la politica estera cinese in - lumsa.it aprile 2017.pdf · di ricevere proposte di contributi e...

100
La politica estera cinese in prospettiva storica POSTE ITALIANE S.p.A. Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/04 n. 46) art. 1, comma 1 - DCB BRESCIA Editirice La Scuola 25121 Brescia - Expédition en abonnement postal taxe perçue tassa riscossa - ISSN 1828-4582-Anno XXXIV Alle origini della storia contemporanea Orientamenti didattici e studenti stranieri From Revolution to Rebellion: George Orwell’s Animal Farm La Via Lattea in Dante e nell’astronomia moderna Mensile di cultura, ricerca pedagogica e orientamenti didattici aprile 2017 8

Upload: vuongbao

Post on 16-Feb-2019

212 views

Category:

Documents


0 download

TRANSCRIPT

La politica estera cinese in

prospettiva storica

POST

E IT

ALI

AN

E S.

p.A

. Spe

d. in

A.P

. - D

.L. 3

53/2

003

(con

v. in

L. 2

7/02

/04

n. 4

6) a

rt. 1

, com

ma

1 - D

CB

BR

ESC

IA E

ditir

ice

La S

cuol

a 25

121

Bre

scia

- Ex

pédi

tion

en a

bonn

emen

t pos

tal t

axe

perç

ue ta

ssa

risco

ssa

- ISS

N 1

828-

4582

-Ann

o X

XX

IV

Alle origini della storia contemporanea

Orientamenti didatticie studenti stranieri

From Revolution to Rebellion:

George Orwell’sAnimal Farm

La Via Lattea in Dante e nell’astronomia

moderna

Mensile di cultura, ricerca pedagogica e orientamenti didattici

aprile2017

8

Gentile lettrice, lettore,ringraziandola per la fiducia e l’attenzione con cui segue la rivista, la invitiamo a rinnovare il suo abbonamento, con una proposta vantaggiosa: 10 fascicoli (abbonamento annuale) al prezzo invariato di € 69,00 per la versione cartacea e di € 45,00 per quella digitale. Qualora invece decidesse di abbonarsi fin da subito per un intero triennio (2017/18; 2018/19; 2019/20), le offriamo i 30 fascicoli con uno sconto del 22%, sia per la versione cartacea (€ 160,00) sia per quella digitale (€ 106,00).Tale offerta sarà valida esclusivamente per gli abbonamenti sottoscritti entro e non oltre il 15 luglio 2017 (codice “NS1720” come causale di pagamento).Con gli abbonamenti riceverà ogni anno aggiornate gratuitamente le due Guide del docente (generale e speciale per il docente di sostegno) in formato Ebook.Ricordiamo, infine, che la redazione ([email protected]) è sempre lieta di ricevere proposte di contributi e saggi per una eventuale pubblicazione sulla rivista.

Ufficio abbonamentiriviste.gruppostudium.it – [email protected]

tel. 030.2993305 - fax 030.2993317(operativo dal lunedì al venerdì, ore 8.30-12.30 e 13.30-17.30)

È possibile anche versare direttamente la quota di abbonamento sul C.C. postale n. 834010 intestato a Edizioni Studium Srl, Via Crescenzio, 25 - 00193 Roma oppure bonifico bancario a Banco di Brescia, Fil. 6 di Roma, IBAN: IT30N0311103234000000001041 o a Banco Posta IT07P0760103200000000834010 intestati entrambi a Edizioni Studium Srl, Via Crescenzio, 25 - 00193 Roma (indicare nella causale il riferimento cliente e il codice).

PROPOSTA DI ABBONAMENTO SPECIALE NUOVA SECONDARIA

NUOVA EDIZIONE STUDIUM

Nuova SecondariaMensile di cultura, ricerca pedagogica e orientamenti didattici aprile

20178Problemi Pedagogici e didattici

Maria Teresa Moscato, Conflitto coniugale e processi educativi. Le percezioni degli insegnanti 11

Le Edizioni Studium ricordano Michael Novak 14

Raniero Regni, Le piramidi del sacrificio infantile (2) 15

Marco Lazzari, Orientamenti didattici e studenti stranieri 21

Marcello Ostinelli, Verso un codice di condotta dell’insegnante 24

Sara Fasolo, Paolo Nitti, Il riassunto: una competenza da riscoprire 27

Studi

La politica estera cinese in prospettiva storica Guido Samarani e Sofia Graziani 30

Guido Samarani, Pechino tra Mosca e Washington in un mondo globale 34

Barbara Onnis, L’evoluzione dei rapporti tra Repubblica Popolare Cinese e Unione Europea. Dinamiche attuali e prospettive future 39

Giulio Pugliese, L’assertività cinese in Asia orientale tra mutati equilibri di potenza e crescente instabilità interna 42

Sofia Graziani, La Cina in Africa: aiuti, retorica e soft power 44

PercorSi didattici

Luigi Coletta, Crisi del greco antico e suggestioni neogreche 47

Gianluca Cuniberti, La polis democratica in età ellenistica: il caso di Atene 54

Bianca Barattelli – Sandro Perini, Il lessico scientifico. Un’occasione per una didattica a più voci 58

Stefano Cazzato, L’argomentazione filosofica 61

editoriale

Edoardo Bressan, Alle origini della storia contemporanea 3

Fatti e oPinioni

Il futuro alle spalle Carla Xodo, La carica dei 600, ma manca un punto 5

La lanterna di Diogene Fabio Minazzi, La scuola dell’ignoranza e l’italiano 6

Ologramma Cristina Casaschi, Salve prof, vorrei fare la tesi con lei. È libera a luglio? 6

Vangelo docente Paola Bignardi, Giovani: bamboccioni? 7

Il lavoro e la scuola Giuliano Cazzola, Formazione continua: una nuova fase tra lavoratori e istituzioni formative? 8

Parole «comuni» Giovanni Gobber, Laico e laicismo 10

nuova Secondaria ricerca (sezione online)DOSSIER: Senso del sacro e riti religiosi: voci greco-romane, a cura di Gian Enrico Manzoni

Introduzione, (1-2)

Giuseppe Zanetto, Plutarco e Delfi: i dialoghi pitici, (3-12)

Ioannis M. Konstantakos, La divina commedia: gli dei greci e il comico, da Omero al dramma del IV secolo a.C., (13-32)

Maria Pia Pattoni, La preghiera nei testi letterari della Grecia arcaica, (33-42)

Paolo Cesaretti, Una città “cristiana”? Costantino imperatore e la sua “capitale”, (43-52)

Gian Enrico Manzoni, Senso del sacro e missione imperiale di Roma, (53-60)

direttore emerito: Evandro Agazzidirettore: Giuseppe Bertagnacomitato direttivo: Cinzia Susanna Bearzot, Cattolica, Milano - Edoardo Bressan, Macerata - Alfredo Canavero, Statale, Milano - Giorgio Chiosso, Torino - Luciano Corradini, Roma Tre - Pietro Gibellini, Ca’ Foscari, Venezia - Giovanni Gobber, Cattolica, Milano - Angelo Maffeis, Facoltà Teologica, Milano - Mario Marchi, Cattolica, Brescia - Giovanni Maria Prosperi, Statale, Milano - Pier Cesare Rivoltella, Cattolica, Milano - Roberto Trinchero, Torino - Stefano Zamagni, BolognaconSiglio Per la valutazione ScientiFica degli articoli (Coordinatori: Luigi Caimi e Carla Xodo): Francesco Abbona (Torino) - Giuseppe Acone (Salerno) - Emanuela Andreoni Fontecedro (Roma Tre) - Dario Antiseri (Collegio S. Carlo, Modena) - Gabriele Archetti (Cattolica, Milano) - Andrea Balbo (Torino) - Giorgio Barberi Squarotti (Torino) - Daniele Bardelli (Cattolica, Milano) - Raffaella Bertazzoli (Verona) - Fernando Bertolini (Parma) - Lorenzo Bianconi (Bologna) - Maria Bocci (Cattolica, Milano) - Cristina Bosisio (Cattolica, Milano) - Marco Buzzoni (Macerata) - Luigi Caimi (Brescia) - Luisa Camaiora (Cattolica, Milano) - Renato Camodeca (Brescia) - Franco Cardini (ISU, Firenze) - Andrea Cegolon (Macerata) - Mauro Ceruti (IULM - Milano) - Maria Bianca Cita Sironi (Milano) - Michele Corsi (Macerata) - Vincenzo Costa (Campobasso) - Giovannella Cresci (Venezia) - Costanza Cucchi (Cattolica, Milano) Luigi D’Alonzo (Cattolica, Milano) - Cecilia De Carli (Cattolica, Milano) - Bernard D’Espagnat (Parigi) - Floriana Falcinelli (Perugia) - Vincenzo Fano (Urbino) - Ruggero Ferro (Verona) - Saverio Forestiero (Tor Vergata, Roma) - Arrigo Frisiani (Genova) - Alessandro Ghisalberti (Cattolica, Milano) - Valeria Giannantonio (Chieti, Pescara) - Massimo Giuliani (Trento) - Adriana Gnudi (Bergamo) - Giuseppina La Face (Bologna) - Giuseppe Langella (Cattolica, Milano) - Erwin Laszlo (New York) - Marco Lazzari (Bergamo) - Anna Lazzarini (IULM - Milano) - Giuseppe Leonelli - (Roma Tre) - Carlo Lottieri (Siena) - Stefania Manca (CNR - Genova) - Gian Enrico Manzoni (Cattolica, Brescia) - Emilio Manzotti (Ginevra) - Alfredo Marzocchi (Cattolica, Brescia) - Vittorio Mathieu (Torino) - Fabio Minazzi (Insubria) - Alessandro Minelli (Padova) - Enrico Minelli (Brescia) - Luisa Montecucco (Genova) - Moreno Morani (Genova) - Gianfranco Morra (Bologna) - Amanda Murphy (Cattolica, Milano) - Maria Teresa Moscato (Bologna) - Alessandro Musesti (Cattolica, Brescia) - Seyyed Hossein Nasr (Philadelphia) - Salvatore Silvano Nigro (IULM) - Maria Pia Pattoni (Cattolica, Brescia) - Massimo Pauri (Parma) - Jerzy Pelc (Varsavia) - Silvia Pianta (Cattolica, Brescia) - Fabio Pierangeli (Roma Tor Vergata) - Sonia Piotti (Cattolica, Milano) - Pierluigi Pizzamiglio (Cattolica, Brescia) - Simonetta Polenghi (Cattolica, Milano) - Luisa Prandi (Verona) - Erasmo Recami (Bergamo) - Enrico Reggiani (Cattolica, Milano) - Filippo Rossi (Verona) - Giuseppe Sermonti (Perugia) - Daniela Sorrentino (Calabria) - Ledo Stefanini (Mantova) - Ferdinando Tagliavini (Friburgo) - Guido Tartara (Milano) - Filippo Tempia (Torino) - Marco Claudio Traini (Trento) - Piero Ugliengo (Torino) - Lourdes Velazquez (Northe Mexico) - Marisa Verna (Cattolica, Milano) - Claudia Villa (Bergamo) - Giovanni Villani (CNR, Pisa) - Carla Xodo (Padova) - Pierantonio Zanghì (Genova)Gli articoli della Rivista sono sottoposti a referee doppio cieco (double blind). La documentazione rimane agli atti. Per consulenze piùspecifiche i coordinatori potranno avvalersi anche di professori non inseriti in questo elenco.redazione: email: [email protected] Coordinamento: Francesco Magni. Settore umanistico: Alberta Ber-gomi - Cristina Casaschi - Lucia Degiovanni. Settore scientifico e tecnologico: Francesca Martinelli. Nuova Secondaria Ricerca ([email protected]): Anna Lazzarini - Alessandra Mazzini - Andrea Potestio - don Fabio Togni. Illustrazione di coper-tina e impaginazione: Tomomot. Sito internet: www.edizionistudium.it - riviste.gruppostudium.it

Contiene I.P.Direzione, Redazione e Amministrazione: Edizioni Studium Srl, Via Crescenzio, 25 - 00193 Roma - Fax. 06.6875456 - Tel. 06.6865846 - 06.6875456 - Sito Internet: www.edizionistudium.it - Direttore responsabile: Giuseppe Bertagna - Autorizzazione del tribunale di Brescia n. 7 del 25-2-83 - Poste Italiane S.p.A. - Sped. in A.P.-D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/04 n. 46) art. 1, comma 1 - DCB Brescia - Editrice La Scuola - 25121 Brescia - Stampa Centro Poligrafico Milano S.p.A., Casarile (MI) - Ufficio marketing: Edizioni Studium Srl, Via Crescenzio, 25 - 00193 Roma - Fax. 06.6875456 - Tel. 06.6865846 - 06.6875456 - email: [email protected] - Ufficio Abbonamenti: tel. 030.2993305 (con operatore dal lunedì al venerdì negli orari 8,30-12,30 e 13,30-17,30; con segreteria telefonica in altri giorni e orari) - fax 030.2993317 - email:[email protected].

Abbonamento annuo 2016-2017: Italia: € 69,00 - Europa e Bacino mediterraneo: € 114,00 - Paesi extraeuropei: € 138,00 - Il presente fascicolo € 7,00. Conto corrente postale n. 834010 intestato a Edizioni Studium Srl, Via Crescenzio 25, 00193, Roma oppure bonifico bancario a Banco di Brescia, Fil. 6 di Roma, IBAN: IT30N0311103234000000001041 o a Banco Posta, IT07P0760103200000000834010 intestati entrambi a Edizioni Studium Srl, Via Crescenzio 25, 00193, Roma. (N.B. riportare nella causale il riferimento cliente). L’editore si riserva di rendere disponibili i fascicoli arretrati della rivista in formato PDF. I diritti di traduzione, di memorizzazioneelettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm), sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettorepossono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5 della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essereeffettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRo, corso di Porta Romana n. 108, 20122 Milano, e-mail: [email protected] e sito web: www.aidro.org.

lungue, culture e letterature a cura di Giovanni Gobber

Emanuela Bossi, From Revolution to rebellion: George Orwell’s Animal Farm 86

Erika Nardon-Schmid, Ilaria Barbieri, Federica Ruggeri, Educazione linguistica in modalità CLIL. Un percorso per la storia dell’arte in lingua tedesca 90

libri 95

Clara Mucci, Macbeth: la parola e il sangue 67

Pierluigi Pizzamiglio, La Via Lattea in Dante e nell’astronomia moderna 72

Luca Barzanti, Stefania Fabbri, Alessandro Pezzi, La Matematica finanziaria in Excel: un’applicazione notevole 75

Saverio Mauro Tassi, A volte tornano. L’epigenetica e la riabilitazione del lamarckismo (1) 80

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 3

editoriale

Alle origini della storia contemporanea Edoardo Bressan

“Nuova Secondaria” ha ospitato un interessante dibattito sull’insegnamento della storia e soprattutto della storia

contemporanea, che ha coinvolto prima Simona Mori e Stefano Zappoli1 e poi Giuseppe Ignesti2. Si tratta di riflessioni molto stimolanti, che andrebbero fatte proprie da chiunque studi o insegni una disciplina ben diversa da un accumulo di nozioni fini a se stesse, ma capace di diventare una dimensione della coscienza e della cittadinanza. Il problema è stato anche affrontato in occasione del convegno Insegnare la storia ai “Millennials”, organizzato dalla Società italiana per lo studio della storia contemporanea (SISSCO) all’Università di Roma Tre il 27 gennaio 2017, sul cruciale rapporto con la didattica e la formazione dei docenti.

Se in particolare la storia contemporanea torna al centro dell’attenzione, è utile domandarsi quale ne sia la specificità, dal momento che essa non può avere un terminus ad quem perché si può fare storia anche di un avvenimento appena trascorso. Resta naturalmente da definire il terminus a quo, che Simona Mori pone giustamente nella conclusione dell’età moderna, sia pure all’interno di una “narrazione in divenire” aperta a diverse ipotesi di periodizzazione3. Queste ultime sono state variamente collocate, com’è appena il caso di ricordare, all’età della Rivoluzione francese (meglio delle “rivoluzioni atlantiche”) o più avanti alla sua conclusione con la fine dell’avventura napoleonica e il congresso di Vienna, all’affermazione dei “risorgimenti” nazionali fra 1848 e 1870 e alla loro proiezione extraeuropea, alla prima guerra mondiale e alle sue conseguenze4, quando, nella suggestiva lettura di Eric J. Hobsbawm, il “lungo Ottocento” cede il passo al “secolo breve”, il Novecento5.

Tutto questo però – al di là della legittimità di ogni periodizzazione in merito all’inizio dell’età

contemporanea – rimanda inevitabilmente al momento in cui la coscienza europea e occidentale ha posto il problema della propria identità quale esito di una storia e lo ha fatto alla luce dell’esigenza, avanzata dalla cultura illuministica, di rompere i vincoli del passato e quindi di immaginare un avvenire diverso, fondato sul riconoscimento dell’uguaglianza di tutti, sulla fine di discriminazioni inaccettabili, sulla libertà delle scelte individuali non negoziabili e sindacabili da un’autorità costituita, politica o religiosa (placet experiri, come avrebbe scritto Thomas Mann ne La montagna incantata).

L’affermazione dei diritti sulla base dell’uguaglianza civile mette fine all’ancien régime e a una serie di privilegi e distinzioni di ceto non più sostenibili, aprendo la strada al cammino di una democrazia da costruire, nella sua dimensione pedagogica e in quella politica, come subito intuisce Jean-Jacques Rousseau, che nei primi anni Sessanta del Settecento ne definisce i percorsi dal Contratto sociale all’Emilio. La storia rappresenta sia una negatività da cui liberarsi sia un’apertura a un futuro diverso: come ha scritto Simonetta Polenghi, in una teodicea secolarizzata e in fondo pelagiana il male si colloca appunto nella storia e fuori dall’uomo, che “non è cattivo, bensì lo è diventato”6. Alle

1. Si vedano S. Mori, Storia. Secondo biennio e ultimo anno e S. Zappoli, Storia contemporanea, in “Nuova Secondaria”, XXXIII, 2015, n. 1, pp. 88-92 e pp. 93-95.2. Cfr. G. Ignesti, Insegnare la storia contemporanea (1) e Insegnare la sto-ria contemporanea (2), in “Nuova Secondaria”, XXXIV, 2015, n. 2, pp. 42-47 e n. 3, pp. 50-55. 3. S. Mori, Storia. Secondo biennio e ultimo anno, cit., p. 90.4. Su questi aspetti si veda S. Cavazza, P. Pombeni (eds.), Introduzione alla storia contemporanea, il Mulino, Bologna 2012.5. E.J. Hobsbawm, Il secolo breve, trad. it. Rizzoli, Milano1995.6. S. Polenghi, La ricezione di Rousseau in area austro-tedesca. Da Lessing a Milde (1751-1813), in G. Bertagna (Ed.), Il pedagogista Rousseau. Tra metafisi-ca, etica e politica, La Scuola, Brescia 2014, pp. 215-230 e in particolare p. 224.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-45824

editoriale

buone prassi di un’educazione naturale e di una democrazia diretta è affidata la possibilità di ritrovare la dimensione originaria e innocente dell’uomo, proiettandola sull’avvenire, che diventa mito di liberazione e di progresso.

Secondo la puntuale ricostruzione di Giuseppe Bertagna, al di là delle forzature che addebitano a Rousseau sviluppi imprevisti e imprevedibili, si apre qui la strada per una diversa organizzazione della civitas7. Il rapporto diretto fra il cittadino, non più suddito, e lo Stato prende il posto della dinamica di corpi organizzati (“corpi, fraternità, mestieri”, nella bella sintesi di Danilo Zardin)8 caratteristica dell’ordinamento precedente con un’affermazione della statualità che investe ogni àmbito della vita associata: l’organizzazione politica, i rapporti con le Chiese, il governo del territorio, le istituzioni educative e sociali. Ma non basta: come ha osservato Paolo Prodi, l’utopia perde “il suo contenuto u-topico, trova un luogo intellettuale per diventare o la base del pensiero costituzionale moderno o l’ideologia della rivoluzione come progetto rousseauiano di un nuovo uomo-cittadino, di una nuova umanità giustificata non più dalla Chiesa ma dalle strutture politico-sociali che possono redimerlo dal male”: anche “attraverso questo profetismo secolarizzato l’utopia, il «non luogo» e il «non tempo», diventa l’umanità, la patria, l’uguaglianza, la classe: fuoco nelle menti degli uomini”9.

Gli Stati napoleonici e i loro eredi ottocenteschi avviano, nel quadro di un inedito individualismo giuridico, un vasto progetto di riorganizzazione politica e amministrativa che, nonostante la sua coerenza, si rivela incapace, da una parte, di rispondere alla complessità delle relazioni sociali e, dall’altra, di offrire una prospettiva di senso al “popolo” del quale si afferma la libertà. Già durante la Rivoluzione francese, per esempio nei giorni di Valmy, è la nazione a diventare l’elemento di legittimazione dello Stato, in luogo di più antichi riferimenti ma in modo più tangibile rispetto all’astratta razionalità dello Stato moderno; ed è questo che dà la spinta decisiva non solo ai movimenti nazionali dell’Ottocento, ma anche alle prime battaglie del movimento operaio per dare un contenuto a diritti altrimenti destinati a rimanere inevitabilmente “borghesi”.

Rivoluzione nazionale e rivoluzione sociale

si affermano come paradigmi di una storia in divenire. In tutta Europa si sviluppa la ricerca dei miti di fondazione, dei motivi identitari, delle lingue, delle tradizioni religiose e delle culture popolari, in antitesi alla sistemazione politica continentale imposta dal Congresso di Vienna, ma al tempo stesso s’inizia a indagare l’origine delle forme di proprietà, dei rapporti di lavoro, della distribuzione della ricchezza. Anche per questo l’Ottocento è il “secolo della storia”: di fronte a queste esigenze, si afferma, in una coincidenza non casuale, la storiografia come disciplina scientifica, in grado di offrire un riscontro, basato sulle fonti, alle aspirazioni nazionali e alle lotte per la giustizia sociale.

Il 1848, l’anno della “primavera dei popoli”, vede una sintesi per così dire in atto di queste battaglie, che dalla sfera ideale passano alla concretezza del presente. Non mancano le contraddizioni – fra diritti nazionali prima o poi ammessi e altri negati, mentre per quelli sociali il quadro è ancora più problematico – e la successiva Realpolitik si sarebbe incaricata di utilizzarle per i suoi disegni di potenza, fra l’espansione imperialistica e il militarismo che portano alla tragedia della Grande Guerra. Lo sviluppo democratico e sociale, agli inizi del Novecento, non è certo una semplice illusione, ma altre drammatiche prove attendono l’Europa e il mondo prima di giungere a un compiuto riconoscimento dei diritti umani.

Fra la “macchina” dello Stato e il “corpo fisico e concreto” della nazione si è da almeno due secoli aperto uno spazio non colmabile dalle pur irrinunciabili garanzie del costituzionalismo, ma solo dalle speranze nate nel vivo dell’esperienza storica e che chiedono un’effettiva realizzazione10. L’idea stessa di una “contemporaneità” della storia si lega a questo orizzonte di possibilità, prima ancora che a modelli di periodizzazione, ed è un elemento da non smarrire nella riflessione che accompagna oggi la didattica e la ricerca.

Edoardo Bressan

7. Cfr. G. Bertagna, Una pedagogia tra metafisica ed etica, ibi, pp. 11-66.8. D. Zardin (Ed.), Corpi, “ fraternità”, mestieri nella storia della società europea, Bulzoni, Roma 1998 (Quaderni di Cheiron, 7).9. P. Prodi, Il tramonto della rivoluzione, il Mulino, Bologna 2015, p. 64.10. Ibi, p. 80.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 5

Fatti e oPinioni

Il futuro alle spalledi Carla Xodo

La carica dei 600, ma manca un puntoQuando attorno agli anni ’80 mi capita di collaborare con il mio professore Peretti nel seguire degli studenti nella preparazione della tesi di laurea, constato con sorpresa “ca-renze linguistiche (…) (grammati-ca, sintassi, lessico), errori appena tollerabili in terza elementare” (…). “Alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente”. La citazione riportata, estratto dalla lettera con la quale 600 docenti universitari, sto-rici, filosofi, sociologi economisti e pedagogisti hanno sollecitato il Par-lamento e il Governo a “interventi urgenti” per rimediare all’imprepa-razione degli studenti prova come siamo in presenza dell’antico ritorno del (quasi) sempre uguale.Ma il numero impressionante dei “firmaioli”, per usare un termine di Montanelli (che era critico verso questo fenomeno), ha fatto esplo-dere il problema talché è diventato ancora più impressionante il nume-ro degli interpreti – radio, tv, me-dia – tra i quali molti parlano per sentito dire. Gli argomenti avanzati a sostegno delle 600 firme sono ri-conducibili a queste tre categorie: • la riduzione del 20%, da 11 a 9,

delle ore di insegnamento di lingua italiana nella scuola secondaria in-feriore, ma anche nei licei a favore della alternanza scuola-lavoro;

• la delegittimazione di grammatica e sintassi a favore della libera espres-sione dello studente avvallata dalla pedagogia libertaria degli anni ’70;

• una generale disattenzione per la lingua come forma di educazione

trasversale di carattere civico, in-ter e trans-disciplinare, intima-mente connessa al consolidamento e progresso sociale democratico.

Quello che mi ha colpito come modesta “addetta ai lavori” è la riproposizione del vecchio detto popolare: “piove, governo ladro”. Per molti insegnanti intervenuti le responsabilità sarebbero quasi tutte e solo del ministero. Il quale non sarà sicuramente immune da colpe, tra le quali sicuramente l’ipertrofia comunicativa: leggi circolari e testi normativi. Ma proprio questo ec-cesso di produzione documentaria non poteva che tradursi anche in indicazioni circa le priorità da te-ner presente, compresa l’emergenza lingua. Basta aver tempo e voglia per spulciare gli atti del Ministero.Orbene, le critiche politiche sono anche utili e salutari, ma ad un pat-to: che tutti facciano la loro parte. Ebbene, da parte dei docenti sono state rare le autocritiche, o il tenta-tivo di andare oltre gli aspetti più immediati del problema. La que-stione sollevata dai 600 non può essere risolta in modo passatista, all’insegna del “come era bello una volta”. Le regole del passato sono spesso obsolete, non applicabili tout court perché oggi bambini ed adolescenti sono cresciuti in con-testi e con strumenti comunicativi che sollevano problemi di appren-dimento linguistico imprevisti fino a qualche decennio addietro e tali per la cui risoluzione servono due ingredienti basilari: la buona prepa-razione degli insegnanti e la ricer-ca educativa e didattica sul campo. Per questo secondo aspetto, vedo un ruolo cruciale della pedagogia

che consiste: da una parte, nella revisione critica di certe impo-stazioni libresche; dall’altra, nella difficoltà di entrare nelle scuole e stabilire forme di collaborazione con i docenti, sovente portati a farsi scudo dei loro impegni e scadenze, snobbando in tal modo il feedback che potrebbe essere utile non solo per la ricerca, ma anche per le rica-dute pratiche per chi entra in aula ogni giorno. E per superare questi ostacoli burocratici serve “stringe-re amicizia” con i diretti interessati, leggi docenti e dirigenti scolastici. Questa è la mia esperienza e su questo punto sì, sarebbe utile un provvedimento del Ministero.In tale prospettiva chissà si potreb-be immaginare se non un universo scolastico idilliaco, almeno di ri-durre verso più ragionevoli dimen-sioni il numero dei “firmaioli”.

Carla XodoUniversità di Padova

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-45826

Fatti e oPinioni

La lanterna di Diogenedi Fabio Minazzi

Ologrammadi Cristina Casaschi

La scuola dell’ignoranza e l’italiano Per iniziativa del Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della re-sponsabilità è stato inviato nel feb-braio scorso al Presidente del Con-siglio, al Parlamento e alla Ministra dell’Istruzione, un appello affinché le competenze linguistiche di base – ovvero saper scrivere e parlare in ita-liano corretto, conoscere la gramma-tica e la sintassi e conseguire un buon bagaglio lessicale – siano rimesse al centro della didattica del primo ciclo scolastico. Non è del resto una novità ricordare come in molte università da alcuni anni siano previsti dei corsi riservati alle matricole per cercare di colmare le loro lacune nell’ambito di un uso corretto dell’italiano. D’altra parte non è neppure una novità ricor-dare che molte tesi di laurea triennali sono spesso scritte in un italiano più che claudicante e scorretto. Di fronte a queste tesi l’atteggiamento dei re-latori ha assunto, complessivamente, una duplice e polare configurazione: vi sono docenti (esecrandi) che non leggono le tesi, con il risultato che alcuni studenti si laureano e diven-tano dottori con delle tesi che grida-no vendetta al cielo, proprio perché scritte in un italiano scorretto. Op-pure vi sono altri docenti che correg-gono queste tesi riscrivendone anche l’italiano e in tal modo si sottopon-gono ad un’autentica fatica di Sisifo che, peraltro, non serve assolutamen-te al laureando il quale, se non cono-sce l’italiano, continuerà, comunque, a non conoscerlo. Tuttavia è lecito chiedersi: ma è giusto attribuire il titolo di “dottore” in qualunque di-sciplina ad una persona che non è in grado di scrivere in italiano corretto?

Senza poi aggiungere che questa drammatica domanda si inserisce in un contesto che sembra andare in tutt’altra direzione perché la “moda del giorno” non è legata alla tutela della conoscenza corretta dell’italia-no, perché si sa che, oramai, si vo-gliono fare corsi e lauree in inglese. Ma come potrà mai parlare e scri-vere correttamente in inglese una persona che non sa parlare e scrivere correttamente in italiano? Ma pro-prio questa costituisce una doman-da che i più eludono senza neppure prenderla in considerazione, essendo completamente affannati nel sottoli-neare l’internazionalità che derive-rebbe eo ipso ai loro corsi di laurea in quanto svolti in inglese.Chi poi, come lo scrivente, è arrivato all’università avendo alle spalle più di tre lustri di insegnamento liceale, sa anche come questa drammatica e tragica diminuzione delle compe-tenze linguistiche nell’ambito dell’i-taliano abbiano radici lontane. In-fatti nei licei – che già costituiscono

scuole d’élite e selezionate – non è da oggi che circa il 50% degli studen-ti delle singole classi non sappiano scrivere correttamente in italiano. Ma, paradossalmente, proprio la dif-fusione, a macchia d’olio e sempre più diffusa, di questa mancata co-noscenza dell’italiano ha finito per trasformarsi in un “argomento” alla luce del quale molti insegnanti d’i-taliano sono stati letteralmente tra-volti da questo fenomeno di massa. Così se un tempo la presenza di un solo errore ortografico compromet-teva l’esito complessivo di un tema d’italiano, oggi, invece, la valutazio-ne positiva di questi temi convive con la presenza diffusa di moltepli-ci errori ortografici e sintattici. Per questa ragione questo appello per cancellare dalle scuole superiori e dalle università gli errori da terza elementare costituisce, in realtà, una sfida alla scuola dell’ignoranza. Del resto, come sosteneva un filosofo come Wittgenstein, i limiti dei no-stri linguaggi costituiscono sempre i limiti del nostro mondo. Con la con-seguenza, inevitabile, che chi parla male non può che pensare male.

Fabio Minazzi

Università dell’Insubria

Salve prof, vorrei fare la tesi con lei. È libera a luglio?Solo qualche rarissimo studente uni-versitario scrive come nel titolo. A parte il “salve”, un registro inade-guato per rivolgersi ad un professo-re, punteggiatura e ortografia filano.

La quasi totalità ignora queste ele-mentari padronanze. E giustifica il coro ormai unanime che canta l’ina-deguatezza della competenza lingui-stica degli studenti dopo tredici, più tre, più due anni di studi. Uno sface-lo. Non altrettanto unanimi sono le

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 7

Fatti e oPinioni

Vangelo docentedi Paola Bignardi

Giovani: bamboccioni?Una delle qualifiche che qualche tempo fa ha accompagnato la gene-razione giovanile è quella di “bam-boccioni”: eterni bambini, incapaci di prendere in mano la propria vita, di assumersi delle responsabilità, di diventare adulti. Gli osservatori dei fenomeni sociali ci hanno abituato a vedere il prolungarsi dell’adole-scenza e della giovinezza. Prima di

giudicare questo fatto come espres-sione di immaturità, occorre ascol-tare le ragioni dei giovani: perché si prolunga così a lungo la loro presenza nella casa dei genitori? È un’espressione della resistenza a di-staccarsi dai genitori o è segno di qualche altra cosa?Il percorso verso l’autonomia ha due indicatori significativi: l’in-gresso nel lavoro e il formarsi di

analisi che di questo fenomeno ven-gono date, tanto che la ormai nota ‘Lettera dei seicento’ docenti rivolta ai rappresentanti del Governo e del Parlamento ha suscitato un vivace dibattito. E questo è un bene, se aiu-ta ad analizzare non solo il fenome-no per come si presenta, ma anche a metterne a fuoco le cause.Le molte analisi prodotte, tuttavia, si concentrano su aspetti della lin-gua e della sua didattica che non vanno al nocciolo della questione. Il problema esiste, ma la sua evidenza linguistica (lessicale, grammaticale, sintattica) ne è solo l’epifenomeno.I ragazzi, infatti, questa la verità, non sanno scrivere solo quando non sanno pensare. La lingua è inscin-dibilmente legata al lógos, «Nul-la dire se non ciò che può dirsi», e mi perdoneranno Aristotele e Wit-tgenstein se riduco a mezza riga il loro apporto. Ma è da lì, prima che dall’artefatto delle ‘verifiche’ o dal pur utile dettato fin dalla primaria, che dobbiamo ripartire.Non è forse, quello osserviamo nei giovani, un segnale più profondo di un’inattitudine al pensare secondo ragioni e del saper condividere in un discorso pubblico il proprio fa-ticoso ma costruttivo cavalcare la schiena della tradizione culturale, arricchendola?Al termine del triennio di laurea dif-ficilmente i ragazzi sanno fare sin-tesi dei loro diversi oggetti di studio, hanno difficoltà ad argomentare, a

scrivere una mail con oggetto e fir-ma e, negli esami scritti a mano, mostrano un horror vacui che li spinge a riempire fitto fitto senza un respiro, un margine, un sottoti-tolo. È la punteggiatura della mente, prima che quella visibile nel testo, che manca; è il ritmo dell’alternan-za tra il ricevere e il riflettere, tra il cercare e lo scoprire, tra il silenzio e la parola che manca, prima di quello sillabico.Questo, forse, più che il frutto di un cattivo lavoro sulla lingua è il frut-to di anni nei quali si è creduto che sovraccaricare studenti (e insegnan-ti) di libri a decine, proporre testi complessi che chiedono ai ragazzi

di fare sintesi delle informazioni più importanti quando, per loro, non è ancora il tempo assicurasse una buona didattica della lingua. Mentre ciò che conta è mettere in mano agli studenti -strumenti essenziali, chia-ri, adatti alla loro età, che consen-tano di ‘lavorare’ progressivamente e in contatto con il reale il sapere non ancora formalizzato e di dargli piano piano un ordine, attraverso i canoni formalizzati delle discipline.Le raccolte delle lettere dal fronte dei nostri soldati del secolo scorso, nella loro drammaticità ed essen-zialità, dimostrano che anche quan-do la scuola non era né diffusa, né particolarmente aggiornata sulla psicologia dell’apprendimento, gli uomini commettevano errori, certo, ma sapevano, eccome, comunicare l’essenziale. E credo che se i docen-ti universitari vedessero errori in una composizione che dice davvero qualcosa, avrebbero ancora voglia di trovare rimedi.

Cristina CasaschiUniversità di Bergamo

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-45828

Fatti e oPinioni

una propria famiglia. Considerando quanto sia oggi difficile inserir-si nel mondo del lavoro, acquisire quell’autonomia economica che permette di mantenere se stessi, una propria casa e una propria fa-miglia, si può capire la difficoltà a uscire dall’abitazione dei genitori. L’educazione familiare tende ad oscillare tra un eccesso di auto-nomia e un legame così stretto da diventare un vincolo che trattiene sempre al di qua della soglia della maturità adulta. Un ambiguo la-sciare andare, che in effetti conti-nua a trattenere e che ha elaborato un nuovo modello di convivenza - non convivenza di generazioni diverse sotto lo stesso tetto. I figli grandi restano in casa a lungo, fino a 30 anni e oltre, ma senza con-flitto, avendo raggiunto un modus vivendi in cui ciascuno, all’interno della stessa famiglia, vive in manie-ra indipendente.La transizione all’età adulta nel no-stro Paese conosce difficoltà ester-ne che condizionano l’acquisizione di un’autonomia anche psicologica ed emotiva. Condizioni professio-nali e sociali diverse potrebbero accelerare un passaggio che, quan-do avviene troppo tardi, rischia di compromettere per sempre l’acqui-sizione di un profilo adulto.Dunque l’educatore deve astenersi dal giudicare un giovane come im-maturo, prima di aver considerato tutti questi aspetti; piuttosto deve continuare a sostenere tutti quegli atteggiamenti che rafforzano l’au-tonomia interiore, nell’attesa e nella speranza che anche quella econo-mica e organizzativa permettano di realizzare in pieno il profilo della maturità.

Paola BignardiPubblicista, già Presidente nazionale

dell’Azione Cattolica Italiana

Il lavoro e la scuoladi Giuliano Cazzola

Formazione continua: una nuova fase tra lavoratori e istituzioni formative?Uno degli elementi che hanno fat-to parlare di svolta nelle relazioni industriali, a proposito del rinnovo contrattuale dei metalmeccanici, ri-guarda il riconoscimento ai lavoratori a tempo indeterminato di un diritto soggettivo alla formazione (si veda il testo dell’intesa). Le aziende, a partire dall’anno in corso e per un triennio, garantiranno ai loro dipendenti 24 ore pro capite per partecipare ad iniziati-ve formative organizzate sul posto di lavoro o nel territorio, in particolare per recuperare il gap esistente nel campo delle competenze digitali in connessione con i processi di inno-vazione tecnologica ed organizzativa. Queste attività non saranno cumu-late con quanto previsto e realizzato nell’ambito della formazione relativa ai problemi della sicurezza sul lavoro. Nel caso che, trascorso il primo bien-nio, l’impresa non abbia ancora intra-preso adeguate iniziative in merito e non ne preveda nel corso del terzo anno, il bonus delle 24 ore pro-capite sarà messo a disposizione dei lavora-tori (i 2/3 a carico dell’azienda) per partecipare ad iniziative di forma-zione esterne, organizzate da enti e soggetti indicati nell’intesa e per at-tività utili alle problematiche produt-tive della azienda stessa. L’elenco dei soggetti promotori di tali iniziative e dei relativi programmi è tassativa-mente indicato nel testo. In sostanza, le parti fanno propria l’idea che saran-no le capacità professionali acquisite a garantire, ancor prima delle tutele di legge, i lavoratori. Le aziende so-sterranno i costi fino ad un massimo di 300 ore in aggiunta alle eventuali

risorse pubbliche o private. È poi pre-vista una procedura per la risoluzione di eventuali controversie e fissato un limite (il 3% dell’insieme dei dipen-denti) per l’utilizzazione contempora-nea del diritto. Viene poi confermata la disciplina del diritto allo studio, fis-sando all’inizio del triennio un monte ore determinato moltiplicando 7 per tre e per il numero complessivo dei dipendenti. In particolare, le aziende favoriranno iniziative di inserimen-to dei lavoratori stranieri attraverso azioni formative, mentre agevoleran-no i lavoratori italiani nell’appren-dimento di lingue straniere. La nor-mativa sul diritto allo studio ha radici lontane e profonde nella storia di que-sta categoria. Bisogna risalire alla conquista delle c.d. 150 ore contenute nel rinnovo contrattuale del 1972. Si trattava (tale normativa sussiste tutto-ra e si è estesa a tutti gli ordinamenti scolastici e formativi) di riconoscere ai lavoratori il diritto di avvalersi di permessi retribuiti per 150 ore pur-ché frequentassero, presso la scuola pubblica o parificata (come si diceva allora) corsi, nell’arco di un triennio, per almeno il doppio di ore allo scopo di conseguire il diploma della scuola dell’obbligo. L’operazione consentì a centinaia di migliaia di lavoratori che ne erano privi di prendere il diploma di terza media, determinando altresì un vero e proprio processo innovati-vo all’interno della scuola pubblica che si attrezzò a dare una risposta positiva alla nuova domanda d’istru-zione. In buona sostanza, l’iniziativa contrattuale riuscì a determinare un momento di innovazione istituzionale all’interno della scuola pubblica. Tale normativa si è estesa a tutti gli ordina-menti scolastici e formativi e a tutti i

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 9

Fatti e oPinioni

livelli di istruzione. Con il diritto alla formazione continua si apre una nuo-va fase nel rapporto tra i lavoratori e le istituzioni formative (ammesso e non concesso che esse siano in grado di svolgere questa nuova funzione). È molto più difficile aprire processi concreti nell’ambito del rapporto tra scuola e lavoro, per quanto riguarda gli studenti. La qualità dei tirocini è assai discutibile (anche se hanno rap-presentato le maggiori opportunità offerte dal programma Garanzia Gio-vani). La legge sulla “Buona scuola” ha aperto delle nuove prospettive, che purtroppo si distribuiscono nel terri-torio a “macchia di leopardo”, grazie alle iniziative di qualche struttura ed istituzione scolastica. In un saggio (Lavoro e formazione dei giovani, La Scuola) Giuseppe Bertagna ha messo in evidenza le contraddizioni del caso

italiano. Abbiamo la più alta percen-tuale Ue di inoccupazione giovanile tra i 15 e i 29 anni. Nello stesso tempo, vi è la più alta disponibilità di posti di lavoro manuale che restano vacanti per mancanza di competenze di chi dovrebbe svolgerli o perché vengono rifiutati. È proprio l’elevato numero dei Neet – nella media degli altri pa-esi esso è inferiore di un terzo – a se-gnalare le forti difficoltà dei giovani ad entrare nel mercato del lavoro. Tale handicap, al di là degli aspetti relativi alle congiunture economiche, dipen-de anche da taluni elementi di caratte-re strutturale che mettono in luce due primati negativi del mercato del lavo-ro dei giovani italiani. Uno è relativo alla percentuale di giovani Neet senza titolo di scuola superiore, i quali, ad una preparazione insufficiente som-mano la mancanza di lavoro e, quindi,

la difficoltà nel costruirsi una condi-zione ed un percorso professionale. Sulla condizione di questi lavoratori influisce molto, infatti, il livello d’i-struzione. Pur nelle difficoltà che ca-ratterizzano l’occupazione giovanile, il problema è meno grave “nei paesi che hanno sviluppato efficienti canali di transizione dalla scuola al lavoro e, segnatamente, in quei paesi che hanno fatto largo ricorso all’apprendi-stato” (da “Per il lavoro” a cura della CEI). L’Italia, purtroppo, stenta a su-perare una cultura che tuttora separa nettamente il momento formativo da quello lavorativo. Soltanto un ragazzo su dieci coniuga, diversamente da al-tre nazioni europee, il percorso di stu-dio a qualche esperienza lavorativa.

Giuliano CazzolaEconomista e politico

Sezione quarta, Titolo VI, Art. 7 - Formazione continuaLe parti considerano strategico l’investimento delle imprese e dei lavoratori in materia di formazione continua, finalizzata ad aggiornare, perfezionare o sviluppare conoscenze e competenze professionali a partire da una campagna diffusa di recupero del gap sulle competenze digitali, in stretta connessio-ne con l’innovazione tecnologica ed organizzativa del processo produttivo e del lavoro. A far data dal 1° gennaio 2017 le aziende coinvolge-ranno i lavoratori in forza a tempo indeterminato, nell’arco di ogni triennio, in percorsi di formazione continua della durata di 24 ore pro-capite, realizza-bili secondo le modalità di erogazione individuate da Fondimpresa, elaborando progetti aziendali, ovvero aderendo a progetti territoriali o settoriali. La formazione in materia di sicurezza di cui all’art. 37 del D.Lgs. n. 81 del 2008 non è compu-tabile ai fini del presente comma. Ai lavoratori in forza a tempo indeterminato en-tro la fine del secondo anno del triennio, che non siano stati coinvolti in percorsi formativi di cui al comma 2 entro la medesima data e per i quali non sia programmato un coinvolgimento entro il terzo anno, saranno riconosciute, fino a concorrenza delle ore sopra quantificate, 24 ore pro-capite, di cui 2/3 a carico dell’azienda, per partecipare ad iniziative di formazione continua. Il diritto soggettivo di cui al comma precedente, sarà esigibile per iniziative formative sulle quali l’azienda, anche d’intesa con la R.S.U., ha dato informazione ai lavoratori o, in subordine, per partecipare ad iniziative di formazione continua. Il diritto soggettivo di cui al comma precedente, sarà esigibile per iniziative formative sulle quali l’azienda, anche d’intesa con la R.Su.U., ha dato informazione ai lavoratori o, in subordine, per partecipare a iniziative formative finalizzate all’ac-

quisizione di competenze trasversali, linguistiche, digitali, tecniche e gestionali, impiegabili nel con-testo lavorativo dell’azienda. Le iniziative di cui al comma 4 devono essere re-alizzate da: a) enti di cui all’art. 1 della legge 40/87 riconosciu-ti da Ministero del Lavoro;b) enti in possesso di accreditamento secondo le normative regionali che consente di svolgere atti-vità di formazione continua;c) enti in possesso della certificazione di qualità in base alla norma UNI EN ISO 9001:2008, settore EA37 in corso di validità per le sedi di svolgimen-to delle attività formative; d) Università pubbliche e private riconosciute e Istituti tecnici che rilasciano titoli di istruzione secondaria superiore;e) l’azienda.

Al fine della fruizione del diritto soggettivo, du-rante il terzo anno del triennio, il lavoratore farà richiesta scritta entro 10 giorni lavorativi prima dell’inizio dell’attività formativa alla quale inten-de partecipare, producendo, su richiesta dell’a-zienda, la documentazione necessaria all’esercizio del diritto soggettivo di cui al presente articolo. Le ore eventualmente non fruite, non saranno cumu-labili con le ore di competenza del successivo trien-nio, salvo che non siano state fruite per esigenze tec-nico-organizzative, compreso il superamento della percentuale massima complessiva di assenza con-temporanea di cui al comma 10 del presente articolo.Le iniziative formative svolte saranno debitamen-te documentate dall’ente erogatore o dall’azienda e saranno registrate in applicazione della norma-tiva vigente.

Per le iniziative formative di cui al comma 4, l’a-zienda, anche integrando le risorse pubbliche e

private a disposizione, sosterrà direttamente i co-sti fino a un massimo di 300 euro (sono in corso verifiche tecniche per introdurre una formulazio-ne adeguata rispetto alle norme fiscali). I lavoratori che contemporaneamente potranno as-sentarsi per partecipare alle iniziative formative di cui al presente articolo e all’art. 8, salvo diversa in-tesa aziendale, saranno di norma il 3% complessivo della forza occupata nell’unità produttiva, coerente-mente con le esigenze tecnico-organizzative. Nelle aziende fino a 200 dipendenti gli eventuali valori frazionari risultanti dall’applicazione della suddetta percentuale saranno arrotondati all’unità superiore. Le parti si impegnano, per quanto di loro compe-tenza, a dare opportuna diffusione delle novità normative in materia di formazione continua. Le Commissioni Paritetiche, Aziendali, Territo-riali e Nazionale, di cui all’art. 4, Sezione prima, effettueranno il monitoraggio dell’attuazione del presente articolo secondo quanto ivi specificato. L’attuazione di quanto previsto dal presente arti-colo, sarà oggetto di informazione alla R.S.U..Eventuali divergenze circa l’osservanza delle con-dizioni specificate dal presente articolo saranno oggetto di esame congiunto tra la Direzione e la Rappresentanza sindacale unitaria.Nel caso in cui permanga divergenza circa la cor-rispondenza fra le caratteristiche del corso che il dipendente intende frequentare e quanto previsto dal presente articolo, la risoluzione viene deman-data - in unico grado - alla decisione della Com-missione territoriale di cui all’art. 4, punto 4.3, Sezione prima.La Commissione territoriale decide all’unanimità entro venti giorni dalla data di ricevimento della istanza tra le parti, congiuntamente o disgiuntamen-te, avranno inoltrato, con raccomandata a.r. o Posta Elettronica Certificata, tramite le rispettive Orga-nizzazione sindacali territorialmente competenti.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458210

Fatti e oPinioni

Parole «comuni»di Giovanni Gobber

Laico e laicismoAvviene di usare parole che si presta-no a molte interpretazioni. È natura-le: ognuno è fatto a modo proprio e legge la realtà alla luce della propria esperienza. L’arena politica è ricca di parole così fatte. E la scuola è spesso presa di mira. Un caso tipico è l’ag-gettivo laico, con la sua famiglia di parole sensibili a letture ideologiche. Scherzosamente, Tommaseo rileva-va che “lo Stato è laico (non però che debba essere laido)”. Più seri sono i dizionari contemporanei: il De-voto-Oli registra laico nel senso di “credente cattolico non appartenente allo stato ecclesiastico (contrapposto a chierico)”; osserva poi che, usato come aggettivo, laico sviluppa un senso contrapposto a confessionale: in questo caso, denota istituzione (o persona) “che nel campo della pro-pria attività rivendica un’assoluta indipendenza e autonomia di scelte nei confronti della Chiesa cattolica o di altra confessione religiosa: scuola laica, stato laico”.Questi due sensi di laico emergono in contrapposizione rispetto ad altro: laico si intende come “non chierico” oppure “non confessionale”. E spes-so si trovano definizioni circolari: p.es. laico è persona o istituzione “che si ispira al laicismo”.È interessante anche la trattazione proposta dal Sabatini-Coletti per lai-co: come nome denota “chi si ispira al laicismo”; come aggettivo può si-gnificare anche “autonomo rispetto alle istituzioni religiose” e “non ispi-rato da una fede”, p.es. negli esem-pi educazione laica, scuola laica. Insomma, laico è “ispirato” (“dal laicismo”), ma anche “non ispirato”

(“da una fede”). È un aggettivo post-moderno: vuol dire di tutto.Ma che cosa si intende per laicismo? Guardiamo nello Zingarelli. Trovia-mo più definizioni; una è “tendenza ideologica che sostiene la piena indi-pendenza del pensiero e dell’azione politica dei cittadini dall’autorità ec-clesiastica”. Inoltre, in senso esteso laicismo vale “atteggiamento di chi si oppone a interferenze della gerar-chia ecclesiastica negli affari civili”. Tali definizioni sono in linea con il trattamento proposto dallo Zingarel-li per l’espressione Stato laico, che significa uno Stato “indipendente dall’autorità ecclesiastica”.Il senso proprio qui attribuito a lai-cismo è affidato a una definizione articolata in un generico “tendenza ideologica” e in uno specifico “la piena indipendenza [ecc.] dall’au-torità ecclesiastica”. A sua vol-ta, nel senso esteso il generico è

“atteggiamento”, lo specifico contie-ne la proprietà “affari civili”, che so-stituisce “pensiero e […] azione po-litica”, presente nel senso proprio. Se lo Zingarelli attribuisce a laicismo i tratti generici “tendenza ideologica” e “atteggiamento”, il Devoto-Oli si serve solo del secondo, nella de-finizione: “atteggiamento che pro-pugna la completa indipendenza e autonomia dello stato nei confronti di qualsiasi confessione religiosa gerarchicamente strutturata”. Que-sta definizione è anodina (cioè può voler dire di tutto): laicismo denota una caratteristica che, oggi, tutti, compresi i cattolici, riconoscono allo Stato laico. A volte però si esagera e le cose prendono una brutta piega: vi è chi non tollera che si lasci spazio pubblico a espressioni religiose. Pre-so in questo senso, laicismo è un’i-deologia che rivendica solo per sé il diritto di parola. È una ideologia prepotente. Ve n’è traccia nel Devo-to-Oli, là dove si legge che laicista indica un “sostenitore, talvolta pole-mico, del laicismo” e nega dunque la libertà religiosa. Anche nella scuola.

Giovanni GobberUniversità Cattolica di Milano

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 11

Problemi Pedagogici e didattici

Conflitto coniugale e processi educativi Le percezioni degli insegnantiMaria Teresa Moscato

CresCere in una situazione di Conflittualità o separazione familiare impliCa fatiChe Che la sCuola non solo non può trasCurare ma può viCeversa sostenere. Con qualChe attenzione.

La rilevanza e la diffusione dei conflitti coniu-gali, oggi, con tutte le inevitabili implicazioni e conseguenze che essi rivestono per i processi

educativi dei figli, sono tali da esigere un ripensamen-to totale e un diverso affronto del tema all’interno delle discipline pedagogiche1.In questo articolo affrontiamo alcuni problemi in par-ticolare dal punto di vista del mondo della scuola, che viene in effetti interessato dal fenomeno del conflitto coniugale, anche se non sempre con piena consape-volezza, né delle famiglie, né degli insegnanti. Nella scuola si possono osservare, di fatto, specifiche for-me di disagio dei figli/allievi, soprattutto preadole-scenti ed adolescenti2, che non sempre si traducono in un documentabile insuccesso scolastico. Si rileva-no modifiche dell’umore, difficoltà di concentrazione nell’apprendimento, mutismi e tendenza all’isolamento alternati a reazioni aggressive spesso inspiegabili, sen-sibilità eccessive ad alcuni temi e ad alcune situazioni in aula. In generale, si può dire che si osservano nel giovane allievo condotte incerte, ambivalenti e con-traddittorie, a vario titolo disturbanti, nei confronti dei suoi compagni e degli insegnanti. Solo in alcuni casi abbiamo anche un improvviso insuccesso, legato alla riduzione dei tempi di studio, a distrazioni da esso, e/o alla perdita di motivazione. In altri casi si nota piut-tosto un investimento eccessivo sul risultato scolasti-co visibile, come se il ragazzo dovesse “dimostrare qualcosa a qualcuno”. Sembra abbastanza evidente che alcune condotte aggressive trasferiscano sempre sugli insegnanti le dinamiche della relazione con i genitori, ma queste condotte non vengono sempre ricollegate al conflitto coniugale, neppure nelle percezioni dell’allie-vo e dei suoi genitori.

Una faticosa costruzione identitariaDi fatto, l’intera tematica, in tutte le sue implicazioni per l’educazione e la formazione dei figli, appare oggi poco studiata in termini di ricerca pedagogica. Dagli inse-gnanti essa è avvertita come un problema educativo solo parzialmente, o confusamente, spesso con forti interfe-renze legate alle proprie esperienze personali e a vis-suti specifici3. Sarebbe quindi professionalmente utile e perfino necessario ampliare e unificare la conoscenza di questo tema, e trovare un modello interpretativo fun-zionale di alcuni fenomeni di disagio, anche attraver-so la razionalizzazione e rielaborazione dell’esperienza professionale già compiuta. L’ipotesi teorica, in termini pedagogici, è che esista uno specifico problema educativo, generato dal conflitto coniugale, che presenta potenzialmente effetti negativi sullo sviluppo identitario dei figli della coppia; che tali dinamiche specificamente educative, per quanto ten-denzialmente riconosciute, non siano state ancora ade-guatamente esplorate e teorizzate in termini scientifici, e comunque non fino al punto da produrre criteri me-todologici spendibili da parte di educatori e insegnanti. Noi avanziamo l’ipotesi, sempre sulla base di “materiale grigio” raccolto negli ultimi anni, e di un certo modello

1. M.T. Moscato, Crisi del processo educativo nel conflitto coniugale. Una lettura pedagogica, in «Encyclopaideia», 18, 38 (2014), pp. 9- 32. 2. Non ci occupiamo qui dei bambini sotto i dieci anni, in cui il disagio è nettamente osservabile e la confidenza con gli insegnanti più facile e aperta. 3. Pur dentro una insufficienza oggettiva di studi e ricerche mirate, non manca però ampio “materiale grigio”: gruppi di insegnanti in formazione (TFA, Bologna, a.a. 2014/15), sollecitati da esercitazioni specifiche sul tema, mi hanno fornito riflessioni interessanti, legate alla loro esperienza, di cui mi avvalgo anche in queste pagine. Le mie analisi dipendono anche da una se-conda tipologia di “materiale grigio”: si tratta di scritture giovanili (studenti universitari di 20/22 anni), prodotte negli anni 2015 e 2016 dentro attività di formazione accademica, e spesso discusse in colloqui individuali.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458212

Problemi Pedagogici e didattici

teorico del processo educativo, che il nucleo centrale del problema, per i figli di un conflitto, non stia tanto nella ferita dei loro affetti, nelle difficoltà materiali, e dunque nel dolore che subiscono, ma piuttosto nella “lacerazio-ne psichica” del loro processo di costruzione identitaria, che subisce una battuta d’arresto per la crisi di fiducia e di stima nei confronti dei genitori in conflitto. In quan-to inconsapevolmente identificato con entrambi i pro-pri genitori, secondo un dinamismo che è già di per sé complesso, delicato e ambivalente, il figlio, soprattut-to quando i genitori si contendono il suo affetto, e lo coinvolgono in un giuoco di risentimenti e di vendette reciproche, subisce una “aggressione” di tale entità da determinare in lui un vero e proprio conflitto intrapsi-chico di difficile soluzione. Sentimenti di rabbia e delu-sione, sensi di abbandono, e soprattutto nascosti sensi di colpa, sembrano costituire una costante del vissuto del figlio, vissuto la cui rielaborazione appare possibile solo tardivamente (sembra non prima dei venti anni, e per molti giovani anche molto più tardi4). Sospettiamo che i conflitti coniugali entrino indirettamente anche nella genesi di relazioni sentimentali precoci (a partire dall’adolescenza), che si prolungano in relazioni adulte infinite, ma senza approdare mai positivamente a lega-mi di tipo coniugale5. Anche per questo, forse, il conflit-to tende e rigenerarsi nel passaggio da una generazione all’altra, all’interno di una stessa famiglia.

Una “didattica a sostegno dell’io”Dal punto di vista pedagogico, quindi, il figlio avrebbe bisogno di sostegni e di risorse educative che gli permet-tano di rielaborare i propri vissuti e di guadagnare stima e fiducia in sé, investendo su se stesso e sulla propria cre-scita le migliori energie psichiche di cui dispone. Invece egli si rivolge, tendenzialmente, ad un impossibile ritorno all’infanzia “felice”, e ad una compensazione affettiva al-trettanto impossibile. Nella scuola gli servirebbe quella che Bruner ha definito una “didattica a sostegno dell’Io”6, cioè un approccio didattico globalmente educativo, atten-to anche alle emozioni e alle motivazioni degli allievi, ol-tre che alla loro crescita personale7. Gli insegnanti, purtroppo, appaiono oggi troppo proiet-tati ed orientati all’efficacia didattica, alle strategie più funzionali di insegnamento e di apprendimento, sotto-valutando gli aspetti motivazionali, emotivi e socio-af-fettivi (ed anche etici), che determinano l’orientamento dei ragazzi verso la scuola, lo studio, le relazioni con i compagni e con gli insegnanti. E questo dipende molto dalle indicazioni e dalle proposte formative della pubbli-ca amministrazione, che oggi appare anche il commit-tente unico della ricerca pedagogica e della formazione

universitaria per gli aspiranti insegnanti. Noi dobbiamo invece richiamare la rilevanza educativa che le azioni professionali degli insegnanti, ed in molti casi sempli-cemente le loro parole e gli atteggiamenti, assumono o potrebbero assumere nei confronti dei figli di genitori in conflitto.In particolare, bisogna aggiungere che gli insegnanti, o almeno alcuni di essi, costituiscono molto spesso le uni-che figure adulte con cui bambini e adolescenti si con-fidano più facilmente, trovandosi così ad assumere una funzione educativa in momenti particolarmente delicati. Né va dimenticata la possibilità che siano i genitori in conflitto a parlare con gli insegnanti dei propri figli, e per tali colloqui sarebbe opportuno utilizzare strategie comunicative adeguate. Nella scuola per l’infanzia, in particolare, si è già osservato che insegnanti e coordina-tori possono essere investiti da richieste di supporto e di consulenza aperta, da parte di giovani genitori, spaventati dall’evidente turbamento dei loro bambini. Le richieste dirette si riducono, passando dai primi gradi scolastici al livello della secondaria, e si riducono ancora nel passag-gio dalla scuola media alla superiore, ma permane una percentuale forte di occasioni di dialogo e confronto geni-tori/insegnanti. Gli allievi inoltre si confidano spesso con almeno uno dei propri insegnanti, anche in questo caso in termini decrescenti con il crescere dell’età. I più silen-ziosi e riservati sono – ovviamente – i tardi adolescenti, i quali sembrano i più restii alla confidenza, ma anche alla “pubblicizzazione” delle loro vicende familiari nei con-fronti degli insegnanti, presumibilmente perché temono i

4. Sappiamo bene che la storia del rapporto con i propri genitori risulta og-getto di rielaborazioni progressive per tutta la vita adulta. Qui ci si riferisce ad un grado di rielaborazione personale sufficiente a permettere il percorso di crescita adulta dell’Io, e rispetto a questo i venti anni sembrano costituire una importante linea spartiacque. 5. Il conflitto genitoriale non è presumibilmente la sola causa di questa nuova tipologia di relazione sentimentale e sessuale precoce: esistono elementi cul-turali e di costume che vi confluiscono, modificando l’esperienza sociale dei ragazzi, inclusa la riduzione del numero dei fratelli e cugini coetanei, la con-servazione di rapporti amicali fin dall’infanzia, a partire dalla continuità dei gruppi classe, perseguita oggi come un valore, ma che in pratica cristallizza i ruoli sociali e non permette di sperimentarsi in altre possibilità. Ma certamen-te è il conflitto coniugale, che acuisce la paura di essere abbandonati e non amati, che si innesta oggi, forse su un difetto iniziale di speranza (nel senso di Erikson, cfr. E.H. Erikson, Introspezione e responsabilità (1964), trad. it., Armando, Roma 1968), non sufficientemente sviluppato nella prima infanzia. La mancanza di fiducia in se stessi e la scarsa autostima che rileviamo negli adolescenti e nei giovani oggi, sembra rivelare e nascondere una radicale “pau-ra di vivere” (il doppio negativo della virtù della “speranza”), che le relazioni precoci e indefinitamente prolungate mirano a “curare” per compensazione.6. J. S. Bruner, La cultura dell’educazione (1996), tr. it. Feltrinelli, Milano 1997. 7. Precisiamo che una “didattica a sostegno dell’Io” non è una didattica in-differente ai propri contenuti conoscitivi e/o alle abilità cognitive che suscita, ma che al contrario si basa anche su conoscenze e competenze, che costitui-scono di per sé risorse educative per l’Io in età evolutiva.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 13

Problemi Pedagogici e didattici

pettegolezzi in misura maggiore degli allievi più giovani.Si può stimare che esista comunque una significativa percentuale di ragazzi che parla del conflitto fra i suoi genitori almeno una volta, e almeno con un insegnante di cui si fida. Dunque gli insegnanti possono costituire una risorsa educativa veramente importante per questi allievi, assolvendo una funzione di supporto educativo essenzia-le, per quanto in larga parte inavvertita anche da loro.Gli insegnanti, in genere, non vengono scelti a caso come confidenti, dai loro allievi: si deve supporre che l’allievo li percepisca come persone positive e disponi-bili, oppure che abbia già instaurato con loro un lega-me, anche minimo, di fiducia e stima. E in effetti gli insegnanti più coinvolti dalle confidenze dei loro allievi sono realmente persone disponibili, che spesso si coin-volgono emozionalmente e affettivamente nel dialogo, e che cercano di rendersi utili all’allievo.Occorre però sottolineare che gli insegnanti in genere non percepiscono la conduzione di un colloquio come una delle loro responsabilità professionali, nonostante l’esperienza dimostri che nell’arco di una vita professio-nale un buon insegnante conduca centinaia di colloqui, con allievi e genitori (e talvolta anche con colleghi in difficoltà). Di fatto la tecnica del colloquio non è pro-posta, né prevista, dalla formazione ministeriale, e vie-ne piuttosto considerata di competenza esclusivamente psicologica, tendendo così a “patologizzare” ogni esi-genza di colloquio personale che una persona, giovane o adulta, possa manifestare nell’arco della sua vita. Per conseguenza gli insegnanti non percepiscono la neces-sità prioritaria di ridurre il loro coinvolgimento affettivo nei confronti dell’allievo, quando questi si confida con loro su argomenti tanto delicati. Un caso ricorrente, nei materiali grigi cui ho avuto accesso, è dato da forme di identificazione transitoria di giovani insegnanti, che sono stati a loro volta figli di un conflitto coniugale, e che percepiscono per primi le difficoltà di un allievo in queste situazioni, e che si lasciano coinvolgere imme-diatamente: “Mentre il ragazzo parlava mi pareva di vi-vere tutto quello che lui raccontava, al punto che avevo voglia di piangere: solo qualche minuto dopo ho capito che cosa mi stava succedendo. Credevo di aver dimenti-cato quel periodo, invece ne soffro ancora …”.È chiaro che ci sono oggi fra gli insegnanti, non solo molti figli di divorziati, ma anche molti coniugi separati e divor-ziati, protagonisti a loro volta di conflitti laceranti, e che sono dunque genitori di bambini contesi o di adolescen-ti in difficoltà, o anche membri di famiglie ricomposte. Questi adulti ricevono, dalle confidenze dell’allievo, un punto di vista sul conflitto che può essere per loro mol-to doloroso da rivivere, o anche solo da riconoscere. Le

interferenze emozionali costituiscono spesso anche una rete di pregiudizi interpretativi delle nuove situazioni. Occorre invece ricordarsi che non esistono due conflitti coniugali identici, come non ci sono due persone identi-che, e la reazione soggettiva alle difficoltà familiari può essere molto diversa anche fra due fratelli/ sorelle. Alcuni insegnanti si coinvolgono dunque eccessivamen-te, come se potessero “fare meglio questa volta”, e quindi applicano alla vicenda dell’allievo i propri vissuti. Altri, per le stesse ragioni, si sottraggono invece al confron-to con un allievo che provoca loro emozioni dolorose. Nell’uno e nell’altro caso, non si può essere professional-mente utili ai nostri allievi (e neppure alle loro famiglie). Solo insegnanti maturi, sia umanamente, sia professio-nalmente, riescono a utilizzare positivamente le loro per-sonali esperienze per sostenere i loro allievi, prendendo la giusta distanza e tenendo separati i rispettivi vissuti. Questi sono in genere gli insegnanti meno giovani e con lunghi anni di esperienza nella scuola8. Di norma, la loro efficacia dipende da una presa di distanza dai loro stessi vissuti, di figli o di genitori, da una buona rielaborazione personale dei loro “lutti”, e da atteggiamenti e giudizi più equilibrati rispetto a tutta la tematica. Per essere uti-li infatti, nella conduzione di un colloquio, occorre aver superato pregiudizi e moralismi, più o meno ideologi-ci, e avere invece acquisito intelligenza delle situazioni complessive e la forza morale di confrontarsi con esse. Anticipiamo subito che sono proprio questa matura in-telligenza della condizione umana, e tale forza morale, che il giovane allievo percepisce inconsapevolmente nel colloquio con l’insegnante, e che proprio da questo, per mezzo di una identificazione transitoria, egli assume for-za e orientamenti positivi per superare il momento che sta vivendo. In questo senso, per quanto sia importante suggerire agli insegnanti alcune strategie e tecniche del colloquio9, resta vero che la loro risorsa principale nel confronto, come in tutta la loro attività professionale, è sempre la loro stessa struttura di personalità, come ho più ampiamente spiegato in altre sedi10. Aggiungo che molti insegnanti adulti e tardo-adulti percepiscono e ri-conoscono che l’essersi occupati dei loro allievi e con-frontati con questi è proprio “ciò che li ha fatti crescere”, umanamente e professionalmente.

8. Ricordo che il materiale grigio di cui dispongo è stato prodotto da stu-denti e da insegnanti in formazione, non ancora abilitati, dunque da soggetti mediamente giovani. 9. Cfr. M.T. Moscato, Colloqui pedagogici e professione docente: una strate-gia sottovalutata?, in «Nuova Secondaria», n. 7, 2017, pp. 9-13.10. M.T. Moscato, Diventare insegnanti. Verso una teoria pedagogica dell’insegnamento, La Scuola, Brescia 2008; id., Preadolescenti a scuola, Mondadori Università, Milano 2013.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458214

Problemi Pedagogici e didattici

Il colloquio nelle situazioni di conflitto coniugale Per i figli del conflitto coniugale sono utili tutte le forme di supporto psicopedagogico che, fin dall’adolescenza, permettono una rielaborazione personale del vissuto re-lativo al conflitto. Dobbiamo considerare i colloqui con gli insegnanti come uno di questi possibili supporti. In questa particolare tipologia di colloquio si devono seguire alcune regole specifiche: per esempio è neces-sario non dare mai l’impressione di “prendere le parti”, né di un genitore e neppure di un figlio. Non si deve mai tentare di “compensare” la sofferenza con un sur-plus di affetto o di “indulgenza”, né in sede di colloquio, e neppure nella quotidianità della didattica, dopo che un allievo si è confidato con noi. Occorre ricordare che l’affetto dei genitori (che il ragazzo avverte mancante) non potrebbe in nessun caso essere “compensato”, ed in genere esso non manca davvero, neppure quando i due coniugi risultano travolti e dunque distratti dai loro reciproci conflitti e risentimenti. Occorre anche evitare assolutamente di pronunziare dei giudizi sui genitori in conflitto e sulle loro azioni, ed evitare di riconoscere le ragioni dell’uno o dell’altra, an-che se il figlio stesso le ha argomentate. Non minimiz-zare tuttavia, e non sottovalutare, la gravità percepita dal figlio, usando argomentazioni banalmente consola-torie come “Oggi si separano tutti”. L’ascolto attivo e la tecnica della ri-verbalizzazione, praticati da un insegnante, costituiscono un elemento essenziale per avviare, o per favorire, quei processi di rielaborazione personale del conflitto genitoriale che permetteranno al figlio di “prenderne le distanze”. Ciò che bisogna cercare di evitare, infatti, è che il figlio si lasci “risucchiare” dal conflitto genitoriale, prenden-do le parti, alternativamente, dell’uno e dell’altra. Che egli, restando identificato con i propri genitori, si lasci chiudere nell’orizzonte dei loro reciproci risentimen-ti, e che quindi il conflitto coniugale diventi, nella sua storia, anche l’unico orizzonte di senso della vita. E in-vece i ragazzi devono sempre “guardare oltre” e anche “guardare lontano”. In questo “guardare lontano” tutta la scolarizzazione, con le esperienze e con i contenuti conoscitivi che propone, giocherà un ruolo essenziale. Qualsiasi indicazione deve essere formulata nell’ottica di rassicurare il figlio, accrescere le sue speranze per il fu-turo, evidenziare le sue risorse, presentargli delle mete di crescita desiderabili, rafforzare gli elementi positivi presenti nella sua persona. Per questi ragazzi “crescere” equivale a “diventare il padre e la madre di se stessi”.

Maria Teresa MoscatoUniversità di Bologna

LE EDIZIONI STUDIUM RICORDANO MICHAEL NOVAK

Le Edizioni Studium ricordano con grande ri-conoscenza Michael Novak, Johnstown il 9 set-tembre 1933 e scomparso a Washington il 17 febbraio 2017, per aver reso possibile nel 1986 la pubblicazione in versione italiana per i suoi tipi dell’importante libro The Spirit of Democratic Capitalism (1982). Il libro Lo spirito del Capita-lismo democratico e il Cristianesimo, tradotto da R. Bruschi, A. Frati e M. Fratini, contiene un’am-pia presentazione di Angelo Tosato, nella quale si rievocano gli sviluppi della dottrina sociale della Chiesa e delle posizioni dei cattolici italiani nei confronti del capitalismo e si affronta, nella sua veste biblica, l’arduo problema esegetico dell’ap-parente anticapitalismo dei Vangeli.In particolare, nel libro si sostiene che il capitali-smo (quale organizzazione della vita economica) nasce congiuntamente alla democrazia (quale or-ganizzazione della vita politica), contrapponen-dosi agli antichi regimi totalitari e per garantire l’esercizio dei diritti umani fondamentali. Capita-lismo, democrazia e pluralismo sono i tre settori, coessenziali, di un unico sistema (il moderno stato di diritto); tra essi vige apertura e interazione, cia-scuno trovando nel principio di libertà (una libertà che possa effettivamente dispiegarsi) sia la tutela che i correttivi della propria autonomia.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 15

Problemi Pedagogici e didattici

Le piramidi del sacrificio infantile (2)Raniero Regni

il rapporto tra mito e violenza non si manifesta solo nelle antiChe Civiltà preColombiane, ma anChe nelle pieghe nasCoste di un Certo modo reCente di intendere l’eduCazione.

Facciamo un grande balzo indietro, dando uno sguardo a quel pozzo quasi senza fondo che è l’evoluzione umana. Nella storia della mente

dell’uomo, quella lunga, eroica e, per certi versi, com-movente, emersione dal mondo animale quale viene ricostruita dalla psicologia evolutiva, il salto o l’evolu-zione verso la coscienza umana, è data nel passaggio dalla coscienza episodica a quella mimetica e poi, so-prattutto, a quella mitica. Come possiamo vedere nei bambini, che forse la riper-corrono in gran parte, in età preverbale, c’è l’uso di un pensiero visivo indipendente dal linguaggio il quale si basa però su di un emergente pensiero mimico. “La capacità mimica – scrive M. Donald le cui affascinanti ricostruzioni sto proponendo qui di seguire – si fonda sull’abilità di produrre di propria iniziativa azioni rap-presentative consce, intenzionali e non linguistiche”1. I bambini non solo imitano ma mimano il mondo, già a quattordici mesi indicano puntando il dito: è la pri-ma testimonianza di intenzionalità. Si svincolano dal-la reattività episodica e coinvolgono l’invenzione di rappresentazioni intenzionali. Si tratta dell’attenzione condivisa2, la capacità di condividere con qualcuno un oggetto. La mimica è intenzionale e il suo scopo è rappresentare un evento. Nella mimica l’azione vie-ne distinta dal suo referente, viene simulato un evento. L’azione può così essere analizzata, riprodotta e ria-nalizzata, cioè rappresentata per se stessi. Riti e gio-chi, ma anche sport e teatro, sono i prodotti di questa coscienza che continua a vivere in noi anche quando subentra un altro tipo di coscienza come quella mitica, resa possibile dall’avvento del linguaggio umano che porta a condividere mondi fatti di parole.

La coscienza mitica e le piramidi del sacrificioLa mente umana si è evoluta da quella dei primati attra-verso una serie di grandi adattamenti, ognuno dei quali portò alla comparsa di un nuovo sistema rappresenta-tivo. Ciascun sistema rappresentativo si è conservato intatto nell’architettura mentale attuale. Sicuramente

il sistema simbolico è stato il più potente strumento di rappresentazione della realtà. Simboli che non esistono in natura ma che rappresentano il mondo. Da quel mo-mento l’essere umano ha assunto quasi quasi una secon-da natura, quella culturale, artificiale, simbolica che ha finito per intercettare ogni suo rapporto con il mondo. La potenza performativa e illocutoria del gesto è stata interpretata dalla parola che la rafforza e la spiega, il rito ha trovato un suo complemento potente nel mito. Sul rito, il mito e il gioco come gradi originari della cul-tura umana c’è un importante dibattito e una sterminata letteratura, su quale sia il grado zero della cultura che ci fa diversi dagli animali. Dico soltanto che il bisogno di spiegare e interpretare il mondo è una delle funzioni fondamentali della stessa mente umana. Il bisogno di narrare una storia per dare senso al mondo e alla vita è inestinguibile. Per cui il passaggio presunto dal Mythos al Logos è in gran parte da reinterpretare. Dal mito, in realtà, non si esce mai definitivamente. L’uomo non è solo un animale simbolico ma un animale mitico. Dal mito si esce creandone un altro, una spiegazione signi-ficativamente alternativa del mondo. Si sa che il mito, al suo inizio, aveva una connotazione religiosa e la pa-rola greca rimanda alle imprese degli dei e degli eroi semidivini. Ovunque rappresenta l’intervento di esseri o forze soprannaturali nelle cose degli uomini. Ma, in età moderna, è stato, tra gli altri, G. Sorel a riprendere il concetto e a impiegarlo in un contesto secolarizzato. Nelle sue Riflessioni sulla violenza (1908) egli intende per mito un qualsiasi insieme di idee che infonde un si-gnificato trascendente alla vita degli uomini. È qualcosa che richiama l’antica esaltazione religiosa ma si applica ad un contesto e ad un contenuto diverso, comunque con modalità che trascendono la razionalità pratica e teorica.

1. M. Donald, Evoluzione della mente. Per una teoria darwiniana della co-scienza (1996), trad. it., Bollati-Boringhieri, Torino 2011, p. 200.2. “Se portate fuori il cane e gli indicate la luna, il cane guarderà il vostro dito e poi probabilmente voi. Se portate fuori un bambino piccolo e gli indica-te la luna, il bambino guarderà la luna”, K. Robinson, Fuori di testa. Perché la scuola uccide la creatività (2012), trad. it., Erickson, Trento 2015, p. 140.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458216

Problemi Pedagogici e didattici

In questo senso il socialismo per lui rappresentava un mito. «Gli uomini vivono di miti»3, osserva il già citato Berger, miti politici e promesse messianiche di un uni-verso libero dall’oppressione. Nel ‘900 i due miti politici più potenti sono stati quel-lo dello sviluppo capitalismo e quello della rivoluzione, quello dello sviluppo attraverso la crescita economica, quello della fine dello sfruttamento attraverso la rivolu-zione. «Il mito della crescita idealizza la scelta e il con-trollo; il mito della rivoluzione rappresenta l’aspirazione a una comunità redentrice»4. Il mito o il substrato mitico di atteggiamenti che appa-iono a prima vista anche come razionali dal punto di vista strumentale sono generati dal bisogno tipicamente umano, conseguente la coscienza mitica, di dare senso all’esistenza. Secondo P. Berger, ma la sua ascendenza è evidentemente weberiana, «il bisogno di significato è quasi certamente radicato nella natura umana. L’uomo è l’animale che proietta significati nell’universo»5. Il biso-gno di significato è il fenomeno centrale della vita sociale e culturale e riguarda sia la dimensione conoscitiva che quella normativa, dice agli uomini sia come il mondo “è” che come “dovrebbe essere”, per cui «il bisogno umano di significato è un universale storico e transculturale»6. Una società non può stare in piedi senza tutta una serie di si-gnificati condivisi dai suoi membri i quali a loro volta non possono dare senso alla loro vita senza questi significati. Il significato religioso ed etico dà senso all’esistenza, spiega il mistero della nascita e della morte, dà senso alla sofferenza e al dolore. Ma, molto spesso, il mito impo-neva sacrifici. Non a caso, al centro della scena rituale c’è un sacrificio (sacrum facere), un’azione sacra che in passato, ma forse ancora oggi, chiede grandi sacrifici umani. È la conclusione cui giunge Berger osservando la grande piramide di Cholula. Un sito sacro per le po-polazioni mesoamericane, olmechi, toltechi e aztechi, distrutta e riedificata ad ogni nuova conquista, ultima delle quali quella spagnolo che costruì una chiesa sulla sua sommità. Di fronte a questa grande piramide, «giun-si a due conclusioni: che ogni piramide fosse legittimata da un mito, e che ciascuna avesse richiesto enormi sacri-fici al popolo governato dai creatori del mito. Le civiltà mesoamericane credevano che gli dei avessero bisogno di essere nutriti con il sangue dei sacrifici umani, che venivano ritualmente consumati sulla sommità della pi-ramide. Gli aztechi furono i più sanguinari, poi vennero gli spagnoli e anch’essi imposero sacrifici sfruttando la popolazione indigena e con i roghi dell’Inquisizione. Il mito del nazionalismo messicano moderno proseguì la catena»7. La piramide è il simbolo potente e sconvolgente della forza produttrice e distruggitrice dei miti umani, che impone però oggi un calcolo della sofferenza e un

calcolo del significato nuovi. Questa forza non è venuta meno nell’età moderna. C’è stato un cambiamento fon-damentale, «la modernizzazione è un passaggio dal dato alla scelta sul piano del significato»8. L’autonomia e la libertà diventano valori fondamentali, anche se non per tutti e non dovunque e comunque non senza un costo da pagare. La razionalità strumentale e la pluralità riducono la sicurezza o meglio la certezza, «gli uomini moderni sono costretti a chiedersi di continuo cosa possono cre-dere, cosa devono fare, e infine chi sono»9. La società moderna ha trovato una soluzione a questo problema con l’emergere della sfera privata. Qui possono essere colti-vati quegli aspetti che la razionalità funzionale esterna considera irrazionali ma che in realtà sono indispen-sabili. Ma la dimensione pubblica e quella privata non possono essere separate a lungo e più spesso collidono e si invadono reciprocamente e periodicamente. E questo rappresenta un problema anche per la convivenza odier-na in contesti che mescolano popoli e culture.

L’infanzia è un mito?A questo punto è necessaria una ricapitolazione. I miti delle civiltà mesoamericane precolombiane, esempio grandioso del potere creativo della mente mimica e di quella mitica, hanno prodotto le piramidi del sacrificio umano. Mutate le forme, anche il mito moderno dello sviluppo così come quello della rivoluzione, al di là di un giudizio storico che deve necessariamente distin-guere tra gli esiti delle due mitologie in termini di co-sti-benefici, hanno prodotto le loro piramidi su cui sono stati sacrificati degli esseri umani. Da qui sorgono due

3. P.L. Berger, Le piramidi del sacrificio. Etica politica e trasformazione sociale (1974), trad. it., Einaudi, Torino 1981, p. 19.4. Ibi, p. 29.5. Ibi, p. 202.6. Ibi, p. 204.7. Id., Come vi spiego il mondo senza annoiarvi (2012), trad. it., Il Mulino, Bologna 2012, p. 159.8. Id., Le piramidi del sacrificio, cit., p. 206.9. Ibi, p. 212.

Quetzalcoatl, Monumento olmeco numero 19 di La Venta

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 17

Problemi Pedagogici e didattici

domande. I riti sanguinari che hanno accompagnato i miti potranno mai cessare nella storia umana? Questa è la prima questione che l’esperienza messicana mi pone di fronte. La seconda, ancor più rilevante per la presente ricerca, è la seguente: l’esaltazione del ruolo salvifico dell’infanzia e di una sua nuova educazione, rappresen-ta anch’esso un mito? M. Gauchet risponderebbe di sì, M. Montessori risponderebbe di no. Ma, come vedremo, alla fine, forse anche il primo convergerebbe, dopo una serie di distinguo, sulle tesi della seconda. Il filosofo e studioso delle idee francese sostiene che oggi, in occidente, siamo di fronte alla creazione di un “bambino immaginario”, «se il XX secolo è stato quello della scoperta del bambino reale, il XXI secolo si apre nel segno della sacralizzazione del bambino immagina-rio»10. Pediatria, psichiatria, psicologia e pedagogia han-no contribuito alla scoperta dell’infanzia. Se in passato i bambini erano stati “culturalmente invisibili”11, esseri sospesi tra la vita e la morte, in una specie di tempo di prova, oggi, in un momento in cui la sopravviven-za, almeno nella parte ricca del mondo, è diventata una sicurezza e la mortalità infantile è stata ridotta ad un evento raro e tragico, i bambini sono oggetto però di una mitizzazione mistificante. La pedagogia e la psico-analisi hanno affermato l’alterità decisiva dell’infanzia e la permanenza dei suoi effetti. La dimensione infantile è divenuta dimensione costitutiva dell’umano per cui l’uomo è definito dall’infanzia. Questo genera, secondo Gauchet, una metafisica dell’infanzia che poi la cultura che egli definisce “psi” ha portato ad una vera e propria mitizzazione. Ieri l’infanzia era una sorta di “impensato filosofico”, il bambino era ciò di cui era compito dell’a-dulto liberarsi. Oggi gli adulti si vedono attraverso i bambini, si proiettano in loro in base alla loro differenza riconosciuta. Il bambino è divenuto un essere mitologi-co, figlio del desiderio, del privato, dell’uguaglianza, un figlio come ideale del sé, come utopia politica. Dall’infanzia, dalla quale ci si doveva liberare, si è pas-sati all’infanzia alla quale si sogna di rimanere fedeli. Ossessione di restare giovani, infanzia come ideale del sé, decostruzione delle figure della maturità e della viri-lità, discredito della maturità come ideale, divaricazione della sessualità procreativa rispetto a quella ricreativa. Il bambino diventa il possibile puro, corrisponde alla spontaneità espressiva, incarnazione di quella mitologia dell’espressione in cui culmina la morale dell’autenticità. Se il compito è rimanere in contatto con il proprio sé più profondo contro il sé sociale, il bambino conserva un con-tatto essenziale con l’immediato, è un maestro di sempli-cità. Il compito dei genitori è il fare la felicità dei propri figli. «L’infanzia rappresenta né più né meno che la nostra ultima speranza di vedere realizzato un mondo diverso

da quello che conosciamo»12. Solo grazie all’infanzia pos-siamo ancora accedere, di fronte alla crisi dell’avvenire, ad un percorso verso il futuro. Il bambino come utopia realizzata, formata da individui compiutamente autorea-lizzati, che scoprono se stessi per autocostruzione, capaci di creare una coesistenza senza violenza. Il filosofo francese pone un’obiezione seria. Soprattutto se confrontata con chi, come Montessori, sostiene invece l’esistenza di un potenziale umano che c’è e può e deve essere liberato davvero nell’infanzia. Anzi, Montessori sembrerebbe proprio l’obiettivo polemico di Gauchet. Ma in realtà non è così. Provo a riassumere la posizione mon-tessoriana13. Ovviamente una Montessori sottratta ad una visione un po’ asfittica, manualistica, riduttiva, classifi-catoria che la definisce come pedagogista, creatrice di un metodo. Una visione, sia detto per inciso, apparentemente vera ma che finisce per occultare la verità che il pensiero riposa su di una scoperta molto più grande che chiede an-cora di essere accettata e continuata da parte della ricerca scientifica intorno all’essere umano. Questa scoperta è la scoperta dell’infanzia, del bambino padre dell’uomo. Per Montessori i bambini sono deboli, per questo sono sempre stati disprezzati e incompresi. L’infanzia è invece forte. L’infanzia è così forte da essere fatale sia per le sorti del singolo che dell’umanità. La scoperta dei poteri infan-tili oggi continua con la scoperta della plasticità cerebra-le. Il cervello del bambino è il padre del cervello dell’uo-mo. L’infanzia è, per la scienza e non per il mito, l’età più importante e creativa, quella più assorbente e ricettiva, nella quale l’educazione fa biologia. Il periodo di massi-ma passività e debolezza è invece il periodo di massima attività neurale, vedi la sinaptogenesi che è massima nei primi mille giorni. Così l’infanzia è fatale per il destino adulto e per il destino dell’umanità. Resta però un paradosso contro cui Montessori lotta. I bambini sono facili da amare ma difficili da capire. Sono come un’altra specie. Questo è il segreto dell’in-fanzia da cui nasce l’incomprensione tra il popolo dei

10. M. Gauchet, Il figlio del desiderio. Una rivoluzione antropologica, trad. it., Vita e Pensiero, Milano 2009, p. 3.11. P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica, trad. it., R. Cortina, Milano 2010.12. M.Gauchet, Il figlio del desiderio, cit., p. 14.13. Mi permetto di rinviare ad una serie di miei scritti che continuano la mia personale ricerca montessoriana iniziata con R: Regni, Infanzia e società in Maria Montessori. Il bambino padre dell’uomo, Armando, Roma 2007, come id., Ostaggio di un’idea, Introduzione a G. Alatri, Il mondo al femminile di Ma-ria Montessori. Regine, dame e altre donne, Fefè Editore, Roma, 2015, pp.5-16; Id., Pedagogia dell’attenzione e distrazione di massa, Atti del Convegno Internazionale La mente del Bambino. Maria Montessori e le Neuroscienze, Brescia, 8 ottobre 2014, Il Leone Verde, Torino 2015; Id., Sempre in esplora-zione, tra scoperta dell’infanzia e formazione degli adulti, in AA. VV., Il volo tra le genti di Montessori, oltre ogni confine, Fefè Editore, Roma, 2016, pp. 69-86; testi che preannunciano una ricerca ancora in corso e in via di scrittura.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458218

Problemi Pedagogici e didattici

bambini e la società degli adulti. Questa incomprensione è così radicale, anche perché nascosta da un mantello di comportamenti e di evidenze apparentemente contrarie come l’amore e il fatto che facciamo tutto per i bambini. Questa incomprensione porta ad una paradossale lotta che assume le forme di una vera e propria guerra tra adul-ti e bambini. Questa radicale incomprensione e questa guerra quotidiana è l’origine del male per Montessori per-ché provoca delle ferite inguaribili nell’anima infantile. Il bambino una volta cresciuto si vendica sulla società ripro-ducendo comportamenti distruttivi. Per cui se si vuole la pace e la collaborazione dobbiamo fare la pace e collabo-rare con i bambini e con l’infanzia dentro di loro. Ma per collaborare dobbiamo conoscere, studiare, sperimentare. Montessori ci restituisce un’immagine reale del bambino e al contempo radica nella scienza, non nel mito, la spe-ranza che un’educazione nuova porti ad un mondo nuovo. Speranza ed aspirazione che non sono frutto, per la prima volta, di una mitologia costruita dalla società degli adulti a scapito del popolo dei bambini. Ecco che Gauchet, lo studioso del disincanto del mondo e della mistificazione della religione a scopo di potere, intercetta una tendenza in atto ed un pericolo per i bam-bini delle società ricche che però non intacca minima-mente la forza dell’infanzia quale è sostenuta nella sua analisi, in questo senso sì scientificamente demitizzante ma altrettanto scientificamente esaltante, di M. Montes-sori. La visione adulta dell’infanzia è oggi un ostaco-lo epistemologico e pratico all’impresa educativa. Una multiforme mistificazione dell’infanzia che finisce per rappresentare un notevole ostacolo all’impresa educati-va. Una mitologia, un immaginario sociale dell’infan-zia, che spinge gli adulti a desiderare talmente la felicità dei propri figli da perdere completamente di vista i loro reali bisogni. «In definitiva, sotto le vesti di questo culto dell’infanzia noi abbandoniamo il bambino a se stesso nella gestione della sua difficile situazione; celebrando-lo, lo ignoriamo»14. Al bambino reale viene sostituito il “figlio del desiderio”, desiderio adulto di avere un figlio. Viene negata così una fase di crescita tranquilla e natu-rale. L’infanzia diventa un tempo mitico di pura auto-realizzazione. «A fronte di un interesse senza paragoni per il bambino, emerge un misconoscimento strutturale dell’esperienza infantile. Il culto dei piccoli dei, dei pic-coli re non impedisce l’ignoranza e il disinteresse di ciò che effettivamente è dato loro vivere»15. Si finisce per creare un vuoto tra la verità dell’esperienza infantile e le aspettative che il loro mondo suggerisce agli adulti. Queste conclusioni, mosse da presupposti in apparenza i più distanti immaginabili da Montessori, sono invece perfettamente in linea con quanto lei sostiene. La meta-fisica dell’infanzia appare l’ennesima metamorfosi del

fraintendimento adultocentrico a scapito dell’infanzia e del suo reale potenziale di liberazione. L’infanzia, nella prospettiva montessoriana provata nei suoi esperimen-ti e confermata quotidianamente nella pratica di tante educatrici nel mondo, non è un mito. Il Bambino come Messia di cui Montessori parla è alla confluenza del-la ricerca neuroscientifica odierna più profonda e della profezia religiosa più aperta. C’è poi da dire che Montessori può dare un contribu-to fondamentale non solo alla comprensione della reale condizione infantile ma anche alla sua storia, confer-mando la tesi di chi sostiene che «non possa esistere sto-ria dell’infanzia senza una solida teoria dell’infanzia»16.

La pedagogia nera e le ferite dell’anima infantile Torniamo per un momento alle piramidi del sacrificio. I Toltechi importarono in Messico il culto di Quetzalcoatl, il dio del serpente piumato, «probabilmente la divinità più

14. Ibi, p. 16.15. Ibi, p. 37.16. S. Franchini, Moloch e i bambini del re. Il sacrificio dei figli nella Bib-bia, Studium, Roma, 2016, p. 12. Sulla difficoltà “soggettiva” e aggiuntiva della storia dell’infanzia, che è dovuta al fatto che anche lo storico è stato un bambino e la sua infanzia entra in risonanza con il materiale che va racco-gliendo e studiando, osserva sempre Franchini, “i maggiori storici dell’in-fanzia…sostengono sovente che tale oggetto di studio sia sempre stato un tema negletto della storiografia soprattutto perché i bambini comparirebbero raramente nelle fonti e lascerebbero dietro di sé tracce relativamente scarse e tenui, quasi sempre trasmesse grazie alla mediazione degli adulti. A noi sembra invece che la ragione principale di questo disinteresse storiografico secolare vada ricercata non tanto nello sfuggente oggetto di studio, quanto piuttosto nel problematico rapporto gnoseologico che con esso instaura il soggetto stesso dello studio: non è dunque un caso che la storia dell’infanzia sia sorta nel preciso momento in cui le discipline storico-sociali hanno fatto proprie le basilari acquisizioni della psicoanalisi”. Ibi, p. 18.

Fritz e Anton von Kenner, Ramsamperl. Pubblicato a Vienna nel 1903, concepito come volume natalizio, il libro narra di una bambina con la brutta abitudine di stare troppo vicina al fuoco del camino, e per questo motivo, durante la notte di Natale, viene rapita e tenuta prigioniera all’interno della canna fumaria da Ramsamperl, demonietto caprino figlio di Pelzmertel. Al fianco di San Nicolò (a sua volta inviato da Gesù Bambino), Pelzmertel riuscirà poi a liberare la bambina.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 19

Problemi Pedagogici e didattici

sanguinaria della storia delle religioni»17. Si calcola che in un singolo anno, non molto tempo prima della conquista spagnola del 1521, diecimila vittime siano state sacrifi-cate a Quetzalcoatl nella sola Tenochtitlàn (la moderna Città del Messico). «Ciò che stordisce e paralizza la mente – osserva Berger - è l’uso di mezzi realistici al servizio di una metafisica a un tempo rigorosamente razionale e delirante, l’insensato sacrificio di vite a un concetto pie-trificato»18. Come molte società antiche, quella azteca era una società del sacrifico. In essa la follia omicida si sca-tenava sulle vittime sacrificali in una correlazione tra la violenza e il sacro che è stata scandagliata da R. Girard come fondamento stesso del potere e della coesione socia-le. È forse questa una caratteristica delle società a domi-nanza maschile, le uniche ad essere conosciute, secondo cui la donna dà la vita e solo l’uomo può dare la morte in battaglia oppure nei rituali. Ma è anche possibile che questa violenza sia estranea alle nostre radici antropolo-giche e sia frutto di una paura che ha una «provenienza esterna, un’origine che trascende la nostra costituzione antropologica, pur costituendone ormai una componen-te riconoscibile, e che somiglia alla colossale proiezione di un’altrettanto colossale paura arcaica (Urangst). Il pri-mordiale timore degli ominidi di essere divorati dai carni-vori e soprattutto l’angoscia di essere mangiati vivi spin-gono i maschi a uccidere per difendere il gruppo, di cui diventano col tempo eroi, sovrani e divinità, importando cosi all’interno del gruppo stesso la violenza esercitata al suo esterno. Questa angoscia ancestrale e questa violenza vengono riattivate nel presente da ogni situazione attuale di pericolo mortale, reale o presunto»19. Sulla tradizione sacrificale, soprattutto di quella che ha al suo centro quello che è stato definito il “triangolo sa-crificale” adulto-divinità-infanzia, a cui corrisponde il triangolo politico-teologico di tipo “patriarcale” paterni-tà-sovranità-infanzia, appaiono illuminanti e rivoluzio-narie di un intero paradigma storiografico ed ermeneutico le tesi di S. Franchini, secondo il quale questa tradizione assume le forme di una vera e propria ideologia, quella che ha attribuito a molte società antiche del Mediterra-neo il sacrifico rituale dei bambini. «Questa ideologia – scrive Franchini – consiste nell’ammettere che, in epoca antica, fu in vigore un infanticidio cultuale sistematico, svolto eventualmente, ma non necessariamente, in onore di una divinità chiamata, in origine, con il nome biblico Moloch e in seguito identificata con i suoi omologhi oc-cidentali: Ba‘al Hamon, Kronos e Saturno. Con, ripetia-mo, rare ma preziose eccezioni, il presupposto tacito, la cornice indiscussa delle varie spiegazioni fin qui addotte dalle discipline coinvolte è stato (ed è tutt’oggi) il “para-digma sacrificale”, l’esigenza cioè di scoprire nei testi e nei reperti archeologici le prove dell’esistenza di sacrifici

umani e in particolare di infanticidi rituali, ed eventual-mente di una specifica divinità che li pretendeva»20. La tesi appare importante e convincente e forse spiega come si sia costruito questo vasto complesso sacrificale nelle popolazioni semitiche, e non solo, del mondo mediterra-neo antico21. Per il mondo del centro America le evidenze archeologiche e storiche appaiono invece inconfutabili. La pratica del sacrificio umano, non di quello infantile in particolare, appare generalizzata e inconfutabile. «Il sa-crificio è un delitto religioso: lo si compie in nome dell’i-deologia ufficiale, sulla pubblica piazza, dinanzi agli occhi di tutti. L’identità del sacrificato è fissata da regole rigorosissime»22. E mostra la prevalenza della forza del tessuto sociale sull’individuo. Le diverse cronache fatte dai conquistadores e da coloro che li seguirono raccon-tano le pratiche rituali in cui venivano sacrificati anche bambini. In cima alle piramidi i sacerdoti strappavano il cuore e lo offrivano al dio della pioggia Tlàloc o al sole per garantirsi la fertilità dei cicli naturali, allo stesso dio si sacrificavano bambini prima della semina perché si pensava che le loro grida fossero gradite alla divinità della pioggia. Le cronache descrivono genitori piangenti nel vedere i figli sacrificati che pure loro consideravano associati ad un specie di privilegio23. Oggi siamo lontani dai sacrifici umani e dalle pratiche di cannibalismo che scandalizzarono i conquistatori spagnoli ma non siamo così lontani dai genocidi e dalle pratiche crudeli di cui essi stessi si macchiarono all’ini-zio della storia moderna. La condizione dell’infanzia è infinitamente migliorata così come il riconoscimento dei diritti dei bambini. Eppure, mutate le forme, il sacrificio del bambino come tradizione continua sotto forma di

17. P.L. Berger, Le piramidi del sacrificio, cit., p. 4.18. Ibi, p. 8.19. S. Franchini, Moloch e i bambini del re, cit., p. 50.20. Ibi, p. 40.21. Che il Tofet o Tafet, invece di essere il cimitero punico dove venivano sepolti i bambini sacrificati ritualmente a crudeli divinità “maschili”, sia in-vece un cimitero dove venivano inumate le salme degli aborti o dei bambini che presentavano malformazioni, dopo essere state “purificate” dal fuoco, e quindi oggetto di una pietà funebre “femminile”, è una tesi interessante sul piano storico e teologico che non può essere discussa in poche righe. Più importanti, almeno dal punto di vista pedagogico di questo scritto, appaiono le implicazioni con la “Pedagogia nera”. Per cui l’archetipo della pedagogia nera non è la figura né l’esistenza di un dio Moloch in sé, ma, al contrario, la costruzione e soprattutto la lunga sopravvivenza dell’ideologia sacrificale associata al Moloch, la “macchina astratta chiamata culto di Moloch”, è inve-ce il frutto della violenza delle pratiche educative della “pedagogia nera”. “Se perciò Moloch non è storicamente esistito, è tuttavia storicamente esistito il bisogno di esprimere e simbolizzare quanto Moloch rappresenta nella manie-ra più efficace: l’immolazione “pedagogica” dei figli, il medesimo sacrificio cui anche l’adulto, da bambino, ha dovuto sottomettersi, in una catena di trasmissione potenzialmente ininterrotta di traumi, coercizione e innegabile violenza famigliare”, in Franchini, Moloch e i bambini del re, cit., p. 311. 22. T. Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’altro (1982), trad. it., Einaudi, Torino 1984, p. 175.23. Ibi, p. 278.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458220

Problemi Pedagogici e didattici

“sacrificio pedagogico”, di “immolazione pedagogica dei figli”. Come osservava A. Miller, «dalla storia dei sacrifi-ci umani e del cannibalismo, risalendo fino agli aztechi, si può imparare come le più svariate religioni abbiano santificato il sacrificio umano per giustificare e nobili-tare i delitti compiuti dai genitori sui figli»24. Ma quella pratica non si è estinta ed ha assunto forme diverse e in molti casi subdole perché ammantate dalla pretesa educa-tiva della razionalizzazione pedagogica. Quella che è sta-ta chiamata, con efficace metafora, la “pedagogia nera”.Chi ha coniato questa espressione è stata Katharina Rut-scky (1941-2010), una sociologa tedesca che nel 1977 pubblicò una ricerca intitolata Schwarze Pädagogik nella quale, questa erede della Scuola di Francoforte, analizzava scritti di educatori e pedagogisti tedeschi dal ‘700 alla fine dell’800. «La pedagogia nera è il ten-tativo tendenzioso di documentare le conseguenze e i fenomeni collaterali derivanti dall’attenzione cui sono stati esposti i bambini a partire dal XVIII secolo»25. La sua ricerca consiste in una raccolta commentata di que-sti scritti dai quali emerge non una contro-storia dell’e-ducazione occidentale, né un’ipotesi di antipedagogia libertaria e antiautoritaria, ma emerge qualcosa di molto più oscuro e preoccupante, ovvero una specie di ombra, di negativo della migliore educazione moderna, quella che parte proprio dal voler illuministicamente migliora-re l’esistenza umana sin dall’inizio della vita. Il libro de-scrive la violenza continua e quotidiana, l’autoritarismo più abrasivo e pericoloso perché nascosto dalle buone intenzioni cui sono stati sottoposti i bambini nelle fami-glie tedesche (e non solo) nel corso di due secoli. Quella che ha scoperto la Rutschky è una dialettica dell’illuminismo pedagogico. L’educazione, la pedago-gia e gli educatori agiscono sotto la costrizione di ten-denze inconsce di amore pervertito. L’educazione diven-ta scienza, si occupa dell’infanzia, la quale deve essere corretta sin dall’inizio perché rappresenta la versione secolarizzata della salvezza dell’umanità. Ma a questa vera scoperta fa seguito un’educazione subdolamente autoritaria che la rinnega e la perverte. È questa la – complessa – razionalizzazione dell’irrazionale obbligo all’educazione razionalistica. L’educazione razionale deve cominciare sin dalla nascita sottraendo il bambino piccolo alla sua relazione naturale, quella con la madre. Persino Emilio, nell’opera omonima di Rousseau, ap-pare come un bambino già completamente visto come prodotto artificiale di un educatore. Anche in autori importanti come Herbart o Fröbel si teorizza l’amputa-zione pedagogica dell’individualità a favore del discipli-namento del carattere, «tutto ciò che si trova al di fuori dell’insegnamento viene ora percepito come minaccioso e il bambino come nemico»26.

Il processo di civilizzazione produce il processo di ra-zionalizzazione dell’educazione. Occuparsi dell’infan-zia diventa una missione che però si realizza in una più sistematica educazione del bambino dentro la famiglia e nella scuola. La scoperta dell’infanzia nella società mo-derna (quella descritta da Elias e Ariès) coincide con la sua pedagogizzazione, educazione e quindi con la fine dell’infanzia. Il disagio della civiltà è il prezzo del pro-cesso di civilizzazione ma il residuo velenoso è l’emer-gere del carattere distruttivo e violento dell’educazione. Si tratta di una pedagogia del male, della violenza, della mala-ripetizione contenute in tutte le pratiche educative e scolastiche. Dal parto allo schiaffo, dai capricci alle punizioni, l’infanzia subisce da sempre e in ogni luogo, ma con modalità educative diverse, una violenza opaca e impenetrabile perché avviene alle spalle della coscien-za individuale e collettiva, sin dai primi anni di vita. Il bambino è incapace di riconoscere l’atto di violenza su-bita e dunque è pronto a perpetuarla. Tutti i bambini, non solo quelli violentati e abusati, maltrattati e malnutriti negli affetti, tutti i bambini subiscono un’amputazione sistematica e continua delle loro sensibilità e capacità, dalla nascita, che li porta a introiettare, dove più dove meno, il male subito e, nell’impossibilità di attribuirlo ai genitori e agli adulti, che pure li amano e si prendono cura di loro, lo riproducono nelle loro vite scaricandolo poi sugli altri inermi destinati a diventare vittime. La violenza perpetrata sui bambini incontra così la vita degli adulti, legando gli uni agli altri nella catena tran-sgenerazionale del trauma, in una dialettica intergenera-zionale di riproduzione del male. Come sostiene Perti-cari, nella lunga e opportuna Introduzione al libro della Rutschky, i bambini “sempre pieni di grazia” incontra-no presto la violenza, l’abuso, la colpevolizzazione della vittima, e questo sia nelle forme estreme che oggi fini-scono sui giornali che nelle forme più sottili e diffuse di violenza praticata dentro e fuori la famiglia. La storia dell’educazione tedesca, con il terribile disciplinamento del carattere, studiata dalla Rutschky e messa in scena dal film di Aneke Il nastro bianco, porta dritto dritto alla banalità del male, smascherata dalla Arendt, il cui prodotto più spaventoso è stato Auschwitz.

Raniero RegniUniversità LUMSA, Roma

24. A. Miller, La fiducia tradita. Violenze e ipocrisie dell’educazione, trad. it., Garzanti, Milano 1991, p. 84.25. K. Rutschky, Pedagogia nera. Fonti storiche dell’educazione civile, (P. Perticari ed.), trad. it., Mimesis, Sesto San Giovanni 2015, p. 171.26. Ibi, p. 225.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 21

Problemi Pedagogici e didattici

Orientamenti didattici e studenti stranieriMarco Lazzari

il perCorso orientativo dei ragazzi di origine straniera, di prima e seConda generazione, deve tenere Conto di fattori Complessi e, a volte, Condizionanti. Come garantire a tutti piene opportunità?

La scorsa primavera il lungo fine settimana calcisti-co del 25 aprile è stato aperto da una partita nella quale è accaduto un fatto singolare, di cui hanno

parlato i giornali sportivi e non, che non era mai capitato prima in Italia in una partita di serie A: le due squadre che si affrontavano, Inter e Udinese, sono scese in cam-po nello stadio di San Siro schierando a inizio partita 22 giocatori stranieri. Non c’era in campo neanche un ita-liano. E così s’è continuato fino al trentatreesimo minuto del secondo tempo, cioè per quasi tutta la partita, quando ha lasciato la panchina ed è entrato sul terreno di gioco il primo italiano dell’incontro. Si chiama Éder Citadin Mar-tins, è nato in un paesino nel sud del Brasile; un bisnonno veneto gli ha concesso di godere della doppia nazionalità e di giocare per la nazionale italiana.È piuttosto ragionevole supporre che il Lettore medio di questa rivista non sia un fine intenditore di calcio, però anche chi non si interessa di calcio avrà sentore che il nostro campionato è pieno zeppo di giocatori provenien-ti da ogni dove (talvolta dei veri brocchi).La stessa Inter qualche anno fa era stata la prima squadra italiana a cominciare una partita schierando 11 stranieri.Non è poi tanto strano, visto che l’Inter è programmati-camente votata alle rose infoltite da giocatori non italiani (e talvolta dei veri brocchi): infatti quando fu fondata, nel lontano 1908, lo fu per volontà di ex dirigenti del Milan che volevano una squadra che non bloccasse il numero di stranieri in rosa, così come invece aveva scelto il Milan; i padri fondatori del Football Club Internazionale Milano volevano che la nuova squadra potesse «facilitare l’eserci-zio del calcio agli stranieri residenti a Milano».Lo stesso nome completo dell’Inter, e cioè Internazio-nale, la dice lunga sulla sua vocazione – e non a caso in cupi tempi di autarchia e sciovinismo fu obbligata a ridenominarsi Ambrosiana.Va osservato che, nell’era della globalizzazione, vede-re 22 giocatori stranieri contemporaneamente in campo non è poi un’anomalia, quanto piuttosto il compimento

di un processo. Comunque sia, si è trattato di un mo-mento significativo e, come tale, sottolineato dai mezzi di comunicazione di massa.

Terreni differenti, diverse proporzioniSu un terreno di gioco un po’ meno blasonato di quello di San Siro, il giorno seguente mi è capitato di assistere a una partita di pulcini.Anche lì, per altri motivi, spirava un’aria internazionale. Segna il primo gol un “italiano”, il secondo un maroc-chino, il terzo un francese, il quarto un boliviano (e an-che il quinto e il sesto). Bimbi di famiglie migranti, che da grandi saranno italiani come e più di Éder (il quale potrà scusare un’espressione così politicamente scorret-ta da parte di un suo tifoso).Allora mi è venuta l’idea di confrontare il panorama del campo sportivo, a occhio e croce rappresentativo della popolazione delle nostre scuole primarie, con quello di un noto liceo della mia città: senza spostarmi dal dominio sportivo, sono andato a sbirciare il gruppo Facebook delle attività sportive del liceo e l’ho visto pieno zeppo di foto-grafie, come si usa nella comunicazione adolescenziale.E chi c’era in quelle fotografie? Un sacco di aitanti ado-lescenti bianchi come il latte, con cognomi tipicamente orobici. Cognomi e colori ben diversi da quelli del cam-po da calcio e da quelli che, per esperienza di ricerca sul campo1, capita di incontrare nei centri di formazio-ne professionale. Campionamento metodologicamente poco robusto, si potrebbe obiettare; ma icasticamente coerente con quanto rilevato in indagini svolte nelle scuole bergamasche prendendo in considerazione cam-pioni di migliaia di studenti2.

1. Cfr. M. Lazzari, The role of social networking services to shape the dou-ble virtual citizenship of young immigrants in Italy, Proceedings of the IADIS International Conference ICT, Society and Human Beings, 2012, pp. 11-18.2. Cfr. M. Lazzari - M. Jacopo Quarantino (Eds.), Identità, fragilità e aspet-tative nelle reti sociali degli adolescenti, Sestante, Bergamo 2013.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458222

Problemi Pedagogici e didattici

Allora mi viene da chiedermi che fine fanno tutti quei bimbi che alle elementari calciano il pallone sui campo dei nostri oratori e che poi, quando arrivano all’adole-scenza, non compaiono negli annuari dei licei.Dov’è che li mandiamo a studiare? Dov’è che li mandia-mo a formarsi per il futuro? Come mai al liceo troviamo solo (o quasi) italiani DOC? Per quale futuro preparia-mo bimbi e bimbe migranti? Per diventare i nuovi Balo-telli? Per essere tutte “sguattere del Guatemala”, come diceva una famosa ex ministra?Nell’atto costitutivo del Football Club Internazionale Milano, i padri fondatori scrivevano che era loro inten-zione facilitare l’esercizio del calcio agli stranieri resi-denti a Milano. E noi, cent’anni dopo, come ci adoperia-mo per facilitare l’esercizio delle professioni intellettuali agli stranieri residenti a Milano e dintorni?Il passaggio successivo della mia piccola indagine è con-sistito nell’andare a spulciare tra gli iscritti a un appello di informatica del dipartimento di Lingue della mia uni-versità (un esame obbligatorio per tutti): tra i primi venti cognomi, sette sono decisamente non italiani.Ma allora da qualche parte nelle nostre università si forma una classe dirigente che è venuta a sciacquare in Arno (e nel Serio e nel Brembo) dei panni tessuti altrove.Ciò non toglie che ci si possa chiedere come mai nei licei “non passa lo straniero”. Come mai la scelta nella quale è maggiore l’influenza della famiglia e della scuola3, cioè il passaggio dalle medie alle superiori, porta i figli di fa-miglie immigrate a iscriversi principalmente a scuole tec-niche e professionali, mentre poi la scelta più personale, quella tra l’università e l’abbandono degli studi, li porta a continuare. Un fenomeno carsico. Non sarebbe allora meglio che accedessero a un corso di laurea come quello in lingue straniere passando per il liceo, piuttosto che per scuole tecniche o per la formazione professionale?Il Lettore, che già aveva storto il naso con il campione di Facebook, sarà sobbalzato sulla sedia nel leggere che 7 cognomi su 20, ossia il 35%, erano non italiani. Mi perdonerà l’artificio retorico, basato su una confiden-za con la distribuzione dei cognomi stranieri maturata elaborando grandi moli di dati4: tra i cognomi che co-minciano per A ci sono molti più stranieri che altrove nell’alfabeto. Ma si vorrà tranquillizzare, sapendo che non mi sono limitato all’impressione del gruppo Face-book e dei primi venti nomi della lista, e sono andato a verificare i numeri delle immatricolazioni di quest’anno all’Università di Bergamo.Gli studenti di nazionalità non italiana sono tanti. Men-tre invece in prima battuta sfuggono quelli che italiani già sono, ma nati da famiglie migranti. E anche su quelli sarebbe interessante fare un ragionamento. E da noi sono tantissimi, come mostrano i sette cognomi non italiani

su venti (che non esauriscono il lotto, al quale si dovreb-bero aggiungere per esempio i sudamericani di cogno-me italiano, del tutto trasparenti a questo tipo di analisi). Restando agli stranieri, si tratta di circa 200, più o meno il 5% delle matricole. Quasi tutti extracomunitari. Dun-que, certamente molto meno di quell’ipotetico 35% per vari motivi, primi fra tutti l’influenza sull’accesso all’u-niversità dello stato socio-economico della famiglia di provenienza e il fatto che ancora non è arrivato alle so-glie dell’accademia il picco dell’immigrazione giovanile (né delle seconde generazioni), che peraltro è comunque ben lungi dal costituire il 35% delle coorti dei dicianno-venni: secondo l’ISTAT, gli allievi stranieri nelle scuole italiane sono oltre il 10% nelle primarie e sopra il 4% nelle immatricolazioni alle università5.Delle elaborazioni sugli iscritti, due sono particolar-mente significative.Su tutta l’Università di Bergamo, se si guarda al tipo di diploma degli studenti extracomunitari, la percentuale di quelli che vengono da scuole professionali è doppia rispetto alla stessa percentuale tra gli italiani.E ancora, se si guarda agli immatricolati a Lingue stra-niere, che con Economia aziendale è il corso di laurea più gettonato dagli stranieri, si vede che tra i cittadini italiani la percentuale di provenienti dal professionale è il 10%, tra gli extracomunitari il 40.Per ragioni personali non ho nulla contro le traiettorie non lineari, ed è chiaro che bisogna tener presente che ci sono ragazzi che maturano pian piano, altri che hanno voca-zioni tardive, altri ancora che all’epoca della scelta delle superiori erano in Italia da poco e si sa che le convinzioni di autoefficacia, che sono così determinanti rispetto alla formazione delle aspirazioni di carriera6, possono aumen-tare con il passare degli anni e la conquista di un più sicu-ro dominio dell’italiano appreso come L2. Tuttavia è forte il sospetto che ne restino comunque tanti che avrebbero fatto meglio a scegliere diversamente le superiori.Oppure, non sarà che l’errore stia nel volere a tutti i co-sti andare all’università? Comunque sempre un errore di scelta sarebbe – e quindi probabilmente di orientamento.Sarà interessante monitorare le coorti di studenti in questione, per vedere come si sviluppano le carriere

3. Istituto Giuseppe Toniolo, La condizione giovanile in Italia, il Mulino, Bologna 2016.4. M. Lazzari, Spazi ibridi tra la Rete e la Piazza: l’evoluzione della comu-nicazione degli adolescenti ai tempi dello smartphone, in M. Lazzari - M. Jacono Quarantino, Virtuale e/è reale. Adolescenti e reti sociali nell’era del mobile, Sestante, Bergamo 2015 (pp. 45-80).5. Istat, Immigrati.Stat: dati e indicatori su immigrati e nuovi cittadini, http://stra-dati.istat.it.6. A. Bandura et al., Self-efficacy beliefs as shapers of children’s aspirations and career trajectories, in «Children Development», 72, 1 (2001), pp. 187-206.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 23

Problemi Pedagogici e didattici

degli studenti che hanno fatto il passaggio professio-nale – università.Il problema è che ci possono essere profezie che si au-to-avverano: se uno studente dopo il primo anno ha superato esami per soli 10 crediti a Lingue e dopo il secondo smette, che cosa se ne può dedurre? Chi gli aveva consigliato il professionale potrebbe sentirsi confermato nella sua indicazione, che avrebbe mirato al mondo del lavoro in alternativa all’università. Ma se il fallimento fosse invece dipeso dalla storia prece-dente? Se fosse stato inesorabilmente determinato dal percorso alle superiori? Da sliding doors che si sono aperte nel modo sbagliato?

Un orientamento attento alle variabili in giocoE allora ritorna la domanda: come orientiamo i nostri ragazzi? Come garantiamo la «pari dignità sociale» dei nostri ragazzi, così come predicata dall’articolo 3 della nostra Costituzione? Come rendiamo inclusiva (e non piuttosto esclusiva) la nostra scuola?La scuola è aperta a tutti, come prevede l’articolo 34. E in effetti tutti ci entrano. Ma quali corridoi imboccano? Da quali porte (o finestre) escono? Dove possono trova-re qualche ascensore sociale, ammesso che ne esistano? Come, dove e perché si disperdono? Come rendiamo ef-fettivo il diritto dei «capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi», di «raggiungere i gradi più alti degli studi»?Nelle nostre scuole, ma ormai anche nelle università, si sta affermando un modo di guidare i ragazzi nelle loro scelte di transizione scolastica che non vuole essere solo il consiglio orientativo dell’ultimo momento, quanto in-vece un orientamento permanente, una forma di accom-pagnamento degli allievi che li aiuti davvero a trovare la strada che fa per loro, andando oltre automatismi fondati su preconcetti e per niente personalizzati.

Rispetto a questo modus operandi anche l’alleanza for-mativa tra scuola e famiglia può trovare modi d’essere che valorizzino tutte le risorse delle quali il Paese di-spone e ha bisogno, quali che siano il loro colore e le condizioni socio-economiche di partenza.Quali sono i problemi, alcuni dei problemi, con le famiglie migranti? Come si interagisce con loro? Come li si può ef-ficacemente orientare senza escluderli a priori da percorsi scolastici che siano forme di promozione umana e sociale?Prima di tutto, si deve avere presente che le famiglie alle spalle dei ragazzi migranti sono spesso diverse da quelle dei locali nella loro capacità e disponibilità di intera-zione con la scuola. Magari la famiglia non c’è proprio. Dando ascolto ai referenti dell’orientamento di varie scuole del nostro territorio emerge la percezione comu-ne che in molte culture e situazioni il padre non c’è, è sparito, l’alunno dice genericamente di vivere con uno zio, che in sostanza è un membro della comunità, che magari vive in maniera distaccata il problema dell’avve-nire del “nipote”. Spesso le mamme hanno competenze linguistiche limitate e l’interazione è difficile, se non addirittura mediata dagli stessi figli.In questo scenario risulta arduo vincere l’attrito che frena i ragazzi quando li si vuole affidare a esperti di orientamento per incontri di approfondimento, perché sovente le famiglie non apprezzano la necessità, l’utilità e il significato di interventi del genere.In molti casi la famiglia assume di aver sottoscritto un patto formativo con la scuola, un patto che è inteso dal-la famiglia come una vera e propria delega in toto alla scuola, per quanto riguarda la formazione, la disciplina, l’orientamento.E però molti studenti migranti, ma in particolar modo molte studentesse, non hanno l’abitudine a quelle forme di responsabilità e autonomia che stanno alla base di scelte

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458224

Problemi Pedagogici e didattici

consapevoli. Nonostante la letteratura7 ci suggerisca che instaurare relazioni meno formali e fredde tra insegnan-ti e allievi, in particolare con le ragazze, potrebbe avere positivi effetti sulla loro agentività e di conseguenza sulle loro scelte di studio e carriera, simili atteggiamenti non sempre sono praticati nelle nostre scuole.È anche da considerare che spesso i genitori, quando ci sono, non conoscono il nostro sistema scolastico e l’arti-colazione della secondaria superiore, men che meno l’of-ferta formativa universitaria, ammesso che la contempli-no nei loro orizzonti e nella loro visione del futuro.Viceversa, in molte altre situazioni le famiglie si raffi-gurano il sistema di istruzione del nostro Paese a im-magine e somiglianza di quello del loro, azzardando corrispondenze che nel nostro contesto potrebbero non essere giustificate. E questo governa e predetermina le loro scelte. Oppure arrivano avendo già l’idea, matura-ta nelle comunità di appartenenza, che serva un certo tipo di diploma, per un futuro che vedono riproiettato al Paese d’origine. Che magari è un paese africano dove le industrie cinesi stanno investendo pesantemente nel comparto X e allora serve mano d’opera di tipo f(X).Allora, se vogliamo dare corso ad attività e progetti di orientamento scolastico (nonché di accesso al lavoro) che siano «sviluppati con modalità idonee a sostenere anche le eventuali difficoltà e problematiche proprie degli studenti di origine straniera», così come disposto dalla legge 107, l’informazione, la formazione e l’ac-compagnamento devono tenere conto di tutte queste va-riabili e varianti che abbiamo preso in considerazione.In questo senso l’università può essere un valido compa-gno di viaggio della scuola nel percorso di messa a fuo-co dei criteri che devono ispirare l’orientamento. Sarà necessaria serena disposizione all’ascolto, senza la pre-tesa di inventare nulla che non sia basato sull’esperienza concreta di chi vive ogni giorno a scuola e affronta il problema, con le difficoltà di barcamenarsi tra ragaz-zi che non sempre sono cooperativi, famiglie non sem-pre presenti, colleghi non sempre disposti e disponibili a collaborare, a condividere l’attività di orientamento, così frequentemente sentita altro da sé.Si parlava all’inizio di calcio e calciatori. Le nostre squadre di calcio crescono nei loro vivai campioni di ogni razza e colore, la domanda è se riusciranno a farlo anche le nostre scuole.

Marco LazzariUniversità di Bergamo

Verso un codice di condotta dell’insegnanteMarcello Ostinelli

l’etiCa professionale dell’insegnante, data spesso per sContata, è una Consapevolezza Che va viCeversa Costruita, Condivisa e resa espliCita.

Negli ultimi decenni vi è stato uno sviluppo im-portante della riflessione teorica sull’identità professionale dell’insegnante, in particolare

sui problemi specifici dell’etica dell’insegnamento nella scuola pubblica. Gli studi e gli interventi riuniti nel vo-lume Un’etica per la scuola1 intendono contribuirvi con una riflessione che considera soprattutto la legittimità e l’opportunità di un codice di condotta dell’insegnante. Essi condividono la convinzione espressa anche da altri, secondo cui esso è costitutivo dell’identità professionale minima degli insegnanti2. Tra le ragioni più importanti che spiegano i recenti pro-gressi teorici dell’etica per la scuola vi è la diffusione dalla seconda metà del secolo scorso di una cultura dei diritti e più in particolare la tendenza alla loro specifi-cazione, cioè alla determinazione di soggetti specifici titolari di particolari diritti. Tra i nuovi soggetti vi sono tanto i bambini e gli adolescenti quanto i loro genitori. Il riconoscimento di diritti di libertà dei minori e di diritti dei genitori in materia di educazione dei propri figli ha avuto come diretta conseguenza la definizione di precisi obblighi speciali dell’insegnante della scuola pubblica.

Gli obblighi speciali dell’insegnanteA questo processo di specificazione dei diritti si è ac-compagnata dalla fine del secolo scorso l’affermazione del principio di rendicontazione (accountability). Esso stabilisce che chiunque svolga una funzione pubblica è

1. M. Ostinelli – M. Mainardi (eds.), Un’etica per la scuola. Verso un codice deontologico dell’insegnante, Carocci editore, Roma 2016.2. C. Xodo, Deontologia delle professioni educative, in: Ead. (ed.), Deonto-logia e qualificazione delle professioni educative, Pensa Multimedia, Lecce 2004, p. 71.

7. A.S. Kimberly et al., The relation of cultural context and social relation-ships to career development in middle school, «Journal of Vocational Beha-vior», 75, 2 (2009), pp. 100-108.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 25

Problemi Pedagogici e didattici

caratteristico valore interno. Anche l’insegnamento, analogamente alla medicina, ha infatti un proprio fon-damento ontologico: se, seguendo Edmund Pellegrino, identifichiamo quello della medicina nell’esperienza universale della malattia e della guarigione6; per l’inse-gnamento diremo che esso è l’esperienza umana univer-sale dell’ignoranza e dell’apprendimento. La neutralità è invece un valore esterno indispensabile della scuola pubblica. Essa è ricavata dalla considerazio-ne del fatto del pluralismo ragionevole che caratterizza la società occidentale contemporanea e dal riconosci-mento del valore dell’eguaglianza politica dei cittadini di fronte allo Stato. Della neutralità è plausibile soltanto un’interpretazione ristretta, nel senso che lo Stato, le sue istituzioni (come la scuola pubblica) e i suoi funziona-ri (come gli insegnanti) sono neutrali se le loro scelte sono giustificate da ragioni pubbliche, indipendenti da dottrine religiose o secolari della vita buona, nonostan-te che le possibili conseguenze di queste scelte ne pos-sano favorire o danneggiare qualcuna7. Peraltro il fatto del pluralismo ragionevole nella società contemporanea accresce in modo determinante la diversità come pure la complessità delle situazioni e dei bisogni educativi rendendo un’attività di per sé antichissima relativamen-te nuova o “giovane”, sicuramente più impegnativa e più difficile rispetto al passato, soprattutto «per quanto at-tiene alla professionalità ed all’impegno lavorativo»8. È il medesimo fatto che si ritrova tra gli insegnanti con le loro differenti convinzioni pedagogiche e didattiche. Ri-spetto ad esse i principi ed i valori enunciati nel codice stabiliscono vincoli minimi, concedendo al soggetto la facoltà di valutare quale sia la soluzione pedagogica e didattica migliore tra quelle che hanno superato lo sco-glio dei divieti imposti9.

tenuto a rendere conto delle proprie scelte a tutti i legit-timi portatori di interesse (stakeholders). La rendicon-tazione comporta pertanto per l’insegnante della scuola pubblica l’obbligo di giustificare le proprie scelte cultu-rali, pedagogiche e didattiche tenendo conto dei diritti e degli interessi degli allievi, dei loro genitori, dell’auto-rità scolastica, del potere politico e della società civile.La definizione precisa degli obblighi speciali che de-rivano dal peculiare ruolo dell’insegnante della scuola pubblica è stata favorita anche dall’irruzione nella ri-flessione filosofica dell’etica applicata e in particolare dagli sviluppi degli studi di etica delle diverse professio-ni. L’etica professionale è un caso particolare di etica di ruolo. Una professione si distingue infatti da una mera occupazione non tanto per il prestigio sociale di cui gode o per i lauti guadagni che assicura, quanto per un certo ideale di servizio. Un professionista è infatti qualcuno che dispone di conoscenze specifiche approfondite che mette al servizio degli altri; è qualcuno che accetta di accollarsi gli obblighi morali speciali derivanti dal pro-prio ruolo persino nel caso in cui ciò dovesse richiedere il sacrificio del suo interesse personale. A differenza dell’etica medica e di quelle di altre profes-sioni l’etica della scuola è un’acquisizione molto recente dell’etica applicata. Fino a pochi decenni or sono si rite-neva che nell’insegnamento gli aspetti etici fossero scon-tati, anche per i novizi e non soltanto per gli insegnanti esperti. La complessità del contesto sociale e culturale at-tuale della scuola pubblica rende le scelte dell’insegnante più difficili e non più scontate, anche per gli insegnanti esperti e non soltanto per i novizi. Anche nell’insegna-mento è dunque opportuno disporre di un codice di con-dotta con propri principi, valori e norme, così come è ac-caduto nella tradizione millenaria dell’etica medica con il Giuramento di Ippocrate e recentemente in altre profes-sioni con l’adozione di un codice deontologico. Il caso dell’etica medica è particolarmente interessante. I suoi principi e le sue norme si sono evoluti nel tem-po, integrando valori che progressivamente sono stati riconosciuti dalla società, accanto a quelli che originano dalle caratteristiche intrinseche della professione3. Il ragionamento si può estendere all’insegnamento. Il codice di condotta dell’insegnante della scuola pubblica dovrà comprendere sia valori interni sia valori esterni4. I primi sono determinati dalle caratteristiche intrinse-che dell’insegnamento; i secondi da un’interpretazione appropriata della funzione pubblica nel contesto plurali-stico della società contemporanea. La credibilità dell’insegnante, ricavata dalla compren-sione del rapporto di dipendenza epistemica5 che ca-ratterizza la relazione tra insegnante e allievo, è un

3. Per esempio in Svizzera è in vigore dal 1 luglio 1997 un nuovo Codice deon-tologico dei medici in cui accanto a norme proprie dell’etica medica tradizio-nale (come il vincolo del segreto professionale) ve ne sono altre (come quelle relative all’applicazione del principio del consenso informato del paziente per qualsiasi prestazione medica) che riflettono i profondi mutamenti culturali del-la società contemporanea e gli sviluppi recenti della medicina e della biologia. 4. M. Ostinelli, Il codice di condotta dell’insegnante tra valori interni e va-lori esterni della professione, in id., Un’etica per la scuola, cit., pp. 37-56.5. J. Hardwig, Epistemic Dependence, in «The Journal of Philosophy», LXXXVII, 7 (1985), pp. 335-349.6. E. Pellegrino, The Internal Morality of Clinical Medicine: A Paradigm for the Ethics of the Helping and Healing Professions, in «Journal of Medicine and Philosophy», XXVI, 6, (2001), pp. 559-579.7. J. Rawls, Political Liberalism. Expanded edition. Columbia University Press, New York 2005, cap. V.8. C. Xodo, Deontologia delle professioni educative, cit., p. 117.9. E. Prairat, L’idea deontologica, in id., Un’etica per la scuola, cit., p. 34. Analogamente C. Xodo sostiene che le norme del codice «esaltano la libertà del soggetto» (id., Deontologia delle professioni educative, cit., p. 114).

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458226

Problemi Pedagogici e didattici

Etica professionale e deontologia della professioneLa definizione di un catalogo completo e ordinato dei valori interni e di quelli esterni dell’insegnamento nella scuola pubblica di oggi può essere visto come il risul-tato del contributo della filosofia dell’educazione (che, intesa in senso stretto, analogamente alla filosofia della medicina elaborata da Pellegrino, avrebbe il compito di identificare il fondamento ontologico di questa attivi-tà) e di quello dell’etica professionale, come analisi del ruolo di una professione nella società. In questo senso, l’etica professionale deve essere accuratamente distinta dalla deontologia della professione, se è vero che essa, come afferma Eirick Prairat, «emana sempre da coloro che fanno parte di una professione come manifestazione del loro desiderio di autogovernarsi»10 o «di rivendicare almeno una parziale autodeterminazione»11. Al riguardo ci è sembrato opportuno precisare che l’ac-cettazione del principio di rendicontazione applicato alla funzione pubblica esclude che un codice di con-dotta risulti legittimamente da un processo di sola au-toregolazione degli insegnanti, benché sia facilmente comprensibile il loro «desiderio di autogovernarsi» o quanto meno di rivendicare il diritto alla partecipazione al processo di stipulazione del codice. Del resto «tener conto della coscienza etica e dell’esperienza lavorativa dei professionisti del settore» nella redazione del codi-ce12 non implica necessariamente che da questo processo debbano essere esclusi altri portatori d’interesse.L’adozione di un codice di condotta può essere conside-rata una tappa obbligata del processo tuttora in corso di professionalizzazione dell’insegnamento nella scuola ob-bligatoria e post-obbligatoria. Se è vero che l’esistenza di un codice di condotta non trasforma una qualsiasi occu-pazione in una professione, nondimeno senza di esso ben difficilmente può essere considerata una professione.Non è certo che il processo per cui l’insegnamento sia considerato ovunque una professione che comporta ob-blighi morali speciali enunciati in un codice di condotta possa concludersi in breve tempo. Prevale tuttora una certa indifferenza degli insegnanti nei confronti della richiesta. C’è ancora chi continua a credere che le norme di condotta che riguardano gli insegnanti non possano essere che ovvie e risapute e che pertanto, almeno per loro, l’adozione di un codice sia in fondo superflua. Non tutti gli insegnanti però la pensano a questo modo. A contrario si potrebbero citare diversi esempi di codice di condotta adottati con convinzione da associazioni di insegnanti sparse nel mondo occidentale. Il caso del Co-dice di deontologia delle insegnanti e degli insegnanti della Svizzera romanda è emblematico: pubblicato con scarso successo in una prima versione sulle pagine della

rivista dell’associazione nel 194813, esso venne rielabo-rato dalla Società pedagogica romanda nel 1995, poi adottato nel 1997 e infine fatto proprio anche dal Sin-dacato degli insegnanti romandi nel 2003. La versione attualmente in vigore è stata approvata nel 201114. Il pro-cesso è stato lungo e impegnativo, ma almeno in questo caso esso è stato coronato dal successo. C’è da augurarsi che l’idea trovi accoglienza anche altrove.

Marcello OstinelliScuola universitaria professionale della Svizzera italiana

10. E. Prairat, De la déontologie enseignante. Presses universitaires de Fran-ce, Paris 2009, p. 19.11. Id., L’idea deontologica, in: id., Un’etica per la scuola, cit., p. 24.12. C. Xodo, Deontologia delle professioni educative, cit., p. 76.13. Projet d’une charte des éducateurs, in «Educateur et bulletin corpora-tif», LXXXIV, 33 (1948), pp. 604-605. Il testo era composto di un preambolo e di quindici articoli. In modo esplicito il preambolo riconosceva l’esistenza per l’insegnante di «obblighi speciali».14. Code de déontologie des enseignantes et des enseignants adhérents du Syndicat des enseignants romands, Editions du SER, [Martigny] 2012.

1918-2018CONCORSO FOTOGRAFICO “LUOGHI E SUGGESTIONI DELLA PRIMA GUERRA

MONDIALE”

In occasione dei 100 anni dalla fine della Prima Guerra Mondiale, la rivista Nuova Secondaria or-ganizza un concorso fotografico dal titolo: “1918-2018: luoghi e suggestioni della Prima Guerra Mondiale”.Le migliori dieci immagini a colori inviate da uno stesso autore saranno utilizzate come copertine dei numeri di Nuova Secondaria dal n. 1 di settembre 2017. Sono ammessi soggetti che riguardino i luo-ghi e le suggestioni intorno alla Grande Guerra.Il primo classificato avrà in omaggio un abbona-mento alla rivista digitale del valore di 45,00 euro (annata 2017/2018). Le immagini del secondo e ter-zo classificato saranno impiegate, con l’indicazione dell’autore, come illustrazioni di saggi ed articoli dedicati allo stesso tema.Le fotografie dovranno essere inviate entro e non oltre il prossimo 10 giugno 2017 in formato digitale all’indirizzo [email protected] dovranno rispettare le seguenti specifiche tecniche.

• Formato verticale 11 x 15 cm o 13 x 17 cm• Risoluzione minima (300 dpi) 1345x1794 pixel (1499x1994 per 13x17)• Potenza minima del sensore 2 Mpx.• Formato immagine *.jpeg (preferibile).

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 27

Problemi Pedagogici e didattici

Il riassunto: una competenza da riscoprireSara Fasolo, Paolo Nitti

strutturare un riassunto è operazione linguistiCa e ConCettuale Che riChiede abilità e al Contempo CostruisCe Competenze spendibili nei più svariati Contesti: sColastiCo, aCCademiCo, lavorativo, quotidiano.

Insegnare a riassumere1

Il tema è un esercizio fondamentale delle competenze linguistiche, ma (soprattutto il tema letterario) non è più richiesto agli studenti al termine della scuola seconda-ria. In ambito accademico, si esigono relazioni, tesine e tesi che, più che a conferma dell’avvenuta assimila-zione di nozioni, sono valutati per qualità delle sintesi critiche ed efficacia argomentativa, abilità che il solo tema è esercizio insufficiente a sviluppare2. Gli studenti, nell’accostarsi a testi non più o non esclusivamente let-terari, devono saperne identificare i nuclei informativi, distinguere informazioni centrali e accessorie, produrre una sintesi originale, ovvero ciò che costituisce la defi-nizione di “riassumere”.A voce o per iscritto, riassumiamo di continuo3. Finalità diverse del reimpiego di un testo, con funzione privata o pubblica, possono richiederne riassunti anche molto di-versi fra loro: sintetizziamo per memorizzare i contenuti in vista di un esame o per un archivio di informazioni da utilizzare in futuro? Ci leggerà un professore, per va-lutare la nostra competenza in materia, o qualcuno che non conosce il contenuto del testo di partenza?La prima attenzione suggerita agli insegnanti è di svin-colare il riassunto dalla verifica dell’apprendimento e non lavorare quindi solo su testi letterari (di fatto più difficili da riassumere, per la loro valenza non prevalen-temente referenziale). Si dovrebbero allenare i ragazzi a riconoscere tipologie testuali diverse e a parafrasarle usando lessico e morfosintassi alternativi. Gli articoli di giornali e riviste, ad esempio, presentano il pregio del-la brevità e le insidie dello stile giornalistico, districarsi tra le quali è condizione imprescindibile per informarsi criticamente. La lettura parallela di presentazioni dif-ferenti di uno stesso tema addestra a individuare gli argomenti chiave, non sempre posti all’inizio, e a disve-lare il punto di vista dello scrivente, spesso dissimulato

da una dichiarata o presunta obiettività (differenza tra argomento e argomentazione; tra tema e rema); è utile riformulare le espressioni gergali, colloquiali e micro-linguistiche, di cui la prosa giornalistica è ricca, allenan-dosi nel contempo all’uso del dizionario.Come esercizi propedeutici allo sviluppo delle abilità rias-suntive, si potrebbero proporre la riduzione o contrazione del testo (evidenziare le informazioni ridondanti e acces-sorie). Nel confrontare svolgimenti diversi, si dovrebbe badare a evidenziare la non sovrapponibilità dell’elimi-nare blocchi di testo con il riassumere (riassunto per co-pia-incolla o per sottolineatura) e il diverso grado di rile-vanza delle informazioni, presenti nel testo di partenza, a seconda delle funzioni e finalità attribuite alla sintesi.Il più possibile gli allievi devono “mettere le mani” nei testi, smontarli per comprenderne le logiche e ricom-porli secondo logiche diverse; è fondamentale che i te-sti vengano «“sezionati”, “guardati al microscopio” e “manipolati”, in modo che risulti alla fine chiaro come sono stati costruiti, attraverso quali strategie, e perché»4. Deve esserci un «rapporto stretto, anzi strettissimo, tra

1. Il paragrafo è da attribuirsi a Sara Fasolo, Docente dei Laboratori di Scrit-tura, Università degli Studi di Torino.2. “[…] si dà il titolo, […] l’argomento, ma si lasciano impliciti i dati riguar-danti il destinatario […] e il rapporto di ruolo tra destinatario ed emittente (di quale reale libertà gode l’emittente-allievo che scrive su un certo argo-mento sapendo poi che il destinatario-correttore lo valuterà (con)fondendo giudizio formale e giudizio di merito?); inoltre, non si approfondisce la rifles-sione sullo scopo del tema: si scrive per approfondire le proprie idee riguardo a un certo argomento […] oppure si scrive per dimostrare di saper affrontare un certo tema, indipendentemente dal fatto di esprimere un proprio giudi-zio?”. P. Balboni Tecniche didattiche per l’educazione linguistica. Italiano, lingue straniere, lingue classiche, UTET, Torino 1998, p. 39, corsivi nel testo.3. «[…] i nostri discorsi sono intessuti di riferimenti ad altri discorsi, di ci-tazioni e di glosse a pensieri e a parole altrui (e nostri); sono testi che conte-stualizzano altri testi». B. Mortara Garavelli, La parola d’altri: prospettive di analisi del discorso, Sellerio, Palermo 1985 p. 13.4. M.G. Lo Duca (Ed.), Scrivere nella scuola media superiore, La Nuova Italia, Scandicci 1991, p. 3, virgolette nel testo.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458228

Problemi Pedagogici e didattici

il momento della riflessione sui testi, i “buoni testi” pro-dotti da altri, e il momento della produzione […]. Dove però “riflessione” significa molte cose: non solo lettura e comprensione del contenuto, ma analisi dei percorsi for-mali effettuati dall’autore di volta in volta chiamato in causa, delle sue scelte (sintattiche, lessicali, stilistiche), dei suoi scopi»5. Negli esercizi di incastro, data una se-quenza di brevi paragrafi, presentati in ordine incoeren-te, non limitarsi a rimetterli nel giusto ordine ma, anzi-tutto, esaminare la struttura di ciascuno di essi, estrarne l’informazione saliente e riformularla sinteticamente: tali riformulazioni non solo guideranno la ricomposizione del testo di partenza ma, attraverso un uso consapevole dei meccanismi coesivi, ne costituiranno il riassunto.I connettivi testuali, essenziali nella strutturazione di qualsiasi testo, sono tanto più determinanti nel riassun-to, che deve fornire informazioni puntuali, chiare e ben collegate economizzando il numero di parole. Per que-sto ne va particolarmente sorvegliata la padronanza da parte degli studenti: collegare proposizioni giustapposte tramite avverbi, congiunzioni e così via; riportare di-scorsi diretti in forma indiretta, curando in particolare la consecutio temporum e i nessi pronominali; inserire i connettivi testuali in un testo che ne sia privo riflettendo sulla loro natura; sostituirli senza alterare il significato degli enunciati di partenza sono attività sulle quali sa-rebbe opportuno insistere.

Linguistica applicata al testo: il caso del riassunto6

Il riassunto possiede una caratteristica unica rispetto agli altri tipi di esercitazione sul testo: è in grado di

rendere gli scrittori maggiormente consapevoli di come siano costruiti i testi e di quali meccanismi strutturali si siano serviti gli autori.Un’altra proprietà del riassunto è la sua spendibilità non soltanto all’interno del mondo accademico-scientifico, ma anche di quello professionale; accade spesso di dover presentare sinteticamente svariati testi, estrapolandone e rielaborandone alcuni elementi: basti pensare ai collo-qui di lavoro, agli annunci professionali, ai materiali su internet e alle comunicazioni quotidiane.Il riassunto è una tecnica presa in esame dalla Scuola italiana rispetto alla narrativa, nel corso del primo bien-nio di scuola secondaria di secondo grado, e alla lettera-tura, durante il triennio.All’interno dei cicli scolastici precedenti, gli studenti dovrebbero già aver svolto attività di riassunto legate all’analisi di alcuni articoli e di alcuni testi di carattere narrativo.Solitamente si parte dalla lettura e si procede attraverso il riconoscimento delle parole chiave e la suddivisione in sequenze. Le stesse sequenze possono essere ulterior-mente suddivise in microsequenze.Il passaggio successivo riguarda la denominazione o ti-tolazione delle sequenze e la stesura del riassunto, con la raccomandazione assoluta di non essere ripetitivi e di includere tutte le sequenze.Nel corso degli studi accademici e della vita professio-nale può capitare di riassumere quando si presenta lo

5. Ibi, p. 2, virgolette nel testo.6. Il paragrafo è da attribuirsi a Paolo Nitti, docente di Linguistica italiana, Università degli Studi di Verona.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 29

Problemi Pedagogici e didattici

stato dell’arte al momento di intraprendere un lavoro, quando si analizzano e discutono dati, confrontando po-sizioni differenti, e quando si presentano i risultati del proprio lavoro sotto forma di abstract.In realtà manca la consapevolezza che si riassume di continuo: dalla lista della spesa al resoconto di una serie televisiva, il cervello analizza, tiene conto degli elemen-ti più salienti per riproporli in un secondo tempo.Le procedure neurolinguistiche preposte al riassunto sono chiamate scanning – capacità di comprendere glo-balmente un testo – e skimming – capacità di concentrar-si sui punti rilevanti, densi dal punto di vista semantico7.Chi riassume deve conoscere molto bene la tipologia dei testi di partenza: un testo descrittivo presenta un fatto in modo neutro, mentre un testo argomentativo espri-me giudizi soggettivi, spesso a seguito di ragionamenti complessi e articolati. La neutralità o le opinioni identi-ficano prospettive da rappresentare all’interno del rias-sunto, altrimenti si rischia di non rendere efficacemente il senso del testo.I testi argomentativi contengono sovente elementi infor-mativi e descrittivi, ma questi sono decisamente meno significativi delle argomentazioni, poiché tali testi ri-spondono a precise esigenze retorico-stilistiche: corro-borare, esemplificare, controbattere, replicare, contrad-dire e obiettare.Quando si riassume un testo argomentativo è opportu-no, durante la fase di comprensione globale, distinguere/identificare i momenti in cui l’autore entra in scena con il proprio punto di vista e quelli in cui si serve di ele-menti secondari8.Secondo la glottodidattica contemporanea, il riassunto è da considerare un’abilità integrata, la cui procedura consiste nella comprensione di un testo scritto o audio, nella selezione delle informazioni significative e nella loro successiva trasposizione sintetizzata e manipolata all’interno di un altro testo.Gli errori prevalenti legati alla produzione di riassunti riguardano la mancata comprensione globale del testo, la scarsa capacità di selezionare le informazioni in base alla loro salienza, il trasferimento informativo privo di rielaborazioni, la sovrapposizione rispetto al punto di vista dell’autore di partenza e la mancanza di coesione e coerenza del testo di arrivo, a causa di salti logici e di un uso improprio dei connettivi testuali o dei segnali discorsivi.Riassumere un testo significa in primo luogo leggerlo e capirlo, impadronirsene, altrimenti si rischia di coglier-ne aspetti parziali o addirittura superflui, fraintenderne il significato e proporre ai lettori il proprio punto di vi-sta in luogo di quello dell’autore.

Rispetto alle ripetizioni, è opportuno effettuare consi-derazioni legate alle contingenze: non possiamo riassu-mere la parola “gatto”, utilizzando il termine “felino” per evitarne duplicazioni, perché i due termini non sono equivalenti, giacché legati da rapporti di iperonimia.È possibile evitare le ripetizioni impiegando alcune stra-tegie linguistico-testuali di stampo pragmatico, come il ricorso alle catene anaforiche, alla deissi e ai connettivi testuali.La trattazione del lessico è un elemento imprescindibile per ottenere successi rispetto alla stesura di riassunti; lavorare sulla collocazione, sulla polisemia, sulla con-notazione e sulla produzione morfologica può rendere i corsisti più attenti alle scelte degli autori di partenza e più accurati nell’elaborazione del riassunto.Prima di riassumere, è importante rendere sensibili i propri studenti riguardo allo studio del lessico, alle va-rietà della lingua, ai fenomeni sociolinguistici ed etno-linguistici e alla testualità, proponendo percorsi di av-vicinamento e di analisi caratterizzati da un’attenzione alla lingua in termini di morfosintassi e di semantica.Non ci si dovrebbe concentrare sulla tipologia testuale più ricorrente all’interno del mondo scolastico – il te-sto letterario –, ma sarebbe opportuno proporre più testi possibile, dai contenuti della messaggistica istantanea, a quelli di una chat, di un blog, di un forum, fino ad arrivare alle canzoni, ai post-it che si lasciano al perso-nale di servizio; il riassunto riguarda l’intera tipologia testuale e non si può chiedere agli studenti di appassio-narsi alle attività didattiche proposte, quando esse sono distanti dal loro mondo e dalla realtà quotidiana9.

Sara FasoloUniversità degli Studi di Torino

Paolo NittiUniversità degli Studi di Verona

7. L. Serianni, Leggere, scrivere, argomentare, Editori Laterza, Roma-Bari 2016, p. 42.8. Cfr. M. Cerruti - M. Cini, Introduzione elementare alla scrittura accade-mica, Editori Laterza, Roma-Bari 2014.9. Per ulteriori approfondimenti si vedano: D. Corno, La scrittura. Scrivere, riscrivere, sapere di sapere, Rubbettino, Catanzaro 1999; R. Lesina, Il Nuo-vo Manuale di Stile, Zanichelli, Bologna 2016; M.G. Lo Duca (Ed.), Lingua italiana ed educazione linguistica: tra storia, ricerca e didattica, Carocci, Roma 2013; F. Rossi, F. Ruggiano, Scrivere in italiano. Dalla pratica alla teoria, Carocci, Roma 2013; R: Simone, Fondamenti di linguistica, The Mc-Graw Hill, Milano 2011.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458230

La politica estera cinese in prospettiva storica Guido Samarani e Sofia Graziani

La Cina socialista e il mondo (1949-1978)In generale, sin dal 1949 e per alcuni decenni (periodo maoista, 1949-1976), la politica estera della Repubblica Popolare Cinese (Rpc) fu largamente influenzata da un approccio stato-cen-trico ai problemi della politica internazionale e della sicurezza nazionale, nel senso di un forte impegno finalizzato a contrastare quelli che venivano visti come sforzi, da parte americana e – pur in modo diverso – sovietica, di ridurre Pechino alla sottomissione geopolitica. Dopo il 1949, come è noto, la gran parte dei paesi non socialisti, inclusi i più importanti paesi europei, seguirono l’esempio degli Stati Uniti non riconoscendo la neonata Rpc e mantenendo in molti casi relazioni con Taiwan. Gli anni Cinquanta furono segnati altresì dalla cooperazione con l’Unione Sovietica e con il mondo socialista: per quanto stretta, essa non fu mai tuttavia tale da contraddire gli sforzi da parte cinese di mantenere un proprio profilo autonomo nel campo della politica interna ed estera. Per quanto riguarda la parte orientale dell’Europa, allora inserita nell’ambito del siste-ma socialista di alleanze guidato dall’Unione Sovietica, per circa 40 anni (sino alla caduta del Muro di Berlino nel 1989 e alla dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991) i rapporti della Cina con tali paesi – che con l’Urss erano stati tra i primi a riconoscere la nuova Cina popo-lare – furono sostanzialmente mediati dall’andamento delle relazioni sino-sovietiche. Dopo la crisi con l’Unione Sovietica a partire dal 1960, il congelamento di fatto dei rapporti con i paesi dell’Est europeo fu accompagnato da un approccio generale cinese che tese a enfatizzare l’im-portanza dei principi della sovranità nazionale nell’ambito delle relazioni tra stati socialisti. Al contempo, la Conferenza di Ginevra sulla Corea e l’Indocina (1954) e, successivamente, la Conferenza dei paesi afro-asiatici tenutasi a Bandung (1955) inaugurarono una nuova fase nel-la diplomazia internazionale della Cina, consentendo a Pechino di ampliare i propri orizzonti al di là del campo socialista e di rafforzare la propria posizione internazionale. In quegli anni, inoltre, la Cina cominciò a guardare all’Europa occidentale, stabilendo relazioni economiche, culturali e politiche non ufficiali con paesi come la Germania, la Francia e l’Italia.Nel 1964 la Francia decise autonomamente di riconoscere la Cina popolare e di avviare lo scambio di ambasciatori: tale iniziativa, motivata dall’autonomismo dell’azione internazionale di Parigi sotto la guida di Charles De Gaulle, indusse nei cinesi speranze di un’iniziativa ana-loga – in tempi brevi – da parte di altri paesi europei, speranze tuttavia che andarono deluse.Negli anni Sessanta, successivamente alla rottura con l’Urss e gran parte del mondo socialista, e permanendo una sostanziale incomunicabilità tra Pechino e Washington, la relativa debolezza stra-tegica cinese fu compensata attraverso il tentativo di sostenere e di esportare la rivoluzione nel Ter-zo Mondo e di contenere ove possibile l’espansionismo delle due “superpotenze” e dei loro alleati. Successivamente all’ingresso all’Onu (1971)1, i rapporti diplomatici con il resto del mondo – e con lo stesso Occidente – cominciarono a svilupparsi, anche se non senza problemi e battute di arresto.

1. L’Italia aveva di fatto anticipato l’avvio del processo di reinserimento della Cina popolare nella comunità internazionale con la firma, nel novembre 1970, del comunicato congiunto sul ristabilimento delle relazioni bilaterali.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 31

La normalizzazione con Washington e il gelo con Mosca (1979-1989)Nel corso degli anni Settanta, successivamente all’ingresso all’Onu, il numero dei paesi che stabilì relazioni diplomatiche con la Cina popolare praticamente raddoppiò, superando largamente i 100.Il primo decennio del “nuovo corso” cinese (1979-1989) si aprì con la storica e spettacolare vi-sita (gennaio-febbraio 1979) di Deng Xiaoping negli Stati Uniti, la prima visita ufficiale di un dirigente della Cina popolare in quel paese. In quella occasione, Deng e Carter discussero delle straordinarie potenzialità che l’industria e la tecnologia americane potevano offrire alla Cina e il leader cinese informò quello statunitense del progetto di una “lezione punitiva” al Vietnam. Per Pechino, l’ammissione all’Onu e la normalizzazione delle relazioni sino-americane rap-presentarono un salto di qualità straordinario nella posizione internazionale del paese. Inoltre, l’accordo con gli Usa sollevò la dirigenza cinese dalla grave minaccia di un impegno parallelo su due fronti con entrambe le “superpotenze”, garantendo in particolare a Pechino che non ci sarebbe stata alcuna collusione tra Washington e Mosca. Al contrario, le relazioni tra Cina e Unione Sovietica continuarono a essere caratterizzate da un continuo peggioramento. In particolare, i negoziati per definire la questione alle frontiere furono più volte interrotti e ripresi, facendo registrare scarsi progressi: essi furono successivamente in-terrotti in seguito all’intervento sovietico in Afghanistan nel 1979, che rafforzò ulteriormente le denunce cinesi contro il “socialimperialismo sovietico” e la sua politica espansionistica.

L’impatto della crisi di Tian’anmen e della dissoluzione dell’URSS (1989-fine XX secolo)La crisi di Tian’anmen della primavera del 1989 portò a un deciso congelamento delle relazioni con Washington e più in generale con l’Occidente, mentre a essa si accompagnò – con la visita di Gorbachev a Pechino proprio nei mesi della crisi – l’avvio del processo di normalizzazione delle relazioni sino-sovietiche. Successivamente, la Guerra del Golfo del 1991 offrì alla Cina l’opportunità di migliorare la propria posizione internazionale – e in particolare i rapporti con l’Occidente – e di cercare di far cancellare le sanzioni imposte da molti paesi dopo Tian’anmen. Pochi mesi dopo la fine della Guerra del Golfo, tuttavia, il collasso dell’Unione Sovietica pose fine in modo definitivo al sistema internazionale bipolare (Usa-Urss): le conseguenze della fine dell’Urss furono importanti e molteplici per la Cina, ridisegnando le relazioni con gli Usa ed aprendo una nuova pagina nelle relazioni con la Russia, “erede” potenziale del lascito sovietico.Successivamente alla morte di Deng Xiaoping (1997), la politica estera cinese si avviò ancor più verso una decisa professionalizzazione e una crescente attenzione nei confronti dei processi di globalizzazione, come dimostrato dall’implementazione della “going out strategy” (zou chuqu) e dall’adesione della Cina all’Organizzazione Mondiale del Commercio. La “nuova” politica di espansione della Cina nel continente africano mosse i suoi primi passi proprio in questo contesto. Allo stesso tempo, prese corpo a Pechino una maggiore consapevolezza della crescente impor-tanza dell’immagine che il paese era in grado di proiettare all’esterno e del fatto che le scelte e gli atteggiamenti assunti sulle maggiori questioni mondiali venivano sempre più sottoposti a un attento monitoraggio da parte di organismi internazionali e di singoli stati. In particolare, la Cina prese coscienza del fatto che era indispensabile ricostruire la propria immagine internazionale dopo Tian’anmen; inoltre, si fece sempre più strada la piena consapevolezza del fatto che non pochi paesi asiatici cominciavano a interrogarsi sulle prospettive future della prepotente crescita economica cinese e sull’impatto che essa stava avendo sulla stabilità in Asia Orientale. È in questo contesto generale che prese forma, nei primissimi anni del nuovo secolo, la teoria della “ascesa pacifica” (heping jueqi).

Dall’“ascesa pacifica” allo “sviluppo pacifico” (secolo XXI)Il compito essenziale di esporre la tesi della “ascesa pacifica” fu inizialmente affidato, nei primissimi anni del nuovo secolo, a Zheng Bijian, allora presidente del China Reform Forum, un’organizzazione accademica non governativa i cui obiettivi sono lo studio di questioni interne

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458232

e internazionali. A parere di Zheng, la strada intrapresa dalla Cina nel nuovo secolo è tesa a combinare la crescita nazionale con la ricerca della pace internazionale: è dunque una “ascesa pacifica”, che mira a compartecipare al – e non a contrastare il – processo di globalizzazione economica. Quindi, lo sforzo di sviluppare l’economia e di elevare il tenore di vita della po-polazione è strettamente legato, nell’ottica cinese, alla preservazione della stabilità dell’ordine internazionale e al mantenimento di positive relazioni con i paesi confinanti. La Cina – sottoli-neava ancora Zheng – non cerca un’espansione verso l’esterno: la sua ascesa è dunque diversa da quella passata del colonialismo e dell’imperialismo ed è fondata su quel nuovo concetto di “sicurezza” che era stato avanzato sin dal 1997 dagli specialistici cinesi, nell’ottica di acquisire la sicurezza collettiva nell’area dell’Asia Pacifico attraverso la cooperazione.L’espressione “ascesa pacifica” divenne presto comune e diffusa nei principali discorsi dei leader cinesi anche se non si mancava di sottolineare come, nel caso di Taiwan, ogni ipotesi di indipendenza o anche di sostegno militare esterno a tale ipotesi avrebbe aperto la strada alla concreta possibilità dell’uso della forza da parte di Pechino in quanto atto legittimo teso a salvaguardare l’unità nazionale e l’integrità territoriale contro ogni attività separatista.Presto, tuttavia, nel corso del dibattito sui contenuti e sullo stesso concetto di “ascesa pacifica”, vennero emergendo varie critiche e dissensi, anche di natura diversa: da una parte, si metteva in luce come l’espressione “pacifica” poteva creare aspettative erronee da parte della comunità in-ternazionale nel caso, per l’appunto, di una crisi negli Stretti di Taiwan: tale timore venne peral-tro accentuandosi proprio in quella fase in seguito alla vittoria (marzo 2004) alle elezioni presi-denziali taiwanesi di Chen Shuibian, leader di una coalizione nel cui seno erano attive le istanze indipendentiste. Dall’altra, non pochi dubbi furono sollevati sul termine “ascesa”, evidenziando come esso potesse apparire poco rassicurante o addirittura minaccioso per molti paesi vicini.Furono così poste le basi per un mutamento, graduale ma deciso, nella formulazione teorica e nei contenuti, aprendo la strada alla nuova teoria dello “sviluppo pacifico”. Fu a fine 2005 che venne pubblicato un “libro bianco” del governo cinese significativamente intitolato China’s Peaceful Development Road. Il documento è composto da 5 parti: in esso, il legame tra crescita interna e pace internazionale ricorre costantemente. In particolare, nella prima parte si enfatizza come la via dello “sviluppo pacifico” si collochi pienamente nel solco storico dell’impegno della Cina per la pace internazionale e per la cooperazione tra i popoli. Il forte e costante impegno verso lo sviluppo economico e sociale – si evidenzia nella seconda e

In the early years of the People’s Republic of China, Chinese foreign policy was heavily influenced by the logic of the Cold War and developed along a path largely defined by Moscow. However, beginning in the mid-1950s Beijing started to look beyond the close alliance with Moscow and the socialist world, showing increasing autonomy in the defi-nition and development of its foreign policy. The deterioration of Sino-Soviet relations and the radicalization of Chinese politics in the 1960s was accompanied by China’s at-tempts to export its revolution to the Third World and contain, wherever possible, the expansionism of both the United States and the Soviet Union. China’s admission into the United Nations in 1971 and diplomatic normalization with the United States in the late 1970s paved the way to China’s renewed openness to the outside world. Since then, China’s international position and its integration within the international community have constantly strengthened. The rise of China as a world power at the turn of the new century has sparked new debates and raised new questions about the nature of Beijing’s strategy and its impact on the neoliberal global order. This article provides an overview of the history and development of China’s foreign policy from 1949 to the present day, while the other essays in this section will focus on China’s policy and action toward spe-cific countries and geographical areas in the contemporary era.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 33

terza parte – necessita di un contesto pacifico e stabile in campo internazionale. Nelle ultime due parti e nella conclusione l’accento viene posto sul fatto che la Cina è pienamente consa-pevole di essere ancora largamente un paese in via di sviluppo e che uno dei nodi più difficili che ancora sta di fronte alla comunità internazionale, e in particolare ai paesi ricchi, è il forte e crescente divario tra Nord e Sud. I contenuti e i toni del documento appaiono estremamente moderati e concilianti e rappresentano la base sulla quale si è sviluppata in questi ultimissimi anni la strategia internazionale di Pechino.

ConclusioniIn questo saggio si è cercato di tracciare un breve profilo storico della politica estera della Rpc, evidenziando i tratti salienti che hanno caratterizzato l’azione di Pechino nel corso degli ultimi decenni. Nei primi anni dopo la fondazione della Repubblica popolare la politica estera cinese fu pe-santemente condizionata dalle logiche della Guerra fredda e si sviluppò secondo un percorso ampiamente delineato da Mosca. Ciononostante, Pechino fu in grado sin dalla metà degli anni Cinquanta di allargare il proprio sguardo al di là della stretta alleanza con Mosca e con il mondo socialista, mostrando una crescente autonomia nello sviluppo della politica estera. Con la crisi delle relazioni sino-sovietiche (1960) la Cina si ritrovò in una situazione di sostanziale marginali-tà internazionale e iniziò a guardare con maggiore interesse al Terzo Mondo. Solo con l’ingresso all’Onu e la normalizzazione delle relazioni sino-americane negli anni Settanta vennero poste le basi per l’avvio del processo di apertura della Cina al mondo esterno. Negli ultimi tre decenni lo sviluppo economico determinato dalle riforme lanciate da Deng Xiaoping ha rafforzato enor-memente la posizione e il peso internazionale della Rpc. L’emergere della Cina quale seconda potenza mondiale (dopo gli Stati Uniti) ha rappresentato il cambiamento più importante nelle dinamiche internazionali del XXI secolo e ha sollevato nuove domande e questioni sulla natura della strategia di Pechino e sulle conseguenze che ne deriveranno per il sistema mondiale.

Guido Samarani Università Ca’ Foscari, Venezia

Sofia GrazianiUniversità di Trento

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458234

Studi

Pechino tra Mosca e Washington in un mondo globaleGuido Samarani

Negli ultimi 25 anni circa, successivamente alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, all’attacco alla Torri Gemelle, all’avvio e al diffondersi

della crisi economica e finanziaria globale e allo scop-pio di crescenti crisi regionali in varie parti del mondo che sembrano testimoniare come il processo di globa-lizzazione non sia così assoluto e totalizzante, la politi-ca estera della Cina1 ha conosciuto profondi mutamenti muovendo verso una più profonda consapevolezza delle responsabilità legate al nuovo ruolo internazionale, pur nel quadro di una visione complessiva in cui forti spinte alla crescente interazione con il mondo si accompagna-no a imperiose riaffermazioni della propria sovranità nazionale. Nell’ambito di tali mutamenti, un ruolo cen-trale ha avuto e avrà anche in futuro la questione del rapporto, da una parte, con gli Stati Uniti e, dall’altra, con la Russia erede dell’esperienza sovietica.

Dalla crisi di Tian’anmen alla morte di Deng Xiaoping (1989-1997)La crisi di Tian’anmen della primavera del 1989 portò a un deciso congelamento delle relazioni con Washin-gton e più in generale con l’Occidente, mentre a essa si accompagnò – con la visita di Gorbachev a Pechino proprio nei mesi della crisi – l’avvio del processo di nor-malizzazione delle relazioni sino-sovietiche. La Guerra del Golfo del 1991 offrì alla Cina l’opportu-nità di migliorare la propria posizione internazionale – e in particolare i rapporti con l’Occidente – e di cercare di far cancellare le sanzioni imposte da molti paesi dopo Tian’anmen. La dimostrazione di forza – politica e so-prattutto militare – americana nel corso del conflitto in Medio Oriente impressionò certamente la leadership ci-nese: era evidente che si stava andando verso un mondo unipolare e dominato dagli Stati Uniti, secondo quella visione del “nuovo ordine mondiale” che vari ambienti di Washington pubblicizzavano ormai con forza. Con l’ascesa di Michail Gorbachev, come già detto, le relazioni tra Pechino e Mosca offrirono positivi segna-li di risveglio. Il summit sino-sovietico di Pechino del maggio 1989, benché condotto in un contesto di grande

tensione dovuto alle concomitanti manifestazioni stu-dentesche, consentì di compiere significativi progressi – anche se largamente simbolici – nel ristabilimento di un clima di dialogo e di fiducia tra le due parti. La caduta tra il 1989 e l’anno successivo dei regimi socialisti e la successiva dissoluzione dell’Unione Sovietica sollevaro-no grande preoccupazione nella dirigenza cinese, che si affrettò tuttavia a cercare di consolidare i rapporti con la Russia, da una parte, e con le nuove repubbliche sorte successivamente al 1991 (soprattutto con i nuovi stati in Asia centrale) dall’altra. Le conseguenze della fine dell’Urss furono importanti e molteplici: in particolare, per la Cina l’affidabilità ameri-cana non appariva più così solida e certa come negli anni passati; a sua volta, gli Stati Uniti cominciarono tenden-zialmente a guardare alla Cina non più come a un partner strategico nell’ambito della rivalità con l’Unione Sovietica. La fine della “guerra fredda” sancita dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, i mutamenti strategici intervenuti negli Stati Uniti e, più in generale, le nuove dinamiche regionali e internazionali, costrinsero la Cina a misurarsi con nuove sfide nel campo delle relazioni internazionali. In particolare, la fine della rivalità tra le due superpotenze pose a Pechino l’esigenza di ridefinire sempre più e con sempre maggiore attenzione la propria strategia interna-zionale senza poter contare più sui margini di manovra (utilizzo della rivalità tra le due superpotenze) dei quali aveva beneficiato in passato. Inoltre, la diplomazia cinese venne sempre di più posta di fronte alla duplice esigen-za di agire in modo da diventare un membro attivo della comunità economica mondiale e allo stesso tempo di tu-telarsi dai possibili effetti destabilizzanti che tale scelta comportava per la propria realtà socioeconomica. La firma del Trattato di Amicizia e Buon Vicinato con Mosca e i meeting annuali presidenziali furono accom-pagnati dalla strategica decisione di creare dapprima il Gruppo dei Cinque e successivamente la Shanghai Co-operation Organization (Sco), basata per l’appunto sulla

1. Con il termine ‘Cina’ ci si riferisce qui alla Repubblica Popolare Cinese (Rpc), escludendo quindi un’analisi della politica estera di Taiwan.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 35

Studi

cooperazione sino-russa e allargata ad altri stati dell’A-sia centrale. La creazione della Sco poggiò sin dall’ini-zio su mire ampie e ambiziose incentrate sul conteni-mento della presenza americana in Asia centrale e sul coordinamento dello sfruttamento delle ricche risorse petrolifere dell’area. Sul piano regionale, uno dei temi centrali emersi a partire da quegli anni fu quello del multilateralismo asiatico e della creazione di una pace stabile nell’area dell’Asia Pacifico.La crisi asiatica, iniziata nell’estate del 1997 e diffusasi pesantemente a Hong Kong verso la fine dell’anno, evi-denziò il ruolo essenziale cinese nell’area. Infatti, Pe-chino si impegnò con forza nella stabilità della propria moneta scartando l’ipotesi di una possibile svalutazione che le avrebbe consentito di cogliere i vantaggi poten-zialmente offerti dalla situazione. Tali potenziali van-taggi economici furono alla fine considerati inferiori da Pechino rispetto al vantaggio politico acquisito di avere visto aumentare in modo particolare il consenso inter-nazionale nei suoi confronti.

La fine del Novecento e il primo quindicennio del nuovo secoloSuccessivamente alla morte di Deng Xiaoping (1997), la politica estera cinese si avviò ancor più verso quella

che è stata definita da certi studiosi come una tenden-za alla professionalizzazione e alla decentralizzazione e una crescente attenzione nei confronti dei processi di globalizzazione. Allo stesso tempo, prese corpo a Pechino una maggiore consapevolezza della crescente importanza dell’imma-gine che il paese era in grado di proiettare all’esterno e del fatto che le scelte e gli atteggiamenti assunti sulle maggiori questioni mondiali venivano sempre più sot-toposti a un attento monitoraggio da parte di organismi internazionali e di singoli stati. In particolare, la Cina prese coscienza del fatto che era indispensabile ricostruire la propria immagine interna-zionale dopo Tian’anmen: così, con la fine degli anni No-vanta, fu avviato un processo di aggiustamento della po-litica regionale al fine di riconquistare la fiducia di molti paesi confinanti e vicini, cercando di allontanare con forza l’idea di una possibile futura “minaccia cinese”. L’adesione alla World Trade Organisation (Wto) nel 2001 e i tragici eventi dell’11 settembre posero a Pechi-no nuove sollecitazioni affinché definisse e puntualiz-zasse in modo sempre più preciso e anche raffinato la propria visione strategica del sistema internazionale e del ruolo che essa poteva svolgere nel suo seno.L’approccio cinese al processo di globalizzazione, a esempio, è stato analogo a quello di molti altri paesi: la volontà di condividere i benefici della globalizzazione è stata accompagnata dal disagio dovuto ai costi politici e sociali insiti nella compartecipazione al nuovo sistema. Nella Cina popolare, l’enfasi è stata spesso posta sulla “globalizzazione” economica più che su quella culturale o dei processi di governo, queste ultime essendo perlo-più viste come sinonimo di “americanizzazione”. In questa prima parte del XXI secolo, la compartecipa-zione al sistema globale da parte cinese ha conosciuto progressi impressionanti, portando Pechino a far parte di decine di organismi internazionali, governativi e non go-vernativi. In genere, l’atteggiamento cinese è stato quello di operare all’interno delle regole esistenti, purché esse non entrassero in conflitto diretto con i propri interessi econo-mici o con le rivendicazioni di sovranità o ancora con il senso profondo dell’orgoglio e della dignità nazionali.L’approccio internazionale da parte cinese appare oggi se-gnato, assai più che in passato, dalla crescente volontà di affrontare i problemi concreti piuttosto che irrigidirsi su questioni di principio e dall’impegno a promuovere poli-tiche di sviluppo e ridurre i rischi di conflitto nel mondo, soprattutto nelle aree periferiche e ai confini nazionali.Le nuove tendenze della politica estera cinese emerse sono radicate nella profonda convinzione e speranza che nel medio termine (primi decenni del nuovo secolo) i rappor-ti tra le maggiori potenze si mantengano sostanzialmente

Opera di Pechino

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458236

Studi

stabili, positivi e cooperativi nonché nella indubbia con-sapevolezza che il problema della competizione interna-zionale tra le grandi potenze vada affrontato con atten-zione e prudenza, in quanto coinvolge questioni delicate e complesse quali quelle degli armamenti, dell’accesso alle risorse energetiche, degli squilibri economici. La visione che Pechino ha del ruolo degli Stati Uniti nel mondo è ovviamente oggi centrale nella interpretazione e nella definizione della funzione che Pechino intende sempre più svolgere nell’ambito delle relazioni interna-zionali. Infatti, un obiettivo primario della politica estera cinese in questi ultimi anni è stato – ed è – l’opposizione alla trasformazione del mondo da bipolare a unipolare e lo sforzo per favorire un sistema multipolare. La Cina è cosciente della forza americana ma d’altra par-te ritiene che essa sarà sempre più costretta a crescenti vincoli nella propria azione, per ragioni interne e interna-zionali. L’attiva partecipazione e sostegno da parte cinese in questi ultimissimi anni a un numero crescente di asso-ciazioni regionali e internazionali si inserisce proprio in questa ottica di rafforzare l’ottica del multilateralismo e di limitare gli spazi d’azione americani.Anche l’attività diplomatica in Africa e nella stessa America centrale e America latina – aree queste ultime nelle quali la presenza cinese è stata storicamente debo-le – si inserisce indubbiamente in questa azione a tutto campo finalizzata, da una parte, a supportare gli inte-ressi economici e politici cinesi e, dall’altra, a limitare e vincolare qualsiasi ambizione di dominio globale. Per quanto riguarda i rapporti tra Pechino e Mosca in questi ultimissimi anni si sono sviluppati sull’onda di una ampia identità di vedute su numerosi problemi e di una larga comunanza di interessi. Non mancano tut-tavia differenze e opzioni diverse, e in particolare una velata quanto effettiva competizione in numerosi settori.

Elementi di concertazione con Mosca si intrecciano con la competizione per l’accaparramento delle risorse ener-getiche, alla quale si congiunge l’evidente timore russo per l’ascesa di Pechino. La Cina tende sempre più a percepire se stessa come una potenza ma è allo stesso tempo consapevole di mancare ancora di adeguate basi materiali per poter svolgere effi-cacemente tale ruolo, soprattutto a livello globale. L’esi-genza di rafforzare la strategia internazionale del paese, in particolare nei confronti di Mosca e Washington, si riflette altresì nella crescita qualitativa della diplomazia di Pechino, che poggia su personale solidamente pre-parato, di grande esperienza personale e con almeno la conoscenza di una lingua straniera; e sulla pubblicazio-ne nell’ultimo decennio di una serie crescente di “libri bianchi” (white papers) su questioni relative alla politica estera in generale, ai diritti umani, a Taiwan, … Inoltre, si sta assistendo a una maggiore dimensione ‘pubblica’ del tema delle relazioni internazionali, con talk shows, libri, commenti e pubblicazioni specifiche. Negli ultimi anni, sempre più insistenti appaiono i richiami di Pechino all’esigenza indifferibile di una “democratizza-zione nelle relazioni internazionali” che dia vita a un nuo-vo concetto di sicurezza imperniato sulla mutua fiducia e cooperazione e sul riconoscimento che qualsiasi disputa debba e possa essere risolta attraverso mezzi pacifici. Secondo gli analisti cinesi, gli Stati Uniti sono largamen-te insofferenti rispetto alle nuove forze regionali e anche globali che stanno emergendo o che si stanno riorganiz-zando (a esempio i Brics: Brasile, Cina, India, Russia, India, Sudafrica), ma allo stesso tempo sono coscienti dell’esigenza di collaborare con esse al fine di tutelare i propri interessi economici e commerciali. È ovviamente oggetto di discussione se queste nuove potenze emergenti possano effettivamente rappresentare un “blocco unito”. Tuttavia, Pechino guarda a questi nuovi soggetti con rela-tiva fiducia e scruta i loro atti con l’obiettivo di misurare il loro effettivo grado di indipendenza da Washington. La stessa recente ipotesi della futura creazione di una Zona economica dell’Asia orientale (una specie di unio-ne economica analoga a quella europea), della quale gli Usa non dovrebbero far parte, testimonia dello sforzo cinese non tanto di escludere Washington dall’area – obiettivo che oggi appare poco realistico – quanto sem-mai di rendere sempre meno necessaria e utile la presen-za americana nella regione.Un altro nodo cruciale emerso in questi anni è il rap-porto tra, da una parte, la crescente tendenza della Cina ad aderire e conformarsi alle regole internazionali e, dall’altra, la forte spinta a riaffermare i propri interessi vitali nazionali. Pechino, Città proibita

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 37

Studi

I Giochi olimpici svoltisi nell’agosto del 2008 a Pechino hanno senza dubbio rappresentato un esempio, pur spe-cifico, di tali potenziali contraddizioni. Le Olimpiadi, infatti, sono state chiaramente un momento di grande successo sportivo, di immagine e mediatico per Pechi-no, ma d’altra parte hanno messo in evidenza – attraver-so le contestazioni e le manifestazioni sulla questione del Tibet – il permanere di forti polemiche in varie parti del mondo, in particolare negli Stati Uniti e in Occiden-te, su aspetti delicati e complessi della politica cinese. Quanto all’Expo di Shanghai (2010), esso ha rappresentato sicuramente un’ulteriore tappa nel rafforzamento del ruolo di Pechino nell’ambito dell’economia internazionale non-ché l’ennesima dimostrazione della strategia di coopera-zione e di collaborazione che ha ispirato il nuovo approccio della Cina alla realtà internazionale sin dall’avvio, trenta anni fa, del processo di riforme e di modernizzazione.

Pechino e Mosca: un rapporto strategico?Se negli anni Settanta e Ottanta fu senza dubbio il di-sgelo nelle relazioni sino-americane a rappresentare l’elemento fondamentale della nuova politica estera ci-nese, anche in considerazione del sostanziale congela-mento delle relazioni sino-sovietiche, in questi 25 anni si può affermare che, pur restando ovviamente cruciali i rapporti tra Pechino e Washington, gli sviluppi più po-sitivi e significativi si sono verificati dopo il 1991 nelle relazioni tra Pechino e Mosca e, attraverso queste, nel rapporto triangolare Cina-Russia-Asia centrale2.In seguito alla fine dell’Urss, l’interesse della Cina fi-nalizzato a sviluppare le relazioni con la Russia e gli stati dell’Asia centrale è andato espandosi. Tale interes-se fu dovuto dapprima sostanzialmente all’esigenza di affrontare e risolvere gli storici problemi delle dispute territoriali e di frontiera; in seguito, tuttavia, la strategia di Pechino si è arricchita di nuove motivazioni e obiet-tivi, legati sia al rafforzamento delle ambizioni e del protagonismo cinesi in ambito regionale e globale, sia all’esigenza di garantire una solida protezione ai propri interessi economici e di sicurezza nell’area, garantendo-ne le prospettive di sviluppo.In tale ambito, Pechino guarda a Mosca in relazione al ruolo essenziale di tramite e di connessione che questa può svolgere tra Asia ed Europa, e opera al fine di evi-tare che si creino fratture insanabili tra i progetti strate-gici cinesi (la “cintura economica della nuova Via della Seta” o anche i “corridoi economici” tra Cina e Pakistan e tra Cina, India, Myanmar e Bangladesh, delineati da Xi Jingping) e quelli dell’“Unione Eurasiatica” di Pu-tin. Più in generale, la partnership con la Russia appa-re chiaramente inserita nell’ottica della costruzione e

sviluppo di quel “mondo armonioso” che è stato posto come obiettivo essenziale nel corso degli anni: un “mon-do armonioso” cui fa da contraltare una realtà, nelle re-lazioni con altre potenze e in particolare gli Stati Uniti, segnata da relazioni più complesse e spesso contrastate. D’altra parte, accanto ai temi delle relazioni condivise, frutto dell’aggiornamento e adattamento dei tradizionali “cinque princìpi della coesistenza pacifica” (rispetto per l’integrità territoriale e la sovranità, non aggressione, non interferenza negli affari interni, eguaglianza e mu-tuo beneficio, coesistenza pacifica), l’approccio cinese alle relazioni con la Russia (e l’Asia centrale) poggia su di un secondo, e assai diverso, pilastro: quello della pro-tezione degli interessi nazionali.

Pechino e l’America di TrumpCome è noto, il tema dei rapporto tra Washington e Pe-chino è sempre stato uno degli elementi significativi nei dibattiti condotti nell’ambito delle campagne presiden-ziali statunitensi e allo stesso tempo continua a rappre-sentare un problema fondamentale nella politica estera cinese. Nel corso di questi decenni che hanno seguito la formalizzazione delle relazioni diplomatiche nel 1979, le relazioni bilaterali sono state segnate da frequenti alti e bassi in particolare su questioni quali il sostegno di Washington a Taiwan, la questione dei “diritti umani” e del Tibet, l’ampio contenzioso economico-commerciale e finanziario (export-import, dazi, ecc.).L’impressione generale che si è avuta, nei mesi che han-no preceduto le elezioni presidenziali statunitensi, dalla lettura dei commenti sulla stampa cinese e delle analisi della stampa internazionale sulla valutazione di Pechi-no sui due candidati, ha messo in luce una larga cautela sicuramente motivata dal fatto che le autorità cinesi non intendevano pregiudicare sin dall’inizio i rapporti con il nuovo Presidente, chiunque esso fosse. In generale, le opinioni sulla Clinton sono sembrate più positive, radi-cate come sono in una valutazione relativamente positi-va degli approcci del Partito democratico in materia di politica estera e della probabile composizione del futuro staff clintoniano; d’altra parte, meno solida è sembrata la fiducia sulla candidata in sé e anche sull’eredità sto-rica che le fa da sfondo, in quanto Bill Clinton usò am-piamente il tema della crisi di Tian’anmen del 1989 per accusare gli avversari repubblicani di brindare di fatto con un paese che aveva ucciso la democrazia.Per quanto riguarda Trump, le impressioni negative sono state consistenti legate in particolare alla prese di

2. Ci si riferisce qui a Kazakshtan, Krgyzstan, Tjikistan, Turkmenistan e Uezbekistan.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458238

Studi

posizione ed alle “esternazioni” del candidato repubbli-cano; dall’altra, tuttavia, in certi ambienti cinesi è parsa emergere una certa fiducia che, alla fin fine, se Trump fosse diventato il nuovo Presidente sarebbe stato pos-sibile trovare delle intese concrete e che certe prese di posizioni radicali espresse durante la campagna presi-denziale avrebbero lasciato il posto a un approccio assai più pragmatico.In realtà, la fase iniziale della Presidenza Trump non appare molto incoraggiante rispetto alle aspettative di Pechino (Taiwan, dazi, ecc.), anche se non mancano al-cuni parziali segnali (vedi la prima telefonata tra i due leader) che spingono ad un pessimismo più contenuto.

La “diplomazia delle aree periferiche”Uno dei dilemmi che stanno di fronte alla nuova visione del mondo cinese è proprio rappresentato dall’esigenza di trovare uno stabile equilibrio – compito non impossibile ma certo difficile – tra, da una parte, il mantenimento di relazioni armoniose e il rispetto del principio della “non ingerenza” negli affari altrui e, dall’altra, le crescenti responsabilità in quanto potenza sempre più influente e globale. Negli ultimissimi anni l’approccio cinese alle relazioni internazionali, anche se centrato sul problema del rapporto con i paesi confinanti, ha conosciuto ulte-riori sviluppi teorici attraverso l’analisi e il dibattito sulla cosiddetta “diplomazia verso le aree periferiche” (in cine-se zhoubian, a indicare quelle aree terrestri e marittime adiacenti alla Cina). Ovviamente, una parte significativa del dibattito riguarda le recenti dispute in aree marittime,

3. Cfr. China’s Peaceful Development, 6 settembre 2011, a cura dell’Uffi-cio Informazione del Consiglio di Stato (il Consiglio di Stato rappresenta il vertice del potere esecutivo), http://www.china.org.cn/english/2005/Dec/152669.htm (la traduzione dall’inglese è mia).

 BIBLIOGRAFIA 

Fingar T., Chinese Diplomacy in the 21st Century, in «The Diplomat», July 4 2016, http://thediplomat.com/2016/07/chinese-diplomacy-in-the-21st-century/Glaser B.S. - Medeiros E.S., The Changing Ecology of Foreign Policy-Making in China. The Ascendence and Demise of the Theory of ‘Peaceful Rise, in «The China Quarterly», 190 (2007), pp. 291-310Lampton D.M., The Making of Chinese Foreign and Security Policy, Stanford UP, Stanford 2002Samarani G. - Scarpari M. (a cura di), La Cina. Vol. III: Verso la modernità, Einaudi, Torino 2009State Council Information Office, Chinese Communist Party Central Commiteee Party Literature Office, China International Publishing Group (a cura di), Xi Jinping. The Governance of China, English version, Foreign Languages Press, Beijing 2014 The State Council White Paper on Peaceful Development Road, http://www.china.org.cn/english/2005/Dec/152669.htmSwaine M.D., Chinese View on Global Governance Since 2008-9: Not Much New, «China Leadership Monitor», 49 (2016), pp. 1-13Swaine M.D., Chinese Views on the Presumptive US Presidential Candidates Hillary R. Clinton and Donald J. Trump, in «China Leadership Monitor», 50 (2016), pp. 1-15

con il Giappone e numerosi paesi asiatici; tuttavia, è in-teressante notare come siano emerse idee e valutazioni anche assai diverse sull’ambito di applicazione della “di-plomazia delle aree periferiche”. Secondo alcuni, il nuovo approccio teorico mira innan-zitutto a portare a una migliore definizione e suddivi-sione delle diverse aree periferiche e della loro rilevanza per la strategia cinese: la Russia, l’Asia centrale e i paesi direttamente confinanti, che costituiscono l’“anello in-terno”, vitale per la Cina; i paesi marittimi del Pacifico, dell’Oceano indiano, che costituiscono l’“anello inter-medio”. Altri, aggiungono a questi due anelli un terzo, la cosidetta “grande periferia o anello esterno”, che copri-rebbe i continenti americano, africano ed europeo.Secondo alcuni, la “diplomazia delle aree periferiche” è un concetto che rappresenta uno sviluppo importante ma nel segno della continuità, pur aggiornata, della vi-sione cinese del mondo. A parere di altri, tuttavia, essa sarebbe invece il segno di una vera e propria svolta stra-tegica: il passaggio a una strategia imperniata su “tre punti, un cerchio e quattro bandiere” (tre punti, ossia le tre relazioni diplomatiche chiave: con la Russia, gli Usa e il Giappone; un cerchio, ossia la periferia e in parti-colare l’Asia sud-orientale, verso cui attuare uno “sfon-damento diplomatico”; le quattro bandiere, ossia “pace, sviluppo, cooperazione e risultati win-win” ossia in cui tutti hanno da guadagnare).Nel white paper del 2011 sullo sviluppo pacifico della Cina, che resta a oggi un testo fondamentale di riferi-mento, si legge tra l’altro:

Lo sviluppo pacifico della Cina ha spezzato la visione tradi-zionale secondo cui una potenza emergente tende inevitabil-mente a cercare l’egemonia. Nella storia moderna, certe po-tenze hanno creato delle colonie, lottato per sfere d’influenza e portato avanti espansioni militari contro altri paesi. Tutto ciò ha raggiunto il suo apice nel corso del XX secolo, quando la rivalità per l’egemonia e il confronto militare hanno spro-fondato l’umanità in due devastanti guerre mondiali […] La Cina ha deciso di poggiare sullo sviluppo pacifico e sulla co-operazione reciprocamente vantaggiosa in quanto strumento fondamentale per realizzare la propria modernizzazione, par-tecipare agli affari internazionali e gestire le relazioni inter-nazionali. Le esperienze degli ultimi decenni hanno provato che si tratta di una strada giusta e che non sussiste alcuna ragione per cui essa debba deviare da questo percorso3.

Guido SamaraniUniversità Ca’ Foscari Venezia

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 39

Studi

L’evoluzione dei rapporti tra Repubblica Popolare Cinese e Unione EuropeaDinamiche attuali e prospettive futureBarbara Onnis

Il 6 maggio del 2015 Pechino e Bruxelles hanno cele-brato il quarantesimo anniversario dello stabilimen-to di relazioni diplomatiche ufficiali, con una mol-

titudine di eventi atti a ripercorrere il rapido sviluppo di due realtà che hanno visto crescere notevolmente il loro peso strategico sulla scena internazionale. Tra le iniziative, interessante sotto il profilo simbolico è sta-ta l’inaugurazione presso il campus dell’Università di studi stranieri di Pechino di un “giardino dell’amicizia”, all’interno del quale sono stati piantati 28 esemplari di ginkgo – uno degli alberi cinesi più antichi e longevi – a simboleggiare l’amicizia di lungo corso tra Cina ed Eu-ropa e di buon auspicio per la loro prosecuzione futura. Come è stato evidenziato da più parti durante le celebra-zioni ufficiali, il quarantennale delle relazioni sino-eu-ropee rappresenta una “pietra miliare”, un’occasione per valutare gli importanti risultati raggiunti, facendo un bilancio del passato, e per azzardare delle previsioni future, partendo dalle dinamiche presenti.

I quarant’anni di Pechino e Bruxelles e l’“albero dell’amicizia”Guardando ai meri dati statistici, i rapporti non potrebbero essere migliori. La Repubblica popolare cinese (Rpc) è, per il 13° anno consecutivo, il secondo partner commerciale dell’Unione Europea (Ue), mentre l’Ue è il primo partner commerciale della Cina popolare, per il 12° anno conse-cutivo. Dai primi anni Duemila il volume del commercio bilaterale è più che quadruplicato e anche gli investimenti hanno conosciuto un trend di crescita positivo, che si pre-sume verrà confermato da un eventuale accordo bilaterale sugli investimenti (Bit), già in fase di negoziazione.Ciò detto, è evidente come le relazioni sino-europee va-dano oltre la sfera economica, come si evince dall’ela-borata “impalcatura” messa in piedi per il loro coordi-namento1. Il libro politico pubblicato dal Ministero degli

esteri cinese nell’aprile del 2014, dedicato alla strategia di Pechino nei confronti dell’Ue2, a dieci anni di distanza da una precedente edizione, è una chiara dimostrazione dell’attenzione che il Paese riserva alle dinamiche euro-pee. Vale la pena sottolineare come la pubblicazione di documenti di tal fatta costituisce un privilegio che è stato concesso finora a pochi “eletti” (Africa, America Latina e Caraibi, Paesi arabi, oltre all’Ue). Altrettanto significa-tiva è l’attenzione che la massima leadership cinese (so-prattutto l’ultima) dedica ai suoi rapporti con l’Unione. Nel marzo del 2014, Xi Jinping ha compiuto uno “stori-co” viaggio recandosi in visita presso le istituzioni comu-nitarie a Bruxelles – il primo in assoluto di un presidente della Rpc in carica – il quale, oltre a rivelare una leader-ship cinese sempre più sicura di sé, è stato interpretato come una chiara dimostrazione degli sforzi di Pechino di sostenere il ruolo dell’Ue come attore globale impor-tante negli affari internazionali. Per non parlare delle frequenti missioni compiute dal premier Li Keqiang, o dallo stesso Xi, in alcune capitali dell’Est europeo che lasciano trapelare la rilevanza cruciale rivestita da tali paesi nell’ambito del nuovo progetto colossale lanciato da Pechino nel 2013, che punta alla rinascita dell’antica Via della seta, seguendo una duplice traiettoria (una ter-restre e una marittima), nota con l’acronimo inglese Obor (“One belt, one road”). Molto ci sarebbe da dire anche sulla recente “offensiva soft” della diplomazia cinese, volta a diffondere un’immagine positiva del Paese sulla scena internazionale, per il tramite di una rete mondiale di Istituti Confucio (Kongzi xueyuan), la cui missione è costituita dalla diffusione della lingua e della cultura ci-nesi nel mondo. Dei circa 500 istituiti finora, l’Europa è il continente che ne ospita il numero maggiore.

1. http://www.eeas.europa.eu/china/docs/architecture.pdf.2. http://www.fmprc.gov.cn/mfa_eng/wjdt_665385/wjzcs/t1143406.shtml.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458240

Studi

L’evoluzione delle relazioni sino-europeeQuello tra Rpc ed Europa (la Comunità Economica Eu-ropea, Cee) è stato per lungo tempo un rapporto tra due realtà che nelle dinamiche della Guerra fredda hanno giocato un ruolo alquanto marginale rispetto alle due su-perpotenze, nel senso che Pechino e Bruxelles non sono state in grado di sviluppare dei legami in maniera auto-noma e indipendente rispetto a Mosca e a Washington3. La stessa normalizzazione dei rapporti venne vista più come appendice del più ampio riposizionamento cinese nella strategia globale degli Usa e dei loro alleati euro-pei, piuttosto che per la sua valenza in sé. Fin dal principio le relazioni sino-europee hanno avuto una matrice prettamente economica, come si evince dai primi passi compiuti dalle due parti per raggiungere un accordo soddisfacente sotto il profilo commerciale. Ciò detto, sin dalla proclamazione della politica estera indi-pendente, sancita dal XII congresso del Partito Comunista Cinese, e ancor di più a seguito degli eventi drammatici intercorsi a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta, i leader cinesi hanno spesso fatto ri-ferimento all’emergere di un nuovo ordine mondiale mul-tipolare, identificando tra i vari poli, oltre alla Cina, anche l’Europa occidentale. Dopo un breve raffreddamento nei rapporti, seguito alla repressione di Piazza Tian’anmen, gli accadimenti che hanno sancito la fine della Guerra fredda e il venir meno del sistema dei blocchi contrap-posti hanno costituito paradossalmente l’occasione per il loro rilancio. Nei primi anni Novanta Pechino era, in-fatti, proiettata verso il recupero della propria immagine

internazionale e verso la costituzione di un nuovo ordine multipolare, all’interno del quale l’Europa rivestiva un ruolo cruciale. Dal canto suo, la neonata Ue intravvide immediatamente le opportunità costituite dal mercato ci-nese, all’indomani del famoso Nanxun e il rilancio della politica riformista; al contempo, le élite europee scelsero di giocare la carta cinese in chiave multipolare, per au-mentare il peso internazionale dell’Unione.

L’“epoca d’oro” delle relazioni sino-europeeLe relazioni sino-europee vivono una sorta di “epoca d’oro” nella prima metà degli anni Duemila, in cor-rispondenza della pubblicazione di alcuni documen-ti politici da ambo le parti e dalla costituzione di una partnership strategica globale – un chiaro segnale della maturazione del rapporto e dell’approccio pragmatico di Pechino nelle sue relazioni con Bruxelles, volto a de-en-fatizzare le differenze e a trarre il meglio dal rapporto bilaterale. Di particolare rilievo, in questo senso, sono il documento che la Commissione europea dedica alla Cina agli inizi del 20034, nel quale viene fatto esplicito riferimento al fatto che le due parti condividono le re-sponsabilità nella promozione della governance globale e nella tutela e salvaguardia dello sviluppo sostenibile,

3. M. Yahuda, The Sino-European encounter: historical influences and contemporary relations, in D. Shambaugh - E. Sandschneider - Zhou Hong, China-Europe Relations. Perceptions, policies and prospects, Routledge, London 2008, cap. 2, pp. 13-32, in part. pp. 22-26.4. http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2003:0533:FIN:EN:PDF.

Shanghai, panorama notturno

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 41

Studi

della pace e della stabilità, e la risposta immediata di Pechino, contenuta nel primo di un’inedita serie di do-cumenti politici dedicati alla politica estera cinese5, dal quale trapela l’interesse della Rpc a diventare uno dei principali attori globali di un nuovo mondo multipolare, assieme all’Europa. A suggello di un’alleanza sempre più matura giunge poi l’istituzione di una “partnership strategica globale”, che rimane uno dei più importanti traguardi raggiunti finora da Pechino e Bruxelles sul piano politico, interpretata da alcuni studiosi come l’em-blema di nuovo “asse emergente” sulla scena internazio-nale, potenzialmente in grado di fungere da elemento stabilizzatore in un mondo sempre più volatile6.

Una “partnership strategica” di difficile gestioneA partire dalla seconda metà del decennio si assiste, però, a un mutamento di atteggiamento dell’Ue verso la Rpc, complici la crisi dell’euro, il declino del settore industriale e soprattutto l’elezione di politici assertivi in alcuni paesi europei che fino a quel momento avevano perseguito po-litiche favorevoli alla Cina, con Nicolas Sarcozy e Angela Merkel in testa. Un ulteriore elemento di tensione è costi-tuito dalle crescenti difficoltà nella gestione di un rappor-to tra due entità fondamentalmente differenti, sotto molte-plici punti di vista, che hanno teso a rafforzarsi via via che l’Unione si è allargata fino a includere 28 realtà tutt’altro che omogenee, allontanando sempre più la possibilità che potesse parlare con una “voce sola”, e rafforzando al con-tempo la tendenza a ricorrere all’approccio del “minimo comune denominatore” che, oltre a “costringere” Pechino a trattare con ogni paese singolarmente, ha reso più com-plesso il tentativo di risoluzione di alcune delle maggiori problematiche che attanagliano il rapporto bilaterale. Tra queste, l’embargo sulle armi, attivo dal 1989, da sempre ritenuto dai governanti cinesi come un affronto alla di-gnità del loro Paese, oltre a essere visto come la riprova della “dipendenza” di Bruxelles da Washington. Come è noto, la questione dell’embargo ricade nell’ambito di competenza della politica estera e di sicurezza dell’Ue (PESC) e ogni decisione in merito richiede l’unanimità di tutti gli stati membri. Considerando che all’atto della sua imposizione i membri della Cee erano 12, laddove oggigiorno l’Ue ha 28 paesi membri, ognuno portatore dei propri interessi nazionali, ben si comprendono le dif-ficoltà nel raggiungimento di un consenso in merito alla sua revoca, come rivelato da alcuni cablogrammi pubbli-cati da Wikileaks relativamente a un acceso dibattito svol-tosi nella capitale belga ai primi di aprile del 2004, che evidenziano tutta l’ipocrisia che si cela dietro la questio-ne7. Un discorso analogo si potrebbe fare in merito alle titubanze dell’Ue relativamente alla concessione alla Rpc

dello status di “economia di mercato” (Mes). Oltremodo problematiche sono la crescente debolezza dell’Ue che ha raggiunto il culmine con la Brexit, essendo il Regno Unito il secondo partner commerciale europeo della Rpc dopo la Germania, una delle mete principali degli investi-menti cinesi in Europa, e Londra il principale hub conti-nentale per l’internazionalizzazione dello yuan; e le sfide connesse all’allargamento dell’Unione (soprattutto quello del 2004 che ha coinvolto ben 10 paesi dell’Europa orien-tale), cui si è già accennato, soprattutto i timori avanzati da alcuni osservatori in merito alla tendenza da parte di Pechino di creare dipendenze sottili con i singoli paesi (o gruppi di paesi) dell’Ue, a tutto vantaggio dei propri inte-ressi e a detrimento di quelli di Bruxelles. Il riferimento è soprattutto alla costituzione del cosiddetto “meccanismo 16+1”, un forum economico e commerciale biennale che dal 2012 include la Cina più 16 paesi dell’Europa centrale e orientale, tra cui 10 appartenenti all’Ue8.

Prospettive future La chiave per modificare tale stato di cose potrebbe es-sere una inversione della tendenza, rinvenuta da più par-ti e descritta efficacemente da Jean-Pierre Cabestan, da parte di Pechino e Bruxelles «a gestire le differenze che le oppongono, piuttosto che a coltivare le convergenze in grado di avvicinarle»9. Le convergenze in questione non sono poche e sono contenute in parte nell’“Agenda Stra-tegica Eu-Cina 2020” adottata nel novembre del 2013, al fine di consolidare le relazioni politiche e commerciali tra i due partner, nella prospettiva del 2020, e vanno dall’e-ventuale accordo sul Trattato bilaterale sugli investimen-ti, il quale faciliterebbe a sua volta la firma di un accordo di libero scambio, alla cooperazione su diverse problema-tiche internazionali, tra cui il cambiamento climatico, la riduzione dei gas a effetto serra, ed eventuali operazioni congiunte di peacekeeping, solo per citarne alcune.

Barbara OnnisUniversità di Cagliari

5. http://en.people.cn/200310/13/eng20031013_125906.shtml.6. D. Shambaugh, China and Europe: The Emerging Axis, «Current Histo-ry», n. 103 (2004), pp. 243-248.7. https://wikileaks.org/plusd/cables/04BRUSSELS1510_a.html; https://wikileaks.org/plusd/cables/05DUBLIN512_a.html8. R. Turcsányi, Central and Eastern Europe’s courtship with China: Trojan horse within the EU?, European Institute for Asian Studies, January 2014, http://www.eias.org/wp-content/uploads/2016/02/EU-Asia-at-a-glance-Richard-Turcsanyi-China-CEE.pdf.9. J.-P. Cabéstan, La politique internationale de la Chine. Entre intégration et volonté de puissance, SciencesPo Les Presses, Paris 2015, p. 445.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458242

Studi

L’assertività cinese in Asia orientale tra mutati equilibri di potenza e crescente instabilità internaGiulio Pugliese

La Cina del presidente Xi Jinping incarna appieno la ritrovata centralità del Regno di Mezzo sullo scacchiere regionale. L’amministrazione Xi, in-

sediatasi formalmente nel marzo del 2013, ha definitiva-mente abbandonato la politica estera di basso profilo co-dificata dal successore di Mao Zedong, Deng Xiaoping. Negli anni Novanta questi aveva insistito sul program-ma di riforme e aperture inaugurato nel 1978 e aveva imposto una politica estera moderata come corollario imprescindibile dello sviluppo economico cinese. Non a caso, il «Piccolo Timoniere» fu responsabile della sele-zione dei leader che avrebbero traghettato la nave cine-se attraverso i mari della globalizzazione, Jiang Zemin e Hu Jintao1. L’era di Jiang e Hu fece propri i precetti denghisti in virtù di un consenso interno a favore del-la cooperazione internazionale: l’ascesa pacifica della Cina coincise quindi con il perseguimento delle priorità economico-sociali2.

L’internazionalizzazione dell’economia nell’Asia orientaleDel resto, se dei precedenti fenomeni di internazionaliz-zazione dell’economia, quali quelli che coincisero con la prima e la seconda rivoluzione industriale, beneficia-vano soprattutto le classi agiate e la grande borghesia dei paesi coloniali3, la globalizzazione di fine XX seco-lo fu maggiormente democratica, portando giovamen-to a paesi emergenti quali la Cina. A livello regionale si registrò un accresciuto interscambio commerciale, e un’integrazione sostanziale della filiera produttiva tra i diversi paesi dell’Asia orientale: la Cina si è concentrata maggiormente su industrie e settori economici a «inten-sità di lavoro», mentre i vicini paesi avanzati, quali il Giappone, hanno delocalizzato sempre più il settore ma-nifatturiero, facendo perno su industrie a «intensità di capitale» (fisico e, sempre più, umano). L’informatizza-zione e l’ottimizzazione dei sistemi distributivi ha quin-di facilitato l’affacciarsi di una vera e propria «fabbrica

Asia» ( factory Asia). Sulla base di tali evoluzioni, si presagiva insomma un futuro di maggiore cooperazione in funzione del crescente funzionalismo economico re-gionale. In virtù degli enormi potenziali, l’Asia – con la Cina al centro – promettevano di diventare il cuore pul-sante dell’economia mondiale, similmente all’Europa a cavallo dei secoli scorsi.

La Cina militante e “guglielmina”Dalla parte opposta dell’Oceano Pacifico, l’impantana-mento in Iraq e Afghanistan, e il progressivo affatica-mento della superpotenza Usa verso gli interventi mi-litari si accompagnavano alla grande crisi finanziaria, quindi economica, del 2008. La più grave crisi econo-mica dai tempi della Grande Depressione era controbi-lanciata dall’ascesa della Cina, che ha trainato parte del deficit di domanda globale con una crescita sostenuta intorno al 7,5% annuo, dopo decenni di crescita a doppia cifra del Prodotto Interno Lordo. Nonostante il perma-nere di una forte componente dirigista, la Cina entrava nel novero dei paesi avanzati a seguito delle Olimpiadi del 2008 e dell’Esposizione Universale del 2010. Sarà proprio questo contesto – caratterizzato da un pro-gressivo declino della supremazia americana su sca-la globale – a incentivare la Cina di Xi a una politica estera più assertiva nell’immediato vicinato. Sul fronte interno, la classe dirigente del Partito Comunista Cinese (Pcc) si è imbaldanzita per il ritrovato spazio di manovra a livello regionale. Forte di una flotta navale sempre più nutrita, frange di falchi prima minoritari hanno iniziato a rivendicare le numerose terre «irredente», soprattutto

1. A.J. Nathan - B. Gilley, China’s New Rulers: The Secret Files, New York Review of Books, New York 2003², pp. 39-45.2. D.M. Lampton, The Three Faces of Chinese Power, University of Califor-nia Press, Berkeley 2008, pp. 8-36. 3. E.J.E. Hobsbawm, Il trionfo della borghesia: 1848-1875 (1975), tr. it. di Bruno Maffi, Laterza, Bari 2003; E.J.E. Hobsbawm, L’età degli imperi: 1875-1914 (1987), tr. it. di Franco Salvatorelli, Laterza, Bari 2011³.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 43

Studi

quelle contese con le vicine potenze marittime. Già nel 2008, le voci a favore di un uso più aggressivo dell’in-fluenza cinese azzoppavano le iniziative più concilia-torie della presidenza Hu, quali un accordo di principio per lo sfruttamento congiunto di riserve di gas natura-le nei fondali del Mar Cinese Orientale, contese con il Giappone4. Insomma, se l’Asia di inizio XXI secolo as-somigliava all’Europa fin de siècle, una Cina sempre più militante iniziava a ricordare la Germania di Guglielmo II. La Cina «guglielmina» di Xi avrebbe definitivamen-te superato la strategia bismarckiana promossa da Deng.

Mutati equilibri di potenza in AsiaCosì, le dinamiche interstatali in Asia orientale veniva-no sempre più definite dalla geopolitica e all’assertività cinese si accompagnava un diffuso senso di insicurezza. Stati progressivamente più deboli, quali le Filippine, il Vietnam e il Giappone, si premuravano di ribadire le proprie rivendicazioni – a volte in maniera avventata – prima che la potenza cinese diventasse, a tutti gli effetti, potenza egemone in Asia orientale5. Allo stesso tempo, i sopraccitati Paesi perseguivano un’attiva diplomazia regionale e numerose riforme inerenti la sicurezza na-zionale per arrestare la crescita della potenza cinese. Il Giappone di Abe Shinzō, nel 2006/7 come adesso, rappresenta un lampante esempio di quello che a buon diritto si può chiamare un rinascimento della politica di potenza in Asia orientale6. Invero, se Washington si premurò già dai tempi della seconda amministrazione di George W. Bush di favorire un bilanciamento della po-tenza cinese, è stata la presidenza Obama a inaugurare la dottrina del «Pivot to Asia», ovvero una dichiarazione di intenti a un crescente ingaggio statunitense in Asia,

in chiave militare, diplomatica e finanche economica. Al di là degli altisonanti pronunciamenti americani, la Cina ha smascherato l’America di Obama come «tigre di carta» in maniera non dissimile dalla Russia di Vladi-mir Putin intervenuta prepotentemente in Ucraina.

Politica estera degli «interessi essenziali»Al di là dei mutati equilibri di potenza su scala globa-le, quali sono le cause dirette dell’assertività cinese nei mari contigui, specie il Mar Cinese Meridionale (Mcm) ed il Mar Cinese Orientale (Mco)? Certamente l’anno-so contenzioso sulla sovranità delle centinaia di isole, isolotti e barriere coralline che costellano il Mcm ha visto la Cina come parte attiva insieme a diversi Paesi del Sud-est asiatico: tutti han spinto le proprie rivendi-cazioni territoriali attraverso insediamenti coatti, pattu-gliamenti navali e la costruzione di isolotti artificiali. Eppure nei passati tre anni la cementificazione a opera della Cina di diverse barriere coralline e scogli ha su-perato di gran lunga quella di tutti gli altri Paesi recla-manti. Inoltre, facendo leva su un nazionalismo diffuso alcuni policymaker cinesi ora includono tutto il Mcm nel novero degli «interessi essenziali» – alla stregua di Taiwan e del Tibet. Si veda a esempio la recente dichia-razione, geograficamente e giuridicamente sgangherata, di un ammiraglio cinese: «Il Mar Cinese Meridionale, come dimostra il nome stesso, appartiene alla Cina»7. Insomma, col tempo le rivendicazioni di Pechino si sa-rebbero potute estendere dalle isole contese alle acque internazionali. A livello strategico, analisti militari ci-nesi temono che la serie di isole che si estende dal Bor-neo alle Filippine, passando per Taiwan e l’arcipelago giapponese possa imbottigliare la Marina dell’Esercito Popolare di Liberazione impedendole l’accesso all’Oce-ano Pacifico; tale «barriera» è conosciuta comunemente come la «prima catena di isole»8.

Insicurezze sul fronte internoNonostante una maggiore consapevolezza della pro-pria influenza in campo internazionale, la Cina di Xi è

4. G. Pugliese, Japan 2014: Between a China Question and China Obses-sion, in M. Torri - N. Mocci, Engaging China / Containing China, «Asia Maior», Vol. XXV, Emil di Odoya, Bologna 2015, pp. 43-97. 5. G. Pugliese - A. Insisa, Sino-Japanese Power Politics: Might, Money and Minds, Palgrave Macmillan, New York e Basingstoke 2017.6. G. Pugliese, Giappone: il ritorno di Abe, in M. Torri - N. Mocci, Il drago cinese e l’aquila americana sullo scacchiere asiatico, «Asia Maior», Vol. XXIV, Emil di Odoya, Bologna 2014, pp. 409-444. 7. C.P. Cavas, Uk Progress, Pacific Tensions – Key Naval Conference, «De-fense News», 14 settembre 2015. 8. T. Yoshihara - J.R. Holmes, Red Star over the Pacific: China’s Rise and the Challenge to US Maritime Strategy, Naval Institute Press, Annapolis 2010, pp. 51-54.

Pechino, piazza Tienanmen

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458244

Studi

Nell’ultimo decennio la crescita della presenza cinese in Africa ha suscitato una grande atten-zione presso gli ambienti politici, giornalistici

e accademici di tutto il mondo. Oggi la natura di tale presenza e le sue implicazioni globali nel medio e lungo periodo sono questioni più che mai al centro del dibatti-to pubblico internazionale.

La “nuova” presenza cinese in AfricaAlimentata principalmente dalla necessità di sostenere il fabbisogno energetico interno e alimentare lo svilup-po economico cinese, la “nuova” politica di espansione della Cina nel continente africano ha mosso i suoi pri-mi passi alla fine del secolo scorso e si è consolidata a partire dal 2006, in singolare coincidenza con l’ascesa della potenza cinese a livello mondiale e con la crisi del sistema economico occidentale1. La creazione del Forum on China-Africa Cooperation (Focac) nel 2000 e l’im-portante summit tenutosi a Pechino nel novembre 2006, nonché la pubblicazione nello stesso anno del documen-to su La politica della Cina in Africa testimoniano della crescente importanza che l’Africa è andata ricoprendo nella politica estera cinese. L’interesse di Pechino nel continente è stato confermato dalla nuova dirigenza ci-nese, come dimostra il viaggio africano del Presidente Xi Jinping all’indomani della sua elezione nel marzo 2013. Gli effetti di questo attivismo diplomatico sono evidenti nel rafforzamento delle relazioni bilaterali, nell’intensifi-cazione degli scambi culturali e nell’aumento dell’inter-scambio commerciale, degli investimenti e degli aiuti ci-nesi. Come scrive l’eminente studioso americano David Shambaugh nel suo ultimo libro, mediante queste ini-ziative la Cina «sta meticolosamente costruendo un’ar-chitettura istituzionale globale parallela e alternativa

paradossalmente sempre più insicura sul fronte interno. L’indebolimento delle basi economiche cinesi a causa dei numerosi problemi strutturali poneva fine al perio-do degli alti tassi di crescita, con possibili conseguenze per la stessa stabilità politica. Del resto, la legittimità del Partito Comunista Cinese poggiava principalmente sul pilastro economico, ma questo iniziava a vacillare. Per questo motivo, l’amministrazione di Xi ha preferito legittimare il Pcc in funzione di un nazionalismo sem-pre più intransigente. A esempio, il Giappone di Abe è stato demonizzato come Paese militarista indirizzato al sovvertimento dell’ordine internazionale fondato sulla guerra mondiale contro i fascismi, anche attraverso la commemorazione del massacro di Nanchino, compiuto dall’esercito imperiale giapponese nel 19379. Al progres-sivo consolidamento politico di Xi sul fronte interno è seguito soltanto un leggero abbassamento di volume della propaganda politica interna nei confronti del Giap-pone e una continuata assertività nei mari contigui alla Cina10. Questo dettaglio lascia intendere che Xi stesso sia un nazionalista convinto, un nazionalista che è pie-namente rappresentativo del nuovo Zeitgeist, in Cina come sempre più in altre parti del mondo in crescente fibrillazione.

Giulio PuglieseDipartimento di War Studies, King’s College London

9. G. Pugliese - A. Insisa, Sino-Japanese Power Politics, cit.10. W.W. Lam, Chinese Politics in the Era of Xi Jinping, Routledge, Londra e New York 2015.

La Cina in Africa: aiuti, retorica e soft powerSofia Graziani

1. Per una ricostruzione del percorso di riavvicinamento tra Cina e Africa dagli anni Novanta a oggi si veda B. Onnis, La presenza cinese in Africa. Interessi e sfide crescenti, in «Mondo Cinese», 158 (2016), pp. 54-65.

Il drago cinese

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 45

Studi

all’ordine occidentale post-Guerra [Fredda]»2.Ma, nonostante i successi della politica cinese, i rap-porti sino-africani hanno registrato numerosi elementi di tensione e in alcuni paesi la valutazione dell’operato cinese ha visto un crescente divario affermarsi tra i le-ader e la popolazione locale. Per di più, in Occidente è prevalsa l’idea che le modalità della presenza economica cinese in Africa – così fortemente legata all’estrazione del greggio – siano tipicamente neocoloniali. Così, negli ultimi anni, la Repubblica Popolare Cinese (Rpc) ha in-vestito risorse considerevoli nella creazione del proprio soft power, al fine di coltivare un’immagine più positiva della Cina in Africa e facilitare il raggiungimento degli interessi e degli obiettivi strategici nazionali. A questo riguardo particolare importanza assumono la pratica e la retorica dell’assistenza cinese allo sviluppo.

Gli aiuti allo sviluppoLa costruzione del soft power cinese è tra gli elementi qua-lificanti della nuova strategia internazionale della Cina che si è andata delineando a partire dai primi anni Duemila. Pechino ha fatto notevoli passi in avanti nell’utilizzare una varietà di strumenti politici, culturali ed economici per promuovere un’immagine positiva della Cina all’estero e attirare l’attenzione dei paesi in via di sviluppo. Il concetto di soft power – coniato da Joseph Nye all’inizio degli anni Novanta – è stato dunque recepito in Cina come qualcosa che include non solo la cultura popolare e la diplomazia pubblica ma anche le leve economiche e diplomatiche più coercitive come gli aiuti allo sviluppo, gli investimenti e la partecipazione alle organizzazioni multilaterali3.Numerosi esperti concordano sul fatto che gli aiuti allo svi-luppo costituiscono lo strumento principale della strategia di promozione del soft power cinese in Africa. Secondo De-borah Brautigam, «la Cina ha usato gli aiuti sia come forma di scambio assimilabile all’antica pratica imperiale del tri-buto, sia come espressione moderna del soft power, ovvero come uno strumento di diplomazia e come un mezzo per raggiungere obiettivi politici, strategici ed economici»4.Gli aiuti cinesi allo sviluppo sono aumentati in modo signi-ficativo dal 2006 quando al summit del Focac, tenutosi a Pechino, il governo cinese si è impegnato a raddoppiare in tre anni l’assistenza all’Africa. È tuttavia difficile quantifi-care con esattezza gli aiuti cinesi dal momento che Pechino non fa parte dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) e non pubblica in modo siste-matico i dati relativi al suo intervento in Africa. Per di più, buona parte degli aiuti consiste in progetti infrastrutturali e programmi di formazione nei settori più marcatamente sociali che non rientrano nelle statistiche ufficiali. Sebbene i programmi di aiuto della Cina abbiano ricevuto critiche in Occidente da parte dei donatori tradizionali e dei

gruppi della società civile per non conformarsi agli stan-dard internazionali, in particolare per l’aderenza a principi quali la non interferenza e la non condizionalità, è indubbio che l’assistenza cinese abbia contribuito notevolmente allo sviluppo dei paesi beneficiari. Numerosi sono, infatti, i pro-getti completati nell’ambito infrastrutturale (ferrovie, stra-de, ospedali e scuole), i medici e i tecnici inviati in Africa e i programmi di formazione delle risorse umane avviati negli ultimi anni5. Inoltre, il numero delle borse di studio gover-native destinate a studenti africani è raddoppiato dal 2006 al 2009, testimoniando dell’importanza che questo stru-mento continua ad assumere nell’ambito dell’assistenza allo sviluppo della Rpc e nella proiezione del suo soft power6.Per di più, come dimostrato da un recente studio, l’assi-stenza cinese sta offrendo un approccio alternativo ge-neralmente ben accolto dai leader africani e sembra stia iniziando a incidere anche sulle idee e sulle attività dei donatori occidentali a vari livelli7.

La retorica della cooperazione sino-africanaNella strategia cinese in Africa particolare rilevanza assu-me la retorica politica. Lucy Corkin afferma che la retorica

2. D. Shambaugh, China’s Future, Polity Press, Cambridge (UK) 2016, p. 163.3. J. Kurlantzick, Charm Offensive. How China’s soft power is transforming the world, Yale University Press, New Haven-London 2007, p. 6. 4. D. Brautigam, China’s foreign aid in Africa: What do we know?, in R.I. Rotberg (a cura di), China into Africa: Trade, aid and influence, Brookings Institution Press, Washington D.C. 2008, pp. 201-202. 5. Information Office of the State Council, China’s Foreign Aid, 2011 http://news.xinhuanet.com/english2010/china/2011-04/21/c_13839683.htm6. D. Brautigam, The dragon’s gift: The real story of China in Africa, Oxford University Press, Oxford 2009, p. 121. 7. M. Urbina-Ferretjans - R. Surender, Social policy in the context of new global actors: How far is China’s development model in Africa impacting traditional donors, in «Global Social Policy», 13, 3 (2013), pp. 261-279. Tra-duzione italiana del testo in «Mondo Cinese», 158 (2016), pp. 152-170.

Shanghai, panorama

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458246

politica cinese è un importante strumento utilizzato da Pechino per distinguere il proprio approccio dalle pratiche occidentali in Africa e, più in generale, nel mondo in via di sviluppo; allo stesso tempo, rappresenta una manife-stazione del crescente interesse della Cina verso l’uso del soft power per coltivare lo status di “grande potenza” (da-guo)8. Nel caso dell’assistenza cinese allo sviluppo si pos-sono, infatti, individuare due ampi discorsi interconnessi tra loro: l’uno che sottolinea un insieme di principi etici su cui si fonda la cooperazione Sud-Sud tra pari, quali la solidarietà, il mutuo beneficio, l’aiuto non condizionale; l’altro che enfatizza il concetto di soft power, concetto che allude alla competizione internazionale tra le nazioni. La giustapposizione di questi due discorsi riflette chiaramen-te la tensione tra l’identità autoimposta della Cina quale paese in via di sviluppo e il suo status di potenza globale.Il discorso cinese sull’Africa tende a rappresentare la Cina come un attore internazionale profondamente morale (be-nevolo e solidale), eccezionalmente adatto ad aiutare l’Afri-ca in virtù di un comune passato segnato da analoghe soffe-renze (sottosviluppo e colonialismo)9. Non a caso costante è il richiamo ai trascorsi storici che hanno segnato le relazio-ni sino-africane. Il passato viene richiamato laddove serve a rivendicare una continuità di intenti e rassicurare i leader africani del fatto che la Cina, benché sia ormai una potenza globale, mantiene un’identità di paese in via di sviluppo e la sua presenza nel continente africano non sfocerà nello sfruttamento o in qualche nuova forma di colonialismo.

E domani? Nell’ultimo decennio la leadership cinese ha mostrato una crescente consapevolezza dell’importanza del soft power per promuovere un’immagine più positiva del-la Cina e coltivare lo status di grande potenza a livello

internazionale. Allarmata dal diffondersi delle accuse di “neocolonialismo”, mosse da larga parte del mondo occi-dentale in merito alla sua espansione economica in Afri-ca, e di una percezione negativa delle popolazioni locali verso l’operato cinese, la Rpc sta rafforzando il proprio impegno in Africa dal punto di vista politico, culturale e umanitario. Secondo il noto africanista cinese He Wenping, l’Africa rappresenta il principale terreno di prova per la costru-zione del soft power cinese10. Gli aiuti e la retorica politi-ca sono aspetti chiave di questa strategia. Se da un lato il governo cinese si è impegnato sin dal 2006 ad aumenta-re notevolmente il proprio intervento nell’ambito dell’as-sistenza allo sviluppo, dall’altro ha teso a presentare il proprio intervento all’interno di una cornice retorica che tende a differenziare l’esperienza cinese da quella delle passate potenze coloniali e a presentare la Cina come at-tore morale particolarmente adatto ad assistere l’Africa, enfatizzando l’eccezionalità del modello cinese. Rimane da valutare a questo punto in che modo le élite e le po-polazioni africane nei diversi contesti nazionali percepi-scono e rispondono alla “charm offensive” di Pechino.

Sofia GrazianiUniversità di Trento

8. L.J. Corkin, China’s rising Soft Power: The role of rhetoric in con-structing China-Africa relations, in «Revista Brasileira de Politica Inter-nacinal», 57 (2014), http://www.scielo.br/scielo.php?script=sci_arttext&pi-d=S0034-732920140003000499. J.C. Strauss, La retorica delle relazioni sino-africane, in «Mondo Cine-se», 158 (2016), pp. 66- 87. 10. W. He, The Balancing Act of China’s Africa Policy, in «China Security», 3, 3 (2007), pp. 23-40.

Il presidente della Repubblica popolare cinese, Xi Jinping in visita di stato in Tanzania nel 2013, accompagnato dal presidente Jakaya Mrisho Kikwete.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 47

PercorSi didattici

Crisi del greco antico e suggestioni neogrecheLuigi Coletta

si propone un itinerario didattiCo alla sCoperta delle linee di Continuità tra la lingua e la letteratura della greCia antiCa e quella neoelleniCa.

Tra lingua e letteratura greca antica e lingua e let-teratura neoellenica non solo non vi sono soluzio-ni di continuità, ma la conoscenza della lingua

e della cultura neogreca costituisce la via privilegiata per una più piena, profonda e moderna conoscenza della grecità classica.Lo studio del greco nell’attuale liceo classico appare in-ficiato da vari fattori, messi in luce dai reiterati e quali-ficati contributi di illustri studiosi ed esperti di didattica del latino e del greco. I ragazzi che si iscrivono al primo anno di liceo classico (ex quarto ginnasio) appaiono sem-pre più reticenti ad impegnarsi nello studio sistematico della grammatica normativa, propria delle lingue clas-siche, le quali, nonostante gli apprezzabili sforzi di me-ritevoli sperimentatori, non sembra che possano essere proficuamente insegnate secondo i cosiddetti metodi na-turali, che, invece, sono perfettamente idonei per l’inse-gnamento delle lingue moderne. Infatti, com’è noto, una lingua moderna s’impara parlandola, una lingua antica s’impara traducendola, ma, per tradurre autonomamente e correttamente un brano d’autore latino o greco, sono in-dispensabili un’adeguata competenza morfo-sintattica e un impegnativo esercizio di traduzione con l’uso costante del vocabolario. Invece, al termine del quinquennio del liceo classico, la maggior parte dei ragazzi, non avendo conseguito sicure abilità traduttive, spesso, per compren-dere la struttura di testi relativamente semplici, necessita dell’intervento esplicativo del docente. Il più delle volte un atteggiamento demotivato, minimalista e persino ri-nunciatario da parte dei ragazzi brucia la possibilità di accostarsi con profitto alla grande civiltà letteraria greca per mezzo della lettura, antologicamente significativa, degli auctores in lingua originale. È possibile uscire da questo impasse?

Un percorso possibileNessuno può consapevolmente affermare di possede-re la formula idonea ad aprire mondi di rinascita degli

studi classici nell’attuale sistema scolastico italiano, tan-to più che si fanno insistenti le voci, riconosciute come autorevoli nel vasto, impervio e ambiguo campo della corrente pedagogia, secondo le quali sarebbe ormai op-portuno prendere atto che lo studio delle lingue e della cultura classica è, per così dire, di nicchia.Non intendiamo in questa sede discutere codeste opinio-ni, che palesemente non condividiamo. Vogliamo invece verificare per exempla la possibilità di guidare i ragazzi nell’ambito del quinquennio del liceo classico attraver-so un percorso che consenta loro di prendere coscienza di come tra lingua e letteratura greca antica e lingua e letteratura neoellenica non solo non vi siano soluzioni di continuità, ma la conoscenza della lingua e della cultura neogreca costituisca la via privilegiata per una più pie-na, profonda e moderna conoscenza della grecità clas-sica. Se i ragazzi, al termine del percorso, acquisissero tale consapevolezza, il nostro esperimento avrebbe già un riscontro decisamente positivo.Precisiamo: non si tratta di aggiungere al già gravoso in-segnamento della lingua e della letteratura greca antica nozioni di neogreco, magari finalizzate all’apprendimen-to di tipo dialogico-comunicativo di una lingua moderna in più, utilizzabile in viaggio o spendibile in un’assoluta-mente futuribile attività lavorativa. È appena il caso di ri-cordare che spesso in ambito formativo, come insegnava una saggezza pedagogica, oggi, forse, non più à la page, si rivelano utilissime proprio quelle cose che sul piano pratico possono essere ritenute del tutto inutili, se non ad-dirittura di impedimento per un pragmatismo immediato, ma automatico e inconsapevole. Qualche esempio potrà rendere più chiaro il nostro assunto.

Continuità tra greco antico e greco modernoIl rapporto tra il greco antico e il neogreco è decisamen-te diverso da quello che intercorre tra il latino classico e l’italiano, risultato della secolare evoluzione del sermo cotidianus, o altre lingue neo-latine: infatti in questo

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458248

PercorSi didattici

caso la diversità linguistica è indice di una sostanziale diversità culturale, sia pure nell’innegabile riconosci-mento di radici comuni. Insomma, se è vero che, come affermava Leopardi, la storia di una lingua è la storia del popolo che l’ha adoperata come mezzo della comu-nicazione orale e scritta della propria visione del mondo, la nostra Weltanschauung è radicalmente diversa, e in taluni casi addirittura antitetica, rispetto a quella che gli antichi romani espressero nella loro lingua. Non è un caso se nei secoli, prima del Medioevo e poi del Rina-scimento, il latino ha continuato ad essere usato come lingua ufficiale delle istituzioni civili e religiose e della comunicazione dotta nell’insegnamento, nella letteratu-ra e nella scienza, accanto al volgare, che in tempi sto-ricamente brevi si affermò come lingua d’arte, perfetta-mente idonea per esprimere un modo orgogliosamente nuovo di vedere l’uomo e il mondo. L’uomo greco moderno, invece, concepisce la sua lin-gua e la sua cultura in linea di continuità con la lingua e la cultura dell’uomo greco antico. A tale proposito basti sapere che il greco di Omero, dei lirici arcaici, dei gran-di drammaturghi, degli storici e degli oratori del quinto e del quarto secolo viene letto anche nei licei greci con la pronuncia del greco moderno. Infatti il neoellenico, nelle sue varianti epicoriche, è l’esito dell’evoluzione fonetica, lessicale e morfo-sintattica della κοινή elleni-stica, dapprima lingua franca delle province orientali dell’impero romano e poi dell’impero bizantino. Dunque già in età tardo-antica e medievale sia i dotti del Fanàr, il quartiere del Patriarcato di Costantinopoli, sia la gente comune pronunciavano il greco così come si pronuncia oggi: il dottissimo Fozio, patriarca al tempo dell’impera-tore Michele III, o un secolo e mezzo dopo di lui Michele Cerulario, che provocò lo scisma con la Chiesa di Roma, non è improbabile che leggessero i classici greci con la pronuncia che poi sarebbe stata propria del neogreco. Fu allora che cominciò a determinarsi quella divaricazione tra lingua dotta, καθαρεύουσα (katharèvusa), e lingua popolare, δημοτηκή (dimotikì), che è rimasta costante fino ai giorni nostri, pur approfondendosi nel corso dei secoli per il continuo innovarsi della δημοτηκή, grazie all’apporto di altre lingue, come l’italiano, il turco, il francese, con le quali il greco moderno è venuto in con-tatto per ben note ragioni storiche. La δημοτηκή è diventata anche la lingua della letteratura neoellenica già a partire dal Risorgimento Greco, con i grandi poeti nazionali Solomós e Palamás e successiva-mente con Kaváfis, definito da Montale il più ellenisti-co dei poeti della Grecia moderna, fino ai premi Nobel Seféris (1963) ed Elítis (1979) e ai cantori della libertà greca dopo la dominazione straniera durante il secondo conflitto mondiale, come Sikelianós, e agli intellettuali

impegnati per la liberazione dalla esiziale Dittatura dei Colonnelli, come il poeta e drammaturgo Rítsos, il qua-le sotto quel regime patì il carcere e la tortura. Dal 1976 la δημοτηκή è la lingua ufficiale della Grecia.Ma per verificare la multiforme vitalità del greco non occorre recarsi in Grecia: in numerose località del Sa-lento si parlano tuttora dialetti strettamente affini al gre-co bizantino e al neogreco.

Orientamenti didatticiConcrete e reiterate esperienze sul campo ci consentono di affermare che non solo è possibile, ma, per le ragioni e le finalità già argomentate, è opportuno avvicinare i ragazzi alla lingua e alla letteratura neoellenica sin dalle classi ini-ziali del liceo classico. Facciamo qualche esempio.In quarta ginnasiale, illustrando in modo essenziale i fe-nomeni fonetici e il sistema nominale flessivo del greco antico, non è impraticabile introdurre le regole fonda-mentali della pronuncia del greco moderno e illustrare la sopravvivenza del genere neutro, accanto al maschile e al femminile, e del sistema dei casi, in cui il dativo è scomparso e non è più presente con terminazioni pro-prie il vocativo, mentre l’accusativo ha generalmente perso la caratteristica terminazione in nasale, e, quindi, delle declinazioni, che sono sempre tre, ma la prima per i nomi maschili, la seconda per i femminili e la terza per i neutri. Questo aiuterà i ragazzi a non considerare una faticosa bizzarria il sistema flessivo del greco antico. E sarà utile spiegare agli alunni, che stanno famigliariz-zando con la fonetica greca, che anche nel greco mo-derno permangono gli stessi accenti e spiriti del greco antico, anche se nell’aprile del 1982 il governo greco accettò con un apposito decreto il sistema monotonico, già largamente in uso nella δημοτηκή, che utilizza un solo tipo di accento scritto, indicante il posto dell’ac-cento tonico, segnato come accento acuto. Tale accento non si segna sulle parole monosillabiche, tranne che non sia necessario distinguere due termini omografi, ma con diverso significato. Nell’ambito delle semplificazioni e delle normalizzazioni proprie del greco moderno un esempio significativo è il caso del sostantivo donna: in greco antico questo sostantivo ha un tema normale in vocale, su cui si formano il nominativo e il vocativo sin-golare, e un tema ampliato in velare, su cui si formano gli altri casi del singolare e del plurale. In neo-greco tutti i casi si formano sul tema ampliato in velare, così che il nominativo singolare è uguale all’accusativo singolare del greco antico: γυναίκα (pr. jinéka). Se si passa a con-siderare il sistema verbale, è essenziale il confronto tra la flessione del presente del verbo essere in greco antico e in neo-greco. Per chiarezza riportiamo la coniugazio-ne del presente indicativo con la relativa pronuncia:

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 49

PercorSi didattici

είμαι (ime)είσαι (ise)είναι (ine)είμαστε (imaste)είστε / είσαστε (iste / isaste)είναι (ine)

Il verbo avere viene adoperato in neogreco anche come ausiliare, allo stesso modo che in italiano. Ecco il pre-sente indicativo (da confrontare in classe col presente indicativo del greco antico):

έχω (echo)έχεις (echis)έχει (echi)έχουμε (echume)έχετε (echete)έχουν (echun).

In quinta ginnasio, completando la diátesi dei verbi tema-tici, sarà utile introdurre altri confronti. Esemplifichia-mo: mostreremo ai ragazzi che il futuro di tutti i verbi si forma premettendo alle persone del presente indicativo la particella θα (esito dell’antico θέλω che, seguito dall’in-finito di un verbo, significava l’imminenza dell’azione). La medesima particella premessa all’aoristo fa assumere al verbo valore condizionale. Il paradigma di un verbo in greco moderno registra anche l’imperfetto, l’aoristo, il congiuntivo, che si forma premettendo la particella να (esito dell’antico ἵνα), e l’imperativo. Gli altri tempi si formano, come in italiano, avvalendosi dei verbi ausiliari είμαι (sono) e έχω (ho). Proviamo dunque a far riflettere i nostri giovanissimi allievi proponendo alcuni paradigmi di verbi neo-greci più usati e guidandoli nel confronto, il più delle volte intuitivo, e persino evidente, con le analo-ghe forme verbali del greco antico. Di ciascun verbo in-dichiamo, in successione, la prima persona del presente, dell’imperfetto, dell’aoristo, del congiuntivo e la seconda persona singolare dell’imperativo:

ακούω (ascolto), άκουγα, άκουσα, να ακούσω, άκου / άκουσεανεβαίνω (pr. aneveno, salgo), ανέβαινα, ανέβηκα, να ανέβω/ανεβώ, ανέβαβγαίνω (pr. ‘vjeno, esco), έβγαινα, βγήκα, να βγω, βγες βλέπω (pr. ‘vlepo, vedo), έβλεπα, είδα, να δω, δες βρίσκω (pr. ‘vrisko, trovo), έβρισκα, βρήκα, να βρω, βρες γίνομαι (pr. jinome, divento), γινόμουν, έγινα, να γίνω, γίνεδίνω (posso), έδινα, έδωσα, να δώσω, δώσεείμαι (pr. ime, sono), ήμουν (io ero), ήμουν (io fui), να είμαι, να είσαιέχω (pr. echo ), είχα (io avevo), είχα (io ebbi), να έχω, έχε / να έχεις λέω (dico), έλεγα, είπα, να πω, λέγε / πες φαίνομαι (pr. fenome, appaio), φαινόμουν, φάνηκα, να φανώ, να φανείς φεύγω (pr. fevgo, fuggo), έφευγα, έφυγα, να φύγω, φύγε.

Il confronto con le forme verbali del greco antico è, come si diceva, così palese, che non necessita, almeno in questa sede, di ulteriori spiegazioni.Nelle classi del liceo diventa naturale il costante riferi-mento tra autori e generi della letteratura greca classica e autori e generi della letteratura neo-ellenica. Ci limi-tiamo necessariamente a indicazioni di ordine generale. Lo studio dell’epica classica rinvia all’epica bizantina, dove i Canti Akritici con l’epopea del mitico eroe difen-sore delle frontiere dell’impero, Dighenís Akrítas, for-nisce un fertile terreno di confronto. Ma gli eroi e i per-sonaggi del mito classico, presenti in Omero, nei lirici e nella tragedia attica, rivivono emblematicamente come simboli della condizione esistenziale dell’uomo moder-no nei versi di molti poeti neoellenici, sia nei poemi lirici sia nella drammaturgia, dalla metà dell’Ottocento fino a tutto il Novecento, cominciando con Dionigi Solomós, considerato il padre della moderna letteratura neoelle-nica, e proseguendo con i già citati Palamás, Kaváfis, Seféris, Sikelianós, di cui ricordiamo il dramma Sibilla, e Rítsos, di cui menzioniamo il dramma Agamennone e i poemetti drammatici di Quarta dimensione. Per non diffonderci in un arido elenco, proponiamo qualche esempio concreto, che può fornire anche lo spunto per approfondimenti di ordine grammaticale.

Letture neoellenichePrendendo spunto dalla lettura di Omero, possiamo pro-porre ai ragazzi un confronto tra Ettore, che affronta consapevolmente la morte nell’estremo tentativo di sal-vare la sua patria ed evitare la schiavitù o la morte a suo figlio e a sua moglie, e Dighenís Akrítas, che s’immola per difendere le frontiere dell’impero bizantino dalle pe-ricolose incursioni degli Arabi e di altri popoli barbari in movimento lungo i confini orientali di Bisanzio. La figu-ra di questo eroe, diventato simbolo della lotta dei Greci contro qualsiasi oppressore, è protagonista di molte canti epici bizantini, ma ritorna per il suo valore mitico anche nei poeti vissuti tra Ottocento e Novecento, testimoni delle lotte del popolo greco per la libertà e l’unità nazio-nale. In quest’ottica scegliamo di leggere un componi-mento di Palamás, intitolato Dighenis e Caronte, tratto dalla raccolta Giambi e anapesti. Prima, però, forniamo ai ragazzi alcune notizie essenziali sull’autore, magari con un breve testo in neogreco da tradurre insieme:

Παλαμάς Κωστής γεννήθηκε τό 1859 στήν Πάτρα από γονείς Μεσολογγίτες καί πέθανε στήν Αθήνα τό 1943. Σπούδασε νομικά στό Πανεπιστήμιο Αθηνών, όπου, αργότερα ήταν γιά πολλά χρόνια γενικός γραμματέας. Ήταν από τά πρώτα μέλη τής Ακαδημίας Αθηνών. Πολυγραφότατος ποιητής καί πεζογράφος. Είναι ο καθολικότερος ποιητής μας, γιατί εμπνεύσθηκε τά έργα του από τή τρισχιλιετή εθνική μας

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458250

PercorSi didattici

ιστορία, από τη νεώτερη ευρωπαική διανόηση καί από τή συναισθηματική ζωή τής σύγχρονης εποχής. Γιά τή δύναμη τού ποιητικού του λόγου καί γιά τήν πρωτοτυπία του είναι μαζί μέ τό Σολωμό ο μεγαλύτερος ποιητής μας.

Costantino Palamás nacque nel 1858 a Patrasso da genitori di Missolungi e morì ad Atene nel 1943. Studiò legge nell’U-niversità di Atene, dove più tardi per molti anni fu segretario generale. Fu dapprima membro dell’Accademia di Atene. Po-eta molto prolifico e prosatore. È il nostro poeta più universa-le, perché ispirò le sue opere alla nostra storia trimillenaria, alla più recente cultura europea e alla vita emotiva dell’epoca contemporanea. Per la potenza del discorso poetico e per la originalità è, insieme a Solomós, il nostro poeta più grande.

Dopo questa breve nota biografica leggeremo con i ra-gazzi la poesia Dighenis e Caronte, di cui riportiamo il testo, trascrivendolo secondo il sistema di accentazione monotonico e corredandolo di una traduzione letterale:

Ο Διγενής κι ο Χάροντας Καβάλα πάει ο Χάροντας τό Διγενή στόν Άδη,κι άλλους μαζί…Κλαίει, δέρνεταιτ’ ανθρώπινο κοπάδι.

Καί τούς κρατεί στού αλόγου τουδεμένους τά καπούλια,τής λεβεντιάς τόν άνεμο,τής ομορφιάς τήν πούλια.

Καί σάν νά μήν τόν πάτησετού Χάρου τό ποδάρι,ο Ακρίτας μόνο ατάραχτακοιτάει τόν καβαλάρη.

- Ο Ακρίτας είμαι, Χάροντα,δέν περνώ μέ τά χρόνια,μ’ άγγιξες καί δέ μ’ ένιωσες στά μαρμαρένια αλώνια.

Είμ’ εγώ η ακατάλυτηψυχή τών Σαλαμίνων.Στήν Εφτάλοφην έφερατό σπαθί τών Ελλήνων.

Δέ χάνομαι στά Τάρταρα,μονάχα ξαποσταίνω.Στή ζωή ξαναφαίνομαικαί λαούς ανασταίνω.

A cavallo Caronte portaDighenis nell’Ade,e altri insieme (con lui)…Piange, viene percossoil gregge umano.

E alla groppa del suo cavallo,tiene legati quelli, (che sono)il vento della fierezza, la pleiade della bellezza.

E come se non lo calpestasse

il piede di Caronte,l’Akritas soltanto, imperturbabilmente,guarda il cavaliere.

- Sono l’Akritas, o Caronte,non passo con gli anni,mi colpisti e non mi prendestinelle marmoree aie.

Io sono l’anima indissolubiledegli uomini di Salamina.Nella città dei sette colliportavo la spada dei Greci.

Non svanisco nel Tartaro,Riposo soltanto.Nella vita riappaioe i popoli faccio risorgere.

Faremo qualche considerazione generale sulla poesia: noteremo che Caronte non è il tradizionale traghettatore di anime negli inferi, ma è rappresentato come un ca-valiere che trascina le anime agli inferi legandole alla groppa del suo cavallo, così come i vincitori conduce-vano i vinti prigionieri, spesso per esibirli in un corteo trionfale. Ma Dighenis, l’eroe simbolo del combattente per la libertà, pur legato, non si comporta come un vin-to: guarda dritto negli occhi Caronte e lo sfida. Il cava-liere infernale, simbolo della morte, che presto o tardi trionfa su tutti e su tutto, non può nulla su di lui. Infatti nello spirito di Dighenis vive lo spirito degli eroi greci che combatterono a Salamina per liberare il suolo greco dal barbaro persiano invasore, e lo spirito di Dighenis vivrà per sempre in tutti quei Greci che in ogni epoca combatteranno fino a sacrificare la propria vita per la libertà del sacro suolo della patria. Dighenis da morto avrà il potere cristologico di resuscitare i popoli, cioè di destarli dal sonno della schiavitù e di incitarli a ripren-dersi, con la libertà, la loro stessa identità di popoli.I limiti di questo lavoro ci impediscono di farlo, ma nella prassi didattica non sarà superflua qualche annotazione grammaticale, anche per puntualizzare le competenze fin qui acquisite, con particolare riferimento alle forme verbali e al lessico. Nel secondo anno del triennio, contestualmente alla lettu-ra dei lirici arcaici, possiamo proporre ai ragazzi la lettura della poesia di Kariotákis Ultimo viaggio, tratta dalla rac-colta Elegie e satire. Anche questa volta partiamo da una breve nota biografica in neogreco e in traduzione:

Καρυωτάκης Κώστας γεννήθηκε στήν Τρίπολη τό 1896 καί πέθανε στήν Πρέβεζα τό 1928. Έργα: Ο πόνος τού ανθρώπου καί τών πραγμάτων, Ελεγεία καί σάτιρες. Μετέφρασε πολλά ποιήματα ξένων ποιητών. Τό ποιητηκό έργο τού Κώστα Καρυωτάκης είχε σημαντική επίδραση στή νεώτερη ελληνική ποίηση.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 51

PercorSi didattici

Costantino Kariotákis nacque a Tripoli nel 1896 e morì a Pre-veza nel 1928. Tra le opere: La fatica dell’uomo e delle cose, Elegie e satire. Tradusse molti componimenti poetici di poe-ti stranieri. L’opera poetica di Costa Kariotákis ebbe un’in-fluenza significativa sulla più nuova poesia ellenica.

Ed ecco il testo e la traduzione di Ultimo viaggio:

Τελευταίο ταξίδιΚαλό ταξίδι, αλαργινό καράβι μου, στού απείρουκαί στής νυχτός τήν αγκαλιά, μέ τά χρυσά σου φώτα!Νά ‘μουν στήν πλώρη σου ήθελα, γιά νά κοιτάζω γύρουΣέ λιτανεία νά περνούν τά ονείρατα τά πρώτα.

Η τρικυμία στό πέλαγος καί στή ζωή νά παύει,μακριά μαζί σου φεύγοντας πέτρα νά ρίχνω πίσω,νά μού λικνίζεις την αιώνια θλίψη μου, καράβι,δίχως νά ξέρω πού μέ πάς καί δίχως νά γυρίσω!

Un bel viaggio, al largo, o mia nave, nell’abbraccio dell’infinitoe della notte, con i suoi lumi d’oro!Volli stare a prua, per guardare intorno passare in processione i primi sogni.

Che cessi la tempesta nel mare e nella vita,lontano insieme a te fuggendo, i sassi io getti indietro;cullami l’eterna mia tristezza, o nave,senza che io sappia dove mi porti e senza che mi volti.

Delicatissima questa lirica del Kariotákis, il cui tono ele-giaco non può non rinviare all’elegia arcaica di Mimner-mo e a celebri componimenti di Saffo e di Alceo. Anche qui, come nell’elegia antica, ci sono le ben note metafore del viaggio e della nave, c’è la tempesta esistenziale del poeta, c’è lo smarrimento della rotta, l’affidarsi alla for-za dei sogni, o meglio, foscolianamente, delle illusioni e di un destino imperscrutabile. Il poeta vuole fuggire lontano da una realtà che percepisce amara e avvilen-te. La natura, rappresentata in uno splendido notturno, ha, come spesso nei lirici arcaici, un ruolo rasserenante. Emblematica l’immagine del poeta, che si getta dietro le

spalle i sassi, per sgombrare il futuro dalle scorie di un passato infelice: viene in mente il mito di Deucalione e Pirra, che, dopo il diluvio universale, ripopolarono la terra con un rinnovato genere umano, proprio gettando dietro le spalle sassi, che si trasformavano in uomini.Anche su questo testo faremo con i ragazzi qualche es-senziale riflessione grammaticale e lessicale.Sempre per quanto riguarda il rapporto tra lirici della Grecia classica e della Grecia moderna, possiamo pro-porre ai nostri alunni un breve, ma intenso componi-mento di Timos Moraitínes Il sole, facendo precedere la lettura da una brevissima nota biografica in neogreco da tradurre in italiano:

Τίμος Μοραϊτίνης γεννήθηκε τό 1885 στήν Αθήνα. Συνεργάστηκε μέ διάφορες εφημερίδες καί περιοδικά. Έχει γράψει θεατρικά έργα καί μυθιστορήματα. Πέθανε τό 1952.

Timos Moraitínes nacque nel 1885 ad Atene. Collaborò con diversi quotidiani e periodici. Ha scritto opere teatrali e ro-manzi. Morì nel 1952.

Ed ora il testo e una traduzione de Il sole:

Ο ήλιος Κάθε καλοκαίρι ο ήλιος τή χρυσή κλωστή ξεπλέκεικαί κεντάει εδώ τό ρόδο, τό αγιόκλημα παρέκει,καί τίς αντηλιές υφαίνει μέ υπομονή καί τάξη,μέ τό ξέφτι μιάς αχτίνας καί μέ ρόδινο μετάξι.

Τό χειμώνα πιά δέ βάζει ούτε βελονιά στά κλώνια,σπάζουν καί λυγούν στά φύλλα τά χρυσά του τά βελόνια,καί ξεφτούν κι οι αντηλιές,καί οι μαγικές του αχτίνες, τυλιγμένες στά κλωνάρια,γίνονται χρυσά κουβάριαστίς πορτοκαλιές.

Ogni estate il sole intreccia il filo d’oro e qua punge la rosa, più in là il caprifoglio,e tesse i riverberi con pazienza e ordine,con la sfilacciatura di un raggio e con la rosea seta.

L’inverno più non mette neppure i piccoli aghi sui rami;si rompono e si piegano sulle foglie i suoi aghi d’oro,e sfilacciano anche i riverberi,e i suoi magici raggi, avvolti ai ramoscelli,diventano gomitoli d’oronegli aranci.

La lirica di Moraitínes nella sua luminosa semplicità rappresenta il sole estivo, che avvolge ogni cosa con la sua luce e il suo calore, e il sole invernale, che riesce comunque a penetrare attraverso gli alberi, avvolgendo i suoi raggi come gomitoli d’oro negli aranci. Un inno alla vitale e incessante fatica del sole sullo sfondo cangiante di una natura mediterranea. Inevitabile l’accostamen-to col fr.12 West di Mimnermo, generalmente noto col

Costantino Kariotakis (1896-1928)

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458252

PercorSi didattici

titolo La barca del sole.Ovviamente non rinunceremo a stimolare i ragazzi a formulare qualche osservazione sul lessico.Nell’ultimo anno del liceo classico, contestualmente allo studio della poetica callimachea e della poesia ellenisti-ca, è fondamentale dal punto di vista formativo la lettura approfondita di Costantino Kaváfis, un poeta quasi sco-nosciuto durante la vita, ma, dopo la morte, celebrato universalmente come uno dei poeti della Grecia moder-na, che meglio di altri ha saputo trasfondere pensieri e sentimenti dell’uomo contemporaneo nelle forme di una nitida ed ellenistica classicità.Cominceremo come di consueto con una nota biografica in neogreco, che ormai i ragazzi non avranno difficoltà a tradurre da soli:

Κωνσταντίνος Καβάφης, από τού κορυφαίους ποιητές τής νεώτερης Ελλάδας. Γεννήτηκε στήν Αλεξάνδρεια τό 1863 καί πέθανε εκεί τό 1933. Άφησε μικρό, ποσοτικά , ποιητικό έργο αλλά γεμάτο πρωτοτυπία καί γνήσιο προσωπικό ύφος. Τό ποιητικό έργο τού Καβάφη αναγνωρίστηκε μέ τό πέρασμα τού χρόνου. Σήμερα είναι γνωστός στό διεθνή χώρο.

Costantino Kaváfis, tra i sommi poeti della Grecia più moder-na, nacque ad Alessandria nel 1863 e morì lì nel 1933. Lasciò un’opera poetica limitata nel numero e nella estensione dei componimenti, ma piena di originalità e autentico personale valore. L’opera poetica di Costantino Kaváfis fu riconosciuta col passare del tempo. Oggi è noto in ambito internazionale.

Di Kaváfis leggiamo Il primo scalino, di cui riportiamo il testo, trascritto secondo il sistema monotonico, e una proposta di traduzione, quanto più possibile letterale:

Τό πρώτο σκάλιΕις τόν Θεόκριτο παραπονιούντανμιά μέρα ο νέος ποιητής Ευμένης :

-Τώρα δυό χρόνια πέρασαν πού γράφωκι ένα ειδύλλιο έκαμα μονάχα.Τό μόνον άρτιόν μου έργον είναι.Αλίμονον, είν’ υψηλή τό βλέπω,πολύ υψηλή τής Ποιήσεως η σκάλακι απ’ τό σκαλί τό πρώτο εδώ πού είμαιποτέ δέ θ’ ανεβώ ο δυστυχισμένος -.Είπ’ ο Θεόκριτος:- Αυτά τά λόγιαανάρμοστα καί βλασφημίες είναι.Κι άν είσαι στό σκαλί τό πρώτο, πρέπεινά ‘σαι υπερήφανος κι ευτυχισμένος.Εδώ πού έφθασες λίγο δέν είναι:τόσο πού έκαμες, μεγάλη δόξα.Κι αυτό ακόμη τό σκαλί τό πρώτοπολύ από τόν κοινό τόν κόσμο απέχει.Εις τό σκαλί γιά να πατήσεις τούτοπρέπει μέ τό δικαίωμά σου νά ‘σαιπολίτης εις τών ιδεών τήν πόλη.Καί δύσκολο στήν πόλη εκείνην είναικαί σπάνιο νά σέ πολιτογραφήσουν.Στήν αγορά της βρίσκεις νομοθέτας πού δέ γελά κανένας τυχοδιώκτης.Εδώ πού έφθασες, λίγο δέν είναι:τόσο πού έκαμες, μεγάλη δόξα -.

Con Teocrito si lamentavaun giorno il giovane poeta Eumene:“Ora due anni sono trascorsi che scrivoe un idillio soltanto ho composto.È la sola mia opera compiuta.Ahimé, è alta, lo vedo,molto alta la scala della poesia;E dal primo scalino qui dove sonomai, infelice, salirò”.Rispose Teocrito: “Questi discorsisono assurdi e blasfemi.E se sei sul primo scalino, bisognache tu sia fiero e felice.Qui dove sei giunto non è poca cosa:ciò che hai fatto è grande gloria.E ancora questo primo scalinomolto dista dalla gente comune.Per il fatto di calpestare questo primo scalinoconviene con tuo diritto che tu siacittadino nella città delle idee.E in quella città è difficilee raro che ti si iscriva come cittadino.Nella sua piazza trovi legislatoriche nessun avventuriero deride.Qui dove sei giunto, non è poco:ciò che hai realizzato è grande gloria”.

Questa lirica di Kaváfis è molto pregevole ed ha un’e-vidente valenza didattica: l’idea della poesia come fa-tica artigianale, tesa al raggiungimento della massima perfezione formale possibile, è una chiara eredità della poetica callimachea, fatta successivamente propria da Catullo e dai neoterici. Per il poeta dotto della corte Konstantinos Kavafis (1863-1933)

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 53

PercorSi didattici

alessandrina o dell’età cesariana e augustea a Roma, ma poi anche per i poeti rinascimentali, a partire da Petrar-ca, fino ai poeti francesi della seconda metà dell’Otto-cento e del Novecento italiano ed europeo, il precetto irrinunciabile dell’arte poetica è che in un testo poetico non è tanto importante quello che si dice, ma come lo si dice. La poesia dotta dall’antichità ai nostri giorni è essenzialmente arte della forma. Questo non significa assenza di contenuto, ma riconoscimento che la lette-ratura, in generale, e soprattutto, per sua naturale vo-cazione, la poesia testimoniano il loro tempo attraverso la sostanziale peculiarità della forma scelta e portata al punto più alto di perfezione. Ecco perché al giovane Eu-mene, che si lamenta di essere ancora al primo gradino della scala che conduce alla vetta della poesia, il dotto Teocrito replica che stare sul primo gradino è già grande gloria e conferisce all’apprendista poeta il diritto di cit-tadinanza nella platonica città delle idee, cioè delle pure forme del pensiero, dell’arte e della politica, dove severi legislatori impediscono che entrino volgari mercanti di parole e beceri ciarlatani. Certo, si tratta di una repub-blica aristocratica, ma di un’aristocrazia esclusivamen-te morale e intellettuale, unico fondamento possibile per un rinnovamento sociale, che proceda in direzione au-tenticamente civile e democratica. La lirica di Kaváfis può tornare utilissima a livello lin-guistico e, a titolo esemplificativo, faremo notare ai ra-gazzi quanto segue:-μέρα < gr. antico ἡμέρα “giornata”. Si trova anche nella forma ημέρα. Risulta attestato già nei poemi epici.-άρτιον in greco moderno significa: “perfetto”, “com-pleto”, “integro”.Es. άρτια γνώση μιας γλώσσας: conoscenza perfetta di una lingua.Nel greco antico l’aggettivo significava: “perfetto”, “in-tegro”, “ben fatto”, “esatto”, “proporzionato”, “giusto”, “uguale”. Risulta attestato dai poemi omerici e risulta attestato anche nell’ambito della lingua della medicina (Ippocrate e Galeno).-Είπε aoristo di λε(γ)ω.-τα λόγια ανάρμοστα l’aggettivo ανάρμοστος è attestato a partire da Erodoto III, 80.-νάσαι è una crasi <να + είσαι.-υπερήφανος l’aggettivo risulta attestato a partire dalla lirica corale di Pindaro e Bacchilide. Nel greco moderno è più frequente nella forma περήφανος.-έφθασες si tratta dell’aoristo del verbo φθάνω - φτάνω. Nella lingua moderna il verbo significa:1) arrivare, giungere, avvicinarsi2) bastare Es. δεν φτάνουν τα χρήματά μου= non mi bastano i soldi.

Nella lingua antica φθάνω, attestato già nei poemi ome-rici, significava originariamente “giungo prima”, “pre-vengo”. Molto frequente era la costruzione del verbo con un participio (in tal caso φθάνω si può rendere con un avverbio “prima”).Es. Hom., Od., XXII 91 μιν φθῆ βαλών =lo colpì prima-δικαίωμα anche questo vocabolo risulta attestato nella lingua antica. Si tratta di un vocabolo del lessico politico (Aristotele, Tucidide I, 41, Platone, Leggi 864 ma an-che nel Vecchio e nel Nuovo Testamento). Indicava “ciò che è giusto”, “diritto”, “la reclamazione di un diritto”, “decreto”, “sentenza”, “pena”, “ordine”, “prescrizione”, “giustificazione”. Nella lingua attuale indica “diritto” (“diritti politici” πολιτικά δικαιώματα, “diritti d’autore” συγγραφικά δικαιώματα).-να σε πολιτογραφήσουν si tratta di un congiuntivo istantaneo dipendente da δύσκολο είναι (è difficile che…) < πολιτογραφέω questo verbo risulta attestato dalle iscrizioni, da Diodoro e da Polibio. Significa “es-sere iscritto tra i cittadini”.A sigillo del nostro lavoro, diremo cose, forse, impopo-lari, ma che auspichiamo non vengano fraintese: creare una nuova e più aperta aristocrazia morale e intellettuale dovrebbe tornare ad essere il ruolo, in potenza, altamente formativo del liceo classico. A questo potrebbe contribui-re significativamente l’itinerario didattico da noi proposto e che può essere facilmente realizzato o dal docente di materie letterarie latino e greco durante le ore curriculari oppure da un docente specifico, sempre di latino e greco, in un corso para-extra-curriculare, articolato nell’arco del quinquennio, così da procedere con lo studio linguistico e letterario del neogreco contestualmente allo studio lin-guistico e letterario del greco antico.

Luigi ColettaDocente Latino e Greco

llSS Majorana-Laterza, Putignano (BA)

 BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE 

N. Catone, Grammatica neoellenica, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1967N. Catone, Esercizi di lingua neoellenica, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1973B. Lavagnini, La letteratura neoellenica, Sansoni / Accademia, Firenze 1969M. Vitti, Storia della letteratura neogreca, Carocci, Roma 2001AA.VV., Greco Moderno - Dizionario Greco Moderno-Italiano, Italiano-Greco Moderno, Zanichelli, Bologna 1996

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458254

PercorSi didattici

La polis democratica in età ellenistica: il caso di AteneGianluca Cuniberti

la lettura della periegesi di pausania e di altri autori Coevi supporta lo sforzo didattiCo di dare unitarietà all’intreCCio delle viCende Che fra europa e asia segnano il periodo dal iii al i seColo a.C.

Il periodo storico che chiamiamo Ellenismo ha carat-teristiche che lo rendono particolarmente necessa-rio in un percorso didattico di storia antica: l’ampia

mescolanza sociale, culturale e religiosa all’interno del mondo, in misure diverse, ellenizzato; la figura del re ora legge vivente ora dio incarnato; l’emergere dell’in-dividuo e delle associazioni di persone a prescindere dalle appartenenze alle singole comunità civiche; la continuità delle trasformazioni storiche che conducono da Alessandro alla conquista romana dell’area greca e vicino-orientale (su questo punto è importante evitare di presentare in termini separati il periodo ellenistico e quello romano: al contrario è faticoso, ma certamente importante lo sforzo didattico di dare unitarietà all’in-treccio delle vicende che fra Europa e Asia segnano il periodo dal III al I secolo a.C.).Un’altra di queste caratteristiche è quella di poter osser-vare la storia delle poleis greche e, in particolare, delle istituzioni democratiche sotto la pressione di rapidi e im-ponenti cambiamenti storici, legati alla formazione dei regni ellenistici e a diffusi processi di “globalizzazione”.A questo proposito può essere interessante proporre agli studenti un approfondimento su quanto accade ad Atene nel periodo successivo alla morte di Alessandro in modo da mostrare, nell’ambito della polis democratica per ec-cellenza, i riflessi di quanto si verifica fra i vari regni in una scala più ampia: l’esercizio di alternare una dimen-sione globale a una locale può essere utile per acquisire strumenti finalizzati a comprendere anche la contem-poraneità. In particolare questo approfondimento può essere occasione di riflessioni circa l’evoluzione della democrazia in rapporto al mutare del ruolo egemonico e della disponibilità delle risorse e in particolare delle materie prime necessarie alla polis.In questa sede propongo alcuni nuclei di informazioni e fonti, utili a un’analisi storica di questo periodo con modalità anche molto diverse.

La storia di Atene in epoca ellenisticaParticolare rilievo merita l’opera di Pausania che dedica uno spazio significativo alla storia ateniese nel periodo ellenistico, quasi a colmare un vuoto storiografico. Egli è l’ultimo autore che ribadisce la vocazione della Grecia alla libertà e all’autonomia: si tratta di un’ottica che pone sempre Atene al centro della vicenda politica e ribalta il normale approccio storiografico antico e moderno volto soprattutto a leggere l’Ellenismo nelle dinamiche alter-nanze e opposizioni tra i successori di Alessandro. Que-sta deliberata lettura della storia greca quale storia delle poleis anche dopo il dominio macedone iniziato da Filip-po e Alessandro trova la sua motivazione nella consape-volezza del Periegeta circa il fatto che il viaggio in Gre-cia, proposto nella sua narrazione, percorre luoghi unici proprio a motivo dell’esperienza politica vissuta nei secoli precedenti, un’esperienza politica che Pausania individua anzitutto come ateniese e quindi come democratica, con-seguentemente come antimacedone e perciò libera e au-tonoma, in quanto attuata nel principio dell’autodetermi-nazione di ogni singola polis. Allo stesso modo, tuttavia, egli è ben conscio dell’unicità di questa esperienza, dell’e-semplarità del caso ateniese all’interno della stessa Grecia perché, a conti fatti, la democrazia greca, se vincente, gli appare soltanto come ateniese (IV 35, 5).Propongo di avvicinare gli studenti alla lettura e al com-mento dei capitoli I 25-26, nei quali Pausania presenta il periodo 322-287/6 come momento unitario e coerente dell’evoluzione storica della polis attica. In particolare l’autore della Periegesi pone attenzione alle metabolai, le trasformazioni che nel periodo accennato caratteriz-zano la vita politica di Atene. Ne deriva nel racconto di Pausania la seguente scansione:1) a seguito della sconfitta nella guerra lamiaca gli Ate-niesi sono costretti a subire l’insediamento di un pre-sidio macedone, che occupa dapprima Munichia, poi il Pireo e le lunghe mura;

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 55

PercorSi didattici

2) Cassandro prende Panatto in Attica e l’isola di Sala-mina, e fa insediare come tyrannos Demetrio Falereo;3) Demetrio figlio di Antigono, giovane e alla ricerca del favore dei Greci, pone fine alla tyrannis del Falereo;4) Cassandro induce Lacare, che fino ad allora aveva ca-peggiato il popolo, a tramare per la tirannide, che, realiz-zata, fu crudele verso gli uomini ed empia verso gli dei;5) Demetrio abbatte la tirannide di Lacare sebbene tra lui e il popolo vi fosse ormai disaccordo;6) dopo la fuga di Lacare Demetrio non solo non resti-tuisce il Pireo, ma in seguito, dopo aver dominato gli Ateniesi in battaglia, installa una guarnigione proprio nella città, fortificando il Museo; 7) eletto stratego, Olimpiodoro libera la città dai Ma-cedoni, compiendo la sua impresa più grande a parte quelle compiute recuperando il Pireo e Munichia, scon-figgendo i Macedoni a Eleusi e procurando alla propria città l’alleanza con gli Etoli.Compiuta l’esegesi del passo, sarà interessante invitare gli studenti a comparare questa lettura con passi tratti da altre fonti parallele, a esempio Diodoro (XVIII 18; 55-56; 74) e soprattutto Plutarco, Focione (27-29; 32-37) e Demetrio (8-14; 22-24; 26-27; 30-34; 46). Si po-tranno annotare le differenze fra racconti storici pro-fondamenti diversi sia in riferimento a fatti inclusi od omessi (per una sintesi dei fatti, vd. fig. 5) sia circa l’a-nalisi della capacità di Atene di controllare o di subire le diverse liberazioni e dominazioni, infine di liberarsi da sé o con l’aiuto di altri (se il tempo a disposizione lo dovesse permettere sarà interessante confrontare la liberazione di Olimpiodoro con quella successiva con-nessa alla figura di Arato e testimoniata nell’omonima Vita plutarchea). Infine, si dedicherà particolare atten-zione alle vicende relative alle profonde ingerenze e

ai violenti soprusi di Demetrio Poliorcete nella vita cittadina, che pure vede attive, come anche in futuro fino all’86 a.C., le istituzioni democratiche: il quadro che deriva dalle fonti aiuta a comprendere il rischio di ridurre la vita democratica all’esercizio di sole proce-dure amministrative in cambio di vantaggi in termini di sicurezza e approvvigionamento di materie prime. A simbolo della trasformazione intercorsa nella comunità ateniese si potrà leggere e commentare in conclusione l’inno itifallico testimoniato da Ateneo (VI 62-64, da Democare e Duride di Samo):

Ma nell’inno, accanto alle più smaccate adulazioni, gli Ate-niesi inserirono anche la supplica di un intervento di Deme-trio contro la minaccia degli Etoli: «Come i massimi e i più amati fra gli dei alla città son giunti. Qui infatti il Kairos insieme ha condotto Demetra e Demetrio. E certo viene per celebrare i venerabili misteri di Kore. Gioio-so, come si conviene a dio, bello e sorridente, egli è presente. Qualcosa di maestoso appare, tutti gli amici intorno ed egli nel mezzo, così come stelle gli amici ed egli stesso il sole. O figlio del possente dio Poseidon e di Afrodite, salve. Gli altri dei infatti sono lungamente distanti, o non hanno orecchie, o sono assenti o non si curano affatto di noi, mentre te noi vediamo presente, non di legno né di pietra, ma vero: e a te ri-volgiamo le nostre preghiere. Per prima cosa facci avere pace, o amatissimo, perché tu sei nostro signore. La Sfinge, che do-mina non solo Tebe ma tutta la Grecia, un Etolo la tiene, su una roccia assiso come l’antica [Sfinge], avendo rapito tutti i nostri corpi, e non posso combattere. E da Etoli saccheggiare i beni dei vicini, ora anche i beni di quelli lontani. Tu stesso occupatene in modo particolare; se no, trova un Edipo che precipiti quella Sfinge o ne faccia cenere».Questo cantavano i combattenti di Maratona non solo in pub-blico, ma anche di casa in casa, quelli che avevano messo a morte chi si era prostrato davanti al re dei Persiani, quelli che avevano sterminato innumerevoli miriadi di barbari.

Fig. 1 Grafico delle ricorrenze di dēmokratia Fig. 2 Grafico delle ricorrenze di autonomia

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458256

PercorSi didattici

Qualora il docente abbia la possibilità di compiere un la-voro più avanzato con la propria classe e di dedicare più tempo a questo approfondimento, propongo ora la se-guente analisi quantitativa che si può provare a verifica-re o sviluppare (almeno a un primo livello e a campione, a esempio confrontando autori di età classica con altri di età ellenistica e romana) attraverso l’uso di database in rete ad accesso aperto (vd. per le fonti letterarie http://stephanus.tlg.uci.edu; se si volesse tentare di allargare l’analisi alle iscrizioni http://inscriptions.packhum.org e https://www.atticinscriptions.com).

Analisi della frequenza dei vocaboli demokratia, autonomia ed eleutheriaAl fine di cogliere i cambiamenti, in età ellenistica, della realtà e delle rappresentazioni della polis democratica è possibile osservare, nelle fonti letterarie a noi pervenute, la diversa distribuzione dei termini demokratia, autono-mia ed eleutheria, «luminoso terzetto» (D. Musti) che definisce Atene e tutte le esperienze democratiche.Dall’osservazione dei dati rappresentati nei grafici (figg. 1-4, tratte da Cuniberti 2006) emerge chiaramente come la tendenza numerica complessiva è quella di una pro-gressiva diminuzione della frequenza dei termini dal V al II secolo a. C. e di un loro crescente recupero dal I a.C. al II d.C. Questa è la curva di frequenza dovuta alla diversa consistenza del patrimonio letterario a noi giunto nei vari secoli; un simile andamento è seguito, almeno all’inizio, da dēmokrat-, che tuttavia ha il suo picco ne-gativo già nel III secolo e poi non recupera più la sua per-dita di attestazioni. Solo in parte simile è, nel confronto, la tendenza assunta da autonom-, che conosce anch’esso il picco negativo nel III sec. a.C. e rimane poco attesta-to nel secolo immediatamente successivo, ma recupera nel periodo a cavallo fra il I a.C. e il II d.C., pur con si-gnificative oscillazioni anche in flessione. La normalità

dell’andamento di eleuther-, rispetto alla quantità di pa-role nei vari periodi, rivela l’uso ampio e generico che il termine indicante la libertà mantiene e persino accresce in età ellenistica e romana: la complessità del termine, che include ambiti semantici che vanno dalla libertà in-dividuale a quella dell’intera comunità civica, dalla li-bertà materiale a quella spirituale e filosofica, finisce per assorbire significati propri dei termini democrazia e autonomia/indipendenza. Gli specifici contenuti politici, sintetizzabili nei concetti di autonomia, autodetermina-zione e soprattutto democrazia, risultano dunque fretto-losamente trasferiti, già dal III secolo a.C., nella generica categoria della libertà, segnando la perdita della determi-nazione specifica dei singoli concetti così come dell’idea puntuale di polis democratica.

Atene in momenti diversi dall’epoca ellenistica: tra mito e abbandonoA conclusione di questa breve raccolta, non organica, ma cumulativa di informazioni, materiali e suggerimen-ti che spero utili per la didattica, offro alcuni brani che permettono di visualizzare Atene in momenti diversi del periodo ellenistico attraverso fonti meno consuete. Nel-lo loro brevità possono offrire un adeguato strumento di confronto, a esempio, con l’evidenziata attenzione che distesamente possiamo leggere in Pausania circa la cit-tà, i suoi edifici e monumenti, la sua storia. Allo stesso tempo posso essere usati per essere comparati fra di loro nelle somiglianze e differenze.

- III secolo a.C., descrizione di un viaggio in Grecia, una sorta di guida turistica:

Da là si giunge alla città degli Ateniesi. La strada è bella, in mezzo ai campi ben coltivati e a paesaggi davvero piace-voli da guardare. Ma la città appare completamente secca, con poca acqua, tutta un intrico di vecchie strade. Le case

Fig. 3 Grafico delle ricorrenze di eleutheria Fig. 4 Grafico della qualità complessiva di parole per ogni periodo

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 57

PercorSi didattici

sono per lo più modeste, poche sono di pregio. Appena uno straniero la vede, non potrebbe mai credere di trovarsi nel-la famosa città degli Ateniesi, ma se ne convince dopo non molto quando vede l’Odeion, il più bello del mondo, un te-atro degno di essere menzionato, grande e meraviglioso; il magnifico santuario di Atena, visibile da lontano, degno di essere contemplato, il cosiddetto Partenone, che domina il te-atro: fa un’impressione straordinaria a chi lo guarda; il tempio di Zeus Olimpio che, sebbene sia stato lasciato incompleto, è notevole, non fosse altro per la sua pianta: sarebbe stato gran-dioso se fosse stato completato; tre ginnasi: l’Accademia, il Liceo e Cinosarge, tutti verdeggianti di piante e alla base cir-condati da prati erbosi, giardini fiorenti da ogni parte di filo-sofi di ogni tipo, luoghi di divertimento e sollievo dell’anima; molteplici dispute intellettuali e spettacoli continui… Degli abitanti gli uni sono Attici, gli altri Ateniesi. Gli Attici sono dei chiacchieroni inconcludenti, sempre pronti a ingannare, a denunciare con calunnie, a spiare gli stranieri durante tutta la loro permanenza; gli Ateniesi invece sono di animo grande e generoso, onesti nei modi di vita, veri custodi dell’amicizia (Heracl. Crit. Perieg., Descriptio Graeciae, fr. 1).

- Anno 168 a.C.: Era ormai autunno [anno 168] e [Lucio Emilio] Paolo decise di utilizzare la parte iniziale di questa stagione per fare il giro della Grecia col progetto di visitare quelle località che sono tra-dizionalmente famose, ma di cui si raccontano cose tanto spro-porzionate che poi la conoscenza diretta le ridimensiona … Si recò poi a visitare Atene, città a sua volta piena di antica fama, e tuttora ricca di molte cose degne di essere viste: l’acropoli, i porti, le mura che congiungono il Pireo alla città, i cantieri navali, i monumenti dei grandi comandanti, le statue di uomini e divinità, rese famose dai materiali diversi di cui sono fatte e dalle diverse tecniche impiegate (Liv. XLV 27, 5-11).

323 morte di Alessandro e inizio della guerra lamiaca

322

sconfitta ateniese ad Amorgo e Crannone; morte di Iperide e Demostene (suicida), entrambi condannati a morte. Antipatro impone ad Atene la costituzione oligarchica su base censuaria e il presidio militare prima a Munichia, poi anche al Pireo e alle Lunghe Mura. Segue il governo di Focione (321-318)

319/8

decreto di Poliperconte sulla libertà dei Greci; democrazia ad Atene (aprile). Si ritirano le guarnigioni macedoni. Morte di Focione, condannato per tradimento; libero accesso per tutti (uomini e donne, liberi, schiavi e atimoi) all’assemblea.

318 Cassandro prende Panatto in Attica e l’isola di Salamina: insedia ad Atene Demetrio Falereo

317-307 governo di Demetrio Falereo. Costituzione timocratica. Guarnigione macedone a Munichia

307

Demetrio Poliorcete caccia da Munichia il presidio voluto da Cassandro e mette in fuga Demetrio Falereo, restituendo la democrazia secondo la costituzione avita e fornendo rifornimenti di grano e legname. Onori divini al Poliorcete e ad Antigono (intitolate a loro due nuove tribù).

307-304guerra Cassandro-Demetrio: Cassandro prende File, Panatto, Salamina e assedia Atene, che viene liberata (305) da Demetrio

301

dopo la sconfitta di Ipso (morte di Antigono), Atene annuncia la propria neutralità e allontana dalla città la moglie di Demetrio, inviandola a Megara. Buone relazioni con Lisimaco (che invia 10.000 medimni di grano) e Cassandro.

298-295? tirannide di Lacare

294 Demetrio s’impossessa del Pireo e insedia una guarnigione, fortificando il Museo. Lacare fugge in Beozia

287

ribellione a Demetrio, capeggiata dallo stratego Olimpiodoro. L’intervento di Pirro vanifica il tentativo di rientro del Poliorcete, che mantiene il possesso di Eleusi (presto recuperata da Atene), Pireo, Panatto, File, Salamina, Sciro, Lemno, Imbro

286/5 Demetrio si arrende a Seleuco: muore nel 283. In questi anni Atene tenta invano di rimpossessarsi del Pireo

280/279

Antigono Gonata è sconfitto in battaglia da Tolemeo Cerauno: la Grecia si ribella, Atene riconquista il Pireo. Invasione celtica: cade in battaglia Tolemeo Cerauno; alle Termopili i Celti superano la difesa greca, ma risparmiano il santuario di Delfi. Vengono istituite le Soterie (278)

267-262 guerra cremonidea: Sparta, Atene e Tolemeo II contro il re macedone

263-261

Atene si arrende: Antigono Gonata insedia al Pireo e al Museo il presidio macedone. Antigono Gonata impone il controllo macedone su Atene: «sono abolite le cariche pubbliche e ogni cosa è consegnata nelle mani di uno solo», ma le iscrizioni indicano la sopravvivenza formale delle istituzioni democratiche anche se è evidente l’intromissione macedone nelle designazioni alle varie cariche

242

formalizzazione dell’alleanza fra Arato e Tolemeo (già attiva di fatto dal 251/0). Primo intervento di Arato ad Atene (invasione dell’Attica e saccheggio di Salamina): ne seguiranno almeno altri tre

229

Atene è liberata dal presidio macedone “a pagamento”, forse anche per intervento di Arato: un’iscrizione ateniese riconosce però il merito della liberazione ai soli cittadini ateniesi e soprattutto ai politici del momento, Euricleida e Micione.

Fig. 5 Le principali vicende ateniesi fra il 323 e il 229 a.C.

Uomo seduto, particolare di una tomba, 75 a.C. ca

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458258

PercorSi didattici

Il lessico scientifico Un’occasione per una didattica a più vociBianca Barattelli – Sandro Perini

Con questo studio apriamo una sequenza di Contributi sul tema del lessiCo sCientifiCo e del suo apprendimento nel Contesto sColastiCo.

1.  L’incontro si è tenuto presso il Polo di Brescia del progetto, a cura dell’U-niversità Cattolica, il 10 marzo 2016.

- Anno 121 a.C., Delfi, decreto a celebrazione dei tech-nitai ateniesi:

il demos [ateniese], principio di tutti i beni dell’umanità con-dusse gli uomini dalla vita selvaggia alla civiltà, contribuì in modo decisivo a fondare le comuni relazioni sociali degli uni con gli altri, con l’introduzione della tradizione dei misteri e, per mezzo di questi, con l’annuncio ai Greci che sommo bene tra gli uomini sono le reciproche relazioni di fiducia; inoltre gli dei gli hanno fatto dono delle leggi, fondate sull’amicizia tra gli uomini, e della cultura; allo stesso modo ricevette per sé il dono dell’agricoltura, ma ai Greci ne concesse l’uso e il beneficio (CID IV 117 12-16 = FD III 2, 69; IG II2 1134).

- Primavera 88 a.C., discorso di Atenione in favore della ribellione a Roma e l’alleanza con Mitridate (Atene sarà sconfitta e saccheggiata da Silla nell’86):

Non rimaniamo impotenti a vedere i santuari chiusi, i ginnasi in stato di abbandono, il teatro vuoto, i tribunali silenziosi e la Pnice, consacrata in obbedienza agli oracoli degli dei, privata del demos… (Posidonio, FGrHist 87 F 36, da Ateneo, V 211d-215b).

Da queste testimonianze da un lato emerge lo sguar-do esterno del visitatore che non percepisce affatto né mostra interesse per i luoghi della democrazia ateniese; d’altro lato assistiamo ad Atenione che alza l’ultimo gri-do a difesa dei luoghi pubblici del confronto democra-tico, non senza demagogia e retorica nazionalista (ali-mentata anche dal santuario di Delfi), ma anche in un ritratto che è fortemente caricaturale quando si guardi per intero al passo in questione. Complessivamente vi possiamo leggere la tensione fra la sopravvivenza stori-ca della polis di Atene autonoma e democratica, la sola conservazione di un “mito” politico e culturale, la com-pleta cancellazione di tutto questo.

Gianluca CunibertiUniversità degli Studi, Torino

 BIBLIOGRAFIA 

Bearzot C., Storia e storiografia ellenistica in Pausania il Periegeta, 1992Habicht Ch., Athens from Alexander to Antony, 1997Virgilio G., Lancia, diadema e porpora. Il re e la regalità ellenistica, 2003Cuniberti G., La polis dimezzata. Immagini storiografiche di Atene ellenistica, 2006Landucci F., L’Ellenismo, 2010Landucci F., Il testamento di Alessandro. La Grecia dall’Impero ai Regni, 2014Ma J., Statues and Cities: Honorific Portraits and Civic Identity in the Hellenistic World, 2013, rev. ed. 2015

Qualche mese fa, abbiamo avuto l’occasione di occuparci insieme del tema Perché e come la-vorare sul lessico scientifico nella scuola supe-

riore per una lezione all’interno del progetto I Lincei per una nuova didattica nella scuola1; questa opportunità ci ha portati a riflettere nuovamente su un tema che da molti anni ci appassiona. La fase della discussione pre-paratoria e il confronto con i colleghi che hanno preso parte all’incontro di cui sopra, nonché qualche recente esperimento didattico nelle nostre classi, ci hanno poi spinto a condividere più ampiamente le riflessioni e le esperienze che avevamo maturato, e abbiamo pensato a una serie di contributi per questa sede così articolati.Come introduzione, ci sembra il caso di focalizzare al-cune ragioni forti dell’attenzione didattica per un lavoro sul lessico scientifico; segnaliamo inoltre qualche riferi-mento bibliografico essenziale sia sul linguaggio della scienza sia su tematiche più ampie, come il rapporto tra gli universi umanistico e scientifico, troppo spesso nella cultura e nella scuola italiana in scarso dialogo quando non in aperta opposizione.I prossimi contributi saranno invece dedicati a caratteri e formazione del lessico scientifico (con alcuni spunti per collaborazioni anche con l’insegnamento delle lin-gue classiche e moderne), percorsi didattici tra lessico scientifico e letteratura, trattazione del lessico scientifi-co all’interno della storia del pensiero (con vari agganci soprattutto a storia e filosofia), rigore e aspetti “poetici” nel linguaggio della scienza e in quello della letteratura.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 59

PercorSi didattici

Le ragioni di una sceltaUna ragione che ci sembra assai convincente per lavorare sul linguaggio e il lessico scientifico (qui nel senso di “proprio delle discipline scientifiche insegnate a scuola”) è che si tratta di una palestra ideale per il lavoro inter- e pluridisciplinare. Convergono infatti su questo ambito aspetti legati a conoscenze tecniche, sensibilità alla pre-cisione lessicale e al diverso impiego dei termini nel lin-guaggio corrente e in quello specialistico (con tecniciz-zazioni, risemantizzazioni e spostamenti di significato), ma anche consapevolezza delle modalità di formazione delle parole e di creazione dei neologismi, abitudine all’analisi dei fenomeni scientifici nella loro prospettiva storica, visione ampia della storia del pensiero.

Termini scientifici e lessico Volendo mettere sul tappeto da subito le questioni e le criticità principali, possiamo parlare nella scuola di una conoscenza dei termini scientifici abbastanza soddisfa-cente (almeno per la fascia medio-alta degli alunni) a fronte, invece, di una generale approssimazione e di un uso generico e ristretto delle parole per quanto attiene il lessico in senso lato: i ragazzi che conoscono e – con maggiore o minore sicurezza – usano termini scientifici precisi sono gli stessi che poi vanno in crisi di fronte a sinonimi appena meno generici delle parole-base del loro vocabolario. Forse ciò è dovuto al fatto che il linguaggio settoriale delle materie scientifiche si palesa immediata-mente per tale e sollecita quindi da subito l’applicazione per apprenderlo; viceversa, il lessico delle materie uma-nistiche si sovrappone spesso a quello del linguaggio corrente (anche se la sovrapposizione è quasi sempre ingannevole) e genera pertanto la fallace convinzione di averne già una conoscenza adeguata: pensiamo a parole come “stato”, “diritto”, “racconto”, “intreccio”, “sequen-za”, “sostanza”, “accidente”.Ma attenzione: la conoscenza del significato del termi-ne scientifico può spesso accompagnarsi a una scarsa propensione a usare attivamente il termine medesimo: il ragazzo “a domanda risponde”, ma non sa bene in quale contesto e a quale proposito ricorrere consapevolmente all’impiego autonomo del termine. Si nota poi una di-screta difficoltà a definire i termini con precisione o a usarli, oltre che nelle verifiche orali e in quelle scritte più strutturate come le relazioni di laboratorio o le ri-sposte a quesiti, in un contesto discorsivo come un ela-borato scritto di carattere espositivo-argomentativo.Una prima, necessaria riflessione deve quindi riguarda-re la differenza tra la padronanza della “parola” (più ge-nerica) e del “termine” (nel senso di elemento del lessico dai confini ben definiti).Per quanto riguarda l’argomentazione, invece, va regi-

strata una diffusa incertezza su quale sia la differenza tra dimostrazione e argomentazione, nonché tra argomenta-zione retorica e argomentazione scientifica. Questo dato di fatto mostra tutte le sue implicazioni soprattutto nella seconda prova dell’esame di Stato, quando in un compito di matematica o fisica viene richiesto di argomentare la propria scelta di metodo o le proprie conclusioni.

Le priorità dell’azione didatticaIn una scuola che vede avanzare la prassi didattica delle CLIL, tra l’altro, non va trascurata la necessità di un’at-tenzione alla terminologia scientifica dal punto di vista contrastivo, cercando magari di approfittare dell’occa-sione per un’apertura anche di carattere storico-cultu-rale verso la madrelingua e la lingua veicolare, e non semplicemente lessicale.Per passare alla dimensione diacronica, molti docenti ri-tengono poco produttivo (quando non dispersivo) un ap-proccio di questo tipo ai termini e concetti della scienza; di conseguenza si inibisce di fatto nell’allievo la consape-volezza dello spessore storico di questi ultimi, dell’inces-sante ‘‘lavoro’’ di controllo e revisione cui essi vengono di fatto sottoposti nella quotidiana attività della ricerca. Così depurati dalle “scorie” del loro passato, il termine, la for-mula o la teoria (soprattutto in materie come fisica o chi-mica) vengono recepite dagli allievi come verità assolute; questo contribuisce a instillare in non pochi di loro un at-teggiamento fideistico, una certa incapacità di problema-tizzare (e quindi comprendere veramente) la precisione e la fecondità del discorso scientifico, che sono invece il frutto di una faticosa conquista. L’apprendimento si ridu-ce quindi a essere prettamente mnemonico, acritico, e la padronanza reale del lessico scientifico inesorabilmente si allontana. Viceversa, ricostruire la storia dei termini scientifici consente da un lato di impadronirsene in modo più consapevole fissando quindi meglio quanto si è appre-so, dall’altro di avvicinarsi al mondo della scienza anche nella sua dimensione storica prendendo coscienza della necessità di non perdere mai di vista le coordinate del tempo e dello spazio2.Scarsa attenzione si riserva anche all’etimologia, che invece potrebbe arricchire la consapevolezza del signi-ficato e fungere da ponte tra le due culture “scientifica” e “umanistica”, di fatto spesso vissute nella scuola come compartimenti stagni.

2.  Naturalmente non si pensa di proporre un tale lavoro per ogni termine del lessico scientifico: ci sembra però che esso sia indubbiamente utile nello studio di alcuni termini che possiamo definire “paradigmatici” rispetto a una o più scienze. Si pensi per esempio alla valenza di concetti come “atomo” per la fisica e la chimica: l’atomo di Democrito non è certo l’atomo di Dalton né tantomeno quello di Bohr-Sommerfeld (su questo tema ritorneremo in uno dei prossimi contributi).

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458260

PercorSi didattici

Alcune proposte di lavoroUna volta individuate le priorità, è il momento di qual-che proposta che permetta di lavorare, all’interno delle singole discipline ma soprattutto a più voci, sul tema che ci sta a cuore.Tra i presupposti per un apprendimento più consapevole del lessico scientifico, sarebbe opportuno distinguere tra i diversi gradi di scientificità dei linguaggi e riflettere al-meno a grandi linee sulla differenza tra lingua della scien-za pura, della tecnologia, della medicina, e poi sui travasi frequenti tra linguaggi specialistici e lingua comune.Al docente di italiano andrebbe appaltato un lavoro, preferibilmente già dal biennio, sulla formazione delle parole e quindi i meccanismi di derivazione e compo-sizione, il valore di prefissi e suffissi/prefissoidi e suf-fissoidi, la tecnicizzazione di parole comuni (esempio principe ne è notoriamente Galileo), il nuovo significato attribuito a parole già presenti nel patrimonio lessicale.La storia del significante si rivela poi essenziale per appro-fondire evoluzione e sfumature del significato: un esem-pio di quanto tale approccio possa essere proficuo è il libro di Marcel Detienne Les Maîtres de vérité dans la Grèce archaïque3, splendido esempio di come la ricerca che par-te dalla parola, anziché dal concetto, porti a inattese e illu-minanti acquisizioni anche in riferimento a quest’ultimo4.Tra i motivi che fanno auspicare un lavoro sulla lingua della scienza non va poi dimenticata la ricaduta civile. Imparare a distinguere tra scienza vera e ciarlataneria, attraverso il riconoscimento delle regole di formulazio-ne e di rigore proprie della prima (contro la fumosità caratteristica della seconda), consente di mettere a punto gli strumenti per difendersi e di esercitare giudizio e cri-terio anche quando la fallacia degli enunciati tendereb-be a concedere credito a chi non ne è invece degno. La quantità di informazioni che viene messa oggi a dispo-sizione non deve essere scambiata per cultura scientifi-ca facilmente acquisibile5: al contrario, dovrebbe essere compito primario della scuola mettere in guardia i gio-vani contro le false convinzioni che i “nativi digitali” rischiano di formarsi attraverso gli strumenti, potenti quanto insidiosi, propri della loro generazione.

Suggerimenti bibliograficiPer chiudere questa prima parte del percorso, alcune in-dicazione bibliografiche di facile reperibilità.Sul dialogo tra le due culture, una lettura particolare è Contare e raccontare, Laterza, Roma-Bari 2005: il fisico Carlo Bernardini e il linguista Tullio De Mauro discutono in modo tanto rigoroso e battagliero quanto piacevole sulle insanabili divergenze tra la cultura uma-nistica e quella scientifica, giungendo alla conclusione che la cultura, quale che ne sia il segno, nel momento

in cui utilizza per indagare ed esprimersi strumenti e linguaggio scientifico ha pari dignità e contribuisce (diremmo oggi in sinergia con l’altra) all’arricchimento della cultura tout court. Daniele Gouthier ed Elena Ioli, in Le parole di Einstein. Comunicare scienza tra rigore e poesia, Dedalo, Bari 2006, partono dal presupposto che far scienza non può prescindere dal comunicarla: gli autori prendono in esa-me i caratteri del linguaggio della scienza e concludono che questo, in quanto esempio di formalizzazione, pre-suppone un alto grado di rigore ma nel contempo non è esente da un margine di ambiguità e si colora pertanto di una vena di “poesia”. Hanno un riferimento più spiccato alla didattica i con-tributi che seguono. Giancarlo Navarra, Early algebra: un approccio relazionale all’aritmetica per promuovere una concezione linguistica dell’algebra, illustra come l’apprendimento della matematica possa essere valida-mente sostenuto dal possesso sicuro di strutture gram-maticali e strumenti linguistici (si legge in Paola Barat-ter e Sara Dallabrida [a cura di], Lingua e grammatica. Teorie e prospettive didattiche, Franco Angeli, Milano 2009). Di Educazione linguistica e apprendimento/inse-gnamento delle discipline matematico-scientifiche si è occupato il XVIII convegno del Giscel, 27-28-29 marzo 2014 (opuscolo preprint in rete all’indirizzo http://www.giscel.it/sites/default/files/convegni/2014/2014-03%20OPUSCOLO_PREPRINT%20Giscel.pdf.). Al tema L’importanza dell’italiano per l’insegnamento delle materie scientifiche è stata dedicata la tavola rotonda organizzata dall’Asli Scuola presso l’Università Roma Tre del 29 settembre 2016 (i materiali sono disponibi-li in rete all’indirizzo www.storiadellalinguaitaliana.it/asliscuolainiziativa/elenco).

Bianca Barattelli Liceo scientifico statale “A. Messedaglia”, Verona

Sandro PeriniLiceo scientifico statale “G. Fracastoro”, Verona

3.  Tr. it. di Augusto Fraschetti, I maestri di verità nella Grecia arcaica, Laterza, Roma-Bari 1977 e Mondadori, Milano 1992.4.  «Invece di partire dal significato per raggruppare i termini che sembrano esplicitare il medesimo senso, bisogna piuttosto partire dal significante (nella ricerca di Detienne, il termine greco “Aletheia”) e vedere come si organizza il campo semantico di questa parola, da un periodo all’altro» (M. Detienne, I maestri di verità nella Grecia arcaica, cit., nota a p. VII).5.  Su questo tema si può richiamare l’evento voluto dal Ministero della Salute il 22.4.2015 La sanità in Italia: falsi miti e vere eccellenze, su cui si trovano notizie al sito istituzionale http://www.salute.gov.it, il cui obiettivo era contra-stare i luoghi comuni e la falsa informazione per riportare invece l’attenzione dei cittadini sulle reali conoscenze e opportunità scientifiche e terapeutiche.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 61

PercorSi didattici

L’argomentazione filosoficaStefano Cazzato

ragionevolezza, Condivisione Con l’uditorio, teCniChe di persuasione: la retoriCa antiCa era una disCiplina Centrale nell’eduCazione dell’uomo. vale la pena reCuperarla, oggi?

«L’intera vita è un prendere posizione»E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa1

Dal V secolo a.c. ai nostri giorni, dall’atto della sua fondazione al momento del suo rilancio (il Novecento), da Gorgia a Perelman, la funzione

della retorica, intesa come discorso argomentativo, è stata, anche se con qualche oscillazione e discontinui-tà, quella di motivare una tesi introducendo una serie di elementi probanti. Quando discutiamo e confrontiamo le nostre idee con altri, quando, di fronte a una piccola o grande controver-sia, prendiamo una posizione e cerchiamo di sostener-la con ragioni convincenti, stiamo svolgendo – spesso senza saperlo – un discorso argomentativo. Di questo tipo sono gran parte dei nostri ragionamenti quotidia-ni, soprattutto quelli che cercano di motivare giudizi di valore, preferenze, gerarchie, scelte, punti di vista, nella speranza che altri li condividano.Chi sono questi altri? Gli altri sono il pubblico, l’udito-rio, gli interlocutori, gli avversari (in senso dialettico) con i quali cerchiamo un accordo il più possibile largo e condiviso. Se questo accordo fosse già dato o imposto dall’evidenza, se consistesse in una serie di fatti cogenti e non negoziabili, a cosa servirebbe l’argomentazione? Né si avrebbe argomentazione se questo accordo fosse imposto con la forza o con stratagemmi subdoli, ottenu-to cioè tramite le diverse forme di coazione e di ritorsio-ne, la menzogna, la propaganda, l’ideologia che, come sappiamo, è spesso un discorso settario e mistificatorio. Come sostiene Walter Benjamin l’unico modo per rego-lare in modo non violento e leale le controversie è il ri-corso alla «conversazione, considerata come una tecnica di civile intesa»2.

Il discorso argomentativo e la sua utilitàDa qui l’utilità del discorso argomentativo, anzi la sua necessità rispetto alle comprensibili esigenze della vita teorica e pratica. Viene in mente, a tal proposito, un fa-moso aneddoto del filosofo ed economista Amartya Sen in cui si racconta di tre bambini che si contendono un

flauto. A dice che il flauto spetta a lui perché è lui che l’ha costruito; B che spetta a lui perché solo lui lo sa suonare; C che spetta a lui perché non ha altri giocat-toli con cui giocare. Tutti e tre si impegnano a dire la verità, a riconoscere la lealtà dell’altro, a non ricorrere all’inganno e a non usare la violenza per avere il flauto. Quale strada resta per averlo se non quella di un discor-so, di un’argomentazione che si svolge a partire da una condizione di parità? Il discorso argomentativo, nonostante il suo carattere agonistico che tende a spostare verso la propria parte il consenso dell’interlocutore, è quindi un discorso dialo-gico e democratico, per la preferenza assoluta che asse-gna all’interazione simmetrica tra chi parla e chi ascolta. Diversamente dal discorso espositivo finalizzato a in-formare un interlocutore passivo, quello argomentativo è diretto a convincere un interlocutore attivo sulla base di valide ragioni. Valide ragioni, non ragioni definitive e conclusive. Anche Socrate, in molti dialoghi platoni-ci, convince ma non conclude, perché l’argomentazione, per sua stessa natura, deve lasciare sempre aperta una possibilità alternativa, ammettere eccezioni e limitazio-ni, accordare all’interlocutore l’onere e l’onore della con-futazione quale via d’uscita razionale da una contesa.

Il discorso argomentativo e la sua razionalitàE se è vero, come afferma Edmund Husserl, che lo scienziato vuole conoscere «in modo vincolante per ogni essere razionale, cosa sia in ogni campo la verità autentica, il bello e il bene autentici»3, è evidente che non è la verità dello scienziato idealista e oggettivista che l’argomentazione persegue, ma la ragionevolezza e la sostenibilità di una certa idea di vero, di bene e di bello. E di questa ragionevolezza vuole convincere l’u-ditore, ben sapendo che un’idea argomentata, se non è

1.  E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 97.2.  W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Angleus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1982, p. 18.3.  E. Husserl, cit, p. 15.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458262

PercorSi didattici

un algoritmo, non è comunque una semplice opinione o credenza soggettiva.Per questo Theodor Adorno e Hilary Putnam hanno sottolineato che la razionalità argomentativa consen-te alla filosofia di occupare uno status intermedio tra l’oggettività della scienza e la soggettività delle visioni del mondo, tra un sapere certo e uno del tutto opinabile. Secondo Adorno la filosofia «è un processo e non qual-cosa di fisso, rigido, reificato. È vero che la filosofia non è riuscita a creare attorno a sé un consenso generale, a formare un’unità come quella che a esempio è possibile per tutto il campo delle scienze naturali. Eppure in un determinato senso nel suo sviluppo ha superato questo concetto della Weltanschauung o del punto di vista, sen-za perciò essere giunta a una formula stringente e defi-nitiva o a un accordo conclusivo, e forse senza poterlo mai raggiungere». Inoltre «le argomentazioni filosofi-che possono essere a loro modo esatte e stringenti senza che questo tipo di stringenza possa essere peraltro ridot-ta a quella puramente logica e scientifica». E ancora: «in questa unità di stringenza e di apertura […] il pensiero filosofico si muove e progredisce»4. Sulla stessa linea Putnam sostiene che «un’ipotesi o un’asserzione può essere garantita, può essere cioè ra-gionevole crederci, anche quando non possiamo stabili-re degli esperimenti tali che, se li eseguissimo, saremmo in grado di confermare o rifiutare l’ipotesi a un livello tale da ottenere necessariamente l’assenso di tutte le persone istruite e imparziali»5.

L’argomentazione filosofica, carattere aperto e indeterminatoAristotele aveva perfettamente colto questo carattere aperto, e per molti versi indeterminato, dell’argomenta-zione filosofica come dimostra il seguente discorso fi-nalizzato a convincere l’uditorio della necessaria alter-nanza al governo dello Stato di forze politiche diverse. Se la superiorità fisica e morale dei governanti rispet-to ai sudditi fosse così indiscutibile ed evidente come lo è la superiorità degli dei rispetto agli uomini, allora dovrebbero sempre comandare quelli che possiedono questa superiorità. «Ma poiché non è facile cogliere tale superiorità […] è necessario che tutti nella stessa misura s’avvicendino nel comandare e nell’essere comandati»6. Aristotele ha garantito da possibili obiezioni la sua tesi sulla base del fatto largamente condiviso, ma non uni-versale, che non c’è una categoria speciale di uomini assolutamente superiori ad altri. La conclusione del suo ragionamento convince perché poggia su una premessa accettata, su uno standard di oggettività, per usare un’e-spressione di Jan Hacking.

È possibile un’arte della retorica?L’operare congiunto di argomentazione e convinzione ri-sale ai retori antichi il cui compito era quello far accettare la tesi a un uditorio indifferente o addirittura ostile. Una tesi che non era una verità evidente e indiscutibile, come poteva essere la verità platonica che si impone da sé e non richiede argomenti per essere convalidata. Al contrario erano le opinioni che dovevano esserlo. Ed è questo che i retori fanno. Dimostrano e confutano opinioni. Fanno capire che il valore di un’opinione dipende dalla forza del ragionamento che la supporta. Insegnano ai giovani a pensare, a uscire dalla minorità, a dubitare di certezze consolidate dalla tradizione, a diffidare di chi propone valori gnoseologici e morali assoluti. Non la stagione del relativismo, ma quella del probabilismo, è quella che i re-tori inaugurano: per dimostrare che non ci sono verità de-finitive ma punti di vista, che tuttavia non si equivalgono. L’uomo è sì la misura di tutte le cose, ma a certe condi-zioni. E si tratta di condizioni non facilmente aggirabili. Compito dell’argomentazione è infatti dimostrare quale punto di vista in una controversia può essere preferito, ricorrendo non a evidenze intuitive ma al discorso della ragione e ad argomenti condivisi dall’uditorio.L’uditorio era generalmente costituito da un’assemblea decisionale (come nel genere deliberativo), da un colle-gio giudicante (come nel genere giudiziario), da una folla (come nel genere epidittico); il retore lo studiava attenta-mente, e ne faceva preliminarmente un ritratto psico-so-ciologico; la tipologia dell’uditore non era indifferente poiché il retore avrebbe dovuto inventare e organizzare la sua argomentazione per quel pubblico più che per un pubblico astratto e ideale. Non la comunità discorsiva,

4.  T.W. Adorno, Terminologia filosofica, Einaudi, Torino 2007, pp. 90-110 passim.5.  H. Putnam, La sfida del realismo, Garzanti, Milano 1991, p. 92.6.  Aristotele, Politica, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 250.

Isocrate (436-338 a.c.)

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 63

PercorSi didattici

composta da esseri razionali ma sostanzialmente sper-sonalizzati e disancorati dalla storia, come in certi mo-delli odierni proposti da Habermas o da Rawls, ma una comunità situata, localizzata, di persone in carne e ossa, coi loro caratteri, vissuti e tratti culturali specifici. Da Atene a Roma, fino all’età cristiana, i retori sapeva-no regolare i discorsi con adattamenti sul piano formale e contenutistico in base a situazioni e persone. Si eser-citavano, come spiegano Cicerone e S. Agostino, come se avessero di fronte l’interlocutore, immaginandolo ora come un singolo ora come una folla, ora come colto ora come ignorante, ora di città ora di campagna, ora come un credente ora come un laico. In questo senso essi furono i primi a introdurre il discorso delle varianti nell’arte della parola. E non è un caso che molti secoli dopo, un fine conoscitore dell’animo umano e delle folle, un talento del-la parola retorica come Joseph de Maistre affermi che a volte «l’effetto di un discorso dipende molto di più dalle disposizioni di chi ascolta che dall’abilità dell’oratore»7.

La condivisione con l’uditorioQuesto aspetto della condivisione con l’uditorio – che marca la differenza dell’argomentazione dalla dimostra-zione – è stato nel Novecento analizzato da colui che, più di ogni altro, ha fatto rifiorire la dialettica e la retori-ca antiche, il belga Chaim Perelman che scrive:

quando occorre dimostrare una proposizione, è sufficiente indicare in base a quali procedimenti essa possa essere ot-tenuta come ultima espressione di un seguito di deduzioni, i cui primi elementi sono forniti da chi ha costruito il sistema assiomatico all’interno del quale la dimostrazione viene ef-fettuata. Da dove provengano questi elementi, se siano verità impersonali, pensieri divini, risultati dell’esperienza o postu-lati dell’autore, è questione che il logico formalista considera come estranea alla sua disciplina. Quando invece si tratta di argomentare, di influire cioè per mezzo del discorso sull’in-tensità dell’adesione di un uditorio a determinate tesi, non è più possibile trascurare completamente, considerandole irri-levanti, le condizioni psichiche e sociali in mancanza delle quali l’argomentazione rimarrebbe senza oggetto e senza ri-sultato. Ogni argomentazione mira infatti all’adesione delle menti e presuppone perciò l’esistenza di un contatto intellet-tuale. Perché esista argomentazione, occorre che a un dato momento si realizzi un’effettiva comunanza spirituale. Oc-corre essere d’accordo preventivamente e in via di principio sulla formazione di questa comunità intellettuale, e in seguito sul fatto di discutere insieme una questione determinata: ciò non avviene affatto spontaneamente8.

Cosa intende Perelman? Intende che una premessa co-mune, intersoggettiva, condivisa con l’uditore, assunta tacitamente o prodotta dalla negoziazione, adattata alla situazione particolare, è sempre garanzia di successo dell’argomentazione.

Prendiamo, a scopo di esempio, una singolare orazione del sofista Antifonte contro il matrimonio. Antifonte so-stiene che le nozze sono una grave preoccupazione per gli uomini perché, dopo un inizio piacevole, la moglie può non piacere più e il divorzio, a quel punto, rivelarsi imbarazzante; perché separandosi, oltre che la sposa, si scontentano e si offendono i suoi parenti; perché non c’è piacere senza dolore; perché i travagli si duplicherebbe-ro e, con la nascita dei figli, si triplicherebbero; perché, insomma, non ci sarebbero più spazio, risorse e atten-zione per sé come individui. Siccome la cura di sé e della propria serenità interiore – conclude Antifonte – è più importante della propria discendenza, e siccome la cura di sé è un fatto di natura mentre quella degli altri è un fatto di cultura, allora è meglio non sposarsi. Il ragionamento può essere confutato, a meno che chi lo ascolta non ne sottoscrive la premessa individualistica e le prove conseguenti. Prove che solo in quel caso si riveleranno pertinenti. Siamo nel V secolo a.c. e quel che sappiamo è che due degli intellettuali più in vista del tempo, Euripide e Democrito, avevano sul matrimonio idee analoghe. Sappiamo anche che l’esaltazione dell’in-dividuo e la condanna della famiglia costituivano a quel tempo un fattore di rottura rispetto alla società greca ar-caica centrata sul valore della discendenza e del sangue. Certi ragionamenti, tra cui questo di Antifonte, risultano convincenti perché presuppongono il favore iniziale di un certo pubblico rispetto a una certa premessa, favore che matura a partire da un determinato contesto, da una determinata forma di vita. Se c’è questo favore, questo patto, si può procedere nello svolgimento del discorso. Altrimenti è meglio lasciar perdere perché un discorso senza premesse culturalmente condivise e senza accordi di partenza è un parlare a vuoto, un esercizio di pes-sima retorica, privo di efficacia argomentativa. Anche qui, i dialoghi platonici sono paradigmatici in quanto prendono sempre lo spunto da un accordo sulle regole da rispettare nel corso della discussione, sulle procedure da utilizzare e sul significato delle parole e dei concetti.

Argomentazione filosofica e dimostrazione scientifica Il discorso argomentativo, come attesta la prospettiva di Perelman, si differenzia perciò dal discorso dimostrati-vo per la qualità delle premesse e non per la qualità della logica. Il primo deriva da premesse condivise conclu-sioni coerenti; il secondo parte da premesse evidenti e

7.  J. De Maistre, Cinque paradossi, Morcelliana, Brescia 2009, p. 76.8.  C. Perelman - L.O. Tytetca, Trattato dell’argomentazione. La nuova reto-rica, Einaudi, Torino 1989, p. 16.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458264

PercorSi didattici

giunge a conclusioni altrettanto evidenti. Ma l’argomen-tazione obbedisce agli stessi principi della dimostra-zione, quei principi logici o cinghie di trasmissione che stabiliscono come da certe credenze (le premesse) ne derivino altre (le conclusioni) verosimili e probabili per chi, condividendo le prime, ne ha seguito lo svolgimen-to. La logica non sta nel valore di verità della premessa, che può cambiare in rapporto all’epoca e alla cultura, ma nel funzionamento corretto dei principi di trasmissione da un punto a un altro del discorso. In questo senso l’ar-gomentazione è una parente stretta della dimostrazione (e non a caso Perelman l’ha definita come una quasi-lo-gica) come i sillogismi scientifici sono parenti stretti di quelli dialettici e retorici (gli entinemi).Tra argomentazione filosofica e dimostrazione scienti-fica, in realtà, cambia solo lo scopo. Questo scopo, nel caso della filosofia, è ben riassunto da Franca D’Ago-stini quando afferma che «la ragione per cui si usa la logica in filosofia è sostanzialmente per argomentare a favore o a sfavore di una tesi, o per verificare la credibi-lità di un discorso che argomenta a favore o a sfavore di una tesi. Il procedimento base di cui si serve la tecnica logica consiste nell’isolare le tesi di cui si tratta, quin-di presentare o individuare altre tesi che le sostengano, ossia ne dimostrino in qualche modo la verità»9. Scopo di un’argomentazione è infatti convincere un pubblico determinato ad accettare una tesi che risulta più ragio-nevole e credibile di altre perché meglio argomentata.

Le opinioni non si equivalgonoNel V secolo a.c., Protagora individua alcuni canoni in base ai quali possiamo affermare che le opinioni non si equivalgono e che alcune opinioni sono migliori di altre. Se stiamo alla vulgata, Protagora viene normalmente identificato come il filosofo che pose le premesse del relativismo; ma questa vulgata non tiene conto che egli corresse in realtà queste premesse, vincolandole a delle condizioni di praticabilità per cui, persino per uno spiri-to anarchico come lui, non tutto può essere messo sullo stesso piano. Non c’è dubbio – fa capire il sofista – che un’opinione migliore è quella più misurata, più utile e più generale. E peggiore è un’opinione insensata, inutile, particolare. La misura coincide con il buon senso di un’opinione, con il suo carattere prudenziale, con la sua equidistanza dagli eccessi. L’utilità coincide con il suo valore funzionale ed euristico di fronte alla necessità di risolvere un pro-blema. Un’opinione è funzionale se è efficace rispetto a una difficoltà che paralizza l’azione, se diventa cioè una tappa essenziale, come avrebbe poi affermato John Dewey, nella strategia complessiva del problem solving.

La generalità di un’opinione coincide invece con il suo grado di diffusione nella comunità e nella cultura di ri-ferimento. Quanto più un’opinione è condivisa, tanto più alta sarà la sua capacità di generare conclusione persua-sive. Se poi un’opinione misurata, efficace e generale, oltre che sentita dalla maggioranza, è proposta e soste-nuta anche dai più sapienti, allora le ragioni della sua validità aumenteranno. Consensus gentium e autorità, forza del numero e sa-pienza carismatica, insieme ai principi logici, sono i fondamenti della retorica classica. Aristotele chiama infatti «opinioni notevoli» quelle premesse largamente condivise ma non universali del ragionamento mediante le quali possiamo costruire sillogismi dialettici: verosi-mili ma non veri.

L’inventioAristotele è centrale in questa ricostruzione. A lui si deve la prima sistemazione teorica della retorica con la fondamentale distinzione di cinque fasi che gli orato-ri romani si limiteranno a riprendere generalmente con poca originalità.La prima fase è l’inventio, ricerca delle prove prelevate nei cosiddetti luoghi, metaforicamente dei contenitori o classi di argomenti da sfoderare, come si sfodera una spada, a favore o contro una tesi. Oggi considerato alla stregua di un impedimento di cui il discorso scientifi-co dovrebbe liberarsi, il luogo comune (topos koinos in greco e locus communis in latino) era nell’antichità la base della persuasione razionale. Costituiva una riserva inesauribile di prove, la cosiddetta topica, cui normal-mente il retore attingeva nell’esercizio orale della sua arte. Ogni genere (giudiziario, deliberativo, epidittico) si appoggiava ai luoghi, cioè ad argomenti e ragionamenti sedimentatisi nell’immaginario comune e culturale. In ambito giudiziario regnava il luogo dell’esistente che determinava innanzitutto l’esistenza o meno di un cer-to fatto. Accertata l’esistenza del fatto, si passava con il luogo della qualità a considerare se il fatto fosse lecito o giustificabile o necessario. Se il fatto poteva essere giu-stificato, con il luogo della quantità si procedeva a clas-sificarlo come più o meno giustificabile. Un percorso, fatto di passaggi talora stringenti, che era poi il discorso di difesa o di accusa del retore, pro o contro qualcuno. Il luogo della quantità era largamente usato anche in ambito deliberativo quando si doveva decidere, fra due valori in competizione, quale fosse più vincolante per determinare eticamente la propria condotta. A Socrate,

9.  F. D’Agostini, Nel chiuso di una stanza con la testa in vacanza. Dieci lezioni sulla filosofia contemporanea, Carocci, Roma 2005, p. 138.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 65

PercorSi didattici

che ironicamente e provocatoriamente lo accusa di de-nunciare suo padre di omicidio solo perché ha ucciso un servo, Eutifrone risponde che non importa chi è l’uc-ciso ma se l’omicida aveva o no il diritto di uccidere. E siccome il padre non aveva questo diritto, Eutifrone ritiene di doverlo denunciare: il valore dell’amore filiale conta meno del valore della giustizia che conta molto di più. L’affetto è subordinato a qualcosa di più grande dell’affetto, cioè il dovere. Il ragionamento di Eutifrone può risultare convincente perché poggia sul luogo della quantità, del più e del meno, del grande e del piccolo. Un luogo le cui conseguenze sono verosimilmente condi-vise da chi ascolta, soprattutto se chi parla e chi ascolta appartengono alla medesima comunità e si riconoscono in fondamenti comuni. Naturalmente questi fondamenti non sono assoluti ma – per così dire – autorizzati e le-gittimati da certe particolari visioni del mondo, da certi determinati giochi linguistici, proprio nel senso in cui Wittgenstein usa questo termine.La casistica dei luoghi è infinita. Ogni retore aveva i suoi prediletti. Alla originaria topica sofistica, misto di logica e di estro personale, di dialettica rigorosa e di eristica audace, di buoni e cattivi argomenti, di procedure vin-colanti e di sofismi, subentra la topica aristotelica orga-nizzata attorno a una logica più stringente, non contrad-dittoria, capace di convincere l’avversario sulla base dei dispositivi oggettivi del ragionamento. Successivamente, in età latina, si procede a una formalizzazione delle topi-che precedenti e la topica diventa un vero e proprio gene-re letterario. Un genere che, in età cristiana, costituirà la base dell’attività apologetica. La storia dei luoghi rivela ancora una volta la logica che sta alla base dell’argomen-tazione, una logica pratica che affonda le sue premesse nelle forme di vita e nei costumi degli uomini.«La via logica – ha scritto Roland Barthes, uno dei gran-di studiosi di retorica antica – era quella delle prove che bisognava scoprire se si voleva convincere; alcune non dipendevano dal savoir faire dell’oratore ma la maggior parte di esse dovevano essere prodotte grazie alla sua competenza logica. Queste prove tecniche erano degli esempi o dei ragionamenti il cui modello era il sillogi-smo popolare o pubblico chiamato entinema. Ora, l’enti-nema è una forma di ragionamento facile da condurre (è sufficiente seguire la deduzione) ma occorre trovare la premessa da cui parte […] È qui che s’incontrano i luo-ghi comuni; le premesse entinematiche possono essere tratte da certi luoghi; conoscendo questi luoghi, posso sviluppare il ragionamento, ho di che parlare”10. Un entinema è a esempio quello che sostiene che dei re-cidivi ci si deve fidare meno degli incensurati; che l’in-telligente se la cavi nelle difficoltà con maggiore facilità dello stupido; che i più sapienti abbiano più probabilità

di compiere il bene perché lo conoscono; che gli atenie-si abbiano più cura dell’anima che del corpo… e molte altre presupposizioni di buon senso, non certe ma suffi-cientemente verosimili. Gli entimeni sono spesso il portato di induzioni come fa pensare Aristotele quando afferma che se x, y e n indi-vidui hanno radunato un esercito personale e poi hanno fatto un colpo di stato, allora è necessario stare attenti a chi raduna un esercito personale. Perché? Perché po-trebbe fare un colpo di stato. Ciò che è stato una volta, due, tre può ripetersi: sapere che questo può accadere, in base una regola generale ricavata induttivamente da casi precedenti e particolari, ci consente anche di esercitare una previsione e un controllo sugli eventi futuri dello stesso tipo.

La dispositioL’inventio è dunque la base del ragionamento ed è per questo che John Locke consigliava di non surrogare con l’entusiasmo verbale la pochezza delle prove, il difetto dell’inventio. Dalla quale si passava alla dispositio, l’or-ganizzazione delle prove in base a un ordine il cui fine era l’efficacia. Non era opportuno collocare le prove più deboli all’inizio o alla fine dell’argomentazione ma al centro, perché fossero protette, per così dire, da prove più efficaci. Se con l’ultimo argomento si voleva impri-mere un ricordo nell’uditorio, con il primo lo si doveva colpire, ridurre all’accondiscendenza. In un caso si face-va riferimento all’arte della memoria in base alla quale si ricorda meglio ciò che si ascolta alla fine di un discor-so. Nell’altro caso si faceva riferimento alla psicologia in base alla quale esercita un più forte potere di attrazione sull’animo umano ciò che si ascolta o si vede all’inizio.

10.  R. Barthes, Scritti. Società, testo, comunicazione, Einaudi, Torino 1998, p. 210.

Protagora (486-411 a.c.)

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458266

PercorSi didattici

Scrive Aristotele che l’attore tragico Teodoro «non per-metteva mai a nessuno, neppure a un attore di poco va-lore, di comparire sulla scena prima di lui, perché gli spettatori si lasciano attirare da quel che ascoltano per primo: lo stesso accade nei rapporti con la gente e con le cose, perché ci affezioniamo di più a tutto quello che ci colpisce per primo»11.Quest’ordine decrescente nell’importanza degli argo-menti somigliava a quello di un esercito schierato sul campo di battaglia con i soldati di valore in prima fila pronti a colpire il nemico ed è definito nestorico dal nome del grande condottiero che utilizzava questa stra-tegia di combattimento.

L’elocutioLa terza fase era l’elocutio, l’esposizione degli argomen-ti in una forma corretta ma anche coinvolgente. Da qui la scolastica attività di classificazione delle figure re-toriche nella quale erano impegnati allievi e maestri e di cui sono pieni, a partire dall’antichità, i manuali di genere, dalla Retorica di Aristotele a L’oratore di Cice-rone, all’Istituzione oratoria di Quintiliano, nonché la notissima Retorica ad Herennium.

L’actioLa quarta fase era l’actio, cioè la drammatizzazione del discorso, la sua messa in scena, a conferma della stretta parentela tra il docere (informare, spiegare, insegnare, dimostrare), il movere (coinvolgere, commuovere, emo-zionare, attrarre) e il delectare (divertire, intrattenere). Il retore doveva saper esporre gli argomenti declamandoli e recitandoli, caricando l’intonazione su alcuni piuttosto che su altri, cercando in sostanza di ottenere dalla pro-pria prestazione non solo il massimo di persuasività ma anche il massimo di espressività.

La memoriaLa quinta fase, infine, era la memoria, un’attività com-plessa ma anche molto personalizzata, che consisteva nelle tecniche con cui il retore ricordava le prove ne-cessarie all’argomentazione e teneva a mente discorsi spesso lunghi e contorti di cui era necessario, sul finale del discorso, fornire un riepilogo efficace ed esauriente. La quarta e la quinta fase rispondevano alla necessità, propria della comunicazione orale, di puntellare e raf-forzare l’argomentazione con il supporto mimico-ge-stuale e prosodico e con la schiera dei riferimenti che, in mancanza di un testo scritto, erano affidati, appunto, alla memoria.La composizione di un discorso argomentativo era considerata come un procedimento complesso che

richiedeva al retore capacità professionali e culturali diverse: logiche, filosofiche, linguistiche, estetiche, sti-listiche, psicologiche, storiche, teatrali. Del discorso ve-nivano studiate non solo le potenzialità logiche ma an-che quelle drammatiche nella convinzione che l’uditorio fosse influenzabile anche da argomenti diversi rispetto a quelli di tipo empirico e formale.

La retorica nel NovecentoCon il passaggio alla scrittura, actio e memoria perdono ovviamente importanza per poi recuperarla nel secondo Novecento quando diventa forte l’attenzione per la scrit-tura orale. L’espressività come la sintesi vengono sacri-ficate all’elocutio. Ma il fatto veramente significativo è la progressiva emarginazione di inventio e dispositio costrette a cedere una larga fetta di potere all’elocutio. Questo determina poi nell’età moderna, in concomitan-za con l’affermarsi del pensiero empirico e delle me-todologie sperimentali, la decadenza della retorica a vantaggio della scienza e del metodo argomentativo a vantaggio di quello dimostrativo. Oggettività, universa-lità, evidenza osservativa o cartesiana diventano le nuo-ve parole d’ordine. Qualcuno come Giambattista Vico, sulle barricate, resiste nella difesa del secondo vero, ma ormai il primo vero è quello che conta. La retorica, già ampiamente disprezzata da Platone nell’antichità, viene espropriata dall’elemento dialettico e ridotta a teoria del bello, da quasi-logica a stilistica e estetica. E invece di occuparsi di prove e argomenti si occupa sempre più di tropi e figure. I discorsi puntano ancora alla bellezza ma si svuotano di quello che Wilfrid Sellars ha chiamato «lo spazio logico delle ragioni in cui si giustifica e si è in grado di giustificare quel che si dice»12. Ma «qual è l’utilità di un’argomentazione – si chiede Paul Feyerabend e noi con lui – che non riesce a convin-cere la gente?»13. E può convincere la gente un discorso che sia soltanto bello, brillante, accattivante ma vuoto, inconsistente? La bellezza, da sola, potrà salvare il mon-do? Non è forse necessaria anche un po’ di verità, di saggezza, di razionalità?

Stefano CazzatoI.S. Giosuè Carducci, Roma

11.  Aristotele, cit., p. 261.12.  W. Sellars, Empirismo e filosofia della mente, Einaudi, Torino 2004, p. 58.13.  P.K. Feyerabend, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, Feltrinelli, Milano 2005, p. 23.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 67

PercorSi didattici

Macbeth: la parola e il sangueClara Mucci

la metafora del sangue in maCbeth rappresenta il nuCleo di un intreCCio interpretativo e Culturale CapaCe di illustrare le relazioni tra vari snodi tematiCi del testo e la rete dei valori Culturali in CirColazione al tempo di shakespeare.

Scopo di questo studio è cercare di leggere il Macbeth con gli occhi dei contemporanei di Shakespeare e ricostruire, quanto più possibile, la rete mentale e

culturale condivisa dal pubblico, alto e basso, che andava al Globe ad assistere allo spettacolo (probabilmente per un periodo ampio, se, come pare, nel 1615 o 1616 l’opera, rimanipolata con aggiunte tratte da The Witch di Midd-leton, sarebbe stata rappresentata a corte di fronte al re)1.

Sangue maschile, sangue femminile, sangue di stregaDa un lato, il sangue è sema fondante della rete “maschi-le” della tragedia, che vede nel valore guerriero, nella stirpe, nell’aggressività della battaglia, nell’ambizione e nel potere alcuni valori fondamentali; dall’altro, il san-gue incarna quanto di più specificatamente femminile vi sia, al punto da simboleggiare l’impurità della donna per eccellenza, con il sangue mestruale, nella cultura ri-nascimentale e non solo; inoltre, il sangue sta per bloo-dline e quindi issue, stirpe, figliolanza, quello che Mac-beth non ha e che lo condanna a essere, nelle sue parole, «nothing» (come dire, il potere del maschile Macbeth è dannato dalla femminile incapacità o dal rifiuto del materno o del ruolo riproduttivo della Lady). Sui “liquidi femminili”, il sangue e il latte nell’opera, molto è stato detto soprattutto dalla critica americana di indirizzo neostoricistico; ma vorrei legare questo refe-rente femminile alla stregoneria, alle idee sulla nascita, la fertilità e l’embrione al tempo e quindi alla midwifery, alle pratiche delle levatrici, pratiche ritenute collegate alla stregoneria se non a volte coincidenti. Emblematico è, ai fini di questo discorso, che, tra le prime cose che la Lady chiede ai ministri dell’assassinio, sia proprio di “fermare” nel suo corpo quel fluido scorrere del sangue femminile. Insieme al nero (della notte, delle tenebre, della colpa, del peccato, degli scorpioni e degli inquietanti animali not-turni che ossessionano la notte senza sonno dei Macbeth), i colori dell’opera2 sono infatti il bianco (della luce del giorno che abbraccia il castello e l’ospite regale, del latte

materno, della tenerezza di cui sembra essere troppo pie-no il marito Macbeth, del tenero “babe”) e il rosso (del sangue, in tutte le sue accezioni: insanguinato è sia il blo-ody man guerriero dell’inizio che il bloody child che pre-figura Macduff nella ambigua profezia delle streghe, che nasce da parto cesareo, che avrà la meglio su Macbeth).Infine, se la sovversione di tutti i binarismi fondanti dell’opera è raffigurata, precisamente, dalla rottura o dal-la inquietante commistione dei principi che identificano il maschile e il femminile (divisione che organizza ogni altra categoria dell’ordine)3, visualizzati ed esemplificati nelle streghe, femminili e maschili al tempo stesso («bear-ded women», donne barbute) e corpi non materiali (che si sciolgono nell’aria, «melt into air»), le valenze del sangue nella cultura del tempo – una cultura che, ricordiamo, an-dava scoprendo e studiando precisamente la circolazione sanguigna, vedi William Harvey, negli studi anatomici, oltre a ritenere che il sangue fosse uno dei fondamentali quattro elementi che forgiavano il temperamento dell’es-sere umano – costituiscono elementi simbolici essenziali nella rete semantica che lega il sangue alla melanconia, per cui torniamo, anche per questa via, al diabolico sov-versivo femminile, alla strega e al suo corpo ambiguo. Proprio quel corpo che Giacomo nel Demonologia (1597), trattato sulla stregoneria che il re scrive entrando nel dibattito sulla stregoneria al tempo, prima ancora di

1.  Si veda, di chi scrive, Il teatro delle streghe. Il femminile come costru-zione culturale al tempo di Shakespeare, Liguori, Napoli 2001, e il lungo ca-pitolo introduttivo in I corpi di Elisabetta. Sessualità, potere e poetica della cultura, Pacini, Pisa 2009.2.  Secondo Linda Woodbridge, che analizza i riferimenti a questi colori nella poesia d’amore rinascimentale, essi sarebbero ritenuti magici in quanto propizierebbero la fertilità; cfr. The Scythe of Saturn. Shakespeare and Ma-gical Thinking, The University of Illinois Press, Urbana and Chicago 1994.3.  Perché il binarismo uomo-donna è quello che sottende tutte le altre ca-tegorie gerarchiche; si veda tra i molti autori che potremmo citare D. Calla-ghan, Woman and Gender in Renaissance Tragedy, Harvester Wheatsheaf, New York and London: per un riscontro di questo basilare principio in Sha-kespeare, si veda The Taming of the Shrew e la mia lettura dell’opera in Il teatro delle streghe. Il femminile come costruzione al tempo di Shakespeare, Liguori, Napoli 2001.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458268

PercorSi didattici

essere re aveva indagato con dovizia di particolari, men-tre entra ed esce dai cadaveri, mentre ha rapporti con succubi e incubi4, corpo che, inoltre, era associato nel-la stessa rete simbolica al corpo del gesuita, dell’ebreo, dell’eretico, di tutti coloro che erano dall’altro lato del binarismo fondante Dio-Diavolo, nell’ordine simbolico del tempo, che vedeva Dio e il re da un lato e il Demonio e il femminile diabolico-strega dall’altro (e identificava la donna come l’altro del maschio quindi dalla parte del diavolo, per la sua carne e le sue debolezze, ovvero dalla parte della strega). Riassumendo, sangue, procreazione, strega, melanco-nia, stirpe, bambino, guerra, assassinio, Gunpowder Plot, usurpazione e discendenza sono tutti legati nel-la stessa rete semantica e costituiscono il nucleo forte dell’opera a livello significante e contenutistico.Nella straordinaria, e tradizionalmente notata, com-pattezza metaforica della tragedia – la più breve, la più densa, la più ricca metaforicamente (a livello di densità poetica e opacità, per usare il linguaggio di Francesco Orlando e della retorica formale5) – il sangue diventa condensazione estrema, raccordo dei due movimen-ti fondamentali del play-text, quello tra il maschile e

il femminile, e la loro “corruzione”, le streghe, che si alternano anche visivamente, una scena dopo l’altra. L’opera inizia infatti con le weird sisters, sorelle fatali, rappresentate come isolate nella loro inquietante alterità e impurità, ma subito viene costruita la loro vicinanza a livello linguistico con Macbeth prima e la Lady dopo, fino alla confusione e all’impurità totale e alla perico-losa, diabolica mescolanza degli elementi nel liquido dell’infernale calderone delle streghe e al trionfo finale della loro parola profetica (per cui Macbeth sarà ucciso proprio da un «non nato da donna»).Dunque, nella mirabile sinteticità retorica dell’opera, il tema dell’equivocation, del gioco di parole, del quibble, cavillo verbale, in bocca al porter, fino alle streghe e poi a Macbeth (che sarà costretto a riconoscere «the equivo-cation of the fiend that lies like truth», in vv. 43-44, «il gioco verbale del demonio che mente dicendo la verità»)

4.  James I, Daemonologie, in forme of a dialogue, divided into three bookes, Edinburgh 1597, reprinted in Elizabethan and Jacobean Quartos, ed. G.B. Harrison, Barnes and Noble, New York 1966, tr. it. Demonologia, a cura di G. Silvani, Editrice Università degli Studi di Trento, Trento 1997.5.  F. Orlando, Per una teoria freudiana della letteratura, Einaudi, Torino 1973.

Macbeth, Teatro Nacional de Sao Carlos, Lisbona 2015

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 69

PercorSi didattici

rappresenta il filo conduttore a livello semantico di una testualizzazione tipicamente rinascimentale6; la densità polisemica della tragedia è rappresentata mirabilmente, o, per giocare con le parole, “raggrumata” nell’elemento sangue, quello che rimane mentalmente a ossessionare il virile Macbeth (non così virile secondo la moglie) e la defemminilizzata e diabolica quarta strega, Lady Mac-beth. A suggello della sua doppia impurità, come don-na e come strega, l’ossessione delle macchie di sangue sulle mani saranno l’ultimo segno nello sconvolgimento semantico del mondo dei Macbeth, un mondo turbato, in primis, da una irrappresentabile rottura dell’ordine, proprio per il caos morale simboleggiato dalla negazio-ne della opposizione binaria tra maschile e femminile, pericolo incarnato dalle streghe. In altri termini, per sin-tetizzare a nostra volta, possiamo dire che il “sangue” sta alle streghe in Macbeth come l’equivocation sta alla costruzione semantica e retorica dell’opera7, estrema e visuale condensazione dei significati o della rottura di significati, “hurly-burly” di un universo turbato e senza leggi, in cui gli ossimori si condensano e le battaglie sono perdute e vinte al tempo stesso.Se le streghe sono il significante primario della sov-versione dell’universo semantico di Macbeth, la tragica commistione e negazione di maschile e femminile nel-la Lady che nega i suoi fluidi essenziali di corpo fem-minile (almeno potenzialmente riproduttivo) materno, cioè il sangue e il latte, è l’ultimo segnale negativo di un universo pericolosamente diretto verso il “nothing”, azzeramento di senso registrato da Macbeth nel mono-logo finale («life is but a walking shadow […], signifying nothing», vv. 24-28), oltre il quale c’è solo follia e morte.

Blood, bloody, bleed, bleeding. Umori del corpo e costruzione culturale dei soggetti al tempo di ShakespeareL’occorrenza dei termini blood, bloody e bleed nell’ope-ra è assai alta. La prima volta che incontriamo il termine bloody, è, com’è noto, nella scena II, atto I, in bocca a Duncan: «What bloody man is that?». È l’inizio di una scena guerresca, di soli soggetti maschili, che commen-tano lo straordinario coraggio e valore virile dimostrato da Macbeth nella recente battaglia, e serve a introdurre l’impavido barone, definito «brave» (I.i.16), coraggioso; la didascalia ci avverte che quello che si soffermerà re-toricamente sulle virtù di Macbeth, con una esposizione amplificata e magniloquente, è un bleeding Captain, un capitano sanguinante, dimostrando già un primo scol-lamento doloroso tra la elaborata retorica maschile e la realtà del “corpo sanguinante” (che è femminilizzato, cioè ancora più dal lato del corporeo, opposto alla testa,

alla ragione, alla parola retorica).Questa scena maschile fa seguito a quella con cui l’opera si apre, quella che, come sempre ma in modo ancora più spettacolare, stabilisce il tono e la chiave di lettura: è la scena in cui le streghe, nella heath, nella landa desolata, con il correlativo di tuoni e lampi, si incontrano nel sim-bolico e concretissimo «fair is foul and foul is fair» della confusione fisica, semantica, morale da esse rappresen-tata, e, mentre sembrerebbero alienate o ritratte come li-minali rispetto al centro del dramma, visivo e simbolico, in realtà come vedremo sono al cuore di quanto accade nel play e ne dirigono gli eventi con la loro parola, come dire che il liminale pericoloso è divenuto centro8.Nella costruzione culturale del periodo rinascimentale, il corpo della strega albergava una serie di anomalie e disor-dini che erano allo stesso tempo il riflesso di un disordine politico e morale della household, il casato, e dello stato, il caos nella gerarchia. Ricordiamo che antropologicamente il corpo dai confini pericolosamente aperti, il corpo fem-minile, è particolarmente adatto a rappresentare ansietà riguardo al corpo dello Stato, secondo Mary Douglas9, problema che era stato assai sentito fino a qualche anno prima con la presenza, all’apice della gerarchia del potere, del corpo dai confini incerti della Virgin Queen, che pro-prio per questo doveva rimanere simbolicamente chiuso a maggiore protezione di quegli orifizi che significavano debolezze dello Stato ai suoi confini. Inoltre, tra le inter-pretazioni culturali usate per spiegare l’avversione per la strega, che durò fino al diciottesimo secolo e si manifestò con la persecuzione reale di soggetti ritenuti “streghe”, c’è quella che la attribuisce al terrore legato alle fantasie di un materno visto come pericolosamente invertito e po-tente nelle sue anomalie, nel suo legame col magico e col diavolo. L’ansietà culturale riguardo ai confini del corpo femminile (e ai suoi pericolosi orifizi) era stata esplicita-ta al tempo di Elisabetta perfino in famosi dipinti come quello della Vergine del setaccio10.Dopo la prima scena, con la visione delle streghe, e la seconda, con il corpo guerresco maschile insanguinato,

6.  Sulla testualizzazione della storia si veda L.A. Montrose, The Work of Gender in the discourse of Discovery, Representations XXXIII, 1991, pp. 1-41, e di chi scrive I corpi di Elisabetta, cit., Introduzione.7.  Per questa interpretazione e le connessioni culturali con gli eventi con-temporanei rimando a Il teatro delle streghe, cit., cap. 4, Macbeth ovvero la stregoneria come costruzione culturale al tempo di Giacomo I, pp. 109-140.8.  Per la costruzione del liminale come sovversivo tra culturale, antropolo-gico e psicoanalitico, si veda di chi scrive Liminal personae. Marginalità e sovversione nel teatro elisabettiano e giacomiano, ESI, Napoli 1995.9.  Si veda M. Douglas, Purity and Danger: An Analysis of the Concepts of Pollution and Taboo, Routledge, London and New York 1966, p. 116.10.  Cfr. L. Montrose, The Subject of Elizabeth. Authority, Gender and Re-presentation, The University of Chicago Press, Chicago and London 2006; C. Mucci, I corpi di Elisabetta, cit.

Macbeth, Teatro Nacional de Sao Carlos, Lisbona 2015

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458270

PercorSi didattici

è nella scena III dell’atto I che compare per la prima volta Macbeth: la scena si apre ancora una volta con le streghe, ed è piena di allusioni al femminile perverso del loro nutrimento malefico (il maleficium delle loro pozio-ni, delle loro influenze magiche), indicato da termini di preparazione del cibo, cibo e masticazione («killing swi-ne», «chestnut», «munched, munched, minched», I.iii.2, 3, 4). È interessante che l’eroe maschile (o anti-eroe, dovremmo dire) compaia proprio dentro una scena di perverso-femminile-invertito materno, e ancora di più che faccia eco al linguaggio instabile, decentrato e poli-semico, delle fatidiche sorelle, con le famose parole: «So fair and foul a day I have not seen» (I.iii.36, un giorno così bello e così brutto non l’ho mai visto), segnale della sua appartenenza ambigua a entrambi i mondi, quello dell’ordine, come barone valoroso, e quello del disordi-ne, come usurpatore e futuro assassino. Ho già indicato altrove come far parlare il barone vin-cente con il linguaggio delle streghe sia una scelta im-portante per Shakespeare e non possa essere un segnale positivo per chi inseguirà il potere a ogni costo: come accadrà nell’ultima opera, The Tempest, con il mago-du-ca Prospero, non si possono mettere insieme ambigue contaminazioni tra il mondo del potere e della domina-zione e quello invertito e magico delle streghe11, ma que-sto è esattamente il modo in cui Shakespeare sceglie di

11.  Per questo discorso rimando a Tempeste. Narrazioni di esilio in Sha-kesperare e Karen Blixen, Campus, Pescara 1998, nuova edizone Liguori, Napoli 2007. 12.  Clara Mucci è stata per anni professore ordinario di Letteratura inglese e Storia del teatro inglese presso l’università d’Annunzio di Chieti, dove ora è ordinaria di Psicologia clinica.

presentare Macbeth dall’inizio. Sullo sfondo c’è, come pure è stato più volte notato, la volontà di celebrare il nuovo re Giacomo che, interessatissimo alla valenza politica della stregoneria al punto da scrivere più opere contro di essa e da far processare il Dr Fian, accusan-dolo di aver provocato una tempesta contro le sue navi che tornavano dal matrimonio celebrato in Danimarca, è anche direttamente discendente da Banquo. Inoltre, se l’opera, come sembra, è del 1606, egli è al trono da soli tre anni e quindi anche tutte le suggestioni sulla regina Elisabetta morta da poco, che aveva impersonato una specie di regnante anomala per il suo sesso in un ordine patriarcale, ritenuta regnante dagli strani poteri, amaz-zone-strega, che aveva rifiutato famiglia e procreazione (almeno ufficialmente, se dobbiamo credere ad alcuni pettegolezzi su di lei, che secondo alcuni aveva avuto più di un figlio da vari amanti), non dovevano essere troppo distanti nella memoria del pubblico. Macbeth nell’incontro con le streghe sottolinea la diffe-renza linguistica che connota il loro linguaggio (le de-finisce «imperfect speakers», I.iii.68), ed è Banquo che indicherà nel loro aspetto ambiguo (la barba, in esseri altrimenti femminili) la difficoltà a decodificare la re-altà e dunque quella differenza tra realtà e rappresenta-zione che perturba il mondo dell’opera: quello sconvol-gimento dei segni che culminerà con la follia finale dei Macbeth e con il «signifying nothing» dell’ultimo, stra-ordinario monologo sulla fine del senso quando manca una coincidenza tra significanti e significati (un altro grande momento di fine del senso è quello in cui Mac-beth riconosce, che dopo la morte del re «all is but toys», ridotto a una inezia). È in questa scena che i deep desires di Macbeth vengo-no alla luce e il contrasto è caratterizzato da luce/buio o nero (light/black). Nella scena dell’arrivo al castello il re parla tragicamente di «love» due volte, e di quel castello in cui troverà la morte per mano del suo ospite dice che ha «a pleasant seat», in una drammatica quanto ironica incapacità di leggere la realtà, tanto più grave in un regnante.

Clara MucciUniversità d’Annunzio, Chieti12

Macbeth, Opernhaus Zurigo, 2017

" "

" "

Santi Pullarà è attualmente detenuto nella Casa di Reclusione di San Gimignano dove, nel 2011, ha conseguito la laurea in Storia conferitagli dall’Università degli Studi di Siena.

La combinazione è un ‘romanzo di deformazione’: segue infatti la storia di un ragazzo nato in una famiglia di mafiosi, e, così, fatalmente destinato a subire una serie di condizionamenti che lo porteranno a essere ‘combinato’ giovanissimo in Cosa Nostra.

pp. 384 € 19,00eBook: € 9,99

pp. 336 € 26,00eBook: € 14,99

LA COMBINAZIONESanti Pullarà

LA LIBERTÀ, PER ESEMPIOPaolo L. Bernardini

Paolo L. Bernardini è ordinario diStoria Moderna presso l'Universitàdell'Insubria, a Como, e fellow delCentro Linceo Interdisciplinare"Beniamino Segre" dell'Accademia dei Lincei di Roma.

Il volume prende in esame, dal punto di vista del pensiero liberale classico, l'evoluzione socio-politica e le potenzialità del Mediterraneo, inteso, nelle sue varie componenti, come un ricchissimo laboratorio di storia e di umanità.

www.marcianumpress.it

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458272

PercorSi didattici

La Via Lattea in Dante e nell’astronomia modernaDalla mitologia alla scienza, con contagi poeticiPierluigi Pizzamiglio

la storia della via lattea inizia nell’antiCa greCia per attraversare poi tutte le epoChe storiChe situandosi a Cavallo tra mitologia, letteratura e sCienza.

Come si sa la denominazione di Galassia o Via Lattea è sorta nella mitologia dei Greci come tema cosmogonico.

In verità nell’intero continente euroasiatico vari miti narravano che la Via Lattea si sarebbe formata etimo-logicamente da un flusso di latte sparso nel cielo: il più celebre di essi nel mondo mediterraneo ebbe come pro-tagonisti Era ed Eracle: si veda al riguardo il libro di Alfredo Cattabiani, Planetario. Simboli, mito e misteri di astri, pianeti e costellazioni1.Ma con l’espressione astronomica «Via Lattea» (Via lactis) venne indicato anche il tragitto terrestre indivi-duato dal “Cammino di S. Giacomo”, quello cioè che conduce tuttora a Santiago de Compostela (o forse, an-ticamente, Campostella ovvero campo stellare) in Gali-zia, al santuario dell’Apostolo Giacomo il Maggiore, il cui corpo sarebbe stato trasportato colà dopo la decapi-tazione in Palestina.

Dibattiti medioevali e rinascimentali sulla meteorologia galattica aristotelicaIn ambito filosofico-scientifico fece scuola durante tutto il Medioevo la Meteorologia di Aristotele (sec. IV a.C.): uno dei commenti più celebri agli scritti cosmologi-co-meteorologici aristotelici è costituito dalle “chiose” che Tommaso d’Aquino (1224/5-1274) fece ai primi tre libri della Metaura di Aristotele.Anche il nostro sommo poeta Dante Alighieri (1265-1321) nel Convivio riporta le teorie correnti nel Medioevo (che si rifacevano a quelle dei Pitagorici, di Ovidio, di Anas-sagora, di Democrito e appunto anche di Aristotele) per spiegare la natura della Via Lattea o Galassia, volgarmen-te detta anche Via di San Iacopo, come sappiamo.Scrive Dante:

Per che è da sapere che di quella Galassia li filosofi hanno avu-te diverse oppinioni … Quello che Aristotele si dicesse non si

può bene sapere di ciò, però che la sua sentenza non si truova cotale ne l’una translazione come ne l’altra. E credo che fosse lo errore de li translatori; ché ne la Nuova [effettuata e rivista sul testo originale greco da Guglielmo di Moerbecke, forse su richiesta di Tommaso d’Aquino e da lui poi commentata] pare dicere che ciò sia uno ragunamento di vapori sotto le stelle di quella parte, che sempre traggono quelli: e questo non pare avere ragione vera. Ne la Vecchia [eseguita da Michele Scoto su una versione araba e interpretata da Alberto Magno] dice che la Galassia non è altro che moltitudine di stelle fisse in quella parte, tanto picciole che distinguere di qua giù non le potemo, ma di loro apparisce quello albore, lo quale noi chia-miamo Galassia: e puote essere, ché lo cielo in quella parte è più spesso, e però ritiene e ripresenta quello lume. E questa oppinione pare avere, con Aristotele, Avicenna e Tolomeo2.

Dante si occupa della Via Lattea anche nell’Inferno (Canto XVII, vv. 106-108), narrandone l’origine mitolo-gica (e precisamente la leggenda di Fetonte) già accen-nata del resto nel Convivio.Anche nel Paradiso si torna a parlare di Via Lattea e si allude alle varie ipotesi che i filosofi ebbero sulla sua natura: «Come distinta da minori e maggi / Lumi bian-cheggia tra i poli del mondo / Galassia sì, che fa dub-biar ben saggi»3; cioè come la Galassia si distenda tra i due poli del mondo, sotto forma di striscia biancheg-giante, distinta da stelle minori o maggiori, in modo che fa restare inceri sulla sua natura anche i più sapienti.

La scienza moderna e l’interpretazione stellare delle apparenze galatticheCol suo cannocchiale Galileo Galilei (1564-1642) accer-tò che la Via Lattea era costituita da una congerie di

1. A. Cattabiani, “La Via Lattea, cammino dei morti”, in Id., Planetario. Simboli, mito e misteri di astri, pianeti e costellazioni, Oscar Mondadori, Milano 1998, pp. 363-370.2.  Dante, Convivio, II, XIV, 5-7.3.  Dante, Divina Commedia - Paradiso, Canto XIV, vv. 97-99.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 73

PercorSi didattici

piccolissime stelle4.Dopo di allora prese avvio, sulla base di un numero rela-tivamente esiguo di osservazioni empiriche e della sola teoria fisica newtoniana (che unificava la fisica terrestre con quella celeste mediante la scoperta della legge di gravitazione universale), un periodo che da qualche stu-dioso è stato denominato come quello della “immagina-zione astronomica”. In quel periodo storico, durato sino a fine Settecento, comparvero alcune tra le più geniali intuizioni, che verranno in seguito confermate dalle ri-sultanze di una più sistematica – cioè scientificamente e tecnologicamente munita – osservazione astronomica.Infatti, dopo che ci si era resi conto che le stelle non sono distribuite uniformemente, ma tendono a raggrupparsi in grossi insiemi, venne elaborata una nuova concezione dell’universo in cui, anziché essere le stelle distribuite nello spazio, sarebbero in effetti gli insiemi di stelle a popolare l’universo: è l’origine del moderno concetto di “galassia”.In verità chi per primo tentò di dare spiegazione della Via Lattea come uno degli oggetti celesti nebulosi costi-tuito da miriadi di stelle fu il matematico e costruttore di strumenti inglese Thomas Wright (1711-1786) in un suo scritto edito nel 1750, basato peraltro su suggestioni teologiche.Un resoconto di quelle idee venne letto dal grande fi-losofo prussiano Immanuel Kant (1724-1804) e da esse egli prese spunto per sviluppare una delle più belle concezioni dell’universo, che propose in una delle sue prime pubblicazioni, frutto dei suoi interessi e studi intorno alla fisica newtoniana, intitolata Allgemeine Naturgeschichte und Theorie des Himmels [Storia ge-nerale della natura e teoria del cielo]: uno studio sulla costituzione e l’origine meccanica dell’intero universo, trattato in base ai principi newtoniani, redatto nel 1753 e comparso a Königsberg nel 1755, ma che non ebbe al-cuna risonanza.

Kant pensava che le nebulose fossero altrettante vie lattee, ognuna formata da miriadi di stelle in modo da costituire una struttura schiacciata a disco, ruotanti in-torno a un punto centrale, come i pianeti ruotano attorno al Sole, «tali da dare luogo a formazioni non circolari ma ellittiche, e inoltre che, considerata la loro pallida luce, si debbano trovare ad una inconcepibile distanza da noi». La concezione kantiana non si limitava alla na-tura delle singole nebulose (oggi diremmo “galassie”), ma riguardava l’ordinamento dell’intero universo, in quanto le nebulose-galassie sono raggruppate in sistemi o insiemi (oggi diciamo in “ammassi” di galassie), a loro volta formanti insiemi di insiemi (oggi diciamo “supe-rammassi” di galassie) in “progressione infinita”, ma un’infinità dotata di un centro cosmico, attorno al quale ruotano i centri dei supersistemi e i centri delle singole galassie, intorno ai quali poi ruotano le stelle e così via.Ma tale teoria era del tutto ignota a colui che una qua-rantina d’anni dopo formulò un’analoga ipotesi, cioè il grande fisico-matematico francese Pierre-Simon Lapla-ce (1749-1827), in una sua opera di carattere filosofico divulgativo intitolata Exposition du système du monde5. In essa, in forma chiara ed elegante, senza l’uso di formu-le matematiche, Laplace esponeva i cospicui risultati da lui raggiunti nel campo della meccanica celeste e formu-lava la sua ipotesi sull’origine e formazione del sistema solare basata sull’idea delle “nebulose” e sui seguenti fatti osservativi fondamentali: i moti diurni e annui dei com-ponenti del sistema planetario solare sono diretti (cioè av-vengono da occidente verso oriente) e quasi sullo stesso piano; le eccentricità delle orbite dei pianeti sono piccole in confronto a quelle delle comete e inoltre le inclinazioni di quelle stesse orbite sul piano dell’eclittica sono pure piccole. In conseguenza di tutto ciò si è indotti a pensare che in origine vi fosse un fluido, «come un’atmosfera», di immensa estensione «in virtù di un eccessivo calore» e dotato di un movimento di rotazione quasi circolare in-torno al Sole e sul piano dell’equatore solare; diminuendo il calore e di conseguenza le dimensioni dell’atmosfera, si sarebbero formati i pianeti «per la condensazione delle masse di vapori abbandonati dall’atmosfera stessa».In verità Laplace presentò la sua ipotesi con una certa esitazione, convenendo che essa non proveniva diret-tamente da numerose osservazioni e da calcoli, come invece auspicava che si facesse e venne in effetti fatto.Si realizzò così la celebre dottrina cosmologica sull’o-rigine del sistema solare oggi nota come “Ipotesi di Kant-Laplace”.

4.  G. Galilei, Sydereus Nuncius, Venezia 1610.5.  P.-S. Laplace, Exposition du système du monde, Parigi 1796, tr. it. Espo-sizione del sistema del mondo.

Via Lattea (Fonte: Nasa, www.spacetelescope.org)

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458274

PercorSi didattici

A ogni buon conto, il primo esame dettagliato e vera-mente scientifico sulla costituzione della Via Lattea ver-rà effettuato tra fine Settecento e inizio Ottocento da William Herschel (1738-1822).In seguito, cioè a partire dall’Ottocento, verranno gettate le solide basi delle tecniche di osservazione astronomica, pur in assenza di nuove idee sulla struttura del cosmo. Il XX secolo si apre con la coscienza ormai chiara che sarà lo studio delle galassie, i più grandi aggregati di ma-teria visibile, che permetterà di compiere avanzamenti conoscitivi intorno alla struttura dell’universo sulla base principalmente delle accurate osservazioni che telescopi sempre più potenti permettevano di ottenere.

La Via Lattea nella cosmologia scientifica modernaLa nostra Galassia (con iniziale maiuscola) è denomi-nata come la Via Lattea per antonomasia: il nome dice ormai solo del biancore della sua luce sullo sfondo nero del rimanente cielo stellato.Ora si sa che essa è un’isola di stelle che costituisce par-te di un più vasto agglomerato di stelle, detto Gruppo locale, per la massima parte non visibili ad occhio nudo.La nostra Galassia è il sistema stellare, in continuo muta-mento, che “alimenta” e fa muovere il nostro sistema pla-netario solare, come pure tutte le stelle visibili. Si stima sia costituita da alcune centinaia di miliardi di stelle e da materia cosmica diffusa a banchi (che tra l’altro darebbe-ro origine alla ben nota biforcazione della Via Lattea fra il Cigno e lo Scorpione e che impedirebbero la visibilità del centro della galassia, che si trova nella direzione della co-stellazione del Sagittario) ed estremamente rarefatta (che comunque costituirebbe circa metà della massa galattica); ha la forma di un disco rigonfio al centro (per cui può essere grossolanamente approssimata ad un ellissoide di rotazione con strutture spiraliformi), il cui diametro sa-rebbe di circa 100 mila anni luce e il cui spessore al centro sarebbe di circa 30 mila anni luce.La galassia ruota su se stessa (il polo galattico nord si trova nella direzione della Chioma di Berenice), non però come un corpo rigido dal momento che ogni sua parte è dotata di velocità dipendente dalla distanza dal centro (le più vicine sono più veloci e il moto è più lento nelle regioni periferiche).Il Sole si trova in prossimità del piano equatoriale, ma in posizione assai eccentrica (distando dal centro della galassia circa 8.800 parsec ed essendo dotato di una ve-locità di rotazione galattica di circa 250 km/sec). Ed è in direzione del piano equatoriale che noi vediamo stelle lontanissime quasi indistinguibili tra di loro ad oc-chio nudo, che pertanto appaiono come una nube bianca-stra che taglia la sfera celeste lungo un cerchio massimo.

Ecco come a suo tempo ne iniziava l’illustrazione il celebre ecclesiastico-scienziato cardinale Pietro Maffi (1858-1931):

La Via Lattea, quella striscia biancastra che sempre e do-vunque ha destata l’attenzione dei popoli, è approssimativa-mente un circolo massimo sulla sfera celeste e varia nella sua larghezza da 4° a 16°. Divisa in due rami tra il Cigno e lo Scorpione, spezzata nella Nave, rotta da macchie oscure tra il Cigno e Cefeo e soprattutto dai “sacchi di carbone” presso la Croce del Sud, viva in molte plaghe, in altre sfumata, la Via Lattea è ben lontana dall’essere omogenea, e più che un anello unico, alcuni la vorrebbero considerare come un rosario di macchie distinte o come una spirale6.

Per generalizzazione del nome vengono chiamate “ga-lassie” o anche “nebulose” tutti gli altri innumerevoli sistemi stellari, veri e propri universi-isole, che distano reciprocamente circa un milione di anni-luce. La maggior parte delle galassie appaiono inoltre accu-mulate in ammassi, tenuti insieme dalla forza gravi-tazionale, a volte raggruppati a loro volta in superam-massi: la distribuzione di ammassi e superammassi nell’universo costituisce una prova dell’esistenza della materia oscura, che tiene la materia luminosa in una stretta gravitazionale.Un’ultima costatazione riguarda la curiosa circostan-za per cui gli scienziati, per lo più ecclesiastici, della Specola Vaticana attualmente sono specializzati proprio nello studio delle galassie.

Pierluigi PizzamiglioUniversità Cattolica del Sacro Cuore, Brescia

6.  P. Maffi, Nei cieli, SEI, Torino 19285, p. 258.

Galileo Galilei (1564-1642)

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 75

PercorSi didattici

La Matematica finanziaria in Excel: un’applicazione notevoleLuca Barzanti, Stefania Fabbri, Alessandro Pezzi

un perCorso didattiCo per l’utilizzo di exCel in matematiCa finanziaria, sia Come effettiva piattaforma operativa Computazionale e grafiCa, sia Come strumento per un laboratorio sperimentale per lo studio ConCreto dei modelli di base e delle loro proprietà.

L’amplissima diffusione dell’utilizzo del foglio elettronico che è seguita all’alfabetizzazione informatica di massa, incominciata dalla se-

conda metà degli anni Novanta, ha cambiato radical-mente l’approccio alla Matematica Finanziaria, a partire da quella di base sino a quella professionale. Si pensi ad esempio all’utilizzo della nozione di Tasso Interno di Rendimento (TIR) di un investimento finanziario o aziendale (e simmetricamente al Tasso Annuo Effettivo Globale – TAEG – di un finanziamento), per i quali le difficoltà computazionali ne condizionavano fortemente l’utilizzo come criterio di scelta nella pratica, malgrado le valide caratteristiche teoriche. Nel presente contributo, si analizza un’applicazione che tiene conto della gestione dinamica di somme di dena-ro come quella che avviene in un conto corrente o in un conto deposito. Tale implementazione utilizza uni-camente nozioni di Matematica Finanziaria di base1. Il Foglio Excel che ne risulta potrà poi essere propedeutico per il sopra citato calcolo automatico del TIR/TAEG. Si sviluppa inoltre un vero e proprio duplice percorso di-dattico per il laboratorio informatico nel quale, prenden-do spunto dai fogli Excel inizialmente proposti e sfrut-tando le potenzialità del software, si approfondiscono da un lato aspetti grafici avanzati, utili alla immedia-ta comprensione della dinamica dei flussi di denaro, e dall’altro si “riscoprono” sperimentalmente le proprietà analitiche del modello considerato.

Brevi richiami di Matematica Finanziaria e di ExcelPer la realizzazione del foglio di lavoro si fa ricorso alle formule di base di Excel che coinvolgono le operazioni aritmetiche elementari di addizione, sottrazione, molti-plicazione, divisione ed elevamento a potenza, ad alcu-ne funzioni logiche (in particolare alla funzione logica SE(), che permette di condizionare il valore della cella

in base al valore di altre celle), alcune funzioni di data e ora (la funzione OGGI() che restituisce il valore della data attuale) e funzioni informative (la funzione NUM() che converte in numero la stringa che le viene passata come argomento e che può rappresentare o meno un nu-mero). Tutte queste funzioni verranno descritte in det-taglio successivamente, nel momento del loro utilizzo. Si utilizzano e sono e implementate inoltre alcune for-mule di Matematica Finanziaria. Innanzitutto viene uti-lizzata la legge di capitalizzazione semplice:

I = C · i · t  (1)

dove I rappresenta l’interesse generato dal capitale C nel tempo t: la relazione che lega l’interesse al tempo per cui viene impiegato il capitale è di tipo lineare su oriz-zonti temporali inferiori o pari ad un anno. Poiché poi al termine di ogni anno vengono calcolati ed aggiunti alla giacenza gli interessi relativi all’anno appena trascorso, si ottiene di fatto una capitalizzazione di tipo composto su intervalli di tempo multipli dell’anno: su intervalli temporali non corrispondenti a multipli dell’anno (nel caso ad esempio di chiusura del conto in una data qual-siasi non coincidente con il termine dell’anno solare) si implementa in questo modo la cosiddetta convenzione lineare per il calcolo degli interessi, la cui formula ma-tematica per il fattore di montante è:

f(t) = (1 + i)[t] · (1 + i · (t – [t]))  (2)

dove [t] rappresenta la parte intera della variabile tempo.Nella Figura 1 è mostrato il grafico delle convenzioni esponenziale (capitalizzazione composta) e lineare, dove

1.  Come quelle descritte in: L. Barzanti - A. Pezzi, Matematica Finanziaria. Manuale operativo con Applicazioni in Excel, Esculapio Economia, Bologna 20142. Mentre per un approccio più generale alla disciplina, si veda anche: L. Barzanti - A. Pezzi, I Regimi Finanziari come Modelli Matematici: un per-corso didattico costruttivo di approccio e di sviluppo, «Nuova Secondaria», XXXIII, 5 (2016), pp. 75-82.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458276

PercorSi didattici

si può vedere che, per una scadenza intera rispetto agli anni, vi è coincidenza fra le due convenzioni, mentre per scadenze non intere la convenzione lineare è mag-giorante dell’altra. La convenzione lineare è molto usata nella pratica bancaria poiché implementa rigorosamente il modello di capitalizzazione composta, senza effettua-re approssimazioni di calcolo.

Figura 1. Grafico del fattore di montante in convenzione esponenziale e lineare.

Lo schema della capitalizzazione lineare è quindi quello in Figura 2, che incorpora al suo interno il modello di capitalizzazione composta precedentemente2, ancora va-lido per durate multiple intere dell’anno e lo estende per durate non intere, introducendo un interesse direttamente proporzionale al tempo per quanto riguarda la parte resi-dua e non intera della durata (inferiore all’anno).

Figura 2. Schema di capitalizzazione degli interessi in convenzione lineare.

La gestione di un Conto DepositoSi vuole realizzare un foglio Excel per il calcolo degli in-teressi maturati su un conto di deposito e più in generale per la gestione dinamica delle somme di denaro (prelievi e versamenti). Nel foglio occorre inserire il dettaglio di ogni operazione effettuata, tenendo conto delle diverse giacen-ze, dei tempi per cui esse sono presenti in conto, del tasso d’interesse (attivo/passivo, considerando per semplicità espositiva che sia lo stesso) praticato dalla banca: quest’ul-timo può variare nel tempo. Nel seguito consideriamo il caso d’interessi che maturano alla fine dell’anno.A ogni riga del foglio corrisponde un’operazione: si possono inserire sia importi positivi (versamenti) che aumentano la giacenza, sia negativi (prelievi) che dimi-nuiscono la giacenza (Figura 3).

Figura 3. Inserimento di operazioni di versamento e prelievo.

I dati necessari sono l’Importo, la Data, il tipo di Opera-zione, la Giacenza e i Giorni per cui essa rimane costan-te, il Tasso di Interesse e infine gli Interessi maturati. Importo, Data, Operazione e Tasso di Interesse sono campi inseriti mentre Giacenza, Giorni, Interessi matu-rati sono campi calcolati (Figura 4).

Figura 4. Dettaglio dei calcoli necessari alla gestione di una singola operazione.

La Giacenza è calcolata come somma algebrica fra la giacenza precedente (quella della cella sopra) e l’importo dell’operazione corrente: per utilizzare una formula che sia valida anche nella prima riga, poiché non si dispone di una giacenza precedente, si utilizza la funzione di Excel NUM(val) che restituisce un numero (corrispondente al valore logico VERO) se l’argomento val è un numero (o una data) oppure restituisce il valore 0 (corrispondente al valore logico FALSO) se val non è un numero. I Giorni sono calcolati come differenza fra la data di un’operazione e quella dell’operazione successiva; tut-tavia per poter calcolare il valore anche sull’ultima riga della tabella (che non ha un’operazione successiva), oc-corre utilizzare una funzione logica che, nel caso non esista un’operazione successiva a quella in seguito alla quale si stanno calcolando i giorni di giacenza, esegua la differenza fra la data odierna e quella dell’ultima ope-razione contabile. Questa funzione logica è la funzione SE(test; se_vero; se_ falso) che prevede tre argomenti separati dal simbolo di “;”: il primo argomento (test) rap-presenta una condizione che può risultare vera oppure falsa; nel caso la condizione risulti vera la cella attuale assume il valore rappresentato dal secondo argomento (se_vero), altrimenti la cella attuale assume il valore rappresentato dal terzo argomento (se_ falso). Inoltre poiché nell’ultima riga della tabella non disponiamo di

2.  Illustrato nella Figura 19 di: L. Barzanti - A. Pezzi, I Regimi Finanziari come Modelli Matematici: un percorso didattico costruttivo di approccio e di sviluppo, op. cit.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 77

PercorSi didattici

un’operazione successiva con una corrispondente data, qui calcoliamo i giorni come differenza fra la data attua-le (ottenuta con la funzione di Excel OGGI()) e la data dell’ultima operazione.Gli Interessi maturati sono stati calcolati con la legge di capitalizzazione semplice (1) dove t è espresso in frazio-ne di anno: t = gg/365 (Figura 5).

Figura 5. Calcolo degli interessi maturati.

Al crescere del numero di operazioni effettuate sul con-to, senza l’utilizzo di uno strumento di calcolo automa-tico come Excel, occorrerebbe effettuare un gran nume-ro di operazioni matematiche, con grande dispendio di tempo e con il rischio di commettere errori di calcolo: il foglio di lavoro agevola notevolmente il compito per-mettendo di sfruttare intensivamente le funzionalità di copia e incolla delle formule e consentendo anche di rendere i calcoli più “dinamici” grazie all’uso consape-vole ed efficace delle funzioni logiche.Il primo giorno dell’anno nuovo, occorre inserire un movimento di accredito degli interessi relativi a quel-lo precedente. Tale campo è calcolato sommando alla giacenza gli Interessi maturati durante l’anno appena trascorso (Figura 6).

Figura 6. Accredito degli interessi ed adeguamento del tasso.

Nel caso di adeguamento del tasso d’interesse, inseria-mo un movimento fittizio, cioè d’importo uguale a 0 e all’interno di esso variamo il tasso di interesse impo-standolo al nuovo valore (Figura 6).Consideriamo ora il caso in cui la capitalizzazione degli interessi avvenga invece trimestralmente, come avviene normalmente nella gestione dei conti correnti.

Partendo dal foglio che è stato appena costruito, vedia-mo come occorre variarlo. Alla fine di ogni trimestre occorre inserire un movimento di accredito (o addebito, in caso di giacenze negative) degli interessi maturati: questi ultimi vanno ad aumentare (o diminuire) la gia-cenza a partire dal primo giorno del trimestre successi-vo e sono quindi essi stessi produttori di nuovi interessi.Il foglio di lavoro che rappresenta una situazione di que-sto tipo viene riportato in Figura 7.

Figura 7. Gestione complessiva nel caso di capitalizzazione trimestrale.

Una situazione un po’ più complessa potrebbe essere quella in cui il tasso d’interesse viene fornito su base trimestrale (anziché annua) e si vuole utilizzare diretta-mente tale tasso nel calcolo degli interessi sulle giacen-ze: in questo caso, pur essendo molto simile la struttura globale del foglio di lavoro, per essere precisi occorre determinare il numero di giorni effettivamente contenu-ti in ciascun trimestre. A questo scopo si può calcolare in apposite celle la durata di ogni trimestre come differen-za fra la data del primo giorno del trimestre successivo e quella del primo giorno del trimestre in esame: nella formula (1) per il calcolo degli interessi, come tasso i si fa riferimento al tasso trimestrale, mentre come tempo t si inserisce il rapporto fra i giorni di giacenza calcolati e i giorni di effettiva durata del trimestre determinati nella tabella a parte (Celle J3:M7). Si veda la Figura 8.

Figura 8. Calcolo dettagliato delle durate dei periodi di capitalizzazione.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458278

PercorSi didattici

Riquadro 1Attività 1Realizzare il grafico a gradini della giacenza presente sul conto consideran-do ogni movimento, positivo o negativo, effettuato su di esso.SviluppoPoiché Excel non dispone di un tipo di funzione che permetta di realizzare in modo semplice e veloce un grafico a gradini, occorre utilizzare lo stru-mento barre di errore per la sua creazione. Le barre di errore (orizzontali e verticali) permettono infatti, a partire dai punti individuati su un grafico a dispersione, di disegnare segmenti di retta orizzontali e/o verticali di lunghezza pari ad un dato errore, calcolato con formule predefinite (tipi-camente quelle fornite dalla statistica descrittiva) o con valori scelti dall’u-tente e calcolati all’interno di celle del foglio di lavoro. Per ogni punto si possono così determinare, in apposite celle, i corrispondenti errori (che in questo contesto assumono il significato di intervalli temporali, sull’asse orizzontale, e differenze di giacenza, sull’asse verticale): per l’asse oriz-zontale si dispone già dei dati nella colonna Giorni, mentre per l’asse ver-ticale occorre individuare un nuovo intervallo in colonna (J4:J13) in cui si calcola la differenza fra la giacenza attuale e quella corrispondente al mo-vimento precedente (calcolo che non si farà dunque per il primo punto che non dispone di un valore precedente). La situazione è mostrata in Figura 9.

Figura 9. Calcolo delle differenze di giacenza.

Dal punto di vista grafico, quello che s’intende realizzare è mostrato in Figura 10, dove in nero è stato creato il grafico a dispersione e in grigio sono stati indicati gli errori orizzontali e verticali relativamente ai primi tre punti (movimenti) da rappresentare nel grafico a gradini. Il primo punto ha solo errore orizzontale, per quanto già detto, mentre gli altri due hanno sia errore orizzontale che verticale: gli errori orizzontali van-no sempre considerati come positivi, poiché ogni nuovo punto rappre-senta un movimento di conto che avviene in una data successiva rispetto al precedente, quindi sull’asse orizzontale il nuovo punto si troverà sem-pre a destra del precedente; gli errori verticali sono sempre considerati come negativi, infatti ogni nuovo punto si deve collegare verticalmente al grafico proveniente dal punto precedente muovendosi verso il basso nel caso di nuova giacenza più alta (e quindi differenza di giacenza posi-tiva), mentre si deve collegare muovendosi verso l’alto nel caso di nuova giacenza più bassa (e quindi differenza di giacenza negativa).

Figura 10. Errori verticali ed orizzontali relativi a ciascun movi-mento di conto.

Si può quindi creare il grafico a dispersione (con linee dritte) a par-tire dagli intervalli C4:C13 ed E4:E13 con l’apposito menù di Excel e si ottiene il grafico in nero di Figura 10. A questo punto si deve selezionare la curva sul grafico e aggiungere le barre di errore (X e Y) dal menù Layout di Excel, pulsante Barre di errore, sceglien-do poi Barre di errore con errore standard, ottenendo la situazione mostrata in Figura 11.

Figura 11. Inserimento di tutte le barre di errore.

Le barre di errore vanno poi personalizzate in base alle esigenze del grafico che si vuole ottenere, specificando gli errori per l’asse oriz-zontale, contenuti nell’intervallo F4:F13 e quelli per l’asse verticale, contenuti nell’intervallo J4:J13. Per fare ciò, si selezionano prima le barre orizzontali, poi dal menù Layout, pulsante Barre di errore, Altre opzioni barre di errore, si imposta la Direzione a Positivo, lo Stile fine a Cornice stretta, l’Intervallo di errore a Personalizzato, indicando l’intervallo F4:F13; la stessa cosa si deve fare per le barre verticali, prima selezionandole, poi dal menù Layout, pulsante Bar-re di errore, Altre opzioni barre di errore, si imposta la Direzione a Negativo, lo Stile fine a Cornice stretta, l’Intervallo di errore a Personalizzato, indicando l’intervallo J4:J13. Ora occorre cancellare il grafico a dispersione creato inizialmente, selezionandolo, cliccan-do con il pulsante destro del mouse, scegliendo la voce del menù a tendina Colore linea impostandolo a Nessuna linea. In questo modo rimane il solo grafico formato dalle barre di errore, che corrisponde al grafico a gradini cercato, come mostrato in Figura 12 (dove sono stati modificati i valori massimo e minimo della scala, il colore e lo spessore delle barre del grafico, e sono stati effettuati altri migliora-menti di tipo estetico).

Figura 12. Grafico a gradini che rappresenta l’andamento della gia-cenza.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 79

PercorSi didattici

Anche in questo caso risulta assai preziosa ed efficace la fun-zione, implementata dal foglio di calcolo, che permette di de-terminare l’intervallo temporale (in giorni) che intercorre fra due qualsiasi date e che si può esprimere come semplice dwif-ferenza fra le date stesse: tali calcoli, prima della disponibilità dei software di calcolo automatico risultavano assai onerosi e comportavano notevoli rischi di errore.

Un percorso didattico in laboratorio informaticoA partire dal modello e dal foglio costruito, che può essere realizzato dagli studenti sotto la guida e con la supervisio-ne del docente, possono essere sviluppati due approfondi-menti, da proporre agli alunni per una implementazione in autonomia all’interno del laboratorio informatico, secondo le indicazioni riportate nel Riquadro 1 e nel Riquadro 2.

Si è mostrata un’applicazione pratica d’integrazione tra Mate-matica Finanziaria e foglio elettronico in una soluzione ope-rativa utilizzabile anche da un utente sprovvisto di nozioni

finanziarie. Si è anche evidenziato come, per raggiungere tale scopo, occorra avvalersi di competenze tecniche, anche avanzate, relative a Excel. Si è inoltre utilizzato lo strumento informatico per effettuare sperimentalmente confronti nu-merici tra modelli correlati, verificandone le proprietà. Dal lato più strettamente didattico-curriculare, l’implemen-tazione informatica di un modello matematico s’inserisce nell’approccio problem solving fortemente promosso dal MIUR nell’ottica della modernizzazione e qualificazione della didattica. Si è inoltre sviluppato un duplice percor-so didattico per gli studenti, da affrontare in autonomia all’interno del laboratorio informatico, a partire dal foglio di lavoro proposto: tale percorso può essere efficacemente svolto in un Istituto Tecnico o in un Liceo Scientifico, in particolare all’interno di un indirizzo di Scienze Applicate, in coordinamento con il docente di Informatica.

Luca Barzanti – Università di BolognaStefania Fabbri – Docente Scuola Secondaria di Secondo Grado

Alessandro Pezzi – Università di Bologna

Riquadro 2Attività 2Ricordando la formula del fattore di montante in regime esponenziale3, ovvero

f(t) = (1 + α)t con α ≥ 0,

e quella della convenzione lineare (2) vista in precedenza, inserire in una tabella i valori del montante generato dall’investimento di un capitale di 1.000 € a partire dall’epoca 0 e fino all’epoca 4 anni, ad intervalli perio-dici di 3 mesi (0,25 anni), con convenzione sia esponenziale sia lineare, sapendo che il tasso d’interesse applicato è del 80%. Si rappresentino poi con un grafico a dispersione le due curve corrispondenti a ciascun tipo di convenzione adottata.SviluppoL’utilizzo della (2) su una singola somma di denaro semplifica l’imple-mentazione in Excel riguardo alla gestione dinamica dei versamenti e dei prelievi, rendendo agevole il confronto computazionale tra i modelli in convenzione lineare ed esponenziale. Per rendersene conto, è sufficiente paragonare a posteriori l’articolazione del foglio rispetto a quanto realizzato in precedenza. Ciò consente di concentrare l’attenzione anche sul confronto grafico diretto tra il comportamento dei due modelli. L’utilizzo di un tasso di interesse estremamente elevato è effettuato al solo scopo di enfatizzare graficamente le differenze tra i due modelli.Per prima cosa s’inseriscono in apposite celle del foglio di lavoro l’importo del Capitale investito (cella B1), il Tasso d’interesse applicato (cella B2) e tutte le epoche (intervallo di celle A4:A20), per ciascuna delle quali si cal-colerà il montante corrispondente in entrambe le convenzioni. In seguito, a partire dalla cella B4 e fino alla B20, si calcolano i montanti relativi al regime esponenziale, mentre a partire dalla cella C4 e fino alla C20 si cal-colano i montanti relativi alla convenzione lineare. Per l’implementazione di quest’ultima, nella formula si utilizza la funzione matematica di Excel ARROTONDA.DIFETTO, a cui occorre passare come primo argomento il numero da arrotondare e come secondo argomento la cifra decimale a cui effettuare il troncamento (1 per arrotondare all’unità, 0,1 per arrotondare alla prima cifra, 0,001 alla seconda, ecc.). Si veda la Figura 13.

Figura 13. Calcolo del montante con regime esponenziale e con con-venzione lineare.

Si utilizza quindi il trascinamento per calcolare tutti i montanti richiesti.A partire dalla tabella così ottenuta si rappresentano all’interno dello stes-so grafico a dispersione le due curve richieste. Per i dettagli sulla compo-sizione di grafici in Excel4. Si ottiene così quanto mostrato in Figura 14.

Figura 14. Grafico dei montanti in regime esponenziale ed in con-venzione lineare.

Come si evince dal grafico ottenuto, si può notare come la convenzione lineare sia rappresentata da una linea spezzata, con i vertici giacenti sul-la curva esponenziale: ogni tratto è un segmento di retta (da qui il nome di convenzione lineare) che sovrasta la curva esponenziale, mentre in corrispondenza delle epoche intere i due grafici risultano coincidenti.Il grafico mostra dinamicamente (cioè al variare della scadenza) come varia il montante nel caso delle due convenzioni. In corrispondenza di una determinata epoca non intera (ad esempio 2,5 anni) in realtà si può pensare la convenzione lineare come applicata nel solo tratto compreso fra la scadenza non intera e la precedente scadenza intera, ovvero l’ul-timo punto in cui i montanti delle due convenzioni coincidevano (nel caso specifico l’epoca 2 anni): un esempio di ciò è stato precedentemente mostrato in Figura 1. Si noti come la differenza tra le somme di denaro ottenute nei due modelli sia non trascurabile e risulti massima in corri-spondenza della zona centrale dell’intervallo fra due scadenze intere, come si può vedere anche nel caso di tasso d’interesse pari al 5%. In corrispondenza della scadenza 2,5 anni la differenza è dell’ordine di qualche decina di centesimi di euro e risulta non rilevabile graficamente, mentre è apprezzabile dal punto di vista operativo.

3. Ibidem.4. L. Barzanti - A. Pezzi, Matematica Finanziaria. Manuale operativo con Appli-cazioni in Excel, op. cit., pp. 147-148.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458280

PercorSi didattici

A volte tornanoL’epigenetica e la riabilitazione del lamarckismo (1)Saverio Mauro Tassi

negli ultimi deCenni le teorie di Jean-baptiste lamarCk stanno tornando in auge, perChé e in Che modo Ciò può influenzare la biologia Contemporanea? il primo artiColo della serie propone una rivisitazione CritiCa delle teorie di lamarCk e darwin.

Un fantasma si aggira nei laboratori dei biologi evoluzionisti. È il fantasma del lamarckismo. Fuor di metafora, e di citazione, negli ultimi due

decenni, un numero sempre più ampio di evidenze spe-rimentali – acquisite soprattutto nell’ambito dell’epige-netica, la scienza della regolazione dell’espressione ge-nica – sembra stia mettendo in discussione il paradigma dominante della biologia contemporanea, la cosiddetta “Sintesi moderna”, ispirata a Charles Darwin (1809-1882), e sembra rilanciare alcune delle tesi fondamentali della prima teoria scientifica dell’evoluzione1, quella del francese Jean-Baptiste de Lamarck (1774-1829). Stiamo assistendo al ritorno di una teoria data per defi-nitivamente morta già almeno un secolo fa? Siamo alla vigilia, in ambito biologico, di una rivoluzione scientifica che porterà al superamento del paradigma darwiniano? Se così fosse, quale nuova teoria potrebbe emergere? E non è possibile, invece, che si affermi un pluralismo teorico?Senza pretesa di esaustività, i tre articoli tentano di dare una risposta ragionata a queste domande attraverso un percorso che parte da una rivisitazione critica delle teo-rie di Lamarck e Darwin e delle loro versioni successive, per poi passare alla descrizione di alcune delle più re-centi scoperte sperimentali nell’ambito dell’epigenetica e all’esposizione del dibattito che esse hanno suscitato nella comunità scientifica dei biologi e concludersi, in-fine, – dopo un’incursione nella filosofia della scienza – con la prospettazione di possibili nuovi scenari scien-tifici ed epistemologici cui questo dibattito potrebbe condurre nei prossimi anni.

La “Sintesi moderna” e il “dogma centrale” Comunemente, la teoria oggi dominante nell’ambito bio-logico viene denominata “neodarwinismo”. Tuttavia, volendo essere precisi, essa, come vedremo in dettaglio più avanti, andrebbe chiamata Sintesi moderna in quan-to si tratta di un ulteriore sviluppo, avvenuto nei primi

decenni del Novecento, della prima teoria neodarwinista elaborata negli ultimi decenni dell’800. In altre parole, la Sintesi moderna andrebbe semmai considerata un “neo-neodarwinismo” ovvero un secondo neodarwinismo2.Fatta questa doverosa precisazione, veniamo al dunque. La Sintesi moderna afferma che nessun organismo vi-vente può trasmettere ereditariamente ai discendenti i caratteri acquisiti, cioè le modificazioni avvenute nel proprio fenotipo nel corso della sua vita in base all’in-terazione con l’ambiente. Secondo la teoria neoneo-darwinista, infatti, il genotipo, codificando i diversi tipi di proteine, determina la costituzione e lo sviluppo del fenotipo, senza alcuna possibilità di retroazione dal mo-mento che nessuna proteina può causare cambiamenti nei geni3. In altre parole, per la Sintesi moderna, il ge-noma è impermeabile ai cambiamenti fenotipici e si tra-smette alla prole di ogni organismo senza subire alcuna alterazione da parte di fattori esogeni. Ciò non significa che il genoma non muti, ma le sue mu-tazioni, secondo la Sintesi moderna, sono del tutto en-dogene e casuali – perlopiù, ma non solo, errori di copia-tura del DNA –, cioè non sono indotte dall’interazione con l’ambiente, e soltanto in uscita, cioè solo nella loro espressione fenotipica, subiscono l’azione dell’ambiente, ovvero sono selezionate positivamente o negativamente

1. Anche se Lamarck non usò i termini “evoluzione” o “evolvere”, bensì “trasformazione” e “trasformare”, tanto che la sua teoria viene anche de-nominata “trasformismo”. Peraltro anche Darwin inizialmente non usò il termine “evoluzione” e preferì chiamare la sua teoria “della discendenza con modificazioni”. Fu il filosofo Herbert Spencer (1820-1903) a lanciare e im-porre i termini “evoluzione” ed “evoluzionismo” che, in un secondo momen-to, adottò anche Darwin.2. L. Galleni, Darwin, Teilhard de Chardin e gli altri… Le tre teorie dell’e-voluzione, Felici Editore, San Giuliano Terme 2010, p. 52.3. «La biologia molecolare ha anche chiarito che le informazioni hanno un flusso unidirezionale: possono cioè essere trasferite solo dagli acidi nucleici alle proteine, non viceversa. Questo è il motivo per cui non può darsi alcuna ereditarietà dei caratteri acquisiti.» (E. Mayer, L’unicità della biologia, Raffaele Cortina, Milano 2005, p. 129; edizione originale: What Makes Biology Unique. Considerations on the Autonomy of a Scientific Discipline, 2004, Ernst Mayer).

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 81

PercorSi didattici

in base al criterio della “riproduzione differenziale”, cioè della maggiore efficacia ( fitness) riproduttiva. Mutazio-ni endogene casuali del genotipo più successiva selezio-ne naturale del fenotipo in base alla sua interazione con l’ambiente, questa in breve la ricetta neoneodarwiniana dell’evoluzione biologica4. Su queste basi, la tesi della non ereditarietà dei caratteri fenotipici acquisiti nell’arco di una vita è considerata “il dogma centrale”5 della Sintesi moderna, a sancirne il carattere indiscutibile.Tanta perentorietà non si spiegherebbe se non tenessimo conto che la teoria dell’evoluzione proposta da Charles Darwin a partire dal 1859, anno di pubblicazione dell’O-rigine delle specie, fu in realtà preceduta da quella di Je-an-Baptiste de Lamarck (1774-1829), resa nota nel 1809 con l’opera Philosophie zoologique. Il “dogma centrale” della Sintesi moderna, infatti, si contrappone intenzional-mente alla teoria dell’evoluzione di Lamarck, la quale si impernia proprio sull’ereditarietà dei caratteri acquisiti.

Le giraffe di LamarckLamarck aveva teorizzato la presenza in ogni essere vi-vente di una forza interna che spinge al perfezionamen-to6, da lui inteso come un incremento di complessità. Ciò, secondo Lamarck, è attestato empiricamente dalla classificazione delle specie viventi, che rivela un livello di organizzazione crescente. La tendenza al perfeziona-mento si manifesta allorché un mutamento dell’ambiente esterno fa emergere un nuovo bisogno che a sua volta cau-sa un «nuovo movimento organico» volto a soddisfarlo utilizzando al meglio le risorse dell’ambiente7. Su questa base, secondo Lamarck, il fattore decisivo dell’evoluzio-ne, cioè della varietà e del cambiamento delle specie, è il maggior o minor esercizio di alcuni organi, ovvero di

alcune parti del corpo, da parte degli individui viventi. L’uso o il disuso di un organo, infatti, lo sviluppa, o lo riduce, comunque lo modifica. Questa modificazione, se-condo Lamarck, viene trasmessa ereditariamente da un organismo alla propria prole, che a sua volta modificherà ulteriormente l’organo attraverso il suo esercizio, o il suo mancato esercizio, e lo trasmetterà alla propria progenie ancora più nettamente modificato8, e così via fino a quan-do il cambiamento assume, per graduale accumulazione, dimensioni tali da configurarsi come una netta mutazione dando origine a una nuova specie.L’esempio paradigmatico usato da Lamarck è quello del-la genesi della specie delle giraffe per mutazione di una specie antecedente dotata di collo e zampe più corti. Se-condo Lamarck, data la scarsità di erba nel loro ambiente arido, alcuni individui appartenenti a questa specie, per procurarsi più cibo, sarebbero stati spinti a mangiare le foglie degli alberi, e via via quelle sempre più in alto – più abbondanti proprio perché più difficili da raggiunge-re – e così si sarebbero sforzati di allungare quanto più possibile gambe anteriori e collo. Il continuo esercizio di allungamento, da un lato, avrebbe garantito una maggiore alimentazione a queste prime protogiraffe, e quindi mag-giori chance di sopravvivenza e riproduzione, dall’altro

4. E. Mayer, L’unicità della biologia, op. cit., p. 131.5. L’espressione, di registro metaforico, ma non per questo meno significati-va, fu coniata nel 1958 dal premio Nobel Francis Crick, uno degli scienziati che scoprirono la struttura a doppia elica del DNA.6. Secondo L. Galleni, Lamarck era influenzato dall’idea illuministica di progresso (L. Galleni, Darwin, Teilhard de Chardin e gli altri… Le tre teorie dell’evoluzione, op. cit., p. 29).7. J.-B. Lamarck, Filosofia zoologica, La Nuova Italia, Firenze 1976, p. 16.8. Ibi, pp. 154-155.

Charles Robert Darwin (Shrewsbury, 1809 – Londra, 1882).Jean-Baptiste Lamarck (Bazentin-le-Petit, 1744 – Parigi, 1829).

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458282

PercorSi didattici

avrebbe aumentato, seppur di poco, la lunghezza delle loro zampe anteriori e dei loro colli. L’aumento sarebbe poi stato trasmesso ai figli delle prime protogiraffe, che a loro volta, seguendo l’esempio dei genitori, avrebbero ulteriormente allungato i propri colli e gambe anteriori, lasciandoli in eredità alla propria prole. In questo modo, nel corso dei secoli, di generazione in generazione, milli-metro dopo millimetro, colli e zampe anteriori delle pro-togiraffe avrebbero raggiunto le dimensioni delle attuali giraffe dando così origine a una nuova specie.Indubbiamente, dunque, la tesi dell’ereditarietà dei ca-ratteri acquisiti costituiva il perno della teoria dell’e-voluzione di Lamarck. Non dobbiamo però credere che tale tesi fosse stata introdotta da Lamarck o che fosse sostenuta solo da lui o comunque da un ristretto grup-po di biologi. Al contrario, per tutto l’Ottocento la tesi dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti fu una communis opinio, un’opinione largamente condivisa, tra i naturali-sti9. Darwin compreso, come vedremo più avanti.

I fringuelli di DarwinLa teoria dell’evoluzione proposta da Darwin cin-quant’anni dopo differiva da quella di Lamarck, ma non la rigettava del tutto, tutt’altro. Vediamo come e perché.Darwin, in primo luogo, non condivide il principio la-marckiano della presenza nella natura organica di una tendenza al perfezionamento e lo sostituisce con quello che potremmo chiamare “principio di varietà”, secondo il quale in tutti gli esseri viventi agisce una tendenza alla massima differenziazione che fa sì che alcuni individui di ogni nuova generazione di una specie presentino, ri-spetto alla generazione precedente, delle variazioni dei loro caratteri da considerarsi casuali, cioè non indotte dall’ambiente esterno né ereditate dai genitori. In secondo luogo, Darwin, riprendendo la teoria demo-grafica di Malthus10, sostiene che vi è sempre, per legge naturale, un’eccedenza degli individui procreati di una specie rispetto alle risorse che ne permettono la sussi-stenza e che, di conseguenza, tra gli individui si svilup-pa una lotta per l’esistenza (the struggle for life11) che ha come esito una “selezione naturale”, cioè l’eliminazione degli individui che possiedono le caratteristiche meno adatte a sopravvivere e a riprodursi, e la promozione, invece, degli individui che posseggono le caratteristiche più adatte alla sopravvivenza e alla riproduzione. In tal modo, solo le caratteristiche degli individui più adatti si trasmettono alla loro prole e di generazione in gene-razione, gradualmente, si diffondono sempre di più e si accumulano fino a originare una nuova specie.L’esempio paradigmatico della teoria darwiniana è quel-lo dei fringuelli delle isole Galapagos, che Darwin stu-diò a lungo nel corso del suo famoso viaggio intorno al

mondo sul brigantino Beagle. Pur vivendo in isole mol-to vicine, essi erano così diversificati che inizialmente Darwin credette fossero varie specie non solo di frin-guelli, ma anche di merli e di scriccioli. Per esempio, alcuni presentavano becchi corti e larghi; altri lunghi e sottili. I primi si nutrivano di noci, i secondi di cactus12. Secondo Darwin la popolazione di fringuelli, derivan-te da progenitori comuni, che per primi erano arrivati nelle Galapagos, era composta da individui con becchi casualmente differenziati dal momento che, per il “prin-cipio di divergenza”, nessun individuo è mai uguale a un altro; nell’isola dove prevalevano gli alberi di noce gli individui col becco più tozzo erano poi stati selezionati positivamente – cioè erano sopravvissuti più a lungo e si erano riprodotti maggiormente – in quanto erano più capaci di rompere il guscio delle noci e di cibarsi del gheriglio; per il motivo contrario, quelli con il becco più fine erano invece stati selezionati negativamente, ovve-ro erano sopravvissuti meno a lungo e si erano riprodotti in misura minore; alla lunga, gradualmente, i fringuelli con il becco sottile si erano estinti e si era formata la sot-tospecie dei fringuelli col becco tozzo. Nell’isola in cui prevalevano i cactus era avvenuto, invece, il processo contrario che aveva portato alla costituzione della sotto-specie dei fringuelli col becco sottile.In base a questa pur sintetica ricostruzione, dunque, possiamo concludere che la differenza fondamentale tra la teoria lamarckiana e quella darwiniana consiste nel fatto che la prima si impernia sulla trasmissione ereditaria dei caratteri somatici acquisiti causata dalle condizioni ambientali esogene, mentre la seconda sulla

9. AA.VV., Storia della scienza, Istituto Enciclopedia Treccani, Roma 2003, VII, p. 805.10. T.R. Malthus, Saggio sul principio della popolazione e i suoi effetti sul-lo sviluppo futuro della società, 1798. (Vd. L. Galleni, Darwin, Teilhard de Chardin e gli altri… Le tre teorie dell’evoluzione, op. cit., p. 50).11. Il titolo completo della maggior e più famosa opera di Darwin è infatti: On the origin of species by means of natural selection or the preservation of favou-red races in the struggle for life (Sull’origine delle specie dovuta alla selezione naturale o la conservazione delle razze favorite nella lotta per l’esistenza).12. C. Zimmer, Le infinite forme. Un’introduzione alla biologia evoluzioni-stica, Zanichelli, Bologna 2013, p. 34. Più precisamente, Darwin classificò quattro diverse specie con quattro becchi diversi, ma per i nostri fini esem-plificativi è sufficiente considerarne due.

L’evoluzione delle giraffe secondo Lamarck e secondo Darwin.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 83

PercorSi didattici

trasmissione ereditaria delle variazioni casuali endoge-ne dei caratteri somatici selezionate positivamente nel corso della “lotta per la sopravvivenza”.

Darwin versus LamarckMolti testi, per lo più ma non solo manualistici, presen-tano la teoria darwiniana dell’evoluzione come del tutto antitetica a quella di Lamarck, negando o comunque met-tendo in ombra le loro convergenze o addirittura trasfor-mandole in divergenze. Per esempio, spesso viene taciuto o solo accennato13 che Darwin, accanto alla selezione na-turale, non solo ammetteva un ruolo evolutivo anche per l’uso e il disuso degli organi e la trasmissione ereditaria dei caratteri acquisiti per via esogena ma addirittura ela-borò una teoria – detta “pangenesi” – per spiegare scienti-ficamente come potesse avvenire tale ereditarietà14.Soprattutto, molto spesso l’evoluzionismo lamarckiano viene giudicato finalistico e, come tale non scientifico, in contrapposizione a quello rigorosamente meccanicistico di Darwin, che invece, come tale, sarebbe l’unico degno di es-sere considerato scientifico. La questione è spinosa perché al termine “finalismo” (o “teleologia”) sono stati attribuiti nel corso della storia della filosofia e del pensiero scientifi-co diversi significati, legati a diverse interpretazioni.Sicuramente, se per finalismo/teleologia si intende la con-cezione per cui tutti gli enti e i processi naturali sono indi-rizzati necessariamente, da una sostanza divina generatrice o creatrice del cosmo, al conseguimento di un obiettivo eti-camente superiore, e in ultima analisi sovrannaturale, non sembra proprio si possa sostenere che la teoria dell’evolu-zione di Lamarck sia finalistica. Come tutte le sue biografie attestano, infatti, Lamarck era un illuminista materialista e meccanicista, convinto che tutti i fenomeni naturali, quel-li organici tanto quanto quelli inorganici, dovessero essere spiegati in base a leggi fisiche di tipo causale.

In particolare, per quanto riguarda gli esseri viventi, La-marck, nella Philosophie zoologique, spiega i cambia-menti somatici sulla base di una catena di cause ed ef-fetti che si differenzia parzialmente a seconda del grado di complessità degli organismi: nel caso degli organismi meno complessi, il mutamento ambientale causa imme-diatamente dei cambiamenti somatici; nel caso degli or-ganismi più complessi, causa l’emergere di nuovi bisogni, che li stimolano ad adottare per soddisfarli nuovi com-portamenti che a loro volta causano le modificazioni so-matiche15. Anche la modalità specifica in base alla quale gli organismi mutano i loro corpi, in seguito agli stimoli ambientali, è spiegata da Lamarck in termini meccanici-stici: negli esseri viventi agiscono dei “fluidi nervosi” che sono capaci di permeare e modellare i tessuti16. Come non bastasse, Lamarck spiega le sensazioni coscienti come nient’altro che il prodotto di processi organici17.È senz’altro vero che Lamarck credeva nell’esistenza di Dio, ma la sua, come quella della maggior parte degli

13. Cf. Ibidem. Un altro caso è quello della Prefazione di Giuseppe Monta-lenti alla ristampa anastatica del 1982 dell’Origine delle specie pubblicato nel 1864 da Zanichelli: vi si legge che «Darwin rifiuta l’ipotesi lamarckiana dell’azione diretta dell’ambiente come causa di evoluzione» (p. VII), mentre Darwin l’accetta seppur parzialmente (vedi nota successiva). Ma anche E. Mayer in L’unicità della biologia, op. cit., che però nell’Introduzione del 1964 a On the Origin of Species: A Facsimile of the First Edition, Harvard Uni-versity Press, aveva scritto: «Curiously few evolutionists have noted that, in addition to natural selection, Darwin admits use and disuse as an important evolutionary mechanism. In this he is perfectly clear».14. C. Darwin, L’origine delle specie, cap. V, in cui tra l’altro si può leggere: «Sulla base di quanto menzionato nel primo capitolo, penso che vi possano es-sere ben pochi dubbi sul fatto che nei nostri animali domestici l’uso rinforza e ingrandisce certe parti, mentre il disuso le fa diminuire, e che talimodificazioni sono ereditarie» (C. Darwin, L’origine delle specie, Rizzoli, Milano 2009, p. 148).15. J.-B. Lamarck, Filosofia zoologica, op. cit., p. 147.16. «Secondement, en réfléchissant sur le pouvoir du mouvement des fluides dans les parties très-souples qui les contiennent, je fus bientôt convaincu qu’à mesure que les fluides d’un corps organisé reçoivent de l’accélération dans leur mouvement, ces fluides modifient le tissu cellulaire dans lequel ils se meuvent, s’y ouvrent des passages, y forment des canaux divers, enfin, y créent différens organes, selon l’état de l’organisation dans laquelle ils se trouvent. D’après ces deux considérations, je regardai comme certain que le mouvement des fluides dans l’intérieur des animaux, mouvement qui s’est progressivement accéléré avec la composition plus grande de l’organisation; et que l’influence des cir-constances nouvelles, à mesure que les animaux s’y exposèrent en se répand-ant dans tous les lieux habitables, furent les deux causes générales qui ont amené les différens animaux à l’état où nous les voyons actuellement» (J.-B. Lamarck, Philosophie zoologique, Avertissement, in Oeuvres et rayonnement de Jean-Baptiste Lamarck, http://www.lamarck.cnrs.fr/index.php?lang=fr; in italiano: J.-B. Lamarck, Filosofia zoologica, op. cit., p. 5).17. «En effet, persuadé qu’aucune matière quelconque ne peut avoir en pro-pre la faculté de sentir, et concevant que le sentiment lui-même n’est qu’un phénomène résultant des fonctions d’un système d’organes capable de le pro-duire, je recherchai quel pouvoit être le mécanisme organique qui peut don-ner lieu à cet admirable phénomène, et je crois l’avoir saisi. En effet, persuadé qu’aucune matière quelconque ne peut avoir en propre la faculté de sentir, et concevant que le sentiment lui-même n’est qu’un phénomène résultant des fonctions d’un système d’organes capable de le produire, je recherchai quel pouvoit être le mécanisme organique qui peut donner lieu à cet admirable phénomène, et je crois l’avoir saisi» (J.-B. Lamarck, Philosophie zoologique; in italiano: J.-B. Lamarck, Filosofia zoologica, op. cit., p. 6).I fringuelli di Darwin.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458284

PercorSi didattici

illuministi, era una credenza deistica18, cioè puramente razionale, che concepiva Dio come la causa prima dell’u-niverso fisico19. In tal senso, la fede di Lamarck non diffe-riva da quella di Newton, il quale, come noto, dedicò uno Scolio di Philosophiae Naturalis Principia Mathematica (1687) alla dimostrazione dell’esistenza di Dio come cau-sa prima della materia e del moto, ovvero dei costituenti fondamentali dell’universo fisico. Per Newton, come per Lamarck, il deismo si conciliava completamente con una visione materialistico-meccanicistica, e dunque del tutto immanentistica, della natura20. Le leggi biologiche, teo-rizzate da Lamarck, da questo punto di vista, erano da lui concepite come leggi causali meccaniche tanto quanto la legge di gravitazione universale di Newton.

Lamarck teorizzava una natura finalistica?Ci sembra di aver sufficientemente documentato che Lamarck basava i suoi studi su un’impostazione mate-rialistico-meccanicistica e che pertanto il suo evoluzio-nismo non può essere sensatamente ascritto a un finali-smo trascendente e intenzionale, quello, per intenderci, della tradizione scolastica.È indubbio però – l’avevamo già prospettato nella presen-tazione del suo pensiero – che Lamarck, nella Philosophie zoologique ma anche in altre sue opere, usi spesso il ter-mine «perfezionamento» (perfectionnement), espressio-ni come «cammino della natura» (marche de la nature), «causa che tende incessantemente a rendere più complessa l’organizzazione»21, «l’evidente progressione nella compli-cazione dell’organizzazione»22, nonché periodi quale «[…] componendo e complicando sempre più l’organizzazione animale, la natura ha creato progressivamente i diversi organi speciali, nonché le facoltà di cui gli animali godo-no»23. Si tratta di finalismo? Se sì, di quale sorta di finali-smo, visto che abbiamo scartato l’ipotesi di un finalismo trascendente? Per rispondere a queste domande, occorre approfondire l’analisi del pensiero di Lamarck.Innanzitutto, va rilevato che Lamarck non attribuisce al termine «perfezionamento» una valenza qualitati-vo-morale ma lo concepisce in termini naturali, come un incremento di complessità, ovvero di organizzazio-ne, del tutto immanente e misurabile quantitativamente. In secondo luogo, va ribadito che il «perfezionamento» per Lamarck ha la sua causa originaria nell’influenza esercitata dall’ambiente naturale sugli organismi e che Lamarck spiega la modificazione degli organi, in base al loro uso o disuso, in termini meccanicistici, cioè in base all’azione causale di un «fluido nervoso» interno regolato dalle leggi della meccanica dei fluidi. Per non dire della trasmissione ereditaria dei caratteri acquisiti, chiaramente proposta come la causa efficiente ultima e diretta dell’e-voluzione. Possiamo confermare, dunque, che Lamarck

non teorizza alcun fine esterno agli esseri viventi, alcuna causa finale superiore o trascendente di spiegazione del processo evolutivo, alcun disegno provvidenziale che lo guidi. Le cause dell’evoluzione, secondo Lamarck, sono del tutto interne agli organismi e sono cause efficienti24.Tuttavia, andando più in profondità nell’esame dei suoi scritti, emerge chiaramente che Lamarck attribuisce a tut-ti gli organismi viventi in quanto tali una predisposizione non solo e non tanto a reagire agli stimoli ambientali, ma a reagirvi nel miglior modo possibile, cioè aumentando la loro organizzazione ovvero non solo e non tanto mo-dificandosi in modo neutro ma anche e soprattutto per-fezionandosi. In questo senso l’evoluzione, per Lamarck, sembrerebbe un processo di perfezionamento continuo e pertanto sembrerebbe inevitabile interpretarlo come un

18. A.S. Packard, Lamarck, the Founder of Evolution, Wildhern Press, 2008 (I edizione 1901), pp. 217-222; J.R. Moore, The Post-Darwinian Controversies: A Study of the Protestant Struggle to Come to Terms with Darwin in Great Britain and America 1870-1900, Cambridge University Press, Cambridge 1981, p. 344.19. M. Ruse, The Darwinian Revolution: Science Red in Tooth and Claw, University of Chicago, Chicago 1999, p. 11; L. Galleni, Darwin, Teilhard de Chardin e gli altri… Le tre teorie dell’evoluzione, op. cit., p. 29. Vale la pena riportare un passo della pagina indicata dell’opera di Galleni: «Il Dio di Lamarck non è certo il Dio biblico o il Demiurgo, ma il principio motore che organizza la materia e poi si ritrae, lasciando che i viventi si formino grazie alle leggi e ai meccanismi dell’evoluzione, leggi che regolano una serie di cause che si svolgono nel tempo, come gli ingranaggi di un orologio».20. «Lamarck fu così ampiamente materialista da non considerare necessario ri-correre a qualsivoglia principio spirituale […] il suo deismo rimane vago e la sua idea di creazione non gli impedì di ritenere che tutto in natura, incluse le forme di vita più elevate, non fosse altro che il risultato di processi naturali» (J. Roger, The Mechanist Conception of Life, in D.C. Lindberg - R.L. Numbers, God and Nature: Historical Essays on the Encounter Between Christianity and Science, University of California Press, 1986, p. 291); «La vita per Lamarck è un feno-meno puramente fisico» (C. Gillispie, The Edge of Objectivity: An Essay in the History of Scientific Ideas. Princeton University Press, Princeton 1960, p. 272).21. J.-B. Lamarck, Filosofia zoologica, op. cit., p. 94.22. Ibidem, p. 16.23. Ibidem, p. 17.24. «Nonostante la terminologia, non vi è nulla di vitalistico o di finalistico in questa concezione, poiché la tendenza alla complicazione non può affatto essere considerata prescindendo dalla sua base nella meccanica dei fluidi. In Natura non c’è alcun progetto o fine: tutto avviene per una concatenazione necessaria di cause ed effetti» (Storia della scienza, op. cit., vol. VII, capitolo LXXVII a cura di Antonello La Vergata, p. 804). Ma vedi anche L. Galleni, Darwin, Teilhard de Chardin e gli altri… Le tre teorie dell’evoluzione, op. cit., p. 29: «Il Dio della ragione illuministica è il garante della funzionalità del meccanismo che si svolge nel tempo grazie a una precisa catena di cause».

Ernst Mayr (Kempten, 1904 – Bedford, 2005).

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 85

Percorsi DiDattici

finalismo se non di tipo trascendente, sicuramente di tipo immanente in quanto basato su una proprietà intrinseca della natura che si esplica in modo materialistico-mec-canicistico e che fa sì che si muova verso una condizione migliore, cioè verso un fine impersonale e comunque na-turalisticamente connotato25.Tuttavia, non possiamo accontentarci di questa conclu-sione. Lamarck, infatti, subito ci spiazza con argomen-tazioni di questo tipo:

Se la causa che tende incessantemente a rendere più comples-sa l’organizzazione fosse la sola a influire sulla forma e sugli organi degli animali, il crescente complicarsi dell’organiz-zazione sarebbe dappertutto regolare. Ma ciò non si verifi-ca mai; la natura si trova costretta a sottomettere le proprie operazioni alle influenze delle circostanze che agiscono su di essa, e in ogni dove queste circostanze fanno variare gli effet-ti. Ecco la causa particolare che dà luogo qua e là […] alle de-viazioni spesso bizzarre che essa ci offre nel suo procedere26.

Come va interpretato questo brano in relazione a quan-to abbiamo guadagnato precedentemente? Proponiamo questa risposta: l’evoluzione per Lamarck si basa sull’in-terazione di due variabili, cioè i cambiamenti (climatici, tellurici, idrici, ecc.) dell’ambiente esterno e la capacità interna di autoperfezionamento (di incremento della pro-pria organizzazione) degli organismi27. La prima di que-ste due variabili sembra essere indipendente, nel senso che i mutamenti ambientali non sono determinabili, ov-vero sono assunti da Lamarck come casuali, se non a par-te obiecti sicuramente a parte subiecti, nel senso che la scienza non è in grado di individuarne le leggi. Ciò significa che per Lamarck il «perfezionamento» non solo è del tutto immanente e naturale ma è anche soltanto tendenziale, ovvero relativo. In altre parole, il progressivo aumento della complessità degli esseri vi-venti non è lineare, e tantomeno necessario; è tutt’altro che una marcia trionfale, completamente controllata da un fine certo intrinseco e impersonale ma comunque compiutamente razionale. Esso comporta irregolarità, scarti, deviazioni e anche regressi. Ne consegue che il finalismo di Lamarck non è solo immanente ma anche soltanto possibile, tendenziale, parziale. Inoltre, consi-derando che Lamarck si guarda bene dal delineare una meta finale del perfezionamento della natura, possiamo anche caratterizzare il suo finalismo come un finalismo asintotico, ovvero privo di una meta esistente e quindi raggiungibile; o anche come un finalismo potenziale, nel senso di un accrescimento continuo di organizzazio-ne che non consegue mai un grado massimo, compiuto e definitivo28. In questo senso, che una specie presenti un grado di organizzazione maggiore di un’altra preceden-te, ad esempio quella delle giraffe rispetto a quella dalla quale è derivata, lo si giudica per Lamarck in base al

punto di partenza, non in base a una meta finale. Il suo è, dunque, un finalismo a posteriori, non a priori.

L’apporto di Ernst MayrSe la nostra interpretazione è corretta, allora il finali-smo di Lamarck trova sorprendentemente riscontro in Ernst Mayr (1904-2005), una delle massime autorità della Sintesi moderna (o, come lui preferisce chiamar-la, della teoria sintetica dell’evoluzione29). Mayr, infatti, ha introdotto nella biologia evoluzionistica il concetto di “teleonomia”, in alternativa a quello tradizionale di teleologia, proprio per inquadrare precisamente lo spe-cifico finalismo del mondo organico. Egli afferma che: «Il fatto che i processi siano diretti a un fine è forse uno degli aspetti più caratteristici del mondo degli organismi viventi»30. Addirittura, a proposito dei comportamenti intenzionali, Mayr si autocritica per non averli prece-dentemente ammessi con queste parole:

Numerosi e recenti studi di etologia, però, mi hanno convinto di aver sbagliato. Il comportamento intenzionale chiaramente finalizzato è assai diffuso fra gli animali, in particolare fra i mammiferi e gli uccelli, e possiede tutte le carte in regola per essere definito teleologico31.

Poiché Mayr sostiene che la “teleonomia”, a differen-za della “teleologia”, non è in conflitto con la causalità, ma anzi si integra con essa32 – in quanto configura un finalismo non riconducibile a una causa finale data ma a una serie di cause efficienti, e pertanto non determina-bile a priori ma solo accertabile a posteriori33 – non mi sembra del tutto irragionevole interpretare il finalismo naturale e asintotico di Lamarck alla luce del concetto di teleonomia proposto da Mayr. Ma se così fosse, non si vede in cosa diverga – sotto questo specifico aspetto – il lamarckismo genuino dalla Sintesi moderna.

Saverio Mauro TassiLiceo “Albert Einstein”, Milano

25. Da questo punto di vista, si potrebbe ricondurre il finalismo lamarckiano a quello aristotelico della Fisica se non fosse che per Aristotele il fine ultimo del divenire naturale – il dio-motore immobile – è immateriale e perciò co-munque trascendente.26. J.-B. Lamarck, Filosofia zoologica, op. cit., pp. 94-95.27. Vedi l’Introduzione di Giulio Barsanti alla Filosofia zoologica (ibidem).28. Giulio Barsanti definisce la finalità teorizzata da Lamarck “finalità a breve termine” (J.-B. Lamarck, Filosofia zoologica, op. cit., p. XXXVI). 29. E. Mayr, L’unicità della biologia, Raffaele Cortina, Milano 2005, p. 132.30. Ibidem, p. 55.31. Ibi, p. 61. In questo caso Mayr si lascia sfuggire il termine “teleologico”, che prima aveva aspramente criticato per la sua ambiguità, anziché sostitu-irlo con “teleonomico”.32. Ibi, p. 56.33. Ibi, p. 62.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458286

lingue, culture e letterature

From Revolution to rebellion: George Orwell’s Animal FarmEmanuela Bossi

A revolution is certainly the most authoritarian thing there is; it is the act whereby one part of the population imposes its will upon the other part by means of rifles, bayonets and cannon — authoritarian means, if such there be at all; and if the victorious party does not want to have fought in vain, it must maintain this rule by means of the terror which its arms inspire in the reactionists.Friedrich Engels, On Authority (1872)1

In his letter to George Orwell, July 1944, Faber & Faber Editor T.S. Eliot wrote:

We agree that [Animal Farm] is a distinguished piece of writing: that the fable is very skilfully handled, and that the narrative keeps one’s interest on its own plane – and that is something very few authors have achieved since Gulliver. On the other hand, we have no conviction (and I am sure none of the other directors would have) that this is the right point of view from which to criticise the political situation at the present time2.

The publishers rejected Animal Farm on the basis that its Trotskyite orientation was not convincing, its com-munism too pure, «and after all, your pigs are far more intelligent than the other animals, and therefore the best qualified to run the farm»3. Orwell was well aware of the difficulty he would face in having the book published, because Stalin was depicted as a pig and a traitor, and that at a time when the USSR was Britain’s ally against Germany. Animal Farm was rejected four times before being eventually accepted and published by Secker and Warburg, London, in August 1945. It has become a worldwide favourite since. The centenary of the Russian Revolution, which hap-pens this year, might encourage teachers to engage, or re-engage, with Orwell’s satirical tale. Animal Farm is certainly less read in schools than Nineteen Eighty-Four, and has that quality of blending fable, politics, history (of communism, Russia, totalitarianism), that seem to meet the requirements for those “flexibility”, “multidiscipli-nary approach”, “personalisation”, and more, which have been the keystones of the Italian school legislating sys-tem (and by extension, teaching), for about two decades

now4. Orwell said that «Animal Farm was the first book in which I tried, with full consciousness of what I was do-ing, to fuse political purpose and artistic purpose into one whole»5. Animal Farm has been made into movies and adapted for radio, TV and the theatre equal. It has influ-enced rock music6. It is often included in the curriculum of junior and senior high schools in Britain and the US. It was also the first animation feature film to be produced in England, and I’d just like to start from here.

«On the evening our story begins»The opening scene of Animal Farm (1954)7, by John Halas and Joy Batchelor, is very much in the style of a typical Disney movie: the beautiful English countryside, with hills in the distance and the lovely blossoming tree with nest in the foreground. Yet, apart from this, it has noth-ing to do either with Snow White and the Seven Dwarfs (1937), Bambi (1942) or Alice in Wonderland (1951). The movie follows the plot quite closely. There are two main voices: Gordon Heath as the narrator and Maurice Den-ham as the voice of every animal (Old Major and Napo-leon’s being modelled on Churchill’s speeches on the ra-dio). The dialogue is limited: the story is told through the narrator and the animals’ movements and sounds, while orchestra music accompanies much of the action. The plot is well known: in Manor Farm, everything the animals produce is taken by the farmer, Mr. Jones, an

* For Fr. Romano Scalfi (1923-2016), who understood the dangers of ideol-ogy – and the irresistible power of human freedom too.1. The article was first published in Italian in Almanacco repubblicano per l’anno 1874, Lodi. The original manuscript has been mislaid. See https://www.marxists.org/archive/marx/works/1872/10/authority.htm.2. https://www.theguardian.com/books/2016/may/26/ts-eliot-rejection -george-orwell-animal-farm-british-library-online. The letter was first pub-lished online by the British Library in 2016.3. Ibidem.4. From https://archivio.pubblica.istruzione.it/argomenti/autonomia/documenti/legge59.htm, also known as “Legge Bassanini”, 1997, to the most recent “Buona scuola”: http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2015/07/15/15G00122/sg.5. In his essay Why I Write, published in the magazine Gangrel, London, in 1946. See http://orwell.ru/library/essays/wiw/english/e_wiw. 6. Pink Floyd’s concept album Animals (1977), for one.7. https://www.youtube.com/watch?v=dPFvWz1tO5o.

(a cura di Giovanni Gobber - Università Cattolica, Milano)lingue, culture e letterature

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 87

itinerari didattici Per le lingue Straniere

irresponsible drunkard who neglects his farm. Inspired by Major, an old pig, the animals start a rebellion and drive him away. A new life, based on the principle that “all animals are equal”, begins in what is now called “Animal Farm”. The animals work together to set up a new society. The leadership is in the hands of Snowball, a pink pig, who plans to build a windmill as a source of electricity, but when the boar Napoleon succeeds in taking the power, all ideals of equality are lost. The pigs don’t work but they receive more food because the new rule has become “all animals are equal, but some ani-mals are more equal than others”, while the other ani-mals realize that this is no different from living under Jones. It is here, incidentally, that the movie differs from the book: while Orwell has the animals look through the farm window unable to tell the difference between men and pigs, in the animated film all animals, led by Benja-min the donkey, rebel against Napoleon and his friends. It would be interesting to compare this film (which, it was widely speculated, was funded by the C.I.A.),8 with the Soviet cartoon series starring Cheburashka, the small brown-haired animal who fell asleep inside a box of or-anges, crossed the ocean and found himself living in a big city; time permitting, also to compare Cheburashka and his American counterpart, Mickey Mouse (both featuring big ears), against the background of the Cold War9.

Four legs good, two legs bad• Farmer Jones represents the last Russian Tsar, Nicho-

las II. Jones is incompetent and selfish and he is driv-en off Manor Farm by a spontaneous rising.

• Old Major is the prophet of the Revolution, but dies before it actually takes place. He is an idealist, a great orator, and he seems to represent both Marx and Lenin. Major also leads the animals in singing “Beasts of England”, a parody of the Communist “In-ternationale”. (The song is absent in the animation movie, though).

• Napoleon is the totalitarian leader. It is possible that Orwell chose the name because Bonaparte became Emperor of the French only a few years after the crash of all hopes for Liberty, Equality, Fraternity, and the Rights of Man, which had been embodied in the French Revolution. Like Stalin, Napoleon is present-ed as slower than his rival Snowball (Trotsky) and not particularly smart. Napoleon is sly: he takes over ideas from someone else, like in the case of Snowball’s plan for a windmill, which he makes his own. He knows how to build an apparatus for controlling and repress-ing others, as Stalin did. He uses assistants, such as Squealer, and trains dogs as his own guards.

• Snowball is clever, but he lacks the ability for intrigue which would allow him to keep the power, therefore turning into the ideal scapegoat, needed by every dic-tator. He is Trotsky, the founder of the Red Army.

• Squealer is Napoleon’s press office. In his perversion and twisting of the truth there is much of the techniques which Orwell would develop in Nineteen Eighty-Four as “Doublethink”. He represents totalitarian propagan-da, both Soviet (the Tupolev ANT-20, “the voice from the sky”) and Nazi (Goebbels and the “Big Lie”).

• The dogs are the secret police, the NKVD, which Sta-lin used to repress the population. Napoleon himself is responsible for their education, because they will turn into a weapon he could use against other animals.

• The sheep are the mindless masses, who can only bleat slogans in support of Comrade Napoleon.

• Boxer is an enormously strong horse, who performs prodigies of physical strength. He believes in the Revo-lution and coins two personal slogans: «I will work hard-er», and «Comrade Napoleon is always right». Yet he is not clever enough to protect himself against the dictator, and Napoleon will send him to the slaughterhouse.

• Benjamin is Boxer’s best friend, whose strength and dedication he respects. His pessimistic view about the outcome of the Revolution is similar to Orwell’s.

• The raven is the Orthodox Church. He leaves the farm with Jones but then comes back, accepted by the pigs.

• Mr. Pilkington of Foxwood and Mr. Frederick of Pinch-field represent Great Britain and Germany respectively.

8. http://www.telegraph.co.uk/books/authors/how-cia-brought-animal-farm-to-the-screen/. 9. I owe these explanations to Marcella Molteni, SELDA, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milan. Cheburashka has been quite a discovery to me (and, by extension, Russian animation film, and more). I wish to thank her here.

(a cura di Giovanni Gobber - Università Cattolica, Milano)itinerari didattici Per le lingue Straniere

George Orwell (1903-1950)

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458288

lingue, culture e letterature

The novelAs a fable, or “fairy story”, as Orwell called it, Ani-mal Farm has its roots in Aesop, the Bible, Dante’s al-legories, and Swift, to name just a few. But the book is also a history of communism. Though Orwell never uses the words Russia, Marx, Stalin, Lenin, Trotsky, his novels were banned in the USSR until the nineties, to-gether with, for example, Pasternak’s Doctor Zhivago or Bulgakov’s The Master and Margarita – both writ-ers that a secondary school student might be familiar with10. Animal Farm is also a history of Russia, from the Tsar to the Soviet Union. For example, the Battle of the Cowshed, when the animals succeed in defeating the humans, may refer to the German siege of Leningrad; the shortage of food reminds of a severe famine: maybe that of 1921, following the Revolution and the civil war, maybe that of 1932, after the forced collectivization of the land. The conflict over the windmill may symbolize the NEP, the New Economic Policy, the first Five-Year Plan (1928-1933), and the mechanization of agriculture, which proved a total failure. Stalin had also plans to re-vert the course of rivers and turn Siberia into a garden and the Arctic Ocean into a heated swimming pool. The British philosopher Bertrand Russell thus commented:

I read recently of an ingenious plan put forward by Russian engineers, for making the White Sea and the northern coasts of Siberia warm, by putting a dam across the Kara Sea. An admirable project, but liable to postpone proletarian comfort for a generation, while the nobility of toil is being displayed amid the ice-fields and snowstorms of the Arctic Ocean11.

As in many other cases before (e.g., the White Sea Ca-nal, opened in 1933), the workforce would have been provided for by GULag prisoners. At the deepest level, in fact, Animal Farm is also an ac-count of totalitarianism. When Hannah Arendt claimed that totalitarianism was a new form of government, the ul-timate tyranny, she was not speaking of German fascism or Russian communism in general, but of the particular forms of government developed under Hitler and Stalin. Her chief references, however, were to the Nazi govern-ment, perhaps because in 1951, the year The Origins of Totalitarianism was first published, more was known of Germany than of Russia, but also because she was Ger-man and experienced first-hand the rise of Nazism. «If Lawfulness is the essence of non-tyrannical government and lawlessness is the essence of tyranny, then terror is the essence of totalitarian domination»12. In totalitarian states the secret police (the Gestapo, the SS, the NKVD) destroy the internal and external enemies and neither warrants, nor stated reasons of any kind, are needed for arrests. Terror is different from fear, for in the grip of terror no

one knows what to fear, what to avoid, what constitutes a crime or even a mistake. Here are a few examples:• When the hens rebel against Napoleon, because eggs

have been taken from them, he gathers the animals and says that there are traitors and agents of Snow-ball at the Farm («we have reason to think that some of Snowball’s secret agents are lurking among us at this moment»13). A number of animals, to everyone’s amazement, denounce themselves and confess their crimes, to be immediately executed by the dogs – for something they have never done. The reference is to the purges and the (in)famous “show trials” in which a vast number of Soviet leaders were accused of treach-ery against the State, convicted, and often executed.

• About the lack of food, Orwell observes:

Starvation seemed to stare them in the face. It was vitally neces-sary to conceal this fact from the outside world. […] the human beings were inventing fresh lies about Animal Farm. Once again

10. Or Daniil Charms, an avant-garde poet who died of starvation in the psychiatric ward of a prison in Leningrad, in 1942. I wish to thank Anna Krashnikova, SELDA, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milan, for first introducing me to the works of this amazing writer, by making the class learn one of his poems by heart. 11. B. Russell, In Praise of Idleness, Routledge, London 1932. See http://www.zpub.com/notes/idle.html. 12. H. Arendt, The Origins of Totalitarianism (Elemente und Ursprünge totaler Herrschaft, English translation by Therese Pol), Harvest Books-Har-court, San Diego (CA) 1973, p. 464 (Schocken Books, Berlin 1951).13. G. Orwell, Animal Farm, Penguin, London 1989, p. 55.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 89

itinerari didattici Per le lingue Straniere

it was being put about that all the animals were dying of fam-ine and disease, and that they were continually fighting among themselves and had resorted to cannibalism and infanticide14.

It might be interesting to compare this point of view with George Bernard Shaw’s, who, after visiting the USSR, wrote to the Manchester Gazette (March 1933) saying that he found

particularly offensive and ridiculous… the revival of the old attempts to represent the condition of Russian workers as one of slavery and starvation, the Five-Year Plan as a failure, the new enterprises as bankrupt and the Communist regime as tottering to its fall15.

Where does the truth lie?

• «They had just finished singing […] when Squealer, attended by two dogs, […] announced that, by a spe-cial decree of Comrade Napoleon, ‘Beasts of Eng-land’ had been abolished. From now onwards it was forbidden to sing it»16. In his eulogy on Lenin’s death, Maxim Gorky remembers the Soviet leader’s love for classical music:

I know of nothing better than the Appassionata and could lis-ten to it every day. What astonishing, superhuman music! It always makes me proud, perhaps naively so, to think that peo-ple can work such miracles!

Yet he added:

I can’t listen to music very often, it affects my nerves. I want to say sweet, silly things and pat the heads of people who, living in a filthy hell, can create such beauty. One can’t pat anyone on the head nowadays, they might bite your hand off. They ought to be beaten on the head, beaten mercilessly, al-though ideally we are against doing any violence to people!17

At the Fourth Congress of the Communist International, November 1922, five years after the Russian Revolution had begun and a few months before he died, Lenin said: «Un-doubtedly, we have done, and will still do, a host of foolish things. No one can judge and see this better than I»18.

George OrwellBorn Eric Blair in 1903, in Bengal, George Orwell re-ceived his education in England, both at Crossgates and Eton, an experience that made him say his schooldays were “the dirty-handkerchief side of life”19. He served with the Indian Imperial Police in Burma, lived among outcasts in Paris and London, worked as a miner (which ruined his health for good), got married and in 1936 went to Spain and fight in the Civil War. Orwell was a member of the POUM (Partido Obrero de Unificación Marxista,

the “Workers’ Party of Marxist Unification”), a radical Socialist-Trotskyite militia force which was opposed to the (Communist-Stalinist) International Brigades, though both were fighting against Franco. This experience, which he recounted in his Homage to Catalonia (1938), was a point of no return. Orwell was a committed communist. He risked his life for the cause and was hit by a Fascist sniper, a bullet going clean through his neck: «I took it for granted that I was one for it. I had never heard of a man or an animal getting a bullet through the middle of the neck and surviving it»20. Yet he did.Orwell was not a revolutionary, he was a rebel. It is from his Spanish experience that both Animal Farm and Nineteen Eighty-Four (1948) spring. He was able to see, one of the very few, that the evil side of Communism and Nazism was the same: and if it was easy with Hitler, because his crimes were known to the whole world, it was far more difficult with Stalin, because nobody knew what was going on in Eastern Europe at the time. Orwell wrote Nineteen Eighty-Four shortly after his wife’s unexpected death, in 1945. He suffered from tu-berculosis, and would have to rest if his life were to be saved. Instead, urged by a need to write, he moved to the isle of Jura, off western Scotland, with the child that he and his wife had adopted. A nurse and his sister were with him, too. When the novel was completed, his health was shattered. He had a few months of happiness with his second wife, whom he married in the early summer of 1949, but on January 21st, 1950, when he was about to move to a sanatorium in Switzerland, he died from a haemorrhage. Amazingly enough, on the same day as Lenin’s, twenty-six years before.

Emanuela BossiLiceo Casiraghi, Cinisello Balsamo (MI)

Università Cattolica, Milano

14. Ibidem, p. 50. 15. http://www.garethjones.org/soviet_articles/bernard_shaw.htm.16. G. Orwell, Animal Farm, cit., p. 59.17. www.marxists.org/archive/gorky-maxim/1924/eulogy/x0.18. https://www.marxists.org/archive/lenin/works/1922/nov/04b.htm.19. G. Orwell, «Such, Such Were the Joys», in Id., Books v. Cigarettes, Pen-guin, London 2008, p. 92. The essay was first published in the Tribune news-paper in 1946.20. ht tps:// l ibcom.org /files/Homage%20to%20Catalonia%20-%20George%20Orwell.pdf.

 REFERENCES 

G. Orwell, Animal Farm, Penguin, London 1989G. Orwell, «Such, Such Were the Joys», in Id., Books v. Cigarettes, Penguin, London 2008

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458290

lingue, culture e letterature

Educazione linguistica in modalità CLILUn percorso per la storia dell’arte in lingua tedescaErika Nardon-Schmid, Ilaria Barbieri, Federica Ruggeri

Parlare di CLIL dopo alcuni anni dalla sua entra-ta in vigore nelle scuole secondarie di secondo grado italiane può risultare una ripetizione di un

concetto ormai assodato, ma una ripresa teorica di que-ste nozioni ci è sembrata di fondamentale importanza, sia per fare chiarezza su che cosa sia davvero il CLIL, sia per proporre spunti di lavoro in una disciplina non linguistica (DNL) che, a nostro parere, ben si adatta a questa metodologia, ossia la storia dell’Arte. L’obiettivo di questo studio è stato quindi fare chiarezza su alcuni aspetti fondamentali, come la lingua e i contenuti, per poi proseguire trattando delle diverse possibilità nell’at-tivazione di questa metodologia. Infine, abbiamo con-cluso il contributo con una proposta di lavoro: una unità didattica CLIL di storia dell'Arte in lingua tedesca in formato PDF, disponibile sul sito internet della rivista.

I contenuti all’interno del CLILIn questo studio abbiamo voluto soffermarci su due delle costanti che compongono l’acronimo CLIL. CLIL infatti è un acronimo inglese che significa Content and Language Integrated Learning e indica una metodologia che consiste nell’insegnamento/apprendimento di una materia currico-lare non linguistica in una lingua addizionale che viene uti-lizzata come veicolo per la trasmissione dei contenuti1. Ciò che risulta interessante e differenzia quindi il CLIL dagli esperimenti attuati in precedenza è il concetto di integra-zione di lingua addizionale e contenuti. L’idea è quindi di procedere parallelamente, ampliando contemporaneamen-te il bagaglio linguistico e culturale dello studente. Per quanto concerne i contenuti nell’insegnamento tradiziona-le delle lingue si assiste quasi sempre ad una semplificazio-ne dei concetti trattati. La lezione tradizionale nelle varie lingue straniere vede spesso dialoghi che trattano situazio-ni abbastanza standardizzate con un lessico quotidiano: si usa la lingua per descrivere se stessi, ordinare qualcosa al ristorante, parlare di usi e costumi ecc. Il CLIL è un punto di svolta importante, in quanto ci permette di insegnare ed apprendere in una prospettiva diversa. I contenuti sono

infatti orientati verso un tipo di approccio che si avvicina ad una situazione di autenticità in relazione all’uso dei ma-teriali, al contesto e all’interazione2. Il docente, a seconda del livello linguistico dei suoi studenti, può proporre una vasta gamma di materiali didattici e non didattici, come articoli di giornale, saggi, programmi televisivi, documen-tari ecc., che possono essere scelti tra contenuti autentici, quelli che presentano una lingua concreta, contenuti reali e senza semplificazioni, o pseudo-autentici, quelli che ven-gono rimaneggiati con lo scopo di una semplificazione ai fini di una più agevole comprensione. È sempre fondamentale avere presente il grado di istru-zione degli studenti, sia linguistico sia culturale, a cui in-segniamo. Insegnare e apprendere la disciplina in una lin-gua straniera non significa solamente tradurre testi dalla propria lingua madre. I testi vanno selezionati accurata-mente ed adattati al proprio target. A seconda dell’età, del tipo di scuola, delle basi teoriche e dei bisogni linguistici degli studenti vanno scelti letture e testi adatti agli scopi che vogliamo perseguire come insegnanti3. Per mante-nere alta l’attenzione e la motivazione dell’apprendente si deve pensare a programmi mirati alle loro aspettati-ve. Bisogna quindi capire quali siano gli obiettivi degli studenti e costruire delle lezioni o meglio delle unità di apprendimento e unità didattiche che soddisfino i bisogni e le aspettative della classe. Una buona idea per sfruttare al meglio il CLIL potrebbe essere quella di creare percor-si che mirino ad ampliare i concetti di interdisciplinarità e intercultura o di sfruttare questi tipi di programmi in modo che lo studente abbia un riscontro pratico dell’utili-tà di queste iniziative. Presentare il CLIL come la possi-bilità di trattare un tema visto da prospettive diverse può

1. D. Coyle - P. Hood - D. Marsh, CLIL: Content and Language Integrated Learning, Cambridge University Press, Cambridge 2010.2. D. Wolff, Content-Based Bilingual Education or Using Foreign Langua-ges as Working Languages in the Classroom, in D. Marsh et al. (ed.), Aspects of Implementing Plurilingual Education, University of Jyväskylä, Jyväskylä 1997, pp. 51-64.3. D. Coyle - P. Hood - D. Marsh, CLIL: Content and Language Integrated Learning, cit.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 91

itinerari didattici Per le lingue Straniere

essere stimolante per lo studente e faciliterà sicuramen-te anche la sua capacità di vedere le materie scolastiche come profondamente correlate le une alle altre e di fare collegamenti che diversamente potrebbero non essere af-frontati. Un’altra prospettiva interessante è sfruttare l’im-portanza e la spendibilità delle lingue straniere sui posti di lavoro. Si possono così svolgere nella scuola secondaria di secondo grado lezioni CLIL in funzione dei progetti di alternanza scuola-lavoro. Trattandosi di attività rivolte a studenti dell’ultimo anno di corso, si possono svolgere parallelamente o l’uno in funzione dell’altro. Per un ra-gazzo riuscire a padroneggiare i contenuti studiati a scuo-la e applicarli concretamente in contesti extra-scolastici è un ottimo modo per capire l’importanza dello studio e per accrescere ulteriormente la sua motivazione esterna ed interna. Si intende con motivazione esterna quella che si sviluppa tendenzialmente per soddisfare un’autorità, costituita dai genitori o dal professore, o per raggiungere le ambizioni che lo studente stesso si è prefissato; mentre con motivazione interna si intende quella più sentita dagli studenti, quella più autentica, che può nascere per scopi diversi. La seconda è la più forte soprattutto nel momento iniziale dell’apprendimento ed è importante che vada ali-mentata da parte dell’insegnante, soddisfacendo le aspet-tative dello studente4. Procedere insegnando contenuti per i quali l’apprendente vedrà un’applicazione pratica è un modo sia per accrescere la sua volontà di approfondire i contenuti per se stesso, sia per dimostrare in sede azien-dale o comunque di lavoro di avere le competenze per affrontare al meglio un determinato compito.

La lingua all’interno del CLILAbbiamo dato fino ad ora importanza alla prima del-le componenti dell’acronimo, i contenuti, ma anche una discussione in merito alla lingua con cui fare CLIL ri-chiede una particolare attenzione. Nonostante in molte scuole secondarie di secondo grado l’inglese sia l’unica lingua straniera studiata, ci sono altre possibilità di scelta. È infatti interessante notare che teoricamente si parli di “lingua addizionale”5, in quanto la lingua da utilizzare non deve essere necessariamente la LS studiata a scuola. Esistono sperimentazioni di CLIL attivati in una lingua seconda, in una lingua regionale o tradizionale di un de-terminato territorio. Tuttavia, l’inglese costituisce ancora la lingua principale in cui viene attuata la metodologia. Questa decisione è abbastanza discussa in quanto si assi-ste ad una sorta di appiattimento sulla lingua inglese che dalla maggior parte degli studenti è l’unica conosciuta. La scelta non è però solo da vedere in senso negativo. Si pensi che attualmente l’inglese è la lingua internaziona-le prevalentemente utilizzata per le scienze, per l’econo-mia, per la finanza e per il campo medico. Abituare gli

alunni fin dalla scuola secondaria di secondo grado a studiare contenuti in questa lingua potrebbe aprire loro maggiori opportunità nelle scelte successive nell’ottica di un percorso di studi universitari in inglese o all’estero o semplicemente per un vantaggio per quei molti studenti che, scegliendo facoltà scientifiche, si troveranno a dover leggere articoli in lingua straniera o a studiare su libri settoriali, che non sono tradotti in italiano.Le disposizioni ministeriali prevedono l’applicazione della metodologia CLIL nelle classi quinte dei Licei e degli Istituti Tecnici e a partire dalle classi terze dei Li-cei Linguistici. Questa disposizione non vieta la speri-mentazione a livelli di istruzione più bassi, ma è ugual-mente interessante perché ci sottolinea l’importanza di un certo livello linguistico da parte degli studenti per affrontare le lezioni. Cummins traccia un tipo di distin-zione parlando della padronanza delle lingue stranie-re. Distingue due diversi tipi di competenza, le BICS e le CALP. Con BICS si intende le Basic Interpersonal Communicative Skills, quindi quel tipo di conoscenza della lingua che ci consente di affrontare conversazioni di tipo quotidiano ad un livello familiare o amichevole, parlando di noi stessi, dei nostri gusti e interessi. Con CALP si intende invece Cognitive Academic Language Proficiency6, ossia le competenze linguistiche più evo-lute, legate allo studio delle varie discipline. Conside-rando i livelli del QCER, le BICS sono quelle competen-ze linguistiche corrispondenti alle caratteristiche di un utente con competenze comunicative di base e indipen-denti da contenuti in ambiti di specializzazione, fino al raggiungimento di un livello di competenza B1. Il livello B1 si potrebbe così asserire che sia lo «spartiacque fra una padronanza generale di base, denominata BICS, e una padronanza più sofisticata che si potrebbe denomi-nare, per certe attività, CALP»7. È quando lo studente raggiunge questo livello di competenza che può senza troppi problemi affrontare delle lezioni che prevedano anche un confronto, una capacità di analisi e di sintesi.Uno dei problemi principali che si possono riscontrare nell’applicazione della metodologia CLIL è la percezio-ne da parte degli studenti di non avere un livello lingui-stico appropriato a trattare i contenuti. È dal nostro pun-to di vista quindi importante attivare delle strategie che limitino il possibile disagio dello studente abbassando

4. P. Ur, A Course in Language Teaching, CUP, Cambridge 1996.5. D. Coyle - P. Hood - D. Marsh, CLIL: Content and Language Integrated Learning, cit.6. J. Cummins, Wanted: A Theoretical Framework for Relating Language Proficiency to Academic Achievement among Bilingual Students, in C. Ri-vera (ed.), Language Proficiency and Academic Achievement, Multilingual Matters, Clevedon 1984, pp. 2-19.7. C.M. Coonan, La lingua straniera veicolare, UTET Università, Torino 2002.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458292

lingue, culture e letterature

il filtro affettivo. Si prenda a titolo di esempio quello riportato anche da Coyle di un giovane discente che si trova a dover fare una relazione riguardo all’esperimen-to svolto in classe nelle ore di scienze8. È probabile che lo studente voglia riferire l’esperienza utilizzando dei tempi verbali passati che però non ha ancora studiato. Il docente può agire in due direzioni: chiedere allo stu-dente di riportare l’esperimento con una struttura gram-maticale che conosce (ad esempio, il presente storico), o cogliere l’occasione per spiegare, eventualmente con l’aiuto del docente di lingua straniera, la struttura gram-maticale necessaria prima della relazione. In generale, crediamo che il compito dell’insegnante sia quello di far capire all’alunno che spesso ha gli elementi lessicali, grammaticali e sintattici sufficienti per trattare del fatto o del contenuto di cui si vuole parlare. Capita non di rado che lo studente si fissi sul voler fare una traduzione letterale dalla propria lingua madre e si blocchi se non è in possesso degli elementi linguistici per farlo. È invece necessario cercare di fargli capire che spesso si può aggirare la difficoltà, riformulando la frase in modo da esprimere lo stesso concetto con gli strumenti che si conoscono. Come sostengono Snow, Met e Genesee ci sono due tipi di lingua che lo studente può utilizzare: una lingua obbligatoria per i contenuti (Content-Obligatory Language) e una lingua compati-bile (Content-Compatible Language)9. La prima è quella necessaria per esprimere i concetti relativi ad una ma-teria e comprende sia il vocabolario specifico della di-sciplina, sia alcune particolari strutture grammaticali10. Nell’esempio di una lezione CLIL di scienze, la lingua obbligatoria per i contenuti è composta dal lessico set-toriale e dalle strutture grammaticali specifiche (cause e conseguenze, la possibilità nel passato). La seconda coincide invece con quel tipo di lingua che lo studente ha appreso durante le lezioni di lingua straniera e utiliz-za per esprimere i concetti di base o gli argomenti gene-rali legati allo studio della materia, ad esempio i termini generici (water, to boil, result) o l’uso dei tempi verbali già studiati (il past simple e il past perfect).

Hard CLIL o soft CLIL?Nell’ideare percorsi di studio indirizzati a un target ben specifico, bisogna tenere in considerazione tutte le opzio-ni che abbiamo a disposizione come percorsi CLIL. Uno dei primi punti da mettere in discussione riguarda il tipo di esposizione linguistica a cui vogliamo sottoporre i no-stri studenti. Si parla così di due tipi di CLIL diversi: il cosiddetto Hard CLIL (o Strong CLIL) è un tipo di inse-gnamento/apprendimento che si concentra primariamen-te sul contenuto. È il modello che si usa nell’immersione linguistica in cui si parla in lingua straniera per almeno il

50% delle lezioni del curricolo. I contenuti possono essere gli stessi del programma insegnato nella lingua materna che vengono trasmessi parte in italiano e parte nella lin-gua straniera. Il Soft CLIL (o Weak CLIL) al contrario è più orientato alla lingua straniera. Si tratta di un percorso che riguarda solo alcuni argomenti o un’unità didattica. In questa scelta solitamente si affrontano anche lezioni in compresenza del docente di lingua e di quello della DNL. Esiste poi una possibilità intermedia, chiamata Mid CLIL (o Modular o Comfortable CLIL) che si orienta tanto alla lingua quanto al contenuto11. Una scelta non è necessaria-mente migliore dell’altra. Bisogna valutare molti fattori, a partire dal livello linguistico sia degli insegnanti sia degli alunni. Se una classe non ha la padronanza lingui-stica sufficiente a comprendere argomenti complessi in una lingua straniera è forse meglio procedere con un Soft CLIL. Qualora gli studenti abbiano una conoscenza del-la lingua abbastanza elevata, allora ci si può concentrare maggiormente sui contenuti, senza troppe interruzioni per spiegazioni linguistiche, e si può quindi ricorrere a un Mid CLIL o a un Hard CLIL.

L’uso delle tecnologie digitaliIl CLIL, per la sua malleabilità nelle applicazioni, si sposa bene con l’integrazione delle tecnologie digitali. È ormai entrata nel mondo della scuola la generazione dei nativi digitali che nasce e cresce circondata da strumenti che influenzano il loro modo di pensare, di agire e di studiare. È quindi opportuno che gli insegnanti adotti-no materiali e metodi di insegnamento/apprendimento a cui sono abituati gli alunni attuali, non basando più la didattica esclusivamente su metodi tradizionali.Al fine di affiancare una didattica più moderna al tra-dizionale apprendimento sui libri di testo, è importante utilizzare al meglio tutti gli strumenti tecnologici di cui le scuole sono dotate, il laboratorio di informatica o la LIM (lavagna interattiva multimediale). Questo nuovo strumento sostituisce o affianca la lavagna analogica tradizionale, è composto da uno schermo touchscreen interattivo, collegato ad un computer e con esso è quin-di possibile svolgere innumerevoli attività con la parte-cipazione di tutta la classe. Essendo la LIM connessa ad un computer si possono sfruttare sia i CD audio o i

8. D. Coyle - P. Hood - D. Marsh, CLIL: Content and Language Integrated Learning, cit.9. A. Snow - M. Met - F. Genesee, A Conceptual Framework for the Inte-gration of Language and Content in Second/Foreign Language Instruction, «TESOL Quarterly», XXIII, 2 (1989), pp. 201-217.10. M. Met, Curriculum decision-making in content-based language tea-ching, in J. Cenoz - F. Genesee, Beyond Bilingualism: Multilingualism and Multilingual Education, Multilingual Matters, Clevedon 1998, pp. 35-63.11. K. Bentley, The TKT Course CLIL Module, Cambridge English, Cam-bridge 2011.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 93

itinerari didattici Per le lingue Straniere

CD-ROM dei libri di testo, sia esercizi presi dal Web o altro materiale preparato dagli insegnanti12.Per la grande varietà di attività che è possibile propor-re durante le lezioni CLIL con le tecnologie digitali si è giunti a parlare di E-CLIL. Scegliere tra le numerose opzioni possibili per creare percorsi in modalità E-CLIL non è semplice. Ci limitiamo in questa sede a una presen-tazione di quelle che sentiamo più affini al nostro stile di insegnamento e a quelle che impiegheremo nell’esem-plificazione dell’unità didattica proposta di seguito. Ri-teniamo sicuramente utili quegli strumenti semplici da utilizzare per l’insegnante e per gli studenti, ma che fa-cilitano l’apprendimento dei contenuti. Tra di essi ricor-diamo l’uso di presentazioni in PowerPoint per la spie-gazione dei contenuti e di alcuni siti, come Slatebox13 o Popplet14 per la realizzazione di mappe concettuali. Per l’approfondimento dei contenuti riteniamo utili risorse di podcast, scaricabili da iTunes, utili per la vastità di mate-riali reperibili, registrati da parlanti nativi. Con lo stesso scopo si possono utilizzare anche Youtube15 o Vevo16 che sono dotati anche di supporto video e per questo pos-sono facilitare la comprensione degli argomenti17. Infine uno strumento sicuramente utile per rendere lo studente protagonista della lezione e responsabile di una ricerca delle informazioni riguarda l’uso di webquest. La ricerca mirata delle informazioni consente appunto una ricerca più rapida da parte dello studente che non deve control-lare ulteriormente le fonti attendibili, in quanto già pre-selezionate dal docente per lui. Ciò è anche più sicuro, perché consente la navigazione solo su siti sicuri e senza i numerosi pericoli o distrazioni presenti in rete. Per la realizzazione delle webquest esistono numerosi siti. Noi abbiamo avuto modo di sperimentare l’uso di Zunal18. La piattaforma è semplice e intuitiva e, a differenza di altre, ha una grafica molto chiara e la possibilità di inserire immagini per richiamare l’attenzione degli studenti19.

La scelta della materiaCome già sottolineato il CLIL ha una natura malleabile e per questo motivo si adatta a diversi tipi di attività e a di-verse discipline scolastiche. In alcune scuole secondarie di secondo grado la scelta della DNL è purtroppo ancora legata alla possibilità concreta di trovare insegnanti che abbiano la competenza linguistica necessaria alla meto-dologia. Qualora ci fosse la possibilità di scelta tra di-verse materie quale conviene invece scegliere? Non c’è una risposta unitaria a tale domanda, ma come sempre, quando si pensa ad un progetto, bisogna prima di deline-arlo, avere in mente la classe di riferimento e i modi per rendere la proposta allettante e motivante. La scelta mi-gliore è quindi partire dal livello di competenza linguisti-ca della nostra classe e chiedersi che cosa possono fare gli

studenti con quelle competenze. Dal nostro punto di vista la scelta migliore è quella di una DNL che non richieda allo studente un’eccessiva capacità di argomentazione, ma che includa testi di natura più descrittiva. È impor-tante che sia possibile costruire discorsi utilizzando ter-mini della lingua compatibile, rispetto a un lessico quasi integralmente specialistico o di microlingua. Nella scelta delle materie ne vanno poi escluse alcune a priori. Ci ri-feriamo, ad esempio, alle lingue classiche, che rientrano nella categoria delle discipline linguistiche e non posso-no quindi essere considerate nella selezione20. Un altro problema riguardante la scelta della DNL, trattandosi del CLIL come di una metodologia che si applica nella mag-gior parte delle scuole secondarie di secondo grado al quinto anno, è la scelta di una materia o di un argomento che non vada a costituire un potenziale argomento per la seconda prova dell’Esame di Stato. Le Norme transito-rie prevedono infatti che lo svolgimento di tale prova sia nella L1 dello studente, anche se questa durante l’anno scolastico è stata spiegata in una lingua veicolare. La co-noscenza dei contenuti CLIL può però essere oggetto di verifica nella terza prova o durante l’orale21.

Il CLIL e la storia dell’ArteIn questa sede vogliamo proporre una unità didattica ine-rente a tematiche diverse con diverse unità di apprendi-mento, ma che riguardano la stessa DNL. Abbiamo scelto di articolare un percorso di storia dell’Arte per diverse ra-gioni. Tra i motivi principali che ci hanno spinto in questa direzione c’è il metodo di studio di tale materia, basato in buona parte sull’osservazione di immagini. Fornire agli studenti gli elementi lessicali per parlare di monumenti e varie opere d’arte permetterà anche ad un utente non trop-po sicuro delle sue competenze linguistiche di arrivare ad una descrizione dell’opera e del suo contesto storico-cul-turale. Più complessa è sicuramente la questione dell’in-terpretazione di un’opera, ma si può procedere selezio-nando opere che non richiedano l’articolazione di concetti troppo complessi. Se si scelgono ad esempio alcune opere

12. S. Ferrari, Le tecnologie digitali per l’educazione linguistica, EDUCatt, Milano 2012.13. https://slatebox.com.14. http://popplet.com.15. www.youtube.it.16. www.vevo.com.17. G. Langé - L. Cinganotto, E-CLIL per una didattica innovativa, Quader-ni della Ricerca, Loescher, Torino 2014. S. Ferrari, Le tecnologie digitali per l’educazione linguistica, cit.18. www.zunal.com.19. G. Langé - L. Cinganotto, E-CLIL per una didattica innovativa, cit. S. Ferrari, Le tecnologie digitali per l’educazione linguistica, cit.20. F. Costa - L. D’Angelo, CLIL: A suit for all seasons?, «Latin American Journal of Content & Language Integrated Learning», IV, 1 (2011), pp. 1-13.21. G. Langé - L. Cinganotto, E-CLIL per una didattica innovativa, cit.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458294

lingue, culture e letterature

di scultura o di pittura gli studenti sicuramente partiran-no conoscendo numerosi elementi della lingua compati-bile (mano, testa, corpo, colori ecc.), sentendosi più sicuri della padronanza del lessico di base. Abbiamo pensato alla storia dell’Arte anche per la possibilità di utilizzare numerosi materiali audio-video per spiegare i contenuti e approfondire i concetti introdotti da una lezione frontale o da un approccio metodologico cooperativo. L’arte, inoltre, è strettamente legata ad altri ambiti, come la letteratura, la storia, la geografia, la musica di alcuni paesi. Selezio-nare un CLIL in questa materia ci consentirebbe anche la possibilità di un percorso interdisciplinare e intercul-turale che coinvolga i docenti di altre discipline. Inoltre la natura creativa di tale DNL ci sembra che possa offrire una buona opportunità per superare lo studio tradizionale e coinvolgere gli studenti in progetti che accrescano la loro partecipazione attiva, la loro creatività e la loro mo-tivazione. Come proposto nella nostra unità didattica in lingua tedesca, si potrebbe infatti chiedere agli studenti di realizzare prodotti finali (valorizzando anche le soft skil-ls, come il problem solving) sull’argomento come poster, presentazioni in PowerPoint, dépliant illustrativi, o po-dcast da utilizzare come una sorta di audio-guida. Infine, si potrebbe finalizzare il percorso CLIL realizzato dagli studenti al viaggio di istruzione, motivando così gli stessi a conoscere più a fondo le opere artistiche, direttamente sui luoghi che andranno a visitare, o utilizzare le cono-scenze apprese per progetti di alternanza scuola-lavoro. Si potrebbe infatti pensare ad un contatto con alcune mo-stre o musei per far fare agli studenti le guide volontarie e degli stages presso tali strutture.

Presentazione dell’unità didattica “Der Expressionismus in der Malerei”La presente unità didattica è volta a trattare con metodo-logia CLIL il fenomeno artistico dell’Espressionismo in lingua tedesca. Essa è rivolta ad alunni della classe V del Liceo Linguistico, che si presuppone abbiano acquisito un livello di competenza nella lingua tedesca equivalente a un livello B1/B2, secondo le indicazioni del QCER. I punti di forza della suddetta unità didattica sono, in-nanzitutto, il potenziamento della lingua straniera in questione attraverso lo studio di un fenomeno – l’E-spressionismo – tipicamente tedesco. Il percorso di insegnamento/apprendimento è suddiviso in diverse unità di apprendimento ed è stato progettato per coin-volgere direttamente gli studenti attraverso numerose attività che ne stimolino la partecipazione attiva, come esercizi di completamento o di risposta a domande che possono essere svolti anche in gruppo e che pre-vedono una discussione e una webquest, sfruttando anche prerogative della classe capovolta22. Inoltre,

sviluppandosi l’Espressionismo in diversi ambiti, questa unità didattica potrebbe offrire spunti per la creazione di un percorso interdisciplinare che si potrebbe allargare ad un modulo sull’Espressionismo tedesco ed austriaco. Questo percorso CLIL si pone molteplici obiettivi. Dal punto di vista artistico, lo scopo è sia quello di cono-scere il fenomeno dell’Espressionismo (contesto storico, caratteristiche, movimenti, principali artisti) sia quel-lo di imparare a riconoscere e a descrivere un quadro espressionista. Dal punto di vista linguistico, si tratta di un vero e proprio percorso di educazione linguistica: gli alunni sono stimolati a migliorare le proprie competenze in lingua tedesca (comprensione scritta e orale, produzio-ne scritta e orale) attraverso una partecipazione attiva alle lezioni e ad acquisire un linguaggio settoriale23. Proprio per incentivare l’uso corretto della microlingua in ambito artistico si è voluto far seguire alla fine dell’unità didat-tica un glossario che potesse riprendere sia lessico spe-cialistico sia strutture grammaticali ricorrenti incontrate nelle varie tipologie testuali. Infine, questa unità didattica mira a sviluppare negli alunni la capacità di lavorare in gruppo e di utilizzare le tecnologie digitali. Il progetto è stato pensato per coprire venti ore che, ide-almente, sono state distribuite in dieci lezioni da due ore ciascuna. Tale suddivisione è puramente arbitraria e può essere adattata alle esigenze delle varie classi. Tutte le le-zioni sono accompagnate da attività che prevedono una partecipazione attiva e diretta. Sono state pensate come DNL per l’insegnante di arte che però potrebbe essere affiancato dall’insegnante di lingua straniera. Fanno parte dell’unità didattica anche una valutazione in for-ma orale a seguito di webquest e una valutazione scritta. Tale percorso potrebbe avere una conclusione pratica or-ganizzando una gita di istruzione a Monaco di Baviera o a Berlino per visitare importanti musei che ospitano collezioni espressioniste, come il Lenbachhaus di Mona-co di Baviera o il Brücke-Museum di Berlino. In questo modo gli alunni avrebbero la possibilità di vedere dal vivo alcune delle opere analizzate in classe e, conoscendo gli autori e i rispettivi quadri, nonché la loro collocazione, potrebbero preparare una visita guidata del museo scelto, dando un risvolto pratico alla suddetta unità didattica.

Erika Nardon-Schmid, Università Cattolica, Brescia

Ilaria Barbieri, Federica Ruggeri, Collaboratrici alla cattedra di Didattica e Apprendimento delle Lingue Moderne,

Università Cattolica, Brescia

22. M. Maglioni - F. Biscaro, La classe capovolta. Innovare la didattica con la flipped classroom, Erickson, Trento 2014.23. G. Serragiotto, Dalle microlingue disciplinari al CLIL, UTET Univer-sità, Novara 2014.

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-4582 95

libri

Marisa Vicini, Istituzioni di scienze motorieEdizioni Studium, 2017, pp. 336, € 28,50

Istituzioni di scienze motorie e sportive, tratta dei fondamenti delle scienze motorie e sportive, la disciplina che si occupa dell’insegnamento del movimento, con lo scopo di riflettere e di far chiarezza sui significati connessi all’ambito della motricità, a partire dall’analisi dei quadri storico normativi e pedagogici cui si rifanno le diverse teorie del movimento. Il testo intende offrire un contributo alla definizione di che cosa siano le scienze motorie e sportive, dando i criteri per leggere le differenti prospettive entro le quali è nato e si è consolidato nel tempo il concetto di educazione motoria. Si propone, inoltre, di approfondire lo stretto legame che unisce le teorie del movimento con le pratiche, cioè, con le modalità concrete con cui i principi teorici si traducono in metodologie didattiche. In riferimento al movimento non esiste, infatti, una sola linea interpretativa ma diverse, che afferiscono a quadri concettuali differenti. Il libro è diviso in due parti. Nella prima, si propone l’analisi dei diversi contesti storico, filosofico e normativo. Il primo capitolo descrive in forma sintetica le forme che la pratica motoria ha assunto

nel tempo e le concezioni del corpo ad essa sottese. Il secondo, illustra l’evoluzione della disciplina, dalla ginnastica alle scienze motorie e sportive, attraverso l’analisi di cinque leggi e riforme: Legge G. Casati (1859), Legge F. De Sanctis (1878), Riforma G. Gentile (1923), Legge A. Moro (1958), Riforma L. Moratti (2003). La seconda parte del libro presenta tre prospettive di studio dell’educazione motoria, da cui sono derivate specifiche didattiche e metodologie. La prima prospettiva è quella biologico-anatomica, ambito culturale entro cui è nato il termine educazione fisica; la seconda, è quella psico-corporea, che si fonda sull’unità corpo-mente, in cui alla corporeità naturalistica si accompagna la dimensione psicologica, ad essa fa riferimento il termine educazione psicomotoria; la terza, infine, è quella pedagogica-integrale basata sul concetto di persona umana, da cui nasce il termine scienze motorie e sportive. Ciascuna prospettiva è stata approfondita secondo diversi punti di vista: l’inquadramento storico-normativo; l’idea di movimento (modello scientifico e classificazione dei movimenti); l’idea di apprendimento; il modello didattico con analisi di alcune metodologie ed esemplificazioni operative.Il testo è pensato per diverse figure professionali, in primis gli educatori della motricità (docenti di scuola dell’infanzia e primaria, docenti di educazione fisica, allenatori). In particolare, si rivolge agli studenti del corso di laurea in scienze motorie e sportive della triennale e della specialistica, per gli insegnamenti di teoria, tecnica e didattica del movimento umano, ma anche come integrazione del programma di pedagogia, per la parte che si riferisce ai metodi e alle didattiche delle

attività motorie e sportive. Può essere utilizzato anche nel corso di laurea quinquennale a ciclo unico in scienze della formazione primaria, sempre per l’insegnamento di metodi e didattiche delle attività motorie.

Patrizia Manganaro – Flavia Marcacci (edd.), Logos & Pathos. Epistemologie contemporanee a confrontoEdizioni Studium, 2017, pp. 176, € 16,50

Dopo secoli “logocentrici”, si è prodotta una svolta “somatocentrica” della cultura occidentale. Numerose discipline, diverse per metodo e per statuto epistemologico, mostrano una significativa convergenza sul primato del “corpo vivo” (Leib) quale cifra del nostro tempo. Ma che cosa significa?Significa che “sentire si dice in molti modi”. Significa che il centro dell’interesse è il corpo vissuto, il corpo-soggetto – e non il corpo-cosa, reificato e obiettivato. Significa che siamo alle prese con nuove “logiche” della corporeità vivente, e che il dualismo oppositivo mente-corpo è stato superato nella direzione di un approccio duale. Significa porre l’irriducibilità dell’essere umano al centro del vivere intenzionale, come punto d’irradiazione dei suoi atti esperienziali. Significa,

ancora, che Logos e Pathos esibiscono una strutturale co-appartenenza, costituendo un nodo problematico stratificato, denso, complesso. Particolare attenzione ha suscitato la questione fenomenologica dell’empatia (Einfühlung), dall’antropologia filosofica alle neuroscienze, dalla filosofia della mente al setting psicoterapeutico, dalla pedagogia alla bioetica, dall’estetica filosofica alla filosofia della salute, dalle scienze algologiche alla psichiatria. Questa varietà di ambiti nei quali il termine oggi compare rende arduo determinare una definizione univoca, ma rende possibile raccogliere e accostare diverse prospettive epistemologiche, come accade in questo volume che si pregia dei contributi di studiosi autorevoli di diversi settori disciplinari.Una particolare declinazione dell’empatia, infatti, si rintraccia nel significato dell’interazione tra corpi animati e inanimati, ovvero sulla possibilità di cogliere, appercependolo, lo “spirito” attraverso un corpo e attraverso un’immagine. Un’appercezione di cui sono state indagate le modalità neurofisiologiche, automatiche, pre-cognitive, estetiche. Queste modalità determinano anche un approccio nuovo all’interno delle scienze logiche e matematiche, permettendo di focalizzare il ruolo creativo della ragione scientifica e in particolare dell’uso delle immagini in essa. Le immagini continuano a stimolare e provocare la conoscenza, e al contempo la conoscenza permette di ideare immagini per focalizzare aspetti significativi della realtà concreta e degli oggetti astratti. Estetica e scienza, arte e tecnica, strumenti materiali e digitali si intrecciano. È così che logos e pathos si congiungono nell’iconografia e nelle riproduzioni scientifiche,

Nuova Secondaria - n. 8 2017 - Anno XXXIV - ISSN 1828-458296

libri

addirittura nella matematica e nella computer science. La scienza usando le immagini feconda il nostro immaginario e il nostro immaginario diventa capace di produrre nuova scienza. Alla filosofia il compito di orientarla verso la realtà, per coglierne la ricchezza, con l’eterno pendolo che oscilla tra il rigore e la bellezza.

Calogero Caltagirone, Ignacio Ellacuría e la dimensione etica del filosofareEdizioni Studium, 2016, pp. 152, € 15,00

Nell’oggi la dimensione etica del filosofare e la responsabilità del pensare l’umano sono chiamate fortemente in causa. Spesso si parla di una inutilità del pensiero a favore di una super utilità del fare che avrebbe più sicuri e duraturi vantaggi e profitti. La rilevanza della vicenda umana e intellettuale di Ignacio Ellacuría Beaschoecea, professore e rettore dell’Università Centroamericana «José Simeón Cañas» (UCA) di San Salvador, assassinato, assieme ad altri suoi colleghi, a bruciapelo, il 16 novembre 1989, e la, non ancora pienamente esplicitata, potenzialità del suo pensiero filosofico si

pongono come momento obbligato per comprendere e realizzare un pensare filosofico all’altezza dei tempi, rispondente ai processi di umanizzazione degli uomini in un vivere sociale inclusivo e solidale. Tenendo presente questa importante caratterizzazione del pensiero ellacuríano, l’intenzione di questa pubblicazione è quella di presentare le tappe della riflessione filosofica di Ellacuría, con l’intento di individuare coordinate significative per l’oggi, al fine di ridonare al pensare filosofico quella caratterizzazione etica orientata alla costruzione della dimora dell’umano, all’interno della quale, nel tramite di un intreccio di relazioni, intessuto di pratiche, di abitudini, di istituzioni civili e politiche e di tradizioni (pòlij), ciascuno raggiunge la propria fioritura umana.

Paolo L. Bernardini, La libertà, per esempio. Questioni mediterranee e idee liberaliMarcianum Press, 2017, pp. 336, € 26,00

Il Mediterraneo, considerato ai margini della geopolitica internazionale fino a pochi decenni fa, dopo il trasferimento dei maggiori interessi mondiali prima sull’asse atlantico, poi su

quello pacifico, è tornato prepotentemente alla ribalta. Il “mare nostrum” è ritornato ad essere, come lo fu dal tardo Settecento al secondo conflitto mondiale, un laboratorio politico, economico e sociale di prima grandezza.Dalla crisi dei profughi e migranti, al collasso della Grecia, dall’indipendentismo catalano a quello veneto, ai problemi ancora brucianti nella ex-Jugoslavia, questo libro affronta, attraverso brevi scritti, una serie di questioni mediterranee unite dal fil rouge, nella prospettiva di ricerca e di metodo, del pensiero liberale classico.La libertà, per esempio, è soprattutto libertà come esempio, come possibilità, come potenzialità ancora lontana da essere realizzata, un fuoco che cova sotto il mare. Con questo volume l’autore affronta questioni legate alla nascita di nuovi stati, alla circolazione delle persone e delle idee, ai rapporti tra le varie zone del Mediterraneo, senza trascurare l’analisi di opere storiche e letterarie, mostrando bene gli aspetti, positivi e negativi, delle varie “crisi” in corso nel bacino, ancora oggi un luogo magnifico e controverso.

Antonio Biancotto, Le sbarre, esperienza di libertàMarcianum Press, 2017, pp. 160, € 13,00

«Le voci e testimonianze dal carcere, qui raccolte in varia forma e con differenti modalità, assumono spesso il valore di un’autentica “lezione di vita” che giunge, per molti lettori, in maniera inattesa da uno di quei luoghi che narrano, al meglio, una delle più tormentate “periferie esistenziali” – secondo la frase di Papa Francesco – del nostro tempo, anch’esso così tormentato». (dalla Prefazione di Francesco Moraglia, Patriarca di Venezia). Nel contesto del Giubileo della Misericordia, in occasione della “Giornata per i detenuti” che si è svolta domenica 6 novembre 2016, il testo raccoglie testimonianze di alcuni reclusi nel carcere di S. Maria Maggiore a Venezia.L’attività caritativa svolta dal Cappellano del carcere e dai Volontari del Patriarcato emerge in questa singolare pubblicazione (di cui i veri autori sono i detenuti) che mette in evidenza il valore della prossimità e della accoglienza. In alcuni racconti particolarmente toccanti risalta poi il valore della sensibilità e della misericordia, virtù capaci di sciogliere ogni durezza e di riportare alla luce le qualità migliori di persone, la cui vita è stata spesso intaccata da vicende difficili ed amare. Sono pagine che aiutano a scoprire lo spessore umano e spirituale di chi, a volte con troppa fretta o superficialità, viene etichettato come un “delinquente” e basta.«Sono pagine intense» – scrive nella Prefazione il Patriarca Francesco Moraglia – «che aprono, però, uno squarcio di luce nitida e dirompente e soprattutto un nuovo orizzonte di speranza; attestano così, una volta di più, che davvero – come dice papa Francesco – “la misericordia di Dio, capace di trasformare i cuori, è anche in grado di trasformare le sbarre in esperienza di libertà”.

www.edizionistudium.it

pp. 752 - € 39,00eBook: € 20,99

"

EDIZIONE INTEGRALE CON

INTRODUZIONEtraduzione e note

a cura di Andrea Potestio

Ogni traduzione è, in qualche modo, un tradimento. Se bella è infedele. Se fedele è noiosa. La vera lingua, infatti, è l’originale con cui un autore dà for-ma sorgiva, con tutte le sfumature, al suo pensiero.

Questa nuova traduzione dell’Émile vuole, tuttavia, tradire il meno possibi-le. Per questo attribuisce un’importanza centrale alle categorie culturali e ai rincipi pedagogici maturati dal pensatore ginevrino nella sua formazione fortemente intrecciata di antico e di moderno. Per questo è anche un’edizio-ne critica e fi lologica, nel senso di essere molto attenta a ricostruire i frame culturali che hanno alimentato il pensiero di Rousseau e che i più recenti studi apparsi durante le celebrazioni per i trecento anni dalla nascita hanno consentito di esplorare.

Attraverso l’apparato critico di note, si è cercato, quindi, di sottolineare l’im-portanza delle fonti classiche e moderne del testo, la genesi di alcuni roblemi educativi a partire dagli anni giovanili della Mémoire, gli aspetti metafi sici ed etici del pensiero rousseauiano e le diverse accezioni che perfi no le stesse parole assumono, di volta in volta, nel procedere della narrazione.

www.edizionistudium.it

pp. 336 - € 28,50eBook: € 16,99

"

ISTITUZIONI DI SCIENZE

MOTORIEMARISA VICINI

Il volume illustra i fondamenti delle scienze motorie e sportive. A partire dalla riflessione sui quadri culturali e storico-normativi che stanno alla base delle diverse teorie del movimento si giunge all’analisi delle differenti metodologie e didattiche.

Il testo si rivolge a educatori della motricità, docenti di scuola dell’infanzia e primaria, docenti di educazione fisica, allenatori, studenti universitari di scienze motorie.