la presenza di un “codice” templare negli affreschi di tempio di ormelle

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La presenza di un “codice” templare negli affreschi di Tempio di Ormelle di Valentina Pinto A Tempio, frazione di Ormelle, nel trevigiano, si trova una chiesa che, nonostante la sua semplicità costruttiva, presenta un ciclo di affreschi sulla cui interpretazione si sono accesi numerosi dibattiti. Riguardo alle origini del complesso, quel 1190, scelto in principio dagli storici locali, verrà in seguito riveduto grazie al ritrovamento di ulteriori fonti. Nello scritto Templari e Giovanniti in territorio trevigiano (secoli XII-XIV), Gianpaolo Cagnin analizza il toponimo Templo affermando che “l’attestazione più antica finora reperita del toponimo (la cui esistenza presuppone una presenza templare ormai consolidata)”, risalirebbe al 1168: il 3 gennaio un certo Vitalis de Templo figura fra i testimoni di un contratto livellario, rogato a Treviso”. In realtà, la data, si rivelerà ben precedente grazie all’intervento dello storico Giovanni Battista Verci. Nello scritto Storia degli Ecelini, Codice Diplomatico Eceliniano, egli affermò come Ecelino I, detto “il Balbo”, dopo aver preso parte alla Seconda Crociata e al quale venne concessa, dallo stesso patriarca di Aquileia, la Villa di Radio (attuale Rai), località a pochi chilometri da Tempio, essendo lui un uomo di grande religiosità, autorizzò nel 1149 (anno in cui è documentata a Rai l’esistenza di una chiesa denominata Santa Lucia dei Templari e andata purtroppo distrutta), lasciti di beni e terreni agli ordini monastici delle chiese nei dintorni, favorendo così, a partire da quella data, anche l’insediamento dei Templari nella vicina zona di Tempio. Un altro documento importante, riguardante l’effettiva presenza locale di una magione, ci è pervenuto grazie all’intervento dello studioso Romeo Carrer che, insieme all’ex sindaco Sante Carnelos, ha pubblicato, nel libro Il comune di Ormelle, un verbale datato 1193 e tratto dagli Annales Camaldulenses. Si tratta di una lite per questione di confini e di usufrutto dei pascoli, in cui erano protagonisti i monaci della granza di Stabiuzzo, le comunità di Cornudella, Olmo, San Michele e tra le quali figure, spicca la testimonianza di tale Peregrinus de Templo, che affermò di aver visto i monaci, in quel di Stabiuzzo, da almeno trent’anni. Il termine peregrinus, ci darebbe un’ulteriore conferma su come tutta la zona, con al “vertice” Tempio ed i territori limitrofi, fosse un vero e proprio punto strategico, oltre che per fini economici, per l’accoglienza dei pellegrini. La magione, infatti, soleva situarsi nei pressi di importanti vie di comunicazione di origine romana, atte al pellegrinaggio o nei pressi di un fiume o di un corso d'acqua, ai fini di favorire l'approvvigionamento idrico, fondamentale, oltre che per la propria sussistenza, alla vendita di una parte del raccolto al fine di finanziare le guerre in Terrasanta. Il termine magione, viene fatto derivare dal latino mansus, participio passato del verbo manere, col significato di “sostare”, “rimanere”, “fermarsi”. Sorte in epoca romana, tra il I sec. a.C. ed il IV secolo d.C., come veri e propri luoghi di “sosta” per dignitari, ufficiali e coloro che viaggiavano per ragioni di stato, conosceranno un ampio utilizzo nel Medioevo, grazie ai numerosi pellegrinaggi. Nelle antiche fonti, riguardanti la presenza di magioni

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A Tempio, frazione di Ormelle, nel trevigiano, si trova una chiesa che, nonostante la sua semplicità costruttiva, presenta un ciclo di affreschi sulla cui interpretazione si sono accesi numerosi dibattiti. Riguardo alle origini del complesso, quel 1190, scelto in principio dagli storici locali, verrà in seguito riveduto grazie al ritrovamento di ulteriori fonti. Nello scritto Templari e Giovanniti in territorio trevigiano (secoli XII-XIV), Gianpaolo Cagnin analizza il toponimo Templo affermando che “l’attestazione più antica finora reperita del toponimo (la cui esistenza presuppone una presenza templare ormai consolidata)”, risalirebbe al 1168: “il 3 gennaio un certo Vitalis de Templo figura fra i testimoni di un contratto livellario, rogato a Treviso”. In realtà, la data, si rivelerà ben precedente grazie all’intervento dello storico Giovanni Battista Verci.

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La presenza di un “codice” templare negli affreschi di Tempio di Ormelle

di Valentina Pinto

A Tempio, frazione di Ormelle, nel trevigiano, si trova una chiesa che, nonostante la sua semplicità costruttiva, presenta un ciclo di affreschi sulla cui interpretazione si sono accesi numerosi dibattiti. Riguardo alle origini del complesso, quel 1190, scelto in principio dagli storici locali, verrà in seguito riveduto grazie al ritrovamento di ulteriori fonti. Nello scritto Templari e Giovanniti in territorio trevigiano (secoli XII-XIV), Gianpaolo Cagnin analizza il toponimo Templo affermando che “l’attestazione più antica finora reperita del toponimo (la cui esistenza presuppone una presenza templare ormai consolidata)”, risalirebbe al 1168: “il 3 gennaio un certo Vitalis de Templo figura fra i testimoni di un contratto livellario, rogato a Treviso”. In realtà, la data, si rivelerà ben precedente grazie all’intervento dello storico Giovanni Battista Verci. Nello scritto Storia degli Ecelini, Codice Diplomatico Eceliniano, egli affermò come Ecelino I, detto “il Balbo”, dopo aver preso parte alla Seconda Crociata e al quale venne concessa, dallo stesso patriarca di Aquileia, la Villa di Radio (attuale Rai), località a pochi chilometri da Tempio, essendo lui un uomo di grande religiosità, autorizzò nel 1149 (anno in cui è documentata a Rai l’esistenza di una chiesa denominata Santa Lucia dei Templari e andata purtroppo distrutta), lasciti di beni e terreni agli ordini monastici delle chiese nei dintorni, favorendo così, a partire da quella data, anche l’insediamento dei Templari nella vicina zona di Tempio. Un altro documento importante, riguardante l’effettiva presenza locale di una magione, ci è pervenuto grazie all’intervento dello studioso Romeo Carrer che, insieme all’ex sindaco Sante Carnelos, ha pubblicato, nel libro Il comune di Ormelle, un verbale datato 1193 e tratto dagli Annales Camaldulenses. Si tratta di una lite per questione di confini e di usufrutto dei pascoli, in cui erano protagonisti i monaci della granza di Stabiuzzo, le comunità di Cornudella, Olmo, San Michele e tra le quali figure, spicca la testimonianza di tale Peregrinus de Templo, che affermò di aver visto i monaci, in quel di Stabiuzzo, da almeno trent’anni. Il termine peregrinus, ci darebbe un’ulteriore conferma su come tutta la zona, con al “vertice” Tempio ed i territori limitrofi, fosse un vero e proprio punto strategico, oltre che per fini economici, per l’accoglienza dei pellegrini. La magione, infatti, soleva situarsi nei pressi di importanti vie di comunicazione di origine romana, atte al pellegrinaggio o nei pressi di un fiume o di un corso d'acqua, ai fini di favorire l'approvvigionamento idrico, fondamentale, oltre che per la propria sussistenza, alla vendita di una parte del raccolto al fine di finanziare le guerre in Terrasanta. Il termine magione, viene fatto derivare dal latino mansus, participio passato del verbo manere, col significato di “sostare”, “rimanere”, “fermarsi”. Sorte in epoca romana, tra il I sec. a.C. ed il IV secolo d.C., come veri e propri luoghi di “sosta” per dignitari, ufficiali e coloro che viaggiavano per ragioni di stato, conosceranno un ampio utilizzo nel Medioevo, grazie ai numerosi pellegrinaggi. Nelle antiche fonti, riguardanti la presenza di magioni

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in terra italica, ci si imbatte spesso in masòn, termine volgare che viene fatto derivare dal francese maison. Aperta questa piccola parentesi, direi di analizzare più nello specifico, la magione di Tempio. L’antico complesso, di cui oggi ci rimane solamente la chiesa, sorgeva non lontano dal fiume Piave, oltre che all’adiacente fiume Lia, che ne scorre tutt’oggi dietro l’abside: “la chiesa di Santa Maria del Tempio di Oderzo (oggi frazione di Ormelle), membro del Priorato di San Giovanni di Venezia si trova presso il ponte sopra la Lia, dirimpetto alla Masone del Tempio”, atto datato 1589.

Il Fiume Lia, foto a cura di Valentina Pinto, 2012

Un altro elemento importante è l’edificazione della masòn, da parte dei Templari, sulla via Tridentina, che da Oderzo portava a Trento, oltre alla vicina Postumia, una delle più grandi vie romane, che collegava Genova con Aquileia. La via Opitergium-Tridentum cominciava da Opitergium (attuale Oderzo) diramandosi dalla via Postumia, dove il primo tratto coincideva con un cardo della centuriazione nord della città. Giunta in prossimità del Piave, incrociava la via Claudia Augusta Altinate, rimanendo sulla riva sinistra del fiume. Consultando la Tabula Peutingeriana, un importante documento definito dagli storici “una copia medievale” di una carta originale dell'età romana imperiale, al Segmentum V, troviamo le indicazioni per raggiungere Opitergio.

Tabula Peutingeriana, Segmentum V  Riguardo al nome ed alla dedicazione del complesso, Telesforo Bini, nello scritto “De Tempieri e del loro processo in Toscana”, ci dice che alcuni Templari, processati a Firenze, accennarono ad

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una “domus de Campania” e al suo precettore Giovanni. Tra questi, tale fra’ Bernardo da Parma, testimoniò che, al Capitolo Generale di Bologna, celebrato nel 1296 dal Gran Precettore d’Italia, fra’ Guglielmo da Canelli (trascritto erroneamente “de Carelle”), l’unico al quale partecipò, vide tre Templari adorare la famosa testa di idolo. Tra i nomi, spicca quello di fra’ Giovanni “de Castro Arquati, comitatus Placentini, preceptore Campagne, comitatus Terungini”: ci troviamo ancora una volta di fronte ad una trascrizione errata: al posto di “Terungini”, doveva essere trascritto “Tervigini”, per cui si parla di “preceptore Campagne” in territorio trevigiano. Nel 1989, al Convegno del L.A.R.T.I., Libera Associazione Ricercatori Templari in Italia, la studiosa istriana Loredana Imperio, illustrò ciò che aveva rinvenuto in “L’origine di Trevigi”, antico trattato in cui risultava che, il già ampio Comitato di Treviso, comprendeva anche due zone chiamate “Campagna de Sora” e “Campagna de Sotto”. La Imperio, inoltre, confrontò una carta dell’odierna provincia di Treviso rilevando che, a circa cinque chilometri a nord – ovest di Tempio di Ormelle, esiste tutt’oggi, il toponimo di Campagna Bassa e ad un chilometro circa a sud – est, quello di Campagnola. E così, approfondendo le proprie ricerche nell’Archivio dei Cavalieri di Malta a Venezia, riuscì a dimostrare che “domus de Campania”, era il nome dell’antica magione templare, retta da Giovanni di Castellarquato fino alla fine dell’Ordine, con dedicazione a Santa Maria del Tempio. Inoltre, Bianca Capone Ferrari, con la collaborazione della stessa Imperio ed Enzo Valentini, in Guida all'Italia dei Templari, affermò che, nel 1806, sull’ingresso principale della chiesa, si trovava un’iscrizione riguardante la dedicazione alla Vergine Maria, lapide che purtroppo è andata perduta e che citava così: “l’anno 1720, il venerabile Gran Priore fra’ Alviano Spada restaurò questo tempio, dedicato alla B. Vergine Maria, che stava per cadere in rovina per la sua antica vetustità; nel 1733 lo rinforzò, lo terminò e lo munì di catene di ferro, di porta a volta, di panche, di sedili, di nuovi e più grandi ‘nolis?’ e di sacre suppellettili e così com’è l’adornò interamente il venerabile balì e Gran Priore Fra Francesco Maria dei conti di Boccaferro o Boccadiferro, che le preghiere elevate a Dio da tutti conservino a lungo in buona salute”. Per cui, i miei personali dubbi sulla possibile dedicazione alla figura di Maria Maddalena, sorti dopo aver letto, nello scritto I Templari a Tempio di Ormelle di Luciano Mingotto e Maria Antonietta Moro, l’esistenza di due fonti, datate rispettivamente 1293 e 1304, indicanti la dicitura “mansionis Sanctae Marie de Templo de Campanea”, trovano finalmente una risposta. Quel Sanctae Marie non avrebbe proprio nulla a che fare, ad esempio, con la chiesa dedicata a Santa Maria Maddalena, sita a Venezia e che le fonti, riconducono alla già citato Balbo, come il principale possibile committente. Grazie al ritrovamento di ulteriori documenti, è stato inoltre possibile risalire ai nomi di alcuni Templari che dimorarono nel complesso: nel 1178 troviamo Vitale “de Templo” (altra attestazione del toponimo Templo), nel 1227 fra’ Isnardo, precettore “domus Campagne”, nel 1247 fra’ Ermanno, precettore “domus Milicie Templi de Campagna et aliarum domorum de Marchia Tarvisina” e Gerardo da Gambellara, cappellano della chiesa. Nel 1264 fra’ Ermanno, che dimorava a Santa Maria di Campagna e nel 1268, tra i Templari presenti al Capitolo di Piacenza, viene ricordato tale fra’ Jacopo, precettore “domorum de Campania”. Nel 1304, con esattezza il 30 maggio di tale anno, fra’ Giovanni da Castellarquato, precettore della domus di Tempio di Ormelle, in presenza di fra’ Cristiano, precettore della magione templare di San Quirino in Friuli, acquistava una magione ad Ormelle, presso Oderzo: Giovanni “de Castro Arquato, preceptor domus milicie et mansionis Templi de Campanea (…) locum magistri obtinens in mansione predicta et in marchia Tarvisina (…)”. Tra il marzo del 1304 e l’aprile del 1307, anni della sua presenza in loco, lo ritroveremo in una serie di atti di acquisto, riguardanti le terre di Ormelle, Tempio e San Giorgio e di atti di permuta, come quello di una magione situata a Martellago, oggi in provincia di Venezia ma che allora, faceva parte del territorio trevigiano. Si citano infine fra’ Corrado da Urgnano, fra Nicola “de Campanille” da Treviso, fra Zardino “celeriarius”, fra Filippo, cappellano della chiesa, e fra’ Giovanni, fabbro. Cappellano, fabbro, sono termini di estremo interesse, che ci aiutano inoltre a comprendere la grande varietà dei ruoli, presenti all’interno di una magione templare. Come accennato in precedenza, di tutto il complesso della masòn di Tempio, ci rimane solamente la chiesa romanica con il suo campanile, il cui impianto architettonico ed i materiali costruttivi, sono stati datati al XII XIII secolo. Un altro importante dato ci viene fornito dagli scavi archeologici che

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hanno messo in luce come le fondazioni dell’attuale canonica, poggino su delle strutture murarie ben più antiche, datate XII secolo, datazione confermata dalla diversità della dimensione dei mattoni impiegativi (7-8 cm), maggiore rispetto ai più piccoli del porticato. La canonica venne infatti edificata al di sopra dell’ospizio per i pellegrini. Così citano il Mingotto e la Moro, in relazione allo scavo archeologico avvenuto “in occasione di lavori per la posa di impianti tecnologici a servizio della canonica”: “poderosa fondamenta a risega, larga 1 metro e 30 alla base e 0,70 – 0,80 allo spiccato del muro; il tratto verso Ovest è più stretto, senza risega; è costituita da mattoni interi e di spoglio. E’ sicuramente la struttura più antica, a cui vanno associati alcuni frammenti di ceramica di XI – XII secolo: in ogni caso è costruita su terreno di riporto formato da argille limose con evidenti ed estese tracce di bruciato. Questo muro è inoltre tagliato dalla costruzione della fondamenta della canonica che in parte lo utilizza appoggiandovisi”. Mi colpisce quel “evidenti ed estese tracce di bruciato”: possibile incendio doloso per cancellare alcuni elementi, se non l’intera struttura, “scomodi” al nuovo Ordine entrante o semplice intenzione di liberarsi del vecchio, per costruire un nuovo fabbricato? I dati archeologici, attesterebbero come, gran parte degli edifici del periodo templare, fossero stati distrutti conseguentemente alla scomparsa dell’Ordine e che solo una piccola parte, divenne “elemento di recupero” in epoca giovannita. Fortunatamente, la chiesa, rimase nella sua collocazione originaria. Di stile romanico, l’edificio, presentava un'unica navata con tre piccole absidi allineate, al cui centro era situata la maggiore. La navata, vedeva la presenza di un muretto aperto al centro che suddivideva la zona più vicina all’altare, riservata ai cavalieri, da quella in cui si disponevano i laici.

Un aspetto di rilevante importanza, è la presenza di alcune croci templari dipinte ad affresco e molto sbiadite dal tempo, situate al di sotto degli archetti pensili unenti le lesene che ripartiscono la parte superiore del portico, sulla facciata laterale della chiesa.

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Le croci appartengono senza alcun dubbio alla categoria croix pattée fichée, tipica dell’Ordine e che vedeva il braccio inferiore più lungo rispetto agli altri, a simboleggiare la spada. Quella che noi conosciamo oggi come croce patente o ottagona, cominciò in realtà a diffondersi negli ultimi anni di vita dell’Ordine, in particolar modo, presso i Giovanniti. Tale tipologia, la possiamo infatti ammirare, inserita più vote, tra le arcate sopra i pilastri e le colonne del lato meridionale del portico, all’interno di tondi in pietra, di possibile datazione ottocentesca. Anche il colore, a mio avviso, può esserci di aiuto: se la prima tipologia vede una croce rossa su campo bianco (argento), la seconda presenta una croce bianca (argento) su campo rosso, tipica dei Cavalieri di Malta. Una data fondamentale che ci facilità nell’analisi dell’antica chiesa, è il 1312, in cui avvenne l’effettivo passaggio dell’intero complesso della masòn, ai Cavalieri di Malta, che vi costituirono un Priorato dipendente da quello di Venezia. Il Cagnin, nel suo intervento riguardante le presenze templari in territorio trevigiano, negli atti dal IX Convegno di Ricerche Templari del L.A.R.T.I, ci dice che, riguardo al periodo del processo, si sa veramente poco. Possediamo una sola fonte, datata 1334 e ritenuta “ambigua”, che affermerebbe come “nel mese di giugno il podestà di Treviso ordina a Nicoletto da Rovare ed a Bortolo da Tempio di pagare quanto dovuto a Biagio da Tempio e a Domenico figlio del defunto Pietro Templare per un trasporto con carri da Tempio a Treviso”. L’autore, inoltre, ci incuriosisce dicendoci che “non si trovano informazioni certe di Templari nati a Tempio di Ormelle” ma che “le uniche attestazioni riguardano alcuni frati domenicani, come il longevo frate Compagno e frate Pietro da Tempio, ambedue residenti nel convento di San Nicolò di Treviso”.

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Ma veniamo ora ad un altro importantissimo dato, riguardante la presenza di affreschi collocati tra la parete occidentale e meridionale del sottoportico e venuti in gran parte alla luce, grazie al restauro dell’architetto Vanni Tozzo. Grazie a quest’opera, fu possibile datarne le varie fasi di intervento sulla superficie muraria. Quelle di cui ci interesseremo, riguardano il XII e la seconda metà del XIII secolo, che chiameremo, rispettivamente, primo e secondo strato. Il primo strato, che vede l’utilizzo di un intonaco composto di calce e sabbia, ci ha ridato alla luce alcuni resti di scrittura su affresco, datati XII secolo: due sul lato meridionale (A e B) e una sul lato occidentale (C). Le scritture sono tutt’oggi prive di interpretazione, data la loro forte corrosione. Secondo la mia opinione, data la loro mediocre qualità, ci troviamo di fronte a quel periodo di transizione che, dalla Capitale Romanica, portò alle prime manifestazioni della scrittura Gotica, con la conseguente unione di lettere dalle forme capitali, mistilinee ed onciali. La scrittura A, mi sembra possa trattarsi di una preghiera o comunque, un’esortazione a pregare, vista la presenza di due elementi fondamentali che ora vi esplicherò.

In primis, l’unione tra l’iniziale residuo di ciò che doveva essere una “p” e quel N + S, con il sovrastante segno di nesso, indicante la presenza di lettere mancanti che, nel nostro caso, dovrebbero formare la parola NoSter. La precedente vicinanza di quella “p” con relativo tratto sovrastante (anch’esso segno sostitutivo di lettera/e), mi da l’idea che l’autore si volesse riferire al Padre Nostro, in latino Pater Noster ed in greco, Πάτερ  ἡμῶν.

Guardando l’immagine, possiamo inoltre notare una forte somiglianza con i caratteri greci (….)ρ  ἡ(.)ῶ(.).    

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L’altro importantissimo elemento, è quell’unione di O + R, seguita dalla lettera A, che potrebbe trattarsi della possibile esortazione alla preghiera dal verbo latino orare. Un’ultima curiosità, quel ICIE’ con apostrofo finale che denota un’abbreviazione, potrebbe riferirsi a quel in cælis della prima frase del Padre Nostro che dice: “Pater Noster qui es in cælis”.    

[.] PNS [.] ICIE’ O(?) M(?)[.] / ORA[.]

Per quanto riguarda la scrittura B, si nota un allineamento dei caratteri più stabile, se non, un estremo ravvicinamento delle lettere, con una grande presenza di nessi e legature. L’alta corrosione degli elementi, non me ne consente l’interpretazione.

La scrittura C è pressoché incomprensibile. Gli unici elementi riconoscibili sono due segni che si pongono a sostituzione di lettere mancanti e che tanto assomigliano alla lettera greca Ω, oltre la presenza di una possibile “D”.

Il secondo strato, datato verso la seconda metà del XIII secolo e composto da una prevalenza di polvere di marmo e calce, presenta una decorazione a riquadri di eguale altezza ma di diversa lunghezza fra loro, “incorniciati” da un motivo lineare di colore rosso. Nella parte superiore, troviamo, inoltre, una fascia che presenta un’alternanza di linee verticali di colore rosso e bianco. Nei riquadri, sono racchiusi gli episodi del Nuovo Testamento, nello specifico, del ciclo cristologico e mariano. Per facilitarne la comprensione, suddividerò gli affreschi in scene, che ci tengo a ribadire, non sono in ordine cronologico. In realtà, l’autore stesso (o gli autori) dell’intero ciclo, sembra non abbiamo voluto rispettare l’esatta disposizione cronologica degli episodi. Ad oggi non se ne comprende il motivo. Scarsa conoscenza dei testi sacri o volontà di esprimere qualcosa? Il

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dubbio rimane. La datazione del ciclo di affreschi, ci è pervenuta grazie al parere di eminenti storici dell’arte, tra cui, la dottoressa Gabriella Delfini. SCENA A: Cena a casa di Levi (o Ultima Cena?)

Lettura, da sinistra verso destra, degli elementi componenti l’episodio: - stanza composta da tre arcate ed una tavola centrale, di medie dimensioni, munita di tovaglia lievemente drappeggiata sul bordo. - figura dalla corporatura femminile, munita di cuffia o pettinatura raccolta, manto rosso e che, con la mano sinistra, regge un vassoio all’interno del quale si scorge una sagoma (possibile crostaceo o forma di pane, visto il colore più giallastro rispetto ad un’altra forma ovale, rossiccia, che si trova sul tavolo e che pare presenti delle zampe). Il palmo della mano destra, aperto, è teso in posizione verticale, tipica della benedizione o dell’accoglienza di chi porta del cibo ai suoi ospiti. - figura aureolata(?), “seduta” a tavola, di minori dimensioni (azzardo di prospettiva). - di fronte, sul tavolo, una sagoma ovale, di colore rosso, contornata da piccoli segmenti, quali le zampe di un crostaceo. - dubbio su quella struttura geometrica (posta al centro, in linea con l’arcata centrale) che pare essere una sedia e sulla quale è seduta una figura dalla tunica rossa, aureolata, che a braccia aperte, si rivolge verso l’”ostessa”. Pare stia tenendo un pezzo di pane (?) con la mano destra. - dietro al soggetto (dal lato opposto del tavolo) un’altra sagoma aureolata. - infine, in basso a destra, possibile parte inferiore della veste di un soggetto in piedi (altra figura serviente?) Teniamo ben presente di come, oltre allo scarso uso della prospettiva, lo spazio a disposizione, per quello che vi si voleva rappresentare, fosse ben limitato. L’episodio, è stato interpretato come la Cena a casa di Levi, dal Vangelo secondo Luca in cui, Matteo, “Levi”, allestisce un banchetto nella propria dimora. In realtà, se si parla di banchetto, sono molti gli episodi presenti nel Vangelo, tra i quali ricordiamo l’incontro con Marta e Maria e la cena a casa del Fariseo. Ma vediamo di analizzare cosa ci dicono gli apostoli, al fine di cogliere qualche dettaglio in più che possa aiutarci nell’interpretazione. Nella Cena a casa del Fariseo non compare nessun dettaglio mentre, nell’episodio riguardante Gesù a Casa di Marta e Maria, potrebbe trarci in inganno quel “(…) 40 Marta invece era tutta presa dai molti servizi (…)”, frase tratta dal vangelo secondo Luca 10,38-42 e che potrebbe riferirsi a quella figura femminile con il vassoio, che ho definito ostessa. Troppo poco, direi. Riguardo alla Cena a Casa di Levi, Luca (Luca 5,27 – 33) ci dice che “(…) 27 Dopo queste cose, egli uscì e notò un pubblicano, di nome Levi, che sedeva al banco delle imposte, e gli disse: “Seguimi. 28 Ed egli, lasciata ogni cosa, si alzò e si mise a

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seguirlo. 29 Levi gli preparò un grande banchetto in casa sua; e una gran folla di pubblicani e di altre persone erano a tavola con loro. 30 I farisei e i loro scribi mormoravano e dicevano ai discepoli di Gesù: “Perché mangiate e bevete con i pubblicani e i peccatori?”. 31 Gesù rispose loro: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, bensì i malati. 32 Io non sono venuto a chiamare dei giusti, ma dei peccatori a ravvedimento”. 33 Essi gli dissero: “I discepoli di Giovanni digiunano spesso e pregano; così pure i discepoli dei farisei; i tuoi invece mangiano e bevono”(…)”. Dalle parole di Luca notiamo che si parla di “un grande banchetto”, inteso come sfarzosità. In realtà subito dopo, ci narra della presenza di “una gran folla”. Nell’affresco di Tempio, si nota una tavola di modeste dimensioni, “circoscritta”, se si può dire, all’interno di “un’ipotetica stanza” di tre arcate. In Palestina, ai tempi di Gesù, oltre alla numerosa presenza di poveri ed un piccolo ceto, che viveva in condizioni modeste, vi erano i ricchi commercianti, proprietari terrieri, se non usurai, chiamati pubblicani: “perché mangiate e bevete con i pubblicani e i peccatori”. La presenza di una donna che serve del cibo, inoltre, denoterebbe un vero e proprio “via vai” di vivande, di certo adatto ad un simile episodio: “i discepoli di Giovanni digiunano spesso e pregano; così pure i discepoli dei farisei; i tuoi invece mangiano e bevono”. Questo fatto mi allontana da una mia prima interpretazione con un altro episodio, sicuramente più conosciuto, ovvero, l’Ultima Cena, dove la situazione era ben diversa e si doveva respirare un clima di semplicità e povertà. Non dobbiamo sottovalutare il fatto che siamo in pieno Medioevo, dove il banchetto era visto come una festa di ricchezza ed abbondanza e che questa concezione, potesse essere stata trasposta nell’opera stessa, reinventandola, seguendo il tipico “stile” di una festa a corte dell’epoca. Nel vassoio (sono incerta se, in questo caso, si tratti semplicemente di pane, visto il colore giallastro) che regge la donna, così come un’altra ben più visibile sulla tavola, vi è la sagoma ovale di quello che dovrebbe essere un crostaceo.

Questa figura, come ad esempio, nell’ Ultima Cena di Giovanni di Francia detto il Francione, collocata nella vicina Chiesa di San Giorgio di Piave, la ritroveremo in moltissime altre, presenti nel territorio tra Veneto e Piemonte, dove, nelle tavole imbandite, era un motivo costante.

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Ultima Cena, Chiesa di San Giorgio di Piave, Treviso, XV secolo.

Ma dopo aver visto un Ultima Cena del XIII secolo, per cui circa dello stesso periodo, collocata nella Chiesa di San Vittore, a Tonadico, antico paese della Valle di Primiero, in Trentino, mi sono accorta di come, oltre ai nostri crostacei, sia presente anche la “stessa donna con il vassoio”. Questo mi induce a pensare che l’affresco di Tempio, più che la Cena a Casa di Levi, sia una vera e propria Ultima Cena.

Ultima Cena, Chiesa di San Vittore a Tonadico, Trentino, XIII secolo.

Risolto questo punto, ce ne rimane uno da analizzare, ovvero, il perché della presenza dei crostacei, abituati come siamo alla sola idea del pane e del vino, alla tavola del Cristo? Nel Levitico (11,10), terzo libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana, si dice che mangiare i crostacei è proibito, se non abominio: “Di tutti gli animali, che si muovono o vivono nelle acque, nei mari e nei fiumi, quanti non hanno né pinne né squame, li terrete in abominio”. Porne dunque uno al cospetto di Gesù, è semplice eresia o possiede un più profondo simbolismo? La prima risposta che ci deve venire naturale è che, storicamente, territori come l’adiacente San Polo di Piave, erano rinomati per la pesca del gambero di fiume, per cui ritrovare questo crostaceo in un banchetto, era semplice normalità. Lo scrittore e poeta milanese Bovesin de la Riva, attestò che il gambero di fiume era uno dei piatti quaresimali più presenti, soprattutto sulle mense signorili. Un aiuto ci perviene anche dalla toponomastica veneta, dove la denominazione di numerosi paesi deriverebbe proprio dall’antica presenza del gambero d’acqua dolce in quelle località: Gambellara a Vicenza, Gambarare a Venezia e Valdastico, sempre a Vicenza, che prende il proprio nome da astacus. Ma che correlazione c’è, dunque, tra i Templari ed il gambero? Questo crostaceo, così come il granchio, rappresenta nello zodiaco la costellazione del Cancro, il passaggio dalla stagione estiva a quella autunnale. Inoltre, il

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suo tipico movimento a ritroso, potrebbe essere inteso come l’inizio della fine, la rappresentazione dell’imminente passione e morte del Cristo. Nonostante questo discorso ci faccia gola, rivedendo l’affresco di Todanico, notiamo l’incredibile somiglianza delle due forme ovali che gli storici hanno interpretato come una particolare forma di pane. Questo ci aiuterebbe ancora di più sull’individuazione di un’Ultima Cena nell’affresco di Tempio ma ci lascerebbe dei dubbi, dunque, riguardo alle affascinanti interpretazioni sul “camminare a ritroso”, tipico del gambero. Ingrandendo di molto una delle due figure ovali di Tempio, per la precisione, quella sulla tavola, notiamo tanti piccoli segmenti che corrono lungo la sagoma e che potrebbero benissimo essere le zampine di un gambero. Riguardo al luogo in cui si svolse l’Ultima Cena, i vangeli ce ne ripotano una piccola descrizione: “(…)12 Egli vi mostrerà una sala al piano superiore, grande e addobbata (…)” Luca 22,9-20; “(…)15 Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala con i tappeti, già pronta (…)” Marco 14,9-25. Questi elementi potrebbero aiutarci a comprendere come doveva presentarsi la stanza, dove le tre possenti arcate raffigurate nell’affresco di Tempio, potrebbero essere le principali strutture che reggevano la “grande sala al piano superiore”. SCENA B: Dormizione di Maria

Lettura, da sinistra verso destra, degli elementi componenti l’episodio: - lunga merlatura a terminazione orizzontale (o “merli guelfi”, ampiamente diffusi nel XII - XIII secolo, dove la denominazione non possiede alcun valore storico), con la presenza di una torre, munita di apertura centrale. - figura aureolata, in posizione seduta, di lato e disposta “di fronte” alla torre, con manto dallo spiccato colore rosso ed un cappuccio (la Vergine Maria). - un neonato in fasce, aureolato (anima di Maria che rinasce simbolicamente nel corpo di un neonato). - figura nimbata, in piedi, che lo tiene tra le braccia (il Cristo). - figura aureolata che regge un manto con la mano sinistra (la vicinanza al Cristo e la marcata aureola, potrebbero denotare la presenza dell’apostolo Pietro?). - figura velata (Maddalena? O una delle “tre vergini” presenti alla veglia?). - figura tunicata con le braccia e le mani in posizione di stupore e benedizione (apostolo Giovanni? Che si narra vegliasse ai suoi piedi?) Sommando tutti gli elementi, direi che ci troviamo di fronte ad una Transitus Virginis o Dormitio Mariae, ovvero, il momento in cui la Vergine Maria, attorniata dagli apostoli, viene colta dal sonno

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della morte e la sua anima, “rinasce” sotto forma di neonato, accolta tra le braccia del figlio. L’anima visibile, che si separa e si erge in cielo, è un elemento tipico della cultura dell’antico Egitto, penetrato, attraverso le dottrine gnostiche, nella tradizione iconografica del tema. Non è dunque un caso che l’evento, ampiamente raffigurato nel corso dei secoli, venne raccontato solamente da alcuni vangeli apocrifi, il più antico dei quali, composto nel IV secolo, presenta parti originali più antiche, in lingua copta, risalenti al II secolo e ritenute opera di tale Leucio, discepolo di San Giovanni. I Templari, dunque, a così stretto contatto con l’Oriente ed in quanto conoscitori dello gnosticismo, scelsero di rappresentare questo episodio della vita di Maria che, a partire dal XVI secolo, dal Concilio di Trento in poi, verrà definitivamente sostituito con quello dell’Assunzione, in cui assisteremo al trasporto dell’anima e del corpo di Maria, in cielo. Ma vediamo cosa ci dicono i vangeli apocrifi, o almeno, i pochi a noi pervenuti, al riguardo. Fonte 1: TRANSITO R - Cod. Vatic. gr. 1982 (Cod. Vatic. gr. 1982, ff. 181-189V), racconto di San Giovanni teologo ed evangelista sulla dormizione della Theotokos Panaghia: (…) [32] Mentre Pietro parlava e confortava le folle (…) [35] Il Signore la abbracciò, prese la sua anima santa, la pose tra le mani di Michele, l'avvolse in pelli delle quali è impossibile manifestare la gloria. Noi apostoli abbiamo visto l'anima di Maria affidata alle mani di Michele in una perfetta forma umana, a eccezione dei tratti di femmina o di maschio, senza altro all'infuori della somiglianza di ogni corpo, e uno splendore sette volte più grande (…). L’anima che trasmuta, diventa un neonato, “una perfetta forma umana” avvolta “in pelli”. Fonte 2: TRANSITO COLBERTIANO (dal Cod. di Parigi lat. 2672 ff. 7-12) (…) [3, 1] Radunati tutti i suoi parenti e amici, disse loro: "Vi prego di restare con me poiché domani uscirò dal corpo e andrò nella pace sempiterna" (...)[6, 1] (…) Dopo la preghiera si pose sul suo letto. Al suo capo si pose a sedere il beato Pietro e tutti gli apostoli erano intorno al letto (…). Oltre all’anima che “esce dal corpo”, troviamo la spiegazione su chi vi si trovasse attorno, ovvero, Pietro e gli altri apostoli. “al suo capo si pose a sedere Pietro”: l’imponente figura accanto al Cristo, dunque, potrebbe essere proprio lui, visto la sua vicinanza a Maria. Fonte 3: TRANSITO DELLA BEATA VERGINE MARIA (Recensione lat. A) (…)[2] (…) Sappi che i miei angeli ti custodirono sempre e ti custodiranno fino al tuo transito (…) sappi che la tua anima si separerà dal corpo ed io la porterò in cielo dove non avrà più né angustia né tribolazione alcuna (…) Ecco l’utilizzo del termine “transito” e soprattutto, del fatto che “l’anima si separerà dal corpo”. Fonte 4: TRANSITO DELLA BEATA VERGINE MARIA di san Melitone vescovo di Sardi (Recensione lat. B) (…) [2] “Ti prego di fare scendere su di me la tua benedizione affinché nell'ora in cui la mia anima esce dal corpo non mi venga incontro alcuna potenza infernale ed affinché io non veda il principe delle tenebre” [2] (…) Or dunque, ve ne prego, vegliamo tutti insieme ininterrottamente fino al momento in cui il Signore verrà ed io mi separerò dal corpo (…) [7, 1] (…) Nel terzo giorno, verso l'ora terza, tutti quelli che si trovavano nella casa furono colpiti da sopore e nessuno poté restare sveglio ad eccezione degli apostoli e di tre vergini che si trovavano là (…)[2] Detto questo, il Signore affidò a Michele, preposto al paradiso e principe della stirpe ebraica, l'anima della santa Maria (…)[10, 1] Le tre vergini che erano presenti e vegliavano, presero il corpo della beata Maria e lo lavarono, secondo l'uso funebre (…).

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Oltre all’anima che si separa dal corpo, troviamo un altro importante elemento per la comprensione del nostro affresco: la presenza di “tre vergini” alla veglia di Maria, per cui, la figura femminile che ho in principio descritto come velata, altro non sarebbe che una delle tre vergini. Fonte 5: FRAMMENTO COPTO SULLA MORTE E RISURREZIONE DI MARIA (…) [12] Guardammo ed ecco la santa vergine Maria con il corpo vestita come fosse appena nata,(…). Ed ecco la descrizione della “reincarnazione” dell’anima di Maria nel corpo di un neonato, “come fosse appena nata”. Fonte 6: DISCORSO DI SAN GIOVANNI IL TEOLOGO SUL RIPOSO DELLA SANTA MADRE DI DIO (TEOTOCO) [39] (…) Il Signore restò presso di lei, dicendo: “Da questo momento il tuo prezioso corpo sarà trasportato in paradiso, e l'anima tua santa in cielo tra i tesori del Padre mio, in uno splendore straordinario, dove è pace e gioia di angeli santi ed altro ancora” (…) [44] Rivolto poi a Pietro, il Signore disse: “E' giunto il momento di intonare l'inno” (…) Tutti ringraziarono Dio. Stese le sue mani immacolate, il Signore accolse la santa e pura anima di lei (…) Ed ecco due elementi fondamentali da segnalare, quali l’anima che abbandona il corpo e la presenza focale dell’apostolo Pietro. Fonte 7: MORTE DI NOSTRA SIGNORA SEMPRE VERGINE MADRE DI DIO (TEOTOCO) MARIA scritta da Giovanni arcivescovo di Tessalonica (…) [4, 1] (…) “Ascolta, Signore, la preghiera di tua madre, Maria, che grida verso di te, e inviami la tua benevolenza. Nel momento in cui io uscirò dal corpo, non mi venga davanti nessuna autorità, realizza invece quanto mi hai risposto allorché, piangendo, io dissi: Che farò per scacciare le potestà che verranno sull'anima mia?”. Tu mi hai promesso: “Non piangere! A te non verranno né angeli né arcangeli, né cherubini né serafini, né alcuna altra potestà, ma io stesso verrò dall'anima tua” (…) [12, 1] (…) al suo capo si sedette Pietro, ed ai piedi Giovanni: gli altri apostoli circondavano il suo letto. Verso l'ora terza del giorno, s'udì dal cielo un tuono fragoroso, si diffuse un graditissimo odore che fece addormentare tutti i presenti ad eccezione dei soli apostoli e delle tre vergini, alle quali il Signore aveva ordinato di vegliare affinché fossero testimoni delle esequie di Maria e della sua gloria (…) Maria parla in prima persona, consapevole che “lei stessa” (“io”), sotto forma di anima, uscirà dal proprio corpo. Conosciamo la posizione degli apostoli, quali Pietro, “al suo capo” e Giovanni, “ai piedi”, oltre alla presenza delle tre vergini. Tornando all’affresco di Tempio, dunque, la figura maschile disposta in piedi accanto a Maria e che tiene in braccio un neonato in fasce, rappresentazione simbolica della sua anima, altro non sarebbe che il Cristo, caratterizzato dal nimbo crociato aureo. Infine notiamo la presenza di altre figure, quali Pietro, una vergine e Giovanni, che giacciono al suo capezzale. Un altro particolare, semplice ma splendido per la sua rarità, è la posizione, seduta, della Vergine. La tradizione orientale, infatti, vedeva l’immagine di una Madonna distesa o Koimesis, che letteralmente significa “il sonno della morte”. In seguito, la chiesa latina, tradusse il termine con Dormitio, in quanto la leggenda, vuole che la Vergine non fosse propriamente morta ma addormentata nei tre giorni precedenti la sua Resurrezione. Ben presto si passò all’utilizzo di Transitus, con la volontà di designare il passaggio dell’anima alla vita eterna.

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Esempio di Dormitio seduta: Maestro del polittico di Grudziadz, 1390 circa. Secondo alcuni liberi ricercatori locali, forse amanti del lato mistico dell’Ordine, la figura femminile è stata identificata con Maria Maddalena e questo, grazie alla presenza della tunica rossa e la grande torre che possiamo scorgere alle sue spalle (il nome Maddalena deriva dall’aramaico Magdalha e dall’ebraico Migdal, con il significato di “torre”). Dato, a mio avviso, non corretto, in quanto il colore rosso delle vesti, così come la torre, sono due elementi ampiamente presenti, anche nell’iconografia della Vergine. Ad esempio, uno splendido esempio di Madonna duecentesca dal manto rosso, lo possiamo ammirare nella chiesa di San Clemente al Vomano, in provincia di Teramo. Inoltre, nell’arte bizantina, noteremo come il rosso, “porpora”, il colore della regalità, era ampiamente utilizzato nell’iconografia mariana. Nelle litanie lauretane, la supplica litanica che dalla prima metà del XVI secolo si cantava a Maria, si parla di una preziosa “torre d’avorio”, ad indicarne la sua inviolabilità, ovvero, la sua perpetua verginità. Ma per capire se i Templari fossero entrati a contatto con questa terminologia, dobbiamo spingerci ben più indietro nei secoli. Il termine turris eburnea, infatti, comparve per la prima volta nel Cantico di Salomone o Cantico dei Cantici, contenuto nell’Antico Testamento. Il Cantico, scritto in lingua ebraica, da un autore ignoto (si ritiene che la sua composizione, avvenne in Giudea tra il V-III secolo a.C., sulla base di un presunto testo più antico, forse risalente al X secolo a.C), contiene dei veri e propri poemi d'amore, sotto forma di dialogo, che si scambiano “Salomone” ed una donna, tale “Sulammita”. Salomone (Cantico 7 : 5) dice: “Il tuo collo come una torre d'avorio; i tuoi occhi sono come i laghetti di Chesbòn, presso la porta di Bat-Rabbìm; il tuo naso come la torre del Libano che fa la guardia verso Damasco”. “Collum tuum sicut turris eburnea”, concetto che si diffuse ampiamente nel Medioevo e al quale si riferì San Girolamo, autore della Vulgata, la prima traduzione della Bibbia in lingua latina e secondo cui, “Cristo è il capo della Chiesa e la sorgente di tutte le grazie, ma la Vergine Maria è come il collo attraverso il quale queste grazie passano, per rigenerare le membra del Corpo mistico di Cristo”. Scena C e Scena D: Tentazione di Cristo (terza e prima)

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Lettura, da sinistra verso destra, degli elementi componenti l’episodio: - C: figura, in piedi, con tunica rossa, manto, aureola, braccio destro alzato ed indice teso (Cristo?). - C: piccolo triangolo nero (situato sotto la finestra) (Satana?) - D: figura, seduta, con tunica rossa, manto blu, braccio sinistro appoggiato sulle gambe e braccio destro semi teso in avanti (Cristo). - D: figura demoniaca (Satana).

Affreschi C e D

Gli storici locali hanno suddiviso quello che secondo me è un “pannello” unico, in ben due episodi, che chiamerò rispettivamente C ed D. Se l’affresco C fa parte di quella serie di episodi definiti “indecifrabili”, la D è invece stata interpretata come la Tentazione di Cristo. A mio avviso, si tratta di un affresco unico in cui presenziano ben due scene: la prima e la terza tentazione. Ma vediamo come. In C, notiamo un personaggio dalla veste rossa ed un manto ben drappeggiato che tanto mi ricorda la figura del Cristo. Purtroppo l’affresco si è corroso nella parte adiacente alla testa per cui non ci permette di capire se, quella lieve aureola che si intravede, possa presentare il tipico nimbo crociato. Una cosa mi colpisce, ovvero, il braccio destro proteso in avanti, con l’indice della mano che pare voglia indicare qualcosa. La scena, interrotta da una più tarda finestrella, vede la presenza, al di sotto di questa, di un piccolo residuo di affresco, tendente al nero che potrebbe trattarsi di un residuo della figura del demonio. La scena mi ricorda incredibilmente il dipinto appartenente alla predella della Maestà del Duomo di Siena, intitolato, La Tentazione di Cristo sul monte, di Duccio di Buoninsegna (XIII – XIV).

La Tentazione di Cristo sul monte, di Duccio di Buoninsegna, Maestà del Duomo di Siena, XIII – XIV.

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L’affresco D, è invece facilmente riconoscibile, grazie alla sagoma di una figura demoniaca dotata di ali, coda e gambe zoomorfe. Di fronte a lui, il Cristo, seduto e con il braccio proteso in avanti. La sua veste è di un blu molto intenso, colore che, soprattutto nel XIII secolo, simboleggiava il più alto grado di nobiltà, metafora di spiritualità e trascendenza. Il colore delle vesti, ricorda il Cristo della già citata Tentazione di Cristo sul monte, di Duccio, anche se, la disposizione dei soggetti, del demonio in particolare, mi rimanda alla Tentazione di Cristo situata nella Basilica di Sant'Abbondio di Como, datata XIV secolo.

Tentazione di Cristo, Basilica di Sant'Abbondio di Como, XIV secolo

A differenza della parte C, il braccio del Cristo, seduto e non in piedi, è meno teso e c’è meno irruenza. E così ho deciso di vedere cosa dice il Vangelo al riguardo, per capire, nello specifico, di che tentazione possa trattarsi. Matteo 4,1-11 1 Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per esser tentato dal diavolo. 2 E dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, ebbe fame. 3 Il tentatore allora gli si accostò e gli disse: “Se sei Figlio di Dio, di' che questi sassi diventino pane”. 4 Ma egli rispose: “Sta scritto: Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. 5 Allora il diavolo lo condusse con sé nella città santa, lo depose sul pinnacolo del tempio 6 e gli disse: “Se sei Figlio di Dio, gettati giù, poiché sta scritto: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo, ed essi ti sorreggeranno con le loro mani, perché non abbia a urtare contro un sasso il tuo piede”. 7 Gesù gli rispose: “Sta scritto anche: Non tentare il Signore Dio tuo”. 8 Di nuovo il diavolo lo condusse con sé sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo con la loro gloria e gli disse: 9 “Tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai”. 10 Ma Gesù gli rispose: “Vattene, satana! Sta scritto: Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto”. 11 Allora il diavolo lo lasciò ed ecco angeli gli si accostarono e lo servivano. I luoghi sono il “deserto”, luogo tradizionalmente identificato con la Bassa Valle del Giordano, a pochi kilometri da Gerusalemme, la “città Santa (…) sul pinnacolo del tempio” ed infine il “monte altissimo”, che si affaccia a picco su Gerico, dove oggi sorge il Monastero greco-ortodosso della Tentazione e che un tempo, vide la costruzione di una chiesa da parte dei Crociati stessi. Conosciuto dai palestinesi come il Quruntul Giabal, il “Monte dei Quaranta Giorni”, fu da sempre luogo di forte pellegrinaggio. L’affresco è purtroppo corroso e non ci è dato comprenderne l’esatta location ma un elemento ci può aiutare, ovvero, il fatto che Gesù sia seduto. Se l’affresco C vede un Cristo che stanco del demonio si alza e gli dice “Vattene satana!” e che potrebbe dunque essere

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identificato con la terza tentazione, quella avvenuta sul “monte altissimo”, l’affresco in questione potrebbe trattarsi o della prima o del seconda tentazione. Ma cerchiamo qualche elemento in più negli altri evangelisti. Marco 1,12-13 12 Subito dopo lo Spirito lo sospinse nel deserto 13 e vi rimase quaranta giorni, tentato da satana; stava con le fiere e gli angeli lo servivano. Luca 4,1-13 1 Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano e fu condotto dallo Spirito nel deserto 2 dove, per quaranta giorni, fu tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni; ma quando furono terminati ebbe fame. 3 Allora il diavolo gli disse: “Se tu sei Figlio di Dio, di' a questa pietra che diventi pane”. 4 Gesù gli rispose: “Sta scritto: Non di solo pane vivrà l'uomo”. 5 Il diavolo lo condusse in alto e, mostrandogli in un istante tutti i regni della terra, gli disse: 6 “Ti darò tutta questa potenza e la gloria di questi regni, perché è stata messa nelle mie mani e io la do a chi voglio. 7 Se ti prostri dinanzi a me tutto sarà tuo”. 8 Gesù gli rispose: “Sta scritto: Solo al Signore Dio tuo ti prostrerai, lui solo adorerai”. 9 Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul pinnacolo del tempio e gli disse: “Se tu sei Figlio di Dio, buttati giù; 10 sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordine per te, perché essi ti custodiscano; 11 e anche: essi ti sosterranno con le mani, perché il tuo piede non inciampi in una pietra”. 12 Gesù gli rispose: “È stato detto: Non tenterai il Signore Dio tuo”. 13 Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato. La risposta potrebbe giungerci proprio nella citazione “di' a questa pietra che diventi pane”, tratta dal Vangelo di Luca e che ben si rifà al nostro Cristo, seduto su “una pietra” nel deserto. Per cui mi sentirei tranquilla nell’affermare che potremmo trovarci di fronte alla prima tentazione. Come nell’iconografia bizantina, il Cristo assume una posizione di uomo pensante, che induce a quella meditazione, tipica della filosofia orientale e che aveva passato i confini dell’Oriente, giungendo ben presto in Europa, dove gli stessi Templari solevano praticarla. Inoltre, l’ampiezza dello spazio dedicato a questo episodio biblico, dove il bene vince sul male, potrebbe anche essere una sorta di celebrazione nei confronti dei Templari stessi, che nel nome di Dio, avevano riportato molte vittorie sugli “infedeli”, proprio nella Terra dove avvennero le tentazioni. Per puntualizzare, quella piccola striscia di colore rosso verticale, posta sotto la finestrella, non mi sembra faccia parte di quelle “linee separatorie di scena” ma al contrario, dovrebbe trattarsi del residuo di un’altra immagine li raffigurata. Se così non fosse, non ne cambierebbe comunque l’interpretazione: scena C – terza tentazione e scena D - prima tentazione.

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Scena E: Ultima Cena (o Pentecoste?)

Lettura, dall’alto verso il basso, degli elementi componenti l’episodio: - sei (?) personaggi aureolati (il Cristo o la Vergine al centro?), i cui laterali, con lo sguardo rivolto verso il centro: dietro di loro e specialmente verso gli angoli, sono visibili delle linee che indicherebbero la profondità della stanza. - un grande rettangolo privo di prospettiva con doppia linea finale (tavolo o balconata?). - in basso a destra, personaggio aureolato (semplice posizione ribassata o a “capotavola”?).

In effetti, pensando ai numerosi problemi prospettici dell’epoca, direi che la scena in questione potrebbe mostrare una grande tavola rettangolare, con i personaggi disposti intorno ad essa e dunque, spingerci verso l’ipotesi dell’Ultima Cena, rivedendo così, nell’episodio A, un altro episodio conviviale. Ad un confronto con l’Ultima Cena di Duccio di Buoninsegna, in effetti, nell’affresco di Tempio notiamo, verso il basso, due linee di due livelli differenti, che potrebbero indicare “l’altezza” del tavolo. Le linee che denotano la profondità delle pareti, poste in alto, dietro i personaggi, le ritroviamo anche nel Buoninsegna. Un ultimo appunto: spostandoci dalla figura centrale verso destra, notiamo che, tra i due, i tratti che delineano la parete sul retro, sono perfettamente visibili, scomparendo spostandoci più verso il basso: è forse presente un personaggio steso sul tavolo, vicino al Cristo? L’apostolo Giovanni? Sul lato sinistro, dove i personaggi sono forse più concentrati e con la schiena diritta, le linee della parete sono quasi inesistenti.

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Personale modifica attuata su: L’ultima Cena, Duccio di Buoninsegna, retro della parte centrale della Maestà, Museo dell’Opera del

Duomo, Siena, 1308 - 11. Effettivamente, gli elementi sono scarsi. Dei presunti apostoli si è conservato ben poco e mi sembra di intravedere troppi spazi vuoti tra i personaggi. Per cui mi sentirei di riportarvi l’interpretazione data dallo studioso Modenese Diego Cuoghi e verso la quale mi vedo più propensa. Egli identifica, nell’affresco di Tempio, l’episodio della Pentecoste, ovvero, la discesa dello Spirito Santo su Maria e gli apostoli. Supportati dalle parole di Luca che, negli Atti degli Apostoli (Atti 1,13-14), dice “13 Quando furono entrati, salirono nella sala di sopra dove di consueto si trattenevano Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo d'Alfeo e Simone lo Zelota, e Giuda di Giacomo. 14 Tutti questi perseveravano concordi nella preghiera, con le donne, e con Maria, madre di Gesù, e con i fratelli di lui”, direi di analizzare l’affresco più accuratamente. Partendo dall’alto, possiamo notare che alcune figure sono sopraelevate rispetto al resto, se non ad altre, come se si trovassero su un balcone o, visto com’erano strutturate le case di Gerusalemme a quei tempi, al piano superiore della casa. Mentre i più poveri abitavano in piccole case di forma cubica, formate da una sola stanza, altre presentavano due livelli, separati da uno scalino. Nella parte superiore si trovava la cucina, la sala da pranzo e la camera da letto, mentre la parte inferiore era adibita a bottega o stalla per gli animali. Il tetto, infine, costruito a terrazza, era raggiungibile per mezzo di una scala esterna all’edificio. Tornando al nostro affresco, il discorso riguardante la presenza di alcune linee che formano un segno rettangolare dietro le spalle dei personaggi rappresentativi, altro non sarebbe che la definizione dei muri ed il soffitto che compongono il piano superiore dell’abitazione. La figura posta al centro della scena, con gli apostoli dispostivi intorno, dovrebbe essere Maria o lo stesso Cristo. Sul suo lato sinistro, inoltre, mi sembra di scorgere un’aureola, più ribassata rispetto alle altre, a denotare la differenza dei livelli in cui sono disposti i personaggi, pur essendo visivamente sullo stesso piano. A proposito di questo vi riporto l’affresco di una Pentecoste, conservato alla National Gallery di Londra ed attribuito a Giotto.

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Personale modifica attuata su: Pentecoste, Giotto, della National Gallery di Londra (1320-1325 circa).

Da notare la forma del balcone, quadrangolare e strutturata con due livelli di linee, senza prospettiva.

Individuazione delle aureole e del balcone.

Vorrei inoltre sottolineare, come i Templari nutrissero una forte venerazione per lo Spirito Santo, festeggiando nel giorno della Pentecoste, con una totale indifferenza, ad esempio, per il Natale e la Pasqua, in quanto, secondo una concezione che deriva dallo gnosticismo, il Regno dello Spirito Santo doveva, e deve succedere, a quello del Padre e del Figlio. A tal proposito vi citerò un passo tratto dal testo della regola dei Templari, conosciuto come Regola Primitiva, approvata nel 1129 con il Concilio di Troyes: “(…) pertanto, in letizia e fratellanza, su richiesta del maestro Ugo, dal quale fu fondata, per grazia dello Spirito Santo, convenimmo a Troyes da diverse province al di là delle montagne, nel giorno di S. Ilario, nell'anno 1128 dall'incarnazione di Cristo, essendo trascorsi nove anni dalla fondazione del suddetto Ordine, ci riunimmo a Troyes, sotto la guida di Dio, dove avemmo la grazia di conoscere la regola dell'Ordine equestre, capitolo per capitolo, dalla bocca dello stesso Maestro Ugo. Pur nella nostra modesta conoscenza, approvammo ciò che ci appariva buono e utile (…)”.

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A nostra disposizione e che ci permette un’immediata e facile comparazione con l’affresco di Tempio, il Cuoghi ci propone quello situato al Museo San Marco di Firenze, frutto della mano di Beato Angelico.

Pentecoste, Beato Angelico, Museo San Marco, Firenze, XIV – XV secolo.

Scena F: Scena non identificabile (Ascensione?)

Lettura, dall’alto verso il basso, degli elementi componenti l’episodio: - grande linea semicircolare - personaggi tunicati ed aureolati, l’ultimo dei quali, con lo sguardo rivolto verso l’alto e la mano vicino al petto. La scena è stata ancora una volta catalogata come “non identificabile”. Ma cosa mi rappresenta un grande semicerchio dai toni giallastri, al di sotto del quale si sono radunati così tanti personaggi muniti di aureola e che, con lo sguardo rivolto verso l’alto, assumono un atteggiamento di estasi e stupore? direi che ci troviamo di fronte all’episodio riguardante dell’Ascensione di Gesù.

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Ascensione, Beato Angelico, Convento di San Marco, Firenze, XIV – XV secolo.

Atti 1:4-12 4 Trovandosi con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l'attuazione della promessa del Padre, “la quale”, egli disse, “avete udita da me. 5 Perché Giovanni battezzò sì con acqua, ma voi sarete battezzati in Spirito Santo fra non molti giorni”. 6 Quelli dunque che erano riuniti gli domandarono: “Signore, è in questo tempo che ristabilirai il regno a Israele?” 7 Egli rispose loro: “Non spetta a voi di sapere i tempi o i momenti che il Padre ha riservato alla propria autorità. 8 Ma riceverete potenza quando lo Spirito Santo verrà su di voi, e mi sarete testimoni in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all'estremità della terra”. 9 Dette queste cose, mentre essi guardavano, fu elevato; e una nuvola, accogliendolo, lo sottrasse ai loro sguardi. 10 E come essi avevano gli occhi fissi al cielo, mentre egli se ne andava, due uomini in vesti bianche si presentarono a loro e dissero: 11 “Uomini di Galilea, perché state a guardare verso il cielo? Questo Gesù, che vi è stato tolto, ed è stato elevato in cielo, ritornerà nella medesima maniera in cui lo avete visto andare in cielo”. Marco 16,19-20 19 Il Signore Gesù dunque, dopo aver loro parlato, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio. 20 E quelli se ne andarono a predicare dappertutto e il Signore operava con loro confermando la Parola con i segni che l'accompagnavano.] I personaggi dell’affresco di Tempio, sono ravvicinati e pare pongano la propria attenzione verso qualcosa di importante ed inatteso. Il personaggio cerchiato, inoltre ha la tipica posa di chi con la mano al petto è colto da sorpresa. Ho notato che l’autore (o gli autori) del nostro ciclo di affreschi, ha un suo modo di rappresentare le orecchie, ben visibili nei personaggi. Grazie a questo particolare, possiamo vedere come la loro posizione, denoti che la testa del personaggio in questione, sia rivolta verso l’alto.

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Scena G: Battesimo di Gesù

Lettura, da sinistra verso destra, degli elementi componenti l’episodio: - due personaggi in piedi, rivolti verso il centro e che reggono qualcosa tra le mani (San Giovanni Battista ed una pia donna o un angelo?). - blu lineare (acqua). - un uomo desnudo, con le gambe “intrecciate” (Cristo). Oltre alla presenza di acqua, data dalla continuità lineare del pigmento blu, notiamo un soggetto centrale che, privato delle vesti, siede su una presunta roccia dalla forma rettangolare. Ad una visione ravvicinata, sembra proprio che l’uomo stia eseguendo la posizione definita “del loto”, tipica dello Yoga, l’insieme delle pratiche ascetiche e meditative originarie dell’India. In realtà l’affresco, dovrebbe raffigurare il Cristo, desnudo, colto nell’atto del battesimo e due personaggi laterali, che potremmo individuare nel San Giovanni Battista ed una pia donna, se non un angelo (mi pare di scorgere delle lunghe ali).

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Ma cosa ci fa, dunque, il Cristo, in questa posa alquanto atipica per l’iconografia cristiana? Gli storici sostengono che i Templari avessero appreso una tecnica di tipo yogico per il controllo dell’energia vitale e che addirittura il maestro Jacques de Molay, ve ne avesse fatto ricorso affrontando le fiamme del rogo senza il minimo segno di debolezza o cedimento di dolore. Come accennato in precedenza, non è un segreto che la meditazione e le sue regole, avessero passato i confini dell’Oriente e fossero giunte in Europa. Inoltre i presunti “baci sulla bocca, sull’ombelico o sul ventre nudo” tipici della cerimonia di iniziazione all’Ordine, considerati “osceni” dalla Chiesa, in realtà avevano un significato simbolico che sottolineava il percorso dell’energia vitale attraverso alcuni punti del corpo detti chakra, punti di accumulazione, trasmissione ed elaborazione dell’energia. La risposta al perché sia stata scelta tale posizione per raffigurare il Cristo, a mio avviso, sta sia nella grande ammirazione che l’Ordine nutriva verso l’ascetismo dell’India, sia nella volontà di conferire, alla purezza della figura del Cristo, un ulteriore messaggio di forte potere meditativo, in un momento sacro come il battesimo. Scena H: (Entrata a Gerusalemme?)

Lettura, da sinistra verso destra, degli elementi componenti l’episodio: - personaggio tunica di rosso, in piedi. - parte finale di veste blu (Cristo). - asina. - personaggio che corre incontro al Cristo e stende un tappeto sulla strada. - albero (palma?). - colonnina o acquasantiera. - quattro personaggi in piedi, tunicati.

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- strana figura: credo faccia parte della scena sottostante. Non è la prima volta che qualche elemento “sfori” in un altro riquadro. Se la si osserva attentamente, vi si possono scorgere quelle che potrebbero essere due ali e forse, una piccola veste, quasi fosse una figura angelica che si leva in cielo sorreggendo qualcosa. Di fianco al Battesimo si trova un altro affresco problematico che è stato suddiviso dagli storici locali in ben due episodi, rispettivamente, uno “non identificabile” e Gesù tra i dottori del Tempio. Questo, a mio avviso, non è possibile visto che è molto evidente la non presenza di una cornice separatoria tra i due. L’affresco, che versa in un grande stato di degrado, è inoltre “spezzato” da un’altra piccola finestra di epoca più tarda. Secondo il mio punto di vista, l’episodio tratta solo ed esclusivamente dell’Entrata a Gerusalemme e non mi stupisce il fatto che sia dedicata una parte di parete così ampia, visto l’importanza, per i Templari, della città santa e dell’entrata del Cristo, “purificatore” della corruzione in cui era caduta. Ma passiamo ora ad analizzare il tutto. In primis distinguiamo chiaramente la testa e le quattro zampe di un animale, possibilmente l’asino con il quale il Cristo entrò nella città.

Inoltre, di rilevante importanza, la veste di colore blu del Cristo oltre alla presenza di una figura che corre verso di lui e stende un manto. Mentre vicino al Cristo la gente è festante, spostandoci verso quella che pare essere una colonnina, notiamo un abbassarsi dei toni, dove i personaggi, dalle vesti eleganti, appaiono quasi immobili. La storia narra che Gesù, in occasione della sua ultima pasqua, si recò nella città santa dove ad accoglierlo trovò una folla che, agitando rami d'ulivo e di palma, lo acclamò al grido di “Osanna!”. Ma cerchiamo aiuto nei Vangeli. Matteo 21,1-11 1 Quando furono vicini a Gerusalemme e giunsero presso Bètfage, verso il monte degli Ulivi, Gesù mandò due dei suoi discepoli 2 dicendo loro: “Andate nel villaggio che vi sta di fronte: subito troverete un'asina legata e con essa un puledro. Scioglieteli e conduceteli a me. 3 Se qualcuno poi vi dirà qualche cosa, risponderete: Il Signore ne ha bisogno, ma li rimanderà subito”. 4 Ora questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato annunziato dal profeta: 5 Dite alla figlia di Sion: “Ecco, il tuo re viene a te mite, seduto su un'asina, con un puledro figlio di bestia da soma”. 6 I discepoli andarono e fecero quello che aveva ordinato loro Gesù: 7 condussero l'asina e il puledro, misero su di essi i mantelli ed egli vi si pose a sedere. 8 La folla numerosissima stese i suoi mantelli sulla strada mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li stendevano sulla via. 9 La folla che andava innanzi e quella che veniva dietro, gridava: “Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli!” 10 Entrato Gesù in Gerusalemme, tutta la città fu in agitazione e la gente si chiedeva: “Chi è costui?”. 11 E la folla rispondeva: “Questi è il profeta Gesù, da Nàzaret di Galilea”.

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Ed ecco che possiamo già chiarire alcuni elementi. Vi sono ben due quadrupedi, uno dei quali, è un’asina, “bestia da soma”, la cui vicinanza di un manto blu cadente, da l’idea del Cristo seduto su di essa. “La folla numerosissima stese i suoi mantelli sulla strada”, atto che possiamo facilmente intravedere nell’affresco di Tempio. Vorrei inoltre azzardare la presenza di un albero, pronunciato elemento nei pressi della colonnina che, visto la forma, potrebbe trattarsi di un palma sul quale i fanciulli salivano per tagliarne i rami: “mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li stendevano sulla via”. Marco 11,1-11 1 Quando si avvicinarono a Gerusalemme, verso Bètfage e Betània, presso il monte degli Ulivi, mandò due dei suoi discepoli 2 e disse loro: “Andate nel villaggio che vi sta di fronte, e subito entrando in esso troverete un asinello legato, sul quale nessuno è mai salito. Scioglietelo e conducetelo. 3 E se qualcuno vi dirà: Perché fate questo?, rispondete: Il Signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito”. 4 Andarono e trovarono un asinello legato vicino a una porta, fuori sulla strada, e lo sciolsero. 5 E alcuni dei presenti però dissero loro: “Che cosa fate, sciogliendo questo asinello?”. 6 Ed essi risposero come aveva detto loro il Signore. E li lasciarono fare. 7 Essi condussero l'asinello da Gesù, e vi gettarono sopra i loro mantelli, ed egli vi montò sopra. 8 E molti stendevano i propri mantelli sulla strada e altri delle fronde, che avevano tagliate dai campi. 9 Quelli poi che andavano innanzi, e quelli che venivano dietro gridavano: Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! 10 Benedetto il regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli! 11 Ed entrò a Gerusalemme, nel tempio. E dopo aver guardato ogni cosa attorno, essendo ormai l’ora tarda, uscì con i Dodici diretto a Betània. Anche qui oltre all’”asinello”, viene ribadita la presenza di alcune persone che gettavano “i loro mantelli” e li “stendevano sulla strada”. Vi è però un altro importantissimo particolare, ovvero, l’affermazione “ed entrò a Gerusalemme, nel tempio”. La colonnina, che tanto pare un’acquasantiera, potrebbe fare parte del tempio stesso che, di li a poco l’entrata di Gerusalemme, verrà visitato dal Cristo che, accortosi dell’enorme stato di corruzione in cui versava, ne cacciò i mercanti. Essa presenta uno spiccato colore verde, che credo possa riferirsi al “serpentino”, tipico marmo di quelle zone e assai pregiato.

L’asino, simbolo di povertà e purezza contro la colonna, simbolo di eccessi e “sfarzosità”. Ricordiamo la dualità in cui versa la scena: la gente che acclama e la gente statica. Il marmo verde lo ritroviamo nel Libro di Ester, personaggio della Bibbia ebraica e dell’Antico Testamento

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cristiano, associato all’opulenza: “Vi erano cortine di lino fine e di porpora viola, sospese con cordoni di bisso e di porpora rossa ad anelli d'argento e a colonne di marmo bianco; divani d'oro e d'argento sopra un pavimento di marmo verde, bianco e di madreperla e di pietre a colori….”. Luca 19,28-35 28 Dette queste cose, Gesù proseguì avanti agli altri salendo verso Gerusalemme. 29 Quando fu vicino a Bètfage e a Betània, presso il monte detto degli Ulivi, inviò due discepoli dicendo: 30 “Andate nel villaggio di fronte; entrando, troverete un puledro legato, sul quale nessuno è mai salito; scioglietelo e portatelo qui. 31 E se qualcuno vi chiederà: Perché lo sciogliete?, direte così: Il Signore ne ha bisogno”. 32 Gli inviati andarono e trovarono tutto come aveva detto. 33 Mentre scioglievano il puledro, i proprietari dissero loro: “Perché sciogliete il puledro?”. 34 Essi risposero: “Il Signore ne ha bisogno”. 35 Lo condussero allora da Gesù; e gettati i loro mantelli sul puledro, vi fecero salire Gesù. 36 Via via che egli avanzava, stendevano i loro mantelli sulla strada. Ancora una volta ritroviamo il puledro ed i mantelli stesi lungo la strada. Giovanni 12,12-15 12 Il giorno seguente, la gran folla che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, 13 prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando: “Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d'Israele!” 14 Gesù, trovato un asinello, vi montò sopra, come sta scritto: 15 Non temere, figlia di Sion! Ecco, il tuo re viene, seduto sopra un puledro d'asina. Ed eccoci, oltre al “puledro d’asina”, con una piccola conferma verso l’elemento palma: “prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando”. Per un confronto, vi propongo le seguenti opere:

L’Entrata a Gerusalemme situata a S. Nicola del Tetto, Cipro, datata XI-XII secolo.

L’Ingresso di Gesù a Gerusalemme, mosaico che si trova nella Cappella Palatina di Palermo, datato XII secolo.

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L’affresco della chiesa della Teotokos Peribleptos di Mistrà, in Grecia, del 1360 ca.

Scena I: Ascensione del Cristo (o Cristo o Madonna in mandorla?)

Lettura, da sinistra verso destra, degli elementi componenti l’episodio: - in alto a sinistra: angelo o evangelista (Matteo?) - in basso a sinistra: angelo o evangelista. - Madonna o Cristo in Mandorla - angelo con strumento sopra la mandorla? - in alto a destra: angelo o evangelista. Denominata Ascensione del Cristo, potrebbe trattarsi più semplicemente di un Cristo o di una Madonna in mandorla, di stampo orientale. Di tutta la scena affrescata, oggi ci rimane solamente la “mandorla” affiancata da un angelo o un presunto evangelista che, se così fosse, dovrebbe trattarsi di Matteo, simboleggiato dall’uomo alato o angelo, perlappunto. Il dubbio rimane su chi vi potesse essere raffigurato all’interno. La Madonna, spesso raffigurata in questo modo, visto la fortissima venerazione nei suoi confronti da parte dei Templari, potrebbe essere una risposta plausibile al quesito su chi vi fosse originariamente raffigurato. La mandorla, dal latino vesica piscis, ”vescica di pesce”, è un simbolo di forma ogivale ampiamente conosciuto in Oriente, che passò al Cristianesimo, in primis, come un riferimento a Cristo e ben presto, alla Madonna. E’ un elemento

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decorativo utilizzato per dare risalto alla figura sacra rappresentata al suo interno, spesso attorniata all'esterno da angeli o gli evangelisti (Matteo, l’angelo, Marco, il leone, Luca, il bue e Giovanni, l’aquila). Se si pensa alla mandorla come “frutto”, il significato è quello della vita, mentre, se analizziamo il simbolo dal punto di vista geometrico, la mandorla diviene l’intersezione di due cerchi che rappresenta la comunicazione tra il piano materiale e quello spirituale, l'umano e il divino. In realtà il simbolo della vesica piscis ha origini molto antiche ed un significato legato al culto della Dea Madre: la mandorla, infatti, è un chiarissimo richiamo al femminino sacro. Questo sottolineerebbe il legame dei primi umani con la Terra, da cui nascono i frutti per la sopravvivenza. Per i Templari, la Vergine, era una theotokos, “genitrice del Cristo” e simbolo di fecondità, per cui non mi stupirei se, tra gli affreschi, una scena intera e così simbolica, fosse stata dedicata proprio a Maria. Vi porto ad esempio la splendida Madonna in mandorla situata a San Fedele di Como. Riguardo a quell’accenno di braccio, che mi sembra di scorgervi all’interno, non posso sbilanciarmi, in quanto, sia il Cristo che la Madonna, sono raffigurati sia a braccia aperte che con le mani ravvicinate.

Assunzione di Maria, San Fedele, Como, XII secolo.

Vi è poi un enorme dubbio su quella figura “fluttuante” al di sopra della mandorla, che pare appartenga proprio a questa scena. Vi scorgo delle piccole ali ed una veste, quasi fosse un angelo che si leva in cielo trasportando un oggetto che fatico a riconoscere, forse uno strumento musicale. Scena L: non identificabile (o Lavanda dei piedi?)

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Lettura, da sinistra verso destra, degli elementi componenti l’episodio:

- figura imponente, seduta, con tunica drappeggiata. - figure inginocchiate. Di fianco all’Entrata a Gerusalemme vi è un affresco, non identificato, nel quale si intravede un grande personaggio centrale con una tunica drappeggiata, forse seduto. Intorno a lui si scorgono dei personaggi inginocchiati. L’affresco è veramente troppo lacunoso per azzardarne un’interpretazione anche se, essendo nei “pressi” di una possibile Crocifissione, potrebbe trattarsi del momento del processo al Cristo. Potrebbe, dunque, il personaggio in questione, essere Ponzio Pilato? Vi è però un elemento da non sottovalutare: la veste pare essere sollevata fino al ginocchio, il che mi rimanderebbe visivamente al momento della lavanda dei piedi. La figura togata, inoltre, è protesa verso qualcuno o qualcosa: il Cristo che ne sta lavando i piedi? Giovanni 13,1-15 1 Or prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta per lui l'ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine. 2 Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo, 3 Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio se ne tornava, 4 si alzò da tavola, depose le sue vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse. 5 Poi mise dell'acqua in una bacinella, e cominciò a lavare i piedi ai discepoli, e ad asciugarli con l'asciugatoio del quale era cinto. 6 Si avvicinò dunque a Simon Pietro, il quale gli disse: “Tu, Signore, lavare i piedi a me?” 7 Gesù gli rispose: “Tu non sai ora quello che io faccio, ma lo capirai dopo”. 8 Pietro gli disse: “Non mi laverai mai i piedi!” Gesù gli rispose: “Se non ti lavo, non hai parte alcuna con me”. 9 E Simon Pietro: “Signore, non soltanto i piedi, ma anche le mani e il capo!” 10 Gesù gli disse: “Chi è lavato tutto, non ha bisogno che di aver lavati i piedi; è purificato tutto quanto; e voi siete purificati, ma non tutti”. 11 Perché sapeva chi era colui che lo tradiva; per questo disse: “Non tutti siete netti”.12 Quando dunque ebbe loro lavato i piedi ed ebbe ripreso le sue vesti, si mise di nuovo a tavola, e disse loro: “Capite quello che vi ho fatto? 13 Voi mi chiamate Maestro e Signore; e dite bene, perché lo sono. 14 Se dunque io, che sono il Signore e il Maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. 15 Infatti vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come vi ho fatto io”. Penso che il soggetto togato possa trattarsi proprio di Pietro. Scena M: non identificabile (o Crocifissione?)

Lettura, da sinistra verso destra, degli elementi componenti l’episodio:

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- due figure, in piedi, aureolate e tunicate (Maria e S. Giovanni Battista?). - lato sinistro della croce. La scena, catalogata non identificabile, in realtà, mostra chiaramente due figure ben conservate che, ad una più attenta osservazione, dovrebbero essere Maria e S. Giovanni Battista, in atteggiamento di consolazione, posti sotto la croce del Cristo morente, di cui se ne scorge una parte. Il Battista è teso con il corpo verso Maria, che si asciuga il volto con il manto.

Adiacente all’aureola del Battista, si intravede la parte iniziale di quella della Vergine. Direi che gli elementi, pur essendo minimi, ci possano indurre con facilitare ad individuare l’episodio con la Crocifissione del Cristo.

Crocifissione, Santa Maria Antiqua, Roma, VII secolo.

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Parte della croce.

L’affresco è stato purtroppo in gran parte coperto da una crocifissione settecentesca. Permettetemi di aprire una parentesi riguardo a questo affresco che, dietro la sua semplicità, nasconde un grande simbolismo. Come mi è più volte capitato, nei luoghi in cui hanno soggiornato i Templari, nonostante la soppressione dell’Ordine, la loro memoria si è tramandata nei secoli, soprattutto a livello simbolico. Molti storici, inoltre, affermano che alcuni Templari, per sfuggire alla condanna, si insediarono all’interno di altri ordini. Potrebbero dunque alcuni monaci – guerrieri, essersi “mescolati” all’interno di coloro che, dopo la loro scomparsa, “presero le redini” di Tempio? Ciò che ci colpisce immediatamente è la presenza della Maddalena dolente, figura ampiamente venerata dai Templari, con le sue lunghe chiome bionde e la famosa veste rossa. La chiesa che si vede alle spalle della croce, con la cupola emisferica, viene messa in posizione centrale grazie ad un’altra figura, simbolo di vita, quale l’albero che, con la croce, sembra proprio comporre la lettera “h”, di Hiesus Christus o più semplicemente, l’ottava lettera dell’alfabeto ebraico, dove il numero otto è il numero dell’infinito, oltre a simboleggiare la risurrezione, in termini di transizione, di passaggio. A tal proposito ricordiamo la croce patente a otto punte dei Cavalieri Templari, così come l’ampio utilizzo della figura dell’ottagono.

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Ma quella chiesa, con la cupola emisferica, inserita in un contesto cittadino, potrebbe trattarsi della chiesa di Santa Maria Maddalena a Venezia o addirittura, di quella del Santo Sepolcro di Gerusalemme? L’identificazione non è affatto facile ma sicuramente, l’utilizzo della forma circolare ha un profondo significato armonico. Sempre tenendo conto dei tre punti fondamentali quali la mano destra della Maddalena, la croce e l’albero, otteniamo un triangolo, visualizzazione del numero tre e addirittura una stella a sei punte, unione tra il maschile ed il femminile: “il triangolo con la punta verso l’alto simboleggia il fuoco e il sesso maschile, con la punta in basso invece sta a significare l’acqua e il sesso femminile. L’equilibrio dei due triangoli è dato dalla loro unione nella forma dell’esagono stellato, cioè la rappresentazione grafica del sigillo di Salomone, composto dall’incrocio dei due triangoli inversi”. La Maddalena che propende verso il Cristo, darebbe vita all’elemento maschile mentre, quest’ultimo, con il capo teso verso di lei, crea l’elemento femminile.

Parlando di numerologia vera e propria, ho deciso di contare le mattonelle che compongono le due arcate al di sopra dell’affresco: l’arcata più esterna presenta un totale di 33 mattonelle, l’interna 28. Per quanto riguarda il 33, tutti sappiamo che sono gli anni del Cristo: Gesù morì a 33 anni, e sopra la sua crocifissione vi è un “arco” con 33 mattonelle. Numero sacro che vede l’unione del numero perfetto a se stesso, 3+3, che i Templari veneravano come il simbolo della Triade e che, secoli in avanti, verrà ripreso dalla Massoneria, come il più alto grado del Rito Scozzese Antico ed Accettato. Per quanto riguarda il 28, ci serve sapere che il primo verso della Bibbia è composto da 28 lettere ebraiche: la somma delle 197 lettere ebraiche che formano i primi cinque versi della Bibbia corrispondono a 10977, questa cifra si presta a due interpretazioni: la prima è che sia il prodotto di (392 x 28)+1 riferiti ai cicli solari, la seconda è che equivalga ai cicli del giubilei, (7 x 49), e che quindi sia uguale a (343 x 32)+1. “In principio Dio creò il cielo e la terra” (Genesi 1,1): forse quel 28 che ci ha rimandato a questo verso, vuole indicarci quel concetto di dualità, tanto amato dall’Ordine, in cui il Cristo rappresenta il cielo e la Maddalena, ciò che è terreno? E qui chiudo la mia parentesi ricordandovi che ciò che a noi sembra assurdo e fantasioso, a quell’epoca, era sacro: il simbolismo come il “pane quotidiano” dell’uomo. Impariamo, dunque, ad andare oltre ciò che vediamo. Detto questo, tornerei al nostro ciclo di affreschi riguardanti il periodo templare. Scena N: affresco non decifrabile in parte coperto sia da una finestrella, sia dalla crocifissione settecentesca. Vi si possono intravede degli uomini, con delle tuniche, quasi in processione ma più di questo non sono in grado di dire. Trovandoci nei pressi dell’episodio M, potrebbe trattarsi del momento della passione di Cristo, quando trasporta la croce verso il Calvario.

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Lettura, da sinistra verso destra, degli elementi componenti l’episodio: - quattro personaggi tunicati (in processione?) Scena O: non identificabile (Adorazione dei Magi?)

Lettura, da sinistra verso destra, degli elementi componenti l’episodio:

- sagoma orizzontale, in piedi, di profilo, con testa barbuta e corona. - sagoma orizzontale, in piedi, di profilo, con accenni di blu nel manto. - sagoma orizzontale, in piedi, di profilo (Re Magi?). - sagoma di bambino, frontale, con aureola e veste blu (Cristo Bambino). - grande figura dal manto rosso che regge il bambino (Maria).

Lasciamo la parete meridionale per andare nella facciata principale dove, vicino all’affresco di San Cristoforo, datato XIV-XV secolo, troviamo un affresco non identificabile. E’ l’unico affresco, facente parte del secondo strato, presente in questa parete. I miei dubbi, verranno risolti dall’unico azzardo di interpretazione giuntaci dal Cuoghi, che vi ipotizza l’Adorazione dei Magi, in quanto si dovrebbe scorgere una figura che tiene in braccio un bambino con l’aureola: “la posa della Madonna col Bambino, il quale alza la mano destra in atto di benedizione, ricorda quella della

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cosiddetta Madonna con gli occhi grossi, del XII sec., conservata al Museo dell’Opera del Duomo a Siena e la Madonna col Bambino del Maestro del Bigallo, del XIII sec., conservata a Certaldo”.

Inoltre, vi è la presenza di tre sagome rosse sulla sinistra, di cui, la centrale, con alcuni residui di colore del manto blu, che potrebbero proprio essere identificate con i Re Magi. Anche qui faccio fatica ad esprimermi ma vedo, in questa interpretazione, un fondo di veridicità. Del primo dei tre Re Magi, ci rimane, in effetti, anche il volto barbuto, di profilo, con la corona.

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Adorazione dei Magi, Castel San Felice, frazione di Sant’Anatolia di Narco, Umbria, XII - XIII secolo. Foto di Francesca Romana Plebani e Benedetta Martini.

Qui notiamo una grande somiglianza con la figura della Vergine dal manto blu, che tiene in braccio il bambino benedicente. I Re Magi, dai volti barbuti, presentano il capo cinto da una corona a punzoni. Matteo 2, 1 -12 1 Gesù era nato in Betlemme di Giudea, all'epoca del re Erode. Dei magi d'Oriente arrivarono a Gerusalemme, dicendo: 2 «Dov'è il re dei Giudei che è nato? Poiché noi abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo». (…) 9 Essi dunque, udito il re, partirono; e la stella, che avevano vista in Oriente, andava davanti a loro finché, giunta al luogo dov'era il bambino, vi si fermò sopra. 10 Quando videro la stella, si rallegrarono di grandissima gioia. 11 Entrati nella casa, videro il bambino con Maria, sua madre; prostratisi, lo adorarono; e, aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra. 12 Poi, avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, tornarono al loro paese per un'altra via. La rappresentazione di questa scena poteva essere una sorta di momento identificativo personale da parte dei Templari che, giunti come i Magi dall’Oriente, portarono in Europa ciò che vi avevano appreso tra cui, proprio l’astronomia. I Magi, infatti, erano degli astronomi, più specificatamente, degli Zoroastriani, che seguivano la religione e la filosofia basata sugli insegnamenti del profeta Zarathustra, fondata prima del VI secolo a.C. nell'antica Persia. Non è un segreto che i Templari, proprio da questa religione, attinsero vari concetti, tra cui, quello dualista di bene male, riguardante la natura dualistica di tutte le cose dove, gli opposti, non sono in conflitto tra loro ma si completano. Come afferma il bergamasco Adriano Gaspani, membro della S.I.A. (Società Italiana di Archeoastronomia), “I Templari non svilupparono una propria Astronomia, non essendo quello il loro scopo, ma seppero trarre profitto fondendo le conoscenze astronomiche medievali europee con quelle provenienti dal mondo islamico, finalizzandole alle esigenze pratiche dell'Ordine, quali l'applicazione della metodologia gnomonica destinata a risolvere efficacemente il problema della corretta orientazione astronomica delle chiese da loro edificate ex-novo e quello della gestione dei loro particolari calendari liturgici che richiedevano, come era previsto dal Cristianesimo medioevale, l'aderenza delle date delle feste e delle celebrazioni ai cicli astronomici solari e lunari lungo il corso dell'anno” (tratto dalla Conferenza di Adriano Gaspani del 13 dicembre 2012).

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Presenza di affreschi sul porticato:

Portico occidentale.

Portico meridionale.

Lasciamo ora il nostro ciclo di affreschi pertinente al secondo strato e presente sulle pareti della chiesa, per spingerci verso il porticato. Nel volume I Templari a Tempio di Ormelle, di M. A. Moro e L. Mingotto, si afferma che “il portico, per rapporti costruttivi con l’aula e risultando in addosso al campanile, come evidenzia una fascia di mattoni che taglia le lesene dello stesso e segue l’andamento della copertura, sembra appartenere ad una fase costruttiva posteriore al primo impianto architettonico della chiesa, seppure al più tardi nel tredicesimo secolo (…). Si parla, dunque, di 1200, per cui, cronologicamente, ci siamo. Proseguendo con la lettura troviamo un’altra importantissima informazione: “(…)il porticato è composto da un colonnato – le colonne a sezione circolare si alternano a quelle a sezione ottagonale – su cui appoggiano le arcate a sesto leggermente ribassato”. E come l’architettura di “stampo” templare ci ha più volte regalato, torna quel forte geometrismo dato dalla forma del cerchio e dell’ottagono. Partendo dalle colonne del lato meridionale, notiamo subito che sono cinque, numero ampiamente usato dai Templari e che indica il superamento dell’uomo. Numero mediano tra terra e cielo, lo ritroviamo nella simbologia del

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pentagramma. Tre colonne sono rotonde (la perfezione del cerchio che si esplica nel numero della Triade) mentre due, numero della dualità, sono ottagonali, dove l’otto è il numero dell’infinito (8 moltiplicato 2 = 16, numero dinamico che si riduce nel 7, adorato dai Templari + 1, il Creatore). Volendo essere più specifici e contando dunque anche i due pilastri che aprono e chiudono il porticato meridionale, otteniamo un totale di 5 + 2 = 7, numero “magico” che unisce umano e divino. La parte del portico occidentale, invece, presenta l’unicità di una colonna rotonda, perfezione del Divino. I pilastri sono 5, così come le aperture totali. Otterremo così un totale di 5 + 1 = 6, numero che i Templari rappresentavano con la stella a sei punte, o Sigillo di Salomone, formata dall’unione di due triangoli dove quello con la punta verso il basso, indica la materialità e quello con la punto verso l’alto, la spiritualità. È inoltre l’unione cosmica di uomo e donna. Le colonne presentano dei capitelli di forma quadrata con la presenza di alcuni elementi decorati, a mio avviso, molto somiglianti al pecten jacobeus, grande conchiglia simbolo dei pellegrini a Santiago de Compostela.

Motivo decorativo del capitello di una colonna del portico meridionale.

Detto questo passerei agli affreschi quasi del tutto corrosi e andati perduti. Mi colpiscono il possibile residuo di braccio di una croce patente (templare?) e quella che sembra proprio essere la lama di una spada.

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Inoltre, sulla prima colonna di forma rotonda del lato meridionale, a partire dalla facciata, al di sotto dell’arcata è presente una strana figura di natura umanoide, forse barbuta e con la possibile presenza di baffi, di cui rimangono due lievi tracce.

Potrebbe trattarsi della raffigurazione del Cristo, visto la presenza di una toga ben drappeggiata e un possibile nimbo crociato, dove, i raggi di luce, si muovono armoniosamente verso l’alto o addirittura, della figura di un Santo. Un’altra ipotesi, a mio avviso da non scartare, è quella del Bafometto. In primis si trova al di sotto dell’arcata, quasi nascosto alla vista e dunque, non in una posizione centrale, adatta alla regalità del Cristo. I grandi occhi, la barba pronunciata ed i baffi, inoltre, ne sono l’iconografia tipica. Riguardo a questa enigmatica figura, vi riporto una parte tratta da un mio articolo sulla Pieve di San Giovanni a Campiglia Marittima, in provincia di Livorno: “il Bafometto è un idoletto templare che non ha nulla di demoniaco, come molti pensano o associano e pertanto, non va confuso con diavoli e creature chimeriche presenti nella statuaria francese di matrice gotica. E’ un semplice volto maschile, generalmente privo del corpo, una scultura solitamente a tutto tondo, inserita tra le pietre della facciata di una chiesa, un campanile o comunque in un punto evidente ed esterno all’edificio di culto, affinché funga da elemento di protezione e indicatore di un luogo caratterizzato dall’influenza dell’Ordine. Ma per capire chi era storicamente il Bafometto, dobbiamo ritornare con la mente a quel 13 ottobre 1307, quando i soldati del re di Francia si presentarono in armi presso tutte le commende templari del regno, che dopo aver arrestato i frati, li misero immediatamente sotto processo per sospetto di eresia (…) Buona parte del processo si basò proprio attorno alla figura del Bafometto e a causa delle terribili torture a cui i cavalieri furono sottoposti durante gli interrogatori, furono costretti ad ammettere l’esistenza di una sorta di rito d’iniziazione che avrebbe obbligato il neofita a rinnegare Cristo e a compiere, attraverso lo sputo, un atto di oltraggio alla Croce. In realtà tale prova, non aveva proprio nulla a che fare con l’eresia ma avrebbe avuto la funzione di temprare il carattere dei cavalieri affinché, attraverso un’esperienza per loro così traumatizzante, affrontassero meglio, una volta caduti nelle mani dei musulmani, il fatto che sarebbero stati costretti a rinnegare la propria religione. Il tutto si svolgeva alla presenza del presunto Bafometto che molti storici ritengono essere la figura di Maometto, a rappresentare il mondo musulmano. Dal punto di vista etimologico la spiegazione più plausibile sembra essere la corruzione della parola Maometto, in quanto le moschee venivano chiamate Baphomeris. Dobbiamo inoltre considerare questa sorta di scontro etico con il mondo musulmano, al quale era assolutamente vietata ogni forma di rappresentazione del profeta. Ricordiamo che per i musulmani, la preoccupazione principale è quella che le immagini possano portare all’idolatria, facendo si che l'immagine stessa divenga più importante di ciò che rappresenta” (consultare Il Bafometto templare di Mercedes De caso Bernal).

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Una sua raffigurazione in loco, poteva dunque fungere da monito a coloro che, giungendo in questa chiesa, si preparavano ad affrontare il cammino verso la Terra Santa. Un’altra ipotesi che ho preso in considerazione, è San Cristoforo, figura che tra l’altro ritroviamo in un affresco datato XIV – XV secolo, sulla parete occidentale. In realtà pare che anche questo San Cristoforo sia stato affrescato al di sopra di uno appartenente al primo strato, infatti, il piede con sandalo che si vede posto nei pressi della spalla è quello del piccolo Gesù, che sembrerebbe proprio appartenere a quel ciclo di affreschi della seconda metà del XIII secolo.

La leggenda di San Cristoforo narra che, una notte, ad un uomo di indole burbera e che viveva da solo in un bosco, gli si presentò un fanciullo che gli chiese di farsi portare al di là del fiume. L’uomo, di corporatura robusta, si sarebbe piegato sotto il peso di quell'esile creatura, che sembrava pesare sempre di più ad ogni passo. Nonostante fosse stremato, intentò imperterrito fino a raggiungere l'altra riva. Una volta giunto il bambino gli rivelò di essere Gesù e che l’uomo, oltre a lui, avrebbe portato sulle sue spalle il peso del mondo intero.

Divenuto per questo il patrono dei viandanti e dei pellegrini, non mi stupisce il fatto che potesse essere stato affrescato in più punti, visto la funzione della stessa masòn templare, adibita all’accoglienza di coloro che pellegrinavano verso la Terra Santa. Della figura, mi colpisce particolarmente quel fiore a tre petali che, se riprende esattamente ciò che ne stava al di sotto,

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potrebbe trattarsi del fiore a tre petali templare, simbolo della vita che concede la Trinità. Una curiosità, l’Actaea spicata, piccola pianta dai delicati fiori bianchi, che possiamo effettivamente ammirare tra le foglie, viene chiamata “Barba di S. Cristoforo”. Considerata arcaica, potrebbe essere stata scelta non solo per il nome ma anche in quanto è provvista di foglia di tipo composto, con mediamente tre segmenti, completamente divisi tra loro e che possiedono una lamina a forma largamente ovata con margini seghettati. Ma perché la pianta si chiama barba di San Cristoforo? Christophoriana, latinizzazione di erba di san Cristoforo, era il nome con cui anticamente era chiamata l’Actea spicata, il cui rizoma si usava in passato come purgativo e come rimedio contro i pidocchi e la scabbia degli animali domestici. Posso supporre che fosse un’erba ampiamente utilizzata dai pellegrini che dovevano affrontare lunghi viaggi stando a stretto contatto con luoghi, a quel tempo, di scarsa igiene. Vi è infine la possibilità che si tratti proprio del suo simbolo per eccellenza, ovvero, la palma, presente nella maggior parte delle raffigurazione. Il suo bastone, il giorno dopo l’apparizione del Cristo, divenne una palma carica di datteri. A questo punto mi sentirei di affermare che, la figura umanoide, non c’entri proprio nulla con il Santo. Inoltre, del piccolo Gesù sulle spalle o della palma, non vi è alcuna traccia, se non, alcuno spazio effettivo per potervi porre questi elementi. Triplice cinta o semplice coincidenza?

Un elemento da non sottovalutare, è quel residuo di affresco geometrico, che credo del XIV – XV secolo, se non più tardo, posto sempre nella parete occidentale e che ricorda il motivo della triplice cinta (Marisa Uberti, Ludica, Sacra, Magica, Il censimento mondiale della Triplice Cinta, 2012), disegno ottenuto da tre perimetri concentrici, numero sacro per eccellenza, di forma quadrata e dove il quadrato rappresenta i quattro elementi ed i primi quattro regni della Natura. Sono inoltre presenti quattro segmenti che uniscono i punti mediani dei lati. Lo schema, in realtà di antichissime origini, venne ampiamente usato dai Templari, a scopo sacro – simbolico, al punto di divenire un loro segnale di presenza o passaggio. Che l’autore di questo motivo geometrico abbia preso spunto da una triplice cinta postavi precedentemente sulla stessa parete occidentale o in altri punti della chiesa? il nostro “motivo”, che presenta solo due perimetri, potrebbe rifarsi ad una triplice cinta meno nota, infatti, esistono anche strutture formate da due o quattro quadrati, molto più rare. La mia, naturalmente, è solo un’ipotesi. A voi l’interpretazione.

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La cornice che cela l’Abraxas

Quella che, a prima vista, sembra una semplice fascia decorativa, cela in realtà un più profondo significato. Tra le figure che la compongono, spicca quella della “sirena a due code”, simbolo ampiamente utilizzato dai Templari che, così come nella più tarda Massoneria, simboleggiava la femminilità, la fertilità e la duplicità della natura umana. In realtà, mi vedo molto più propensa verso un’altra figura, quella dell’Abraxas. D'origine gnostico-mitraica, rappresenta principalmente la mediazione fra l'umanità e il dio Sole in cui i serpenti, che fanno da arti inferiori all’essere, identificherebbero l’unione tra la componente maschile e quella femminile, dando un significato di ritorno all’unità androginia che vedeva gli opposti come complementari. Tale simbolo, lo ritroviamo su pietre, gemme, manoscritti e sigilli, di cui uno appartenente proprio all’Ordine templare, recante la scritta Secretum Templi e fatto risalire al precettore di Francia André de Colours. Molti di questi, utilizzati ad esempio dal Gran Maestro nei documenti strettamente confidenziali, successivamente alla sospensione dell’ Ordine, vennero persi se non addirittura distrutti. Tornando alla fascia affrescata, notiamo un motivo a pianta a otto foglie, un numero nuovamente non casuale, oltre al fatto che mi pare possa trattarsi di granoturco, che spesso ritroviamo negli affreschi o nei bassorilievi delle chiese templari e che, oltre ad essere un loro importante alimento, aveva una grande valenza simbolica. Il grano, infatti, è fin dall’antichità il simbolo della fecondità, della venerata Grande Madre. Inoltre, il fatto che il cereale, prima di nascere in primavera, restasse sepolto per un lungo periodo sotto la terra, divenne l’immagine del passaggio dell’anima dall’ombra alla luce, del susseguirsi delle stagioni, della dualità di vita e morte. La fascia, in realtà, mi pare proprio possa appartenere ad un periodo ben posteriore al XIII secolo, per cui mi vedo costretta ad applicare, come abbiamo visto per la crocifissione settecentesca, la teoria della “continuazione” del pensiero templare, se non, la possibile “reinterpretazione” delle immagini affrescate in precedenza.

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