la riforma continua e il sogno di cambiare il …

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Sede didattico residenziale V corso di formazione per l’accesso alla qualifica iniziale della carriera prefettizia LA RIFORMA CONTINUA E IL SOGNO DI CAMBIARE IL LEVIATANO. IL SISTEMA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE ALLA LUCE DEI COSTANTI INTERVENTI NORMATIVI VOLTI AD AMMODERNAMENTO E CONSENSO: PROSPETTIVE E CRITICITÀ Consigliere: Dott. Michael MASTROLIA Anno 2017

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Sede didattico residenziale

V corso di formazione per l’accesso alla qualifica iniziale

della carriera prefettizia

LA RIFORMA CONTINUA E IL SOGNO DI CAMBIARE IL LEVIATANO.

IL SISTEMA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE ALLA LUCE DEI

COSTANTI INTERVENTI NORMATIVI VOLTI AD

AMMODERNAMENTO E CONSENSO: PROSPETTIVE E CRITICITÀ

Consigliere: Dott. Michael MASTROLIA Anno 2017

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ABSTRACT

Il presente lavoro affronta il complesso e articolato percorso delle riforme

amministrative volte all’ammodernamento del Paese.

In un ipotetico tragitto cosparso di immobilismo e ostacoli, di slanci e rallentamenti,

di innovazione e ritorni, i cenni di storia amministrativa, dall’unità d’Italia ai giorni attuali,

combinati con l’analisi del Rapporto Giannini e del Rapporto Cassese, permettono di

focalizzare l’attenzione su alcune delle criticità maggiormente rappresentative e croniche del

Sistema Italia, e sul travagliato e non sempre riuscito tentativo di cambiamento dello Stato.

Conoscendo tali innumerevoli difficoltà e gli studi precedenti, è tuttavia possibile

ancorare il processo riformatore a capisaldi indispensabili per la sua vera riuscita, andando

oltre rispetto ad interventi normativi da soli non sufficienti a governare la pressante necessità

di un apparato amministrativo al passo coi tempi della società contemporanea.

Nella consapevolezza che dietro al disegno delle Istituzioni vi sono donne e uomini al

servizio del Paese, l’enorme deficit di legittimazione dell’amministrazione pubblica nei

confronti dei cittadini va colmato attraverso l’incremento della qualità dei servizi offerti e la

costante capacità di rendere conoscibili gli stessi agli utenti finali, così comunicando alla

collettività il senso profondo della propria esistenza, non di mera sopravvivenza ma

funzionale al bene comune.

Solo ricucendo l’incrinato rapporto fiduciario cittadino-amministrazione, l’Autorità

può avvolgersi di quel consenso indispensabile per lo svolgimento dei propri compiti in una

società mutevole e inquieta, e la riforma continua, con i suoi riequilibri, può raggiungere

l’ambizioso scopo di efficientismo dell’ancien Leviatano.

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INDICE

Capitolo 1

Cenni di storia dell’amministrazione italiana

1.1 Dall’unità nazionale al periodo giolittiano

1.2 I conflitti mondiali e il regime fascista

1.3 La fase repubblicana

Capitolo 2

Il Rapporto Giannini e il Rapporto Cassese

2.1 Il Rapporto Giannini

2.2 Il rapporto Cassese

Capitolo 3

Considerazioni conclusive: prospettive di riforma

Bibliografia

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Capitolo 1

Cenni di storia dell’amministrazione italiana

1.1 Dall’unità nazionale al periodo giolittiano

La storia della pubblica amministrazione italiana si intreccia inevitabilmente con

la faticosa e ritardata unificazione del Paese, avvenuta solo nel 1861 con notevole

ritardo rispetto alle grandi nazioni europee occidentali, nelle quali lo Stato moderno si

era già andato affermando a partire dal XV secolo.

Le primissime radici fondanti il futuro apparato amministrativo italiano vanno

ricercate nel modello francese, introdotto a seguito della dominazione napoleonica e

basato su un archetipo amministrativo fortemente centralizzato e gerarchico.

Realizzata infatti l’unità nazionale, la scelta organizzativa più ovvia fu

l’estensione del modello sabaudo al neonato Stato unitario attraverso la c.d.

piemontesizzazione, cioè la trasposizione della legislazione e delle strutture pubbliche

del Regno di Sardegna al novello Regno d’Italia.

Tale scelta, che teoricamente privilegiava l’uniformità amministrativa e risultava

necessaria per non frammentare la debole unità appena conquistata, scontava però il

peccato originale di mortificare oltre modo i particolarismi locali appena annessi,

appalesando da subito la mancanza di un centro forte.

Il primigenio modello ministeriale cavouriano, ossatura dello stato monarchico

liberale, caratterizzato da un apparato amministrativo piramidale edificato

sull’amministrazione per ministeri, in cui il ruolo di grande motore amministrativo era

svolto dal dicastero dell’Interno e dalle sue ramificazioni territoriali, entra

precocemente in crisi già ai primi del Novecento.

La coerenza interna istituzionale così ingegnata deve cedere rapidamente il passo

all’espansione delle funzioni statali, anche in economia, e alla c.d. “fuga dallo Stato”,

con la proliferazione di amministrazioni nuove e parallele, necessarie per superare le

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ingessature e la prematura obsolescenza dell’amministrazione statocentrica a centro

debole.

L’ambizione dello Stato liberale di essere il più esile possibile, secondo una

logica di non intervento, cade ben presto sotto la pressione di nuovi compiti e nuovi

apparati, che si aggiungono ai precedenti senza soluzione di continuità, in un moto

costante e ininterrotto nonostante i cambi di governo.

È l’inizio di quella che sarà una tendenza feconda e che troverà piena

consacrazione nel decollo amministrativo giolittiano, necessario ad accompagnare lo

sviluppo della realtà industriale che si stava formando nell’area settentrionale del

Paese e rispondere alle nuove sollecitazioni sociali.

Emergono sin da subito le criticità di fondo del sistema e le difficoltà di riforma,

che non riesce mai ad essere complessiva: naufragano fermi al porto i progetti di

riduzione di apparati e di riduzione dei costi della macchina amministrativa che, al

contrario, vede ampliarsi anche le diramazioni periferiche dei vari dicasteri,

impossibili da ricondurre sotto l’alveo della Grande Prefettura disegnata dall’allora

Ministro dell’Interno Cadorna (1868).

Tema quest’ultimo inerente alla convergenza degli uffici statali provinciali in

unico polo decisionale, sia allo scopo di una reductio ad unum semplificativa e meno

dispendiosa, ma anche al fine di migliorarne coordinamento ed efficienza, da allora

sempre segnato sull’agenda politica italiana, e pur tuttavia inevitabilmente abbattuto

dalle forti e latenti resistenze in merito (vedasi in tale direzione i recenti e ambiziosi

tentativi repubblicani quali l’Ufficio Territoriale del Governo1 e l’Ufficio Territoriale

dello Stato2, nettamente ridimensionati rispetto alle premesse o addirittura tramontati

ancor prima di nascere).

Anche la consistenza numerica e la composizione del pubblico impiego iniziano

una nuova genesi: da un ristretto numero di dipendenti pubblici, per lo più piemontesi,

le fila del pubblico impiego si ingrossano (da circa 50 mila dipendenti nel 1861 a 280

1 Art 11 del D.Lgs. n. 300/1999 “Riforma dell'organizzazione del Governo, a norma dell'articolo 11

della legge 15 marzo 1997, n. 59”. 2 Art. 8 comma 1 lett. e) della Lg. 124/2015 “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle

amministrazioni pubbliche”.

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mila dipendenti nel 1914), e divengono sempre più meridionali e ad appannaggio di

giuristi a scapito di tecnici.

Il Mezzogiorno, infatti, agricolo e in condizioni di forte arretratezza rispetto alla

parte avanzata del Paese, ha dirottato tutte le attenzioni occupazionali verso l’unico

sbocco possibile rappresentato dall’amministrazione pubblica, che ben presto diviene

feudo della borghesia meridionale con formazione giuridica.

Questo fenomeno ha finito col legare in maniera non certamente virtuosa due

questioni problematiche già emergenti e mai risolte del tutto: questione meridionale e

questione amministrativa.

La meridionalizzazione del pubblico impiego ha in sé il germe, tutt’oggi vigente,

dello scollamento tra potere burocratico legale e Paese reale, in quanto mondi non

perfettamente comunicanti poiché rappresentativi di culture e mentalità diverse e in

cui il dialogo risulta estremamente complicato.

Il mondo dell’impresa abituato a ragionare per obiettivi e risultati deve

confrontarsi con l’apparato amministrativo estraneo a logiche di produttività e

mercato, fermo su atteggiamenti squisitamente legalistici.

D’altronde, la massiccia presenza di personale meridionale negli uffici pubblici,

con l’aspirazione del rientro nel luogo d’origine, è anche preludio all’errata

distribuzione del personale sul territorio, tendenzialmente sovrabbondante al sud e

carente al nord.

L’altro dato caratterizzante, ora come allora, la pubblica amministrazione è

l’affermarsi del predominio giuridico formale a scapito della professionalità tecnica,

la cui conseguenza è la giuridificazione amministrativa e l’ascendente inflazione

normativa.

I tratti distintivi del pubblico impiego del bel paese si stanno delineando, e anche

il passaggio sociologico è di non poco momento: dall’impiegato ministeriale misero e

mediocre, estraneo al processo di unificazione, privo di contegno sociale e avulso ai

processi decisionali, si passa al nuovo ruolo della burocrazia statale, in cui il perimetro

dei colletti bianchi si espande acquisendo consapevolezza del nuovo collocamento

sociale e dell’impatto decisionale nello sviluppo economico-sociale della nazione.

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Il pubblico impiego, diventato espressione della classe media urbana emergente,

inizia a sindacalizzarsi e a non poter essere più trascurato, anche nelle proprie

rivendicazioni, dalla classe politica verso cui esercita una crescente influenza sia in

termini di specializzazione amministrativa che di potenziale consenso.

A corollario del quadro testé descritto, si colloca la prima grande regolazione

unitaria del pubblico impiego tramite la legge 25 giugno 1908 n. 290, cui segue il Testo

Unico delle leggi sullo stato degli impiegati civili del 22 novembre 1908 n. 693.

Seppur confermato l’ordinamento gerarchico dell’apparato amministrativo,

vengono accolte le prime tutele a favore del pubblico impiegato riconoscendone diritti

e disciplinando, tra l’altro, modalità di reclutamento (di regola, per concorso pubblico)

e di carriera (criterio misto anzianità/merito).

1.2 I conflitti mondiali e il regime fascista

L’avvento della Grande Guerra (1915-1918) segna profondamente l’Italia,

incidendo in maniera viva su tutto il tessuto socio-economico nazionale, con

trasformazioni tali da protrarsi anche al termine del conflitto bellico.

La pubblica amministrazione inevitabilmente non è indifferente a siffatti

sconvolgimenti, e la spesa pubblica cresce in maniera galoppante per far fronte ai

bisogni del Paese in guerra.

L’apparato amministrativo infatti aumenta per dimensioni e ingerenza,

moltiplicando i punti di contatto/intromissione con il mondo economico.

I dipendenti pubblici vedono il rifiorire della burocrazia tecnica e rinvigorire il

loro numero complessivo arrivando a superare il mezzo milione di unità negli anni

Venti.

In tema di reclutamento del personale, nel pubblico impiego si identificano due

linee di tendenza destinate a connotare la pubblica amministrazione, anche

successivamente, in maniera permanente: l’ingresso massiccio delle donne nel

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comparto pubblico e l’utilizzo del personale avventizio per supplire alle carenze

organiche.

La comparsa del genere femminile nell’apparato amministrativo, causata dalla

temporanea assenza degli uomini impegnati al fronte, seppur contrastata dall’avvento

del regime fascista, sfocerà poi in epoca repubblicana nella c.d. femminilizzazione del

lavoro pubblico (fenomeno ancor oggi manifesto con oltre il 56% del personale totale

della pubblica amministrazione di genere femminile3).

Per quanto riguarda invece la questione degli avventizi, cioè del personale

precario assunto fuori organico e solitamente al fine di provvedere a contingenze

straordinarie e transitorie della pubblica amministrazione, e la conseguente annosa

vicenda della loro stabilizzazione in deroga alle norme ordinarie con sanatorie ad hoc,

il trend, dall’unità ad oggi, non si è mai interrotto.

Al di là dell’introduzione nel 1908 della regola dell’accesso al lavoro pubblico

mediante concorso, per porre fine alla previgente prassi dell’assunzione discrezionale

del personale e allo scopo di selezionare il corpo burocratico in base al merito, tale

comportamento, mai sopito, è solamente resuscitato dalla tensione bellica in corso.

Simile atteggiamento, d’altronde, senza trattare qui nello specifico le ampie

differenze che investono la vasta area del precariato, caratterizza fin da subito

l’apparato amministrativo italiano, privo di una razionale gestione del personale, e

oscillante tra politiche delle risorse umane espansive e restrittive in perenne

contraddizione tra di loro (a titolo di esempio negativo, come si vedrà meglio in

seguito, le numerose e vituperate politiche di blocco assunzionale, con conseguenti

deroghe, e i tagli lineari imposti alle dotazioni organiche, e le annesse eccezioni).

Con la fine del primo conflitto mondiale bisogna, inoltre, prendere atto da un

lato dell’ultravigenza degli enti e degli istituti bellici, e dall’altro del disgregamento

sempre più marcato del modello ministeriale.

Negli anni post bellici, il malconcio Stato italiano acquisisce la consapevolezza

che la questione economica è intimamente collegata a quella amministrativa.

3 Dati al 31/12/2015 a cura del Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato – Conto Annuale

2015.

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Infatti, per modernizzare il Paese e rilanciarne lo sviluppo economico, è

necessaria sia un’opera di notevole deburocratizzazione che l’innesto di un apparato

amministrativo più snello e manageriale: “pochi e ben pagati” questa la formula di

Nitti.

Tuttavia, lo Stato liberale, ormai al crepuscolo, non ha più nessuna forza incisiva

e sarà soppiantato dall’instaurazione della dittatura fascista.

Il regime fascista appena salito al potere accarezza anch’esso da subito l’idea di

procedere rapidamente alla deforestazione dell’apparato amministrativo del Regno,

arrestando il gigantismo burocratico dominante e procedendo alla fascistizzazione

dell’impiego pubblico, ma i risultati lungo il ventennio saranno quanto meno modesti

e contraddittori, e obbligatoriamente improntati nel senso della continuità

amministrativa.

Tramite la riforma De Stefani, e con il nuovo ruolo della “burocrazia della cifra”,

l’obiettivo di riordino amministrativo di stampo fascista viene coniugato a quello della

riduzione della spesa pubblica: prendono il via soppressioni e fusioni di enti, di

strutture consultive e ministeriali; viene rivisto lo stato giuridico dei dipendenti

pubblici e l’ordinamento gerarchico delle amministrazioni dello Stato; viene attuata la

“smobilitazione amministrativa” tramite lo sfoltimento del personale, il prolungato

blocco delle assunzioni e la riduzione degli organici; viene irrigidito l’accesso al

pubblico impiego delle donne.

Gli effetti non preventivati dei suddetti interventi furono: la “fuga dai ministeri”

e la proliferazione delle amministrazioni parallele (enti ed imprese pubbliche);

l’invecchiamento progressivo della burocrazia statale, l’aumento del suo potere

decisionale rispetto alla gerarchia del partito nella gestione amministrativa e la

mancata fascistizzazione della stessa, anche per effetto delle politiche di contenimento

del personale che impedirono il ricambio generazionale nei vertici amministrativi

statali.

Con riferimento alla “fuga dallo Stato”, bisogna sottolineare come proprio

l’eccessivo imbrigliamento dell’istituto ministeriale determini la crescita esponenziale

di moduli amministrativi paralleli agili e orientati su rapporti privatistici, già

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sperimentati nell’età giolittiana, e nuovo avamposto dell’intervento statale nell’ambito

finanziario ed economico (c.d. istituti Beneduce).

D’altro canto, con l’insediarsi di un regime autoritario, le spinte alla

semplificazione risultano comunque cedevoli rispetto alle esigenze di controllo

territoriale, e pertanto anche il freno iniziale al sorgere di nuovi uffici pubblici

periferici viene poi allentato, vanificando i primi sforzi di contenimento.

Sul versante pubblico impiego, in virtù delle politiche di taglio del personale

suddette, si assiste di fatto allo stesso passaggio: all’iniziale contrazione del personale

di ruolo, il cui contraltare in bilanciamento parziale è la crescita del personale

avventizio in servizio, segue, con l’allargarsi delle forme di interventismo, la vistosa

impennata della schiera di dipendenti pubblici, destinati a superare per la prima volta

il milione di unità nel 1941.

1.2 La fase repubblicana

La drammaticità della seconda guerra mondiale porta al collasso del regime

fascista e alla tragica divisione del Paese in due tronconi contrapposti fino alla

liberazione del 25 aprile 1945.

In uno scenario di forte tensione tra vincitori e vinti, gli italiani il 2 giugno 1946,

attraverso il referendum istituzionale, pongono fine alla monarchia e optano per la

Repubblica, eleggendo altresì l’Assemblea Costituente che dovrà edificare la nuova

architettura ordinamentale dell’Italia.

La fase costituente, momento di riscrittura delle regole fondamentali, è fase di

transizione e cambiamento per eccellenza in quanto si ridisegnano principi, pesi e

contrappesi del neonato Stato repubblicano.

La Costituzione del 1948, frutto del compromesso tra le forze politiche

costituenti, innesta pertanto notevoli novità nell’ordinamento (tra cui, per i fini qui di

interesse, il principio autonomistico, il principio del decentramento, il regionalismo,

etc.).

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L’apparato amministrativo però, diversamente da quanto si possa presagire,

soprattutto inizialmente, è segnato da una sostanziale continuità burocratica.

Infatti, sia per la mancata formazione in epoca fascista di una predominante

burocrazia delle camicie nere, stante la prevalente adesione di facciata al regime, sia

per l’esigenza del Paese di voltare pagina quanto prima e procedere sulla strada della

piena pacificazione, l’opera di defascistizzazione si rivela molto modesta e viene

liquidata rapidamente già nel 1949.

La pubblica amministrazione post bellica, lungi dal cambiare, continua quindi

ad essere organizzata secondo le logiche precedenti: ministeri (crescenti e rigidi) ed

enti pubblici (crescenti e sempre più preda di lottizzazione politica, catalizzatrice di

consenso).

Del resto, la lenta attuazione del dettato costituzionale impedisce l’effettiva

declinazione del principio autonomistico.

Il nuovo assetto democratico multilivello, basato sulla partecipazione attiva alla

cosa pubblica, sia in termini politici che di apparato amministrativo, di regioni ed enti

locali, si sviluppa infatti con enorme ritardo a partire dagli anni ‘70 (anno di istituzione

delle regioni a statuto ordinario) trovando poi consacrazione con la riforma del Titolo

V della Costituzione del 2001.

Solo con il concreto ingresso nel sistema di ulteriori autonomi centri decisionali,

politici e burocratici, le pregresse dinamiche relazionali centro-periferia cambiano,

nella speranza che tale costo in termini di complessità sia ripagato con un reale

efficientismo delle istituzioni pubbliche di prossimità nell’erogazione dei servizi ai

cittadini.

L’apparato amministrativo, di conseguenza, prosegue sull’onda lunga della

frantumazione e, affianco ad un'amministrazione statale calante in termini di funzioni,

si accompagna un’amministrazione locale in costante espansione numerica e di

competenze.

È comunque un percorso lungo ed articolato, le cui più importanti tappe

intermedie sono il difficoltoso, flemmatico e parziale passaggio di funzioni

amministrative fino all’apice raggiunto con le riforme Bassanini (1997- 1998) che, a

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pochi anni dal successivo ritocco costituzionale, realizzano il c.d. federalismo

amministrativo, cioè il massimo conferimento di funzioni amministrative a regioni ed

enti locali a Costituzione invariata.

Dopo la riforma costituzionale del 2001 si ha una fase di assestamento, in quanto

il recente equilibrio non viene più modificato poiché i succedanei tentativi di

aggiustamento proposti (2006 e 2016) vengono respinti dai rispettivi referendum

costituzionali.

In riferimento al pubblico impiego, la stagione repubblicana è contrassegnata, in

particolare, oltre che dai soliti cronici problemi che avviluppano e rendono

pachidermico e inefficiente il sistema (aumento del personale; assenza di politiche di

reclutamento, formazione e gestione razionale dei dipendenti pubblici; abuso del

precariato; esigenze di contenimento della spesa; scarsa rappresentatività complessiva

del Paese; blocchi del turnover; politiche clientelari; etc.), dall’iter di privatizzazione

del lavoro pubblico e dall’istituzione della dirigenza pubblica.

Tali manovre sul pubblico impiego hanno la comune urgenza

dell’avvicinamento del rapporto di lavoro pubblico al rapporto di lavoro privato, in

un’ottica di produttività, razionalizzazione dei costi e valorizzazione delle risorse

umane, allo scopo di arginare la scarsa qualità dei servizi offerti e di introdurre criteri

maggiormente meritocratici.

Da un lato la contrattualizzazione e la valutazione delle perfomance lavorative,

e dall’altro la separazione tra politica, a cui competono funzioni di indirizzo politico

amministrativo, e dirigenza, cui competono attività di gestione e raggiungimento degli

obiettivi, appaiano al legislatore le strade più opportune per l’ammodernamento

dell’apparato pubblico, e per inchiodare le rispettive classi dirigenti, politica e

burocratica, alle proprie responsabilità.

Sempre nel contesto di evoluzione di metodo, va segnalata infine anche la

robusta inversione di marcia nei rapporti cittadino-amministrazione.

Da soggetto passivo e subente l’intervento autoritativo dello Stato, il rinnovato

cittadino-utente si relaziona con i poteri pubblici e con la gestione della cosa pubblica

in maniera sempre più partecipativa e inclusiva (a riguardo in particolare, legge 241

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del 1990 sul nuovo procedimento amministrativo e principio di sussidiarietà

orizzontale), su un piano dialettico quasi paritario.

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Capitolo 2

Il Rapporto Giannini e il Rapporto Cassese

2.1 Il Rapporto Giannini

Il “Rapporto sui principali problemi della amministrazione dello Stato”

trasmesso alle Camere dal Ministro per la Funzione Pubblica Massimo Severo

Giannini il 16 novembre 1979, rappresenta ancora, a distanza di quasi 40 anni dalla

sua redazione, un documento di analisi e conoscenza delle disfunzioni

dell’amministrazione pubblica contemporanea di una lucidità disarmante.

L’essere ultroneo del Rapporto, sia in termini di problemi attualmente vigenti,

che di soluzioni adottabili per riformare l’apparato amministrativo, al netto delle molte

indicazioni ivi contenute e nel tempo tradottesi in interventi legislativi migliorativi del

paradigma burocratico, traccia plasticamente la cifra degli ostacoli lungo il tortuoso

cammino della modernizzazione dello Stato.

Il Rapporto, suddiviso in cinque capitoli (per introdurre, tecniche di

amministrazione, tecnologia delle amministrazioni, personale, riordinamento

dell’amministrazione statale), più di altri studi precedenti focalizza l’attenzione, e

propone soluzioni, su problemi destinati ad avere ampio risalto e fermento normativo

costituzionale in seguito.

A partire già dal paragrafo “Il torso regionale”, infatti, Giannini pone l’accento

sullo stretto collegamento tra la riforma dell’amministrazione statale e l’assetto

complessivo degli enti territoriali (Stato, regioni, province, comuni), che “dovrebbe

costituire la struttura portante del disegno organizzativo dei pubblici poteri”.

Tale pungolo intellettuale vuole stimolare il Parlamento sia a completare il

passaggio di funzioni alle regioni, e il conseguente riordino “delle funzioni e strutture

statali”, sia ad accelerare la riforma degli enti locali, in quanto “non è un detto, ma un

dato, economicamente e aziendalisticamente valutabile, quello che se i comuni non

funzionano non funziona lo Stato”.

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La visione di insieme di Giannini è chiara da subito: la riforma dell’apparato

amministrativo statale non va trattata separatamente dal nuovo modello di Stato che si

sta delineando, in cui il riposizionamento e l’influenza istituzionale di regioni ed enti

locali sono prossimi ad accrescere notevolmente.

Vi è una sorta di anticipazione premonitrice, in punto di geometrie costituzionali,

dell’avvento della Repubblica delle autonomie.

A conferma di quanto suddetto circa l’inadeguatezza di interventi parziali di

fronte a questione di così ampio respiro, nel paragrafo “L’azienda Stato” il documento

ministeriale sottolinea come “non è invece vero che i problemi relativi alle

amministrazioni statali vadano visti nella prospettiva di riforme, singole e collegate,

di uffici, o di normative sul personale, o altre. La prospettiva è quella di un

ripensamento generale della posizione che queste amministrazioni hanno in uno Stato

industriale avanzato”.

Nel capitolo dedicato alle tecniche di amministrazione, alla cui carenza “sono da

imputare le immagini popolari delle organizzazioni pubbliche, come composte,

secondo i giudizi più spinti in negativo, di inetti e di fannulloni, e secondo quelli più

in positivo, di tardigradi e di cultori di formalismi”, lo sguardo è invece rivolto ai

grandi deficit inerenti all’organizzazione e ai metodi di lavoro dell’apparato

amministrativo.

In questo modo viene affrontato il tema mai domo della scarsa produttività delle

amministrazioni pubbliche, legandolo pro futuro indissolubilmente agli indicatori di

efficacia (“rapporto tra risultati ottenuti ed obiettivi prestabiliti”) ed efficienza

(“rapporto tra risorse impiegate e risultati ottenuti”), ma anche a parametri qualitativi

quali la soddisfazione degli utenti (la c.d. customer satisfaction).

Concetti questi, tutti forieri di copiosi interventi normativi successivi volti ad

innalzare il livello delle prestazioni rese dalla macchina pubblica.

Restando ancora nel secondo capitolo dell’elaborato ministeriale, viene poi

esaminato il problema dei tanti costi occulti, cioè del “costo economico della spendita

di attività amministrativa che è richiesta dal fatto che la funzione amministrativa si

svolge in forma procedimentalizzata, con la partecipazione di più organi uffici.”.

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Seppur una parte di questi costi è ineliminabile, in quanto prodotto di uno Stato

democratico a partecipazioni crescenti, la via maestra per la loro riduzione, quando

possibile, è da ricercare nella semplificazione.

Di conseguenza, per snellire il processo decisionale pubblico, è essenziale

sfoltire la selva di autorità padroni della cura del medesimo interesse, radicando quella

specifica funzione in capo ad un solo soggetto, in ogni ipotesi in cui sia fattibile.

Grazie ad una robusta semplificazione, si avrebbe il duplice vantaggio di evitare

sia i conflitti e le contrapposizioni tra amministrazioni, sia la dispersione dei cittadini

nei meandri stessi dell’apparato pubblico.

D’altro canto, anche le esigenze di celerità economicità ed efficientismo, interne

ed esterne, ne verrebbero così finalmente esaltate.

Altro passaggio indispensabile, e intimamente collegato ai precedenti, è la

necessità di un’ampia delegificazione, in un Paese in cui il disagio determinato

dall’inflazione normativa “ha particolare rilievo per l’abbondanza delle grida in forma

di legge del Parlamento o delle Regioni”.

Lungimirante è anche la chiosa finale del capitolo, indicativa delle legittime

aspettative e delle energie che una classe politica accorta deve riversare nel processo

riformatore: “Non si possono attendere risultati a tempo breve. Il tempo del recupero

di soglie minime di efficienza si può calcolare in un quinquennio, a condizione che

l’azione sia diuturna e perseverante, appoggiata da politici, funzionari e sindacalisti

che si impegnino in un cammino di spine senza attendere ricompense. Solo così le

ragioni dell’onestà potranno congiungersi a quelle della speranza.”

È evidente, ora come allora, che un legislatore che abbia veramente a cuore la

riforma complessiva dello Stato, e non solo lo sbandieramento della stessa a fini

propagandistici di breve periodo, deve entrare nell’ordine di idee che si appresta ad

un’opera titanica ed assorbente, costellata di difficoltà e resistenze, superabili solo con

la decisa convergenza di tutti gli attori coinvolti.

Per digerire l’amaro immobilismo iniziale è inoltre necessario non solo che tutti

lavorino per il buon esito degli interventi riformatori, ma che questi abbiano a

disposizione il giusto tempo di sedimentazione.

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Le riforme infatti non si realizzano solo con le norme, sarebbe utopistico anche

solo pensarlo: sono certamente occorrenti buoni interventi legislativi, successivi

aggiustamenti in itinere, riequilibri, ricalibrature, ma è necessario che le norme si

cristallizzino nel loro zoccolo duro e diventino patrimonio comune e conosciuto di

apparato burocratico e cittadini.

Tale modus operandi, implicante convergenza istituzionale, tempo di

sedimentazione e rielaborazione adattativa dei passaggi a vuoti o meno felici o a rapida

obsolescenza, è l’unico che può creare una vera amministrazione di servizio flessibile

e conforme alle aspettative ed esigenze del bene comune.

Sorvolando il terzo capitolo del Rapporto, dedicato alla tecnologia delle

amministrazioni, in cui, tra gli altri problemi, viene sollevato quello inerente

all’arretratezza informatica della pubblica amministrazione, e il bisogno di mezzi e

competenze digitali in virtù delle enormi potenzialità del settore, si passa al capitolo

dedicato al personale.

Anche riguardo al pubblico impiego, lo scritto ministeriale da un lato segna le

direttrici di future riforme, e dall’altro scoperchia temi ancor oggi di in attesa di

composizione.

Il documento vira già nel 1979 verso “l’alternativa della privatizzazione” per

tutti quei rapporti di lavoro “non collegati all’esercizio della potestà pubbliche”,

riservando solo a questi ultimi il regime di diritto pubblico.

La contrattualizzazione è infatti indicata come il binario principe per superare le

tante incertezze e i lunghi travagli che coinvolgono il pubblico impiego, tra cui il

fenomeno del rovesciamento della piramide organica verso l’alto in sede di revisione

della stessa, per assecondare le spinte alla progressione economica e di carriera del

personale

Il Rapporto tocca poi il tema della dirigenza pubblica, di fresca istituzione

(1972), ma già bisognevole di interventi legislativi sia in senso restrittivo, al fine di un

“ridimensionamento quantitativo”, che ampliativo, al fine dell’attribuzione di un reale

potere gestionale che le permettesse di incidere concretamente sull’organizzazione dei

pubblici uffici.

Page 18: LA RIFORMA CONTINUA E IL SOGNO DI CAMBIARE IL …

15

A distanza di pochi anni dalla propria vigenza, dunque, lasciando intonse le

contraddizioni circa i reali poteri manageriali, l’unico apprezzabile risultato

dall’introduzione della dirigenza nel sistema era stata la proliferazione dei posti di

vertice, a scapito di qualsiasi illusione meritocratica.

Sempre con riferimento al pubblico impiego, altri tasti dolenti oggetto di

indagine sono le incongruenze del reclutamento del personale, la disarmonica

distribuzione dello stesso e le lacune formative sia in ingresso che durante il percorso

professionale.

La riflessione sul reclutamento, ad esempio, investe una serie di criticità tuttora

vigenti: la lunghezza dei tempi di selezione-assunzione che, salvo intoppi, richiede

mediamente tre anni; il contenuto delle prove a prevalente carattere teorico

nozionistico; la composizione delle commissioni d’esame, con commissari che non

svolgono quel ruolo a tempo pieno inficiando l’economia dell’iter concorsuale; la

“gelosia” delle amministrazioni statali verso la selezione del proprio personale, anche

all’interno dello stesso apparato ministeriale; la mancanza di collegamento fra scuola

e mondo del lavoro spendibile dalle amministrazioni in sede di reclutamento.

L’ultimo capitolo del Rapporto Gianni, in tema di riordino dell’apparato statale,

oltre ad indicare specifiche misure, segnala al legislatore dell’epoca l’importanza del

potenziamento e della creazione delle sedi di raccordo istituzionale, sia politico, che

amministrativo.

In un contesto in cui la trama ordinamentale si infittisce, infatti, con la

moltiplicazione dei centri di potere pubblico, il bisogno di coordinamento è sempre

più pressante, onde evitare di l’empasse del sistema.

È pertanto necessario, da un lato creare stanze di compensazione Stato- regioni,

e dall’altro armonizzare la burocrazia statale periferica individuando un unico punto

di snodo di tutte le attività statali in ambito regionale, affinché si evitino disarmonie

contrapposizioni e duplicazioni tra amministrazioni statali e tra queste ultime e quelle

regionali.

Page 19: LA RIFORMA CONTINUA E IL SOGNO DI CAMBIARE IL …

16

Ultimissimo aspetto sfiorato dallo scritto ministeriale, nella parte conclusiva del

documento, è la nuova dinamica dei rapporti amministrazione-cittadino, che trova

“scarsa emersione nelle leggi”, ma è di fatto in atto.

Quasi come piccole pillole sulla mutazione in corso, destinata a trovare

appagante soddisfazione solo in un secondo momento, si lambisce la questione del

diritto “di essere informati circa i fatti dei poteri pubblici” e della “modernizzazione

delle leggi regolative dell’azione amministrativa”.

In altre parole, il Rapporto si conclude anticipando temi quali accesso,

trasparenza e partecipazione, che saranno alla base della rivoluzione copernicana

rappresentata dalla legge 241 del 1990 sul nuovo procedimento amministrativo e i suoi

fecondi derivati.

Ancora una volta, il merito e lo spunto che offre lo studio Giannini, è quello di

non approcciarsi a vicende di tale complessità procedendo inutilmente per

compartimenti stagni.

Il tema della riforma dell’amministrazione statale difatti, che ha già in sé la

macro questione della struttura organizzativa dello Stato a monte, non può essere

trattato separatamente dall’evoluzione del rapporto cittadino-amministrazione e dal

necessario aggiornamento delle regole di governo di questo rapporto, le quali, altro

non sono, che quelle che regolano l’azione amministrativa.

Solo tenendo conto delle suddette premesse di sistema, è possibile riformare

veramente lo Stato, così uscendo dal circolo vizioso per cui l’apparato è servente solo

a se stesso e alle proprie esigenze.

Nella denegata ipotesi in cui si voglia procedere diversamente invece, lo Stato è

destinato a restare per i cittadini quello che è “non è un amico sicuro e autorevole, ma

una creatura ambigua, irragionevole, lontana”: detto in altri termini, l’odierno

Leviatano.

Al netto delle considerazioni fin qui svolte quindi, l’elaborato Giannini, grazie

alla grande capacità di lettura del tessuto costituzionale in divenire, lascia in eredità un

bagaglio informativo e diagnostico della pubblica amministrazione di pregevolissimo

Page 20: LA RIFORMA CONTINUA E IL SOGNO DI CAMBIARE IL …

17

spessore e ancora attuale, patrimonio indispensabile di chiunque voglia avvicinarsi

seriamente alla sfida della riforma.

2.2 Il Rapporto Cassese

Il “Rapporto sulle condizioni delle pubbliche amministrazioni” redatto nel 1993,

sotto l’impulso dell’allora Ministro per la Funzione Pubblica Sabino Cassese, si

presenta come “un inventario dei principali problemi delle pubbliche amministrazioni,

per riportarle al centro della questione costituzionale”.

Nel testo, preziosa testimonianza della situazione dell’epoca, si ritrovano vecchi

e sempre verdi malanni dell’apparato amministrativo nonostante il trascorrere delle

riforme e del tempo che, in questo caso, però sembra essersi fermato.

Il poderoso studio ministeriale, suddiviso in tre ideali blocchi, affronta le criticità

dell’apparato pubblico, arricchendo l’analisi con allegati statistici e appendici di

approfondimento.

Basta comunque soffermarsi sul decalogo in forma di punti, presente

nell’introduzione, per avere simultaneamente il quadro di come proseguirà l’analisi e

di quali risultati potrà portare all’attenzione del lettore.

L’elenco infatti, volutamente non esaustivo, mette a nudo i nervi scoperti

dell’apparato burocratico: uffici pubblici che costano più di quanto rendono in termini

di servizi; organici sovrabbondanti e personale mal distribuito; dipendenti scelti non

in relazione alle esigenze dei servizi “ma per altri bisogni (del corpo politico, o di

occupazione, o di carriera)”; procedure labirintiche; amministrazioni incapaci di

aggiornare la propria organizzazione; leggi superflue che producono la necessità di

altre leggi; etc.

Subito dopo il decalogo, lo studio di Cassese in maniera originale sottolinea

come “la carta dei diritti dei cittadini che va sotto il nome di legge generale sul

procedimento amministrativo (7 agosto 1990 n. 241) è inapplicata o dimenticata dalla

maggior parte delle amministrazioni e persino dei cittadini che dovrebbero valersene”.

Page 21: LA RIFORMA CONTINUA E IL SOGNO DI CAMBIARE IL …

18

Ponendo quindi il tema della cittadinanza amministrativa, si rafforza la

constatazione che le riforme non si realizzano unicamente attraverso le norme, ma che

per il loro successo è necessario l’apporto di tutti i fondamentali protagonisti del

processo riformatore, già elencati da Giannini (politici, funzionari, sindacalisti), ma a

cui ormai se ne può aggiungere un altro, a pieno titolo e quanto mai decisivo: i cittadini.

Ancor più che in passato, infatti, è necessario anche il coinvolgimento della

cittadinanza nel processo di modernizzazione poiché quest’ultima, facendo sentire la

propria voce e conseguentemente rivendicando i propri diritti calpestati, può esercitare

quella pressione esterna positiva e occorrente affinché le amministrazioni si incanalino

nel solco previsto dalle norme, abbandonando l’ascolto esclusivo di addetti ai lavori e

amici.

In quest’ottica, non lascia sgomenti, pertanto, l’impostazione della ricerca che,

ragionando delle patologie della macchina burocratica, parte opportunamente

dall’analisi della soddisfazione dei cittadini per il servizio reso dalle pubbliche

amministrazioni.

La fotografia scattata è facilmente prevedibile, e sarebbe banalmente uguale a sé

stessa anche destoricizzandola: cittadini e imprese nel complesso sono largamente

insoddisfatti dei servizi resi dall’apparato amministrativo italiano, con un livello di

prestazione offerte mediamente più apprezzato ed apprezzabile nel nord del Paese

rispetto al meridione.

Le pubbliche amministrazioni dei primi anni 90, quindi, a giudizio dei fruitori

dei loro servizi, sono “indecifrabili, di difficile accesso, poco orientate all’utente; che

impongono file agli sportelli e lunghe attese; che si preoccupano di sé stesse più che

del servizio da rendere (…) Nel complesso, le amministrazioni pubbliche, fanno

pagare (se si conteggiano le ore perse dai cittadini e le risorse dedicate dalle imprese)

una tassa “occulta” annuale valutabile intorno al 3% totale degli incassi del settore

statale”.

Amministrazioni pubbliche costose e abbondantemente inefficienti dunque:

dove la differenza tra presente, passato e futuro, nei fatti e nella percezione degli

italiani?

Page 22: LA RIFORMA CONTINUA E IL SOGNO DI CAMBIARE IL …

19

Dagli studi del Rapporto Cassese, sempre in tema di customer satisfaction,

emerge inoltre che la patologia degli uffici pubblici è talmente conclamata che, oltre

ai noti disservizi, gli utenti subiscono una serie di oneri ulteriori.

Infatti, a causa dei frequenti rapporti con le amministrazioni stesse, nascenti della

sovrabbondanza di adempimenti che i cittadini sono costretti ad espletare, agli utenti

è addossata sia la “amministrativizzazione” della vita quotidiana, che l’obolo

dell’ausilio di intermediari (professionisti o familiari) per il disbrigo delle proprie

pratiche burocratiche.

La c.d. “amministrativizzazione”, oltre a comportare un costo in termini di giorni

lavorativi annui dedicati alle incombenze burocratiche, è prodromica alla diffusione

della cultura burocratica.

Quest’ultima, indicatrice dell’assenza di trasparenza in cui versano le istituzioni

nostrane, è attuata a scopo difensivo e di supplenza dai cittadini nei confronti di una

pubblica amministrazione silente e inoperosa.

Tuttavia, le colpe del bistrattato apparato pubblico sono alleviate dalla

schizofrenia legislativa imperante che, “disorientando sia gli addetti sia gli utenti e

aumentando le incertezze”, impedisce alle amministrazioni di imparare dai propri

errori e di autocorreggersi.

D’altronde, in un moto incessante in cui “le regole vengono cambiate prima che

se ne sia potuto misurare il rendimento”, la risposta dell’apparato pubblico si connota

per una “frenetica immobilità”, ciondolando in mezzo al guado dell’attuazione e del

differimento.

Chiusa la prima importante parentesi, la ricerca Cassese prosegue

approfondendo il tema dell’inflazione normativa.

Partendo dal dato empirico dell’ipertrofia legislativa, anche a seguito

dell’impietoso confronto con altri ordinamenti che lamentano il problema (nel 1990

erano in vigore in Francia 7325 leggi, in Germania 5587, in Italia tra le 100 mila e le

150 mila), ne vengono indagate le cause e gli effetti.

Ad una produzione normativa così abnorme, infatti, concorrono sia fattori

interni, provenienti dalle stesse pubbliche amministrazioni, al contempo vittime e

Page 23: LA RIFORMA CONTINUA E IL SOGNO DI CAMBIARE IL …

20

carnefici di questo circolo vizioso, che fattori esterni (tra gli altri, oltre ai gruppi di

pressione e di interesse, anche “Assemblee legislative che credono di condizionare o

guidare le pubbliche amministrazioni attraverso l’abbondanza di prescrizioni

minuziose”).

Le pubbliche amministrazioni, quindi, risultano particolarmente bisognevoli di

norme per molte ragioni:

- da un lato, la burocrazia ha esigenze cautelative che vede appagate solo

tramite leggi, necessarie per rifuggire dalle responsabilità e dal controllo

politico e giurisdizionale;

- dall’altro, le amministrazioni utilizzano lo strumento legislativo, sia per

vincere le resistenze degli altri uffici pubblici e/o comunque chiarire i

rapporti tra i medesimi, sia, dato il modello multiorganizzativo esistente, per

adattare alla loro peculiare conformazione disposizioni uniformi e

inadeguate.

Tutto questo smodato ricorso alla normazione, infine, produce a cascata diversi

effetti nefasti sul sistema complessivo: aumento delle norme di correzione,

aggiornamento e deroga; rigidità; rinnovato centralismo; alta conflittualità tra

amministrazioni e tra amministrazioni e cittadini; desistenza nell’attuazione delle

norme prodotte.

Analizzata la questione dell’inflazione normativa, il Rapporto Cassese, affronta

“l’incerta distribuzione di funzioni” e le devianze che un’errata distribuzione produce

sull’apparato pubblico.

L’assenza di un disegno organizzativo coerente, in merito alla distribuzione delle

funzioni, rende le stesse serventi delle strutture amministrative esistenti, e non

viceversa.

Tant’è che, a fronte della crescita o della riduzione di specifiche funzioni, non

consegue un rimodellamento della struttura preposta: sovrabbondante o

sottodimensionato che sia, in relazione alla funzione, l’apparato tende a restare, nel

breve termine almeno, identico.

Page 24: LA RIFORMA CONTINUA E IL SOGNO DI CAMBIARE IL …

21

L’asimmetria fra funzioni e organizzazione rappresenta uno dei tanti sintomi

visibili della difficoltà di modifica dell’esistente nell’ambito dei pubblici poteri, sia in

termini di traslazione dei compiti che di modifica (specie in peius) della dotazione

organica.

Dalla disordinata e casuale distribuzione di funzioni derivano poi successivi

interventi allocativi, necessari per un efficientamento, che però non sempre si realizza.

Tali operazioni, infatti, capaci di suscitare resistenze da parte

dell’amministrazione che si vede sottratta la funzione, corrono pertanto il rischio di

generare solo la parcellizzazione della funzione medesima tra diverse amministrazioni,

aumentando così i pericoli da inefficienza legati alla necessità di coordinamento.

Considerato quindi il carattere ancillare dei compiti rispetto all’apparato, in una

sorta di giustificazione dello status quo intangibile, non deve stupire poi se il vestito

organizzativo delle pubbliche amministrazioni sia dominato, oltre che da duplicazioni,

sovrapposizioni, vuoti di competenze e diseconomie, dall’incoerenza di fondo.

La pluralità di assetti amministrativi pubblici, inevitabile negli stati

contemporanei, non è di per sé un male, ma “è negativa la circostanza che ad

un’organizzazione di tipo “piramidale” (Ministeri-uffici periferici regionali,

provinciali, e subprovinciali) se ne sia affiancata una di tipo “stellare” (quella

consistente in enti autonomi, territoriali e non) senza modificare la prima”.

Il Rapporto Cassese pertanto, anche in merito all’assetto organizzativo delle

amministrazioni pubbliche, ripresenta i malanni di un ordinamento in cui tutto si

trasforma ma nulla si distrugge: ad un apparato verticistico di matrice ottocentesca se

ne affianca un altro pluralizzato.

In un “cambiamento senza innovazione”, in cui i micro interventi di

razionalizzazione sono lettera morta e la convivenza assai difficile, risultano oltre

modo aggrovigliate disorganicamente funzioni e pubbliche amministrazioni differenti,

in un inestricabile nodo gordiano privo di un serio coordinamento e capace di creare

solo frammentazione e disservizio.

Il magmatico scenario dello spacchettamento di funzioni, spalmate su più

amministrazioni di differente estrazione, non sempre perfettamente dialoganti,

Page 25: LA RIFORMA CONTINUA E IL SOGNO DI CAMBIARE IL …

22

riproduce pertanto tale complessità lungo l’articolata filiera del procedimento

amministrativo necessario per giungere a quel dato provvedimento o a quella data

prestazione.

Di conseguenza, il procedimento amministrativo così congegnato non fa altro

che riprodurre lo schema amministrativo di partenza.

Sotto le mentite spoglie della maggior completezza e della maggior garanzia,

l’articolato procedimento decisionale si traduce in realtà nello strumento con cui i

diversi apparati burocratici, coinvolti a vario titolo nella sequenza procedimentalizzata

(pareri, proposte, nulla osta, accordi, intese, etc.), possono in questo modo “riaffermare

il loro ruolo, consolidando i loro compiti e, alla fine, la loro stessa esistenza”.

In un così dispendioso reticolo a maglie strette, elefantiaco e

deresponsabilizzante per definizione, l’aspettativa dei cittadini di poter riconoscere

alla bisogna l’amministrazione effettivamente competente subisce una feroce

frustrazione.

La confusione è talmente stratificata da riverberarsi anche tra gli addetti ai lavori,

i quali, non meno dei cittadini, rischiano di non comprendere l’argine delle proprie e

altrui competenze, restando impaludati nelle secche dell’immobilismo amministrativo,

onde evitare la responsabilità da sconfinamento.

Il circolo vizioso e perverso descritto è humus fertile di disfunzione e rigetto

delle istituzioni da parte dei cittadini che, pertanto, percepiscono l’apparato

burocratico come un pedante e costoso intralcio allo sviluppo economico e sociale del

Paese, e non come un soggetto attivo erogatore di servizi.

L’ultimo focus del Rapporto Cassese, qui materia di rilettura, in questo

andirivieni tra passato e presente dei problemi dell’apparato amministrativo, investe il

personale pubblico.

Sotto questo profilo, a differenza che negli altri oggetto della presente

trattazione, il dipinto raffigurato è meno gattopardesco, almeno con specifico

riferimento alla consistenza numerica del personale impiegato.

L’amministrazione pubblica degli anni Novanta occupa, in riferimento al settore

pubblico allargato, circa 4 milioni e 200 mila dipendenti, pari al 18% dell’occupazione

Page 26: LA RIFORMA CONTINUA E IL SOGNO DI CAMBIARE IL …

23

totale ed è in linea con le medie dei principali Stati europei in relazione al rapporto

pubblici dipendenti-popolazione residente e pubblici dipendenti-totale occupati

(attualmente i lavoratori del comparto pubblico allargato sono 3 milioni e 257 mila,

pari al 14,9 % degli occupati, in linea con le medie dei principali Paesi europei circa i

parametri appena menzionati4).

Diversamente dal trend attuale, il numero di dipendenti pubblici nel periodo

analizzato dal Rapporto Cassese è figlio di un ventennio di grande espansione

numerica del settore pubblico.

Oltre però alla naturale dilatazione dei compiti dello Stato contemporaneo, la

leva del posto pubblico di basso profilo (utilizzata dalla classe politica non avveduta

sia come strumento di consenso clientelare, sia quale grande ammortizzatore sociale

per calmierare le tensioni occupazionali) va per forza di cose a discapito, da un lato,

del numero ottimale di dipendenti in rapporto alle funzioni, e dall’altro, delle

professionalità necessarie per l’espletamento di servizi di qualità a vantaggio della

collettività.

Tale prassi scellerata, infatti, ha portato a un costante aumento del numero

complessivo dei dipendenti pubblici, pur in presenza di prolungati interventi normativi

(di fatto derogati) volti alla loro contrazione per esigenze di finanza pubblica.

La politica del blocco del turnover, d’altronde, se non è effettivamente rigida,

oltre a comportare tutti gli ordinari malanni di sistema correlati all’ostruzione del

canale ordinario di accesso al lavoro pubblico, tradisce in primis anche la mission di

riduzione del numero di dipendenti.

D’altro canto, lo stop forzato alle assunzioni rivela tutta la sua fallibilità su

svariati altri fronti, anche inerenti la crescita di spessore professionale dell’apparato

amministrativo, in quanto determina:

- l’invecchiamento generale del comparto pubblico a causa della preclusione

del normale ricambio generazionale;

4 Dati al 31/12/2015 a cura del Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato – Conto Annuale

2015.

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24

- l’impossibilità di innovazione tecnologica e riqualificazione professionale

del personale;

- l’aumento del precariato, correlato alla contrazione delle facoltà assunzionali

di ruolo delle amministrazioni;

- il manifestarsi di pressioni politico-sindacali per l’attivazione di meccanismi

di stabilizzazione e assorbimento del personale precario, tendenti comunque

ad aumentare nel medio-lungo periodo il numero dei dipendenti in ruolo;

- la possibilità di disarcionamento o aggiramento della regola costituzionale

dell’accesso al pubblico impiego mediante concorso.

Altro elemento capace di innescare l’ampliamento delle risorse umane pubbliche

nel medio lungo periodo, è inoltre la mancata correlazione tra piante organiche e

carichi funzionali di lavoro.

Una revisione delle dotazioni organiche pertanto sempre all’ingrasso, in quanto

priva di misurazioni concrete rispetto al fabbisogno, serve solo ad accendere la

bulimica fame di personale delle amministrazioni pubbliche.

Tale infimo meccanismo, quindi, comporta nel medio-lungo periodo

l’assunzione di nuovi dipendenti di ruolo e, già nel breve, “consente alla burocrazia di

scaricare la responsabilità del mancato raggiungimento di obiettivi e risultati sulla

“carenza” di personale, dimostrata in base al numero dei posti vacanti”.

Da ultimo, è evidente che l’apparato amministrativo, non sopportando

direttamente gli oneri del surplus di forza lavoro, concettualmente predilige

l’eccedenza degli operatori del proprio comparto e che, pertanto, le piante organiche

sono gravemente sguarnite per definizione.

Tale abbondanza, infatti, risulta pesante sia a scopo difensivo, in termini di

esistenza e di intangibilità dell’apparato burocratico stesso, che di peso specifico, in

termini di orientamento delle scelte da parte dell’amministrazione rispetto alla classe

politica.

Tuttavia però, a contraltare dell’incremento del personale, spesso non segue un

auspicabile miglioramento della qualità dei servizi resi.

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25

Anzi, questi ultimi, divengono ancora più diseconomici e fuori mercato,

fomentando fenomeni di rigurgito da parte dei cittadini.

Altre contraddizioni di cui è contornato il pubblico impiego, a prescindere dalle

riforme che si sono via via stratificate nel tempo, e dal tempo di ricerca e di analisi dei

suoi problemi, sono inoltre rappresentate dall’eccessiva rigidità nella gestione del

personale e dall’appiattimento retributivo, che permangono nonostante l’avvento della

contrattualizzazione.

Ulteriori caratteristiche da considerare del personale pubblico, in continuità con

le diagnosi precedenti, sono pure la predominanza della cultura giuridico

amministrativa rispetto a quella tecnica e la meridionalizzazione del pubblico impiego.

Quest’ultima in particolare, troppe volte sottovalutata, in aggiunta alle croniche

disfunzioni di errata distribuzione nord – sud dei dipendenti pubblici di cui è

comunque causa, immette nel sistema amministrativo il tema del dualismo economico

del Paese.

Il disastro sociale ed economico di un Mezzogiorno senza sviluppo, in cui la

prospettiva occupazionale prevalente, se non unica in determinate aree depresse, è il

pubblico impiego, riversa la questione meridionale in quella amministrativa: due facce

della stessa medaglia.

La disamina del documento Cassese, infine, affrontando a chiusura del capitolo

sul personale il ben conosciuto deficit di produttività del pubblico impiego, sintetizza

tanti malanni della pubblica amministrazione in un pensiero tanto semplice quanto

granitico e senza diritto di replica, che non serve commentare, ma basta riportare

pedissequamente: “Mancano incentivi, sanzioni, misure della produttività, controlli sul

lavoro svolto. Quest’ultimo è in larga misura, rimesso alla buona volontà dei

dipendenti: chi vuole lavora; chi no, se ne astiene”.

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Capitolo 3

Considerazioni conclusive: prospettive di riforma

Ripercorrendo brevemente la storia amministrativa del Paese dall’unità d’Italia

ai giorni nostri, e impreziosendo questo ideale percorso nei sentieri dello Stato con il

contributo fondamentale del Rapporto Giannini e del Rapporto Cassese, si può

constatare come, immutabili nel tempo, i problemi di fondo siano sempre gli stessi,

tristemente noti, ma mai abbattuti, tanto che qualunque modifica legislativa appaia

vinta.

Tuttavia, proprio questi ultimi due scritti ministeriali appena citati, ci possono

far capire come tra i difetti capitali del processo riformatore ci sia stata la velleità della

politica di riproporre il tema del cambiamento dimenticando le esperienze precedenti,

e presentandolo come completamente nuovo, originale per impianto e definitivamente

risolutivo.

La progettualità pregressa, invece, va ripresa poiché può insegnare molto sia per

la disamina dei problemi dell’amministrazione che per il valore delle soluzioni

prospettate.

Operando in questo modo, d’altronde, si spianerebbe la strada a tentativi che

quanto meno eviterebbero gli sbandamenti precedenti.

Uno dei tanti errori commessi lungo l’impervia via del processo riformatore è

l’aver considerato lo Stato, inteso come assetto dei pubblici poteri, la Pubblica

Amministrazione, intesa come apparato pubblico, e i Cittadini, intesi nel loro modo di

rapportarsi e vivere le istituzioni pubbliche, come tre soggetti separati e non

comunicanti, quasi non fossero parti fondanti del medesimo sistema.

Di talché la possibilità di riformare Stato o Apparto amministrativo,

indifferentemente prima l’uno e poi l’altro, a seconda delle convenienze del momento,

con micro interventi settoriali, disinteressandosi completamente del ruolo e

dell’apporto del terzo soggetto, il più importante, i Cittadini, considerati parti non

necessarie per il buon esito delle ricalibrature normative in atto.

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27

In riferimento a questo punto, sia il Rapporto Giannini che il Rapporto Cassese

ci aiutano a comprendere come il sistema necessiti invece di una revisione radicale e

congiunta in cui, oramai, nessuno degli attori che lo compongono (Stato-

Amministrazione-Cittadini) può e deve restare escluso.

La questione del modello di Stato teorico che si vuole costituzionalizzare, e

quindi se quest’ultimo deve essere centralizzato, federale, regionale, o

dell’equiordinazione tra enti territoriali autonomi, non può essere trattata

disgiuntamente rispetto alla tematica dell’apparato amministrativo, affinché questo sia

effettivamente efficace ed efficiente.

Pertanto, riforma dello Stato e dell’apparato pubblico devono viaggiare sullo

stesso binario per rappresentare vera innovazione di sistema.

Emblematico sotto tale aspetto è il Rapporto Giannini il quale, relazionando il

Parlamento sui problemi dell’apparato amministrativo statale, inizia la sua disamina

seguendo questo ordine: regioni, comuni e Stato.

L’ordine, non casuale, frutto della ritardata e incompleta regionalizzazione

(siamo nel 1979 e le regioni si sono appena affacciate nella Repubblica), vuole

pungolare il legislatore, che si angustia per risolvere i gap dell’amministrazione

statale, a capire, prima di mettere mano all’apparato statale, qual è la direzione verso

cui lo Stato si sta indirizzando.

Diversamente, non completando il regionalismo e non capendo dove si stia

andando, qualsiasi intervento non sarà altro che un piccolo rattoppo su un vestito ormai

slabbrato e in cui patologie e devianze amministrative note si riproducono all’infinito,

poiché non vengono fatte scelte radicali.

Poco importa che il tema sia costituzionale, normativo o amministrativo: va

affrontato simultaneamente partendo dal presupposto che non posso organizzare

l’apparato amministrativo pubblico in maniera efficiente se prima non ho strutturato il

nuovo modello di Stato che ne è il coerente antecedente logico.

Nel documento Giannini, inoltre, si sfiora l’evoluzione del rapporto Cittadino-

Amministrazione, aprendo così un nuovo grande dibattito.

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28

Il cittadino, non più suddito, è un creditore esasperato che vanta molti più diritti

di quelli che lo Stato repubblicano e democratico ancora gli concede.

Nel documento Cassese, successivo di quasi 13 anni, il mutato rapporto

cittadino-autorità è un fatto ormai acclarato ed innegabile.

La c.d. cittadinanza amministrativa e il suo vasto significato in termini di diritti

(accesso, partecipazione, tempi del procedimento, etc.) ha da poco trovato piena

consacrazione normativa nella legge 241 del 1990 sul nuovo procedimento

amministrativo, anche se ancora latita su un piano fattuale.

Il documento ministeriale Cassese, pertanto, discutendo delle condizioni delle

amministrazioni pubbliche, parte proprio dai cittadini e dalla loro soddisfazione quali

fruitori dei servizi loro destinati.

In un momento storico preludio alle riforme Bassanini e alla modifica del Titolo

V della Costituzione, e in cui quindi il disegno organizzativo dei pubblici poteri naviga

verso l’approdo alla Repubblica delle autonomie, il Rapporto Cassese può discernere

dei problemi delle amministrazioni pubbliche iniziando l’analisi proprio dal restante

soggetto del sistema: i cittadini.

La riflessione riformatrice per essere efficace, oltre a tenere insieme tutte le

premesse finora elencate, deve dunque partire e chiudersi avendo ad oggetto istanze,

bisogni e soddisfazione del cittadino.

La riforma continua, con i suoi adattamenti e riequilibri, è quindi necessaria per

livellare staticità legale e dinamicità reale, in un incessante ma razionale e non

frenetico percorso circolare, in cui tutto inizia e finisce per il cittadino.

D’altronde privilegiare la visuale della collettività è l’unico modo per dare

sostanza al fatto che l’apparato amministrativo occorre per offrire servizi, e non per

dar lavoro a un cospicuo numero di dipendenti pubblici che altrimenti non saprebbero

che fare.

Le Istituzioni pubbliche, pertanto, per essere funzionali e coerenti al tempo in

cui vivono, devono avere la forza di adattarsi alla società in cui operano, sapendone

leggere schemi e comportamenti, interpretandone le sopravvenute esigenze, e trovando

le soluzioni nuove più opportune a problemi nuovi e in divenire.

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29

Un’istituzione infatti esiste veramente e dispiega i suoi effetti benefici nella

società quando è percepita come tale dalla cittadinanza: la credibilità e il conseguente

consenso si guadagnano attraverso la conoscenza da parte dei cittadini delle buone

prestazioni che una struttura pubblica è in grado di fornire al Paese, cioè tramite la

consapevolezza da parte della collettività dell’utilità servente di quell’istituzione al

bene comune.

Serve, pertanto, uno scatto d’orgoglio, e quest’ultimo non è necessario solo per

la sopravvivenza di un intangibile apparato burocratico incapace di riformarsi e di

innovarsi, ma è indispensabile per la tenuta stessa dell’intero sistema.

A prescindere dall’autorità riconosciuta normativamente a un’istituzione, e che

oggi, alla luce del nuovo rapporto cittadino-amministrazione, non è più da sola

sufficiente a legittimarla, essa quindi esiste effettivamente quando è sentita come

autorevole in materia, quando sa far bene e sa comunicare in maniera altrettanto

subitanea ciò che fa.

In altre parole, un’istituzione vive quando attrae consenso allontanando l’idea di

locus amoenus per gli addetti ai lavori, ricco di privilegi e povero di contenuti, rilassato

all’interno quanto oscuro all’esterno, a cui si nascondono compiti funzioni e

responsabilità.

Lo sforzo delle amministrazioni è pertanto duplice: rendere un lavoro di qualità

(condicio sine qua non di ogni discussione in merito) e farlo conoscere, comunicando

l’utilità e il senso stesso della propria esistenza, così da legittimarsi agli occhi di

cittadini sempre più sfiduciati.

Nella marea di proposte che si possono gettare sul tavolo delle riforme, tenendo

fermi problemi e capisaldi già analizzati e prospettati, bisogna capire che a livello

comunicativo siti web, uffici relazioni col pubblico e uffici stampa, per come

congegnati, non sono più sufficienti.

Anche se vi sono canali comunicativi nuovi e più rapidi, come i social, che vanno

approfonditi, questi non bastano.

La strada maestra per riallacciare collettività e istituzioni prevede la fuoriuscita

di quest’ultime dal cuneo dell’autoreferenzialità, l’apertura del “palazzo” e l’osmosi

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con il tessuto sociale circostante, che dev’essere messo nelle condizioni di conoscere

e riconoscere le svariate amministrazioni pubbliche che lo circondano.

Le modalità con cui bussare alla porta del cittadino sono molteplici e vanno

percorse tutte: portare gli uffici pubblici nelle scuole e simmetricamente le scolaresche

negli uffici; aprire periodicamente a scopo informativo e di marketing promozionale,

al di là degli orari ordinari di lavoro, le sedi istituzionali; potenziare lo studio

dell’educazione civica fin dalla scuola primaria; etc.

Iniziative quali, ad esempio, tavoli congiunti di tutte le forze di polizia

provinciali nelle scuole o il comune aperto o la prefettura risponde, divulgando compiti

e funzioni, dislocazioni territoriali, orari e quant’altro, creano conoscenza reciproca e

quella cultura di sistema indispensabile per capirne pregi e difetti, potendo innescare

opportuni interventi migliorativi.

In altre parole, solo implementando e anticipando i punti di contatto, dialogo e

ascolto, sempre più bidirezionali, in un flusso di feedback continui cittadini versus

istituzioni e viceversa, possiamo scardinare quella marmorea percezione di

inefficienza dell’apparato amministrativo che è il primigenio passaggio di una riforma

di sistema ragionata, condivisa e non dettata dalle emergenze del momento.

D’altronde, il complesso ed articolato mondo della pubblica amministrazione

italiana, proprio non mettendo i cittadini al vertice del mutamento, nonostante gli oltre

150 anni di rodaggio unitario, i passaggi istituzionali e la miriade di riforme normative

susseguitesi nel tempo, sembra nei difetti ancora chino su stesso.

Lo Stato è infatti tuttora alla ricerca di un soddisfacente equilibrio per scrollarsi

di dosso l’immagine di arcaico mostro immobile, sede di sprechi e inefficienze, al fine

di divenire veramente luogo primo dei diritti dei cittadini, volano allo sviluppo

economico del Paese ed erogatore efficiente, efficace ed economico di servizi

fondamentali.

Sia chiaro, le buone amministrazioni esistono, sono molte, ed è grazie a queste

che la struttura complessiva si è mantenuta in piedi, ma nella percezione collettiva le

comunque notevoli disfunzioni, anch’esse presenti ed innegabili, hanno risonanza tale

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da portare a una generalizzazione feroce e senza confini, la quale istantaneamente

travolge tutto il mare magnum del pubblico impiego, nessuno escluso.

Il cittadino, infatti, non ha mediamente gli strumenti per distinguere e

riconoscere da quale apparato provengano le disfunzioni di sistema: che la patologia

provenga da pubblica amministrazione statale o locale, da società partecipata a capitale

interamente pubblico o da soggetto privato gestore di servizi di pubblica utilità,

all’utente finale nulla importa, e il risultato negativo nel suo immaginario sarà il

medesimo.

Appare lapalissiano, anche razionalmente a chi subisce la mala administration,

che non tutti i dipendenti pubblici sono fannulloni, assenteisti, cavillosi burocrati o

perdigiorno stipendianti, la cui unica spinta emotiva scatenante l’aspirazione ad entrare

nell’impiego pubblico è stata determinata dalla sicurezza che esso dà, senza

considerare minimamente aspetti come prestigio, compito e missione

dell’amministrazione.

Tuttavia, nell’era dell’”homo videns5”, il danno d’immagine arrecato da un

dipendente sorpreso a timbrare in desabie, è ferita profonda, difficile da rimarginare

in tempi rapidi, recuperando la delegittimazione complessiva che ne deriva, data la

forza deflagrante di tali immagini.

A fronte di un disvalore complessivo e generale di questo tipo, l’unica risposta

possibile delle istituzioni passa attraverso il cambio di strategia copernicano appena

illustrato, quale testimonianza di salda esistenza.

È evidente pertanto che innovare veramente la pubblica amministrazione,

capendo i nuovi bisogni e le esigenze dei cittadini, a maggior ragione in un’epoca

dominata da grandi incertezze e paure (disoccupazione, crisi economica,

immigrazione, terrorismo), è l’eterna sfida di ritorno delle classi dirigenti, politica e

amministrativa, per poter stare al passo coi tempi di una società in rapida e continua

evoluzione.

La riforma continua è forse un passaggio ineludibile della società

contemporanea, sempre più “liquida” e priva di punti di riferimento fissi, bisognosa di

5 In riferimento si rimanda a Sartori G., “Homo videns”, XVII ed., Bari, 2017.

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risposte e rassicurazioni immediate a problemi contingenti, e perennemente

insoddisfatta dello stato delle cose.

Il continuo perorare la causa del miglioramento amministrativo però va attuato

con raziocinio, senza ansie o schizofrenie, da una politica capace di trasmettere una

visione di medio-lungo periodo e da un’elité amministrativa capace a sua volta di

essere attrice proattiva del cambiamento, al fine di governarlo e gestirlo assieme

nell’interesse generale, senza né subirlo né inseguirlo.

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BIBLIOGRAFIA

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italiane”, Roma 1998

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dell’Italia unita”, Bologna, 2014

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virtù della burocrazia italiana” , II ed., Bologna, 2003

SARTORI G., “Homo videns”, XVII ed., Bari, 2017

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dell’Interno”, II ed., Roma,2013

SILVESTRO C., “Storia della Pubblica Amministrazione. Evoluzione storica

degli apparati pubblici: dall’Unità d’Italia al Codice del processo amministrativo

(D.Lgs. 104/2010), II ed., Napoli, 2010