laicità e pluralismo bioetico. -...

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1 (Versione provvisoria) Laicità e pluralismo bioetico. (Relazione al Convegno annuale dell’Associazione italiana dei costituzionalisti - “Problemi pratici della laicità agli inizi del secolo XXI” - Napoli 26-27 ottobre 2007). di Francesco Rimoli Posizione del problema: pluralità e definizione dei modelli bioetici nello Stato laico. La definizione del rapporto tra laicità dello Stato e bioetica è ormai uno dei momenti più significativi e complessi per la realizzazione effettiva del paradigma dello Stato pluralista contemporaneo. Il tema di questa relazione è estremamente ampio, e dunque non sarà possibile esaurirne ogni profilo. Intendo tuttavia seguire un percorso, che, muovendo [1] dall’analisi dei presupposti etici dello Stato laico e pluralista, e dal metodo di decisione fondato sulla procedura discorsiva pubblica, valuti poi [2] la reale comunicabilità e compatibilità tra concezioni etiche (e bioetiche) fortemente divergenti, nel quadro dell’ipotesi di un modello postsecolarista della società contemporanea. Passerò poi [3] a una sintetica disamina dei principali problemi applicativi derivanti, sul piano giuridico, dalla coesistenza di una pluralità di bioetiche nel medesimo tessuto sociale: fasi iniziali e finali della vita, tecnologie biogenetiche, responsabilità che la nostra generazione dovrebbe assumere nei confronti delle generazioni future. Infine concluderò [4] accennando al rapporto strumentale tra bioetica e biopolitica, ossia a uno dei potenziali fattori di involuzione totalitaria della società postmoderna, che si avvera allorché il diritto invade la sfera della nuda vita, sovrapponendo in questa la dimensione del bíos e quella della zoé. [1- Presupposti etici dello Stato laico] Il primo punto è il più arduo da affrontare: il giurista deve qui uscire dai confini angusti di una singola disciplina, per attingere alla riflessione filosofica, storica, sociologica e politologica, tentando una sintesi che permetta un’effettiva comprensione interdisciplinare del problema. Qui laicità e bioetica si connettono intimamente e reciprocamente. La laicità dev’essere ormai intesa in senso ampio, come dimensione immediata del pluralismo democratico al livello politico e istituzionale, e come atteggiamento critico fondato sul non cognitivismo etico, sul dubbio e sulla tolleranza sul piano individuale. Diventa chiaro allora che l’emersione dei temi bioetici, per definizione in sé “eticamente sensibili”, ne costituisce uno dei luoghi critici , arena di confronto (e di scontro) per le etiche applicate nel quadro del progresso tecnologico. Come rileva Habermas, l’impressionante evoluzione delle biotecnologie pone l’umanità dinanzi a un passaggio essenziale nel processo antropologico riguardante l’autocomprensione non solo etica , ma addirittura di genere dell’umanità 1 . Resosi capace di intervenire sulle radici della propria esistenza materiale, sui propri codici genetici, l’uomo sente ormai di dover porre in dubbio non solo la propria identità, ma la stessa immagine di sé nel contesto della realtà fenomenica. Non solo: come sottolinea Jonas, la capacità delle nuove tecnologie di condizionare, modificare, e in casi estremi impedire l’esistenza degli individui, ma anche delle generazioni future, pone problemi affatto nuovi, e genera una responsabilità i cui contorni sono tutti da definire 2 . E, in questo campo, il diritto all’errore, di cui ogni ricercatore deve poter disporre, può assumere contorni peculiari, e tali da produrre effetti incontrollabili quanto duraturi. Di qui i molti inquietanti interrogativi sulla liceità morale dell’uso di tecniche così incisive, e il comune auspicio verso l’individuazione di limiti da porre all’azione umana. Perché, si dice, non 1 J.HABERMAS, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale (2001), tr.it. Einaudi, 2002, 26 ss. 2 H.JONAS, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica (1979), tr.it. Einaudi, 1990, spec.49 ss.

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(Versione provvisoria) Laicità e pluralismo bioetico. (Relazione al Convegno annuale dell’Associazione italiana dei costituzionalisti - “Problemi pratici della laicità agli inizi del secolo XXI” - Napoli 26-27 ottobre 2007). di Francesco Rimoli Posizione del problema: pluralità e definizione dei modelli bioetici nello Stato laico. La definizione del rapporto tra laicità dello Stato e bioetica è ormai uno dei momenti più significativi e complessi per la realizzazione effettiva del paradigma dello Stato pluralista contemporaneo. Il tema di questa relazione è estremamente ampio, e dunque non sarà possibile esaurirne ogni profilo. Intendo tuttavia seguire un percorso, che, muovendo [1] dall’analisi dei presupposti etici dello Stato laico e pluralista, e dal metodo di decisione fondato sulla procedura discorsiva pubblica, valuti poi [2] la reale comunicabilità e compatibilità tra concezioni etiche (e bioetiche) fortemente divergenti, nel quadro dell’ipotesi di un modello postsecolarista della società contemporanea. Passerò poi [3] a una sintetica disamina dei principali problemi applicativi derivanti, sul piano giuridico, dalla coesistenza di una pluralità di bioetiche nel medesimo tessuto sociale: fasi iniziali e finali della vita, tecnologie biogenetiche, responsabilità che la nostra generazione dovrebbe assumere nei confronti delle generazioni future. Infine concluderò [4] accennando al rapporto strumentale tra bioetica e biopolitica, ossia a uno dei potenziali fattori di involuzione totalitaria della società postmoderna, che si avvera allorché il diritto invade la sfera della nuda vita, sovrapponendo in questa la dimensione del bíos e quella della zoé. [1- Presupposti etici dello Stato laico] Il primo punto è il più arduo da affrontare: il giurista deve qui uscire dai confini angusti di una singola disciplina, per attingere alla riflessione filosofica, storica, sociologica e politologica, tentando una sintesi che permetta un’effettiva comprensione interdisciplinare del problema. Qui laicità e bioetica si connettono intimamente e reciprocamente. La laicità dev’essere ormai intesa in senso ampio, come dimensione immediata del pluralismo democratico al livello politico e istituzionale, e come atteggiamento critico fondato sul non cognitivismo etico, sul dubbio e sulla tolleranza sul piano individuale. Diventa chiaro allora che l’emersione dei temi bioetici, per definizione in sé “eticamente sensibili”, ne costituisce uno dei luoghi critici, arena di confronto (e di scontro) per le etiche applicate nel quadro del progresso tecnologico. Come rileva Habermas, l’impressionante evoluzione delle biotecnologie pone l’umanità dinanzi a un passaggio essenziale nel processo antropologico riguardante l’autocomprensione non solo etica, ma addirittura di genere dell’umanità1. Resosi capace di intervenire sulle radici della propria esistenza materiale, sui propri codici genetici, l’uomo sente ormai di dover porre in dubbio non solo la propria identità, ma la stessa immagine di sé nel contesto della realtà fenomenica. Non solo: come sottolinea Jonas, la capacità delle nuove tecnologie di condizionare, modificare, e in casi estremi impedire l’esistenza degli individui, ma anche delle generazioni future, pone problemi affatto nuovi, e genera una responsabilità i cui contorni sono tutti da definire2. E, in questo campo, il diritto all’errore, di cui ogni ricercatore deve poter disporre, può assumere contorni peculiari, e tali da produrre effetti incontrollabili quanto duraturi. Di qui i molti inquietanti interrogativi sulla liceità morale dell’uso di tecniche così incisive, e il comune auspicio verso l’individuazione di limiti da porre all’azione umana. Perché, si dice, non

1 J.HABERMAS, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale (2001), tr.it. Einaudi, 2002, 26 ss. 2 H.JONAS, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica (1979), tr.it. Einaudi, 1990, spec.49 ss.

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tutto ciò che si può oggettivamente fare deve poter essere fatto, sul piano delle scelte morali e dunque su quello delle norme giuridiche. Dinanzi a problemi di tale portata, tuttavia, il giurista non può arroccarsi nella semplice esegesi delle pur numerosissime disposizioni che si occupano, ad ogni livello, di bioetica. Perché le norme ivi contenute sono disseminate di concetti indeterminati, consentendo le interpretazioni più diverse3. Perché diventano, per la rapidità del progresso scientifico, rapidamente obsolete, spostando sempre la riflessione sullo ius condendum. E, soprattutto, perché il diritto, anche quello posto dalle costituzioni, è fatto dagli uomini e per gli uomini. Dunque, in una società secolarizzata esso non può essere in alcun modo sacralizzato, e la sua intrinseca mutevolezza richiede, su temi così controversi, un’analisi interdisciplinare che ponga le basi per una legittimazione, etica prima che giuridica, delle singole opzioni assiologiche e normative. Da questo punto di vista, il dato evidente, nelle società complesse dell’era postmoderna, è quello della coesistenza fattuale di rilevanti differenze tra le concezioni etiche, sia sul piano individuale che su quello collettivo. Ciò rende improbabile l’effettiva praticabilità di un codice condiviso di comportamento, che dal livello etico (individuale e comunitario: il buono per me o per noi) passi a quello di una morale in sé universalizzabile (il buono per tutti)4, nel senso dell’imperativo kantiano, e traducibile nei termini di tendenziale generalità e astrattezza propri della legge. In tal senso, la trasformazione degli attuali tessuti multiculturali in contesti realmente interculturali, informati a una reciproca comunicazione, richiederà ancora molto tempo. In questo quadro, un regime democratico basato sul pluralismo politico e istituzionale, e dunque su una democrazia procedurale informata al paradigma discorsivo, resta però l’opzione più idonea alla comprensione della pluralità ideologica e alla pacifica convivenza. E l’obiettivo di tale convivenza civile dovrebbe essere quello dell’integrazione politica. Questa può essere perseguita, più che con una poco realistica cooperazione tra attori orientati all’intesa, in senso habermasiano, tramite la ricerca di equilibri minimi che, svolti su un piano di assoluto pragmatismo e in un accorto bilanciamento di interessi tra attori quasi sempre rivolti al successo, consentano una coesistenza pacifica tra identità plurali riconosciute come tali, ossia come diversità, culturali, religiose e linguistiche in senso ampio (secondo quanto affermato, ad esempio, dall’art.22 della Carta di Nizza). Ancora, l’integrazione dovrebbe essere svolta non mediante un dissimulato esercizio di egemonia da parte di élites settoriali, ma secondo il modello dello Stato laico pluralista. Qui i poteri pubblici, operando secondo un criterio di neutralità attiva (ossimoro solo apparente), svolgono una costante ed equilibrata opera di garanzia dell’espressione (non già dell’affermazione) di tutte le istanze, e di compensazione, a favore dei soggetti più deboli, delle disuguaglianze di chances5. Lo Stato persegue cioè l’attuazione del principio di eguaglianza sostanziale, e dunque può e deve opporsi alla possibile prevaricazione dei soggetti più forti sugli altri, senza peraltro far propria alcuna delle istanze particolari6. Così, ad esempio, l’argomento, ancora usato dalla Chiesa cattolica per invocare

3 Per fare qualche esempio, il diritto alla vita sancito dall’art.3 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, o la dignità umana di cui all’art.1 della Carta dei dir. fond. UE, o all’art.1 del Grundgesetz, o infine il concetto di persona di cui all’art.2 della nostra Costituzione. 4 J.HABERMAS, op.cit., 40 ss. 5 Sia consentito il rinvio a F.RIMOLI, Laicità (dir.cost.), in Enc.giur., XVIII, Roma, Ist.Enc.It., 1995; un quadro sintetico del tema anche in S.PRISCO, Laicità, in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S.Cassese, IV, Milano, Giuffrè, 2006, 3335 ss.; ma già in V.ZANONE, Laicismo, in Dizionario di politica, diretto da N.Bobbio, N.Matteucci, G.Pasquino, Milano, Tea, 1990, 547 ss.. Sul carattere laico dello Stato italiano pone un dubbio F.FINOCCHIARO, La Repubblica italiana non è uno Stato laico, in Dir.eccl., 1997, 24 ss. 6 Sul tema, di recente, R.DWORKIN, La democrazia possibile. Principi per un nuovo dibattito politico (2006), tr.it. Milano, Feltrinelli, 2007, 67 ss.

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privilegi, della prevalenza numerica di un’appartenenza confessionale rispetto alle altre, deve piuttosto essere usato in senso controfattuale, come la stessa Corte costituzionale ha fatto a partire dalla sentenza n.925/88. Ecco che risalta il valore emblematico del campo bioetico quale banco di prova delle capacità integrative dello Stato laico. Il principio di laicità, se davvero considerato come supremo nell’ordinamento, è suscettibile di applicazioni che vanno ben oltre il mero, tradizionale ambito dei rapporti tra Stato e confessioni religiose. Esso deve diventare piuttosto momento fondante del pluralismo democratico, criterio orientativo dei paradigmi dell’integrazione, luogo di definizione concreta e di legittimazione dei processi discorsivi rivolti alla deliberazione democratica: dunque, fattore sistemico di integrazione culturale e politica. Né questa lettura può essere tacciata di riduzionismo: il principio di laicità resta comunque concettualmente autonomo rispetto al principio democratico e a quello pluralista. Di questi costituisce invece un necessario completamento, quasi un terzo lato a chiusura di un triangolo, soprattutto dinanzi alle ideologie sacralizzanti, di tipo religioso o politico, sempre rinvenienti, e sempre tendenti a una visione totalizzante e totalitaria dell’esistenza7. [2 – Compatibilità e comunicabilità delle bioetiche] La bioetica, sorta come disciplina autonoma circa quarant’anni fa, peraltro con uno statuto epistemologico tuttora controverso, si occupa di tecnologie nuove, ma di problemi tutt’altro che nuovi: nascita, morte, cura della sofferenza sono sempre stati temi di riflessione filosofica e teologica, oltre che, ovviamente, oggetto di ricerca scientifica. Su di essi si è sviluppata anche l’etica (meglio: la deontologia) medica, entro una dimensione prototecnocratica della società, che per molto tempo ha visto una sovrapposizione nei ruoli delle élites, e una sacralizzazione della funzione del medico. Questa è poi stata superata dalla cultura greca con la concezione ippocratica, che ha però inclinato l’attività clinica verso un forte carattere paternalistico, tuttora vivo nell’etica medica. Al contempo, ogni religione si è sostanziata di una propria concezione etica e, al suo interno (seppur non usando un termine specifico), ha elaborato una propria bioetica8. Dunque, al progressivo radicarsi nel territorio di più confessioni ben organizzate, si confrontano in uno stesso contesto concezioni diverse, assai compatte e spesso contrastanti, seppur fondate tutte (con l’eccezione, forse, del buddismo) su un modello trascendente e sacrale della vita. Ciò pone problemi pratici delicati (si pensi solo al rifiuto di emotrasfusioni dei Testimoni di Geova, o alle pratiche di mutilazione genitale ora vietate dalla legge n.7 del 2006), che sono il fenomeno più evidente della pluralità culturale9. Qui mi limiterò ad affrontare, pur semplificando moltissimo, la contrapposizione più viva in Italia: quella tra la bioetica cattolica romana (ossia quella dettata dal magistero vaticano, che non esaurisce

7 Sulla sacralizzazione della politica propria dei totalitarismi, per tutti, E.GENTILE, Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi, Roma-Bari, Laterza, 2001; sui concetti politici come “concetti teologici secolarizzati”, già la nota tesi di C.SCHMITT, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità (II ed., 1934), tr.it. in ID., Le categorie del ‘politico’. Saggi di teoria politica, a cura di G.Miglio e P.Schiera, Bologna, il Mulino, 1972, 27 ss.. Sul tema F.RIMOLI, Stato di eccezione e trasformazioni costituzionali: l’enigma costituente, in links. Zeitschrift für deutsche Literatur- und Kulturwissenschaft, n.2/2006, e in www.associazionedeicostituzionalisti.it; di recente anche G.AGAMBEN, Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo. Homo sacer, II, 2, Vicenza, Neri Pozza, 2007. 8 Un quadro sintetico, non recente ma perspicuo, in S.SPINSANTI (a cura di), Bioetica e grandi religioni (selezione di voci dall’edizione del 1978 dell’Encyclopedia of Bioethics della Georgetown University), Cinisello Balsamo, Ed. Paoline, 1987; sulla bioetica musulmana D.ATIGHETCHI, Islam, musulmani e bioetica, Roma, Armando, 2002. 9 Per una recente e attenta rassegna di questi problemi, N.COLAIANNI, Eguaglianza e diversità culturali e religiose. Un percorso costituzionale, Bologna, il Mulino, 2006, spec.143 ss.

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l’assai più complesso pensiero cattolico in materia, estremamente composito e ricco di aperture etiche, che rendono ragione del distacco evidente tra il dettato ufficiale e la prassi di vita dei cattolici, più o meno praticanti)10 e la bioetica laica (ovviamente anch’essa assai varia, in quanto strutturalmente priva di istanze unificanti). La prima si presenta, notoriamente, ispirata a una dimensione sacrale e trascendente della vita umana (drasticamente scissa da quella non umana), e fortemente inclinata verso una lettura neotomista del disegno divino della creazione, riflessa anche nell’antistorico ma persistente rifiuto del modello evoluzionista. La seconda, pur nelle sue molte varianti, è informata piuttosto a una dimensione immanente del vivere, sviluppata secondo un razionalismo di stampo utilitaristico, e, almeno presso alcuni autori, permeata dei principi del liberalismo classico. Se cioè la prima è fondata su un rispetto apparentemente assoluto della vita, intesa, dalla fecondazione in poi, nel suo aspetto biologico, la seconda appare rivolta invece a distinguere la vita biologica, la zoé, propria di ogni essere vegetale o animale dotato di metabolismo, e non dotata di particolare valore intrinseco, da un livello più elevato di esistenza, il bíos, particolarmente quello dell’uomo o degli animali superiori, assiologicamente connotato in modo soggettivo, culturalmente definito, e meritevole di maggiore o minore tutela secondo le diverse concezioni etiche11 . Di qui sorge una contrapposizione difficilmente superabile, misurata prima sulla dicotomia assiologica tra sacralità e qualità della vita, e poi sulla conseguente alternativa tra disponibilità e indisponibilità della vita stessa: questo è il vero criterio discretivo, la linea di confine tra le due concezioni12. Per la bioetica cattolica, la sacralizzazione assoluta della vita rende la medesima indisponibile e intangibile: ciò giustifica un rifiuto netto e aprioristico di ogni intervento umano rispetto all’evolversi del processo vitale, dalle sue fasi iniziali – ancor prima che dalla soggettivazione/personificazione dell’embrione, dal divieto dell’uso di metodi anticoncezionali “artificiali” - a quelle finali. Qui, il pur cauto rifiuto dell’accanimento terapeutico passa per una incerta distinzione tra “mezzi ordinari” e “mezzi straordinari” impiegati per il mantenimento in vita del malato terminale13; ma l’eutanasia è comunque illecita in linea di principio, e resta spazio solo per una assai velata ammissione di una sorta di azione indiretta, derivante dalla somministrazione di analgesici il cui “effetto secondario” possa essere quello di accelerare la fine14 . Tutto è affermato alla luce di due presupposti, il valore sacrale di una vita sempre inserita al centro di un disegno divino (per definizione “intelligente”), e il riferimento costante a una presunta “naturalità” che l’uomo, con l’”artificialità” del suo agire, violerebbe. Ambedue questi presupposti sono razionalmente tanto innegabili, quanto indimostrabili; ma se il primo è mera asserzione di valore, il secondo incorre in qualche contraddizione logica. Ne rilevo due: la prima sta nel fatto che l’uomo è comunque, in sé, frutto della natura, e dunque nulla può fare che non sia, per sé, naturale (perciò la stessa distinzione tra naturale e artificiale è in 10 Significativa, tra molte possibili, l’impostazione dialogante di E.BIANCHI, La differenza cristiana, Torino, Einaudi, 1997; il forte divario tra magistero e prassi è ben rilevato da F.GARELLI, L’Italia cattolica nell’epoca del pluralismo, Bologna, il Mulino, 2006. 11 Sul tema, con varia prospettiva, G.AGAMBEN, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 2003; G.BONIOLO, Vita-morte, in Laicità. Una geografia delle nostre radici, a cura di G.Boniolo,Torino, Einaudi, 2006, 149 ss. 12 Una chiara sintesi delle due prospettive in G.FORNERO, Bioetica cattolica e bioetica laica, Milano, B.Mondadori, 2005; sulla sacralità della vita nella tradizione orientale, J.RACHELS, Qunando la vita finisce. La sostenibilità morale dell’eutanasia (1986), tr.it., II ed., Casale Monferrato, Sonda, 2007, 38 ss. 13 Una critica alla distinzione in J.RACHELS, op.cit., 125 ss. 14 Sul tema, Congregazione per la dottrina della fede, Dichiarazione sull’eutanasia. Iura et bona (5 maggio 1980), i cui contenuti sono stati ribaditi solo poche settimane fa in occasione di una richiesta avanzata dalla Conferenza episcopale degli Stati Uniti, e i §§ 64-65 dell’enciclica Evangelium vitae (25 marzo 1995); l’uso di analgesici dal “doppio effetto” era già stato ammesso da Pio XII in un discorso del 24 febbraio 1957 (AAS, 1957, 145).

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sé fuorviante). La seconda: se si accoglie la natura come modello, si incorre nella già descritta fallacia naturalistica, per cui si afferma che tutto ciò che è deve poter essere15. Il che contraddice infine ogni etica normativa, smentendo i suoi stessi sostenitori, perché imporrebbe di accogliere, piuttosto, una fattualità fondata, tra l’altro, sui principi della selezione eugenetica e della sopraffazione del più debole da parte del più forte16. In proposito, basta leggere quanto scritto da John Stuart Mill nel primo dei tre Saggi sulla religione (scritti tra il 1850 e il 1870, ma pubblicati postumi per evitare censure)17, per rendersi conto dell’inconsistenza dell’argomento naturalistico quale criterio discretivo in etica. La storia prova piuttosto che tale argomento, mediato da una certa accezione dei concetti di “legge naturale” e di “diritto naturale”, è sempre servito, e tuttora serve, a giustificare l’intento della Chiesa cattolica di tradurre la propria visione etica in norme giuridiche positive, il proprio concetto di peccato in figure di reato. Ma, ancora una volta, vale la considerazione che, in campo etico, nulla più del concetto di natura è frutto della cultura, e il rifiuto di ciò che si accusa di “innaturalità” è solo il rifiuto di ciò che la cultura dominante valuta per sé sconveniente. Dunque la bioetica cattolica si afferma, con un intenso impegno delle gerarchie cattoliche, quale strumento di programmatica limitazione (e spesso negazione tout court) del progresso (bio)tecnologico, peraltro in piena coerenza con la prospettiva antiscientista e misoneista di cui sono intessute la storia e la cultura della Chiesa. Solo per fare un esempio, essa, in virtù del rigido principio di inscindibilità tra attività sessuale e attività procreativa, tale che l’una senza l’altra risulta comunque moralmente illecita, nega in principio, oltre alla contraccezione fondata su metodi non “naturali”, la praticabilità di ogni forma di fecondazione assistita18. Impedendo poi ogni manipolazione del materiale genetico a causa del rischio della sua distruzione, essa nega altresì, di fatto, qualunque intervento di terapia genica e di ricerca in tale ambito. Ma infine, così facendo, impedisce un miglioramento della qualità futura della vita individuale, e addirittura la stessa nascita di nuovi individui, in piena contraddizione con gli affermati obiettivi di tutela della vita. Per la bioetica laica, invece, la dimensione postmetafisica (e tendenzialmente antimetafisica) della modernità impedisce qualunque forma di giustificazione trascendente delle scelte bioetiche, rifiutando ogni uso strategico-normativo dell’idea di Dio e del sacro. Negata ogni possibilità di sacralizzazione, la disponibilità della propria vita deriva dunque al singolo da un pervadente principio di autonomia dell’individuo, da un suo diritto morale alla dignità e alla qualità della vita stessa, concretamente intesa, dall’inizio alla conclusione. A questo dovrà tuttavia corrispondere un principio di responsabilità, che pone in capo a ciascuno (ed entro certi limiti alla collettività) il relativo onere19.

15 Si tratta della c.d. legge di Hume, che vieta di dedurre un ought da un is, una prescrizione da una constatazione (D.HUME, Trattato sulla natura umana (1739-40), in ID., Opere filosofiche, I, Roma-Bari, Laterza, 1987, 496 ss.); sulla fallacia naturalistica G.E.MOORE, Principia Ethica (1903), Milano, Bompiani, 1964. 16 Sul punto E.LECALDANO, Bioetica. Le scelte morali, Roma-Bari, Laterza, 1999 (II ed. 2005), 147 ss.; si veda però anche la prospettiva sintetizzata in M.PIGLIUCCI, Fondamentalismo e scienza, in MicroMega, 2/2007, 28 ss. 17 J.S.MILL, Saggi sulla religione (1874), tr.it. della terza ed. (1885), Milano, Feltrinelli, 2006. 18 Anche quella omologa per coppie sterili: si veda l’Istruzione Donum vitae. Il rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione, del 22 febbraio 1987, e il par. 14 della successiva Lettera enciclica Evangelium vitae, del 25 marzo 1995, secondo cui le nuove tecniche di riproduzione artificiale sembrerebbero porsi a servizio della vita, ma in realtà “aprono la porta a nuovi attentati” contro la medesima. 19 Sul rapporto autonomia-responsabilità, per tutti, E.LECALDANO, Bioetica, cit., 105.

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Alla base di ogni scelta c’è un diritto a conoscere (ma anche a non conoscere, se lo si vuole)20, le proprie condizioni attuali, le possibilità terapeutiche oggettivamente praticabili, e infine le prospettive di vita ragionevolmente percorribili, per poter formulare quel “consenso libero e informato”, sempre revocabile, che l’art.5 della Convenzione sulla biomedicina pone come presupposto per ogni intervento nel campo della salute. Così, proprio dai concetti di dignità e autonomia, interpretati in senso laico, deriva, ad esempio, la possibilità di uscire dalla propria esistenza, senza dover subire troppo a lungo quel penoso processo di riduzione a uno stato vegetativo che, peraltro, è visto da molti come una forma di esistenza divenuta alcunché di qualitativamente diverso da una vita umana in senso proprio. E se già il citato Mill, com’è noto, e prima di lui Bentham, concepivano il diritto morale a morire come quel diritto che spetta a ciascun vivente di non vedersi imposte sofferenze contro la sua volontà21, anche un filosofo contemporaneo certo non ascrivibile alla tradizione del laicismo radicale, come Hans Jonas, pone il diritto alla propria morte come “coronamento” del diritto alla propria vita22. Di qui, ancora – ma ne tratterò in seguito – deriva una serie di conseguenze anche in ordine alla possibilità di scelta delle tecniche procreative, nonché alla valutazione concreta sull’opportunità di portare a termine il processo generativo in presenza di determinate condizioni e sulla base di una scelta libera, in quanto informata e responsabile. Da questo punto di vista, diversi sono i problemi che risultano rilevanti per le due concezioni: così, ad esempio, per il cattolico è di primaria importanza stabilire il momento in cui la vita nasce – tema peraltro controverso per la stessa scienza embriologica – onde poter tutelare adeguatamente quello che è a tutti gli effetti, da quell’istante, un essere umano, o meglio una “persona”, rispettata anzitutto in quanto assunta quale immagine del suo Creatore. Per il laico questo aspetto è assai meno decisivo, dovendosi piuttosto valutare (con criteri invero non meno controversi) la capacità del feto di provare dolore, fisico o psicologico (in virtù del principio, riconosciuto anche dall’etica laica, che vieta di infliggere sofferenza: principio di non maleficenza) e le ragionevoli aspettative di quel futuro soggetto in ordine alla qualità della sua vita. Riguardo a questo aspetto, tuttavia, non mi pare possibile aderire a quelle concezioni estreme che, muovendo da un livello troppo elevato del paradigma qualitativo della vita, e di un modello fortemente deontologico di persona, svolto alla luce del prerequisito della razionalità e dell’autocoscienza piena del soggetto già posto da Locke23, scindono il concetto di persona da quello di Homo sapiens. Ciò conduce a soluzioni talora paradossali, come quella di rendere la vita di un “animale non umano”, in certe condizioni, più tutelabile di quella di un uomo24.

20 Si veda l’art.10 della Convenzione di Oviedo (Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e la dignità dell’essere umano riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina, redatta a Oviedo il 4 aprile 1997, e ratificata in Italia con la legge n.145 del 2001). La vigenza di tale Convenzione, in attesa di ratifica in numerosi Stati, è tuttavia contestata anche in Italia, mancando decreti legislativi d’attuazione e soprattutto il deposito degli strumenti di ratifica: sul punto, con soluzioni oscillanti, Cass.pen., sez.I, 29 maggio 2002, Volterrani; Cass.civ., sez.III, 23 febbraio 2007, n.4211. 21 J.BENTHAM, Introduzione ai principi della morale e della legislazione (1789), tr.it. Torino, Utet, 1998; J.S.MILL, Saggio sulla libertà (1859), tr.it. Milano, Il Saggiatore, 1993. 22 H.JONAS, Il diritto di morire (1985), tr.it. Genova, Il Melangolo, 1991, 28. 23 J.LOCKE, Saggio sull’intelletto umano (1690), lib.II, cap.XXVII, §11 (ed.it. a cura di C.A.Viano, Roma-Bari, Laterza, 2006, t.I, 371) 24 Così Peter Singer, per il quale, ad esempio, un “animale non umano” adulto in buona salute sarebbe più degno di vivere di un neonato con gravi menomazioni psichiche, in quanto capace di una vita più consona alle sue capacità; anche la più moderata concezione di Hugo T. Engelhardt jr., che subordina la tutela al possesso attuale di certe capacità cognitive, rischia di offrire il fianco a obiezioni di non poco conto. Si vedano P.SINGER, Ripensare la vita. La vecchia morale non serve più (1994), tr.it. Milano, Il Saggiatore, 1996; ID., Etica pratica (1979), tr.it. Napoli, Guida, 1989; H.T.ENGELHARDT jr., Manuale di bioetica (II ed., 1996), tr.it. Milano, Il Saggiatore, 1999; su questi autori, G.FORNERO, op.cit., 104 ss.

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E tuttavia, è senza dubbio realistico affermare che almeno un canone minimale, quello dell’assenza di prevedibili stati permanenti e irreversibili di sofferenza, e della potenziale presenza di futuri stati piacevoli – qualcosa che si avvicina al concetto di “edonismo qualificato” di Mill – debba verificarsi per qualificare un’esistenza biologicamente vitale come vita umana, intesa nel più elevato senso del bíos. Questa è, peraltro, nulla più che una semplice applicazione di quell’etica della responsabilità che dovrebbe ispirare ogni azione razionale, sia se rivolta alla propria vita, sia, soprattutto, se rivolta all’esistenza di chi, per nostra esclusiva scelta, è portato in modo affatto arbitrario, mediante l’atto generativo, dall’imponderabile spazio del non esserci a quello dell’esserci (del Dasein heideggeriano, dell’essere-gettati nell’esistenza), ovvero al dover nascere, al dover svolgere un ciclo vitale più o meno lungo e, ipso facto, al dover morire. Perché l’atto procreativo – è una realtà evidente, ma è giusto ricordarlo - può essere concepito come un atto d’amore, veicolo di un dono verso una possibile felicità in questa o in un’altra vita, ma anche, al contempo, come un atto di hybris, di prevaricazione, che impone a chi nascerà, nello stesso istante, ineluttabilmente, la vita e la morte. E questo, per chi non creda in un’esistenza ulteriore, è un argomento di riflessione difficilmente trascurabile. Ma, tornando al nostro ambito, il vero problema è, ancora una volta, quello della coesistenza e dell’integrazione di ideologie, culture e fedi diverse nel medesimo contesto di democrazia pluralista: questo comporta, oltre a dotte riflessioni di stampo weberiano sull’ormai acquisito politeismo assiologico di un mondo “disincantato”25 e secolarizzato, rilevanti conseguenze pratiche sul piano della convivenza quotidiana. E in tale prospettiva, la varietà – spesso l’incompatibilità – dei contenuti deve indurre lo Stato laico a rispettare rigorosamente, nell’assunzione delle decisioni pubbliche, il momento della neutralità della forma, e soprattutto l’inclusività e l’apertura delle procedure, in virtù delle loro capacità di assorbimento del conflitto e di legittimazione delle decisioni stesse26. Solo così queste ultime potranno ambire a un sufficiente grado di capacità integrativa, e, infine, di effettività. Di qui si giunge a un problema oggi centrale nella realizzazione del modello pluralista, e del modello laico che in esso si innesta, sia ove questo sia declinato nell’accezione discorsivo-deliberativa di tipo habermasiano27, sia in quella rawlsiana della ricerca di un consenso per intersezione e di un postkantiano uso pubblico della ragione28. Dinanzi al rinvenire dei fondamentalismi, possibile deriva di ogni religione o di ogni fede politica (e non solo di quelle altrui), il problema è quello dell’effettiva integrabilità del “sacro” nei processi discorsivi pubblici. La reiterata posizione, nel dialogo politico e istituzionale, di principi “non negoziabili”, religiosi o profani, in quanto ancorati a una dimensione metafisica e trascendente dell’esistenza, ovvero a una visione dogmatica del credo politico, e il rinvenire di arcaiche rigidità, più evidente proprio in campo bioetico, impediscono di fatto ogni tentativo di raggiungere quei compromessi in cui, secondo la sempre valida lezione di Kelsen29, sta il senso ultimo di una democrazia strutturalmente fondata sul relativismo. Relativismo che tuttavia, nel contesto di un pluralismo dialettico basato sul

25 M.WEBER, La scienza come professione (1918), tr.it. Milano, A.Mondadori, 2006, spec. 20 ss.; il riflesso del concetto della Entzauberung der Welt sui temi bioetici è affrontato criticamente da A.PESSINA, Bioetica. L’uomo sperimentale, Milano, B.Mondadori, 55 ss. 26 Ovvio il richiamo a N.LUHMANN, Legitimation durch Verfahren (II ed. 1975), tr.it. Procedimenti giuridici e legittimazione sociale, Milano, Giuffrè, 1995. 27 J.HABERMAS, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva della democrazia (1992), tr.it. Milano, Guerini e ass., 1996. 28 J.RAWLS, Liberalismo politico (1993), tr.it. Milano, Ed. di Comunità, 1994, spec.123 ss. 29 H.KELSEN, Assolutismo e relativismo nella filosofia e nella politica (1955), tr.it. in ID., La democrazia (raccolta di saggi), Bologna, il Mulino 1981, 441 ss.

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concorrente “essere se stessi” di ciascuno30, assume sul piano assiologico, a dispetto di ogni ricorrente stigmatizzazione, un carattere di presenza e pienezza, e non già di assenza e vacuità. In tale prospettiva emerge oggi, come proposta assai rilevante sia per la laicità sia per la bioetica quale suo luogo critico, quella inerente a un approccio di tipo “postsecolare” ai problemi dell’integrazione del sacro nella società pluralista. Tale approccio pare gradito sia ai laici più attenti alla contingenza politica, sia a una Chiesa in cerca di convergenze strategiche per un rafforzamento identitario cristiano-occidentale dinanzi ai problemi nascenti dal montante fondamentalismo religioso o dal diffuso, quanto confuso, fenomeno di una rinascita delle religioni31. Ma questa ipotesi, avanzata da Klaus Eder, e ripresa da Habermas, come sviluppo di una considerazione svolta già nel 1967 da Böckenförde sui limiti dello Stato di diritto liberale, il quale esigerebbe ancoramenti esterni a se stesso, proprio nella dimensione religiosa, come unica via per poter garantire i propri presupposti senza al contempo rinnegarli, appare però piuttosto velleitaria32. Pure se svolta sul piano alto della riflessione filosofico-politica, anziché sul più prosaico livello delle contingenze politico-elettorali care alla nutrita schiera di “atei devoti”, teocon e teodem all’italiana, la proposta di Habermas – che peraltro nei suoi ultimi interventi sembra aver recuperato l’idea di una centralità della ragione laica, seppur autocompresa in senso ampio come unico luogo possibile per la ricerca di un “livello cognitivo condiviso”33 - lascia infatti sussistere qualche rilevante perplessità sulle sue possibilità applicative. Infatti, il processo di “apprendimento complementare”, di traduzione reciproca di linguaggio e di contenuti che dovrebbe svolgersi tra credenti e non credenti, alla luce della non privilegiabilità a priori, nel quadro del discorso, degli argomenti stricto sensu razionali rispetto a quelli basati sulla fede religiosa, trascura una certa asimmetria tra le due posizioni, ma soprattutto il persistere di un ineliminabile nucleo di intraducibilità di senso tra i concetti fondamentali dei diversi linguaggi. In più, si scontra con la fattuale tendenza all’irrigidimento reciproco delle concezioni, legato alla ricordata strutturale intangibilità del sacro. Per questa via, si finisce piuttosto con il mettere in discussione l’intero modello discorsivo nella sua realizzazione concreta, evidenziandone un chiaro limite euristico. Non a caso, infatti, Habermas, per impedire una già diffusa lettura semplificatoria e strumentale delle sue tesi, ha di recente puntualizzato la richiesta, alle comunità religiose, di una “assimilazione cognitiva dei fondamenti della modernità”, e alle società secolari, nel quadro del processo di

30 Secondo le profonde considerazioni di P.BELLINI, Il diritto d’essere se stessi. Discorrendo dell’idea di laicità, Torino, Giappichelli, 2007, spec. 237 ss. 31 Si veda l’ormai celebre dialogo svoltosi tra Ratzinger e Habermas (J.HABERMAS-J.RATZINGER, Ragione e fede in dialogo, a cura di G.Bosetti, Venezia, Marsilio, 2005); ma anche il recente intervento di A.SCOLA, Una nuova laicità. Temi per una società plurale, Venezia, Marsilio, 2007. Il processo di rinascita delle religioni ha dato luogo ad ampie riflessioni sull’’ipotesi di una “desecolarizzazione” della società e di una ripresa della funzione pubblica del fenomeno religioso: per tutti, J.CASANOVA, Oltre la secolarizzazione. Le religioni alla riconquista della sfera pubblica (1994), tr.it., il Mulino, 2000, 77 ss.; A.ALDRIDGE, La religione nel mondo contemporaneo. Una prospettiva sociologica (2000), tr.it. il Mulino, Bologna, 2005, 129 ss. e 249 ss. 32 E.W.BÖCKENFÖRDE, La nascita dello Stato come processo di secolarizzazione (1967), ora in tr.it. ID., Diritto e secolarizzazione. Dallo Stato moderno all’Europa unita, a cura G.Preterossi, Roma-Bari, Laterza, 2007, 33 ss.; K.EDER, Europäische Säkularisierung – ein Sonderweg in die postsäkulare Gesellschaft?, in Berliner Journal für Soziologie,2002, 3, 331, ss.; J.HABERMAS, I fondamenti morali prepolitici dello Stato liberale, in Humanitas, 2004, 2, 239 ss.; ID., Tra scienza e fede (2005), Roma-Bari, Laterza, 2006, 5 ss. ; sul “paradosso di Böckenförde”, con toni critici, si veda G.ZAGREBELSKY, Lo Stato e le religioni. Quando la Chiesa detta legge, in La Repubblica, 17 ottobre 2007. 33 Si veda il testo dell’intervento al convegno su “Religione e politica nella società post-secolare” (Roma, 13-15 settembre 2007) pubblicato dalla Repubblica del 12 settembre 2007, con il titolo Religione, un trionfo controverso.

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apprendimento complementare, del superamento discorsivo di ogni “autocomprensione restrittiva di ciò che intendiamo per ragione laica”34. Questi sono problemi tutt’altro che teorici: perché, se mi si consente un rapidissimo riferimento alla politica corrente, tale difficoltà di comunicazione e di reciproco apprendimento sui temi eticamente sensibili si misura oggi perfino tra soggetti politici tra loro alleati, negli evidenti ostacoli che incontrerà una formazione ideologicamente ibrida come il neonato Partito Democratico. Tornando un po’ più in alto, non saprei dire se il valore cristiano della carità, alquanto negletto dalla Chiesa neobellarminiana di Wojtyla e di Ratzinger35, latrice piuttosto di verità, possa davvero incontrarsi con quello della solidarietà, che ne è la versione laica, assurta a fondamento di molte costituzioni contemporanee; né se tale incontro possa davvero essere un inizio di soluzione del problema. Questa è una saggia e suggestiva ipotesi già avanzata da Richard Rorty e da Gianni Vattimo36, e di recente riproposta, tra i giuristi, da Gustavo Zagrebelsky37. Ma certo è, che, al di là delle buone intenzioni dichiarate, cristiani davvero caritatevoli e laici veramente solidali sono una realtà numericamente esigua, e il cammino da percorrere in questo senso appare lungo e difficile. Per concludere sul punto, mi limiterei piuttosto a un auspicio: perseguire in via affatto pragmatica, seppur con difficoltà, l’obiettivo di una laicità “dialogante”, che sia però orientata sulla ricerca di accordi strettamente operativi sull’agenda politica e sulla soluzione di singoli problemi, conseguenti appunto al riconoscimento di un livello cognitivo minimo condiviso. Una simile opzione, evitando conflitti sui fini-valori fondanti e sui quei principi che più direttamente vi accedono in forma strumentale, dovrebbe cioè limitarsi a individuare regole elementari comuni di comportamento e di convivenza, lasciando poi ciascuno libero di decidere sulla definizione e di agire per la realizzazione del proprio modello di “vita buona”38. [3 – Problemi applicativi] [3.1 – Il pluralismo assiologico della costituzione] Non posso approfondire il tema: ma riconoscere questa difficoltà di comunicazione tra diverse concezioni esistenziali, che è insieme ricchezza e condanna delle società occidentali contemporanee, è il presupposto per riflettere, da giuristi, sulle opzioni che, alla luce del principio di laicità, i pubblici poteri dovrebbero assumere nel campo della bioetica, sul quale emblematicamente si proiettano – e si acuiscono – i contrasti ideologici e culturali. Il costituzionalista è anzitutto giurista positivo, e un punto di riferimento essenziale del suo procedere è il testo della costituzione vigente: ma la costellazione di principi che in materia di laicità e bioetica si trova davanti, almeno nel contesto italiano, non è di grande aiuto. Non certo perché manchino le disposizioni di appoggio: solo per citarne alcune, l’articolo 32, sulla tutela della salute, che garantisce tra l’altro i limiti “imposti dal rispetto della persona umana”; l’articolo 31, sulla protezione della famiglia e della maternità; gli articoli 9 e 33, posti a garanzia

34 Ibidem.. 35 Su cui V.FERRONE, Le contraddizioni della laicità ieri e oggi. Dalla potestas indirecta di Bellarmino alle riflessioni neoilluministiche dei padri costituenti, relazione al Convegno Laicità e costituzione. Dalla pluralità dei modelli al pluralismo della convivenza (Roma, Fondazione Basso, 9 febbraio 2007) (paper, in corso di pubblicazione negli Annali della Fondazione Basso). 36 Si vedano gli interventi raccolti in R.RORTY-G.VATTIMO, Il futuro della religione. Solidarietà, carita, ironia, a cura di S.Zabala, Milano, Garzanti, 2005. 37 Si veda il paper dell’intervento al Convegno “Religione e politica nella società postsecolare” (Roma, 13-15 settembre 2007), dal titolo Stato e Chiesa. Cittadini e cattolici, nonché una sintesi del medesimo sulla Repubblica del 14 settembre 2007; ma già ID., La Chiesa, la carità e la verità (La Repubblica,. 13 maggio 2006). 38 Sia consentito il rinvio a F.RIMOLI, Laicità, postsecolarismo, integrazione dell’estraneo: una sfida per la democrazia pluralista, in Diritto pubblico, 2, 2006, 335 ss.; ID., È possibile una laicità dialogante? Note minime su relativismo, postsecolarismo, identità (12 marzo 2007), in www.costituzionalismo.it.

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della promozione e della libertà della ricerca scientifica; l’architrave di cui all’articolo 2, da tante parti invocato, quale garanzia di un principio “personalista”; l’habeas corpus di cui all’articolo 13, alla cui funzione originaria di tutela del corpo da possibili degradazioni si può tornare, come vedremo, nell’accezione biopolitica del problema bioetico, e infine – o soprattutto – il principio di laicità, non espresso ma desunto da molteplici disposizioni costituzionali (lo stesso articolo 2, gli articoli 3,7,8,19 e 20), ed assurto a “principio supremo” dell’ordinamento, con le capacità espansive già ricordate, a partire dalla nota sentenza n.203/89 della Corte costituzionale. E nondimeno, tutte queste norme si offrono a interpretazioni estremamente ampie: concetti indeterminati come quelli di persona, dignità umana, e addirittura di “ricerca scientifica” segnano campi semantici incerti, i cui contenuti sono definiti da ciascun interprete, in un processo di precomprensione che rende l’esito dei processi di positivizzazione del diritto, particolarmente in questi ambiti, tutt’altro che prevedibile. Dunque, un criterio univoco non può essere desunto dalla costituzione, se non presentandone una sua lettura soggettiva come oggettivata, o ricorrendo – è il mezzo più collaudato – a raffinate ma non condivisibili interpretazioni di tipo neogiusnaturalistico, come quelle fondate sulla Wertordnungslehre39 o, in altro ambito, sulla rights thesis di Dworkin40. Certo, ogni costituzione vigente è in sé, hic et nunc, frutto di una opzione assiologica, “tavola di valori” secondo la lezione di Smend e Mortati: ma laddove tra questi valori fondanti stia quello del pluralismo democratico – e dunque quello della laicità in senso ampio- si deve riconoscere che quella costituzione informa se stessa a un consistente grado di relativismo assiologico, inteso non come assenza di valori, prodromo a ogni deriva nichilista, ma come globalità di valori, ossia come valore di tutti i valori, insieme che, per definizione, comprende anche se stesso (e nell’individuazione di questo paradosso, forse non esclusivo ma assai rilevante nel paradigma dello Stato liberale pluralista, sta la sola parte condivisibile del diktum di Böckenförde, che però non può – o non vuole - cogliere la possibilità di autotutela del medesimo sistema)41. Qui è il senso più profondo della laicità intesa in senso sistemico, e da qui si può forse definire il ruolo degli interpreti della costituzione pluralista – a partire dal legislatore ordinario – entro lo Stato laico, dinanzi alla varietà delle bioetiche possibili. La fondazione di un biodiritto (neologismo orrendo, ma ormai entrato nell’uso, come quelli, ancor più raccapriccianti, di biolegislazione o di biogiuridica) in un ordinamento pluralista non può, in altri termini, prescindere dalla dimensione dell’autonomia individuale (e comunitaria, rispetto ai diversi gruppi sociali) in ordine alle scelte etiche (e bioetiche)42. Il criterio della massima possibile espansione del principio di autodeterminazione, derivabile dallo stesso art.2 Cost. che garantisce “lo sviluppo della personalità” (e, secondo una lettura ampia, che risente dell’eco dell’art.2 del Grundgesetz, anche dall’art.13 Cost.)43 dovrà dunque indurre il

39 Sul punto, tra molti, R.ALEXY, Theorie der Grundrechte, III ed., Frankfurt a.M., Suhrkamp, 138 ss. e 477 ss. 40 R.DWORKIN, I diritti presi sul serio (1977), tr.it.parz. Bologna, Il Mulino, 1982, 172 ss.; una lettura affatto diversa dell’origine dei diritti nella dottrina statunitense da A.DERSHOWITZ, Rights from Wrongs. Una teoria laica dell’origine dei diritti (2004), tr.it. Torino, Codice edizioni, 2005. 41 Sul tema sia permesso rinviare a F.RIMOLI, Pluralismo e valori costituzionali. I paradossi dell’integrazione democratica, Torino, Giappichelli, 1999. Sul relativismo inteso come opzione assiologica non autocontraddittoria si vedano i saggi contenuti nel volume Il bello del relativismo. Quel che resta della filosofia nel XXI secolo, a cura di E.Ambrosi, Venezia, Marsilio, 2005; in relazione al principio di laicità, C.PINELLI, Principio di laicità, libertà di religione, accezioni di “relativismo”, in Diritto pubblico, n.3/2006, 821 ss. 42 Sul tema, si vedano già i saggi contenuti in Una norma giuridica per la bioetica, a cura di C.M.Mazzoni, Bologna, il Mulino, 1998. 43 Sull’ampia problematica interpretativa dell’art.2 Cost., con diverse prospettive, A.BARBERA, sub art.2, in Commentario della Costituzione. I principi fondamentali, diretto da G.Branca, Bologna, Zanichelli, 1974, 50 ss.; A.PACE, Problematica delle libertà costituzionali, Pt.gen., Padova Cedam, 2003, 12 ss.; P.RIDOLA, Libertà e diritti nello sviluppo storico del costituzionalismo, in I diritti costituzionali, a cura di R.Nania e P.Ridola, II ed., Torino, Giappichelli, 2006, 3 ss., ma spec. 174 ss.

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legislatore, salvo restando quanto dirò oltre circa i limiti all’azione individuale, a intervenire nel nostro ambito nella misura minore possibile, e con gli strumenti meno coercitivi. In altre parole, con un soft law informato essenzialmente alla preferenza nell’uso delle modalità deontiche deboli (permesso, facoltà), rispetto a quelle più forti e autoritarie (obbligo e, soprattutto, divieto), e dovrà altresì indurre il giudice, in sede applicativa, a operare secondo modelli di certezza che tengano essenzialmente conto di un bilanciamento tra principi piuttosto che dell’applicazione di regole44. Ciò, peraltro, è nulla più che la necessaria applicazione di un principio operativo proprio di ogni ordinamento liberale, in cui deve ritenersi consentito tutto ciò che non sia espressamente vietato (laddove l’opposto, com’è ovvio, caratterizza un regime autoritario). E d’altronde, come non tutta l’etica deve trasporsi nella contigua ma ben distinta dimensione del diritto, non tutta la bioetica dovrà essere tradotta in biodiritto. Questo dovrebbe occupare invece, nello Stato laico, uno spazio minimo, operare cioè come fattore integrativo e inclusivo, non come luogo di esasperazione delle contrapposizioni, e agire in modo coercitivo solo ove ciò sia reso strettamente necessario dalla tutela di beni primari della collettività o dalla difesa dei soggetti più deboli. Un biodiritto, insomma, che si inquadri appieno nel diritto leggero e flessibile di cui ha parlato, di recente, Stefano Rodotà45, e in quella visione “mite” del paradigma giuridico descritta da Gustavo Zagrebelsky46. A questo punto, si rende necessario un esame di almeno alcuni dei numerosissimi problemi concreti che si pongono nel campo bioetico; anche se, com’è ovvio, non sarà qui possibile essere esaustivi. [3.2 - I problemi della vita e della morte nella prassi giuridica.] Cercherò ora di cogliere, per quanto possibile, i riflessi pratici che l’applicazione del principio giuridico di laicità ha su alcuni dei problemi bioetici, e in particolare sui profili inerenti all’inizio e alla fine della vita umana, nonché alla ricerca in campo biogenetico, e alle sue applicazioni all’essere vivente umano. Per motivi evidenti, non potrò invece trattare i pur rilevantissimi problemi inerenti alla donazione e all’impiego di organi del corpo umano, e alla ricerca, nonché allo sfruttamento commerciale tramite brevetti, degli organismi, vegetali e animali, geneticamente modificati, cui si connettono i delicati profili della tutela della biodiversità e della distribuzione di risorse sui mercati alimentari globali. α) Ai processi iniziali e finali della vita umana sono legati i maggiori contrasti tra le concezioni trascendenti e quelle immanenti dell’esistenza. Come detto, la visione neotomista cattolica tende a vedere il fenomeno vitale nel quadro di un disegno trascendente e “intelligente”, a leggere la vita comunque come dono, mediante il quale è sempre possibile accedere alla Grazia divina, e ad applicare a tutto questo, in perfetta coerenza, il modello di un diritto naturale che non cela la sua trascendenza divina. Così si elude, o forse si elide, ogni problema circa la qualità della vita stessa, e si risolve in termini di indisponibilità ogni possibilità del singolo sulla propria esistenza: questa, in effetti, non gli appartiene, essendo egli solo “amministratore” del meraviglioso gesto della creazione divina. Di qui, il citato problema dell’individuazione dell’inizio della vita, nel processo della procreazione (o meglio, riproduzione, senza implicazioni teologiche). Se dunque l’embrione, generato dalla fusione dei gameti, è in sé frutto di vita, esso (rectius: egli) dovrà essere tutelato come persona, e ogni intervento esterno attualmente o potenzialmente dannoso, dalla soppressione, alla

44 Sul punto sia consentito rinviare a F.RIMOLI, Certezza del diritto e moltiplicazione delle fonti:spunti per un’analisi (2000), ora in L.MENGONI-F.MODUGNO-F.RIMOLI, Sistema e problema. Saggi di teoria dei sistemi giuridici, Torino, Giappichelli, 2003, 243 ss. 45 S.RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, Feltrinelli 2006. 46 Il riferimento è, ovviamente, a G.ZAGREBELSKY, Il diritto mite. Legge diritti giustizia, Torino, Einaudi, 1992.

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crioconservazione, alla sperimentazione, dovrà essere vietato come gravemente lesivo della sua dignità e moralmente illecito47. Terreno scivolosissimo, anche sul piano scientifico. Sul piano filosofico, poi, l’uomo in potenza non è già uomo, poiché potrebbe anche, secondo Aristotele, non diventare affatto un uomo, ossia morire, in quanto “ogni potenza è, contemporaneamente, potenza di due cose contraddittorie”, e “ciò che può essere, dunque, può essere e non essere”48. In più, così ragionando, uomo in potenza sarebbero anche lo spermatozoo e l’ovulo non fecondato, laddove capitasse loro, per avventura, di incontrarsi da qualche parte (in un utero o in una provetta)49. Inoltre, il fatto che la fecondazione consiste in un processo continuo, e non in un evento istantaneo, pone problemi evidenti: ciò ha indotto all’elaborazione di controverse (e talora strumentali) nozioni intermedie, da quella di ootide (oocita a due pronuclei), a quella di preembrione (che si avrebbe fino all’annidamento nell’utero: secondo il rapporto Warnock, al 14° giorno)50. Va detto che altre soluzioni scientifiche del problema vedono come momento iniziale dell’individuo la comparsa del tubo neurale, verso il 14° giorno dalla fecondazione; sebbene poi alle teorie gradualistiche sembri preferibile quella che pone l’inizio del processo vitale nella formazione della prima copia funzionale del genoma, ovvero non con la comparsa dell’embrione unicellulare (zigote), ma, per l’essere umano, allo stadio di formazione di quattro cellule, ossia tra la 40° e la 50° ora di sviluppo51. Di qui, anche, l’auspicio verso la definizione di uno “statuto dell’embrione”, che, tramite la sua soggettivazione/personificazione, ne consenta una tutela pressoché assoluta52. Nonché il rifiuto, in Italia recepito quasi in toto dalla legge n.40/2004, di ogni sperimentazione, di ogni intervento e di ogni diagnosi preimpianto sugli embrioni non rivolte a fini strettamente terapeutici, e comunque di ogni pratica che comporti la soppressione, o anche la crioconservazione, degli embrioni stessi (fermo restando il problema dei cosiddetti “soprannumerari” già prodotti)53. Qui, peraltro, la stessa Chiesa cattolica si è allontanata dalla stessa visione di Tommaso, che, nella Summa contra Gentiles (1269-73) vedeva l’uomo in potenza come animale in atto (prius tempore est fetus animal quam homo), poiché “il corpo umano…che precede temporalmente l’anima…non è umano in atto, ma solo in potenza”54. E il concetto di “potenza”, come ben rileva Emanuele

47 Le concezioni della bioetica cattolica romana sono ben espresse da E.SGRECCIA, Manuale di bioetica.I. Fondamenti ed etica biomedica, Milano, Vita e pensiero, 2007. Si vedano anche F.D’AGOSTINO, Bioetica nella prospettiva della filosofia del diritto, Torino, Giappichelli, 1998, e G.DALLA TORRE, Le frontiere della vita. Etica, bioetica e diritto, Roma, Studium, 1997. 48 ARISTOTELE, Metafisica, IX, 8 (ed.a cura di C.A.Viano, Torino, Utet, 2005, 426 ss., ma 430) 49 Così, provocatoriamente, ma conseguentemente, anche E.SEVERINO, Sull’embrione, cit., 74. 50 Nelle prime due settimane, infatti, il processo vitale è totipotente, può dar luogo, se diviso, a più individui, e ha uno sviluppo stocastico, in sé imprevedibile: dunque non si può dire di essere dinanzi a un individuo. Sul punto M.MORI, La fecondazione artificiale. Una nuova forma di riproduzione umana, Roma-Bari, Laterza, 1995, 69 ss.; sulla transizione oocita-embrione si vedano anche le Considerazioni bioetiche in merito al cosiddetto “ootide”, formulate dal Comitato nazionale di bioetica in un documento del 2005, che espone le diverse tesi dei componenti del Comitato stesso sull’inizio del continuum generativo (e dunque dell’individuazione vitale). 51 In tal senso C.A.REDI, Cellule staminali, in Laicità. Una geografia delle nostre radici, cit., 172 ss. (ma 180). Le dispute scientifiche in ordine alle fasi intermedie di formazione dell’embrione rilevano, tra l’altro, anche ai fini dell’applicazione dei divieti contenuti nella legge n.40/04, che si riferiscono letteralmente agli “embrioni” (si veda il punto 3.2 delle Considerazioni sull’ootide sopra citate). 52 Sul punto, tra molti, F.D’AGOSTINO, Bioetica (raccolta di saggi), III ed., Torino, Giappichelli, 303 ss. 53 Evangelium vitae, cit.,§ 63; il divieto di diagnosi preimpianto nella legge n.40/04 non è assoluto, essendo ammessa tale pratica a fini terapeutici (ma si vedano anche l’art.10 del d.m. 22 luglio 2004, contenente le Linee guida, che ammette solo un’indagine osservazionale). Ora, sul punto, si veda però la sentenza del Trib.civ.Cagliari, 24 settembre 2007, che ha consentito la diagnosi preimpianto per una coppia a rischio di betatalassemia . 54 TOMMASO D’AQUINO, Summa contra Gentiles, ossia la verità della fede cattolica (1269-73), II, 86-89 (tr.it. di A. Puccetti, 2 volumi, Torino, SEI, 1930).

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Severino, non può essere assunto come chiave per interpretare il divenire, giacché è, piuttosto, “un grandioso costrutto teorico della follia”55. Altrettanto illecita è poi, in questa visione, ogni attività procreativa che tenda a separare sessualità e procreazione: simmetricamente a quanto sostenuto per la contraccezione ottenuta con metodi non “naturali”, si nega dunque ogni ipotesi di fecondazione in vitro, anch’essa “innaturale”: anzi, le tecniche di riproduzione artificiale “aprono la porta a nuovi attentati contro la vita”56. E ancor più decisa è, ovviamente, la negazione dell’interruzione volontaria della gravidanza: drasticamente equiparata all’omicidio, e talora addirittura al genocidio, la pratica dell’aborto è talmente riprovevole da rendere di fatto sconsigliabile, se non proprio immorale, anche la diagnostica prenatale, che potrebbe preludere a un aborto “eugenetico”, e che si può ammettere solo ove questa ipotesi sia a priori respinta dai genitori del feto, e sia effettuata solo per interventi terapeutici57. Tutto ciò, nel quadro di un’etica strettamente cognitivista, fondata sui principi di una rivelazione interpretata secondo la lezione del magistero vaticano, trasferisce sostanzialmente in un altrove metafisico la ponderazione delle conseguenze concrete (terrene) dell’azione e dalla relativa responsabilità. In quanto meri amministratori di una vita originata nel mistero della creazione, i singoli dovranno infine preoccuparsi solo limitatamente della sorte terrena dei nascituri: dovranno cioè curarli e mantenerli finché possibile, ma non sono esistenzialmente responsabili del loro destino. In fondo, quella che si presenta come un’ansia di tutela nasconde in verità una sorta di deresponsabilizzazione in ordine alla vita futura, sia nel senso della zoé che del bíos, del nuovo individuo. Ma tutto, in realtà, è coerente: il disegno divino, cui questi è affidato, rende infatti ragione della sofferenza, che, se non eliminabile con cure “lecite”, deve essere infine accolta come prova da sostenere e superare, e soprattutto della morte, evento futuro e certo che però – ed è questo il pilastro di ogni etica religiosa ed escatologica – non conclude il ciclo vitale, aprendone piuttosto un altro, ben più duraturo e potenzialmente felice, rispetto al quale ogni considerazione dovrà essere svolta. Ogni nuova vita, per sé, è per il credente un dono, anche qualora avvenga sotto i peggiori auspici terreni (miseria, sofferenza, prevedibili patologie), perché consente un possibile accesso al Regno dei Cieli, altrimenti precluso, e dunque non può esservi alcuna ragione valida, anche in casi estremi, per la sua soppressione. E allora, perfino la propaganda contro le pratiche anticoncezionali in Paesi afflitti dalla sovrappopolazione, dall’indigenza e da una devastante diffusione dell’AIDS può diventare, in una logica di trascendenza, un’azione legittima e coerente. Peraltro, è questa una dimensione che, sia pure con molte varianti, accomuna a quella cattolica romana anche la gran parte delle altre etiche (bioetiche) religiose, sulle quali non possiamo soffermarci. Ma qui è la domanda per noi centrale: può uno Stato informato al principio di laicità far propria una simile concezione, ovvero tradurre – secondo quella che è da sempre l’intenzione delle gerarchie cattoliche, e in genere delle élites religiose, tendenti alla teocrazia58 – in norma giuridica positiva, in legge con portata generale, ciò che è il prodotto di una particolare visione dell’esistenza umana, imponendo in conseguenza divieti e sanzioni, trasformando infine il peccato in reato? Evidentemente no: ma è un no che dev’essere precisato.

55 E.SEVERINO, Sull’embrione (raccolta di articoli), Milano, Rizzoli, 2005, 54-55. 56 Così la già citata enciclica Evangelium vitae, §14 e § 63. 57 Ibidem. 58 Sul rapporto tra legge morale e legge civile nel magistero cattolico, si leggano i paragrafi 68 e ss. dell’enciclica Evangelium vitae, basati sul passo delle Scritture per cui “bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At., 5,29).

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L’etica laica, che è etica a pieno titolo (non merita risposta chi vorrebbe il laico privo di moralità)59, e che si basa sulla forza del dubbio e sull’inclusività della ragione, anziché sulle certezze del dogma e l’esclusività della Verità assoluta, riconosce a questa concezione come ad ogni altra, nel quadro di garanzie costituzionali del tutto evidenti e indefettibili entro un modello democratico, una piena libertà di espansione. Deve cioè ritenere intangibile il diritto di ciascun credente a uniformarsi, almeno finché non vi sia lesione di analoghi diritti altrui, ai dettami della propria fede, e ai doveri della propria eventuale appartenenza confessionale. In tal senso, sia chiaro, il credente può comportarsi da laico, e non c’è alcuna implicazione necessaria tra l’essere laici e il non essere credenti60: ma ove voglia invece agire come credente anche nella dimensione dell’etica pubblica, ciò non può essergli impedito, essendo piuttosto il frutto di coerenza interiore (c’è qui, per il cittadino e fedele, il delicatissimo problema della “doppia lealtà”, già affrontato da Locke)61. Di più: deve altresì essere riconosciuto alla Chiesa-istituzione, forza socialmente e politicamente attiva, attore del processo integrativo-discorsivo, il pieno diritto di esprimere ad ogni livello la propria opinione su ogni tema che essa ritenga “eticamente sensibile”, o sul quale voglia comunque intervenire, e dunque anche di influenzare, nei limiti posti dal metodo democratico, le scelte pubbliche operate dal legislatore. Qui non c’è violazione del principio di laicità. La libertà di manifestazione del pensiero è un diritto fondamentale e garantito a tutti, e non un privilegio, come certe esenzioni fiscali riconosciute agli enti ecclesiastici. Ma per il legislatore di uno Stato laico, che deve tutelare paritariamente tutte le concezioni etiche e le istanze politiche, è necessario operare, in ambiti così controversi, con le già richiamate modalità deontiche deboli: dunque, per restare al nostro tema, il consentire senza gravi limitazioni, a chi voglia praticarla, la procreazione medicalmente assistita, non significa imporla a chi non voglia accedervi, come, del pari, il permettere l’aborto non vuol dire obbligare chi non vuole abortire a farlo62. Non c’è qui solo il problema sociale, spesso ignorato, della disastrosa clandestinità delle pratiche o all’accentuazione delle disuguaglianze cui certe scelte conducono (per cui, prevedibilmente, il “turismo procreativo” è oggi in Italia privilegio dei ricchi). Questa lesione del principio di eguaglianza si genera dovunque si sviluppi quello “shopping planetario dei diritti” di cui parla Rodotà63, e dovunque si affermi la logica dei mercati globali nel suo aspetto deteriore, e una nuova forma di cittadinanza extranazionale di tipo prettamente censitario. Qui c’è anche la violazione evidente del principio di autodeterminazione che, corroborato da un’adeguata assunzione individuale di responsabilità, nella fattispecie in ordine alla scelta procreativa64, deve essere invece ritenuto momento fondante dell’ordinamento democratico liberale, per noi alla luce (almeno) degli articoli 2 e 13 della Costituzione. In questo senso, nella prospettiva laica, la scelta delle modalità del gesto riproduttivo dovrebbe essere rimessa pienamente ai genitori (o al genitore), la cui maturità di individuo e di cittadino deve 59 Tra molti, sul tema, P.FLORES d’ARCAIS, Etica senza fede, Torino, Einaudi, 1992; E.LECALDANO, Un’etica senza Dio, Roma-Bari, Laterza, 2006; R.BODEI, L’etica dei laici, in Le ragioni dei laici, a cura di G.Preterossi, Roma-Bari, Laterza, 2005, 17 ss. 60 Secondo l’etsi Deus non daretur di Bonhoeffer, che richiama l’etsi daremus Deum non esse di Grozio. Sul tema G.E.RUSCONI, Come se Dio non ci fosse. I laici, i cattolici e la democrazia, Torino, Einaudi, 2000. 61 Nella Lettera sulla tolleranza (1685), e già nel Saggio sullo stesso tema (scritto nel 1666, ma pubblicato solo nel 1876), Locke escludeva i papisti (e gli atei) dal diritto alla tolleranza stessa (si veda la tr.it. a cura di C.A.Viano, Roma-Bari, Laterza, 1994). Per la posizione della Chiesa cattolica sul punto, si veda la “Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica”, pubblicata dalla Congregazione per la dottrina della fede il 24 novembre 2002. 62 E qui, registro una provocazione: la presunta “strage” derivante dagli aborti non è maggiore di quella dei non nati a causa degli ostacoli oggi posti in Italia alla fecondazione assistita: perché ogni argomento è reversibile, e a questi paradossi conduce il già richiamato concetto di “potenza”: sul punto E.SEVERINO, Sull’embrione, cit., 65 ss. 63 Op.cit., 56 ss. 64 Sul punto E.LECALDANO, Bioetica, cit., 137 ss.

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sempre essere presunta in un regime democratico, senza la posizione vincolante di presupposti autoritativamente definiti (come l’accertata sterilità della coppia); dovrebbe essere consentita certamente come fecondazione omologa, ma anche come eterologa, salvo restando naturalmente il divieto di disconoscimento successivo della paternità da parte del coniuge (o convivente) consenziente e l’anonimato del donatore, cui non osta l’ultimo comma dell’art.30 Cost.; dovrebbe altresì essere consentita anche a donne non stabilmente conviventi, giacché il modello familiare – anche quello di cui all’art.29 Cost. – è tutt’altro che univoco, esclusivo e immutabile, essendo piuttosto il variabilissimo frutto di variabilissime convenzioni sociali in costante trasformazione. Infine, una volta risolti i pur rilevanti problemi di natura civilistica che ne nascono, non sembra da respingere, né sul piano etico né su quello giuridico, la stessa pratica della maternità surrogata, ora vietata in Italia, e che invece potrebbe rendersi opportuna o addirittura necessaria, in certi casi, per la piena esplicazione del diritto alla maternità garantito dall’art.31 Cost.. Peraltro, anche il canone tradizionale del nucleo bigenitoriale eterosessuale non dà sempre rasserenanti esiti da spot televisivo, visto che, a stare alle cronache, purtroppo, molti delitti di sangue e molti casi di perversione sessuale si generano proprio in questo tipo di convivenze. E qui, piuttosto, si dovrebbe valorizzare appieno la portata del già citato art.31 Cost., valido fondamento per un diritto alla procreazione (riproduzione) capace di espandersi anche – e soprattutto – alla scelta di una maternità e di una paternità responsabili solo se autodeterminate, secondo un principio che non può essere sovrastato, entro un modello democratico che deve presupporre la maturità dei cittadini, da un paternalismo criptoautoritario dei pubblici poteri65. Dopo quanto detto, un breve cenno deve essere fatto alla citata legge n.40 del 2004, procreata molto artificialmente da maggioranze trasversali (purtroppo “naturali” nel nostro confuso quadro politico), salvata dall’attacco referendario da un’abilissima manovra a tenaglia di destre e forze cattoliche, nonché dal consueto pragmatismo dei vertici vaticani, che certo la ritengono buon esempio di ciò che intende il Pontefice per “sana laicità”, e che hanno posto in essere un’efficace strategia astensionista. Ma una legge che fa propria la visione sacrale della vita e la personificazione dell’embrione voluta dalla dottrina cattolica, che impone a tutti i cittadini una concezione etica rispettabile, ma parziale non generalmente condivisa, limitando le libertà individuali e frenando la ricerca, non può certo essere ritenuta compatibile con il principio di laicità. Una legge che consente la procreazione assistita solo come metodo residuale e terapeutico per un’accertata sterilità di coppia, che impone tecniche assai rischiose, e talora inumane, solo per evitare la soppressione o la conservazione di embrioni (come l’impianto obbligatorio di tre embrioni per ogni ciclo, conseguente al divieto di selezione preventiva: scelta costosa, pericolosa, di fatto inattuabile e contraria all’art.32, nonché alla libertà terapeutica del medico, pure affermata dalla Corte con la sent.n.282/02), che vieta di fatto ogni sperimentazione sui medesimi, è infatti agli antipodi del modello statuale laico di cui stiamo trattando. E tale rimane nonostante il tentativo di riequilibrio operato con le successive Linee guida, che peraltro hanno creato molti dubbi applicativi, oltre che di tecnica normativa66. La legge italiana è ispirata a opzioni ideologiche esclusive, è più restrittiva di quasi tutte le altre normative europee, dalle lois de bioéthique francesi alle recenti leggi spagnole, addirittura più radicale del già radicalmente orientato Embryonenschutzgesetz tedesco del 199067, e non è immune

65 Sia permesso il rinvio a F.RIMOLI, Appunti per uno studio sul diritto alla procreazione, in Studi in onore di M.Mazziotti di Celso, II, Padova, Cedam, 1995, 465 ss. 66 Le Linee guida sono contenute nel D.Min.Salute del 21 luglio 2004; sui problemi applicativi del medesimo, si veda la decisione di Tar Lazio, sez.III, 23 maggio 2005, n.4046. 67 Un aggiornato quadro comparativo delle discipline in materia da C.CASONATO-T.E.FROSINI (a cura di), La fecondazione assistita nel diritto comparato, Torino, Giappichelli, 2006.

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da vizi di incostituzionalità sui quali la dottrina più attenta si è giustamente soffermata, oltre che irta di contraddizioni e incongruenze tecniche (in cui qui non posso entrare). Posso dire solo che, ancor prima che in contrasto con le disposizioni di cui agli articoli 9, 31, 32 e 33 della Carta, la legge 40 è un esempio di come dovrebbe non essere fatta una legge in materia di bioetica, entro un ordinamento di democrazia pluralista informato al principio supremo di laicità; lungi cioè dall’essere esempio di una laicità “sana”, lo è piuttosto di una laicità menomata, avvilita, e soprattutto tradita, non dalla pressione (in sé legittima) della Chiesa romana – che laica non può né deve essere - ma dalla scelta del Parlamento, che laico può e dovrebbe essere. È infine l’espressione di un’etica (e di una bioetica) di Stato; uno Stato che così diventa etico esso stesso, ponendosi agli antipodi del modello laico. E dunque sarebbe, a mio sommesso parere, decisamente auspicabile, pur dinanzi a una giurisprudenza di merito ancora timida e ondivaga68, un intervento del giudice costituzionale volto a riaffermare in questo campo, ben più di quanto sia accaduto con la corretta ma alquanto elusiva ordinanza n.369/06, il principio stesso, finalmente esplicandolo nella sua pienezza, tanto più alla luce della corretta affermazione del carattere “costituzionalmente necessario” della disciplina normativa contenuta nella legge 40, affermato dalla stessa Corte nella sentenza n.45/05, in occasione dell’ammissione del referendum. Tra l’altro, la legge 40, pur facendola salva, si pone in chiara antinomia ideologica con la legge 194/78, che permette, a date condizioni, la soppressione del feto (il quale, a rigore, dovrebbe essere più tutelato dell’embrione). Ma è ovvio che la legge 40 è, per i suoi fautori, un ponte per l’abrogazione della stessa legislazione sull’aborto, oggetto di pesantissimi attacchi da parte delle gerarchie vaticane, nella strategia di una “rievangelizzazione” dell’Occidente secolarizzato. Qui posso solo sfiorare questo tema; ma, sebbene sovente criticata, la legge n.194/78 è assai più coerente della legge 40 con il principio di laicità (non ancora affermato). Perché l’art.1 della legge, che nel tutelare la vita umana “dal suo inizio”, garantisce altresì il diritto “alla procreazione cosciente e responsabile”, ben manifesta la complessità e l’equilibrio dell’impostazione laica: diritto alla vita come bene prezioso, ma non sacralizzato, dunque non intangibile, ma bilanciabile con altri. L’aborto, già definito “abominevole delitto” dalla costituzione conciliare Gaudium et spes e ora dall’enciclica Evangelium vitae69 è invece, al di là di ogni disputa sull’inizio della vita, permesso (non già imposto) a chi lo voglia, a seguito di una ponderazione tra beni operata dallo stesso legislatore in astratto e rimessa alla scelta della donna in concreto. Si opera cioè in termini di facoltà, non di divieto né di obbligo, fondandosi sull’autodeterminazione e sul senso di responsabilità della donna. D’altronde, anche a voler concedere spazio a una diversa mentalità, qui si segue la tanto invocata “natura”, che rimette la scelta di generare interamente alla volontà e alla responsabilità dei singoli70. E, infine, qui si apprezza, tra l’altro, la perdurante opportunità della formula, di antica tradizione, accolta dall’art.1 del codice civile, per il quale la capacità giuridica si acquista “al momento della nascita”, ovvero del distacco del feto dalla madre, e che i diritti riconosciuti a favore del concepito sono subordinati “all’evento della nascita”. In altri termini, dal punto di vista etico e biologico si deve riconoscere che l’aborto è un omicidio, eticamente ammissibile solo per chi non riconosca valore sacrale alla vita, sebbene anche la Chiesa 68 Tra le altre, con vario taglio: Trib.Catania, 3 maggio 2004; Trib.Roma, 23 febbraio 2005; Trib.Cagliari, ord. 16 luglio

2005; TAR Lazio, sez.III ter, 9 maggio 2005, n.3452. 69 Gaudium et spes (Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, 7 dicembre 1965), § 51; Evangelium vitae, cit., § 58 e ss. 70 Una provocazione: la fecondazione eterologa è vietata: ma, si è detto, perché una signora con un marito sterile può scegliere liberamente di avere un figlio da un amante fertile, non essendo punibile l’adulterio, e una paziente non può, senza subire sanzioni, avvalersi di un donatore anonimo, pur con il consenso del marito? Tra l’altro, il divieto di fecondazione eterologa viola il diritto alla paternità dell’uomo sterile, che potrebbe pure ritenersi implicitamente garantito dall’art.31 Cost.. Su questi profili, con altre ipotesi, E.LECALDANO, Bioetica, cit., spec.194 ss.

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talora, come nel caso del martirio o della “guerra giusta”, deroghi a un tale assunto, tutelando incondizionatamente la salvezza dell’anima, non la vita terrena, e sebbene la stessa Costituzione italiana implichi una possibile deroga all’assolutezza del valore della vita, almeno nel “sacro dovere” di difesa della Patria di cui all’art.52. Ma sotto l’aspetto giuridico, l’art.1 c.c. da un lato, e il bilanciamento operato dalla legge 194/78 dall’altro, fanno sì che esso sia giuridicamente lecito (dunque tecnicamente non tale) a determinate condizioni. E peraltro, già nella lontana sentenza n.27/75, pur volentieri citata dai fautori di una tutela assoluta dell’embrione, la Corte costituzionale affermava che “non esiste equivalenza tra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione, che persona deve ancora diventare”; né la successiva sent.n.35/97 pare aver introdotto novità di rilievo, come alcuno pare ritenere. Ma il progresso scientifico è inarrestabile, e già si prospettano, all’orizzonte, nuove tecniche e nuove frontiere, come la possibilità concreta dell’ectogenesi, ossia di un processo di fecondazione e gestazione svolto interamente al di fuori di un utero femminile (peraltro già vietato, al livello della sperimentazione, dall’art.13 co.3 della legge 40): e tutto tornerà in discussione. β) L’altro problema centrale in ordine al ciclo vitale, oggi divenuto anche di vivissima attualità mediatica, dopo lo storico caso di Karen Quinlan, e i più recenti casi di Terry Schiavo negli Stati Uniti, di Eluana Englaro e Piergiorgio Welby in Italia (ne cito alcuni fra molti possibili), è quello dell’eutanasia, nel nostro ordinamento, a differenza che in altri, tuttora vietata71. Qui profilo etico e giuridico si fondono in modo evidente, dinanzi a una vita al tramonto, ma di un soggetto giuridicamente nella pienezza dei suoi diritti. E peraltro, la nozione di morte, intesa come processo finale della vita, è non meno ambigua, anche sul piano scientifico, di quella relativa al suo processo iniziale72. Qui, il progresso delle tecnologie di supporto vitale rende oggi possibile il protrarsi forzoso della vita (o meglio un rallentamento del processo del morire) anche per chi solo pochi decenni fa sarebbe deceduto in pochissimo tempo, e pone problemi affatto nuovi. Ma, lasciando da parte il profilo definitorio clinico, pur rilevantissimo sul piano pratico – per gli espianti d’organo, ma anche per lo stesso intervento eutanasico – una soluzione del problema che sia comune alle concezioni religiose e a quelle laiche, a dispetto delle illusioni postsecolariste, sembra qui improbabile. Il principio di indisponibilità della vita, già affermato per la procreazione assistita e per l’aborto, si esplica ancora in forma negativa, ossia nel senso di impedire ogni forma di eutanasia, passiva e – ovviamente – attiva, sempre definita come “grave violazione” della legge di Dio. Si rifiuta solo un accanimento terapeutico inteso come uso di mezzi “straordinari o sproporzionati” (concetto assai sfuggente in pratica per quelle che oggi si definiscono “cure inappropriate” rispetto alle prospettive) per il mantenimento in vita del paziente, ammettendo dunque la sospensione di tali mezzi o il “doppio effetto” di accelerazione della morte dovuto a cure palliative e terapie antidolore73. 71 Sul piano legislativo, com’è noto, alcuni Paesi hanno provveduto a disciplinare, almeno in parte, il fenomeno, con le necessarie garanzie, volte a evitare strumentalizzazioni dei malati da parte di chi sia cinicamente interessato, ad esempio, all’espianto di organi: così l’Olanda e il Belgio, che hanno disciplinato sia il suicidio assistito che l’eutanasia, o la Spagna e la Svezia, che hanno depenalizzato ambedue i comportamenti. Ma la prospettiva è generalmente rifiutata: così in Germania o in Gran Bretagna; la Francia ha ammesso solo (legge del 2005) il rifiuto di cure “inutili, sproporzionate, o non aventi altro effetto che il solo mantenimento artificiale della vita”; e il Consiglio d’Europa, nell’aprile 2005, ha respinto una liberalizzazione dell’eutanasia. 72 La legge n. 578/93, sull’accertamento e la certificazione di morte, fa propria la definizione di morte cerebrale, come “cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo” (si veda anche la legge n.91/99 sul prelievo e trapianto di organi e tessuti). Ma la morte cerebrale non è l’unica utilizzabile come parametro: le si affiancano quella corticale, quella del tronco encefalico e quella cardiaca (cui si riferisce l’art.2 della legge n.301/93 sui trapianti ed innesti di cornea, non abrogato dalla legge n.91/99). Sulle problematiche inerenti alle diverse scelte possibili in un campo così delicato, G.BONIOLO, op.cit., 155 ss.; P.VERONESI, Il corpo e la costituzione. Concretezza dei “casi” e astrattezza della norma, Milano, Giuffrè, 2007, 214 ss. 73 Evangelium vitae, cit., §§ 64-65.

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Poco conta la qualità della vita residua, la valutazione casistica dell’irreversibilità della malattia e l’impossibilità del recupero di un livello minimale di autonomia del paziente, data la concezione sacrale dell’intangibilità della vita stessa, ontologicamente intesa, e della sua non appartenenza al soggetto che la vive. Ciò, unito alla consacrazione della stessa sofferenza come mezzo per l’acquisizione della Grazia e della salvezza dell’anima, induce, come detto, a una visione affatto riduzionistica del problema, che è sostanzialmente rimosso. La prospettiva laica è ovviamente diversa, ponendo al centro il concetto - pure di delicatissima applicazione - di qualità della vita, e la sua stessa dequalificazione categoriale in mancanza di requisiti minimi di tollerabilità: si tratta infine di un’etica, per questi aspetti, di stampo utilitaristico, misurata su una valutazione tra costi e benefici nel rapporto tra quantità (prolungata) e qualità dell’esistenza biologica dell’individuo, nonché su una visione pragmatica dei problemi bioetici74. Peraltro, qui dev’essere, più che nel caso della vita nascente, rilevato un profilo peculiare e fortemente problematico: il coinvolgimento di soggetti “altri”, medici e parenti stretti, nell’eventuale decisione, e soprattutto nell’esecuzione della stessa, laddove – ed è il caso più drammatico, ma il più rilevante – il paziente moribondo, totalmente incosciente, come nel coma profondo, o cosciente e sofferente, come accade ad esempio nella terribile sindrome di de-afferentazione, in cui il malato è come “murato” nel proprio corpo, non sia in grado decidere per sé, o comunque di manifestare una volontà. Sotto questo aspetto, anche per la prospettiva laica, il problema giuridico (oltre che etico) è palese, concernendo anzitutto l’applicazione, all’evento eutanasico, delle norme che puniscono l’omicidio del consenziente e l’aiuto al suicidio (nel nostro ordinamento gli artt.579 e 580 c.p.). In mancanza di una legislazione apposita, infatti, restano spazi solo per una sottile applicazione della distinzione tra eutanasia attiva e passiva, e soprattutto tra quest’ultima e l’interruzione di trattamento75; nel caso Welby, tale ultima differenza è valsa a rendere non punibile il medico intervenuto ad adempiere, quale proprio dovere, quella che era una volontà reiteratamente espressa dal paziente76. In più, nel fenomeno in esame è assai maggiore, in concreto, il diretto coinvolgimento delle strutture sanitarie, pubbliche o private, e dunque, da un lato, una rilevanza pratica delle direttive presenti nei codici deontologici degli Ordini professionali del personale sanitario, e dall’altro dell’apporto, essenzialmente discorsivo, dei Comitati di bioetica presenti in molte delle strutture in questione. Ma, al di là di ciò, nel singolo caso la decisione sembra infine non poter essere rimessa che al paziente, ove ancora cosciente e in grado di assumerla, e al medico, la cui deontologia professionale, nell’etica ippocratica, impedisce peraltro di dare in alcun modo la morte (il primum non nocere, corrispondente al principio di beneficenza dell’etica laica)77. Ma, come non si può costruire un diritto assoluto a morire, che imponga cioè ad altri di cooperare attivamente (di qui la ratio dell’obiezione di coscienza per il personale sanitario), altrettanto non si può trasformare, se non in un modello politico totalitario, il diritto alla vita in un obbligo alla vita. In altre parole, cioè, se sul piano morale si possono individuare fattori per cui ci si dovrebbe sentire obbligati a continuare la propria esistenza, per quanto infelice essa sia (la responsabilità verso i

74 In questa prospettiva si veda G.McGEE, Pragmatic Method and Bioethics, in Pragmatic Bioethics, a cura di G.McGee, II ed., Cambridge, Mass., MIT Press, 2003, 17 ss. 75 Su questi profili, J.RACHELS, Quando la vita finisce, cit., 136 ss. e 229 ss. 76 Si veda la discussa sentenza di non luogo a procedere del 23 luglio 2007, pronunciata dal g.u.p. del Tribunale di

Roma applicando la scriminante di cui all’art.51 c.p.; in materia, di recente, anche Trib.Roma, sez.I, 16 dic. 2006, sulla non utilizzabilità dell’art.700 c.p.c.; App.Milano, 18 dic. 2003; Cass.pen., sez.I, 6 febbr. 1998, n.3147. 77 L’eutanasia è peraltro vietata ai medici dall’art.17 del Codice di deontologia medica del 2006, ma si richiede anche (artt.16,35,36,38 e 53) il consenso del paziente per la nutrizione e lo svolgimento di ogni terapia, anche essenziale, anche in virtù del divieto di trattamenti sanitari obbligatori di cui all’art.32, co.2, Cost.

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congiunti, o verso un particolare ruolo ricoperto nella comunità di appartenenza), sul piano giuridico non sembra possibile, per lo Stato laico, porre, nella scelta suprema e finale, limitazioni di sorta alla libertà di autodeterminazione del singolo che non voglia sostenere ancora un’esistenza ormai irreversibilmente destinata a un’agonia lunga e dolorosa78. Ovviamente, qui torna la necessità di una piena informazione da fornire al malato, non ancora giunto allo stadio terminale, sulle proprie ragionevoli prospettive, e il delicatissimo tema del ruolo del medico nella gestione della difficile fase psicologica dell’accettazione di una malattia letale da parte del paziente: ruolo che deve essere ispirato a solidarietà, e a compassione (in senso etimologico), ma non a paternalismo, o, peggio, a prevaricazione. La concezione cattolica impone di informare comunque il paziente, per consentirgli di prepararsi spiritualmente all’evento esiziale, benché sul piano clinico questo possa diminuire le capacità di reazione, compromettendo le possibili terapie. Tale ultima considerazione, ovviamente, non vale per le patologie sicuramente incurabili, ove solo delicatissime considerazioni individuali possono guidare il clinico alla scelta (salvo, ovviamente, l’obbligo di informazione dei familiari), per alleviare quella tremenda “solitudine del morente”, descritta in modo così toccante da Norbert Elias79, in un tipo di società che tende a rimuovere la morte da sé come alcunché di profondamente osceno80. Qui, ovviamente, è ancor più centrale la manifestazione di volontà, il “consenso libero e informato” del paziente, garantito peraltro anche dall’art.3 co.2 della Carta di Nizza per ogni pratica medica e biologica, ma anche il “diritto a non sapere” sancito dall’art.10 della Convenzione sulla biomedicina; e al solo paziente, finché possibile, dovrebbe spettare la scelta sul proprio ultimo destino terreno. Dunque l’intera, delicatissima problematica dell’eutanasia non ha, proprio per questo, nulla in comune con le cupe memorie naziste dell’eliminazione sistematica di “vite indegne di essere vissute”, che colpivano chi non aveva alcuna intenzione di farsi eliminare, e che troppo spesso sono richiamate dagli avversari dell’eutanasia. Ma il vero problema, come detto, si pone ove il paziente sia del tutto incapace di autodeterminarsi, ad esempio perché giunto alla fase estrema dello stato vegetativo permanente, accertato dopo una lunga e codificata indagine clinica, e sia sottoposto a trattamenti di alimentazione e idratazione artificiale81: qui ritornano problemi analoghi a quelli già visti per l’embrione, ossia per un soggetto non in grado di esprimere in modo attuale la propria volontà. C’è qui, com’è ormai noto, il possibile strumento delle volontà espresse in precedenza, con le “dichiarazioni anticipate di trattamento” (c.d.“testamento biologico”), già oggetto di un parere espresso nel 2003 dal Comitato nazionale di bioetica e poi di numerosi disegni legislativi, ma ancora non compiutamente disciplinate dal nostro ordinamento, e dunque per ora capaci di assumere solo una funzione di impegno morale per chi sia chiamato in concreto a decidere82. Ma qualora tali dichiarazioni non vi siano, né sia univocamente desumibile la volontà del morente da prove testimoniali su opinioni da questi espresse in passato, a chi spetta la scelta? 83 78 Considerazioni assai condivisibili e concrete in U.VERONESI, Il diritto di morire. La libertà del laico di fronte alla sofferenza, Milano, A.Mondadori, 2005; sul punto anche H.JONAS, Il diritto di morire, cit., 16 ss. 79 N.ELIAS, La solitudine del morente (1982), tr.it., Bologna, il Mulino, 1985. 80 Così Ph.ARIÈS, Storia della morte in Occidente (1975), tr.it. Milano, Rizzoli, 1978, 187 ss. 81 Che sono da intendere come trattamenti clinici in senso stretto: ma si veda qui il parere di maggioranza espresso dal Comitato nazionale di bioetica nella seduta del 30 settembre 2005. 82 Peraltro sia l’art.9 della Convenzione di Oviedo, sia l’art.38 del Codice di deontologia medica del 2006, sia un parere del Comitato nazionale di bioetica del 2003 riconoscono come vincolanti le dichiarazioni anticipate; sul punto, di recente, P.VERONESI, Il corpo, cit., 249 ss. 83 Sul tema, Corte europea dei diritti dell’uomo, 29 aprile 2002, n.2346/02 [Pretty vs. U.K.], che negò a Diane Pretty il diritto a interrompere i trattamenti di supporto vitale, ma operando un’apertura a normative nazionali permissive in materia; Alta Corte di giustizia d’Inghilterra, 22 marzo 2002 [B. vs. NHS Hospital Trust], che invece autorizzò una malata a morire. Per l’Italia, Cass.civ., sez.I, 20 apr. 2005, n.8291, che nomina un curatore speciale, in contraddittorio al tutore che chiedeva l’interruzione dell’alimentazione artificiale (una delle numerose decisioni finora succedutesi sul

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Naturalmente un peso essenziale sarà dato alle volontà espresse da coloro cui sia affidata una funzione tutoria (“fiduciaria”)84; per i medici o altri decisori investiti di una funzione pubblica (come il giudice eventualmente chiamato a pronunciarsi), pur nella consapevolezza dei rischi e della necessità di una stretta valutazione casistica sull’effettiva condizione di irreversibilità delle condizioni del malato e sul contesto oggettivo specifico, è evidente che la decisione, pur assunta con l’ausilio di Comitati etici, non potrà non considerare anche, secondo un criterio utilitaristico, che l’uso di risorse limitate (macchinari, sostanze rare) per malati non recuperabili si può tradurre in un danno immediato e oggettivo per altri pazienti che abbiano, in partenza, prospettive migliori, e il cui unico torto è quello di essere “arrivati dopo”. In ciò sta anche una pragmatica ma corretta attuazione dell’eguale diritto di tutti a un equo accesso alle cure sanitarie, anch’esso sancito dall’art.3 della Convenzione sulla biomedicina, e implicitamente desumibile dagli articoli 3 e 32 della Costituzione italiana. Ma, tornando ai profili generali, non potrà sostenersi, secondo un’etica pubblica informata al principio di laicità, che una non condivisa concezione sacrale di indisponibilità della vita possa tradursi nell’imporre al singolo, contro la sua espressa o presumibile volontà, una sofferenza senza speranza85. E peraltro, se è vero che il diritto al rifiuto di un trattamento sanitario è garantito dallo stesso art.32 Cost., secondo cui la legge che eventualmente lo imponga non può “violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”, qui il rispetto sta proprio nel consentire al morente di mantenere la sua dignità fino in fondo, non subendo umiliazioni che aggiungano una tortura psicologica a quella fisica già inflitta dalla malattia. E “lasciar morire una persona in un modo che altri approvano, ma che essa considera in orribile contraddizione con la sua vita, è una forma di tirannia odiosa e distruttiva”86. Circa la distinzione tra eutanasia passiva e quella attiva, poche parole: quest’ultima, pur plausibile senza scandalo nella prospettiva qui delineata, imporrebbe una puntuale disciplina legislativa per poter essere praticata correttamente evitando la sanzione penale. Ma anche la prima dovrebbe altresì essere più chiaramente procedimentalizzata, all’interno delle strutture sanitarie, così da evitare, per quanto possibile, l’intervento della magistratura e una sorta di pervadente ma incerto “diritto dei giudici” in materia (peraltro mai eliminabile nei casi controversi)87. Permettere cioè al malato terminale (o ai suoi congiunti, nel caso di coma irreversibile) di porre termine a un patimento incurabile e crudele è, anzitutto, scelta di pietà e di civiltà, che precede e sovrasta ogni caso Englaro: da ultima, si veda la decisione con cui la Corte di cassazione ha rinviato al giudice di appello affermando un diritto all’interruzione di trattamento laddove ricorrano i presupposti dell’irreversibilità acclarata dello stato vegetativo e della volontà del paziente di non essere sottoposto a trattamenti di supporto vitale in tale condizione: la notizia nella Repubblica del 17 ottobre 2007, con ampia eco mediatica)); Corte d’assise d’appello di Milano, 24 aprile 2002. 84 Per un esame dei problemi connessi al ruolo del tutore è emblematica ancora la vicenda Englaro: sul punto la ricostruzione di P.VERONESI, op.cit., 256, note 154 e 155. 85 Il che violerebbe tra l’altro, indirettamente, anche l’art.8, par.1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: sul punto Corte europea dei diritti dell’uomo, 29 aprile 2002, cit., e potrebbe configurare un’ipotesi di reato (per violazione dell’art.582 o 610 c.p.) a carico del medico curante. Sul tema si veda la giurisprudenza citata da P.VERONESI, Il corpo, cit., 238 ss. 86 Così R.DWORKIN, Il dominio della vita. Aborto, eutanasia, libertà individuale (1993), tr.it. Milano, Ed. di Comunità, 1994, 300. 87 Sebbene, nella prassi più comune, oggi tutto sembri svolgersi nel segreto delle camere d’ospedale, tramite una “interruzione di trattamento” che, spesso con un gesto solitario e coraggioso del medico o di un parente, consente al morente di liberarsi del suo fardello: sul punto U.VERONESI, op.cit., 84 ss. Per l’analisi di un caso concreto, quello di Ezio Forzatti, che il 21 giugno del 1998 staccò il respiratore che teneva in vita la moglie, fu condannato in primo grado per omicidio volontario premeditato dalla Corte d’Assise di Monza e poi assolto per insussistenza del fatto (non si ritenne raggiunta la prova che la moglie non fosse già in morte cerebrale all’atto del distacco del respiratore) dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano (sez.I, 24 aprile-21 giugno 2002, n.23/02), si vedano C.LALLI, Dilemmi della bioetica, Napoli, Liguori, 2007, 48 ss., e P.VERONESI, op.cit., 272 ss.

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considerazione giuridica, e che dovrebbe indurre a rendere questa scelta legalmente praticabile anche al di là dell’incerto limite dell’ “accanimento terapeutico” o della tecnica (un po’ ipocrita) dell’”effetto secondario”. Ciò che conta infatti, in un’etica della responsabilità, è il non costringere altri a sofferenze inutili, e il saper seguire il processo vitale fino alla sua conclusione, assecondando la volontà del morente ove espressa, e il suo interesse a non subire un dolore disperante e una degradante umiliazione; perché proprio chi riconosce valore alla vita non può ridurla, per sé o per altri, a un insopportabile e vano calvario. L’idea di un dio comunque buono, che infligge il male solo per consentire un bene maggiore, è troppo umana, e comunque non condivisa al punto da potersi legittimamente tradurre in limitazioni giuridiche di un diritto di morire che spetta, come diritto fondamentale, soprattutto a coloro che non condividono prospettive di trascendenza88. Perché infine, in questi casi, il vero omicida non è il medico che agisce, ma la malattia. E, come afferma Jonas, il diritto di vivere, che è fonte di tutti i diritti, se correttamente e integralmente inteso, include anche il diritto di morire89, nell’intima e ineluttabile contiguità (e continuità) delle due dimensioni. γ) Il tema bioetico che più accende le passioni - e spesso le più improbabili fantasie – dell’opinione pubblica, è però quello della cosiddetta ingegneria genetica, derivante dalla ricerca sul genoma umano e dalla sperimentazione sugli embrioni: campo di enorme portata scientifica, e di prospettive tuttora imponderabili. Qui, per il costituzionalista, il conflitto sta essenzialmente tra la libertà della ricerca scientifica, in Italia garantita dall’art.33 Cost. (con i connessi compiti di promozione imposti alla Repubblica dall’art.9), e la tutela della persona umana sancita anzitutto dall’art.2. Ma il problema impone riflessioni che vanno ben oltre la mera esegesi di un testo costituzionale, e giunge al livello delineato da Jonas e da Habermas: ossia al problema della responsabilità verso gli individui che nascano come frutto di interventi biogenetici, da un lato, e verso le generazioni future tout court, dall’altro. Ovviamente, per l’etica laica (e per lo Stato laico) dovrebbe essere superato, in linea di principio, e all’opposto di quanto sancito dalla legge 40, ogni divieto di origine sacrale all’intervento sull’embrione, che non può essere equiparato in sé ad una persona90. Questa considerazione, ad esempio, rende insostenibili, per tale prospettiva (e per quella scientifica stricto sensu, che anche qui dovrebbe trovare un sostegno costituzionale negli articoli 9 e 33), i divieti posti alla ricerca su e all’impiego di cellule staminali embrionali, le uniche totipotenti, che potrebbero risolvere patologie gravi, il diritto alla cui cura, ove tecnicamente possibile, dovrebbe essere peraltro garantito, in base all’art.32 Cost., anche a chi se ne vede invece privato a causa di scelte legislative non generalmente condivise sul piano etico. A ciò si aggiunge una gestione concreta dei finanziamenti pubblici (anche ad opera dell’attuale governo) che impedisce anche quel poco che sarebbe consentito dalla legge stessa in questo campo (come il lavoro su linee cellulari derivate da embrioni soprannumerari, ovvero non appositamente prodotti e già disponibili in coltura: questo indirizzo di ricerca è di fatto escluso dai bandi di

88 Si leggano comunque le coinvolgenti pagine di U.SCARPELLI, Eutanasia, l’ultimo gesto della pietà (1991), ora in ID., Bioetica laica (raccolta di articoli) , Milano, Baldini e Castaldi, 1998, 129 ss., per il quale il laico “non può credere a un Dio capace di compiacersi degli estremi patimenti di un portatore di cancro”. 89 H.JONAS, Il diritto di morire, cit., 50. 90 La legge n.40 rende possibile, come detto, solo una ricerca “con finalità terapeutiche e diagnostiche”, volte alla tutela della salute e dello sviluppo dell’embrione (e dunque mai distruttive), in ciò rendendosi più restrittiva dell’art.18 della

Convenzione di Oviedo; sul punto, da ultimo, P.VERONESI,Il corpo, cit., 189 ss.

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finanziamento più recenti), in concreto imponendo, d’autorità, una ricerca di Stato sulle sole staminali adulte91. Ma in una prospettiva più ampia, i problemi etici posti da Jonas e da Habermas devono essere affrontati: laddove si intervenga sulle cellule somatiche, dunque, si può determinare – allo stato attuale – una serie di caratteri dell’individuo che nascerà. Finché l’intervento è volto a rimuovere patologie genetiche ereditarie non dovrebbe esserci alcun problema (e anzi, si può ipotizzare un dovere di intervento, onde evitare una futura, ipotetica azione di risarcimento da parte di colui che nascerà nei confronti dei genitori)92; peraltro l’intervento terapeutico è ammesso anche dalla Convenzione di Oviedo, all’art.13, e corrisponde al “principio di beneficenza”, che accanto a quelli di “non maleficenza”, autonomia, e giustizia, rappresenta uno dei quattro cardini della bioetica laica di impostazione utilitarista93. Il problema sorge però sul sempre incerto crinale che separa l’intervento terapeutico da quello cosiddetto “eugenetico”, finalizzato cioè a migliorare i caratteri del singolo rispetto a un dato di partenza che non fosse patologico, ma già connotato da un grado apprezzabile di “normalità” (criterio peraltro assai variabile)94. Il problema si rafforza, poi, ove si intervenga sulle cellule germinali, rendendo cioè le modificazioni operate stabili per l’intera linea di discendenza genetica del soggetto futuro (ipotesi vietata dall’art.13 della Convenzione sulla biomedicina). Si agita qui lo spettro, immancabilmente richiamato dai fautori dell’antiscientismo, dell’eugenetica nazista, o, più plausibilmente, della prospettiva di un “comunitarismo genetico”, che, perseguendo linee diverse di autoottimizzazione del genere umano, finisca con il produrre una frantumazione dell’unità della stessa natura umana come presupposto comune di reciproco riconoscimento e di condivisa autocomprensione95. L’argomento è però molto debole, e usato piuttosto in funzione demagogica: perché, sia detto senza scandalo, un certo grado di selezione eugenetica individuale (non solo inconsapevole, nella scelta del partner) è insito nella stessa evoluzione delle specie, e non può confondersi con l’eugenetica di massa programmata da un regime totalitario. E infine, è un diverso problema, da risolvere su tutt’altro piano, quello degli effetti perversi di una “moda” eugenetica che potrebbe derivare dagli impulsi del mercato (e dalle sue disuguaglianze) come frutto della somma di scelte individuali orientate all’accesso a biotecnologie di massa96. Non sembra poi plausibile l’altra obiezione mossa da Habermas circa il conflitto tra la libertà eugenetica dei genitori e la libertà etica del figlio, che, ove fosse geneticamente “programmato” dagli stessi, vedrebbe condizionata la sua esistenza futura e la sua autocomprensione morale, intaccata dall’asimmetria dei rapporti con i suoi “programmatori”97. Ciò, peraltro, oltre a peccare di irrealismo, come si vedrà, prova troppo: perché un valore programmatorio è insito nello stesso atto procreativo e in quel tanto di hybris che lo caratterizza, assorbendo dunque ogni scelta ulteriore

91 Sul punto C.A.REDI, op.cit., 177 ss.; T.PIEVANI, La bioetica confessionale del centro-sinistra, in MicroMega, 2/2007, 45 ss.; e ciò non può tollerarsi neanche dinanzi a quelle notizie di cronaca, tanto frequenti quanto effimere, che sembrano aprire prospettive certe sull’uso delle staminali adulte. Da notare che l’art.5 delle Linee guida definisce tali embrioni “orfani”, o in “stato d’abbandono”, condannandoli peraltro a una sterile estinzione. 92 Il che potrebbe addirittura configurare una sorta di “diritto a non nascere”, in sé autocontraddittorio, in caso di diagnosi comprovanti patologie non eliminabili: dall’ “affaire Perruche” in Francia (su cui si vedano gli arrêts della Corte di cassazione del 17 novembre 2000, 13 luglio 2001, e 28 novembre 2001, e la successiva legge 2002-303 del 24 marzo 2002, sull’handicap derivante da un errore diagnostico nella fase prenatale), prende le mosse R.ESPOSITO, Bíos. Biopolitica e filosofia, Torino, Einaudi, 2004, VII ss. 93 Secondo l’impostazione “principilista” di Beauchamp e Childress, su cui G.FORNERO, op.cit., 98 ss.; nonché J.R.NELSON, voce Bioetica, in Enc.Novecento, Supplementi, I, Ist.enc.it., Roma 1998. 94 C’è da ricordare comunque che le “pratiche eugenetiche”, in particolare “quelle aventi come scopo la selezione delle persone”, sono genericamente vietate dall’art.3 co.2 della Carta dei dir. UE alla luce del diritto all’integrità fisica e psichica della persona. 95 Sul tema, J.HABERMAS, Il futuro della natura umana, cit., spec.44 ss. 96 Sul punto S.RODOTÀ, op.cit., 170 ss. 97 Ibidem, 51ss. e 64 ss.

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fatta, ove possibile, rispetto a un soggetto che non può, comunque, manifestare la propria volontà, anzitutto sul fatto stesso della sua nascita. E potrebbe anche darsi che il figlio infine imputi ai genitori, in futuro, il fatto di non essere stato adeguatamente programmato rispetto a un nuovo e più elevato livello di “normalità”. Più realisticamente, la scelta, sia dell’an sia del quomodo, della procreazione è sempre assunta, sotto la sua piena responsabilità, dal genitore, e la dimensione della scelta, dunque, non ne muta la natura. In altre parole, il divieto di strumentalizzazione di cui parla Habermas è legittimo, ma è in parte inevitabilmente contraddetto dallo stesso atto procreativo, che è in sé una scelta soggettivamente e irrefutabilmente operata sull’Altro. Né pare che la consapevolezza di essere nati con un patrimonio genetico modificato – auspicabilmente in meglio, a parte l’opinabilità di tali valutazioni - possa, per sé, condurre a esiti psicologicamente peggiori di quelli che ha normalmente l’essere nati con una grave patologia ereditaria. Del resto, per quale motivo il processo generativo, che è ormai ordinariamente sottratto al caso per tutta la prima fase, dalla scelta di procreare (con l’uso di anticoncezionali) alla diagnostica prenatale (con esami ecografici, villocentesi, amniocentesi), dovrebbe poi essere lasciato alla casualità circa il sesso del nascituro, ove questo sia causa di patologie (ma anche in Germania è possibile intervenire in questo caso) o di problemi sociali (si pensi al caso cinese: è preferibile una predeterminazione del sesso o un aborto selettivo?), oppure circa l’esistenza di prevedibili patologie eliminabili con terapie geniche?98 Infine, credo che debbano essere smentite alcune ipotesi che, allo stato attuale delle conoscenze, hanno più a che fare con la fantascienza che con le concrete possibilità della biogenetica: così, una reale “programmazione” dell’individuo appare oggi impossibile, sia perché i fattori ambientali, in sé affatto incontrollabili, incidono in modo decisivo sulla determinazione dei caratteri e delle biografie individuali, sia perché, sul piano genetico, da una medesima struttura genotipica possono sortire numerosissime e di fatto imprevedibili varianti fenotipiche99; dunque considerazioni come quelle svolte da Habermas non sembrano fondate, almeno nel contesto attuale, su un presupposto di realtà. In questo senso – e ciò ci porta anche all’altro profilo, dell’intervento su cellule germinali e alla modificazione permanente del genoma – un vero diritto all’identità genetica, a un “patrimonio genetico non manipolato”, pur riconosciuto da documenti internazionali100, non appare però facilmente ricostruibile, perché poggiante su un incerto e mutevole concetto come quello, appunto, di identità, correlato ad altrettanto sfuggenti criteri di normalità. L’argomento del cosiddetto “piano inclinato” (o “pendio scivoloso”) è spesso applicato al campo della bioetica101, e in particolare alla sperimentazione genetica. In quest’ultimo caso, si paventa una deriva verso la creazione, a fini strumentali, di stirpi di superuomini o, all’opposto, di ominidi destinati alla schiavitù o all’espianto di organi (che peraltro oggi sembrano poter essere prodotti direttamente dalle cellule staminali). Ma anche quest’immagine sembra piuttosto essere uscita da un mediocre film dell’orrore. E peraltro, se davvero fosse realistica, il diritto servirebbe ben poco a frenare una simile inquietante follia di potenza. Più realistico, semmai, è l’uso delle nanobiotecnologie, che renderà ancor più evidenti le disuguaglianze derivanti dalla disponibilità economica dei singoli nell’accesso alle nuove tecniche, e il consolidamento di “caste” biologiche102. 98 Sul punto, le lucide considerazioni di S.RODOTÀ, La vita e le regole, cit., 150 ss. 99 Sul punto, M.BUIATTI, op.cit., 52 ss.; sul concetto di identità individuale in biologia anche E.BONCINELLI, Io sono tu sei. L’identità e la differenza negli uomini e in natura, Milano, A.Mondadori, 2002, 170 ss. 100 Si vedano le Raccomandazioni nn.934/82 e 1046/86 del Consiglio d’Europa (sul punto S.RODOTÀ, op.cit., 166 ss.); l’art. 1 della Convenzione sulla biomedicina protegge l’essere umano nella sua “dignità” , “identità” e “integrità”; l’art.1 della Dichiarazione dell’Unesco definisce il genoma, non senza enfasi, “in senso simbolico”, come “patrimonio dell’umanità”. 101 Per una critica, E.LECALDANO, op.cit. , 74 ss. 102 Ancora S.RODOTÀ, op.cit., 174.

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Dunque si pone il problema, ben definito da Jonas rispetto all’etica dell’intera civiltà tecnologica, della nostra responsabilità nei confronti delle generazioni future103: ma qui, come nel caso del nascituro, io sono sempre perplesso nel dare voce a chi non può averla, perché ancora non esiste. Temo cioè un uso strategico della volontà di chi non c’è, soltanto presumibile, per affermare quella di chi c’è, reale e concreta. Ma il problema, più che con l’incerta applicazione, fatta da Jonas, dell’imperativo categorico kantiano, adattato alle nuove esigenze104, pare poter essere risolto, in termini più coerenti con i presupposti dello Stato pluralista, configurando un diritto dei componenti della generazione attuale (i genitori di oggi, vivi e reali) a garantire ai propri figli – comunque destinatari delle loro decisioni - un certo tipo di ambiente, inteso ecologicamente in senso ampio, per la loro esistenza. Naturalmente ciò dovrebbe sortire da decisioni pubblicamente e discorsivamente assunte, e sulla base di scelte potenzialmente rivedibili. In altri termini, non un diritto posto in capo alle generazioni future e presuntivamente, ovvero arbitrariamente, esercitato in una certa direzione, ma, più semplicemente, attribuire a quelle attuali, che possono, hic et nunc, decidere cosa vogliono che sia del futuro dei loro figli: con una responsabilità immediata, diretta e personale per i veri decisori politici, che non sia velata dalla comoda e strumentale mediazione del soggetto futuro. Qui i problemi pratici che si possono individuare sono numerosissimi: ma, per il profilo che ci riguarda, è evidente che il principio di laicità non può che operare, ancora una volta, nel senso di conferire la massima capacità espansiva alla libertà di ricerca, impedendo l’affermazione di quelle prospettive che limitino, in virtù di concezioni sacrali o semplicemente misoneiste, l’ambito dello sviluppo biotecnologico. Questo, tenendo conto sia della considerazione, prosaica ma realistica, che la scienza, particolarmente in un contesto globalizzato, non si ferma comunque nel proprio procedere, e continua piuttosto entro una incontrollabile clandestinità o comunque in Paesi più inclini ad avvantaggiarsene, ma anche del fatto che, come la storia umana fin qui prova, i vantaggi derivati dal suo sviluppo sono stati ben maggiori dei pericoli in esso compresi. Il limite, di per sé evidente, del rispetto della dignità umana non può peraltro essere costruito, a mio avviso, su criteri sfuggenti tramutati in altrettanto incerti diritti, come quelli posti in capo alle generazioni future, o quello all’identità genetica, che, pur sanciti in numerose norme, si prestano a interpretazioni affatto discutibili. La compiuta realizzazione del Progetto Genoma è, incontestabilmente, un notevole passo avanti della conoscenza umana per il miglioramento della qualità della vita, e consentirà, in un futuro non lontano, di eliminare molte patologie ereditarie, nonché di prolungare la vita e – non ci sia scandalo - le capacità degli individui. Il fatto che, come ogni strumento inventato dall’uomo, dal coltello alle tecnologie nucleari, anche il progresso della scienza biomedica possa essere usato per fini negativi (pensiamo solo alla realtà, trascurata quanto concreta, delle biotecnologie per uso bellico: armi economiche quanto devastanti già in possesso di molti Paesi, o alle possibili – e vietate – discriminazioni derivanti dalla diffusione dei test genetici predittivi)105 non ne inficia in alcun modo il valore positivo, e tanto meno può giustificarne un rifiuto. Perché anche ciò che oggi sembra improponibile, domani potrebbe rientrare nell’orizzonte della normalità.

103 Che l’art.20a del Grundgesetz tedesco, com’è noto, ha costituzionalizzato. 104 H.JONAS, Il principio responsabilità, cit., 16, muove la sua riflessione da un imperativo categorico kantiano così trasformato: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra”, cosicché noi non abbiamo il diritto di scegliere o anche solo rischiare il non-essere delle generazioni future in vista dell’essere di quelle attuali. Sul tema anche G.PONTARA, Etica e generazioni future, Roma-Bari, Laterza,1995. 105 Su cui il divieto degli artt.11 e 12 della Convenzione sulla biomedicina, e l’art.6 della Dichiarazione Unesco sul genoma.

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Un esempio per tutti, estremo ma attuale: la pratica della clonazione umana, che ormai costituisce la frontiera scientifica e psicologica del possibile, e che è oggi rifiutata e vietata in modo pressoché unanime a livello politico e normativo106, potrebbe invece, in prospettiva, non essere più considerata un tabù. La violazione del diritto all’identità (o meglio, qui, all’esclusività) del patrimonio genetico individuale che qui si paventa presuppone una assolutizzazione di quest’ultimo come fattore condizionante dell’esistenza e dell’identità individuale, trascurando l’altro elemento, quello della collocazione ambientale e dello sviluppo socio-affettivo, che renderebbe comunque la biografia del soggetto nato da una clonazione affatto diversa da quella del suo donatore genetico, il cui consenso ovviamente dovrebbe essere il presupposto di ogni intervento siffatto (il caso, tutto “naturale”, di gemelli monozigoti – che hanno spesso vita e indole assai diversi - ne è prova). In più, la diversità resta comunque garantita dall’imprevedibilità dello sviluppo del fenotipo individuale dal genotipo clonato107. E anche il timore della produzione di cloni da utilizzare come serbatoi di organi da espianto appare oggi superata dal possibile impiego, a tal fine, di cellule staminali indirizzate alla formazioni di quegli stessi organi. Ma allora, qui ci sarebbe davvero una lesione della dignità? E di chi?108 È solo un esempio, come ho detto, ma dà conto di come lo sviluppo scientifico imponga di assumere prospettive sempre nuove, senza indulgere all’istintiva quanto irrazionale avversione verso ciò che appare ignoto, anche considerando – ma questo è tema che qui posso solo sfiorare – il danno che comporta, per l’intero Paese, un aggravamento del già pesante ritardo che nel campo della ricerca, per miopia politica e culturale, l’Italia ha accumulato nel corso degli ultimi anni109. [4 – La bioetica come frontiera della nuova biopolitica] Resta da trarre qualche conclusione, ovviamente provvisoria e parziale: quale deve essere dunque l’atteggiamento di uno Stato laico dinanzi a questa congerie di problemi? La mia opinione in merito è piuttosto netta: qui, più che altrove, c’è bisogno di un intervento minimo, ridotto a ciò che è strettamente necessario. Dunque, il diritto dovrà intervenire per garantire le condizioni essenziali di sicurezza sanitaria, e per perseguire una distribuzione per quanto possibile equa di risorse inevitabilmente limitate, alla luce di un obiettivo di welfare sostenuto dal rispetto del principio di eguaglianza sostanziale, rafforzando, ad esempio, una cultura di accettazione e una vera struttura di sostegno dell’handicap, al fine di indurre (non imporre), sia pure nello spirito di una “prestazione supererogatoria” sul piano etico individuale, una più piena accettazione della diversità. E infine – è forse l’obiettivo più arduo – dovrà agire per sottrarre il più possibile l’intero fenomeno di cui abbiamo trattato alle logiche di mercato, rendendo effettivo il divieto, comunemente imposto dalle norme, di trarre profitto dal corpo umano o dalle sue parti110 e dal genoma111, nonché di 106 Valgano per tutti l’art.11 della Dichiarazione Unesco sul genoma umano, il Protocollo aggiuntivo della Convenzione sulla biomedicina, l’art.3 co.2 della Carta di Nizza, l’art.II-63 del Trattato che adotta una costituzione per l’Europa, la risoluzione del Parlamento Europeo del 12 marzo 1997, la risoluzione (non vincolante) dell’Assemblea generale dell’Onu dell’8 marzo 2005, il parere del CNB dell’ottobre 2003, nonché il divieto ora posto dall’art.13 della legge 40/04. 107 Sul punto, M.BUIATTI, Le biotecnologie. L’ingegneria genetica fra biologia, etica e mercato, Bologna, il Mulino, 2001, 69 ss.; secondo E.BONCINELLI, op.cit., 73-74, “anche producendo individui geneticamente identici non si potrebbero mai avere due individui realmente identici, né nel corpo, né nel cervello, né tanto meno nella mente”. 108 In questa prospettiva, già E.LECALDANO, Bioetica, cit., 245 ss.; sul tema anche S.RODOTÀ, La vita e le regole, cit., 109 E ciò particolarmente in un momento in cui altri Paesi europei, come la Gran Bretagna, dove di recente l’Autorità competente ha autorizzato, com’è noto, l’ibridazione tra cellule umane e animali (da noi vietata dalla legge 40) e la creazione di embrioni-chimera da sopprimere entro il 14° giorno, assumono un atteggiamento assai più pragmatico e costruttivo nei confronti delle possibilità offerte dalla ricerca. 110 Così l’art.21 della Convenzione sulla biomedicina, l’art.3 co.2 Carta dir. fond. UE, l’art.5 c.c., l’art.II-63 del Trattato costituzionale europeo.

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generare discriminazioni, individuali o razziali, o anche un incontrollato proliferare di una “società della sorveglianza” criptototalitaria, rafforzata dall’impiego di biotecnologie e dall’uso di dati derivanti da test genetici112. Ma, in linea di principio, qui più che altrove, il criterio ispiratore deve essere quello di far prevalere l’autodeterminazione dell’individuo, almeno fin dove ciò non collida con la libertà o la sicurezza altrui, e nella speranza che le scelte operate dal singolo siano sempre accompagnate da un adeguato senso di responsabilità. Del resto, appare evidente, applicando la lezione di Foucault, che la bioetica, e soprattutto il biodiritto che ne costituisce il portato, incidendo profondamente sul corpo, rappresentano l’aspetto più intimo della biopolitica, e strutturano il limite contemporaneo di una nuova forma di biopotere113. Tale profilo certo ingloba in sé, ma al contempo travalica, la problematica che per il giurista inerisce alla sfera interpretativa e applicativa della norma costituzionale posta in Italia dall’art.13. Questa, garantendo la libertà personale, pone anzitutto l’originario habeas corpus quale precondizione per il godimento dell’intero paradigma dei diritti, mettendosi in diretta relazione con il principio personalista di cui all’art.2 Cost. e, in una lettura ancora più ampia, con quello di autodeterminazione, e divenendo così punto cardine della dimensione di una bioetica del corpo; ma non sembra, al contempo, poter costituire un sufficiente baluardo contro una bioetica tradotta in controllo della nuda vita, in vera biopolitica. Questo è, ben al di là dei tecnicismi, un problema di autocomprensione etica, politica, ed economica del rapporto tra individuo e potere nel contesto intersistemico. Il dominio sulla sessualità e sul corpo lato sensu inteso, della donna e dell’uomo, nonché sul pensiero e sul linguaggio che ne derivano, è sempre stato, infatti, il momento più compiuto e invasivo dell’esercizio del potere stesso114. In questa prospettiva lo sviluppo di biotecnologie che permettono un controllo finora sconosciuto della vita degli individui, e addirittura forse della loro discendenza, supera ormai ampiamente i confini dell’etica medica, per entrare, prima ancora che nella dimensione giuridica, che è sempre strumentale, in quella politica, e infine in quella biopolitica. E tuttavia, una biopolitica che non sia mossa dalla vita, ma abbia ad oggetto la nuda vita, la zoé ancor prima che il bíos, e che stemperi nell’indistinzione le due dimensioni, tende a degenerare, tramite un costante richiamo allo stato di eccezione, in una tanatopolitica115. Ne è stata prova, quale spartiacque del Novecento, la tremenda esperienza del Lager nazista, che di quel tipo di biopolitica è la indicibile, ma logica conseguenza, e che può diventare addirittura, nell’acuta interpretazione di Giorgio Agamben, il paradigma biopolitico del moderno116. Perché se è vero che in etica non tutto ciò che si può fare deve poter essere fatto, e che non si può dedurre un dover essere da un essere, è altrettanto vero, purtroppo, che nella prassi concreta dell’esperienza tutto ciò che si può fare, prima o poi, si farà. E dunque è meglio permettere controllando, anziché cercare, inutilmente, di impedire. Anche perché qui, ancora una volta, un punto deve essere chiaro: il vietare – al pari dell’obbligare – è sempre la modalità più forte e autoritaria dell’esercizio del potere, e, oltre a sortire spesso effetti opposti a quelli voluti, di quel potere esprime l’essenza totalitaria nel suo significato più compiuto e inquietante, ponendo le basi della sempre possibile degenerazione tanatopolitica, cui ben misero

111 Così l’art.5 della Dichiarazione dell’Unesco sul genoma umano . 112 Così gli artt.11 e 12 della Convenzione di Oviedo, e l’art.6 della Dichiarazione Unisco; sul tema dell’uso di dati biologici per intenti di sorveglianza, S.RODOTÀ, op.cit., 174 ss.; ID., Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione, nuova ed., Roma-Bari, Laterza, 2004, 189 ss.; D.LYON, Massima sicurezza. Sorveglianza e “guerra al terrorismo” (2003), tr.it. Milano, R.Cortina, 2005, 71 ss. 113 M.FOUCAULT, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-79) (2004), tr.it. Milano, Feltrinelli, 2005; R.ESPOSITO, Bíos. Biopolitica e filosofia , Torino, Einaudi, 2004. 114 Ancora M.FOUCAULT, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1 (1976), tr.it. Milano, Feltrinelli, 2004. 115 G.AGAMBEN, Homo sacer, cit., 12 ss.; R.ESPOSITO, op.cit., 115 ss. 116 G.AGAMBEN, ibidem, 129 ss.; ID. Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Torino, Bollati Boringhieri, 1998.

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argine si sono sempre mostrate, a partire dall’esperienza di Weimar, le garanzie apprestate dalle costituzioni formali. Sovrapporre cioè scelte pubbliche invasive, sia pure assunte tramite una procedura discorsiva, alle decisioni dei singoli sugli aspetti più intimi del proprio vivere – il nascere, il generare, il morire – è già per sé un gesto di profonda coercizione della libertà individuale, rispetto al quale il costituzionalista di formazione liberale non può non avere un atteggiamento di sospetto. E peraltro, sia pure con pochi cenni, si è visto come le stesse procedure discorsive, laddove siano costrette a misurarsi con quel tanto di inevitabile rigidità che deriva dall’introduzione del sacro nell’argomentazione, mostrano limiti evidenti. Questi difficilmente potranno essere superati con le illusioni del postsecolarismo, o una religione civile di stampo rousseauiano117, o un improbabile “patriottismo costituzionale” repubblicano o, infine, un “uso civile della religione” à la Böckenförde; perché sono piuttosto limiti che, almeno in parte, minano la capacità legittimante e immunizzante dei procedimenti, e forse la stessa praticabilità del modello discorsivo. Insomma, il diritto, che nel suo aspetto più forte si lega inevitabilmente a una mal dissimulata dimensione di violenza, alla hybris che ne costituisce il tratto più profondo118, quel diritto che è maschera del “volto demoniaco del potere” di cui parla Ritter119, dev’essere qui mite e rispettoso degli individui, “laico” in un senso che vada oltre la mera tolleranza, e che esprima piuttosto l’irredimibile assenza di certezze del vivere umano nei confronti dei grandi misteri dell’esistenza. D’altronde, il fine necessario della democrazia pluralista, che è quello dell’integrazione di diverse, e talora antitetiche visioni del mondo e della “vita buona”120, può essere, se non proprio raggiunto, almeno perseguito solo tramite un modello di convivenza che lasci il maggior spazio possibile al più ampio numero di istanze, individuali e collettive, garantendo espressione e tutela anzitutto a quelle minoritarie nei confronti delle più forti e invasive121. Sta qui, come ho già detto, il nucleo più profondo e vitale del principio di laicità, che, concepito come tutela del valore di tutti i valori, e come istanza di attiva neutralità dei pubblici poteri, evita la doppia impasse di una contraddittoria autoaffermazione da un lato, e di una tendenziale deriva nichilista dall’altro. E in questa prospettiva, nel difficile campo dei problemi bioetici, proprio quella “genetica liberale” di cui Habermas paventa i rischi sembra invece quella che potrà assicurare, pur con le necessarie cautele inerenti alla tutela della salute, individuale e collettiva, nel rispetto della libertà e della dignità individuali, e con un’adeguata protezione dalle degenerazioni dell’iperliberismo mercantile, un ambito in cui possano convivere le molteplici concezioni etiche e religiose della società multiculturale da un lato, e l’anelito alla ricerca scientifica e al progresso delle conoscenze umane dall’altro. Il tutto ispirandosi sul piano giuridico al principio di autodeterminazione, e su quello etico al principio di responsabilità, dei singoli e della collettività. Qui sta anche, certo, più che altrove, l’inquietante spettro dell’errore, e delle sue conseguenze, potenzialmente irreversibili: ma, infine, l’errore più grande è sempre quello di chi – davvero con lo spirito del peggior nichilista – nel rinnegare la propria capacità di crescere nella conoscenza finisce con il rinnegare se stesso.

117 Su cui, di recente, G.E.RUSCONI, Possiamo fare a meno di una religione civile?, Roma-Bari, Laterza, 1999, spec.39 ss. 118 Sul tema E.RESTA, La certezza e la speranza. Saggio su diritto e violenza, nuova ed., Roma-Bari, Laterza, 2006; ma soprattutto W.BENJAMIN, Per la critica della violenza (1920), tr.it in ID., Angelus novus . Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1995, 5 ss., e J.DERRIDA, Forza di legge. Il “fondamento mistico” dell’autorità (1994), tr.it. Torino, Bollati Boringhieri, 2003. 119 Secondo la suggestiva immagine data da G.RITTER, Il volto demoniaco del potere (1948), tr.it Bologna, il Mulino, 1958, che ne traccia la storia fino a Hitler partendo dall’età moderna, nella contrapposizione tra lo Stato di potenza di Machiavelli e la dimensione utopica di Moro. 120 Su cui R.DWORKIN, Virtù sovrana. Teoria dell’eguaglianza (2000), tr.it. Milano, Feltrinelli, 2002, 48 ss. e 259 ss.; ID., La democrazia possibile, cit., 30 ss. 121 Sul tema, sia consentito il rinvio a F.RIMOLI, Stato laico e integrazione nella prospettiva costituzionale, in Parolechiave, n.33 (2005), 207 ss.

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Nota bibliografica. Nel quadro di una letteratura immensa in materia, si fa rinvio alle opere citate nel testo. Su profili più specifici del tema della bioetica, e con particolare riferimento alla dottrina italiana, possono utilmente aggiungersi i seguenti scritti:

- AINIS, M. (a cura di): I referendum sulla fecondazione assistita, Milano, Giuffrè, 2005; - BIFULCO, R.: Futuro e Costituzione. Premesse per uno studio sulla responsabilità verso le

generazioni future, in Studi in onore di G.Ferrara, I, Torino, Giappichelli, 2005, 287 ss. - CHIEFFI, L. : Ricerca scientifica e tutela della persona. Bioetica e garanzie costituzionali,

Napoli, Esi, 1993; - CHIEFFI, L. (a cura di): Il multiculturalismo nel dibattito bioetica, Quaderni del Centro

interuniversitario di ricerca bioetica, n.4, Torino, Giappichelli, 2005; - D’ALOIA, A. (a cura di): Bio-tecnologie e valori costituzionali. Il contributo della giustizia

costituzionale (Atti del Seminario di Parma, 19 marzo 2004), Quaderni del “Gruppo di Pisa”, Torino, Giappichelli, 2005;

- MUSUMECI, A.: voce Bioetica, in Enciclopedia giuridica, Roma, Ist.Enc.It.-G.Treccani, 1998;

- PRODOMO, R. (a cura di): Progressi biomedici tra pluralismo etico e regole giuridiche, Torino, Giappichelli, 2004;

- PRODOMO, R. (a cura di): La nascita. I mille volti di un’idea, Torino, Giappichelli, 2006; - RIMOLI, F., Bioetica. Diritti del nascituro. Diritti delle generazioni future, in R.Nania-

P.Ridola (a cura di), I diritti costituzionali, II ed., vol.II, 527 ss. - RODOTÀ, S. (a cura di): Questioni di bioetica, Roma-Bari, Laterza, 1993; - SPINSANTI, S.: Etica bio-medica, III ed., Cinisello Balsamo, Ed. Paoline, 1992.