la non violenza come strumento di...
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“150 anni di un’Italia senza memoria” Villa Nazareth 21 - 24 ottobre
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Seminario autunnale 21 - 24 ottobre 2010
Reg. Num. 6188 - A
Villa Nazareth – Fondazione Comunità Domenico Tardini ONLUS
Via D. Tardini 33-35, 00167 Roma – Tel. 06-666971, Fax. 06-6621754
E-mail: [email protected], [email protected], [email protected]
Sito web: www.villanazareth.org, www.vnstudenti.org
150 ANNI DI UN’ITALIA SENZA MEMORIA
“150 anni di un’Italia senza memoria” Villa Nazareth 21 - 24 ottobre
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In copertina: Odoardo Borrani, Il 26 aprile 1859
1861, olio su tela, cm 75x58.
Viareggio, Istituto Matteucci
“150 anni di un’Italia senza memoria” Villa Nazareth 21 - 24 ottobre
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Programma
“150 anni di un’Italia senza memoria”
Giovedì 21 ottobre
In giornata: Arrivo a Villa Nazareth e accoglienza
Ore 20:00 Cena e saluto del card. Achille Silvestrini, di mons. Claudio Maria
Celli, della prof.ssa Angela Groppelli, del prof. Carlo Felice Casula,
del dott. Massimo Gargiulo, di don Sergio Bertocchi
Presentazione del seminario a cura degli studenti della
Commissione cultura
Venerdì 22 ottobre
Ore 8:00 Colazione
Ore 8:30 Partenza da Villa Nazareth per le visite guidate alle mostre:
“1861: I pittori del Risorgimento”, Scuderie del Quirinale
“Vincent Van Gogh. Campagna senza tempo - Città moderna”,
Complesso del Vittoriano Ore 13:00 Pranzo
Ore 16:00 Conferenza: “Le idee e gli uomini che fecero l’Italia”
Relatore: Francesco Malgeri, ordinario di Storia Contemporanea
all’Università “Sapienza” di Roma
Moderatore: Francesco Sucameli
Ore 19:00 Celebrazione eucaristica
Ore 20:00 Cena
Sabato 23 ottobre
Ore 8:30 Colazione
Ore 9:00 Incontro dei Gruppi regionali
“150 anni di un’Italia senza memoria” Villa Nazareth 21 - 24 ottobre
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Ore 11:00 Laboratorio degli studenti: “La lotta ai tempi del brigantaggio”
Ore 13:00 Pranzo
Ore 16:00 Conferenza: “La conquista del Sud: 1861, una storia da
ripensare”
Relatori: Francesco Mario Agnoli, magistrato e saggista
Carlo Felice Casula, ordinario di Storia Contemporanea
all’Università degli Studi “Roma Tre”
Marco Paolino, professore di Storia Contemporanea
all’Università della Tuscia di Viterbo
Moderatrice: Raffaela Salvitto
Ore 19:00 Celebrazione eucaristica
Ore 20:00 Cena
Ore 21:00 Concerto di musica classica in occasione del compleanno del card.
Achille Silvestrini
Domenica 24 ottobre
Ore 11:30 Santa messa
Ore 13:00 Pranzo e conclusione del seminario. Saluti e partenze
“150 anni di un’Italia senza memoria” Villa Nazareth 21 - 24 ottobre
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Indice
Biografie dei relatori……………………………pag. 6
Articolo n. 1: Eugenio Scalfari, “Così è nata l’Italia”, da L’Espresso, 13
maggio 2010……………………………………..pag. 8
Articolo n. 2 : Simonetta Fiori, “Garibaldi”, da La Repubblica, 4 maggio
2010………………………………………………..pag. 10
Articolo n. 3: B. Ventavoli, “Cavour chi era costui? L’Italia lo dimentica”, da
La Stampa, 13 dicembre 2009………………pag. 12
Articolo n. 4: Edoardo Castagna, “Risorgimento capro espiatorio”, da
Avvenire, 25 marzo 2010……………………..pag. 14
Articolo n. 5: I. Delogu, “Nostalgia di Cavour? Ma senza dimenticare…”, da
L’Unità, 14 agosto 2010………………………pag. 17
Articolo n. 6: Angela Pellicciari, “L’altro Risorgimento”, da Il Tempo, 11
agosto 2010……………………………………..pag. 18
Articolo n. 7: F. Conti, “Quei fratelli in sonno mentre l’Italia si svegliava”, da Il Corriere della Sera, 15 aprile 2010….pag. 19
Articolo n. 8: Francesco Agnoli, “Abbasso il Risorgimento”, da Il Foglio, 26
settembre 2009…………………………………pag. 22
Articolo n. 9: Angelo Picariello, “Quando il Meridione era più florido”, da
Avvenire, 24 giugno 2010…………………….pag. 26
Articolo n. 10: F. Cardini, “I cattolici che fecero l’impresa - Intervista a A.
Riccardi”, da Avvenire, 3 marzo 2010………pag.28
Articolo n. 11: Claudio Magris, “Patria Italia unita sempre irredenta”, da Il
Corriere della Sera, 10 gennaio 2010………pag. 30
Articolo n. 12: S. Rizzo e G. A. Stella, “Noi italiani senza memoria”, da Il
Corriere della Sera, 12 febbraio 2010………pag. 33
Appendice: Dicono di loro…………………....pag. 35
Bibliografia e filmografia consigliate………..pag. 37
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Biografie relatori
Francesco Malgeri
Storico dell’età contemporanea, vincitore del Concorso per la Cattedra di Storia Contemporanea nel
1976, ha insegnato alla Facoltà di Magistero dell’Università di Salerno, chiamato a Roma nel 1979
come professore ordinario di Storia dei Rapporti tra Stato e Chiesa, Presidente dell’Istituto per la
Storia dell’Azione Cattolica e del movimento cattolico in Italia ―Paolo VI‖, ha dedicato gli anni più
preziosi della sua attività di ricerca ed accademica alla storia del Partito popolare italiano. È stato
uno dei primi borsisti dei Corsi di Scienza Storica e Politica dell’appena fondato Istituto Sturzo,
vivente ancora Luigi Sturzo. Nel 1969 ha pubblicato gli Atti dei Congressi del Partito popolare
italiano; nel 1972 la prima vita di Luigi Sturzo, con particolare attenzione agli anni dell’esilio. Il
suo interesse si è concentrato anche sulle figure più significative della Storia del movimento
politico dei cattolici italiani, da Ferrari a Galati, a Giordani, a Scelba e ad altri. Di notevole spessore
il suo volume su ―La Chiesa italiana e la guerra‖ del 1980. In tutta la sua attività di ricerca si
evidenzia la sua particolare sensibilità per i problemi dello sviluppo e della crescita civile del
Mezzogiorno, come anche l’accuratezza con cui ha delineato il contesto siciliano dell’azione di
Sturzo dagli anni Giolittiani al Partito popolare ed ai problemi della Sicilia nei dibattiti politici degli
anni che prepararono la Costituzione repubblicana. Sicurezza nell’esposizione degli eventi,
corredata da una ricerca archivistica di prima mano, con un’apertura nazionale sui problemi della
modernizzazione politica e sociale del Mezzogiorno.
Francesco Mario Agnoli
Nato a Bologna, magistrato, è stato componente del Consiglio Superiore della Magistratura nel
quadriennio 1986-90. Attualmente è presidente della II sezione civile della Corte d’Appello di
Bologna.
Nell’ambito degli studi storici i suoi interessi si sono concentrati in particolare sull’Insorgenza,
riportata all’attenzione, dopo lunghi anni di ostracismo da parte della storiografia ―ufficiale‖, dal
suo romanzo-saggio Gli Insorgenti (Reverdito, Trento, 1988, 2ª edizione Il Cerchio, Rimini 1993).
Dedicati sempre alla riscoperta dell’Insorgenza: Andreas Hofer, eroe cristiano (Res, Milano,
1979), Rivoluzione, scristianizzazione, insorgenze (Krinon, Caltanisetta, 1991); Ravenna e il sacco
di Lugo di Romagna, in Le insorgenze antifrancesi nel triennio giacobino (1796-1799) (Apes,
Roma 1992); Insorgenze - Controrivoluzione in Italia (Mimep-Docete, Pessano, 1996); Le Pasque
veronesi (Il Cerchio, Rimini 1998); 1799: La Grande Insorgenza (Controcorrente, Napoli 1999).
Dall’Insorgenza quasi inevitabile il passaggio all’età del Risorgimento, di cui Agnoli si è
occupato sia come autore: Gli accoltellatori (Longo, Ravenna 1981); La conquista del Sud e il
generale spagnolo José Borges (Di Giovanni, Milano 1994); Scristianizzare l’Italia (Potere Chiesa
e Popolo, 1881-1885); collaborazione con tre saggi al volume collettaneo La Rivoluzione italiana
(il Minotauro, Roma 2001), sia come curatore della Mostra Un tempo da riscrivere: il Risorgimento
italiano, organizzato dall’Associazione cultura Identità europea nell’ambito del ―Meeting per
l’Amicizia fra i popoli‖, Rimini 20-26 agosto 2000.
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Carlo Felice Casula
Ha conseguito la maturità classica (1967) al Liceo Virgilio di Roma e la laurea in Scienze Politiche
(1971) presso l'Università La Sapienza di Roma, con una tesi di storia contemporanea che ha avuto
come relatore il prof. Pietro Scoppola e che è stata pubblicata dalla casa editrice Il Mulino.
Dall'anno accademico 2001-2002 è stato chiamato dalla Facoltà di Scienze della formazione
dell'Università degli studi di Roma 3, dove insegna storia contemporanea, storia sociale e storia e
cinema. Ha collaborato a diversi periodici e ad alcuni quotidiani (Paese Sera, Il Secolo XIX,
L'Osservatore Romano). Oltre che di molti saggi, pubblicati in Italia e all'estero, in riviste e volumi
collettanei, è autore dei seguenti volumi: Cattolici comunisti e sinistra cristiana 1938-1945, Il
Mulino, Bologna 1976; Continuità e mutamento. Classi, economie e culture a Roma e nel Lazio
1870-1980, Teti, Milano 1980; Guido Miglioli. Fronte democratico popolare e Costituente della
terra, Edizioni Lavoro, Roma 1981; Domenico Tardini. L’azione della Santa Sede nella crisi fra le
due guerre, Studium, Roma 1988; Credere nello sviluppo sociale. La lezione intellettuale di Giorgio
Ceriani Sebregondi, Edizioni Lavoro, Roma 1990; Storia e storie tra Otto e Novecento, AM&D,
Cagliari 1994; L’Italia dopo la grande trasformazione, Carocci, Roma 1999; Le frontiere delle
ACLI, Edizioni Lavoro, Roma 2001; Unesco 1945-2005. Un'utopia necessaria, Città aperta, Troina
2005 (in collaborazione con Liliosa Azara); La Chiesa tra guerra e pace, Liberal Edizioni, Roma
2005. Tra i volumi da lui curati, A. Casaroli, Il martirio della pazienza. La Santa Sede e i paesi
comunisti (1963-1989), Einaudi, Torino 2000.
Marco Paolino
Nato il 20 gennaio 1961 a Rionero in Vulture (Pz), presso la Facoltà di Conservazione dei Beni
Culturali dell'Università della Tuscia/Viterbo dal 2002 è professore di Storia Contemporanea e dal
2007 insegna anche Storia della Chiesa nell'età contemporanea. Dal 2007 è socio vitalizio
dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano e fa parte del Comitato di Roma. Dal 2009 è
socio vitalizio dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia (ANIMI).
Tra le sue pubblicazioni ricordiamo:
- Relazione su Mazzini e gli ebrei tedeschi al convegno Mazzini e il mondo ebraico in Italia ed in
Europa organizzato dall’Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea e dalla
Società Toscana per la Storia del Risorgimento Italiano nel novembre 2005
- Relazione su Mazzini e il mondo tedesco al convegno Dalla Giovine Europa alla Grande Europa
organizzato dalla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Roma Tre nel maggio 2006
- Relazione su Garibaldi e il movimento democratico in Germania al convegno Garibaldi e i
movimenti democratici internazionali organizzato dall’Università di Urbino nel novembre 2007
- Johann Philipp Becker ed il Risorgimento italiano, in «Rassegna Storica del Risorgimento», a.
LXXXV
- I liberali tedeschi e il 1848: alcune considerazioni in merito alla loro «ostilità» per il
Risorgimento italiano, in «Clio», 2006, anno XLII, fasc. 3, pp. 373-387.
- Mazzini e il mondo tedesco, in «Rassegna Storica del Risorgimento», a. XCIV (2007), fasc. II, pp.
206-229.
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Articolo n. 1
Eugenio Scalfari, “Così è nata l’Italia”
da L’Espresso, 13 maggio 2010
Mentre scrivo queste righe, proprio oggi 7 maggio ricorrono 150 anni dallo sbarco dei garibaldini a
Talamone, due giorni dopo la loro partenza dallo scoglio di Quarto sulla costa genovese. A
Talamone furono accolti con simpatia dagli abitanti di quella insenatura a poche miglia dalla
palude di Orbetello e dall'Isola del Giglio. Trovarono una partita di vecchi fucili ad avancarica e
qualche centinaio di baionette e ripresero il viaggio due giorni dopo. Impiegarono ancora più d'una
settimana per sbarcare a Calatafimi dove, sotto la fucileria della fanteria borbonica, pare che il
comandante pronunciasse la frase passata poi nella leggenda risorgimentale: "Bixio, qui si fa l'Italia
o si muore". Mi pare obbligatorio (ed è un obbligo che adempio con piena partecipazione) rivisitare
in breve spazio ad un secolo e mezzo di distanza l'impresa garibaldina dalla quale uscì come un
neonato estratto col forcipe lo Stato unitario italiano. Col forcipe, cioè non per naturale evoluzione,
non per un disegno studiato e preparato nelle cancellerie di Torino, di Parigi, di Londra e
tantomeno di Vienna. Hanno dunque ragione gli storici che hanno messo in rilievo il carattere
fortemente minoritario ed elitario del moto risorgimentale, con poca o nessuna partecipazione delle
masse contadine che costituivano allora la stragrande maggioranza della popolazione della
Penisola. Erano intellettuali, studenti, giovani di alti ideali, poeti, cospiratori per vocazione, i
protagonisti di quel movimento.
Al loro fianco c'era anche qualche imprenditore di vista lunga, interessato a modernizzare
quell'espressione geografica definita Italia, unificandone i mercati, abolendo i dazi e creando una
nuova e unica moneta. Ma erano pochi, anzi pochissimi. Molti di quei pochissimi avevano già
partecipato ai moti di indipendenza del '48 e del '49; erano stati risvegliati alla coscienza patriottica
dalla lettura dell’Alfieri e del Manzoni, dalle canzoni del Leopardi, dagli inni del Berchet e di
Mameli. Avevano assorbito la predicazione unitaria e repubblicana di Mazzini. E molti di quei
pochissimi, in maggioranza lombardi, veneti, liguri, avevano perso la vita alla difesa di Roma e di
Venezia, nelle battaglie della prima e della seconda guerra di indipendenza e guardavano a Torino
come ad un centro di raccolta e di guida della rivoluzione italiana.
Torino però, cioè Cavour, non aveva affatto in mente la creazione dello Stato italiano. L'alleanza
con la Francia di Napoleone III e la guerra all'Austria erano state volute e preparate in otto anni di
intenso lavoro diplomatico e il fine, concordato con l'alleato francese e partecipato anche al
governo di Londra, era la fondazione di uno Stato del Nord-Italia sotto la guida della monarchia
piemontese, che comprendesse oltre al Piemonte ed alla Liguria anche la Lombardia, il Veneto e
possibilmente l'Emilia o almeno parte di essa. La pace conclusa da Napoleone III con l'Austria
anticipatamente e all'insaputa del governo di Torino, che lasciava il Veneto all'Austria, aveva
mutilato il progetto di Cavour, che si dimise dopo una scenata assai vibrata tra lui e il re. Ma questi
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conosceva bene Cavour e previde che sarebbe tornato ben presto a guidare il governo. C'era molto
da fare per amministrare quella vittoria, sia pur parziale. Bisognava superare l'antica rivalità tra
Torino e Milano, arrivare ad una pacifica convivenza con l'Austria, convincere il Papa a cedere le
legazioni emiliane, unificare il fisco, il sistema monetario, il mercato delle merci e dei servizi,
creare le grandi infrastrutture che collegassero i territori collocati lungo le rive del Po fino al delta.
Cavour non aveva altro in mente. Con i Borboni di Napoli si apriva una fase di convivenza, di
commerci, di egemonia culturale e commerciale dalla quale il Nord sarebbe uscito sicuramente
rafforzato e il Sud stimolato e pungolato.
Garibaldi non era previsto. Quando Cavour fu informato della sua avventurosa iniziativa, lo
considerò un incidente di percorso. Fastidioso. Da impedire per non impensierire i governi amici di
Francia e di Inghilterra. Questo giudizio negativo di Cavour durò tutt'al più una decina di giorni,
poi cambiò. Fece mostra di impedire la spedizione garibaldina ma sottomano la rese possibile. Si
prese il rischio in minima parte pronto però ad assumerne la paternità se l'impresa garibaldina
avesse avuto successo. Intanto mobilitò l'esercito, allertò la diplomazia, inviò nel Sud uno stuolo di
spie, di collaboratori fidati, di 'infiltrati' come oggi si direbbe, tra le camicie rosse del Comandante.
Garibaldi era consapevole. Appena arrivato a Palermo assunse il titolo di pro-dittatore. Quel 'pro'
significava che la sua dittatura era fatta in nome di un potere legale che non si era ancora scoperto
ma che il Generale aveva già anticipato lanciando lo slogan "Italia e Vittorio Emanuele". Ciò non
gli impedì di forzare la mano alla politica del nuovo Stato sia ad Aspromonte sia a Mentana. Ma
questo non cambiò la situazione. Intanto l'Italia unita era nata. Appunto con il forcipe garibaldino.
Gli italiani naturalmente ancora no. Da allora si sono affrontate molte tesi e molte critiche al moto
risorgimentale. Critiche da sinistra (il Risorgimento creò istituzioni che escludevano il
proletariato), critiche da parte cattolica (il Risorgimento fu fatto contro e senza i cattolici) ed ora da
parte della Lega e del nordismo leghista (il Mezzogiorno è stato per 150 anni una palla al piede del
Nord che si è svenato inutilmente per assistere un popolo di fannulloni). Ciascuno di questi
revisionismi crede di aver ragione. Tutti in realtà perdono di vista un punto essenziale: un nuovo
potere pubblico non è mai nato se non ad opera di una minoranza. Non esiste esempio nella storia
di un nuovo potere pubblico nato da un movimento di popolo. La rivoluzione bolscevica del '17 ne
fornisce un esempio clamoroso, ma perfino la grande Rivoluzione francese dell'Ottantanove non fa
eccezione: la conquista delle Tuileries del 10 agosto del '92, il Terrore robespierrista del '93-'94,
furono opera di minoranze. Quanto alla fase riformista dell'89, anch'essa istituì un potere nuovo e
fu opera del Terzo stato riunito in assemblea, che certo non rappresentava la maggioranza dei
francesi, in quella fase ancora estranea al Terzo stato fatto di professionisti, docenti, intellettuali e
magistrati. Le minoranze fondano i nuovi poteri. Sta poi ad esse di evocare il popolo ed educarlo.
A volte ci riescono, a volte no. ❖
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Articolo n. 2
Simonetta Fiori, “Garibaldi”
da La Repubblica, 4 maggio 2010
Chi era veramente Garibaldi? Un grande eroe popolare o un capo bandito, come sostiene il giornale
della Lega, la Padania? Artefice dell' unità d' Italia o "ladro di cavalli", "rozzo, incolto e senza saldi
principi", "schiavista e predatore di donne"? Alla vigilia delle celebrazioni per il
centocinquantesimo anniversario dell' Unità d' Italia - oggi e domani a Genova e Quarto con il
presidente Giorgio Napolitano - la storica inglese Lucy Riall aiuta a ridefinire una figura che è stata
per oltre un secolo una potente icona laica del Risorgimento, oggi disarcionata dal partito di Bossi
che addirittura vuole abolire le statue di Garibaldi nelle piazze d' Italia. «Mi sembra un' assurdità
chiamarlo criminale di guerra o capo bandito», commenta la Riall dal suo studio londinese del
Birbeck College, dove insegna Storia contemporanea. «Questo genere di accuse è interessante
perché ripropone materiali di propaganda ottocentesca, che dal Sud America rimbalzarono in Italia
nella stagione dell' unificazione trovando nuovi propagatori in conservatori e clericali. Ma si tratta
di propaganda di un secolo e mezzo fa, niente di più». Alla costruzione di quello che è stato il
simbolo più longevo dell' epica risorgimentale Riall ha dedicato un' affascinante monografia
pubblicata qualche anno fa da Laterza ( Garibaldi. L' invenzione di un eroe) e oggi sarà ospite del
genovese Palazzo Ducale per la lectio magistralis sulla spedizione dei Mille, in concomitanza con
le celebrazioni ufficiali che partono dall' impresa garibaldina, il 5 maggio del 1860. Chi era dunque
Garibaldi? Un eroe o una canaglia, come la pubblicistica leghista tende a rappresentarlo?
«Garibaldi era un leader rivoluzionario e militare con un eccezionale talento per la comunicazione
politica», risponde Riall. «Ebbe una lunga carriera di straordinaria varietà, dalle guerriglie
sudamericane degli anni Quaranta dell' Ottocento fino all' attività politica nell' Italia liberale. Come
tutti i politici con un curriculum così ricco, fece degli errori, ma è un' assurdità chiamarlo
"criminale di guerra" o "capo bandito". Faceva la guerra contro altri soldati, e mai contro i civili;
inoltre, non accettava mai premio compensi per le sue imprese. Non bisogna dimenticare che
Garibaldi morì povero». L' icona garibaldina è tra le più durature della religione civile creata dopo
l' Unità da Francesco Crispi anche per conferire un' aura sacrale allo Stato laico e conciliare le
memorie divise sul Risorgimento. Ma già da prima, ancora in vita, Garibaldi era riuscito a
diventare il mito di sé stesso. «Garibaldi diventa Garibaldi durante i grandi fermenti politici e
sociali degli anni Quaranta e soprattutto durante le rivoluzioni del ' 48-' 49. Ma il mito originale
scaturiva da una deliberata strategia politica. Era stato Mazzini a coglierne la potenzialità sia come
capo militare che come simbolo della nazione italiana. Per questo si diede molto da fare per
diffondere la sua fama attraverso i giornali inglesi, francesi e italiani. Grazie al suo fascino, voleva
promuovere l' idea di nazione». Alla costruzione del mito non fu estraneo lo stesso Eroe dei due
Mondi, abile nel padroneggiare la propria immagine pubblica. «Esiste una lunga tradizione che lo
liquida come uomo politicamente inetto e poco intelligente. Questo profilo serviva ovviamente ai
suoi avversari, ma era funzionale allo stesso Garibaldi: in questo modo, il mito sembrava molto più
spontaneo e quindi più forte. Invece, i suoi discorsi, il suo modo di vestire, la sua capacità di
cambiare immagine secondo il pubblico e il momento politico ci restituiscono un uomo
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consapevole del proprio carisma». Non è un caso che Garibaldi si scegliesse gli amici tra i
giornalisti. Fu in sostanza il primo personaggio mediatico della storia d' Italia. «La sua fama negli
anni dell' unificazione italiana riflette i grandi cambiamenti culturali del periodo, con lo sviluppo di
un nuovo tipo di pubblico: una platea più democratica, che legge giornali e riviste radicali, va a
teatro e compra romanzi a basso prezzo. Era stato sempre Mazzini a comprendere il nuovo rapporto
fra classe politica e grandi masse». Insistendo sulla costruzione del mito, non c' è il rischio di
allungare su Garibaldi l' ombra di "un falso storico"? «Niente affatto», replica Riall. «Non è certo
questa la mia tesi storiografica. Al contrario, valorizzando il suo talento per la comunicazione
politica, voglio richiamare l' attenzione su una singolare qualità che gli conferisce particolare
importanza sia come attore politico che come leader militare». L' impresa dei Mille, partita da
Quarto il 5 maggio di un secolo e mezzo fa, giocò un ruolo centrale nella formazione di un' Italia
unita. Nell' arco di soli sei mesi rese possibile il crollo della monarchia borbonica e la creazione di
uno Stato nazionale sotto la corona sabauda. Ma fu un affare di una minoranza, come con
sciagurata pervicacia insistono i suoi detrattori, o coinvolse una collettività più ampia? «Se la
spedizione è rimasta così celebre è perché realizzò le speranze di una comunità molto estesa. Al di
là delle diverse interpretazioni sul Risorgimento, non può essere negato il sentimento nazionale che
allora muoveva la gran parte degli italiani. I Mille furono l' avanguardia di un movimento diffuso,
testimoniato anche dalla straordinaria mole di lettere scritte dalla gente comune». Celebrata a
sinistra e abusata dalla destra nazionalista e poi fascista, oggi l' icona garibaldina appare sfigurata.
Alcuni membri del governo italiano fanno il processo al Risorgimento, arrivando a mettere in
discussione lo stesso Stato unitario. Il premier indica come testo-chiave della bibliografia
risorgimentale un saggio di Angela Pellicciari secondo cui Garibaldi eseguì un piano ordito dalla
massoneria e dalle potenze straniere per distruggere il potere del Papa nella penisola. Un ministro
leghista, Roberto Calderoli, ha annunciato che non prenderà parte alle celebrazioni dell' Unità, con
la benedizione del ministro Bondi che trova il modo di giustificarlo («il suo è un modo non retorico
ma sobrio di valorizzare la tradizione federalista»). «Queste controversie mi paiono sorprendenti.
In Inghilterra a stento ricordiamo chi era la regina Vittoria. Per una storica del Risorgimento
potrebbe essere lusinghiero assistere alla rinnovata popolarità dell' evo studiato. Il problema
interviene quando i politici, per finalità politiche, promuovono una versione falsa degli
avvenimenti, manipolando i fatti storici per poi poterli liquidare». Il guaio è che in Italia non si
discute di Risorgimento perché è tornato di moda, ma al contrario perché è stato rinnegato. In
Inghilterra nessuna forza politica si permetterebbe di demolire le fondamenta della storia inglese.
Da noi l' anniversario dell' unificazione cade in un paese che nega se stesso e la sua data fondativa.
«In effetti da noi nessun politico mette in discussione la grande narrazione della storia inglese. Vi
possono essere piccole discussioni intorno ad alcuni nodi irrisolti, soprattutto sul passato coloniale.
Io però non condivido l' argomento secondo cui l' Italia rappresenta una nazione debole», conclude
Riall. «Gli italiani hanno grande consapevolezza della propria identità. Rievocare i Mille significa
dar voce alla vasta comunità che sognava un mondo migliore. Oggi è nostro dovere ascoltare le
loro speranze».❖
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Articolo n. 3
Bruno Ventavoli, “Cavour chi era costui? L’Italia lo dimentica”
da La stampa, 13 dicembre 2009
Morì sussurrando «l’Italia è fatta». Ma andandosene nell’aldilà temeva che non fosse esattamente
così. Cavour, equidistante dall’impazienza guerrigliera di Garibaldi e dai furori repubblicani di
Mazzini, sapeva che il lavoretto era ancora lungo e complicato. Con la sua intelligenza
diplomatica, con la sua cautela riformista, con le sue idee avanti di un secolo, con la sua abilità
nell’utilizzare le contesse-escort dell’epoca per trovare alleanze, fece molto per costruire la patria.
Per inciso, ebbe probabilmente anche il merito di «inventare» il Barolo, invecchiando come si deve
l’uva nebbiolo. Ora l’Italia, la «sua» Italia avrebbe due ottime occasioni per celebrarlo. Il 10 agosto
2010, bicentenario della nascita, e il 6 giugno 2011, 150° anniversario della morte. Ma come ha
denunciato ieri Massimo Gramellini su «La Stampa», il Paese attuale è pigro, distratto, per non dire
di peggio.
Una furia come Garibaldi, piace ancora. La saggia pinguedine piemontese di Cavour pare invece
démodé. E il suo pensiero autenticamente liberale non stuzzica né la destra né la sinistra, né
tantomeno la Lega, lievemente prevenuta verso l’unità di Padania e Meridione. «Cavour è
dimenticato dallo stato», dice Nerio Nesi, presidente dell’Associazione amici di Cavour e
vicepresidente delegato della Fondazione eponima, che hanno sede a Torino. «E’ una rimozione in
atto da tempo, e lo dimostra il fatto che vie e piazze a lui dedicate sono molte meno di quelle che
ha Garibaldi. Garibaldi è più facile, più popolare. Litigavo sempre con Craxi su questo. Ma il vero
padre della patria è Cavour. E quasi tutti se lo sono dimenticati».
Non l’hanno dimenticato né la Fondazione né gli Amici che da anni, facendo i salti mortali, ne
tengono viva la memoria. Organizzano un premio (tra gli ultimi vincitori Ciampi e Veronesi),
convegni pubblicazioni. E soprattutto cercano di rattoppare il patrimonio immobiliare che
comprende la villa, il parco, le carte a Santena (il 6 giugno presenteranno il restauro della tomba).
Il tutto con una cifra risibile ricevuta dallo Stato: 4 mila euro l’anno. Altri soldi cavourofili
arrivano da industriali privati, da Intesa-San Paolo. Comune e Regione sono «orgogliosi»
dell’antico padre patrio e fanno molto per le infrastrutture, ma riescono a dare pochissimo per la
gestione ordinaria. C’è da pagare, per esempio, il custode, la luce, i giardinieri che potano gli
alberi, i muratori che aggiustano un muro.
Risultato: la Fondazione ha accumulato in 15 anni un debito che sfiora i 6-700 mila euro. E così,
oltre al «conte che non torna» - come ha scritto Gramellini -, non tornano nemmeno i conti. Forse
non si presenterà un idraulico creditore a chiedere il pignoramento d’una quercia o d’un quadro.
«Ma la situazione è davvero triste - continua Nesi -. E’ così da anni. Con un aggravamento negli
ultimi tempi. Questo governo ha delle colpe in più nell’oblio. Credo che ci sia una precisa volontà
politica. I valori dell’unità d’Italia non sono certo ben visti dalla Lega. Sto scrivendo una lettera al
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ministro per chiedere se hanno intenzione di fare qualcosa».
Lettere ne ha già vergate un’altra associazione, il «Comitato Cavour», perché a dispetto della
spilorceria pubblica i cavouriani doc si moltiplicano ovunque, dal basso, accomunando nella fede
studiosi, politici, cittadini, forse sempre più numerosi in questi tempi di incertezza politica. «Nel
marzo 2008 abbiamo mandato una domanda per costituire un Comitato Nazionale per le
celebrazioni del bicentenario della nascita, ma giace nei cassetti del ministero. Abbiamo sollecitato
con una seconda lettera a febbraio e siamo tuttora in attesa di una decisione».
Roma assicura che il conte Camillo non è snobbato. Che la politica non c’entra. Che il ministero
finanzia bipartisan istituzioni d’ogni genere, anche quelle che proprio fiancheggiatrici del centro-
destra non sono, tipo la fondazione Gramsci. Il problema è decidere quali progetti appoggiare. Pare
ce ne fosse uno anche del Grinzane di Soria, prima dello scandalo. «Nessun oblio, non possiamo
dimenticarci di un padre della patria - dice il ministro Bondi - Abbiamo previsto un finanziamento
di circa 300 mila euro, attendiamo solo la costituzione di una consulta per decidere come e dove
spenderli».
In attesa di capire come la complicata questione verrà risolta - probabilmente servirebbe un novello
saggio e diplomatico Cavour per dirimerla - aleggia il dubbio che qualunque cosa si faccia non
basterà. Il patrimonio cavouriano logorato dal tempo - pure l’alluvione del ’94 ci ha messo del suo
lasciando scempi nella villa di Santena - ha bisogno di risorse ben più cospicue di quelle finora
prospettate. «Con un po’ di pressing sono sicura che i denari arriveranno - dice Manuela Lamberti,
consulente della Fondazione Italia 150. E’ lei che ha elaborato i programmi cavouriani per il
comune di Santena.
«Per rendere davvero agibile al pubblico il preziosissimo patrimonio servono 5-6 milioni di euro.
Ma Cavour non trova finanziamenti perché non è raccomandato, non ha più sponsor. A sinistra è
considerato troppo liberale, a destra troppo torinese e poco populista». L’unica cosa cavouriana che
ancora funziona benissimo sono le pastiglie Leone. Adorava quelle alla violetta. E se le masticava
prima di costruire l’Italia unita. Le fanno ancora oggi, buonissime. Ma è un po’ poco per la sua
immensa eredità. ❖
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Articolo n. 4
Edoardo Castagna, “Risorgimento capro espiatorio”
da Avvenire, 25 marzo 2010
Quest’anniversario dell’Unità cade nel momento di massima distanza affettiva tra gli italiani e il
Risorgimento. Da qualche decennio, con un’impennata negli ultimi anni, l’epopea ottocentesca che
ha dato origine al nostro Paese è finita sul banco degli accusati, additata come colpevole di gran
parte dei malanni nazionali. Per lo storico Ernesto Galli della Loggia, docente di Storia
contemporanea presso l’Istituto italiano di Scienze umane di Firenze, «una responsabilità non
secondaria tocca alla scuola, così come si è evoluta negli ultimi trent’anni. La disaffezione non è
solo nei confronti del Risorgimento, ma della dimensione nazionale in genere: anche la letteratura
italiana è sempre meno studiata».
Ma in altri Paesi europei sono concepibili critiche ai fondamenti stessi dell’unità nazionale,
come quelle cui si assiste in Italia?
«No, nemmeno in quelli più vicini a noi come la Francia. Certo, sulla storia nazionale ci si divide –
per esempio sulla Rivoluzione francese –, ma nessuno mette in discussione la Francia in sé, salvo
qualche movimento nazionalista del tutto marginale come quelli bretone o corso. Solo in Italia si
ripetono luoghi comuni di gran lunga più critici che favorevoli all’Unità. Ed è appunto qui che c’è
il difetto della scuola, che ha mancato gravemente nell’insegnamento della storia e ha consentito
che insegnanti e libri di testo sposassero le tesi più cervellotiche e infondate».
Come quella di un presunto depauperamento del Sud dopo l’Unità?
«Questa è un’autentica corbelleria. Gli studi dimostrano in maniera inoppugnabile che al punto di
partenza, nel 1860, il divario economico tra Nord e Sud era già fortissimo. Sotto tutti i punti di
vista: dall’estensione delle strade all’alfabetizzazione, dallo sviluppo dei commerci a quello
dell’agricoltura».
Eppure non è raro sentir citare esempi di eccellenza meridionale: la Napoli-Portici, per
esempio, fu nel 1839 la prima ferrovia italiana...
«La sempre evocata ferrovia Napoli-Portici non era altro che il giocattolo del re, mentre invece la
Torino-Genova o le ferrovie costruite dagli austriaci in Lombardia servivano concretamente allo
sviluppo economico. Portici è un sobborgo di Napoli, dove non c’era niente se non qualche villa…
Quei sette chilometri di binari la dicono lunga sulla ratio delle scelte "economiche" dei Borboni.
Intanto, in tutto il Regno delle Due Sicilie non c’era una strada degna di questo nome: a dirlo non
sono le descrizioni fatte dai prefetti sabaudi, ma quelle degli alti funzionari dell’amministrazione
borbonica negli anni Quaranta-Cinquanta».
Nessuna attività produttiva, quindi?
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«Prendiamo la Sicilia: era come il Cile. Il Cile produceva rame e guano, poi arrivavano i bastimenti
inglesi e nordamericani, li prelevavano e li portavano in patria affinché fossero lavorati. Così la
Sicilia: produceva zolfo e arance, poi arrivavano i bastimenti e li caricavano. Era un’economia
coloniale, che forniva soltanto un po’ di materia prima – peraltro rapidamente diventata inutile
grazie alla produzione industriale chimica dell’acido solforico. Ma si può immaginare uno sviluppo
economico fondato sulle arance?».
A essere contestato è anche il centralismo adottato dal neonato Stato italiano...
«Un’altra contestazione... Il processo risorgimentale trova solo difensori istituzionali, mentre nello
spirito pubblico domina la contestazione. Non è però vero che l’Italia adottò subito e per principio
una linea centralistica, tutt’altro: nella primavera del 1861, a immediato ridosso dell’unificazione,
il ministro degli Interni Minghetti presentò un progetto di legge che prevedeva un largo
decentramento ai comuni. Solo che cominciarono ad arrivare le notizie della rivolta nelle province
meridionali e si diffuse la consapevolezza, immediatamente trasmessa dai prefetti, che il
decentramento avrebbe restituito il potere al notabilato borbonico. Fu per questo che Minghetti
ritirò il suo progetto, che fu sostituito da quello centralistico».
Ci fu un’ispirazione anticattolica, all’interno del processo risorgimentale?
«Anche su questo punto si tende a esagerare. Sicuramente ci fu una componente laicista, più o
meno massonica – anche se va ricordato che la prima loggia massonica in Italia fu fondata soltanto
nel 1859 –, ma il fatto è che nell’Europa dell’Ottocento il liberalismo era generalmente contiguo
allo spirito massonico. A unirli era la lotta contro la Chiesa, la quale a sua volta non era certo una
vittima e combatteva accanitamente contro il liberalismo. La Rivoluzione francese aveva prodotto
una divaricazione tra la libertà politica e la Chiesa, tanto che l’affermazione delle istituzioni liberali
– il parlamento, la costituzione – passava necessariamente attraverso il conflitto con il papato. C’è
stato un momento drammatico, nella storia della Chiesa: non aver capito che lo spirito
illuministico, con il suo materialismo e la sua secolarizzazione, non era la stessa cosa delle
istituzioni liberali e delle istanze anti-assolutistiche».
Quale spazio rimaneva, allora, ai cattolici liberali?
«Si trovarono in un vero e proprio dramma storico: un Manzoni non poteva essere a favore del
parlamento o della fine del dominio austriaco su Milano, senza essere scomunicato. E poi: vorrà
dire pure qualcosa il fatto che lo stesso Cavour abbia voluto morire assistito dai conforti religiosi,
no? Lo statista si era infuriato enormemente, tanto da arrivare a un accesso di anticlericalismo,
quando al suo amico morente Santarosa furono rifiutati i sacramenti – gettando nella costernazione
la sua famiglia, profondamente cattolica – perché da ministro aveva appoggiato la politica liberale
del Piemonte. D’altra parte, dobbiamo sforzarci di comprendere anche la gravità del problema che
si trovava davanti il papa: gli si chiedeva di rinunciare a quello Stato della Chiesa che gli era stato
trasmesso da oltre un millennio di predecessori. Era una responsabilità politica e religiosa non da
poco, e si può ben capire la resistenza di Pio IX. Nelle file del liberalismo italiano c’erano molti
cattolici, così come c’era sicuramente anche un gruppetto di tenaci anticlericali, anche se
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assolutamente minoritario. Il problema era politico: nel momento in cui si tentava di fare l’Unità,
diventavano tutti anticlericali, perché era l’unico modo per farla».❖
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Articolo n. 5
Ignazio Delogu, “Nostalgia di Cavour? Ma senza dimenticare…”
da L’Unità, 14 agosto 2010
In un articolo sul Corriere della Sera del 10 agosto, Galli della Loggia confessa tutta la sua
«nostalgia» per lo statista artefice non unico ma certo massimo dell’Unificazione e il suo rammarico
per la sua impopolarità presso gli italiani che motiva col disprezzo qualunquistico-anarcoide verso
lo Stato in quanto tale e con l’impopolarità di esso presso tanti italiani. Definizioni generiche e
ingenerose che non tengono conto del modo col quale lo Stato è nato: a vantaggio e a spese di chi.
Non si possono dare a Cavour colpe non sue,ma sì la responsabilità di aver posto le premesse per
quella che non sarebbe stato il compimento di un sogno, il Risorgimento, per i cui protagonisti
nutriva più diffidenza che simpatia, ma una conquista dolorosa. Dopo la consegna a Vittorio
Emanuele da parte di Garibaldi del Regno delle Due Sicilie, il nuovo Stato apparve unitario a
parole, piemontese nei fatti. Fondato in larga misura sul tradimento delle promesse di liberazione e
di progresso, culminato in una vera e propria guerra di conquista. Chiamarla lotta al brigantaggio
èun modo ipocrita al quale la storiografia italiana ci ha abituato e che non aiuta a capire. Essa fu la
conseguenza del patto scellerato con l’aristocrazia e la classe fondiaria della Sicilia e del
Mezzogiorno, riassunto da Lampedusa ne Il Gattopardo: bisogna che tutto cambi, perché nulla
cambi. Bronte, e non solo, insegna. In cambio della «sicurezza» e dei propri privilegi, le classi
proprietarie del Mezzogiorno consegnarono il potere allo Stato accentratore. Unica concessione,
l’apertura della squallida epopea del pubblico impiego, per i piccoli borghesi frustrati e «letterati»,
carabinieri, finanzieri, poliziotti, guardie carcerarie, impiegati d’ordine. La burocrazia li assoldò e li
assorbì. Il resto fu opera del fisco, della tassa sul macinato, dell’istituzione dei Monopoli del sale,
dei tabacchi, della guerra di dogane che contribuirono alla rovina del Sud,non proprio un giardino
felice ma neanche un girone infernale, né più né meno di certe regioni del Centro e del Nord. La
conclusione fu l’avversione per lo Stato carabiniere e finanziere, un ritorno alla soggezione ai poteri
mafiosi infinitamente rafforzati, un’emigrazione di massa durata un cinquantennio e mai cessata che
privò il Sud delle forze migliori. Il resto lo fecero le guerre del «capitalismo straccione» e le
tragiche e farsesche imprese imperialiste dell’Italia fascista, costata centinaia di migliaia di morti,
prevalentemente del Sud. Questa l’Italia unita dalle Alpi alla Sicilia. E la Sardegna? È invalsa
l’abitudine di editorialisti e storici peninsulari di escludere l’Isola dall’Italia unita. Non sarò io a
dolermene. Resta il fatto che fu il Regno di Sardegna a consentire che i Savoia diventassero Re
d’Italia, per estensione. La storiografia ignora e mistifica. Perché non chiedersi come mai Vittorio
Emanuele si chiami «II» e non «I»? Secondo Re di Sardegna e, per estensione, primo d’Italia. Ed è
proprio certo Galli della Loggia che la sagacia e la lungimiranza di Cavour sottovalutassero il
debito contratto dalle Monarchie europee con i Savoia privati, tra il 1714 e il 1720, del Regno di
Sicilia? Come si può chiedere ai Sardi di amare quel Cavour per il quale il Parlamento non aveva
più dimezz’ora all’anno da dedicare? E quali ragioni possono favorire la popolarità e riconoscenza
dei meridionali verso chi pose le premesse perché la Questione meridionale a 150 anni
dall’Unificazione resti la maggiore e unica Questione nazionale irrisolta? Si parva licet, mi permetto
di condividere la sua «nostalgia» per l’alto senso dello Stato e della politica che fu di Cavour,
paragonato al degrado di premier e consorti di oggi e forse di domani. Senza che ciò però faccia
velo alla verità storica.❖
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Articolo n. 6
Angela Pellicciari, “L’altro Risorgimento”
da Il Tempo, 11 agosto 2010
Cantami, o Diva, l’ira funesta del Pelìde Achille‖: gli aedi del nostro Risorgimento non si limitano a
cantare le gesta ―funeste‖ dei padri della patria. Cantano e basta. Ma cosa cantano? Libertà,
indipendenza, democrazia, progresso e via continuando. Va avanti così da centocinquanta anni. E
non ci siamo ancora stancati. Eppure, a forza di canti, l’ode si è fatta stucchevole. E molto ripetitiva.
Soprattutto quando, anche grazie a chi scrive, sono ormai ben conosciute le vere gesta degli eroi
risorgimentali.
Ieri ricorreva il bicentenario della nascita di Cavour, il vero artefice dell’Italia sabauda, ed Ernesto
Galli della Loggia ha scritto un editoriale sul Corriere della Sera. Trasformatosi da più di un anno
nel massimo cantore della nostra unificazione politica, Galli ha dato al suo pezzo il carattere,
efficace, della lamentazione: ahi serva Italia! Tu che dimentichi i tuoi padri. Tu che hai scordato
Cavour. Tu che da più di trenta anni non insegni più nulla ai tuoi ragazzi, più nulla che riguardi la
storia del Risorgimento. Tu che nemmeno giri ―un film serio su quel periodo‖!
Forse Geremia aveva qualche motivo in più di lamentarsi. Purtroppo di filmati, rivisitazioni
quotidiane sui tg, interi paginoni dei maggiori quotidiani italiani –per non parlare delle
innumerevoli celebrazioni ufficiali-, abbondiamo. Sono poco seri? Bisogna ammettere che sì. Lo
sono perché fanno retorica e non storia. Lo sono perché adulterano sistematicamente la verità dei
fatti.
―Con quei frizzi, con quella festività onde egli sa abbellire i suoi discorsi‖: così descrive l’allegra
leggerezza del conte di Cavour il senatore Federico Scopis. Cavour era un maestro nell’arte dello
scivolo: su tutto, su qualsiasi principio, su qualsiasi contraddizione, su qualsiasi fatto. Mirava al
sodo: mirava all’obiettivo –all’apparentemente irraggiungibile obiettivo- che si era proposto.
Difendeva a spada tratta la splendida eticità del Piemonte liberale e costituzionale. C’era,
finalmente, anche in Italia uno stato degno dell’Inghilterra! Il primo articolo dello Statuto del
costituzionale Piemonte definiva la religione cattolica ―unica religione di stato‖? E con questo? Agli
occhi del conte il primo articolo non poteva certo mettere al riparo dalla soppressione l’esistenza
degli ordini religiosi della chiesa di stato! Che infatti, nel 1855, iniziarono ad essere soppressi. Con
quale motivazione? Con la semplice constatazione –così Cavour- che ostacolavano il progresso
sociale, economico, artistico, agricolo, e perfino religioso della nazione. Alle elezioni de 1857 viene
eletta in Parlamento una pattuglia di preti combattivi che avrebbero dato filo da torcere alla politica
anticattolica? Basta annullare l’elezione. Perché? Semplice: per abuso di armi spirituali. Io voglio
―che da queste accuse il clero sia purgato‖: è con queste parole altisonanti che Cavour elimina dalla
Camera avverasi pericolosi.
Il papa ed il clero denunciano la sistematica irrisione della sbandierata costituzione? Il codice di
diritto penale varato nel 1859 impedisce loro di parlare, pena il carcere e la multa. E così l’articolo
268 punisce severamente i sacerdoti per colpe di ―parole, di opere e di omissioni‖. Per ogni
infrazione 2.000 lire di multa e due anni di carcere.
In chiusa al suo pezzo, Galli ammette di ―sentire fino in fondo una disperata nostalgia [di Cavour] e
ripeterne con gratitudine il nome per trasmetterlo a chi in futuro si dirà ancora italiano‖. Senza
mettere minimamente in dubbio l’unità d’Italia, devo ammettere che anch’io ho una nostalgia:
quella dell’Italia cattolica disprezzata dal grande Cavour, quella del santo ed eroico papa Pio IX,
calunniato e vilipeso più di ogni altro, perché non si è piegato all’uso della forza ed ha denunciato
fino alla fine i misfatti con cui si pretendeva di liberare e moralizzare l’Italia. ❖
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Articolo n. 7
Fulvio Conti, “Quei fratelli in sonno mentre l’Italia si svegliava”
da Il corriere della sera, 15 aprile 2010
Brano tratto da Massoneria e Risorgimento: fra storia e leggenda, di Fulvio Conti, docente di
Storia Contemporanea all'Università di Firenze, contenuto ne Gli Italiani in guerra. Conflitti,
identità, memorie dal Risorgimento ai nostri giorni, (Utet), Direzione scientifica di Mario
Isnenghi
Il 16 maggio 1925, intervenendo alla Camera nella discussione del disegno di legge sulla
regolarizzazione dell’attività delle associazioni, meglio nota come legge contro la massoneria,
l’illustre storico Gioacchino Volpe affermò senza mezzi termini che dopo la caduta di Napoleone
«la massoneria si era addormentata quasi nella sua generalità; che fra massoni e carbonari non c’era
nessun rapporto o poco rapporto, che molti carbonari rifiutarono nettamente di essere considerati
massoni». La massoneria, proseguiva Volpe, «cominciò a risorgere verso il ’60 e solo da allora
riprese a tessere la sua rete. In questi 40 anni intermedi, la sua azione fu, in ordine al Risorgimento
italiano, insignificante o nulla. Molti, i più dei patriotti, non erano massoni. Molti, fieri nemici di
massoneria». (...) La voce autorevole di Gioacchino Volpe si levò alla Camera nel momento in cui il
destino della massoneria italiana era segnato, avendo il nascente regime fascista già deciso di
mettere al bando i sodalizi liberomuratori e cercando adesso soltanto di legittimare tale scelta, oltre
che sul piano giuridico-politico, anche sul terreno storico- culturale. Agli occhi di Mussolini, si
trattava perciò di ridimensionare le benemerenze patriottiche rivendicate dai massoni infrangendo
un vero e proprio mito, sfatando una leggenda: quella, alimentata da una copiosa pubblicistica e
tracimata in vulgata popolare, che voleva il Risorgimento essere stato una creazione quasi esclusiva
della massoneria, capace di annoverare nelle proprie fila, secondo ricostruzioni fantasiose, tutti i
padri della Patria. In realtà, invece, soltanto Garibaldi appartenne all’istituzione massonica e anzi vi
ricoprì la suprema carica di gran maestro, mentre Mazzini si servì delle logge per tessere le sue
trame cospirative, ma rifiutò sempre un coinvolgimento diretto, e Cavour e Vittorio Emanuele II,
dal canto loro, rimasero a esse totalmente estranei (...)
LA DEMOLIZIONE - La tesi di Volpe circa l’eclissi della massoneria durante l’epopea
risorgimentale era largamente condivisa in ambito storiografico. In quello stesso 1925 apparvero i
due volumi di Alessandro Luzio, «La Massoneria e il Risorgimento italiano», nei quali lo studioso,
portando alla luce una vasta documentazione d’archivio, demoliva le fragili tesi sin lì sostenute dai
pubblicisti massonici ed evidenziava in primo luogo gli scarsi legami esistenti fra l’organizzazione
liberomuratoria e le strutture settarie, quindi la sua scomparsa dopo la messa al bando da parte dei
governi restaurati e conseguentemente il ruolo affatto ininfluente avuto nelle lotte risorgimentali.
(...) Più articolata fu invece l’interpretazione suggerita da Gaetano Salvemini, che proprio nel 1925
pubblicò nella collezione L’Europa nel secolo XIX la sua opera dal titolo L’Italia politica nel
secolo XIX. Qui egli, a differenza di Luzio, accreditò la tesi della derivazione del movimento
settario dall’alveomassonico, sebbene attraverso scismi e profonde modificazioni dei riferimenti
ideologici e dei modelli operativi. Tuttavia tese a ridimensionare la portata del fenomeno, che a suo
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avviso restò circoscritto entro ristretti ambiti sociali e geografici, e uscì assai screditato dai
rivolgimenti rivoluzionari del 1820-21 e del 1831. È noto altresì il giudizio ben più drastico
formulato in passato dallo storico pugliese proprio in una lettera ad Alessandro Luzio: «La
leggenda che il Risorgimento italiano sia stato opera della Massoneria è stata creata dai clericali
(...) Tutte le forze massoniche – dichiarava invece Salvemini – riconoscono l’inerzia completa fra il
1830 e il 1870».
GLI STORICI - Chi recensì il lavoro di Luzio in modo assai critico fu Nello Rosselli, che in un
articolo apparso sulla rivista «Quarto Stato» del 1˚ maggio 1926 lo giudicò un «servizio coi
fiocchi» reso al «fascismo antimassonico» e «antigiustinianeo ». (...) Ciò che non convinceva il
giovane studioso fiorentino era (...) il tentativo di espungere del tutto la massoneria — e con essa la
tradizione laica, illuminista e rivoluzionaria — dal crogiuolo di forze e movimenti che avevano
generato il Risorgimento nazionale. (...) Nel periodo fra le due guerre la linea interpretativa
suggerita da Luzio fu comunque recepita, sebbene con sfumature critiche e qualche netto distinguo,
da alcuni fra i maggiori studiosi dell’età risorgimentale: da Michele Rosi a Benedetto Croce, da
Piero Pieri a Renato Soriga. Quest’ultimo in particolare, pur non discostandosi nella sostanza da
queste valutazioni, anticipò in certa misura le ipotesi interpretative cui sarebbe approdata la
storiografia più avveduta del secondo dopoguerra. «La Massoneria — osservò — se non poté
esercitare fra noi una propria azione specifica, come lo attesta la mediocrità desolante delle sue
manifestazioni intellettuali, pur non di meno, mercé il giuoco suggestivo dei suoi simboli mistico-
sociali fu l’ardente crogiuolo in cui le contraddittorie aspirazioni degli uomini del nostro primo
Risorgimento trovarono quelle possibilità d’intesa, che le secolari barriere politiche ci avevano
vietato sino allora di costituire».
L'INFLUSSO FRANCESE - In effetti, sotto questo profilo fu assai importante la nascita del
Grande Oriente d’Italia, avvenuta a Milano nel 1805, che sancì l’aggregazione delle numerose
logge sparse nella penisola sotto un unico centro organizzativo nazionale. Così come non è privo di
significato il fatto che la carica di gran maestro fosse affidata a Eugenio di Beauharnais, da poco
insediatosi come viceré del Regno d’Italia. Più avanti si costituì poi un Grande Oriente napoletano,
che fra il 1806 e il 1808 fu guidato dal re di Napoli Giuseppe Napoleone e poi da Gioacchino
Murat. (...) Fallito il tentativo di riforma ordito intorno al 1820 da Francesco Saverio Salfi,
rivelatasi priva di sbocchi pratici anche l’iniziativa presa nel 1822 da Buonarroti di rilanciarne le
sorti attraverso una semplificazione dei rituali e delle procedure iniziatiche, la massoneria uscì di
fatto dalla scena pubblica. (...) Su questa eclissi dell’istituzione liberomuratoria pesarono non poco
le reiterate scomuniche della Chiesa, la dura repressione poliziesca e l’opera sistematica di
epurazione (...) L’unica città in cui il tessuto associativo massonico, intrecciato con quello settario
e con le trame cospirative, sembrò conservarsi per tutto il periodo risorgimentale, sebbene
sfilacciato e indebolito, fu Livorno. (...)
DA ASPROMONTE A MENTANA - Un discorso parzialmente diverso va fatto per la fase
conclusiva del Risorgimento, ossia per il periodo racchiuso fra l’impresa dei Mille e la breccia di
Porta Pia. Nel decennio fra il 1860 e il 1870 la massoneria ricomparve in Italia e conobbe un rapido
e diffuso irradiamento nell’intera penisola. In questi anni, addirittura, furono attive varie
obbedienze massoniche, la principale e più duratura delle quali, il Grande Oriente Italiano (poi
Grande Oriente d’Italia) si ricostituì a Torino sul finire del 1859 per iniziativa perlopiù di esponenti
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liberali gravitanti intorno alla Società nazionale e politicamente vicini a Cavour. Nel volgere di
poco tempo in questo sodalizio si irrobustì però la componente democratica di matrice garibaldina,
che nel 1864 riuscì persino a eleggere Garibaldi alla carica di gran maestro e da allora in avanti
rappresentò la parte egemone della massoneria italiana. (...). La massoneria, pur predicando il
pacifismo e la fratellanza fra i popoli sposò in pieno la causa dell’indipendenza e dell’unificazione
del paese (...) Molti fratelli parteciparono come volontari alla spedizione di Aspromonte, prima
della quale, in Sicilia, Garibaldi provvide all’iniziazione massonica di quasi tutto il suo Stato
Maggiore. Ancor più esteso, in quanto privo delle laceranti divisioni politiche prodotte
dall’episodio di Aspromonte, fu il coinvolgimento dei massoni nella guerra contro l’Austria del
1866. Così come non pochi fratelli seguirono nuovamente Garibaldi nella sfortunata spedizione di
Mentana del 1867 (...) ❖
Articolo n. 8
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Francesco Agnoli, “Abbasso il Risorgimento”
da Il foglio, 26 settembre 2009
A 150 dall'Unità si preparano le celebrazioni. Solo che stavolta, causa la crisi economica, i fondi
sono pochi e quindi il fiume di retorica a pagamento forse non ci sommergerà. Chi scrive non
sogna un'Italia preunitaria, né la divisione del paese, che oggi non interessa a nessuno. Anche la
Lega ha utilizzato quest'idea più che altro come slogan, per farsi strada nel dibattito sul
federalismo. E con indubbi risultati.
Epperò, senza pensare affatto a improbabili nostalgie, è giusto piantarla con i miti fondatori.
Altrimenti non si capisce nulla della nostra storia recente: dell'emigrazione di massa post unitaria;
dell'aggravarsi del fenomeno del brigantaggio in meridione, dopo il 1960; della politica di Giolitti
verso il sud del paese; della partecipazione dell'Italia a quell'"inutile strage"che fu la Prima guerra
mondiale; dello strapotere torinese e agnelliano nella storia italiana; dell'adesione delle plebi
meridionali al fascismo, nel quale spesso videro una maggior attenzione alle loro esigenze; della
nascita della Lega in Sicilia, all'indomani della Seconda guerra mondiale, prima, e della Lega
veneta e lombarda al nord, poi; infine, del partito del sud di cui si parla oggi.
Ammettiamolo: Garibaldi, Cavour, Mazzini non hanno fatto risorgere nulla. Da cosa doveva
risorgere la patria delle università, della scienza, della medicina, dell'arte, di Dante, Giotto,
Cimabue, Petrarca? La storia degli stati preunitari è storia sovente gloriosa, di Repubbliche come
Genova e Venezia, che hanno dominato i mari, di ducati come quelli di Mantova e Parma, delle
decine di capitali che costellavano la Penisola… Insomma, il "bel paese"dove i romantici venivano
a godere l'arte, la poesia, la musica, la buona cucina…
Da cosa dovevamo risorgere, se non, come voleva Cavour, dalle tenebre della storia cristiana?
L'unità politica ed economica era forse un'esigenza, benché i popoli della Penisola non ne
sapessero nulla. Anche Pio IX e buona parte del clero italiano l'avrebbero appoggiata. Nei primi
anni del Risorgimento non mancavano i sacerdoti e i seminaristi che partivano volontari, che
agitavano la coccarda tricolore nelle strade, che si arruolarono nella Prima guerra di indipendenza.
Ma ad un certo punto non fu più possibile farlo, perché si capì che chi si stava appropriando del
movimento di unificazione voleva un'Italia elitaria, "illuminata", che tagliasse le sue radici col
passato. L'unità avrebbe potuto nascere per consenso, con la dovuta calma e cautela, federando
stati, culture, economie diverse, e mantenendo uguali diritti per tutti. Coniugando la storia e i
costumi del nord con quelli del centro e del sud. Invece Garibaldi, Mazzini, Cavour, le sette
segrete, con l'appoggio di parte della borghesia capitalista, puntarono a fare dell'Italia un'appendice
del Piemonte, con l'ausilio non degli italiani, ma dell'esercito di Napoleone e dei soldi
dell'Inghilterra.
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Ha scritto Antonio Gramsci: "I liberali concepiscono l'unità come allargamento dello stato
piemontese e del patrimonio della dinastia, non come movimento nazionale dal basso, ma come
conquista regia…". Si volle dunque fare dell'Italia un paese "liberale", nel senso di borghese, dove
contadini e operai non erano neppure considerati, mentre i diritti dei più ricchi erano garantiti
dall'apertura delle frontiere, da leggi speciali a vantaggio di determinate industrie e di certe
categorie di persone, e dal diritto di voto al due per cento della popolazione (i benestanti).
Anche da queste miopie derivarono non solo i problemi del sud, ma anche i fatti di Milano del
1898, l'uccisione di Umberto I e un socialismo massimalista che avrebbe poi formato spiriti
violenti e totalitari come quelli di Mussolini e di tanti uomini del Pcd'I. Non è un caso che Torino,
per una sorta di vendetta della storia, dopo essere stata la prima capitale dell'Italia borghese,
liberale, industriale, sia divenuta poi una delle patrie del comunismo italiano, ed infine la meta di
migliaia e migliaia di meridionali e di extracomunitari.
La politica di Cavour fu quella, furbesca, ma non certo patriottica, del carciofo: annettere gli stati
italiani uno alla volta, come si sfoglia un carciofo, cercando di volta in volta alleati ingenui, da
scaricare al momento opportuno. Persino Napoleone III fu concepito come un uomo da
addomesticare con una bella donna e promesse irrealizzabili. Il tutto in vista di un centralismo alla
francese, giacobino, che rinnegava le storie molteplici, e persino la varia geografia, del nostro
paese. Riguardo alla chiesa si volle servirsi di Pio IX, contro l'Austria, con cui si cercò a tutti i costi
un casus belli: e così facendo prima trascinarono il Papa, controvoglia, nella guerra del 1848, poi lo
dipinsero come un mostro reazionario, nemico della modernità.
A tirare le fila di tutto, quei politici piemontesi, che si definivano liberali, ma che per raggranellare
i soldi per le loro imprese espansionistiche confiscavano i beni della chiesa e indebitavano l'erario
statale, in attesa poi di riempirlo nuovamente, ai danni degli stati conquistati; che mandavano a
morire i soldati sabaudi in Crimea, a migliaia di chilometri da casa, e avrebbero poi imposto una
leva militare obbligatoria lunghissima, negli stati italiani ove non esisteva.
In effetti la Prima guerra di indipendenza costò 295 milioni di lire, cioè quanto lo stato spendeva in
due anni e mezzo di vita pacifica; costò tanti uomini, troppi per un paese così piccolo.
Mentre i Savoia concepivano i loro sogni espansionistici, pronti a servirsi di chiunque, e creavano
uno stato a misura di borghesia rampante, a costruire scuole, tipografie, falegnamerie per i poveri
piemontesi, per gli orfani e le vittime dell'industrializzazione accelerata di Cavour, ci pensava
Giovanni Bosco; mentre i malati incurabili li raccoglieva, nella sua splendida opera della
Provvidenza, il canonico Cottolengo. I diritti dei più forti erano garantiti, quelli dei deboli ignorati.
In questo il regno dei Savoia era all'avanguardia: "Fino al 1844 i rapporti tra apprendisti, garzoni di
bottega e lavoratori erano regolati, in Piemonte, da norme precise che difendevano il giovane e
obbligavano il padrone a insegnargli bene il mestiere e a non sfruttarlo. Un editto reale del 1844
(strappato dai liberali in nome del progresso) ha abolito queste norme. Da quel momento i garzoni
e i giovani operai sono rimasti soli e indifesi nelle mani del padrone. A otto, nove anni vengono
gettati in un lavoro estenuante di 12-15 ore al giorno, in mezzo ad abusi, scandali, sfruttamenti,
negli ambienti malsani delle fabbriche e delle officine". Nello stesso 1844 i ragazzini al di sotto dei
dieci anni impiegati nelle fabbriche piemontesi sono quasi ottomila. Lo stesso Cavour, favorevole
“150 anni di un’Italia senza memoria” Villa Nazareth 21 - 24 ottobre
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al liberismo, mentre Giovanni Bosco raccoglie questi ragazzi per le strade, gli insegna un mestiere
e cerca di strappare per loro la domenica libera e contratti migliori, afferma: "Forse troppo poco ci
curiamo di sapere che da noi, nei nostri opifici, le donne e i fanciulli lavorano quasi un terzo di più,
se non il doppio di quello che si lavori in Inghilterra" (Teresio Bosco, "Don Bosco", 1988, p. 201)
Dopo la vittoria, grazie ai francesi, nella Seconda guerra d'indipendenza, i sabaudi si sarebbero
spinti al sud, tramite gli avventurieri di quel Garibaldi che nelle sue memorie scriveva: "Qui nella
contaminata vecchia capitale del mondo, si disputerà sulla verginità di Maria che partorì un bel
maschio sono ora 18 secoli (e ciò importa veramente molto alle affamate popolazioni);
sull'eucarestia, cioè sul modo di inghiottire il reggitore dei mondi, e depositarlo poi, in un Closet
qualunque. Sacrilegio che prova l'imbecillità degli uomini che non regalano d'un pugno di fango il
nero, che sì sfacciatamente si beffa di loro. Finalmente sull'infallibilità di quel metro cubo di
letame che si chiama Pio IX… Un'altra volta, dal balcone del palazzo della Foresteria io dicevo a
codesto popolo: Il più atroce nemico dell'Italia è il Papa!"(Giuseppe Garibaldi, "Memorie",
Rizzoli).
Cosa fece Garibaldi in meridione? Basterebbe leggere gli autori siciliani che credettero in lui, da
Giovanni Verga a Luigi Pirandello. Oppure quelli che non gli credettero mai: tutti quelli di cui è
stata cancellata in buona parte la memoria, come i sessanta vescovi meridionali allontanati dalle
loro sedi "per trame politiche contro il regno d'Italia". Bisognerebbe ricordare coloro che divennero
"briganti", non di rado per lottare contro l'occupazione; coloro che nei plebisciti avrebbero votato
contro l'Unità, ma poi si trovarono ingannati, perché quella che doveva essere la loro prima
esperienza di voto libero, fu invece una beffa vera e propria. Tomasi di Lampedusa ce la descrive
ne "Il gattopardo", attraverso la figura di Ciccio Tumeo: "Io, eccellenza, avevo votato no… e quei
porci in municipio si inghiottono la mia opinione, la masticano e poi la cacano via trasformata
come vogliono loro. Io ho detto nero e loro mi fanno dire bianco".
Dopo Garibaldi, Vittorio Emanuele II e le leggi marziali applicate nel meridione. Dovunque
esercito, coprifuoco, pena di morte eseguita con estrema facilità; deportazione sulle montagne del
nord; prefetti e sindaci piemontesi, di nomina governativa, in quelle terre che si proclamavano
"liberate", e, infine, l'acquisizione della complicità di parte della nobiltà e della borghesia
meridionale con la cessione di terre del demanio, di proprietà ecclesiastiche confiscate, e di posti a
sedere nel Senato di nomina regia, e cioè, ancora una volta, piemontese.
Ne "Il gattopardo" questo tentativo di comperare le élite meridionali, allo scopo di completare la
piemontesizzazione di tutto, è descritto nell'incontro tra il messo del re, Chevallay, dal cognome
poco italico, e il principe di Salina, che alla proposta di far parte del nuovo Senato, risponde: "Stia
a sentire, Chevalley; se si fosse trattato di un segno di onore, di un semplice titolo da scrivere sulla
carta da visita e basta, sarei stato lieto di accettare…"; ma "in questi sei ultimi mesi da quando il
vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché
adesso si possa chiedere ad un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e di portarle a
compimento; adesso non voglio discutere se ciò che si è fatto è stato male o bene; per conto mio
credo che parecchio sia stato male".
“150 anni di un’Italia senza memoria” Villa Nazareth 21 - 24 ottobre
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È proprio per la rilettura della storia del recente passato che in meridione pullulano, ultimamente,
le riviste e i libri revisionisti che ribaltano la storia degli ultimi 150 anni, e presentano Garibaldi per
quello che fu veramente. Per questo le infinite vie dedicate all'"eroe dei due mondi" vengono ormai
sempre più spesso eliminate e sostituite, con una certa enfasi, da sindaci e consigli comunali
iconoclasti e stufi della retorica. Certo non basterà a risollevare un sud in perenne difficoltà, ma
personalmente penso che questa revisione, se condotta senza inutili vittimismi e con un certo
patriottismo "leghista", possa fare più bene al nostro sud, risvegliando in esso un sano orgoglio,
delle ennesime celebrazioni che vogliono trasformare i fatti storici in mitologia patria. Dietro il
fenomeno Lombardo, in ogni modo, c'è anche questo desiderio di rivincita, questa revisione del
Risorgimento, che non deve però divenire volontà di rifugiarsi nel pozzo oscuro dei soldi "romani".
Sarebbe un paradossale ricadere nel centralismo risorgimentale. ❖
Articolo n. 9
Angelo Picariello, “Quando il meridione era più florido”
da Avvenire, 24 giugno 2010
Oggi l’Alfa Romeo compie cento anni. «Ma l’Alfa avrebbe chiuso per fallimento dopo pochi ann i,
se non fosse intervenuto il napoletano Nicola Romeo a salvarla. Altrimenti, altro che
centenario…». Carmine De Marco è un imprenditore informatico che si diverte (ma neanche tanto)
“150 anni di un’Italia senza memoria” Villa Nazareth 21 - 24 ottobre
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a riscrivere la storia d’Italia. Ovvero, l’unità d’Italia vista dall’ex Capitale del Regno delle Due
Sicilie. Un must, per gli appassionati del genere sul Web, è il suo libro Revisione critica della storia
dell’unità d’Italia. Un libro pubblicato in proprio, quasi da editoria clandestina, ma che continua a
circolare grazie al passaparola dei convegni storici, della Rete e dei social network. Ed è pronta già
l’edizione riveduta e corretta: «La conquista e la colonizzazione del Meridione d’Italia», ovvero
«Federalismo fiscale? Sì, ma prima facciamo i conti»: «E oggi – dice De Marco – chi vuole
chiudere Pomigliano non conosce la storia, o fa finta di dimenticarla».
Ma che c’entra l’unità d’Italia con i cento anni dell’Alfa?
«C’entra eccome. Perché quella vicenda è emblematica di come l’industria meridionale, fiorente
fino a 150 anni fa, in special modo quella metalmeccanica, già da mezzo secolo fosse stata
abbandonata a sé stessa per privilegiare quella del Nord. L’ingegner Nicola Romeo, ricordiamolo,
era un geniale imprenditore metalmeccanico che aveva diversi, importanti stabilimenti nella zona
Napoli. Licenziatario per la costruzione di camioncini di trasporto truppe della francese Darracq,
allo scoppio della Prima guerra offrì allo Stato italiano il suo prodotto a prezzo vantaggioso, ma si
sentì rispondere che esso acquistava solo prodotto nazionale. Cioè del Nord. Così accettò di
rilevare l’A.L.F.A (Anonima Lombarda Fabbrica Automobili), che aveva i suoi stabilimenti a
Portello, presso Milano, ed era in liquidazione. Finita la guerra, nel 1918, fu inizialmente cambiato
il nome della società in "Società Anonima Ing. Nicola Romeo e Co.". Ma si sa che i napoletani
sono buoni di cuore: infatti Romeo non infierì, e al termine di una lunga vertenza con i vecchi
proprietari dell’Alfa, non mise sullo scudetto il Vesuvio, ma lasciò il biscione milanese. E tutti
oggi si lamentano per l’Alfa-Sud di Pomigliano, poi passata alla Fiat, "regalata" ai meridionali
"sfaticati" dai generosi industriali settentrionali».
Qual è invece, a suo avviso, la storia vera dell’industria del Sud?
«La verità è che il sistema bancario unitario ha aiutato solo il Nord (vedi la crisi Fiat del 1907)
mentre la fiorente industria del Sud fu abbandonata al suo destino: stabilimenti tessili come le Reali
fabbriche di San Leucio o la grande cartiera di Fibreno, per citare solo due casi, non ebbero
analogo aiuto e chiusero. Al Nord Fiat, Ansaldo, Pirelli (l’elenco sarebbe lungo) prosperarono con
commesse e aiuti pubblici mentre il Reale Opificio di Pietrarsa, che in epoca borbonica era il più
grande stabilimento meccanico, fu lasciato morire. Oggi si vuol fare fare il federalismo? Bene, ma
prima si saldino un po’ di conti».
Facciamoli, allora, i conti. Purché non si arrivi alle nostalgie borboniche...
«Non sono nostalgico dei Borbone. E non metto in discussione l’Unità d’Italia. Ma purtroppo, si
sa, la storia la scrivono i vincitori. Guardiamo invece ai fatti, ai dati. Il primo, cui tengo molto, è la
mortalità infantile, fra i più indicativi della situazione sociale e della profilassi. Ebbene, nel 1861,
nel primo anno di vita, su 100 bambini nati vivi in Italia, ne morivano al Nord 54 e al Sud 46.
Invece, dopo pochi anni la situazione si invertì. Da quel momento la mortalità infantile del Nord
“150 anni di un’Italia senza memoria” Villa Nazareth 21 - 24 ottobre
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diminuì costantemente e quella del Sud salì. E saltando al 2008, su 100 bambini nati vivi ne
muoiono, durante il primo anno di vita, 40 al Nord e 60 al Sud. Ma torniamo all’industria: al Nord
gli addetti del settore, 150 anni fa, erano solo l’11,8 per cento, mentre al Sud il 16,3. Il solo
cantiere navale di Castellammare di Stabia impiegava 1.800 persone. La filatura della seta, al Sud,
impiegava 20 mila operai in circa 600 opifici; 10mila erano addetti ai tabacchi. La cartiera del
Fibreno in Terra di Lavoro, oggi tristemente nota come terra dei Casalesi, produceva 1.130
chilometri di carta, e dava lavoro a 500 persone. Invece, a inizi ’900, nel Nord gli addetti
all’industria aumentarono al 14,7 per cento e nel Sud scesero al 9,8. E, appunto, il caso Alfa è
emblematico».
E lei come spiega tutto questo?
«Il sistema bancario unitario sostenne solo il Nord, attuando di fatto il saccheggio delle finanze del
Regno delle due Sicilie. Basti ricordare che le riserve auree del Banco di Napoli ammontavano a 48
milioni, quasi il doppio (26 milioni) della Banca nazionale, nata dalla fusione della Banca
Nazionale Sarda, della Banca Nazionale Toscana e della Banca Toscana di Credito. Furono anche
istituite 24 nuove tasse per risanare il debito del Piemonte, quattro volte maggiore di quello del
Sud. E dalla sola vendita dei beni ecclesiastici e demaniali del Sud lo Stato ricavò 500 milioni».
Oggi però ricordare tutto questo può costituire un formidabile alibi per il Sud che non si
rimbocca le maniche. Non trova?
«Ma non raccontare questo processo storico significa marchiare l’arretratezza del Sud quasi come
fattore cromosomico, come malattia inguaribile che porta emigrazione e criminalità. Invece io dico
sempre che questi fatti hanno trasformato i cittadini meridionali da lupi in cani, che cioè non sanno
più procurarsi il cibo da soli, ma lo attendono dal padrone al quale devono scodinzolare. Solo
capendo questo si potrà invertire la rotta, garantendo un’unità del Paese che sia rispettosa della
verità storica».❖
Articolo n. 10
Franco Cardini, “I cattolici che fecero l’impresa - Intervista a
Andrea Riccardi”
da Avvenire, 3 marzo 2010
«Per il centenario dell’Unità d’Italia del 1961, mio padre mi portò a Torino: ricordo i musei,
l’esaltazione del Risorgimento, la monorotaia che attraversava lo spazio espositivo. Ma ricordo
“150 anni di un’Italia senza memoria” Villa Nazareth 21 - 24 ottobre
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soprattutto il clima di un Paese che guardava al futuro. E futuro in quegli anni significava sviluppo
e lavoro per tutti. Cinquant’anni dopo, ho la sensazione che l’Italia abbia un po’ perso l’attitudine a
guardare lontano». Andrea Riccardi, professore di Storia contemporanea alla terza università di
Roma e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, ritiene che le celebrazioni per il 150°
anniversario della nascita dello Stato italiano dovrebbero costituire l’occasione per una riflessione
«con categorie nuove non solo sul passato, ma sull’oggi e sul domani» del nostro Paese.
Professor Riccardi, c’è chi ritiene che i mali italiani siano tutti legati a nodi irrisolti lasciati
dal Risorgimento e dall’Italia post-unitaria. Lei che ne pensa?
«Io non concordo con la tesi di chi spiega tutto individuando una sorta di peccato d’origine.
Sarebbe troppo facile, la storia è più complessa. Non bisogna dimenticare che il nostro Paese che
ha avuto sempre una cultura unitaria italiana – anche se a livello di <+corsivo>élites<+tondo> –
molto prima del processo d’unità. I 150 anni di storia italiana non riguardano solo il Risorgimento.
Ci sono state due guerre mondiali, il fascismo, la ricostruzione. E l’ultimo mezzo secolo è la
stagione del boom economico, della Repubblica, sono, se vogliamo, gli anni democristiani. È facile
discutere di Garibaldi, Pio IX, Mazzini e Cavour. Più difficile, ma sicuramente più fruttuoso per
capire l’Italia di oggi, affrontare una serie di buchi neri della nostra storia più recente: dal fascismo
fino alla stagione di Tangentopoli e oltre. Una stagione complessa, discussa e discutibile, ma anche
una storia ricca di dignità».
Uno dei capitoli irrisolti del Risorgimento fu la questione cattolica.
«Ludovico Montini, il fratello di Paolo VI, mi raccontò l’amara esperienza dei giovani cattolici
durante la Grande Guerra: ora, dicevano, ci hanno visto combattere e non potranno più dire che non
siamo italiani. In quella frase si intuiva la condizione di divorzio fra il movimento cattolico e la
Nazione, dovuto all’irrisolto problema dell’indipendenza del Papa, alla breccia di Porta Pia,
eccetera. Nonostante la politica anticlericale dei governi unitari, con il passare degli anni la
maggior parte dei cattolici italiani non contestò l’Italia unita, ma chiese semmai il riconoscimento
dei diritti e dello spazio del papa. Molta acqua è passata sotto i ponti: basti pensare che nel 1919
don Luigi Sturzo fondava un partito nazionale d’ispirazione cristiana. In anni più recenti, non posso
dimenticare che il cardinale Giovanni Battista Montini, in occasione del centenario dell’Italia unita,
disse che era stata la Provvidenza a far finire la fase del potere temporale. Mentre Giovanni Paolo
II lanciò, nel marzo 1994, in un momento in cui sembrarono prevalere spinte secessioniste, la
―Grande preghiera per l’Italia‖».
Si può sostenere che l’unità d’Italia abbia favorito la nascita di un cattolicesimo nazionale?
«Le diocesi italiane prima dell’unità erano dei mondi a parte. Basti pensare al Regno borbonico,
dove – come notò Gabriele De Rosa – ci fu una sorta di barriera nei confronti del Concilio di
Trento. O al mondo toscano o a quello piemontese, permeato di elementi di gallicanesimo.
L’unificazione nazionale diventa un momento di unità anche per la Chiesa: si formano l’Opera dei
Congressi, l’Azione cattolica; i salesiani dal Piemonte si diffondono nel Mezzogiorno; i
rogazionisti fanno il cammino inverso. La stessa Conferenza episcopale italiana, voluta da Pio XII
e rafforzata da Paolo VI, nasce dall’idea, maturata negli anni post-unitari, di una Chiesa italiana. E,
dopo quasi sessant’anni dalla sua fondazione, la Cei sta ad attestare non solo la nascita e
l’affermazione di un cattolicesimo italiano, ma anche di un episcopato che vuole vivere nella
nazione, condividendone la storia complessa e i momenti difficili».
“150 anni di un’Italia senza memoria” Villa Nazareth 21 - 24 ottobre
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La questione meridionale sembra però essere un problema che ci trasciniamo dai tempi di
Cavour a oggi…
«Il dibattito sul meridione è stato caratterizzato da due teorie opposte: da una parte si parlò di
annessione del Sud, dall’altra ci fu la polemica sulla crescente meridionalizzazione delle classi
dirigenti. C’era del vero in entrambi le affermazioni, ma complessivamente credo si possa dire che
oggi, nonostante la presenza di leghe settentrionali e movimenti meridionali, il Paese sia più unito
di qualche decennio fa. Riproporre pertanto nel Duemila l’antica categoria della contrapposizione
Nord-Sud, credo sia un errore di prospettiva. Non perché non vi siano divari, ma perché la carta
geografica, così come la si vedeva mezzo secolo fa, va aggiornata. Intanto, non esiste un
Mezzogiorno, ma diversi Mezzogiorni: non sfugge a nessuno che la situazione sociale e culturale
in Sicilia sia diversa da quella della Puglia o della Campania. Poi le grandi città stanno via via
perdendo una caratterizzazione regionale netta e, infine, l’Italia da terra di emigrazione è
diventata terra di accoglienza».
C’è l’annosa questione della scarsa propensione al senso civico, rispetto agli altri europei, dei
nostro connazionali. Gli italiani sono ancora da fare?
«Sono note le polemiche sul familismo italiano, la scarsa attitudine al senso dello Stato, la presenza
del cattolicesimo che, a differenza dei Paesi protestanti, avrebbe educato poco all’etica della
responsabilità. Sono discorsi complessi. Credo che, in estrema sintesi, si possa dire questo: per una
serie di fattori, gli italiani non saranno mai, in quanto a senso dello Stato, come i popoli scandinavi.
Ma in Italia si è sviluppata una rete comunitaria, locale e familiare che ha supplito alle carenze
pubbliche in nome di una solidarietà concreta: pensiamo solo alla diffusione del volontariato. C’è
stata a questo riguardo la polemica, che mi ha un po’ infastidito, sui ―bamboccioni‖, ovvero sui
ragazzi che in Italia compiono gli studi universitari continuando ad abitare nella casa dei genitori.
Ma dove sta scritto che sia meglio che questi ragazzi usufruiscano dei servizi dello Stato piuttosto
che della propria famiglia?». ❖
Articolo n. 11
Claudio Magris, “Patria Italia unita sempre irredenta”
da Il Corriere della Sera, 10 gennaio 2010
«Una d' arme, di lingua e d' altare, di memorie, di sangue e di cor». Nessuno pretende che nel 2011
si celebrino i centocinquant' anni dell' unità d' Italia con questi versi del Marzo 1821 di Manzoni, il
nostro scrittore nazionale per eccellenza. Nell' attesa della ricorrenza, l' anno prossimo vedrà
presumibilmente, oltre alle discussioni sulle iniziative e i progetti di festeggiamenti e sui loro
meriti o carenze, soprattutto polemiche su quell' «una» e sulle contraddizioni ed errori impliciti nel
processo che ha portato all' unità d' Italia. Indubbiamente quei versi manzoniani sono messi in
difficoltà dal crescente divario - non solo economico e sociale, ma anche politico, pure all' interno
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della coalizione che governa il Paese - fra Nord e Sud, dalle spinte verso autonomie e localismi
sempre più accentuati, dalle rivendicazioni di identità etniche e linguistiche talora contrapposte al
senso stesso dell' Italia unita, dalla presenza e dall' arrivo di immigrati dai più diversi paesi e dalle
più diverse culture, con le contrastanti reazioni che tutto ciò suscita. Spesso parlare dell' unità d'
Italia diviene un' arringa d' accusa al processo che l' ha realizzata. Se nel 1961, nella ricorrenza del
centenario, prevaleva un senso forte del Paese e della Patria che poteva facilmente scadere nella
retorica, ora prevale un' antiretorica nazionale, altrettanto scontata ed enfatica. Molte critiche al
processo di unificazione sono più che giustificate, purché non vengano avanzate con la supponenza
di chi ignorantemente scopre l' acqua calda. La denuncia della non risolta questione meridionale -
lacerazione fondamentale del nostro Paese e della sua storia - è più che giusta, ma non è una novità.
Il romanzo L' alfiere di Alianello, che racconta l' impresa dei Mille dal punto di vista dei borbonici
vinti, è del 1943; il cancro del trasformismo italiano, denunciato nel Gattopardo uscito nel 1958, è
già presente nel capolavoro che l' ha ispirato e che è ancora più grande, I Viceré di Federico De
Roberto, pubblicato nel 1894. Le prime inchieste dei grandi meridionalisti che mettono a nudo le
piaghe del Sud e la sua separatezza, quelle di Franchetti e Sonnino, sono del 1875 e 1876 e il
grande libro di Massimo Salvadori sul mito del buon governo e la questione meridionale è del
1960. Come ha scritto di recente in un forte libro Giorgio Ruffolo, c' è stato un Risorgimento caldo,
ma anche un Risorgimento freddo. Riprendere quei temi già studiati è utile, purché lo si faccia
senza superbia intellettuale e senza acredine, con quella critica al proprio Paese che dev' essere
talora patriotticamente dura, ma appunto patriottica. Tutti i governi, e quello attuale in particolare,
accusano falsamente di anti-italianità chi li critica, ma la critica, per non meritare questa accusa di
comodo, deve nascere dall' amore, come l' ira di Dante per la «serva Italia, di dolore ostello». In
particolare, è scorretto fare un uso politico della Storia, servirsi di Garibaldi o del brigantaggio
meridionale per la politica del momento. Certamente esiste un supponente dileggio dell' Italia che
merita a chi se ne compiace l' accusa di «anti-italiano»; per esempio a chi, magari solo per aver
trascorso un periodo in qualche università americana - cosa che ormai capita a quasi ogni studioso -
credendosi perciò chissa chi, gioisce di sputare sull' università italiana. Ma anche in questo caso
non si tratta solo di mancanza di carità e di rispetto, bensì, come del resto sempre ove mancano
carità e rispetto, di deficit d' intelligenza. Il rapporto fra Nord e Sud è forse il più vistoso, ma non
certo l' unico nodo irrisolto della storia d' Italia. Innumerevoli problemi politici, economici, sociali,
religiosi si intrecciano, nel bene e nel male, alle vicende di questi centocinquant' anni e non è
possibile nemmeno alludervi. Un altro nodo, che sarà centrale nelle discussioni, è rappresentato
dalla guerra civile del ' 43-45 e dallo scontro fra chi vede nella Resistenza la morte della Patria e
chi invece vi vede una sostanziale ancorché contraddittoria ma liberatrice rinascita. Anche in
questo caso, il mito retoricamente celebrativo della Resistenza dominante per molti anni - che,
come ogni mito preso alla lettera o usato politicamente, rimuove e mistifica le contraddizioni reali -
è in parte responsabile di tante denigrazioni odierne, anch' esse spesso strumentali e faziose,
settariamente - e dunque retoricamente - concentrate solo sugli aspetti negativi. Talora le stesse
persone che, ormai parecchi anni fa, militando in formazioni di estrema sinistra, sottacevano i
crimini commessi in nome della Resistenza, ora, voltata gabbana, prosperano additando solo quei
crimini. Nemmeno i partigiani erano un popolo di santi, eroi e navigatori, come il duce pretendeva
fossero gli italiani, e dalla loro vittoria non è nato, come alcuni pateticamente credevano, un mondo
perfetto di giustizia e di pace. Ma è nata - non solo grazie ad essi, ma anche grazie ad essi - un'
Italia democratica, ed è già molto. La Resistenza fa parte del Dna della nostra storia e non si potrà
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celebrare l' Italia rimuovendo o negando il ruolo che essa ha avuto nel suo destino. Per capire più a
fondo il complesso retaggio che ci costituisce e le contraddizioni dell' Italia e del patriottismo, è
ancor più necessario riandare a un momento tragico, rivelatore e costitutivo del sentimento di
italianità: alla prima guerra mondiale o meglio alla passione patriottica con la quale gli irredentisti
triestini e giuliani, allora sudditi dell' impero absburgico, hanno vissuto - in modi diversi,
nazionalisti e imperialisti o democratici ed europeisti - l' attesa del congiungimento all' Italia, l'
apocalissi della guerra e la gioia - presto divenuta sofferta, polemica, ma pur sempre amorosa
delusione - di essere divenuti italiani. Questo amore fedele e severo è un lievito fondamentale dell'
unità nazionale. Ne ha scritto di recente - in un libro eccellente nella ricostruzione storica, nell'
interpretazione etico-culturale e nell' esposizione puntuale ed ariosa, che si legge come un racconto
- Renate Lunzer, una studiosa austriaca. Irredenti redenti. Intellettuali giuliani del ' 900 s' intitola la
traduzione italiana di Federica Marzi, introdotta da un chiarificatore saggio di Mario Isnenghi
(edizioni Lint). Il libro di Renate Lunzer costituisce un affresco originale di quella grande stagione
culturale triestina, attraverso ritratti nuovi e approfonditi delle sue figure più e meno note - Svevo e
Saba, Slataper e Stuparich, Spaini e Bazlen, Marin e Voghera o Enrico Rocca e altri ancora -
inserite nel vibrante contesto storico dell' anteguerra, della guerra e del dopoguerra. Ma, oltre e più
che una galleria di maggiori e minori protagonisti e un vivacissimo panorama storico-letterario,
Irredenti redenti è un contributo essenziale alla comprensione di un momento chiave e pressoché
conclusivo di quel processo di unificazione dell' Italia che ci si prepara a ricordare. Se la Grande
Guerra segna per così dire la conclusione del Risorgimento - poi regredito e in parte ricompiuto
alla fine della seconda guerra mondiale - è l' irredentismo a costituire, nelle sue drammatiche
contraddizioni, il lievito che porta a quella conclusione e il momento fondamentale cui tornare per
capire lo sviluppo della coscienza nazionale. Renate Lunzer mette in luce le due opposte anime
dell' irredentismo, o meglio i due irredentismi, radicalmente diversi: quello nazionalista -
imperialista, aggressivo verso le altre nazionalità e specialmente verso gli slavi, e quello
mazziniano, europeista, che sogna un' Europa fraterna e democratica. A quest' ultimo appartengono
i più grandi scrittori e intellettuali giuliani, i quali combatteranno sui campi di battaglia l' impero
absburgico, ma si faranno mediatori della grande cultura di quel mondo che contribuiscono a
distruggere, transfrontalieri dello spirito che operano per il superamento di tutte le frontiere e si
trovano a costruire le sanguinose trincee della spaventosa guerra sul Carso. La tragedia è che l'
irredentismo nazionalista, culturalmente rozzo, uscirà vincitore dal grande massacro che creerà un'
Europa dilaniata, feroce e sempre più fratricida. Gli irredentisti democratici sopravvissuti
scopriranno, alla fine del conflitto, un' Italia ben diversa da quella che avevano sognato. Biagio
Marin, ad esempio, scopre «il solco» tra la Venezia Giulia divenuta italiana e l' Italia e la sua
delusione giunge al punto di chiedersi, in una lettera a Prezzolini, «se ho ancora una patria». Si
potrebbero citare molte testimonianze di questi italiani delusi, i migliori patrioti destinati a scoprire
che la Grande Guerra - vissuta quale mito di fondazione e rinascita della stirpe italica, come ha
scritto in un ottimo saggio Giorgio Negrelli - ha creato un' Europa terribile. Non solo gli italiani,
come ha scritto Walter Chiereghin, ma gli europei in generale si risveglieranno, da questo sogno, in
un incubo. Anni fa Giano Accame - già direttore del «Secolo d' Italia» e dunque ideologicamente
da me lontanissimo, persona la cui civile e schietta umanità sono lieto di aver conosciuto - mi
diceva, parlando della Grande Guerra, che, se allora egli fosse stato giovane, certamente vi avrebbe
partecipato con entusiasmo, ma che ora - quando me lo diceva - non era affatto sicuro che fosse
una scelta giusta e anzi ne dubitava fortemente. Pure l' irredentismo democratico - l' Italia migliore
“150 anni di un’Italia senza memoria” Villa Nazareth 21 - 24 ottobre
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- è stato vittima (e forse non poteva allora non esserlo) di quel sogno, allora comune a tutte le
nazioni in conflitto, di un' Europa libera e pacifica che sarebbe nata da quella guerra che si credeva
l' ultima e dalla quale si credeva sarebbe nato un uomo nuovo e fraterno. «Se sarà un maschio,
chiamalo Adam - disse alla moglie incinta, partendo per il fronte, il padre del futuro storico
austriaco Wandruszka - perché da questa guerra nascerà l'uomo nuovo». Come ha scritto Bettiza, la
Grande Guerra è stata la catarsi di questo dramma. I volontari triestini democratici l' hanno vissuta
con una coscienza progressivamente sempre più sofferta; come «cognizione del dolore», scrive
Renate Lunzer. Molti di quelli che sono tornati hanno continuato a battersi per la libertà e per la
democrazia, come Giani Stuparich, persuaso di «dover rendere conto a tutti di essere rimasto
vivo», esempio di limpida resistenza morale e di antifascismo. Il suo romanzo patriottico - forse fin
troppo - e risorgimentale Ritorneranno fu definito, ignobilmente, dall' ex irredentista fascista
Federico Pagnacco «disfattista e anti-italiano», vizi dovuti alla sua «razza non italiana» in quanto
figlio di madre ebrea. Così il fascismo - esso sì anti-italiano e distruttore della Patria - ricompensa
le medaglie d' oro come Giani Stuparich, fratello di un' altra medaglia d' oro, Carlo, non più
tornato. «L' infelice incontro con la Storia» - come scrive commossa Renate Lunzer - ha spinto
questi figli di un' Italia migliore - che, scrive Marin, era forse solo una loro esigenza morale - ad
amare l' Italia «nonostante», sferzandone i lati peggiori per renderla più degna, attirandosi così l'
accusa di «anti-italiani», mossa sempre dagli ipocriti ai puri. Essi hanno continuato a farsi
mediatori di cultura e di legame fra i popoli, a trasmettere all' Italia la grande letteratura della
Mitteleuropa distrutta. Vent' anni più tardi, molti di essi si sono trovati ad affrontare un orrore più
grande, come Ercole Miani, volontario più volte decorato nella prima guerra mondiale, vice di d'
Annunzio a Fiume, irriducibile militante della Resistenza, che fu torturato dall' infame banda
nazista Collotti, durante l' occupazione tedesca, senza cedere. L' incisivo, bellissimo libro di Renate
Lunzer dovrebbe forse capovolgere il suo titolo, non Irredenti redenti bensì redenti irredenti, ossia
tutt' altro che salvati dalla vittoria della causa per la quale avevano combattuto nel ' 15-18, ma
ostinati a continuare a credere in un' altra Italia, sentendosi non solo italiani ma qualcosa di più.
Sono forse loro i numi tutelari di questi nostri centocinquant' anni di storia. ❖
Articolo n. 12
Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, “Noi italiani senza memoria”
da Il Corriere della Sera, 12 febbraio 2010
Era questo il Paese che sognavano Ernesto, Luigi, Enrico e Giovanni Cairoli e tutti gli altri ragazzi
morti perché noi italiani stessimo insieme? E’ questa l’«Italia redenta, pura di ogni macchia di
servitù e di ogni sozzura d’egoismo e corruzione» che immaginava Mazzini nella lettera alla madre
Adelaide («Voi che li avete veduti sparire a uno a uno…») dove si diceva certo che la memoria di
quei fratelli sarebbe rimasta in eterno «simbolo a tutti del dolore che redime e santifica»? Mah…
Centocinquanta anni dopo, il nostro è uno strano Paese che non conosciamo bene. Un Paese che,
lasciandosi alle spalle secoli di povertà, violenza e degrado che ancora a metà dell’Ottocento
spinsero Charles Dickens a scrivere pagine cupe in Visioni d’Italia, ha vissuto tra mille
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contraddizioni decenni di recupero e sviluppo fino al formidabile boom che ci portò ai primissimi
posti nel mondo. Un Paese dai paesaggi bellissimi e insieme sfregiato da orrori urbanistici.
Traboccante di intelligenze, ma il più delle volte sprecate. Ricco come nessun altro di opere e città
d’arte ma incapace di sfruttare questo immenso patrimonio. Un Paese nel quale la burocrazia
soffoca le imprese, dove le tasse sono fra le più alte del pianeta, dove la classe dirigente, anziana e
aggrappata al potere, ostacola il ricambio. E dove il razzismo strisciante avvilisce la nostra storia di
emigranti. Un Paese pieno di energia ma anche impaurito, capace di straordinari slanci di solidarietà
come dopo il terremoto a l’Aquila ma anche esposto alle tentazioni di barricarsi, dal Nord al Sud, in
egoismi sovente gretti e suicidi che rischiano di portare alla disgregazione.
Un Paese spaesato. Che fa sempre più fatica a riconoscere le ragioni dello stare insieme. Che
giorno dopo giorno, liberandosi di certe forzature retoriche sabaude e poi fasciste che avevano
impomatato una certa idea di patria («Ed essa faremo co’petti, co’carmi / superba nell’arti, temuta
nell’armi / regina nell’opre del divo pensier ») sembra aver buttato via l’unica epopea che aveva.
Quella del Risorgimento. Il grande romanzo culturale, militare e sociale (pieno di colpi di scena e
avventure umane e tradimenti e slanci ideali e lutti e pathos ed errori e leggendari esempi di
dedizione) che altri avrebbero sbandierato con l’orgoglio di chi mostra la storia di terre e genti
divise da secoli che in pochi anni sanno diventare una nazione. Dove va un Paese che non ama la
propria storia?
Un Paese timoroso del suo futuro e infastidito quasi dal suo passato, come dimostrano le incertezze
e le insofferenze nella programmazione del Centocinquantenario? E’ quello che cercheremo di
scoprire con un lungo viaggio attraverso i luoghi della nostra memoria collettiva. Scopriremo che i
campi di battaglia sono diventati aree industriali forse oggi un po’ ammaccate ma floride, che dove
attraccarono i Mille ci sono ombrelloni e villette abusive, che a due passi da dove Garibaldi disse
«Obbedisco» comanda la camorra o si batte coraggioso un prete di frontiera. E magari scopriremo
anche che non solo l’Italia è un Paese vivo pronto a ricominciare ma che nella storia risorgimentale
ci sono ancora molte cose da raccontare, che forse vengono ignorate dai libri ma sono nel cuore e
nella pancia delle persone e rappresentano la ricchezza delle comunità locali. Una ricchezza da
preservare e tramandare. ❖
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Appendice: Dicono di loro
“Prendete, per esempio, il conte di Cavour – non è un’intelligenza, non è un diplomatico? Io prendo
lui come esempio perché ne è già riconosciuta la genialità e inoltre perché è già morto. Ma che
cosa non ha fatto, guardate un po’; oh sì, ha raggiunto quel che voleva, ha riunito l’Italia e che ne è
risultato: per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo,
non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale,
organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il
mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due
millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non
lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava
di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era
logorata, stremata ed esaurita (ma è stato proprio così?) ma che cosa è venuto al suo posto, per
che cosa possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del
conte di Cavour? È sorto un piccolo regno di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di
valore mondiale, [...] un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla,
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un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di
debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del suo essere un regno di second’ordine. Ecco quel che
ne è derivato, ecco la creazione del conte di Cavour!” 1
“E parliamo di Garibaldi E dei suoi garibaldini
Venuti per far giustizia A noi poveri contadini.
Arriva Garibaldi E i baroni fa tremare
La gente per le strade Si sente già cantare:
“Garibaldi, ma chi è?
E’ più forte e bello dello Re! Garibaldi, cosa fa?
Porterà giustizia e libertà”.
E’ arrivato Garibaldi E i Borboni son scappati Son scappati nella notte
Per non essere ammazzati. Ma il 14 di maggio
Il barone gli fa omaggio E il notaro Rosolino
Già lo chiama Don Peppino
“Garibaldi, ma chi è?...
Se ne è andato Garibaldi Con i suoi garibaldini
Se ne è andato con il pane Di noi poveri contadini.
E ilnotaro Rosolino All’uscita del paese
Ha brindato a Garibaldi Col buon vino piemontese
“Garibaldi, ma chi è?...” 2
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- Sì, sì, dite! Ma come c’entra Garibaldi?
- C’entra, perché vossignoria deve sapere che questo Canebardo diede ordine, quando venne, che
fossero aperte tutte le carceri di tutti i paesi. Ora, si figuri vossignoria che ira di Dio si scatenò
allora per le nostre campagne! I peggiori ladri, i peggiori assassini, bestie selvagge, sanguinarie,
arrabbiate da tanti anni di catena... Tra gli altri ce n’era uno, il più feroce, un certo Cola Camizzi,
capobrigante, che ammazzava le povere creature di Dio, così, per piacere, come fossero mosche,
per provare la polvere – diceva, - per vedere se la carabina era parata bene. Costui si buttò in
campagna, dalle nostre parti. Passò per Farnia, con una banda che s’era formata, di contadini; ma
non era contento, ne voleva altri, e uccideva tutti quelli che non volevano seguirlo. Io ero maritata
da pochi anni e avevo già quei due figliucci, che ora sono laggiù, in America, sangue mio! Stavamo
nelle terre del Pozzetto che mio marito, sant’anima, teneva a mezzadria. Cola Camizzi passò di là e
si trascinò via anche lui, mio marito a viva forza. Due giorni dopo, me lo vidi ritornare come un
morto; non pareva più lui; non poteva parlare, con gli occhi pieni di quello che aveva veduto, e si
nascondeva le mani, poveretto, per il ribrezzo di ciò ch’era stato costretto a fare..." 4
1 Fëdor M. Dostoevskij (1821-1881), ―Diario di uno scrittore‖, ed. it. a cura di Ettore Lo Gatto (1890-1983), Sansoni, Firenze 1981, pp. 925-926.
2 Stormy Six, L'unità, First, 1972
3 Tomasi di Lampedusa, ―Il Gattopardo‖, ed. Feltrinelli, Milano 1963, pag. 36
4 Luigi Pirandello, ―L’altro figlio‖, tratto da ―Novelle per un anno‖, 1922
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Filmografia
1860. I Mille di Garibaldi di Alessandro Blasetti. Italia, 1934 (80').
Il primo maestro del cinema italiano racconta l'epopea garibaldina con uno
stile totalmente originale, fuori dalla retorica magniloquente del ventennio,
scegliendo un punto di vista dal basso, popolare, quello dei picciotti siciliani
che combattono insieme ai garibaldini. Un capolavoro della nostra storia
cinematografica precursore del Neorealismo, anche per il rigore stilistico,
ripreso dal cinema sovietico, lo stile scarno, asciutto ed efficace, l'uso di
attori non professionisti e del dialetto, la scoperta straordinaria del paesaggio
in immagini lucenti e solari, che rimandano alla pittura di Fattori.
Senso di Luchino Visconti. Italia 1954 (120')
Capolavoro assoluto della storia del cinema, di intensità straordinaria e
bellezza unica: sullo sfondo della guerra italo-austriaca Visconti ritaglia un
melodramma di sensualità esasperata e morte, sfogando la sua visione critica
della storia in una rilettura senza ipocrisie del Risorgimento e della tragica
decadenza di una società in tempo di rivoluzione.
Piccolo Mondo Antico di Mario Soldati. Italia 1941 (107')
Soldati, straordinaria figura di scrittore-regista, raggiunge la sua maturità con
questo capolavoro riconosciuto della cinematografia preneorealista,
traducendo i conflitti amorosi ed esistenziali raccontati da Fogazzaro sullo
sfondo della lotta antiaustriaca, in un film di alta bellezza formale.
L'ambientazione perfetta, dove il paesaggio diventa stato d'animo, carica di
chiaroscuri espressivi il dramma dei protagonisti, come la strepitosa Alida
Valli nel suo primo ruolo drammatico.
Il brigante di Tacca del Lupo di Pietro Germi. Italia 1952 (104')
Lo sguardo cinico e realista del grande Pietro Germi esplora le ambiguità del
Risorgimento e della storia in generale, svelando i difficili retroscena
dell'Unità d'Italia, tra guerra civile e brigantaggio, e rinnova il linguaggio del
dramma storico attraverso il ritmo incalzante del western americano alla
John Ford, che si adatta perfettamente agli scenari desertici di un meridione
ostile e carico di contrasti dolorosi.
Viva l'Italia! di Roberto Rossellini. Italia 1961 (106')
Nell'anno del centenario, Rossellini affronta la spedizione dei Mille con una
straordinaria vocazione antiretorica, ricostruendo gli avvenimenti che
contribuirono a unificare il nostro paese con rigorosa oggettività e attenzione
al lato umano, per liberare l'epopea garibaldina dall'alone del mito e dare alla
rievocazione storica la spoglia concretezza di una cronaca realistica, a partire
dall'osservazione di particolari minori, quotidiani, persino antieroici.
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La pattuglia sperduta di Piero Nelli. Italia 1952 (74')
Un piccolo gioiello quasi dimenticato del nostro cinema neorealista guarda le
vicende della prima guerra d'indipendenza a partire dalla partecipazione
popolare, seguendo un gruppo di soldati sbandati, che vagano nella nebbia
verso un nemico invisibile. Contro la retorica della storia ufficiale che
mitizza i protagonisti, questo curioso film di guerra evidenzia la dimensione
psicologica delle persone comuni e diventa l'occasione per riflettere sulle
conseguenze di carattere sociale prodotte da ogni conflitto.
Bronte - Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato di Florestano Vancini. Italia 1972 (126')
Una pellicola aspra, tesa e sconvolgente, porta alla luce un episodio poco
conosciuto e drammatico dell'impresa dei Mille in Sicilia - l'arresto e la
fucilazione di rivoltosi per ordine di Nino Bixio - offrendo una lucida lezione
di controinformazione storica, lontanissima dalla mitologia nazionale
costruita attorno alla figura di Garibaldi.
Nell'anno del Signore di Luigi Magni. Italia 1969 (105')
Mosso da una graffiante vocazione anticlericale, Magni dipinge un affresco
beffardo della Roma prerisorgimentale, dando voce a Pasquino, autore di
satire anonime in cui si riassumeva il malcontento del popolo oppresso.
Trittico di mattatori, Manfredi, Sordi, Tognazzi, in stato di grazia.
Allónsanfan di Paolo Taviani, Vittorio Taviani. Italia 1974 (115')
I Taviani indirizzano la loro acuta riflessione storica sulla Restaurazione e la
crisi esistenziale di un nobile lombardo opportunista, che tradisce la lotta
rivoluzionaria. La ricostruzione è sostenuta magistralmente da un'atmosfera
visionaria di squisito splendore, ispirata alla grande pittura dell'Ottocento.
I Viceré di Roberto Faenza. Italia 2007 (120')
Ritratto lucidissimo e spietato della nobiltà siciliana nel difficile passaggio
all'Italia unita, in un affresco di grande bellezza e suggestione per scene,
costumi, musiche e ottime interpretazioni, che ha il merito di far riscoprire il
romanzo di Federico De Roberto, uno dei pochi capolavori della narrativa
italiana dell'Ottocento.
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Bibliografia
Libro : Maledetti Savoia, Savoia benedetti. Storia e controstoria dell'Unità d'Italia Autore: Del Boca Lorenzo - Emanuele Filiberto di Savoia Editore: Piemme
Libro : Bella e perduta. L'Italia del Risorgimento Autore: Villari Lucio Editore: Laterza
Libro : Il Risorgimento italiano Autore: Banti Alberto M. Editore: Laterza
Libro : Risorgimento da riscrivere Autore: Pellicciari Angela Editore: Ares
Libro : Il Risorgimento italiano. Un tempo da riscrivere Autore: Agnoli Francesco M. Editore: Itaca (Castel Bolognese)
Libro: Vademecum di storia dell'unità d'Italia Autore: Romano Sergio Editore: Rizzoli
Libro: La Conquista Del Sud. Il Risorgimento Nell'italia Meridionale Autore: Alianello Carlo
Editore: Rusconi Editore
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Libro: I vinti del Risorgimento. Storia e storie di chi combatté per i Borbone di Napoli Autore: Di Fiore Gigi
Editore: UTET Università
Libro: Terroni. Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero «meridionali»
Autore: Aprile Pino
Editore: Piemme
Libro: Il prodotto delle regioni e il divario Nord-Sud in Italia (1861- 2004) Autore: P. Malanima, V. Daniele
Consultabile cliccando su
http://www.paolomalanima.it/default_file/Articles/Daniele_%20Malanima.pdf
Libro: Storia e storie tra Otto e Novecento
Autore: Carlo Felice Casula
Editore: AM&D
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“All’esposizione Nazionale del 1861 figurò Borrani con Il 26 aprile 1859: il titolo avrebbe fatto
pensare alla rappresentazione di un qualche momento eroico dell’insurrezione toscana che aveva
portato alla liberazione dal regime granducale, invece la celebrazione non è legata a un episodio
popolare, bensì è interiorizzato nella compostezza di una signora che nel chiuso di una stanza cuce
il tricolore. La luce che sgorga dal grande finestrone rinascimentale solennizza il gesto di per sé
umile, fende la quiete della penombra antica evidenziando i pochi elementi di un arredamento
austero - un’alabarda e una sedia neocinquecentesca - e afferma che a Firenze la grande civiltà del
passato non è morta, bensì vive nei cuori e nei gesti quotidiani di coloro che guardano alla
grandezza antica con cuore giovane, ardito, leale e consapevole. Il 26 aprile 1859 è la data che
ricongiunge il corso moderno della storia al suo passato più illustre in nome dei grandi ideali di
civiltà e libertà. Con questo seminario, il nostro intento è quello di riannodare i fili della storia della
nostra Unità con serenità di giudizio e cura certosina, proprio come questa matrona fiorentina tesse
la trama della nostra bandiera. Sfogliando le pagine ingiallite, quelle gloriose e quelle meno nobili,
della nostra storia.”
Gli studenti della Commissione Cultura di Villa Nazareth