la verità la prudenza l’amore · la verità nella sua pienezza non è possesso individuale, ......

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1 La Verità – La Prudenza – L’Amore Riflessioni di Giuseppe Lazzati ai giovani La verità vi farà liberi: Gesù stesso cerca di far capire qual è la sua vera natura e la sua vera missione. Nel vangelo di Giovanni si legge: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». 1 È un’espressione che ha bisogno di essere approfondita. Dobbiamo cominciare da cosa intenda dire Gesù con il termine “Verità”. Se da uomini dovessimo cercare, solo con la forza della nostra intelligenza, la risposta dovremmo lasciarla ai filosofi. Invece noi dobbiamo camminare per la strada della fede. Non per non apprezzare la ragione, ma perché il discorso di Gesù domanda la fede. Essa non elimina la ragione, ma la supera. Il tema della verità è collegato con quello della parola. Giovanni parla di rivelare la verità e questa verità è dentro la parola di Gesù, in quanto è questa parola che rivela la verità. La parola di Gesù dice le parole del Padre, dice che la parola del Padre è verità. Occorre riprendere il prologo del vangelo di Giovanni: «In principio era la Parola, e la Parola era presso Dio e la Parola era Dio». 2 Gesù afferma che la parola del Padre è verità. Quella parola è Gesù stesso, apparso nella carne. Ma prima di farsi carne la parola esiste. Il Padre si pensa e il suo pensarsi si esprime nella Parola nella quale è espresso tutto il Padre. Qui si è nel mistero della Trinità. È una cosa che supera la forza della ragione. Giovanni, nel prologo del suo vangelo, esprime in parole umane il fatto teologico che la parola di Dio è presso Dio, è distinta dal Padre che la pronuncia, ma è Dio. Il Verbo, Parola espressa dal Padre, lo riproduce nella sua totalità. La differenza è solo nella relazione che c’è tra chi genera e chi è generato. Adesso occorre capire cosa s’intende quando si parla di verità. Tutto ciò che esiste, esiste perché Dio lo pensa. Non esiste nulla fuori dal pensiero di Dio. Dio pensa nel suo pensiero. Non può pensare fuori di esso. Se Dio pensa di fare qualcosa, lo pensa nella Parola. Questa è l’origine di tutto ciò che è stato creato. Questo dice l’origine delle cose, non dice però come sono fatte le cose. Questo lo si deve scoprire con la ragione. Dio ha dato l’intelligenza per scoprire come sono fatte le sue opere. Com’è fatta la luce pertanto lo spiegheranno i fisici, non i teologi. Dunque la fede non sostituisce la ragione per l’ambito che le è assegnato da Dio stesso. La verità, per noi uomini, ha quindi due ambiti: l’ambito della fede e quello della ragione. Ho bisogno di entrambi se voglio conoscere pienamente la verità. È importante sottolineare la necessità di questa duplice luce di cui c’è bisogno per conoscere tutta la verità. Dunque è fondamentale capire che la verità, se la si vuol prendere nella sua interezza, ha bisogno di entrambe le luci. È importante anche capire come la luce della fede possa essere accolta da tutti, perfino da coloro che per formazione o altro sono “lontani”. Quando il biologo, con l’intelligenza che gli è data, scopre come funziona la vita è chiaro che quella scoperta lo conduce a vedere le meraviglie di Dio. Così la verità stessa acquista la pienezza delle sue dimensioni: una divina e una umana. La ragione ad un certo punto, ha creduto di poter esaurire tutta la facoltà della conoscenza dell’uomo, ma contro la luce della fede, credendo di farne a meno, ha preteso di spiegare tutto da sola. Pur essendo chiaro che le due dimensioni della verità possono avere un’importanza diversa, una condizione è fondamentale per il loro rapporto: l’umiltà. Si tratta dell’umiltà di riconoscere che l’uomo, con le sue forze, non arriva alla verità piena. La verità ha bisogno che la ragione accolga la 1 Gv 8,31-32. 2 Gv 1,1.

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La Verità – La Prudenza – L’Amore Riflessioni di Giuseppe Lazzati ai giovani

La verità vi farà liberi:

Gesù stesso cerca di far capire qual è la sua vera natura e la sua vera missione. Nel vangelo di

Giovanni si legge: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete miei discepoli; conoscerete la verità e la verità

vi farà liberi».1 È un’espressione che ha bisogno di essere approfondita. Dobbiamo cominciare da cosa

intenda dire Gesù con il termine “Verità”. Se da uomini dovessimo cercare, solo con la forza della nostra

intelligenza, la risposta dovremmo lasciarla ai filosofi. Invece noi dobbiamo camminare per la strada della

fede. Non per non apprezzare la ragione, ma perché il discorso di Gesù domanda la fede. Essa non elimina la

ragione, ma la supera.

Il tema della verità è collegato con quello della parola. Giovanni parla di rivelare la verità e questa

verità è dentro la parola di Gesù, in quanto è questa parola che rivela la verità. La parola di Gesù dice le

parole del Padre, dice che la parola del Padre è verità. Occorre riprendere il prologo del vangelo di Giovanni:

«In principio era la Parola, e la Parola era presso Dio e la Parola era Dio».2 Gesù afferma che la parola del

Padre è verità. Quella parola è Gesù stesso, apparso nella carne. Ma prima di farsi carne la parola esiste. Il

Padre si pensa e il suo pensarsi si esprime nella Parola nella quale è espresso tutto il Padre. Qui si è nel

mistero della Trinità. È una cosa che supera la forza della ragione. Giovanni, nel prologo del suo vangelo,

esprime in parole umane il fatto teologico che la parola di Dio è presso Dio, è distinta dal Padre che la

pronuncia, ma è Dio. Il Verbo, Parola espressa dal Padre, lo riproduce nella sua totalità. La differenza è solo

nella relazione che c’è tra chi genera e chi è generato.

Adesso occorre capire cosa s’intende quando si parla di verità. Tutto ciò che esiste, esiste perché Dio

lo pensa. Non esiste nulla fuori dal pensiero di Dio. Dio pensa nel suo pensiero. Non può pensare fuori di

esso. Se Dio pensa di fare qualcosa, lo pensa nella Parola. Questa è l’origine di tutto ciò che è stato creato.

Questo dice l’origine delle cose, non dice però come sono fatte le cose. Questo lo si deve scoprire con la

ragione. Dio ha dato l’intelligenza per scoprire come sono fatte le sue opere. Com’è fatta la luce pertanto lo

spiegheranno i fisici, non i teologi. Dunque la fede non sostituisce la ragione per l’ambito che le è assegnato

da Dio stesso. La verità, per noi uomini, ha quindi due ambiti: l’ambito della fede e quello della ragione. Ho

bisogno di entrambi se voglio conoscere pienamente la verità. È importante sottolineare la necessità di

questa duplice luce di cui c’è bisogno per conoscere tutta la verità. Dunque è fondamentale capire che la

verità, se la si vuol prendere nella sua interezza, ha bisogno di entrambe le luci. È importante anche capire

come la luce della fede possa essere accolta da tutti, perfino da coloro che per formazione o altro sono

“lontani”. Quando il biologo, con l’intelligenza che gli è data, scopre come funziona la vita è chiaro che

quella scoperta lo conduce a vedere le meraviglie di Dio. Così la verità stessa acquista la pienezza delle sue

dimensioni: una divina e una umana. La ragione ad un certo punto, ha creduto di poter esaurire tutta la

facoltà della conoscenza dell’uomo, ma contro la luce della fede, credendo di farne a meno, ha preteso di

spiegare tutto da sola. Pur essendo chiaro che le due dimensioni della verità possono avere un’importanza

diversa, una condizione è fondamentale per il loro rapporto: l’umiltà. Si tratta dell’umiltà di riconoscere che

l’uomo, con le sue forze, non arriva alla verità piena. La verità ha bisogno che la ragione accolga la

1 Gv 8,31-32. 2 Gv 1,1.

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rivelazione, riconoscendo il proprio limite. Non dobbiamo pretendere, o credere, che la ragione si sostituisca

alla fede. La verità nella sua pienezza non è possesso individuale, ma comunitario, è “bene comune”.

«Io sono la via, la verità e la vita».3 Gesù si proclama la via per arrivare alla verità, perché, arrivando

alla verità, si possegga la vita. La verità non è fatta solo per essere conosciuta. È fatta per essere vissuta: la

verità è vita. Necessita riprendere il prologo del vangelo di Giovanni: «Nella Parola era la vita».4 Qui si

afferma la coincidenza della verità e della vita. La verità nella carità, questo è vivere! La conoscenza

dell’atto puro di essere che è Dio, atto di amore e relazione tra Padre, Figlio, e Spirito Santo, fa si che noi

viviamo. La verità ci fa veri nel rapporto con Dio. Con il battesimo diveniamo uomo-nuovo. La potenza dello

Spirito ci fa rinascere. L’uomo è vero uomo quando, conosciuto ciò che è, vive il mistero del suo essere

creatura, ossia figlio di Dio. Certamente non è lasciando che la carne prevalga sullo spirito, che uno è uomo.

È ristabilendo l’ordine voluto da Dio che uno è uomo. Ma cosa vuol dire farsi veri nel rapporto con gli altri

uomini? Si può guardare in faccia a ogni uomo e riconoscerlo, in senso vero, come fratello. Se fratello vuol

dire essere nato dallo stesso Padre, allora insieme possiamo dire «Padre nostro». Allora diventa chiaro che i

rapporti tra gli uomini devono diventare rapporti di vera fraternità. La rivoluzione francese ha avuto come

motto “Libertà, fraternità e legalità”, ma si è trattano di una scimmiottatura della fraternità cristiana. A

generarci nella fraternità è solo lo Spirito, se questo non avviene gli sforzi dell’uomo a stento produrranno

risultato, perché ci saranno uomini disposti a violare i legami. L’uomo deve anche diventare “Signore del

creato”. Questo può avvenire in obbedienza al creatore e con l’impegno delle nostre mani e della nostra

intelligenza. Questo vuol dire obbedire alla verità rivelata. Cristo non è stato riconosciuto quando risuscitava

i morti, quando dava la vita ai ciechi, quando faceva camminare i paralitici. È nel momento in cui muore che

viene riconosciuto come Figlio di Dio. Qui è il mistero. Perché non si vive la verità se non si è disposti a

morire.

Occorre adesso porsi un’altra domanda: da cosa ci libera la verità? La prima libertà che porta la

verità, è la libertà dall’ignoranza. Liberasi dall’ignoranza vuol dire conoscersi, saper leggere la realtà,

prospettare, preservare quindi vuol dire vivere meglio. Ma la conoscenza della propria origine e del proprio

compimento l’uomo può averla solo se conosce Dio. La conoscenza della verità non libera solo in relazione

all’origine e al fine, ma libera anche dall’errore relativo al valore delle realtà in cui si vive. Quando la verità

ci illumina, noi vediamo le cose del mondo con il loro giusto valore. Certo così si diventa realmente signori

dell’universo ma in vista di arrivare al fine ultimo: «Tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio».5

La verità libera l’uomo anche dall’ignoranza del suo rapporto con gli altri uomini. Quella verità per la quale

tutti gli uomini sono figli di Dio. Non si può, infatti, mai fare dell’altro uomo uno strumento perché egli è,

come ciascuno, fine delle realtà create. È solo quando questa verità invade e pervade l’uomo, che egli è

liberato dall’errore è può camminare verso il suo fine. Il secondo aspetto da considerare è che la verità ci

libera dall’istintività. L’istintività è una forza che Dio stesso ha messo nella natura, perché la natura stessa si

muova verso il suo fine. Dunque l’istintività è un bene. Nell’uomo questo bene deve essere regolato dalla

ragione. Qui è necessario ricordare un’altra espressione di Cristo: «Senza di me non potete far nulla».6 Aiuto

fondamentale è la carità. Questa quando investe l’istintività, la guida in modo che essa risponda al disegno

di Dio conosciuto attraverso la rivelazione. Se l’uomo osserva i comandamenti di Cristo, egli ha la capacità di

guidare la propria istintività. L’istintività, che di per sé è un bene, lo è in misura in cui essa è dominata.

3 Gv 14,6. 4 Gv 1,4. 5 1Cor 3,22-23. 6 Gv 15,5.

3

Senza questo l’uomo è schiavo della propria istintività. Per l’evangelista Giovanni tre sono le istintività che

guidano il mondo: quella del possedere; quella del piacere; quella del dominare. Queste ciascuno le

sperimenta dentro di sé. La verità di Dio dà agli uomini la gioia e la forza di guidare la propria istintività. Il

terzo aspetto da considerare è che la verità ci libera dalla paura. Se noi ci guardiamo intorno, facilmente

possiamo notare come gli uomini sono dominati dalla paura. Paura del futuro, paura di quanto può

accadere. La parola di Dio rassicura: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?».7 Se si crede veramente,

ovvero se per noi la verità non è soltanto una parola, allora il dubbio è superato. Il vero cristiano è libero

dalla paura.

La verità ci rende anche liberi per amare. L’amore, infatti, è la pienezza della libertà e lo è in quanto

partecipazione alla vita divina. È possibile sviluppare questa affermazione rifacendosi a Giovanni:

«Amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è

amore».8 Sotto questo modo di esprimersi vi è la concezione di Dio come amore. Giovanni l’ha imparata con

Gesù. Se si conosce Dio lo si conosce come amore. Nel Figlio, Dio ha comunicato se stesso a coloro che, per

amore, aveva chiamati alla vita. Esistono certamente dei gradi nell’amore. Ci sono gradi iniziali e gradi più

profondi. Nel momento in cui, attraverso la fede, si riconosce in Cristo la pienezza dell’amore rivelata da Dio,

si entra nel circuito dell’amore che lega il Padre al Figlio e il Figlio al Padre. Da ciò si consegue che se Dio ci

ama anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. Questo amarci è la testimonianza del vangelo e richiede la

partecipazione alla vita divina. Questa stessa capacità di amare ci conduce alla libertà. Una libertà che

esclude ogni timore. La verità ci fa liberi per amare, per un amore che è pienezza della libertà. Si tratta di

una libertà da intendere in senso diverso da quella della scelta tra bene e male, perché la vera libertà è la

scelta tra bene e meglio. La possibilità di scegliere il male, infatti, è un grosso limite per l’esercizio della

nostra libertà. Dice ancora Gesù: «Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me».9 È una parola

quanto mai forte. Può forse Dio amare qualcuno più di se stesso? Dio non tollera un amore che lo precede e

che lo superi. Nulla prima di Dio. Nel momento in cui, nel cristiano, insorge la tentazione di mettere l’amore

di qualcuno o di qualcosa prima dell’amore di Dio, in quel momento il cristiano deve dire no. Questo

precetto si attua in Cristo e diventa per l’uomo esigenza di vita. Questo esprime la radicalità del

cristianesimo. Gesù non ci dice questo per soffrire, ma per affermare la necessità di una scelta prioritaria tra

l’amore di Dio e qualsiasi altro amore. Il tema della vocazione si presta a questo ragionamento. Si pensi a

quelle madri che sono disposte a sacrificarsi pur di dare alla luce il proprio figlio. Questo genere di amore ha

Dio sopra di tutto. Si tratta di un dono che non può mai essere vissuto come la rinuncia a qualcosa, ma come

esaltazione della capacità d’amare. Oltre che per amare Dio, la verità ci libera per amare gli uomini: l’amore

tra fratelli è la rivelazione del Padre. «Se uno dicesse: “Io amo Dio” e odiasse il suo fratello, è un

mentitore».10 Se i cristiani vivessero queste realtà, probabilmente il mondo farebbe meno fatica a

riconoscere la presenza di Cristo. Naturalmente, questo amore diretto a tutti gli uomini non esclude

gradazioni. Gradazioni, però, che non escludono la capacità d’amare tutti e di darsi a tutti. L’amore filiale,

coniugale, d’amicizia sono manifestazioni d’amore possibili. L’amore, inteso cristianamente, non distrugge,

però, i cerchi concentrici, li conserva, li esalta, li apre. Infine la libertà per amare il mondo. Occorre evitare

l’egoismo che farebbe concepire le cose unicamente a nostro servizio. Gli uomini e il mondo vanno amati

come Dio li ama. Questo è il modo d’amare del cristiano. Dunque ama e fa quello che vuoi. Questa è la

7 Rm 8, 37. 8 1Gv 4,7-8. 9 Mt 10,37. 10 1Gv 4,20.

4

libertà! Questa è un‘espressione, di San Agostino, che potrebbe sembrare pericolosa. Ovviamente è da

intendere secondo lo Spirito, come espressione profonda del risultato ultimo a cui porta un’autentica

risposta alla vocazione cui Dio sollecita. Allora si può fare quello che si vuole.

La virtù della prudenza:

La virtù della prudenza cristiana è una virtù senza la quale nessuna virtù è virtù. La prudenza è virtù

madre di tutte le virtù. Quindi è molto importante che la conoscano coloro che sono chiamati a essere

costruttori della “città dell’uomo”. Ossia, coloro per i quali l’azione è certo un momento fondamentale della

loro vita, anche se sostanziata dalla contemplazione. La caratteristica del laico impegnato nella costruzione

della città è l’azione. Ebbene la prudenza è la virtù che regola l’azione. Con questo non si vuole dire di

diventare pavidi, o scaltri ma s’intende divenire prudenti nel senso autentico di questa virtù. Il punto di

partenza è la seguente domanda: che vuol dire vivere? La risposta che diamo, nell’ottica cristiana, è dire si

all’amore con cui siamo amati da Dio. Dunque vivere è rispondere a questo amore, è dire si a Dio. Questa

risposta positiva all’amore di Dio è un atto d’intelligenza ed un atto di volontà. Questo atto, è un atto

“sapienziale”, Sàpere vuol dire gustare, si tratta di gustare l’amore di Dio. Il sapiente, nel senso biblico, è

colui che è reso capace di agire rispondendo sempre a Dio con risposte d’amore. queste capacità abituali

sono le virtù. Si tratta di una capacità acquisita e sviluppata con l’impegno continuo. Alla virtù acquisita si

affianca la virtù infusa. Sono tali le virtù teologali: la fede, la speranza, la carità. Il sapiente è colui che è reso

abile ad agire per amore di Dio dalle virtù, infuse e acquisite, che lo portano a chiarezza e fermezza di

disponibilità, alla facilità e alla prontezza dell’azione. Ma come si può definire la prudenza? Isidoro la

definisce come “La retta ragione delle cose che sono da fare”. Si può dire che la prudenza è la virtù che

rende capaci di dar ragione delle azioni da compiere, valide per condurre al fine proprio. Ogni volta che si

agisce, però, si deve raggiungere un fine immediato, che è il fine proprio dell’azione che si sta compiendo.

Quest’azione non costituisce che un momento del tendere al fine ultimo. La prudenza, allora, è la virtù che

rende capaci di dar ragione del modo con cui si deve operare in ogni azione, perché ogni azione raggiunga il

suo fine. Ogni azione è una scelta. Se si vuol vivere da uomini, e da cristiani, bisogna che ogni azione che si

compie sia guidata dalla ragione e dalla fede.

Il nome di prudenza viene a questa virtù dal suo primo momento costitutivo che è il vedere a

distanza, il praevidere. Il prudente è colui che sa vedere da lontano. Il prudente, insomma, è uno che sa

vedere subito qual è il fine da raggiungere, così da non sbagliarsi circa il fine e circa i mezzi da usare per

raggiungerlo. Viene da qui il capire che la prudenza è virtù essenzialmente dell’intelligenza. Quando

l’intelligenza mi ha fatto vedere il bene, ma la mia volontà ha detto no, io invece che prudente sono stato

imprudente. Molto spesso si finisce per essere imprudenti perché non abituati alla riflessione, a quel bel

pensare per ben agire che è la caratteristica specifica del prudente. La prudenza non può fare a meno

nemmeno del retto pensare. San Tommaso d’Aquino nella sua Somma teologica scrive: «È necessario che il

prudente conosca il retto pensare, i principi fondamentali della ragione, come pure circostanze particolari

circa le quali si applica l’agire morale». Per essere prudenti, quindi, bisogna avere un’idea chiara dei principi

fondamentali generali del retto ragionare, attraverso i quali veder bene il fine ultimo da raggiungere.

Occorre poi avere la capacità di conoscere le circostanze particolari circa le quali si attua l’agire morale.

Andare a caso sarebbe un fatale muoversi sotto la spinta dell’istinto, non della ragione. Il prudente non può

fare a meno delle due luci della ragione e della fede. La virtù della prudenza non abita dove non c’è vita di

grazia.

5

Il primo punto da considerare per arrivare a un buon giudizio è che l’intelligenza ha anzitutto

bisogno della memoria. La memoria, infatti, fa presenti i principi generali ai quali ci si deve riferire per le

decisioni che riguardano un determinato problema. I principi generali si deducono dal fine ultimo, che non

deve mai essere dimenticato. Nel momento in cui ci si dimentica del fine ultimo ci si mette già nella

condizione di non prendere una decisione prudente. Occorre anche considerare che ciascuno ha delle

esperienze personali, o può tener conto di esperienze di altri. Attraverso la memoria bisogna tenere conto

anche delle esperienze. Il secondo punto di questo cammino è l’esercizio della riflessione. La memoria e

l’esperienza ci hanno fornito una serie di dati che adesso devono dare vita alla riflessione. Ovvero, occorre

controllare il rapporto tra i dati disponibili e le decisione da fare. A questo secondo momento ne succede un

terzo, molto importante che conduce ad una decisione prudente. È quello di chiedere un consiglio,

rivolgendosi a persone che hanno già sperimentato il fatto di dover prendere decisioni. Il consiglio deve

essere chiesto con senso di disponibilità e di docilità a persone che possono portare consigli sereni e

oggettivi. Tra le persone a cui ci si può rivolgere, si dovrebbe collocare il direttore spirituale. È grazie al

dovuto discernimento che è possibile eliminare quella nebbia che è rappresentata dai nostri giudizi più o

meno affrettati, dalla nostra istintività, dal nostro orgoglio. Il momento successivo per una decisione

prudente è il ragionare per dare vita ad una prospettiva in cui inserire la decisione da prendere. Tutto

questo cammino sembrerebbe richiedere tempi lunghi, non è così. Il prudente non deve aspettare a decidere

quando il problema è passato, ma deve agire con prontezza. Il prudente non deve ritardare la sua decisione.

Il ritardo può avvenire o per temperamento timido o per eccessivo presenza di scrupoli. Di fronte a questi

due pericoli balza ancor più in evidenza l’importanza della docilità del consiglio. La prudenza non è la

conclusione d’un procedimento fatto per scoprire una verità. È, invece, il risultato d’un procedimento fatto

per capire, nel concreto del momento attuale, come comportarsi di fronte a un dato problema. La certezza

di carattere metafisico non è possibile nel concreto storico. Bisogna, dunque, accontentarsi della certezza

morale. Così la timidezza e lo scrupolo possono essere vinti. Occorre stare attenti all’esistenza di un altro

grosso pericolo: è l’errore opposto, la temerarietà. La temerarietà è l’atteggiamento che giudica e decide

senza sufficiente fondamento, per superficialità o per interesse. Nella nebbia suscitata dall’istintività, il

temerario non si ferma tanto a riflettere.

Per arrivare alla decisione, però, ci vuole la volontà. Qui intervengono ora alcuni fattori che

determinano la volontà in un senso o in un altro. Un primo fattore è la previdenza. La previdenza valuta le

conseguenze dell’azione o della rinuncia all’azione. La previdenza è quel momento della virtù della prudenza

in cui non si può prendere una decisione senza considerare ciò che succederà dopo. E, anche, senza

considerare ciò che succederà se non di decide. Ora, il non considerare, il procedere subito senza prevedere,

è frutto d’istintività e il procedere per istintività è proprio dell’animale non dell’uomo. L’uomo, a differenza

dell’animale, guarda, esamina, decide se è o non il caso di agire. Accanto alla previdenza, opera un secondo

fattore: la circospezione. Circum-spicere vuol dire guardarsi attorno, ossia tener conto di tutte le circostanze

moralmente importanti in cui si esercita una determinata azione. Ora l’esigenza dell’analisi ha condotto a

esaminare i vari momenti del cammino della decisione prudente come uno successivo all’altro. In verità, si

tratta di realtà complementari e, attraverso di essi, si giunge a pronunciare la delibera secondo prudenza.

Se voglio essere prudente, però, dovrò prevedere anche le difficoltà, senza farmi illusioni, perché ogni strada

ha le sue ed è bene prevederle, non rinunciando a priori a proseguire, ma valutando tutti i mezzi a

disposizione per poterle superare.

6

Sul tema della virtù cristiana della prudenza, si cercherà ora di cogliere il fatto che in essa si

congiungono insieme natura e grazia. Si congiungono, cioè, le facoltà naturali e il dono di vita che si pone

sotto il nome di grazia, perché dono e facoltà a esso legati sono dati gratuitamente. In questa riflessione si

pone subito un primo interrogativo: la virtù della prudenza è in noi per natura? Ossia è in noi per il fatto

d’essere uomini? Si deve tener presente che la prudenza non è una virtù che tende a realizzare

immediatamente il fine ultimo della vita. Anche chi dovesse sbagliare nella determinazione del fine ultimo,

quello che fa lo fa per inclinazione naturale al fine ultimo. È anche vero che la virtù della prudenza non è una

virtù innata. È, invece, una virtù che si acquista e che è frutto di uno sviluppo delle facoltà umane che sono

necessarie per arrivare a pronunciare la decisione, che è il risultato della virtù della prudenza. Quindi le due

facoltà umane della ragione e della volontà vanno sviluppate in sinergia se si vuole agire con prudenza. Non

ci si può fermare alla prudenza naturale. La virtù sulla quale s’intende riflettere, infatti, è la virtù cristiana

della prudenza. Nel battesimo viene dato il dono della partecipazione alla vita divina e con questo dono

vengono comunicate le facoltà proprie di tale vita: fede, speranza, carità. Pertanto, nel battezzato c’è in

potenza anche la virtù della prudenza. Perciò all’interrogativo: la prudenza è in noi per natura? Si deve

rispondere: no. La prudenza è una virtù che si acquista, richiede tempo perché esige lo sviluppo della

ragione e della volontà nell’ordine sovrannaturale. Si presenta ora un secondo interrogativo: può esserci

prudenza in chi vive in peccato? La risposta esige delle distinzioni. San Tommaso d’Aquino risponde così: se

si parla di prudenza della carne, questa ci può essere anche in chi è in peccato. C’è, poi, un secondo tipo di

prudenza che è vero, anche se imperfetto. Questo tipo di prudenza può essere presente sia in coloro che

vivono in grazia di Dio, sia in coloro che vivono in peccato. La terza specie di prudenza è quella perfetta. Si

tratta della virtù della prudenza in cui si ha la pienezza di rapporto tra ciò che costituisce l’uomo nella sua

realtà naturale e nelle sue facoltà naturali e ciò che costituisce il cristiano nello specifico del suo essere tale.

In questo esercizio della prudenza cristiana si fa unità tra natura e grazia. Dice San Tommaso che la terza

prudenza è quella che sa arrivare al bene finale di tutta la vita. Questa è la prudenza che i cristiani devono

realizzare. Non è una cosa semplice. Attraverso la luce della fede si avrà presente continuamente il fine

ultimo della vita, che non è godere, far soldi, ma è arrivare a Dio. Si pone ora un terzo interrogativo: la

prudenza cristiana si dà quando si è in stato di grazia? A questo interrogativo la risposta è: si, in quanto si è

in grazia. Se non si ha la grazia, non si riesce ad agire secondo la prudenza cristiana. Per esempio un

sindaco, per essere un buon sindaco, deve conoscere come è strutturato il comune, la dimensione dei

problemi, deve saper valutare le priorità nell’affrontare i problemi stessi. È tutta una serie di giudizi che la

grazia aiuterà a dare, ma che da sola, non dà senza la conoscenza dei problemi da affrontare. Questo è un

punto molto importante e bisogna che nei cristiani ci sia tale convinzione. Per avere decisioni che siano

veramente di prudenza cristiana occorre che agiscano insieme, in sinergia le forze della natura e quelle della

grazia. Allora si fa bene il sindaco, il deputato, lo studente, il lavoratore; allora si fanno bene tutte le scelte

personali.

Dopo queste riflessioni risulta evidente che vi sono tre principali condizionamenti della prudenza

cristiana, che sono anzitutto delle facoltà naturali: l’intelligenza e la volontà. L’intelligenza va sviluppata con

l’esercizio della ragione. Occorre poi sviluppare la volontà, perché illuminata dalla ragione, veda chiaro cosa

deve fare e, sviluppata con l’esercizio, sappia prendere le decisioni e portarle a compimento. Un secondo

condizionamento della prudenza cristiana è quello delle passioni dominanti che impediscono le facoltà

naturali di agire secondo ciò che sono. Occorre rinnegare le passioni, così come comanda Cristo, per avere

come fine quello di permettere la sinergia di natura e grazia che non c’è se dominano le passioni. Infine, la

prudenza cristiana è condizionata dalla crescita di grazia. Se si ha chiaro questo, allora si capisce che se si

7

vuol essere prudenti si deve pregare. Da un punto di vista sovrannaturale, la prudenza è sostenuta dal dono

del consiglio, uno dei sette doni dello Spirito Santo, a consigliare quindi è lo Spirito stesso. La vita cristiana in

definitiva è questo continuo dipanarsi di vivere insieme con Dio e di Dio che vive insieme a noi.

L’ultima di queste riflessioni sulla prudenza è dedicata alla discrezione di momenti particolari in cui

agisce questa virtù e per i quali si può dire che si distinguono tre specie di prudenza: la prudenza che ha per

fine il bene del singolo; la prudenza che ha per fine il bene della famiglia; la prudenza che ha per fine il bene

della comunità, della città. Come laici, la politica è il primo compito. Quando si tratta della prudenza del

singolo, bisogna che a illuminare sempre ogni scelta sia la conoscenza di qual è il fine dell’uomo. Il fine

dell’uomo è quello di conoscere, amare e servire Dio, evidentemente la prudenza scatterà nel far decidere

sempre verso questo fine. Lo stesso vale per la prudenza familiare. Se si perde di vista il fine ultimo della

famiglia, non si riuscirà a formare e a far vivere una famiglia che sia cristiana. Il fine, poi, della convivenza

fra gli uomini è il bene comune, questa espressione ha elementi fissi, ma anche mutevoli. Il concetto di bene

comune va continuamente aggiornato, non in modo contradditorio. La prudenza, però, non consiste nel

contemplare il fine, ma nel trovare e porre in atto i mezzi per raggiungere il fine che si è individuato. Il fine,

almeno in alcuni elementi fondamentali, è ciò che muta i mezzi, che non possono mutare. Il concetto

importante da cogliere è questo: c’è un fine che non muta, ma i mezzi per raggiungerlo possono mutare.

Questa mutabilità dipende dalla diversità delle situazioni, oggettive e soggettive.

Tutto questo noi possiamo applicarlo alla prudenza politica. Nel caso di questa prudenza, il fine è il

bene comune. Con questa espressione s’intende la situazione in cui ciascuno, partendo da un punto iniziale

di uguaglianza, può raggiungere il massimo del suo bene personale. Si tratta di creare una situazione in cui,

da un punto di partenza di uguaglianza per tutti quanto a possibili scelte, si permette a ciascuno di

raggiungere il massimo bene a cui lui può arrivare. Ciò senza pretendere un’uguaglianza d’arrivo, ma

accettando la disuguaglianza, che Dio stesso permette facendoci diversi l’un l’altro. Questo deve essere

pensato e dal politico con responsabilità sulla pòlis e dal cittadino mentre provvede alle scelte personali e

familiari.

La prudenza, si è detto all’inizio, è la virtù senza la quale nessun’altra virtù è virtù, neppure la

carità. Ora in conclusione possiamo invertire l’ordine: l’amore fa capire che senza la prudenza non si riesce

ad amare veramente. Ecco la potenza della carità, virtù detta principe.

Dio è amore:

Una vita. Tutto parte dall’amore che l’ha pensata, voluta, amata, e tutto torna all’amore e sussiste

in forza di esso. Si tratta, in pratica, di cogliere, nella sua profondità, il progetto di Dio sull’uomo. Un quesito

importante è: chi è Dio? È importante oltre che audace cercare di rispondere a questa domanda, occorre

lasciarsi guidare non dalle sole forze della ragione, ma della ragione illuminata dalla fede. Quella fede che è

capacità di conoscere come conosce Dio. Serve, dunque, lasciarsi guidare da Lui in queste riflessioni per

cercare di penetrare in questo mistero, cui si rifà la vita che viviamo come a ragione suprema. Giovanni,

grazie allo spirito, è stato reso capace di definire Dio. Nella sua prima lettera, infatti, per due volte esce in

un’espressione che, possiamo dire, offre una certa definizione di Dio: «Chi non ama non ha conosciuto Dio,

perché Dio è amore»11. Adesso dobbiamo fermare la nostra attenzione per cogliere il significato più

profondo di tale definizione, per conoscere Dio e l’uomo. Infatti, non c’è via migliore per conoscere l’uomo di

11 1Gv 4,8.

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quella di vederlo nella luce di Dio. Dio è amore: questa rivelazione di Dio è propria del Nuovo Testamento.

L’Antico Testamento conosce un’altra definizione di Dio. Se definire significa designare il confine di una

certa realtà, l’espressione appare decisamente inesatta quando si parla di Dio che è infinito, ma il

linguaggio umano ha i suoi limiti. Nell’Antico Testamento Dio ha dato una definizione di sé nel momento in

cui affidava la sua missione a Mosè: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio d’Abramo, il Dio d’Isacco, il Dio di

Giacobbe». Dio si è chiamato Io-Sono, ossia l’essere, colui che è. Ed egli è tale perché non ha da altri la

ragione del suo essere, ma ha in se stesso tale ragione. Egli è l’essere. Seguendo la rivelazione del Nuovo

Testamento, nel mistero dell’espressione Io-Sono, cogliamo che questo nome dice che Dio “è”, ossia che Dio

è atto puro di essere. Dio, infatti, non dice: io esisto. Dice: Io-Sono: ho in me la ragione del mio esistere. Per

me, l’essere è il mio esistere, senza combinazione di essere e di esistere. In Dio non c’è differenza tra essere

e esistere. Dicendo così Dio si manifesta come atto puro di essere. Ora, questo atto puro di essere si

conosce. Tanto che parla di sé e dice il suo nome. Si conosce, ma non nel senso che ha conoscenza di se

stesso. Si conosce nel senso che egli è conoscenza di sé. Dio non acquisisce conoscenza di nulla; Dio è

conoscenza. Dio, atto puro di essere, è atto puro di conoscere. E questo sussistere di fronte a lui come sua

immagine è un sussistere nel mistero del suo essere. Riflettendo su questo mistero la teologia è la scienza

che elabora tramite la ragione e la luce della fede la rivelazione. Il Nuovo Testamento c’insegna a chiamare

Padre il generante e Figlio il generato, questa è la nostra fede. Il conoscersi ha come conseguenza che tra il

generante e il generato, tra il Padre e il Figlio, spira un rapporto nel quale si conclude il circuito di questa

vita misteriosa che è quella trinitaria: è l’atto puro di amore con cui il Padre ama il Figlio e il Figlio ama il

Padre. È quello che chiamiamo Spirito Santo, perché spira dal generante Padre al generato Figlio e

viceversa. Lo Spirito, dunque, è atto puro d’amore, termine ultimo e, quindi, senso ultimo dell’atto puro

d’essere e dell’atto puro di conoscere, in cui si conclude il circuito della vita trinitaria. È per questo che

Giovanni può osare di dire: Dio è amore. Se possiamo esprimerci così: Dio non è essere per essere, conoscere

per conoscere. È essere per conoscere e amare. Questo vuol dire che là dove si deve parlare d’amore c’è uno

che ama, c’è uno che è amato e, tra i due, c’è, come nesso di congiunzione l’amore. È qui che ha preso luce il

concetto di persona. Questo concetto esprime relazione. Nella Trinità tale termine è esaltato nel modo più

alto e più pieno, perché è relazione che sussiste per se stessa. È relazione vivente. Mistero, certo, di esso

cogliamo la profondità nella luce della fede che ci è data attraverso la parola di Cristo. La manifestazione

più alta del mistero trinitario, infatti, è proprio l’incarnazione del Verbo. Oltretutto, è attraverso il Verbo

incarnato che noi riusciamo a vedere, alla luce della fede. Gesù dice ai suoi discepoli: «Non sia turbato il

vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Io

vado a preparavi un posto. Ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io». Il Figlio,

incarnato e fatto uomo visibile, manifesta questo profondo mistero: egli è nel Padre e il Padre è in lui. Si

tratta di un’espressione altissima d’amore autentico: non faccio quello che mi piace; faccio quello che gli

piace, perché sono uno con lui. Dopo questo tentativo di comprendere il mistero di Dio, è necessario

raccogliersi e domandare l’aiuto del Signore, perché si faccia presente in noi col suo Spirito. È così è possibile

avere una maggiore illuminazione di questo mistero e che esso si riveli in noi e noi lo si accetti, fino a poter

gustare la gioia di credere che Dio è amore. Dunque, solo la fede può dare risposta all’interrogativo. Se non

c’è fede, non c’è neppure risposta.

Cerchiamo ora di riflettere sull’uomo e sul suo valore. Lo sforzo dell’uomo per conoscere se stesso è

arrivato nell’antichità ad una definizione data da Aristotele: l’uomo, animale ragionevole. Dire che l’uomo è

animale ragionevole, significa superare, con un vero e proprio salto di qualità, la conoscenza dell’uomo

come pura animalità, pur riconoscendo che questa è una delle sue componenti. Non è la componente

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animale quella che esprime l’uomo e lo differenzia dall’animale e lo costituisce nel suo valore, ma è la

razionalità. Sugli altri esseri, infatti, l’uomo riesce ad esercitare la sua capacità di dominio proprio in forza

dell’elemento spirituale: la razionalità. Ad esso segue, naturalmente, la volontà, che fa superare all’uomo la

pura animalità permeandola di spiritualità. L’animalità si muove in vista dei fini che deve raggiungere. Fini

che conosce in sé come avviene nell’animale per l’istinto, ma che conosce attraverso la ragione e che

raggiunge attraverso la volontà che ubbidisce alla ragione. La rivelazione non diminuisce affatto il valore

della conoscenza, ma lo consolida, l’approfondisce, la perfezione, portando la definizione dell’uomo da

quella aristotelica di animale ragionevole a quella cristiana di persona. Il concetto di persona è espresso in

una definizione, di cui va colto il valore, che dice di essere “sostanza individuale di natura razionale”. In

questa definizione è sparito il termine animale. La sapienza medievale ha derivato il concetto di persona

dalla riflessione su Dio, veduto come persona, ossia come “relazione con”. Questo passaggio dall’individuo,

realtà chiusa, alla persona, realtà aperta, che sottolinea l’aspetto relazionale della persona stessa, porta

una luce nuova nella visione dell’uomo e gli dà un valore nuovo, perché quest’apertura relazionale lo apre

all’infinito. Ecco l’uomo in relazione con Dio. Ecco l’uomo in relazione con le realtà del mondo. L’uomo, così,

cresce e, se vuole, può aumentare la misura del proprio valore umano. La relazione con Dio, con gli uomini e

con le cose è elemento qualificante dell’uomo che arricchisce la sua conoscenza stessa. Ora, questa nuova

luce non diminuisce affatto le conquiste della ragione. Anzi, esse acquistano pienezza di valore. La risposta

di Dio all’interrogativo: chi è l’uomo? È contenuta nella prima pagina della Bibbia, nel racconto della

creazione: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza»12. Ebbene anche l’uomo è. Egli però

non ha in sé la ragione del suo essere. Tale ragione la domanda a colui che è, all’atto puro di essere, ossia

Dio. L’uomo è in quanto immagine di Dio. Ma egli è solo perché Dio l’ha pensato e voluto, mentre Dio è

perché non può non essere. Questo pone una differenza infinita tra l’uomo e Dio. L’espressione «Facciamo

l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza» non ha solo questo significato, ma significa anche che,

nell’uomo, l’essere il conoscere, il volere sono capacità che vengono elevate per la partecipazione alla vita

divina, alla capacità di essere in rapporto con Dio. Un rapporto che non è più da creatura a creatore, ma che

porta la creatura a conoscere, a volere, ad amare come Dio conosce, vuole, ama. All’uomo è anche data

quella che i teologi chiamano capacità “obbedienziale”. Ossia la capacità che l’uomo ha, in quanto persona,

di lasciarsi fare come Dio lo pensa, lo vuole, lo ama. L’animale non ha questa capacità, perché non è dotato

di spirito e, dove non c’è spirito, non c’è la capacità di partecipare alla vita divina. L’animale, infatti, non è

persona. In Dio queste capacità relazionali si rivelano nel circuito della vita trinitaria e si manifestano anche

nell’atto creativo. L’uomo, essendo persona, è capace di mettersi in relazione con Dio, con gli uomini, con il

mondo, come Dio è in relazione con sé, con gli uomini, con il mondo. L’uomo comincia a conoscersi come

realtà corporea. Egli pertanto si serve delle facoltà del suo corpo per mettersi in relazione con gli altri

uomini. È il corpo che pone l’uomo in relazione con gli altri uomini. È il corpo che si fa nutrimento delle

relazioni interpersonali più alte, quelle tra lo sposo e la sposa. La realtà corporea nell’uomo è resa

strumento dello spirito e delle sue facoltà, intelligenza e volontà. Se Dio è amore, fare l’uomo a sua

immagine e a sua somiglianza significa: facciamo l’uomo che sa amare come Dio. Così la misura dell’uomo

consiste nella sua capacità d’amare. È questo il progetto che Dio ha voluto prima ancora che l’uomo

peccasse. E Dio ha voluto, sin dall’inizio, che questo progetto si realizzasse in Cristo. Quest’uomo infatti in

Cristo diventa Figlio di Dio, ossia partecipe dell’essere di Dio e, imitando Cristo, è fatto capace di conoscere

come conosce Dio. L’amore forma perfetta dell’uomo è l’amore inteso come carità, virtù teologale, che è la

12 Gn 1,26.

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capacità di amare come Dio ama. La misura perfetta dell’amore dell’uomo è così come Cristo ce l’ha

rivelato.

Nell’uomo, l’amore naturale è orientato a quello soprannaturale, ossia all’amore inteso come carità,

come capacità d’amare come ama Dio. Se la vita di Dio è amore, è naturale che la sua vita partecipata sia

amore. Anzitutto, però, è necessario un approfondimento del significato della parola amore che è tanto

adoperata e, spesso, è utilizzata proprio là dove l’amore, inteso nel suo senso vero, muore. Amore è

essenzialmente oblatività, ossia capacità di darsi e, più ancora, di donarsi alla persona amata. Donarsi non

per il proprio piacere o per la propria gioia, ma per la gioia della persona amata. Perché questa persona

possa realizzarsi, possa crescere. Dove non c’è questo, non si dovrebbe parlare di amore. In Dio, infatti,

l’amore è il donarsi. Così possiamo dire che l’essenza dell’amore è donare, donarsi alla persona amata. La

forma più alta e più piena di tale amore è quella nuziale, che ha due forme: quella coniugale e quella

verginale. L’amore coniugale affonda le proprie radici nel progetto di Dio creatore. Chi non sa amare è nella

solitudine, così com’è nella solitudine chi non si sente amato. L’amore coniugale è un modo con cui si rivela

l’amore di Dio e in cui Dio stesso comunica la sua vita all’uomo. Questo è il senso dell’amore tra un uomo e

una donna: l’amore coniugale. Qui la donazione fa i due uno nell’amore e li fa fecondi. Essi diventano con –

creatori, perché la vita che sboccia è frutto della donazione dell’uomo alla donna e viceversa, ma ciò avviene

con la partecipazione diretta dell’amore di Dio, che infonde nel corpo che nasce dai due lo spirito da lui

creato direttamente. Secondo il disegno di Dio, la gioia sensibile del rapporto coniugale non turba la gioia

dello spirito, anzi ne è strumento, espressione, ed è tale perché l’uomo e la donna sono fatti a immagine e

somiglianza di Dio ossia partecipi della vita divina. Adamo ed Eva, usciti dalle mani creatrici di Dio o, meglio,

dal suo amore creatore, godono di una profonda armonia tra le due componenti del loro essere umano, la

corporea e la spirituale, per il dono della grazia. La disobbedienza ha fatto perdere all’uomo l’immagine di

Dio: «Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne

fecero cinture».13 Attraverso questo linguaggio letterario, il racconto dice che, mentre prima c’era armonia,

dopo la disobbedienza a Dio, tale armonia si rompe. Con la rottura dell’armonia tra Dio e l’uomo, tra il

corpo e lo spirito, s’insinua la possibilità che l’amore, invece di essere donazione, sia rapina sia egoismo.

Così il piacere trasforma la donazione in rapina. Tutto va in rovina. Il rapporto fra fratelli, diventa fratricidio:

Caino uccide Abele. La conclusione verso cui ci conduce il testo sacro è che l’amore, secondo il progetto

originario di Dio, ha una stupenda grandezza, una luce meravigliosa. Fuori di questo progetto, l’amore

diventa rapina dell’altro.

La redenzione restaura il progetto di Dio in Cristo. Gli uomini acquisiscono in Cristo il potere di

diventare figli di Dio, perché ricevono la vita dal Padre. Sono fatti nuovamente a immagine e somiglianza di

Dio. Ciò diviene possibile all’uomo che crede in Cristo e che, così, recupera la vita di grazia per vivere la

propria fede e non accontentarsi di dire credo, ma faccia diventare vita la sua fede. La partecipazione alla

vita divina dà la capacità di realizzare il progetto di Dio quanto all’amore e all’amore coniugale. Ciò si

realizza, però, come conquista quotidiana, sorretta dalla grazia. Tutto questo esige il controllo

dell’istintività, perché all’uomo non è restituito il dono dell’integrità originale, che costituiva l’armonia tra

corpo e spirito. Dio vuole che la prova dell’obbedienza venga data giorno per giorno. Il cristiano, pertanto,

dovrebbe avere sempre l’occhio critico, per via dell’illuminazione della fede, per capire esattamente ciò che

succede e sapere quali sono i veri rimedi che possano trasformare l’umanità. Allora tutto è fatto per amore

di carità. Questo è l’amore coniugale per il cristiano che voglia viverlo in quanto tale. Nel momento in cui

13 Gn 3,7.

11

Cristo restituisce l’amore coniugale al suo disegno originario, nello stesso tempo Lui si pone come forma

nuova di amore nuziale. Ma attenzione, nel momento in cui il progetto di Dio è ristabilito in Cristo, Gesù

rivela la possibilità che ci sia qualcuno che non si sposi. Cristo non si sposato. Egli non l’ha fatto perché il suo

amore va dritto al Padre. Cristo esprime la rinuncia a sposarsi con un’immagine che può fare un po’ di

impressione: «Vi sono eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati

resi eunuchi dagli uomini, e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire,

capisca».14Il Maestro afferma che tale scelta non può essere capita da tutti. Si tratta dunque di una

vocazione non di una scelta personale. L’amore nuziale verginale è precisamente imitazione di Cristo. Se

Cristo non fosse venuto, questa forma di amore nuziale non sarebbe nota, come non è nota nell’Antico

Testamento. Bisogna aggiungere che quest’amore nuziale verginale apre sì a una capacità di donazione

senza pari, ma, se vissuto secondo le sue esigenze, apre a uno sviluppo della persona che non ha eguali. Si

tratta di una vocazione piena di responsabilità che esige d’essere vissuta in pienezza. Queste due forme

dell’amore nuziale, la coniugale e la verginale, sono fatte per integrarsi nel reciproco aiuto.

Una società a misura d’uomo ha bisogno del contributo dei cristiani, non però come realtà che

interessi solo la comunità credente. L’autonomia e la distinzione tra ambito ecclesiale e ambito politico va di

certo rispettata, evitando l’errore di alcuni che vorrebbero la società realizzata sotto il titolo cristiano.

Questo è un atteggiamento da nostalgici d’una certa cristianità: un errore. Ossia, un portare oltre i limiti

l’esigenza e la possibilità di ciò che s’intende come cristiano. Ecco perché si deve parlare di una società a

misura d’uomo senza che questa società possa dirsi cristiana nel senso pieno della parola. Anche se i

cristiani sono chiamati a dare un contributo importante a questa società. Parlare di una società a misura

d’uomo nel senso civile-politico significa anzitutto riconoscere nella persona il punto di partenza e il punto

d’arrivo del proprio essere e del proprio operare. La società politica ha solo il dovere, se vuol essere a misura

d’uomo, di riconoscere e garantire la libertà religiosa, ma non deve andare oltre. Poi interviene la Chiesa a

curare la dimensione divina dell’uomo. La società civile-politica non ha i mezzi per farlo. Le due società

devono restare distinte e autonome.

Oggi molti parlano dell’uomo come persona. Non tutti, però, hanno coscienza del fatto che il

concetto di persona, nella sua caratteristica ultima della relazionalità, si è chiarita attraverso la riflessione

teologica su Dio. Dall’approfondimento della conoscenza di Dio è venuta la pienezza di conoscenza della

persona in quanto “essere in relazione con”. In relazione verticale con Dio, in relazione verticale con ciò che

è sotto all’uomo e in relazione orizzontale con tutti gli uomini. La società a misura d’uomo, quindi, ha come

fine quello di garantire il diritto della persona a soddisfare le esigenze proprie di ciascuna delle sue

componenti: la corporea, la spirituale, la divina. Questi diritti la società è tenuta a riconoscerli. La persona,

invece, li ha in sé. In conseguenza a quanto detto occorre operare in vista del fine che può essere espresso

con due parole: bene comune. Ossia la possibile massima soddisfazione delle proprie esigenze, considerate

in rapporto allo sviluppo di tutte le persone membri della società, e non dando a ciascuno un pezzetto di

qualcosa. La società a misura d’uomo è quella che si organizza con strutture e procedure tali da permettere

e favorire l’assunzione, da parte del singolo cittadino, delle proprie responsabilità in rapporto al bene

comune. La persona è sempre un prius. È ciò che viene prima della società e tocca alle persone definire

strutture e procedure. Le società totalitarie, infatti, non sono società a misura d’uomo. Hanno una

concezione dell’uomo come di una realtà di cui la società dispone mentre è vero il contrario. La famiglia, le

religioni, le formazioni sociali, la società sono tutte realtà a misura d’uomo se garantiscono e favoriscono la

14 Mt 19,22.

12

persona. Non è, dunque, a misura d’uomo la società che non riconosce, anche solo di fatto, la pari dignità

sociale e la libertà di tutti i cittadini. Il nemico di una società a misura d’uomo è l’egoismo. L’egoismo può

essere può essere quello di una persona o di un gruppo, può essere borghese o proletario, e affonda le radici

nelle tre istintività: possedere, godere, potere. Generalmente si giustifica il modo egoistico di procedere

dicendo che l’uomo è fatto così, che è portato per natura, a soddisfare le proprie istintività e che, quindi,

deve costituire la sua società a misura di queste stesse istintività. Allora se il vero nemico della società a

misura d’uomo è l’egoismo, al contrario, la condizione fondamentale perché esista una tale società è

l’amore. Amore almeno nel suo grado di effettiva solidarietà al quale l’uomo aspira. È la solidarietà che fa

amare il vicino e fa sentire che non si può, per affermare i diritti, annullare i diritti dell’altro, che vanno

sempre rispettati. Tutto ciò vien detto solidarietà, ma il suo vero nome è amore. È l’amore che genera

solidarietà.

Non sempre, per non dire raramente, la volontà riesce a realizzare quello che ha scoperto la

ragione. Cristo è venuto proprio per rimediare a questa debolezza dell’uomo. Per questo Cristo è il salvatore,

dà la capacità di superare questo limite, ciò significa amare i propri nemici, fare del bene a quelli che ci

fanno del male. Alla luce di tutto questo si capisce quale deve essere la presenza dei cristiani nella società:

come singoli e come comunità. questa presenza deve essere lievito che riesce a generare e a rigenerare gli

uomini. i cristiani devono rivelare la loro forza e la loro condotta di vita non per imporla, ma per offrirla.