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Rivista quadrimestrale di cultura e spiritualità della Passione a cura dei Passionisti italiani e della Cattedra Gloria Crucis della Pontificia Università Lateranense Direttore responsabile Gianni Sgreva c.p. Direttore amministrativo Vincenzo Fabri c.p. Cattedra Gloria Crucis Comitato scientifico Fernando Taccone c.p. - Antonio Livi Lubomir Zak - Riccardo Ferri Denis Biju-Duval - Angela Maria Lupo c.p. Gianni Sgreva c.p. - Adolfo Lippi c.p. Segretari di redazione Leopoldo Boris Lazzaro cmop, Carlo Baldini c.p. - Flavio Toniolo c.p. Lorenzo Baldella c.p. - Vittorio Lucchini Lucia Ulivi - Franco Nicolò Collaboratori Tito Amodei c.p., Vincenzo Battaglia ofm, G. Marco Salvati op, Tito Paolo Zecca c.p., Maurizio Buioni c.p., Max Anselmi c.p., Giuseppe Comparelli c.p., Mario Collu c.p., Alessandro Ciciliani c.p., Carmelo Tur- risi c.p., Roberto Cecconi c.p., Lorenzo Mazzocante c.p. Redazione: La Sapienza della Croce Piazza SS. Giovanni e Paolo, 13 00184 Roma Tel. 06.77.27.11 Fax 06.700.81.92 e-mail: [email protected] Abbonamento annuale Italia E 20,00, Estero $ 30 Fuori Europa (via aerea) $ 38 Singolo numero E 10,00 C.C.P. CIPI n. 50192004 - Roma Finito di stampare Ottobre 2012 Stampa: Tipografia CSR - Roma Progetto grafico: Filomena Di Camillo Impaginazione: Serena Pico ISBN 978-88-85421-42-4 ANNO XXVII - N. 1 GENNAIO-APRILE 2012 5-8 Autorizzazione del tribunale di Roma n. 512/85, del 13 novembre 1985 - Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 2 e 3, Teramo Aut. N. 123/2009 LA SAPIENZA CROCE della 21-27 29-32 33-43 45-71 73-81 83-110 111-120 129-134 EDITORIALE La Sapienza della Croce e il Papa Wojtyla FERNANDO TACCONE cp La spiritualità della Passione e il mistero pasquale CARDINAL KAROL WOJTILA SALUTI Giovanni Paolo II, storia di una vocazione S. ECC. MONS. ENRICO DAL COVOLO sdb Giovanni Paolo II e il carisma passionista REV.MO P. OTTAVIANO D’EGIDIO cp STUDI La sapienza della croce nella vita del beato Giovanni Paolo II S. EM. CARDINAL GEORGES MARIE MARTIN COTTIER op Le fonti della Salvifici Doloris e loro dimensione staurologica MARIO FEDELE COLLU cp Giovanni Paolo II e la sofferenza (meditazione) S. EM. CARDINAL ANGELO COMASTRI La sapienza della croce nel magistero di Giovanni Paolo II GILFREDO MARENGO Cristo rende appassionante ogni fase della vita CIRO BENEDETTINI cp Il messaggio di Giovanni Paolo II nella debolezza della malattia ALDO MARIA VALLI Il coraggio umano-cristiano di Giovanni Paolo II nella debolezza della malattia SAVERIO GAETA 9-20 121-127 1 ciano la sapienza.indd 1 14/01/13 08:51

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Rivista quadrimestrale di cultura e spiritualità della Passionea cura dei Passionisti italiani e della Cattedra Gloria Crucis della Pontificia Università Lateranense

Direttore responsabile Gianni Sgreva c.p.Direttore amministrativo Vincenzo Fabri c.p. Cattedra Gloria Crucis Comitato scientifico Fernando Taccone c.p. - Antonio Livi Lubomir Zak - Riccardo Ferri Denis Biju-Duval - Angela Maria Lupo c.p. Gianni Sgreva c.p. - Adolfo Lippi c.p.Segretari di redazione Leopoldo Boris Lazzaro cmop, Carlo Baldini c.p. - Flavio Toniolo c.p. Lorenzo Baldella c.p. - Vittorio Lucchini Lucia Ulivi - Franco NicolòCollaboratoriTito Amodei c.p., Vincenzo Battaglia ofm, G. Marco Salvati op, Tito Paolo Zecca c.p., Maurizio Buioni c.p., Max Anselmi c.p., Giuseppe Comparelli c.p., Mario Collu c.p., Alessandro Ciciliani c.p., Carmelo Tur-risi c.p., Roberto Cecconi c.p., Lorenzo Mazzocante c.p.Redazione: La Sapienza della Croce Piazza SS. Giovanni e Paolo, 13 00184 Roma Tel. 06.77.27.11 Fax 06.700.81.92 e-mail: [email protected] annualeItalia E 20,00, Estero $ 30 Fuori Europa (via aerea) $ 38 Singolo numero E 10,00 C.C.P. CIPI n. 50192004 - Roma Finito di stampare Ottobre 2012Stampa:Tipografia CSR - RomaProgetto grafico: Filomena Di CamilloImpaginazione: Serena Pico

ISBN 978-88-85421-42-4

Anno XXVII - n. 1gennAIo-AprIle 2012

5-8

Autorizzazione del tribunale di Roma n. 512/85, del 13 novembre 1985 - Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 2 e 3, Teramo Aut. N. 123/2009

LaSapienza CroCedella

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29-32

33-43

45-71

73-81

83-110

111-120

129-134

EDITORIALELa Sapienza della Croce e il Papa Wojtyla

Fernando Taccone cp

La spiritualità della Passione e il mistero pasqualecardinal Karol WojTila

SALUTIGiovanni Paolo II, storia di una vocazione

S. ecc. MonS. enrico dal covolo sdb

Giovanni Paolo II e il carisma passionistaRev.mo P. ottaviano D’egiDio cp

STUDILa sapienza della croce nella vita

del beato Giovanni Paolo IIS. em. CaRDinal geoRgeS maRie maRtin CottieR op

Le fonti della Salvifici Doloris e loro dimensione staurologica

Mario Fedele collu cp

Giovanni Paolo II e la sofferenza (meditazione)S. eM. cardinal angelo coMaSTri

La sapienza della croce nel magistero di Giovanni Paolo II

gilFredo Marengo Cristo rende appassionante ogni fase della vita

ciro BenedeTTini cp

Il messaggio di Giovanni Paolo II nella debolezza della malattia

aldo Maria valli

Il coraggio umano-cristiano di Giovanni Paolo II nella debolezza della malattia

Saverio gaeTa

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Cardinale TarCisio BerTonesegreTario di sTaTo di sua sanTiTà

In occasione del convegno sul tema La Saienza della Croce nel pensiero e nella testimonianza del beato Giovanni Paolo II, il Sommo Pontefice Benedetto XVI rivolge ai partecipanti un cordiale saluto e, mentre auspica che il provvido incontro, volto ad approfondire significativi aspetti del luminoso insegnamento e della spiritualità del Suo amato predecessore, susciti rinnovata adesione a Cristo e sempre più generoso sostegno a quanti soffrono nel corpo e nello spirito, invia a vostra Eccellenza, agli organizzatori, ai relatori ed ai presenti tutti l’implorata benedizione apostolica.

A SuA EccEllEnzA REvEREndiSSimAmonS. EnRico dAl covoloRettore Pontificia università lateranensePiazza S. Giovanni in laterano, 4 00120 città del vaticano

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Il presente volume raccoglie gli Atti del seminario di studio celebrato il 15 maggio 2012 in Vaticano nella Chiesa di S. Stefano degli Abissini: “La sapienza della Croce nel pen-siero e nella testimonianza del beato Giovanni Paolo II”. ordinariamente i

seminari della Cattedra gloria Crucis si tengono nella Pontificia Università Lateranense dove la Cattedra esiste1. l’organizzazione del seminario ci

1 la Cattedra gloria Crucis è iniziata alla Pontificia università lateranense nell’ottobre 2003 con una Convenzione tra l’università e i Passionisti italiani. Tra i seminari di studio segnaliamo: AA.VV., Memoria Passionis in Stanislas Breton, edizioni staurós, s. gabriele, Teramo, 2004; Piero CodA, Le sette Parole di Cristo in Croce, edizioni staurós, s. gabriele Teramo, ottobre 2004; AA.VV., Quale volto di Dio rivela il Crocifisso?, edizioni oCd, roma, Morena, 2006; AA.VV., La visione del Dio invisibile nel volto del Crocifisso, edizioni oCd, roma Morena, 2008; AA.VV., Stima di sé e kenosi, edizioni oCd, roma Mo-rena, 2008; AA.VV., Croce e identità cristiana di Dio nei primi secoli, edizioni oCd, roma Morena, 2009; aa.VV., Il Beato Domenico Bàrberi passionista nell’itinerario di conversione del Card. John Henry Newman, in La Sapienza della Croce, anno XXV, n. 4, ottobre-dicembre 2010; AA.VV., PersonA e CroCe, edizioni oCd, roma Morena, 2010; aa.VV. Emigrazione e multiculturalità: Croce su cui morire o risorgere, in La Sapienza della Croce, anno XXVi, n. 1, gennaio-aprile 2011; aa.VV., Il concetto cristiano di Dio a partire dalla Croce. La fondazione biblica: Dio è Amore, in La Sapienza della CroCe, Anno XXVi, n. 2, mAggio-Agosto 2011; AA.VV., L’agire sociale alla luce della teologia della Croce, edizioni oCd, roma Morena, 2011; AA.VV., La colpa umana dinanzi al mistero della croce, edizioni oCd, roma Morena, 2011; AA.VV., La sapienza della Croce come risposta alla domanda di senso, in La Sapienza della CroCe, anno XXVi, n. 3, Settembre-diCembre 2011.

Fernando TaCCone CPdireTTore della CaTTedra gloria CruCis

lA SAPiEnzAdEllA cRocEE il PAPA WojtylA

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ha portati eccezionalmente a celebrarlo in Vaticano per essere illumi-nati dalla presenza del Beato giovanni paolo II in S. pietro e poterlo venerare quale grande maestro e pastore della Chiesa universale. È stato un avvenimento ecclesiale di grande intensità spirituale, vissuto con emozione e grande partecipazione dalle oltre duecento persone, sotto la guida magistrale del Cardinal Angelo Comastri.

La riflessione su Papa Wojtyla si lega a quella che Benedetto XVI ha fatto otto mesi dopo la morte dell’indimenticabile Pontefice2:

“riandiamo col pensiero alle vicende dell’anno che volge al suo tramonto. Stanno alle nostre spalle grandi avvenimenti, che hanno segnato profondamente la vita della Chiesa. penso innanzitutto alla dipartita del nostro amato Santo Padre Giovanni Paolo II, preceduta da un lungo cammino di sofferenza e di graduale perdita della parola. Nessun Papa ci ha lasciato una quantità di testi pari a quelli che ci ha lasciato lui; nessun Papa in precedenza ha potuto visitare, come lui, tutto il mondo e parlare in modo diretto agli uomini di tutti i conti-nenti. Ma, alla fine, gli è toccato un cammino di sofferenza e di si-lenzio. Con le sue parole e le sue opere, ci ha donato cose grandi; ma non meno importante è la lezione che ci ha dato dalla cattedra della sofferenza e del silenzio... Ci ha lasciato un’interpretazione della sof-ferenza che non è una teoria teologica o filosofica, ma un frutto matu-rato lungo il suo personale cammino di sofferenza, da lui percorso col sostegno della fede nel Signore crocifisso. Questa interpretazione, che egli aveva elaborato nella fede e che dava senso alla sua soffe-renza vissuta in comunione con quella del Signore, parlava attraverso il suo muto dolore trasformandolo in un grande messaggio”3.

Il messaggio sviluppato nel seminario da illustri relatori, ora ci è consentito di gustarlo attraverso queste pagine con viva partecipa-zione intellettuale ed emotiva. L’ordine delle relazioni è il medesimo delle esposizioni: S. Ecc. Mons. Enrico dal Covolo, Rettore Magni-fico della Pontificia Università Lateranense; Rev.mo Superiore Ge-nerale dei passionisti p. ottaviano d›egidio; S.em. Cardinal georges

2 giovanni Paolo ii muore nella Città del Vaticano il 2 aprile 2005.3 Benedetto XVi, Discorso alla Curia romana in occasione della presenta-

zione degli auguri natalizi, giovedì, 22 dicembre 2005.

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Marie Martin Cottier op, teologo emerito della Casa Pontificia; Prof. Mario P. Collu passionista della Pontificia Università Lateranense; S.Em. Cardinal Angelo Comastri, Vicario Generale di Sua Santità per la Città del Vaticano; Prof. Gilfredo Marengo del Pontificio Isti-tuto giovanni paolo II per studi su matrimonio e famiglia; Dott. Ciro Benedettini passionista vice-direttore della Sala Stampa Vaticana; i vaticanisti Dott. Aldo Maria Valli e Dott. Saverio gaeta. la nostra gratitudine va a ciascuno di loro per l›entusiasmo che hanno saputo riversare sui partecipanti e per la loro indiscussa competenza.

nella comprensione del nostro tema di studio siamo stati accom-pagnati dalla riflessione che Papa Wojtyla, un anno prima di morire, ha consegnato ai giovani:

“non siate sorpresi se sul vostro cammino incontrate la Croce... Se Gesù ha accettato di morire sulla croce, facendone la sorgente della vita e il segno dell’amore, non è né per debolezza, né per gusto della sofferenza. È per ottenerci la salvezza e farci fin d’ora partecipi della sua vita divina. È proprio questa la verità che ho voluto ricor-dare ai giovani del mondo consegnando loro una grande Croce di legno al termine dell’Anno Santo della Redenzione, nel 1984. Da al-lora, essa ha percorso diversi Paesi, in preparazione alle vostre gior-nate Mondiali. Quest’anno, nel XX anniversario di quell’evento, desidero ripetervi le parole che pronunciai allora: “Cari giovani, ... vi affido la Croce di Cristo! Portatela nel mondo come segno dell’a-more del Signore Gesù per l’umanità e annunciate a tutti che non c’è salvezza e redenzione se non in Cristo morto e risorto”.

Siamo sicuri di fare cosa gradita ai nostri lettori premettendo, alle relazioni presentate, un articolo scritto nel 1969 da Giovanni Paolo II, quando era cardinale; esso è stato pubblicato nella rivista passio-nista Fonti vive: La spiritualità della Passione e il mistero pasquale e, per la sua originalità, profondità e attualità, è stato ripresentato una seconda volta qualche anno dopo4; ora ci sembra doveroso met-terlo all’inizio dei vari contributi perché esso ci invita a leggere la

4 Cardinal Karol WoJTYla, La spiritualità della passione e il mistero pa-squale, in SapCr XVi (2001), 235-244.

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sofferenza umana alla luce della sapienza della croce. La riflessione dell’allora cardinale Wojtyla considera la esperienza straordinaria della passione di gesù vissuta dal Fondatore dei passionisti San Paolo della Croce, scandagliandone le profondità del carisma fino ad affermare: “Paolo non oltrepassa la Croce, gli manca quasi il coraggio di arrivare per la croce fino alla risurrezione che con la Croce costituisce l’unico mistero pasquale. La spiritualità di san Paolo considera la croce come un evento la cui grandezza non può essere mai raggiunta”5.

5 Cf l’articolo del Cardinal Karol Wojtyla riportato nel presente numero della rivista La sapienza della Croce.

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La spiritualità della Passione e il mistero pasquale5-8

la spiritualità della passione e quella della

Risurrezione, senza dubbio, meritano di essere ampiamente e solidamente studiate.

Il presente articolo non pretende di essere un tale studio. Vogliamo piuttosto racco-gliere ed ordinare le riflessioni che ci ven-gono suggerite dalla figura del primo passionista, ricordato ogni anno dalla santa Liturgia il 28 aprile1. per conoscere meglio questo Santo ci furono utili: Hunter of souls, St Paul of the Cross di edmund Burke e. p. e La mystique de la Passion di Stanislas Breton, profes-sore all’Istituto Cattolico di parigi.

Leggendo questi libri si conosce la persona di Paolo Daneo, il futuro fondatore dei passionisti, e la sua vocazione. Questa partico-lare vocazione consisteva nella forte devozione personale di paolo alla passione di gesù che lo portava a irradiarla anche all’esterno. La spiritualità di Paolo si era incen trata fin dalla sua giovane età intorno alla Croce e Passione di Gesù Cristo. Nel 1720, all’età di 27 anni, egli aveva già percorso una lunga strada nella vita spirituale. In quel tempo era già un mistico maturo e si accinse a scrivere le regole della congregazione che doveva poi fondare. Il tempo della

1 era questa la data della memoria liturgica prima dell’ultima riforma del calenda rio. ora il santo viene ricordato nella data del 19 ottobre (ndr).

Cardinal Karol WoJTilaarCiVesCoVo di CraCoVia

lA SPiRituAlità dEllA PASSionE E il miStERo PASquAlE

1. vocazione di san Paolo della croce

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stesura delle regole fu molto breve; appena alcuni giorni furono suf-ficienti. Paolo non era ancora ordinato sacerdote e non aveva attorno a sé uno stuolo di di scepoli, per i quali queste regole servissero come norma di vita in comune. Tutto questo doveva accadere in seguito; per il momento c’era soltanto in lui una grande espansione della vita interiore che lo spingeva a cercare forme esterne e sociali per realizzare i suoi ideali.

Quando lasciò Castellazzo dove suo padre, Luca, un piccolo commer ciante, si era trasferito da Ovada (dove il 3 gennaio 1694 era nato Paolo), era con lui solo il fratello Giovanni Battista, suo insepa-rabile compagno fino alla morte e partecipe del suo cammino e della sua vocazione. I due fratelli si di ressero verso il mezzogiorno d’Italia avendo di mira un doppio fine: condur re una vita eremitica nella con-templazione del mistero della croce e ottenere dalla Santa Sede l’ap-provazione delle regole per la congregazione che inten devano fon-dare. Queste regole erano già state praticate da loro per alcuni an ni nella loro terra natale. lo scopo principale per cui si erano messi in viag gio, che era l’approvazione delle regole da parte della Santa Sede, non lo raggiunsero. Trovarono invece al Monte Argentario il luogo adatto per met tere in pratica il loro desiderio di una vita con-templativa ed eremitica.

Tutto questo avvenne dopo il primo ventennio del Settecento. Da allora Paolo della Croce si sforzò con grande costanza, anche se gradatamente, di dare una forma esterna a quell’opera alla cui fondazione si era sentito chia mato fin dalla giovinezza e che era profondamente radicata nel suo cuore. Pure essendo un eremita, non ancora sacerdote, veniva chiamato, alcune vol te, a predicare le missioni e in questo modo incominciò la sua attività missio naria che poi doveva protrarsi per lunghi anni. la fondamentale massima di tutti i missionari della Chiesa: contemplata aliis tradere era da lui costante mente praticata. In primo luogo paolo si sentiva chia-mato alla contemplazio ne, ma conseguentemente la sua contem-plazione tendeva, per mezzo della predicazione, a produrre frutti salutari negli altri. la vocazione di paolo - ed a suo esempio anche la vocazione dei passionisti - è l’apostolato. L’apostola to denota una certa maturità della vita contemplativa, costituisce quasi un intimo obbligo di comunicare agli altri quel bene che uno possiede nella pro pria anima. Caritas Christi urget nos (2 Cor 5, 14). La vita

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di san paolo della Croce rappresenta un indirizzo impresso nella sua congregazione.

l’orientamento primitivo verso la vita eremitica venne pian piano modi ficato per conformarsi alle esigenze nell’apostolato, per servire il Crocifisso nelle anime dei fedeli. Per l’apostolato di Paolo un av-venimento di grande im portanza fu l’ordinazione sacerdotale, che ricevette insieme a suo fratello dalle mani dello stesso sommo pon-tefice Benedetto XIII. Ciò avvenne nell’anno 1727. Questo fatto era legato alla destinazione dei due fratelli al servizio tem poraneo degli ammalati in qualità di cappellani. La fondazione della congrega-zione, però, procedeva lentamente in mezzo a tante difficoltà. Anche l’appro vazione delle regole si fece aspettare a lungo. Non c’è da meravigliarsene. Di versi furono i motivi di tanta lentezza. prima di tutto Pàolo della Croce inco minciò le pratiche per ottenere l’appro-vazione quando la regola esisteva sol tanto sulla carta e nella vita dei due fratelli Danei. Altri membri della congre gazione non se ne vedevano ancora. È vero, poi, che i due fratelli portavano l’abito permesso dal loro vescovo monsignor Gattinara, ma è vero pure che a roma questo abito nero in un primo tempo suscitava soltanto cu-riosità.

Un altro motivo per cui l’approvazione delle regole dei passio-nisti fu ottenuta lentamente e a tappe, anche quando già Paolo della Croce era attor niato da un certo numero di discepoli attratti dalla fama della sua santità e pronti a seguire la strada da lui indicata, era la rigidezza della regola stessa. la Santa Sede a diverse riprese chiese modifiche e mitigazioni. Paolo con grande tenacia cercò di salvare quel che era essenziale, accettò invece tutte le osserva-zioni e tutti gli emendamenti dettati dalla prudenza. Del resto la sua stessa esperienza di vita lo portava ad essere sempre più moderato. Le regole dei passionisti ebbero la loro approvazione definitiva nel 1769, sei anni pri ma della morte di san Paolo della Croce, avvenuta a Roma nel 1775, dopo 81 anni di vita rigorosa e mortificata e dopo aver condotto felicemente a termi ne l’opera che Dio gli aveva ispi-rata.

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Durante tutta la sua vita, paolo della

Croce ebbe una chiara consapevo lezza della sua vocazione e con

la massima costanza e pazienza fece di tutto affinché l’opera fosse felicemente compiuta. Il Santo considerò sempre come compimento della sua vocazione la fondazione della congregazione dei pas sionisti, perché ad essa tramandava quel che era l’essenza della sua vita. Ciò che fu più importante nella propria spiritualità, san Paolo lo trasmise a quelli che Iddio gli mise accanto nella sua vita. egli comunicava la sua spiritualità alle persone che si mettevano sotto la sua direzione spirituale ed a quelli che lo ascoltavano in tempo delle molte missioni che predicava, durante le quali toccava i cuori specialmente - bisogna dirlo - della gente indifferente ed a volte addirittura i cuori dei banditi. Ciò che era essenziale per lui stesso lo considerava tale pure per tutta la Chiesa, lo riteneva l’obbligo più importan te. E questo essenziale era per lui la passione e Morte di Cristo.

proprio qui abbiamo la nota saliente della vocazione di san paolo della Croce, vale a dire la sua spiritualità passionista. Occorre, perciò, descriverla almeno brevemente.

le immagini del santo ce lo rappresen-

tano con lo sguardo fisso sul Crocifisso. Quel guardare il Cro-cifisso può rappresen-

tare, anzitutto, l’espres sione della compassione umana per il grande Sofferente. Questa costituisce il primo grado della partecipazione alla passione: peraltro in chi guarda con fe de la croce si produce la persuasione che la sua compassione non è adeguata al mistero della Croce.

Ma per conoscere cosa significa quello sguardo di san Paolo dob-biamo prendere in considerazione tutta la sua vita. Senza dubbio

3. la mistica della croce come insufficienza dell’uomo e

grazia dello Spirito

2. il carisma della Passione

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ci possono essere utili, per questo, gli appunti del Diario, scritto quando era giovane, le regole da lui composte e le lettere dirette a numerose persone. Tuttavia non dobbia mo fermarci soltanto ai do-cumenti scritti. San paolo non fu uno scrittore di professione e non espresse sistematicamente la propria spiritualità. Questa spiritualità la troviamo più nella vita che negli scritti. precisamente nella sua vita appaiono i due tratti della spiritualità della Passione che a prima vista sembrano incompatibili, ma in fondo sono strettamente uniti. Mentre da una parte si esprime l’insufficienza dell’uomo per quel che riguarda i suoi pen sieri, gli atti della sua volontà e del suo cuore, il conoscere ed agire pura mente umani in rapporto con il mistero della croce, dall’altra parte viene af fermata la necessità di appog-giarsi alla croce, tanto da farne il centro di tutto. La croce inesauri-bile e quasi irraggiungibile nella sua profonda realtà è nello stesso tempo la fonte della vita dello spirito, portatrice dell’immensa for-tezza dell’anima.

Questo modo di guardare la croce è proprio di san Paolo e non lo si può trovare altrove. Era però preparato - come rileva Stani-slas Breton, com mentatore della spiritualità di san Paolo - dalla tra-dizione dell’ascetica e del la mistica cristiana. Nella spiritualità del fondatore dei passionisti la tradizio ne francescana si fuse mirabil-mente con la tradizione dei mistici renani, quali erano il beato En-rico Susone, Giovanni Ruysbroeck, Giovanni Taulero ed altri mistici del Medioevo. Il menzionato commentatore è d’opinione che sulla spiritualità di san Paolo non ebbe tanto influsso san Giovanni della Croce, nonostante che avessero in comune l’appellativo religioso, non fosse ro tanto distanti nel tempo e benché san Paolo conoscesse le sue opere come pure quelle di santa Teresa. paolo della Croce conosceva bene anche gli scritti di san Francesco di Sales, al quale è debitore di quel suo tratto delicato e del fascino esterno che sempre aveva sugli uomini.

la mistica medioevale - che del resto giovanni della Croce di-vulgò in forma più semplice e quindi più chiara - ha offerto alla spiritualità di san Paolo le idee fondamentali. Queste idee sono da una parte l’assoluta impos sibilità di attingere Iddio nella sua Divi-nità con le sole forze della natura umana, da cui deriva la conoscenza della propria nullità e quindi la nozione della notte spirituale tanto degna di nota negli scritti dei mistici. D’altra parte però la mistica

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di san paolo della Croce assunse pienamente l’idea dell’unio ne dell’anima con Dio, secondo la quale l’anima, grazie all’opera dello Spiri to Santo, può avvicinarsi in modo strettissimo a Dio. L’assoluta impossibilità di raggiungere Iddio con le forze della natura e nello stesso tempo la possibi lità dell’unione con Lui per grazia: ecco le verità mistiche intensamente vis sute dal Fondatore dei passionisti. E tutto questo nella sua vita mistica come nella sua spiritualità, era intimamente legato alla passione del redentore.

In questa spiritualità, la croce e la Passione erano presentate come un oggetto a parte, ma insieme erano la concretizzazione delle idee di cui si era parlato sopra. È superfluo dire che non è facile descrivere l’anima di un mi stico nelle sue profondità. Per quanto però possiamo dedurre dalle parole di san Paolo della Croce, egli fu per il lungo pe-riodo di quaranta anni soggetto a intense sofferenze interiori. nella sua anima si rifletté, in qualche modo, quello stato d’animo che Gesù manifestò sulla croce con le parole: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?

In san paolo della Croce la contemplazione della passione non consi steva nello sprofondarsi nel suo oggetto, ma nella partecipa-zione soggettiva ad essa. Non era solo l’impossibilità di raggiungere la Divinità con le forze della natura, ma anche la conoscenza della propria fragilità e conseguente mente l’ansia per non cadere nell’es-sere abbandonato da Dio. nella sua esperienza san paolo parteci-pava alla realtà del Getsemani e del Calvario. Questo era per lui la partecipazione alla passione. non era semplicemente passione per il Divino paziente. Ma piuttosto l’anima del nostro Santo si apriva con una forza misteriosa - potentia oboedentialis - all’azione divina e riceveva in sé una speciale somiglianza con Dio, il quale per amore “diede se stesso”. Dare se stesso, ecco qual è la cosa più importante nella spiritualità di san Paolo, nella sua contemplazione come nella sua predicazione.

Paolo non oltrepassa la Croce, gli manca quasi il coraggio di ar-rivare per la croce fino alla risurrezione che con la Croce costitu-isce l’unico miste ro pasquale. non sembra neppure che della pas-sione sviluppasse molto l’at teggiamento della riparazione che nel Seicento, grazie alla religiosa della Vi sitazione di Paray-le-Monial, aveva caratterizzato la devozione al Sacro Cuore di gesù. la spiri-tualità di san Paolo considera la croce come un even to la cui gran-

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dezza non può essere mai raggiunta. Della croce si partecipa sen-tendo la propria impossibilità di arrivarvi pienamente. Ora proprio tale partecipazione porta i frutti più pieni di apostolato.

In molti documenti del Concilio Va-ticano II viene

richiamata la nostra attenzione sul mistero pasquale di Cristo e della Chiesa. lo fa non

solamente la Costituzione sulla santa liturgia Sacrosanctum Conci-lium, ma anche - co sa degna di rilievo - la costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes.

ne riportiamo qui alcuni testi:“Il cristiano certamente è assillato dalla necessità e dal dovere di

com battere contro il male attraverso molte tribolazioni, e di subire la morte; ma associato al mistero pasquale, come si assimila alla morte di Cristo, così an che andrà incontro alla risurrezione confor-tato dalla speranza” (GS 22). E se guita: “E ciò non vale solamente per i cristiani ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia. Cristo, infatti, è morto per tutti e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella di-vina, perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la pos-sibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasqua le”. Tale e così grande è il mistero dell’uomo, che chiaro si rivela agli occhi dei credenti, attraverso la rivelazione cristiana. Per Cristo e in Cristo riceve luce quell’enigma del dolore e della morte, che al di fuori del suo vangelo ci opprime. Con la sua morte egli ha distrutto la morte, con la sua risurrezione ci ha fatto dono della sua vita, perché anche noi diventando figli col Figlio possiamo pregare esclamando nello Spirito: “Abba, Padre” (ibid).

Bisogna considerare queste espressioni ed interpretarle nel loro conte sto. Per quel che riguarda il contesto immediato, possiamo os-servare che es se sono desunte dal n. 22 che porta il titolo: Cristo l’uomo nuovo. Questo paragrafo inizia con la proposizione: “In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero

4. Riferimento ad alcuni testi della costituzione conciliare

Gaudium et spes

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dell’uomo”. Ora, il mistero dell’incarnazione ha il suo punto culmi-nante proprio nel mistero pasquale. È degna di nota la proposizione che accentua ancora più il senso della frase iniziale citata: “Cristo, che è il nuovo Adamo... svela pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione”. Dunque il contesto im mediato di-mostra che il mistero dell’Incarnazione ed in modo speciale il mi-stero pasquale è indirizzato all’uomo. Cristo, e particolarmente la sua morte e risurrezione, deve aiutare l’uomo a conoscere se stesso e la propria vocazione.

Se si tratta poi del contesto remoto e più largo, è bene prendere in con siderazione prima di tutto due passi del capitolo primo. Uno di essi, il n. 13, parla del peccato, un altro, il n. 18, del mistero della morte. Ecco cosa dice il brano che parla del peccato: “Quel che ci viene manifestato dalla Rivelazio ne divina, concorda con la stessa esperienza. Infatti, se l’uomo guarda dentro al suo cuore si scopre anche inclinato al male e immerso in tante miserie che non possono certo derivare dal Creatore che è buono. ... Così l’uomo si tro va in se stesso diviso. Per questo tutta la vita umana, sia individuale che col lettiva, presenta i caratteri di una lotta drammatica tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre. Anzi l’uomo si trova incapace di superare efficacemente da se medesimo gli assalti del male... Ma il Signore stesso è venuto a liberare l’uomo e a dargli forza, rinnovan-dolo nell’intimo, e scacciando fuori il ‘prin cipe di questo mondo’ (Gv 12, 31)” (GS 13).

Della morte poi si dice: “In faccia alla morte l’enigma della con-dizione umana diventa sommo. Non solo si affligge l’uomo, al pen-siero dell’avvici narsi del dolore e della dissoluzione del corpo, ma anche, ed anzi più ancora, per il timore che tutto finisca per sempre. Ma l’istinto del cuore lo fa giudi care rettamente, quando aborrisce e respinge l’idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della sua persona... La morte corporale, dalla quale l’uomo sarebbe stato esentato se non avesse peccato, insegna la fede cristiana che sarà vinta quando l’uomo sarà restituito allo stato perduto per il pec-cato, dall’onnipotenza e dalla misericordia del Salvatore. Dio infatti, ha chiamato e chiama l’uomo a stringersi a lui con tutta intera la sua natura in una comunione perpetua con l’incorruttibile vita divina. Questa vittoria l’ha conquistata il Cristo risorgendo alla vita, dopo aver liberato l’uomo dalla morte mediante la sua morte” (GS 18).

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Dal capitolo primo passiamo al capitolo terzo dove si parla della navi-tas humana in universo mundo, che nella traduzione italiana suona: l’attività umana nell’universo. nel n. 37 la costituzione ci parla della corruzione di questa attività a causa del peccato e nel n. 38 seguente siamo edotti che que sta attività è stata portata alla per-fezione proprio nel mistero pasquale. In che cosa consiste la corru-zione dell’attività umana? Secondo la costituzione Gaudim et spes la corruzione si trova in questo: “che il progresso che pure è un grande bene dell’uomo, porta con sé una grande tentazione: infatti, scon-volto l’ordine dei valori e mescolando il male con il bene, gli indi-vidui e i gruppi guardano solamente alle cose proprie, non a quelle degli altri; e così il mondo cessa di essere il campo di una genuina fraternità, mentre invece l’au mento della potenza umana minaccia di distruggere ormai lo stesso genere umano. ... La Chiesa di Cristo, fi-dandosi del piano provvidenziale del Crea tore, mentre riconosce che il progresso umano può servire alla vera felicità degli uomini, non può tuttavia fare a meno di far risuonare il detto dell’apo stolo: “Non vogliate adattarvi allo stile di questo mondo” (Rm 12, 2), e cioè a quello spirito di vanità e di malizia, che stravolge in strumento di peccato l’operosità umana, ordinata al servizio di Dio e dell’uomo” (GS 37).

e qui si passa al mistero pasquale: “Se dunque ci si chiede come può essere vinta tale miserevole situazione, i cristiani come risposta affermano che tutte le attività umane, che son messe in pericolo quo-tidianamente dalla superbia e dall’amore disordinato di se stessi, de-vono venir purificate e rese perfette per mezzo della croce e della risurrezione di Cristo. Redento, infatti, da Cristo e diventato nuova creatura nello Spirito Santo, l’uomo può e deve amare anche le cose che Dio ha creato. Da Dio le riceve e le guarda e le ono ra come se al presente uscissero dalle mani di Dio. Di esse ringrazia il Bene fattore e, usando e godendo delle creature in povertà e libertà di spirito, vie ne introdotto nel vero possesso del mondo, quasi al tempo stesso niente ab bia e tutto possegga: “Tutto infatti, è vostro: ma voi siete di Cristo, Cristo di Dio (1 Cor 3, 22 - 23)” (ibid.).

poco più avanti leggiamo: “Con la sua risurrezione costituito Si-gnore, Egli, il Cristo cui è dato ogni potere in cielo e in terra, tut-tora opera nel cuore degli uomini con la virtù dello Spirito Santo, non solo suscitando il desiderio del mondo futuro, ma per ciò stesso

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anche ispirando, purificando quei gene rosi propositi con i quali la famiglia degli uomini cerca di rendere più umana la propria vita e di sottomettere a questo fine tutta la terra. Ma i doni dello Spirito sono vari: alcuni li chiama a dare testimonianza manifesta della di mora celeste col desiderio di essa, contribuendo così a mantenerlo vivo nel l’umanità; altri li chiama a consacrarsi al servizio degli uomini sulla terra, così da preparare attraverso tale loro ministero quasi la materia per il regno dei cieli. In tutti, però, opera una liberazione, in quanto nel rinnegamento dell’egoismo e con l’assumere nella vita umana tutte le forze terrene, essi si proiettano nel futuro, quando l’u-manità stessa diventerà oblazione accetta a Dio. Un pegno di questa speranza e un viatico per il cammino il Signore lo ha lasciato ai suoi in quel Sacramento della fede nel quale degli elementi na turali colti-vati dall’uomo vengono tramutati nel Corpo e nel Sangue glorioso di Lui, in un banchetto di comunione fraterna che è pregustazione del convi to del cielo” (GS 38).

Vien fatto qui di domandarci se questi brani scelti dalla costitu-zione Gaudium et spes siano la spiegazione della vocazione di san Paolo della Cro ce e della sua spiritualità, o se forse, piuttosto, la sua spiritualità e vocazione siano in un certo modo commentario alla costituzione medesima. Per questo, però, si richiederebbe una trat-tazione a parte.

I testi conciliari ci parlano del mistero pasquale che contiene in sé unite la passione e risurrezione del Salvatore. In pari tempo questi testi cercano di far luce, nel modo più ampio possibile, sull’enigma delle cose umane e sui doveri dell’uomo nel mondo moderno. Inoltre essi tendono a mettere in luce in tutto questo ogni significato morale e tutta la speranza che i veri valori possono essere ancora una realtà nel mondo d’oggi. e siccome la costituzio ne possiede il carattere pastorale, essa si rivolge a tutti gli uomini senza ec cezione. Il sog-getto a cui essa guarda è il mondo e la Chiesa nel mondo e per il mondo. Si capisce che questo non significa che facciamo nostra la posizio ne semplicemente laica del mondo. la costituzione costitu-isce una afferma zione positiva in quanto è illuminata dal mistero pasquale. Il mistero pasqua le dice agli uomini almeno questa cosa: che il cammino per realizzare i veri valori è congiunto con lo sforzo e la fatica. Ora ogni sforzo, ogni fatica, sono in qualche modo parte-cipazione alla croce. la riscoperta autentica e la rea lizzazione delle

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vere realtà hanno una analogia con la risurrezione. Con la fa tica, con l’annientamento dell’egoismo, si conquista la verità, la giustizia e l’ordine. Il concilio, proponendo in questo modo il mistero pasquale a tutti gli uomini, suppone che la verità, la giustizia e l’ordine sono realtà raggiun gibili da tutti.

Tutto questo era noto a san Paolo della Croce, anzi egli ne sapeva an cora di più. egli conosceva - come pochi altri fra gli uomini - quale è il prezzo di questi valori nel piano e nella economia di Dio, quanto è costato tutto ciò che costituisce la piena analogia della ri-surrezione nell’uomo e che permette al mistero pasquale di produrre frutti di bene nell’umanità.

Questa conoscenza ed esperienza vissuta di san Paolo divennero un be neficio per la Chiesa, bene non soltanto proprio, ma apparte-nente a quel pia no ed economia per cui la Chiesa esiste ed a cui serve. Nonostante le appa renze in contrario, lo sentiamo bene adesso nei tempi del Vaticano II, che ha aperto tanto largamente per gli uo-mini il mistero pasquale.

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+ enriCo dal CoVolo sdB reTTore MagniFiCo della PonTiFiCia uniVersiTà laTeranense

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All’inizio di questo Seminario – dedi-cato alla Sapienza della Croce nel pen-siero e nella testi-monianza del Beato Giovanni Paolo

II –, e quasi per inquadrare il tema specifico in una visione più ampia, complessiva, vogliamo fare «memoria viva» di Giovanni Paolo II, ri-flettendo sulle tappe fondamentali della sua storia di vocazione.

Conosciamo bene le date più importanti della sua vita. nato a Wadowice il 18 maggio 1920, eletto Vescovo di Roma il 16 ottobre 1978, il Signore lo ha chiamato a sé il 2 aprile 2005, nei primi Ve-spri della «Domenica della misericordia». Certamente la storia della vocazione di Karol Wojtyla si snoda fra queste tre date fondamen-tali, ma c’è ancora un’altra data, che appare per alcuni versi la più importante di tutte: è quella dell’ordinazione sacerdotale, che don Karol ricevette il 1° novembre del 1946 per l’imposizione delle mani dell’Arcivescovo di Cracovia, il principe Adam Stephan Sapieha.

«La mia ordinazione», scrive a questo riguardo Giovanni Paolo II in Dono e Mistero. Nel 50° del mio Sacerdozio (Libreria Editrice Va-ticana, Città del Vaticano 1996), il volume autobiografico che rappre-senta la fonte di prima mano delle nostre riflessioni, «ebbe luogo in un giorno insolito per tali celebrazioni: essa avvenne il 1° novembre, solennità di Tutti i Santi, quando la liturgia della Chiesa è tutta ri-

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volta a celebrare il mistero della comunione dei santi e s’appresta a fare memoria dei fedeli defunti. L’Arcivescovo scelse questa data, perché dovevo partire per Roma per proseguire gli studi. Fui ordi-nato da solo, nella cappella privata degli Arcivescovi di Cracovia». «Mi rivedo, così, in quella cappella», prosegue il papa un po’ più avanti, «durante il canto del Veni, Creator Spiritus e delle litanie dei Santi, mentre, steso per terra in forma di croce, aspettavo il momento dell’imposizione delle mani».

È questo l’evento centrale della storia di vocazione di Karol Wojtyla.

Che egli fosse un «chiamato» nel senso forte, biblico del termine, è una convinzione sempre più diffusa nelle persone che lo hanno in-contrato. Tutto nella vita di giovanni paolo II appare come «pensato prima», preparato «dall’alto»: e, come il «servo» biblico, egli non poteva minimamente sottrarsi al misterioso disegno di Dio.

Dono e mistero, dunque, è il suo sacerdozio, come egli stesso lo contempla a cinquant’anni dall’ordinazione; ma, più in generale, lo è tutta la sua vita. «Volgendomi indietro», confessa Giovanni Paolo II, «constato “come tutto si tiene”: oggi come ieri ci troviamo con la stessa intensità nei raggi dello stesso mistero».

Nella Bibbia le storie di vocazione – dai Patriarchi ai Profeti, da Maria Santissima agli Apostoli – sono accomunate da uno schema letterario, che, quando si presenta al completo (come per esempio nel racconto dell’Annunciazione), prevede cinque tappe: la chiamata-elezione, la risposta, la missione, il dubbio, la conferma rassicurante da parte di Dio.

Vogliamo rileggere la storia di papa Wojtyla inquadrandola nello schema biblico che abbiamo appena evocato.

ecco dunque il primo tratto di questa storia:

la chiamata-elezione, l’iniziativa assolutamente gratuita di Dio.

Rileggendo con occhi di fede la storia della sua vocazione, Gio-vanni paolo II deve confessare che «agli inizi» sta «il mistero». «la vocazione», scrive, «è il mistero dell’elezione divina». E adduce a

1. la chiamata-elezione

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riprova un testo, che si carica per noi di grande significato. È Dio che parla, rivolgendosi al profeta Geremia: «Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo; prima che tu uscissi alla luce ti avevo consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni» (Geremia 1,5).

rimane l’impressione che il papa stesso trovasse un po’ di fatica a spiegare il «perché» della sua vocazione: si è limitato a raccon-tare alcuni fatti e alcune esperienze, rileggendole spesso alla luce del «poi», e svelando così la trama di una storia nascosta.

Ricorda così il suo primo incontro con il principe Sapieha, Arci-vescovo Metropolita di Cracovia; gli studi di Filologia polacca, ini-ziati nell’Università Jaghellonica e subito interrotti, di necessità, alla scoppio della seconda guerra mondiale; la dura esperienza di operaio in una cava di pietra collegata con la fabbrica chimica Solvay; le recite teatrali e i primi lavori letterari...

Ma riguardo agli inizi della sua vocazione sacerdotale, il papa deve ammettere che «le parole umane non sono in grado di reggere il mistero».

e passiamo al secondo tratto caratteristico

della nostra storia: la risposta alla chiamata del Signore.

È una risposta generosa, senza riserve: tanto che nell’autunno del 1942 Karol prende la decisione definitiva di entrare nel seminario di Cracovia. È una risposta che impegna il giovane seminarista in un cammino incessante: la chiamata infatti – la Bibbia ce lo insegna – comporta un faticoso esodo per la sequela. Bisogna lasciare la propria terra, come Abramo; oppure, come gli Apostoli, occorre la-sciare le reti, o meglio tutto, per seguire Gesù.

Anche Karol esperimenta dolorosamente il distacco. «lo scoppio della guerra», scrive, «mi allontanò dagli studi e dall’am-biente universitario. In quel periodo persi mio padre, l’ultima persona che mi restava dei miei più stretti familiari. Anche questo comportava, oggettivamente, un processo di distacco dai miei progetti precedenti; in qualche modo era come venire sradicato

2. la risposta

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dal suolo sul quale fino a quel momento era cresciuta la mia uma-nità».

Ma il Signore non fa mancare i «segni» della sua grazia a chi si affida a lui. «Non si trattava», prosegue infatti il papa, «di un processo soltanto negativo. Alla mia coscienza si manifestava sempre più una luce: il Signore vuole che io diventi sacerdote. Un giorno lo percepii con molta chiarezza: era come un’illumina-zione interiore, che portava in sé la gioia e la sicurezza di un’altra vocazione. E questa consapevolezza mi riempì di una grande pace interiore».

Forse in questa «illuminazione interiore» il

giovane Karol intra-vide qualcosa della sua missione futura?

In ogni caso, è questa – la missione – la terza tappa delle storie di vocazione.

Né la chiamata, né la risposta sono fini a loro stessi: tutto è orien-tato all’incarico che il Signore affida a ciascuno.

Così nel racconto dell’Annunciazione la chiamata e il fiat gene-roso di Maria sono in funzione della sua missione: essere Madre di quel Figlio, e in lui di tutti gli uomini. Ma è una missione che Maria scopre lungo tutto il corso della vita, fino ad afferrarne completa-mente il senso solo ai piedi della croce di gesù.

Sta qui un insegnamento decisivo per ogni chiamato: solo chi è disposto ad abbracciare ogni giorno la croce e a seguire Gesù, scopre in profondità la missione che gli è affidata.

Karol Wojtyla dovette intuire questa logica evangelica durante il rito della sua ordinazione sacerdotale: da allora – pellegrino nella fede – la fece sua, dilatando via via a raggio universale gli orizzonti della missione.

In una pagina, che sembra attraversare per intero la sua vita, Gio-vanni paolo II scrive: «Chi si appresta a ricevere la sacra ordina-zione si prostra con tutto il corpo e poggia la fronte sul pavimento del tempio, manifestando così la sua completa disponibilità a intra-prendere il ministero che gli viene affidato», cioè la missione.

3. la missione

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«Quel rito», continua il papa, «ha segnato profondamente la mia esistenza sacerdotale. Anni più tardi, nella Basilica di San Pietro – si era all’inizio del Concilio – ripensando a quel momento dell’ordi-nazione sacerdotale, scrissi una poesia di cui mi piace riportare qui un frammento: “Sei tu, Pietro. Vuoi essere qui il Pavimento su cui camminano gli altri... Vuoi essere Colui che sostiene i passi - come la roccia sostiene lo zoccolare di un gregge: Roccia è anche il pavi-mento di un gigantesco tempio. E il pascolo è la croce”». Di seguito, commenta: «Scrivendo queste parole pensavo sia a pietro che a tutta la realtà del sacerdozio ministeriale, cercando di sottolineare il pro-fondo significato di questa prostrazione liturgica. In quel giacere per terra in forma di croce prima dell’Ordinazione, accogliendo nella propria vita - come pietro - la croce di Cristo e facendosi con l’A-postolo “pavimento” per i fratelli, sta il senso più profondo di ogni spiritualità sacerdotale».

Certamente un cammino di tale impegno

ha conosciuto anche i momenti dolorosi della prova. Pure questo è un tratto caratteristico dei racconti di vocazione: le resistenze, i turbamenti, le tentazioni del chiamato.

Giovanni Paolo II non ne parla molto, ma lascia capire da vari indizi che il periodo buio della guerra, prima della sua decisione di entrare in seminario, dovette coincidere con un faticoso discernimento interiore. La morte del padre, il forzato distacco dai progetti di prima, «il grande e orrendo theatrum della seconda guerra mondiale», il campo di con-centramento per tanti conoscenti prelevati dalle loro case, dalla cava di pietra, dalla fabbrica, e poi quell’impressione di «sradicamento»: tutto questo non mancò di porre al giovane Karol interrogativi molto seri su Dio, sugli altri, su se stesso. «A volte», scrive, «mi domandavo: tanti miei coetanei perdono la vita, perché non io?».

Così anche l’interrogativo e il dubbio appartengono alla sua storia di vocazione.

4. il dubbio

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Ma il voto ardente del papa è che

per nessuno il dubbio rimanga l’ultima pa-rola: egli sa che il

dubbio permanente finisce per tarpare le ali della fede e paralizza le possibilità di una risposta generosa al Signore.

Nelle storie bibliche di vocazione l’ultima parola è la conferma rassicurante da parte di Dio: «Coraggio, non temere: sono io!». Così a Geremia, che resiste alla chiamata, il Signore risponde: «Non aver paura della gente, perché io sono con te a difenderti. Io, il Signore, ti do la mia parola!» (Geremia 1,6-9).

Al chiamato, di ieri e di oggi, è chiesta l’obbedienza della fede. A chi si gioca senza riserve nell’esercizio della missione giungeranno poi altri segni, altre conferme, attraverso le quali verificare la vali-dità dell’esperienza accolta nella fede.

Ebbene, la vita intera di Giovanni Paolo II testimonia – dall’inizio alla fine – la conferma di Dio sulla sua storia di vocazione. Quel grido: «Coraggio, sono io, non temere!», il papa l’ha ascoltato molte volte nella sua vita. «Un giorno lo percepii con molta chiarezza: era come un’illuminazione interiore, che portava in sé la gioia e la sicu-rezza...».

***

La storia è finita... Ma questa storia di vocazione è ora un «testimone» da raccogliere

nelle nostre mani.Molte volte giovanni paolo II scrive commosso: «Solo più tardi

avrei capito...». E da qui nasce la meraviglia, o meglio quel sinfonico Deo gratias! che concluderà la sua vita.

«Volgendomi indietro constato come “tutto si tiene”»: alla fine Karol Wojtyla deve riconoscere che ogni cosa nella sua vita era stata pensata «dall’alto», fin dall’inizio era dono e mistero.

È una consegna per tutti noi: che sulla stessa strada ci troviamo a camminare anche noi, ciascuno con la sua irrepetibile storia di voca-zione, con tutta la fede e la passione di cui siamo capaci.

5. la conferma rassicurante da parte di dio

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E allora – volgendoci indietro a guardare il tempo che scorre, all’alba di questo terzo millennio – allora anche a noi sembrerà di comprendere tutto: che tutto è grazia, perché il dono e il mistero di Dio non deludono mai.

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Giovanni Paolo II e il carisma della Passione di Gesù Cristo29-32

Mi rallegro vi-vamente che la cattedra Gloria Crucis abbia voluto o rgan i zza re questo con-

vegno di studio sopra la figura dell’amato Pontefice Beato Giovanni Paolo II. Lo ri-cordo con commozione nella visita spon-tanea ed improvvisa che volle fare alla più antica casa della nostra Congregazione, sul Monte Argentario, nel dicembre dell’anno 2000, proprio all’inizio del mio mandato di Superiore Generale.

giovanni paolo II e la Sapienza della Croce: la prima cosa che vien fatto di richiamare a questo proposito, ancor prima del suo in-segnamento, è la sua testimonianza di vita. Diceva l’attuale Pon-tefice nell’omelia per la sua beatificazione : “L’esempio della sua preghiera mi ha sempre colpito ed edificato: egli si immergeva nell’incontro con Dio pur in mezzo alle molteplici incombenze del suo ministero. e poi la sua testimonianza nella sofferenza: il Signore lo ha spogliato pian piano di tutto, ma egli è rimasto sempre una ‘roccia’, come Cristo lo ha voluto. La sua profonda umiltà, radicata nell’intima unione con Cristo, gli ha permesso di continuare a gui-dare la Chiesa e a dare al mondo un messaggio ancora più eloquente proprio nel tempo in cui le forze fisiche gli venivano meno. Così egli ha realizzato in modo straordinario la vocazione di ogni sacerdote e

saluTo di P. oTTaViano d’egidio CPsuPeriore generale dei PassionisTi

GiovAnni PAolo ii E il cARiSmA dEllA PASSionE di GESù cRiSto

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vescovo: diventare un tutt’uno con quel gesù che quotidianamente riceve e offre nell’eucaristia”.

Benedetto XVI esprime qui autorevolmente quanto tutti abbiamo percepito con chiarezza: che il ministero svolto nella sofferenza è stato più efficace, è penetrato più a fondo di quello svolto nel pieno possesso delle sue doti straordinarie di uomo, di pensatore, di sacer-dote. Basterebbe questo come tema di teologia della Croce.

Il suo insegnamento, peraltro, è tutto penetrato dalla sapienza della Croce. Nell’impossibilità di richiamarne anche sinteticamente la vastità, voglio ricordare qui tre documenti fondamentali: la let-tera apostolica Salvifici doloris, sul senso cristiano della sofferenza umana (1984), e le encicliche Dives in misericordia e Fides et ratio. Nella ricorrenza dell’anno della Redenzione, il Giovanni Paolo II volle pubblicare un documento incentrato proprio sulla sofferenza umana. Non mi dilungo su di esso, visto che ci sarà la comunica-zione di un esperto su questo argomento. Ricordo soltanto come, nella conclusione, egli ritornasse alla tematica della sua prima enci-clica che resterà fondamentale in tutto il suo insegnamento, un’enci-clica nel cui sfondo è presente il documento conciliare al quale egli collaborò personalmente, la Costituzione pastorale Gaudium et spes: “Cristo che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione (GS22, EVI, 1395)% Se queste pa-role si riferiscono a tutto ciò che riguarda il mistero dell’uomo, allora certamente si riferiscono in modo particolarissimo all’umana soffe-renza. Proprio in questo punto lo ‘svelare l’uomo all’uomo e fargli nota la sua altissima vocazione’ è particolarmente indispensabile” (n.31). A noi italiani vien fatto di pensare ai versi di un noto poeta: “Fratello che ti immoli - perennemente per riedificare -umanamente l’uomo”1. “Con la forza di un gigante”, come si esprimeva ancora Benedetto XVI, questo vindice di Dio è stato anche un vindice della grandezza della vocazione umana, uno strenuo oppositore della ridu-zione dell’uomo ad una misura meschina. Nell’uomo, in particolare

1 g. ungareTTi, Mio fiume anche tu.

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Giovanni Paolo II e il carisma della Passione di Gesù Cristo29-32

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nella sua sofferenza di fronte alla quale anche la Chiesa si inchina con venerazione2, c’è qualcosa che trascende lui stesso.

l’enciclica Dives in misericordia, ha due paragrafi fondamentali (7 e 8) in cui espone la misericordia di Dio che si manifesta nel mistero pasquale di morte e di risurrezione di Gesù. Sono paragrafi ricchi di una straordinaria densità teologica. Un’espressione che vi ritorna ripetutamente è quella dell’ admirabile commercium, “quel mirabile comunicarsi di Dio all’uomo, nel quale è al tempo stesso contenuta la chiamata rivolta all’uomo” (n.7). E poco più sopra scri-veva: “Cristo sofferente parla in modo particolare all’uomo e non soltanto al credente. Anche l’uomo non credente saprà scoprire in lui l’eloquenza della solidarietà con la sorte umana, come pure l’armo-niosa pienezza di una disinteressata dedizione alla causa dell’uomo, alla verità e all’amore. La dimensione divina del mistero pasquale giunge, tuttavia, ancor più in profondità. La Croce, collocata sul Cal-vario, su cui Cristo svolge il suo ultimo dialogo col Padre, emerge dal nucleo stesso di quell’amore, di cui l’uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, è stato gratificato secondo l’eterno disegno divino” (ivi).

Finalmente, della grande enciclica Fides et ratio, voglio richia-mare il rapporto drammatico -e tuttavia altamente fruttuoso e beatifi-cante per chi crede - fra ragione e fede che il Pontefice vede profilarsi sulla base della dottrina paolina riguardante la sapienza della Croce, il lògos tou stauroù. Il papa mette in avidenza la tradizione cattolica che vede un’armonia fra ragione e fede e ne trova il fondamento biblico nel capitolo primo della Lettera ai Romani (n. 22). Non può ignorare, tuttavia, lo scandalo della Croce, del quale parla il capitolo primo della Lettera ai Corinzi, la rigorosa opposizione dialettica che egli riconosce fra la sapienza di Dio che è sapienza della Croce, follia per il mondo, e la sapienza di questo mondo. “Il Figlio di Dio Cro-cifisso - egli afferma - è l’evento storico contro cui si infrange ogni tentativo della mente di costruire su argomentazioni soltanto umane una giustificazione sufficiente del senso dell’esistenza. Il vero punto

2 Salvifici Doloris, 24.

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nodale, che sfida ogni filosofia, è la morte in croce di Gesù Cristo. Qui infatti ogni tentativo di ridurre il piano salvifico del Padre a pura logica umana è destinato al fallimento” (n. 23).

Giovanni Paolo II però non deduce da questo discorso una incon-ciliabilità e una separazione definitiva fra fede e ragione cristiana. Ne deduce invece che “la ragione non può svuotare il mistero di amore che la Croce rappresenta, mentre la Croce può dare alla ragione la risposta ultima che essa cerca” (ivi). E per un mondo appassionato di una critica che intende smascherare ogni contraffazione della verità, c’è un’altra conclusione molto importante che il Papa, ora Beato, trae dal suo ragionamento: “la sapienza della Croce supera ogni li-mite culturale che le si voglia imporre

e obbliga ad aprirsi all’universalità della verità di cui è porta-trice. Quale sfida viene posta alla nostra ragione e quale vantaggio essa ne ricava se vi si arrende! La filosofia che già da sé è in grado di riconoscere l’incessante trascendersi dell’uomo verso la verità, aiutata dalla fede, può aprirsi ad accogliere nella ‘follia’ della Croce la genuina critica a quanti si illudono di possedere la verità, imbri-gliandola nelle secche del loro sistema. Il rapporto fra fede e filo-sofia trova nella predicazione di Cristo crocifisso e risorto lo scoglio contro il quale può naufragare, ma oltre il quale può sfociare nell’o-ceano sconfinato della verità” (ivi).

Tornando all’omelia della beatificazione, con la quale ho iniziato questo saluto-riflessione, posso dire che proprio intorno alla Croce di Cristo si attua la grande opera di Papa Wojtyla, quella ‘causa’ che enunciò con la sua prima messa in piazza San Pietro con le pa-role: “Non abbiate paura! Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo! Quello che il neo-eletto Papa chiedeva a tutti, egli stesso lo ha fatto per primo. Ha aperto a Cristo la società, la cultura, i sistemi politici ed economici, invertendo con la forza di un gigante - forza che gli veniva da Dio - una tendenza che poteva sembrare irreversibile ... ha aiutato i cristiani di tutto il mondo a non avere paura di dirsi cristiani, di appartenere alla Chiesa, di parlare del vangelo”.

lascio volentieri la parola agli studiosi della vita e del pensiero di Giovanni Paolo II augurando a tutti un proficuo convegno.

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+ georges Card. CoTTier, oPTeologo eMeriTo della Casa PonTiFiCia

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1. l’espressione sa-pienza della Croce ha il suo fonda-mento nella prima lettera di San paolo ai Corinzi (1, 18-31-2).

L’Apostolo non è venuto predicare une sapienza “umana”, che l’uomo da a se stesso. A questa forma di sapienza oppone il discorso della Croce che è stoltezza “per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio”.

È più sapiente che la sapienza degli uomini. Il riferimento di paolo alla potenza sottolinea un altro aspetto della sapienza umana: il sa-piente, secondo l’ideale filosofico, conquista la propria autonomia diventando padrone di se stesso.

Ma questa autonomia non è ancora autonomia autentica, perché solo Cristo, “potenza di Dio e sapienza di Dio” (v. 24) ci libera della servitù radicale del peccato.

Perciò l’Apostolo non si presenta con il prestigio della parola o della sapienza (2,1). È venuto annunciare il mistero di Dio: “Io ri-tenni … di non sapere in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso (v.2). E questo non è un invenzione umana, è stato rivelato a noi per mezzo dello Spirito, il quale scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio (cf. v. 10). Cosi la sapienza della Croce è un altro nome della sapienza cristiana. È dono dello Spirito Santo, il quale ci

lA SAPiEnzA dEllA cRocE nEllA vitA dEl BEAto GiovAnni PAolo ii

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comunica la grazia di Cristo e ci conforma a lui. Si urta allo “spirito del mondo” (cf. v. 12).

La vita del Beato Giovanni Paolo II è un’illustrazione assai im-pressionante delle parole di paolo.

2. Il Giovane Karol Wojtyla fa due letture determinanti per la guida della sua vita. La prima è l’opera di san Giovanni della Croce, Dottore della Chiesa. A quest’opera, consacrerà, giovane sacerdote, la sua tesi di dottorato. La seconda è Il trattato della vera devozione a Maria di san luigi Maria grignon de Monfort. Da questo trattato deriva il motto che sceglie alla sua ordinazione vescovile, che riprende alla sua elezione a Sommo Pontefice: Totus tuus, che mostra la sua volontà di appartenenza totale a gesù per mezzo di Maria: “Io sono tutto tuo e tutto ciò che è mio ti appartiene, mio amabile Gesù, per mezzo di Maria, tua santa Madre”. Nella dottrina del Monfort l’azione dello Spirito Santo nella vita e nella mediazione di Maria è sottolineata.

Da suo padre, il giovane Karol aveva imparato una preghiera allo Spirito Santo1.

3. Fin dalla gioventù Karol Wojtyla incontra la sofferenza. La vive nella fede, nel mistero della Croce di Gesù fonte della nostra redenzione.

Alla luce di questo mistero di fede, che pur rimane mistero, la sofferenza che è presente in ogni esistenza umana, in una maniera o nell’altra, è una enigma e un tormento per il nostro spirito, perché è contraria all’aspirazione più profonda del suo essere, che natural-mente desidera e cerca la felicità.

Perciò è sentita come un’assurdità, un non senso, uno scandalo.La massa di sofferenza che pesa sull’umanità è grande, sembra

smisurata. Il suo carattere multiforme, la sua intensità sorprendono, in certi casi, anche la crudeltà di chi la provoca. Per molti è causa di ribellione, per altri di fuga nella morte come via di liberazione.

Le religioni o scuole filosofiche si presentano come vie e me-todi per addomesticare la sofferenza, marginalizzarla, dominarla o

1 Cf slawomir oder con saverio gaeTa, Perché è Santo, rizzoli, 2010, 195p, 161. d’ora in poi: o.

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sfuggirla. Si pensi allo stoicismo, all’epicureismo, al buddismo alle diverse forme di rassegnazione. Alcune di queste riposte non sono prive di nobiltà, ma, alla fine, sono insoddisfacenti e deludenti.

La risposta cristiana è risposta di fede. Suppone che l’anima si liberi della tentazione del razionalismo, come pretesa dell’uomo di essere la misura ultima delle cose. La fede è apertura ed accoglienza al mistero di Dio e al disegno della sua provvidenza.

Dalla fede impariamo delle verità fondamentali. La sofferenza s’inscrive nella realtà più vasta del male e prima di tutto del male morale. esiste un legame misterioso fra sofferenza e peccato.

Gesù, il Figlio di Dio fatto uomo, nella sua vita terrestre ha gua-rito i malati e gli infermi. Ci ha insegnato a sollevare le sofferenze. Si è identificato con quelli che soffrono: l’avete fatto a me.

Ma non ha tolto la sofferenza, l’ha assunta, con le sue umilia-zioni, la sua passione e la sua morte. Ha fatto della sua sofferenza lo strumento della nostra redenzione, che è redenzione dal male, quello più distruttivo, il male del peccato. In Lui, la sofferenza è diventata espressione e testimonianza dell’amore più grande. l’amore di ca-rità che scaturisce dal Cuore di Gesù conferisce fecondità e senso all’impotenza e al non senso della sofferenza.

Il Beato Giovanni Paolo II è entrato con tutto il suo essere nel cuore del mistero dell’amore redentore: totus tuus, come e con Maria.

4. Un amico a lui molto vicino descrive così l’itinerario di Karol Wojtyla come Pontefice: “I momenti più importanti sono scanditi da quattro fasi. La prima fase è quella entusiasmante del pontificato, del Papa che percorre nuove vie, che conosce la realtà del mondo uscendo dal Vaticano, avendo contatti con tutta la Chiesa. La se-conda fase è costituita dall’attentato alla sua vita, dalle malattie, dalla sofferenza, dai ricoveri in ospedale, il suo portare la Croce. La terza fase è quella del suo essere appeso alla croce, immobilizzato e costretto su una sedia a rotelle. La quarta fase è stata la sua morte, che ha avuto una dimensione pasquale, ed è parte integrante di tutta la sua vita”2.

2 Cit. o., 81.

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Queste fasi si succedono durante il suo Pontificato. Significano una partecipazione sempre più profonda al mistero della Croce. Cosa si può dire degli anni anteriori?

la sofferenza si presenta molto presto nella sua vita. Karol ha nove anni quando muore la sua mamma in seguito ad una crisi cardiaca (13 marzo 1929). Il 5 dicembre 1932, il fratello maggiore medico, di quattordici anni più grande, muore vittima di un’e-pidemia. Suo padre, che fu anche la sua prima guida spirituale, muore il 18 febbraio 1941. A vent’uno anni, Karol resta orfano, privo di famiglia.

Queste prove durissime sono per lui una scuola d’abbandono to-tale a Dio. L’esperienza della fragilità, dell’insicurezza, dell’instabi-lità delle cose terrestri lo conducono ad affidarsi a Dio solo.

Tante sono le forme della sofferenza: sofferenza dell’affetto e del cuore, quelle dell’anima e dello spirito: angosce, solitudine; soffe-renze fisiche, dolori dell’infermità e della malattia; il giovane Karol sarà vittima di un incidente stradale; sofferenze dovute alla fame, alla sete, al freddo ed all’assenza di un tetto, alle fatiche del lavoro e degli sforzi fisici.

A queste s’aggiungono le sofferenze collettive. Dal 1939 al 1989, per cinquantanni la Polonia di Karol Wojtyla conosce la guerra e la disfatta, poi il peso durissimo di due totalitarismi. La Patria tanto amata è particolarmente provata: perdita della libertà, deporta-zioni, crimini di Stato, umiliazioni. La Chiesa subisce persecuzioni. Quando Giovanni Paolo dirà che è tornato il tempo dei martiri, par-lerà per esperienza.

Privazioni e pericoli sono una realtà quotidiana. Prima come studente, membro di un gruppo di giovani appassionati di teatro, poi come seminarista clandestino lavorando in fabbrica, più tardi come sacerdote responsabile della gioventù universitaria, poi come vescovo ausiliare e finalmente come arcivescovo di Cracovia, ha sempre dovuto far fronte alle minacce del potere politico. In alcune circostanze, lotterà apertamente contro le autorità civili per la difesa dei diritti della Chiesa e del suo popolo con il quale si sentiva, come pastore, solidale.

La vita di Karol Wojtyla, in due parole, è stata una vita piena di trappole e di ostacoli da superare, di angosce e di sacrifici da assu-mere. In tali circostanze si rivela un uomo di preghiera che trova la

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sua forza d’animo nella fiducia costante nella Provvidenza per inter-cessione di Maria: Totus tuus.

5. Giovanni Paolo II ha fatto questa confidenza: “Cercano di ca-pirmi dal di fuori. Ma io posso essere compreso soltanto da dentro”3.

Infatti se cerchiamo di comprendere, ci vengono in mente le pa-role di Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20) o “completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24).

Vive in comunione con il suo Signore. Il suo desiderio è di essere conforme a gesù e di partecipare alla sua Croce.

Fin dall’inizio, Dio lo prepara a questa partecipazione e confor-mità. Di questo abbiamo alcune preziose testimonianze.

Un amico di gioventù racconta un episodio avvenuto all’inizio degli anni 70. Fa osservare all’amico Karol che, pur essendo così giovane, gode già di un gran numero di titoli, aggiungendo: il Si-gnore Gesù a trentatre anni aveva già “risolto” il problema della re-denzione del mondo. la risposta di Karol fu immediata. “Quello era Lui”, e subito si immerge in una preghiera prolungata, rimanendo insensibile al freddo intenso4.

Un altro testimone riporta un episodio avvenuto, molto più tardi, durante le vacanze del Pontefice alla Valle d’Aosta, nel 1991. Pas-seggiando, incontrano sull’Alpa una croce di legno. Giovanni Paolo II l’abbraccia fortemente e si immerge in una preghiera che si pro-lunga. Rifarà lo stesso gesto d’abbracciare la croce durante la cele-brazione della Via Crucis nella sua cappella privata, il Venerdì Santo 20055.

Si sa che alcuni teologi esitano a parlare di co-redenzione. la loro reticenza viene dal timore di un malinteso, come se il concetto po-tesse suggerire che la sofferenza di Cristo nella sua passione e la sua morte non fosse sufficiente per la nostra salvezza. È chiaro, è verità di fede, che è più che sufficiente.

3 Cf Ibid., 139.4 Cf Ibid., 157.5 Cf Ibid., 133.

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Ma se per co-redenzione s’intende la partecipazione, dono della grazia, l’associazione all’opera della salvezza, per la quale la Chiesa, essa stessa salvata per mezzo della Croce di Cristo, è unita al dono di se del suo Capo, il concetto è corretto. Cristo ci salva e ci unisce, quali suoi membra, alla sua opera redentrice. Questo vale della Chiesa stessa e in modo eminente della Vergine Maria. Ma vale anche dei battezzati nella misura del loro amore. Questo aspetto della cristo-logia è stato sviluppato nell’ecclesiologia del cardinale Journet.

Salvati, siamo inoltre chiamati, per mezzo dell’offerta di noi stessi, all’opera del Salvatore.

L’indomani della sua elezione, Giovanni Paolo II si reca all’o-spedale Gemelli a visitare un suo caro amico, Mons. Andrzej Maria Deskur, colpito tre giorni prima di paralisi. Spiegherà più tardi (21.12.1990) che aveva voluto dare un segno della sua concezione del formidabile ministero di successore di pietro: “dissi ai malati che contavo molto, anzi moltissimo su di loro. Per le loro preghiere e, soprattutto, per l’offerta delle loro sofferenze poteva a me derivare una forza speciale, quale mi era e mi è necessaria per compiere meno indegnamente i miei gravi doveri in seno alla Chiesa di Cristo”.

Costretto a vivere su una sedia a rotelle, il Cardinale Deskur scriverà nel 2003: “La mia sofferenza sostiene questo fruttuoso pontificato. Così ha voluto Maria e io sono il suo servo”. Era una convinzione radicata in Karol Wojtyla: esiste una particolare corri-spondenza tra le sofferenze e l’aiuto offerto da altre persone per suo tramite. Questa corrispondenza è iscritta “nel mistero della Croce e della redenzione operata da Cristo”.

Nella stessa maniera, il Beato interpreta l’incidente di treno nel quale il suo amico Maria Jaworski aveva perso una mano. Sostituiva nelle predicazioni degli esercizi spirituali Karol Wojtyla convocato a roma nel concistoro nel quale doveva essere creato cardinale6.

7. Abbiamo citato il giudizio sulle quattro fasi del pontificato.Dal 13 maggio 1981, giorno dell’attentato, Giovanni Paolo II ha

dovuto essere ricoverato un numero impressionante di volte all’o-

6 Cf Ibid., 82-85.

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spedale Gemelli, che scherzando chiamava Vaticano terzo dopo San pietro e Castel gandolfo.

Il 29 maggio 1994, al ritorno del suo quinto ricovero dovuto alla frattura del femore, all’Angelus, pronunciava queste parole, che suo-nano come una confidenza fatta alla Chiesa. “Vorrei esprimere la mia gratitudine attraverso Maria per il dono della sofferenza collegato con il mese di maggio. Ho capito che si doveva trovare il papa nel Policlinico Gemelli, doveva essere assente da questa finestra durante quattro settimane, quattro domeniche. Doveva soffrire come ha do-vuto soffrire tredici anni fa, così anche in quest’anno. Tutto questo ho ripensato di nuovo durante la mia degenza in ospedale e ho tro-vato di nuovo accanto a me la grande figura del cardinale Primato di Polonia Card. Wyszýnski, che all’inizio del mio pontificato mi ha detto “Se il Signore ti ha chiamato, tu devi introdurre la Chiesa nel terzo Millennio”. Ho capito che devo introdurre la Chiesa di Cristo in questo Terzo Millennio con la preghiera, con diverse iniziative, ma ho visto che non basta: bisognava introdurla con le sofferenze, con l’attentato di tredici anni fa e con questo nuovo sacrificio”7.

l’importanza di queste parole tiene al fatto che il papa parla di se stesso in prima persona. lui stesso considerava l’attentato del 13 maggio come un nuovo inizio nella sua vita. Alla sofferenza dedi-cherà la Lettera apostolica Salvifici Doloris, in febbraio 1984.

Sull’argomento, ritornerà spesso, sotto forma di confidenza. All’occasione di un’operazione subita nel 1996, usa della parola ser-vizio – servizio che il Signore lo ha chiamato a rendere alla Chiesa. La malattia lo ha aiutato a capire meglio, “come vescovo, come suc-cessore di Pietro” che tale servizio può assumerlo “anche attraverso il dono della sofferenza”8.

La sofferenza come un continente di cui nessuno può pretendere di aver raggiunto i confini, è un mistero che la fede illumina:

7 Citato da Myriam CasTelli, Il Santo Padre Giovanni Paolo II Maestro e Testimone, libreria editrice Vaticana, 2011, 165-166.

8 Cf o., 176.

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“La realtà della sofferenza è da sempre sotto gli occhi e spesso nel corpo, nell’anima, nel cuore di ciascuno di noi. Fuori dell’arca della fede, il dolore ha sempre costituito la grande enigma dell’esistenza umana. Ma da quando gesù con la sua passione e morte ha redento il mondo, una nuova prospettiva si è aperta: mediante la sofferenza è possibile progredire nel dono di se e raggiungere il grado più alto dell’amore” (Udienza di aprile 1994)9.

Confiderà ad un amico: “Io ho scritto tante encicliche e lettere apostoliche, ma mi rendo conto che solo con le mie sofferenze posso contribuire ad aiutare meglio l’umanità. Pensi al valore del dono del dolore sofferto con amore”10.

È conosciuta l’attenzione del Beato ai malati, manifestata durante i viaggi, spesso con gesti spontanei, come la visita a dei lebbrosi in Brasile, dove ha abbracciato ognuno personalmente.

Ha indetto la giornata del malato, l’11 febbraio, festa della Vergine di Lourdes (1992): “La Giornata del malato invita tutti a riflettere sul significato e il valore della sofferenza, alla luce della Buona Novella di Cristo… Nella sua esistenza terrena Cristo si è avvicinato con particolare amore alle persone sofferenti. Egli guariva gli ammalati, consolava gli afflitti, nutriva gli affamati, liberava dalla sordità, dalla cecità, dalla lebbra, dal demonio e ridava la vita ai morti … Spinto dall’amore, Cristo soffrì volontariamente e soffrì da innocente, pro-vando così la verità dell’amore mediante la virtù della sofferenza”11.

Spiegherà: se “la croce è la prima lettera dell’alfabeto di Dio” questo non significa che la dimensione cristiana della sofferenza “si riduce soltanto al suo significato profondo e al suo carattere reden-tore”. Il dolore deve “generare solidarietà, dedizione, generosità in quanti soffrono e in quanti si sentono chiamati ad aiutarli nelle loro sofferenze”. È un appello rivolto ad ogni uomo perché “nessuna isti-tuzione può da sola sostituire il cuore umano, la compassione umana, quando si tratta di farsi incontro alle sofferenze fisiche”12.

9 Citato Myriam CasTelli, op. cit., 166-167.10 Cf o., 177-178.11 Citato Myriam CasTelli, op. cit., 167.12 Cf o., 178.

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9. Ritorniamo all’attentato del 13 maggio 1981. Da lì sono sca-turite per il Papa molte sofferenze fisiche. Ma vorrei sottolineare il significato spirituale che l’episodio ha avuto per la sua coscienza.

Prima, fu subito colpito dal fatto che il 13 maggio era la festa di nostra Signora di Fatima. Il proiettile doveva ucciderlo; che la sua vita sia stata salvata a causa di una deviazione minima, umanamente inspiegabile, era segno della mano di Maria. A un amico che va a tro-varlo al Gemelli il 14 maggio, dirà della Vergine: “Ella ha vegliato su tutto questo. Totus tuus”13. Dieci anni dopo, disse che la seconda vita “mi è stata donata dieci anni fa”14.

Una seconda convinzione s’impone rapidamente a lui: nella sua persona, sono il successore di Pietro e la Chiesa stessa che si era vo-luto colpire. Commentando il giudizio di Michail gorbaciov: “non io ho distrutto il comunismo, ma Giovanni Paolo II”, affermerà: “È la Chiesa che ha contato in questo processo, non il Papa. Se qualcosa può essere attribuita al Papa, è frutto della sua fedeltà a Cristo e all’uomo”.

L’attentato è stato una prova della certezza dei dirigenti comunisti sul ruolo storico del papa15.

Se non fu indifferente alle motivazione dell’attentato, è il suo significato spirituale che ha ritenuto in priorità la sua attenzione16. Davanti agli avvenimenti che si succedono, si considera non come protagonista, ma come semplice strumento nelle mani di Dio. A chi lo ringraziava d’aver contribuito al crollo del muro di Berlino, re-plicava: “È stata la Provvidenza di Dio. Chi ha fatto tutto è la Ma-donna”, alludendo alla profezia della Vergine di Fatima sulla conver-sione della Russia. Alla domanda se è facile vivere la storia in prima linea, rispondeva: “Quando lo vuole Dio, è facile. Questo mi rende la vita più semplice: si sa che Dio lo vuole. lui dispone le cose”17.

13 Cf 0, 95.14 Cf Ibid.15 Cf Ibid., 106-107.16 Cf.Ibid., 96.17 Cf ibid., 107-108. È soprattutto ribadendo la centralità della persona

umana, che ha inciso sulla storia del suo tempo. si pensi all’appoggio a Solidarnosc”, cf. , Ibid., 148-149.

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Con questo tema potremmo allontanarci dal nostro soggetto, benché, tramite la lotta per la libertà dei popoli, Giovanni-Paolo II abbia contribuito a sollevare l’umanità da un peso di sofferenze.

10. Sono sofferenze che, collettivamente o personalmente, rice-viamo dagli altri. Qui incontriamo un’altra relazione alla sofferenza nella vita del Beato: quella del perdono. Subito, ha perdonato al suo attentatore; il 27 dicembre 1983, porterà il suo perdono al carcere di rebibbia.

Aveva detto il 17 maggio 1981: “Prego per il fratello che mi ha colpito, al quale ho sinceramente perdonato”18.

Sembra che da parte sua, Alì Agca non abbia dato nessun segno di pentimento, ma che era soprattutto turbato dal fatto di non essere riuscito ad ucciderlo.

Papa Wojtyla scrive in una nota inedita (11 settembre 1981): “Si! Credo che fosse una particolare grazia di Gesù crocifisso che tra diverse parole pronunciate sul golgota prima di tutto aveva detto: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”.

“L’atto di perdono è la prima e fondamentale condizione perché noi, uomini, non siamo reciprocamente divisi e messi uno contro l’altro, come nemici. Perché cerchiamo presso Dio, che è nostro Padre, l’intesa e l’unione. È importante e sostanziale quando si tratta del comportamento di un uomo verso l’altro”19.

Fra le tante canonizzazioni dovute al Beato Giovanni Paolo II, una santa particolarmente cara al suo cuore, era una religiosa po-lacca Faustina Kowalska (1905-1938), apostolo della devozione alla Divina Misericordia. Il messaggio della santa gli era molto vicino: “È come se la storia lo avesse inscritto nella tragica esperienza della seconda guerra mondiale. in quelli anni difficile esso fu un partico-lare sostegno e una inesauribile fonte di speranza [per la nazione]. Questa è stata anche la mia esperienza personale, che ho portato con me sulla Sede di Pietro e che, in un certo senso, forma l’immagine di questo pontificato”, dirà nell’omelia del 7 giugno 1997. E per i 25

18 Cf Ibid., 97.19 Cf Ibid., 99.

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anni di Pontificato, il 16 ottobre 2003: «È stato necessario ricorrere alla Divina Misericordia. Perché alla domanda: “Accetti?” potessi rispondere con fiducia: “Nell’obbedienza della fede davanti a Dio mio Signore, affidandomi alla Madre di Cristo e della Chiesa, consa-pevole delle grandi difficoltà, accetto!”»20.

Spiega un suo collaboratore del tempo di Cracovia: “riteneva che l’amore di Dio per l’uomo assuma una forma particolare nel gesto della misericordia, nel suo correre in soccorso dell’uomo, del pec-catore, dell’infelice e della vittima dell’ingiustizia. Ci aveva fatto comprendere la necessità di una speranza profonda che scaturisce proprio dalla comprensione della misericordia di Dio e che deve as-sumere una duplice forma ben precisa: da un lato occorre affidarsi alla misericordia di Dio, al tempo stesso bisogna avere un profondo senso di responsabilità per essere al servizio dei fratelli e delle so-relle con questa misericordia”21.

Il tema della misericordia è al centro delle sue prime encicliche: Redemptor Hominis (1979), Dives in misericordia (1980).

Il Beato Giovanni Paolo II è morto nella serata del sabato 2 aprile 2005. la liturgia aveva iniziata la celebrazione della festa della Di-vina Misericordia, da lui inscritta nel calendario, nella domenica successiva alla Pasqua. Questa istituzione era stata richiesta da Gesù a Suor Faustina Kowalska in una apparizione, settanta anni prima.

20 Cf Ibid., 164. 21 Cf Ibid., 164-165.

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Introduzione

limitiamo la nostra ricerca a una breve esposizione della struttura della lettera Apo-stolica di giovanni paolo III Salvifici doloris e allo studio delle sue fonti, le quali si trovano principalmente nella Scrittura, nel Magistero, nella Teologia spirituale e nell’esperienza per-sonale di sofferenza dello stesso Pontefice.

Il documento è il «primo in assoluto nella storia degli atti pontifici dedicato esclusiva-mente all’umana sofferenza»1. esso porta il timbro della sua perso-nale esperienza di sofferenza. Due anni prima della pubblicazione, infatti, il 13 maggio del 1981, aveva subito un attentato da parte di Mehmet Ali Ağca, che gli sparò due colpi di pistola in piazza San Pietro. Il documento, inoltre, è stato promulgato, non certo casual-mente, nel giorno dedicato alla memoria liturgica della Beata Maria Vergine di lourdes2, l’11 febbraio dell’anno 1984, sesto anno del suo

1 g. tAlierCio, Il valore della sofferenza. Riflessioni sulla Salvifici doloris di Giovanni Paolo II, adP, roma 2005, 7; cf anche la tesi di licenza (non pub-blicata) di CuAdrAsAl librAdo, «la spiritualità della sofferenza cristiana alla luce della salvifici doloris di Giovanni Paolo II», Teresianum, roma 2006.

2 giovanni Paolo ii manifesta ancora la sua attenzione al mondo della sof-ferenza istituendo l’11 febbraio del 1985, con il Motu Proprio Dolentium Ho-minum, la Pontificia Commissione per la Pastorale degli operatori sanitari e nel 1992 la giornata mondiale di preghiera per gli ammalati, che si celebra l’11 febbraio, giorno dedicato alla Madonna di lourdes. il 9 e il 10 febbraio 2010 si è celebrato in Vaticano un simposio internazionale sulla lettera apostolica «salvifici doloris» e sul motu proprio «dolentium hominum» di giovanni Paolo ii per ricordare i 25 anni della loro pubblicazione.

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lE fonti dEllA salvifici doloris E loRo dimEnSionE StAuRoloGicA

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pontificato. Esso, infine, si inserisce nella celebrazione dall’Anno Santo della Redenzione, che vuole ricordare i 1950 anni dell’evento redentivo del golgota.

Annunziando la pubblicazione del documento nell’udienza gene-rale dell’8 febbraio 1984, Giovanni Paolo II dichiara:

«Ho ritenuto opportuno e significativo, nell’Anno santo della redenzione, che commemora in un modo del tutto speciale la morte salvifica di Gesù in croce, esortare tutti i cristiani a meditare con più profondità e con maggiore convinzione sul valore insostituibile del dolore per la salvezza del mondo. Tale lettera vuole essere di aiuto a guardare a Cristo crocifisso e ad accettare il “Vangelo della sofferenza” con amore e con coraggio, nel disegno misterioso ma sempre amoroso della divina Provvidenza. Infatti ciò che per la ragione rimane insondabile enigma, per la fede, alla luce del Cristo morto e risorto, diventa messaggio di elevazione e di salvezza»3.

la Lettera è costituita da u n ’ i n t r o d u -

zione, sei punti centrali e una conclusione.

Nell’introduzione il tema della sofferenza è presentato dentro il contesto dell’Anno della redenzione.

I capitoli centrali hanno uno sviluppo abbastanza organico: si co-mincia con la descrizione del mondo della sofferenza umana (c. II), per interrogarsi, poi, sul “perché” della sofferenza (c. III). La do-manda sul senso della sofferenza trova la sua riposta definitiva nella sofferenza amorosa di Gesù (c. IV), alla quale ogni uomo è chiamato a unire le proprie sofferenze (c. V). È questo “Vangelo” che ogni cristiano è chiamato a seguire e testimoniare (c. VI), impegnandosi concretamente a chinarsi sulla sofferenza di ogni uomo (c. VIII).

3 gioVAnni PAolo ii, Autobiografia del cuore, Piemme, Farigliano 2003, 137-138.

1. la struttura

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Nella conclusione è, ancora, richiamato l’Anno della Redenzione e la figura di Maria.

la citazione iniziale di Col 1,24: «Com-

pleto nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo corpo che è la Chiesa» è il fondamento di tutta l’argomentazione (SD, I). Il “lungo cammino” paolino per scoprire il senso della sua sofferenza è presentato come “tipo” per ogni uomo. Il cammino inizia con l’ac-coglienza della propria sofferenza, passa attraverso la sofferenza di Cristo e sfocia nella gioia. La sofferenza così, di per sé “cattiva”, diventa un bene salvifico e questa scoperta provoca gioia4.

la parte centrale del documento comincia con la descrizione dell’umana sofferenza (SD, II), cui appartiene non solo il dolore fi-sico, ma soprattutto quello psicologico-morale. La Bibbia, definita il “grande libro sulla sofferenza”, ne presenta numerosi esempi. Per la Bibbia ebraica ogni sofferenza è anche un male e viceversa. Essa, infatti, non ha un termine proprio per distinguere il male dalla sofferenza. La Bibbia greca, invece, con l’utilizzo del verbo páschô (patisco), permette di distinguere tra il soggetto che speri-menta il male e il male oggettivo. Alla domanda, poi, su che cosa sia il male, la Lettera risponde che per il cristiano, la cui esistenza è essenzialmente buona, il male non ha una consistenza ontologica, come nel dualismo manicheo, ma è la semplice privazione di un bene5.

la lettera continua analizzando le risposte agli interrogativi sul senso della sofferenza e del male (SD, III). Questi interrogativi, che

4 Cf a.turChi, La santificazione della sofferenza secondo la “Salvifici do-loris”: approccio ad una cristologia della sofferenza, Pars dissertationis ad lau-ream in facultate s. Theologiae apud Pontificiam universitatem s. Thomae de urbe, roma 1989, 1-3.

5 Cf sAnt’Agostino, La natura del bene, in Polemica con i Manichei, Xiii/1, Città nuova, roma 1997, n. 17: «il male non è altro che diminuzione di bene».

2. Sintesi

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solo l’uomo può avanzare, perché solo lui sa di soffrire, sono rivolti principalmente a Dio, in quanto suo creatore. Il Papa riconosce che le molteplici frustrazioni, provocate dalla quotidiana drammaticità di tante sofferenze senza colpa e colpe senza adeguata pena, possono portare alla negazione stessa di Dio.

nel libro di giobbe le domande sul senso della sofferenza e del male trovano l’espressione più viva. gli amici di giobbe risolvono il problema ricorrendo alla teoria della retribuzione: la sofferenza e il male sono il giusto castigo di una colpa. Giobbe rifiuta l’equazione e sfida Dio a provare la sua colpevolezza. Dio lo zittisce, dichiaran-dolo incapace di capire. Questo soddisfa Giobbe, che è, poi, riabili-tato. La sofferenza del giusto, in questo caso, ha il carattere di prova e serve a dimostrare la giustizia di giobbe.

L’Antico Testamento riconosce, inoltre, il valore educativo della sofferenza, che deve servire alla ricostruzione del bene del soggetto. Il libro di Giobbe, tuttavia, non è ancora la risposta definitiva alla sofferenza del giusto, che sarà data da Dio sulla croce di Cristo.

La Lettera presenta, quindi, la risposta cristiana alla domanda sul senso della sofferenza e del male (SD, IV), fondandola teologica-mente sull’amore di Dio, che «ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito» (Gv 3,16). L’amore di Dio manifestato nella croce di suo Figlio da senso, quindi, alla sofferenza dell’uomo. Sono così superati i vecchi schemi teologici, che chiudevano la ricerca entro i limiti della giustizia.

l’amore di Dio che “dona” suo Figlio indica come la liberazione del mondo doveva essere compiuta per mezzo della sofferenza, af-finché l’uomo non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio, in questo modo, raggiunge il male e la sofferenza dell’uomo alle sue radici, quelle del peccato e della morte. Per mezzo della croce di Cristo, Dio si avvicina al mondo dell’umana sofferenza prendendola su di sé. La morte e la risurrezione di Gesù, anche se non liberano la dimensione storica dell’esistenza umana dalla sofferenza, tuttavia, gettano su di essa la luce salvifica dell’amore di Dio (Gv 3,16). Il quarto Carme del Servo di Jahvé (Is 53) è, infine, adoperato dalla Lettera per de-scrivere l’efficacia “sostitutiva” e, soprattutto, “redentiva” delle sof-ferenze di Cristo, le quali raggiungono il culmine nel Getsemani e sul golgota.

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Appoggiandosi, poi, a diversi testi biblici (Is 53, 10-12; Gb 19,15; 1Pt 1,18-19; Gal 2,19-20; 6,14; 2Cor 1,5; 4,8-11.14; 2Ts 3,5; Rm 12,1), la Lettera presenta il concetto di partecipazione alle sofferenze di Cristo (SD, V). In conseguenza dell’azione redentrice di Cristo anche l’umana sofferenza è stata redenta. «Ogni uomo, quindi, nella sua sofferenza, può partecipare della sofferenza redentrice di Cristo» (SD, n. 19). Solo, tuttavia, perché Cristo ne è diventato partecipe, l’uomo può prendere parte alla sua sofferenza redentiva. Dopo aver presentato alcuni aspetti del mistero pasquale le due dimensioni della morte e della risurrezione sono intimamente unite; la partecipazione alle sofferenze di Cristo è allo stesso tempo partecipazione a quelle per il regno; relazione tra sofferenza e gloria; la sofferenza come prova; sofferenza e maturità spirituale – il Papa riprende il testo di Col 1,24 per evidenziare «il carattere creativo della sofferenza» (SD, n. 24) di Cristo, che ha creato il bene della redenzione. Questa, già compiuta fino in fondo dalla sofferenza di Cristo, si compie, in un certo senso, costantemente, perché aperta a ogni amore che si esprime nell’umana sofferenza. nel modo in cui la Chiesa completa l’opera redentrice di Cristo, essa completa anche le sue sofferenze. La sofferenza redentrice di Cristo può essere costantemente comple-tata da quella dell’uomo.

Giovanni Paolo II introduce a questo punto ciò che egli chiama il «Vangelo della sofferenza» (SD, VI). Un Vangelo che lo stesso redentore ha scritto con il suo insegnamento e la sua sofferenza as-sunta per amore. A questa fonte si sono abbeverati i suoi discepoli, in primo luogo, la sua Madre santissima. Il Cristo, infatti, non ha mai nascosto la necessità della sofferenza (cf Lc 9,23; 21,12-19; Mt 7,13-14), indicandone, contemporaneamente, la forza soprannaturale, che diventa anche una speciale verifica della somiglianza e dell’unione con lui (Gv 15,18-21; 16,33). Il suo messaggio, infatti, contiene una speciale chiamata al coraggio e alla fortezza, sostenuta dall’elo-quenza della risurrezione. Mediante la risurrezione, Cristo manifesta la forza vittoriosa della sofferenza e vuole infondere la convinzione di questa forza nel cuore di coloro che ha scelto.

Questo Vangelo è scritto da tutti coloro che uniscono le proprie sofferenze a quella salvifica di Cristo. In essi si compie il “Vangelo della sofferenza” e, al tempo stesso, ognuno continua a scriverlo

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e a proclamarlo. Molti santi devono la loro conversione proprio alla sofferenza. In essa non solo ne scoprono il senso salvifico, ma soprattutto diventano uomini completamente nuovi. Cristo non risponde in astratto alla domanda dell’uomo, ma dalla croce. La risposta gli giunge mediante la chiamata a partecipare alle sue sof-ferenze. È, quindi, una vocazione. Il credente comprende, allora, il senso salvifico del proprio soffrire non a livello semplicemente umano, ma nella dimensione della sofferenza di Cristo. Da questo ambito scende, poi, a quello umano e diventa una risposta perso-nale fino a trovare nella sua sofferenza la pace interiore e perfino la gioia spirituale.

Il papa conclude il capitolo sul “Vangelo della sofferenza” ripren-dendo, ancora una volta il testo di Col 1,24: «Sono lieto delle soffe-renze che sopporto per voi». Fonte di questa gioia è il superamento del senso d’inutilità della sofferenza. Essa non solo non è inutile, ma serve, come quella di Cristo, alla salvezza del mondo. Le sofferenze umane, infatti, unite a quella redentrice di Cristo. «costituiscono un particolare sostegno alle forze del bene, aprendo la strada alla vit-toria di queste forze salvifiche» (SD, n. 27).

Giovanni Paolo II rilegge, infine, la parabola del buon Samaritano (Lc 10,29-37) alla luce del “Vangelo della sofferenza”, cui appar-tiene in modo organico, perché indica quale debba essere il rapporto di ciascuno con il prossimo sofferente (SD, VII). Ogni uomo è chia-mato a fermarsi, a commuoversi e a rendersi disponibile ad aiutare colui che soffre fino al dono di sé (cf Gaudium et spes, 24). La sof-ferenza è presente nel mondo per far sprigionare nell’uomo l’amore, il dono disinteressato di se stesso in favore dei sofferenti. esistono forme istituzionali di aiuto, come quelle del medico, che non sono semplici mestieri, ma piuttosto una vocazione. Le forme di volon-tariato, invece, quando sono intraprese per motivi schiettamente evangelici, possono essere definite come apostolato. Di fronte alla sofferenza l’atteggiamento del buon Samaritano, non è passivo, ma soprattutto attivo, come quello di Cristo, che passò beneficando tutti. La lettera esorta, infine, a scoprire alla base di tutte le sofferenze umane la stessa sofferenza redentrice di Cristo: «ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).

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Nella parte conclusiva (SD, VIII) il Papa evidenzia il senso so-prannaturale e insieme umano della sofferenza. In sintonia con il Concilio Vaticano II egli afferma che «solamente nel mistero del Verbo Incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo …. Cristo che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione … per Cristo e in Cristo si illumina l’enigma del dolore e della morte» (Gaudium et spes, 22). Giovanni Paolo II ri-corda, infine, il Giubileo Straordinario della Redenzione ed esprime il desiderio di viverlo in speciale unione con tutti coloro che sof-frono.

le fonti della Salvifici do-loris possono

essere racchiuse in quattro ambiti diversi, anche se interdipendenti: bibliche, magiste-riali, teologico-spirituali ed esperienziali.

3.1. Le fonti bibliche

la lettera Apostolica spiega “il senso cristiano della sofferenza umana” con molteplici citazioni scritturistiche. I riferimenti all’An-tico e al Nuovo Testamento riportati nelle 103 note sono in tutto 161. La Parola di Dio è, quindi, la chiave attraverso la quale Giovanni paolo II elabora il tema.

a) Antico Testamento

Del Pentateuco è citato cinque volte solo il libro della Genesi. La più importante è Gen 3,19 (tu sei polvere, e in polvere ritornerai), utilizzata nel contesto in cui si parla della sofferenza e della morte come conseguenze del peccato (SD, n. 15). Gli altri quattro richiami si riferiscono ad alcuni esempi di sofferenza vissute nella fede (SD, n. 6), come quella di Abramo (Gen 15,2), di Agar (Gen 15,16), di Ra-chele (Gen 30,1) e di Giacobbe (Gen 37,33-35). Anche i libri storici sono ricordati solo cinque volte: quattro volte nel contesto della de-

3. le fonti

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scrizione della sofferenza umana (SD, n. 6; 1Sam 1,6-10; 1,8; 2Sam 19,1; Tb 10,1-7), mentre 2Mc 6,12 è impiegato per evidenziare il valore educativo della pena-sofferenza (SD, n. 12).

Dei libri sapienziali sono menzionati il Salterio (28 volte), Giobbe (9 volte), Qoèlet e Siracide (1 volta rispettivamente). Qoèlet, Sira-cide e la maggior parte dei Salmi si riferiscono al contesto della de-scrizione della sofferenza umana (SD, n. 6; Qo 4,1-3; Sir 37,1-6; Salmi: 21 su 28 volte). Il Salterio è richiamato ancora 6 volte per delineare il concetto di sofferenza come punizione del peccato (SD, n. 10; Sal 17,10; 36,7; 48,12; 51,6; 99,4; 119,75) e una volta per ri-portare il grido di Gesù sulla croce (SD, n. 18; Sal 22,2).

Dal punto di vista argomentativo ci sembra più importante l’u-tilizzo del libro di Giobbe, il quale oltre ad essere impiegato dal Papa per introdurre la domanda sul “perché” della sofferenza del giusto, gli suggerisce anche lo sviluppo di altri temi correlati, come il rapporto tra sofferenza e male, la giusta punizione del peccato, la sofferenza considerata come prova (SD, n. 10d; n. 11b; Gb 4,8; 1,9-11), la sua dimensione redentiva (SD, n. 14b; n. 19b; Gb 19,25-26). A Giobbe, infine, si ispira anche la descrizione della sofferenza morale e fisica: lo scherno e la derisione, l’infedeltà e l’ingratitu-dine degli amici, il dolore fisico (SD, n. 6; Gb 19,18; 30,1.9; 19,19; 16,13; 30,27).

Dei libri profetici, quello più utilizzato è Isaia (13 volte), seguono Geremia (12 volte), Lamentazioni (4 volte), Daniele (3 volte), Eze-chiele (2 volte), Zaccaria (2 volte), Amos e Malachia (1 volta rispet-tivamente). Ancora una volta, la maggior parte di queste citazioni si trova nell’ambito della descrizione della sofferenza umana (SD, n. 6). Fanno eccezione unicamente i testi di Is 53; 61,1-2; Dn 3,27-28 e Ml 3,16-21.

Uno dei testi profetici più importanti ― citato a più riprese in vari punti quasi per intero ― è il Carme del Servo di Jahvé (Is 53). Esso è adoperato per descrivere la profondità del sacrificio amoroso di Cristo (SD, n. 17a; Is 53,2-6) ed è considerato come prefigurazione profetica della sua passione nel Getsemani e sul Golgota (SD, n. 18a; Is 53,7-9). Anche il tema della partecipazione del credente alle sof-ferenze di Cristo è introdotto con la citazione dell’ultima parte del Carme del Servo sofferente (Is 53,10-12), facendo così da sfondo a tutta l’argomentazione che segue (SD, n. 19a; Is 53,10-12).

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Il testo di Is 61,1-2 è citato, insieme a Lc 4,18-19, per descri-vere il programma messianico di Gesù, nel contesto della riflessione sulla parabola del buon Samaritano (SD, n. 30), mentre quelli di Dn 3,27-28 e Ml 3,16-21 sostengono la descrizione del concetto di sof-ferenza come punizione del peccato (SD, n. 10).

b) Nuovo Testamento

Del Nuovo Testamento, sono utilizzati principalmente i Vangeli e le lettere paoline. I testi citati fondano la risposta definitiva sul “perché” della sofferenza umana. I Vangeli e gli Atti degli Apostoli sono citati 41 volte: Giovanni (15 volte), Matteo (11 volte), Luca (10 volte), Marco (3 volte), Atti degli Apostoli (3 volte).

È data molto importanza al testo di Gv 3,16: «Dio infatti ha tanto amato il mondo che ha dato il suo Figlio unigenito», consi-derato il centro dell’azione salvifica di Dio e ripetutamente citato (SD, n. 14a; n. 15c; n. 16c; n. 25a). Il testo giovanneo, infatti, fa riferimento all’evento del mistero pasquale, il quale rivela l’unica logica che può redimere l’uomo nella sua sofferenza: quella dell’a-more.

Altri temi importanti ispirati al Quarto Vangelo sono:- la sofferenza “sostitutiva” e “redentiva”, prefigurata dal Servo

Jahvé (Is 53) e realizzata dall’«agnello di Dio che toglie il peccato del mondo» (SD, n. 17c; Gv 1,29);

- l’affermazione di Gesù, che nel consegnare lo spirito esclama: «Tutto è compiuto» e i fiumi di acqua viva che sgorgano dal suo fianco (SD, n. 18e; Gv 19,30; 7,37-38);

- l’ammonizione di gesù che invita a perdere la vita per poterla ritrovare (SD, n. 23c; Gv 12,25);

- la predizione delle persecuzioni e tribolazioni, che il cristiano deve sopportare «per il suo nome» (SD, n. 25h; Gv 15,18-21; 16,33);

- l’offerta delle sofferenze per l’unità di tutti i credenti e il fer-marsi accanto a tutte le croci dell’uomo insieme alla Madre di Cristo sotto la croce (SD, n. 31e-f; Gv 17,11.21-22; 19,25).

Altri temi importanti ispirati dai Vangeli Sinottici sono:- la consapevolezza di Gesù che la sua missione salvifica deve

compiersi mediante la sofferenza e la morte (SD, n. 16b; Mc 10,33-34);

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- la maturità spirituale che l’uomo raggiunge mediante la soffe-renza, come ne hanno dato prova diverse generazioni di martiri e confessori di Cristo (SD, 25g; Lc 21,12-19);

- il rifiuto di ogni indifferenza e passività di fronte alla sofferenza del prossimo (SD, n. 30b; Lc 4,18-19; Mt 25,34-36.40.45).

Nell’ultimo capitolo della Lettera è presentata la figura del buon Samaritano, che suggerisce il tema della sofferenza come sfida alla comunione e alla solidarietà. Il Papa invita ogni cristiano a testimo-niare l’amore nella sofferenza e a svelarne, fino in fondo, il senso cristiano, che consiste nel fare del bene con la propria sofferenza e nel fare del bene a chi soffre (SD, nn. 28-30; Lc 10,29.33-34).

la Salvifici doloris utilizza 9 lettere paoline, citandole 28 volte: Romani, 2Corinzi e Colossesi (5 volte rispettivamente), 1Corinzi e Galati (3 volte rispettivamente), 2Tessalonicesi, Filippesi e 2Ti-moteo (2 volte rispettivamente), Efesini (1 volta). Un’importanza particolare ha il testo di Col 1,24: «Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo corpo che è a Chiesa», il quale introduce e conclude la riflessione sulla sofferenza umana (SD, n. 1 e n. 30d). Nelle quattro volte che il testo compare (SD, nn. 1; 24a; 27a; 30d) sono evidenziati i seguenti temi:

- la sofferenza come itinerario spirituale di ogni credente (SD, n. 1; n. 24a);

- la gioia spirituale nella sofferenza (SD, n. 27a);- la chiamata di tutti coloro che soffrono a diventare partecipi

delle sofferenze di Cristo e completare con la propria sofferenza ciò che manca ai patimenti di Cristo (SD, n. 30d).

Altri temi ispirati alle altre lettere paoline sono:- ciò che si esprime con il termine sofferenza è proprio e solo

della natura umana (SD, n. 2b; Rm 8,22);- la sofferenza come vero culto spirituale (SD, n. 20b; Rm 12,1);- la partecipazione alla gloria e alle sofferenze di Cristo (SD, n.

22a; Rm 8,17-18; 2Cor 4,17-18);- la risposta data da gesù sul senso della sofferenza non solo con

l’insegnamento, ma prima di tutto con la propria sofferenza (SD, n. 18b; 1Cor 1,18);

- la sua vita donata per i nostri peccati come prezzo della reden-zione (SD, n. 19b; Gal 1,4; 1Cor 6,20; cf 2Ts 1,4-5; 1Pt 1,18-19);

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- Dio tratta Gesù da peccato in nostro favore (SD, n. 18e; 2Cor 5,21);

- la partecipazione alla sofferenza redentiva di Cristo (SD, n. 20a; 2Cor 4,8-11.14);

- il paradosso della forza nella debolezza, che sperimentano co-loro che partecipano alle sofferenze di Cristo (SD, n. 23a; 2Cor 12,9);

- la fede che permette di conoscere l’amore che condusse Cristo sulla croce (SD, n. 20d; Gal 2,19-20; 6,14).

la fonte princi-pale della let-tera Apostolica

è, quindi, la Bibbia. Tutta l’argomentazione papale parte da un presupposto di fede, come dimostrano i numerosi testi scritturistici posti alla base della sua rifles-sione. possiamo suddividerla in tre momenti successivi.

In un primo momento giovanni paolo II descrive la sofferenza umana e se ne chiede il “perché”. La descrizione e le risposte sul senso della sofferenza sono articolate, principalmente, sulla base dell’Antico Testamento, in particolare, del Pentateuco, dei Sapien-ziali e dei profeti.

In un secondo momento egli presenta la “risposta definitiva” data da Dio sulla croce del Figlio. La riflessione sulla centralità dell’a-more di Dio manifestato sulla croce di Cristo è fondata sui testi del Nuovo Testamento, in particolare, sul Quarto Vangelo.

In un terzo momento è sviluppato il tema della “partecipazione” del credente alle sofferenze di Cristo. Quest’ultimo aspetto è aggan-ciato, quasi esclusivamente, alla teologia paolina, in particolare, Ro-mani, Corinzi, Galati e Colossesi.

3.2 Le fonti magisteriali

limitiamo la ricerca alle poche citazioni esplicite dei documenti del Concilio Vaticano II (GS, nn. 22 e 24) e al magistero di Giovanni Paolo II, che precede la pubblicazione della Salvifici doloris (1978 – 1984): le due encicliche, Redemptor hominis (4 marzo 1979) e Dives in misericordia (30 novembre 1980).

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a) La Gaudium et spes

I testi della Gaudium et spes (nn. 22 e 24) sono esplicitamente ci-tati nella parte conclusiva della lettera (SD, nn. 28c e 31b), come a voler sintetizzare tutta l’argomentazione precedente. per confermare ciò che è chiamato «uno dei punti-chiave di tutta l’antropologia cri-stiana» (SD, n. 28c), Giovanni Paolo II utilizza il testo della Gaudium et spes, 24, in cui si dice che l’uomo, non può «ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé». Il dono di sé è la dimensione essenziale dell’amore, manifestato da Dio sulla croce di Cristo Gesù.

la Gaudium et spes è ancora citata dal Papa per fondare la ri-sposta data da Dio in Cristo gesù al mistero dell’uomo e della sua sofferenza: «Nel mistero, infatti, del Verbo Incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo … per Cristo e in Cristo si illumina l’enigma del dolore e della morte» (SD, n. 31; Gaudium et spes, 22).

b) La Redemptor hominis

l’enciclica Redemptor hominis è richiamata esplicitamente nella parte introduttiva della Salvifici doloris, nel contesto in cui si ricorda l’Anno della Redenzione (SD, n. 3; RH, nn. 14, 18, 21, 22).

Nella sua prima Enciclica, Giovanni Paolo II riflette sul mistero di Cristo, redentore dell’uomo. In essa appare centrale la riflessione sulla sofferenza umana, che trova la risposta definitiva nel mistero di Cristo redentore dell’uomo. l’enciclica dichiara che «la Chiesa non può abbandonare l’uomo, la cui “sorte” è unita in modo stretto e indissolubile a Cristo (RH, n. 14a; cf n. 18). L’uomo, infatti, è «la prima strada che la Chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione: egli è la prima e fondamentale via della Chiesa» (RH, n. 14ac). La Salvifici doloris inizia affermando come in Cristo ogni uomo diventa «la via della Chiesa», specialmente quando nella sua vita entra la sofferenza (SD, n. 3a). Dal momento, poi, che la soffe-renza è quasi inseparabile dall’esistenza umana, è proprio su questa via che la Chiesa, nata dalla sofferenza di Cristo, dovrebbe incon-trarsi con l’uomo (SD, n. 3c). In un secondo momento la Lettera sviluppa il tema della Chiesa come spazio nel quale «la sofferenza redentrice di Cristo può essere costantemente completata dalla sof-ferenza dell’uomo» (SD, n. 24e).

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Parlando, poi, della vocazione cristiana come “servizio regale” a imitazione di Cristo, il Papa scrive «che il miglior uso della li-bertà è la carità, che si realizza nel dono e nel servizio» (RH, n. 21e). L’affermazione è ripresa nella spiegazione della parabola del buon Samaritano, la cui eloquenza consiste nel chiamare «l’uomo in prima persona a testimoniare l’amore nella sofferenza» (SD, n. 29e). Questa «è presente nel mondo per sprigionare amore, per far nascere opere di amore verso il prossimo, per trasformare tutta la civiltà umana nella “civiltà dell’amore”» (SD, n. 30c).

la Redemptor hominis, nella parte conclusiva, presenta, infine, la figura di Maria, «Madre della Chiesa» (RH, n. 22bc). Nella Lettera il Papa evidenzia il ruolo di Maria nella sofferenza redentiva di Cristo, dichiarando che «a fianco di Cristo, in primissima e ben rilevata po-sizione accanto a lui, c’è sempre la Madre santissima» (SD, n. 25b). Maria è colei che conosce più a fondo il mistero della sofferenza re-dentiva di Cristo, dal momento che nessuno ha sperimentato, al pari della Madre del crocifisso, il mistero della croce.

c) La Dives in misericordia

la Dives in misericordia non è mai citata esplicitamente dalla Salvifici doloris, ma costituisce lo sfondo sul quale il Papa sviluppa il suo pensiero sulla sofferenza umana. Esiste una continuità tra il tema della misericordia, presentato nella sua seconda Enciclica, e quello della sofferenza, sviluppato nella Lettera apostolica. L’Enci-clica sottolinea l’atto concreto della rivelazione della misericordia divina attraverso la sofferenza stessa di Cristo. la lettera ne evi-denzia la sua applicazione pastorale.

La redenzione, compiuta dalla missione salvifica di Gesù, nasce dalla misericordia di Dio verso l’umanità bisognosa. Giovanni Paolo II inizia e termina l’enciclica sottolineando l’esigenza di volgere lo sguardo al mistero della misericordia divina, per dare risposta alle innumerevoli esperienze di “sofferenze” e “angosce”, che vive l’uomo contemporaneo (DM, nn. 1c e 15g). Essa, inoltre, afferma che la persona di Gesù di Nazareth è l’incarnazione definitiva della misericordia di Dio Padre. Cristo non solo “incarna” e “personifica” la misericordia, ma «egli stesso è la misericordia» (DM, n. 2b). In Cristo e per mezzo di Cristo la misericordia di Dio diventa partico-

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larmente visibile. Il Papa, nella Lettera, evidenzia la vicinanza amo-rosa di Dio «al mondo dell’umana sofferenza» (SD, n. 16a) durante tutta la missione pubblica di Gesù, specialmente quando nella sua passione e morte l’assume totalmente su di sé.

Presentando, inoltre, la parabola del figliol prodigo (Lc 15,11-32; DM, IV), Giovanni Paolo II nell’Enciclica afferma che la miseri-cordia è «capace di chinarsi su ogni figlio prodigo, su ogni miseria umana e, soprattutto, su ogni miseria morale, sul peccato» (DM, n. 6c). L’«aspetto vero e proprio» della misericordia si rivela «quando rivaluta, promuove e trae il bene da tutte le forme di male, esistenti nel mondo e nell’uomo» (DM, n. 6e). La Lettera, invece, rilegge con lo stesso spirito la parabola del buon Samaritano. l’atteggiamento compassionevole del buon Samaritano rivela in profondità l’atteg-giamento del Padre misericordioso (cf SD, nn. 28-30).

Per l’Enciclica l’amore è il culmine della giustizia: «L’esperienza del passato e del nostro tempo dimostra che la giustizia da sola non basta e che, anzi, può condurre alla negazione e all’annientamento di se stessa, se non si consente a quella forza più profonda, che è l’amore, di plasmare la vita umana nelle sue varie dimensioni» (DM, n. 12c). Lo stesso concetto è ripreso nella Lettera, dove si ribadisce come la risposta al senso della sofferenza basata sulla “sola giu-stizia” appare “insoddisfacente”, addirittura, impoverisce il concetto stesso della giustizia (SD, n. 11c).

L’Enciclica sottolinea, infine, come la redenzione porti in sé «la rivelazione della misericordia nella sua pienezza», perché la croce di Cristo distrugge il peccato e ridà all’uomo la vita (DM, n. 7c). La Croce di Cristo, infatti, non solo rende piena giustizia a Dio, ma è anche la «rivelazione radicale della misericordia, ossia dell’amore che va contro a ciò che costituisce la radice stessa del male nella storia dell’uomo: contro al peccato e alla morte» (DM, n. 8a). Queste af-fermazioni diventano il tema dominante della Salvifici doloris. Dalla croce di Cristo scaturisce la risposta definitiva al senso dell’umana sofferenza. L’amore salvifico di Dio, che consegna suo Figlio per l’uomo e per il mondo è la sorgente da cui scaturisce il bene della redenzione (SD, n. 14a). La croce di Cristo, «crea il bene ricavandolo anche dal male, ricavandolo per mezzo della sofferenza, così come il bene supremo della redenzione del mondo è stato tratto dalla Croce di Cristo, e costantemente prende da essa il suo avvio» (SD n. 18f).

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le fonti magi-steriali della Salvifici do-

loris le incontriamo principalmente nella Gaudium et spes, nella Redemptor hominis e nella Dives in misericordia. Quanto detto, ci aiuta ad avere una chiave di lettura dello sviluppo della lettera apostolica. l’enigma della sofferenza umana incontra una soluzione nella sofferenza di Cristo, uomo dei dolori e redentore dell’uomo. È sul fondamento di Cristo crocifisso e risorto che Giovanni Paolo II elabora il docu-mento sulla sofferenza salvifica.

3.3 Le fonti della Teologia Spirituale

Sulla formazione spirituale e dottrinale di giovanni paolo II hanno influito notevolmente san Giovanni della Croce e santa Fau-stina Kowalska. Faremo solo un’esposizione riassuntiva del loro pensiero per far emergere quello implicitamente sviluppato nella Salvifici doloris.

a) La spiritualità di san Giovanni della Croce

Giovanni Paolo II nel febbraio del 1940 ebbe un incontro con Jan Tyranowski, un laico di profonda spiritualità, formatosi alla scuola carmelitana6, che lo introdusse agli scritti di san Giovanni della Croce. La poesia e le opere del Santo influirono così profondamente su di lui, al punto che, nel 1945, manifestò il desiderio di entrare nel monastero dei carmelitani scalzi di Czerna. Dopo la sua ordina-zione sacerdotale (primo novembre del 1946), partì per Roma (15 novembre 1946) per proseguire gli studi nella Pontificia Università San Tommaso d’Aquino (Angelicum). Nel luglio 1948 discusse la sua tesi di laurea Doctrina de fide apud S. Joannem de Cruce sotto la guida di garrigou lagrange7.

6 g. Weigel, Testimone della speranza. La vita di Giovanni Paolo II, Monda-dori, Milano 2005, 73-78.

7 gioVAnni PAolo ii, Dono e Mistero. Nel 50° del mio sacerdozio, libreria editrice Vaticana, Città del Vaticano 1996, 24.

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Uno dei temi dominanti della spiritualità di san Giovanni della Croce è quello della sofferenza purificatrice operata dall’amore, tema ampiamente sviluppato nella Salvifici doloris. nella spiritua-lità del mistico spagnolo è, infatti, singolarmente presente il tema dell’unione amorosa con Dio attraverso la notte oscura purificatrice dei sensi (1Salita, 13-14) e dello spirito (2Salita, 1-2)8. nella notte oscura della fede «l’anima cancella in sé tutto ciò che ripugna o non è conforme alla volontà divina, allora è trasformata in Dio per amore» (2Salita, 5,3)9. L’elemento divino, infatti, immerge l’anima in una profonda e densa tenebra al fine di «purificarla, rinnovarla e renderla divina, spogliandola dagli affetti abituali e delle caratteri-stiche dell’uomo vecchio» (2Notte, 6,1)10. L’amore purificatore di Dio unisce e rende l’uomo simile a lui. «La caratteristica dell’amore, infatti, è proprio quella di tendere all’unione, alla fusione, all’egua-glianza all’assimilazione con l’oggetto amato per raggiungere la perfezione dell’amore» (2Notte, 13,9)11. In questa unione d’amore «l’uno si dà in possesso all’altro, l’uno si abbandona e si scambia con l’altro; così l’uno vive nell’altro, l’uno è nell’altro ed entrambi sono uno per trasformazione d’amore» (Cantico B, 12,7; cf Fiamma B, 1,1; 2,34)12. Per il Santo, quindi, «la via della sofferenza è più si-cura e vantaggiosa di quella della gioia e dell’iniziativa personale», perché chi soffre riceve forza da Dio ed esercita la virtù, crescendo nella sapienza e nella prudenza (2Notte, 16,9)13. «L’anima, infatti, acquista gradualmente virtù, forza e perfezione», quando è sotto-posta da Dio a tali sofferenze (Fiamma B, 2,26)14. Dio stesso stabi-lisce il grado della purificazione che l’unione esige. Questo livello di unione non si determina solo nell’ordine della giustizia, ma nell’or-dine della carità.

8 s. gioVAnni dellA CroCe, Opere complete, san Paolo, Milano 2001, 187-196.

9 Ibid., 202; cf Salita, 5,7, 204.10 Ibid., 454.11 Ibid., 479.12 Ibid., 571; 771; 803.13 Ibid., 485.14 Ibid., 799.

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Per Giovanni Paolo II «… l’uomo ode la risposta salvifica man mano che diventa partecipe delle sofferenze di Cristo … scopre il senso salvifico non al suo livello umano, ma al livello della sofferenza di Cristo» (SD, n. 26ef). La sofferenza «serve alla con-versione... alla ricostruzione del bene nel soggetto... a superare il male... a consolidare il bene con gli altri e con Dio» (SD, n. 12c). Coloro, infatti, che partecipano alle sofferenze di Cristo mediante le varie prove e tribolazioni, hanno ricevuto una «particolare chiamata alla virtù della perseveranza» (SD, n. 23c). «L’amore, inoltre, è la piena risposta all’interrogativo sul senso della sofferenza umana» (SD, n. 13b). Solo nell’amore è possibile trovare «il senso salvifico e risposte valide» al problema della sofferenza (SD, n. 31e). La sof-ferenza, infatti, è presente nel mondo «per trasformare tutta la civiltà umana nella “civiltà dell’amore”» (SD, n. 30c).

Giovanni della Croce e Giovanni Paolo II evidenziano, quindi, la centralità dell’amore di Dio, unificatore e redentore. Per il Santo spa-gnolo la ricerca dell’unione con Dio avviene attraverso una profonda purificazione della fede, guidata dall’amore stesso di Dio (Cantico B, 38,3)15. Per Giovanni Paolo II l’amore di Dio per il mondo si è manifestato nel dono Figlio fino alla morte sulla croce. La forza, infatti, che ha condotto Cristo sulla croce è l’amore (cf SD, n. 20d). Cristo ha rivelato la verità di questo amore mediante la verità della sua sofferenza (cf SD, n. 18c). In Cristo l’umana sofferenza è entrata in una dimensione nuova: «È stata legata all’amore» (SD, n. 18f).

b) La spiritualità di santa Faustina Kowalska

Non è certo una novità il fatto che le riflessioni di Giovanni Paolo II nella Dives in misericordia siano state ispirate dal suo incontro con la spiritualità di suor Faustina Kowalska. Egli stesso dichiara che queste sono frutto della sua «esperienza pastorale in Polonia e, in modo particolare, a Cracovia. Qui, difatti, si trova la tomba di suor

15 Ibid., 680.

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Faustina, alla quale Cristo concesse di essere un’interprete partico-larmente illuminata della verità sulla Divina Misericordia»16.

La vita di suor Maria Faustina Kowalska17 è legata alla storia del ventesimo secolo, tra la prima e la seconda guerra mondiale. Pro-prio in questo drammatico contesto storico si sente dire da gesù: «nell’Antico Testamento mandai al Mio popolo i profeti con i ful-mini. Oggi mando te a tutta l’umanità con la Mia Misericordia. Non voglio punire l’umanità sofferente, ma desidero guarirla e stringerla al Mio Cuore misericordioso»18. Essendo, quindi, stata proclamata da gesù “dispensatrice”19 e “segretaria”20 della divina misericordia si impegna con tutte le sue forze ad annunciare al mondo contempo-raneo questo Vangelo.

Per la Kowalska esiste un profondo legame tra il mistero della “redenzione” e quello della “misericordia divina”21. la miseria dell’uomo non è più un ostacolo per la salvezza, perché è stata abbracciata dall’infinita misericordia di Dio22. L’uomo, quindi, deve fidarsi totalmente della divina misericordia, senza la quale la

16 gioVAnni PAolo ii, Memoria e identità, libreria editrice Vaticana, Città del Vaticano 2005, 15-16.

17 Faustina Kowalska nacque in Polonia il 25 agosto 1905. entrò nella Con-gregazione delle suore della Beata Vergine Maria della Misericordia il primo agosto 1925. Morì a soli 33 anni il 5 ottobre 1938, offrendo la sua vita per la salvezza delle anime e «per la conversione dei peccatori, specialmente, per le anime che hanno perso la speranza nella Misericordia divina» (sAntA mAriA FAustinA KoWAlsKA, Diario. La misericordia divina nella mia anima, libreria edi-trice Vaticana, Città del Vaticano 2010, Quaderno i, nn. 308-309).

18 Ibid., Q. V, n. 1588.19 Ibid., Q. ii, nn. 570; 580.20 Ibid., Q. ii, n. 965; Q. iii, n. 1160; Q. Vi, nn. 1605; 1693.21 Così scrive nel Diario, Q. i, n. 89: «ora vedo che l’opera della reden-

zione è collegata con l’opera della Misericordia richiesta dal signore».22 dice gesù a suor Faustina «sappi, figlia Mia, che fra Me e te c’è un

abisso incolmabile, che separa il Creatore dalla creatura, ma questo abisso viene livellato dalla Mia Misericordia» (Diario, Q. V, n. 1576). Commentando la spiritualità di suor Faustina, sorta provvidenzialmente tra gli orrori delle due guerre mondiali, giovanni Paolo ii scrive: «Fu come se Cristo avesse voluto rive-lare che il limite imposto al male, di cui l’uomo è artefice e vittima, è in definitiva la divina Misericordia» (gioVAnni PAolo ii, Memoria e identità, 70).

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onnipotenza stessa della misericordia resta prigioniera23. Questo rapporto di abbandono confidente nella misericordia di Dio è una sequela fiduciosa che trasforma l’uomo interiormente. La fiducia è la più adeguata risposta dell’uomo all’azione della sua miseri-cordia24. Anche Giovanni Paolo II evidenzia l’incontro fiducioso di ogni sofferente con Cristo crocifisso, che gli permette di avere interiormente «la risposta salvifica... pace interiore e perfino gioia spirituale» (SD, n. 26f). Per il Papa la fiducia non è un comporta-mento astratto, ma concreto, che si esprime nell’obbedienza alla volontà di Dio come quella di Gesù nel Getsemani e nel Golgota (cf SD, n. 18).

Per suor Faustina, inoltre, esiste una dimensione profonda della sofferenza, per la quale l’uomo potrebbe cadere nella disperazione o nel rifiuto di Dio. Essa stessa ha potuto sperimentarla, bevendo fino in fondo il calice del suo dolore con amore eroico e solo at-traverso una strettissima comunione con Cristo crocifisso ha potuto superarla25. L’incontro con Cristo, incarnazione della misericordia del Padre, permette, infatti, a chi soffre di confidare e di sperare an-cora in Dio26. Giovanni Paolo II, riprendendo questo tema, afferma che la sofferenza può portare l’uomo a «molteplici frustrazioni e conflitti nei rapporti dell’uomo con Dio», perfino alla «negazione

23 Così scrive nel Diario, Q. i, n. 283: «sebbene io sia particolarmente misera e piccolina, ho gettato l’ancora della mia fiducia molto profondamente nell’abisso della Tua Misericordia, o dio e Creatore mio. nonostante la mia grande miseria, non ho paura di nulla, ma ho fiducia di cantare eternamente l’inno della gloria».

24 sotto l’immagine della divina Misericordia si trova la scritta: «gesù, con-fido in te» (Diario, Q. i, n. 327).

25 «la mia anima sperimentò questo momento quando ero in cella tutta sola. Quando l’anima cominciò a sprofondare nella disperazione, sentii che stava giungendo la mia agonia» (Diario, Q. i, n. 101; cf tutto il paragrafo, nn. 98-102). Parlando della sofferenza di Maria scrive: «la Tua anima non si è spez-zata, ma è stata forte, poiché era con gesù» (Diario, Q. ii, n. 915).

26 scrive la Kowalska: «Benché la strada sia così tremendamente irta di spine, non ho paura di andare avanti, anche se la grandine delle persecuzioni mi copre, anche se gli amici mi abbandonano, anche se tutto congiura contro di me e l’orizzonte si oscura, anche se la tempesta incomincia ad imperversare e sento che sono sola a dover far fronte a tutto. allora in tutta tranquillità confiderò nella Tua Misericordia, o mio dio, e la mia fiducia non rimarrà delusa» (diario, Q. iii, n. 400).

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stessa di Dio» (SD, n. 9c). Essa, però, unita al «senso della vita che è l’amore», può diventare una particolare «chiamata alla virtù della perseveranza» per quanti partecipano alle sofferenze di Cristo nelle varie prove (SD, n. 23c). In Cristo, quindi, la sofferenza ac-quista la nuova dimensione di «misura dell’amore» (SD, n. 18c). Scrive il papa: «l’umana sofferenza ha raggiunto il suo culmine nella passione di Cristo. E contemporaneamente essa è entrata in una dimensione completamente nuova e in un nuovo ordine: è stata legata all’amore» (SD, n. 18f). La divina misericordia si è, quindi, totalmente manifestata nella croce di Cristo, dalla quale scaturisce il bene supremo della redenzione. Essa è, inoltre, la “risposta” defini-tiva all’interrogativo sul senso sofferenza umana (SD, n. 18f).

Abbiamo cer-cato di co-gliere le

influenze che le spiri-tualità di san Giovanni della Croce e di santa Faustina Kowalska hanno avuto sulla riflessione di Giovanni Paolo II nella Salvifici doloris. Mentre la dottrina del mistico spagnolo evidenzia la sof-ferenza purificatrice e unitrice; quella della mistica polacca dà risalto alla sofferenza come misura della fiducia e dell’abbandono a Cristo. I tratti della spiritualità dei due santi sopra citati sono la chiave di lettura della lettera Apostolica. Il mistero della sof-ferenza trova una risposta solo attraverso il mistero del dolore e della misericordia di Dio, rivelata nella croce di Cristo. Giovanni Paolo II può, quindi, affermare che “il dolore salva”. In esso, in-fatti, si trova una dimensione purificatrice, unitrice e redentrice, che fiduciosamente ci rende «aperti all’opera delle forze salvifiche di Dio, offerte all’umanità in Cristo» (SD, n. 23).

3.4 L’esperienza personale di sofferenza

Nella Lettera Apostolica è dato notare un certo coinvolgimento personale. giovanni paolo II ha vissuto in prima persona il mes-saggio e il contenuto della sua riflessione; è un sofferente che scrive ai sofferenti. La persona stessa del Papa è «l’icona vivente della

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sofferenza»27, una concreta testimonianza del suo Magistero sul do-lore che salva. la conoscenza della sua esperienza personale ci aiuta a cogliere meglio il messaggio della Salvifici doloris. A imitazione di Cristo, che ha dato significato al dolore umano non solo con l’inse-gnamento, ma con la sua stessa sofferenza, anche il Pontefice ha tro-vato nelle sue sofferenze motivo di riflessione. Egli, infatti, scrive: «Cristo dà la risposta all’interrogativo sulla sofferenza e sul senso della sofferenza non soltanto col suo insegnamento... ma prima di tutto con la propria sofferenza» (SD, n. 18b).

possiamo schematizzare la sua esperienza di sofferenza in tre mo-menti successivi:

1. Dall’infanzia fino alla fine della seconda guerra mondiale.2. Dal comunismo del dopo guerra fino all’inizio del suo ponti-

ficato.3. L’attentato del 13 maggio 1981.limitiamo il nostro excursus biografico ai momenti più significa-

tivi della vita drammatica di giovanni paolo II e solo quelle espe-rienze che potrebbero avere influenzato la Salvifici doloris.

a) Dall’infanzia fino alla fine della seconda guerra mondiale

Karol sin da piccolo ha conosciuto la sofferenza. Il periodo dei suoi primi diciotto anni, vissuti prima della guerra, è segnato da in-numerevoli esperienze tragiche di sofferenza28. egli incontra la sof-ferenza, per la prima volta e in maniera intensa, con la prematura morte della madre Emilia Kaczorowska, il 13 aprile 1929, all’età di nove anni. Il 5 dicembre 1932, all’età di dodici anni, muore anche l’unico fratello maggiore Edmund. Il 18 febbraio del 1941, durante la guerra, muore suo padre Karol. Questi avvenimenti sono implici-tamente ricordati dalla Salvifici doloris nel descrivere le varie situa-zioni di sofferenze che affliggono l’uomo (cf SD, n. 6).

Il primo settembre 1939 scoppia la guerra e le truppe naziste oc-cupano la Polonia. Karol Wojtyla vive in prima persona le dramma-

27 J. l redrAdo., «il dolore del nuovo umanesimo cristiano secondo la salvi-fici doloris di giovanni Paolo ii», in Dolentium Hominum Chiesa e Salute nel mondo, 57 (2004), 18.

28 gioVAnni PAolo ii, Dono e Mistero, 29.

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tiche vicende del suo paese29. nella lettera Apostolica si afferma che questa guerra «ha portato con sé una messe molto più grande di morte ed un cumulo più pesante di umane sofferenze» (SD, n. 8c). la devastazione della propria nazione e lo sterminio di milioni di ebrei e altri innocenti nel campo di concentramento di Auschwitz sono avvenimenti che segnano profondamente la sua vita.

Giovanni Paolo II dichiara, tuttavia, che «il bene è più grande di tutto ciò che nel mondo vi è di male»30. egli comprende che solo la Buona Novella, che Cristo ha annunciato e testimoniato con la sua morte e risurrezione, può sconfiggere il male con l’amore e impedire l’uomo di cadere nell’abisso dell’odio. «l’umana sofferenza — egli afferma — ha raggiunto il suo culmine nella passione di Cristo. e contemporaneamente essa è entrata in una dimensione completa-mente nuova e in nuovo ordine: è stata legata all’amore... quell’a-more che crea il bene ricavandolo anche dal male» (SD, n. 18f). E ancora: «l’uomo trova nella risurrezione una luce completamente nuova, che lo aiuta a farsi strada attraverso il fitto buio delle umi-liazioni, dei dubbi, della disperazione e della persecuzione» (SD, n. 20b).

Nell’autobiografia scrive: «Questo tempo della guerra e dell’oc-cupazione era contemporaneamente il tempo dell’affermazione dei più alti valori, tante volte a misura dell’eroismo! Quante volte a prezzo della vita!»31. Nel campo di dolore di Auschwitz, definito da alcuni il nuovo Golgota, la sofferenza umana ha assunto il valore di un immenso sacrificio, in cui la vittoria dell’amore sull’odio si è manifestata con la testimonianza di martiri, come padre Massimi-liano Maria Kolbe. per la Salvifici doloris «la sofferenza è anche una chiamata a manifestare la grandezza morale dell’uomo, la sua maturità spirituale» (SD, n. 22b). In essa, inoltre, si trovano riflessi gli innumerevoli perché sulla sofferenza umana, maturati nel suo cuore durante questo periodo (cf SD, n. 9): Qual è il significato del

29 Karol Jóse Wojtyla nasce il 18 maggio 1920 a Wadowice, una citta-dina di quindicimila abitanti, con otto mila cattolici e due mila ebrei, distante cinquanta chilometri da Cracovia e vicino al campo di sterminio di auschwitz (circa 20 km).

30 gioVAnni PAolo ii, Varcare la soglia della speranza, 22.31 gioVAnni PAolo ii, Autobiografia del cuore, 25.

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dolore e della morte? Che senso ha la vita nel momento stesso in cui l’uomo sembra diventare solo creatura per la sofferenza e la morte? Perché certi orrori si ripetono regolarmente attraverso i secoli come le guerre, i campi di concentramento, l’olocausto? Perché gli uomini, creati a immagine di Dio, sono incapaci di provare pietà e rispetto per i loro simili? Perché sono sempre gli innocenti a pagare? Dov’è Dio nel momento dello sterminio? Come è possibile che l’uomo con-tinui a confidare in un Dio misericordioso e amoroso, di fronte alla sofferenza, all’ingiustizia e alla malvagità?

Nel contesto del grande male della guerra, nonostante tutto, la vita di Wojtyla è indirizzata verso il bene32. Nel settembre del 1940, «per evitare la deportazione ai lavori forzati in Germania, comincia a lavorare come operaio in una cava di pietra collegata con la fabbrica chimica Solvay»33 e, nello stesso tempo, frequenta i corsi della Fa-coltà di Teologia dell’Università Jagiellonica, anch’essa clandestina. Sono gli anni in cui egli matura la decisione definitiva per il sacer-dozio34. Nell’autunno del 1942 entra nel seminario clandestino di Cracovia. Nell’agosto del 1944 Adam Stefan Sapieha, Arcivescovo Metropolita di Cracovia, lo trasferisce, insieme ad altri seminaristi clandestini, nel Palazzo dell’Arcivescovado. Qui essi rimangono fino alla fine della guerra, il 18 gennaio 1945, quando l’Armata Rossa li-bera Cracovia dai nazisti35. C’è un nesso profondo tra ciò che matura dentro di lui e l’ambiente storico nel quale vive. la sua esperienza di sofferenza lo guida verso il sacerdozio, che assume per lui un valore di un dono di sé per il mondo e la Chiesa36. Così egli si esprime:

«…il mio sacerdozio, già al suo nascere, si è scritto nel grande sacrificio di tanti uomini e donne della mia generazione. A me la provvidenza ha risparmiato le esperienze più pesanti; tanto più grande è perciò il senso del mio debito verso le persone a me note, come pure verso quelle ben più numerose a me ignote, senza

32 gioVAnni PAolo ii, Dono e Mistero, 43-45.33 Ibid., 15.34 Ibid., 30.35 Ibid., 21.36 Ibid., 53-54.

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differenza di nazione e di lingua, che con il loro sacrificio sul grande altare della storia hanno contribuito al realizzarsi della mia vocazione sacerdotale. In qualche modo esse mi hanno introdotto su questa strada, additandomi nella dimensione del sacrificio la verità più profonda ed essenziale del sacerdozio di Cristo»37.

Scrive José Saraiva Martins: «La seconda guerra mondiale e la povertà, nonché le dure vicende del comunismo imperante in Po-lonia formarono il giovane Karol alla dura “scuola del sacrificio e del dolore”»38.

b) Dal comunismo del dopo guerra fino all’inizio del suo pontificato

Il primo novembre del 1946, Karol Wojtyla è ordinato sacerdote. Il 13 gennaio 1964 è nominato, a soli 38 anni, Arcivescovo Metropo-lita di Cracovia. Papa Paolo VI, il 28 giugno 1967, lo consacra Car-dinale, a soli 47 anni. Il 16 ottobre 1978, ha 58 anni, quando è eletto Papa. Le sofferenze che gli sopravengono, in questi lunghi decenni del dopoguerra, sono le conseguenze del regime totalitario, ispirato all’ideologia comunista. Come arcivescovo di Cracovia, difende sempre con coraggio i diritti dell’uomo e la libertà della Chiesa. Esorta, inoltre, il suo popolo alla fiducia nell’amore misericordioso di Dio, nonostante le tribolazioni del momento storico che sta at-traversando. La sua azione, nella Polonia comunista, diventa segno di contraddizione e di speranza. Le lotte da lui sostenute, in favore della verità del Vangelo e la condanna di ogni azione contro l’uomo, diventeranno il messaggio centrale del suo pontificato39.

Divenuto Papa, comprende sempre più profondamente la realtà dell’umana sofferenza. I suoi moltissimi viaggi lo aiutano a riflet-

37 Ibid., 47.38 J. s. mArtins, «il Vangelo della sofferenza nel Magistero e nella vita di

giovanni Paolo ii», in Dolentium Hominum. Chiesa e Salute nel mondo, 57 (2004), 14.

39 nella sua prima omelia in Piazza san Pietro nel 22 ottobre 1978, il neoeletto Papa esorta tutti i capi delle nazioni ad aprire le porte a Cristo senza paura. afferma, inoltre, che non può esistere sistema ideologico, progetto po-litico e programma economico, che non possa essere ispirato dalla verità del vangelo.

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tere sulla sofferenza del mondo. L’inizio del suo pontificato è ricco di gioia, ma anche di sofferenza a causa dei problemi che afflig-gono l’umanità. Egli vive in prima persona le vicende drammatiche della storia dell’umanità. Le «gioie e speranze, tristezze e angosce degli uomini d’oggi» sono l’oggetto della sua preghiera, che ha una dimensione particolare di sollecitudine per tutte le Chiese40. ricor-diamo l’invio, il 12 dicembre 1981, ai Presidenti di U.S.A., U.R.S.S., Gran Bretagna, Francia e all’Assemblea Generale dell’O.N.U. di una delegazione della Pontificia Accademia della Scienze, incaricata di illustrare un documento scientifico, redatto dai loro membri, sulle conseguenze di un eventuale uso degli armamenti nucleari in europa e nel mondo; la condanna della guerra contro l’Iraq; l’esortazione a fermare la guerra, scoppiata nella Bosnia.

La sensibilità di Giovanni Paolo II verso la sofferenza di ogni persona umana è accresciuta, a causa delle drammatiche esperienze vissute nel passato41. Durante il suo pontificato, egli è continuamente presente nei luoghi di sofferenza. Il 25 novembre del 1980, si reca, senza preavviso, in alcune zone della Campania e della Basilicata per confortare le popolazioni colpite da un fortissimo terremoto, pro-vocando migliaia di vittime. In lui si rinnova l’atteggiamento com-passionevole del Buon samaritano, di «colui che porta aiuto nella sofferenza» (SD, n. 28c).

c) L’attentato del 13 maggio 1981

Il 13 maggio del 1981 Ali Agca in Piazza San Pietro attenta alla sua vita. Gravemente ferito, è portato al Policlinico Gemelli, dove su-bisce un intervento operatorio durato sei ore. Ora egli è colpito nella sua stessa carne. Il papa sembra richiamare questo evento all’inizio della Salvifici doloris: «Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo corpo che è la Chiesa» (SD, n. 1a; Col 1,24). Dio gli ha permesso che sperimentasse la sofferenza e «il pericolo di perdere la vita»42, perché diventasse imitatore fedele

40 gioVAnni PAolo ii, Varcare la soglia della speranza, 21; 24.41 gioVAnni PAolo ii, Dono e Mistero, 78.42 gioVAnni PAolo ii, Autobiografia del cuore, 98.

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del Crocifisso-Risorto, partecipe diretta alla sofferenza redentiva di Cristo (cf SD, n. 19c). In questo evento drammatico, Giovanni Paolo II diventa testimone del trionfo dell’amore sull’odio, quando il 17 maggio perdona il suo uccisore: «prego per il fratello che mi ha colpito, al quale ho sinceramente perdonato»43. Un anno prima, il 30 aprile del 1980, aveva preparato questo suo gesto, scrivendo l’enciclica Dives in misericordia. In essa egli indica l’amore miseri-cordioso Dio, al quale ogni uomo può aggrapparsi nella notte oscura della sofferenza, che mette a dura prova la fede di ogni credente. Tre anni dopo l’attentato, l’11 febbraio del 1984, pubblica la sua Lettera Apostolica Salvifici doloris.

l’esperienza di sofferenza di giovanni paolo II emerge ancora di più dopo l’attentato. Egli vive i cento giorni di mortificante degenza, sopportando tutto con pazienza e generosità, invitando gli ammalati di unirsi a lui nella sua offerta44. la sua esperienza di malato sembra ispirare le parole della Salvifici doloris: «Allorché questo corpo è profondamente malato, totalmente inabile e l’uomo è quasi incapace di vivere e di agire, tanto più si mettono in evidenza l’interiore ma-turità e grandezza spirituale, costituendo una commovente lezione per gli uomini sani e normali» (SD, n. 26b). Il mistero della croce segna profondamente la sua esperienza spirituale e gli dà il coraggio di non nascondere le sue debolezze, testimoniando, per mezzo di esse, la speranza e l’amore. Scrive nella Salvifici doloris: «nella let-tera ai romani l’apostolo paolo si pronuncia ancora più ampiamente sul tema di questo “nascere della forza nella debolezza”, di questo ritemprarsi spirituale dell’uomo in mezzo alle prove e alle tribola-zioni, che è la speciale vocazione di coloro che sono partecipi delle sofferenze di Cristo» (SD, n. 23c).

Il Papa, infermo tra gli infermi, vive con fiducia la sua sofferenza per Cristo, non come un attore, ma come un uomo che crede e che ama anche nel dolore. egli incoraggia i sofferenti a non aver paura di incontrare gesù anche nella propria sofferenza e malattia. Il pon-

43 Prima della pubblicazione della Salvifici doloris, giovanni Paolo ii, il 27 dicembre del 1983, visita nuovamente il suo attentatore e gli ripete il suo per-dono.

44 Messaggio registrato al Policlinico gemelli e trasmesso in Piazza san Pietro, 24 maggio 1981; SD, n. 23c.

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tefice, nella sua esperienza di sofferenza, testimonia la «scoperta del senso salvifico della sofferenza in unione con Cristo... La fede nella partecipazione alle sofferenze di Cristo porta in sé la certezza inte-riore che l’uomo sofferente “completa quello che manca ai patimenti di Cristo”; che nella dimensione spirituale dell’opera della reden-zione serve, come Cristo, alla salvezza dei suoi fratelli e sorelle» (SD, n. 27a).

la ricerca sulle fonti ha por-tato a scoprire

come, la Salvifici doloris, oltre alla Scrittura, al Magistero, alla Teologia spirituale, dipenda profondamente anche dalla esperienza personale di soffe-renza di Giovanni Paolo II. La testimonianza offerta dalla sua vita è l’argomento decisivo per la validità del suo insegnamento: soffrire per Cristo, con Cristo e in Cristo, per partecipare con lui alla sua gloria. Le sue stesse parole, pronunciate durante la sua visita in In-ghilterra, nella Cattedrale di Southwark, il 28 maggio 1982, ne sono la migliore interpretazione: «È proprio perché ho sperimentato la sofferenza che sono in grado di affermare con sempre maggior con-vinzione ciò che S. Paolo dice: “Né morte, né vita, né angeli né altre autorità o potenza celeste, né il presente né l’avvenire, né le forze del cielo né le forze della terra, niente e nessuno ci potrà strappare da quell’amore che Dio ci ha rivelato in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,36-39)».

conclusione generale

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angelo Card. CoMasTriarCiPreTe della PaPale BasiliCa di san PieTro in VaTiCano

Molte persone, con il passare del tempo, vengono dimenti-cate: e questo vale anche per i cosid-detti “personaggi”. Se volete, provate

un giorno a sostare davanti alle rovine del pala-tino (l’antico e superbo Palazzo Imperiale!): in questo luogo sono vissuti uomini che si facevano chiamare “divini”; uomini che hanno fatto tre-mare il mondo e al cui cenno si muovevano le legioni e si spostavano i popoli (pensate, per fare solo un esempio, al censimento voluto e deciso da Cesare Augusto ai tempi di gesù: questo censimento mise in moto tutto l’impero!). Oggi il Palatino è soltanto un rudere e, tra quelle rovine, domina il silenzio della storia e l’incuria degli uomini.

Per Giovani Paolo II, invece, sta accadendo un fatto inconsueto: man mano che passano gli anni… cresce il ricordo, cresce l’affetto, cresce l’ammirazione, cresce la gratitudine. Non si contano le piazze e le vie a lui dedicate; si moltiplicano i monti che portano il suo nome, mentre storici e cronisti si affannano a tirare un bilancio in-completo e provvisorio della sua vita. e la processione delle folle continua, fedele e devota, davanti alla sua umile tomba scavata nella terra del Colle Vaticano, come quella di Paolo VI e come quella del primo Papa: Pietro! Questo fatto è innegabile.

Ma è possibile delineare le linee portanti della santità di Giovanni paolo II?

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GiovAnni PAolo ii E lA SoffEREnzA (mEditAzionE)

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A me sembra che a giovani paolo II debba essere riconosciuto un merito non piccolo: è stato un uomo coraggioso nell’epoca delle grandi paure; è stato un uomo deciso e coerente… nell’epoca dei compromessi e della indecisione programmatica e dei camale-ontismi diffusi. A lui si applicano stupendamente queste parole di gesù: “Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio predicatelo sui tetti. E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’a-nima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna. Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure neanche uno di essi cadrà a terra senza che il Padre vostro lo voglia. Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati; non abbiate dunque timore: voi valete più di molti pas-seri! Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo ri-conoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinne-gherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli” (Mt 10, 27-33).

E stato coraggioso nel difendere la pace, mentre soffiavano venti di guerra. Chi non ricorda il coraggio dei suoi ripetuti e accorati appelli, anche quando non venivano ascoltati? Talvolta sembrava un profeta che parlava nel deserto dell’indifferenza: eppure giovanni Paolo II non si è lasciato scoraggiare, ma ha continuato a dire ciò che lo Spirito di gesù gli suggeriva nel santuario della coscienza.

Il giorno di Natale del 1990 il Papa esprime la sua preoccupa-zione e la sua sofferenza per la partecipazione di tante nazioni cri-stiane alla “concentrazione massiccia di uomini e di armi” nel golfo persico.

E nel messaggio natalizio rivolto al mondo si esprime così: “La luce di Cristo è con le nazioni tormentate del Medio Oriente. Per l’area del Golfo, trepidanti, aspettiamo il dileguarsi della minaccia della armi. Si persuadano i responsabili che la guerra è avventura senza ritorno”.

Giovanni Paolo II non venne ascoltato, ma la storia gli sta dando ragione: oggi più di ieri!

E chi non ricorda con emozione e ammirazione il grido del 16 marzo 2003, al termine del corso di Esercizi Spirituali, con i quali

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egli abitualmente iniziava la Santa Quaresima? Affacciandosi dalla finestra del suo appartamento, senza paura esclamò: “Io so, io so che cosa è la guerra! Io ho il dovere di dire a costoro (= a coloro che credono nella guerra!) che la guerra moltiplica l’odio e non risolve i problemi”.

Che coraggio! In quel momento questo linguaggio era assolu-tamente controcorrente, ma Giovanni Paolo II ha sfidato più volte l’impopolarità per restare tenacemente fedele al suo compito di servo della verità: quella verità che Gesù ha consegnato alla Chiesa e, in particolare, ha consegnato a colui che Egli ha soprannominato “pietra”.

Più volte, ascoltando le parole di Giovanni Paolo II, mi è venuta in mente questa lucidissima affermazione dell’apostolo paolo: “Non abbiamo alcun potere contro la verità, ma per la verità” (2Cor 13, 8). E ugualmente ho applicato al pontificato di Giovanni Paolo II quanto l’Apostolo delle Genti confida riguardo alle fatiche del suo ministero: “Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di bri-ganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio as-sillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?” (2Cor 11, 26-29).

Giovanni Paolo II è stato un uomo coraggioso nel difendere la famiglia in un’epoca in cui si è persa la consapevolezza dell’ineli-minabile dualità sposo-sposa e padre-madre. Papa Wojtyla, con oc-chio profetico, aveva nitidamente percepito che oggi è in pericolo l’umanità dell’uomo, cioè il costitutivo progetto dell’umanità come famiglia, come uomo e donna che, attraverso l’amore fedele, diven-tano culla della vita e luogo insostituibile di crescita e di educazione della vita umana.

Nella notte tra il 28 e il 29 aprile 1994, Giovanni Paolo II ebbe la caduta che gli procurò la frattura del femore. Il giorno dopo do-veva recarsi in Sicilia al Santuario della Madonna delle lacrime: il viaggio saltò con grande rammarico del Papa. A chi lo soccorse nella notte, Giovanni Paolo II disse: “Forse era necessaria questa soffe-

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renza per l’anno della famiglia: era necessario questo contributo di dolore da parte del Papa a difesa della famiglia”.

Il suo insegnamento a difesa della famiglia fu insistente a appas-sionato. nella “lettera alle famiglie” scrisse con lucida convinzione: “Attraverso la famiglia fluisce la storia dell’uomo, la storia della salvezza dell’umanità”. e nella esortazione Apostolica Familiaris consortio dichiarò: “In un momento storico nel quale la famiglia è oggetto di numerose forze che cercano di distruggerla e comunque di deformarla, la Chiesa, consapevole che il bene della società e di se stessa è legato profondamente alla famiglia, sente in modo più vivo e stringente la sua missione di proclamare a tutti il disegno di Dio sul matrimonio e sulla famiglia” (F.C., 3)

penso che giovanni paolo II abbia provato una lacerante ferita al cuore, quando si sparse la notizia che il Parlamento Europeo non era riuscito a trovarsi d’accordo nel dare una definizione della famiglia: il fatto era gravissimo ed era un indice dello smarrimento della coscienza europea. Forse, spinto da questo allarmante dato, il Papa si buttò, come un atleta, a difendere la famiglia. Le Gior-nate Mondiali della Famiglia, il Giubileo delle Famiglie, i continui Messaggi agli Sposi e alle Famiglie sono il frutto di un amore te-nace e, nello stesso tempo, sono un’azione intelligente per riedu-care i popoli e i parlamenti delle nazioni ai valori che formano un’autentica civiltà. Se cade la famiglia, che cosa resta di una so-cietà? Se si smarrisce la famiglia, quale segnaletica guiderà i figli nel cammino della vita?

Giovanni Paolo II capiva tutto questo e, pertanto, dal suo cuore è partito un insistente e qualificato magistero sul valore e sul signifi-cato della famiglia. Forse, fra qualche anno o fra qualche decennio, potremo meglio apprezzare l’opera svolta da giovanni paolo II per ricostruire il senso della famiglia nell’annebbiamento dell’intelli-genza dei nostri contemporanei. Col passare del tempo capiremo sempre di più la verità di questa affermazione di Giovanni Paolo II: “Quanto più la famiglia è sana ed unita, tanto più lo è la società. Al contrario, lo sfacelo della società ha inizio con lo sfacelo della fami-glia. È una convinzione espressa da uno dei maggiori scrittori spa-gnoli del Novecento, Miguel De Unamuno, il quale disse: ‘L’agonia della famiglia è l’agonia del cristianesimo’ ”. Ed è anche l’agonia dell’umanità.

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Egli è stato un uomo coraggioso nel cercare i giovani e nel par-lare ai giovani. All’inizio del suo pontificato sembrava che la Chiesa non riuscisse più a intercettare il linguaggio dei giovani e non avesse più la credibilità presso le nuove generazioni. Giovanni Paolo II non ha accettato la fuga o la politica dello struzzo. egli sapeva che i gio-vani, senza Cristo, non avrebbero mai potuto trovare il senso della vita e non avrebbero mai potuto assaporare la verità affascinante dell’amore, che è dono di sé e non capriccio che tutto e tutti piega a sé. Il Papa ha cercato i giovani e i giovani l’hanno sentito amico: amico vero, amico sincero, amico che non scende a compromessi per avere audience, amico che non annacqua la proposta evangelica per diventare popolare, amico che non usa la demagogia per strappare gli applausi giovanili.

E i giovani… l’hanno applaudito con calore, con spontaneità, con manifestazioni di simpatia, che spiazzavano tutti coloro che avevano già previsto il funerale della Chiesa e l’estinzione del nome cristiano.

Una tappa decisiva fu l’incontro con i giovani al Parco dei Prin-cipi, a Parigi, il 1° giugno 1980: la veglia durò tre ore, fu una grande festa e un dialogo serrato con ragazzi e ragazze che facevano do-mande e il Papa rispondeva. Ma erano testi preparati, come quasi sempre. Tra gli altri andò al microfono un giovane e, con totale spontaneità, parlò così: “Io sono ateo. Rifiuto ogni credenza e ogni dogmatismo. Voglio dire inoltre che non combatto la fede di nes-suno, però non comprendo la fede. Santo Padre, in che credete? Perché credete? Che vale il dono della nostra vita e com’è quel Dio che adorate?”.

Dirà Giovanni Paolo a Frossard d’essersi subito accorto che le do-mande di quel giovane “non figuravano nella lista” che gli era stata consegnata. Le memorizzò e si propose di rispondere come poteva, improvvisando. Ma poi il “dialogo a cinquantamila voci” di quella serata lo distrasse ed egli non rispose a quel ragazzo, che aveva detto le cose più impegnative.

Tornato a Roma, Giovanni Paolo, “desolato per quella omis-sione”, scrive al cardinale Marty “per chiedergli di ritrovare quel giovane e di presentargli le mie scuse”. Il giovane viene rintracciato, le scuse sono accettate. Ma il Papa non dimentica quella sfida e praticamente fa di ogni suo incontro con i giovani un tentativo di risposta a quelle domande fondamentali, perché

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“oggi non è più possibile parlare della fede senza tener conto dell’incredulità”1.

I giovani hanno amato intensamente giovanni paolo II e l’hanno cercato come si cerca un padre che, all’opportunità, sa anche correg-gere, perché sa amare veramente e lealmente.

Mi vengono i brividi, quando ripenso a come accolse i giovani in Piazza San Pietro all’inizio della Giornata Mondiale della Gioventù, nell’agosto caldo dell’anno 2000! Li apostrofò con la sua voce an-cora robusta e disse: “Chi cercate?”. ricordo che anche noi Vescovi restammo sorpresi e catturati dalla forza di questa domanda. e il Papa subito chiarì che non voleva abbassare la proposta per conqui-stare i giovani, ma coraggiosamente li invitava ad alzarsi per dare dignità e significato alla loro vita.

e i giovani capirono che quel “vecchio” conosceva il segreto della vita giovanile e si fecero attenti e divennero pensosi.

e la sera della lunga veglia di preghiera nella spianata immensa di Tor Vergata, accadde un altro fatto che non va dimenticato, perché è un segno del singolare rapporto che si era stabilito tra il papa e i gio-vani. Mentre l’assemblea dei giovani dei cinque continenti riempiva di canti il cielo sereno di Roma, improvvisamente un giovane saltò come una gazzella, superò tutte le linee di guardia, sfuggì alla presa di un robusto poliziotto… e riuscì ad avvicinarsi al Papa: il Vecchio e il giovane si guardarono per un istante e poi si abbracciarono con un’intensità con cui un padre abbraccia il proprio figlio. L’emozione si diffuse come un’onda nel cuore di tutti! Io piansi!

È stato, infine, un uomo coraggioso nella stagione difficile della malattia e del momento della morte.

Durante la malattia, che lentamente e progressivamente privava giovanni paolo II delle sue caratteristiche più geniali e più apprez-zate, Egli non volle nascondesi. Gli dovette costare tantissimo, ma non accettò che un velo lo proteggesse davanti agli occhi indiscreti

1 l. aCCaTToli, Giovanni Paolo - La prima biografia completa, san Paolo, Milano 2006, pg. 180.

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della gente: visse pubblicamente la malattia e la trasformò in un pul-pito che commosse tutta l’umanità.

Da più parti si levavano voci insistenti e irriguardose che chie-devano le dimissioni del papa: e questo fatto penso che gli abbia procurato autentiche ferite al cuore.

Ma giovanni paolo II decise di non scendere dalla Croce e di spendere se stesso fino all’ultima briciola delle sue forze: e così il suo apostolato fu meno efficiente, ma più efficace. Lo rivedo ancora quando, nell’ultimo mercoledì della sua vita, si affacciò alla finestra del suo appartamento. Tentò più volte di parlare, concentrò le forze per dare voce ai sentimenti che aveva nel cuore: ma la voce non uscì dalle sue labbra tremanti. Eppure quel mercoledì fu uno dei momenti più intensi, più profondi e più toccanti del suo lungo magistero: con l’eloquenza del silenzio, il Papa disse a tutti che, per rassomigliare a Gesù, dobbiamo amare fino al segno estremo, fino a dare tutta la vita per Colui che ha dato la vita per noi.

Dove trovava questo coraggio?lo trovava nella fede nutrita di continua preghiera. Mi hanno rac-

contato che, durante i ripetuti e faticosi viaggi per il mondo intero, giovanni paolo II al mattino si alzava prima degli altri e si prostrava in preghiera davanti al tabernacolo: e, come Mosè, il suo volto si impregnava di luce.

Il Card. Andrea Deskur, amico del Papa fin dagli anni della giovi-nezza, mi ha riferito che, dovendo ospitare il Card. Wojtyla durante le sue frequenti permanenze romane, si vide costretto a sostituire il pavimento della cappella. Il futuro Papa, infatti, più volte dall’amico era stato sorpreso in preghiera disteso per terra sul freddo pavimento. Il Card. Deskur, per evitare un possibile e irrevocabile danno alla salute dell’indomabile “orante”, sostituì le mattonelle con il legno.

E concludo con un doveroso accenno alla devozione mariana di Giovanni Paolo II. Gli anni 1965-1975 sono stato gli anni dell’in-verno mariano: sembrava che improvvisamente tanti (troppi!) faces-sero a gara nell’emarginare la Madonna per ridare (così si diceva) la centralità a Gesù Cristo. Il discorso era semplicemente pretestuoso, perché il Figlio e la Madre non sono alternativi ma correlativi. E giovanni paolo II ha ridato a Maria il suo posto nella Chiesa accanto a Gesù! È partendo da Gesù, infatti, che si scopre Maria; è partendo

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da Gesù, che si avverte la presenza della Madre e la sua inelimina-bile missione: che non è quella di sostituirsi al Figlio bensì quella di portarci a Lui!

In Giovanni Paolo II c’è stata una caratteristica, una tonalità, una sensibilità tutta particolare in rapporto alla presenza e alla missione della Madonna.

Il suo stemma episcopale e pontificale era una vera carta d’iden-tità: la “M”, che si stagliava sullo sfondo azzurro, veniva commen-tata dal grido del figlio verso la Madre: “Totus tuus”.

Com’è bello tutto questo: bello umanamente e bello cristiana-mente!

Scrutando i passi e i gesti, meditando i discorsi e i documenti di giovanni paolo II si avverte che l’affetto per Maria era una sor-gente d’ispirazione che caratterizzava il suo cammino nella sequela di gesù.

Il 4 giugno 1979, come primo Papa-pellegrino a Jasna Gòra, Egli affidò la Chiesa a Maria, pronunciando parole commosse e toccanti: “Quanti problemi avrei dovuto, o Madre, presentarti in questo in-contro, elencandoli ad uno ad uno. Li affido tutti a Te, perché Tu li conosci meglio di noi e di tutti prendi cura.

Lo faccio nel luogo della grande consacrazione, dal quale si abbraccia non soltanto la Polonia, ma tutta la Chiesa nelle dira-mazioni dei paesi e dei continenti: tutta la Chiesa nel Tuo Cuore materno. La Chiesa intera, di cui sono il primo servitore, Ti offro e affido qui con immensa fiducia, o Madre”.

Nel Suo itinerario instancabile attraverso i vari continenti, il Papa ha sempre tenuto lo sguardo fisso su Maria: da Lei ha imparato e an-nunciato la bellezza della fedeltà al Signore e al Suo Vangelo; da Lei ha ascoltato e trasmesso la speranza del Magnificat; da lei ha ap-preso l’orientamento cristologico di tutta l’attività pastorale, perché Maria continuamente ci ripete: “Qualunque cosa Gesù vi dirà, fa-tela!” (Gv 2, 5).

A questo punto diventa chiaro e commovente il gesto del papa che, dopo il drammatico attentato del 13 maggio 1981, va a Fatima a ringraziare la Madre, consegnandoLe la pallottola mortale, che però non è riuscita ad uccidere; diventa chiaro il continuo pellegrinaggio del Papa verso i Santuari mariani, dove “si è come contagiati dalla fede di Maria” (Lettera per il VII centenario lauretano); diventa

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chiaro e luminoso il gesto del Papa, che stringe tra le mani la corona del Rosario per sentirsi aggrappato alla solidità e alla tenerezza della Madre; diventa chiara la fedeltà alla recita dell’ ”Angelus” che il Papa ha portato sulle piazze, sui monti e nei crocicchi del mondo intero.

Anche in questo (nell’indicarci la ragione vera e non facoltativa della devozione Mariana), Giovanni Paolo II è stato un uomo fedele, un servo autentico e coraggioso della verità, così come i Vangeli ce l’hanno consegnata.

Per questo motivo oggi la nostra gratitudine è ancora più forte e più convinta. e ogni volta che stringiamo la corona del Santo ro-sario e recitiamo l’Ave Maria, esca dal nostro cuore un’esclama-zione spontanea: “Totus tuus, Maria!”.

È l’eredità mariana, che ci ha lasciato Giovanni Paolo II.

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Una conoscenza anche superficiale del magistero di giovanni paolo II mostra quanto sia difficile offrirne una lettura sinte-

tica: lo impedisce non solo la mole di testi prodotti nel suo lunghissimo pontificato, ma anche la grande varietà di temi e suggestioni, la complessa articolazione della sua produ-zione che facilmente rischia di essere ricon-dotta in unum in forma schematica ed inca-pace di renderne tutta la ricchezza e fecondità.

Per questi motivi, il presente contributo si concentra su un am-bito ben delineato dell’insegnamento del Papa, individuato da due criteri, uno interno al corpus magisteriale e l’altro suggerito da una circostanza storica, di non poca importanza nel presente della vita della Chiesa.

Siamo, infatti, alla vigilia della commemorazione del cinquante-simo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II che, insieme al pontificato wojtyliano, rappresenta l’evento storico più significa-tivo della vita ecclesiale dell’ultimo secolo. D’altro canto, quell’e-vento vide tra i suoi protagonisti proprio il vescovo K. Wojtyła: egli

gilFredo Marengo*

*docente stabile di antropologia teologica presso il Pontificio istituto giovanni Paolo ii per studi su Matrimonio e Famiglia – roma.

lA SAPiEnzA dEllA cRocE nEl mAGiStERo di GiovAnni PAolo ii

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non solo prese parte a tutte le sessioni, ma intervenne in modo de-terminante in alcuni snodi decisivi dei lavori conciliari. In seguito si impegnò con grande energia nell’attuazione del concilio stesso, sia nella sua diocesi sia nel contesto della chiesa universale, soprattutto nella partecipazione ai Sinodi convocati proprio in continuità con il Vaticano II. Infine, dal 1978 al 2005 non mancò di ribadire costan-temente la consapevolezza che la cifra sintetica del suo ministero petrino si esprimeva nella realizzazione adeguata del Concilio me-desimo, come ebbe a dire alla fine della sua vita: «Devo dire che, in questi anni di pontificato, l’attuazione del Concilio è stata costante-mente in cima ai miei pensieri»1.

Su questo sfondo prende speciale rilievo il trittico delle tre en-cicliche (Redemptor hominis, Dives in misericordia, Dominum et vivificantem) che nella loro unità possono essere lette come un con-tributo organico che giovanni paolo II offre – a partire dal primo testo, programmatico del pontificato, a proposito dell’attuazione e recezione del Concilio2.

Alla luce di queste considerazione si comprende che il tema della presente comunicazione si precisa come riflessione sulla sapienza crucis nelle tre encicliche di giovanni paolo II nella prospettiva della recezione del magistero conciliare, avendo come segnavia l’in-terpretazione che egli stessa ne ha dato:

«entriamo in questo modo in contatto con il mistero della redenzione dell’uomo, e in questo approccio ci guida lo Spirito Santo. È Lui a per-metterci di penetrare nelle profondità del mysterium Crucis e di chinarci al tempo stesso sull’abisso del male, di cui l’uomo risulta essere artefice e vittima già all’inizio della sua storia. Esattamente a questo si riferisce l’e-spressione “convincere il mondo in quanto al peccato”. e lo scopo di tale “convincimento” non è la condanna del mondo. Se la Chiesa, in virtù dello Spirito Santo, chiama il male per nome, lo fa soltanto al fine di indicare all’uomo la possibilità di vincerlo, aprendosi alle dimensioni dell’“amor Dei usque ad comtemptum sui”. E questo è il frutto della misericordia di-

1 gioVAnni PAolo ii, Alzatevi, Andiamo!, Mondadori, Milano 2004, 139.2 Cf g. mArengo, Giovanni Paolo II e il Concilio. Una sfida e un compito,

Cantagalli, siena 2011.

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vina. In Gesù Cristo, Dio si china sull’uomo per tendergli la mano, per rialzarlo e aiutarlo a riprendere con forza nuova il cammino […] Ho fatto un breve cenno alle tre encicliche che mi sembrano l’opportuno commento a tutto il magistero del Concilio Vaticano II, e anche alle complesse situa-zioni del momento storico in cui ci è dato vivere»3..

l’insegnamento offerto da gio-vanni paolo II

nella prima enciclica è un appassionato invito alla riscoperta della centralità, per la vita della Chiesa e del mondo, del singolare rapporto tra Cristo ed ogni uomo4.

Questa tematica viene sviluppata in recto soprattutto nella se-conda parte dell’enciclica, ma da essa trae slancio tutto il movi-mento riflessivo che la pervade. Lo segnala, tra l’altro, la ricorrenza di questo testo del Vaticano II «con la sua incarnazione il Figlio di Dio si è unito in un certo modo ad ogni uomo»5 che ritorna significa-tivamente nei paragrafi iniziali di ognuna delle diverse parti dell’en-ciclica, quasi a volerne rappresentare un esplicito leit-motiv6.

In questa parte il papa sviluppa quanto annunciato nei passi ini-ziali del testo e punta a mostrare le ragioni per le quali la categoria di “via” risulta particolarmente adeguata a dire insieme il mistero di Cristo e quello dell’uomo, dall’interno della loro reciproca implica-zione.

l’articolazione di questo capitolo mostra con chiarezza come il magistero del Vaticano II, e soprattutto il testo di Gaudium et spes

3 Cf gioVAnni PAolo ii, Memoria e identità. Conversazioni a cavallo dei millenni, rizzoli, Milano 2005, 17-18.

4 l’eco di novità che suscitò l’enciclica è documentato, tra gli altri, in aA. VV., Davanti alla redemptor hominis. Testimonianze apparse su “L’Osservatore Romano”, Jaca Book, Milano 1979; A. FiliPPi, Redemptor hominis: una svolta, in «il regno. attualità» 7 (1979), 145-149.

5 gs 22.6 Cf nn° 8; 13; 18. in qualche modo, seppure implicito, il tema è presente

nelle prime frasi dell’enciclica quando giovanni Paolo ii riferisce la sua risposta di accettazione all’elezione a sommo Pontefice (n° 2).

1. la “via”, cristo e l’uomo.

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siano costantemente presenti a Giovanni Paolo II, secondo la speci-fica sensibilità con quale egli vi si è rapportato.

Un’interessante chiave di lettura è offerta dalla lettura in paral-lelo dell’importante intervento pronunciato durante la discussione in aula che precedette l’approvazione finale della costituzione con-ciliare sulla chiesa e il mondo contemporaneo7. Sorprende la stretta vicinanza d’ispirazione dei due testi: quanto nel 1965 era sugge-rito come fondamentale esigenza di cui la futura Gaudium et spes avrebbe dovuto farsi carico, ritorna tra gli elementi fondativi della riflessione presente in Redemptor hominis.

In quella circostanza egli chiedeva che venisse maggiormente ap-profondita la prospettiva soteriologica della costituzione pastorale, senza la quale, a suo modo di vedere, sarebbe stato impossibile uno sguardo cristiano alla creazione, ovvero al “mondo”: non si poteva e doveva prescindere dall’assunzione che di essa è stata fatta nella Croce di Cristo8. Mancare a questo elemento forte della fede cri-stiana comporterebbe, infatti, un insostenibile equivoco sia nella comprensione del “mondo”, sia nel tracciare la prospettiva squisita-mente pastorale della costituzione medesima9.

per tali ragioni il testo in discussione in aula veniva giudicato da K. Wojtyła carente di “realismo cristiano”, dal momento che gli pa-reva più preoccupato di guardare al mondo «come dovrebbe essere» e non come veramente esso sia; dunque la sottaciuta centralità di Cristo Redentore nella riflessione antropologica di Gaudium et spes, poteva secondo lui rappresentare un elemento di insuccesso delle in-tenzioni stesse con le quali il Vaticano II aveva scelto di rivolgersi al mondo contemporaneo: ritrovare una strada sulla quale incontrare,

7 Cf Karol Wojtyła: uno stile conciliare. Gli interventi di K. Wojtyła al Concilio Vaticano II, edizione, studio preliminare e introduzione di g. riChi Alberti, Marcianum Press, Venezia 2012, 348-355.

8 «ad hoc non sufficit dicere tantum, quod in opera redemptionis opus Creationis assumitur, ut in n. 50. oportet extollere, quod haec assumptio in Cruce consumata est. iste autem modus divinus assumendi opus Creationis in opere redemptionis per Crucem determinavit aliqualiter se pro semper christianam significationem “mundi”» (Ibid., 348).

9 «opus redemptionis constituit elementum proprium et constitutivum schematis “de ecclesia in mundo”, in quantum hoc schema pastoralis est. non possumus celare redemptionem in una propria finalitate, secus non datur in schemate nec veritas de mundo, nec veritas pastoralis» (Ibid., 350).

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condividere e offrire agli uomini del proprio tempo il rinnovato an-nuncio della salvezza cristiana.

Non è casuale che, impegnato nella realizzazione del Concilio nella propria diocesi, l’arcivescovo di Cracovia ritorni costante-mente su questi temi. In particolare, egli si mostra persuaso che solo il complesso del mistero cristiano, soprattutto la rivelazione del Dio Trinità e della Croce di Cristo, siano la prospettiva dalla quale è pos-sibile guardare alla Creazione, ovvero al mondo10.

Sinteticamente sono quattro i temi che l’enciclica pone in primo piano, secondo un percorso teso a indicare l’intrinseca e reciproca pertinenza di ognuno dei passi proposti. La partenza è affidata al registro della relazione tra Creazione e redenzione che termina di-rettamente con la contemplazione dell’agire redentivo di Cristo per la riconciliazione degli uomini col Padre. Segue, in terza posizione, un paragrafo d’intonazione antropologica cui è affidato il compito di mostrare le ragioni della singolare pertinenza del mistero di Cristo alla vicenda umana. Infine l’enciclica ritorna al tema del “dialogo”, presentato come modalità con la quale la Chiesa è chiamata a risco-prire se stessa nella sua missione nel mondo11.

A ben vedere, l’elemento riflessivo forte che comanda tutto lo sviluppo è enunciato nel paragrafo dedicato alla relazione tra Crea-zione e redenzione in cui giovanni paolo II ritorna ad approfondire quanto, da arcivescovo di Cracovia, invitava a ribadire e chiarire nel testo di Gaudium et spes.

Su questo sfondo, si apprezza meglio il dettato di Redemptor hominis ove la proclamazione di Cristo Redentore è l’orizzonte nel quale è posto lo sguardo all’uomo creato e che solo da questi è rag-giunto nel suo “cuore”12, giacché Egli «il Figlio stesso di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo». È importante osservare che non appena l’enciclica si sofferma a proclamare la singolare partecipa-

10 Cf K. WoJtyłA, Alle fonti del rinnovamento. Studio sull’attuazione del Concilio VaticanoSecondo, a cura di F. FeliCe, rubettino, soveria Mannelli 2007 (i ed. polacca: Krakow1972; i ed. italiana: Città del Vaticano 1981), 51. 67.

11 l’articolazione tra “dialogo” e missione venne sottolineata con forza anche da J. rAtzinger, Chiesa aperta al mondo?, in id., il nuovo popolo di Dio (Biblioteca di teologia contemporanea 7), trad. it., Queriniana, Brescia 19843, 316-319.

12 rH 8.

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zione realizzata da Cristo all’esistenza umana, così come la espone GS 22, sente l’esigenza di ribadire subito che

«riflettendo nuovamente su questo stupendo testo del Magistero conciliare non dimentichiamo, neanche per un momento, che Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente, è diventato la nostra riconciliazione presso il Padre» (RH 9).

Pare chiara la volontà di sottolineare l’esigenza di un’assunzione piena della prospettiva cristocentrica nei confronti dell’esistenza dell’uomo che potrebbe venire meno se all’enfasi sull’opera dell’In-carnazione non seguisse la proclamazione della redenzione com-piuta nella Croce e risurrezione di gesù Cristo.

La riflessione di Giovanni Paolo II sembra suggerire un percorso in grado di dare spazio a quello specifico «antropocentrismo» che procede dal cristocentrismo di Gaudium et spes13. Infatti, se la carne umana, assunta dal Figlio, è ormai l’unico luogo ove l’uomo può accedere a Dio Padre e ritrovare in tale accesso il compiuto signifi-cato di se stesso e della realtà, ogni cammino di ricerca della verità intrapreso dall’uomo fuori dallo spazio della sua carne umana, non può che mancare il proprio obiettivo adeguato.

Contemporaneamente, il Papa avverte che questa stessa «carne» dell’uomo è stata, una volta per tutte, fatta propria dal Figlio di Dio nell’atto della Sua incarnazione. Ciò significa che l’uomo medesimo non può guardare alla propria umanità prescindendo dalla definitiva parentela che si stabilisce tra sé e Gesù Cristo in forza di quell’e-vento.

per questa ragione si comprende quanto non basti un generico appello alla considerazione della propria «carne», della propria uma-nità creata per consentire all’uomo di accedere all’evento di Gesù Cristo, come compiuta rivelazione della propria esistenza. D’altra parte, in forza della prerogativa di Gesù di essere la “verità incar-nata”, l’uomo può guardare a se stesso per riconoscere Cristo, a con-dizione che tale sguardo contemporaneamente partecipi di quello

13 A. VAlumelA, The Christ-Centred Man in the Encyclicals of Pope John Paul II, Teresianum, roma 1986.

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che lo stesso Figlio di Dio, unitosi in un certo modo ad ogni uomo, rivolge a ciascuno14.

A nostro parere, la chiave interpretativa decisiva per comprendere questa delicata articolazione tra antropocentrismo e cristocentrismo nella riflessione di K. Wojtyła prima e Giovanni Paolo II in seguito, sta – di nuovo – nella modalità con la quale egli guarda alla relazione tra Creazione e redenzione15.

14 «la Chiesa vive queste realtà, vive di questa verità sull’uomo, che le permette di varcare le frontiere della temporaneità e, simultaneamente, di pensare con particolare amore e sollecitudine a tutto ciò che, nelle dimensioni di questa temporaneità, incide sulla vita dell’uomo, sulla vita dello spirito umano, in cui si esprime quella perenne inquietudine, secondo le parole di s. agostino: “Ci hai fatto, o signore, per te ed è inquieto il nostro cuore, finché non riposa in te». in questa inquietudine creativa batte e pulsa ciò che è più profondamente umano: la ricerca della verità, l’insaziabile bisogno del bene, la fame della libertà, la nostalgia del bello, la voce della coscienza. la Chiesa, cercando di guardare l’uomo quasi con «gli occhi di Cristo stesso”, si fa sempre più consapevole di essere la custode di un grande tesoro, che non le è lecito sciupare, ma deve continuamente accrescere» (rH 18).

15 È lo stesso Pontefice a suggerire questo elemento come nucleo dell’enciclica, quando diede l’annuncio della sua imminente pubblicazione: «Verso Cristo signore, che è il “redentore dell’uomo”, “Redemptor hominis”, desidero che si rivolga lo sguardo della Chiesa e del mondo nella mia prima enciclica, che reca la data del 4 marzo del corrente anno, prima domenica di Quaresima e che sarà resa pubblica giovedì prossimo. Ho cercato di esprimere in essa ciò che ha animato e anima continuamente i miei pensieri e il mio cuore sin dall’inizio del pontificato che, per inscrutabile disegno della Provvidenza, ho dovuto assumere il 16 ottobre dell’anno scorso. l’enciclica contiene quei pensieri che allora, all’inizio di questa nuova via, urgevano con particolare forza nel mio animo, e che senz’altro, già anteriormente, erano andati maturando in me, durante gli anni del mio servizio sacerdotale, e poi di quello episcopale. ritengo che, se Cristo mi ha chiamato così, con tali pensieri, con tali sentimenti, è perché ha voluto che questi richiami dell’intelletto e del cuore, queste espressioni di fede, di speranza e di carità trovassero risonanza nel mio nuovo ed universale ministero, sin dal suo inizio. Pertanto, come vedo e sento il rapporto tra il Mistero della Redenzione in Cristo Gesù e la dignità dell’uomo (corsivo nostro), così vorrei tanto unire la missione della Chiesa col servizio all’uomo, in questo suo impenetrabile mistero. Vedo in ciò il compito centrale del mio nuovo servizio ecclesiale. se lo confido oggi a voi, è perché vorrei domandare con voi alla Madre della Chiesa e sede della sapienza di accogliere questo mio primo lavoro per il bene della Chiesa e dell’uomo dei nostri tempi. affinché insieme si possa guardare Cristo in questa particolare ora della storia, alzando a lui lo sguardo della nostra fede e della nostra speranza» (gioVAnni PAolo ii, Angelus, 11 marzo 1979, in id., insegnamenti ii [1979], libreria editrice Vaticana, Città del Vaticano 1979, 516).

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Infatti, per il Pontefice l’unico uomo esistente, storicamente rile-vante, è l’uomo redento da gesù Cristo16. A partire da questa unicità si può comprendere la qualità dell’appello all’orizzonte creaturale dell’esistenza umana. Esso non è funzionale alla tematizzazione di un generico humanum, dall’analisi del quale si dovrebbe, in un se-condo momento, guadagnare la pertinenza ad esso del novum cri-stiano. In altri termini non pare che giovanni paolo II legga il nesso Creazione e redenzione secondo lo schema anticipazione/apertura – compimento, per il quale la novità della rivelazione cristiana tro-verebbe la sua ragion d’essere nella capacità di rispondere adegua-tamente agli interrogativi e alle aporie che, altrimenti, la vita umana dovrebbe accettare come cifra del proprio limite e della propria in-capacità ad autorealizzarsi appieno.

piuttosto tale orizzonte creaturale viene evocato per ribadire che fuori dalla prospettiva della redenzione esso appare quasi inattin-gibile nella sua fisionomia17. Si comprende allora che la Creazione non è una mera “premessa” alla Redenzione: piuttosto quest’ultima è la condizione necessaria senza la quale, teologicamente parlando, non si può accogliere e conoscere la possibilità stessa dell’esistenza dell’uomo e del mondo, secondo il piano con il quale Dio li ha voluti e posti in essere.

Alla luce di queste osservazioni, si può riguardare in modo sin-tetico il rilievo dato alla contemporanea attribuzione della nozione di “via” della Chiesa a Cristo e all’uomo, nella prospettiva di quel

16 «Qui, dunque, si tratta dell’uomo in tutta la sua verità, nella sua piena dimensione. non si tratta dell’uomo “astratto”, ma reale, dell’uomo “concreto”, “storico”. si tratta di “ciascun” uomo, perché ognuno è stato compreso nel mistero della redenzione, e con ognuno Cristo si è unito, per sempre, attraverso questo mistero. ogni uomo viene al mondo concepito nel seno materno, nascendo dalla madre, ed è proprio a motivo del mistero della redenzione che è affidato alla sollecitudine della Chiesa […] l’uomo così com’è “voluto” da dio, così come è stato da lui eternamente «scelto», chiamato, destinato alla grazia e alla gloria: questo è proprio “ogni” uomo, l’uomo “il più concreto”, “il più reale”; questo è l’uomo in tutta la pienezza del mistero di cui è divenuto partecipe in gesù Cristo, mistero del quale diventa partecipe ciascuno dei quattro miliardi di uomini viventi sul nostro pianeta, dal momento in cui viene concepito sotto il cuore della madre» (rH 13).

17 Ibid., cf anche rH 14.

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peculiare antropocentrismo fondato sulla centralità del mistero di Cristo, Figlio di Dio incarnato e Redentore dell’uomo.

Pare di poter dire che l’accento originale della riflessione di Gio-vanni paolo II vada nella direzione di rimarcare un’evidente preoc-cupazione metodologica di cui tale antropocentrismo sembra farsi carico.

Il Papa, sulla scorta del contributo offerto da Gaudium et spes e di tutta la fecondità dei lavori conciliari, invita la Chiesa ad assu-mere un assetto che la renda veramente capace di incontrare l’uomo contemporaneo, di accoglierlo nella drammaticità del suo vivere, di donargli le ragioni del proprio annuncio salvifico18.

nel presentare Dives in mi-s e r i c o rd i a

come la seconda anta di un trittico trinitario che sviluppa organicamente la prospettiva programmatica annunciata in Redemptor hominis, Giovanni Paolo II sembra preoccupato di fare vedere che laddove il percorso della modernità ha attinto i suoi esiti più tragici (le ideologie del male), l’unica possibile risposta che la fede cristiana può offrire (il mistero della misericordia del Padre) coincide con il massimo della rive-lazione del volto di Dio e quindi con la pienezza della conoscenza che l’uomo ne può avere. Ne viene un’interessante indicazione di metodo: quando la riflessione ecclesiale non perde mai di vista la specifica temperie storica in cui è collocata (i segni dei tempi), viene provocata ad approfondire la consapevolezza dello specifico della sua identità.

Al massimo dell’opposizione tra l’uomo e Dio, può rispondere solamente la novità assoluta di un Dio che si rileva come Padre pro-nunciando nel Figlio, morto e risorto, il suo sì irrevocabile all’uomo nell’opera della Sua misericordia.

18 Cf l. bini, L’uomo contemporaneo nell’enciclica Redemptor hominis, in «aggiornamenti sociali» 31 (1980), 337-354.

2. croce e misericordia

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Il tema viene introdotto con un esplicito richiamo al dettato di Redemptor hominis19, in particolare alla «dimensione divina della redenzione»20. In essa è data all’uomo la possibilità di attingere, at-traverso la vicenda storica dell’agire salvifico del Padre in Gesù, al volto misterioso di Dio e del suo amore:

«A questo punto delle nostre considerazioni, occorrerà avvicinarci ancora di più al contenuto dell’enciclica Redemptor hominis. Se infatti la realtà della redenzione, nella sua dimensione umana, svela la grandezza inau-dita dell’uomo, che meritò di avere un così grande Redentore, al tempo stesso la dimensione divina della redenzione ci consente, direi, nel modo più empirico e «storico», di svelare la profondità di quell’amore che non indietreggia davanti allo straordinario sacrificio del Figlio, per appagare la fedeltà del Creatore e Padre nei riguardi degli uomini creati a sua immagine e fin dal «principio» scelti, in questo Figlio, per la grazia e per la gloria» (DM 7).

Questo elemento di continuità con la precedente enciclica viene accentuato nella ripresa della prospettiva storico-salvifica (ci con-sente, direi, nel modo più empirico e «storico») che, questa volta punta a gettare uno sguardo sul mistero stesso della vita di Dio, dopo essere stata impiegata per segnalare la singolarità dell’esistenza dell’uomo.

Tutta la trattazione che segue si mantiene rigorosamente fedele a questo assunto: dal momento che il mistero pasquale si pone come vertice insuperabile della rivelazione ed attuazione della miseri-cordia divina (DM 7), esso rappresenta contemporaneamente il cul-mine della manifestazione di Dio agli uomini (DM 8).

Vengono poste le basi per dare corpo alla prospettiva sintetica enunciata nel paragrafo iniziale dell’enciclica: superare in chiave cristocentrica l’opposizione tra antropocentrismo e teocentrismo.

Tale superamento viene individuato nella realtà del mistero pa-squale ove la definitiva rivelazione dell’amore di Dio per gli uomini

19 dM 8.20 Cf rH 9.

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coincide con la compiuta manifestazione del Suo volto21. Si potrebbe dire che la modalità (forma) con la quale Dio, nella Pasqua del suo Figlio, guadagna la sua centralità (rivelando se stesso), coincide con la maniera con la quale egli si dichiara per l’uomo fino al sacrificio della Croce e ne riconosce la singolare centralità nella Creazione22. In questa linea il principio cristocentrico, già enunciato all’inizio dell’enciclica, rende possibile non solo tenere insieme i due poli, l’uomo e Dio, superandone un’equivoca opposizione, ma soprattutto getta una luce di novità sulla fisionomia che entrambi guadagnano dalla rivelazione cristiana.

Sul versante antropologico, l’enciclica si richiama (riprenden-done i temi centrali) al contributo offerto da Redemptor hominis, ribadendo la centralità dell’uomo nella missione della Chiesa, così come essa emerge da un rigoroso orizzonte cristocentrico.

La medesima prospettiva si mostra, in questa enciclica, in grado di illuminare il peculiare sguardo al mistero di Dio del quale è por-tatrice. Tale esito è ottenuto combinando la prospettiva giovannea («Chi ha visto me ha visto il Padre »[DM 1]) con la centralità del mistero pasquale nel piano della salvezza. Così procedendo, il Papa invita a riconoscere nel volto del Crocifisso Risorto la pienezza della rivelazione del padre. Se nella pasqua l’amore intratrinitario del Padre e del Figlio dà ragione del sacrificio di quest’ultimo nel quale prende forma la misericordia divina verso l’uomo, si elimina ogni soluzione di continuità tra la manifestazione della realtà più

21 «Proprio questa redenzione è l’ultima e definitiva rivelazione della santità di dio, che è la pienezza assoluta della perfezione: pienezza della giustizia e dell’amore, poiché la giustizia si fonda sull’amore, da esso promana e ad esso tende […] Credere nel Figlio crocifisso significa «vedere il Padre», significa credere che l’amore è presente nel mondo e che questo amore è più potente di ogni genere di male in cui l’uomo, l’umanità, il mondo sono coinvolti» (Ibid.); «il mistero pasquale è Cristo al vertice della rivelazione dell’inscrutabile mistero di dio. Proprio allora si adempiono sino in fondo le parole pronunciate nel cenacolo: “Chi ha visto me, ha visto il Padre”. infatti Cristo, che il Padre «non ha risparmiato» in favore dell’uomo -e che nella sua passione e nel supplizio della croce non ha trovato misericordia umana, nella sua risurrezione ha rivelato la pienezza di quell’amore che il Padre nutre verso di lui e, in lui, verso tutti gli uomini» (dM 8).

22 Cf gs 24. cfr. AA.VV., E si sporcò le mani... Prossimità ed estraneità. atti del iii convegno internazionale sulla “dives in misericordia” (Collevalenza 31 agosto-3 settembre 1983), ed. l’amore Misericordioso, Collevalenza 1984.

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intima e segreta della vita di Dio e il suo dichiararsi per la salvezza dell’uomo.

La Croce, luogo della definitiva rivelazione della misericordia di Dio, manifesta una speciale prossimità della vita divina all’uomo: essa è un «tocco dell’eterno amore sulle ferite più dolorose dell’esi-stenza terrena dell’uomo» (DM 8) e, contemporaneamente, realizza la compiuta manifestazione del volto di Dio all’uomo. nel mistero pasquale si adempie fino in fondo la parola di Gesù per la quale “Chi ha visto me ha visto il Padre”.

La doverosa centralità da riconoscersi a Dio viene guadagnata, in parallelo con quanto detto a proposito dell’uomo, alla luce della sin-golarità del mistero di Gesù Cristo, Redentore dell’uomo. Ne con-segue che la condizione di possibilità del superamento dell’opposi-zione tra Dio e l’uomo, indicata come nodo centrale della modernità e alla quale l’enciclica vuole dare una risposta, risiede nell’andare oltre ogni generica assunzione dei due termini proposti: sono l’uomo in Cristo e Dio, rivelato nel Cristo pasquale i due elementi che pos-sono essere riconciliati in una loro peculiare, reciproca centralità.

Una delle conseguenze più interessanti di questa rilettura cristo-centrica della rivelazione del volto di Dio è rappresentata dalla luce che essa proietta sulla delicata articolazione tra il mistero della Cre-azione e quello della Redenzione. Infatti, nella misura in cui il volto di Dio si manifesta secondo la forma del compimento del mistero pasquale, ne viene la possibilità di gettare uno sguardo nuovo sull’a-gire creante di Dio: esso risulta intellegibile nella sua integralità pro-prio dall’interno di quel mistero.

nella prospettiva del superamento dell’opposizione tra Dio e l’uomo, guadagnata cristologicamente nella rivelazione del volto paterno e misericordioso di Dio, si mostra che solo a questo livello si può riconoscere la qualità propria della relazione che il Creatore stabilisce con l’uomo. essa non si limita ad una semplice chiamata all’esistenza, ma prevede fin «dal principio» la chiamata alla grazia e alla gloria23. La pienezza della rivelazione in Cristo permette, così, di avere chiaro che non è adeguato pensare che Creazione e Reden-zione esprimano due successive modalità con le quali Dio si rapporta

23 dM 4; 7.

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con l’umanità. Si tratta, piuttosto, di considerare la profonda unità di un’unica relazione con l’uomo, tanto che l’enciclica, per due volte, sottolinea che la Croce di Cristo è intimamente implicata nell’unico cammino che è offerto all’uomo, fin dalla sua chiamata all’esistenza:

«La croce collocata sul Calvario, su cui Cristo svolge il suo ultimo dialogo col Padre, emerge dal nucleo stesso di quell’amore di cui l’uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, è stato ratificato secondo l’eterno disegno divino […] Proprio sulla via dell’eterna elezione dell’uomo alla dignità di figlio adottivo di Dio, sorge nella storia la croce di Cristo, Figlio unigenito, che, come “luce da luce, Dio vero da Dio vero” (Credo), è venuto a dare l’ultima testimonianza della mirabile alleanza di Dio con l’umanità, di Dio con l’uomo – con ogni uomo. Questa alleanza, antica come l’uomo – risale al mistero stesso della creazione – e ristabilita poi più volte con un unico popolo eletto, è ugualmente l’alleanza nuova e definitiva, stabilita là, sul Calvario, e non limitata ad un unico popolo, ad Israele, ma aperta a tutti e a ciascuno» (DM 7).

L’unica relazione stabilita tra Dio e l’uomo, pienamente mani-festata nel mistero pasquale, è capace di delineare l’unità del piano salvifico divino e permettere quindi una migliore articolazione tra Creazione e redenzione.

l’aspetto più interessante di questo accento tocca direttamente l’orizzonte di base nel quale questo testo del magistero di giovanni Paolo II è inserito. Infatti, la preoccupazione fondamentale è l’as-sunzione e lo sviluppo propositivo dell’insegnamento conciliare, so-prattutto per quanto compete alla relazione tra la Chiesa e il mondo. Una simile lettura del piano salvifico è in grado di mettere in luce le ragioni per le quali la singolarità dell’evento cristiano è dotato, di per se stesso, di un’obiettiva universalità. Essa emerge dal fatto che nel mistero del Cristo Morto e Risorto, rivelatore del volto trinitario di Dio, si può attingere alle ragioni proprie dell’esistenza dell’uomo.

D’altro canto, la forte enfasi data alla centralità del mistero pa-squale suggerisce una lettura dell’unità del piano salvifico che resta al riparo da ogni confusione tra lo status di creatura assegnato all’uomo e la sua chiamata alla figliolanza adottiva in Gesù Cristo. Sebbene quest’ultima venga collocata fin all’inizio nelle ragioni che presiedono allo svolgersi del piano divino, essa accade fattualmente

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nella storia degli uomini solamente attraverso la Croce e la risur-rezione. In questo modo viene salvato, innanzitutto, l’elemento di storicità che presiede all’insuperabile modalità con la quale ciascun uomo, nella concretezza della sua esistenza può accedere alla parte-cipazione alla figliolanza divina in Gesù Cristo. Nello stesso tempo si evita che il dato della creazione venga assunto come una semplice premessa all’agire salvifico di Dio nella storia, secondo la tradizio-nale chiave interpretativa dell’opposizione natura-soprannatura24. la storia della teologia insegna come quest’ultima opzione abbia rappresentato un forte elemento di difficoltà nel mostrare la ragione-volezza della pretesa salvifica universale dell’evento di Gesù Cristo, soprattutto nella stagione della modernità. L’enciclica sembra pro-piziarne un esplicito abbandono a favore di uno sguardo all’eco-nomia salvifica profondamente unitario. In proposito il Papa afferma con forza che, di fronte all’obiettiva presenza del male nella storia dell’umanità, l’amore di Dio si fa misericordia in ragione di una re-lazione amorosa che Egli fin dal principio ha stabilito, come Padre, con la sua creatura25.

D’altra parte il rilievo assegnato al registro della “relazione” per-mette di offrire qualche ulteriore spunto di riflessione. Se si tiene sullo sfondo quanto è stato detto nella rilettura della parabola del Figliol prodigo, laddove le “ragioni” dell’amore misericordioso del padre sono collocate nella fedeltà a se stesso, al suo essere padre, si comprende meglio come l’enciclica tratta dell’unità del piano di-vino.

Infatti, se il mistero pasquale mostra nella relazione Padre-Figlio la compiuta manifestazione del volto di Dio, si comprende che tale relazione deve essere guardata come l’archetipo di ogni possibile rapporto che il medesimo Dio stabilisce con tutto ciò che è altro da sé. Di conseguenza anche la relazione fissata attraverso l’atto crea-tore non può essere inteso al di fuori di tale prospettiva. In forza di ciò appare incongrua una considerazione del vincolo creativo che

24 uno dei più complessi problemi della riflessione teologica moderna che ha avuto pesanti ricadute sull’antropologia cristiana, cfr. A. sColA - g. mArengo - J. PrAdes, La persona umana. Antropologia teologica (amateca 15), Jaca Book, Milano 20062, 25-66; 195-203.

25 Cf dM 8.

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non venga assunto nell’orizzonte della relazione padre e Figlio con tutte le conseguenze che tutto ciò comporta.

In primo luogo si tocca il luogo fondativo della rilettura del clas-sico registro dell’uomo creato come imago Dei intesa come imago Trinitatis: si tratta di uno dei temi antropologici più cari a giovanni Paolo II, ampiamente presente nel suo magistero. Sebbene qui non venga espressamente tematizzato, di esso si sottolinea l’esito nella vita umana: la chiamata alla partecipazione alla comunione trinitaria nella dignità di figlio adottivo26.

In secondo luogo si può rimarcare che tale prospettiva antropo-logica se, da un lato, dà forza all’affermazione dell’originaria re-lazionalità dell’esistenza umana, contemporaneamente ne propizia una considerazione che la libera da ogni generica interpretazione. Infatti, la relazione tra il Creatore e l’uomo deve essere riconosciuta secondo la linea padre-figlio, secondo la forma cristologica con cui essa viene manifestata. la rivelazione della misericordia di Dio con-duce l’uomo a riconoscersi come figlio nel Figlio.

In questo contesto emerge la logica del «meraviglioso scambio (admirabile commercium)»27 nella quale l’enciclica vede concen-trato tutta il senso della storia della salvezza. Conseguente al suo intento programmatico, il superamento dell’opposizione antropo-centrismo-teocentrismo, l’enciclica fissa nel desiderio del “dono di sé” la ragione profonda della decisione di Dio per l’uomo, creato e chiamato a partecipare alla sua vita.

La cifra antropologica centrale, che Giovanni Paolo II assume da Gaudium et spes, sembra attingere qui la sua fondazione cristolo-gica e trinitaria. Nel mistero dell’Incarnazione e della Redenzione, il Figlio assumendo in toto l’umanità, rivela nella logica del dono la fisionomia propria della vita divina e offre agli uomini la possibilità di parteciparne, appropriandosi di quanto è stato loro donato e ri-trovando in ciò il loro vero volto. Contemporaneamente il «cuore» dell’uomo, fatto per il dono di sé e per la misericordia apre la via a ri-

26 Ibid.27 Cf dM 7; 8.

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conoscere secondo la medesima prospettiva la rivelazione compiuta del mistero di Dio28.

Se si pone mente al percorso che attraversa e col-

lega tra di loro le tre encicliche, non è dif-ficile riconoscere nella

sezione centrale di Dominum et vivificantem, dedicata a «Lo Spirito che convince il mondo in quanto al peccato» una stretta parentela con i contenuti fondamentali di Dives in misericordia. Se in quel testo il tema del peccato rimaneva per lo più sullo sfondo, evocato in considerazione della fisionomia teologica ed antropologica della mi-sericordia, qui esso guadagna un’evidente centralità: questa sezione è tutta dedicata non tanto a descrivere il fenomeno del peccato, ma a mostrare in quale maniera la rivelazione cristiana, proprio per opera dello Spirito Santo, è capace di dire adeguatamente la realtà stessa del peccato.

Gli assi sui quali si sviluppa la riflessione di Giovanni Paolo II sono fondamentalmente due, strettamente articolati tra di loro. In primo luogo sta la coppia «peccato salvato» e «peccato condannato»29, cui si connette l’indicazione della centralità della Croce di Cristo come

28 «le parole del discorso della montagna: “Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia”, non costituiscono in un certo senso una sintesi di tutta la Buona novella, di tutto il “mirabile scambio” (admirabile commercium) ivi racchiuso, che è una legge semplice, forte ed insieme “dolce” dell’economia stessa della salvezza? Queste parole del discorso della montagna, facendo vedere nel punto di partenza le possibilità del “cuore umano” (“essere misericordiosi”), non rivelano forse secondo la medesima prospettiva il profondo mistero di dio: quella inscrutabile unità del Padre, del Figlio e dello spirito santo, in cui l’amore, contenendo la giustizia, dà l’avvio alla misericordia, che a sua volta rivela la perfezione della giustizia?» (dM 8).

29«lo spirito santo, mostrando sullo sfondo della Croce di Cristo il peccato nell’economia della salvezza (si potrebbe dire: “il peccato salvato”), fa com-prendere come sia sua missione “convincere” anche del peccato che è già stato giudicato definitivamente (“il peccato condannato”)» (deV 28).

3. lo Spirito, il mondo, il peccato.

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indispensabile elemento per potere comprendere che cosa sia la re-altà stessa del peccato30.

All’intersezione di questi due assi, l’enciclica individua lo speci-fico ruolo dello Spirito Santo che convince in quanto al peccato: è possibile sapere l’intrinseca peccaminosità del peccato (il cosiddetto peccato condannato) solo se la si traguarda a partire dall’opera di Cristo in Croce che da questo peccato salva.

Il primo elemento forte posto in evidenza è rappresentato dall’af-fermazione che, in qualunque forma esso si dia, il peccato risulta fondamentalmente connotato come rifiuto opposto a Cristo; l’argo-mentazione che conduce a questa tesi si nutre di una sintetica ripresa della complessa articolazione della nozione di mondo presente in Gaudium et spes che, come è noto, ha rappresentato un passaggio delicato del suo percorso di elaborazione cui l’allora Karol Wojtyła dedicò particolare attenzione31. riprendendo qui una descrizione realistica di un mondo gravato dalla realtà del peccato, Giovanni Paolo II conclude con l’affermazione che, in forza dell’universalità della redenzione di Cristo, ogni peccato deve essere inteso come espressione del «non credere in Lui», così come questo atteggia-mento esprime la ragione storica della condanna alla crocifissione del Figlio di Dio fatto uomo32.

l’importanza assegnata a questo peculiare contributo dello Spi-rito Santo che rivela una specifica figura cristologica del peccato, appare con chiarezza quando il testo – allo scopo di approfondire questo dato – rivolge la sua attenzione al mistero della pentecoste. In tale evento, manifestazione compiuta dello Spirito Santo ed, in-sieme, luogo originario della vita e della missione della Chiesa, il Papa individua l’ambito proprio ove poter cogliere tutto il significato

30 «la rivelazione del mistero della redenzione apre la strada a una comprensione, nella quale ogni peccato, dovunque ed in qualsiasi momento commesso, viene riferito alla Croce di Cristo – e, dunque, indirettamente anche al peccato di coloro che «non hanno creduto in lui» condannando gesù Cristo alla morte di Croce» (Ibid., 29).

31 Cf g. turbAnti, Un concilio per il mondo moderno: la redazione della costituzione pastorale «Gaudium ed Spes» del Vaticano II, il Mulino, Bologna 2000 379-382; 408; 509-521;545-548.

32 Cf deV 29.

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delle parole di addio pronunciate dal Signore alla vigilia della sua passione e Morte33.

In tale contesto l’enciclica punta con decisione a mostrare che la comprensione del peccato fondata sull’universalità della redenzione di Cristo (ogni peccato è riconducibile a «non credere a Lui») fa sì che ogni parola cristiana sul peccato medesimo sia detta per procla-mare la sua salvezza: per usare le parole dell’enciclica, si tratta del «peccato salvato» più che del «peccato condannato»34.

Prendendo le mosse da questa prospettiva, il testo si apre ad un ampio sviluppo che si fa carico di mostrare come la rivelazione dell’opera salvifica di Gesù Cristo e dello Spirito Santo illumini il dato antropologico dell’esperienza del male, del peccato, della con-versione.

Infatti solo lo Spirito Santo offre all’uomo il dono della verità della coscienza e della certezza della redenzione35. Per questa ragione, la natura stessa del male appare pienamente attingibile all’esperienza umana solamente dall’interno del mistero salvifico di Cristo36. Nell’affrontare il livello più misterioso della vita dell’uomo, quello appunto della presenza del male, Giovanni Paolo II porta qui alle estreme conseguenze quanto affermato con particolare insistenza già a partire da Redemptor hominis: solo gesù Cristo svela pienamente l’uomo all’uomo. Tale piena manifestazione si mostra in questo con-testo singolarmente pertinente proprio all’interrogativo sul male che rappresenta il crinale più arduo da affrontare per l’uomo teso a rag-giungere un’adeguata consapevolezza di sé e del proprio destino.

Non stupisce, pertanto, che – a seguire – l’enciclica si impegni in una considerazione della realtà del peccato originale: questo infatti rappresenta il fondamentale dato rivelato cui la fede cattolica as-segna il compito di indicare la ragione della presenza universale del male e del peccato in ogni singola esistenza.

Il tema viene trattato in modo strettamente conseguente all’im-pianto di Dominum et vivificantem. Tutta questa sezione è scandita

33 Ibid., 30.34 Ibid. 31.35 Ibid.36 Ibid. 32.

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da un ripetuto richiamo allo specifico dell’agire dello Spirito che, unico, conosce il livello più profondo dell’uomo e di Dio37. Questo accento ricorrente evidenzia un’esplicita chiave cristologica secondo la quale il papa guarda al peccato originale:

«Dunque, alla radice del peccato umano sta la menzogna come radicale rifiuto della verità contenuta nel Verbo del Padre, mediante il quale si esprime l’amorevole onnipotenza del Creatore: l’onnipotenza ed insieme l’amore “di Dio Padre, creatore del cielo e della terra” […] Ci troviamo qui al centro stesso di ciò che si potrebbe chiamare l’“anti-Verbo”, cioè l’“anti-verità”. Viene, infatti, falsata la verità dell’uomo: chi è l’uomo e quali sono i limiti invalicabili del suo essere e della sua libertà. Questa “anti-verità” è possibile, perché nello stesso tempo viene falsata completamente la verità su chi è Dio»38.

Così argomentando, l’enciclica sembra tracciare un percorso nel quale si mantiene una fondamentale unità nella considerazione dei peccati personali e del peccato originale, a partire dal rilievo asse-gnato al ruolo del Figlio e dello Spirito per manifestare la loro piena fisionomia. Nell’esperienza dell’essere convinti quanto al peccato dallo Spirito, gli uomini sono resi capaci di riconoscere nell’alterna-tiva tra credere o non credere a Cristo la chiave di volta del mistero della loro esistenza e della loro libertà: tutto si gioca in questa deci-sione. la vicenda drammatica del decidersi libero degli uomini per o contro Cristo si pone come cifra di tutta la storia dell’umanità: la singolare universalità della presa salvifica del Redentore sul mondo intero, fin da principio, rende possibile uno sguardo che abbraccia la

37 «Pertanto, lo spirito, che «scruta ogni cosa, anche le profondità di dio», conosce sin dall’inizio “i segreti dell’uomo”» (deV 35); «lo spirito, che “scruta le profondità di dio” e che, al tempo stesso, è per l’uomo la luce della coscienza e la fonte dell’ordine morale, conosce in tutta la sua pienezza questa dimensione del peccato, che si inscrive nel mistero dell’inizio umano» (Ibid. 36); «Chi può pienamente “convincere del peccato”, ossia di questa motivazione della disobbedienza originaria dell’uomo, se non colui che solo è il dono e la fonte di ogni elargizione, se non lo spirito, che “scruta le profondità di dio” ed è l’amore del Padre e del Figlio?» (Ibid. 37).

38 Ibid. 33. 37.

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totalità della condizione umana, sia in senso sincronico che diacro-nico.

L’esistenza degli uomini, segnata dalla presenza del male e del peccato dei quali sono state indicate le radici, sperimenta nel qui e ora il frutto doloroso che ne proviene: la sofferenza. pertanto lo Spirito che convince quanto al peccato offre agli uomini una parola decisiva anche su questa realtà. In questo nuovo sviluppo, l’enciclica – mantenendosi fedele all’impianto fino a qui rispettato – guarda il dolore dell’uomo a partire dalla modalità con la quale l’esserci del male e del peccato nel mondo in qualche modo giunge fino a lambire la vita stessa di Dio, secondo un «indicibile “dolore”»39 nel quale viene collocata la ragione ultima dell’agire redentore e misericor-dioso della Trinità a favore della salvezza degli uomini.

Tale dolore, espresso fattualmente nella sofferenza di Cristo in Croce, si controverte nella proclamazione del valore redentivo del sacrificio dell’Agnello. Partendo di qui, l’enciclica propone una ri-flessione sull’esperienza umana del soffrire che mantiene come ter-mine di riferimento ed archetipo il dolore di Cristo, nella sua morte sacrificale.

La trattazione è incardinata su una rilettura di un passo della Let-tera agli ebrei: «quanto più il sangue di Cristo, il quale con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente» (Eb 9,14)40. Viene in luce il ruolo peculiare dello Spirito Santo nel sacri-ficio pasquale: Egli fa sì che il dolore di Dio per il peccato dell’uomo si esprima in forma pienamente umana nella Croce ove si manifesta la sofferenza che l’incredulità (la forma originaria di ogni peccato) genera misteriosamente nella vita divina. Lo Spirito (Amore) dona a questo dolore il volto di un amore incondizionato che nella co-munione trinitaria si manifesta come principio della redenzione41. Per questa ragione lo Spirito ha nell’economia salvifica il compito

39 ibid. 39.40 lo stesso Pontefice si mostra consapevole dell’esistenza di una varietà

di ipotesi interpretative per questo testo (Ibid. 40); in proposito si veda per un primo orientamento a. VAnhoye, Gesù Cristo il mediatore nella Lettera agli ebrei, trad. it., Cittadella, assisi 2007.

41 Ibid. 41.

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di continuare e diffondere nel tempo l’opera salvifica della Croce di Cristo42.

L’enciclica tratteggia, ora, il disegno di questa peculiare missione della terza persona della Trinità, seguendo la linea di un suggestivo parallelo tra l’agire dello Spirito in Cristo e quello nella vita di ogni uomo, riprendendo di nuovo la prospettiva dell’intreccio tra cristo-logia ed antropologia, una cifra basilare dell’insegnamento di Gio-vanni paolo II.

Individuata la coscienza umana come il luogo nel quale accade l’esperienza della prova nella decisione per il bene e per il male e in cui si esprime la peculiare dignità e grandezza della persona umana, l’enciclica la indica come lo spazio nel quale lo Spirito agisce, per-mettendo all’uomo di giungere al livello più profondo della consape-volezza di sé: nella drammatica lotta con il male, la Croce di Cristo esclude ogni fatalità della caduta nel peccato; la stessa sofferenza che sgorga in questa lotta, costellata di sconfitte e cedimenti, appare, nello Spirito, la modalità con la quale l’uomo sembra poter parte-cipare della stessa sofferenza di Dio che sta all’origine dell’opera redentrice della Croce43. In questo senso la sofferenza, la fatica della coscienza umana appaiono come necessarie condizioni di possibilità del generarsi nel cuore dell’uomo del cammino di conversione. Così, il permanere della sofferenza, del dolore, del peccato nel cammino storico di ogni uomo non rappresenta un’obiezione alla partecipa-zione alla salvezza cristiana, ma piuttosto tale permanenza descrive il terreno normale in cui tale partecipazione può attecchire e vege-tare. Lo Spirito “che scruta le profondità di Dio e dell’uomo” si pre-senta come il protagonista di questo cammino: lo sguardo portato al “peccato salvato” conduce a riconciliare l’esistenza umana anche con l’esperienza dolorosa del male ed a trovare in essa il volto della felix culpa, proclamata dalla liturgia pasquale44.

Non è, dunque, casuale che questa ampia sezione si concluda con alcune riflessioni sul peccato contro lo Spirito santo che, secondo le

42 Ibid. 42.43 Ibid. 44-45.44 Ibid. 31.

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parole del Signore, non può essere perdonato45. la rilettura di queste parole evangeliche mostra efficacemente come la bestemmia contro lo Spirito consista proprio in quell’atteggiamento esistenziale che chiude il cuore dell’uomo all’opera di Colui che lo “convince quanto al peccato” e lo può accompagnare verso un cammino di conversione e rinnovamento di vita. In tale bestemmia si esprime compiutamente quella posizione umana che guarda al male e al peccato come osta-coli a priori invincibili, come fattori che escludono ogni possibilità di relazione con l’agire salvifico della Trinità: in tale atteggiamento spirituale l’uomo si chiude in un orizzonte che lo rende prigioniero di se stesso, fino ad elevare il proprio male a principio insuperabile anche dalla stessa condiscendenza amorosa di Dio.

Alla luce delle c o n s i d e r a -zioni svolte

emergono alcune linee di tendenza che rappresentano i motivi dominanti sui quali giovanni paolo II elabora il suo commento al magistero del Vaticano II, con-figurando il suo pontificato nel segno della sua piena recezione e realizzazione.

I testi mostrano una singolare capacità di collocarsi all’interno del cammino della Chiesa del post-concilio, in diretta continuità con i suoi immediati antecedenti, senza rinunciare a indicare pur tuttavia un passo nuovo.

Il compito di camminare sulle vie segnate dal Vaticano II e di porre il nuovo pontificato al servizio della sua recezione, viene as-sunto da Giovanni Paolo II in maniera né semplicistica né astratta. Egli si mostra consapevole delle difficoltà che hanno segnato il primo decennio post-conciliare, così come non dimentica talune incertezze e fragilità degli stessi esiti dell’assise ecumenica.

Da questo punto di vista, lo sguardo rivolto al presente e al pas-sato prossimo della vita della Chiesa, è quello di un protagonista che

45 Cf Mt 12,38; Mc 3,28-29; Lc 12,10; deV 46-48.

4. l’unità del trittico.

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ha vissuto dall’interno tutto il complesso percorso che ne ha segnata la vita a partire dalla fine degli anni Cinquanta.

La memoria, più volte espressa, di essere “figlio” della stagione conciliare offre al Papa la capacità e lo slancio per riaffermarne in-sieme l’indiscutibile centralità e per fare emergere, dall’interno di tutto il magistero conciliare, quegli elementi che, a suo giudizio, possono rappresentare le vere chiavi di volta sulle quali costruire l’edificio di una Chiesa pienamente informata dal Vaticano II.

Prima ancora dei contenuti, vanno messi in luce i tratti con i quali giovanni paolo II ha guardato all’assise conciliare e ne ha percepito la peculiare collocazione nel cammino storico della comunità ecclesiale.

essi sono facilmente riconducibili ai seguenti elementi. Il Va-ticano II rappresentò un evento dotato di una singolarissima fisio-nomia ecclesiale e storica. In tutte e tre le encicliche questo giudizio viene non solo espresso, ma più volte ribadito e argomentato.

Tale riconosciuta singolarità sta all’origine dello stesso progetto che presiede alla stesura del trittico delle tre encicliche: il peculiare rilievo assegnato al Concilio non solo trova spazio nel documento programmatico del Pontificato (Redemptor hominis), ma permane ben presente anche nei due successivi testi.

La fisionomia fondamentale del Concilio è, fuor di dubbio, in-dicata dalla nota della pastoralità. L’attenzione a questo registro è attestata fino dagli anni in cui il giovane vescovo Wojtyła elaborò il suo contributo alla fase preparatoria dei lavori conciliari e rimane una costante fino alle tre encicliche, e non solo. Più volte emerge la preoccupazione di isolare un contenuto soddisfacente di tale nota che, in sintesi, trova la sua formulazione negli anni dell’episcopato cracoviense e permane sotto traccia nel dettato delle tre encicliche. Infatti, nel commento al Vaticano II, si avverte che in quell’assise

«i pastori della Chiesa si prefiggevano non tanto e non soltanto di dare una risposta all’interrogativo: in che cosa bisogna credere, quale è il genuino senso di questa o quella verità della fede o simili, ma cercavano piuttosto di rispondere alla domanda più complessa: che cosa vuol dire essere credente, essere cattolico, essere membro della Chiesa? »46.

46 K. WoJtyłA, Alle fonti...cit., 11-12.

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Tutte e tre le encicliche si collocano in un percorso che tenta di mettere in luce come assumere e rispondere a tale interrogativo. lo fa Redemptor hominis mettendo in gioco la categoria di Via, nella sua singolare flessione cristologica ed antropologica; mentre Dives in misericordia si colloca sulla stessa prospettiva assumendosi il com-pito di prospettare il superamento dell’opposizione teocentrismo-an-tropocentrismo, alla luce di Gesù Cristo, rivelatore del Padre e volto umano della Sua Misericordia. Infine, Dominum et vivificantem si dedica a mostrare come nel dono dello Spirito Santo l’uomo sia con-dotto a scrutare in modo adeguato il mistero della sua esistenza, il proprio inserimento nell’agire salvifico del Redentore, chiamato ad essere partecipe e protagonista della sua universale missione reden-trice.

Può essere utile osservare che la triplice scansione della domanda espressiva dell’indole pastorale del Vaticano II (che cosa vuol dire essere credente, essere cattolico, essere membro della Chiesa?), sembra riflettersi nell’impianto di tutte e tre le encicliche che pre-vedono sempre una sezione dedicata ad un approfondimento dell’i-dentità del fedele cristiano, uno sviluppo di carattere missionario, un contributo dedicato a riflettere sulle dinamiche dell’appartenenza ecclesiale.

Infine tutto il trittico è attraversato dall’intenzione di sviluppare una soddisfacente riflessione sulla relazione tra la Chiesa e il mondo contemporaneo.

Ne fa fede, innanzitutto, il privilegio dato ai riferimenti a Gau-dium et spes: un chiaro leit-motiv di tutti e tre i documenti. Cercando di mettere in luce un’eventuale chiave sintetica con la quale il regi-stro Chiesa-mondo viene trattato in questi testi di giovanni paolo II, si può suggerire che un posto tutto speciale sia occupato dalla trattazione del delicato nesso tra Creazione e redenzione.

L’importanza assegnata a questo tema è ben documentata già nei diversi interventi di K. Wojtyła in sede di elaborazione e discussione di Gaudium et spes47. la preoccupazione di mettere in campo una riflessione adeguata su di esso attraversa tutto il trittico e sembra rap-presentarne un fattore di unità. Esplicitamente annunziata in un pa-

47 Cf Karol Wojtyła...cit., 259-370.

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ragrafo centrale di Redemptor hominis (n° 8: Redenzione: rinnovata creazione), la relazione Creazione – Redenzione sta sullo sfondo del dettato di Dives in misericordia: su di essa si appoggia il supera-mento dell’opposizione tra antropocentrismo e teocentrismo. Infine, il tema ritorna ampiamente nella terza enciclica, soprattutto nello sguardo allo Spirito Santo, come protagonista del compimento della missione salvifica di Gesù Cristo, nella Pasqua e nella Pentecoste che permette al papa di leggere tutta la storia della salvezza secondo una prospettiva unitaria che procede dalla Pasqua fino al “principio”.

Se si colloca questo rilievo nel più ampio contesto dell’inten-zione che ha presieduto all’elaborazione di tutte e tre le encicliche (un commento al Vaticano II e un contributo alla sua realizzazione), si può ritenere che il tentativo di mostrare l’interna articolazione e unità tra Creazione e Redenzione rappresenti una modalità con la quale giovanni paolo II si misura con il delicato problema del rap-porto tra Chiesa e mondo. Non va dimenticato che, soprattutto negli anni del post-concilio, questo tema ha rappresentato uno dei nodi più complessi da sciogliere: di qui vennero le problematiche sulle quali il dibattito fu più acceso e non scevro da difficoltà ed equivoci. L’intenzione di collocarsi al cuore di queste tematiche è dichiarato dallo stesso Pontefice, annunciando l’imminente pubblicazione della prima enciclica:

«Pertanto, come vedo e sento il rapporto tra il Mistero della Redenzione in Cristo Gesù e la dignità dell’uomo così vorrei tanto unire la missione della Chiesa col servizio all’uomo, in questo suo impenetrabile mistero. Vedo in ciò il compito centrale del mio nuovo servizio ecclesiale»48.

per il papa l’unica prospettiva adeguata per guardare all’uomo nella sua singolare dignità è quella della Redenzione, giacché l’u-nico uomo esistente, e storicamente rilevante, è l’uomo redento da Gesù Cristo. In forza di questo principio, costantemente ripreso e sviluppato in tutte e tre le encicliche, Giovanni Paolo II si pone nella condizione di poter mostrare che la Fede e la vita cristiana hanno la capacità di esprimere un’apertura universale ad ogni uomo, di ogni

48 gioVAnni PAolo ii, Angelus...cit., 516.

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luogo e tempo, proprio in forza della singolarità dell’evento reden-tivo di gesù Cristo.

Procedendo in questa direzione, il contributo offerto dal Papa ad un approfondimento di uno dei temi nodali dei lavori del Concilio e del complesso percorso della sua recezione, produce alcuni signifi-cativi vantaggi.

nel ritrascrivere la problematica del rapporto tra Chiesa e mondo secondo il registro individuato dall’articolazione di Creazione e re-denzione, Giovanni Paolo II va nella direzione di semplificare e ri-durre ai suoi termini elementari la modalità di approccio a quelle questioni.

In primo luogo si tratta di una semplificazione in quanto viene circoscritta, ed in qualche modo superata, la complessa problema-tica attinente alle diverse interpretazioni della nozione di “mondo”. Comunque essa venga intesa49, la prospettiva cristocentrica che sog-giace all’articolazione Creazione-redenzione permette di stabilire una relazione tra l’annuncio salvifico cristiano e la vita degli uomini in modo immediato e diretto, al riparo dall’equivoco della ricerca della giustificazione di tale rapporto a partire da una mediazione cul-turale e sociale.

49 «il mondo che esso ha presente è perciò quello degli uomini, ossia l’intera famiglia umana nel contesto di tutte quelle realtà entro le quali essa vive; il mondo che è teatro della storia del genere umano, e reca i segni degli sforzi dell’uomo, delle sue sconfitte e delle sue vittorie; il mondo che i cristiani credono creato e conservato in esistenza dall’amore del Creatore: esso è caduto, certo, sotto la schiavitù del peccato, ma il Cristo, con la croce e la risurrezione ha spezzato il potere del Maligno e l’ha liberato e destinato, secondo il proposito divino, a trasformarsi e a giungere al suo compimento» (gs 2). sull’esigenza di chiarezza nell’accezione che Gaudium et spes doveva dare alla parola “mondo” K. Wojtyła intervenne con forza durante i dibattiti conciliari; cfr. anche gioVAnni PAolo ii, Memoria...cit., 151. ritornando su questi temi giovanni Paolo ii osservava «Quando il concilio dovette affrontare l’argomento “la Chiesa nel mondo contemporaneo”, si dovette pur ammettere che questo “mondo umano” è fatto di numerosi mondi differenti, che, pur essendo vicini, sono per molti aspetti molto lontani gli uni dagli altri. Ma ciò non ha impedito al concilio di definire la “situazione dell’uomo nel mondo moderno” in modo coerente e convincente» (A. FrossArd, «Non abbiate paura!» Dialogo con Giovanni Paolo II, trad. it., rusconi, Milano, 1983 [or. franc. laffont, Paris 1982], 239), e proseguiva «il mondo in cui viviamo è profondamente segnato dal peccato e dalla morte […] Ma, al tempo stesso, è un mondo riscattato: un mondo dove si è manifestato un amore più potente del peccato e della morte. Questo amore è sempre presente e non cessa di operare. Questo amore è la realtà ultima» (Ibid. 241).

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A questo accento fa da pendant l’insistenza sulla necessità di guardare e parlare non dell’uomo «“astratto”, ma reale, dell’uomo “concreto”, “storico”»50. Tale concretezza ha un ben preciso con-tenuto: ogni uomo è obiettivamente ricompreso nell’unico evento “storico” della Redenzione ed in forza di ciò egli è realmente così come il suo Creatore lo ha voluto.

Secondo questa indicazione, sembra venire ridimensionato il pro-blema della ricerca di un qualunque termine medio in forza del quale si debba istituire una convincente relazione tra l’uomo e Cristo. In-fatti, per il primato riconosciuto alla forma storica dell’esistenza dell’uomo e dell’evento di Gesù Cristo, entrambi possono relazio-narsi unicamente in forza della loro precipua storicità, quindi della loro libertà.

In questa linea la questione Chiesa-mondo viene ricondotta a quella del rapporto tra Cristo ed ogni uomo storicamente esistente. Questa prospettiva, centrale in Redemptor hominis51, è pure ben pre-sente in Dives in misericordia, quando essa pone al centro il tema della figliolanza che, fondata nell’archetipo trinitario della relazione Padre-Figlio, esprime il contenuto adeguato della dignità di ogni uomo.

Infine, non va dimenticato che nell’ampia riflessione sul peccato, Giovanni Paolo II costantemente sottolinea, in Dominum et vivifi-cantem, che l’unica possibilità per guardare e conoscere la realtà del male presente nell’esistenza umana, sia quella che prende sempre le mosse dal «peccato salvato», ovvero traguardato attraverso l’azione redentrice di Cristo nella sua Morte e risurrezione.

In tutti e tre i casi, si osserva la costante preoccupazione di fare emergere la novità e la capacità inclusiva della figura di Gesù Cristo nei confronti della totalità dell’esperienza umana, così come essa si dà nel qui ed ora nella storia del mondo.

Strettamente connessa a questa fisionomia dei testi esaminati sta la preoccupazione del Papa di assumere consapevolmente la sfida rappresentata dal tema della storia, intesa come cifra sintetica delle

50 rH 13.51 Ibid.

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questioni poste alla Chiesa dalla fine della modernità e con le quali il Vaticano II si era voluto confrontare.

Si vede allora l’insistenza nel sottolineare la totalità storico-salvi-fica dell’evento di Gesù Cristo come colui che è il principio proprio in quanto si mostra presente ed operante nell’oggi del mondo, attra-verso il Suo Corpo che è la Chiesa52.

nel trittico giovanni paolo II ha avuto l’intenzione di commen-tare il magistero del Vaticano II nel contesto del momento storico vissuto dalla Chiesa e dal mondo; nel realizzare questo progetto ha tracciato un percorso che testimonia la sua consapevolezza del rap-porto tra il Mistero della redenzione in Cristo gesù e la singolare esistenza e dignità dell’uomo, allo scopo di fare emergere la perti-nenza della missione della Chiesa col servizio all’uomo, nel mistero della sua vita. Questa testimonianza è presentata ed offerta a tutta la Chiesa come contenuto centrale del suo ministero petrino.

52 Cf rH 18-19.

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In questa fase, il seminario prende la forma di una ta-vola rotonda, dando la parola a due giornalisti prestigiosi, osservatori attenti e compe-tenti del pontificato di Gio-vanni paolo II.

Non vi è dubbio che i dottori Aldo Maria Valli del Tg1 e Saverio gaeta capo-redattore di Famiglia Cristiana siano due dei più apprezzati ed esperti vaticanisti. Ambedue sono stati testimoni e cronisti del pontificato di Giovanni Paolo II, nel periodo dell’efficienza e in quello della malattia. Hanno scritto molto di Giovanni Paolo II e sono, nello stesso tempo, anche due esperti della comunicazione. A loro chiediamo di riferirci come hanno vissuto da cronisti la fase “dolorosa” (potremmo chiamarla anche via crucis) del pontefice, e quale messaggio il Papa abbia tra-smesso in questa fase di debolezza fisica e come questo messaggio sia stato compreso dai loro lettori/ascoltatori, e dall’opinione pub-blica in genere. Qual è stata la reazione della gente, soprattutto dei credenti, all’esposizione pubblica della fragilità di Giovanni Paolo II?

Io mi limito a una breve introduzione e poi, eventualmente, a sti-molare il dialogo.

Ciro BenedeTTini CP

l’incontRo con cRiSto REndE APPASSionAntE oGni fASE dEllA vitA

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È un dato universalmente riconosciuto: Giovanni Paolo II è stato un grande comunicatore, un annunciatore straordinario del mes-saggio cristiano con la parola e le azioni. Lo è stato nel periodo del suo vigore fisico, quando era chiamato l’atleta di Dio, Wojtyla su-perstar; lo è stato forse ancor più nel tempo della debolezza e della malattia.

Qualche osservatore ha scritto che la sua comunicazione più effi-cace è stata proprio quella nel secondo periodo della sua vita. Luigi Accattoli si azzarda a scrivere: “La testimonianza di accettazione della sofferenza, che egli dà in questa stagione della vecchiaia e delle malattie, è forse l’aspetto meglio compreso dalle folle” (L. Accattoli, Giovanni Paolo II, San Paolo 2006, p.306). Una prima verifica della verità di questa affermazione la riscontriamo nella par-tecipazione in crescendo delle folle ai suoi incontri, alle sue celebra-zioni, e poi alla sua agonia e al suo funerale.

Ho lavorato in Sala Stampa della Santa Sede gli ultimi dieci anni della vita del Beato Giovanni Paolo II ed ho seguito, con trepida-zione e spesso disagio, tutte le fasi della malattia del pontefice come corresponsabile dell’informazione insieme al direttore Joaquìn Na-varro Valls. L’Istituzione, nella prima fase della sua via crucis ci chiedeva comprensibilmente di minimizzare la malattia del Papa, mentre lui, Giovanni Paolo II, non faceva nulla per occultare il suo stato di salute. Io d’altra parte temevo che l’eccessiva esposizione del suo dolore fosse mediaticamente pericolosa, e potesse ingene-rare fastidio e disgusto nella gente. ogni giorno dovevo costatare che i miei timori e quello dell’Istituzione erano esagerati, non per i nostri meriti comunicativi, quanto per la verità della testimonianza del Papa, l’autenticità della sua persona.

Costatavo non solo il crescente affetto e la partecipazione della gente, che ha avuto il suo culmine durante l’agonia, ma anche l’ac-coglienza del messaggio che riusciva a trasmettere nella malattia e nella sofferenza. non c’era esibizionismo nel suo esporsi e la gente lo capiva perché era se stesso. Certo, c’era chi diceva di fermarlo, di non affaticarlo, di risparmiargli viaggi e cerimonie, ma era un gesto di affetto, di protezione, come si farebbe con le persone care,

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non un rifiuto del suo messaggio di coraggio, accettazione della ma-lattia e della sofferenza e adesione alla volontà di Dio. Molte per-sone ammalate o sofferenti mi dicevano di sentirsi incoraggiate dalla testimonianza del papa. permettetemi un’annotazione personale. Io ho vissuto la morte di giovanni paolo II in contemporanea con la malattia e la morte, 6 giorni dopo quella del pontefice, di una mia sorella di due anni più grande di me, con la quale avevo trascorso la fanciullezza. Teresa, questo il nome, mi diceva: “Il Papa mi dà forza e coraggio”.

Come cristiano e ancor più come religioso passionista mi veniva naturale mettere in relazione la sofferenza del papa con la passione di Gesù Cristo. Tutta la vita di Cristo è stata annuncio dell’amore del Padre, tutta la sua vita è stata redentrice, ma l’apice della sua attività salvifica, la dimostrazione umanamente più convincente e credibile del suo amore per il Padre e per l’umanità, si è avuta nel colmo della sua umiliazione come uomo, nella sua passione e morte. Nella sofferenza e nell’impotenza, Dio ha dato il massimo della sua rivelazione di amore per l’umanità e della sua volontà e potenza sal-vifica. Anche Giovanni Paolo II ha dato la parte più convincente del suo messaggio proprio nella malattia. Il popolo di Dio ha visto nella sua testimonianza nell’infermità la conferma, la ratifica della verità delle sue parole e dei suoi gesti nella fase dell’efficienza fisica. La sofferenza ha dato ulteriore credibilità alla santità della sua vita.

La santità di Giovanni Paolo II non ha bisogno di etichette, ma permettetemi di essere un po’ partigiano: più volte ho pensato di definirlo un “papa passionista” per come è riuscito a vivere la sua sofferenza in unione a Cristo Crocifisso e a trasmettere un messaggio di coraggio, solidarietà, vita nuova. Un’unione a Cristo ed un mes-saggio ingentiliti e insieme rafforzati dal “totus tuus”, l’affidamento totale a Maria.

la sua fortezza nella malattia nasceva dall’unione a Cristo nella preghiera. Sorprendeva vederlo pregare, sembrava come isolato dal mondo. Ho seguito Giovanni Paolo II in molti viaggi e ho notato fin dalla prima volta che quando entrava in chiesa e s’inginocchiava da-vanti al tabernacolo “cadeva” in un raccoglimento così profondo che

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doveva essere come “risvegliato” per continuare la visita. pur es-sendo attorniato da uno stuolo di persone, il mondo sembrava scom-parire e che non ci fosse altri che gesù Sacramentato.

Nella lettera agli anziani, scritta nell’ottobre del 1999, anno dedi-cato dalle Nazioni Unite agli anziani, Giovanni Paolo aveva scritto: “Nonostante le limitazioni sopraggiunte con l’età, conservo il gusto della vita. Ne ringrazio il Signore. È bello potersi spendere sino alla fine per la causa del Regno di Dio”.

Penso che queste due affermazioni (gusto della vita e spendersi fino alla fine per il Regno di Dio) possano essere lette come la chiave di interpretazione di tutta la vita di Giovanni Paolo II, soprattutto nella fase finale. La sua è stata una vita piena, bella, nonostante le traversie, le sofferenze, i drammi suoi e della società che hanno at-traversato la sua avventura terrena, ma né la morte dei familiari né le due guerre o l’attentato del 1981 hanno potuto spegnere il suo gusto della vita, che riusciva a trasmettere alla gente. Ha dato a tutti un esempio di vitalità, coraggio e serenità sia nella fase del vigore fisico che nella malattia.

Questo gusto della vita spiega e illumina la seconda affermazione:“È bello potersi spendere sino alla fine per la causa del Regno di Dio”.

Si è speso sino alla fine e anche quando la malattia l’ha costretto a letto e all’inazione fisica non per questo si è svuotato il suo ministero pontificio, che anzi si è affinato, ha assunto una modalità più spiri-tuale, non meno efficace: quella della testimonianza di accettazione della sofferenza in pieno abbandono alla volontà di Dio.

Ha lavorato sino alla fine. Ancora Nel 2004 ha compiuto tre viaggi brevi ma impegnativi e faticosi per lui: il 5-6 giugno viaggio a Berna (Svizzera) per un incontro nazionale dei giovani cattolici. Il 14-15 agosto a Lourdes (Francia) per il 150 ° del dogma dell’Imma-colata Concezione. Il 5 settembre a Loreto per 3 beatificazioni. Nel Natale del 2005 (3 mesi prima della morte) nonostante la difficoltà di parola, legge il messaggio urbi et orbi e saluta in 62 lingue. Quando si blocca i fedeli affettuosamente lo incoraggiano con applausi e bat-timano. Si ferma veramente solo quando il 1° febbraio 2005 è rico-

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verato al Gemelli fino al 10 e poi nuovamente il 23 febbraio fino al 13 marzo.

I sentimenti con cui ha vissuto la malattia ed il ricovero in ospe-dale li aveva espressi chiaramente lui stesso nel messaggio fatto leg-gere per l’Angelus del 6 febbraio 2005: “Anche qui dall’ospedale, in mezzo agli altri ammalati, ai quali va il mio affettuoso pensiero, continuo a servire la Chiesa e l’intera umanità”. la malattia non è stata per lui una sospensione dell’attività pontificale, anzi gli ha fornito nuove motivazioni per svolgere il suo servizio alla Chiesa e all’umanità.

Se nei primi anni di pontificato le piazze, gli stadi, gli ippodromi erano diventati le sue nuove cattedrali, dove incontrava, incorag-giava e ammoniva l’umanità, nell’ultima fase della sua vita la sua cattedra di insegnamento è stato il letto, l’ospedale, l’impotenza.

Per il cristiano la malattia non è un castigo di Dio, ma un’op-portunità di partecipare alla passione del Signore, come afferma San paolo: “Ora sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col, 1,24).

Questa partecipazione alla passione di Cristo, questa unione a Cristo sofferente, si è vista plasticamente il 25 marzo del 2005, venerdì santo, durante la via crucis al Colosseo, guidata dal Card. Camillo Ruini (testi del Card. Josef Ratzinger), mentre il Papa la seguiva sullo schermo dalla sua cappella privata. nell’ultima sta-zione, sugli schermi televisivi di tutto il mondo apparve Giovanni Paolo II che teneva fra le mani un grande crocefisso, con il Cristo rivolto verso di sé, al quale trasmetteva il tremolio delle sue mani. Un’immagine drammatica di straordinaria efficacia: Cristo ed il papa uniti nello stessa sofferenza e nella stessa speranza della ri-surrezione. Il Card. Ruini leggerà un testo inviato dal Papa ai parte-cipanti alla Via crucis: “Offro le mie sofferenze perché il disegno di Dio si compia e la sua parola cammini fra le genti”. Una preghiera veramente pontificale: il Papa si fa “ponte”, mediatore di tutto il popolo. Vive le sue sofferenze come compimento della volontà di

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Dio e come un contributo al bene dell’umanità, offrendosi vittima per tutti.

Un altro momento altrettanto drammatico ed espressivo si avrà due giorni dopo, il 27 marzo, solennità di Pasqua. Il Card. Angelo Sodano legge il messaggio urbi et orbi, che il Papa segue dalla fine-stra della sua camera. Al momento della benedizione è avvicinato al papa un microfono ed egli traccia il triplice segno della benedi-zione, muovendo le labbra come per pronunciare le parole, ma riesca ad emettere solo un lungo sospiro. lo confesso: ho pianto. non ho pianto il giorno della morte, ma non sono riuscito a trattenere le la-crime in quel momento: il grande comunicatore era senza parole. Eppure la sua comunicazione nonostante l’impotenza verbale arrivò al cuore della gente.

La stessa scena si ripeterà il mercoledì 30 marzo. Era stato an-nunciato che non vi sarebbe stato l’udienza, ma in piazza c’erano 5.000 giovani della diocesi di Milano, venuti per la “professione della fede”. la beauty camera permanente del CTV si era spostata dalla visione della piazza alla finestra dello studio del Papa e questo aveva fatto pensare che egli si sarebbe affacciato, entusiasmando i giovani, determinando così quasi una pressione morale su Giovanni Paolo II, che generosamente si è affacciato. Non riuscirà a parlare e quasi frustrato per questa impotenza batterà la mano sul leggio. Una frustrazione che ha pervaso anche la folla. Sarà la sua ultima appari-zione pubblica da vivo.

Giovanni Paolo II è stato un Papa che ha conquistato le folle di credenti e non credenti innanzitutto per la santità della sua vita, ma anche per la simpatia che suscitava con i suoi doni di natura, l’ama-bilità del carattere, la cordialità e facilità di stabilire un contatto con la gente, una gestualità gradevole e simpatica e per la parola facile e la battuta felice, un fisico sportivo, atletico. Poco a poco il Signore l’ha spogliato di tutte queste doti umane: il suo corpo ridotto ad un rudere, infine gli ha tolto anche la parola. Deve essere stato molto frustrante per lui. egli tuttavia ha dimostrato di accettare generosa-mente questa impotenza in solidarietà con le persone che soffrono e come offerta a Dio per il bene della Chiesa e dell’umanità.

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Il fatto straordinario è che sia riuscito a trasmettere questo mes-saggio di coraggio nella prova, di solidarietà e condivisione con la passione di Cristo e le sofferenze dell’umanità. La sua comunica-zione non solo non si è spenta con il venir meno del vigore fisico e con la impotenza della parola, ma si è, in qualche modo, ingigantita, riuscendo a trasmettere alla gente questo messaggio spirituale molto più difficile da comunicare in un mondo che esalta la cura del corpo e l’efficienza fisica.

giovanni paolo II ha portato alle estreme conseguenze la sua te-ologia del corpo, che aveva illustrato in una serie famosa di cate-chesi durante le udienze generali, offrendo la misura del suo dolore personale come pegno universale di sofferenza e riscatto. nel n. 30 della Salvifici doloris aveva scritto: “La sofferenza è presente nel mondo per sprigionare amore, per far nascere opere di amore verso il prossimo, per trasformare tutta la civiltà umana in una ‘civiltà dell’amore’”.

Da cronista, devo registrare che vi sono state voci nei media che non hanno compreso o comunque hanno criticato quello che hanno chiamato “dolorismo”, esibizione del dolore, ed in vero c’erano aspetti a volte anche sgradevoli, ma sono state voci piuttosto mar-ginali. La gente, il popolo di Dio, ha ammirato la sua testimonianza sia nella vigoria sia nella decadenza fisica. Giovanni Paolo è stato un grande comunicatore cristiano in tutte le fasi della sua vita, an-cora più convincente proprio nell’ultima fase, quella dell’impotenza fisica.

Giovanni Paolo II è stato proclamato nel 1994 “uomo dell’anno” dalla rivista Time con questa motivazione: “Le sue idee sono di-verse da quelle della maggior parte degli uomini. Sono più grandi”. Si sono rivelate più grandi, coraggiose, rivoluzionarie ed insieme convincenti quando, con la sua testimonianza personale, ha reso tutti più attenti al dolore umano, quando ha dato dignità e valore alla sofferenza, testimoniando che l’uomo non vale per la sua efficienza, ma per se stesso, perché creato ed amato da Dio. Ha dimostrato che l’incontro con Cristo rende appassionante ogni fase della propria vita.

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Giovanni Paolo II è stato un grande comunicatore del messaggio cristiano sia nel periodo del suo vigore fisico, quando era chiamato l’atleta di Dio, sia nel tempo della debolezza e della malattia. Anzi ha dato la parte più convincente del suo messaggio proprio nella debolezza. La sua testimonianza di accettazione della sofferenza è forse l’aspetto meglio compreso dalle folle.

Un brano della sua Lettera agli anziani aiuta a comprendere la “passione” di giovanni paolo II: “Nonostante le limitazioni soprag-giunte con l’età, conservo il gusto della vita. Ne ringrazio il Signore. È bello potersi spendersi sino alla fine per la causa del Regno di Dio”.

La sua è stata una vita piena, bella, nonostante le traversie, le sofferenze, i drammi personali e della società che hanno attraversato la sua avventura terrena, ma né i lutti familiari né le due guerre o l’attentato dell’81 e nemmeno la malattia hanno spento il suo gusto della vita. Ha dato a tutti un esempio di vitalità e di coraggio sia nella fase del vigore fisico che in quello della malattia.

Si è speso sino alla fine per la causa del Regno di Dio e anche quando la malattia l’ha costretto a letto e all’inazione fisica, non per questo ha ritenuto svuotato il suo ministero pontificio, che anzi ha assunto una modalità più spirituale, ma non meno efficace: quella della testimonianza di accettazione della sofferenza in pieno abban-dono alla volontà di Dio.

I sentimenti con cui ha vissuto la sua malattia giovanni paolo II li aveva espressi chiaramente nel messaggio fatto leggere all’Angelus del 6 febbraio: “Anche qui dall’ospedale, in mezzo agli altri am-malati, ai quali va il mio affettuoso pensiero, continuo a servire la Chiesa e l’intera umanità”. Anche la malattia è stata per lui servizio pontificale alla Chiesa e all’umanità.

la partecipazione alla passione di Cristo e la sua unione a Cristo sofferente, si è vista plasticamente il 25 marzo del 2005, venerdì santo, durante la via crucis al Colosseo, seguita dal Papa infermo sullo schermo dalla sua cappella privata. nell’ultima stazione sui televisori di tutto il mondo apparve giovanni paolo II che teneva fra le mani un grande crocefisso, con il Cristo rivolto verso di sé. Il Card. Ruini leggerà un testo inviato dal Papa ai partecipanti alla Via crucis: “Offro le mie sofferenze perché il disegno di Dio si compia e la sua parola cammini fra le genti”. Un atteggiamento veramente

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pontificale, si fa “ponte”, mediatore di tutto il popolo, vivendo le sue sofferenze come compimento della volontà di Dio e offrendosi vittima per il bene degli uomini.

giovanni paolo II ha conquistato le folle di credenti e non cre-denti innanzitutto per la santità della sua vita, ma anche per la sim-patia che suscitava con i suoi doni di natura, l’amabilità del carattere, la cordialità, una gestualità gradevole e simpatica e la battuta felice, nonché un fisico sportivo, atletico. Poco a poco il Signore l’ha spo-gliato di tutte queste doti umane; infine gli ha tolto anche la parola. Deve essere stato molto frustrante per lui, ma egli ha dimostrato di accettare generosamente questa impotenza in solidarietà con le per-sone che soffrono e offerta a Dio per il bene della Chiesa.

Il fatto straordinario è che sia riuscito a trasmettere questo mes-saggio di coraggio nella prova, di solidarietà e condivisione con la passione di Cristo e le sofferenze dell’umanità, in una società che esalta la cura del corpo e l’efficienza fisica. La sua testimonianza nella malattia e nel dolore è stata compresa come conferma, ratifica della verità delle sue parole e della sua vita nella fase dell’efficienza fisica. Ha dato ulteriore credibilità alla santità di tutta la sua vita.

la rivista Time nel proclamare giovanni paolo II uomo dell’anno 1994 aveva scritto: “Le sue idee sono diverse da quelle della mag-gior parte degli uomini. Sono più grandi”. Si sono rivelate più grandi, coraggiose, rivoluzionarie, e insieme convincenti, quando, con la sua testimonianza personale, ha reso tutti più attenti al dolore umano, ha dato dignità e valore alla sofferenza, testimoniando che l’uomo non vale per la sua efficienza, ma per se stesso, perché creato ed amato da Dio. Ha dimostrato che l’incontro con Cristo rende ap-passionante ogni fase della propria vita.

P. Ciro Benedettini, passionista, vicedirettore della Sala Stampa della Santa Sede, ha seguito la via crucis di giovanni paolo II nel ruolo di corresponsabile della comunicazione vaticana e dal suo os-servatorio ha potuto costatare come il papa “passionista” abbia nuo-vamente dato verità alla potenza della Croce di Cristo trasmettendo al mondo, nella sua debolezza, un messaggio di solidarietà, speranza e vita.

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aldo Maria ValligiornalisTa del Tg1

Qualcuno, riferen-dosi alla parte finale del pontifi-cato di giovanni Paolo II, parlò di “forza debole” di Karol Wojtyla.

lui in effetti non fece mai mistero dei suoi problemi fisici, né pensò mai di nasconderli.

D’altra parte, la sua figura sempre più curva, il suo bisogno di appoggiarsi al pa-storale e il sempre più evidente stato di sofferenza fisica non provocarono rifiuto o distacco nelle folle. Al contrario, in ogni parte del mondo, a Cuba come a Parigi, nelle na-zioni più povere come in quelle più ricche, la gente avvertì in quella condizione di sofferenza uno speciale richiamo.

Come scrisse l’allora cardinale Ratzinger, nell’ultima parte del suo pontificato ci si poteva aspettare che il fascino esercitato da Karol Wojtyla soprattutto sui giovani, ed emerso con tanta forza nel primo decennio in virtù dell’energia del Papa, si sarebbe affievolito fino a scomparire. Che cosa poteva dire alle nuove generazioni un uomo stanco, malato, sofferente, un uomo che nei momenti di mag-giore affaticamento fisico parlava con evidente difficoltà?

ricordo che questa preoccupazione circolava in modo particolare prima del grande incontro con i giovani a Parigi, nel 1997. Molti giornali davano per certo che il numero dei partecipanti sarebbe stato

il mESSAGGio di GiovAnni PAolo ii nEllA dEBolEzzA dEllA mAlAttiA

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deludente. Invece l’affluenza di giovani da tutto il mondo superò ogni previsione, tanto da creare seri problemi organizzativi. E che cosa dire degli incontri con i giovani nello stadio Azteca di Città del Messico e nel Kiel Center di Saint Louis (1999)? Anche in quei casi, grandi dimostrazioni d’affetto e grande senso di partecipazione alla preghiera del Papa, come se dalla sofferenza dell’anziano pontefice arrivasse una speciale ricchezza spirituale per tutti.

Vale la pena di ricordare ancora le parole del cardinale ratzinger: “In un’epoca in cui tutto si orienta alla funzionalità e all’efficienza, in cui tutti si sforzano di apparire giovani e la malattia e la vecchiaia devono restare nascoste, il Papa non le ha dissimulate, non ha voluto nasconderle, ma le ha messe al servizio del popolo cristiano”.

per capire questo atteggiamento di giovanni paolo II non ci sono parole migliori di quelle che lui stesso utilizzò a Città del Messico, nel gennaio 1999, durante la visita agli ammalati in un ospedale della città. È forse una delle sue riflessioni più esplicite, e anche più in-time, sul dolore umano. “L’uomo – disse il Papa – è chiamato alla gioia e a una vita felice, ma sperimenta ogni giorno molte forme di dolore, e la malattia è l’espressione più frequente e più comune della sofferenza umana. Dinnanzi a ciò viene spontaneo chiedersi: perché soffriamo? Per che cosa soffriamo? Ha un significato che le persone soffrano? Può essere positiva l’esperienza del dolore fisico e morale?”.

L’uomo Karol Wojtyla, nel momento in cui si poneva queste do-mande, vedeva certamente scorrere davanti a sé le immagini della sua vita: la morte della mamma, del padre e del fratello, gli orrori di nazismo e comunismo toccati con mano nella sua Polonia, l’atten-tato subito in piazza San Pietro, i ricoveri in ospedale, gli interventi chirurgici. Nemmeno per un Papa è facile rispondere alla domanda “perché soffriamo?”. Ma ecco che proprio lì, in mezzo ai malati, alcuni dei quali nella fase terminale, proprio tra quelle mura, dove la sofferenza era di casa, il Papa fece breccia nel mistero del dolore, un mistero, disse, che si chiarisce solo in Gesù Cristo, il quale non risponde in modo astratto, ma con una chiamata: seguimi, prendi parte con la tua sofferenza all’opera di salvezza del mondo che si compie per mezzo della mia sofferenza. Attraverso la condivisione del dolore, Cristo ci rende collaboratori della sua opera di reden-zione. Ecco perché il Papa, sebbene sempre più vecchio, sebbene

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sempre più stanco, non si fermò, ma fino all’ultimo volle portare l’annuncio del Vangelo nel mondo.

ricordo anche quanto giovanni paolo II disse subito dopo il ri-covero al gemelli in seguito alla frattura del femore. Durante l’An-gelus, rivolto ai fedeli, papa Wojtyla spiegò: “Il Papa deve soffrire perché il mondo veda che c’è un vangelo superiore, il vangelo della sofferenza con cui si deve preparare il futuro”. Poche parole che però aprono uno squarcio sulla sua concezione delle malattie che lo colpi-rono e sul suo modo di affrontarle.

In tutte le epoche storiche, con particolare evidenza quando l’uomo vive una situazione di incertezza e di decadenza morale, una parte della cultura esalta la perfezione fisica, l’efficienza, la forza del corpo.

lo vediamo molto bene ai nostri giorni. per questo motivo l’affermazione di San paolo nella lettera ai Co-

rinzi (2 Cor 12,10), secondo cui “quando sono debole è allora che sono forte”, è per noi del tutto paradossale.

È però un paradosso che caratterizza tutta la vita e la vicenda di gesù Cristo.

La parola “paradosso” viene dal greco ed è formata da parà (contro) e doxa (opinione). È paradossale ciò che va contro le opi-nioni più diffuse e ritenute certe. Paradossale è che l’onnipotente si faccia uomo, e perciò assuma interamente la condizione di essere finito e limitato. Paradossale è che il figlio di Dio si lasci uccidere come un malfattore attraverso sofferenze atroci. Paradossale è che perdoni i suoi giustizieri. Paradossale è che apprezzi chi sta agli ul-timi posti e non ai primi. Paradossale è un Dio stesso, che si lascia limitare e ferire, che depone i potenti e innalza gli umili, che nel momento in cui vuole salvare il mondo sceglie la via della debolezza e dell’abbassamento.

Il cristiano, se segue Gesù, diventa lui stesso paradossale agli occhi del mondo. E Giovanni Paolo II lo è stato, soprattutto nel mo-mento della sofferenza.

Era stato un papa giovane e forte, vigoroso, globetrotter. Ha ac-cettato la malattia e la conseguente sofferenza, ma non solo. Ha con-tinuato a compiere la sua missione, anche quando si parlava di pos-

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sibili dimissioni, e ha continuato ad apparire in pubblico (e davanti alle telecamere) anche quando si diceva che sarebbe stato meglio per lui, e per la Chiesa, se si fosse ritirato. Paradossale è stata la malattia stessa, che ha colpito il papa, uomo della parola e dei gesti, proprio nella facoltà della parola e di movimento.

Giovanni Paolo II, in un mondo che non si vergogna più di niente tranne che della malattia e della morte, non si è vergognato di mo-strarsi debole e infermo.

Bisogna ricordare che anche san Paolo, quando scrive la lettera

ai Corinzi, con quel messaggio che ci sconcerta per il paradosso (“quando sono debole è allora che sono forte”) sta soffrendo.

Paolo fa riferimento alla sua esperienza concreta, non parla in generale. Si trova in una situazione di debolezza da ogni punto di vista, fisico e psicologico, ma non si vergogna di ricordare ai Corinti il suo stato. Anzi, proprio riflettendo sulla sua debolezza, vi scorge il segreto dell’essere cristiano: l’energia che arriva da Cristo risorto. Di qui la sua affermazione paradossale, di essere “forte” proprio nel momento della debolezza. Forte non perché Gesù gli dona i supepo-teri, non perché ne fa un superuomo, ma perché lo rende partecipe, lo coinvolge nella sua missione redentrice e vittoriosa contro il peccato e contro la morte.

giovanni paolo II segue l’esempio di paolo. Si lascia trasformare da Gesù. La sopportazione stoica non è un esempio raro tra i cri-stiani, e qualche volta si presenta anche tra i non credenti. Vediamo perfino uomini e donne che di fronte alla malattia e al dolore anziché cadere nella disperazione o lasciarsi andare alla rivolta morale ritro-vano grandi valori che in loro si erano affievoliti.

Spesso però questo lavoro fatto su se stessi è marcatamente indi-vidualistico, nel senso che diventa un’estrema forma di affermazione di sé. Nel caso di Paolo, e di Giovanni Paolo II, si tratta invece di un abbandonarsi alla volontà del Signore, assumendo la sua debolezza, la sua apparente sconfitta, e trasformandola in testimonianza di forza spirituale e di speranza, nella consapevolezza che ogni tempo è tempo di grazia.

Giovanni Paolo II, come san Paolo, non ha rincorso la forza, ma ha praticato la fortezza. Sono due cose ben diverse.

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Il mondo ci dice di essere forti nel senso di imporre noi stessi, di mettere noi stessi al centro. Con la virtù della fortezza invece si accetta lo stato di debolezza e lo si trasforma in arricchimento in-teriore, perché attraverso la sofferenza, la prova e l’esperienza del limite ci associamo a gesù.

La fortezza è la virtù grazie alla quale portiamo a termine gli im-pegni con coraggio e tenacia nonostante le difficoltà. La fortezza è espressione di una fede solida e robusta, a dispetto delle avversità e delle condizioni di salute che ci possono rendere molto fragili.

L’esempio più chiaro di fortezza è proprio quello di Gesù, dalla sua nascita nella mangiatoia fino alla morte in croce. E che cosa chiede gesù agli apostoli e a tutti coloro che incontra se non la for-tezza? “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”.

Se giovanni paolo II si fosse posto il problema di non urtare la sensibilità dell’uomo contemporaneo, così in imbarazzo di fronte al dolore e alla morte, si sarebbe ritirato. Invece ha dato la sua testimo-nianza cristiana fino all’ultimo respiro. Ha dato prova di fortezza.

È significativo che questo esempio e questo messaggio siano stati colti molto bene dai semplici, dagli umili, mentre i colti, gli intellet-tuali, hanno faticato non poco a coglierne il significato e ad accet-tarlo.

Che Dio è quello che manifesta nella debolezza la potenza salvi-fica del suo amore?

Il Dio che vince attraverso la debolezza è un Dio umile, il più umile che si possa immaginare, un Dio che sconfigge l’orgoglio e l’eterna tentazione dell’uomo di innalzarsi per predominare. È un Dio che non pensa a salvare se stesso, ma a salvare gli ultimi. Un Dio che ha una sola arma, l’amore.

Spesso si dice che Giovanni Paolo II è entrato nella storia, ed è

vero. Ma dicendo questo si pensa alla sua attività di tipo “geopoli-tico”, alla sconfitta del comunismo, agli incontri che ha avuto con i grandi della terra. In realtà è entrato nella storia (e anche in questo caso lo hanno capito i più umili e i più semplici) perché ha accettato il dolore e lo ha trasformato in forza.

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E, se ci pensiamo, lo ha fatto sempre, non solo nell’ultimo tratto della sua vita terrena. Lo ha fatto (lo ripeto) da bambino, quando ha perso la mamma. Lo ha fatto da ragazzo, quando è rimasto solo dopo la morte del padre e del fratello. lo ha fatto nell’esperienza della guerra, come lavoratore e come prete. Lo ha fatto da vescovo, in un paese sottoposto alla dominazione di un’ideologia atea. lo ha fatto quando è stato colpito dall’attentato in piazza San Pietro, ha perdo-nato l’attentatore e ha reso grazie alla Vergine.

In questa sua accettazione e trasformazione della sofferenza, da limite a forza, c’è un che di mistico, un tratto del quale troppo spesso ci dimentichiamo quando parliamo di Karol Wojtyla.

Decisivo l’incontro con la spiritualità di santa Teresa D’Avila, di san Giovanni della Croce, di san Luigi Maria Grignion di Monfort, dal quale giovanni paolo II prende il motto Totus tuus e al quale nell’enciclica Redemptoris Mater dedicherà queste parole: “Mi è caro ricordare, tra i tanti testimoni e maestri di tale spiritualità, la fi-gura di san Luigi Maria Grignion de Montfort, il quale proponeva ai cristiani la consacrazione a Cristo per le mani di Maria, come mezzo efficace per vivere fedelmente gli impegni battesimali”

Ecco, questi sono gli esempi che hanno condotto l’uomo Karol Woityla e il papa Giovanni Paolo II a concepire la propria esi-stenza come vita da donare, fino all’estremo sacrificio delle pro-prie energie e delle proprie possibilità. Esempi di grandi mistici. Tutti ricordiamo come pregava Giovanni Paolo II, come sapeva rac-cogliersi in preghiera in ogni situazione e come, davanti alla sua pre-ghiera, si avesse la sensazione quasi fisica del rapporto diretto con il Signore. non era un atteggiamento. era l’alimento attraverso il quale il mistico coltivava la fortezza. Era confidenza nel senso lette-rale della parola: cum fides, avere fiducia, avere una speranza certa.

È stata questa confidenza, testimoniata anno dopo anno, in ogni situazione, a condurlo per le vie del mondo e ad essere pastore sempre, fino all’ultimo.

La sua preghiera si è fatta offerta di sé, come quando lo abbiamo visto davanti al video, durante l’ultima via crucis che non poté se-guire di persona al Colosseo. Quando, nella sua cappella privata,

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prese tra le mani la croce, ognuno ebbe la possibilità di toccare con mano l’offerta di sé che in quel momento il papa stava facendo. I mistici dei secoli scorsi ci sono stati raccontati dai pittori e dagli scultori. Il mistico giovanni paolo II lo abbiamo visto in diretta.

Ecco perché è entrato nella storia. In modo paradossale, secondo la logica terrena, ma nel modo più bello secondo la logica di Gesù.

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«gesù non è sceso dalla croce, perché do-vrei scenderne io?». la frase con la quale papa Wojtyła rispose, nel corso della sua ultima Settimana Santa, a un cardinale che lo invitava a non sfor-zarsi sino al limite, è forse la sintesi più estrema e commovente di quello che il titolo di questa Tavola rotonda definisce «Il coraggio umano-cristiano di giovanni paolo II nella debolezza della malattia».

Milioni di persone nel mondo conservano nella memoria l’imma-gine, trasmessa dalla televisione, del Pontefice di spalle, nella sua cappella privata, abbracciato alla croce durante la celebrazione della Via crucis del Venerdì santo 25 marzo 2005, appena otto giorni prima di morire. E in precedenza, quando ancora si trovava ricoverato nel policlinico Gemelli, tornava spesso a ripetere ai suoi collaboratori più stretti che san Pietro era stato crocifisso a testa in giù.

Non si tratta soltanto di immagini emotivamente coinvolgenti, ma di alcune delle concrete “istantanee” dell’intensità con cui Karol Wojtyła ha vissuto l’intera sua esistenza, e in particolar modo l’ul-

saVerio gaeTagiornalisTa di FaMiglia CrisTiana

il coRAGGio umAno-cRiStiAno di GiovAnni PAolo ii nEllA dEBolEzzA dEllA mAlAttiA

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timo scorcio della sua missione in terra. Episodi che, come tante tes-serine, hanno composto quel grande mosaico di santità che la Chiesa ha ufficialmente ratificato, in sintonia con il più profondo sentimento del popolo di Dio.

Le radici di tutto ciò affondano nell’infanzia di Lolek, ai tempi in cui la prematura scomparsa della madre Emilia, nel 1929, e del fratello maggiore Edmund, nel 1932, gli fecero toccare con mano il senso di un’esistenza affidata totalmente a Dio. Agli amici più cari raccontava come gli si fosse impressa profondamente nell’a-nimo l’immagine del padre che, in piedi accanto alla bara di Edmund (morto per l’eroica abnegazione con cui cercava di curare quanti erano stati colpiti da un’epidemia di scarlattina), ripeteva le parole: «Sia fatta la Tua volontà!».

la medesima accettazione del disegno divino ha caratterizzato l’intera esistenza di Wojtyła, che non si limitava a vedere la necessità della propria sofferenza di espiazione, ma addirittura riconosceva nelle vicende di alcune persone amiche le connotazioni dei «cirenei» che lo sorreggevano nella sua missione.

Tre in particolare sono queste figure. Il primo è il cardinale An-drzej Maria Deskur, che Giovanni Paolo II andò a trovare al policli-nico Gemelli, dove era ricoverato, il giorno successivo alla propria elezione. Tre giorni prima, il 13 ottobre, Deskur era stato colpito da una paralisi mentre si trovava in casa ed era stato trasportato in ospedale con poche speranze di sopravvivenza. Spiegò lo stesso Pontefice: «Volli dare allora un’indicazione precisa circa il modo in cui concepivo e concepisco il formidabile ministero di successore di Pietro. In quella circostanza dissi ai malati che contavo molto, anzi moltissimo su di loro: per le loro preghiere e, soprattutto, per l’of-ferta delle loro sofferenze poteva a me derivare una forza speciale, quale mi era e mi è necessaria per compiere meno indegnamente i miei gravi doveri in seno alla Chiesa di Cristo».

L’esistenza di una particolare corrispondenza, nella vita degli uo-mini di fede, tra sofferenza e aiuto spirituale era convinzione radi-cata in Karol Wojtyła, e il fatto che la propria elezione al pontificato avesse coinciso con l’inizio di una grave malattia per uno degli amici più intimi non faceva che confermarla.

In un appunto risalente ai giorni immediatamente successivi all’e-lezione si legge: «Non riesco a non legare il fatto che il 16 ottobre io

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sia stato eletto successore [di giovanni paolo I] con quanto era av-venuto tre giorni prima. Il sacrificio di Andrzej, mio fratello nell’e-piscopato, mi appare come la preparazione a questo fatto. Tutto, at-traverso la sua sofferenza, è stato iscritto nel mistero della croce e della redenzione operata da Cristo. Una certa analogia la trovo in un evento accaduto undici anni fa, quando, durante la mia permanenza a roma per il concistoro durante il quale fui chiamato a far parte del Collegio cardinalizio, il mio amico don Marian Jaworski ha perso la mano in un incidente ferroviario presso Nidzica». Nel 1967, infatti, Wojtyła aveva chiesto a don Jaworski di sostituirlo come predicatore in un ciclo di esercizi spirituali. Durante il viaggio, però, il treno ebbe un incidente e il sacerdote subì l’amputazione traumatica di una mano.

Oltre a questi due cardinali, c’è un altro «cireneo» ante litteram nella storia umana e spirituale di Wojtyła: la dottoressa Wanda Półtawska, per la cui guarigione da un tumore Wojtyła chiese e ot-tenne l’intercessione di padre Pio da Pietrelcina. Una lettera scritta il 20 ottobre 1978, ad appena quattro giorni dall’elezione al pontifi-cato, mostra in tutta chiarezza quanto significativa fosse quella ami-cizia per Giovanni Paolo II: «Ho sempre ritenuto che tu, nel lager di Ravensbrück, abbia sofferto anche per me. [...] È sulla base di questa convinzione che è stata edificata l’idea che voi siate la mia famiglia e tu una sorella». In calce, non appare la firma del Papa, ma l’affet-tuoso appellativo con cui Wanda lo chiamava: «Fratello».

Tanti momenti della vita di giovanni paolo II sono intessuti dalla consapevolezza di una vocazione al sacrificio. Martedì 12 maggio 1981 Giovanni Paolo II fece visita al centro medico del Vaticano. Dopo aver visionato gli ambienti e incontrato il personale fu ac-compagnato all’uscita dal dottor Renato Buzzonetti, direttore della struttura e suo medico personale. Indicandogli una nuova ambu-lanza parcheggiata lì accanto, il medico lo invitò a benedirla. Mentre spruzzava l’acqua santa giovanni paolo II disse: «Benedico anche il primo paziente che utilizzerà questa ambulanza». Ventiquattr’ore dopo, sarebbe stato proprio lui il primo paziente a essere trasportato da quella vettura.

«Se la parola non ha convertito, sarà il sangue a convertire», aveva scritto poco prima di essere eletto al pontificato il cardinale Wojtyła nella poesia Stanisław, dedicata al santo martire di Cracovia. l’at-

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tentato subìto il 13 maggio 1981 per mano di Alì Agca avrebbe con-ferito a quei versi una evidente consistenza autobiografica. Da quel momento sarebbe cominciato infatti il suo più intenso calvario, illu-minato dalla consapevolezza di aver ricevuto nuovamente in dono la vita per poterla offrire a beneficio dell’umanità intera.

la spiccata inclinazione mistica di giovanni paolo II trovava piena manifestazione nel modo in cui viveva e concepiva la soffe-renza come forma di espiazione e come dono di se stesso all’umanità. lo rivelano con chiarezza le parole da lui pronunciate in occasione dell’operazione di appendicite nel 1996: «In questi giorni di malattia ho modo di comprendere ancora meglio il valore del servizio che il Signore mi ha chiamato a rendere alla Chiesa come sacerdote, come vescovo, come successore di Pietro: esso passa anche attraverso il dono della sofferenza».

Un paio d’anni prima, quando era scivolato in bagno e si era frat-turato il femore, non aveva avuto pudore a esprimere pubblicamente la consapevolezza che le sue sofferenze avevano un concreto valore di espiazione, rappresentavano la donazione di tutto se stesso: «Vo-glio ringraziare per questo dono», disse dopo il rientro in Vaticano, il 25 maggio 1994, «ho capito che è un dono necessario. Il Papa do-veva essere assente da questa finestra per quattro settimane, quattro domeniche, doveva soffrire: come ha dovuto soffrire tredici anni fa, così anche quest’anno».

Il suo è stato davvero un pontificato all’insegna della sofferenza: a partire da quel drammatico 13 maggio 1981, sono stati ben 164 i giorni trascorsi da Giovanni Paolo II al policlinico «Gemelli», da lui stesso simpaticamente definito come il “Vaticano numero 3”, dopo il palazzo apostolico e la residenza di Castel gandolfo.

Ai primi 22 giorni dopo l’attentato, se ne aggiunsero tra il giugno e l’agosto di quell’anno altri 56, per curare un’infezione da cyto-megalovirus e per effettuare un nuovo intervento chirurgico. Altri quattro ricoveri si susseguirono una decina d’anni dopo: 15 giorni nel 1992 per l’asportazione di un tumore benigno all’intestino; 2 giorni nel 1993 per una lussazione alla spalla destra che lo obbligò a tenere per un mese il bendaggio; 30 giorni nel 1994 per la frattura al femore destro causata da una caduta in bagno; 10 giorni nel 1996 per un intervento di asportazione dell’appendice. Ulteriori due ricoveri, per 28 giorni complessivi, si resero infine necessari tra febbraio e

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marzo del 2005, per praticargli la tracheotomia quando una laringo-tracheite acuta gli rendeva ormai molto difficile respirare autonoma-mente.

Ogni problema fisico era per lui uno spunto di meditazione perso-nale: «Io mi domando che cosa vuole comunicarmi Dio con questa malattia», rispose a un medico che gli chiedeva come si sentisse. Ma al di là del significato attribuito alla propria, era la sofferenza dell’uomo a offrire a papa Wojtyła un tema di riflessione privile-giato, cui dedicò nel febbraio 1984 la lettera apostolica Salvifici doloris. In queste pagine il Pontefice porta a conferma del valore salvifico della sofferenza la stessa vicenda umana di Gesù, la cui venuta sulla Terra «con tutta la gioia che comporta per l’umanità, è indissolubilmente legata alla sofferenza». In Cristo «il dolore ri-ceve una nuova luce, che lo èleva da semplice e negativa passività a positiva collaborazione all’opera della salvezza». nella dimensione del Vangelo, il soffrire «non è energia sciupata, perché è trasformato dall’amore divino».

Pur senza disconoscere l’importanza delle proprie riflessioni te-ologiche sull’argomento, la confidenza da lui rivolta a un collabora-tore esprime la sua piena consapevolezza del valore incommensura-bile che la sofferenza assume quando è portata su di sé: «Io ho scritto tante encicliche e lettere apostoliche, ma mi rendo conto che solo con le mie sofferenze posso contribuire ad aiutare meglio l’umanità. pensi al valore del dolore sofferto e offerto con amore...».

Durante una celebrazione in San Pietro, uno dei cerimonieri si accorse della grave espressione di dolore sul volto del Pontefice e gli chiese: «Santità, posso aiutarla in qualche modo? Forse qualcosa le fa male?». E lui rispose: «Ormai tutto mi fa male, ma deve essere così». Dare un senso al dolore non implicava per papa Wojtyła che non ci si dovesse impegnare per alleviarlo e portare conforto a chi lo subisce. Se «la croce è la prima lettera dell’alfabeto di Dio», af-fermò, questo non significa che la dimensione cristiana della soffe-renza «si riduce soltanto al suo significato profondo e al suo carattere redentore». Il dolore deve infatti «generare solidarietà, dedizione, generosità in quanti soffrono e in quanti si sentono chiamati ad assi-sterli e ad aiutarli nelle loro sofferenze».

Un appello rivolto a ogni uomo, in quanto «nessuna istituzione può da sola sostituire il cuore umano, la compassione umana, quando

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si tratti di farsi incontro alle sofferenze fisiche». Per questo volle fare della Giornata mondiale del malato, istituita per sua iniziativa nel 1992 e da allora celebrata ogni 11 febbraio, in coincidenza con la memoria liturgica di Nostra Signora di Lourdes, un’occasione per meditare sul dolore ma anche per esortare alla solidarietà verso chi soffre.

E quando non c’era qualche infermità a fargli vivere l’esperienza del dolore, era lui stesso a infliggere mortificazioni al proprio corpo. per esempio – oltre ai digiuni prescritti che seguiva con estremo ri-gore soprattutto nel periodo quaresimale, quando riduceva l’alimen-tazione a un solo pasto completo al giorno – si asteneva dal cibo anche prima di conferire ordinazioni sacerdotali ed episcopali.

«Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa», scrive san Paolo nella Lettera ai Colossesi (1,24). Karol Wojtyła fece di queste parole un cardine della propria testimonianza di fede. Quando soffriva molto, per esempio nelle fasi post-operatorie, diceva: «Bisogna riparare. Quanto ha dovuto soffrire il Signore Gesù». Lo stesso ripeteva nelle ore estreme della sua malattia, quando aveva sete e non gli si poteva dare da bere. Cosicché, in particolare nel suo ultimo mese terreno, si è manifestata in tutta la sua trasparente pienezza l’essenza di una vita spesa nel segno del «Totus tuus», del completo abbandono fra le braccia del padre e della Madonna.

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Il presente volume raccoglie gli Atti del seminario di studio celebrato il 15 maggio 2012 in Vaticano nella Chiesa di S. Stefano degli Abissini: “La sapienza della Croce nel pensiero e nella testimonianza del beato Gio-vanni Paolo II ”.

Il messaggio sviluppato nel seminario da illustri rela-tori, ora ci è consentito di gustarlo attraverso queste pa-

gine con viva partecipazione intellettuale ed emotiva. l’ordine delle relazioni è il medesimo delle esposizioni: S. Ecc. Mons. Enrico Dal Covolo, Rettore Magnifico della Pontificia Università Lateranense; rev.mo Superiore generale dei passionisti p. ottaviano d’egidio; S.Em. Cardinal Georges Marie Martin Cottier op, teologo emerito della Casa Pontificia; Prof. Mario P. Collu passionista della Ponti-ficia Università Lateranense; S.Em. Cardinal Angelo Comastri, Vi-cario Generale di Sua Santità per la Città del Vaticano; Prof. Gilfredo Marengo del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su matri-monio e famiglia; Dott. Ciro Benedettini passionista vice-direttore della Sala Stampa Vaticana; i vaticanisti Dott. Aldo Maria Valli e Dott. Saverio gaeta. ringraziamo ciascuno di loro per l’entusiasmo che hanno saputo riversare sui partecipanti e per la loro indiscussa competenza nel presentarci, ognuno di loro, aspetti diversi e accen-tuazioni interessanti sulla santità crocifissa dell’amatissimo beato giovanni paolo II.

Alle relazioni presentate, è stato premesso un articolo scritto nel 1969 da Giovanni Paolo II, quando era cardinale; esso è stato pubblicato nella rivista passionista Fonti vive: La spiritualità della Passione e il mistero pasquale e, per la sua originalità, profondità e

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attualità, è stato ripresentato una seconda volta qualche anno dopo. È sembrato doveroso metterlo all’inizio dei vari contributi perché esso ci invita a leggere la sofferenza umana alla luce della sapienza della croce. La riflessione dell’allora cardinale Wojtyla considera la esperienza straordinaria della passione di gesù vissuta dal Fondatore dei Passionisti San Paolo della Croce, scandagliandone le profondità del carisma, che il beato Giovanni Paolo II ha impersonato nella sua carne di testimone.

Le présent volume recueille les Actes du séminaire des études célébré le 15 Mai 2012 au Vatican dans l’Eglise St. Etienne des Abyssins: “La sagesse de la Croix dans la pensée et dans

le témoignage du Bienheureux Jean- Paul II”. Le message développé durant le séminaire par des éminents

conférenciers, maintenant il est permis de l’apprécier à travers ces pages avec vive participation intellectuelle et émotive. L’ordre des relations est le même des expositions: S. Ex. Mgr Enrico Dal Covolo, Recteur Magnifique de l’Université Pontificale du Latran; Très Rev. Superieur Générale des Passionistes P. Ottaviano d’Egidio; S. Em. Cardinal Georges Marie Martin Cottier op, théologien émérite de la Maison Pontificale; Prof. Mario P. Collu, passioniste de l’Université du Latran; S. Em. Cardinal Angelo Comastri, Vicaire Générale de Sa Sainteté pour la Cité du Vatican; Prof. Gilfredo Marengo de l’Institut pontificale Jean- Paul II pour les études sur le mariage et la famille ; Dr. Ciro Benedettini, passioniste, Vis-Directeur de la salle de Presse Vaticane; les Vaticanistes Dr. Aldo Maria Valli et Dr. Saverio gaeta. Nos remerciements à chacun d’eux pour l’enthousiasme qu’ils ont su verser sur les participants et pour leur incontestée compétence de présenter, chacun d’eux, divers aspects et accentuations intéres-santes sur la sainteté crucifiée du très bien-aimé Jean-Paul II.

Aux relations présentées, on a fait précédé un article écrit en 1969 par Jean-Paul II, quand il était Cardinal; il fut publié dans la revue passioniste Fonti vive: La spiritualité de la passion et le mystère Pasqual et, pour son originalité, profondeur et actualité, a été re-présenté une seconde fois quelques années après. Ce fut un devoir de le mettre en début de diverses contributions parce qu’il nous invite à

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lire la souffrance humaine à la lumière de la sagesse de la Croix. La réflexion de l’alors Cardinal Wojtyla considère l’expérience extraor-dinaire de la passion de Jésus vécue par le Fondateur des Passioni-stes, Saint Paul de La Croix, sondant les profondeurs du charisme, que le Bienheureux Jean-Paul II a personnalisé dans sa chair.

Der vorliegende Band dokumentiert die Vorträge des Stu-dientages: “La sapienza della Croce nel pensiero e nella testi-monianza del beato Giovanni Paolo II” (Die Kreuzesweisheit

in Lehre und Zeugnis des seligen Johannes Paul II.), welcher am 15. Mai 2012 in der Kirche S. Stefano degli Abissini im Vatikan abge-halten worden ist.

Die nachfolgenden Seiten gestatten uns nun, dass wir die im Se-minar von renommierter Seite vorgetragenen gedanken nachvoll-ziehen und intellektuell wie emotional verkosten können. Die Ord-nung der Vorträge folgt der Abfolge, in der sie gehalten worden sind: S. E. Mons. Enrico Dal Covolo, Rektor der Päpstlichen Lateranuni-versität; P. Ottaviano d’Egidio CP, Generaloberer der Passionisten; S. Em. Kardinal Georges Marie Martin Cottier OP, emeritierter Theologe der Casa Pontificia; Prof. Mario P. Collu CP, Professor an der päpstlichen lateranuniversität; S.em. Kardinal Angelo Co-mastri, Generalvikar Seiner Heiligkeit für die Vatikanstadt; Prof. Gilfredo Marengo, Professor am Päpstlichen Institut für Ehe und Fa-milie, Johannes Paul II; P. Dr. Ciro Benedettini CP, Vizedirektor des Vatikanischen presseamtes; Dr. Aldo Maria Valli und Dr. Saverio Gaeta, Mitarbeiter an der päpstlichen Kurie. Unser besonderer Dank gilt den einzelnen Referenten, die mit Begeisterung und einer über jeden Zweifel erhabenen Kompetenz den Teilnehmern je eigene As-pekte und hochinteressante Akzentuierungen der gekreuzigten Hei-ligkeit des geliebten, seligen Johannes Paul II. vor Augen zu stellen wussten.

Den Beiträgen ist ein Artikel vorangestellt, den Johannes Paul II 1969 geschrieben hat, als er noch Kardinal in Krakau war. Dieser ist unter dem Titel: La spiritualità della Passione e il mistero Pas-quale (Die Passionsspiritualität und das Paschageheimnis) in der passionistenzeitschrift Fonti vive erschienen. Wegen seiner Origi-

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nalität, Tiefe und Aktualität ist er einige Jahre später noch einmal abgedruckt worden.

es schien überaus angemessen den Seminarbeiträgen diesen Ar-tikel voranzustellen, weil er dazu einlädt, das menschliche Leid im Licht der Weisheit des Kreuzes zu sehen. Die Gedankengänge des damaligen Kardinal Wojtyla gehen auf die außerordentliche Erfah-rung der Passion Jesu ein, wie sie dem Gründer der Passionisten, dem heiligen Paul vom Kreuz, zuteil geworden sind, und loten die Tiefe dieses Charismas aus, welches dann im Leben des seligen Jo-hannes Paul II selbst seine Verkörperung gefunden hat.

el volumen presente recoge las Actas del seminario de estudio celebrado el 15 de Mayo de 2012 en el Vaticano, en la iglesia de San esteban de los Abisinios: “La sabiduría de la Cruz en

el pensamiento y en el testimonio del beato Juan Pablo II”.El mensaje desarrollado en el seminario por ilustres relatores se

puede ahora disfrutar a través de estas páginas, con viva participa-ción intelectual y emotiva. El orden de las redacciones es el mismo que el de las exposiciones: S. Exc. Mons. Enrico Dal Covolo, Rector Magnífico de la Universidad Pontificia Lateranense; Revmo. Supe-rior general de los pasionistas p. ottaviano d’egidio; S. em. Car-denal Georges Marie Cottier o.p., teólogo emérito de la Casa Pon-tificia; Prof. Mario P. Collu pasionista de la Universidad Pontificia Lateranense; S. Em. Cardenal Angelo Comastri, Vicario General de Su Santidad para la Ciudad del Vaticano; Prof. Gilfredo Marengo, del Instituto Pontificio Giovanni Paolo II para estudios sobre ma-trimonio y familia; Dr. Ciro Benedettini, pasionista, vice director de la Sala Stampa Vaticana; los vaticanistas Dr. Aldo Maria Valli y Dr. Saverio gaeta. nuestro agradecimiento se dirige a cada uno de ellos por el entusiasmo que han sabido transmitir a los participantes y por su indiscutible competencia en presentarnos, cada uno de ellos, aspectos diversos y acentuaciones interesantes sobre la santidad cru-cificada del queridísimo beato Juan Pablo II.

A las relacciones presentadas se ha anticipado un artículo escrito en 1969 por Juan Pablo II cuando era cardenal. Este artículo ha estado publicado en la revista pasionista Fonti vive: La espiritualidad de la

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Pasión y el misterio pascual, y por su originalidad, profundidad y actualidad, se ha presentado de nuevo algún año después. Parecía un deber ponerlo al comienzo de las varias contribuciones, porque así nos invita a leer el sufrimiento humano a la luz de la sabiduría de la cruz. La reflexión del entonces cardenal Wojtyla considera la expe-riencia extraordinaria de la pasión de Jesús vivida por el Fundador de los Pasionistas San Pablo de la Cruz, sondeando la profundidad del carisma, que el beato Juan Pablo II ha personificado en su carne de testimonio.

This volume contains the proceedings of the seminar held at the Vatican on May 15, 2012, in the Church of St. Stephen of the Abyssinians, entitled, “Wisdom of the Cross in the

Thought and Witness of Blessed John Paul II.”The message developed by distinguished speakers at the seminar

can now be enjoyed through these pages with great intellectual and emotional participation. The order of the speeches is the same as the presentations, that is: His Excellency Bishop Enrico Dal Covolo, Rector of the Pontifical Lateran University; Most Rev. Superior Ge-neral of the Passionists, Fr. Ottaviano D’Egidio; His Emminence Cardinal Georges Marie Martin Cottier, OP, Theologian emeritus of the Pontifical Household; Prof. Mario Collu, a Passionist of the Pon-tifical Lateran University; H.E. Cardinal Angelo Comastri, Vicar Ge-neral of His Holiness for the Vatican City; Prof. Gilfredo Marengo of the John Paul II Pontifical Institute for Studies on Marriage and Fa-mily; Dr. Ciro Benedettini, Passionist, vice- director of the Vatican Press Office; and the Vatican experts both Dr. Aldo Maria Valli and Dr. Saverio Gaeta. We thank each of them for the enthusiasm that they have shown toward the participants and their undisputed exper-tise, each of them, in presenting different aspects and interesting em-phases on the crucified sanctity of our beloved Blessed John Paul II.

The speeches were prefaced by an article written in 1969 by Pope John Paul II when he was a cardinal; it was published in the Passio-nist journal, Fonti vive: La spiritualità della Passione e il mistero pasquale (Fonti vive: The Spirituality of the Passion and Paschal Mystery) for its originality, depth, and relevance. The article was

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reintroduced a second time a few years later. It seemed only right to put it at the beginning of the various contributions because it invites us to read about human suffering in light of the wisdom of the cross. The reflection of the-then Cardinal Wojtyla considers the extraordi-nary experience of the passion of Jesus experienced by the Founder of the Passionists, St. Paul of the Cross, assessing the depths of the charism, to which Blessed John Paul II bore witness in his own flesh.

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PONTIFICIA UNIVERSITÀ LATERANENSECATTEDRA GLORIA CRUCIS

Produzione scientifica

della cattedra Gloria crucis

AA.VV. Memoria Passionis in Stanislas Breton, Edizioni Staurós, S. Gabriele Teramo, 2004.Piero CodA, Le sette Parole di Cristo in Croce, Edizioni Staurós, S. Gabriele Teramo, ottobre 2004.Luis diez Merino, CP Il Figlio dell’Uomo nel Vangelo della Passione, Edizioni Staurós, S. Gabriele Teramo, ottobre 2004. MArio CoLLu, CP Il Logos della Croce centro e fonte del Vangelo, Edizioni Staurós, S. Gabriele Teramo, novembre 2004.TiTo di sTefAno, CP Croce e libertà, Edizioni Staurós, S. Gabriele Teramo, dicembre 2004.CArLo Chenis, sdB Croce e arte, Edizioni Staurós, S. Gabriele Teramo, gennaio 2004.AngeLA MAriA LuPo, CP La Croce di Cristo segno definitivo dell’Alleanza tra Dio e l’Uomo, Edizioni Staurós, S. Gabriele Teramo, febbraio 2004.fernAndo TACCone, CP (ed.) Quale volto di Dio rivela il Crocifisso?, Edizioni OCD, Roma Morena, 2006.fernAndo TACCone, CP (ed.) La visione del Dio invisibile nel volto del Crocifisso, Edizioni OCD, Roma Morena, 2008.fernAndo TACCone, CP (ed.) Stima di sé e kenosi, Edizioni OCD, Roma Morena, 2008.fernAndo TACCone, CP (ed.) Croce e identità cristiana di Dio nei primi secoli, Edizioni OCD, Roma Morena, 2009.fernAndo TACCone, CP (a cura) John Henri Newman e Domenico Barberi, in La Sapienza della Croce, Edizioni CIPI, S. Gabriele, n. 4, 2010.fernAndo TACCone, CP (a cura) L’agire sociale alla luce della teologia della Croce, Edizioni OCD, Roma Morena, 2011.fernAndo TACCone, CP (ed.) Persona e croce, Edizioni OCD, Roma Morena, 2011.fernAndo TACCone, CP (ed.) La colpa umana dinanzi al mistero della croce, Edizioni OCD, Roma Morena, 2011.AA.VV. Il Beato Domenico Bàrberi passionista nell’itine- rario di conversione del Card. John Henry Newman, in La Sapienza della Croce, Anno XXV, n. 4, ottobre-dicembre 2010, Edizione CIPI.AA. VV. Emigrazione e multiculturalità: croce su cui morire o risorgere, in La Sapienza della Croce, Anno XXVI, n. 1, gennaio-aprile 2011, Edizione CIPI.AA. VV., Il concetto cristiano di Dio a partire dalla Croce. La fondazione biblica: Dio è amore, in La Sa- pienza della Croce, anno XXVI, n.2, maggio- agosto 2012, Edizione CIPIAA. VV. La sapienza della croce come risposta alla do- manda di senso, in La Sapienza della Croce,

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anno XXVI n.3, settembre-dicembre 2012, Edi zione CIPI.L’attività scientifica della Cattedra Gloria Crucis è fruibile nel sito www.passio-christi.org alla voce Cattedra Gloria Crucis.La rivista La Sapienza della Croce è anch’essa fruibile nello stesso sito alla voce Sapienza della Croce.

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