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1 Quaderni del Laboratorio Montessori 2015/1 - La mediazione pedagogica. Studi e ricerche ISBN 9788899209001 L’ARTE DELLA VITA Una riflessione sulla cura di sé, la parresia e la pratica artistica a partire dall’opera di Michel Foucault

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Quaderni del Laboratorio Montessori2015/1 - La mediazione pedagogica. Studi e ricercheISBN 9788899209001

L’ARTE DELLA VITAUna riflessione sulla cura di sé, la parresia e la pratica artistica a partire dall’opera di Michel Foucault

2

SOMMARIO

Introduzione 3

La cura di sé: una pratica intersoggettiva 8

Il teatro della vita cinico 23

La verità selvaggia 39

Bibliografia 47

Indice dei nomi 49

3

Introduzione

Quale relazione esiste tra vita e verità? Sembra essere questa la domanda che aleggia su

tutta l’ultima parte dell’opera di Michel Foucault, quella di cui potremmo individuare

l’inizio, grosso modo, con il corso tenuto al College de France nel 1980, intitolato

L’ermeneutica del soggetto1. Domanda di ampia portata, che apre a sua volta un’enorme

serie di altre questioni, da quelle che riguardano le condizioni di accesso del soggetto alla

verità, a quelle che interrogano il rapporto tra discorso vero e vita autentica. Certo, non

tutte le questioni sollevate sono state poi risolte o approfondite da Foucault, nel suo

indagare insieme metodico e caotico. Mi sembra, tuttavia, che questo periodo della sua

attività filosofica possa essere considerato un importantissimo laboratorio, il quale ha

gettato le basi non soltanto per un diverso approccio nello studio della storia delle

filosofie antiche, ma anche per un’indagine, tutta gettata nell’attualità, del rapporto tra

soggetto e verità.

Con il presente lavoro intendo dare un contributo, per quanto breve e del tutto parziale, a

questo ampio campo di studi che potremmo individuare, a partire dall’opera di Foucault,

come l’insieme dei rapporti tra il soggetto e la verità. Innanzitutto, partendo proprio dal

già citato corso del 1980 L’ermeneutica del soggetto, mi focalizzerò sulla nozione di cura

di sé, intesa come pratica costante che il soggetto compie su di sé per trasformarsi, al fine

di rendere accessibili la verità e la virtù. Il lavoro si concentrerà sullo studio di una

tematica in particolare, quella del rapporto tra maestro e allievo, dalla quale emerge con

chiarezza, a mio avviso, uno dei caratteri più autentici e importanti della cura di sé:

l’intersoggettività di tale pratica. Occuparsi di sé infatti, in tutte le diverse accezioni che

questa ingiunzione ha significato nel mondo antico, non è mai stato un esercizio

solipsistico, isolato, di un soggetto chiuso rispetto agli altri. Al contrario, nell’altro ha

1Cfr. MICHEL FOUCAULT, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collége de France (1981-1982), Feltrinelli, Milano,

2007

4

sempre individuato una guida, una medicina e insieme un banco di prova per verificare la

correttezza della propria vita, e quindi della sua autenticità.

Specialmente durante i primi due secoli della nostra era, a caratterizzare il linguaggio

utilizzato nel rapporto tra maestro e allievo è un particolare procedimento discorsivo, che

rappresenta anche un certo atteggiamento etico e morale, chiamato parresia (parlar-

franco) in greco, e in latino libertas. Nel corso dello sviluppo delle scuole di pensiero

dell’età imperiale (principalmente stoiche ed epicuree), il parlar-franco assume sempre di

più, oltre che i connotati di un atteggiamento etico, anche quelli di una tecnica insieme

filosofica, linguistica, logica e oratoria, che riassume in virtù di un unico fine (la

costruzione del sé, di un rapporto completo di sé col sé), diverse competenze e pratiche

caratteristiche della cultura e del pensiero antico.

In questa prima parte, è mia intenzione individuare le caratteristiche della cura di sé,

considerandola come il cuore di tutta l’interpretazione foucaultiana dell’etica antica,

mostrando al tempo stesso il suo legame necessario e imprescindibile con la parresia.

Cercherò anche di dimostrare come sia possibile considerare tale parlar-franco, che

contraddistingue molte delle filosofie ellenistiche e delle loro derivazioni imperiali, una

pratica propriamente filosofica. A mio avviso infatti, nonostante la “cultura del sé” (il

complesso di ambienti e istituzioni che incitavano, in ogni strato della società, a prendersi

cura di sé) fosse diffusa in circoli intellettuali, culturali e religiosi non filosofici, il parlar-

franco operato dal filosofo, dal maestro di filosofia, si distingue per un rigore logico,

metodologico e soprattutto etico, che ne fanno a buon diritto un procedimento

squisitamente filosofico.

Pur sostenendo le tesi di Foucault, mi soffermerò brevemente a considerare il punto di

vista di un’altra illustre studiosa delle filosofie antiche: Martha Nussbaum. Per lei, la cura

di sé è soltanto uno degli aspetti del’etica antica, non il suo fondamento, in quanto

rappresenterebbe qualcosa che accomuna la filosofia a tutta una serie di altre procedure di

natura magica, religiosa o superstiziosa. Lo afferma nel suo libro Terapia del desiderio,

quando scrive che: “…c’è un modo di reclamare la presenza di testi ellenistici in ambito

filosofico – e si tratta di quello forse più noto al grande pubblico – che, sebbene

stimolante, mi sembra anche altamente problematico. Mi riferisco al richiamo ad alcuni

pensatori ellenistici effettuato da Michel Foucault […] : egli vede in loro nient’altro che

5

le sorgenti di un modo di intendere la filosofia come complesso di techniques du soi, di

pratiche atte a forgiare un certo tipo di soggetto umano. Indubbiamente Foucault ha

evidenziato qualcosa di fondamentale riguardo a questi filosofi, nel momento in cui

sottolinea in quale misura essi non si accontentassero di impartire lezioni, ma si

impegnassero fattivamente a forgiare le personalità in modo complesso. Ma questo è ciò

che i filosofi hanno in comune con le varie forme di religiosità, di superstizione e di

ricorso alle arti magiche che convivono nello stesso ambiente culturale.2”. Tuttavia, il

confronto tra il suo punto di vista e quello di Foucault metterà in luce, oltre alle evidenti

discrepanze, alcune inaspettate analogie.

Nella seconda parte mi addentrerò nello studio del rapporto tra cura di sé e parresia, e

quindi tra forma di vita e discorso vero, prendendo come riferimento un altro corso del

College de France, l’ultimo tenuto da Foucault (nel 1984) prima della sua prematura

scomparsa: Il coraggio della verità3. Qui osserveremo da vicino come la nozione di

parresia, nata nel contesto politico dell’assemblea, si sia sviluppata attraverso la pratica

dell’interrogazione socratica fino a trasformarsi in una nozione eminentemente etica.

Occuparsi di sé diviene, nella pedagogia socratica, una pratica finalizzata non solo al

governo degli altri, ma soprattutto alla realizzazione di una corretta forma di vita, unica

garanzia possibile per la verità. La vita stessa e l’arte della sua costruzione divengono,

attraverso l’insegnamento socratico, il banco di prova per la verità dei discorsi.

Mi concentrerò poi, seguendo l’argomentazione di Foucault, su come l’esortazione a

occuparsi di sé e del proprio stile di vita, formulata da Socrate e ripresa dalle varie scuole

di pensiero ellenistiche, sia stata accolta e trasfigurata dai cinici, attraverso una

drammatizzazione radicale delle sue caratteristiche, fino a portarla al limite

dell’accettabilità da un punto di vista sociale. Attraverso questa ripresa e radicalizzazione

dei temi classici della cura di sé e della vera vita, i cinici costruiscono una vera e propria

estetica dell’esistenza, una stilizzazione della vita mirata a ostentare la sua verità nuda,

selvaggia e scandalosa. Questo stile di vita povero, errabondo, privo di ogni comodità e

2MARTHA NUSSBAUM, Terapia del desiderio. Teoria e pratica nell’etica ellenistica, Vita e pensiero, Milano, 1998,

pag. 17-18

3Cfr. MICHEL FOUCAULT, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II. Corso al Collége de France

(1984), Feltrinelli, Milano, 2011

6

libero da ogni legame, sarà in un certo senso la grande opera d’arte attraverso la quale i

cinici costruiranno un rapporto inedito, e in un certo senso rivoluzionario, tra vita e

linguaggio, tra etica ed estetica.

Nella terza e ultima parte, vorrei cercare di riprendere e approfondire alcune suggestioni

accennate da Foucault in Il coraggio della verità, in particolare nella lezione del 29

febbraio 1984, e lasciate parzialmente in sospeso. Qui l’autore spiega come intenda

considerare il cinismo, al di là del movimento storico sviluppatosi nel mondo antico,

come una categoria etica trans-epocale, che non consiste tanto in un insieme dottrinario

coerente e unitario, quanto in una certa forma di nesso tra una vita scandalosa e una verità

che ha il potere e l’obiettivo di trasformare la società.

Questa eredità del cinismo, del modo cinico di intendere la verità, sarà raccolta nel

medioevo dall’ascetismo cristiano, e nel mondo moderno dai movimenti rivoluzionari e

dall’arte moderna. La filosofia infatti, a partire da quello che l’autore stesso definisce

come il “momento cartesiano”4, tenderà ad abbandonare il problema delle condizioni di

spiritualità necessarie per l’accesso del soggetto alla verità, concentrandosi su un tipo di

conoscenza che ha la pretesa di essere più oggettiva, radicata in una modalità di

ragionamento scientifica e non in una forma di vita. Nel mondo moderno infatti, per

Foucault, a presentare una concezione della verità non-moderna e simile a quella

dell’antichità greco-romana, non è la filosofia ma sono la pratica di vita rivoluzionaria e

la pratica artistica. Lasciando da parte gli sviluppi cristiani e quelli legati ai movimenti

rivoluzionari, mi concentrerò su quelli legati all’arte moderna, confrontandomi con

l’interessante argomentazione di Joseph J. Tanke, professore americano di filosofia ed

estetica, espressa nel suo libro Foucault’s philosopy of art5, ancora inedito in Italia.

Quello che vorrei provare ad affermare, in conclusione, è che attraverso la stilistica

dell’esistenza vista nelle sue varie declinazioni, quella della conduzione individuale

dell’anima operata dai filosofi stoici, quella dell’affronto cinico alle norme sociali in

nome della vera vita, e infine quella dell’arte moderna con la sua capacità di riportare alla

luce le verità più scomode e indigeste, sia possibile individuare una vera e propria "arte

4Cfr. MICHEL FOUCAULT, L’ermeneutica del soggetto, cit., p. 19-21

5Cfr. JOSEPH J. TANKE, Foucault’s philosophy of art. A genealogy of modernity, Continuum, New York, 2009

7

etica", capace di tenere insieme l'educazione degli altri e la possibilità di trasformare se

stessi e l’orizzonte dell'attualità in generale.

8

La cura di sé: una pratica intersoggettiva

E’ necessario ora addentrarsi nella trattazione che Michel Foucault fa della cura di sé,

principalmente in L'ermeneutica del soggetto, per delinearne i tratti principali.

Innanzitutto, la cura di sé è inquadrata nel contesto generale dei rapporti tra soggetto e

verità nel mondo antico, infatti l'autore afferma, proprio in apertura del testo:

“Quest’anno vorrei prendere un po’ di distanze rispetto al regime dei comportamenti

sessuali, per tentare piuttosto di far emergere, a partire da questo specifico esempio, i

termini più generali del problema ”soggetto e verità”. Più precisamente ancora: non

voglio in nessun caso eliminare o annullare la dimensione storica entro la quale ho

cercato di collocare il problema dei rapporti tra soggettività e verità, che vorrei però

comunque far apparire in una forma molto più generale. La questione che vorrei

affrontare è dunque quella dell’individuazione della forma storica in cui si sono

intrecciati, in Occidente, i rapporti tra due elementi come il “soggetto” e la “verità”, e che

non fanno certo parte della pratica e dell’analisi storica abituale6”.

La cura di sé (in greco antico epimeleia heautou) si configura come un rapporto che il

soggetto deve costantemente intrattenere con sé stesso per poter giungere alla verità. Nel

mondo antico, in generale, domina una concezione secondo la quale il soggetto, così

com’è, non è in grado di accedere alla verità, a meno che non si occupi di soddisfare

quelle che l’autore chiama le “condizioni di spiritualità” necessarie per potersi garantire

quest’accesso. Tali condizioni sono rappresentate dall’intrapresa di un cammino fatto di

lavoro su di sé e di trasformazione costante attraverso una serie di pratiche che includono

esercizi spirituali, come la costante osservazione di sé, l’esame di coscienza, l’esame dei

sogni e le tecniche di memorizzazione, ma anche esercizi fisici e pratiche affini alla

medicina e alla dietetica. Tutto ciò al fine di sviluppare un rapporto pieno e autentico di

sé con se stessi e di conoscere una verità la quale, una volta raggiunta, produrrà una sorta

di “effetto retroattivo” sul soggetto, garantendo a questi uno stato di beatitudine, di 6MICHEL FOUCAULT, L’ermeneutica del soggetto, cit., p. 4

9

autentica realizzazione, di dominio sulle passioni e di autonomia dagli accidenti del

mondo esterno.

Il modo di concepire il rapporto tra soggetto e verità tipico del mondo antico appare

radicalmente diverso rispetto a quello caratteristico della modernità, in cui domina una

concezione secondo la quale il soggetto, in quanto tale, è perfettamente in grado di

giungere alla verità attraverso un semplice atto cognitivo, e per contro la verità non è in

grado di “illuminare” a sua volta il soggetto conferendogli la pienezza e la beatitudine. In

questo modo, dalla conoscenza non deriva più alcun vantaggio che non sia la conoscenza

stessa, che al massimo conferisce degli avanzamenti sul piano culturale o psicologico.

Questa rottura operata dalla modernità rispetto al paradigma stabilito nella Grecia

classica e proseguito (attraverso numerose mutazioni) fino ai padri del Cristianesimo,

viene fatta risalire da Foucault a quello che lui stesso chiama il “momento cartesiano”.

Descartes infatti è stato il primo filosofo a porre l’evidenza del soggetto rispetto a sé

stesso, attraverso il cogito, come condizione essenziale per il pensiero razionale. Questa

operazione, oltre a espellere dalla sfera della ragione quella della follia, della “sragione”

(il delirio infatti è proprio il mancato riconoscimento di se stessi come entità unitaria e

individuale), per relegarla ai margini della vita sociale7, ha anche l’importante

conseguenza di espellere dalla sfera della filosofia e della conoscenza proprio quella

spiritualità che vi aveva giocato un ruolo così importante. L’autore parla della Teologia,

in particolare di quella della Scolastica, e della mentalità scientifica come di importanti

antesignani della svolta cartesiana, essendo dei saperi che pongono il soggetto in

relazione con una verità immutabile e esterna al soggetto stesso (Dio, le leggi della

natura), accessibile attraverso un semplice procedimento conoscitivo razionale.

Foucault prosegue poi ammettendo l’importanza di un sostrato culturale pre-filosofico

nella configurazione della cura di sé per come si è venuta a determinare nella Grecia

classica, ma chiarendo che ciò che gli interessa è indagare le determinazioni filosofiche di

questa importante nozione, e della serie di pratiche ad essa strettamente connesse. Queste

saranno in vari momenti della storia della filosofia antica riorganizzate in vista di una

diversa finalità, cioè di una diversa motivazione del perché ci si debba occupare di sé. A

7Foucault ha trattato approfonditamente di questa tematica nel suo Storia della Follia nell’Età Classica, Rizzoli,

Milano, 2006

10

mutare quindi, attraverso i vari momenti della filosofia antica individuati da Foucault

(quello socratico-platonico, quello ellenistico-imperiale, e infine quello cristiano), non

sarà la necessità di doversi occupare di sé, unico modo per poter portare il soggetto a

compimento, ma il motivo per cui ci si debba occupare di sé.

L’autore prende quindi in esame il primo momento, quello socratico-platonico, in cui la

cura di sé fa la sua comparsa in campo filosofico, concentrandosi sul dialogo

dell’Alcibiade8, considerato una sorta di summa del pensiero platonico. Non a caso, i

neoplatonici lo consideravano propedeutico alla lettura di tutte le altre opere di Platone, e

Foucault cita a riguardo un testo di Proclo risalente al v secolo: “Questo dialogo

costituisce il principio di tutta la filosofia, esattamente come lo è, inoltre, la conoscenza

di noi stessi […]9”. La concezione platonica della cura di sé vede una netta predominanza

dell’elemento conoscitivo: il principio dello gnothi seauton rappresenta il fulcro attorno

al quale vengono riorganizzate le preesistenti pratiche del sé. Conoscere se stessi però

non vuol dire conoscersi come oggetto di verità scientifica (questo sarà caratteristico del

pensiero moderno), ma conoscere se stessi in quanto soggetto capace di azione. E ciò che

in noi stessi è capace di azione, e che quindi è propriamente soggetto in senso pieno, è

l’anima. Ci troviamo insomma, nell’Alcibiade, in presenza di una concezione dell’anima

ben diversa da quella caratteristica dei dialoghi della maturità platonica (quella che

considera l’anima come un'entità indipendente dal corpo che troviamo, ad esempio, nel

Fedone10), e che intende l’anima fondamentalmente come soggetto.

La cura di sé incentrata sulla conoscenza di sé si presenta poi come un’attività finalizzata

ad uno scopo preciso, che è il governo degli altri. Bisogna quindi imparare a conoscere se

stessi per poter governare bene la città. E’ infatti questo il consiglio che Socrate rivolge al

giovane Alcibiade che si appresta a fare il suo ingresso nella vita politica: occupati di te

stesso. Alcibiade è smanioso di trasformare i propri privilegi statuari, derivatigli dal suo

rango, in potere politico, ma Socrate lo ammonisce che solo occupandosi di sé stesso e

8Cfr. PLATONE, Alcibiade primo – Alcibiade secondo, Rizzoli, Milano, 1995

9MICHEL FOUCAULT, L’ermeneutica del soggetto, cit., p. 149 e PROCLO, Teologia platonica, Bompiani, Milano,

2005

10Cfr. PLATONE, Fedone, Rizzoli, Milano, 1996

11

conoscendosi a fondo potrà sapere cosa è bene per la città e svolgere in modo adeguato la

funzione di governo a cui aspira. La cura di sé appare quindi come un’attività che da una

parte è finalizzata ad uno scopo specifico, e dall’altra è caratteristica di una particolare

fase della vita che è quella del passaggio dall’adolescenza alla maturità, durante il quale il

giovane aristocratico si affaccia alla vita politica.

La concezione socratico-platonica della cura di sé subisce una profonda mutazione, intesa

come riorganizzazione complessiva, durante il periodo di cui maggiormente ci interessa

occuparci: quello dell’epoca imperiale, in cui l’orizzonte filosofico appare popolato da

molteplici scuole di pensiero, in gran parte derivate da quelle ellenistiche, che incitano i

propri seguaci a occuparsi di sé costantemente e per tutto l’arco dell’esistenza.

In questo periodo la cura di sé subisce una serie di generalizzazioni, che portano Foucault

a parlare, a proposito dell’età imperiale, dell’emersione di una vera e propria “cultura del

sé”11. Innanzitutto, dall’essere un’ attività riservata fondamentalmente all’elite

aristocratica, la cura di sé diventa una sorta di “precetto universale”: chiunque è tenuto a

occuparsi di sé a prescindere dalla propria estrazione sociale. In secondo luogo, se prima

appariva come una pratica finalizzata ad un preciso obiettivo, quello dell’espressione del

potere politico, la cura di sé non avrà ora altro scopo se non quello del raggiungimento

del sé. Ci troviamo in questo caso di fronte al ribaltamento del rapporto tra politico e

catartico tipico della concezione platonica dell'epimeleia: per Platone era necessario

occuparsi di sé per un fine esterno, poter esercitare il governo sugli altri, mentre per i

filosofi dell’età imperiale sarà necessario occuparsi di sé per nessun altro fine che non sia

il sé stesso, ma questa procedura produrrà una serie di effetti, per così dire, “a cascata”,

tra cui quello di essere perfettamente in grado di relazionarsi con gli altri e di svolgere la

propria funzione sociale, qualunque essa sia.

Questo risulta evidente ad esempio nei Colloqui con se stesso di Marco Aurelio, nei quali

l’autore, pur essendo addirittura un imperatore, assume la cura di sé come punto centrale

della sua esistenza, consapevole che lo sviluppo di un adeguato rapporto con se stesso lo

renderà anche in grado di svolgere adeguatamente il suo “mestiere” di Principe, che egli

stesso considera una funzione che è solo quantitativamente e non qualitativamente

11Cfr. MICHEL FOUCAULT, L’ermeneutica del soggetto, cit., Lezione del 20 gennaio 1982

12

superiore a quella degli altri12. In terzo luogo la cura di sé, dall’essere un’attività

caratteristica di una certa fase della vita, si estende lungo tutto l’arco dell’esistenza,

trovando il proprio compimento ideale nella vecchiaia, intesa non semplicemente come

età anagrafica ma come stato del supremo distacco e della suprema padronanza sulle

passioni.

Foucault si sofferma a lungo, nell’analizzare questa nuova configurazione della cultura di

sé, sullo spostamento di quello che potremmo chiamare il “focus”, il cardine attorno al

quale le pratiche del sé vengono riorganizzate, che passa dalla conoscenza alla pratica

stessa. Una pratica che occupa tutto l’arco dell’esistenza, necessaria per correggere il

soggetto dai suoi vizi e liberarlo dalla schiavitù delle passioni, quest’ultima intesa come

incapacità di formulare dei giudizi corretti sulle proprie rappresentazioni del mondo

esterno e quindi di agire adeguatamente e liberamente.

La cura di sé come attività fortemente orientata alla correzione e alla purificazione del

soggetto, trova un’ importante analogia nella pratica medica, e sarà quest’epoca infatti a

vedere il fiorire di tutta una serie di metafore mediche riguardo alla cura delle passioni,

così come una vera e propria sintomatologia dei mali dell’animo umano.

Insomma l'epimeleia heautou, che nell’ottica platonica si incentrava su di un asse

costituito dal binomio conoscenza-potere, si trova ora spostata su di un asse meglio

rappresentabile attraverso la coppia correzione-liberazione. E’ a questo punto, a mio

avviso, che il carattere auto-normativo della cura di sé emerge in tutta la sua potenza:

infatti, una volta svincolata l’attività spirituale del soggetto dalla comprensione e dalla

contemplazione di una legge sociale e politica trascendentale alla quale egli dovrà sempre

e comunque rivolgersi, la cura di sé appare come l’attività in grado di fornire al soggetto

una legge per se stesso, uno statuto radicato in una verità che si trova all’interno della

propria natura. Inoltre, nel caso degli stoici, esiste una sorta di corrispondenza tra la

struttura della propria natura più profonda e la razionalità che governa tutto l'universo;

l'introspezione viene così elevata ad attività fondamentale per ogni speculazione

metafisica.

12Cfr. MICHEL FOUCAULT, L’ermeneutica del soggetto, cit., pag. 177-180, e MARCO AURELIO, Colloqui con se

stesso, Medusa, Milano, 2005

13

E’ ora arrivato il momento di occuparci sommariamente dell’approccio di Nussbaum alle

etiche ellenistiche, principalmente per come appare delineato nell’opera Terapia del

desiderio. Innanzitutto, è opportuno premettere che l’autrice, a differenza di Foucault,

intende il complesso delle filosofie ellenistiche fondamentalmente come un argomento,

non come una pratica, e per la precisione come una particolare forma di argomento che

definisce “terapeutico”. Ciò non vuol dire che il fine fondamentalmente pratico delle

etiche ellenistiche venga mai negato, anzi tale fine è considerato una delle caratteristiche

centrali di ogni argomento terapeutico, ma avviene rispetto alla prospettiva foucaultiana

un sottile spostamento: il fulcro, il cuore pulsante di queste filosofie viene individuato,

più che nella cura e nella pratica di sé, nella teoria e nell’argomentazione filosofica in

senso stretto, e in particolare nella trattazione teorica delle emozioni.

Nussbaum assume come elemento centrale della sua trattazione l’analogia tra etica

ellenistica e medicina, arrivando a costruire un vero e proprio modello filosofico a partire

da questa. Infatti afferma, proprio in apertura del testo: “La filosofia cura le malattie

dell’uomo, quelle malattie causate dalle false opinioni. I suoi argomenti stanno all’anima

come i rimedi del medico stanno al corpo. Essi sono in grado di sanare, ed è in

conformità alla loro facoltà di sanare che vanno valutati. Come l’arte medica compie

progressi prestando soccorso al corpo malato, analogamente si comporta la filosofia verso

l’anima in pena. Correttamente intesa, essa non è nientedimeno che l’arte del vivere

propria dell’anima. Questa immagine generale della filosofia e dei suoi compiti è

condivisa da tutte e tre le maggiori scuole ellenistiche, sia in Grecia che a Roma. Esse

trovano l’analogia fra filosofia e arte medica pienamente appropriata, ritenendola più che

una semplice metafora decorativa13”

Appare immediatamente chiaro, da questo breve estratto, il carattere fondamentalmente

pratico dell’argomento terapeutico, in quanto ogni affermazione filosofica andrà valutata

proprio in relazione alla sua capacità di curare il “paziente” (cioè l’allievo) dai mali che

affliggono il suo animo, e sarà quindi da considerarsi relativa rispetto al valore.

L’affermazione filosofica non si confronta quindi con un assetto valoriale assoluto e

ideale ma con il complesso insieme di bisogni, desideri ed emozioni proprio

13MARTHA NUSSBAUM, Terapia del desiderio. Teoria e pratica nell’etica ellenistica, cit., pag 21-22

14

dell’ascoltatore, e trova la sua ragion d’essere più profonda nella propria capacità di

sanare.

L’autrice distingue risolutamente questo modello filosofico fondato sull’analogia con la

medicina da altri due modelli etici, quello platonico-cristiano e quello fondato sul senso

comune. Nel primo approccio, che contraddistingue il pensiero platonico e neoplatonico e

quello di alcuni pensatori cristiani (Agostino su tutti), Il Bene rimane sempre un ideale

completamente trascendentale e del tutto irrelato alle concrete forme di vita e di condotta

umane. Anzi la realtà umana, e il mondo fenomenico in generale, non possono aiutarci in

alcun modo nella sua comprensione. Per il pensiero platonico, ciò che può fare la

filosofia è fornire delle verità assiomatiche indubitabili alle quali il saggio cercherà di

conformare il proprio agire, al limite donando agli altri dei benefici indiretti attraverso il

governo della città (nella Repubblica14), mentre per Agostino è addirittura dubbio che

esista un procedimento filosofico adatto a pervenire a tali verità, che sembrano essere

accessibili solo per elezione divina attraverso la grazia. Per contro, l’approccio etico

basato sul senso comune si basa su una profonda fiducia nelle strutture sociali ed

educative e sulle convenzioni morali esistenti, prendendo semplicemente per buoni i

bisogni e i desideri così come sono espressi dalla maggior parte della popolazione; il

filosofo si limita a registrarli rifiutandosi di considerare una criticità intrinseca a tali

espressioni e affidandosi alla ragionevolezza che si suppone essere propria delle opinioni

comuni. Per quanto sia difficile trovare delle forme di espressione ortodossa di questo

approccio nell’antichità, mi sembra di poter riscontrare alcune affinità di questo modello

con certe forme di neo-liberalismo, anche se non vi è in questa sede lo spazio per

approfondire ulteriormente il discorso15.

Il modello filosofico-medico rifiuta sia la deduttività caratteristica del modello platonico,

sia la fiducia nel senso comune, e anche se si basa su un attento ascolto degli

interlocutori, non rinuncia mai alla necessità di esercitare una critica serrata alle loro

14Cfr. PLATONE, Repubblica, Rizzoli, Milano, 2008

15Mi riferisco qui in particolare agli ordoliberali della scuola di Friburgo, dei quali Foucault parla diffusamente nel

suo Nascita della Biopolitica. Corso al College de France (1978-1979), Feltrinelli, Milano, 2007

15

opinioni, convinzioni ed emozioni. L’ascolto che il filosofo-terapeuta dedica ai propri

simili è più puntuale di quello del filosofo del senso comune, scende in profondità nelle

loro paure, ansie, speranze e desideri, e li interpreta non semplicemente come elementi

“innati” o “naturali”, ma come fenomeni cognitivi rilevanti, che vengono in gran parte

socialmente costruiti (proprio come le opinioni) e possono essere, proprio in virtù di ciò,

sottoposti alla critica filosofica. E’ inoltre proprio al periodo ellenistico che viene fatta

risalire l’idea che esistano emozioni inconsce, inespresse, e che sia necessario impiegare

tempo e lavoro per farle venire alla luce.

Nussbaum pone in particolare l’accento sull’importanza che la filosofia riveste nel

correggere e curare i mali dell’animo, provocati dalle emozioni, proprio in quanto critica

e processo argomentativo, ponendo al centro del suo interesse le trattazioni stoiche ed

epicuree sui giudizi e gli stati d’animo, piuttosto che concentrarsi su tutto l’insieme degli

esercizi quotidiani necessari per correggersi. Sembra in effetti considerare la necessità

della pratica di tali esercizi (come l’esame di coscienza, le tecniche di memoria eccetera)

come qualcosa che sorge a partire da una necessità teorica: quella di indagare e conoscere

la struttura cognitiva delle emozioni e dell’animo umano come sistema intelligente e

complesso. Questa necessità teorica è a sua volta indirizzata a un fine del tutto pratico,

cioè quello della terapia dell’anima.

Vorrei a questo punto osservare che mi sembra che entrambi gli autori, nonostante

Nussbaum concentri il suo sguardo sui caratteri maggiormente logico-speculativi della

filosofie ellenistiche (onde evidenziarne la continuità rispetto alla tradizione filosofica

classica), e Foucault invece parta dallo studio delle pratiche concrete per tracciarne

l’impatto sulla storia dei sistemi di pensiero (com’è tipico del suo approccio), convergano

almeno su di un punto. Questo punto di convergenza è rappresentato, a mio avviso, del

carattere fortemente intersoggettivo delle filosofie ellenistiche. Queste, lungi dal

concepire un soggetto isolato e autistico nel suo percorso di conoscenza, come il saggio

erudito che cerca nella solitudine il suo rapporto con il sapere, descrivono il pensiero

come qualcosa che per esprimersi ha bisogno di attivarsi in reti sociali, come una sorta di

connessione viva che allaccia tra di loro gli individui, e il sapere come uno strumento

pratico che scorre attraverso tali connessioni ed è finalizzato alla trasformazione degli

individui in soggetti compiuti.

16

Il tradizionale nesso sapere-felicità appare, in questo contesto, ancora valido, ma è

attualizzato in maniera diversa rispetto a quella platonica: il sapere non è garanzia della

felicità grazie alla conoscenza del sommo Bene, ma è fondamentalmente un discorso

degli uomini su loro stessi, sulle loro passioni e desideri, ed è uno strumento critico

essenziale per raggiungere la libertà. E’ probabilmente a partire da una libertà di questo

tipo che, (entrambi gli autori sembrano suggerirlo), diventerà possibile immaginare una

comunità più felice e realizzata di esseri umani.

Mi dedicherò ora all’analisi di quella forma sociale e istituzionale che, a mio avviso,

permette di cogliere meglio le implicazioni filosofiche di questo carattere pratico e

intersoggettivo dell’etica ellenistica, cioè quella del rapporto maestro-allievo. Tenterò

quindi di mostrare come la pratica discorsiva che per eccellenza contraddistingue tale

rapporto, il parlar-franco o parresia, si configuri, almeno durante il periodo imperiale,

come una pratica effettivamente filosofica, e come questa riesca a coniugare il rigore

logico-argomentativo con una precisa attitudine etica, tesa allo sviluppo dell’interlocutore

in quanto soggetto libero.

Se ci si accinge ad indagare il ruolo che il rapporto con l’altro riveste all’interno

dell’evoluzione del rapporto tra soggetto e verità nel mondo antico, è necessario

innanzitutto sgomberare il campo da alcune ambiguità. Foucault ci spiega che, se è pur

vero che nel mondo antico il rapporto con l’altro si basa sul dir-vero, cioè sulla

franchezza e sulla libertà di parola e di pensiero, bisogna chiarire che nel discorso vero il

soggetto parlante non fa di se stesso l’oggetto di tale discorso. Ovvero, che non è

necessario dire il vero su di sé, cosa che invece sarà tipica della concezione cristiana del

rapporto tra fedele e sacerdote, basato sulla confessione. E’ pur vero, ci dice Foucault,

che si trovano nei testi antichi numerosi elementi che appaiono accostabili alla

“confessione”, ma bisogna stare attenti a non considerare questi elementi alla luce di uno

sguardo retrospettivo, e l’autore infatti, in L'ermeneutica del soggetto, afferma a riguardo:

“Tutti gli elementi in questione mi sembrano profondamente diversi da ciò che

dovremmo definire “confessione” in senso stretto, e in ogni caso “confessione” nel

significato spirituale del termine. Per chi viene diretto infatti, tutti gli obblighi del dir-

vero, […] sono in un certo senso obblighi e prescrizioni di carattere strumentale.

Confessare, pertanto, significa innanzitutto fare appello alla clemenza degli dei o dei

17

giudici. Vuol dire aiutare il medico dell’anima, fornendogli un certo numero di elementi

utili alla diagnosi. […] Questi elementi della confessione sono strumentali, non sono

intrinseci, ovvero non possiedono in quanto tali un valore spirituale. E ritengo che uno

dei tratti più significativi della pratica di sé a quell’epoca sia rappresentato dal fatto che il

soggetto deve diventare soggetto di verità. Deve cioè occuparsi di discorsi veri. E’

necessario pertanto che operi una soggettivazione che prenda il via con l’ascolto dei

discorsi veri che gli sono proposti16”.

Esaminando il rapporto maestro-allievo prendendolo, per così dire, dalla parte del

discepolo, sembra quindi che il punto non sarà tanto quello di farsi oggetto di un discorso

vero, quanto quello di predisporsi, di creare le condizioni di possibilità, per potersi

trasformare in un soggetto di verità, cioè in un soggetto capace di discorsi veri. E

l’atteggiamento (che è in un certo senso anche una tecnica) fondamentale per tale

predisposizione, è l’ascolto: “l’ascolto dei discorsi veri che gli sono proposti”. Se dalla

parte del discepolo il rapporto con l’altro non pone quindi in modo forte e problematico il

tema della parola (lo pone casomai in modo strumentale), la problematica di che cosa sia

il discorso vero, di quali caratteristiche debba assumere, e di come intervenga nel

processo spirituale di ascesi (askesis) del soggetto, si pone tutta dalla parte del maestro.

E’ a questo punto che Foucault chiarisce quale sia il suo intento fondamentale: quello di

spiegare come si caratterizzi il discorso del maestro in un rapporto specificamente

filosofico. Infatti afferma: “E’ questo il punto che vorrei sottolineare, il senso morale

generale del termine parresia, nell’ambito della filosofia, nel contesto dell’arte di sé

stessi, nel quadro della pratica di sé di cui vi sto parlando, assume un significato tecnico

molto preciso, ma anche molto interessante, credo, in relazione al ruolo del linguaggio e

della parola all’interno dell’ascesi spirituale dei filosofi17”.

La parresia non rappresenta quindi solamente un atteggiamento morale generale, ma

anche una tecnica specifica, una sorta di “retorica senza retorica”, un’arte che deve

rispettare alcune regole per poter svolgere efficacemente il proprio compito: rendere

l’ascoltatore un soggetto capace di verità. Se ammettiamo che il parlar-franco del maestro

16MICHEL FOUCAULT, L’ermeneutica del soggetto, cit., p. 325

17MICHEL FOUCAULT, L’ermeneutica del soggetto, cit., p. 327

18

debba essere un discorso sempre teso al fine di far sviluppare al suo allievo un rapporto

completo con se stesso, che vuol dire di sovranità su sé stesso e di autentica conoscenza

di se stesso, possiamo cominciare a capire che tipo di ruolo svolga la verità all’interno di

tale discorso: il ruolo di un operatore nel processo di soggettivazione.

Nell’etica ellenistica (tanto in quella stoica che in quella epicurea), la verità, piuttosto che

una realtà trascendentale e sovra-umana, sembra essere qualcosa che ha a che fare con

l’intimità della conoscenza di se stessi: una sorta di confine sottile e impalpabile di

aderenza a sé che assume delle connotazioni tanto etiche quanto linguistiche. Il soggetto

infatti, per poter proferire un discorso vero, non dovrà tanto farsi oggetto di tale discorso

e dire il vero su di sé, quanto riuscire a far coincidere soggetto dell’azione, cioè del

comportamento, e soggetto della parola. Questo vuol dire che la sua vita dovrà essere la

prova della verità che egli afferma nel suo discorso: è l’esempio di vita a rendere il

maestro degno di questo nome e a rendere le sue parole capaci di smuovere l’ascoltatore.

Mi sembra innegabile il portato politico ed anche estetico, oltre che pedagogico, di questa

interpretazione foucaultiana della parresia, in quanto riconciliare soggetto dell’azione e

soggetto del discorso vuol dire anche riallineare gesto e linguaggio, cioè capacità positiva

di auto-costruzione come soggetto libero e capacità narrativa della propria forma di vita

nei confronti degli altri. Mi occuperò approfonditamente della relazione tra parresia e

forma di vita nel secondo capitolo di questo lavoro.

Attraverso la verità del discorso, l’esempio di vita diviene qualcosa di contagioso, in

grado di trasformare il giudizio che gli altri hanno su di sé e sul mondo, spingendoli a

interrogarsi profondamente su loro stessi, a mettere in discussione la loro conoscenza dei

fenomeni estetici (vale a dire i loro giudizi sulle rappresentazioni del mondo esterno), e di

conseguenza a ripensare e trasformare anche le loro reti di relazioni sociali. Sembra quasi

che Foucault voglia suggerire la parresia come una via per trasformare la propria

interiorità e nello stesso tempo emendare la facoltà di giudizio (e implicitamente, ma

nemmeno troppo, persino la società). Una pratica in grado di sviluppare

contemporaneamente libera produzione di sé e produzione di nuove modalità di

relazione.

In questo suo compito etico-linguistico, la parresia si trova a combattere

fondamentalmente contro due avversari: uno etico rappresentato dall’adulazione, e uno

19

tecnico rappresentato dalla retorica. L’adulazione è il vero e proprio nemico del parlar-

franco in quanto ne rappresenta l’esatto contrario: è infatti un discorso che impedisce

all’ascoltatore di sviluppare un autentico rapporto con se stesso, vincolandolo ad un

immagine di sé falsa ed eccessivamente lusinghiera, che fintantoché sarà creduta come

valida dall’ascoltatore lo lascerà in potere dell’adulatore. Quindi, se la parresia ha come

obiettivo quello di porre l’ascoltatore in potere di se stesso attraverso la verità,

l’adulazione ha l’obiettivo di ridurlo in proprio potere attraverso la menzogna. Ecco come

Foucault definisce la condizione di impotenza rispetto a sé in cui si trova il bersaglio

dell’adulazione: “A causa della condizione di insufficienza in cui si trova nel suo rapporto

con se stesso, chi viene adulato finisce allora per essere alla mercé dell’adulatore, il quale

è un altro che potrebbe anche sparire all’improvviso, oppure trasformare la sua

adulazione in una cattiveria, in una trappola, o così via. Si trova insomma a dipendere da

un altro, e inoltre, cosa altrettanto grave, a dipendere dalla falsità del discorso tenuto

dall’adulatore. […] La conclusione è che la parresia (il parlar-franco o libertas)

rappresenta esattamente l’anti-adulazione.18”

Il caso della retorica è piuttosto diverso, infatti il parresiasta non è tenuto a ripudiare la

retorica nel suo complesso, anzi sarà in grado di sfruttarne le tecniche e le procedure, ma

sempre unicamente all’interno del contesto etico del parlar-franco. La critica che la

filosofia porta alla retorica infatti è di non porsi il problema della verità da un punto di

vista etico: il retore è colui che può convincere qualsiasi ascoltatore di qualunque

contenuto, ed il suo valore è misurato unicamente dalla sua efficacia. Il parresiasta

invece, anche se abile nell’arte della parola e in grado di padroneggiare la logica,

l’argomentazione del discorso e le tecniche di persuasione, userà queste sempre in vista

di un unico contenuto: la verità.

A fornire la specificità della parresia in quanto arte, come vera e propria tekhne della

parola, non sarà quindi il contenuto, bensì il kairòs, ovvero l’opportunità, la capacità di

cogliere l’occasione favorevole affinché uno specifico ascoltatore possa aprirsi alla verità.

Le condizioni di attuazione del discorso vero infatti possono variare per una molteplicità

di motivi, che vanno dalla condizione emotiva dell’ascoltatore alla sua formazione

18MICHEL FOUCAULT, L’ermeneutica del soggetto, cit., p. 338

20

culturale. Il maestro deve essere abile nel cogliere il momento opportuno e scegliere le

parole giuste per conferire efficacia al suo discorso.

A proposito di ciò, Foucault fa esplicito riferimento a Filodemo, filosofo epicureo romano

che nel suo trattato Peri parresias (Trattato sul parlar-franco19) ha tentato di

istituzionalizzare il meccanismo della parresia definendolo in paragone ad altre due arti

congetturali (cioè basate sulla considerazione del kairòs, della circostanza): quella del

marinaio e quella del medico. Filodemo introduce inoltre un concetto innovativo, che è

quello del passaggio dal parlar-franco del maestro a quello degli allievi. Il discorso vero

del maestro infatti, pur provenendo da una trasmissione verticale della verità, attraverso

l’esempio di vita che risale fino al primo maestro (cioè Epicuro), ha la capacità ribaltare

questo ordine verticale della parresia nella dimensione orizzontale del rapporto tra gli

allievi, una comunità di amici unita da un forte legame dove ognuno esercita la parresia

verso gli altri. Questo costituisce a mio avviso un buon esempio di come il parlar-franco,

oltre alla crescita individuale, possa portare alla riconsiderazione complessiva di un

tessuto sociale, e alla sua rivitalizzazione attraverso la circolazione libera del discorso

vero.

Per concludere questo primo capitolo, ed evidenziare ulteriormente alcune caratteristiche

della parresia come pratica specificamente filosofica, vorrei dedicarmi brevemente

all’interpretazione foucaultiana delle Lettere morali a Lucilio di Seneca20. In Seneca, a

differenza che in Filodemo, la libertas (questo è il termine latino per indicare il parlar-

franco) non viene considerata come un’arte. Seneca pone grande enfasi sull’importanza

di trasmettere la verità attraverso un linguaggio semplice, evitando gli effetti drammatici

e patetici tipici dell’oratoria, preferendo uno stile trasparente e sincero ad uno affettato o

eccessivamente artificioso.

Il bersaglio polemico di Seneca è lo stile pubblico degli oratori politici, i quali cercano di

muovere le masse e non gli individui, ricorrendo ad ogni stratagemma linguistico

possibile; ad esso Seneca contrappone il modello di direzione intimo, privato, basato sulla

19MICHEL FOUCAULT, L’ermeneutica del soggetto, cit., p. 347

20Cfr. MICHEL FOUCAULT, L’ermeneutica del soggetto, cit., p. 357- 364 e SENECA, Lettere morali a Lucilio,

Mondadori, Milano, 2004, in particolare in riferimento alle lettere 40, 38, 29 e 75.

21

corrispondenza epistolare tra due amici, due anime in grado di entrare profondamente in

contatto e di aprirsi l’una all’altra attraverso la semplicità della libertas. Ecco cosa

afferma in proposito lo stesso Seneca, nella lettera 75: “Se noi ci trovassimo l’uno di

fronte all’altro, seduti a non far nulla o intenti a passeggiare, la mia conversazione

sarebbe priva di affettazione, semplice e facile. Ed è così che voglio siano anche le mie

lettere, senza nulla di ricercato e nulla di artificiale. Se fosse possibile, preferirei lasciarti

vedere i miei pensieri, piuttosto che tradurli per mezzo del linguaggio. […] Di sicuro non

voglio che la discussione su argomenti così elevati sia condannata all’aridità e all’assenza

di stile. La filosofia non rigetta le grazie dello spirito. Quello che non bisogna fare, però,

è affaticarsi eccessivamente sulle parole. Questo deve essere il punto principale di ciò che

affermo: dire quello che si pensa, pensare quello che si dice; far si che il linguaggio sia in

accordo con il comportamento21”. Appare piuttosto chiaro da questo brano come rimanga

aperta la possibilità, per la filosofia, di fare un uso tattico della retorica e del bel parlare,

anche se sempre all’interno di un discorso incentrato sul vero.

Il discorso filosofico non deve per forza essere scarno, ma rispetto alla retorica la priorità

tra forma e contenuto appare decisamente invertita. Questo perché a garantire l’efficacia

delle libertas come pratica discorsiva non è una procedura artificiale, quanto piuttosto la

presenza di chi parla all’interno del proprio discorso vero, non come oggetto ma come

soggetto di azioni che provano la verità delle proprie parole, nelle forma dell’esempio di

vita. La libertas più che un’arte del discorso è un’arte della vita, un atteggiamento etico

complessivo che stipula un patto tra il soggetto che parla e il soggetto che agisce, un

discorso che chiama in causa il sé vincolandolo alla verità sia nella parola che

nell’azione, e tutto ciò al fine di poter toccare in profondità l’anima del suo interlocutore

e aiutarlo a stipulare il suo proprio patto con se stesso e a trovare la sua propria legge di

verità, conducendolo alla libertà.

Alla luce di tutte queste considerazioni sul carattere e sulla funzione della parresia

nell’etica ellenistica, mi sembra di poter affermare che essa sia una nozione fondamentale

per definire i rapporti tra soggetto e verità nel mondo antico, e che il campo del rapporto

con l’altro sia proprio quello in cui si afferma maggiormente la possibilità per il soggetto

21MICHEL FOUCAULT, L’ermeneutica del soggetto, cit., p. 359 e SENECA, Lettere morali a Lucilio, cit., lettera 75

22

di trovare un’autentica autonomia, sia rispetto alle convenzioni sociali che rispetto alle

proprie paure e debolezze. Inoltre, pur essendo la pratica del parlar-franco radicata in un

contesto culturale, quello della “cultura del sé”, che travalica enormemente l’ambiente

filosofico e investe molti campi dell’esperienza umana (soprattutto quello religioso), mi

sembra di poter affermare che la peculiarità filosofica della parresia, sia in virtù

dell’aspetto metodologico che di quello etico, non sia in alcun modo riducibile ad altre

forme di direzione della coscienza extra-filosofiche come quelle religiose o quelle basate

sulle superstizioni. Mi sembra piuttosto che proprio a partire dalla pratica della parresia

si aprano interessanti prospettive di studio di una particolare forma di pedagogia, che

Michel Foucault chiama “psicagogia”, il cui obiettivo non è la trasmissione di

competenze specifiche, ma la trasformazione profonda del soggetto per renderlo in grado

di trovare da solo i propri valori ed il proprio codice etico. Un tipo di insegnamento,

questo, di cui nel mondo contemporaneo si sperimenta una drammatica carenza, e di cui

si pone la necessità di ritrovare una possibile attuazione.

Infine, il tema della forza della verità radicata nell’esempio di vita, apre la strada verso

altre considerazioni. Oltre al piano del rapporto a due, quello della relazione maestro-

allievo, l’esempio di vita investe il campo della relazione tra il filosofo e il mondo, tra

l’individuo e la società, mantenendo intatta tutta la sua capacità di trasformazione. E’

proprio di questa sfera di applicazione globale della parresia, legata alla stilistica

dell’esistenza, che vorrei occuparmi nei prossimi capitoli, partendo dalle considerazioni

fatte da Foucault a proposito dello sviluppo della dimensione etica di tale pratica, a

partire dalla pedagogia socratica e dalla sua trasformazione cinica.

23

Il teatro della vita cinico

Quale può essere considerato il discrimine, il punto di specificità che permette di

distinguere la parresia da tutte le altre forme del discorso vero, presenti e ben radicate nel

mondo antico? E’ a partire da questa domanda che Foucault pone, nella lezione del 1

febbraio 1984 del suo ultimo corso22, la fondamentale tematica del coraggio. Il coraggio

inteso come presenza del soggetto, del suo punto di vista, all’interno del discorso da lui

pronunciato, e allo stesso tempo come assunzione di un rischio. Senza quest’assunzione,

infatti, non è possibile la parresia, e il rischio in questione è quello della possibilità della

lacerazione della relazione tra chi parla e chi ascolta. La verità infatti può produrre effetti

imprevedibili su chi la riceve, sia esso un individuo o un gruppo, e può provocare un

rifiuto o perfino un atto di violenza.

Se la regola fondamentale della parresia è quella di dire tutta la verità, senza

dissimularne nessuna parte (il concetto di totalità, pan rema, è evidentemente presente

nella radice etimologica della parola23); possiamo dire che la presenza di chi parla

all’interno del discorso e l’assunzione del rischio diventano delle vere e proprie

“condizioni supplementari”, perché si possa parlare propriamente di parresia in senso

positivo. Foucault afferma a riguardo, infatti, che “Il parresiasta esprime la sua opinione,

dice quel che pensa, firma, in qualche modo, la verità che egli stesso enuncia: si lega a

tale verità; a essa perciò si vincola e grazie ad essa assume degli obblighi. Ma non basta:

dopotutto, infatti, un professore, un grammatico, un geometra possono dire […] una

22Cfr. MICHEL FOUCAULT, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II, cit.

23Cfr. MICHEL FOUCAULT, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II, cit., p. 21

24

verità in cui credono e che corrisponde a ciò che pensano. Ciononostante, non si dirà che

si tratta, qui, di parresia. […] Perché ci sia parresia, lo ricorderete […], bisogna che il

soggetto, esprimendo una verità che coincide con la sua opinione, con il suo pensiero,

con la sua credenza, assuma un certo rischio: un rischio che riguarda la relazione con il

suo interlocutore. Perché vi sia parresia, bisogna che chi dice la verità apra, introduca e

affronti il rischio di ferire l’altro, di irritarlo, di farlo andare in collera e di provocare certi

suoi comportamenti che possano spingersi fino alla violenza più estrema. La verità è

dunque esposta al rischio dell violenza24”.

Possiamo trovare in questo passo un’ulteriore conferma del carattere fortemente

intersoggettivo della parresia: affermare che il dir-vero esige una prova di coraggio

rispetto all’altro vuol dire anche affermare che semplicemente non si può essere

parresiasti da soli, che la prova di verità di questa pratica si dà sempre in relazione

all’altro. D’altra parte, il parlar-franco non si configura tanto come una semplice virtù o

inclinazione individuale, quanto come un patto tra chi parla e chi ascolta: “La parresia è

dunque, in poche parole, il coraggio della verità di colui che parla e si assume il rischio di

esprimere, malgrado tutto, l’intera verità che ha in mente, ma è anche il coraggio

dell’interlocutore che accetta di accogliere la verità oltraggiosa da lui sentita25”.

Per meglio definire la parresia come modalità specifica del discorso vero, Foucault la

distingue da altre tre forme di verità: quella della profezia, quella della saggezza e quella

del sapere tecnico. Tale differenziazione è articolata attraverso la contrapposizione tra i

vari personaggi che incarnano le differenti modalità discorsive: il profeta, il saggio, il

tecnico e il parresiasta. Il profeta è qualcuno che sostanzialmente funge da mediatore tra

il mondo degli uomini e quello degli dei, tra il mondo del presente e quello dell’eternità

in cui si dà la compresenza di tutti i tempi e quindi la possibilità di conoscere del futuro;

nella profezia, quindi, non esprime il proprio punto di vista, ma riporta una verità situata

altrove. Il saggio è una figura che emerge da un riservato e inaccessibile silenzio soltanto

occasionalmente, se interpellato o se la città versa in una condizione di emergenza, per

dare il proprio consiglio e per trasmettere un sapere che rivela l’ontologia profonda delle

24MICHEL FOUCAULT, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II, cit., p. 22-23

25MICHEL FOUCAULT, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II, cit., p. 24

25

cose; il parresiasta rappresenta invece l’infaticabile interpellatore che si rivolge

costantemente e senza sosta agli altri, e la cui verità è sempre legata alla contingenza

degli individui reali e delle situazioni concrete. Il tecnico poi, trasmette un sapere in cui

probabilmente crede con radicata convinzione, ma non si assume alcun rischio attraverso

il suo discorso: il legame che stringe con l’ascoltatore è fondato sulla comune

appartenenza ad un’eredità culturale, ad una tradizione.

La parresia non emerge però, all’interno del mondo greco, con la pratica di conduzione

filosofica delle anime. Non nasce quindi come concetto legato alla sfera etica del

comportamento individuale, ma all’esperienza della democrazia e al contesto politico-

assembleare. Foucault mostra come, dall’essere una nozione fondamentalmente positiva,

legata al diritto-dovere di dire la verità per il bene di tutta la città, la parresia, sottoposta

ad una critica feroce da parte di alcuni pensatori di appartenenza aristocratica o

comunque contrari alla forma di governo democratica, si trovi ad assumere un valore

ambivalente.

In pensatori come Platone o Isocrate si ritrova infatti una critica della parresia che è

fondamentalmente una critica delle istituzioni democratiche: a queste può corrispondere

solo una cattiva libertà di parola, che è quella della demagogia. Poiché la democrazia non

permette differenziazione etica, creando una falsa equivalenza tra i migliori (pochi) e i

peggiori (molti), dove le opinioni di tutti contano allo stesso modo, questa non fa altro

che lasciare i primi in balia del potere esercitato dai secondi, che di certo non hanno

voglia di ascoltare verità scomode e cercano soltanto qualcuno che li blandisca e li

consoli. Si trova però, negli stessi pensatori, affianco a questa concezione negativa del

parlar-franco, visto come forza disgregatrice e anarchica, come la semplice volontà, da

parte di tutti, di esprimere la propria opinione su qualunque cosa, un’altra forma di dir-

vero politico: “[…] la parresia coraggiosa - dell’uomo che dice generosamente la verità,

anche quella che non piace: essa è pericolosa per l’uomo che ne fa uso e non trova spazio

nella democrazia26”. Questa parresia autentica, inconciliabile con la democrazia, può

invece emergere all’interno di una forma di governo che ammetta la differenziazione

etica tra migliori e peggiori, dove siano i primi a detenere saldamente il potere e quindi a

26MICHEL FOUCAULT, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II, cit., p. 49

26

poter governare senza paura di pronunciare delle verità scomode, che in democrazia

comporterebbero il rischio di essere cacciati dalla città, o addirittura uccisi. Il tema della

verità si trova in questo modo legato a quello della monarchia, ed è alla luce di questo

legame che Foucault interpreta l’esperimento di Platone in Sicilia alla corte di Dionigi e

le affermazioni di Isocrate riguardo all’educazione del Principe.

E’ a questo punto che il tema del discorso vero si trova, per la prima volta, legato alla

problematica dell’educazione, dell’insegnamento e della conduzione dell’anima. La

parresia appare infatti come lo strumento necessario, e il solo possibile, per condurre

l’anima del sovrano alla verità, e di conseguenza renderlo capace di governare bene. La

parresia non è più semplicemente un privilegio da adoperare, come nel caso del cittadino

della democrazia ateniese, ma un dispositivo che serve a provvedere alla formazione

etico-filosofica di un soggetto. Isocrate infatti, rivolgendosi a Nicocle, figlio del tiranno

Evagora e che da questi aveva ereditato il potere, afferma che: “[…] se potessi definire

quali forme di comportamento devi seguire e quali evitare per governare nel modo

migliore la tua città e il tuo regno. […] I sovrani, […] avrebbero bisogno di essere educati

più degli altri, ma una volta giunti al potere passano la vita senza che nessuno li

consigli27”. Dire la verità al Principe è necessario per formare il suo ethos, e la

formazione dell’ethos diventa quindi ciò che permette alla parresia di articolare il suo

potere politico. In questo modo il parlar-franco si trova ad essere collocato, per la prima

volta, all'interno del contesto pedagogico e educazionale.

E’ però a partire dalla pedagogia socratica che Foucault individua la definitiva emersione

di una parresia pienamente etica, sganciata dalla sua origine politica e dalla sua relazione

col buon governo della città. Attraverso lo studio del Lachete28, egli ci fornisce un

esempio compiuto dell’utilizzo di questa parresia da parte di Socrate. La scelta cade sul

Lachete per diverse ragioni: innanzitutto, in questo dialogo il tema del dir-vero è

strettamente intrecciato con le altre due tematiche precedentemente individuate da

Foucault come centrali in tutta la filosofia socratica: quella dell’esame (exetasis) e quella

27MICHEL FOUCAULT, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II, cit., p. 71, e ISOCRATE, A Nicocle,

in Opere, vol.I, Utet, Torino, 2000, p. 107

28Cfr. PLATONE, Lachete, Carabba, Lanciano, 2011

27

della cura (epimeleia). Il dialogo tra Socrate e i suoi interlocutori, infatti, prende le mosse

a partire da un patto parresiastico, in cui ognuno promette di dire il vero e di essere

disponibile a ricevere la verità, si sviluppa nella forma di un’ interrogazione, nella quale

Socrate chiederà a ognuno di rendere conto di sé, e si conclude con un’ esortazione:

quella a prendersi cura di sé. Ma non è tutto, il Lachete viene scelto anche perché in esso

prende forma un altro intreccio fondamentale: quello tra coraggio e verità.

La domanda, così importante per tutta una certa linea di sviluppo della filosofia

occidentale, che porta a chiedersi quale livello di coraggio, di lotta, di scontro e di

pericolo sia necessario affrontare per poter raggiungere la verità, trova qui il suo punto di

origine. Foucault distingue questa tradizione critico-polemica, che cerca la verità

attraverso il coraggio e guarda al bios come luogo di prova per l’autenticità dei discorsi,

da quella catartico-metafisica. Quest'ultima, riscontrabile a partire da altri dialoghi

platonici (come l’Alcibiade, di cui abbiamo parlato, e il Fedone), si concentrerà invece su

quale livello di purificazione sia necessario al soggetto per renderlo capace di verità.

Alcibiade e Lachete diventano, nell’interpretazione foucaultiana, i due punti di partenza

per altrettante tradizioni del nostro pensiero filosofico29: partendo infatti dallo stesso tipo

di problema, un problema decisamente pedagogico che è quello dell’educazione dei

giovani, i due dialoghi perverranno a conclusioni affatto diverse. Nell’Alcibiade, la

soluzione proposta da Socrate al giovane in cerca di gloria e potere, sarà quella di

riconoscersi come anima-soggetto, per potersi occupare di sé, nel senso della sua anima,

al fine di poter governare bene la città. Nel Lachete, l’interrogazione di Socrate chiederà

agli altri interlocutori, tutti coraggiosi e rispettabili uomini politici, di rendere conto di sé

non in funzione della loro anima ma del loro stile di vita, giungendo alla conclusione che

è necessario prendersi cura di sé per costruire un corretto modo di vivere (senza altro fine

che la vita vera e autentica, e non per il governo della città). Dal primo nasce la

metafisica, che cercherà di rendere conto dell’ontologia del sé, di capire quale sia il

soggetto autentico e capace di verità, e identificherà presto questo soggetto con l’anima.

Dal secondo invece, nasce una tradizione critica, che focalizzerà la sua attenzione sul

29Cfr. MICHEL FOUCAULT, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II, cit., p. 128-130

28

modo di vita (il bios), con l’intento di costruire uno stile d’esistenza adeguato

all’enunciazione di un discorso vero.

E’ evidentemente nell’interesse dello studio di questa tradizione critica, di una “filosofia

come prova della vita, del bios, che è materia etica e oggetto di un’arte di sé30”, e non

certo per una semplice propensione ermeneutica verso i movimenti filosofici

dell’antichità, che Foucault introduce, a questo punto, il problema del cinismo. Daniele

Lorenzini, un giovane studioso di Foucault, nel suo interessante saggio dal titolo

Foucault, il cinismo e la “vera vita” ci aiuta ad inquadrare l’approdo di questi presso le

sponde del cinismo nel contesto più generale degli studi del filosofo francese sulla verità

nel mondo antico, quando osserva: “[…] quest’ultimo frammento del lavoro di Foucault

necessita di essere inserito nell’orizzonte della coerente evoluzione del suo percorso

filosofico. Solo così sarà possibile donargli un significato che trascenda la descrizione di

una pur stimolante ed innovativa ermeneutica dei testi antichi, per puntare dritto nella

direzione della formulazione, implicita ma chiarissima, di un modello di vita filosofica le

cui peculiarità Foucault riteneva essenziale “ricordare” ai propri contemporanei. Proprio

dal punto di vista interno dell’evoluzione concettuale riscontrabile nei suoi ultimi corsi al

Collège de France, è ormai evidente come sia stato lo studio della parresia antica a

spingere Foucault ad avvicinarsi al cinismo in quanto scuola, o meglio movimento

filosofico, che vedeva nel franc-parler la propria connotazione più peculiare ed il proprio

discrimine rispetto ad ogni altra filosofia dell’epoca31”.

Il cinismo antico si presenta come l’esempio paradigmatico, come il momento più

trasparente, evidente (e per certi aspetti, come vedremo, paradossale) di una ricerca che, a

partire dal tema della verità nel mondo antico e della sua costituzione in un determinato

bios, giungerà al tema vera vita. Questa rappresenta la fondazione di un’esistenza

filosofica autentica e indipendente, la quale i cinici, attraverso una minuziosa opera di

trasvalutazione, ribalteranno in una vita radicalmente altra, una vita scandalosa e

inaccettabile per la società.

30MICHEL FOUCAULT, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II, cit., p. 130

31DANIELE LORENZINI, Foucault, il cinismo e la vera vita, p. 2, Saggio pubblicato in Michel Foucault, gli antichi

e i moderni. Parrhesìa, Aufklärung, ontologia dell’attualità, a cura di Lorenzo Bernini, ETS, Pisa, 2011, pp. 75-99

29

Già l’anno precedente, nel suo corso Il governo di sé e degli altri32, Foucault aveva

indagato varie forme di parresia (concentrandosi maggiormente sull'aspetto politico di

tale nozione) nel mondo antico, ma è solo attraverso il cinismo e il concetto di vera vita

che i suoi studi giungono a compimento. Il movimento cinico infatti, tenterà di mettere in

pratica quella che, già nel Lachete, era una sorta di implicita esortazione: realizzare nella

sfera del visibile, e quindi anche nella corporeità, il legame tra bios e parresia. Costruire

insomma uno stile, un'estetica dell'esistenza, che non sia semplicemente la condizione per

poter pronunciare un discorso vero, ma che sia essa stessa, immediatamente e

visibilmente, manifestazione della verità della vita.

Prima di addentrarmi, però, in un esame più attento del cinismo e della sua opera di

trasvalutazione dei valori filosofici antichi, vorrei concentrarmi brevemente sui caratteri

della vera vita per come era tradizionalmente intesa. E' a partire dall'assunzione e dal

ribaltamento di questa infatti, che i filosofi cinici struttureranno la loro etica-estetica.

Secondo Foucault Il problema della vera vita, dell'esistenza autenticamente filosofica, è

stato presente in quasi tutte le tradizioni filosofiche maggiori dell'antichità, e in

particolare nel platonismo e nello stoicismo. Solo nella modernità, quando il problema

della verità e quello della spiritualità si sono separati, la questione della vera vita ha

iniziato ad essere trascurata dai filosofi. Foucault considera, all'interno dell'orizzonte

della modernità, Spinoza e il suo Trattato sull'emendazione dell'intelletto come

un'eccezione33: questo sarà l'ultimo grande progetto di costituzione di una vera vita

filosofica.

La questione della vera vita viene ancora una volta tematizzata a partire dalla necessità

della cura di sé. In particolare, facendo riferimento al Lachete, Foucault osserva come il

riconoscimento di questa necessità non conduca, nello sviluppo del dialogo, a chiedersi

quale sia il soggetto di cui è necessario occuparsi, ma quale sia la forma che debba

assumere tale cura. In altre parole, quale forma debba assumere una vita che intenda

realmente occuparsi di sé stessa. Insomma, se con l'Alcibiade ci trovavamo di fronte ad

32Cfr. MICHEL FOUCAULT, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collége de France (1982-1983), Feltrinelli,

Milano, 2007

33Cfr. MICHEL FOUCAULT, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II, cit., p. 227 e BARUCH

SPINOZA, Trattato sull'emendazione dell'intelletto, SE, Milano, 2009

30

una strada che portava verso la definizione del soggetto e verso la metafisica, con il

Lachete ci troviamo invece davanti ad un sentiero che tende alla definizione della cura e

alla sua applicazione nel mondo terreno. E' il sentiero sul quale incontreremo anche il

cinismo.

Alla vera vita erano tradizionalmente applicate le quattro caratteristiche della verità

(aletheia), che per essere tale doveva necessariamente essere non dissimulata, non

mescolata, diritta e immutabile. Foucault mostra come in Platone sia possibile ritrovare

queste quattro caratteristiche della verità applicate sia al vero amore che alla vera vita34.

La vita del filosofo infatti, dovrà innanzitutto essere una vita vissuta alla luce del sole,

che non nasconde nulla perchè non ha nulla di cui vergognarsi. Dovrà essere una vita

indipendente, che non ha bisogno di nulla, e in cui bene e male, vizio e virtù, non sono tra

di loro mescolati. Dovrà anche essere una vita diritta, retta, conforme alle regole degli

uomini e soprattutto al nomos della natura. Infine, la vita filosofica dovrà essere

immutabile, non suscettibile a cambiamenti nel tempo né a perturbazioni di ogni sorta.

A questo punto è fondamentale introdurre quello che sarà lo strumento a partire dal quale

i cinici opereranno il ribaltamento della vera vita nella vita altra. Foucault parla di un

motto, attribuito da Diogene Laerzio allo stesso Diogene di Sinope35 (considerato il

fondatore del movimento cinico). Questo motto prescrive di "cambiare il valore della

moneta", e vedremo che sarà utilizzato come una sorta di grimardello teorico

nell'operazione cinica. La moneta di cui è necessario cambiare il valore infatti è proprio

quella del modo di vita filosofico, plasmando uno stile d'esistenza che trasferisca nella

pratica e nella corporeità, spingendoli al contempo all'estremo, tutti i caratteri tradizionali

della vera vita. "Cambiare il valore della moneta" è l'assunto di base, e al tempo stesso

l'obbligo etico più forte e vincolante, di tutto il movimento cinico.

Questa trasvalutazione produrrà degli effetti scandalosi: vedremo infatti come condurrà i

cinici a delle pratiche decisamente radicali. Produrrà inoltre, nei confronti del movimento

cinico, una valutazione estremamente ambigua da parte di tutte le altre scuole di pensiero

34Cfr. MICHEL FOUCAULT, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II, cit., p. 211-218

35Cfr. MICHEL FOUCAULT, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II, cit., p. 219 e DIOGENE

LAERZIO, Vite dei filosofi, vol. I, Laterza, Roma-Bari, 1976, p. 211

31

del mondo antico. Infatti, se è vero che i cinici sviluppano la loro arte della vita partendo

dal riconoscimento e dall'accettazione di molti dei precetti morali più comunemente

accettati da quasi tutte le filosofie ellenistiche e imperiali, al tempo stesso operano su di

essi in modo tale da realizzarne il rovesciamento, come in una sorta di specchio

infranto36. Il cinismo rappresenta una sorta di smorfia, di ghigno, di affronto ironico e

selvaggio alla filosofia. La sua prossimità rispetto all'orizzonte valoriale in cui si muove è

proprio ciò che lo rende più scandaloso.

Foucault ricorda come nelle affermazioni di diverse personalità importanti del mondo

antico, come Epitteto e l'imperatore Giuliano, si possano trovare tracce di questa

valutazione ambigua. Se l'atteggiamento morale cinico, con la sua austerità e

intrensigenza, è considerato degno di rispetto e addirittura presentato come

l'atteggiamento universale buono per ogni filosofo, la pratica concreta di vita cinica, con

la sua scandalosità inaccettabile, viene fermamente condannata: "Nello stesso momento

in cui i filosofi si riconoscono così facilmente nel cinismo, se ne smarcano molto

violentemente attraverso una caricatura ripugnante. Lo presentano come una sorta di

alterazione inaccettabile della filosofia37". Ciò porterà questi filosofi a introdurre nei loro

scritti una serie di distinzioni tra il "cinismo buono" (quello di Diogene e degli altri

fondatori, considerati dei veri filosofi) e quello "cattivo" (il cinismo di chi, pur non

essendo un vero filosofo, adotta il modo di vita cinico).

Mi occuperò ora di definire quest'opera di ribaltamento nei suoi tratti essenziali38.

Abbiamo visto come la vera vita fosse da considerare, in primo luogo, un'esistenza non

dissimulata. Il gesto cinico consiste nell'accettare questo principio, che per gli altri

filosofi rappresentava una disposizione d'animo e un ideale di condotta, e realizzarne una

"messa in scena" totale, effettiva. La drammatizzazione della vita non dissimulata

consiste nel condurre sempre, in ogni momento, la propria esistenza sotto gli occhi di

tutti. Questo vuol dire che i cinici, sulla strada e all'aria aperta, fanno davvero qualsiasi

36Cfr. MICHEL FOUCAULT, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II, cit., p. 224

37MICHEL FOUCAULT, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II, cit., p. 227

38Foucault la descrive in particolare nella Lezione del 14 marzo 1984, in Il coraggio della verità. Il governo di sé e

degli altri II, cit.

32

cosa: mangiano, dormono, defecano, facendo irrompere sulla scena pubblica la vita in

tutta la sua naturalezza e materialità. Per loro infatti, non è ipotizzabile che la natura

abbia messo nell'uomo qualcosa di sbagliato ed inaccettabile, e se c'è qualche stortura

nell'essere umano questa va certamente ricondotta alle convezioni, alle leggi e alle

abitudini artificiali. Pertanto la vita cinica non potrà certo conservare il rispetto del

pudore e delle convenzioni tradizionali.

La teatralizzazione dell'esistenza non dissimulata porta il cinico a condurre tutta la sua

vita come un affronto verso degli spettatori da scandalizzare, riconvertendo radicalmente,

in questo modo, un principio che in fondo aveva sempre implicitamente supportato

l'esigenza del senso del pudore. Quest'atteggiamento radicale spinge i cinici verso un

rifiuto tout-court della sfera privata, e quindi del luogo che per eccellenza incarna il

bisogno di separatezza e discrezione: la casa. Diogene Laerzio infatti afferma che

Diogene di Sinope "Si serviva indifferentemente di ogni luogo per ogni uso, per far

colazione o per dormirci e per conversare39". Molti cinici inoltre rifiutavano perfino i

vestiti: come abbiamo visto infatti la corporeità era per loro qualcosa da affermare nella

totalità delle sue funzioni, anche quelle più oscene.

Il principio della vita senza mescolanze, indipendente e indifferente, viene anch'esso

drammatizzato attraverso una sua applicazione letterale. Anche in questo caso la

drammaturgia cinica dell'esistenza (come sempre, d'altronde) si rivolge alla corporeità e

alla materialità, stilizzando quello che si può in effetti considerare alla stregua di un

personaggio teatrale, con tanto di costume e oggetti di scena appropriati: la figura del

filoso povero e vagabondo. Questi, vestito solo di un umile mantello e di stracci, senza

altri beni che un bastone e una bisaccia, cammina per il mondo senza legami, senza

vincoli, senza dipendere da niente e da nessuno. E' un relitto e al tempo stesso un re. La

sua povertà non è solo una condizione che ha imparato a sopportare, a cui è in grado di

resistere, ma una scelta positiva, agita e rivendicata. La povertà è una prova costante a cui

il cinico si sottopone attivamente, cercando di essere sempre più povero, di dipendere

sempre di meno da qualunque cosa.

Se lo stile di vita cinico rappresenta, sotto molti aspetti, una concezione dell'esistenza

39MICHEL FOUCAULT, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II, cit., p. 243 e DIOGENE LAERZIO,

Vite dei filosofi, vol. I, cit., p. 211-212

33

come continua "prova iniziatica", la povertà consiste in uno dei suoi aspetti principali.

Incontriamo qui una delle funzioni più importanti del bios cinico concepito come

aleturgia, cioè come manifestazione della verità, che è la sua funzione di riduzione.

Riduzione della vita ai suoi aspetti più nucleari, fondamentali e naturali. Riduzione che

rappresenta però anche una forma di potere, perchè realizza, in modalità drammatica, le

aspirazioni di sovranità su se stessi e di imperturbabilità rispetto agli accidenti del mondo

che quasi tutte le filosofie ellenistiche avevano espresso. Questa pratica della povertà

estrema conduce la vita non mescolata al suo ribaltamento, perchè comporta

l'accettazione e la ricerca attiva della mendicità, dell'umiliazione e del disonore, tutte

condizioni che secondo la morale greca rappresentavano invece il massimo della

schiavitù e della dipendenza, cioè di una condizione di vita inaccettabile.

Infine il principio della vita dritta, conforme all'ordine della natura (il logos naturale),

conduce nei cinici ad una affermazione e ad una valorizzazione positiva dell'animalità.

Gli animali forniscono un esempio di comportamento morale prescrittivo per l'uomo,

mostrandoci come si possa vivere senza altre aspirazioni che quelle naturali, senza

bisogni artificiali. L'animalità, che era sempre stata l'alterità irriducibile sulla quale basare

la differenziazione dell'uomo rispetto all'ordine naturale, viene rivendicata dai cinici in

maniera diretta e, ancora una volta, attiva, cioè sempre da ricercare e da realizzare in

modo via via più completo. L'assunzione dell'animalità come paradigma per il

comportamento umano porta i cinici a rifiutare i legami familiari e il matrimonio, così

come le convenzioni alimentari e persino il tabù dell'incesto (almeno a parole), tutte cose

viste come l'espressione di leggi artificiali e dannose per l'uomo. L'interpretazione di

Diogene del mito di Edipo, infatti, consiste proprio nella critica del mancato

riconoscimento di questi della sua propria animalità, che lo conduce alla rovina.

Si può quindi osservare come quest' altra vita, quest'esistenza radicalmente e

sostanzialmente diversa, ridotta nella maniera più rozza e diretta possibile all'animalità e

alla naturalità, sia tuttavia qualcosa che non è per nient' affatto già dato in partenza, o

semplice da realizzare. Rappresenta piuttosto una continua opera che si compie su sé

stessi, una sfida, un lavoro di trasformazione, che in un certo senso è anche un'opera

d'arte e di drammaturgia. La vita cinica rappresenta una prova di coraggio e di verità nel

modo più immediato possibile, e richiede una dedizione costante, senza deviazioni, e per

34

tutto l'arco dell'esistenza.

Il nesso tra bios e aletheia rimane intatto, ma cambia sostanzialmente di segno. Nell'

ethos cinico, infatti, la posta in gioco non è più quella della costruzione di un corretto

stile di vita a cui corrisponda poi la verità del discorso, ma di una stilistica dell'esistenza

che sia essa stessa, e immediatamente, manifestazione della verità. La parresia si trova ad

essere, in un certo senso, incorporata nel bios, che diviene quindi esso stesso una forma di

aleturgia. La parola si trova a dover farsi da parte, per lasciare il posto all'attitudine e al

comportamento. Si può comprendere, in questo modo, il perchè della rudimentalità e

della povertà teorica del cinismo rispetto alle altre filosofie a lui contemporanee, e al

tempo stesso la sua grande ricchezza etica. E' inoltre possibile, a questo punto, misurare

la distanza che separa il cinismo da altri movimenti, come quello stoico. Gli stoici infatti,

pur partendo da premesse in alcuni casi analoghe, almeno sul piano teorico, a quelle dei

cinici, pervengono a risultati molto diversi semplicemente perchè interpretano

differentemente il nesso tra verità e forma di vita, prediligendo un'aleturgia che rimanga

maggiormente legata al discorso parlato.

Il tema della vita cinica intesa come prova, come iniziazione e addestramento costante

alla vita stessa, trova nel personaggio e nel mito di Eracle il suo esempio più chiaro. Il

riferimento ad Eracle e alle sue fatiche è infatti una costante in tutta la tradizione cinica.

Questi appare come l'eroe cinico per eccellenza: miserabile, sofferente, e al tempo stesso

sempre pronto a combattere. Tutta la sua vita è una vera e propria missione, che ha come

scopo la liberazione dell'umanità dai vizi, dall'attaccamento alla ricchezza e ai falsi

saperi. Vi è tutta un'interpretazione simbolica e allegorica delle fatiche di Eracle che

Foucault richiama facendo riferimento a Dione Crisostomo40, il quale vede, ad esempio,

in Diomede la figura del tiranno crudele e ingiusto che l'eroe sconfiggerà con la sua

clava, in Gerione l'uomo insensatamente attaccato alla ricchezza e che sarà da Eracle

privato delle sue giovenche, in Prometeo, infine, la figura del sofista che sarà ricondotto

da Eracle alla giusta semplicità e naturalità. Tutto ciò è un buon esempio di come, per i

cinici, la forma dell'esempio e del racconto di vita fornisse uno degli strumenti

fondamentali per la formazione dell'ethos. L'esempio di vita infatti rappresenta una sorta

40Cfr. MICHEL FOUCAULT, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II, cit., p. 269-270

35

di lezione universale, rivolta a tutto il genere umano, ed è collocato in un contesto più

ampio di quello della formazione del discepolo da parte del maestro della scuola.

L'esempio è al centro di quella che potremmo chiamare, in un certo senso, la pedagogia

cinica, che ha almeno come aspirazione una portata universale, e ha come scopo la

formazione non di accoliti ma di uomini che dedichino la loro vita ad una certa forma di

militanza filosofica, intesa come missione, come lotta costante per la traformazione di sé

stessi e del mondo a loro contemporaneo.

E' in fondo a partire da un altro esempio storico-mitico, quello di Diogene e del suo

incontro con Alessando Magno, che incontriamo un'altra delle tematiche fondamentali

affrontate dall'operazione cinica: quella della monarchia. Abbiamo già visto, almeno in

parte, come la filosofia antica intrattenesse da sempre una relazione con questa tematica.

Questo è vero non solo per Platone e i neoplatonici, ma anche per gli stoici. Il tema della

vera vita come vita sovrana era ricorrente in tutta la loro produzione teorica, dai fondatori

greci fino a Marco Aurelio e Seneca. Per loro, il tema della monarchia si allacciava

strettamente a quello del filosofo-sovrano, cioè dell'uomo che ha preso pienamente

possesso di sé, che gode pienamente di se stesso e incontra, a partire da questa

sovrabbondanza di piacere della sua esistenza, l'esigenza di aiutare gli altri (abbiamo

visto in precedenza come in Seneca, ad esempio, quest'esigenza si esprimesse nella sua

relazione epistolare con l'amico Lucilio). I cinici ancora una volta riprenderanno, per

alterarla radicalmente, questa tematica della vera vita come vita sovrana, affermando

provocatoriamente che il cinico è l'unico vero re.

Quest'autoproclamazione di sovranità è proprio ciò che fa Diogene al cospetto di

Alessandro. Non solo, egli si autoproclama re svalutando e deridendo al tempo stesso

l'imperatore macedone e la sua "presunta" monarchia. Il regno terreno di questi, infatti, è

effimero e provvisorio, sottoposto alla mutevolezza delle contigenze storiche, ai desideri

di rivalsa dei nemici, al pericolo di tradimenti e rivolte interne. La monarchia cinica

invece è reale, effettiva, indistruttibile perchè poggia solo su se stessa. Diogene il

miserabile, il cinico che vive dentro la sua botte e non ha altro avere che una povera

scodella, incarna un ideale di sovranità tanto effettiva quanto ironica e graffiante: è un re

derisorio, nascosto, povero. Il cinico che si mostra come un mendicante, veste di stracci e

si è separato da ogni legame (e quindi, da ogni dipendenza) appare, proprio in virtù di

36

questa separazione, non solo come l'unico vero re, ma come un monarca dotato di un

potere (almeno pedagogico) universale, attraverso la forza del suo esempio, che rivela il

suo coraggio e la sua pienezza d'essere.

Appare quindi ormai chiaro come il messaggio cinico aspirasse, più di ogni altro nel

mondo antico, ad una portata universale, e non si limitasse semplicemente ad un'opera di

proselitismo (non essendo effettivamente il cinismo una scuola in senso tradizionale), ma

cercasse di convertire, attraverso una serie di pratiche e di affermazioni provocatorie,

brusche e violente, il maggior numero di persone possibile ad una vita radicalmente

altra. La vocazione universale del cinismo è altresì evidente nella considerazione che i

cinici avevano di loro stessi come "cani da guardia" dell'intero genere umano (kunos,

cane, è l'etimo da cui deriva il nome stesso del movimento) E' interessante notare, inoltre,

come la ripresa di questa figura del re nascosto, del vero monarca che però si mostra

come l'ultimo degli ultimi, sia stata fondamentale per lo sviluppo degli ordini mendicanti

e per tutto un certo tipo di spiritualità cristiana nel Medioevo.

Si è parlato, in precedenza, di come l'arte della vita cinica procedesse in direzione di una

teatralizzazione dell'esperienza di vita, in altre parole verso la sua costituzione in forma

drammaturgica. Abitare la strada e la piazza come una sorta di palcoscenico, dove si

eseguono determinate azioni in modalità molto simili a quelle che oggi potrebbero essere

considerate delle performance, sviluppare una certa forma di narrazione, attraverso gli

esempi di vita, che assume tinte decisamente drammatiche, costruire una figura tipica che

incarni gli ideali etici del cinismo, sono tutti elementi della costituzione di questa sorta di

"teatro della vita".

Il paragone tra la realizzazione di un certo stile di vita e l'arte teatrale non è stato

individuato, nella storia degli studi sulle filosofie ellenistiche e imperiali, solo in

relazione al cinismo. Mario Vegetti, ad esempio, nel suo storico volume L'etica degli

antichi, ci mostra come anche per lo stoicismo la relazione con una certa forma di

drammaturgia della vita fosse importante, soprattutto riguardo alla metafora dell'attore e

del personaggio, che rappresenta per gli stoici la distinzione tra l'uomo e la sua

manifestazione pubblica. Egli infatti afferma che: "La differenza di fondo tra il saggio

cinico e quello stoico sta in ciò, che il primo tendeva ad agire la sua provocazione, a

rappresentarsi quindi come il personaggio del saggio. Lo stoico [...]: pronto, in quanto

37

attore, ad ogni parte, nulla gli impedisce di recitare [...] anche quella del cittadino

rispettabile. [...] Lo stoico sta dunque in società come nel tempo e nel destino: rifiutando

ogni coinvolgimento emotivo, ogni estensione degli affetti, si ritrae in se stesso, si

arrocca nel presente della rappresentazione. Egli si guarda dal vivere nella relazione

sociale, si concede al proprio personaggio ma non smarrisce mai la distanza dello sguardo

che vede dall'esterno l'intreccio del dramma41". E' possibile osservare, anche grazie al

contributo di Vegetti, come la drammaturgia cinica prendesse decisamente le distanze

rispetto a quella stoica. Infatti, se quest'ultima insisteva sulla necessità di una

separazione, di una sorta di straniamento tra "l'attore e il suo personaggio", al fine di

migliorare la padronanza di sé, la drammaturgia cinica punta su un'identificazione

immediata e diretta tra il filosofo e il suo personaggio pubblico, al fine di incrementare

l'efficacia "scenica" e la forza etica del suo messaggio, che d'altra parte si esprime proprio

attraverso quest'atteggiamento performativo, più che attraverso un discorso espresso nella

forma del ragionamento.

E' infine proprio dalla drammaturgia teatrale, e dalla penna di uno dei suoi massimi

esponenti nel periodo della nascita del teatro europeo moderno, William Shakespeare, che

nasce quella che è forse la figura che incarna meglio di ogni altra la sovranità nascosta,

esiliata e mendicante del re cinico: Re Lear. E' lo stesso Foucault a farvi riferimento, in

conclusione della lezione del 21 Marzo 198442. Quella di Lear è la storia del re che perde

tutto perchè non è in grado di accettare la parresia della figlia Cordelia nella sua

schiettezza, con tutta la sua dirompente carica di umanità semplice e originaria. Il

percorso che lo porterà fino al riconoscimento della verità, attraverso l'esilio e la pazzia, è

disseminato di morte. E' una strada verso la conoscenza che passa attraverso il dolore e

l'umiliazione, che si svolge in un'ambientazione sempre ostile, notturna e fredda, o sotto

un cielo in tempesta.

Il tragico finale che si conclude con la morte di Cordelia, dello stesso Lear e di molti altri

personaggi è stato interpretato, da uno dei più grandi maestri del teatro italiano del

41MARIO VEGETTI, L'etica degli antichi, Laterza, Bari, 2007, p. 288

42Cfr. MICHEL FOUCAULT, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II, cit., p. 273, e WILLIAM

SHAKESPEARE, Re Lear, Einaudi, Torino, 1982

38

novecento, Leo de Berardinis, come qualcosa che, nella mia opinione, ha strettamente a

che fare con l'interpretazione foucaultiana della cura di sé. Rappresenterebbe infatti,

secondo il grande attore-autore, il percorso di trasformazione che un uomo deve assumere

per poter giungere alla conoscenza, lasciando necessariamente dietro di sé, lungo il

sentiero, i corpi senza vita delle precedenti versioni di se stesso43. Si troverebbe quindi,

anche in mezzo a tanta tragedia, la possibilità di un finale che lascia spazio al riscatto e

all'eruzione della verità, pur senza la consolazione di una catarsi. Questo sembra davvero

molto vicino all'interpetazione foucaultiana della parabola di Lear nella lezione

sopracitata, ed è piuttosto sorprendente che due uomini tanto diversi e lontani, che hanno

avuto vite e formazioni così distanti, siano giunti a conclusioni così simili.

Shakespeare e Lear ci conducono verso un nuovo orizzonte di analisi della forma di

verità cinica, quell' aletheia che si lega in modo così stretto alla forma di vita: l'orizzonte

della modernità. Secondo Foucault infatti, il cinismo non è semplicemente un movimento

storico appartenuto alla filosofia antica, ma una categoria etica trans-epocale. L'eredità

del cinismo antico è stata raccolta, secondo lui, da varie forme di esperienza di vita

radicalmente altra, esperimenti di costruzione di bios alternativi, che lasciassero spazio,

nella pratica di vita, alla manifestazione di una verità scandalosa. Se nel Medioevo si

trovano tutta una serie di movimenti spirituali e ordini mendicanti che al cinismo devono

molto della loro radicale dirompenza, nella modernità le due forme di espressione della

verità cinica saranno la pratica di vita rivoluzionaria e l'arte moderna. E' proprio di

quest'ultima, in relazione alla sua componente etica, che vorrei occuparmi nell'ultimo,

breve capitolo di questo lavoro.

43Cfr. King LeoR, un documentario girato nel 1996 durante le prove dello spettacolo King Lear n° 1 e fatto circolare

su YouTube, sotto licenza Creative Commons, dal produttore Raffaele Rago e dal gruppo di registi (Emiliano Battista,

Patrizia Stellino, Silvia Storelli) che lo ha realizzato.

39

La verità selvaggia

Considerare il cinismo come una categoria etica tans-epocale vuol dire, come si è visto,

considerarlo innanzitutto come un certo tipo di atteggiamento, di disposizione etica nei

confronti della verità, piuttosto che come un insieme dottrinario coerente. E' nella lezione

del 29 febbraio 1984 che Foucault tenta di abbozzare alcune ipotesi sulla posterità del

cinismo44. Tali ipotesi sono formulate in vista di possibili studi e approfondimenti a

venire, e non saranno riprese nelle lezioni successive che si concentreranno invece sul

problema della vera vita nel cinismo antico. Foucault si chiede come mai i testi cinici, di

cui sicuramente esisteva una grande quantità nel mondo antico, siano andati quasi

completamente perduti. Quella cinica è, in un certo senso, una dottrina scomparsa.

44Cfr. MICHEL FOUCAULT, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II, cit., p. 175-185

40

Questo è sicuramente dovuto in parte alla rozzezza e alla rudimentalità dell'intelaiatura

teorica del cinismo, che non ne ha favorito la trasmissione in forma scritta, ma anche e

soprattutto al fatto che il cinismo si è trasmesso fondamentalmente come un

atteggiamento e un modo di essere (un bios), attraverso l'esempio diretto.

Ebbene, affrontare la storia del cinismo come lo studio della tramissione di un bios,

implica, sul piano metodologio, che: "se accettassimo di esaminare la lunga storia del

cinismo - si tratta qui di un'ipotesi, di un lavoro possibile - a partire da questo tema della

vita come scandalo della verità (il bios come aleturgia), potremmo, mi sembra, rendere

visibili una serie di temi e seguire un certo numero di piste"45. Queste piste sono le

esperienze che, all'interno della cultura occidentale, si sono fatte portatrici di un modo di

intendere l'arte della vita come manifestazione della verità, modo che deriva direttamente

dal cinismo antico. Foucault ne individua tre: l'ascestismo di matrice cristiana (soprattutto

in relazione all'ordine dei francescani) con tutto il suo portato di pratiche di povertà, di

spoliazione dai beni materiali, di ricerca della miseria e dell'umiliazione; il militantismo

rivoluzionario del XIX e del XX secolo, che non è stato solo un progetto politico ma

anche, esprimendosi spesso in rotture molto violente verso la società, una scandalosa

forma di vita; e tutta l'esperienza dell'arte moderna. Quest' ultima, a partire almeno dalla

fine del XVIII secolo, si configura come un campo d'espressione di una verità che è

radicata in una particolare forma di vita: la vita da artista.

Precedentemente al sorgere della modernità, fino al Rinascimento, all'arte era ancora

attribuita una funzione imitativa nei confronti della natura e, più in generale, della realtà.

Anche dopo il XVIII secolo continueranno ad esistere correnti imitative, ma a queste

inizieranno a sovrapporsi, e lentamente a sostituirsi, movimenti che interpretano invece

l'arte come luogo di emersione di una verità scandalosa. Una verità che non ha nulla a che

fare col criterio di verosimiglianza, e riguarda piuttosto gli aspetti nascosti, rimossi della

realtà, e la sua riduzione violenta ad una dimensione elementare e originaria. Foucault

cita come esempi a riguardo Manet, Flaubert e Baudelaire. Costoro inoltre, così come

molti altri artisti a loro contemporanei, tornarono ad affermare, sia nella pratica che nella

teoria, il principio cinico per cui la vita stessa è il banco di prova della verità. La vita

45MICHEL FOUCAULT, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II, cit., p. 177

41

dell'artista diventa in questo senso una sorta di "cartina tornasole", attraverso la quale è

possibile verificare se la sua opera attenga effettivamente al campo della vera arte. Di

rimando, sarà solo la vera arte a poter conferire ad una determinata esistenza una certa

forma di vita vera e autentica. Se già nelle epoche precedenti la vita dell'artista era spesso

stata considerata una vita tendente all'eccesso e allo scandalo, è a partire dalla modernità

che si afferma, in modo irreversibile, il legame tra lo scandalo della vita dell'artista e lo

scandalo della sua opera.

Si può quindi osservare come nella modernità l'arte si configuri come luogo di emersione

di un mondo "basso", di tutto ciò che è considerato inferiore, indigesto e inaccettabile, di

tutto ciò che normalmente non ha il diritto di esprimersi all'interno di una società. Francis

Bacon, Burroughs e Beckett sono gli esempi che Foucault cita a proposito di questo

carattere ctonio e "infernale" dell'arte. Si capisce come l'arte moderna risulti essere spesso

così aggressiva, violenta e provocatoria rispetto alle istituzioni culturali, ai canoni

estetici, a tutta una serie di valori sociali comunemente accettati (Foucault la definisce, in

questo senso, antiplatonica): ciò è funzionale alla sua possibilità espressiva, e riguarda la

sua stessa natura di modalità cinica e parresiastica di verità. Si potrebbe affermare, in un

certo senso, che essa rappresenti una sorta di "ritorno del rimosso" proveniente

dall'inconscio collettivo di una comunità. Certo è che l'arte si trova ad assumere, nella

modernità, un ruolo decisamente anticulturale: "Bisogna contrapporre, al consenso della

cultura, il coraggio dell'arte nella sua barbara verità. l'arte moderna è il cinismo nella

cultura, è il cinismo della cultura che si rivolta contro sé stessa46".

Joseph J. Tanke, nel suo volume intitolato Foucault's philosophy of art, tenta di

riprendere e sviluppare le intuizioni foucaultiane a proposito dell'arte moderna come

erede del cinismo. Ciò che mi sembra davvero utile e importante, in primo luogo, a

proposito di questo volume ancora inedito in Italia, è l'intento di inserire il discorso di

Foucault sull'arte all'interno del tentativo, da parte del filosofo francese, di costruire

un'ontologia critica del presente. Ci troviamo insomma, ancora una volta, davanti ad un

oggetto d'indagine verso il quale Foucault non era mosso certamente da un mero intento

ermeneutico. La posta in palio, nell'interpretazione foucaultiana dell'arte moderna, non è

46MICHEL FOUCAULT, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II, cit., p. 185

42

tanto quella di un'analitica della verità; si tratta invece di considerare l'arte come un

campo di indagine privilegiato per ciò che costituisce il nostro ethos, per le linee di

rottura e di cambiamento che attraversano la nostra società, insomma per l'ontologia di

noi stessi e dell'attualità47.

Tanke mostra come l'interesse di Foucault per Baudelaire derivasse anche dal fatto che il

grande poeta avesse compreso e assunto in pieno, in un'epoca in cui la poesia cominciava

a staccarsi dalle strette canonizzazioni cui era stata fino a quel momento sottoposta, la

sfida che la modernità poneva a quel tempo, e pone tuttora, all'artista e all'uomo in

generale. La modernità consegna (o forse ri-consegna) all'uomo la sfida di auto-costruirsi,

di auto-prodursi come soggetto etico. Baudelaire incoraggiava gli artisti a coltivare le

loro capacità di ascolto e osservazione, di ricerca soggettiva della bellezza all'interno di

ogni possibilie sfaccettatura del reale. Riguardo alla sua personalissima estetica, e alle sue

affermazioni spesso provocatorie, Tanke aggiunge che: "Le argomentazioni di Baudelaire

possono essere viste come una rottura rispetto all'irreggimentato sistema delle belle arti in

favore di un'estetica romantica basata sulla riconciliazione dell'eterno e del transitorio.

Ma rappresentano anche, come spiega Foucault, qualcosa che ci ricorda che la

trasformazione di se stessi e della società inerente alla nozione di modernità può essere

prodotta solo in un altro, differente spazio, che Baudelaire chiama arte48". L'arte quindi, e

non la politica, si presenta come spazio etico privilegiato per l'autocostruzione critica del

soggetto moderno.

Lo studioso americano ci ricorda inoltre come l'approccio di Foucault (e anche il suo) al

problema dell'arte moderna possa essere considerato sia genealogico che archeologico.

Genealogico perchè rifiuta qualsiasi teleologia, e cerca sempre di concepire la storia

dell'arte come una complessa tela i cui nodi sono collegati l'un l'altro in una sequenza

non-lineare; piuttosto che come un racconto che tenti di individuarvi una determinata

progressione in vista di una qualche finalità. La genealogia, infatti, tenta di mostrare

come ciò che in una determinata epoca si pone come verità assoluta e auto-evidente, sia

47Cfr. JOSEPH J. TANKE, "Introduction", Foucault’s philosophy of art. A genealogy of modernity, cit., in particolare

p. 2-5

48JOSEPH J. TANKE, Foucault’s philosophy of art. A genealogy of modernity, cit., p. 3-4, la traduzione è mia.

43

in realtà storicamente determinato. Archeologico perchè si propone di interpretare le

singole opere come "eventi", come operatori che rompono, trasformano o proseguono

certe convenzioni e regole che li precedono. Nell'ottica archeologica e genealogica, ciò

che importa rispetto ad un "evento artistico" non sarà tanto di stabilire ciò che esso

significhi in se stesso, quanto di comprendere cosa il suo accadimento abbia comportato,

come sia intervenuto nella società e nel contesto che ne hanno visto la nascita. Molto

spesso infatti, le varie ondate dell'arte moderna partiranno proprio dal rifiuto radicale di

tutto ciò che le ha precedute a livello di regole e convenzioni, anche e soprattutto rispetto

ai movimenti immediatamente precedenti (è quello che Foucault chiamerà il carattere

antiaristotelico dell'arte moderna).

Un altro merito del saggio di Tanke, a mio avviso, è quello di aver evidenziato come, in

un'ottica genealogica, la modernità appaia fondamentalmente incompatibile con il

paradigma della rappresentazione. Riferendosi soprattutto alla pittura viene mostrato

come, a partire da Velazquez (Las Meninas), passando per Manet e Magritte (Ceci n'est

pas une pipe), quella operata dalla modernità possa essere considerata una vera e propria

rottura epistemologica di questo paradigma, in direzione di qualcosa che si potrebbe

definire come post-rappresentazione. Questo nuovo paradigma, che mira a creare uno

spazio completamente fittizio ed autonomo per l'opera d'arte, è stato istituito a partire

dall'impiego di differenti espedienti tecnici e, per così dire, "linguistici": l'incorporazione

nel dipinto delle sue stesse condizioni di rappresentazione, da parte di Manet (ed ecco

quindi l'evidente piattezza delle sue tele e la grezza materialità dei suoi colori); e

l'eliminazione, operata da Magritte, di ogni riferimento dell'opera al mondo ed al contesto

esterni ad essa, attraverso un uso innovativo della similitudine. Mediante l'utilizzo di

questi espedienti, l'opera istituisce uno spazio in cui le convenzioni linguistiche ed

estetiche che governano la quotidianità vengono sospese.

Se è vero dunque che l'arte post-rappresentativa accade in uno spazio altro, differente

rispetto alla realtà, questo non vuol dire che essa non possa rappresentare, proprio

attraverso il suo gesto di rottura, un veicolo di critica. Infatti, proprio a partire da questa

radicale rottura operata nei confronti della verosimiglianza, sorge la necessità, per l'arte,

di riattualizzare una forma molto antica di verità: quella della parresia. Non più il mondo

esterno, ma il soggetto, il suo stile di vita, il suo personale percorso di askesis, diventano

44

il luogo in cui ricercare e individuare l'autenticità di una pratica artistica. Tanke afferma a

riguardo: "[...] la forma di verità propria dell'arte moderna è la riattualizzazione del nesso

tra askesis e parresia. [...] Questo ci permette di comprendere come l'arte moderna -

nonostante il fatto che in molti casi essa non affermi più nulla di esterno a se stessa -

possa nonostante ciò rimanere un veicolo di critica49".

Appare piuttosto chiaro quindi, alla luce dell'analisi di Tanke, come l'interesse che mosse

Foucault verso artisti tanto diversi come Magritte, Manet e successivamente Wharol e

Fromanger fosse un interesse soprattutto etico: egli aveva individuato, nel loro modo di

fare arte, qualcosa che riguardava da vicino il nostro modo di essere e di comportarci

oggi, degli elementi per una possibile ontologia critica del presente. Questo spiegherebbe

anche il perchè, in fondo, Foucault fosse piuttosto restio a introdurre in campo artistico

distinzioni tra modernità e post-modernità, e tendesse piuttosto a considerare tutti questi

artisti come appartenenti ad un unico orizzonte, quello post-rappresentativo, che è un

piano più inerente all'etica che non alla critica artistica.

La riattualizzazione della forma di verità antica all'interno del mondo moderno appare

certamente, almeno in parte, paradossale: abbiamo visto infatti che per la modernità, e in

particolare per la modernità filosofica, la comprensione della verità si basa proprio

sull'autoevidenza del soggetto rispetto a se stesso, sulla sua identità con se stesso,

sull'espulsione, dalla sfera della verità, del problema della trasformazione di sé e della

spiritualità. Ed ecco quindi che, all'interno di questo contesto, troviamo l'arte ad assumere

su di sé non semplicemente la riattualizzazione dell'antico nesso tra askesis e parresia,

ma anche la sua manifestazione in forma cinica, cioè nella forma della costruzione di uno

stile d'esistenza che sia direttamente ed immediatamente espressione di una verità: la

verità dell'arte.

Del resto il tema della vita da artista da intraprendere come un cammino di askesis, come

un processo di autoperfezionamento, un minuzioso e costante lavoro di costruzione di

uno stile di vita che sia esso stesso un'opera d'arte, lo si ritrova nelle affermazioni di

moltissimi artisti appartenenti a varie epoche della modernità. In tempi relativamente

recenti, ad esempio, è divenuto celebre un motto di Carmelo Bene, secondo il quale:

49JOSEPH J. TANKE, Foucault’s philosophy of art. A genealogy of modernity, cit., p. 11, la traduzione è mia.

45

"Basta, non il produrre dei capolavori... Bisogna essere dei capolavori!50". Carmelo Bene

fece spesso riferimento, in vari interventi, ad una concezione del lavoro teatrale secondo

la quale l'artista deve occuparsi innanzitutto del suo stile, della sua vocalità e della sua

corporeità, piuttosto che del personaggio o del testo, intraprendendo un lavoro di

trasformazione di sé che darà poi come risultato, possiamo dire, "collaterale", la

creazione di singole opere51. L'artista, il suo percorso di vita, sono in un certo senso come

la crescita di una pianta, e le opere sono come i frutti che cadono, spontanemente, dalle

sue fronde. Un processo, questo, che non ha nulla a che fare con un'infantile

idealizzazione romantica del sé, ma rappresenta invece un processo produttivo di se stessi

come opera d'arte.

La verità manifestata dall'arte, ci ricorda Tanke, non è semplicemente una critica portata

nei confronti di una forma specifica, sia essa pittura, letteratura, teatro, musica o cinema.

Tutt'altro, essa travalica gli steccati formali e impatta sulla sfera sociale nel suo

complesso, perchè non si rivolge soltanto alle convenzioni e alle regole strettamente

artistiche, ma a tutto l'orizzonte valoriale ed etico di un'epoca, proprio in virtù di questo

suo legame così forte col bios. Questo è il reale obiettivo della riduzione anti-platonica

operata dall'arte moderna, in quanto forza anticulturale: l'affermazione di un'etica della

verità coraggiosa e selvaggia. Allo stesso modo, è anche importante ricordare che il

cinismo si trova, rispetto all'arte, nella posizione di una cornice etica di riferimento, di un

sostrato che sostiene tutte le diverse attività artistiche indipendentemente dalle tematiche

affrontate nelle singole opere. Il cinismo dell'arte moderna è qualcosa che riguarda la sua

stessa modalità produttiva, la forma di verità in essa affermata, e non il suo contenuto.

Per questo, la presenza o meno di contenuti considerati tradizionalmente come "cinici"

all'interno di un'opera, non è rilevante al fine di determinare la sua appartenzenza al

cinismo come categoria etica.

Nel lavoro di Manet, secondo Foucault, si possono trovare già tutti i caratteri di un'arte

polemica e pienamente cinica, in quanto la sua indifferenza per i canoni estetici

50Citazione tratta dall'apparizione di Carmelo Bene al Maurizio Costanzo Show del 27 giugno 1994.

51Cfr. Quattro momenti su tutto il nulla, di C.B. per Rai Due palcoscenico, anno di produzione 2001. Carmelo Bene

era solito firmare le sue opere teatrali e cinematografiche con le sole iniziali del suo nome: C.B.

46

precedenti rappresenta immediatamente anche una critica verso la società. La sua

insistenza sulla materialità e la piattezza della tela, il suo rifiuto di creare uno spazio

conforme ai canoni della "realtà", sono istanze che hanno potuto affermarsi solo

attraverso il coraggio della rottura, attraverso una critica che si rivolge verso ciò che l'ha

preceduta e verso il contesto culturale che ha visto nascere ogni singola opera. In questo

senso, proprio come la parresia antica, l'arte moderna assume su di sé il rischio di

offendere, di ferire, di minare alle base la relazione stessa che le ha permesso di venire

alla luce: quella tra l'artista e il suo pubblico.

Si è visto in precedenza come, per i filosofi cinici dell'antichità, la ricerca della parresia

tendesse verso un comportamento performativo, incorporando in questo modo un aspetto

fortemente visivo. Così, il loro atteggiamento etico spinse il legame tra forma di vita e

parresia ben oltre la semplice corrispondenza (com'era stato, ad esempio, per Socrate), e

verso il campo inesplorato della costruzione del bios come manifestazione immediata

della verità. Il linguaggio, le parole con tutte le loro insidie e tortuosità, non erano più

sufficienti per l'opera di violenta riduzione che essi intendevano compiere rispetto alla

vera vita. Lo stesso tipo di operazione, con lo stesso tipo di modalità, è quello che l'arte

moderna compie rispetto ai canoni estetici. Questo esige, da parte dell'artista, lo stesso

tipo di passione, di compromissione con il suo lavoro, di rischio personale, di esposizione

della sua vita in tutti i sensi (emotivo, intellettuale, etico ed estetico), che il modo di vita

cinico richiedeva nell'antichità a chi ad esso si approcciava. Vi è quindi, anche in questo

caso, un prezzo personale molto alto da pagare, se si vuole accedere alla parresia. Si

tratta, in entrambi i casi (come si tratterà sempre, nelle varie forme assunte dal cinismo

come categoria etica trans-epocale), di: "[...] riempire la divaricazione tra bios e logos in

modo da rendere il logos operativo nella vita come un principio permanente e attivo52".

In conclusione di questo breve lavoro, vorrei sottolineare quanto mi sembri importante il

contributo dato da Foucault, e sviluppato da Tanke, nel riportare il dibattito sull'arte

moderna in un contesto più ampio, dove questo possa finalmente liberarsi da un eccessivo

formalismo e ritrovare i legami con le altre esperienze fondamentali per la costituzione di

quel complesso e contraddittorio campo di forze chiamato modernità, e dei soggetti

52JOSEPH J. TANKE, Foucault’s philosophy of art. A genealogy of modernity, cit., p. 187, la traduzione è mia.

47

umani che lo abitano. Questo consente, in primo luogo, di riavvicinare la pratica delle

belle arti ad un'altra arte: quella dell'etica, della costruzione del sé. Ci permette, inoltre, di

riportare al centro dell'orizzonte contemporaneo e della scena pubblica una verità critica e

scandalosa, come quella contenuta nell'arte moderna, semplicemente spostando

leggermente il nostro punto di vista nell'osservazione di essa. Così come i filosofi cinici

(in un periodo in cui la pratica della parresia si andava richiudendo e perimetrando

sempre di più all'interno di contesti sociali ristretti e cortigiani) riportarono

violentemente, visibilmente, sulla piazza e sulla strada questa verità selvaggia, allo stesso

modo l'arte moderna porta con sé la carica di una detonazione etica sempre possibile,

sempre da rinnovare, sempre da ricostruire.

Infine, attraverso lo studio della cura di sé, del parlar-franco, e per ultimo del cinismo

come categoria etica trans-epocale, mi sembra che sia possibile individuare, in tutta

l'ultima parte dell'opera di Foucault, la tensione verso la costituzione di una nuova

modalità di auto-soggettivazione, di costruzione del sé in rapporto alla verità. Questa

modalità, che evidentemente riscopre nella modernità un legame sotterraneo con i suoi

antenati antichi, cerca di costruire una libertà tutta terrena, tutta situata nel presente, che

pur prevendendo sempre un orizzonte collettivo per la sua attuazione, non ricada mai

nelle trappole della "politica organizzata", situandosi piuttosto su di un piano etico.

Questa modalità rappresenta, al di là di tutto, una costante ricerca della propria interiorità,

dell'apertura nei confronti dell'altro e insieme una forma di insegnamento, un legame tra

le anime necessario perchè ognuna possa tendere al proprio sviluppo: la base perchè

possa sorgere (o forse risorgere?) quella "psicagogia" che Foucault aveva tanto auspicato.

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VEGETTI M., L'etica degli antichi, Laterza, Bari, 2007

49

Indice dei nomi

Agostino d'Ippona, 14

Alessandro, imperatore macedone 34, 35

Bacon, Francis, 40

Baudelaire, Charles, 40-42

Beckett, Samuel, 40

Bene, Carmelo, 44 e n

50

Burroughs, William, 40

de Berardinis, Leo, 37

Descartes, René, 9

Diogene di Sinope, 30, 31, 33-35

Diogene Laerzio, 30 e n, 31, 32 n

Dione Crisostomo, 34

Dionigi, tiranno di Siracusa, 25

Epicuro, 20

Epitteto, 30

Filodemo di Gadara, 20

Flaubert, Gustave, 40

Foucault, Michel, 3-6 e n, 8-12 e n, 14 n, 15, 16, 17 e n, 18, 19-21 e n, 22, 23-30 e n, 31 n, 32 n, 37 e n, 38, 39 e n, 40,

41 e n, 42-46

Fromanger, Gerard, 43

Giuliano, imperatore romano, 30

Isocrate, 25, 26 e n

Lorenzini, Daniele, 27, 28 n

Manet, Edouard, 40, 42, 43, 45

Magritte, René, 42, 43

Marco Aurelio, imperatore romano, 11, 12 n, 34

Nicocle, principe di Salamina di Cipro, 26

Nussbaum, Martha, 4, 5 n, 13 e n, 15

Platone, 10 e n, 11, 14 n, 25, 26 n, 29

Proclo Licio Diadoco, 10 e n

Seneca, Lucio Anneo, 20 e n, 21 n, 34

Shakespeare, William, 37 e n

Socrate, 5, 10, 26, 27, 45

Spinoza, Baruch, 29 e n

Tanke, Joseph J., 6 e n, 41-43 e n, 44, 46 e n

Vegetti, Mario, 36 e n

Velazquez, Diego, 42

Wharol, Andy, 43