociata non era affatto, non fu mai guerra "totale"; che in quei lunghi secoli - nei quali le guerre guerreggiate furono nel complesso endemiche, ma brevi e quasi sempre poco cruente - quel che di gran lunga prevalse fu il costante, continuo, profondo rapporto amichevole fra cristiani e musulmani nel teatro del mare Mediterraneo. Un'amicizia che si riscontra continua: a livello economico, diplomatico, culturale. A questo rapporto dobbiamo la rinascita dei commerci e della civiltà urbana dopo la stasi altomedievale; gli dobbiamo la nascita del sistema monetario e creditizio moderno; gli dobbiamo - grazie a uno stuolo d'instancabili traduttori arabi, ebrei e cristiani che lavoravano di comune accordo, soprattutto in Spagna - la stessa nascita scientifica e culturale della teologia, della filosofia, dell'astronomia, della fisica, della chimica, della medicina, della matematica, della tecnologia moderne. Senza l'apporto dell'Islam - riciclatore della cultura ellenistica e divulgatore di quelle persiana, indiana e cinese altrimenti sconosciute all'Europa - non sarebbe mai nata la splendida Europa delle cattedrali e delle università, l'Europa dalla quale è scaturita quella stessa modernità di cui tanto andiamo fieri. Gloria e riconoscenza eterna, diciamolo da europei e da moderni, all'Islam di Avicenna, di Averroè, di Ibn Khaldun: senza i quali non avremmo avuto né Abelardo, né Tommaso d'Aquino, né Dante, né Machiavelli, né Galileo. Certo, l'Islam di oggi non è più quello di allora. Ma anche su ciò, bisogna intenderci. Europa e Islam hanno potuto trattare da pari a pari finché

sono stati più o meno sullo stesso piano. Cerchiamo di distinguere i loro rapporti in sei specifiche fasi.

Prima fase.Fino all'XI secolo, musulmani e bizantini erano incommensurabilmente più colti, più civili, più ricchi dei rozzi euro-occidentali scaturiti dalla decadenza della pars Occidentis dell'impero romano e dall'incontro - del resto fecondissimo - con le culture eurasiatiche.

Seconda fase.Tra XIII e XVI secolo europei occidentali e musulmani poterono trattare su un sostanziale piede di parità. Si fecero crociate e controcrociate, si affermarono una letteratura, un diritto, una finanza della crociata. Intanto, però, gli scambi economici, diplomatici e culturali properavano. A metà del XII secolo si organizzò a Toledo la prima traduzione del Corano. Dante usò un libro mistico-allegorico arabo-iberico come testo ispiratore della Divina Commedia. Abelardo, Raimondo Lullo e Nicola Cusano scrissero trattati per dimostrare che le tre fedi nate dal ceppo di Abramo erano sorelle e sostanzialmente convergenti sui grandi temai del primato dell'uomo nel creato e dell'irruzione di Dio nella storia, la Rivelazione.

Terza fase.A partire dalla seconda metà del Cinquecento - grosso modo all'indomani della morte di Solimano il Magnifico, nel 1566 - l'Occidente, nonostante la dura crisi economico-finanziaria che stava affrontando, cominciò a distanziarsi decisamente da qualunque altra cultura. Le invenzioni, le scoperte geografiche e soprattutto la navigazione oceanica costituirono l'autentica , irripetibile e irreversibile "eccezione occidentale" nella storia del mondo. Fino ad allora le differenti culture sparse nell'ecumène avevano comunicato tra loro in modo rapsodico, spesso casuale: ora, le navi e i cannoni occidentali travolsero questo mondo a "compartimenti stagno" e avviarono quell' "economia-mondo" ch'è la prima fase di quel processo di globalizzazione che solo ai giorni nostri sembra giungere alla sua fase più matura e alle sue conseguenze (forse perfino alla sua conclusione, qualunque essa sia: ed è ancora presto per dire quale).

La culture islamiche (e bisogna tener presente che l'Islam è unico e unito nella sua comunità religiosa, l'umma: diviso però in una pluralità di culture, si stati, di scuole, di gruppi confraternali) non furono da allora più in grado di dialogare e di competere con l'Occidente. Tra XII e XVI secolo, esse avevano funto da tramite temporale e spaziale: avevano passato all'Europa la cultura ellenistica antica da essa dimenticata o sconosciuta, avevano svolto una funzione di tramite delle ricche merci estremo-asiatiche verso il Mediterraneo sia per terra (la "Via della Seta"), sia per mare (le rotte monsoniche dell'Oceano Indiano). Ma ora, gli europei padroni degli strumenti e delle rotte che circumnavigavano il mondo potevano aggirare i tra grandi imperi musulmani esistenti nel continente eurasiatico moderno, cioè il turco ottomano, il persiano safawide, il turco-mondolo-indiano moghul. Ed essi, aggirati, cominciarono prima a decadere progressivamente sul piano economico e commerciale, poi a chiudersi su se stessi e a sclerotizzarsi su quello spirituale e culturale (gli arabi erano già entrati in crisi almeno a partire dal primo Trecento).

Quella che agli occidentali è sembrata la "seconda ondata" dell'immaginario "assalto

islamico all'Europa", dopo la fase espansionistica dei secoli VII-X, cioè l'insieme delle guerre combattute dai turchi ottomani nel Mediterraneo e nella penisola balcanica, è stata in realtà una sorta di partita di giro con le differenti potenze europee, in cui le alleanze cristiano-musulmane si allacciavano e si scioglievano di continuo. E' noto che la corona francese tra Cinque e Settecento fu costantemente un' alleata occulta - ma non troppo - della Sublime Porta: e che il lavoro dei pubblicisti e degli eruditi francesi di quel tempo, che inventarono l'epopea delle crociate come gloria europea ma soprattutto francese costruendo così la trappola nella quale sarebbero caduti i nipotini dell'editore Bignami, nacque proprio per fornire al Re Cristianissimo, costante alleato del Turco, un alibi come scudo e spada della Cristianità.

E' non meno noto che i principi protestanti, l'Inghilterra e a turno Venezia e l'imperatore romano-germanico si allearono con gli ottomani contro i loro fratelli in Cristo.

E' risaputo che dietro il massacro turco degli otrantini, nel 1480. Non c'era la volontà del sultano, bensì la diplomazia di Venezia (e forse quella di Firenze) tesa a creare guai al re aragonese di Napoli e a contendergli la supremazia sullo sbocco dell'Adriatico. E' notissimo che il Sacro Romano Imperatore non concedette né un soldo né un soldato per la "splendida vittoria cristiana" di Lepanto del 1571 (della quale certi fondamentalisti cattolici vanno tanto fieri), e che il solo a rallegrarsi sul serio di essa fu lo shah di Persia, musulmano sì, ma sciita e nemico giurato del sultano sunnita di Istanbul. E' cosa detta e ridetta che i francesi e i protestanti (e, nel primo caso, perfino il papa, allora in guerra con Carlo V) furono lietissimi dei due assedi di Vienna, quello del 1529 e quello del 1683. E' arcinoto e facilmente verificabile che tra musulmani e cristiani ci sono state molte meno guerre, e molto meno gravi, che non fra tedeschi e francesi o tra spagnoli e inglesi. Lo sanno o dovrebbero saperlo tutti i mediocri conoscitori di storia che le vere guerre di religione combattute nella nostra storia sono state quelle fra cattolici e protestanti dalla Germania del primo Cinquecento alla Francia della seconda parte di quel medesimo secolo all'Inghilterra, alla Scozia, all'Irlanda e a tutta l'Europa della prima metà del Seicento. Lì sì che c'erano odio e fanatismo. Quinta fase.Fino al Settecento, il mondo islamico rimase sostanzialmente - a parte la sua periferia sud-orientale, tra Giava, Sumatra e Borneo, e alcune zone dell'India - non toccato dagli interessi e dagli appetiti colonialistici degli occidentali. La Spagna cercò ripetutamente d'impadronirsi di alcune zone dell'Africa settentrionale arabizzata e islamizzata, i portoghesi e più tardi gli inglesi mangiucchiarono qualche frangia dell'islam estremo-asiatico: e fu tutto. Ma col Sette-Ottocento le cose cambiarono. Francesi e inglesi si misurarono in India durante la "Guerra dei Sette Anni"; nel 1798 il generale Bonaparte sbarcò in Egitto, cercò di sollevare i musulmani di quel paese contro il loro sovrano turco nel nome del trinomio rivoluzionario Liberté-Egalité-Fraternité ch'egli presentò magistralmente come l'essenza dello stesso Islam. E i musulmani ci credettero.

Così francesi e inglesi si apprestarono a conquistare Africa settentrionale - e non solo - e Vicino Oriente asiatico, spartendosi l'immensa regione tra Caucaso e Golfo di Aden; intanto inglesi e russi, tra Mar Caspio e Himalaya, si misurarono nel Great Game tanto ben descritto da Rudyard Kipling per spartirsi l'area centro-meridionale

dello sterminato continente asiatico; e lo czar, ora in accordo ora in lotta con l'impero austriaco, cercò di appropriarsi di quelle parti dell'impero turco che gli avrebbero altrimenti impedito di affacciarsi sul Mar Nero e sull'Adriatico.

Mentre gli europei suscitavano e appoggiavano in funzione antiturca i nazionalismi serbo, greco e armeno, s'immettevano cultura e modo di vivere occidentali fra le borghesie sirolibanesi ed egiziane esportando fra loro anche un'idea nuova per il mondo musulmano, quella di patria, e inducendole a credere che grazie all'appoggio dell'Occidente il mondo arabo sarebbe pervenuto alla nahda ("rinnovamento", "rinascita"), liberandosi progressivamente dallo sclerotico e oppressivo giogo turco e godendo dei frutti del progresso europeo. E i musulmani in genere, gli arabo-musulmani, ci caddero in pieno. I figli degli sceicchi e dei ricchi mercanti accorsero a studiare a Oxford, a Cambridge, a Parigi (dove purtroppo credettero alla triste fiaba romantica delle crociate come guerre coloniali avant la lettre: e diffusero quell'idea nel mondo musulmano, gettando le basi per l'inizio del risentimento "secolare").

Da istanbul a Damasco ad Alessandria si diffusero le logge massoniche musulmane, all'interno delle quali si approfondiva il tema del rapporto tra razionalismo e umanitarismo occidentale da una parte, etica islamica dall'altra.

Nella prima guerra mondiale, il mondo arabo partecipò alla "rivolta nel deserto" raccontata da Thomas E. Lawrence contro i turchi: in cambio, francesi e inglesi avevano promesso al Guardiano dei Luoghi Sacri della Mecca, lo sharif ("nobile", "discendente del profeta") Hussein l'unità e l'indipendenza di una "grande Arabia" dall'Oronte al Nilo al all'Eufrate al Golfo di Aden da sottoporre al suo scettro. Nulla di ciò avvenne. Inglesi e francesi, al contrario, frazionarono dopo la guerra il mondo arabo in piccoli stati cui imposero una veste vagamente occidentalizzante, affidarono l'Arabia intera alla tribù fondamentalista dei wahabiti guidati dalla dinastia dei Beni Saud (i "sauditi") e favorirono l'insediamento dei coloni sionisti in Palestina, curando intanto di far imn modo di gestire direttamente o indirettamente la nuova fondamentale ricchezza dell'Oriente della quale l'Occidente era ghiotto: il petrolio. Tra 1918 e 1967, tra Versailles e la Guerra dei sei Giorni, arabi e musulmani passarono, nei confronti dell'Occidente, da una delusione e da una frustrazione all'altra. Sesta fase. Dopo l'ondata della conquista dei secoli VII-X e quella della intermittente guerra turco-ottomana contro l'Europa, ecco quella che qualcuno chiama la "terza ondata" dell' immaginario assalto musulmano all'Europa. Quello degli extracomunitari e dei clandestini. Quello ancora privo di armi nel senso vero del termine, ma tuttavia "armato" di aggressività culturale e di vitalità demografica e sostenuto dalla propaganda fondamentalista che mina con l'immigrazione dall'interno quel "Satana occidentale" che vuol colpire con il terrorismo all'esterno.

E' un'interpretazione folle: che tuttavia è condivisa tanto da alcuni estremisti islamici ("islamisti", appunto, come si dovrebbero più propriamente chiamare: e nelle ragioni dei quali la religione ha ben poco posto) quanto da alcuni fanatici occidentalisti che hanno bisogno d'identificare nell'Islam il nuovo "nemico metafisico". Diagnosi e possibili terapie. E' fondamentale gestire la sesta fase dei rapporti tra Occidente e Islam, nella quale

attualmente ci troviamo, con saggezza e moderazione. Tagliando l'erba sotto i piedi alla velenosa campagna demagogica dei fondamentalisti islamici: vale a dire distinguendo nettamente gli ambienti, i filoni e i fini dei differenti ambienti musulmani; stringendo sempre più i rapporti con la stragrande maggioranza islamica che desidera articolare un rapporto di convivenza tra modernità e Islam; collaborando a risolvere alcuni problemi cruciali - come quello israeliano-palestinese o quello dell'inutile e vergognoso embargo all'Iraq che non intacca il potere di Saddam Hussein e causa sofferenze indicibili al suo popolo - che, irrisolti, procurano al fondamentalismo e forse allo stesso terrorismo simpatìe e connivenze mentre, se fossero risolti, contribuirebbero straordinariamente a rasserenare gli animi. Bisogna colpire il terrorismo non solo nei suoi "santuari" politico-militari, ma anche nelle sue prospettive propagandistiche, combattendo le "sacche di disperazione" che nel mondo musulmano alimentano la folle speranza che quella infame forma di lotta possa condurre a una qualunque redenzione politica e sociale.

E' necessario rivedere la politica censoria e sanzionistica contro i cosiddetti "stati-canaglia", una definizione diplomaticamente imprudente e politicamente oltraggiosa, e favorire un loro riavvicinamento al mondo occidentale. E' importante alleviare in ogni modo l'ingiustizia e la sperequazione nel mondo, perché i popoli poveri questo aspettavano dall'Occidente e questo gli rimproverano di non aver fatto: Perché senza giustizia non può esserci - come ha ricordato giovanni paolo II - vera pace. E' fondamentale, nel caso sia assolutamente inevitabile ricorrere alla forza militare contro i terroristi, accertare e dimostrare prima le loro responsabilità e non coinvolgere in rappresaglie di sorta nessun innocente: il contrario, fornirebbe ai terroristi quello che cercano, nuovi martiri seme di nuovi adepti.

E' inoltre indispensabile che i nostri mass media abbandonino una volta per tutte quell'infame oltre che pericolosa pratica che consiste nel dar ragione ai terroristi dipingendo continuamente l'Islam come non è ma come essi vorrebbero ridurlo ad essere: una fede guerriera e sanguinaria, che ha come scopo l'assoggettamento del mondo e la lotta alla libertà di religione e di coscienza. A tale riguardo, non mancano purtroppo i politici e i pubblicisti semicolti che prestano orecchio ai seminatori nostrani di menzogne o di mezze verità.

Dev'esser chiaro che non corrisponde al vero, e che non giova a nessuno, distribuire spezzoni di teologia o di diritto musulmani e sparare raffica di citazioni coraniche avulse dal loro contesto e prive di qualunque sistemazione critica per dimostrare che la fede coranica è violenta e sanguinaria. A colpi di estrapolazioni, di citazioni manipolate, di confusione fra teorie teologiche e avvenimenti storici a loro volta decontestualizzati, si potrebbero provare anche la natura violenta e sanguinaria della Bibbia, perfino del Vangelo ("non sono venuto a portare la pace, ma la spada", Matteo, 10,34) ; si potrebbe sostenere il carattere feroce e liberticida anche dell'ebraismo e del cristianesimo, perfino di certi ambienti buddhisti, per non parlare dalle varie ideologie occidentali rezionaliste e laiciste, a cominciare dall'illuminismo (e stendiamo un velo sui pensatori dei liberi Stati Uniti, dal "padre" Cotton Mathers fino a Jefferson e a Monroe).

Se faremo tutto questo, riusciremo a spezzare la spirale di violenza che ci sta avvolgendo, e della quale siamo certo in parte vittime - ma non siamo i soli ad esserlo - , in parte tuttavia anche coprotagonisti. Se cercheremo di alimentare nuove crociate, sia pure per replicare agli sconsiderati jihad scatenati contro di noi da

minoranze irresponsabili che pretendono di agire nel nome di tutto l'Islam, forse vinceremo molte battaglie. Ma la guerra sarà dura, lunga, dolorosa: e finiremo - non illudiamoci - col perderla tutti.

* * * * * * * * * * * * * Il Prof. Franco Cardini, docente di Storia medievale presso le Università di Firenze e San Marino, è il presidente di IDENTITA’ EUROPEA (www.identitaeuropea.org), un’Associazione Culturale Internazionale che si propone di favorire la conoscenza delle radici storiche, culturali e spirituali dell’Europa.

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