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1 PASQUALE MELISSARI LAVORO DIRITTI TUTELE

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Il volume consiste nella proprosta, nell'articolazione e prova dell'anello tetralogico. Tale teorie viene applicata al Diritto del lavoro, partendo dal concetto di lavoro.

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Page 1: Lavoro Diritti Tutele

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PASQUALE MELISSARI

LAVORO DIRITTI

TUTELE

Page 2: Lavoro Diritti Tutele

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Copyright Pasquale Melissari - Tutti i diritti sono riservati - 2009

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Pasquale Melissari

LAVORO DIRITTI TUTELE “........Un idea buona è veramente rara. E

questa nasce da mucchi di idee

uccise.........”

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INDICE

Introduzione Premessa - Prima dell’inizio - L’anello tetralogico

Capitolo I – Lavoro 1.1 – Il concetto 1.2 - Lavoro come ricerca del suo fondamento 1.3 - Valore assoluto o valore relativo del lavoro Capitolo II – Diritti 2.1 – Il metodo analitico e il metodo creativo: la flessibilità 2.2 – Ius faber 2.3 – Diritto del lavoro autonomo o subordinato 2.4 – Diritto del lavoro liberato o vincolato 2.5 – L’organizzazione sistematica della disciplina: la struttura Capitolo III - Tutele 3.1 – Le entropie del mercato del lavoro 3.2 – Impresa e mercato: gestione delle risorse umane e innovazione tecnologica 3.3 – la tutela tra norme elastiche e tipi flessibili 3.4 – Il ruolo del sindacato 3.5 – Le sintropie del mercato del lavoro: il lavoro sommerso 3.6 - L’anello tetralogico e la logica fuzzy: i principi della teoria e l’applicazione al diritto del lavoro. Appendice 1 - La teoria degli insiemi fuzzy

2 - Definizioni e proprietà della fuzzi logic Bibliografia Bibliografia sulla fuzzy logic

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Introduzione

Le scienze sociali hanno dovuto acquisire dalle scienze strutturate e

tecnicamente più avanzate, quali fisica, matematica, genetica, biologia e informatica, il

quadro di riferimento della loro attività, volta più all'individuazione di modelli

funzionali che a descrizioni fenomenologiche, a indagini strutturali più che a soluzioni

critiche, per offrire risposte ai problemi posti dalle società complesse.1

Il punto di partenza della teoria che in questo scritto viene enunciata è la sintesi

di una global theory, una teoria "universale", capace di dar conto non del singolo

evento sul piano della composizione articolata delle forme dell’essere, bensì dei

fondamenti utili per ogni disciplina sociale ed in particolar modo per “vedere” il

principio attivo dell’essere quale fenomeno evolutivo.

Infatti, l’interazione tra l’essere e il suo manifestarsi in quanto tale (cfr. la

forma) non è altro che l’interazione tra l’essere e il dover-essere. I limiti ci sono ben

chiari: ciò che noi vediamo ad esempio non è tanto l' evoluzione, quanto la ricostruzione

che noi facciamo del fenomeno evolutivo: l'osservatore non può essere separato dalla

osservazione.

Ma nonostante questo, non si scivola nel dubbio. Infatti, la ricostruzione ci dà

sempre una interpretazione del reale, che ha punti forti, che ci spingono ad una

riflessione ontologica.

L'evoluzione dell’anello tetralogico e, quindi, dell’essere, quale valore entropico,

è un universale che emerge dallo studio della struttura dell'essere ed è, perciò, un

universale ontologico che deve essere considerato da qualunque riflessione seria in tema

di creazione del valore sintropico.

Le scienze strutturate divengono “mimesis” della realtà e l’anello tetralogico

imita la realtà solo nella misura in cui la ricrea attraverso forme sintropiche: il mhutos,

il valore.

Questo libro consiste perciò nella proposta, nell’articolazione e prova della

teoria dell’anello tetralogico, primum movens.

Questa teoria ci consente di costruire il dover-essere/diritto del lavoro,

attraverso l’essere/lavoro.

Si sostiene che i valori nascono dalle idee e queste idee vengono razionalizzate e

si ha una razionalizzazione diffusa.

Questo fenomeno di razionalizzazione diffusa spiega che i diritti tendono a

crescere, man man che il lavoro assume forme sempre più diverse e complesse e perciò

sono necessarie forme di tutela diverse.

L’individuo è libero, ma è condizionato dalle strutture sociali che costruisce ed

attraverso queste si evolve.

Riprendendo un concetto caro a Durkeim e Weber, l’individuo diventa

depositario e fonte dei valori.

1 LUHMANN NIKLAS, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale.Bologna, Il Mulino, (Collezione di testi e di studi), 2001.

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Principi, valori, c’è un elemento conduttore, potremmo dire un DNA, che

congiunge il lavoro, i diritti e le tutele e questo è l’anello tetralogico che costituisce “la

catena del valore” di ogni organizzazione e, quindi, anche dell’ordinamento giuridico.

Probabilmente alla fonte della crescita dei diritti vi è anche una crescita di

bisogni.

La crescita dei bisogni nasce dal fatto che l’essere umano si caratterizza per una

serie di coordinate, ma anche di incognite.

Infatti, quando si crea un nuovo bisogno si pone l’esigenza di nuove regole.

Allora abbiamo da un parte l’apertura verso l’idea regole e quindi verso una

dimensione giuridica del concetto di bisogno e di valore.

Per misurare il grado di incertezza dovuta all’instabilità e alla mancanza di

garanzie dei modelli culturali, abbiamo utilizzato la logica fuzzy, con l’intento di fornire

all’interprete del fenomeno giuridico, conoscenze polivalenti di base, necessarie per

cooperare, diagnosticare, risolvere le entropie del diritto del lavoro.

Pertanto, anticipiamo fin d’ora il lettore che in alcuni casi l’uso dei termini

giuridici, ha significati diversi per la procedura di astrazione realizzata da altre

discipline.

Il libro, quindi, dopo una prima parte dedicata alla teoria dell’anello tetralogico,

è stato suddiviso in tre parti, corrispondenti a ciascun argomento che costituisce la

catena del valore (lavoro, diritti, tutele).

Se sarò riuscito a trasmette al lettore la mia convinzione, che il diritto del lavoro

vive un mutamento radicale, questo libro avrà conseguito il suo obiettivo.

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Premessa

Prima dell’inizio: l’anello tetralogico

La matrice fondamentale del pensiero "razionale" moderno è che la scienza

consiste nell’idea di poter disporre di un Metodo in grado di costruire un percorso ordinato di pensieri ed esperienze e garantire con cristallina evidenza la Verità delle varie acquisizioni, pensate come una successione crescente verso la conquista definitiva di una conoscenza assoluta e incontrovertibile2.

Però tale concezione viene meno quando ci si è accorti che la visione di complessità suggerisce un approccio al problema della conoscenza radicalmente diverso da quello tradizionale.

In effetti vi è piuttosto l’esigenza di utilizzare strategie di pensiero multi-dimensionali, un frame-work concettuale generale che riguarda la necessità di un utilizzo dinamico di modelli diversi per connettere a vari livelli teorie, dati, problemi e significati.

Infatti non c'è più una realtà esterna fissa da rappresentare mediante l'uso mono-

dimensionale di un modello unico ricavato da principi di partenza assoluti secondo uno schema lineare e dicotomico, infatti “..ogni parola o concetto, per chiari che possano

sembrare hanno soltanto un campo limitato di applicazione..”3 .

Il sistema della conoscenza è caratterizzato da un processo di auto-organizzazione delle informazioni che procede per successivi anelli di retro-azione, dai risultati ai principi, attraverso una pluralità di modelli, modificando via via gli uni e gli altri, in una progressiva "costruzione" della realtà4.

Infatti nel bagaglio della conoscenza scientifica, convivono le intuizioni della fisica evolutiva (l'entropia, l'irreversibilità, la complessità) con la rigorosità scientifica dell'approccio matematico5.

2 “……La conoscenza razionale è ricavata dall’esperienza che abbiamo degli oggetti e degli eventi del nostro ambiente quotidiano. Essa appartiene al campo dell’intelletto, la cui funzione è quella di discriminare, dividere, confrontare, misurare e ordinare in categorie. In tal modo si producono un gran numero di distinzioni intellettuali, di opposti che possono esistere solo l’uno in rapporto all’altro; per questa ragione i Buddhisti definiscono “relativo” questo tipo di conoscenza. L’astrazione è una caratteristica tipica i questa conoscenza, perché per poter confrontare e classificare l’immensa varietà di forme, di strutture e di fenomeni che ci circondano, non si possono prenderne in considerazione tutti gli aspetti, ma se ne devono scegliere solo alcuni significativi. Perciò si costruisce una mappa intellettuale della realtà nella quale le cose sono ridotte ai loro contorni. La conoscenza razionale è pertanto un sistema di concetti astratti e di simboli, caratterizzata dalla struttura lineare e sequenziale tipica del nostro modo di pensare e parlare……. Il mondo naturale, d’altra parte, è un mondo di varietà e complessità infinite, un mondo multidimensionale che non contiene né linee rette né forme perfettamente regolari, nel quale le cose non avvengono in successione ma tutte contemporaneamente; un mondo in cui, come ci insegna la fisica moderna- persino lo spazio vuoto ha una curvatura. E’ chiaro che il nostro sistema astratto di pensiero concettuale non potrà mai descrivere o comprendere questa realtà nella sua complessità…..” F. CAPRA Il Tao della fisica Ed. Adelphi 2002 pag. 31. 3W. HEISEMBERG Fisica e filosofia, Il Saggiatore, Milano 1961, p.126. 4 Un contributo decisivo per questa linea di pensiero che intreccia risultati sperimentali e problematiche epistemologiche hanno dato le ricerche di W.Mc Culloch, J. Piaget, H. Von Foerster, G. Bateson, H. Maturana, F. Varela ed H. Atlan. 5 BATESON G., Mente e natura, Adelphi, Milano 1984. Bateson G., Verso un'ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976 Prigogine I. e Stengers I., Tra il tempo e l'eternità, Bollati Boringhieri, Torino 1989. PRIGOGINE I., "Dissipative processes in quantum theory", Physics Report, vol. 219, 1992, pp. 93-108. PRIGOGINE I., Introduction

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Una teoria è fondata su un insieme di assunti (o concetti) che stanno alla base di una serie di conclusioni correlate tra loro in modo logico

Assunti diversi, conducono a teorie diverse. Nella teoria un certo insieme di assunti (o concetti) fondamentali è sotteso a una

moltitudine di teorie, si afferma che queste teorie rientrano in una particolare prospettiva o paradigma6 .

Una teoria è quindi una spiegazione, o meglio un tentativo di spiegare un certo

segmento di esperienza del mondo. L’oggetto specifico che la teoria intende spiegare è chiamato fenomeno di

interesse. I concetti sono categorie che servono a suddividere, organizzare e accumulare le esperienze. Sono idee che nascono attraverso il processo di astrazione. Il processo di astrazione è molto efficace e potente, ma via via che definiamo con

maggior precisione il nostro sistema di concetti, che lo rendiamo più efficiente e ne stabiliamo le connessioni interne in misura sempre più rigorosa, esso si distacca sempre di più dalla realtà.

Il pericolo è quello di creare un modello verbale, dove i concetti possono essere compresi intuitivamente, ma che sono sempre imprecisi ed ambigui.

Da questo punto di vista essi non differiscono dai modelli filosofici della realtà, con cui è possibile metterli a confronto.

to Thermodynamics of Irreversible Processess C.C.Thomas, Springfield 1954. PRIGOGINE I., MOA lecture, Giappone, maggio 1994: Coming Together of Western and Eastern Points of View on Science and Nature. 6 “…..La transizione da un paradigma in crisi ad uno nuovo, dal quale possa emergere una nuova tradizione di scienza normale, è tutt’altro che un processo cumulativo, che si attui attraverso un’articolazione o un’estensione del vecchio paradigma. […]Questi esempi ci guidano verso il terzo e più fondamentale aspetto dell’incommensurabilità tra paradigmi in competizione. In una maniera che sono incapace di spiegare ulteriormente, i sostenitori di paradigmi opposti praticano i loro affari in mondi differenti. […] I due gruppi di scienziati vedono cose differenti quando guardano dallo stesso punto nella stessa direzione. Ciò però, vale la pena ripeterlo, non significa che essi possano vedere qualunque cosa piaccia loro. Entrambi guardano il mondo, e ciò che guardano non cambia. Ma in alcune aree essi vedono cose differenti, e le vedono in differenti relazioni tra loro. [...].Per la stessa ragione, prima che possano sperare di comunicare completamente, uno dei due gruppi deve far l’esperienza di quella conversione che abbiamo chiamato spostamento di paradigma. Proprio perché è un passaggio tra incommensurabili, il passaggio da un paradigma ad uno opposto non può essere realizzato con un passo alla volta, né imposto dalla logica o da un’esperienza neutrale. Come il riordinamento gestaltico, esso deve compiersi tutto in una volta (sebbene non necessariamente in un istante), oppure non si compirà affatto. […] Il trasferimento della fiducia da un paradigma a un altro è un’esperienza di conversione che non può essere imposta con la forza. ….” T.KUHN La struttura delle

rivoluzioni scientifiche 1961, trad.it.1995. Kuhn si è reso conto che il cammino della scienza procede non per accumulazioni, secondo una crescita continua, ma attraverso rivoluzioni . Le rivoluzioni, però, rappresentano soltanto momenti di eccezione rispetto a quella che egli chiama scienza normale , ossia una pratica di ricerca " stabilmente fondata su uno o più risultati raggiunti dalla scienza del passato, ai quali una particolare comunità scientifica, per un certo periodo di tempo, riconosce la capacità di costruire il fondamento della sua prassi ulteriore ". La scienza normale è, dunque, caratterizzata da un consenso sulla validità di questi risultati, i quali vengono ad assumere la veste di paradigmi , ossia di modelli che determinano quali sono i problemi e i metodi legittimi e danno, quindi, origine e tradizioni di ricerca scientifica. I paradigmi non sono regole rigide, ma devono avere due caratteristiche: devono essere abbastanza nuovi da attrarre un gruppo stabile e sufficientemente ampio di seguaci, distogliendoli da forme di attività scientifica che contrastino con essi e devono essere abbastanza aperti da consentire di risolvere altri problemi. La scienza normale, che si costituisce su questa base, più che mirare a produrre novità, cerca di risolvere rompicapo (puzzles) entro le procedure riconosciute. Essa è opera collettiva e cumulativa: estende la conoscenza dei fatti che il paradigma indica come particolarmente rivelatori, confrontando i fatti con la teoria, e procede ad articolare ulteriormente il paradigma mediante esperimenti. Contrariamente a quanto sostiene Popper, gli scienziati, stando a Kuhn, normalmente non si dedicano a controlli severi delle teorie. Ved. Anche BURRELL G., MORGAN G. (1979), Sociological Paradigms and Organizational Analysis, Gower, Aldershot.

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Certamente non è un modello matematico, perché se ciò fosse, sarebbe rigoroso e coerente, ma similmente per ciò che accade in fisica, che si fonda sull’osservazione dei fenomeni naturali, è un modello interpretativo della realtà.

Infatti, in entrambi i campi, le osservazioni vengono in seguito interpretate e l’interpretazione molto spesso viene comunicata con parole.

Così come avviene in fisica, le interpretazioni degli esperimenti producono modelli o teorie.

Siamo, però, a conoscenza del fatto che i metodi di analisi e il ragionamento logico non possono spiegare subito tutto il complesso dei fenomeni naturali, perciò è necessario isolare un certo gruppo di fenomeni e cercare di costruire un modello per descriverli, nella consapevolezza che il processo di astrazione non è, per quanto sopra detto, un modello matematicamente perfetto. Il Vocabolario della lingua italiana (Zingarelli) definisce l’astrazione come

l’operazione consistente nel trarre da enti tra di loro distinti i loro caratteri comuni in

modo da istituire una teoria generale, valevole per tutti. I concetti si formano rimuovendo i dettagli dai casi particolari, in modo che quello che resta è solo l’essenza della cosa stessa, spogliata di informazioni non rilevanti. Il processo di rimozione dei dettagli unici, in modo da individuare le qualità essenziali, viene chiamato processo di astrazione. Costruire concetti serve anche per trasmettere le conoscenze e serve a comunicare. Essi permettono di mettere in relazione fra loro moltissime informazioni in riferimento ad una sola idea; quindi permettono di elaborarle molto rapidamente ogni volta che uno pensa a , o utilizza, quel concetto. Gli psicologi cognitivi dicono che gli esseri umani hanno la capacità di pensare grosso modo a sette pezzi o frammenti di informazione (due più due meno) alla volta. Per esempio, uno può pensare a sette gatti diversi e a nient’altro, oppure uno può pensare a tutti i gatti in un colpo solo e a sei altre specie di animali o, ancora, a tutto il regno animale e a sei altre cose completamente diverse. Questo processo psicologico si chiama chunking (da chunk

7; pezzo o frammento)

ed illustra il potere dell’astrazione8. Il potere di astrazione ed il ragionare per concetti è utile per creare una teoria, ma è anche necessario che questa venga, poi, applicata al caso specifico. Infatti, l’applicazione della teoria è un atto creativo.

7 I chunks sono raggruppamenti di item appresi e immagazzinati nella memoria a lungo termine come un'unità 8 Lo psicologo GEORGE A .MILLER in The magical number seven, plus or minus two: some limits on our capacity

for processing information in "Psychological Review" 63 1956, parla del fenomeno del “chunking” (letteralmente spezzettare) nella mente umana: si riferisce al fatto che questa è in grado di tenere presenti un numero limitato di concetti (pensieri, eventi, azioni, …) contemporaneamente per la costruzione di pensieri logici. Avendo, per esempio, un certo numero di oggetti (reali) uguali e visibili insieme con un solo colpo d’occhio, è possibile apprenderne il numero senza contarli solo se questi non sono più di sei o sette.Altrimenti bisogna “spezzettare” l’immagine e contare i pezzi. Per questa ragione conviene contare a tre a tre o a quattro a quattro, perché si fa maggior uso delle caratteristiche di comprensione della mente. Miller ha messo comunque in evidenza che non siamo confinati entro sette unità elementari di informazione. Possiamo infatti raggruppare più informazioni facendo uso di altre conoscenze o associazioni già apprese. Una singola unità chiave di informazione può servire a codificare una congrua quantità di materiale. È possibile inglobare alcuni (ma non più di sette) di tali blocchi (chunks) nella memoria primaria? Ci sono espedienti usati nella vita quotidiana ed esperimenti che lo confermano: se vengono per esempio dati i numeri 3 7 5 4 8 2 9 1 6 0 se ne possono ricordare all'incirca sette, mentre se si raggruppano 37 54 82 91 60 si ottengono cinque unità di informazione e rimane anche altro spazio libero da utilizzare nel deposito della memoria primaria.

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La descrizione analitica conduce non tanto alla formazione di generi e specie, ma alla costruzione di tipi.

Questo modo di procedere consiste nello scegliere tra le caratteristiche degli oggetti indagati quelle ritenute "definizionali", che pertanto ne forniscono, la definizione analitica.

Questa, diversamente dalla descrizione, "perde il diretto legame col mondo degli

individui, che è oggetto della descrizione, per creare delle specie (o insiemi) come

oggetti astratti". Pertanto le definizioni analitiche si riferiscono alla realtà solo attraverso la creazione di un suo modello (o tipo) e la teoria scientifica non è descrittiva del fenomeno ma di questo modello9.

Il concetto di fenomeno, gioca un ruolo decisivo nelle scienze ed in particolar modo nella fenomenologia.

Il significato kantiano di fenomeno è "ciò che non appartiene all’oggetto in se stesso ma si trova sempre nel rapporto di esso col soggetto

10 ed è inseparabile dalla

rappresentazione che questo ne ha" viene rovesciato da Husserl, per il quale "fenomeno" è ciò in cui si manifesta l’essenza, è "rivelazione d’essenza", che si intuisce attraverso l’attività intenzionante della coscienza. "Per quanto diversi possano essere i significati

9"[...] the result of the construction of a theory with the help of a method of analytical description is the model for an investigated domain of the phenomena. Such a model is obtained by assuming definitions, the basic definitions in axiomatized theories being axioms themselves. The definitions in question and their consequences were called aprioristic or analytical sentences, and these names referred jointly to different ways of conceiving these principal sentences. According to the view upheld in the present paper these principal definitions are - to make it simple - means towards the end, namely towards constructing a theory and making models, which, in turn, lead to the cognitive grasp and linguistic fixing of the richness of empirical data providing knowledge of the world". TADEUSZ CZEZOWSKI Definitions in Science", in Poznan Studies in the Philos. of the Sciences and the Human., 4, 1975, pag.17 Nelle sue ricerche di metaetica Czezowski ritiene si debbano costruire quelli che lui chiama "sistemi deontici", concepiti come sistemi deduttivi i cui assiomi sono i "principi etici" (che sono diversi pertando dalle leggi morali, empiricamente constatabili) e grazie ai quali è possibile definire il concetto di "dovere morale" (che è diverso dal concetto di bene). Per far ciò è necessario utilizzare quel metodo analitico da lui già indicato quale fondamentale strumento di ricerca empirica. In tal modo egli concepisce l'etica come un vero e proprio sistema scientifico avente carattere idealizzazionale. 10 Dal latino subiectum che traduce il greco υποκειµενον, ossia "ciò che soggiace". Per Aristotele il soggetto è anzitutto la materia come presupposto della forma e quindi ipostasi, substantia. Ma soggetto è anche l’individuo come punto di supporto dei suoi attributi o accidenti. Questa struttura ontologica trova un corrispettivo nella struttura logica del giudizio laddove il soggetto è ciò di cui si predica qualcosa, non potendo egli stesso mai diventare predicato di qualcos’altro. Dunque il soggetto è ciò che permane alla base di ogni possibile predicazione. La filosofia scolastica fece propria questa impostazione aristotelica, intendendo però l’ "essere soggettivo" come ciò che designa l’esistenza reale, mentre l’ "essere oggettivo" nomina l’esistenza delle cose nella mente. Queste premesse preparano la rivoluzione soggettivistica della modernità che si inaugura con Cartesio. Questi, da un lato resta fedele all’uso scolastico del termine soggetto come sostanza, dall’altro apre la via al tema moderno del valore delle rappresentazioni. Il "cogito", come sostanza pensante, concepisce se stesso e il mondo attraverso quegli attributi che sono le idee, il cui grado di evidenza e il cui valore di verità diventano fondamentali. Attraverso Hobbes, Locke, Leibniz e Hume il termine soggetto si identificherà sempre più con l’attività senziente e pensante dell’io, e questo processo culminerà in Kant, per il quale il soggetto è l’ "io penso" o coscienza trascendentale, mentre l’oggetto è la realtà in sé delle cose e del mondo. Nel successivo sviluppo idealistico da Fichte a Hegel, da Croce fino a Husserl, la realtà oggettiva viene in vario modo ricondotta o assimilata ad attività del soggetto o spirito, sicché l’identificazione tra soggetto e coscienza pensante diviene il caposaldo della filosofia, sia idealistica e spiritualistica che dell’empirismo positivistico, che al soggetto trascendentale oppone il soggetto empirico della psicologia e delle scienze umane. Recentemente però la preminenza del soggetto e la sua identificazione con la coscienza sono state rifiutate: emblematico il decentramento

del soggetto di M. Foucault. Questi esiti sono stati preparati in parte dalla critica marxista della coscienza come sovrastruttura ideologica, dalla freudiana scoperta dell’inconscio, dalla linguistica e dall’etnologia strutturali di Lévi Strauss e F. de Saussure. In questo caso il soggetto diventa una specie di effetto-superficie, dominato da leggi e strutture ignote alla coscienza. Ricordiamo infine Nietzsche, che con il suo prospettivismo demolisce la sovranità del cogito definendo soggetto e coscienza maschere di impulsi vitali più profondi e Merleau-Ponty, che intreccia in un’unità ambigua e irresolubile mondo e coscienza. http://www.filosofico.net/dizi.html#assertobase

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del termine "fenomeno" e per quanti altri ne possa acquisire, è certo che la fenomenologia comprende tutti questi "fenomeni" e secondo tutti i significati: ma in un atteggiamento così profondamente diverso che ogni significato si modifica rispetto alle scienze ormai familiari" (Idee, 1, Int.).

Noi consideriamo il mondo, dice Husserl, in modo «ingenuo», cioè esistente, ed esistente così come lo vediamo dalla nostra prospettiva soggettiva11.

Però un oggetto non è qualcosa di semplicemente individuale, un effimero «questo qui», ma, in quanto è «in se stesso» e così costituito, possiede come propria

caratteristica dei predicati essenziali che necessariamente gli competono (competono cioè «all'ente com'è in se stesso»), oltre ai quali può ricevere poi altre determinazioni

secondarie e casuali. Tutto ciò che appartiene all'essenza di un soggetto può appartenere anche ad un altro soggetto.

Fig. 1 – Rapporto tra soggetto ed oggetto Questi predicati si rappresentano con la forma e perciò bisogna isolare

l'«essenza», cioè «ciò che si trova nell'essere proprio di un individuo come un suo quid», e «metterla in idea» (trasformando la «visione empirica» in «ideazione» o «visione dell'essenza»).

Bisogna guardarsi cioè dal privilegiare - come primum filosofico - sia il mondo, la natura, che lo spirito, l'io; sia il soggetto che l'oggetto delle attività di coscienza.

Bisogna insomma appuntare, sostiene Hurssel, l'attenzione analitica proprio sul «rapporto» tra soggetto e oggetto di coscienza, individuare cioè ciò che caratterizza

quel rapporto, e descrivere i «modi» molteplici in cui esso si determina. Detto con terminologia husserliana, occorre «vedere direttamente» e descrivere i modi di presentarsi della cosa alla coscienza, o, che è lo stesso, i modi con cui la coscienza «tende», «si dirige trascendendosi» alla cosa; e non «spiegare» questi modi a partire

11 “A questo mondo si riferisce il complesso delle mie attività di coscienza, dell'indagare, dell'esplicare, del raccogliere e numerare, del presupporre e dedurre, in breve, della coscienza teoretizzante. Ma vi si riferiscono anche i multiformi atti e stati del sentimento e della volontà: il gradire e il non gradire, il rallegrarsi e il rattristarsi, il decidere e l'agire” Hurssel Idee per una fenomenologia pura e per una filosofa fenomenologia.

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dalla «realtà» dell'io, o dalla «realtà» del mondo, perché in ogni rapporto - emotivo, conoscitivo, pratico soggetto e oggetto sono sempre «correlati» e «costituenti un'unità originaria»; tra loro sussiste sempre una «correlazione a priori», o, meglio, un «a

priori di correlazione». Ma che cos’è il conoscere l’oggetto se non è conoscere la forma, la veste che

l’oggetto assume davanti alla nostra coscienza. In questo ragionamento è facile rappresentare il rapporto hursseliano tra soggetto ed oggetto di coscienza, come un rapporto tra essere e dover-essere.

Cioè tra il soggetto ed i modi di presentarsi della cosa. Infatti, ancor prima di conoscere l’essenza, noi percepiamo la forma dell’oggetto,

per poi riconoscerne l’essenza. In definitiva è ciò che Kant fa promovendo una scissione tra ragione e realtà, tra

il dover essere e l'essere. Di Husserl, Heidegger condivideva in primo luogo la lotta contro lo

psicologismo, ossia contro la riduzione della logica alla formazione empirica dei concetti e delle proposizioni. Egli giudicava la fenomenologia il metodo essenziale per portare un chiarimento alla questione dell'essere e della vita. Ma la fenomenologia, qual'era concepita da Husserl come epochè o riduzione fenomenologica, tendeva a cogliere l'essenza delle cose attraverso uno sguardo totalmente libero da presupposti legati all'esistenza storica del soggetto.

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Fig. 2 – Rapporto tra oggetto e soggetto

Perciò secondo Hurssel la fenomenologia è scienza contemplativa, apofantica

(nella ragione si rivela l'essere), rigorosa (perché fornita di fondamenti assoluti), intuitiva (coglie le essenze delle cose anche attraverso la percezione sensibile), non-oggettiva (prescinde da ogni fatto o realtà e si rivolge alle essenze), soggettiva (perché l'analisi della coscienza mette capo all'io come soggetto unificante di tutte le intenzionalità costitutive), scienza delle origini e dei primi principi (perché la coscienza contiene il senso di tutti i modi possibili in cui le cose possono essere date/costituite), impersonale (perché al ricercatore si richiedono solo doti teoretiche).

Si poneva allora il problema di come fosse possibile rendere la fenomenologia compatibile con il fatto ineliminabile e irriducibile della storicità della vita e quindi rispetto al tempo.

Per Heidegger, la fenomenologia deve piuttosto configurarsi come ermeneutica

della fatticità , cioè come interpretazione che la vita dà di se stessa quale di fatto è. In definitiva, il problema dell'essere è rimasto impigliato in una concezione

inadeguata: sin dall'antichità infatti, secondo Heidegger, l'essere è stato concepito come essere semplicemente presente . La fenomenologia autentica deve, invece, fare in modo che le cose stesse e i concetti che dovrebbero esprimerle vengano resi manifesti, sottraendoli alle deformazioni o nascondimenti a cui sono andati soggetti nel corso della storia: ciò vale anche per l'essere. Contrariamente a quanto pensava Husserl, la fenomenologia, per afferrare il significato originario dei concetti, deve dunque assumere una dimensione storica.

Nel 1925 Heidegger dedica un corso ai Prolegomeni sulla storia del concetto di

tempo, in cui chiarisce il senso dei due termini, che compongono la parola fenomenologia: fenomeno indica ciò che è manifesto e logos

12 il lasciar vedere

qualcosa in se stesso. Il concetto opposto a "fenomeno" è "essere scoperto" non soltanto nel senso di

non ancora visto, ma piuttosto in quello di non compreso nella sua provenienza storica. Per tale comprensione è insufficiente una fenomenologia intesa, alla maniera di Husserl, come un semplice vedere.

Heidegger si pone la domanda "cos'è l'essere?" (Fig.3). In tale domanda possiamo individuare un cercato (ciò che si domanda), un ricercato (ciò che si trova), e un interrogato (ciò a cui si domanda); il nostro cercato è l'essere, il nostro ricercato è il senso dell'essere, l'interrogato non può che essere un ente, in quanto l'essere è sempre di un ente; questo ente è l'esser-ci dell'uomo, poiché è costitutivamente apertura all'essere, dunque ne ha sempre una comprensione preconcettuale. Interrogare l'esser-ci significa studiare le strutture del suo modo d'essere, cioè l'esistenza.

12 Il termine deriva dal greco λεγειν, che significa "raccogliere", "contare" o anche "trascegliere" e in greco classico "raccontare", "parlare". Lógos, indica il mondo dell'intelligenza o della conoscenza intellettiva; è, infatti, sia l'intelligenza (nella sua valenza intuitiva, cioè come intelletto, e nella sua valenza discorsiva, cioè come ragione), sia l'oggetto dell'intelligenza (il concetto, il giudizio e il ragionamento), sia l'espressione dell'oggetto dell'intelligenza (la parola o il termine, la proposizione, l'argomentazione e, in generale, il discorso). http://www.filosofico.net/dizi.html#assertobase

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L'esistenza è una possibilità di rapporti che l'uomo può determinare, è trascendersi, progettarsi.

L'uomo come progetto, come poter-essere, in quanto fa continuamente delle scelte. Primato della categoria della possibilità. La realtà non è mai oggettiva, perché

soggetta a continue modifiche. Le cose esistono solo per l'esser-ci che le usa (inserendole in un progetto).

Prima del mondo c'è l'esser-ci, che dà significato alle cose.

Fig.3 – Heidegger- Che cos’è l’essere.

L'uomo posto di fronte alle scelte che deve compiere, ha dapprima una

conoscenza ontica del mondo, cioè lo assume come dato, poi però riflettendo si perviene ad una conoscenza ontologica cioè delle strutture dell'esser-ci che danno un senso al mondo.

L'analitica dell'esser-ci non è studiare il soggetto invece dell'oggetto, poiché l'esser-ci è costitutivamente apertura al mondo e comprensione di esso. L'esser-ci è essere-nel-mondo, rapporto con esso, e l'esser-ci è la totalità del rapporto, non solo un polo di essa.

Il mondo in cui l'esser-ci è, per Heidegger, non è né l'insieme degli enti intramondani, né una cornice che li circonda, ma è il campo d'apparizione degli enti

che accompagna la comprensione; il mondo è un esistenziale, cioè una struttura dell'esser-ci, non un ente esso stesso, quindi, lo spazio entro cui gli enti si manifestano.

In definitiva gli oggetti sono presenti nel mondo come fenomeni L'essere dell'esser-ci è essere-nel-mondo, il che significa prendersi cura degli

enti, utilizzarli e maneggiarli, progettare trascendendoli per realizzare un progetto che fa capo all'esser-ci stesso.

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Gli altri enti dunque hanno il loro essere nella loro utilizzabilità da parte dell'esser-ci. Fra l'altro, la semplice presenza degli enti, cioè il fatto di prenderli come dati, è anche essa una forma di utilizzo, utilizzo per il puro conoscere.

Il prendersi cura ha una circospezione, cioè una precomprensione dei rimandi degli enti fra loro: un ente rimanda sempre ad un altro e lo significa in rapporto ad un fine ultimo; tutti questi rimandi fanno capo all'esser-ci, , il quale ha una precomprensione della totalità dei rimandi, totalità che costituisce il mondo (cfr. relazione di

precomprensione degli enti) Rispetto agli altri, l'esser-ci ha cura di essi, e questo può darsi in due modi: o

togliere loro le cure, o aiutarli a prendersi cura delle loro cose.

Fig.4 – Network dei rimandi e delle cure

La Cura è la totalità delle strutture dell'esser-ci, che si prende cura e ha cura. La

struttura di questa cura è circolare; infatti mentre da una parte progetta in avanti, nel futuro, dall'altra la situazione emotiva gli fa sentire la propria”gettatezza” che lo fa tornare indietro.

L'esser-ci è anche un progetto "gettato" (consegnato) sul mondo (cioè progettato in modo da aderire ad una certa strumentazione del mondo già esistente).

La Cura, afferma Heidegger cioè l'essere dell'esser-ci, è temporalità. Il progetto è il futuro, l'essere-gettato è il passato e la deiezione è il presente; si parla di essere-

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avanti-a-sé, di essere-stato e di essere-presso. Questa temporalità dell'essere ha poi originato la temporalità della progettazione, quella ordinaria. L'esser-ci, è storicizzarsi,

è determinare mondi storici nel lasso di tempo fra la vita e la morte; è progettare, è tornare indietro alle possibilità ricevute in eredità, e tramandarne di nuove.

L'essere stesso, che è niente (= non-ente), implica una parte. Quindi, l’essere tende all’ente, al dover-essere, all’esser-ci manifesto. L'essere per Heidegger è infatti qualcosa che mette in luce gli enti, che ne fa da

sfondo. L'essere è verità, ma non come adaequatio rei et intellectus , cioè uguaglianza di

essere e verità, fondando l'essere sulla verità; la verità per Heidegger è aletheia, disvelamento, apertura. La verità si disvela, e disvelandosi si apre, cosicché in essa uomo ed enti si possono incontrare. Ma se è disvelamento, c'è anche una parte negata,

nascosta. Si capisce perché Heidegger parli di verità chiaroscurale (cfr. potremmo dire

fuzzy). Dopo questi richiami sintetici ma necessari, al pensiero di Hurssel ed Heidegger

la nostra attenzione, non può che soffermarsi su alcuni concetti con l’intenzione di cercare una piena integrazione tra di essi.

Interrogare il concetto fenomenologico di essere, significa mostrare in modo stringente e ineludubile che ogni presenza a sé è, e poiché è, viene percepita in quanto ha una forma.

La logica dell'essenza secondo Hegel si articola in tre momenti: essenza, esistenza, realtà effettuale.

Dopo aver scavato nell'essenza profonda dell'essere, tale essenza si manifesta esteriormente e tale manifestarsi è l'esistenza (dal latino existo, 'vengo fuori'), ovvero il venir fuori dell'essenza.

Sembra però di essere tornati al punto di partenza: scavato l'essere nel suo profondo, trovo l'essenza, la quale si manifesta nell'esistenza, che a sua volta, a rigor di logica, dovrebbe identificarsi con l'essere di partenza. Ma l'essere, una volta trovata l'essenza di cui si concepisce manifestazione, non è più quello di prima, ma è arricchito dall'aver trovato il suo significato, di cui prima era all'oscuro.

Ne consegue che, secondo il procedimento dialettico, l'esistenza è l'essere ad un livello più alto.

Il terzo momento è la sintesi di essenza ed esistenza e consiste nel concepire l'essere sia nei suoi aspetti reali sia in quelli razionali, ovvero nella sua realtà effettuale: si coglie l'essere come qualcosa che c'è e che ha anche una sua esistenza profonda.

E', cioè, l'esistenza concepita come manifestazione di un significato ben preciso: è il momento in cui concepisco la realtà come realtà, vedo l'essere nel dover essere il dover-essere nell'essere (tutto ciò che è razionale è reale; tutto ciò che è reale è razionale).

Non vedo più il dover essere come qualcosa di diverso (e magari opposto) all'essere.

Un fenomeno qui non è cioè un semplice oggetto che deve essere conosciuto ma è in sé un avvenimento attivo, creativo, che "fa" il mondo, che in sé contiene significato esistenziale, cioè senso e motivazione per l’esistenza: esprimersi è anche funzionale, ma è soprattutto vita. Un mistero cioè che non richiede di essere risolto, ma contemplato (vissuto).

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L'identità, quindi, di essere ed esser-ci dal punto di vista dell'esser-ci può essere utilizzata in un primo momento, per distaccarsi dall'essere astratto, formalizzato e conservatore dell'idealismo hegeliano, ma subito dopo va affermata una nuova identità, in cui vi sia tra i due elementi un rapporto dialettico, in grado di salvaguardare l'autonomia, la specificità di entrambi.

In particolare, l’interazione tra l’essere e il suo manifestarsi in quanto tale

(cfr. la forma) non è altro che l’interazione tra l’essere e il dover-essere13

. Il rapporto essere-dover essere serve a spiegare non solo la struttura dell’essere,

ma anche quella del movimento e del suo divenire dove spazio e tempo sono le pure forme a priori indispensabili per l’interazione.

In definitiva il dover-essere rappresenta l’identità formale dell’essere. L’essere tende all’ente. L’ente è il dover essere, la forma dell’essere nella realtà,

l’esser-ci manifesto di Haidegger. Secondo Sartre, bisogna distinguere il «fenomeno d'essere» dall'«essere del

fenomeno». Secondo la fenomenologia, gli enti «si manifestano» a me che «li intenziono»; dunque, l'ente si fa fenomeno per me; pertanto bisogna distinguere la manifestazione in quanto tale, che è il «fenomeno d'essere», e ciò da cui il fenomeno scaturisce, ossia l'«essere del fenomeno». Il «fenomeno d'essere» pertanto rimanda sempre all'«essere del fenomeno», come alla sua condizione, come al suo fondamento14.

L'essere è, l'essere è in sé, l'essere è ciò che è. Ecco i tre caratteri che l'esame provvisorio del fenomeno d'essere ci permette di attribuire all'essere del fenomeno.

Detto in altri termini l'essere è «pieno di sé», è «massiccio» senza distanza tra sé e sé. Quindi è sempre «identico a sé»; è immodificabile. Non può essere ciò che non è, né può non essere ciò che è. E non rimanda ad «altro da sé», come sua ragion d'essere, o causa, o fine. Esso è; ed è ciò che «di fatto è»: «coincide» senza residui, «in una piena adeguazione», con se stesso.

Nell'essere cosi concepito non sussiste la minima dualità, è ciò che esprimiamo dicendo che la densità d'essere dell'in-sé è infinita. Esso è il pieno l'in-sé è pieno di se stesso e non si potrebbe immaginare una pienezza più totale, una adeguazione più perfetta di contenente e contenuto nell'essere non sussiste il minimo vuoto, la minima incrinatura, attraverso cui possa insinuarsi il nulla15.

Dato che la fenomenologia considera dunque la percezione come intenzionale, l’atto di percepire è qui considerato indissolubilmente legato con l’oggetto percepito. Conoscere è conoscere il fenomeno, proprio quello lì e non un altro, non si astrae dalla specificità dell’evento: conoscenza del fenomeno è conoscere quello che sta sotto l’ "orizzonte degli eventi".

13 Sollen (dover essere). Nella lingua tedesca, il termine esprime un dovere in senso imperativo, ma al quale si perviene attraverso un'attività di libera costrizione. Infatti, la stessa lingua tiene distinto il verbo sollen dal corrisppettivo müssen, che esprime invece il senso di una obbligazione derivante da una costrizione dall'esterno. L'impiego hegeliano del sostantivo das Sollen è frutto di una recezione polemica del lessico appartenente alla filosofia morale di Kant, il quale lo impiega per le formule dell'imperativo categorico - che ordina un'azione compiuta per il puro senso del dovere (KpV, A 36). Hegel critica l'astrattezza dell'imperativo kantiano, secondo il quale l'azione buona deve essere realizzata in modo incondizionato, e prende le parti della "contestualità" delle azioni. Pertanto, secondo Hegel più che alla "buona intenzione" bisogna prestare attenzione alle "conseguenze dell'azione" (Rph., § 132 Anm.). in http://lgxserver.uniba.it/lei/personali/pievatolo/platone/hegel/gloss.htm - Glossario - Voci fondamentali del vocabolario filosofico hegeliano 14 Jean-Paul Sartre L'essere e il nulla (1943). 15 Jean-Paul Sartre L'essere e il nulla (1943).

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Secondo Husserl le forme a-priori dell'intuizione spazio-temporale poste da Kant a fondamento della geometria e dell'aritmetica, sono condizioni necessarie a originare il concetto logico-matematico, ma non sufficienti. Sono cioè condizioni psicologiche preliminari, ma non garantiscono l'oggettività del concetto.

D'altra parte Husserl nega che l'oggettività possa essere raggiunta per via

logico-matematica senza il supporto del soggetto. L'oggetto per lui ha valore nella misura in cui rinvia, correlativamente, all'intenzionalità del soggetto. Egli insomma cercava di ricomporre l'antitesi fra empirico e razionale, fra psicologismo e logicismo.

Al di là di queste indicazioni, che ci porterebbero lontani dalla nostra direzione è utile sottolineare che sia Hurssel, sia Heidegger ed anche Sartre nel formulare le loro teorie utilizzano i concetti di soggetto, oggetto, tempo e spazio.

L’enigmaticità del mondo sta nella trascendenza dell’essere, perciò si può contemplare in una teoria (in greco théorein significa vedere) ciò che viene mostrato dalla fenomenologia.

Partendo da queste premesse Hartmann esamina il processo conoscitivo e trova che esso non consiste in una particolare relazione fra soggetto e oggetto: anche il soggetto è collegato all’oggetto nella compartecipazione all’essere. L’oggetto della conoscenza è, secondo il senso etimologico del termine, il dato che "sta di fronte" al soggetto, in maniera assolutamente indipendente. La conoscenza non può trasformare il carattere irrazionale dell’essere; il rapporto fra l’oggetto e il soggetto si manifesta piuttosto come trans-razionalità e trans-intelligibiltà dall’altro.

Ognuna di queste sfere è indipendente e si costituisce secondo una regola che le è propria.

Vi è adesso la necessità che alcune espressioni e concetti vengano richiamati estrapolandoli dal nostro ragionamento, perché creano all’interno del nostro linguaggio degli effetti, come dire, evocativi.

Infatti, questi termini, queste espressioni, evocano la presenza di un metodo e perciò svolgono una funzione comunicativa rilevante.

Inoltre, è altresì necessario che diventino un’utile fonte di applicazione e quindi assiomi16.

La considerazione generale sugli assiomi che siamo venuti enunciando ci induce a sottolineare ulteriormente alcune qualificazioni.

Anzitutto occorre sottolineare che questi assiomi sono posti in via sperimentale, che fungono da preliminari di uno studio che non abbiamo certo potuto esaurire, e che le definizioni che ne abbiamo dato sono piuttosto approssimative. Bisogna, anche, 16 Dal greco αξιος "degno", significa letteralmente "ciò che merita considerazione": termine usato da Aristotele per indicare i princìpi comuni alle varie scienze, dotati di evidenza immediata e quindi non bisognosi di dimostrazione, ma punti di partenza per le dimostrazioni. A partire dalle geometrie non-euclidee gli assiomi hanno cessato di essere considerati verità auto-evidenti e son passati a designare in generale proposizioni o regole assunte come premesse. La scelta degli assiomi è ritenuta convenzionale, determinata da ragioni di comodità, opportunità o semplicità, ma non è arbitraria, poichè deve rispettare criteri di non contradditorietà, di completezza e di indipendenza reciproca tra i vari assiomi. Primo assioma nel linguaggio della logica, viene definito come ‘teoria della verità come corrispondenza’, una teoria che ha una lunga storia, da Aristotele a Russel e che ipotizza un isomorfismo strutturale tra disposizione delle parole in una proposizione e disposizione delle unità semplici del mondo. Nelle scienze politico-sociali essa si manifesta nella enfatizzazione del termine ‘empirico’ inteso come sinonimo di ‘indiscutibile’. Ma, ancora nei termini della logica, parlare di ‘teoria della verità’ implica l’esistenza di altre teorie tra le quali vanno almeno citate la teoria pragmatica di un Dewey e la teoria della coerenza di un Rescher (Haack, 1989), teorie riassumibili nella metafora che, memore di un famoso paradosso di Borges, distingue tra mappa e territorio. In queste impostazioni la realtà non è più autoevidente e dello stesso fatto-territorio sono possibili diverse mappe-interpretazioni.

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aggiungere che sono abbastanza eterogenei tra loro stessi, in quanto li abbiamo formulati in base a una vasta gamma di osservazioni.

Fra l’altro i ragionamenti che abbiamo sin qui avanzato sono caratteristici di una visione un po' sulla scia del pensiero di Martin Heidegger.

L’elemento che li unifica non è la loro origine ma la loro importanza pragmatica che a sua volta si fonda non tanto su certe particolarità quanto sulla possibilità di riferimenti interpersonali (anziché monadici) che offrono

La funzione del sistema di assiomi si riduce dunque a stabilire a quale tipo di oggetti si applicano i teoremi: solo per quegli oggetti che soddisfano gli assiomi si possono asserire i teoremi. È un tipo di "definizione implicita", e una definizione, si sa bene, non è né vera né falsa: può essere solo ben posta o mal posta, utile o superflua. Quindi gli assiomi in sé non sono né veri né falsi.

Ma, si potrebbe obiettare che gli assiomi che verranno enunciati siano dei dogmi. Al di là dell'uso strettamente teologico, "dogma" indica una proposizione

accettata senza prova e asserita come vera. Il problema della verità per gli assiomi si pone solo quando vogliamo far

coincidere la nostra definizione intuitiva di "essere, dover-essere, soggetto, oggetto, tempo, spazio,” con la definizione implicita data dagli assiomi fenomenoligici, vale a dire quando ci chiediamo se gli assiomi di un avvenimento attivo, creativo, che "fa" il

mondo, descrivono il mondo reale oppure no. È vero che una volta che abbiamo associato specifiche entità fisiche ai concetti

sopra indicati, questa diventa una questione empirica: l'assioma è diventato una asserzione attorno al mondo reale, è falsificabile mediante esperimenti, e non è quindi in alcun modo classificabile come "dogma".

Adesso è il momento di indicare i possibili assiomi ed utilizzarli per costruire l’anello tetralogico:

a) La parola fenomenologia: fenomeno indica ciò che è manifesto e logos il lasciar

vedere qualcosa in se stesso.

b) Fenomeno è "ciò che non appartiene all’oggetto in se stesso ma si trova sempre

nel rapporto di esso col soggetto; c) Un fenomeno non è cioè un semplice oggetto che deve essere conosciuto ma è in

sé un avvenimento attivo, creativo, che "fa" il mondo, che in sé contiene

significato esistenziale, cioè senso e motivazione per l’esistenza: esprimersi è

anche funzionale, ma è soprattutto vita. Un mistero cioè che non richiede di

essere risolto, ma contemplato (vissuto).

d) Un oggetto, possiede come propria caratteristica dei predicati essenziali che

necessariamente gli competono (competono cioè «all'ente com'è in se stesso»),

oltre ai quali può ricevere poi altre determinazioni secondarie e casuali.

e) L'oggettività non può essere raggiunta per via logico-matematica senza il

supporto del soggetto. f) Tutto ciò che appartiene all'essenza di un soggetto può appartenere anche ad un

altro soggetto.

g) Bisogna, individuare ciò che caratterizza quel rapporto, e descrivere i «modi»

molteplici in cui esso si determina.

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h) Tra loro sussiste sempre una «correlazione a priori», o, meglio, un «a priori di

correlazione».

i) L'uomo come progetto, come poter-essere, in quanto fa continuamente delle scelte.

j) La realtà non è mai oggettiva, perché soggetta a continue modifiche k) Il mondo in cui l'esser-ci è, è il campo d'apparizione degli enti che

accompagna la comprensione cioè l'essere dell'esser-ci, è temporalità. L'esser-

ci, è storicizzarsi, è determinare mondi storici nel lasso di tempo fra la vita e la

morte. l) Ma se è disvelamento, c'è anche una parte negata, nascosta. (Heidegger parla

di verità chiaroscurale potremmo dire fuzzy).

m) L’interazione tra l’essere e il suo manifestarsi in quanto tale (cfr. la forma)

non è altro che l’interazione tra l’essere e il dover-essere. n) Il rapporto essere-dover essere serve a spiegare non solo la struttura dell’essere,

ma anche quella del movimento e del suo divenire dove spazio e tempo sono le

pure forme a priori indispensabili per l’interazione.

o) L’atto di percepire è qui considerato indissolubilmente legato con l’oggetto

percepito Se dunque si riconsidera tale fenomeno alla luce di questi "assiomi", possiamo

agevolmente comprendere l’importanza delle interazioni. Le interazioni sono delle azioni reciproche che modificano il comportamento o la

natura degli elementi, corpi, oggetti, fenomeni che sono presenti o che hanno effetto17. L’interazione “costituisce un processo di durata più o meno lunga, tra due o più

attori che orientano reciprocamente il proprio agire l'uno verso l'altro influenzando le

motivazioni e lo svolgimento di tale agire e producendo effetti di associazione

più o meno intensi"18. L’interazione sociale può ... essere definita come un processo di durata più o

meno lunga, tra due o più attori (singoli o collettivi), che orientano reciprocamente

il proprio agire l'uno verso l'altro influenzando così le motivazioni e lo svolgimento

di tale agire e producendo effetti dì 'associazione' (Vergesellschaftung) più o meno

intensi19. Secondo Edgard Morin, le interazioni20: 1) presuppongono elementi, esseri od oggetti materiali, che si possono incontrare;

17 Ad esempio, se uno dei modelli del comportamento culturale, che nell’individuo A si considera appropriato, viene culturalmente classificato come un modello di imposizione, mentre ci aspettiamo che B replichi a questo comportamento col comportamento che culturalmente classifichiamo di sottomissione, e probabile che questa sottomissione incoraggi una ulteriore imposizione e che tale imposizione richieda ancora una ulteriore sottomissione. Si ha quindi uno stato di cose potenzialmente progressivo e – a meno che non siano presenti altri fattori che limitino gli eccessi del comportamento di imposizione e di quello sottomesso – A deve necessariamente imporsi sempre più mentre B diventerà sempre più sottomesso. Va da sé che potremo assistere a tale progressivo cambiamento, siano A e B individui separati o membri di gruppi complementari. Gregory Bateson 1976]. Verso Un’ Ecologia della Mente. Adelphi Edizioni Milano. 18 Nedelmann B., Interazione sociale, Voce dell’Enciclopedia delle Scienze Sociali, Roma, Treccani 1996. 19 Enciclopedia delle scienze sociali della Treccani Voce Interazione. 20 Edgard Morin Il metodo - ordine, disordine, fenomeno organizzato - Ed. Feltrinelli, 1992 - pag.65 -,

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2) presuppongono delle condizioni di incontro, cioè agitazione, turbolenza, flussi

contrari;

3) obbediscono a determinazioni/vincoli relativi alla natura degli elementi, oggetti o

esseri che si trovano ad incontrarsi;

4) diventano, in determinate condizioni, interrelazioni (associazioni, connessioni,

combinazioni, comunicazione, ecc.), danno cioè origine a fenomeni formali.

Ecco che perché vi sia fenomeno organizzato occorre che vi siano delle

interazioni, perché vi siano interazioni bisogna che vi siano incontri, perché vi siano

incontri bisogna che vi sia disordine (agitazione, turbolenza).

Le interazioni, per Morin, costituiscono una sorta di nodo gordiano di ordine e

disordine. Gli incontri sono aleatori, ma gli effetti di questi incontri, su elementi ben

determinati, in condizioni determinate, diventano necessari, e fondano l’ordine delle

“leggi”.

Le interazioni relazionali sono generatrici di forme e di fenomeno organizzato. Fanno sorgere e mantengono quei sistemi fondamentali.

Ciò significa, continua l’Autore, ad un tratto, che questi termini di disordine,

ordine e fenomeno organizzato di trovano ormai connessi, via le interazioni, in un anello

solidale, in cui nessuno dei termini (disordine, ordine e organizzazione) può essere

compreso indipendentemente dal riferimento agli altri, e in cui essi si trovano in

relazioni complesse, cioè complementari, concorrenti ed antagonistiche.

Ecco, quindi, che ordine, disordine e fenomeno organizzato si co-producono insieme, simultaneamente e vicendevolmente secondo, un gran gioco cosmogenesico del

disordine, dell’ordine e del fenomeno organizzato.

Si può dire gioco perché vi sono i pezzi del gioco (elementi), le regole del gioco

(vincoli iniziali e principi di interazione).

Possiamo adesso mettere in evidenza, l’anello tetralogico di Morin:

Fig. 5 – L’anello tetralogico di Morin.

Costituito in tal modo,il fenomeno organizzato permane relativamente stabile.

Perciò una volta costituiti, il fenomeno organizzato e l’ordine, suo caratteristico

sono in grado di resistere a un gran numero di disordini.

L’ordine e il fenomeno organizzato, nati con la cooperazione del disordine, sono

in grado di guadagnare terreno sul disordine.

L’anello tetralogico significa che le interazioni non possono essere concepite

senza disordine, cioè senza ineguaglianze, turbolenze, ecc., che provocano gli incontri.

Dunque, ordine e fenomeno organizzato sono inconcepibili senza le interazioni. Nessun corpo, nessun oggetto può essere concepito indipendentemente dalle interazioni

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che lo hanno costituito, e dalle interazioni a cui esso necessariamente partecipa. Quanto sopra detto indica che i concetti di ordine e di fenomeno organizzato

sbocciano l’uno in funzione dell’altro. L’ordine sboccia soltanto quando il fenomeno

organizzato crea il proprio determinismo e lo fa regnare nel suo ambiente. Il fenomeno

organizzato ha bisogno di principi d’ordine che intervengano attraverso le interazioni

che lo costituiscono.

L’anello tetralogico significa anche che più il fenomeno organizzato e l’ordine si

sviluppano, più diventano complessi, più tollerano, utilizzano o anche necessitano del

disordine.

Detto altrimenti, questi termini ordine, fenomeno organizzato, disordine, e

naturalmente interazioni, si sviluppano reciprocamente gli uni con gli altri.

L’anello tetralogico significa, dunque, che non si potrebbe isolare od ipostatizzare

nessuno di questi termini. Ognuno prende il proprio senso nel suo rapporto con gli altri.

Bisogna concepirli insieme, cioè come termini nello stesso tempo complementari,

concorrenti ed antagonistici.

Dunque, inteso in termini di fenomeno organizzato, il concetto di entropiaci

consente di indicare una tendenza irreversibile al disfenomeno organizzato propria di

tutti i sistemi e di tutti gli esseri organizzati. Essa rappresenta una tendenza universale,

non limitata cioè ai “sistemi chiusi” tropo astratti, ma che interessa anche i “sistemi

aperti”, ivi compresi gli esseri viventi.. Ma, per comprenderla, bisogna complessificare

il quadro di osservazione dell’entropia e la nozione stessa di entropia.

L’entropia è una grandezza fisica, introdotta in origine nella termodinamica, che in senso generale esprime il grado di disordine di un sistema, rispetto a un livello scelto arbitrariamente; di norma si considerano le variazioni di entropia fra lo stato finale e lo stato iniziale di un sistema che subisce una trasformazione

L'entropia è espressa in termini delle varie probabilità che vari stati di un processo hanno di verificarsi dopo che un certo altro stato si è verificato: più le probabilità sono simili, più l'entropia è alta.

L'entropia è una variabile di stato, cioè la variazione di entropia dipende solo dal suo valore iniziale e da quello finale ed è indipendente dalle trasformazioni subite dal sistema nel passare dall'uno all'altro. Bisogna anzitutto prendere in considerazione un sistema non più in isolamento, ma

in un ambiente. Vediamo, allora, che la formazione di un fenomeno organizzato,

corrisponde ad una diminuzione locale di entropia, ma questa diminuzione comporta,

con lo stesso processo delle trasformazioni organizzatrici, un aumento di entropia

nell’ambiente.

Si può dire che ogni regressione di entropia (ogni sviluppo organizzatore), od ogni

mantenimento (tramite lavoro e trasformazioni) di entropia in uno stato stazionario

(vale a dire ogni attività organizzativa), si paga con un aumento di entropia (o

neghentropia) aumenta cioè l’entropia nel sistema.

Esistono delle regole su cui si muove l’interazione, regole implicite che dotano di senso ed ordine le attività di routines. Goffman le definisce frames, sono come dei cartelli che guidano le mosse dell’attore, permettono la giusta comprensione degli avvenimenti e consentono all’ individuo di reagire in modo appropriato a ciò che sta accadendo.

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L’interazione non può prescindere dalla componente spazio-temporale. L’interazione è retta dunque da un sistema normativo che include tutti i criteri di condotta che definiscono che cosa dovrebbe avvenire in accordo con i quali il soggetto guida le proprie azioni, atteggiamenti e credenze. E’ chiaro che molti sistemi di relazione tendono ad un progressivo cambiamento. Le anomie di Morin: • C’è e ci sarà sempre, nel tempo, una dimensione di degradazione e di dispersione; • Nessuna cosa organizzata, nessun essere organizzato può sfuggire alla degradazione,

al disfenomeno organizzato, alla dispersione: nessun vivente può sfuggire alla morte; • Ogni creazione, ogni generazione, ogni sviluppo, e anche ogni informazione devono

essere pagati in entropia; • Nessun sistema, nessun essere, può rigenerarsi isolatamente; • Vi è disordine nel disordine. Vi sono ordini, nel disordine. • Il disordine esiste soltanto nella relazione e nelle relatività L’idea di Morin sull’anello tetralogico assume una importanza fondamentale per l’interazione tra l’essere e il dover essere, in particolare l’interazione non sarà intelligibile se entrambi non verranno concepiti insieme, cioè come termini nello stesso

tempo complementari, concorrenti ed antagonistici.

La relazione tra essere e dover essere, perciò è soggetta a mutare di volta in volta anche senza l’intervento di qualche perturbazione esterna. Tutto ciò realizza il paradigma simmetria-complementarità è quello che si avvicina forse di più al concetto matematico di funzione, poiché le posizioni individuali dell’essere e del dover essere, sono delle semplici variabili con infiniti valori possibili, il cui significato non è assoluto ma piuttosto emerge nella reciprocità del rapporto. Dunque, dopo quanto sopra detto, possiamo affermare che quattro elementi fondamentali costituiscono l’essere e quindi il dover essere: SOGGETTO, OGGETTO,

TEMPO, SPAZIO, i quali interagendo tra di loro riescono a costituire un ambito entro cui si manifesta il valore. Tale ambito possiamo indicarlo come la sfera del valore che in ogni scienza assumerà peculiari contenuti, per esempio nel diritto costituirà la sfera giuridica, in sociologia la sfera sociale, in economia la sfera economica. Questi elementi fondamentali costituiscono le costanti dell’anello tetralogico.

Esse sono alla base di ogni identità nella realtà: spiegano perché ogni forma sembra essere identica ad ogni altra forma. Tutto ciò ci induce ad aspettarci che sotto le apparenze vi sia un’unica

struttura invariante: quella dell’essere. Tali costanti, perciò, racchiudono in codice, i segreti dell’essere e, quindi, quelli di valore.

L’anello tetralogico è un particolare modello in cui gli elementi che lo costituiscono formano un’entità chiusa sotto il profilo statico.

Sotto il profilo dinamico costituisce l’insieme dei livelli, dell’essere e, quindi, diviene esso stesso ente dove tempo e spazio caratterizzano l’anello tetralogico.

Infatti, il soggetto gode l’oggetto nello spazio e nel tempo. Gli anelli si susseguono, sono in rapporto l’uno con l’altro per cui essi avvengono

(si realizzano) prima, dopo o durante altri fenomeni.

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Rapportando l’essere ed il dover-essere all’orizzonte possiamo distinguere una condizione di trascendenza (valore assoluto al di sopra dell’orizzonte) o di possibilità e una condizione d’immanenza (valore relativo al di sotto dell’orizzonte) o di realtà

L’anello tetralogico può essere utilizzato per spiegare qualsiasi tipo di rapporto o

relazione, infatti soggetto, oggetto, tempo e spazio sono gli elementi principali di ogni relazione, ad esempio un fatto fisico naturale, il comportamento di un uomo, il lavoro, una organizzazione etc.

Fig. 6 – L’anello tetralogico dell’essere e del dover-essere

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L’anello tetralogico è regolato dalle leggi della totalità per cui il mutamento di

una parte genera il mutamento del tutto, della retroazione che prevede l'abbandono del concetto di causalità lineare per quello di circolarità dove ogni punto del sistema influenza ed è influenzato da ogni altro, e dell'equifinalità per cui ogni sistema è la migliore spiegazione di se stesso, perché i parametri del sistema prevalgono sulle condizioni da cui il sistema stesso ha tratto origine.

Il concetto di totalità ci consente di introdurre quello di sistema, poiché reciprocamente collegati.

Che cosa è un sistema? Una definizione possibile ma parziale è quella che focalizza un sistema come un complesso di elementi in interazione tra di loro, in interazione reciproca. Se noi sostituiamo agli elementi gli individui e alle interazioni la comunicazione abbiamo un sistema umano.

La teoria dei sistemi studia l'organizzazione di una totalità detta sistema. La tesi che il tutto non è riconducibile alla somma delle parti era già nota nell'antichità, ma solo con l'avvento della cibernetica si determinano le regole morfologiche, strutturali e funzionali che consentono lo studio del sistema nella sua articolazione gerarchica e nella sua interazione con altri sistemi con cui avvengono scambi di materiali, energie o informazioni.

Secondo von Bertalanffy, che tentò di emancipare la teoria generale dei sistemi dalla cibernetica21, "esistono dei modelli, dei principi e delle leggi che si applicano a

sistemi generalizzati o a loro sottoclassi, indipendentemente dal loro genere particolare,

dalla natura degli elementi che lo compongono e dalle relazioni o "forze" che si hanno

tra essi. Risulta pertanto lecito il richiedere una teoria non tanto dei sistemi di tipo più o

meno speciale, ma dei principi universali che sono applicabili ai sistemi in generale. In

questo senso noi postuliamo una nuova disciplina che chiamiamo teoria generale dei

sistemi. Il suo oggetto di studio consiste nella formulazione e nella derivazione di quei

principi che sono validi per i "sistemi" in generale". Bertalanffy scriveva: "possiamo affermare, come caratteristica della scienza

moderna, che questo schema in termini di unità isolabili si è rivelato insufficiente. Di qui

il comparire di nozioni quali quelle di totalità, di olistico, di organismico, di gestalt, le

quali, complessivamente, altro non significano se non che dobbiamo, in ultima analisi,

pensare in termini di sistemi di elementi in interazione". In pratica Bertalanffy proponeva di lasciarsi alle spalle un modello meccanicistico di causalità lineare che separa le singole parti di un tutto, e privilegiare un modello di causalità circolare che tiene in considerazione le complessive interazioni tra le parti. Esisteva cioè l'esigenza di occuparsi non più di isolate parti o isolati fenomeni ma di totalità che venne definita da Bertalanffy "organismica". Queste premesse giustificano l'interesse che gli studiosi delle scienze umane e delle relazioni interpersonali rivolsero alla teoria generale dei sistemi,

21 La teoria generale dei sistemi venne alla luce intorno alla metà degli anni '30 per merito di L. Von Bertalanffy, ma si pose alla attenzione degli studiosi delle scienze umane soltanto negli anni '50. Questa teoria, e la nascente teoria della cibernetica, sorse dalla crisi del modello meccanicistico della fisica e della chimica classiche, cioè da un rigido modello di causa-effetto. Bertalanffy, L. von (1956), Teoria generale dei sistemi, Isedi, Milano, 1971. Bertalanffy, L. von (1967), Il sistema uomo, Isedi, Milano, 1967.

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sulla base della constatazione che anche l'interazione umana si "organizza" secondo le modalità di un sistema.

Il concetto di causalità lineare afferma che l'evento B accade in quanto l'evento A accade, o è accaduto, dando cioè una semplicistica spiegazione di causa-effetto agli eventi che si verificano.

A questa concezione la teoria sistemica sostituì la causalità circolare in cui veniva introdotto il concetto basilare di "feed-back". Un'informazione circa l'evento B si ripercuote sull'evento A, che quindi influenza B, ecc., in una circolarità di eventi che si modificano reciprocamente.

Pertanto affermare che il comportamento di un individuo è causa del comportamento di un altro individuo è un errore epistemologico, l'errore di presentare i problemi o gli eventi in termini diadici di causa-effetto.

Così, al posto di una visione di causalità lineare va inserita una visione di causalità circolare dei sistemi in interazione, in cui ogni evento dà origine ad una risposta che, proprio in virtù del suo effettivo accadere, torna indietro, divenendo essa stessa causa di un'ulteriore interazione, e così via.

In definitiva il rimando di Heiddeger corrisponde proprio al concetto basilare di “feed-back”.

Il concetto di “sistema” pone l’attenzione in particolare sulle interazioni presenti nell’ambito di un insieme articolato di elementi tesa al conseguimento di una finalità, di un obiettivo comune. Nel suo significato emerge la unitarietà strutturale pur nella diversità delle parti componenti, determinata dall’ordine finalistico che caratterizza l’insieme.

In proposito vale la pena ricordare la definizione di sistema suggerita da Ludwig von Bertalanffy: “Un sistema può essere definito come un insieme di elementi che interagiscono fra di loro e con l’ambiente circostante”.

E dunque appare chiara l’importanza dello scenario esterno nel quale il sistema si trova a operare. Ritornando alla definizione di “rimando”, questa può assumere connotazioni di conservazione, ma anche di adeguamento alle mutevoli esigenze di un mondo in costante cambiamento.

Il discorso ripropone così il concetto di “ambiente circostante”, proprio con l’enfasi a esso attribuita da Ludwig von Bertalanffy. Ecco perché è indispensabile interpretare il processo come espressione di un macrosistema complesso, composto da due sistemi in interazione: il sistema operativo che produce manutenzione, e il sistema

oggetto dell’azione manutentiva. In entrambi i casi i sistemi presentano natura socio-tecnica, essendo determinati dall’interazione di strutture tecniche con azioni espresse dai protagonisti, che diventano dunque socialmente significative.

Se consideriamo, infatti, l’anello tetralogico come un sistema che deve essere mantenuto in equilibrio dal sistema stesso (come in un sistema operazionalmente chiuso, cioè funzionante in base al punto di vista interno) l'entropia risulta una funzione regolatrice, in grado di mantenere quella sorta di omeostasi che coincide con lo stato di equilibrio del sistema. Da un punto di vista strettamente razionale e ontologico la presenza dello stato d'entropia non proteggerà in alcun modo l'oggetto dello stato d'entropia, ma anzi permetterà il raggiungimento dell’obiettivo riducendo però al contempo l'influsso dell’entropia che determinerebbe l’interruzione dell’evoluzione del sistema generando l’anomia.

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Perché questo circuito funzioni deve però essere rispettata una condizione essenziale: l’entropia deve diventare un comportamento esterno. Quindi, l'entropia ha quella funzione di richiesta di feedback esterno (cosa che differenzia i sistemi chiusi da quelli chiusi solo operazionalmente) atta a consentire al sistema di mantenere il proprio equilibrio. Questa funzione riequilibratrice è resa possibile tra l'altro dal fatto che il comportamento entropico non viene socialmente disapprovato ma anzi ben tollerato. Grazie a questa componente sociale l’entropia può fungere da sostituto del comportamento che si vorrebbe adottare ma che si è impossibilitati a seguirlo per qualche ragione.

L'opzione sistemica consente di superare: a) la concezione atomistica dello studio

dei fenomeni; b) la concezione causale perché i fenomeni non sono più considerati come

entità astratte e isolate spiegabili secondo il principio della causalità lineare, ma come

globalità da studiarsi nell'interazione dinamica delle parti; c) le forme di dualismo di

orgine aristotelica .

Il cambiamento consiste, quindi, nell'abbandonare la visione meccanicistico-causale dei fenomeni che ha dominato le scienze fino a tempi recenti per acquisire una visione sistemica.

Tutto ciò ci consente di affermare che i componenti dell’anello tetralogico possono essere considerati come gli elementi di un circuito di interazione. I componenti del circuito non hanno alcun potere unidirezionale sull'insieme. In altre parole, il comportamento di un elemento dell’anello tetralogico influenza inevitabilmente gli altri.

Tuttavia è epistemologicamente errato considerare il comportamento di questo elemento come la causa del comportamento degli altri elementi. E questo per il fatto che ogni elemento influenza gli altri ma è anche influenzato dagli altri.

Tale approccio epistemologico permette di superare quei dualismi aristotelici (vero/falso) e cartesiani di causa-effetto. Infatti se si riflette che in un circuito sistemico ogni elemento è inserito, e interagisce, con la sua totalità, le dicotomie presenti perdono di significato.

In definitiva occorre abbandonare l’approccio olistico-strutturale per assumere quello insiemistico.

Infatti, l'insieme ha le proprie caratteristiche e definisce caratteristiche e funzioni degli oggetti che lo caratterizzano

Del resto "vi sono relazioni che conducono a uno stato nel quale le cause e la natura dei processi dell'insieme non possono essere noti a partire dalla conoscenza dei suoi elementi, che esistono dapprima sotto forma di parti separate, successivamente messe insieme e interconnesse. E viceversa qualsiasi comportamento dell'insieme è governato dalle leggi strutturali interne dell'insieme stesso"22.

Gli esponenti dell'opzione sistemica, spostano l'attenzione dal significato dei fenomeni al contesto dei medesimi che li rende più comprensibili di quanto non li renda la loro interpretazione endosistemica. La nozione di contesto è alla base della teoria del campo di K. Lewin per il quale "i vettori che determinano la dinamica di un evento non

possono essere definiti che in funzione della totalità concreta che comprende, nel

contempo, l'oggetto e la situazione", e dell'approccio relazionale di P. Watzlawick per il

22 M. Wertheimer Il pensiero produttivo Ed.Giunti Barbera, FI, 1965.

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quale "un fenomeno resta inspiegabile finché il campo di osservazione non è abbastanza

ampio da includere il contesto in cui il fenomeno si verifica".

Nel corso dell'evoluzione del pensiero cibernetico23 la concettualizzazione degli esseri viventi in termini di sistemi è andata incontro a un processo di profonda trasformazione.

All'inizio, infatti, i sistemi viventi sono stati definiti come sistemi aperti tout court, in contrapposizione con i sistemi considerati chiusi, come quelli studiati dalla fisica24.

Successivamente, dopo alcune tappe intermedie realizzate da altri autori, Maturana e Varela sono arrivati a definire i sistemi viventi come caratterizzati da una peculiare coesistenza di apertura e chiusura.

Questi autori, infatti, definiscono gli esseri viventi come chiusi a livello di organizzazione ma aperti a livello di struttura.

Per organizzazione è da intendersi l'insieme di rapporti che devono occorrere tra i componenti di un sistema perché questo possa essere assegnato a una classe particolare: quindi gli esseri viventi in questo senso sono chiusi perché non possono subire dall'esterno modifiche all'organizzazione senza che sia compromessa la sopravvivenza.

Per struttura, invece, si intende l'insieme dei componenti e dei rapporti che costituiscono fisicamente quel sistema: in questo senso, invece, gli esseri viventi sono da considerarsi aperti dato che scambiano in continuazione materia e energia con l'esterno.

In altri termini, un essere vivente è un sistema che, a dispetto dei continui cambiamenti strutturali indotti dall'interazione con l'ambiente (apertura strutturale), mantiene costante nel tempo la sua organizzazione (chiusura organizzativa).

Il termine "autopoiesi" deriva dal greco "auto" (sé) e "poiesis" (creazione) ed è stato utilizzato da Maturana e Varela per indicare quella che per loro è la caratteristica fondamentale di sistemi viventi e cioè il fatto di possedere una struttura organizzata capace di mantenere e rigenerare nel tempo la propria unità e la propria autonomia rispetto alle continue variazioni dell'ambiente circostante, tramite la creazione delle

proprie parti costituenti, che a loro volta contribuiscono alla generazione dell'intero sistema. I sistemi viventi quindi mantengono se stessi grazie alla produzione dei propri "sottosistemi" che producono a loro volta l'organizzazione strutturale globale necessaria per mantenerli e produrli. I sistemi viventi sono visti come strutture autonome e dotate di chiusura operazionale, in cui il sistema si trova in una situazione di completo autoriferimento, in cui cioè pensa solo al proprio mantenimento e tutte le azioni che sembra compiere verso l'esterno sono in realtà atte a mantenere la propria integrità rispetto alle perturbazioni ambientali25. Famosa è la frase di Varela “Le conseguenze

delle operazioni del sistema sono le operazioni del sistema” che bene presenta il concetto di chiusura operazionale, che non vuol dire per nulla isolamento, ma è legato a un autocomportamento in cui le operazioni di un sistema complesso, costituito da

23 Negli anni 1940-50, per opera di personaggi come Norbert Wiener (1894- 1964), matematico, e William Ross Ashby (1903-72), medico neurologo, si affacciava alla ribalta una nuova concezione rivoluzionaria della realtà materiale: la cibernetica, nata dall’accostamento audace tra gli automi creati dall’uomo e gli automi naturali, infinitamente più complessi e sofisticati, quali sono i viventi. È merito dei suddetti ricercatori se nel sapere moderno è entrato, per via estremamente logica, il concetto di finalità. 24 Von Bertalanffy L. (1968) Teoria dei sistemi, Mondadori, Milano, 1971 25 Maturana H. Valera F. L’albero della conoscenza - Un nuovo meccanismo per spiegare le radici

biologiche della conoscenza umana. Garzanti, Milano, 1992.

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elementi interconnessi, hanno come risultato un'operazione che cade ancora entro i confini del sistema stesso e della propria dinamica interna.

Punto di vista quello di Varela, detto dei "sistemi autonomi", che si contrappone a quello classico dei "sistemi eteronomi" in cui la logica di relazione fra le parti è di corrispondenza (mentre quella di Varela è di coerenza), in cui il tipo di organizzazione è di input/output (al contrario degli autocomportamenti della chiusura operazionale) e in cui soprattutto il modo di interazione è di tipo istruttivo e rappresentazionale, mentre quello di Varela implica la produzione di un mondo, la creazione di un senso; significato che non esisteva prima dell'attività del sistema e che è come un "effetto collaterale", che emerge imprevedibile e inseparabile dall'attività sistemica stessa.

Un altro fondamentale contributo di Maturana e Varela (1984) è costituito dall' introduzione di una distinzione tra i diversi ambiti di osservazione che possono essere presi in considerazione nello studio di un sistema. Nel caso di un essere vivente, ad esempio, occorre separare il dominio del funzionamento (sistema operativo) in senso stretto dell'organismo (cioè la sua dinamica di stati interni) da quello delle relazioni con l'ambiente esterno (sistema manutentivo).

Tutto ci porta a prospettare due linee generali. Una può essere chiamata linea entropica: è la nota storia dell’energia. Qualsiasi tipo di forza, nel momento in cui viene utilizzata per compiere un lavoro, si trasforma solo in parte in lavoro, mentre per il resto si dissipa nell'ambiente (come calore e/o rumore, vibrazioni, ecc...). Questa legge fisica è chiamata entropia e descrive la tendenza naturale a passare da forme ricche di energia a forme povere di energia e da forme ricche di "organizzazione" a forme povere di "organizzazione". Il principio dell'entropia fu formulato studiando le macchine a vapore, ma ben presto si scoprì che il suo significato era molto più ampio. Introduceva in fisica l'idea di processi irreversibili, di una direzionalità o freccia del tempo. I fenomeni fisici presentano sempre la tendenza verso la dissipazione. La vita si contrappone al principio dell'entropia. Jacques Monod, premio Nobel per la biologia, cercò di spiegare la vita come il risultato di condizioni iniziali improbabili. In questo modo l'entropia ammette un solo tipo di comportamento: la scomparsa di ogni attività macroscopica e di ogni organizzazione. Ludwig von Bertalanffy, partì dalla considerazione che oltre all'entropia, che è una forza dissipativa che porta i fenomeni organizzati a disorganizzarsi, debba esistere anche una forza simmetrica all'entropia, una forza che porta alla creazione di ordine e di organizzazione.

Bertalanffy chiamò questa nuova forza neghentropia (cioè entropia a segno negativo). In particolare Bertalanffy legò il concetto di neghentropia al concetto di organizzazione e di informazione.

Nel 1942 Luigi Fantappié, uno dei maggiori matematici italiani, propose la teoria unitaria del mondo fisico e biologico. In definitiva Fantappié delineò un’altra linea che ha chiamato sintropica – in forza della quale la materia si sintetizza, si organizza, sale per lo strutturarsi di esseri di valore intrinseco sempre crescente, soggetta quindi ad un finalismo insito nella natura stessa dell’esistenza di ogni cosa: per usare una espressione

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di Teilhard de Chardin (1881-1955), una linea di creazione per via di evoluzione crescente26.

Fantappié partì dai principi della fisica relativistica e quantistica per mostrare che l’equazione di D’Alambert, che regola la propagazione delle onde, poteva essere risolta secondo due soluzioni: i potenziali ritardati e i potenziali anticipati (fig.1).

I potenziali ritardati descrivono le onde divergenti da una sorgente posta nel passato.

I potenziali anticipati descrivono le onde convergenti verso una sorgente posta nel futuro. I fisici avevano accettato le soluzioni dei potenziali ritardati, perché hanno un chiaro significato causale, scartando quelle dei potenziali anticipati ritenute non esistenti in natura.

Fantappié dimostrò che le soluzione dei potenziali anticipati corrispondono ad un nuovo tipo di fenomeni, che chiamò sintropici. Questi fenomeni furono identificati con quelli più tipici della vita.

Mentre alle soluzioni dei potenziali ritardati corrispondono invece i comuni fenomeni della fisica e della chimica, che vengono chiamati entropici.

potenziali ritardati

potenziali anticipati

Essere- Entropia Dover-essere – Sintropia Fig.7 – Potenziali ritardati e potenziali anticipati di Fantappiè

Fantappié (Fig.7) mostrò che tutti i fenomeni entropici sono determinati da onde

divergenti, cause, poste nel loro passato, mentre tutti i fenomeni sintropici convergono verso una o più sorgenti poste nel loro futuro. In questo modo venne introdotto il

concetto di attrattore, cioè sorgente del fenomeno localizzata nel futuro.

26 Qualche anno dopo E. Schrödinger introduceva la entropia negativa, L. Brillouin la negh-entropia (collegata alla informazione) e P. Telihard de Chardin la energia radiale che si opponeva a quella fisica (o tangenziale). Infine, sia O. Costa de Beauregard (1957) sia F. Hoyle (1983) riconoscevano che l'unico modo per introdurre nella scienza i concetti di ordine, organizzazione e finalismo, è quello di utilizzare i potenziali anticipati, e cioè informazione che viene dal futuro. Nel 1952 Fantappié propose la Teoria degli universi fisici con la quale affrontava il problema di costruire per via matematica le possibili teorie fisiche, interpretando in particolare le leggi della relatività ristretta come invarianti del gruppo di trasformazione di Poincaré. Nel 1954 dimostrava inoltre che il gruppo di Poincaré è caso-limite di un nuovo gruppo e che quindi la relatività ristretta può essere estesa in modo univoco su scala cosmica, ottenendo così la relatività finale.

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Heddington affermava che l’entropia obbliga il tempo a muoversi dal passato verso il futuro, Feynman e Fantappié nel 1949 dimostrarono che la sintropia inverte la

freccia del tempo, cioè fa fluire l’informazione dal futuro verso il passato.

Luigi Fantappiè spostò, quindi, l’attenzione nel campo della energia e individuò il principio di complementarità nei due termini di entropia e sintropia.

Pertanto, quando il sistema segue solamente le leggi delle onde divergenti, entropiche, si ha un sistema meccanico, che funziona secondo il principio causa-effetto, determinato dal passato.

Diversamente, quando il sistema segue le leggi delle onde convergenti, sintropiche, cambiano i segni delle equazioni e si ha un sistema vivente che tende verso il futuro, motivato dal futuro.

Dunque possiamo affermare che particolari effetti, per adeguarsi esattamente al loro fine, reagiscono sulle cause che li producono e le condizionano al fine medesimo: si attua così il principio di retroazione (o feedback), che è alla base di ogni struttura autofunzionante e soprattutto della vita.

I comportamenti interpersonali determinano continue autoregolazioni comportamentali.

La sintropia (linea sintropica) è per eccellenza un principio organizzatore: organizzare vuol dire mettere varie cose in un certo rapporto tra loro secondo un’idea, un significato, un fine. E avviene questo: quando più cose si uniscono, secondo un fine, esse non esistono più per se stesse ma per l’essere che la loro unità ha generato. Si dice che esse si trascendono in questo nuovo essere e, pur rimanendo se stesse, non sono più se stesse, ma l’essere generato.

Questo atto di trascendenza costituisce il principio attivo dell’essere: una rete estremamente complicata di feed-back (retroazioni) che si stabiliscono per creare strutture ed organismi sempre più complessi e che si autoformano secondo le regole di una programmazione, a cominciare dalle primitive e più elementari associazioni molecolari, fino al formarsi dei primi organismi, sino a quelli superiori.

Questo feed-back è a spirale, perché l’energia proveniente dal futuro fa cambiare verso al moto circolare del fenomeno, il quale assume una posizione spazio-temporale diversa da quella originaria.

Appare evidente una linea finalistica che di trascendenza in trascendenza, ha elevato sempre più di grado le organizzazioni man mano che si realizzavano.

La linea finalistica si evolve secondo una rigorosa selezione di possibilità: ogni scatto organizzativo sorge su una grandissima quantità di energie andate a vuoto (cfr. la

logica fuzzy ci consente di selezionare le possibilità e di limitare le energie andate a

vuoto).

Negli anni ’60 si scoprì che l’interazione di entropia e sintropia porta a forme complesse ma ordinate note oggi come frattali.

I frattali sono figure geometriche caratterizzate dal ripetersi sino all'infinito di uno stesso motivo su scala sempre più ridotta.

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Fig. 8 - I frattali

Nel momento in cui sono presenti più attrattori, è difficile dire quale vincerà. Se ad ogni attrattore si assegna un colore e si colora ogni punto dello spazio a seconda di come vengono fatti variare i parametri (entropia) si ottiene un disegno complesso, ma ordinato.

L'unione di ordine e complessità, di entropia e sintropia, costituiscono la bellezza dei frattali.

La forma del dover-essere è quella dei frattali. Perché come il frattale (Fig.8) mantiene la sua struttura (i suoi quattro elementi

fondamentali). L’anello tetralogico è una entità ecclettica di incondizionata condizione e

realizza un sistema di valori sintropici. Tutto ciò rientra in pieno nella fenomenologia giuridica, perché è l’ordinamento

che, nella sua positività, orienta le scelte. Infatti l’organo che interpreta coattivamente la norma, e che è in grado di

modificare la sostanza dei rapporti intersoggettivi, i quali vengono portati al suo esame, deve adeguare la realtà astratta alla situazione concreta, tenendo conto della sostanza del fenomeno contingente, del dato sociale e del suo più intrinseco significato

Tra la realtà astratta della norma e quella concreta della società si inserisce un’attività interpretativa, la quale è rimessa a criteri pregiuridici.

Il termine interpretazione si può riferire a due accezioni diverse del verbo essere. "E’" può essere inteso nel senso di equivalenza vera e propria, il segno = nelle equazioni, oppure nel senso di analogia. Provengono da questa differenza due tipi di interpretazione, quella riduttiva, che è una decodifica di una espressione oscura, e quella ermeneutica, che è un modo di allargare l’espressione relazionandola con le esperienze personali e indirizzandola a una più ampia visione del mondo e quindi della società.

L’interpretazione in senso ermeneutico è una modalità che rispetto all’interpretazione riduttiva lascia evidentemente spazio al vissuto personale: malgrado però che implichi l’analogico, non necessariamente implica la sospensione dal giudizio, e può non essere sufficiente al contatto con l’esperienza del qui e ora.

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CAPITOLO I

LAVORO

1.1 – Il lavoro: il concetto Non è possibile offrire una definizione scientificamente pura e quindi obiettivamente valida del concetto lavoro. Ma l’esempio più probante e decisivo dell'impossibilità per lo scienziato di prescindere nella determinazione stessa del proprio compito, da una presa di posizione valutativa (o, se si preferisce affermare, ideologica) si può trovare nell’attribuzione, di un significato particolare e specifico alla parola “lavoro”. Attribuire a determinati fenomeni il carattere lavoro, non è, infatti, altro che dare ad essi una rilevanza particolare rispetto ad altri fenomeni, rilevanza che è di per sé stessa una connotazione di valore. Definire il lavoro, è dunque già per se stesso prendere posizione, circa i fini dell’agire umano, è stabilire una gerarchia fra diverse forme, è una scelta di valore, gravida di una particolare visione della vita e dell’uomo. Posto ciò come non chiedersi se l’intento di trattare scientificamente il lavoro, in maniera del tutto distaccata e imparziale, non sia anch’essa il risultato di una scelta, diciamo pure il segno di una particolare ideologia? Di questo passo si finirebbe per considerare il prodotto “lavoro”, come il prodotto di un contesto storico e sociale ben determinato. Nasce perciò l’esigenza di stabilire esattamente che cosa significa l’attribuzione lavoro, quali conseguenze ne derivano. Occorre dunque affrontare finalmente l’uso che si fa di tale parola, per poi attribuire ad essa, “ragioni” che non descrivano dei fatti, ma prescrivano delle scelte, propugnare dei valori. Ecco che occorre essere coscienti dei nostri limiti e delle difficoltà che ci provengono dall’imperfezione degli strumenti che disponiamo. Abbiamo pure il dovere di ammettere, che il lavoro esiste soltanto in quanto ci sono degli uomini che lo riconoscono e che lo fanno tale. La nostra civiltà è la civiltà del lavoro, perché è nata e progredisce con il lavoro.

Si parla ancora di dignità, del lavoro, di dovere del lavoro, di diritto al lavoro, affermandosi con ciò che il lavoro è un valore nell’ordine etico-giuridico tale che all’uomo conferisce e l’uomo eleva.

Si accenna persino ad una religione del lavoro, nell’intento di collegarlo ad una veduta, se non più trascendente, immanente della vita e del nostro destino, sì da farne un culto, una specie di rivelazione, appunto la religione del lavoro, una religione laica ed umana.

Da questi punti di vista: economico, tecnico, giuridico, etico, religioso, il lavoro acquista un’importanza sempre maggiore nel senso che non se ne può prescindere per l’intendimento della vita.

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Che cosa è il lavoro, che cosa comporta, quali aspetti presenta e tra questi, quelli che ne costituiscono l’essenza, sono interrogativi a cui, non è agevole dare una risposta.

Il termine “lavoro” ci appare di per sé polisenso, tale da corrispondere ai più diversi concetti.

Esso denota tanto la forma o l’azione generale del lavoro, quanto la cosa lavorata o prodotto, quanto infine lo sforzo sostenuto per produrre, essendo sinonimo di fatica.

Inoltre nella sua generalità congloba l’attività della mente e quella della fabbricalità, la fatica fisica e l’intellettuale, tutte da noi dette genericamente lavoro o lavori.

Dunque, lavoro è termine sintetico dell'atto del costruire, del prodotto ottenuto, della fatica compiuta; è termine sintetico dell’oggetto, dell’azione e della relazione di produzione tra soggetto e oggetto.

E se tanti punti di vista diversi si assommano nel termine comprensivo di lavoro, in un sostantivo, è evidente che questo va chiarito concettualmente, va arricchito di predicati perché possa intendersi.

La parola lavoro rivela la complicazione di attribuzione di significato specifico atteso che anche gli idiomi antichi e quelli moderni stranieri rivelano la stessa complicazione.

Basta pensare al greco, topos che significa in primo luogo fatica, quindi lavoro, e per traslato, opera faticosa, cosa conseguita con il lavoro che è fatica, ove, come si è tante volte notato, l’aspetto dominato e primario è ciò che noi diciamo travaglio, gli aspetti derivanti tutti gli altri.

Osservano gli etimologisti che la radice del greco topos, è lo stesso del latino poena. E analogamente si dica del latino labor, e del fr. travail deriverebbe da travailler dal basso lat. tripaliare “torturare col tripalium” e poi “faticare, lavorare”.

Così pure bisogne (cfr. it. bisogna) è ciò che occorre fare in quanto è dovere fare, anche se volentieri ne faremmo a meno, lavoro doveroso e però non piacevole.

Anche il tedesco arbeit, l’inglese labour e work, presentano la stessa problematica, cosicché occorre concludere che non è il termine ad illuminare il concetto ma sono i concetti a dar senso ai termini, a dar senso al termine.27

Se si dovesse stare a quanto sopra detto, il termine lavoro dovrebbe riferirsi solamente ad una cosa: lavoro è attività del produrre e cosa prodotta e ancora la relazione produttiva del soggetto e dell’oggetto in quanto impegni fatica o pena; ma questa veduta, non è esatta, perché il lavoro non ha solo aspetti penosi, produce anche gioia.

Questi attributi del concetto, questa qualificazione ulteriore della nozione, non appare nel termine chiarito etimologicamente e nel suo significato lessicale, il quale si rivela da tale punto di vista del tutto insufficiente.

Lavoro è concetto complesso, perché impegna i più diversi aspetti della vita, però riguarda le più diverse scienze, ciascuna delle quali si occupa di esso diversamente.

La filosofia diversamente dalle altre scienze mira a rilevare tutti gli aspetti ed ad unificarli in una nozione integrale, il concetto di lavoro come essenza dell’uomo che sia

attività, che in sé attinge l’oggetto e lo costituisce.

L’atto di consapevolezza e di creazione che dà inizio allo spirito è già lavoro. Data una definizione filosofica del lavoro, vedremo come questa unifichi i vari

aspetti del lavoro, quali sono definiti dalle altre discipline. 27 F. BATTAGLIA - Filosofia del lavoro - Bologna 1951

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Perché la nostra indagine non permanga sterile, svolgeremo questa trattazione per arrivare ad una definizione del concetto lavoro e su tale concetto costruire il sistema diritto del lavoro. La definizione si ha col progresso dello studio, si integra e si rileva chiara alla fine dello studio.

Si muove da una nozione provvisoria, presupposta, e la si saggia nell’esperienza, negli aspetti vari che offre, la si cimenta con le difficoltà, se ne eliminano le aporie, si affina nelle sfumature, e infine si rileva il concetto, si attinge la definizione, non un concetto chiuso, una definizione esauriente per sempre, ma tale che appaghi l’ansia presente, valida in relazione ai nostri attuali problemi.28

1.2 - Lavoro come ricerca del suo fondamento Il lavoro come ricerca del suo fondamento spiegherebbe il perché del lavoro. L’oggetto della ricerca è quella che con un vocabolo desueto recentemente tornato in favore, si chiama la sua “legittimazione”. Tale problema si può dire accomuni pensieri antichi e contemporanei e perciò sinteticamente la legittimità potrà essere tradizionale o razionale. Con il termine tradizionale la legittimazione del lavoro viene ricercata nella sua istituzione divina. Soprattutto su questo aspetto si fonda la condanna che la filosofia antica e medievale, ha pronunciata sul lavoro manuale. Per questo aspetto, il lavoro fu considerato

Nell’antichità classica, sia i greci sia i romani, consideravano il lavoro come un peso29 che deprime l’uomo.

Il lavoro è legato alla produzione delle cose materiali della vita e perciò affidato ad esseri non liberi, abietti, agli schiavi.

L’uomo non lavora poiché se lavora si avvilisce e perde la propria libertà. L’uomo libero è solamente impegnato nell’esercizio della politica e delle armi. L’ideale è l’uomo contemplativo perché è indipendente e come tale non

condannato a lavorare, a svolgere arti vili, faticose e penose, e perciò degno dell’essenza umana: la libertà.30

28 F. BATTAGLIA op.cit. 29 ADRIANO TILGHER “Il lavoro è per il greco un malanno inevitabile almeno “.fino a quando - scrive ironicamente

Aristotele - le spole andranno da sé e i plettri faranno risonare da soli le cetre”. E Platone ed Aristotele giustificano la schiavitù con la necessità che una parte, la maggiore, dell’umanità sia addetta al duro ufficio di trasformare la materia per la soddisfazione dei nostri bisogni, perché un’altra parte, la minore, gli eletti, possa esercitare le pure attività dello spirito: l’arte, la filosofia, la politica..........Identica in fondo, a quella dei Greci è la dottrina dei Romani sul lavoro, rappresentata specialmente da Cicerone. Per Cicerone sono degni di un uomo libero innanzi tutto l’agricoltura, poi il commercio in grande, soprattutto se mette capo a un onorevole ritiro nella pace dei campi. Tutte le altre arti sono vili e disonoranti. Le arti meccaniche non meno che il piccolo commercio, la locazione delle proprie braccia non meno che l’usura. Esse avviliscono l’animo asseverandolo alla ricerca del guadagno e ponendolo nella dipendenza d’altri (De

officiis, I, 42)” In Homo Faber - Storia del concetto di lavoro nella civiltà occidentale - Analisi filosofica di concetti

affini, - pag.9-11, 1944- Roma . 30 PLATONE , Repubblica, pag. 369 e segg. Trad. it. di G. FRACCAROLI; CICERONE De Officiis I,42; SENECA De otio ad Serenum; ESODO Le opere e i giorni. “....il lavoro è necessario perché Giove lo ha imposto agli uomini in

conseguenza del peccato di Prometeo...”

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In tale visione del mondo, non c’è posto per il lavoro materiale, che mescolando l’anima alla materia e contaminandola con il contatto di essa, l’allontana dalla visione dell’idea: esso è un male inevitabile da ridursi al minimo, e, al limite, da sopprimere completamente31.

Non mancano però filosofi che celebrano le virtù e la dignità del lavoro anticipando certi contegni di vita che avranno diffusione e significato solo col cristianesimo in cui si intravede la mancanza in loro del vero concetto della personalità umana, che è libertà ed autocreazione32.

Il senso della vita come un universale valore di tutti gli uomini noi l’abbiamo acquisito col cristianesimo.

Con l’ebraismo il lavoro è pena, fatica, travaglio, però motivata, poiché l’uomo è condannato a lavorare, perché deve espiare il peccato originale, quello che Adamo ed Eva hanno commesso nel Paradiso terrestre33. Attraverso il lavoro l’uomo si riscatta e si riottiene, sul piano naturale, quel bene che si era perduto in cospetto a Dio: la dignità. Quindi il lavoro resta come per i Greci, un duro travaglio ed è faticoso perché è il pegno della riappacificazione degli uomini con Dio.34

Non mancano nell’ebraismo antico e più recente, tendenze ascetiche dove si giunge ad identificare il ricco e potente con il malvagio e il povero e il debole con il santo e quindi viene negato il lavoro e con esso svalutata la ricchezza ed il risparmio.35

Ciò consente di affermare che la visione ebraica del lavoro rappresenta un progresso rispetto a quella classica, poiché non esclude anzi esige nel suo dominante aspetto una valutazione dell’attività umana.

Il mondo così non è semplicemente essere, è dover essere; non è realtà già data e compiuta, che si tratta solo di contemplare, è un ideale che deve essere realizzato dallo sforzo dell’uomo.

31 ARISTOTELE “... La costituzione perfetta non farà mai cittadino un operaio meccanico” , Politica, III, III, 5 32 Tra i sofisti si ricorda Prodico di Ceo secondo cui il lavoro è in definitiva radice che da dignità alla vita tanto da elevare Ercole, eroe delle fatiche, a simbolo di virilità consapevole, potenza efficiente, attività. Platone nel Carmine ne rimase ammirato pur essendo tale espressione frutto del pensiero di un sofista. Anche Socrate pregia il lavoro, rilevandone tutta la dignità, e non solo riferendosi all’attività intellettuale ma anche a quella manuale. Queste due teorie sul lavoro così diverse e antinomiche vanno ricondotte nel quadro della religione misterica e quindi della classe diseredata che si pregia di lavoro, cosa dura e faticosa, le cui soste sono le feste religiose, il cui riscatto è nella vita eterna, da un lato, dall’altro l’aristocrazia, olimpica essenzialmente contemplativa ed estetica. In effetti il lavoro viene celebrato proprio dalla povera gente, da scrittori come Antistene che era un plebeo, da Socrate che aristocratico non era, dai sofisti i quali appunto rappresentano la crisi della città gentilizia, della religione ufficiale, accogliendo i fermenti che venivano dal basso. Eccezioni queste, perché la diffusione nella popolazione della religione olimpica, legata alla contemplazione ed all’estetica, conduce l’uomo greco al disdegno per il lavoro che è disdegno per quanto è pratico perché manuale, non intellettuale e speculativo, versante nelle cose e non sublime nel pensiero. Perciò l’antitesi tra il lavoratore ed il pensatore è completa. Comunque il dualismo metafisico, per la prima volta, legittima dualità di ceti, per cui al lavoro triste retaggio delle masse si oppone il privilegio della cultura e dell’intellettualità riservato a pochi. Per il greco la scienza è scienza pura e non applicata. L’uomo libero pensa, si affina nel pensiero; lo schiavo lavora e si confonde con le cose, divenendo materia egli stesso. Il dualismo istituzionale di schiavi e di padroni riflette un dualismo che è nella realtà: di uomini superiori e di uomini inferiori, di pensiero e di prassi. La ragione delle antinomie evidenziate e in quelle in cui si avvolge il pensiero di Aristotele a proposito della schiavitù deve ricercarsi nella mancanza in lui, come in altri pensatori greci del vero concetto della personalità umana, che è libertà di autocreazione. 33 Genesi, III, 17-19; TILGHER “Gli Ebrei non vedevano lavoratori intenti all’opera dei campi senza salutarli e benedirli (Salmo 129). Ma il lavoro resta pur sempre un duro giogo, pesante a portare, e l’Ecclesiaste sospira:”la fatica dell’uomo no sazia l’anima” pag. 14 op. cit. 34 Ecclesie, VI, 7. 35 Apocalisse e nel libro dei Profeti. Del resto le differenze di scuola sono molteplici: la scuola di Rabbi Simeon condanna il lavoro, mentre quella di Rabbi Ismael lo pregia.

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La vita quindi, non è l’eterno ritorno delle medesime cose e dei medesimi eventi, è il continuo e graduale processo di restaurazione dell’armonia primigenia distrutta.

In definitiva il Cristianesimo primitivo si pone il problema del lavoro, e lo risolve nel senso tradizionalmente giudaico che esso è imposto da Dio all’uomo come conseguenza del peccato originale e come pena di esso. Però il Cristianesimo primitivo riconosce al lavoro anche una funzione positiva: lavorare è necessario non solo per guadagnarsi la vita e per essere in condizione di non aver bisogno di nessuno, ma anche perché chi non ha beni di fortuna possa disporre dei mezzi di fare la carità ai fratelli che ne hanno bisogno.36

Il lavoro è così strumento dell’opera di amore e di carità, e su di esso cade un raggio della luce divina attraverso cui essa si diffonde.

Con l’avvento del cristianesimo il regno da raggiungere che era avvolto nella materialità, diviene spirituale, fruizione spirituale non di beni materiali, bensì di beni spirituali, non per un popolo (il popolo di Israele) ma di tutti i popoli, per gli uomini affratellati nel sacrificio divino in quel Cristo che per essi hanno saputo morire.

Nei quattro Evangeli il diniego del lavoro è deciso.37 L’ordine provvidente di Dio non esige il lavoro, Dio dà ai suoi fedeli di che sostentare la vita, che tutta deve protendersi al bene supremo nel rispetto dei beni contingenti. Ciò che si condanna è l’aderenza ai beni materiali in quanto ci leghiamo alla terra, non i beni materiali in sé e per sé, e tanto meno il lavoro, che può divenire eticamente negativo.

Il lavoro da maledizione divina della Bibbia che fa seguito al peccato, assume con San Paolo funzione positiva. È la famosa formula paolina: “Chi non vuol lavorare, non

mangi”; nel senso che unico titolo per avere vitto sia l’avere lavorato, mentre più genericamente deve intendersi che chi non abbia personali ricchezze quegli deve lavorare per non essere aggravio a nessuno.

È l’indipendenza che sta a cuore di San Paolo, non il diretto rapporto tra lavoro e sussistenza.

Erra chi pensa che il lavoro con San Paolo e con i primi documenti cristiani assuma un valore autonomo proprio: esso ha una dignità indiretta di mezzo, non diviene mai fine in sé, è mezzo per gli scopi della vita cristiana: “Chi non vuol lavorare, non mangi,” è derivato dall’obbligo di non addossare agli altri la fatica e la pena del lavoro (II tessal., III 8-10).

Nello stesso senso veniva prescritto il lavoro da Sant’Agostino (De Operibus Monachorum, 17-18) e da San Tommaso (S.th., II, q.187 a.3) come precetto religioso.

Il cristianesimo è amore e carità e come tale apre la via per intendere l’uomo come persona, asserisce la personalità dell’uomo come soggetto morale. Ne scaturiscono corollari d’alta importanza, l’uguaglianza di natura degli uomini rispetto a Dio, l’universale dignità dell’uomo come soggetto morale, ciò che si dice la personalità.

All’ozio contemplativo del pensiero classico si aggiunge la pratica caritativa cristiana che non esclude l’intellettuale godimento di Dio, ma ne è l’integrazione.

Intendere l’uomo in senso cristiano significa comprendere il lavoro in maniera diversa da come era inteso nell’antichità tant’è che lo schiavo non era più cosa ma persona.

36 Efesi, IV, 28; Epistola di Barnaba, XIX, 10. 37 Matteo, VI 25-34; Luca, XII, 22-34.

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La patristica e la scolastica riaffermano le antitesi che sono nel cristianesimo primitivo e dell’età apostolica.

Però i monaci e gli eremiti erano lavoratori. Le regole prescrivevano l’obbligo del lavoro e il modello della vita eremitica era il lavoro. Il lavoro serve per combattere l’ozio e serve per provvedere ai bisogni dell’anima (il lavoro intellettuale) e del corpo. Così le sette ereticali sono tutte praticanti il lavoro, nel presupposto che il provvedere alla propria sussistenza col proprio travaglio assicura indipendenza e come tale consente di realizzare il pauperismo, l’opposizione alla ricchezza.

È in fondo la posizione di san Francesco, il quale anche egli nella regola impone il lavoro che si colora di gioia e non è più duro e quindi penoso38.

Il lavoro intanto è obbligatorio, in quanto è necessario a mantenere il singolo e la collettività di cui fa parte.

Mancando lo scopo, l’uomo non ha bisogno di lavorare. Lavoro, dunque, sì, ma solo nei limiti della legge di natura che è legge divina. E

dinanzi a questa legge il lavoro non assurge mai alla dignità di fine autonomo, resta semplice mezzo subordinato allo scopo che è la vita.

Il lavoro fine a sé stesso, il lavoro per il lavoro è un concetto che la Chiesa ripudia per la stessa logica interiore per cui respinge il concetto della vita fine a sé stessa.

A partire dal ‘400, la dignità del lavoro manuale, si afferma tanto che Galileo esplicitamente riconosceva il valore delle osservazioni fatte dagli artigiani meccanici ai fini della ricerca scientifica (Discorsi intorno a due nuove scienze, in Op., VIII, pag. 49).

Ciò che caratterizza il rinascimento è il senso della dignità dell’uomo, della sua personalità, della sua creatività, possibile ove si tenga ferma l’intuizione cristiana. Così dall’oggettivismo del pensiero classico si sostituisce il soggettivismo cristiano, che il rinascimento mantiene e approfondisce.

L’umanesimo rinascimentale, dunque, valorizza l’humanitas il valore dell’uomo, in tutti i suoi aspetti, sia come ragione sia come volontà.

L’uomo non è più passivo dinanzi alla natura e alle cose, è attivo ed efficace, si scopre detentore dei principi che regolano il mondo. L’uomo è un quasi-Dio, è attività.

L’azione non nasce da una necessità bensì dalla scelta consapevole e responsabile dell’uomo.

Perciò il rinascimento celebra il lavoro. Il suo apprezzamento nasce spontaneo nella visione umanistica. Esso, che i cristiani ritenevano conseguenza del peccato, che i pagani ritenevano indegno dell’uomo libero, si trasvaluta in un nuovo apprezzamento dell’humanitas come libera attività razionale.

L’ozio è condannato come disumano, il lavoro invece costituisce la vera essenza umana. All’uomo gli occorrono gli strumenti e perciò li crea; così nascono le arti ed il lavoro diviene simbolo di civiltà e progresso39.

38 TILGHER “.... Ma al fondo di questa prescrizione chi ben guardi troverà non già un cresciuto senso della dignità del lavoro, ma uno spirito di rinuncia al mondo e ai suoi beni, disprezzo della ricchezza e di esaltazione della povertà: uno spirito essenzialmente poveristico e ascetico che, credendo erroneamente di confermarsi al messaggio di Cristo, vede nella povertà un valore religioso assoluto e da esso soltanto deduce come necessario corollario il precetto di vivere del lavoro delle proprie mani”. pag.37 op.cit. 39 Teorici del lavoro come concetto chiave dell’etica in questo periodo ricordiamo M. PALMIERI Della vita civile, M. FICINO, Theologia platonica, XIII, 3, L.B. ALBERTI, Della tranquillità dell’animo, in “Opere volgari”,

LEONARDO DA VINCI, GIORDANO BRUNO, TOMMASO CAMPANELLA.

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Nel rinascimento la pratica è posta sullo stesso piano della contemplazione classica, tanto da realizzare il suo primato.

Il limite di questa concezione umanistica consiste nel fatto che il lavoro che si

assume è lavoro di eccezione, come eccezionale ne è il soggetto. Vi è un lavoro altamente creativo ed un lavoro inferiore meccanico e manuale. La contrapposizione tra lavoro manuale e attività intellettuale verrà mantenuta anche nel Rinascimento.

Un passo di Giordano Bruno afferma che la provvidenza ha disposto che l’uomo “venga occupato ne l’azione delle mani e, contemplazione per l’intelletto, de maniera

che non contemple senza azione, e non opre senza contemplazione” (Spaccio della bestia trionfante, 1584, in Op. Ital. II pag. 152).

Con Giordano Bruno il concetto di lavoro assume a significazione metafisica, in un sistema nuovo ed originale, nel quale si raccolgono tutti i motivi rinascimentali, si apre la via per ulteriori sviluppi del pensiero.

L’uomo partecipa alla divinità della natura ed è intelletto e volontà che come operatore e fattore si esplica nel lavoro.

Però il Bruno che pur celebra il lavoro segno dell’eccellenza umana, distingue nettamente cultura e lavoro.

Nessuno più di lui che certo riconosce il valore dell’operosità, eleva la visione dell’Unus però la riserva solo ad alcuni, sicché l’umanità rimane divisa in due gruppi senza alcun collegamento.

Il dualismo delle facoltà, la loro gerarchia diviene gerarchia anche di ceti. Inoltre dalla esigenza di distribuire fra tutti la pena e la degradazione del lavoro manuale sono ispirate l’Utopia di Tommaso Moro e la Città del Sole di Campanella, che prescrivono per tutti i membri della loro città ideali, l’obbligo del lavoro.

Il Campanella nella Città del Sole fonda sul lavoro la struttura ideale della sua repubblica, infatti egli non solo idealizza la comunanza dei beni e delle donne, ma delinea tutto un sistema di educazione che si fonda sul sapere e sul lavoro, tali che non si possano dissociare.

Il superamento del tradizionale dualismo di lavoro intellettuale e di lavoro manuale, di lavoro qualificato e di lavoro sordido, che poi diviene dualismo di classi e di ceti, dà insomma al Campanella un posto eccezionale nel concetto di lavoro, anche perché è il primo ad affermare il valore pedagogico del lavoro.

Anche Francesco Bacone ha un alto concetto del lavoro, tanto da concepire la scienza come tecnica, mezzo di dominio dell’uomo sulla natura, diversamente da Tommaso Moro che se esalta il lavoro, egli idealizza la contemplazione dello spirito40.

La riforma protestante ha indirettamente generato atteggiamenti spirituali prima che pratici che sono stati favorevoli allo sviluppo di una più piena nozione del lavoro.

Anche per Lutero il lavoro non cessa di essere remedium peccati come nel medioevo, però assume un significato nuovo: il lavoro come servizio divino.

Ciò significa che la professione mondana, in quanto compiuta con spirito religioso, è l’esercizio di un culto che non ha mediatori. Dio secondo Lutero e per ciò che ci riguarda, non è fuori dal mondo, si proietta nel mondo, lo dispone al suo fine: il lavoro ne è lo strumento mirabile.

40 A suo dire la felicità della vita consiste non nel lavoro che è servitù del corpo ma nella libertà dello spirito e della cultura. T. MORO Utopia.

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Il concetto di lavoro acquista nel pensiero di Lutero estensione universale. Su di esso poggia la società; esso è fondamento della proprietà; per esso si attua principalmente la divisione degli uomini in classi sociali.

Il lavoro ha per scopo soltanto il sostentamento, non il guadagno. L’originalità di Lutero sta nel evidenziare che il lavoro è servizio divino. Pertanto

se l’attività, ogni attività, in quanto tale, è divina, cade ogni ragione di differenza tra servizio divino e lavoro quotidiano, tra culto e professione.41

Il lavoro che in Lutero aveva un significato vocazionale, professionale del divino, diviene in Calvino42 lo strumento di un’ascesi mondana per cui ci si vota ad esso al fine di instaurare il divino nel mondo: il lavoro è servizio divino.

Quindi, lavoro per Dio in terra, tendenza al guadagno per testimoniare di una vocazione: ciò che fu detto nuova ascesi vocazionale, nuova ascesi mondana in opposizione all’ascesi medioevale.

Ne vengono gravi conseguenze. Innanzi tutto la razionalizzazione del lavoro. Se esso ha un così importante significato nella nostra destinazione, non converrà abbandonarlo al caso, occorrerà razionalizzarlo o come si suole dire organizzarlo.

Ecco che l’esercizio di una professione non è causale, è la posizione che Dio ci assegna nel mondo per lui, perciò bisogna darsi tutto ad esso, in uno sforzo razionale, programmatico, della cui specialità siamo ben consapevoli.

Il lavoro quindi è la vocazione, la ricchezza, il dono di Dio, perciò non appare, come concetto unitario, nel senso che a tutti assicuri la salvezza, ma solamente a coloro che donano tutti i beni della vita, tant’è che l’individualità qualificata è ancora retaggio di pochi eletti ed il lavoro per loro è attività e creazione.

C’è dunque lavoro e lavoro, lavoro qualificato e lavoro manuale in un dualismo sempre presente ma arricchito dall’individualità della creazione segno di elezione per quei pochi che Dio appunto elegge, essendo la fede efficace solo a coloro cui è elargita.

Il lavoro, quindi, che è grato solamente a Dio non è il lavoro saltuario e occasionale, è il lavoro metodico, disciplinato, razionale, uniforme, perciò specializzato.

Il lavoro viene quindi affrancato dalla soggezione alla professione come dato di natura per divenire il lavoro per il lavoro.

Nel settecento il lavoro si presenta in forme nuove, tanto che viene considerato su un piano di umanità assoluta, conformemente allo spirito dei tempi che è razionalista ed illuminista e si spoglia di ogni premessa religiosa per rivelarne gli aspetti utilitari ed economici. L’illuminismo in generale segna la rivendicazione della dignità del lavoro manuale; dal quale Rousseau voleva che Emilio acquistasse la prima idea della solidarietà sociale degli obblighi che essa impone (Emile - 1762, IV). Nel termine razionale, invece, la legittimazione del lavoro viene ricercata in una determinazione umana consapevole, nel culto del passato o in un calcolo utilitario.

Ciò avvenne nel Romanticismo quando si cominciò a stabilire il rapporto tra il lavoro e la natura stessa dell’uomo.

Queste vedute vengono espresse un po’ dappertutto.

41 TILGHER “....E’ con Lutero che la parola tedesca indiacnte professione, Beruf, acquista una colorazione religiosa che non perderà più, e che dal tedesco è passata in tutte le parole analoghe dei paesi protestanti. Professione e vocazione divengono sinonimo.... “ pag. 47 op. cit. 42 TILGHER pag. 49 e ss. op. cit.

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Locke, considera il lavoro e la terra come i due fattori della vita economica e nel senso che il primo operando sulla seconda crea la ricchezza; l’uomo “mediante il suo lavoro

rende una cosa suo bene particolare e lo distingue da ciò che è a tutti comune”. Il lavoro per il filosofo inglese è a fondamento di ogni valore. Locke, quindi, celebra il lavoro come fonte della proprietà individuale e scaturigine

di ogni valore economico43. Hume è più energico di Locke ed afferma che il lavoro distingue l’uomo dalla

bestia ed attraverso il lavoro stesso s’impadronisce della natura, perché generato povero e nudo sul mondo, compra tutti i beni della natura.

Rousseau è per la soluzione decadentista del lavoro, per la Natura contro la Civiltà e la Cultura ciò determina superfluo, il lusso, la ricchezza, il denaro e le arti che loro danno origine.

L’industria è nata per sviluppare bisogni e passioni ignote ai popoli vicini allo stato naturale. La divisione del lavoro che stabilisce rapporti di scambio e di proprietà genera dipendenza e schiavitù, e alla ricchezza eccessiva degli uni oppone la misera degli altri.

Ogni nuovo passo nella complicazione del lavoro porta seco aumento di dipendenza e d’ineguaglianza, quindi d’infelicità.44

Il lavoro che Rousseau apprezza è quello manuale e il lavoratore che apprezza di più è l’artigiano perché questi dipende solamente dal suo lavoro, più libero dell’agricoltore: egli porta via le sue braccia e se ne va.

Ferguson diversamente da Rousseau, mostra nella civiltà, frutto dell’attività e del lavoro umani, la vera natura dell’uomo e celebra come Hume, Voltaire, Mandeville, il lusso e la ricchezza.

Smith approfondisce il concetto lockiano per affermare che non occorre distinguere lavoro da lavoro, in quanto esso è sempre produzione, non c’è lavoro improduttivo.

Improduttivo è solamente l’ozio. Pertanto secondo Smith la vera ricchezza della nazione è nella quantità di lavoro che essa esegue e di cui è capace.

È il lavoro come attività dell’uomo che crea ogni anno la massa di beni che consuma, e non le forze naturali, che, abbandonate a sé stesse, rimarrebbero infeconde e sterili.

Smith, intuisce che il lavoro produttivo in quanto tale non può che appartenere a tutti i lavori che trasformano la materia, diversamente dai Fisiocratici, che ritenevano che il lavoro agricolo fosse l’unico a fornire il materiale della ricchezza, mentre l’industria e il commercio si limitano a mettere in opera.

Il lavoro, viene perciò considerato nell’economia della scuola liberale fuori da ogni preoccupazione morale, similmente a qualunque macchina che costa un capitale e che rende un interesse.

Nel ‘700 il lavoro è quindi al centro dell’economia senza distinzioni di sorta, manuale e intellettuale, agricolo ed industriale commerciale e bancario; poiché lavoro significa solo e generalissimamente attività utile dell’uomo di cui non si nega ma si conferma la dignità morale.

Vico con la sua formula verum et factum convertuntur (l’idealità del pensiero si converte nella realtà delle storiche concrezioni e che viceversa il fatto storico, se opera

43 LOCKE Governo civile cap. IV 44 ROUSSEAU Discours sur l’inegalité

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dell’uomo, partecipa del valore ideale che è nell’uomo in quanto pensiero e coscienza) concretizza il concetto che conoscere e fare si concretizzano nell’attività. Si conosce ciò che si fa e solo ciò che si fa.

Occorre l’opera per la conoscenza e la conoscenza è solo tale rispetto all’opera. L’homo cognoscens è altresì homo faber.

Il lavoro, quindi, per Vico ha in sé la conoscenza, essendovi solo conoscenza, nel lavoro.

L’idealismo germanico e Kant riprendono tale concetto, rappresentando lo spirito come attività, evitando i pericoli di qualcosa che oltre all’attività sia passività e si riproponga come contemplazione.

La coscienza assoluta che è nella coscienza comune, diviene attività costitutiva in un lavoro che è individuale, dell’individuo storico.

L’attività non è attività generica, essa suscita e crea, pone ed elabora, costruisce e trasforma, il lavoro nel senso specifico.

Conoscere è fare, è agire, è produrre è generatrice di unità, ordine e armonia. Fichte formula con chiarezza la funzione demiurgica dello spirito. L’uomo deve

trovare nell’attività e solo in essa la felicità. La fonte di ogni vizio è la pigrizia, l’inerzia, inerente alla materialità. Per

soddisfare i propri bisogni l’uomo non ha altra risorsa che lavorare la natura, e deve ridurla in sua soggezione.

Secondo Fichte ognuno deve poter vivere del proprio lavoro e lo Stato ha il diritto di vigilare che ognuno lavori quanto può e chi non ha fatto tutto il possibile per mantenersi e non ha potuto ha diritto al soccorso.

Perciò lo Stato deve assicurare ai cittadini il diritto al lavoro, perché ognuno guadagni con il lavoro quanto è necessario alla sua esistenza.45

Con Bergson la conoscenza riceve una soluzione pratica tant’è che il lavoro si relaziona con l’intelligenza umana, che è caratterizzata dall’invenzione meccanica: l’intelligenza è essenzialmente artigiana e meccanica.

L’intelligenza è l’utensile che consente all’uomo di conquistare la libertà dalla servitù e dall’azione determinata e identica e lo mette in grado di cavarsela in ogni situazione e di superare indefinitamente sé stesso.46

È grazie a Bergson che l’Homo faber diventa Homo sapiens. Nessuno prima di lui aveva detto che in quanto fabbro l’uomo celebra la sua divinità.

Fichte afferma che anche l’occupazione ritenuta più bassa e insignificante, in quanto è connessa con la conservazione e la libera attività degli essere mortali, è santificata allo stesso modo dell’azione più elevata (Sittenlehre,III, § 28). Ed Hegel ha dato la prima dottrina filosofica del lavoro che utilizza i risultati raggiunti da Adamo Smith nell’economia politica. Già nelle Lezioni di Jena (1803-04) Hegel considerava il lavoro come “la

mediazione tra l’uomo e il suo mondo”; difatti, a differenza degli animali, l’uomo non consuma immediatamente il prodotto naturale ma elabora, nei modi e per fini più diversi, la materia fornita dalla natura, dando così a tale materia il suo valore e la sua conformità allo scopo (Ved. Filosofia del diritto, par.196).

45 TILGHER, op.cit. pag. 86 ss. 46 TILGHER, op. cit. pag. 89

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Hegel ha anche messo in luce la crescita indefinita dei bisogni, l’importanza della divisione del lavoro e il rilievo che acquista, in base a questa divisione, la distinzione delle classi (Ib. §§ 195,241,245). Ha visto pure che la divisione del lavoro porta alla sostituzione della macchina all’uomo. Difatti con quella divisione, si accresce sì la facilità del lavoro e quindi la produzione; ma si ha pure la limitazione a una solo abilità e quindi la dipendenza incondizionata dell’individuo dal complesso sociale. L’abilità stessa, quindi, diventa meccanica e ne deriva la possibilità di surrogare al lavoro umano la macchina. Marx accetta questi capisaldi di Hegel, però insiste sul carattere naturale o materiale del rapporto che il lavoro stabilisce tra l’uomo e il mondo, contro il carattere spirituale espresso dal primo.

Infatti, i sistemi socialisti del XIX secolo rifiutano la concezione giudaico-cristiana del lavoro come espiazione, la quale presuppone la dottrina del peccato originale, ma privilegiano la filosofia di cui il Progresso è il concetto cardinale.

Il lavoro è obbligatorio ma è una piacevole occupazione poiché la soppressione dei lavori più duri per opera delle macchine e la loro sostituzione con lavori più facili e piacevoli renderà il lavoro un gioco, una passione.

Tale socialismo utopistico si contrappone a quello di Marx ed Engels dove il lavoro assume un significato più realista e non cedono all’utopia del lavoro attraente, del lavoro gioco.

Per essi, nella società nuova, il lavoro, quantitativamente ridotto al minimo del tempo e l’affermazione normale dell’uomo.

Nella società socialista il lavoro tende a liberarsi da ogni connotazione, scompare il contrasto tra lavoro intellettuale e manuale e diviene puramente tecnico e produttivo. Il lavoro diventa il modo normale di agire dell’uomo.

L’uomo tipo secondo Marx non è più il saggio o l’asceta o il cittadino, è il lavoratore inteso come produttore, il lavoro assume nella sua filosofia significato e importanza metafisica.

In questa concezione di Marx il lavoro assurge ad importanza demiurgica. Filosofare è lavorare. Il vero filosofo è il lavoratore.

Il lavoro diventa così la più alta dignità e nobiltà dell’uomo. Secondo Marx, il lavoro non è solo un mezzo di sussistenza ma è il mezzo che consente all’uomo di esser tale, il suo modo specifico di essere e di farsi uomo (Ideologia tedesca, IA; trad. it. pag. 17; Manoscritti economico-politici del 1844, I trad. it. pag. 230 sg.). Questa stretta connessione del lavoro con l’esistenza umana, che nobilita il lavoro stesso e ne fa un fine oltre che un mezzo, diventa un luogo comune della filosofia e in generale della cultura temporanea. E anche al di fuori dell’ambito marxista, il carattere penoso del lavoro è messo sul conto, non del lavoro stesso, ma delle condizioni sociali nelle quali esso si svolge nella società industriale e, quindi, ritenerlo “l’ottimo lavoro”. Dice Dawey “È naturale che l’attività sia piacevole. Essa tende a trovare una via d’uscita e il trovarla è in sé soddisfacente perché segna una riuscita parziale”.

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Se l’attività sia piacevole, essa tende a trovare una via d’uscita e il trovarla è in sé soddisfacente perché segna una riuscita parziale. Se l’attività produttiva è diventata così inerentemente insoddisfacente che gli uomini hanno bisogno di essere artificialmente indotti a impegnarsi in essa, questo fatto è un ampia prova che le condizioni sotto le quali il lavoro è svolto impediscono il complesso delle attività invece di promuoverle, irritano e frustano le tendenze naturali invece di indirizzarle verso la fruizione (Human Nature and Conduct, II, 3, pag. 123-124). Lo stesso Marcuse concepisce “l’ottimo lavoro” come un ordine di abbondanza che si ha “quando tutti i bisogni fondamentali possono soddisfarsi con un dispendio minimo di energia fisica e psichica e in un tempo minimo” (Ero e civiltà cap. 9, trad. it. pagg.212-213) Questi concetti si rifanno ad una premessa di valore e sono una semplice sottospecie di quelle dell’ottimo lavoro tanto che il lavoro ha assunto nella civiltà contemporanea, il mezzo che riporta infallibilmente l’uomo al paradiso perduto. Forse non è Adamo il primo lavoratore? Tentato staccò la mela ! Quindi, la categoria della legittimazione consente una maggior latitudine di interpretazione e di applicazione di quelle del lavoro ottimo, per limitarsi a indicare quali condizioni il lavoro deve ottemperare per essere (o meritare di essere) accettato come valido, lasciando indeterminati i modi in cui tali condizioni possono essere di fatto realizzate: si pensi alla varietà e molteplicità delle soluzioni oggi proposte e giustificate in nome di questo o quel principio. Ancora tale categoria consentirebbe anche il sovrapporsi dei principi di legittimità o di vivere fianco a fianco, senza che l’essere lavoratore si renda conto della loro possibile incompatibilità. Dunque, la categoria della legittimazione, è teoria dell’ideologia del lavoro ottimo, è quindi, teoria dell’utopia.

1. 3 - Lavoro: valore assoluto o valore relativo In senso lato il termine lavoro47, indica qualsiasi esplicazione d'energia colta a un fine determinato.

47 “La parola lavoro, come il corrispondente vocabolario labour, deriva dal latino labor -fatica, pena sforzo - riconducibile, presumibilmente, al verbo labare, vacillare sotto un peso. In Francia, intorno al XII secolo, compare sia il termine labeur, per designare le attività agricole che ouvrier, dal latino operaius. Il vocabolo attualemnte in uso, travail, apparso nell’XI secolo, si afferma - nell’attuale significato - solo verso la fine del XVII secolo. Già nella metà del XV secolo entrano nell’uso corrente anche la parola salaire - razione si sale, poi indennità sostitutiva della razione destinata all’acquisto del sale - e prolétaire, da proletarius, cittadino che conta solo per la sua discendenza (proles), in quanto privo del censo richiesto per l’iscrizione in una delle classi in cui era diviso il popolo. Tali termini, tuttavia, assumeranno il loro significato moderno solo verso la fine del XVII secolo. Nella lingua spagnola il vocabolo trabajo significava originariamente mettere al mondo, essere partoriente ma da alcune fonti viene ricondotto al latino tripalium, uno strumento di tortura composto di tre pali. Non sorprende, pertanto, che in alcune regioni dell’Italia nord-occidentale e nelle isole il verbo travagliare sia ancora oggi impiegato per designare un lavoro faticoso, duro, pericoloso. Questi brevi accenni storici sull’etimo del termine lavoro consentono, anzitutto, di rilevare che i momenti cronologici di affermazione dei relativi vocaboli, in diversi contesti geografici e culturali, sono situabili nel XII e nel XIII secolo, in pieno sviluppo della società feudale; verso la fine del XV e nel XVI secolo, in un momento di grande espansione economica e di avvio al modo di produzione capitalistico; nel XVII secolo, epoca di importanti rivoluzioni economiche, politiche e sociali. In secondo luogo, il contributo degli etimologi mostra inequivocabilmente che le idee

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Tale significato porta con sé il concetto d'energia e di forza che produce un risultato. Il lavoro, quindi è collegato allo sforzo che l’uomo compie, in un certo periodo di tempo, e in un certo ambito spaziale, per conseguire un risultato. In genere, è stato affermato per modificare in un determinato modo le proprietà di una qualsiasi risorsa materiale o simbolica, per conseguire beni economici onde accrescere l’utilità per sé (soddisfare i suoi bisogni) o per altri (come sacrificio che la collettività richiede al singolo per il soddisfacimento anche degli interessi collettivi). Questa è una concezione finalistica del lavoro, in cui ha rilievo non solo l’attività (umana), che rappresenta l’elemento fisiologico del lavoro, ma anche la sensazione penosa che a tale attività si accompagna e che rappresenta l’elemento psicologico del lavoro. Codesta concezione finalistica, comporta che l’attività è la somma di tutti gli atti sistematicamente volti a procacciare e distribuire i beni necessari al soddisfacimento dei bisogni umani. L’evoluzione che ha compiuto il genere umano, nella sua prestazione d'attività, è caratterizzata dalla scomparsa dell’isolamento individuale e dallo sviluppo di forme associative. In quasi tutte le attività lavorative, si maturò presto la debolezza e l’insufficienza del singolo nell’ottenimento dei beni occorrenti al soddisfacimento dei bisogni, per cui si ricorre all’associazione tra coloro che si dedicano a uno stesso tipo di lavoro e quindi alla costituzione del sindacato quale soggetto promotore delle tutele di diritti. Ecco che il funzionamento dell’associazione si attua, mediante la scomposizione dell’attività in atti singoli organizzati per la realizzazione di un risultato, ciò che nella sociologia del lavoro è indicato come “divisione del lavoro” e “coordinamento del lavoro”. Il primo vantaggio della “divisione del lavoro”, è quello di rendere più agevole a ognuno la possibilità di seguire nelle scelte dell’attività lavorative, l’inclinazione derivante dalle qualità naturali. Ecco che attraverso la scelta, il lavoro diventa utile per soddisfare il bisogno.

più antiche legate all’attività lavorativa rinviano alla sofferenza, alla pena al dolore, alla dipendenza, allo sfruttamento. Esiste, dunque, un significato arcaico e primitivo del lavoro che sottolinea la dimensione della fatica, della onerosità, dello sforzo, del peso, insiti nel lavoro, con una variabilità di natura quantitativa, fino al limite di usare il lavoro come pena e come restrizione della libertà personale. ......... In un primo senso generico, lavoro è qualsiasi esplicazione di

energia (umana, animale, meccanica) volta a un fine determinato. Già in questa sommaria concezione è presente l’idea del movimento, della trasformazione, della finalizzazione. In un senso più specifico, lavoro è l’applicazione delle

potenzialità psico-fisiche dell’uomo diretta alla produzione di un bene o di un servizio o, comunque, ad acquisire un risultato tangibile di utilità individuale o collettiva. In questo senso il lavoro viene concepito come un processo dinamico: è un movimento che si conclude in un prodotto o un servizio; è un mezzo di espressione delle risorse fisiche, intellettuali ed emotive dell’individuo; è un intervento di cambiamento sia dell’oggetto su cui si esercita l’attività lavorativa sia del soggetto che la compie il quale, nello scambio con l’ambiente fisico e sociale, sviluppa capacità e affina sensibilità che altrimenti potrebbero rimanere sopite; è una sequenza produttiva in quanto finalizza a conseguire un risultato utilizzabile e consumabile, direttamente o indirettamente, dal suo autore; è un territorio nel quale si attivano rapporti e stili di relazioni e di convivenza caratteristici di uno specifico e determinato contesto politico, economico, culturale e sociale....... In questo senso la vecchia concezione del lavoro come pena, sofferenza, disagio, dovere, sembra sfumarsi dovendo coesistere con una visione del lavoro come diritto, desiderio, investimento, creatività. Dobbiamo, cioè, abituarci a considerare il lavoro come un processo complesso, multideterminato, carico di significati simbolici sia individuali che collettivi...” F. AVALLONE Psicologia del lavoro - Ed. La Nuova Italia Scientifica - 1994 pagg. 15-17.

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La scelta è una manifestazione connessa ad un fatto organizzativo, che conduce, determina e costituisce il fine. La scelta dunque è sempre una scelta utile, perché collegata finalisticamente ad un bisogno. Essa consente di liberare l’energia, che a sua volta realizza la determinazione produttivistica del bisogno in termini d'obiettivo quantitativo e qualitativo. Si comprende, perciò, la rilevanza della “macchina” quale mezzo che libera l’uomo dallo sforzo fisico e lo vincola alla sua tecnica, e perciò diviene rispetto ad essa, un soggetto fungibile. Ecco che l’energia è rappresentabile e riproducibile nella forma che sono “le mansioni”, che poi vengono qualificate e specificate. Il concetto di forma è utilizzato per configurare la rappresentazione dell’energia che assume concretezza e consistenza. Mutando una espressione cara al diritto, è la veste esteriore di un atto (energia), necessaria perché l’ambiente sociale ne venga a conoscenza. perciò essa è rilevante. Ecco che l’energia diviene atto formale, cioè una forma sostanziale che determina l’energia e quindi il lavoro ad essere ciò che è, piuttosto che qualcosa d’altro. Per esempio la forma sostanziale del fuoco fa sì che il composto, nel quale essa esiste, sia fuoco e null’altro. L’atto è anche un'operazione mentale o fisica che costituisce una fase del processo entelechiaco, compiuto con l’intenzione di creare un comportamento modificativo, spazialmente e temporalmente determinato, quindi finalizzato al risultato. Per atto intendiamo, un momento del comportamento o della condotta, la creazione o tentata creazione di un mutamento da parte di un agente, l’esecuzione della scelta o decisione fatta da un agente (così il non agire può essere un atto). L’atto è lo strumento che soddisfa i flussi di bisogni umani e riesce a coinvolgere molti interessi, sia convergenti sia contrastanti fra loro, poiché in tale ottica, tutti i portatori d'interessi immediati o mediati, sono meritevoli di tutela. A questo punto, possiamo occuparci dell’oggetto del concetto di lavoro. Per oggetto intendiamo sia l’entità cui è rivolta l’attività del soggetto, (oggetto materiale) entità intesa nella sua concretezza, sia la modalità con cui tale entità è termine dell’attività del soggetto (oggetto formale) Per cui lo stesso ente può essere oggetto materiale di più atti, che hanno però un oggetto formale diverso, in quanto lo considerano sotto aspetti diversi. L’oggetto del concetto lavoro come termine di una qualsiasi operazione, attiva o passiva, si esprime in tre elementi: un agente, un obiettivo, una linea di azione a cui, in ogni caso, è ricondotta una forza, quindi un potere. L’agente del potere (o della forza) può essere una persona individuale o collettiva operante come entità singola. Il detentore di tale potere (o forza), si pone sempre degli scopi, determinando le linee d’azione per raggiungerli. Il potere-oggetto non potrebbe, infatti sussistere senza finalità, quali che siano, né vi sarebbe potere-oggetto se per conseguire queste finalità non si potesse scegliere una linea d’azione, intendendo per tali le possibili sequenze d’azione idonee a condurre alla realizzazione delle proprie aspirazioni.

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Fig. 1 - Aspetto statico

Queste affermazioni sono vere e proprie astrazioni e resterebbero tali, se considerate nel loro aspetto statico. Oggi quello che rileva non è tanto come ed a chi è stato distribuito il potere-oggetto, aspetto statico, ma come esso è esercitato, aspetto dinamico. Quindi, ciò che rileva è l’attività. Attraverso l’attività è possibile misurare il grado di subordinazione al potere e all’obbedienza. Infatti, è anche attraverso l’attività, ove sussista una legittima investitura ad esercitare il potere-oggetto, che si individua chi di fatto lo esercita.

Fig. 2 – L’anello tetralogico

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Abbiamo così individuato le strutture formali che rappresentano i possibili modi di organizzare i contenuti del concetto lavoro e le vie per trovarli. Certo è che non occorreva inventare nulla: le cose da dire, infatti, si trovavano già in partenza nella materia del nostro discorso, purché fosse interrogata opportunamente. A questo punto possiamo dare una risposta alla seguente domanda: che cos’è il lavoro ? Il lavoro essendo un valore non può che essere una entità eclettica di

incondizionata condizione.

Il termine entità qui indica un modo d’essere specificatamente definibile, cioè ogni oggetto del quale si possa definire lo status essenziale. Nel nostro caso indica che l’oggetto del lavoro è il nucleo in cui è contenuta

l’energia cioè qualsiasi forza, atta a produrre un effetto o a compiere un’attività che

rispetto allo spazio ed al tempo è, e non può non essere.

In definitiva l’insieme di eventi che sono nel cono di “luce” dell’ens e sono suoi possibili effetti. Tali eventi sono legati all’ens, da rapporti temporali di successione di tipo “invariante”, ovvero sono dopo l’ens per ogni soggetto agente. L’invarianza è una proprietà fondamentale, poiché il mantenimento, la riproduzione e la moltiplicazione del fenomeno ci consente di effettuare una definizione quantitativa degli elementi che costituiscono la struttura dell’ens e quindi come si vedrà successivamente del valore “lavoro”. L’invarianza, riproduttiva, quindi, è la capacità di riprodurre una struttura con un grado d’ordine molto elevato e poiché il grado d’ordine degli elementi che costituiscono la struttura del valore “lavoro” è dato dal peso di ogni elemento, l’invarianza ci consente di informarci sulla fonte-elemento, che ha funzioni di emittente.

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In definitiva l’attività non è altro che un artefatto, attraverso cui il soggetto esprime una delle proprietà fondamentali che caratterizza tutti i soggetti: quella di essere dotati di un progetto, rappresentato nelle loro strutture e al tempo stesso realizzato mediante le loro prestazioni. L’essere dotato di un progetto deterministico qualifica l’ens come teleonomico. Tale considerazione ci permette di ritenere che ogni attività presuppone un progetto a cui corrisponde una quantità di informazione che deve essere trasmessa, perché quel progetto, quella struttura si realizzino. Si può allora affermare che il livello teleonomico di una data attività corrisponde

alla quantità di informazione che deve essere trasferita, onde poter assicurare la

trasmissione del contenuto specifico di invarianza riproduttiva.

E’ facile rendersi conto che l’attuazione del progetto teleonomico48 fondamentale (cioè la riproduzione invariante) dà luogo, a modelli diversi e a diversi caratteristiche e specificazioni dei modelli. In definitiva il progetto dà ragione dell’essere e l’essere ha senso soltanto in virtù del suo progetto 49 e poiché l’obiettivo principale è quello di conservare e riprodurre la norma strutturale, il progetto non è altro che il postulato di oggettività, il dover essere. Quindi, similmente alle cellule animali e delle piante il nucleo è la struttura interna più grande e meno visibile, nonché quella che è stata scoperta per prima: lo indica il termine stesso “eucariote” (dal greco karyon = nucleo). Il nucleo presenta una serie di proprietà che si muovono. Il nucleo scambia sostanze con l’ambiente esterno, può essere stimolato a reagire in modo complesso a influssi esterni, sintetizzando e adeguando l’energia occorrente per produrre ciò che soddisfa il bisogno. Ciò ci consente di riferire la distinzione tra energia potenziale (o di posizione) ed energia cinetica ( o di movimento) dovuta al Leibniz che la esprimeva nel 1686 in una memoria intitolata Demostratio erroris memorabilis Cartesii, che a noi serve semplicemente a comprendere il momento statico e quello dinamico del lavoro. L’inevitabile schematismo staticità e dinamicità, rappresenta opposizioni concettuali e stereotipate per rappresentare la filosofia dell’essere, il cui capostipite è Parmenide e la filosofia del divenire, il cui corifeo è Eraclito. Sebbene tali due tipi di modalità - staticità e dinamicità - siano da tenersi rigorosamente distinte, è importante qui ricordare che entrambe sono legate all’enigma del tempo. Non è compito nostro offrire una risposta a tale enigma, ma richiamare l’attenzione su tale aspetto, ci consente di affrontare gli interrogativi di cui sopra.50 Eclettico è termine che indica il metodo che consente di produrre l’effetto, perché porta alla luce la scelta dell’attività che offre minor dispendio di energia, per produrre il fine determinato. Si è detto che l’atto tende al risultato. Ecco che il movimento è divenuto “entelechiaco”

51, poiché al momento di attualità, succede l’altro di attuazione. 48 Sul concetto di invarianza e di telonomia Ved. J. MONOD Il caso e la necessità Milano 1970 (Oscar Mondatori) 49 J. MONOD Il caso e la necessità Milano 1970 (Oscar Mondatori), pag. 32 50 Riguardo la filosofia del tempo vedi: Mauro Dorato Futuro aperto e libertà - Un’introduzione alla filosofia del

tempo - Editori Laterza 1997. 51 L’epressione è stralciata dal pensiero di Aristotele.

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Questi due momenti sono tra loro collegati da un nesso causale. Ecco che quando uno accade l’altro segue necessariamente (condizione

sufficiente), quando il secondo avviene, il primo deve averlo preceduto (condizione

necessaria), quando l’uno accade sotto determinate condizioni, l’altro necessariamente ne consegue. Ecco che l’incondizionata condizione, non solo indica, la relazione teologica tra energia-attività e risultato, cioè ciò che ci spinge a dirigere l’energia incondizionatamente verso il risultato, ma anche l’invarianza cioè l’indipendenza dell’ens rispetto alla descrizione del fenomeno. Per quanto sopra riferito possiamo affermare che il lavoro è valore assoluto se

riferito al suo ente, mentre è relativo, se riferito alla forma storicamente e spazialmente

data (entità).

Nel caso dell’essere siamo in presenza di un valore assoluto; invece, nel caso del dover essere, il valore è relativo perché assume nel tempo e nello spazio una

connotazione ben determinata, in quanto l’ordinamento fornisce al soggetto gli

strumenti necessari per spiegare certe forme del comportamento. Sul piano della fenomenologia è facile intuire che un ente è costituito da quattro

elementi essenziali(soggetto, oggetto, tempo, spazio), che combinati tra loro formano l’entità,

I quattro elementi sono gli elementi essenziali dell’anello tetralogico .

Quindi, nel passaggio dalla fase statica a quella dinamica l'ente si concretizza in

entità . La struttura si comprime e si appiattisce ed il caos attraverso gli elementi

dell’anello tetralogico, si ordina tramite le regole del dover-essere e quindi si realizza l’ordinamento-entità.

Ciò significa per esempio, che stabilito l’assetto normativo, la società non accetterà più comportamenti diversi da quelli orientati.

Lo studio dei valori relativi al lavoro dagli anni ottanta è diventato un settore di ricerca a sé state staccandosi da quello delle motivazioni52. Per il soggetto che lavora, i valori costituiscono le caratteristiche o condizioni del lavoro che corrispondono a delle aspirazioni professionali e che possono essere

52 J.P. DESCOMBES, Cinquante ans d’études et d’évalutation des valeurs professionnelles,- Revue de Psychologie

Alliquéè, 1980, pp.1-101.

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soddisfatti, più o meno indipendentemente, dai differenti settori professionali53, pertanto si differenziano dagli interessi che costituiscono, invece, lo strumento mediante cui i valori possono essere realizzati concretamente. I valori, quindi, sono il risultato di forze sociali dato che le istituzioni e la collettività determinano ciò che viene considerato desiderabile dall’homo faber.

L’interesse, invece è il vettore, attraverso cui si soddisfa il bisogno individuale

o collettivo. Quando si parla di valori, comprendiamo anche i bisogni, che coinvolgono la motivazione, la comprensione e la giustificazione degli avvenimenti da parte dell’homo

faber. Però i bisogni, diversamente dai valori, sono espressione di un impulso fisiologico, o una condizione psicologica comunque legata alla sopravvivenza, essi appartengono alla sfera dell’interazione tra persona e ambiente. I valori, invece, sono il risultato di una ulteriore interazione con l’ambiente sia naturale che umano, essi rappresentano tipi di obiettivi che le persone perseguono al fine di soddisfare i propri bisogni.54 Si possono, quindi distinguere i valori intrinseci (creatività, varietà della mansione) dai valori estrinseci concomitanti o conseguenti all’attività lavorativa (prestigio sociale, sicurezza economica). Considerare, quindi, il lavoro come un valore assoluto (aspetto statico) o un insieme di valori (aspetto dinamico), sul piano soggettivo, significa percorre la freccia

del tempo che parte dai bisogni e arriva ai valori, nel caso specifico il rapporto tra bisogni personali e valore del lavoro. Il bisogno è espressione di una mancanza che deve essere soddisfatta; la motivazione è la forza che individua nella realtà il potenziale oggetto-bersaglio in grado di soddisfare quel bisogno, mentre il valore ne rappresenta la meta. Sotto questo aspetto il lavoro è un valore perché soddisfa un bisogno, che si traduce in interessi, motivazioni e preferenze. Certo è che il ruolo che si attribuisce al lavoro dipende dalla rilevanza o meno che l’homo faber ha dei bisogni intrinseci ed estrinseci e dalla percezione che ha della capacità del lavoro di soddisfare tali bisogni. Ecco che i valori del lavoro possono considerarsi come risposta a perché l’homo

faber lavora; essi rappresentano la finalità del lavoro e soddisfano un bisogno che sta alla base. Quindi, il nucleo centrale del modello da noi assunto è costituito dall’insieme dei valori del lavoro che possono essere considerati come gli scopi relativamente stabili che l’homo faber, cerca di raggiungere mediante il lavoro. Considerando, perciò, la forma del lavoro nei suoi aspetti tipici e nelle sue integrazioni atipiche possiamo distinguere tra elementi essenziali (c.d. elementi o

essentialia) che sono il soggetto, l’oggetto, il tempo e lo spazio, e gli elementi non essenziali (c.d. coelementi) (fig.3). Gli elementi costituiscono il nucleo centrale, mentre i coelementi influiscono dall'esterno al raggiungimento del risultato, essendo solamente delle concause.

53 J.B. DUPONT e G. LERESCHE Définition et mesure des valeurs professionnelles chez les futurs bacheliers, in Bullettin de Psychologie,,355, 1982, pp.449-471 54 D.SUPER, La psycologie des intéréts. Paris, PUF, 1966

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Tutto ciò chiarisce come pur distinguendosi, elementi e coelementi, per il loro contenuto e per il loro diverso scopo, sono legati da nessi strettissimi e da una coordinazione necessaria.

Fig. 3 La sfera giuridica

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CAPITOLO II

DIRITTI

2.1 - Il metodo analitico e il metodo creativo: la flessibilità Passare dal piano della descrizione a quello della definizione, significa addentrarsi nel cuore del concetto, mettere a fuoco le sue articolazioni e le sue implicazioni, all’interno di un quadro non contraddittorio sul piano della teoria e conforme sul piano dell’esperienza. Il metodo è il procedimento utilizzato per raggiungere lo scopo prefisso, metodologia, la scienza che formula le norme di qualsiasi procedura. Ciò comporta elaborare un insieme di procedimenti tecnici di accertamento e di controllo atti a garantire alla disciplina in questione l’uso sempre più efficace, delle tecniche di procedura di cui dispongono. Tali tecniche comprendono ovviamente: ogni procedura linguistica od operativa, ogni concetto, come ogni strumento di cui ci si avvale per l’acquisizione e il controllo dei risultati che si intende raggiungere. Quindi, la metodologia ha per scopo la determinazione delle condizioni formali del

sistema architettonico dell’ens faber.

Ecco che l’homo faber nella sua dimensione ontica, rappresenta la struttura architettonica dell’ens faber e come tale genera un’ampia gamma di idee che manifesta attraverso i propri comportamenti, riconducendo le differenze ad unitarietà. Il metodo qui proposto è un metodo sinettico

55 cioè quello di portare alla luce le differenze di pensiero e dar loro la possibilità di non essere immediatamente censurate da criteri di fattibilità, dall’altro di farle sviluppare fino a raggiungere il perfezionamento ed il completamento. La metodologia consiste nel partire dalla definizione del problema e arrivare all'identificazione possibile. Ne consegue che è necessario individuare i ruoli specifici e quindi fare delle scelte durante il percorso e, quindi, motivare l’homo faber a procedere. Il ruolo delle risorse, cioè delle competenze, contribuisce a fornire materiale creativo e a selezionare le idee prodotte. La competenza è “una caratteristica intrinseca di un individuo causalmente

collegata ad una performance eccellente in una mansione...... si compone di motivazioni,

tratti, immagine di sé, ruoli sociali, conoscenze abilità”56

.

55 La sinettica è la traduzione italiana di Synectics, il nome che identifica la metodologia di Problem Solving

Innovativo, messo a punto dall’omonima società nel 1961 negli Stati Uniti, significa “ricondurre le differenze ad

unitarietà”. 56 Klemp G.O. Jr. (1980), The Assessment of Occupational Competence, Report to the National Institute of Education,

Washington D.C.; Boyatzis R.E. (1984), Identification of Skill Requirements for Effective Job Perfomance, McBer, Boston; Spenser L.M. Spencer M.S. (1993), Competence at Work, Wiley, New York (trad. it. Competenza nel lavoro

Angeli, Milano, 1995).

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Essa include “i modi di comportarsi o di pensare che si ripetono nelle loro grandi

linee nelle diverse situazioni e perdurano per un periodo di tempo ragionevolmente

lungo”57

.

Ciò significa “che la competenza è parte integrante e duratura della personalità di

un individuo”58

quindi risalire alla natura intrinseca della competenza significa dare rilevanza a due caratteristiche essenziali di essa: la ripetibilità del comportamento

(perfomance59

) e il mantenimento della sua qualità, indipendentemente delle molteplici situazioni in cui essa si può manifestare. In questo senso la competenza è un attributo della personalità dell’homo faber,

perciò costituisce il suo nucleo centrale e stabile. Il metodo sinettico, aiuta a trasformare un’idea grezza in un’idea pronta ed operativa, a trasformare i minus di un’idea in altrettanti plus. In questa prospettiva, si può contrapporre il pensiero creativo al pensiero analitico, che di norma si esercita su idee e soggetti esistenti. Che cosa distingue questi due tipi di pensiero? Il pensiero analitico procede da un tutto agli elementi che lo compongono (idee-

dati) per cercare di comprendere il perché dell’unica soluzione adottata.

Il pensiero creativo, invece, si propone di trovare tutte le possibili combinazioni

alternative tra gli elementi (idee-dati) che caratterizzano una soluzione problematica.

In definitiva il pensiero creativo produce soluzioni alternative, il pensiero analitico le valuta. Il pensiero creativo non determina l’annullamento delle nostre conoscenze e la nostra esperienza di adulti. Tutt’altro. Il tipo di pensiero creativo richiesto per la soluzione di problemi pratici è proprio quello che si realizza grazie alla combinazione di quello che sappiamo (la nostra esperienza, la nostra conoscenza) e quello che vogliamo ottenere (il nostro obiettivo). L’ostacolo principale al pensiero creativo è costituito dal sistema educativo. Fin da piccoli siamo abituati a ragionare secondo modelli logici che ci spingono a considerare le premesse e le conseguenze rigidamente legate tra loro. Questo ci abitua a non essere creativi e molto spesso crea delle illusioni conoscitive che porta con sé il virus del buco nero, del bìas, del conformismo, della sicurezza dell’ovvio, del giudizio affrettato e quindi la paura di sembrare matti, quando vengono prodotte idee inusuali, non conformiste, bizzarre. E’ sufficiente ricordare ciò che subì Galileo nell’affermare che la terra gira intorno al sole e combattere l’illusione conoscitiva della teoria tolemaica. Il sistema educativo deve essere un sistema sinottico, teso a sviluppare le capacità dell’individuo, cioè deve sviluppare quelle attitudini di cui esso è dotato, che possano consentirgli di eseguire con successo una determinata prestazione, quindi rendere possibile la riuscita nell’esecuzione di un compito o, in termini più vasti, di una prestazione lavorativa.

57 Guion R.M.(1991), Personnel Assesment, Selection and Placement, in Dunnette M.D., Hough L.M. (a cura di) Handbook of Industrial and Organizational Psychology, Consulting Psychologist Press, Palo Alto (CA) pag.335. 58 Spencer op.cit. pag.30 59 La performance è costituita dall’insieme dei comportamenti con cui un individuo raggiunge gli obiettivi che gli vengono posti all’interno di un ruolo, quindi essa appartiene alla dimensione comportamentale.

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Certo è che questa possibilità di riuscita è a sua volta condizionata dall’attitudine che rappresenta il substrato costituzionale di una capacità che è dunque espressione di attitudine che ha trovato condizioni esterne (contestuali) e interne (motivazionali) favorevoli al suo manifestarsi in comportamenti. Saper usare la creatività significa saper utilizzare la complessa struttura delle conoscenze, ciò comporta sul versante soggettivo una sensazione di controllo e di potere sulla situazione. Ciò consente di sviluppare le competenze attraverso l’articolata combinazione tra capacità, conoscenze ed esperienze finalizzate.

Quello che realmente interessa nella nostra società non sono i titoli in sé, rappresentativi di capacità, conoscenze ed esperienze finalizzate, ma le reali risorse conoscitive ed esperenziali che l’homo faber possiede e che è possibile attivare immediatamente perché pienamente sperimentate e gestite in completa determinazione ed autonomia. In definitiva il metodo intuitivo e il metodo creativo ritagliano in realtà due tipi diversi di oggetti, per cui, aderire all’una o all’altra scelta metodologica significa semplicemente scegliere di occuparsi di più o meno ed in maniera diversa dell’homo

faber60

.

Il che significa che la conoscenza scientifica prende in considerazione non già questioni di fatto (il quid facti? di Kant), ma soltanto questioni di giustificazione o

validità (il quid juris?, di Kant)61

Infatti, il metodo creativo consente di coinvolgere l’homo faber in modo attivo nell’organizzazione e di garantire un più elevato livello di prestazioni future socializzando l’informazione. Infatti, l’interesse dell’organizzazione non è attivare un processo valutativo, ma comunicare in modo diretto all’homo faber, che la sua prestazione sia nel caso che sia positiva, sia nel caso che essa sia negativa, sia atta a garantire una continuità positiva nel tempo.

Nell’ambito dell’ordinamento giuridico (organizzazione normativa) vengono utilizzati due metodi, che servono per colmare le c.d. lacune (bias) ivi presenti: il metodo tipologico e quello della sussunzione.

Tali tipi in effetti sono delle specificazioni del metodo analitico e del metodo creativo.

60 Popper sostiene che sia l’induzione ripetitiva o per enumerazione e sia l’induzione per eliminazione sono logicamente invalide- “...La prima è l’induzione ripetitiva (o per induzione per enumerazione), che consiste di

osservazioni spesso ripetute, osservazioni che dovrebbero fondare qualche generalizzazione della teoria. La

mancanza di validità di questo genere di ragionamento è ovvia: nessun numero di osservazioni di cigni bianchi riesce

a stabilire che tutti i cigni sono bianchi ( o che la probabilità di trovare un cigno che non sia bianco è piccola). Allo

stesso modo, per quanti spettri di atomi d’idrogeno osserviamo non potremo mai stabilire che tutti gli atomi

d’idrogeno emettono spettri dello stesso genere....Dunque l’induzione per enumerazione è fuori causa: non può

fondare nulla...... A prima vista- dice Popper- questo tipo di induzione (cfr. la seconda) può sembrare molto simile al

metodo della discussione critica che io sostengo, ma in realtà è molto diverso. Infatti Bacone e Mill, e gli altri

diffusori di questo metodo dell’induzione credevano che, eliminando tutte le teorie false, si possa far valere la teoria

vera...”K.R.POPPER, Problemi, scopi e responsabilità della scienza, in in Scienza e filosofia, Einaudi, Torino 1969, p.151 61 in DEFINITIVA Popper sostiene che l’epistemologia, o logica della conoscenza scientifica, si interessa a questioni di questo genere: “..............Può un’asserzione essere giustificata? E, se lo può, in che modo? E’ possibile sottoporla a

controlli? E’ logicamente dipendente da certe asserzioni? O le contraddice?....”POPPER, Logica della scoperta

scientifica ,Einaudi, Torino 1970, pp.9-10

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Infatti il metodo tipologico come quello analitico procede da un tutto (modello formale -tipo) agli elementi che lo compongono (idee-dati) per cercare di comprendere

il perché dell’unica soluzione da adottare per qualificare il comportamento

“diversamente” orientato.

Invece, il metodo della sussunzione come quello creativo, invece, si propone di

trovare tutte le possibili combinazioni alternative tra gli elementi (idee-dati) che

caratterizzano la soluzione problematica da adottare per qualificare il comportamento

“diversamente” orientato. Il c.d. metodo tipologico che è un metodo di qualificazione giuridica logicamente

diverso dal metodo tradizionale della sussunzione, quindi, va abbandonato. Ogni tentativo in tal senso, dovrebbe tener conto della sussunzione che significa

essenzialmente sussumere un oggetto sotto un concetto, mentre il tipo, che costituisce il referente dell'altro metodo (sussunzione per identità), non è un concetto, ma un aggregato variabile di caratteristiche manipolabile a piacere dall'interprete.62

La vera contrapposizione però, non è tra metodo sussuntivo e metodo tipologico ma tra sussunzione per identità (della fattispecie concreta rispetto alla fattispecie astratta) e sussunzione per prevalente o approssimazione, con l'ausilio del metodo tipologico.

Osserviamo il fenomeno della disoccupazione, che induce a sperimentare nuove modalità di organizzazione e gestione del lavoro, tutte all’insegna della maggiore flessibilità.

Il passaggio dalla società industriale alla società dell’informazione, legittima complessi processi di decentramento e di autsoursing, induce ad un continuo cambiamento e ad una maggiore flessibilità rispetto a una tecnica di gestione del fattore lavoro sempre più ispirata alla Qualità Totale e al just-in-time.

A livello aziendale si parla di fine della divisione del lavoro, perché si vanno affermando nuovi sistemi produttivi che prevedono gradatamente rapporti di lavoro più coinvolgenti, fino a forme di partecipazione dei lavoratori che in qualche caso possono sovrapporsi o addirittura scontrarsi con le prerogative, i meccanismi relazionali ed i metodi propri degli organismi deputati al funzionamento dei sistemi di cogestione e, in particolare, del Consiglio d’azienda e delle rappresentanze sindacali nelle imprese.

Così è ad esempio nelle forme organizzative che trasferiscono competenze da reparti indiretti alla produzione, per effetto dei nuovi principi di utilizzo della forza lavoro (lavoro di gruppo e lavoro autoregolato, ad esempio), o ancora in relazione al just

in time, alle forme di partecipazione diretta degli addetti (circoli di qualità, forme incentivanti).

Analoghe considerazioni possono essere sviluppate nelle situazioni in cui i lavoratori tradizionali vengono progressivamente sostituiti dai c.d. regolatori di sistema la cui introduzione mette in crisi la stabilità delle strutture gerarchiche.

Ciò significa che il consenso non è più ricercato attraverso i meccanismi e gli equilibri di cogestione, ma attraverso il coinvolgimento effettivo sul posto di lavoro, prima, e da un coinvolgimento all’intera gestione d’impresa, poi.63

62 La controversia tra sostenitori delle due tecniche qualificatorie è antica e persistente, in particolare sul punto vedi BETTI, Le categorie civilistiche dell'interpretazione pp.49-52 (in polemica con Croce) e pp. 99-105 (in polemica con Gorla; BELVEDERE, Il problema delle definizioni nel codice civile, Milano 1977, pp. 169-181. 63.” I nuovi regolatori si sistema svolgono una nuova forma di lavoro qualificato in produzione che consiste nella sorveglianza e regolazione dei sistemi produttivi automatizzati, accompagnata da compiti di manutenzione e di

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Rispetto ai rapporti individuali di lavoro il cambiamento richiede flessibilità e, dunque, adattabilità: in una parola deregolamentazione

64.

Flessibilità significa capacità di adattamento senza schemi precostituiti, quindi, modificare le regole e la visione prospettica di ciò che accade senza perdere in competitività.

Sono tre le forme di flessibilità tradizionali: quella nelle regole del rapporto di lavoro, quella relativa alla retribuzione e l’altra riguardante gli orari. A queste va aggiunta una quarta: quella delle funzioni

Nel corso degli anni ottanta vi sono state iniziative legislative di deregolazione per lo più c.d. controllata, cioè affidata alla gestione/controllo dell’autonomia collettiva.

L’inizio degli anni novanta presenta invece tendenze legislative di riregolazione con ampie deleghe all’autonomia collettiva, proprio sul piano della disciplina del rapporto di lavoro subordinato (dalla legge n.190 del 1990 alla legge n.223/1991 fino alla legge 196/97).

Sempre più spesso la contrattazione collettiva introduce innovazioni che riguardano le componenti economiche tese a ridimensionare in generale la dinamica automatica della retribuzione, estendendo la parte variabile della retribuzione, ossia quella parte soggetta a variazioni collegate a indici di produttività o redditività dell’azienda e talvolta del singolo dipendente (per es. di partecipazione dei chimici, di risultato dei metalmeccanici, per obiettivi degli alimentaristi).

Dette innovazioni, vanno nella direzione di aumentare la flessibilità salariale. controllo della qualità”. H. KERN, Problemi di consenso e della sua creazione nel moderno processo di produzione. Il

caso della Germania federale pag. 58 64“Il rapporto di lavoro nell’impresa ha costituito, come è noto, il presupposto per l’applicazione della disciplina inderogabile, dettata non solo per l’applicazione della disciplina inderogabile, dettata non solo dal codice ma da tutte le leggi speciali successive, con un’evidente e progressiva limitazione dei poteri del datore di lavoro, concretatasi anche nella procedimentalizzazione dell’esercizio degli stessi. La normativa vincolistica sul rapporto di lavoro si consolida nell’arco degli anni ’60, con la legge sull’appalto di mano d’opera, del 1960, con quella del 1962 di sostanziale sfavore per il contratto a termine, con la legge del 1966 sui licenziamenti individuali, che riduce sensibilmente l’area del recesso libero del datore di lavoro, e infine con lo Statuto dei lavoratori che irrigidisce la disciplina del rapporto sia nel momento costitutivo del rapporto, intervenendo nuovamente in materia di collocamento rispetto alla disciplina del 1949, sia in materia di mansioni sia infine nel momento estintivo del rapporto prevedendo e regolando la reintegrazione del lavoratore in caso di licenziamento..... un altro fattore di rigidità costituito dall’automatismo retributivo dell’indennità di contingenza, e.... della applicazione giurisprudenziale, per un certo tempo, della tesi dell’omnicomprensività della retribuzione...... Dalla metà degli anni ’70 la crisi economica e l’alto tasso d’inflazione provocato dalla crisi petrolifera determinarono una lievitazione del costo del lavoro (accentuata dalle normative vincolistiche) non più compatibile con le esigenze di competitività delle imprese, imposta dalla internazionalizzazione dei mercati e dalla filosofia mercantilistica dell’integrazione comunitaria....E la necessità per le imprese di ridurre i costi di produzione, mentre favorì la flessibilizzazione della disciplina del rapporto - e cioè la diversificazione delle tutele, nell’ambito dello stesso tipo di ragione della presenza o assenza di requisiti o modalità del rapporto o di esecuzione della prestazione - non mise in discussione l’unità del tipo....Basti pensare alla legge n.863 del 1984 che disciplina una nuova forma di contratto di formazione e lavoro, .....il contratto a tempo parziale e così pure i contratti di solidarietà, diretti a ridurre orario di lavoro e retribuzione per evitare licenziamenti o promuovere nuove assunzioni, mentre la legge n.56 del 1987 porta a termine, capovolgendo l’originario orientamento di sfavore per questo tipo di contratto e assegnando alla contrattazione collettiva il compito di introdurre nuove ipotesi di contratto a termine..... Il sindacato viene coinvolto nella gestione del tempo di lavoro considerata fino ad allora competenza esclusiva del datore di lavoro.... negli anni ’90, il legislatore è intervenuto in materia di collocamento eliminando totalmente la chiamata numerica e prevedendo un nullaosta successivo all’assunzione, come pure in materia di mansioni, la legge n.223 del 1991, ha consentito, alla contrattazione collettiva di derogare al divieto stabilito dall’art. 2103 cod. civ. Rimane ferma, invece, la disciplina limitativa dei licenziamenti, la quale, anzi, con la legge n. 108 del 1990 si è rafforzata perché ha esteso la tutela obbligatoria anche ai datori di lavoro con non meno di quindici dipendenti.......Il legislatore ...(TREU) ha preferito percorrere la strada della diversificazione delle tutele, contrassegnate tutte dalla temporaneità del vincolo obbligatorio, ad eccezione del lavoro a tempo parziale”. G.SANTORO PASSARELLI Flessibilità e rapporto di lavoro in ADL - Argomenti di diritto del lavoro CEDAM, 1997 n.4 pag. 75.

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Ancora, la contrattazione collettiva ha istituito, sostituendola all’automatismo della indennità di contingenza abolita, l’indennità di vacanza contrattuale destinata a neutralizzare gli effetti derivanti ai lavoratori dal ritardo nella conclusione del nuovo contratto collettivo.

Nella direzione di aumentare i margini di flessibilità, va la riduzione dei livelli e delle categorie d’inquadramento volta ad aumentare la fungibilità tra mansioni. Ritorna a fare capolino il discorso sulla opportunità di adeguare la retribuzione alle condizioni territoriali, con possibili rischi di tenuta del contratto collettivo nazionale65 (contratti d’area e di riallineamento).

A questi dati di evidente flessibilizzazione della disciplina del rapporto ne vanno aggiunti altri che concernono il superamento delle rigidità contemplate dalla disciplina dell’art. 2103 cod.civ..

Il mutamento in pejus delle mansioni, fino a qualche anno fa assolutamente vietato, con la eccezione della lavoratrice in gravidanza (art.3, quinto comma, legge 30 dicembre 1971, n.1204) è ormai ammesso dalla giurisprudenza in caso di sopravvenuta inidoneità del lavoratore e al fine di evitare il licenziamento.

E, come è noto, anche la legge n.223 del 1991 (art.4, undicesimo comma) ha demandato alla contrattazione collettiva il potere di stabilire, in deroga al secondo comma dell’art. 2103 cod. civ. l’assegnazione a mansioni diverse dei lavoratori delle imprese in crisi altrimenti destinati al licenziamento.

Come pure l’art.4, quinto comma della legge n.223 del 1991 riconosce al contratto collettivo la possibilità di utilizzare diversamente il personale eccedentario mediante contratti di solidarietà e forme di flessibilità di gestione del tempo di lavoro.

Pertanto la flessibilità si risolve “in una diversificazione delle tutele in ragione

della presenza o assenza di requisiti o modalità della prestazione o del rapporto..... in

altre parole la disciplina del tipo continua ad essere applicata tranne che nelle parti in

cui non sia derogata dalle normative particolari in ragione di determinati requisiti del

rapporto di lavoro.”66

Aumenta, quindi, ovunque il ricorso a tipologie di lavoro atipico e sui generis: lavoro a tempo parziale, contratti di lavoro a termine “a catena”, lavoro interinale, lavoro a chiamata, contratti di lavoro coordinato, ma nell’esperienza italiana la dicotomia lavoro autonomo-lavoro subordinato viene solamente scalfita dal lavoro parasubordinato che, del resto ha avuto una rilevanza prevalentemente processuale.

Aumentano i decentramenti e gli appalti, e ovunque si attenuano i vincoli delle assunzioni e nei licenziamenti.

L’orario di lavoro viene modulato su base annuale, mentre crescono le forme di orario di lavoro personalizzato: flexitime, lavoro notturno, weekend work, lavoro ripartito (c.d. job sharing).

La questione del tempo di lavoro effettivamente lavorato, la sua regolamentazione, quindi il suo costo orario e le modifiche degli orari di lavoro, è stata affrontata concentrando l’attenzione su tre aspetti: lo straordinario, l’assenteismo, il part-time ed i contratti tipici.

65 P. LAMBERTUCI, Determinazione giudiziale della retribuzione, minimi sindacali e condizioni territoriali, in Arg.

Dir. Lav., 1995, n.1, pag. 201 e segg. 66 G. SANTORO PASSARELLI op.cit. pag. 76.

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Sullo straordinario è intervenuta la nuova normativa (l.549/95) che ha corretto, ma solo in parte, l’anomalia italiana costituita dal fatto che un’ora di straordinario costa meno di un’ora di lavoro ordinario67.

La nuova normativa, riducendo di fatto le ore convenzionali utilizzabili per il calcolo del costo orario, ha riequilibrato ma non eliminato il vantaggio relativo.

Solo nel caso dei tessili si giunge ora ad un costo dello straordinario più elevato rispetto all’ora lavorativa ordinaria.

I CCNL hanno tentato di introdurre con i contratti atipici ed il part-time nuovi strumenti di flessibilità nella regolazione del rapporto di lavoro.

Utilizzando i dati ISCO e Ue è facile rilevare che i lavoratori italiani sono mediamente meno disponibili dei propri colleghi europei, ma la situazione si sta modificando soprattutto tra i lavoratori maschi delle fasce centrali d’età.68

Aumenta il lavoro creativo ed intellettuale perché aumentano le competenze e la professionalità, cresce la richiesta di adattabilità, di capacità di collaborazione con il datore di lavoro; cresce la richiesta di mobilità, di disponibilità nei trasferimenti, di conoscenza di lingue e di competenze informatiche, diminuiscono i lavori ripetitivi e i lavori manuali.

Sul piano dei rapporti collettivi la contrattazione collettiva si fa sempre più decentrata e la retribuzione diventa sempre più incentivante.

Il processo di individualizzazione e automazione dei rapporti di lavoro, accentuato dalle pratiche di esternalizzazione e di autsourcing, è sempre più evidente e delineato.

Da qualche tempo, infatti, gli studiosi di problemi del lavoro si vanno chiedendo se le trasformazioni a cui stiamo assistendo siano il segno d’una crisi del lavoro tout

court (e, per estensione, della società fondata sul lavoro), ovvero di un tipo storicamente dato di lavoro che si contrappone a nuove forme che a quella vengono valutate per difetto, cioè in base alla quantità e all’intensità delle deviazioni rispetto allo standard e, quindi, ricondotte nella grande famiglia dei lavori atipici.

L’intero diritto del lavoro e di conseguenza quello previdenziale e assistenziale ha visto il generale passaggio dalla filosofia della rigidità, a quella della flessibilità69.

Questo fenomeno ha provocato una rilevante diversificazione delle tutele ed ha toccato i due istituti centrali del rapporto di lavoro: l’orario di lavoro e la retribuzione.

Si è cominciato con la retribuzione, a partire dell’accordo di luglio 1993 e alle successive tornate per la stipulazione dei contratti collettivi nazionali di categoria e degli

67 Sino al 1995 un’ora di straordinario costava meno di un’ora di lavoro ordinario. Il minor costo variava da contratto a contratto in funzione: del numero delle voci escluse dal calcolo della maggiorazione, della percentuale di maggiorazione e del numero di ore convenzionali utilizzate per il calcolo. Considerando i tre principali contratti dell’industria privata si nota come la convenienza relativa abbia subito continue oscillazioni in funzione dei cambiamenti nei parametri di riferimento utilizzati, ma secondo una tendenza che in generale sino al 1995 è stata in aumento. 68 Il rapporto sulle retribuzioni e sul costo del lavoro CNEL 1997 Milano 69“ La flessibilità deve essere oramai considerata un profilo essenziale del diritto del lavoro attuale. Essa infatti, ha tratto non soltanto alla disciplina del mercato del lavoro, ma anche a quella del rapporto di lavoro della retribuzione e della previdenza “ G. SANTORO PASSARELLI, Misure contro la disoccupazione e tutela del lavoratore, in Dir.Lav.

1995, I, pag. 341 e segg.; e in Flessibilità e diritto del lavoro, I, Torino, 1997, pag. I e segg. Flessibilità e rapporto di

lavoro in ADL - Argomenti di diritto del lavoro CEDAM, 1997 n.4 pag. 75.

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accordi aziendali, con la parziale decontribuzione del salario di produttività e di redditività (ved. il D.L. 21.10.1996 n.535, convertito in L. 23.12.1996, n.647)70.

Per quanto riguarda l’orario di lavoro un impulso è stato offerto dalla legge n.196/9771 , che traduce al massimo possibile l’indicazione comunitaria72 dell’orario multiperiodale.

L’orario di lavoro ha seguito una tendenza di lungo periodo verso la riduzione in tutti i paesi sino alla fine degli anni Settanta. L’enorme crescita della produttività del lavoro ha consentito, in poco più di un secolo, di dimezzare le ore lavorate ogni anno.

La diminuzione della spinta alla riduzione dell’orario si è accompagnata ad un incremento della flessibilità degli orari e delle prestazioni lavorative atipiche.

Il fattore cruciale della competitività non è tuttavia tanto la durata del lavoro, quanto la flessibilizzazione degli orari.

È cresciuta nel tempo la varietà nelle tipologie di occupazione e di orario e ciò ha diminuito la rilevanza della settimana lavorativa standard.

Se ancora oggi, nei paesi Ocse, l’orario settimanale più frequente si situa intorno alle 40 ore, la quota di lavoratori, dipendenti che segue questo regime orario è in calo. Le cause di tutto ciò sono molteplici.

La crescita del settore dei servizi, dove spesso la produzione e il consumo devono necessariamente avvenire nello stesso tempo, implica uno sfasamento di orari lavorativi tra i produttori del servizio e i consumatori.

L’innovazione tecnologica ed organizzativa, da un lato, consente forti guadagni di produttività ma, dall’altro, implica una forte flessibilità nell’uso dei fattori produttivi e, quindi, maggiore eterogeneità e variabilità dei regimi orari allo scopo di utilizzare al massimo gli impianti.

Un’altra strada percorsa dalle imprese nella ricerca della flessibilità è quella dell’ampliamento delle capacità richieste a ciascun individuo, fenomeno, questo, che si sta sempre più realizzando mediante una rilettura dell’ homo faber in azienda e un passaggio dalla logica della posizione a quella delle competenza.

Ciò che è mutato rispetto a quanto accadeva in passato è che per l’homo faber la necessità di acquisire capacità, (skills), non si presenta quando si prepara ad abbandonare il suo ruolo per assumerne uno differente, ma contestualmente allo svolgimento delle sue attività; anzi acquisisce le nuove competenze tramite l’assunzione di responsabilità in ruoli e progetti differenti cui viene assegnato o chiede di essere assegnato. 70 “Questa è una via obbligata per la valorizzazione di moduli retributivi flessibili sia perché scongiura effetti moltiplicatori incontrollabili sia perché, assicurando una nitida demarcazione tra parte minima fissa e parte variabile della retribuzione, scongiura altresì l’eventualità di interventi correttivi alla stregua dell’art. 36 Cost. sulla base di personali valutazioni dell’interprete (salva l’ipotesi marginale di palese squilibri della seconda parte rispetto alla prima). È allora anzitutto auspicabile la rimozione delle rigidità legislative operanti, a valle del canone fondamentale di proporzionalità e sufficienza retributiva, con riguardo al contenuto di specifici elementi o istituti del trattamento economico del lavoro subordinato. Dovrebbe quindi essere sancita la piena delegificazione di tale trattamento attraverso la previsione che “la misura e le componenti della retribuzione sono determinate e regolate dalle norme dei contratti collettivi di lavoro” secondo, lo schema già adottato dalla legge n.649/1979 per il rapporto di lavoro nautico. P:TOSI in Il diritto del lavoro tra flessibilità e tutela 1992 Giuffrè pag.32-33. 71 La durata del lavoro e le modalità secondo cui viene prestato sono un elemento chiave sia del funzionamento delle imprese e dell’intero sistema produttivo, sia dell’organizzazione della vita quotidiana degli individui. Proprio per questo, nella gran parte dei paesi la durata del lavoro ha avuto una regolamentazione legislativa, mentre l’organizzazione e le modalità di utilizzo del lavoro sono state spesso argomento di contrattazione fra sindacati dei lavoratori e imprese. Fonte ISTAT Rapporto sull’ITALIA 1998- Il Mulino - pag. 67. 72 Una direttiva della Commissione europea adottata nel 1997 ha stabilito che l’orario medio di lavoro settimanale, incluso lo straordinario, non può superare le 48 ore.

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In termini di strumentazione per la gestione del futuro in azienda, i sentieri di carriera, cioè le tavole dei tempi di sostituzione e di rimpiazzo sono concepiti essenzialmente in una logica verticale, vengono sostituiti da alberi di competenze (job

tree)73.

Anche il rapporto tra lavoro e formazione è destinato a divenire sempre meno conseguenziale, per prevedere invece situazioni di alternanza e di formazione continua.

La flessibilità, quindi, mina alle fondamenta il lavoro subordinato, mentre la

terziarizzazione dell’economia e l’innovazione tecnologica alimentano il lavoro autonomo

74. È flessibile l’area del lavoro c.d. grigio, né autonomo né subordinato, che sfugge

alla rappresentanza sociale, ai sindacati, alle leggi. Infatti bisogna prendere atto che i rapporti di lavoro irregolari realizzano una

sorta di flessibilità di fatto. Salari e costi più bassi permettono il sopravvivere di aziende e produzioni

marginali, ma con rischi gravi per i lavoratori, qualche volta con abusi. Questo tipo di flessibilità di fatto è inaccettabile e dannosa.

A questo punto sarebbe da indagare, e forse meglio si vedrà nel corso di queste pagine, la relazione tra appartenenza giuridica del tipo in forza del esser-ci è appartenenza giuridica in forza del dover esser-ci. Se l’ens faber davvero è, tutto assume e tutto dispiega (e perciò anche spiega). Nulla ha più luogo fuori del suo orizzonte e del suo dominio. Se l’ens faber è, il lavoro si rivela un suo semplice territorio. Il feudo dell’ens faber è governato dal dover-essere, dall’obbedienza, ogni scelta potrà legittimarsi e ogni decisione potrà santificarsi come esecuzione di ordini superiori e come tale priva di ogni responsabilità. Ciò sotto il significato predicativo (statica), diversamente sotto il significato esistenziale (dinamica) l’ens faber se davvero è, la scelta è necessariamente responsabile, quindi espressione di libertà limitata e condizionata, cioè finita.. Senza responsabilità l’homo faber non si distingue dal replicante biologico e perciò pensa per valori (per dover essere) però ha facoltà di iniziare da sé, cioè è dotato di autodeterminazione. La libertà è la scelta che l’homo faber fa del suo essere proprio, conformandosi necessariamente all’ens faber.

In altri termini l’homo faber è libero se cioè agisce e pensa soltanto come parte dell’ens faber e riconosce in sé la necessità di esso, in quanto l’ens faber è il suo

universo. L’ens faber anima l’homo faber e perciò lo investe e lo trasfigura, ma in questo onnipervasivo animismo, l’homo faber attraverso la libertà, rifiuta, comunque, l’ineludibile del già dato, come necessità o destino.

73VAUGHN R.H., WILSON M.C. (1994), “Career management using job trees: charting a pth throgh the changing

organization”, in Human Resource Planning, 17, pp.43-55. 74 Il processo di terziarizzazione dell’apparato economico-produttivo si è sviluppato nella duplice direzione della crescita qualitativa e quantitativa del terziario e della sua penetrazione all’interno stesso dell’industria manifatturiera. Tant’è che notevole è l’incremento delle imprese polifunzionali, nelle quali la natura dell’attività e la dimensione della struttura produttiva sono aspetti secondari. Il terziario, quindi, è divenuto sempre più eterogeneo, con l’esplosione del terziario c.d. avanzato.

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Il dover-essere, per aver luogo, deve essere infatti luogo di relazioni, mondo di scelte e responsabilità, mondo di norme non già date. Il dover-essere, stabilirà i confini tra comportamenti-sì e comportamenti-no, comportamenti da seguire perché autorizzati e da evitare perché proibiti. Che il dover-essere non sia già dato è manifestato dalle innumerevoli norme con cui ha colonizzato il mondo. Dunque, ci deve essere un dover-essere, ma non è mai detto quale, che fonda il comportamento dell’homo faber che gli consente di organizzarsi nel lavoro. In questo senso, la libertà non è autodeterminazione assoluta e, non è quindi un tutto o un nulla, ma piuttosto una possibilità, una scelta motivata e condizionata. Questa scelta, di cui l’homo faber è l’autore, e la causalità non può essere addossata all’ens faber, è limitata in un senso delle possibilità oggettive, cioè dai modelli disponibili e dall’esperienza. La situazione qui illustrata è esattamente quella di una libertà finita, cioè di una scelta tra possibilità determinate e condizionata sempre e comunque dall’ens faber.

La libertà consiste nella possibilità di scelte delimitate da norme stabilite dall’ens

faber, di cui però l’homo faber ha la possibilità di controllare, in una certa misura, lo stabilimento di queste norme. La libertà è quindi una questione di misura, di condizioni e di limiti entro cui l’homo faber esprime il suo esser-ci75, responsabile e necessario.

Nel campo della fenomenologia, quindi, l’ESSERE è il fatto così com’è ed avviene in un tempo ed in uno spazio dato, mentre il DOVER ESSERE è il comportamento orientato l’oggetto dell’essere.

Un metodo particolarmente utile per riconoscere e comprendere l'essenza di un dato fenomeno è la METAFORA, che ci consente di capire una certa esperienza in riferimento ad un’altra, ci suggerisce un collegamento o un’identità tra due esperienze che normalmente non sarebbe rilevata, come nel caso della metafora del lavoro e del diritto del lavoro.

Il lavoro è l’essere, il diritto del lavoro è il dover essere.

Così utilizzando il modello dell’anello tetralogico applicandolo al diritto del lavoro avremo un anello tetralogico con i seguenti elementi: homo faber (soggetto),

tempo vincolato (tempo), regione dello spazio (spazio), comportamento orientato

(oggetto).

75 Heidegger Martin Essere e tempo Torino 1986 Classici della filosofia, pag.236 e ss.

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Fig.1 – Anello tetralogico del Valore/Lavoro

L’ Homo faber/soggetto è l’uomo che lavora in un tempo vincolato ed in uno spazio

determinato (fabbrica, azienda) e assume un comportamento orientato con un dispendio d'energia, svolgendo un’attività che ha una certa forma e che porta al raggiungimento di un risultato.

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2.2 - Ius faber

Il lavoro è un fatto umano manifestativo, una comunicazione simbolica esterna, un comportamento.

Il comportamento76 è un atto o una serie di atti esteriori compiuti da un

soggetto in risposta a stimoli provenienti da altri soggetti o da beni, in un tempo ed uno

spazio (ambiente) ben definito.

Quindi, il comportamento implica un soggetto che risponde ad uno stimolo, coglie una opportunità, ricerca e cede risorse in base ad una scala di preferenza acquisita quale riflesso condizionato.

Il comportamento si differenzia dall’azione la quale implica coscienza, intervento di significati soggettivi, intenzione, progetto da realizzare.

L’azione, quindi, è una manifestazione di un particolare principio, mentre il

comportamento è ascrivibile all’intera organizzazione ed è costituito unicamente da

elementi osservabili e descrivibili in termini oggettivi, è uniforme, cioè costituisce la

reazione abituale e costante dell’organizzazione ad una situazione determinata. Il comportamento, poi, si distingue anche dall’atteggiamento, che è il

comportamento specificamente umano includente quindi elementi anticipatori e

normativi (progetto, previsione scelta) ed anche dalla condotta, dove può mancare il

carattere dell’uniformità che è sempre presente nel comportamento.

Quindi nel comportamento è assente l’idea di progetto, di scopo, intenzionalmente perseguito, dove gli stati della personalità sono scarsamente rilevanti.

Il comportamento può essere studiato sotto un punto di vista fattoriale, vettoriale e genetico.

Nel primo caso si vuole mettere in rilievo la correlazione esistente tra determinati fattori, fenomeni, situazioni, assunti come variabile indipendente.

Nel secondo caso, invece, si tende a individuare una sequenza tipica di eventi che hanno come riferimento il comportamento, innanzitutto una tensione strutturale di una organizzazione in relazione all’ambiguità di determinati valori e norme.

Con l’aspetto vettoriale si tende a definire il comportamento assiomaticamente

come elemento costitutivo di uno spazio vettoriale (o spazio lineare), che consente di

introdurre in una organizzazione alcune operazioni dotate di certe proprietà formali.

Tali proprietà formali, svolgono varie funzioni sia a livello individuale (soggettivo) sia a livello strutturale quindi legittimano determinati comportamenti ed anche alcune volte sottraggono legittimità ad altri.

Le proprietà formali sono le emozioni, stati effettivi gradevoli, che il soggetto ricerca, o sgradevoli, da cui rifugge; le preferenze per certi beni atti a garantire i suoi stati affettivi in luogo di altri; lo stimolo, che è dato dalla presenza del bene o dell’evento gratificante (compenso) oppure deprivante, ovvero da un segno del suo approssimarsi o allontanarsi.

76 Il termine è stato introdotto da J.B. Watson nel 1913 con l’articolo-manifesto La psicologia secondo i

comportamentisti. Originariamente è servito a sottolineare politicamente l’esigenza che la psicologia e in generale ogni considerazione scientifica delle attività umane o animali assumesse a suo proprio oggetto elementi osservabili oggettivamente, cioè non accessibili solo alla intuizione interna o alla coscienza.

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Il termine motivo designa il rapporto che si stabilisce tra stimolo, preferenza ed emozione.

Ogni comportamento ha dietro di sé dei processi di apprendimento, tramite cui si sono formate le preferenze attuali del soggetto e può essere visto a sua volta come un momento staccato di un processo permanente di apprendimento, da cui certe preferenze del soggetto saranno rafforzate o estinte.

Si suole anche distinguere tra comportamento elementare e comportamento istituzionale.

Il primo si suppone presenti una struttura semplice e non orientata, diversamente dal secondo che è quello richiesto dal sistema sociale in situazioni codificate dalla cultura.

Nella società umana il comportamento di comunicazione assume un ruolo importante, perché è un'iniziativa attraverso cui l'homo faber trasmette ad altri il proprio messaggio.

Certo è che il comportamento è un qualcosa di diverso e più specifico, rispetto al fatto (cfr.umano), poiché è legato all'ambiente da un nesso di causalità.

Il principio di causalità soddisfa, l'esigenza di stabilire quali fatti esterni e quali

situazioni socialmente rilevanti siano da imputare all'individuo come fonte di

responsabilità e obbligazioni o di diritti o aspettative77

.

Ma quale comportamento? dato che nella realtà giuridica non ogni comportamento assume rilevanza e dato che il comportamento essendo un fatto materiale e oggettivo, con cui si realizza una risposta dell'uomo agli stimoli che derivano dall'ambiente e che in esso confluiscono due componenti una spaziale (risposta

all'ambiente) ed una temporale (è successivo allo stimolo dell'ambiente) . Il comportamento a rilevanza giuridica appartiene al mondo della realtà oggettiva e la sua oggettività si atteggia specificamente come oggettività socio-economico-giuridica78, fuori da ogni interpretazione psicologica vera e propria, il che ci indirizza a delineare una scienza giuridica del lavoro fondata sul comportamento umano. Il comportamento quindi è l'oggetto di tale scienza. Il comportamento dell'homo faber è un fatto materiale, riferibile in proprio al corpo umano, al quale inerisce il carattere del facere dotato di qualche grado di libertà, in quanto orientato a trasformare la realtà fisica ambientale, in modo da determinare le

situazioni in cui il suo essere potrà svolgersi e divenire dover-essere. Quindi, un comportamento orientato.

Nel nostro ordinamento non esiste una definizione del lavoro79, di contro è

offerta, così come avviene negli altri ordinamenti giuridici, una speciale rilevanza del

77 FALZEA A. Voci di teoria generale del diritto, Milano pag.607 e ss. 78 "…il concetto di comportamento che interessa al giurista non è quello biologico o fisiologico; il giurista ha bisogno

di un concetto sociologico, alla luce del quale il fenomeno appare come l'atteggiamento che l'uomo assume nelle

relazioni sociali………….è utile avere presente …che per il diritto hanno importanza non solo comportamenti

individuali ma anche comportamenti collettivi….."". FALZEA A. Voci di teoria generale del diritto, Milano pag.607 e ss. 79 Il lavoro è ogni attività socialmente utile, “mezzo necessario, per una parte all’affermazione ed allo sviluppo della personalità, e , per l’altra, al progresso materiale e spirituale della società” MORTATI, Il lavoro nella Costituzione,

Dir. Lav., 1954, I,149 e Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1975, 156 ss.

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lavoro come fatto economico e sociale80

e non come comportamento orientato all’utilità

sociale81

. La rilevanza giuridica realizza una situazione che tecnicamente si esprime in

istituti protettivi (c.d. favor), dove si riconosce il valore dell'uomo quale soggetto giuridico produttivo di utilità sociale (art.4 della Cost.). Infatti, l'homo faber ha il dovere di "svolgere, secondo le proprie possibilità e la

propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale e

spirituale della società". In tale espressione, è facile cogliere quattro elementi che costituiscono le "virtù giuridiche" dell’homo faber e che perciò orientano il suo comportamento: qualità,

quantità, libertà e utilità (fig. 1). Secondo le proprie possibilità, significa che l'homo faber è un soggetto giuridico dotato di competenze suscettibili di valutazione economica ed in quanto tale, è un

soggetto da conoscere, quindi un soggetto giuridico portatore di interessi giuridicamente rilevanti, che devono essere valutati e perciò apprezzati giuridicamente. Alcuni esempi chiariranno l’assunto.

L'apprezzamento qualitativo risulta, dalle formule normative del tipo assunzione

in prova contenute nell'art.2096 c.c. sul rapporto di lavoro e dalle norme che si occupano della trasformazione del contratto di formazione e lavoro e del contratto di tirocinio (cfr. apprendistato), in contratto di lavoro a tempo indeterminato, nonché dalle norme contenute nell'art.2103 c.c. in tema di mansioni del lavoratore.

L'apprezzamento quantitativo, si avverte quando si ricostruisce l'unità dei valori

della persona, attraverso formule normative dove non solo l'interesse individuale si esprime e trova una spiccata protezione, ma anche l'interesse collettivo che "…costituisce, nella spontanea, organizzazione degli interessati e nel riconoscimento a

parte della comunità generale, la nuova ,dimensione strutturale e normativa

dell'ordinamento…"82. L'homo faber è un soggetto che vuole e, perciò, si attribuisce la libertà di scelta, della propria scelta, secondo le sue capacità e le sue inclinazioni individuali. In particolare, la libertà di organizzazione della sua vita di lavoro e dell'organizzazione del proprio tempo libero. Le formule normative del tipo permessi di maternità, di studio, post-natalità, ecc. apre la possibilità all'homo faber, di sospendere il suo lavoro per dedicarsi momentaneamente a se stesso, alla sua famiglia, alla sua formazione sindacale e professionale, alle attività politiche, associative, assistenziali, all'insegnamento, alla ricerca, etc.

80 U. PROSPERETTI - Lavoro - fenomeno giuridico in Enc. Del Diritto, Milano 1973 Vol.XXIII pag. 327 e ss. 81 Si possono identificare nella Costituzione due significati per il termine lavoro: prestazione di attività a vantaggio ed alle dipendenze altrui, in tale senso gli artt.1, 3 secondo comma, 4 primo comma, 36,37 e 38 della Cost. e di attività socialmente utile, così nel secondo comma dell’art.4 e nell’art.35. Le garanzie costituzionali sono riferibili a tre posizioni fondamentali: chi lavora svolgendo un’attività socialmente utile, chi lavora in senso stretto, e chi non svolge nessuna di queste attività; a questi ultimi si riconoscono solo diritti connaturati alla esistenza, mentre a chi svolge attività socialmente utile si riconosce una protezione più estesa che promuove l’attività stessa; la tutela più articolata è quella riservata ai lavoratori in senso stretto. Tali garanzie si concretano in diritti soggettivi, in situazioni di soggezione e di obbligo e, infine, nel fatto che determinate attività per essere legittime devono rispettare certi fini di ordine sociale. SMURAGLIA La Costituzione ed il sistema del diritto del lavoro, Milano, 1958. 82 PROSPERETTI op. cit. pag. 331

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Il riconoscimento di una sfera di libertà individuale nel lavoro, nell'assumere rilevanza giuridica assume il carattere della doverosità83. Infatti, l'art.4, secondo comma della Costituzione, si riferisce al dovere, e non al diritto di svolgere una attività o una funzione nell'interesse sociale; e il principio della scelta di una attività, intesa come manifestazione del concorso di ciascuno alla vita e al progresso sociale, non può dirsi leso dalle limitazioni che l'attività del cittadino può subire, per la tutela di altri interessi e di altre esigenze sociali.84 La quantità definisce l'oggetto del sapere, mentre la qualità individua le c.d. determinazioni disposizionali che comprendono disposizioni, abiti, abitudini, capacità, facoltà, virtù, tendenze, o come altro si vogliono chiamare le determinazioni costituite da possibilità dell'oggetto e quindi, le capacità di produrre certi effetti Lo stesso significato di qualità, è presente nel concetto di qualificazione. "Qualificarsi per" o "essere qualificato per", significa possedere capacità o la competenza, cioè la qualità disposizionale, per effettuare un dato compito, o raggiungere un dato scopo. Nel significato giuridico, qualità è sinonimo di qualificazione in quanto significa soltanto limitato o caratterizzato da date condizioni, che sono appunto dettate dalla norma e dalla caratteristica di questa: la doverosità. Quantità e qualità costituiscono la professionalità, che è la continuità e sistematicità dell'esercizio dell'attività.

Essa distingue e contraddistingue in fasce diverse l'homo faber, non secondo una classe, ma secondo ruoli e funzioni. Il ruolo definisce l'identità dell’homo faber, cioè la posizione che esso occupa nel lavoro e perciò anche nella società e può essere definita come "…l'attività effettivamente

svolta nella funzione che essa ha nel sistema, vista anche nelle relazioni che essa

costituisce…."85.

Avremo sicuramente ruoli diversi, ma tutti concorrenti al benessere non solo del singolo ma anche della collettività, in cui il singolo opera. Il ruolo attiene all'identità del lavoro prestato, mentre la funzione appartiene al momento dinamico e finalistico del lavoro (a che cosa serve). Precisamente, la funzione specifica la finalità del ruolo, cioè il modo con cui le qualità sono impiegate nella società, in genere ed in particolare nel processo produttivo. La nozione di professionalità, ha il significato di ricercare e valorizzare la

funzione svolta dall'homo faber nel lavoro, per il "progresso materiale e spirituale della

società". Tant'è che la Costituzione (art.4, primo comma) nel riconoscere a tutti i cittadini il diritto al lavoro, dà importanza sociale al lavoro, "che senza creare rapporti giuridici

perfetti, costituisce un invito al legislatore a che sia favorito, il massimo impiego delle

83 "….Il dovere del lavoro, come risulta dall'uso del termine <<dovere>>, che si trova nell’art.4 Cost., corrisponde

ad altre situazioni di <<dovere>>, indicate nella nostra Costituzione, come il dovere di solidarietà (art.2), il dovere

di difendere la patria (art.52), il dovere di fedeltà alla Repubblica e quello di adempiere alle funzioni pubbliche

<<con disciplina ed onore>> (art.54).……Esse come un richiamo alla partecipazione all'interesse generale ed

all'affectio societatis, per la cui mancanza l'ordinamento può reagire, senza tuttavia poterla imporre, nel senso che

non può determinare una situazione perfettamente sostitutiva dell'affectio, come consapevole adesione ai fini dello

Stato….."PROSPERETTI op.cit. pag.335. 84 Corte Costituzionale sentenza n.12/1960. 85 BUTERA F. Il Castello e la rete, Milano, 1990 ed anche Dalle occupazioni industriali alle nuove professioni, Milano 1987.

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attività libere nei rapporti economici..)86, nei limiti imposti dal perseguimento di fini

sociali a carattere generale, fini che il legislatore ordinario, nella sua insindacabile discrezionalità anche politica, ben può di volta in volta valutare e considerare rispetto agli interessi individuali87 Il che significa che l'esercizio di un'attività, può ben essere sottoposto a condizioni, limitazioni ed obblighi, in funzione di interessi ed esigenze sociali dell'ordinamento statuale ritenuti meritevoli di protezione88. Dal riconoscimento al cittadino del diritto al lavoro e della libertà di scegliere un'attività lavorativa discende per lo Stato, il dovere di non porre norme che tale diritto escludono, o tale libertà direttamente o indirettamente rinneghino, ma non consegue l'impossibilità, per il legislatore ordinario, di dettare norme che specifichino limiti e condizioni inerenti all'esercizio del diritto o che attribuiscano all'autorità amministrativa, poteri di controllo a tutela di altri interessi e di altre esigenze sociali ugualmente fatti oggetto di protezione costituzionale89. Pertanto, in un eventuale sindacato di legittimità costituzionale di una norma non si può prescindere, da una considerazione globale dell'intero sistema, per verificare se limiti e condizioni trovino nel sistema stesso giustificazioni e siano, quindi, legittimi90. Ciò significa anche che all'homo faber, la Costituzione (art.4) nel riconoscere il diritto al lavoro, riconosce anche un diritto al ruolo ed alla funzione, ma non garantisce a ciascun cittadino il diritto al conseguimento di un'occupazione, così come non garantisce il diritto alla conservazione del posto di lavoro, che nel primo dovrebbe trovare il suo logico e necessario presupposto91 Certo è che la Costituzione all'art.4 indica quale sia l'atteggiamento che l'homo

faber deve avere nei confronti del lavoro. Il termine atteggiamento sta ad indicare l'orientamento selettivo e attivo dell'homo faber nei confronti del valore lavoro, in particolare è la spinta all'azione o la disposizione all'azione, più precisamente è il progetto di scelte, di comportamenti che consentano di effettuare delle scelte di valore costante nei confronti del lavoro. Atteggiamento, che diventa attenzione, nel momento in cui l'homo faber prende possesso in forma chiara e vivida delle proprie scelte, quindi, concretizza l'oggetto e dimostra un potere (facultas). Termini rilevatrici di questa tendenza, si ritrovano nella Carta dei diritti sociali fondamentali; in particolare figurano le nozioni di mestiere, di vita attiva o di vita professionale, che si riferiscono appunto ad una identità professionale. Cosi anche molte norme comunitarie92 guardano alla persona ed alla sua biografia personale. Giova ricordare che l'art.4, primo comma, Cost. configura quale fondamentale

diritto di libertà della persona umana il diritto al lavoro.

86 Corte Costituzionale sentenza n.3/1957 e n.5/1971 87 Corte Costituzionale sentenza n.14/1968 88 Corte Costituzionale sentenza n.30/1972 e n.41/1971. 89 Corte Costituzionale sentenza n.102/1968, 90 Corte Costituzionale sentenza n. 94/1976 91 Corte Costituzionale sentenza n.81/1969 92 Dir. 76/207 del 9 febbraio 1976; 77.187 del 14 febbraio 1977; 75.129 del 17 febbraio 1975; 80.987 del 20 ottobre 1980.

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Perciò, si spiega come il diritto del lavoro sia una manifestazione normativa connessa più al diritto personale, che al diritto patrimoniale. In definitiva il diritto al lavoro caratterizzerebbe il diritto del lavoro, come diritto personale perché formato da norme attribuenti conseguenze giuridiche a situazioni di fatto costituite da relazioni dirette fra individui ed aventi per oggetto la personalità

umana93.

Il codice civile italiano del 1942, traduce la cultura giuridica germanica, che individuava appunto il rapporto di lavoro come una situazione di appartenenza personale a una comunità, in opposizione alla tesi contrattuale appartenente alla cultura giuridica romanistica, nell'art. 2094 del Cod.Civ. nel momento stesso in cui definisce il lavoratore e non il contratto di lavoro: "il lavoratore subordinato è colui che si obbliga, mediante

retribuzione, a collaborare nell'impresa fornendo il suo lavoro intellettuale o manuale al

servizio e sotto la direzione dell'imprenditore94".

Occorre notare che questa terminologia, mette l'accento sulla persona dell'homo

faber, piuttosto che sul rapporto giuridico di lavoro, che oggi è alimentata ancor di più dalla normativa comunitaria95, che ha come fine principale quello di organizzare un grande mercato del lavoro, dove l'homo faber diviene homo economicus. L'idea di scambio economico in tale normativa (prestazione di lavoro contro remunerazione) è prioritaria, e la nozione di lavoratore le è subordinata96. Questo significa che la qualità del lavoratore è una qualità inerente alla persona di colui che vive del suo lavoro. Non bisogna dimenticare, però che le cose materiali acquistano la qualificazione giuridica di beni, quando entrano in un patrimonio, e che la persona può vantare dei diritti solamente quando ciò avviene. Il patrimonio, così, è concepito come una emanazione della persona, la sua proiezione nel mondo materiale, quindi questa nasce e sparisce con essa. Quindi, diritto del lavoro come diritto della persona o come diritto patrimoniale97? L'esercizio delle libertà individuali, sia che si tratti di attributi della persona (sesso, origine, etnia, razza), sia che si tratti della vita privata (costumi, situazione 93 "…..Di particolare interesse sembra in proposito una tesi, proposta ormai da alcuni decenni, secondo la quale il

diritto personale sarebbe formato da norme attribuenti conseguenze giuridiche a situazioni di fatto costituite da

relazioni dirette fra individui ed aventi per oggetto la personalità umana; il dritto patrimoniale sarebbe invece

formato da norme sugli effetti giuridici di situazioni di fatto per rapporti aventi per oggetto relazioni personali

connesse indissolubilmente a beni economici…….Vi si anticipa una concezione dell'ordinamento giuridico, di cui è

difficile indicare una compiuta sistemazione, ma che certamente modificherà molti schemi

abituali……"PROSPERETTI, op. cit. pag.331. 94 G. GHEZZI e U. ROMAGNOLI in Il rapporto di lavoro, Bologna, Zanichelli, 2 ed. 1987, n.12 s.p. 6 s. 95 Il diritto comunitario utilizza le nozioni di lavoratore, di contratto e di rapporto di lavoro senza tuttavia definier queste nozioni. Il Trattato evoca così i lavoratori a proposito degli obiettivi del Fondo sociale europeo (art.3), della libera circolazione, della sicurezza sociale dei lavoratori migranti (art.58), dell'igiene e della sicurezza del lavoro (art.118A) e dell'uguaglianza di retribuzione tra i sessi (art.119; i lavoratori salariati a proposito della regola dell'unanimità (art.110A); la mano d'opera a proposito degli obiettivi della politica sociale (art.117; le attività non salariate a proposito del diritto di stabilimento (art.52),; i servizi a proposito della loro libera circolazione. La Carta dei diritti sociali fondamentali aggiunge a questo glossario le nozioni di professione e di mestiere (art.2), di vita attiva (art.15) e di vita professionale (art.23). 96 In tal senso anche la Corte di Giustizia delle Comunità Europee (CGCE) ved. sentenza del 23 marzo 1982, Levin, rec., 1035; 31maggio 1989, Bettray, rec. 1621; 3 luglio 1986, Lawrie Blum, rec., 2139; 21 giugno 1988, Brown, rec., 3237; 21 novembre 1991, SARL Le Manoir. 97 E’ rinvenibile nella Costituzione il lavoro inteso come “attività personale” includente anche il lavoro autonomo (art.1) V. PANUCCIO - Il lavoro nella Costituzione italiana, in Studi Domenico Napoletano, Milano 1986, 41.

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familiare, stato di salute), o della vita pubblica (convinzioni religiose, opinioni politiche) e le libertà nel lavoro che ineriscono alla qualità del lavoratore e possono esercitarsi nei limiti delle fonti da cui promanano, di cui è titolare l'homo faber, ci fanno propendere per il diritto del lavoro come un diritto, che sotto l'aspetto statico è un diritto personale, mentre considerandolo sotto l'aspetto dinamico è un diritto patrimoniale. Il lavoro dunque, come fenomeno giuridico è atto dell'homo faber e come tale

esprime la realizzazione completa, la forma specifica e perfetta di ciò che diviene, il bene giuridico. Solo l'azione perfetta, che ha in sé il suo fine (quello di divenire bene giuridico) attribuisce le caratteristiche qualitative della patrimonialità al lavoro98. E allora, come collocare il lavoro e l'homo faber all'interno di questi concetti. È intuibile che non si può parlare di lavoro se non lo si tratta come un bene e quindi fare di esso l'oggetto di un'obbligazione contrattuale. Infatti nel nostro ordinamento la prestazione deve consistere in un comportamento di un soggetto-debitore atto a soddisfare l’interesse di un altro soggetto determinato (soggetto-creditore) e si sostanzia in un programma materiale o giuridico che il primo è tenuto a realizzare (art.1174 c.c.). La soddisfazione di quest’ultimo, poi, dipenderà certo dal comportamento del primo, ma non necessariamente dal risultato economico della prestazione, che potrà andare invece a vantaggio di altri o dello stesso debitore. Una lettura delle norme che regolano il lavoro interinale e contenute nella legge n.196/1997 acquieteranno la nostra coscienza.

Il lavoro interinale si configura come un particolare tipo di contratto di lavoro, che è fondato per sua stessa definizione, sul comando temporaneo del lavoratore ora presso uno ora presso un altro soggetto che utilizza le prestazioni. Si tratta però di un rapporto di lavoro che presenta una significativa alterazione dello stesso schema funzionale, perché lo scambio avviene, in questo caso, non tanto tra le prestazioni di lavoro e quella retributiva, ma tra quest’ultima e l’accettazione di porre le proprie energie lavorative a disposizione di terzi, individuati dallo stesso debitore della retribuzione. L’art.1 della legge 196/1997 definisce al comma 1, il contratto di lavoro temporaneo ed individua i contraenti nell’impresa fornitrice ed in quella utilizzatrice, disciplinando innanzitutto al comma 2, le ipotesi in cui il medesimo può essere concluso. Secondo le articolate definizioni della norma per “agenzia” o impresa di lavoro intermittente in senso stretto si intende quel particolare soggetto economico-giuridico che in forma professionale e continuativa assume alle proprie dipendenze uno o più lavoratori al fine di metterli a disposizione o cederli temporaneamente ad un cliente per lo svolgimento di determinati lavori sotto la direzione di quest’ultimo. Per realizzare questo particolare schema soggettivo trilaterale l’”agenzia” di lavoro intermittente stipula due distinti contratti, uno di lavoro subordinato con il lavoratore temporaneo e l’altro di fornitura temporanea di manodopera con il cliente, mentre tra quest’ultimo e il lavoratore (che pure di fatto svolge la prestazione lavorativa sotto le direttive dell’impresa cliente) non intercorre alcuna relazione giuridica.

98 L'azione perfetta, che ha in sé il suo fine, è detta da Aristotele azione finale o entelechiaca. Infatti secondo Aristotele, alcuni atti sono movimenti, altri azioni: sono azioni quei movimenti che hanno il loro fine in se stessi.

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Questi particolari aspetti della fattispecie tipizzati dall’art. 1 della legge consentono di distinguere con precisione il lavoro intermittente tramite “agenzia” da altre ipotesi negoziali tendenzialmente riconducibili ad una relazione soggettiva trilaterale tra un lavoratore e due distinti imprenditori. Il punto merita approfondimenti, anche per inquadrare il lavoro intermittente tramite “agenzia” in uno schema legale a sè stante i cui tratti caratterizzanti dipendono dal modello di disciplina adottata dal legislatore, anche e soprattutto per comporre le antinomie, per completare le lacune, e per estendere o a restringere il dettato normativo. Quando il testo normativo è incongruo, sul piano interpretativo, la risorsa più efficace è data dalla interpretazione autentica del legislatore, la risorsa più debole è data dalla interpretazione restrittiva del testo normativo, al fine di ridurre al minimo i guasti che esso comporta. Per superare queste difficoltà e, dunque, per garantirsi la possibilità di ricondurre la fattispecie del lavoro interinale tramite agenzia nell’area del lavoro subordinato99, occorre assorbire i problemi del tipo negoziale e cioè quelli della qualificazione della sua struttura negoziale. In effetti, è affermazione costante della dottrina e della giurisprudenza in tema di qualificazione dei rapporti di lavoro che, per la soluzione del caso concreto, occorre valutare tutte le circostanze di fatto e tutte le singole clausole del regolamento negoziale. La questione della qualificazione del singolo contratto concreto andrà allora impostata facendo ricorso ai tradizionali criteri elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Infatti, diversamente dal trasferimento interaziendale dove il dipendente si trova contemporaneamente vincolato da due differenti relazioni contrattuali, una con il datore di lavoro originario e l’altra con l’effettivo beneficiario della prestazione lavorativa, nel lavoro intermittente tramite agenzia, il contratto di lavoro è uno solo, e precisamente quello che lega il lavoratore temporaneo all’agenzia-datrice di lavoro. Il rapporto tra agenzia, lavoratore ed utilizzatore, potrebbe configurare un’ipotesi di contratto a favore di terzi in cui l’impresa fornitrice (agenzia) si profila come mediatore, beneficiando di un apposito compenso, una sorta di provvigione. Questo contratto può definirsi come quel contratto che attribuisce ad una persona, completamente estranea ad esso, un diritto del tutto distinto da quelli scaturenti per i contraenti. Infatti, perché si possa parlare di terzo al contratto, bisogna che in suo nome sia stipulato il contratto e non acquisti lo stesso diritto del diretto contraente. In tale contratto l’interesse del promittente consiste nel liberarsi , a mezzo della prestazione al terzo, di un obbligo, che egli o aveva assunto verso lo stipulante, prima e indipendentemente dal rapporto, che egli stipula in atto con lui, o che assume ora, verso lo stipulante medesimo, proprio a mezzo del contratto a favore di terzo. Il connotato tecnico-giuridico saliente del contratto a favore di terzo è il seguente: che un effetto accessorio (favorevole) è prodotto dal contratto, nei confronti di persona (determinata in atto, o determinabile), la quale resta estranea al contratto (terzo-beneficiario), ma è presa direttamente in considerazione dalle parti contraenti

99 La nostra dottrina è solita parlare in proposito di alterazione funzionale della “causa” del contratto (VERARI S. Il lavoro interinale: quale regolamentazione, in LG, p. 445 e ss.; MISCIONE M., Flessibilità del lavoro e unità-

articolazione del rapporto contrattuale, in LG, p. 777 e ss.

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(promittente della prestazione a favore del terzo, che assuma l’obbligo di adempierla; ma tale obbligo egli assume, intanto, nei confronti della controparte-stipulante Queste le caratteristiche peculiari del contratto a favore di terzo (art.1411 cod.civ.): • oggetto della prestazione può essere un dare, un fare, un non fare; • il terso acquista per effetto del contratto concluso a suo favore, un suo diritto che non

ha sostato nel patrimonio dello stipulante e che non gli è quindi ceduto dallo stesso; • il vantaggio del terzo non deve essere puramente indiretto; • il terzo può essere un soggetto indeterminato alla stipula del contratto, ma

determinabile in futuro, non può essere però un soggetto futuro; • il terzo ha un’azione autonoma e diretta, a suo favore, per costringere il promittente

(suo personale debitore) all’adempimento della prestazione a suo favore e, se del

caso, al risarcimento del danno; anche lo stipulante può agire per proprio conto,

contro il promittente, per la risoluzione del contratto, poiché la mancata prestazione

a favore del terzo costituisce inadempimento; • perché l’acquisto del diritto da parte del terzo sia definitivo, occorre che il terzo

dichiari sia allo stipulante, sia al promittente di voler profittare del contratto a suo

favore: fino a tale dichiarazione del terzo, la stipulazione a favore del terzo può

essere revocata dallo stipulante; • la dichiarazione del terso è unilaterale, recettizia, può essere anche tacita; è condicio

iuris per rendere irrevocabile e immodificabile la stipulazione nei riguardi del terzo;

va emessa nei confronti, oltre che del promittente, anche dello stipulante; • in caso di revoca della stipulazione o di rifiuto del terzo di profittarne, la prestazione

rimane a beneficio dello stipulante, salvo che diversamente risulti dalla volontà delle

parti o dalla natura del contratto (art.1411, 3° comma cod.civ.). Se sotto l’aspetto strutturale il contratto a favore di terzo potrebbe avvicinarsi al contratto di lavoro interinale, se ne differenzia sotto l’aspetto sostanziale. Infatti, sotto l’aspetto sostanziale il terzo presenta una singolare affinità col donatario; nel particolare senso che egli è destinato a ricevere senza nulla dare, o fare, in corrispettivo (salva l’eventuale apposizione di modus); donde, una situazione di totale gratuità dell’effetto del contratto, nei riguardi del terzo e restando, egli terzo, nel senso più pieno del termine. In definitiva, il vantaggio del terzo è un effetto casuale e meramente economico (o di fatto), non giuridico; il quale, come entra in maniera avventizia nel patrimonio di lui, così può uscirne, senza che il terzo vi abbia titolo, per pretendere la conservazione del vantaggio. Considerato nel suo profilo strutturale il contratto interinale è caratterizzato da un contenuto tipico che si inserisce nello scambio come prestazione dovuta: il coordinamento della prestazione lavorativa con l’interesse del terzo, secondo un accordo negoziale desunto per relationem dal contratto tra l’agenzia ed il terzo, che può essere stipulato prima dell’assunzione del dipendente ad interim da parte dell’agenzia o successivamente, secondo le forme stabilite dalla legge. L’accordo desunto per relationem costituisce una modalità del programma negoziale, che è fonte di obblighi strumentali per entrambe le parti.

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Per quanto riguarda il datore di lavoro, l’adempimento delle prestazioni strumentali richieste dall’accordo negoziale (in una parola: l’effettivo svolgimento della prestazione nei modi e termini convenuti) ha però un rilievo ulteriore. Il contratto di lavoro interinale è infatti un contratto (a termine) “autorizzato”, da un provvedimento amministrativo o da un contratto collettivo, sotto condizione dell’effettiva realizzazione dell’accordo, e come tale un contratto dove la tutela dell’interesse collettivo assume un rilievo particolare, stante il fatto che attraverso tale tutela, si realizza il principio costituzionale dell’utilità sociale quale limite all’iniziativa privata (art.41 Cost.) L’inosservanza dell’accordo fa cadere l’effetto autorizzatorio: di qui la “conversione” in rapporto a tempo indeterminato di cui parla la legge. Le luci e le ombre del contratto di lavoro temporaneo stanno proprio nella mancanza di elasticità dei suoi contenuti. Di per sé un simile modulo contrattuale si presta ad impieghi limitati in quanto non potrà essere utilizzato come strumento di selezione all’occupazione stabile. Dunque, il rapporto contrattuale è un elemento fisionomico del tipo normativo socialmente prevalente del rapporto di lavoro e non è un contenuto normalmente inderogabile del rapporto: per questo possiamo affermare che il contratto di lavoro temporaneo che pur discostandosi dalla causa tipica del contratto di lavoro, non si discosta dal tipo normativo delle tutele. Va, altresì osservato che la prestazione viene considerata non soltanto sotto il profilo quantitativo (molte prestazioni rese a terzi rispetto a quella unica del rapporto di lavoro tipico), ma anche sotto quello distributivo (blocchi temporali di lavoro “distribuiti” in funzione delle esigenze aziendali che rendono conveniente la parcellizzazione della prestazione di lavoro. Sicuramente sussiste un collegamento funzionale perchè i diversi e distinti negozi vengono concepiti e voluti come avvinti teleologicamente da un nesso di reciproca interdipendenza, sì che le vicende dell’uno debba ripercuotesi sull’altro, condizionandone la validità e l’efficacia. Infatti i negozi voluti dalle parti sono in rapporto strumentale di mezzo e fine (collegati). Si tratta, nel caso, di un nesso economico, tradotto nel collegamento tra contratto di lavoro e contratto di appalto di servizi a tempo indeterminato o determinato, contratto, quest’ultimo, in funzione del primo in quanto costituisce un elemento essenziale per il godimento e la sua destinazione. Il fatto che il contratto dipende logicamente e giuridicamente da un altro, come da una premessa indispensabile, ha come effetto che il contratto accessorio segue la sorte del principale: in specie, con riguardo alla nullità, alla possibilità della risoluzione e simili. Occorre infine far rilevare che le obbligazioni delle parti assunte rispettivamente nel primo e nel secondo contratto tra di loro collegati, consentono di affermare che sostanzialmente il contratto di fornitura pur non essendo un contratto figlio, cioè di contenuto uguale a quello c.d. padre, già perfezionato consente l’azione diretta nei limiti di legge del dante causa, verso l’avente causa mediato (e viceversa), per il versamento dei contributi e il pagamento della retribuzione.

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Va anche evidenziato un aspetto particolare che caratterizza il concetto di subordinazione “tecnica” individuata dalla dottrina nel lavoro a domicilio,100 rispetto alla subordinazione “giuridica” quale species di quest’ultima. Utilizzando tale distinzione possiamo affermare che nel lavoro interinale, la dissociazione tra datore di lavoro ex contractu e datore di lavoro effettivo determina questa scissione tra subordinazione tecnica e subordinazione giuridica. Infatti la prima è riferibile al rapporto impresa utilizzatrice e lavoratore, mentre al seconda è riferibile al rapporto tra lavoratore e impresa fornitrice. E’ dunque sull’identificazione della nuova nozione di subordinazione così come contenuta nell’art. 2094 cod.civ., che si può comprendere la portata ed incivisività della politica di espansione del diritto del lavoro. Infatti, possiamo affermare che anche il legislatore, così come da tempo ha già fatto dottrina e giurisprudenza per alcuni istituti giuridici, sposa la filosofia della mobilità/flessibilità/precarietà del lavoro, individuando nell’adottare il lavoro interinale un concetto di subordinazione dove ordini e istruzioni in deroga al tipo tradizionale giustificano la costruzione di subordinazione di quel rapporto di lavoro. Questo, però non significa che non permangono questioni di compatibilità da risolvere, soprattutto sul piano pratico e soprattutto quando si manifestano conflitti di interessi fra dipendenti interni e dipendenti interinali, che sono comunque esterni all’azienda. Per esempio, una lettura estensiva della disciplina normativa considerando il lavoro interinale non dal punto di vista “topografico” ma “funzionale” di riconducibilità, quindi, al ciclo produttivo dell’utilizzatore. In definitiva, in tema di lavoro interinale, è il legislatore che ha svolto la parte principale nell’opera di contenimento del processo di atipicità, in quanto ha esteso l’area della subordinazione ad una fattispecie particolare per cui l’intervento protettivo era sicuramente necessario e la cui qualificazione, alla stregua della normativa previgente (L..1369 del 1960), era molto problematica. Ancora, occorre far rilevare che la riscoperta della vecchia normativa da parte del legislatore, sotto altro profilo consente di far superare il detto concetto di subordinazione e di ridisegnarla, svincolandola dallo schema sensibile all’indice dell’alienazione del

lavoro, della debolezza o dipendenza socio-economica. Infatti il lavoratore interinale è un lavoratore privilegiato rispetto al lavoratore “interno” , per le peculiarità del rapporto e per tutele di cui gode è sicuramente un lavoratore non alienato, debole e non ha dipendenza socio-economica. Dunque, spero che il lungo discorso sul lavoro interinale sia riuscito a mettere in luce, nonostante le divagazioni e la dispersione, che l'homo faber non è nient'altro che la persona titolare di questo patrimonio, che decide di negoziare questo bene. Infatti, se l'homo faber secondo quanto disposto dall'art.4, della Cost. deve

svolgere, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale

della società", quindi un'attività che abbia utilità sociale101, che significa, che costui è il

titolare di un bene produttivo d'utilità sociale, che si concretizza attraverso un'attività o una funzione.

100 BALLESTRERO M.V. (1979) L’applicazione dello statuto dei lavoratori al lavoro a domicilio, in RGL, 1, p.317 e ss.; GAETA L. (1981), Il diritto sommerso: venti anni di giurisprudenza sul lavoro a domicilio, in RGL, I, P.25 e ss. 101 MORTATI op.cit

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Lavoro, quindi, sotto il profilo dinamico (patrimonialità) equivale a qualsiasi

attività personale diretta allo scambio di beni e servizi. Ciò spiega anche perché il diritto del lavoro sia caratterizzato da una normativa inderogabile, cioè da una normativa dotata di efficacia sostitutiva di diritto, dotata di forza maggiore rispetto a quella delle norme imperative, la cui inosservanza determina la nullità dei negozi giuridici che contrastano con esse. Ciò determina una sostituzione legale alla disciplina negoziale, tale da non incidere sulla validità del negozio, ma anzi di perfezionarlo ope legis, "in relazione al

meccanismo dell'operatività del comando legislativo in luogo di quello negoziale

privato"102

, come si è riscontrato nel contratto di lavoro interinale dove l’inosservanza dell’accordo fa cadere l’effetto autorizzatorio producendo così la conversione del rapporto a termine, in rapporto a tempo indeterminato . Il mezzo di integrazione perfezionatrice del contratto di lavoro si attua, utilizzando i meccanismi dell'inserzione automatica di clausole nel contratto ex art. 1339 cod. civ. e dell'eccezione all'effetto estensivo dell'intero contratto della nullità di clausole essenziali escludendo tale effetto, in caso di sostituzione automatica della clausola essenziale nulla (art.1418 cod. civ.). 2.3 - Diritto del lavoro autonomo o subordinato

L'esistenza e la necessità di un diritto del lavoro autonomo, cioè come sistema giuridico indipendente è disputa che non ha trovato ancora soluzione.

Vecchi retaggi culturali, una legislazione a prova sempre in bilico tra leggi settoriali soggetta a continui correttivi, la presenza di un cospicuo numero di variabili dipendenti dalla tipizzazione codicistica, dalla contrattazione collettiva, che inventa sempre nuove figure giuridiche ed elementi costitutivi di quelle esistenti, generano un notevole grado di complessità che non aiutano a rendere unitaria e quindi autonoma la materia.

Una struttura semplificata della materia viene suggerita il più delle volte come esigenza di riassetto distinguendo tre componenti essenziali del dato normativo: una sociale, una economica, una giuridica

Ciò lascia fuori una visione sistematica o anche solo sistemica della materia. Così lascia soprattutto insolute le domande e le istanze che provengono dalla

dottrina e dalla giurisprudenza quali interpreti del dato normativo sulla necessità dell'unità della materia e dell'autonomia.

L'esigenza di dividere il diritto in precise categorie è senza dubbio maggiormente presente nel nostro ordinamento (civil law) che in quelli del common low.

Va chiarito subito che nessun ramo del diritto può essere completamente autonomo in quanto considerato nella sua totalità

Il diritto del lavoro, quindi, non può sfuggire alle istituzioni del diritto civile, poiche' rappresentano l'ossatura di gran parte dell'ambiente legislativo.

Ma ciò non significa che il diritto comune è sufficiente di per sé a soddisfare nuovi bisogni della società e in particolare di quelli dei lavoratori.

102 PROSPERETTI op. cit. pag. 336.

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Per rendere effettiva questa via occorre avere il coraggio di percorre le uniche due vie: fiessibilizzare la fattispecie del lavoro subordinato o le modalità di esecuzione del rapporto, oppure correggere la tendenza espansiva del diritto del lavoro, riducendo l'area della subordinazione entro limiti definiti da concerti rigorosi. Una terza via è quella della elasticizzazione del comportamento orientato.

Infatti quando si parla di flessibilità, gli elementi del rapporto che sono interessati, sono il tempo e lo spazio.

Occorre quindi liberare il diritto del lavoro? Se il diritto del lavoro deve rimanere parte integrante dell'ordinamento giuridico, come è giusto che sia, non potrà essere completamente libero.

Come potrà sfuggire alla coabitazione con il diritto della sicurezza sociale e con le altre norme positive?

Ancor prima però occorre rendere autonomi i principi che informano il sistema, le procedure e i meccanismi applicativi della materia, in particolare: a) il diritto di

proprietà del datore di lavoro; b) la prerogativa del proprietario di organizzare e

distribuire il lavoro; c) lo status di subordinazione del lavoratore; d) il contratto di

lavoro deve avere a suo fondamento non la subordinazione gerarchica ma un accordo;

e) oggetto della regolamentazione deve essere la contrattazione collettiva e non il

contratto; i) le soluzioni imposte per legge debbono soddisfare solo l'esigenza di una

protezione minima; g) la conciliazione tra le parti contrattuali; h) espansione del dovere

di cooperazione del lavoratore; i) un rapporto di lavoro basato su interessi comuni.

Ciò significa non considerare il diritto del lavoro come un sistema di norme che ha come scopo quello di riequilibrare all'interno del rapporto di lavoro l'ineguaglianza di potere contrattuale e quindi di limitare il potere del datore di lavoro a favore del lavoratore.

Ecco che il dibattito non potrà essere di per sé indipendente da un contesto ideologico: il contratto di lavoro.

Questa pietra angolare, come Kahn Freund ha chiamato il contratto dì lavoro in termini positivi, va frantumata.

Di fatto le categorie giuridiche elaborate in relazione alla sussistenza del lavoratore subordinato e lavoratore autonomo sono state frantumate dalla globalizzazione dei mercati, dalla flessibilità e anche dalla giurisprudenza.

Una volta ricusato il contratto di lavoro occorre ricostruire il diritto del lavoro, sostituendo tale concetto con quello di lavoro.

Solamente ricostruendo il concetto di lavoro in termini giuridici è possibile fronteggiare il dubbio: diritto del lavoro vincolato o liberato?

Infatti non basta sostituire il concetto di contratto di lavoro con quello di contratto di servizio o di servizi

103 per offrire una risposta alla nostra domanda o ad altro modello tipicamente giuridico

103 Sostituire il concetto di "lavoratore subordinato" con quello di contratto di "servizio" piuttosto che di "servizi" e necessario, ma non sufficiente. Come concetto, esso è stato per lungo tempo in crisi, a causa di cambiamenti non recenti nei rapporti di produzione. il Test del "controllo" era già fragile alla fine del diciannovesimo secolo, non molto tempo dopo la sua adozione, basata su concezioni che affondavano le loro radici in quel servant sul quale il padrone esercitava la sua proprietà, o servitium. La crisi, però, si è accentuata nei decenni più recenti, a causa di una rapida frammentazione del mercato del lavoro; in special modo a causa dello sviluppo di una miriade di rapporti, cosiddetti

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Rifondare il diritto del lavoro su l'ampio concetto di lavoro consente di far fronte alle nuove tendenze del mercato del lavoro e ai bisogni sociali che emergono.

Significa anche riconoscere che il diritto del lavoro rispetto alle altre materie è vivente ed in perenne divenire più di ogni altro diritto particolare.

Fra l'altro il diritto del lavoro porta con sé un vizio genetico, quello di non essere nato come un complesso di norme provviste di funzione unitaria, ma che nel tempo ha costituito la propria forza.

In particolare gli interventi legislativi dei primi anni del secolo non possono essere ricondotti complessivamente ad "una ratio protettiva del lavoratore come contraente debole”,104 piuttosto come elementi di razionalizzazione e di compromesso, diretti ad attenuare le conseguenze delle trasformazioni sociali105.

Tant'è che alcuni giuristi vennero detti "novatori" o "neoterici" perché auspicavano "non tanto una legislazione speciale più esplicitamente favorevole ai

lavoratori ma, preferibilmente, intendevano la rinfondazione come un processo di

sovvertimento totale dei principi civilistici, da realizzarsi attraverso una nuova

codificazione privato-sociale tutta calibrata sulla considerazione degli interessi e delle

esigenze derivanti dalla situazione di debolezza economica delle classi proletarie.106

"

Vi è di più! All'origine di certe patologie del diritto del lavoro vi sarebbe il dogma barassiano: l'invenzione dell'eterodirezione della configurazione negoziale della subordinazione, come discrimen tra le obbligazioni di lavoro nella originaria alternativa attività/risultato107.

Certo è che rivisitando gli scritti degli autori del tempo, ci si rende conto come nulla è cambiato.

Infatti ancor di più di ieri, oggi non può che affermarsi come "il contratto di

lavoro è in realtà sottratto al diritto privato ed è diventato oggetto di altre discipline:

della legislazione sociale"108 e della legislazione tributaria

109.

Emerge, forse, l’esigenza di una scienza del lavoro fondata su principi nuovi e totalmente alternativi a quelli del diritto civile, sganciata dal diritto soggettivo, dal contratto e dalla libertà contrattuale.

Il che comporterebbe intendersi sul concetto di lavoro prima e poi della sua accezione giuridica.

In senso lato il termine lavoro, indica qualsiasi esplicazione di energia colta a un fine determinato.

In precedenza si è detto che il lavoro è valore assoluto se riferito al suo ente,

mentre è relativo se riferito alla forma storicamente e spazialmente data.

Trasferendo nella realtà giuridica quanto sopra indicato, il lavoro è rilevante sotto un duplice profilo.

Nel primo come valore assoluto riferito all'ordinamento giuridico (il suo ente) è inteso come spiegamento di energia~attività-forma-risultato invariante.

"atipici"o"marginali", tra i lavoratori part-time, stagionali, occasionali, a termine, a domicilio, in nero, precari, a cottimo, esterni oppure i subappaltatori " LORD WEDDERBURN I diritti del lavoro Milano 1998, pag.64. 104 L. CASTELVETRI Il diritto del lavoro delle origini Milano 1994, pag.217. 105 Ivi pag.219. 106 Ivi pag.222. 107 SPAGNOLO-VIGORITA Subordinazione e diritto del lavoro. Problemi storico-critici. Napoli, 1967 pp.126-129. 108 SOLARI Socialismo e diritto privato pag.201-208. 109 Vedi per esempio la definizione del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa utilizzata dalla legislazione sociale mutuata dalla legislazione fiscale.

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Mentre sotto l'altro profilo è accezione tipica variante, quindi forma storicamente

e spazialmente data, è "spiegamento di energie umane nella sfera strettamente individuale, rivolta alla creazione di una utilità materialmente apprezzabile110 e quindi un "oggetto" una cosa"111.

Occorrerebbe però comprendere in modo più preciso se per aversi lavoro in senso giuridico sia necessario definire le nozioni di persona e di cosa.

Tutto ciò potrebbe sembrare approssimativo, però è utile per superare alcuni luoghi comuni che determinano degli accorciamenti prospettici della realtà e quindi offrono un quadro di riferimento sicuramente distorto, in particolare: il concetto giuridico di corpo umano quale concetto sufficientemente generale e astratto idoneo a caratterizzare l'oggetto del contratto di lavoro; l'idea che il lavoratore non possa essere una persona giuridica poiché possono disporre del loro patrimonio, concludere contratti, prestare dei servizi, associarsi ed anche subordinarsi ad altre persone ma non possono "subordinarsi"; ritenere che la persona del lavoratore è nello stesso tempo il soggetto e l'oggetto del contratto di lavoro.

Certo è che la personalità giuridica individuale nasce con l'individuo e in quanto tale rimane sempre la stessa durante la sua esistenza: è situazione giuridica immutabile.

Diversamente la cosa costituisce la forma patrimoniale del lavoro. Forse per comprendere la rilevanza di ciò nell'ambito del diritto del lavoro

occorre considerare l'antinomia originaria tra patrimonialità del lavoro e extra-patrimonialità del corpo umano.

Quindi, occorre considerare l'homo faber non oggetto del rapporto ma portatore di attività.

Infatti il diritto del lavoro è caratterizzato dal valore del corpo come "substrato della persona"112 e poi di questa persona in quanto lavoratore che diviene un contraente speciale a cui bisogna prima di ogni cosa garantire la sicurezza fisica (la sicurezza nel lavoro), poi la sicurezza economica (sicurezza mediante il lavoro), infine la sicurezza sociale (sicurezza di poter svolgere le proprie attività sociali e quindi di avere una identità sociale).

Non bisogna anche dimenticare che il lavoro non è solo uno strumento di identificazione professionale, ma anche di integrazione sociale se assume una forma giuridica.

Il diritto del lavoro contribuisce a forgiarla e nel contempo caratterizza l'identità individuale dell'essere umano al lavoro; in fin dei conti realizza una de-soggettivazione

Ciò significa che la strada da percorrere è quella di intendere la funzione del diritto del lavoro, che non è più quella di coniare forme di normalizzazione a ipotesi di

110 G.MAZZONI Manuale di diritto del lavoro - pag.3 e ss. Vol.I Milano 1977. 111 Il lavoro come cosa o merce che può essere posta in vendita come qualsiasi altra cosa o altra merce e stato sostenuto da CARNELUT'I'I in Studi sulle energie come oggetto di rapporti giuridici, - Riv. dir. comm, 1913, I, 354 e 382 ss.- Infatti secondo tale autore le energie umane si manifestano, si oggettivizzano e si distaccano dall'uomo che le produce, e perciò diventano cose, oggetto di contratti come altre merci. Però " affermare che il lavoratore "vende il proprio lavoro" e usare un linguaggio metaforico, perché egli, in realtà, non aliena nulla, del mondo esteriore, ma si limita a promettere la produzione di proprie energie che concretizzino obbiettivamente il lavoro. Se il lavoro corrisponde ad una qualità della persona, anche le energie umane non sono separabili da chi le produce e rimangono inerenti alla persona del lavoratore L'uomo non si vende, offre il suo lavoro, e lo promette obbligandosi, se la promessa è accettata... "MAZZONI - op. cit. pag. 5. 112 J.CARBONNIER, Droit Civil, t.11° ed., n.48 pag.217

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sfruttamento (dentro e fuori l'impresa), ma più in generale di integrazione economica e sociale non solo a beneficio di chi ha lavoro, ma anche a chi non ha lavoro.

Diversamente, il diritto del lavoro tenderà ad affermarsi solo a beneficio di una parte dei lavoratori, mentre per l'altra parte questo è diventato fattore di esclusione.

Il diritto del lavoro, quindi, spiega l'energia-attività-forma-risultato invariante e realizza attraverso il contratto la forma variante, perché storicamente e spazialmente

data, delle interazioni relazionali che sono generatrici di forme e di organizzazione e

fanno così sorgere e mantenere il sistema e ne determina la propria autonomia.

Quindi, ciò significa ad un tratto, che questi termini si trovano ormai connessi,

via interazioni, in un anello solidale, in cui nessuno dei termini dati può essere compreso

indipendentemente dal riferimento agli altri, e in cui essi si trovano in relazioni

complesse, cioè complementari, concorrenti ed antagonistiche.

Ecco, quindi, che gli elementi che costituiscono il rapporto giuridico, soggetto, oggetto, tempo e spazio si co-producono insieme, simultaneamente e vicendevolmente secondo, il gran gioco cosmogenesico dell'ordinamento.

Si può dire gioco, perché vi sono i pezzi del gioco (elementi) e le regole del gioco

(vincoli iniziali e principi).

Quindi il gran gioco realizza, l'anello tetralogico del rapporto giuridico.

Fig.2 – Costanti dell’anello tetralogico

2.4 - Il diritto del lavoro liberato o vincolato.

Il compito fondamentale del diritto civile è quello di tutelare l'individuo in quanto persona dotata di capacità giuridica e di agire, in quanto soggetto di azioni libere e autoresponsabili.

Infatti, il diritto civile concede all'individuo la disponibilità di beni giuridici e garantisce il loro godimento e mette a sua disposizione vari modelli negoziali (forme) per

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lo scambio di prestazioni, tramite cui gli individui perseguono i loro interessi in una economia fondata sulla divisione del lavoro.113

Il diritto del lavoro risente di quest'influsso del modello pandettistico e del liberalismo politico e la parzialità di ciò è ogni giorno più evidente.

Il diritto del lavoro come il diritto civile non può limitarsi a definire ed a proteggere sfere giuridiche individuali o a sanzionare le convenzioni con cui i singoli regolano autonomamente i loro rapporti in una sfera sottratta all'esercizio dell'autorità; non può nemmeno ignorare le nuove teorie sociologiche e antropologiche, dove l'individuo esiste in quanto relaziona con gli altri.

Perciò dovendo regolare la convivenza nella comunità che lavora, si ricollega alle "istituzioni" individuate dalla sociologia e le rispecchia, rafforzandole e modificandole secondo proprie norme.

Pertanto esso definisce nuove forme di rapporto e stabilisce nuove regole di comportamento con riguardo a situazioni tipiche e ricorrenti in "rapporto organico" con il diritto oggettivo.

In definitiva esso rappresenta un sistema di istituti sociali, a cui si ricollega una

valutazione giuridica ed una corrispondente disciplina114

.

Più semplicemente esso è un insieme di forme giuridiche, che caratterizzano rapporti sociali tipici regolati dal diritto oggettivo.

A questo punto non resta che formulare la tesi secondo cui il diritto del lavoro è governato da due principi strutturanti l'intera materia: da una parte la tutela della sfera d'azione individuale, garantita mediante diritti soggettivi, dall'altra la tutela delle istituzioni sociali, garantita per mezzo di corrispondenti istituti giuridici radicati nel diritto oggettivo, il cui compito è quello di organizzare l'esercizio del potere in forme appropriate, al fine di trasformare la semplice coesistenza tra individui in una fertile convivenza tra soggetti del diritto.

Il lavoro, per esempio, è percepito dal singolo lavoratore come un diritto soggettivo, mentre dal punto di vista dell'ordinamento, esso si configura come un istituto fondamentale del diritto costituzionale.

Ciò può essere realizzato, sia imponendo norme di comportamento, sia conferendo a determinate persone funzioni e competenze che esse sono tenute ad esercitare sotto la propria responsabilità. Pertanto il titolare del potere sarà libero di agire entro una sfera ben definita, i cui limiti sono di volta in volta stabiliti dalla natura del compito che gli è stato affidato.

E' evidente che la violazione delle norme di comportamento determina l'abuso

dell'istituto.

Ecco, quindi, che il divieto dell'abuso dell'istituto rappresenta il principio immanente all'ordinamento giuridico e perciò necessario per la sua sopravvivenza.

Il processo di separazione dal diritto civile è iniziato durante gli anni venti, atteso che la disciplina del contratto di lavoro contenuta nel codice civile non è mai stata idonea

113 Imporre regole che delimitino reciprocamente le autonome sfere di signoria della volontà dei singoli - SAVIGNY, System des heutigen romischen Rechts, Vol. I 1840, §§ 52, 53 (Trad. Italiana UTET, Torino, 1886-96) 114 Nella sociologia contemporanea, il termine è di uso frequente ed è stato assunto, per es. da Durkheim come l'oggetto specifico della sociologia definita per l'appunto come scienza delle istituzioni. Va anche ricordato che l'istituzione è stata talvolta intesa come un insieme di norme che regolano l'azione sociale, talaltra, in senso più generale, come "qualsiasi atteggiamento sufficientemente ricorrente in un gruppo sociale (cfr. ABBAGNANO, Problemi di sociologia, 1959, IV, 2)

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a regolare in modo appropriato i rapporti di lavoro dei lavoratori, ancorché il diritto pubblico fosse intervenuto in soccorso del diritto civile tradizionale in materie come la tutela del lavoro e della sicurezza sociale.

La conquista della libertà di associazione e lo sviluppo del contratto collettivo di lavoro, hanno posto il diritto del lavoro su basi così diverse da quelle del diritto civile tradizionale, che oggi non è più possibile mettere in dubbio l'autonomia, nonostante le forme comuni e i molti punti di contatto.

In base a questo assioma, l'autonomia e la completezza del diritto del lavoro, è possibile determinare il nucleo del diritto del lavoro, un nucleo che non cambia, sia che l'accento cada sul mutamento storico, sia che cada sulla crescente complessità dei problemi e delle loro soluzioni.

Autonomia, quindi, significa ricondurre il diritto del lavoro ad un sistema di regole e di concetti generali, perciò non un sistema dominato dal metodo casistico, ma da un sistema scientifico, caratterizzato da un elevato grado d'astrazione.

L'apporto della sociologia, che smaschera e relativizza, induce ad interrogarci con maggior senso critico sulla funzione degli istituti giuridici che costituiscono il diritto del lavoro e che in parte si tramandano nella tradizione storico-giuridica.

Infatti le nuove strutture di potere hanno attribuito all'ordinamento giuridico una grande quantità di compiti nuovi.

E' evidente che il modello rigido, del diritto del lavoro fondato sul contratto di lavoro subordinato come un sistema chiuso, ha perso di validità esplicativa, anche se riveste tuttora importanza nel sistema giuslavorista, in quanto imposto nel tentativo di ordinare secondo un fine unitario i complessi di norme in vista della loro applicazione.

A tal proposito ci si deve domandare se sia possibile progettare un sistema diverso, che risponda meglio alla situazione della società post-industriale di uno Stato democratico e assistenziale, quindi, considerare il ruolo che compete al diritto del lavoro in questa nuova realtà fenomenica.

Non si può negare il peso degli argomenti della letteratura giuRIdica sul punto, la produzione legislativa e il ruolo della giurisprudenza.

Per questi motivi, se si decide di rappresentare questo rapporto nell'ambito dell'ordinamento generale, essa non sarà più quella tradizionale di due insiemi che intersecano solo in qualche punto, né l'unione di due insiemi in un unico sistema di diritto comune, ma quella di un'ellisse con i suoi due fuochi come centri di irradiazione, in mezzo ai quali si trova un settore influenzato da entrambi.

Ecco, quindi, che la forza dei due poli può cambiare in seguito a decisioni politiche, ma il sistema verrebbe distrutto completamente se uno di essi, fosse privato di ogni energia.

Certamente, occorre far rilevare che ciascuno dei due corpi di regole raggruppati intorno ai due poli non è autosufficiente, ma necessita di integrazioni, tant'è che il settore intermedio, soggetto all'influenza di entrambi i poli, continua ad espandersi notevolmente.

Questo profilo rende chiaro lo spazio riservato al diritto del lavoro: predisporre

gli strumenti necessari affinché l'homo faber che entra in relazione con gli altri soggetti

possa conseguire gli scopi desiderati.

L'homo faber che decide di esercitare un'attività affrontandone vantaggi e svantaggi, sa che può contare su delle garanzie legali che gli consentono di ottenere dagli

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altri soggetti pubblici e privati atti giuridici certi e rigidi, che gli consentono di realizzare con sicurezza e continuità la soddisfazione dei suoi bisogni, e se ciò non è, in ogni caso gli consentono di avere risposte a tutti i problemi della realtà che incidono con la sua sfera giuridica.

Ecco, quindi, che tutte le norme che disciplinano la materia, rappresentano non più un diritto esclusivo ed unitario posto a tutela del lavoro e dell'homo faber, ma un diritto comune cioè la disciplina di fattispecie più ampie e generali, che arricchiscono le forme giuridiche (figure, modelli), legate ad una diversa valutazione dell'homo faber e dei rapporti economici e sociali.

Ecco, quindi che questi è garantito non soltanto come singolo, ma anche come membro di gruppi intermedi (formazioni sociali, naturali e volontarie).

Così in tale materia il legislatore è un legislatore di scopi, il quale sollecita e

promuove le volontà dei soggetti verso specifici traguardi, con l'obiettivo di eliminare il

rischio di insuccesso delle azioni individuali, mediante i classici strumenti della nullità e

delle norme inderogabili, concedendo vantaggi agli autori di condotte considerate

socialmente utili115.

Tale produzione legislativa, può essere considerata come uno sviluppo della legislazione preesistente, tanto da conservare natura e funzione di quest'ultima ma finalizzata a consolidare il sistema degli istituti in corpi stabili pur presentando regole e deroghe interne agli stessi.

Sotto il profilo temporale, ad una fase di conflitto segue una fase di prevalenza e

di sostituzione, tant'è che le leggi così prodottesi si impadroniscono di intere classi di rapporti, li sottopongono a nuove e diverse logiche di disciplina, esprimono criteri generali ed autonomi.

Quindi, la produzione legislativa è negoziata e perciò si configura come statuto di un gruppo ed in quanto tale attributiva di uno status.

Non vi è dubbio alcuno che decisivo resta in ogni caso il contenuto della disciplina e la sua capacità di esprimere principi, perché molto spesso il nomen juris

utilizzato dal legislatore per individuare un istituto non è più uguale a se stesso, ma si fa nuovo e diverso.

Si delinea così un sistema di norme con una infinita serie di micro sistemi116, da cui l'interprete può ricavare principi generali, che danno vita ad un processo di

assorbimento che permette di realizzare un effetto consolidante atte a esprimere una disciplina unitaria e sistematica. Il diritto del lavoro, quindi, può essere definito come l'insieme degli istituti di

utilità sociale, che disciplinano la relazione giuridica intercorrente tra gli elementi

costitutivi dell’anello tetralogico (homo faber, tempo vincolato, regione dello spazio, comportamento orientato). Tale relazione rappresenta un rapporto giuridico complesso, avente ad oggetto

una molteplicità di situazioni giuridiche soggettive attive e passive, facenti capo

all’homo faber.

115 N.BOBBIO, La funzione promozionale del diritto, pp.30 e sgg. 116 Il diritto del lavoro come sistema di autoregolazione sociale, il diritto del lavoro come regolazione legale che interagisce con le costrizioni macroeconomiche del mercato; il diritto come strumento di garanzia di diritti fondamentali di cittadinanza tra cui sempre più importante il diritto al lavoro e di promozione di nuovi diritti; il diritto del lavoro come strumento per politiche redistributive nel segno del principio di giustizia distributiva.

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2.4 – L’organizzazione sistematica della materia diritto del lavoro: la struttura

Poiché il metodo non è indifferente all’oggetto (cfr. diritto del lavoro), quanto in

precedenza esposto ci consente di realizzare una organizzazione sistematica della materia diritto del lavoro.

Non possiamo nascondere le preoccupazioni del nostro obiettivo. Sta di fatto che ogni società, ogni epoca storica esprime alcuni modi di

organizzare e pensare il lavoro che sono più diffusi e forti di altri e che si affermano come dominanti, fino a pervadere la maggior parte delle attività dell’homo faber.

A quel punto le soluzioni dominanti tendono a essere percepite dall’homo faber quasi come se fossero naturali e come se costituissero lo scenario dato agli avvenimenti e non invece il risultato di scelte sociali, politiche, religiose e quindi giuridiche.

Il fenomeno della pervasività e della percezione naturalistica del lavoro è la mediazione del bisogno, “.............è l’appagamento del singolo col suo lavoro e col

lavoro e l’appagamento dei bisogni, di tutti gli altri.....”117. Da tutto ciò deriva che l’intero sistema dei bisogni è equiparato a sistema del diritto del lavoro e ancor prima dell’economia politica. Marx, nella sua confutazione della dialettica e della filosofia hegeliane, conserva inalterato sia questo edificio teorico sia i suoi presupposti118. Determinato il sistema di bisogni, è la società civile, non già l'individuo, il centro dei bisogni, in quanto distanziamento e superamento del "bisogno naturale". Gli individui rientrano in scena solo perché titolari di bisogni interscambiabili con altri bisogni.

Per questo interscambio ogni soggetto contrattuale deve dotarsi degli adeguati mezzi di appagamento: nell'universalità dello scambio tra soggetti bisognosi si dà qui il riconoscimento e il riconoscersi degli individui gli uni verso gli altri.

Ma è il riconoscere un possesso differente dal proprio, riconoscendo la reciprocità dei possessi. Liberarsi da un bisogno significa soddisfarlo, accedendo a un possesso altrui e cedendone uno proprio. Lo scambio tra possessi diversi regola la soddisfazione dei bisogni.

A bisogni diversi possessi diversi e diversi possessori. Nella dialettica circolare del bisogno, dunque, si dà tanto il riconoscimento di sé

che dell'altro. La liberazione circolare e scambista dei bisogni porta in giro la tirannia del possesso.

L'individuo viene ridotto a mezzo e modo di appagamento di bisogni sociali.

117 G. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Bari, Laterza, 1974. p. 194. Il motivo è rinvenibile in molte altre opere del grande filosofo tedesco. Ci rifacciamo, a titolo esemplificativo, a quest'opera, in cui il discorso che intendiamo prendere di mira è più esplicitamente argomentato. 118 "..Lo scopo diretto della produzione capitalistica non è la produzione delle merci, ma del plusvalore e del profitto

(nella sua forma sviluppata), non il prodotto, ma il plusprodotto. Da questo punto di vista lo stesso lavoro è produttivo

solo in quanto crea un profitto o plusprodotto per il capitale"; "Lo scopo costante della produzione capitalistica è

quello di riprodurre, con il minimo di capitale anticipato, il massimo di plusvalore e plusprodotto..." K. Marx, Teorie

sul plusvalore, Roma, Editori Riuniti, 1970, pp. 591-592

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Il lavoro, in questa posizione, diviene coerentemente l'orizzonte di civiltà umanamente e storicamente più elevato: "La civiltà nella sua determinazione assoluta, è

la liberazione e il lavoro della più alta liberazione, cioè l'assoluto punto di passaggio

alla sostanzialità infinitamente soggettiva dell'eticità non più immediata e naturale ma

spirituale ed elevata, parimenti alla forma dell'università. Questa liberazione è nel

soggetto il duro lavoro contro la semplice soggettività del comportamento, contro

l'immediatezza degli istinti come contro la vuotezza soggettiva del sentimento e contro

l'arbitrio del libito"119. In Hegel, dunque, la socializzazione e la ricomposizione dei bisogni sociali

risultano avvìlupate in un'idea di storicità di secondo grado, essendo subordinate a un meccanismo inconsapevole di necessità naturale. Esiste una razionalità a priori che si caratterizza come trascendente.

Tale trascendentalità è particolarmente evidente nell'intreccio assoluto tra proprietà e libertà.

Gli egoismi e le particolarità insorgenti sono condannati a trovare una rnediazione e una soluzione nella prassi lavorativa intesa e misurata come valore che riconduce il particolare nell'universale. La prassi lavorativa, pertanto, sì fonda su una razionalità metafisica.

Il bisogno ricade qui in un circolo che, nonostante le premesse teoriche, finisce con l'essere condizionato naturalisticamente.

La presa dì distanza operata da Marx non determina una vera e propria frattura epistemologica.

La forma lavoro si divide. Nella divisione, gli interessi particolari si spezzettano. La prassi lavorativa li riconnette in un contesto unitario, per quanto internamente frammentato. La forma del lavoro che si divide a monte non è più la stessa della forma lavoro divisa che ritroviamo a valle. Nel mezzo, tra la forma della divisione e la forma divisa, sta la prassi lavorativa; o meglio: le prassi lavorative. E ancora: il lavoro diviso, che rincorre la molteplicità degli interessi e dei bisogni, è ancora oggetto per la divisione del lavoro, che appare come forma. Il lavoro come forma è anche oggetto per le forme della divisione del lavoro.

Ciò significa smaterializzare il lavoro. Ma se il lavoro si smaterializza come opera vuole dire che si sta definalizzando:

lavoro per il lavoro è soltanto lavoro per l'accumulazione. Il che produce ricchezza sociale e, in talune aree, ab-bondanza; ma sospinge al livello di saturazione l'effetto disgiuntivo tra lavoro come opera e lavoro come fatica. Paradossalmente, la fatica stessa viene intellettualizzata in sommo grado e si assottigliano, fino a divenire un confine labilissimo, le differenze tra lavoro manuale e lavoro intellettuale.

Si è osservato che "l'organizzazione moderna del lavoro ha materializzato lo spirito e ha spiritualizzato la materia"120.

119 G. F. Hegel, Ibidem, p. 193. Considerazioni analoghe si ritrovano anche in: La fenomenologia dello

spirito, Firenze, La Nuova Italia, 1973, pp. 317-318; Scritti di filosofia del diritto, Bari, Laterza, 1962, pp. 65-66. 120 D. Formaggio, Appunti sull'oggetto immaginario, "Fenomenologia e scienze dell'uomo", n. 1, 1985 p.7

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Il fare, come momento "attivo" del lavoro, si distanzia dal fruire e dal godere, il momento "passivo". Ciò misura la distanza tra lo spazio di lavoro, non libero e il tempo della libertà, senza lavoro.

Ne segue che il tempo di lavoro non è (anche) spazio della libertà; lo spazio della libertà non è (anche) tempo del lavoro.

Tra lavoro e libertà si conficca un cuneo che ne impedisce forzosamente la presa di contatto, sino ad apparire l'uno elemento come la negazione vivente dell'altro: lavoro come restrizione della libertà; libertà come sottrazione dal lavoro.

Se il tempo è assunto come decisore sistemico, vuole dire che esso è pervenuto alla soglia di risorsa fondamentale per l’homo faber.

Il tempo come bene-risorsa lo ritroviamo dentro e fuori il lavoro. È tanto possibile ridurre l'elemento di fatica e di passività presente nel lavoro,

quanto necessario potenziare i contenuti di autodeterminazione e di creatività che si sviluppano al di fuori della prassi lavorativa.

Il lavoro rimane una attività costitutiva dell'essere sociale e dello sviluppo genetico della civiltà umana.

Una pratica di libertà non può ignoralo o negarlo. Deve, al contrario, riattraversarlo.

Il lavoro brucia il tempo e la libertà. Nondimeno, nel lavoro continuano ad abitare le ragioni del tempo e della libertà.

Quindi la dimensione temporale assume una rilevanza primaria e quella di una qualsiasi struttura si può osservare analizzando le relazioni che si instaurano tra i diversi componenti che la compongono, in particolare tra i soggetti e tra essi e le cose, dal punto di vista cronologico.

Questo tipo di ottica che noi preferiamo, si differenzia nettamente da altri punti di vista con cui il diritto del lavoro, può essere osservato, come ad esempio l’ottica del potere (centrata sui rapporti di subordinazione o di dominanza), l’ottica dei ruoli e delle attività (centrata sulla divisione dei compiti e il tipo di lavoro), l’ottica della comunicazione assiologica (centrato sullo scambio informativo e di valori).

A questo punto è facile rispondere alla domanda perché siamo interessati alla leva temporale?

L’interesse per la leva temporale, emerge dalla necessità di innovare. In altre parole, dall’analisi storica degli istituti che costituiscono il diritto del

lavoro, emerge l’idea che più vi è la necessità di un forte cambiamento e più è frequente è il ricorso alla innovazione dei modelli e degli schemi temporali adottati nell’ordinamento.

Modificare le concezioni del tempo di un certo sistema ordinamentale, risulta essere un obiettivo difficile, ma il cambiamento sembrerebbe avere un’ampia capacità di innovare, proprio per il carattere di sfondo e di scenario svolto dalle determinanti cronologiche.

Se dunque gli aspetti temporali sono così importanti per il diritto del lavoro, ci sembra utile individuare i vincoli e il grado di libertà che circoscrivono i possibili mutamenti e le innovazioni.

A questo scopo proponiamo un modello che mette in evidenza le diverse variabili del problema e i diversi ambiti su cui è possibile intervenire.

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Dunque è necessario spiegare il diritto del lavoro non attraverso il segno dell’oggettività (cfr. della prestazione), che ci consente solamente di prendere atto di un universo costituito da oggetti isolati, che determinano istituti isolati, ma attraverso la scomposizione dell’oggetto nei suoi elementi semplici.

Spiegare significa scoprire gli elementi semplici e le regole semplici a partire dalle quali si effettuano le varie combinazioni e le costruzioni complesse121, quindi si costituisce il sistema.

Il diritto del lavoro è un arcipelago di sistemi nell’oceano del disordine. Tutto ciò che costituiva perfino un’unità elementare, oggi è necessario che diventi

sistema. “Infatti si tratta di un complesso normativo vario e composito, perché in esso

confluisce tutto quanto attiene alla disciplina dei rapporti di lavoro. Disciplina

eteronoma per l’intervento della legge. Autonoma per gli accordi intervenuti tra i gruppi

sociali organizzati e contrapposti dei datori di lavoro e dei lavoratori (sindacati).”122

Ancora, si constata che il complesso giuslavoristivo italiano, così intricato, si è formato per stratificazioni successive, in maniera alluvionale123, infatti coesistono normative dell’età liberare, della stagione corporativa, della Repubblica, molto spesso non coordinate.

Di qui, l’esigenza sentita dagli studiosi di una razionalizzazione almeno formale124.

Dobbiamo dunque interrogare la nozione di sistema? Semplificando, si può concepire il sistema come unità globale organizzata di

interrelazioni fra elementi, azioni, o individui125.

Non bisogna dimenticare però l’assetto assiologico che da al sistema un’identità sostanziale, chiara , semplice.

Il sistema si presenta anzitutto come unitas multiplex, cioè paradosso:

considerato dal punto di vista del Tutto, esso è uno ed omogeneo; considerato dal punto

di vista dei costituenti, esso è diverso ed eterogeneo. Il sistema, quindi, è un’unità originale, non originaria: possiede qualità proprie

ed irriducibili, ma deve essere prodotto, costituito, organizzato.

E’ un’unità individuale, non indivisibile: può essere scomposto in elementi

separati, ma allora la sua stessa esistenza si scompone.

E’ un’unità egemonica, non omogenea: è costituito da elementi diversi, dotati di

caratteristiche peculiari, che esso tiene in suo potere126

A questo punto occorre realizzare l’unità del nostro sistema, non dimenticando che l'unità normativa è il compito della norma, cioè quello di riconoscere, al di là delle apparenze molteplici e continuamente mutevoli dello stato di incertezza. È l'unità che fa della norma stessa un ordinamento, l'unica sostanza che costituisce il suo essere, l'unica legge, che regola il suo divenire.

121 E.MORIN Il metodo - Ordine disordine organizzazione Feltrinelli 1977, pag. 123. 122 G.PERA Diritto del Lavoro Cedam sesta edizione 2000 pag. 1 123 GIUGNI, Relazione, in Prospettive del diritto del lavoro per gli anni ’80 (atti del VII Congresso nazionale di diritto del alvoro tenutosi a Bari nell’aprile 1982), Milano, Giuffrè 1983 p.6 e ss. 124 G.PERA op. cit. pag.38 125 E.MORIN op. cit. pag. 131 126 E.MORIN op.cit. pag.135

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La norma è quindi principio non solo nel senso che spiega l’origine della certezza, ma anche e soprattutto nel senso che rende intelligibile e riconduce all'unità la molteplicità e la mutevolezza prodotta dal dubbio. Da qui, deriva il carattere attivo e dinamico che la norma ha sia per l’ordine, sia per la certezza. Essa non produce immobilità, ma è principio di azione e di intelligibilità di tutto ciò che è molteplice e in divenire. Di qui deriva la convinzione implicita che la norma abbia in sé una forza che la faccia muovere e vivere; la riduzione della norma all’oggettività della certezza. Nel divenire ciclico della norma il tempo assume una rilevanza, poiché' consente di individuare l’effettività della norma ed è la misura del mutamento della certezza all'incertezza. La norma come sostanza della certezza è l'ipotesi dell’ordine misurabile dei fenomeni, quindi il modello originario, giacché costituisce, nella sua perfezione ideale, l'ordine in sé implicito. La norma consente perciò di alimentare l’ambiguità prodotta dal dubbio e plasma l'ordine. Se la norma è la sostanza della certezza, tutte le opposizioni tra fatto ed atto. Ora l’opposizione fondamentale del fatto rispetto all'atto (ordine misurato) determina tutto ciò che sta dalla stessa parte del fatto è male (illecito), ciò che si trova dall'altra parte è bene (lecito). Questo processo ripetuto più volte conduce alla formazione dell'ordine sociale (ordine sociale universale), nel quale l'armonia non è al principio ma al termine. L'ordinamento è concepito, come una sfera dove al centro c’è la norma e intorno a questo si muovono il fatto e l'atto. Il carattere normativo che la certezza qui riveste, è assunto come la definizione stessa della certezza è ciò che è e deve essere. È la certezza nella sua necessità, nella sua unità e nell'immutabilità (temporale). La certezza e la norma devono avere in ogni caso un oggetto e questo oggetto è l'atto. Il valore di certezza (verità) della norma dipende dalla realtà dell'oggetto, la norma vera, non può essere che la conoscenza dell'oggetto. Dunque la stessa cosa è la certezza e la norma, la stessa cosa è la certezza e l'atto (oggetto della norma); senza la norma nel quale la certezza è espressa non si potrebbe trovare la certezza, giacché niente altro c’è o ci sarà fuori dalla certezza. La struttura della norma, è caratterizzata dalla categoria della modalità. La necessità è l'unica modalità fondamentale, che consente di superare il dubbio, perché' rispetto al tempo è eternati', rispetto al molteplice è unità, rispetto al divenire immutabilità. La norma è compiutezza e perfezione e in questo senso finitezza. L'ordine, è un ordine misurabile. Lo spazio ed il tempo, sono la condizione del mutamento dell'oggettività della norma. Il divenire può essere spiegato per la molteplicità di elementi qualitativamente e quantitativamente diversi, certezza ed incertezza sono due forze del sistema, le cui azioni si avvicendano, determinando, con tale avvicendamento le fasi del ciclo normativo.

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L'ordinamento ritorna, dopo un certo tempo, al caos generato dall'incertezza, dal quale uscirà di nuovo per ricominciare il suo corso, per riaffermarsi nella sua uniformità normativa. È il rapporto dialettico tra certezza ed incertezza che produce civiltà e ci conduce nel suo divenire verso la ricerca di norme logiche e metodologiche, rigorosamente "razionali", secondo l'ordine dato. Forze che non implichino alcun appello sull’evidenza e possono valere, quali regole di un sistema universale e necessario. Ogni avvenimento accaduto nel precedente ciclo nella fase di costituire il potere generatore dell'ordine sociale e della certezza torna a ripetersi, senza alcuna differenza nella forma. Ma, che cos'è la forma, se non la norma. Nell'ambito di questo significato, il termine, indica l'essenza necessaria della certezza. In questo senso, non soltanto si oppone all'incertezza, ma la richiama tanto da costituire una relazione o un complesso di relazioni, che può mantenersi costante col variare dei termini. In altri termini, la forma è la risposta al dubbio ed esprime il condizionamento che il potere esercita attraverso di essa in virtù del radicarsi della certezza, cioè la ragione giustificativa. Questo è il momento di attualità, propriamente l'azione causale atta a garantire immancabilmente un effetto o che pretende di garantirlo. In questo senso si dice "il lavoro come forza", per sottolineare l'immancabilità della realizzazione del lavoro. La forza ci consente di effettuare i calcoli sulla durata del ciclo di certezza, ma non di comprendere la natura del movimento stesso. Possiamo, quindi, afferma che la forza è funzione della certezza, per esprimere l'interdipendenza tra di loro che consente la determinazione quantitativa di quest'interdipendenza, senza presupporre o assumere nulla circa la produzione dell'uno da parte dell'altro. La norma è uno strumento dell'operare umano nell'ambito del contesto sociale e deve adempiere ad una funzione sociale, soddisfacendo le attese di tutti i soggetti che vengono con essa in contatto. Le attese di conoscenza sono soddisfatte dal suo contenuto. Le singole classi di portatori di interessi legati alla norma ricercano in essa, risposte al dubbio (la certezza). Ecco che la norma è fonte d'informazioni diverse in relazione ai diversi interessi che i soggetti destinatari vogliono perseguire. I portatori dei flussi d'interessi sono interessati alla realizzazione di condizioni di equilibrio che consentono loro di conoscere se la norma sarà in grado di soddisfare e accrescere l'esigenza di certezza. I vari gruppi di portatori di interessi, divergono tutte le volte in cui tendono a favorire i propri interessi rispetto a quello degli altri. Ecco che tutte le volte che la norma è strumento di conoscenza, viene piegata a mezzo per rappresentare più facilmente i propri fini di alcuni gruppi di interessi e cosi' trasformata in strumento di comportamento.

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Ciò attua la norma, in riferimento al soggetto destinatario, come mezzo diretto o indiretto a soddisfare i propri interessi. La dichiarata responsabilità sociale della norma, richiede che il documento che ne rappresenta all'esterno la realtà, sia concepito quale fonte di informazione, per tutti coloro che in qualche modo sono legati alla norma, senza che nessun gruppo venga privilegiato rispetto agli altri. Il soggetto quindi trova nella norma il punto di riferimento, più importante per la soddisfazione dei suoi interessi. Il sistema normativo (cfr. ordinamento giuridico) è dunque un concetto a doppia entrata: una fenomenica e l’altra formale. I due aspetti sono i due volti del nuovo concetto di sistema: l’essere e il dover-

essere. Il sistema, quindi, oscilla fra il modello dell’essere e quello del dover-essere, il che significa che il concetto di sistema è un mezzo per condurci direttamente dall’essere-

lavoro, al dover-essere-diritto del lavoro. Non bisogna dimenticare, però, che ogni sistema è connesso a un sistema di sistemi che è connesso ad altri sistemi e, passo dopo passo, si collega all’ens che, quindi, è un polisistema di polisistemi. A questo punto si tratta perciò di elaborare il metasistema di riferimento dal quale si possa abbracciare contemporaneamente l’uno e l’altro gruppo che dovrebbero in esso comunicare ed organizzarsi vicendevolmente. E’ in questa prospettiva, che bisogna stabilire se è pregiudiziale il problema di identificare gli elementi che costituiscono la nostra organizzazione. Infatti l’organizzazione articola la nozione di sistema la quale rende fenomenica la nozione di organizzazione, connettendola a elementi materiali e a un tutto fenomenico. L’organizzazione è l’aspetto interiorizzato del sistema, il sistema è l’aspetto

esteriorizzato dell’organizzazione. Ora non possiamo non concepire la nostra organizzazione se non come una organizzazione normativa i cui elementi sono: il soggetto, l’oggetto, il tempo e lo spazio. I quattro elementi che costituiscono l’anello tetralogico dell’ordinamento giuridico, organizzati in sistema costituiscono il rapporto giuridico, che è l’aspetto esteriorizzato dell’organizzazione giuridica.

Ne consegue che l’esteriorizzazione del rapporto si localizza, cioè l’area comprendente lo scenario dell’interazione sociale dei processi sociali, economici e giuridici.

Diversamente la sfera giuridica è l’ambito di strutturazione dell’attività e dell’interazione dell’anello tetralogico,

La localizzazione implica invece il riferimento a processi operanti a scale diverse. Il luogo diviene contemporaneamente il conteso dell’azione un centro di

significato, che per l’azione costituisce un fattore cogente. Il luogo una volta delimitato, sancisce che è dentro e chi è fuori, e diventa uno

strumento per definire i suoi “abitanti” come “diversi da”: in tal modo il luogo assume un ulteriore significato quello di categoria di differenziazione identitaria.

L’homo faber fa il luogo, ma lo fa spesso sulla base di interpretazioni

contrastanti .

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A questo punto non ci resta che effettuare una ricognizione degli istituti e delle connessioni e delle articolazioni che essi hanno con gli elementi dell’anello tetralogico, sopra indicati per definire il sistema diritto del lavoro (Fig.3), seguendo la seguente classificazione:

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Fig. 3 - Il sistema diritto del lavoro

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CAPITOLO III

TUTELE 3.1 – Le entropie del mercato del lavoro. Quale lavoro ? Quale mercato del lavoro ? Quale lavoratore? Quindi, quali tutele?

In Italia, si ha l’impressione che niente funziona più! Protezione sociale, retribuzione, contratti collettivi e l’impianto normativo in materia di lavoro, secondo alcuni costituiscono insopportabili “rigidità”, che insieme alla paura del futuro, alla precarietà del posto di lavoro, alla “grande povertà” (miseria), alla pressione fiscale consentirebbero di affermare che abbiamo bisogno di un’altra economia e di un’altra società.

I precedenti interrogativi diventano più stimolanti se si aggiungono questi altri: quale economia ? quale società ?

La parola d’ordine, è “lavorare meno, lavorare tutti” e secondo qualcuno “....e

vivere meglio” . Questo slogan, che si vorrebbe elevare a principio, indica un insieme di politiche per ridistribuire tanto le ricchezze socialmente prodotte, quanto il lavoro necessario per produrle.

Secondo Andrè Gorz, saggista francese, “lavorare meno permetterà di lavorare

tutti soltanto se il tempo dedicato al lavoro continuerà a diminuire. E potrà avere come

risultato il vivere meglio solo se le reti e i movimenti associativi e cooperativi sono in

grado di impadronirsi del tempo liberato per svolgere una moltitudine di attività

collettive e individuali”. Lo stesso Gorz rileva che, esistono però dei settori, i servizi pubblici (sanità,

trasporti urbani, istruzione, ecc.), dove non c’è molto margine per un aumento della produttività, che consentirebbe di realizzare il “principio” testé enunciato.

Oggi, in Europa quella coerenza tra sviluppo ed occupazione non esiste più. Oggi c’è sviluppo in termini quantitativi, di Pil, ma non c’è aumento della

occupazione, o almeno non ce n’è a sufficienza, mentre negli Stati Uniti, nello stesso periodo sono stati creati 38 milioni di nuovi posti di lavoro.

Ciò significa che si crea ricchezza e non occupazione. Ed allora bisogna anche riflettere su tale tendenza, riconsiderando lo stesso

concetto di sviluppo ed i contenuti medesimi con cui tale concetto era stato “sostanziato”.

Non è facile, nè chiaro l’iter da perseguire, ma l’obiettivo è individuabile e raggiungibile.

Secondo alcuni, in tale contesto il problema della innovazione tecnologica si pone come centrale, insieme alla globalizzazione dell’economia.

Si guarda con attenzione allo spostamento della produzione in paesi in cui il costo della manodopera è significativamente inferiore rispetto a quello dei paesi committenti, oltre alla dimensione transnazionale dei mercati.

Questo ha consentito alle società transanazionali di svincolarsi dalle leggi dello Stato-nazione e di svuotare quest’ultimo di significato per sottometterlo alle leggi del mercato e della competività globalizzata.

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Vanno, poi, approfondite le cause del permanere di contesti economico-produttivi arretrati all’interno del nostro Paese come il Mezzoggiorno ed anche perchè una quota elevata di persone in età di lavoro nemmeno si presenta sul mercato per offrire le proprie prestazioni.

Tutto ciò deve saldarsi con l’aspetto “micro” del problema, con particolare riferimento a quelli di natura sociale, perché determinano sia come i soggetti si presentano sul mercato del lavoro, sia nel modo in cui i soggetti stessi si orientano nel e sul lavoro.

Dalle seppur brevi annotazioni fin qui svolte, dovrebbe essere emerso che il problema da affrontare è la disoccupazione.

La disoccupazione è una scoperta recente, legata alle crisi cicliche delle economie capitaliste sin dai primi decenni della rivoluzione industriale e c’è chi ha finto di confonderla con le disfunzioni della società capitalistica in contrapposizione ad un modello di società che tale disfunzione teoricamente non avrebbe creato.

Nelle società industriali, gli effetti del progresso non sono mai immediati. Le innovazioni sono spesso rappresentate da diffusi miglioramenti nei

macchinari, nei metodi produttivi, nell’uso delle risorse. Le innovazioni tecnologiche, in particolare dall’avvento di tecnologie labor

saving, hanno lo scopo deliberato di sostituire il lavoratore in quei tipi di mansioni che richiedono l’espletamento di compiti standardizzati e ripetitivi, oppure in compiti faticosi o pericolosi.

Queste tecnologie per loro stessa natura entrano in competizione con posti di lavoro di un certo tipo mentre ne fanno sorgere altri di diversa qualificazione e richiedenti competenze diverse, per la predisposizione delle macchine automatizzate, per la preparazione dei programmi software, per il controllo delle macchine in funzionamento e la manutenzione loro e del software che le governano.

Certo è che esiste sicuramente una correlazione inversa tra progresso tecnico e disoccupazione e che il solo modo per garantire a tutti un lavoro, sia mantenere elevato il ritmo dell’innovazione, la quale assicura anche una quantità crescente di tempo libero.

L’esperienza storica dimostra che tale affermazione può ritenersi corretta. Infatti, le ricerche più recenti hanno provato che fra 1870 e 1992 l’orario di lavoro nei paesi industrializzati si è dimezzato passando da quasi 3.000 a poco più di 1.500 ore annue (solo in Giappone si lavora ancora quasi 1.900 ore all’anno).

Oggi si insiste sulla riduzione dell’orario di lavoro e sulla mobilità del mercato del lavoro come antidoti contro la disoccupazione.

In estrema sintesi la mobilità del lavoro (riferita al periodo 1985-1991), è caratterizzata in Italia dai seguenti elementi127: • tra le piccole aziende ogni anno un lavoratore su due si distacca dal suo posto di

lavoro, tra quelle maggiori se ne distacca uno su otto; • sotto il profilo della durata dei rapporti di lavoro, il 5% non ha neanche un rapporto di

lavoro che dura più di 11 mesi, mentre il 37% ne ha almeno uno di durata superiore a 6 anni;

127 Ved. B.Contini, C.Malpede, I. Pacelli, F. Rapiti, “La mobilità del lavoro in Italia a cura di G.Galli e. SIPI, Confindustria, 1996.

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• la percentuale dei lavoratori presenti a libro-paga supera il 35% dell’intera popolazione; di questi il 70% sono rimasti nella stessa azienda;

• sotto il profilo territoriale, nelle regioni del Mezzogiorno si ritrova una volatilità occupazionale molto più forte che nel Centro-Nord, da tener presente però che vi è una maggior presenza di imprese e di settori volatili come l’edilizia;

• la crescita del settore terziario è avvenuta grazie all’immissione di nuove leve nella forza lavoro, molti giovani, soprattutto donne;

• il processo di rinnovo e sostituzione di manodopera specialmente nella grande industria, che si è profondamente ridimensionata, è stato caratterizzato, dall’immissione di giovani anche con l’utilizzo del contratto di formazione-lavoro, espulsione di manodopera di tutte le età, particolarmente accentuata tra i quarantenni mediante, pre-pensionamenti, incentivi all’uscita, CIG straordinaria;

• periodi lunghi di permanenza in disoccupazione per i quarantenni, più brevi per i giovani;

• il tasso di separazione, che è l’indicatore della mobilità utilizzato dagli economisti, e cioè il rapporto tra il numero di distacchi dall’occupazione dipendente e lo stock di occupazione stessa, indica che nel nostro Paese, un lavoratore su tre si distacca ogni anno dal lavoro dipendente; altrettanti entrano a libro-paga;

• gli operai si muovono più degli impiegati, ed entrambi hanno una maggiore mobilità dei dirigenti; non sorprende la mobilità degli apprendisti per i quali vale una normativa che prevede contratti con un massimo di 5 anni;

• le differenze tra uomini e donne sono molto contenute; • mentre i flussi di coloro che si muovono tra i grandi settori - industria, servizi,

costruzioni, - sono minimi, quelli all’interno dei tre settori sono molto più rilevanti. La globalizzazione dell’economia, cioè il complesso dei fenomeni che hanno portato

all’abbattimento dei confini che in precedenza frenavano il movimento dei fattori della produzione, dei prodotti e dei capitali ha messo in moto secondo quanto sostenuto da alcuni economisti, la c.d. legge dei vasi comunicanti, chiamata in economia teoria del pareggiamento dei prezzi, al netto dei costi di trasporto ed a parità di qualità.

Perciò i prodotti tendono a fluire dove i prezzi sono maggiori, mentre la produzione tende a localizzarsi dove i costi sono minori.

Poichè il mondo è fatto di paesi con costi del lavoro nettamente diversi, le leggi dei vasi comunicanti funzionano come una potente calamita nell’attrarre le produzioni dei paesi più sviluppati a salari elevati verso paesi meno sviluppati a bassi salari.

Ciò si verifica al massimo sulle produzioni ad alta intensità di lavoro non qualificato. Se questo campo di forze viene lasciato libero di operare cosa accade per questi

lavoratori? Accettare riduzioni di salario o perdere il posto di lavoro a favore dei lavoratori dei paesi meno sviluppati in seguito ai processi di delocalizzazione.

Mentre se il mercato fosse scevro da rigità normative e sindacali, si avrebbero emigrazioni di questi lavoratori verso le aziende occidentali con inquinamento del mercato e con la tendenza al ribasso dei salari. Se invece questi vengono mantenuti rigidi o addirittura accresciuti, cresce la pressione alla sostituzione con la disoccupazione crescente.

Ed allora sorge un quesito: come arrestare questa minaccia ?

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Si dovrà intervenire sui salari come è avvenuto negli Stati Uniti e nel contempo integrarli con sussidi di disoccupazione, oppure si dovrà intervenire con la formazione professionale cercando di dotare di competenze e professionalità i nostri lavoratori ?

Negli Stati Uniti si è ritenuto di adottare la prima soluzione e di non intervenire per integrare la perdita di salari delle categorie di lavoratori colpiti dal fenomeno, al punto di lasciare scivolare molte famiglie al di sotto del livello di sussistenza, perché questo modello comporta una quota di welfare meno pesante ed il vantaggio di mantenere in produzione un numero maggiore di lavoratori.

Nell’ambito della formazione si affermano grandi linee di tendenza: maggiore importanza attribuita alle attività (ad esempio tra progettazione, produzione, area commerciale), riaggregazione delle funzioni (in particolare l’esecuzione e il controllo) e delle mansioni (polivalenza).

Nella pratica aziendale tali linee si traducono in soluzioni differenziate, in relazione al settore, alle dimensioni dell’impresa, alle caratteristiche del contesto locale.

Ecco che la transizione tra una cultura della stabilità a una nuova cultura del lavoro può essere effettivamente condivisa, solo se si offrono concrete possibilità di accesso alla mobilità e alla flessibilità.

La formazione quindi deve giocare un ruolo di anticipazione/investimento e tale logica presuppone che siano chiarite le scelte di campo sugli obiettivi e sulle strategie produttive del contesto di riferimento.

In uno scenario fortemente articolato e in continua evoluzione, l’analisi dei fabbisogni formativi deve ricercare un consenso negoziato tra gli attori del sistema produttivo. Il loro diretto coinvolgimento diventa indispensabile per prefigurare gli equilibri e le tendenze dei sistemi professionali (quali figure occorre formare per consentire il funzionamento e lo sviluppo) e per definire le caratteristiche e le dinamiche delle competenze richieste (come formare le diverse figure).

Esistono quindi tutti i presupposti per avviare processi di riforma. Il tempo della sfida del terzo millennio si avvicina e perciò occorrono scelte

coraggiose. Quali? Ridurre la spesa pubblica e le imposte, viene affermato, fra grandi aspettative e

qualche perplessità, fra notevoli attese e alcuni timori, fra una fiducia fondata e altrettanta incertezza.

Un’altra soluzione potrebbe consistere nell’eliminare i contributi a carico di lavoratori e datori di lavoro che attualmente finanziano la previdenza sociale e l’assistenza medica, e sostituirli con un imposta sul reddito oppure una tassa sulla salute.

Dal punto di vista della politica occupazionale, gli oneri sociali hanno due fondamentali svantaggi. Il primo è che aumentano il costo del lavoro scoraggiano le imprese ad assumere nuovi dipendenti. Il secondo che cadono in maniera sproporzionata sulle spalle proprio di quei lavoratori non qualificati che si troverebbero in concorrenza.

Questa potrebbe essere una soluzione di medio periodo, mentre nell’immediato, per contenere la dinamica del costo del lavoro, è urgente la riduzione degli oneri sociali al 37% che è la media europea.

Una graduale riduzione degli oneri sociali aumenta il reddito netto, e quindi la domanda, frenando lavoro nero e favorendo nuova occupazione.

Ciò dovrebbe consentire di reiterpretare la qualità della mano d’opera, la cui specializzazione dovrebbe adattarsi ad una formazione artigianale on the job doing, una

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costante attenzione agli investimenti di nuove tecnologie, che dovranno portare ad una flessibile e moderna rete commerciale con un nucleo duro protettivo estremamente efficiente.

Recentemente la coalizione di Governo, insieme alle forze sociali ha predisposto un programma per lo sviluppo e l’occupazione, non mi pare che sia una risposta al problema della globalizzazione dell’economia.

La globalizzazione dell’economia coinvolgerà un numero maggiore di imprese e di settori, che dovranno effettuare investimenti in ricerca, sviluppo e qualità almeno in linea con quelli dei loro corrispondenti concorrenti internazionali

Infatti quando non ci si preoccupa di concludere accordi analoghi a quelli conclusi dai propri concorrenti internazionali, non si fa altro che mettere in forse il proprio futuro.

Per far ciò occorre svincolare la contribuzione del sistema previdenziale e assistenziale dalla retribuzione. I confini della finanziabilità del sistema anche con la riforma sono superati.

Se è vero che l’economia di mercato ed il liberismo non deve mettere in discussione i fondamenti sociali, a sua volta lo stato sociale non li deve minare.

Certamente l’avvio di un millennio è da sempre atteso e vissuto da tutti come l’opportunità di cambiamento per eccellenza.

Alla fine del ventesimo secolo c’è una grossa novità tra tutte le attività umane che potranno rivoluzionarsi: il lavoro.

Infatti questa attività, che ha caratterizzato fortemente la vita dell’uomo, dopo essersi imposta in questo secolo come il focus della società per subire una trasformazione tale che ne muterà la sua natura e il rapporto stesso con l’uomo.

Per comprendere quanto sta già cambiando, è opportuno fissare prioritariamente l’attenzione sul significato dei termini ricorrenti nelle analisi delle cause degli effetti e contemporaneamente valutare l’evoluzione del mercato del lavoro. La flessibilità e il cambiamento sono i comportamenti chiave per realizzare le nostre aspettative future.

Flessibilità vuol dire adattabilità, adeguabilità, Nel linguaggio sindacale: la possibilità d’impiego dei lavoratori di un’impresa in compiti diversi da quelli per cui sono stati assunti.

Flessibilità significa anche cambiamento ovvero mutamento improvviso che interviene in una situazione.

Il significato di questi due termini deve sempre essere presente nella nostra mente per poter avere un ruolo attivo nel mercato del lavoro e anche per comprenderne l’evoluzione perché tutto scorre ed è in eterno divenire.

Ed allora come cristallizzare la realtà? Intanto, deregulation per delimitare le interferenze governative nell’economia, poi, l’allentamento dei vincoli tradizionali che regolano il mercato del lavoro, quindi, facilità di assunzione e di licenziamento, con la possibilità di aumentare e di ridurre le retribuzioni, di maggior espansione del part-time e di quello a termine e per finire una maggiore facilità di cambiare frequentemente lavoro, azienda e sede.

Un altro valido aiuto nell’analisi del mondo del lavoro ci viene dato inconsapevolmente da Karl Popper con “la lezione di questo secolo”, il filosofo recentemente scomparso, ci ricorda la nostra capacità di guardare nel futuro con l’idea di poterlo anticipare e ci dice anche che dal passato possiamo imparare.

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Ciò non significa affatto che siamo autorizzati a proiettarlo nel futuro per poterne anticipare gli eventi.

Per meglio sostenere queste posizioni, Popper afferma che all’idea di società aperta corrisponde quella di avvenire aperto. E’ fin troppo intuibile come queste affermazioni siano assolutamente vere per l’analisi organizzativa e per comprendere quali siano i problemi che abbiamo di fronte a noi nel rapporto di lavoro futuro.

Il tempo è diventato una merce preziosa, un valore. Occorre rivoluzionare il modello tradizionale del lavoro orientato alla prestazione per crearne uno spazio indirizzato al tempo. Siamo giunti all’epoca in cui si recupera, come prioritario, il concetto di prestazione. Infatti, senza fissare l’orario di lavoro il rapporto si orienterà di più al “saper fare” autonomamente così che tutte le attività potranno svolgersi con un approccio di tipo conseguenziale.

Con il crollo del rapporto di lavoro fondato sull’orario si potrà arrivare anche al cambiamento della tradizionale tripartizione della vita: educazione-lavoro-pensionamento nell’interesse di un’organizzazione più ciclica del tempo, che segnerà la fine dell’era industriale e del lavoro come vendita di sé.

L’alternanza tra lavoro e istruzione può creare nuove capacità professionali. Questa eventualità non è la modernizzazione della formazione tradizionale; infatti si fa un’operazione che non agisce sul ruolo, ma sulla cultura della persona. Quindi si crea una disponibilità più ampia in rapporto alle possibili opportunità di lavoro alternative

Si deve in definitiva passare dalla idea del posto fisso per far posto alla pianificazione della carriera individuale e quindi passare dal concetto d’impiego a quello di professione con maggiore assunzione del rischio e della responsabilità. Il lavoro di massa, figlio dell’era industriale, è certamente finito. Ora si sta ritornando a un lavoro d’élite, altamente qualificato, ma massificato e potenzialmente alla portata di tutti.

La considerazione del tempo è quindi, l’area che blocca il passaggio definitivo verso il nuovo mondo del lavoro; infatti sia l’impresa sia il sindacato, per ragioni contrastanti, continuano a valutarlo, nel primo caso come la misura quantitativa della produzione, nell’altro, come il metro per retribuire la prestazione.

Le modalità di attuazione delle nuove professionalità, come aveva già previsto G. Aznar, si baseranno sugli orari scelti e variabili inseriti nell’annualizzazione del tempo di lavoro.

Lentamente la parte centrale della nostra vita, il lavoro, si sta trasformando in un insieme di prestazioni “a libero servizio” per più imprese.

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3.2 - Impresa e mercato: gestione delle risorse umane e innovazione tecnologica L’innovazione tecnologica è il risultato di un processo complesso e dinamico, determinato da fattori sociali, economici, organizzativi e da un grande numero di operatori, pubblici e privati, le imprese tra questi assumono un ruolo fondamentale. La capacità di incorporare e utilizzare nuove tecniche, attraverso processi di assimilazione cumulativi, dipende dal contesto socio-economico globale ed in particolare, dal sistema delle conoscenze e delle tecnologie, che devono essere finalizzate a soddisfare le esigenze delle imprese e, quindi, possano essere utili nella realizzazione e/o nella commercializzazione di nuovi processi produttivi, prodotti o servizi. Ecco, perciò, che capitali, macchine e attrezzature, non costituiscono più unici o più rilevanti mezzi di produzione. E non è certo causale che quello della revisione della nozione d’impresa sia sotto il profilo dinamico (integrazione dei cicli produttivi mediante collegamenti societari o la formazione di gruppi d’impresa) che in quello statico (i reciproci rapporti fra capitali, attrezzature e numero dei dipendenti), condiziona le scelte del legislatore e quindi la legislazione del lavoro, che sempre più è diretta a rafforzare le garanzie ed i diritti dei lavoratori. Inoltre non bisogna dimenticare il ruolo che ricopre in tutto ciò la scelta da parte dell’imprenditore di una certa organizzazione dei fattori della produzione ed il corretto uso degli strumenti giuridici di organizzazione che l’ordinamento gli mette a disposizione. Il referente è sempre l’imprenditore, giacché a lui è affidata la maggiore o minore ampiezza nella regolazione dei rapporti di mercato tra le imprese. Va aggiunto anche che la struttura produttiva viene sempre di più investita dalla innovazione la quale automatizza il lavoro d’ufficio, flessibilizza la fabbrica, muta la relazione tra la grande e la medio-piccola impresa, sviluppa tutto un nuovo terziario. Per esempio spettacolare è nell’industria automobilistica l’introduzione della robotica e nell’editoria della fotocomposizione. Ma l’impressione che si ricava dalla quotidiana esperienza è che l’innovazione sta investendo una parte crescente della nostra struttura produttiva ed occupazionale: trasforma ufficio e fabbrica; comanda flessibilità e mobilità; qualifica, dequalifica, libera forza lavoro difficilmente ricollocabile; ridimensiona e disarticola l’industria; dilata l’attività terziaria. La scena è quella tipica di qualsiasi fase di profonda trasformazione, in definitiva è una mescolanza di vecchio e nuovo, in cui il presupposto tradizionale proprio del diritto del lavoro condizionato dal modello grande impresa, deve fare i conti anche con la media, piccola, piccolissima imprenditorialità ed ancor di più con un anacronistico sovraccarico burocratico-normativo nell’intervento pubblico sul mercato del lavoro. Non solo il legislatore italiano, ma anche quello europeo, ha negli ultimi anni sentito la necessità di intervenire con adeguati strumenti per tentare di conseguire

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modelli di sviluppo, simili a quelli dei paesi tecnologicamente avanzati, quali Stati Uniti d’America e Giappone.128 L’elemento principale e peculiare di queste innovazioni tecnologiche, oltre al risparmio in termini di occupazione, consiste nel fatto che si tende ad eliminare tutta la forza lavoro diretta per favorirne una indiretta, addetta cioè alle operazioni di controllo e manutenzione: molte delle tradizionali mansioni e specializzazioni professionali perdono progressivamente il loro peso, per lasciare il posto a mansioni generali, diminuiscono i livelli gerarchici, ed emergono squadre polivalenti e multifunzionali129. Quanto sopra esposto comporta anche una modifica della tecnica di tutela tradizionale, che “produce l’effetto correttivo dello squilibrio di potere tra le parti

soltanto a vantaggio del lavoratore che un posto di lavoro l’ha già trovato, cioè

protegge il lavoratore soltanto nel rapporto, non nel mercato del lavoro..” 130.

Tesi questa condivisibile, tenuto anche conto dell’evoluzione del mercato del lavoro, della globalizzazione, della new economy, ed in particolare delle mutate condizioni socio-economiche del sistema italiano, in concomitanza con la politica-economica europea, nonché delle esigenze di introduzione di nuovi metodi produttivi, anche in relazione all’evoluzione delle tecnologie e della domanda di mercato e del maggior livello di integrazione del mercato europeo e la possibilità di confronto con modelli diversi da quello italiano. Non dimenticando, poi, anche la concorrenza sulla qualità, sui costi e sui prezzi. Si osserva, infine, che a livello aziendale, l’esigenza di rispondere alla sfida dei mercati e alla crescente domanda di qualità del sistema, ha portato ad una trasformazione dei processi produttivi, che prevedono rapporti di lavoro più coinvolgenti e partecipativi. Ogni fase di cambiamento economico e di ristrutturazione produttiva induce le imprese ad una continua ricerca di efficienza. La necessità di affrontare con rapidità e piena adattabilità sfide imprevedibili richiede, d’altro canto, una gestione del personale che concorra a conseguire gli obiettivi aziendali, rispondendo con agilità alle continue e nuove esigenze di cambiamento negli assetti societari, mediante le ristrutturazioni e le riorganizzazioni. Gli imprenditori si accorgono che non è sufficiente disporre di nuove idee, se la gestione del personale non viene programmata insieme alla realizzazione degli obiettivi aziendali, quindi bisogna considerare l’allargamento degli organici, intervenire sul turnover, senza dimenticare che occorre riqualificare il personale ed attuare forme di uscita dall’azienda per il personale più anziano e vicino alla pensione. L’impegno innovativo dell’impresa entra spesso in conflitto con atteggiamenti conservativi mantenuti dal personale ed, in particolare, con le rappresentanze aziendali che sono tendenzialmente conservative: i loro atteggiamenti, attaccati a consuetudini, non sono agevoli da superare.

128 A.DINA, Sviluppo del livello tecnologico delle macchine utensili, in Innovazione e ristrutturazione nel settore delle

macchine utensili a cura di V. CAPPECCHI, A.ENRIETTI, M.ROLLIER, Milano 1981, pag.305; LUNGHINI G., VACCA S. Cambiamento tecnologico e teorie delle imprese, Milano, F. Angeli, 1987, pag.62; LASSINI A., Opportunità tecnologiche, piccola dimensione e strategia innovativa, Bologna, il Mulino, 1990, pag.25 ; J. RIFKIN L’era dell’accesso, Mondadori, 2000, pag.22. 129 V.M.MERLINI, Soggetti emergenti: il robot-massaa alla Fiat, in Po. ed Econ.ù, 1983; A. DINA op. cit. pag. 314. 130 P.ICHINO Il Lavoro e il mercato Mondadori, 1996, pag. 34

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100

La promozione di specifiche iniziative di formazione professionale dei dirigenti in materie attinenti alla organizzazione aziendale si è rilevata una fruttuosa scelta operativa, per superare i loro atteggiamenti conservatori. Fra l’altro il paradigma della qualità totale richiede un profondo coinvolgimento dei lavoratori, senza cui viene meno la presenza della risorsa innovazione e ottimizzazione dal basso, che costituisce un elemento fondamentale del paradigma stesso. Ecco, quindi, che la strategia partecipativa proposta dalle parti sociali in sede Cee (informazione, consultazione e partecipazione), più che sulla ricerca del consenso, punta sul coinvolgimento. Essa, infatti, mira alla conoscenza di dati oggettivi ed alla convergenza degli interessi tra impresa e dipendenti, senza peraltro pretendere impegni di fedeltà a lungo termine131. In presenza, quindi di un sovradimensionamento degli organici e dei posti di lavoro, la maggior difficoltà si incontra, naturalmente, nelle aree in cui non è agevole provvedere, con esiti positivi, alla mobilità esterna. In genere, l’impegno contrattualmente convenuto con le rappresentanze sindacali all’interno dell’azienda è rivolto, principalmente, per quanto possibile, alla mobilità interna, con il reimpiego dei lavoratori che dispongono delle professionalità richieste; con la riqualificazione, quando ciò sia possibile, con l’esodo incentivato ed il ricorso agli ammortizzatori sociali. Tali obiettivi si raggiungono attraverso enterprise creation, spin-off, job-creation

o outplacement. I risultati di questo progetto vanno valutati nel loro significato strategico, in termini di impegno dell’azienda nei confronti dei propri dipendenti, in particolare di quelli altamente qualificati, altrimenti soggetti al rischio della dispersione; in termini di consenso sociale e locale, ed infine, quali iniziative esemplari nella prospettiva della reindustrializzazione, mediante impreditorialità diffusa e coinvolgendo eventuali partners. Sul fronte dell’outplacement, le destinazioni sono due: a) il reimpiego, mediante

ricerca attiva per far incontrare offerta e domanda di lavoro (raccolta di informazioni

presso le imprese, attività di orientamento, formazione dei lavoratori finalizzata alle

specifiche professionalità richieste); b) promozione di lavori socialmente utili, per il

personale in Cigs. Dunque per effetto delle nuove ondate di innovazione tecnologica, i processi di ristrutturazione sono destinati a diventare sempre più ampi e frequenti, perdendo quel carattere di ciclicità che hanno mantenuto nel tempo. Ciò comporta per l’imprenditore, la necessità di porre in essere interventi correttivi, in quanto si accentueranno i fenomeni di obsolescenza degli assetti produttivi e del capitale umano. In tale ottica, inoltre, è necessario una continua verifica dell’efficienza e dell’efficacia dei mercati del lavoro interni alle imprese interessate e un continuo monitoraggio delle attività relazionali: rapporti con i fornitori, rapporti con i clienti,

131 G.BECCATTINI I Distretti industriali e cooperazione tra imprese: una campagna di ricerche, in Bellandi e Russo, 1993, pag.45.

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101

rapporti con i lavoratori, rapporti con gli azionisti, rapporti con i concorrenti, rapporti tra le diverse componenti dell’organizzazione e così via. In particolare l’introduzione di nuove strutture organizzative produce effetti del tutto nuovi sulle mansioni, sulla professionalità e, dunque, sul contenuto e sul ruolo delle risorse umane. L’impresa deve, quindi, gestire in continuazione una serie di cambiamenti concernenti: la tecnologia, il mercato, le relazioni competitive. Essa deve assumere le caratteristiche di un sistema dinamico che evolve e di adatta, o che addirittura anticipa i mutamenti del contesto in cui opera. La capacità di adattamento e la flessibilità sono caratteristiche determinanti oggigiorno per il mantenimento dell’impresa. Si può affermare che, di fronte al movimento continuo del contesto in cui si trovano ormai ad operare le imprese, la flessibilità va considerata una caratteristica necessaria alla sopravvivenza, piuttosto che un fattore di successo strategico. Il cambiamento tuttavia è in atto. Esso indica che compiti e funzioni dell’impresa debbono cambiare; che le vecchie regole del gioco su cui l’amministrazione dell’impresa ha fondato il suo patto con i lavoratori sono saltate; che ciascuno è chiamato a mettere in discussione il proprio comportamento, la propria cultura, per realizzare obiettivi attesi e sostenuti con risorse finanziarie e normative. Insomma il mercato e i suoi attori sono chiamati a vivere la stagione della prativa del cambiamento che è molto di più e di diverso della pura rivendicazione del cambiamento. E per quanto il processo sia esposto a variabili di diverso tipo e a rischi di diversa natura, si diffonde tra gli operatori del mercato, la consapevolezza che comunque un salto è stato compiuto, che la società non sarà più come prima e quindi il lavoro non sarà più come prima. Ciò che appare nuovo sono le dinamiche, i processi che segnano oggi i rapporti tra mercato e società, tra sapere ed esperienza. La centralità della persona nei processi di apprendimento richiama la consapevolezza che la persona è in primo luogo una struttura integrata, non separabile dalla società, dal mercato, dal lavoro. I mutamenti che nei processi produttivi di questi anni si sono manifestati con una rapidità impressionante, hanno travolto ogni certezza. La separazione tra sapere e lavoro, poi, che aveva alimentato il modello di apprendimento elitario è stata messa radicalmente in discussione dalla rivoluzione tecnologica, dall’esplodere dell’intelligenza nel lavoro, dai mutamenti del lavoro stesso. In pochi anni, siamo passati da quello che H.Ford definiva provocatoriamente “il

lavoro che non ha bisogno di pensare” al lavoro “che pensa”, quindi nasce l’esigenza di costruire nuovi luoghi e modalità di incontro tra sapere e lavoro, tra scuola e formazione.

Questo luogo è il territorio, la rete concreta, cioè le risorse produttive e formative che possono insieme progettare la trasformazione del proprio ambiente guardando ai caratteri del proprio sviluppo locale ed insieme alla realtà internazionale.

Quindi tutela?

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3.3 - Tutela tra norme elastiche e tipi flessibili Quando si parla di tutela ci si intende riferire al problema del riconoscimento

giuridico di determinati interessi dell’homo faber; riconoscimento da attuarsi nell’ambito del regime del rapporto di lavoro, mediante una disciplina determinata, tendente a limitare la libertà di azione dell’homo faber od ad imporre a questi determinati obblighi od oneri, ampliando di conseguenza, i diritti e le facoltà. Ai limitati fini della presente trattazione non è il caso di addentrarci nelle modalità di realizzazione d’una tale tutela, ma è il caso solamente di limitarci ad evidenziare, quali sono le risposte dell’ordinamento giuridico ad una lesione della sfera giuridica.

In definitiva, si tratta di vedere quale sono i rimedi posti dall’ordinamento giuridico diretti a ripristinare l’ordine violato e come la teoria dell’anello tetralogico adattata alla dinamica delle tutele, trasforma il sistema della giurisdizione.

Ai fini della comprensione della reale portata del problema in esame,, nonché del carattere innovativo dell’impostazione, occorrerà andare a verificare, alla luce del ruolo nomofilattico della giurisprudenza di legittimità e dell’esercizio del diritto d’azione attribuiti dall’ordinamento all’homo faber nell’ambito dei sostituti della giurisdizione.

Quindi, è inevitabile fare i conti, anzitutto, con la prima di tali verifiche e nell’ambito di ciò distinguere tra giudizio di fatto e giudizio di diritto e se il giudice di legittimità possa sindacare il giudizio di sussunzione di un determinato fatto ad una norma c.d. elastica in quanto tale giudizio venga ritenuto di diritto e non di fatto132.

Come è noto, in numerose esperienze giuridiche il sistema delle fonti conosce accanto a regole sufficientemente determinate regole più generali, corrispondenti ora a nozioni elastiche, fluide, flessibili, ora a regole propriamente non giuridiche, in cui il legislatore delega consapevolmente all'interprete il compito di specificarle, svilupparle e integrarle, legittimando scelte e decisioni, che non possono richiamarsi allo schema della fattispecie.

Scelte assiologiche, arbitrati anche di ordine politico tra gli interessi in gioco sono coessenziali a questo tipo di regole, chiamate volta a volta clausole generali, concetti valvola, norme in bianco, ecc.

Occorre, però, preliminarmente soffermarsi sulla nozione stessa di «norma elastica» e su quelle, ad essa strettamente connesse, di «concetto giuridico indeterminato» e di «clausola generale133».

132 Cfr., per tutti, sulla distinzione fra giudizio di fatto e di diritto, F. Mazzarella, «Fatto e diritto» in Cassazione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1974, 82 ss.; Id., Cassazione (dir. proc. civ.), voce dell'Enciclopedia giuridica Treccani, Roma, 1988, V, spec. 12; Nasi, Fatto (giudizio di), voce dell'Enciclopedia del diritto, Milano, 1967, XVI, 967 ss.; Bove, Il sindacato della Corte di cassazione. Contenuto e limiti, Milano, 1993, spec. 25 ss. e 67 ss., ed ivi ulteriori riferimenti; nonché, in una prospettiva comparatistica, i vari scritti contenuti in Le fait et le droit. Etudes de Logique juridique, Bruxelles, 1961; da ultimo, S. Evangelista, La professionalità dei magistrati della Corte suprema di cassazione, in questo fascicolo, parte quinta, spec. par. 6 ss. 133 Tra i più recenti contributi si segnala: Di Maio, Clausole generali e diritto delle obbligazioni, RCDP, 1984, 539-571; Roselli, Il controllo della Cassazione civile sull'uso delle clausole generali, Napoli, 1983, recensito da Gorla e Taruffo, RDC, 1984, 324-333 e dal solo Taruffo, RCDP, 1984, 443-451; Castronovo, L'avventura delle clausole generali, RCDP, 1986, 21; Mengoni, Spunti per una teoria delle clausole generali, RCDP, 1986, 5; Rodotà, Il tempo delle clausole generali, RCDP, 1986, 21; Belvedere, Le clausole generali tra interpretazione e produzione di norma, in Politica del diritto, 1988, 631; Rosselli, Clausola generali: l'uso giudiziario, in Politica del diritto, 1988, 667.

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103

E' chiaro, infatti, come del resto ha già avuto modo di sottolineare la stessa dottrina134 che si è maggiormente soffermata su tale nozione, che la gran parte delle espressioni giuridiche contenute in norme di legge sono dotate di una certa genericità, la quale necessita, inevitabilmente, di un'opera di specificazione da parte del giudice che è chiamato a darvi applicazione, ma la qualifica di norma elastica non viene riferita ad «ogni disposizione contenente un'espressione di significato non preciso o comunque tale da non poter essere interpretata con un semplice procedimento logico di sussunzione» o «mediante il ricorso alle scienze naturali o a metodi descrittivi», quanto piuttosto esclusivamente a quelle norme «con cui il legislatore delega al giudice una scelta assiologica», richiamando il loro «contenuto elastico . . . giudizi di valore in sede applicativa»135 .

Si tratta, del resto, chiaramente, di nozione valida solo in via di principio e dai confini grigi, la cui portata viene a dipendere, a sua volta, da nozioni parimenti caratterizzate, quali quella di «concetto giuridico indeterminato» e di «clausola generale»136.

Ma, comunque, fra le ipotesi che la dottrina pacificamente riconduce a tale nozione vi è proprio quella di giusta causa di licenziamento.

Come e' noto, l’orientamento prevalente della Corte di Cassazione137 nella funzione integrativa di comportamenti a contenuto atipico del rapporto obbligatorio

- in relazione alle concrete circostanze in cui esso si svolge - individua l'essenza degli obblighi di correttezza e buona fede in questione (S.U.6130-93). I quali, tuttavia proprio per la predetta funzione integrativa del contenuto tipico del rapporto di lavoro, “……….. non possono debordare dal complesso di regole in cui si sostanzia la civilta' del lavoro -

quale assieme dei principi giuridici - espressi dalla giurisdizione di legittimita' - e dei

comportamenti che in un certo contesto storico-sociale e' ragionevole esigere dalle parti

- sicche' essi assumono la consistenza di standards- e che rispetto ai principi stessi sono

in rapporto coessenziale ed integrativo, cosi' compendiando il diritto vivente del

lavoro………”. Il giudizio sulla conformita' dei comportamenti - integrativi ed atipici tenuti dalle parti - alle regole della civilta' del lavoro – e, quindi alla concreta osservanza dell'obbligo di buona fede “………… rientra nella funzione del giudice di legittimita' -

come ritiene un'accreditata dottrina - proprio per la valenza intrinsecamente giuridica

che i comportamenti stessi assumono: sicche' <<il giudizio di merito applicativo di

norme elastiche e' soggetto al controllo di legittimita' al pari di ogni altro giudizio

134 Roselli, Il controllo della Cassazione civile sull'uso delle clausole generali, Napoli, 1983, 135 Così Roselli, op. cit., 8 s., il quale, su tali basi, ripartisce, nella sostanza, le norme di legge in tre categorie: 1) «norme di contenuto assolutamente certo» (di numero esiguo); 2) «norme richiedenti all'interprete un contributo di sapere, anche extragiuridico» (di numero assai più ampio); 3) «norme il cui contenuto elastico richiede giudizi di valore in sede applicativa» (qualificate, per l'appunto, norme elastiche). Sottolineando, al contempo, come il controllo sull'applicazione di quest'ultima categoria di norme di legge — da tenersi distinte, sotto tale profilo, da quelle implicanti un giudizio di equità — «si risolva nel problema del controllo sui giudizi di valore» (Roselli, op. cit., 17, 154 s.). 136 Come, del resto, sottolineato dallo stesso autore (Roselli, op. cit., 11) che, nel delineare tale nozione, riconosce espressamente come la stessa «non possa essere fondata su basi rigorose» pur rimanendo «utile quante volte il rinvio della norma a giudizi di valore risulti di prima evidenza». Ma v., anche, G. Fabbrini, Potere del giudice (dir. proc. civ.), voce dell'Enciclopedia del diritto, Milano, 1985, XXXIV, 741 s., il quale, dopo aver contestato l'inutilità della nozione di «norma elastica», ne ravvisa il «quid peculiare . . ., che la distingue dalla norma rigida non per gradazioni ma per qualità, . . . nella voluta . . . indeterminatezza dei fatti riconducibili alla previsione normativa, con la conseguenza che eccezionalmente . . . l'atto giudiziale di sussunzione comporta una opzione e non semplicemente una ricognizione». 137 Sentenza della Cassazione Civile n° 10514 del 22/10/98 Sez.LL

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fondato su qualsiasi norma di legge>>. E' quindi sindacabile in sede di legittimita' la

valutazione del giudice di merito - in ordine all'esistenza della correttezza e della buona

fede - o della gravita' dell'inadempimento del lavoratore - in relazione alla conformita'

della stessa alle predette regole di civilta' del lavoro……………”. Quindi, è sindacabile in sede di legittimita' il giudizio di valore dato dal giudice

di merito su un determinato fatto che viene enunciato nell'ambito di una norma c.d. elastica138: tale caratteristica hanno sia l'art. 2119 cc laddove prevede il licenziamento in tronco qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto, sia l'art. 3 della l. n. 604 del 1966 che prevede che il licenziamento per giustificato motivo con preavviso e' determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro.

La Corte di Cassazione ha ritenuto che tale giudizio di valore sia innanzi ad essa sindacabile e che è possibile che “…………… il giudice di merito violi le regole della

civilta' del lavoro comportando, di conseguenza, una falsa applicazione di legge. Il

giudizio di valore su un comportamento………… comporta la sua sussunzione sotto una

determinata norma elastica che ha solo indicato, per tale sua struttura, un parametro

generale (art. 2119 cc ed art. 3 l. 604-66). Infatti, nell'esprimere tale giudizio il giudice

di merito compie un'attivita' di integrazione giuridica - e non meramente fattuale - della

norma stessa (come e' stato rilevato dai piu' classici contributi dottrinari sulla funzione

della Cassazione) in quanto da' concretezza a quella parte mobile (elastica) della stessa

che il legislatore ha voluto tale per adeguarla ad un determinato contesto storico

sociale, non diversamente da quando un determinato comportamento viene giudicato

conforme o meno a buona fede allorche' la legge richieda tale elemento (Cass. 10514-

98). Il giudizio valutativo - e quindi di integrazione giuridica - del giudice di merito -

deve pero' conformarsi oltre che ai principi dell'ordinamento, individuati dal giudice di

legittimita', anche ad una serie di standards valutativi esistenti nella realta' sociale che

assieme ai predetti principi compongono il diritto vivente, ed in materia di rapporti di

lavoro la c.d. civilta' del lavoro (10514-98). La valutazione di conformita' - agli

standards di tollerabilita' dei comportamenti lesivi posti in essere dal lavoratore - dei

giudizi di valore espressi dal giudice di merito per la funzione integrativa che essi hanno

delle regole giuridiche spetta al giudice di legittimita' nell'ambito della funzione

nomofilattica che l'ordinamento ad esso affida. Un approfondito contributo dottrinario

su tale tematica rileva come "il giudizio di merito applicativo di norme elastiche sia

soggetto al controllo di legittimita' al pari di ogni altro giudizio fondato su qualsiasi

norma di legge". Lo stesso giudice di legittimita', cui spetta quindi il giudizio sulle

opzioni di valori dei giudici di merito, e', d'altra parte, anche giudice della logicita' delle

decisioni dello stesso (art. 365 n. 5 cpc) in quanto anche essa ancorata a standards che

possono definirsi sociali: per essere la stessa societa' il punto di riferimento parametrico

del processo logico. …..”. È possibile nel nostro ordinamento giuridico realizzare il diritto d’azione

attraverso dei sostituti della giurisdizione. Ciò trova la ratio in quel tradizionale atteggiamento di diffidenza verso ogni

minaccia al monopolio giurisdizionale dello Stato (retaggio di una concezione del diritto poco incline a riconoscere la rilevanza giuridica che, ormai innegabilmente, gli interessi collettivi hanno assunto nell'ambito del nostro ordinamento) che -- grazie anche alla 138 Sentenza della Cassazione Civile n° 434 del 18/01/99 Sez.LL

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minore permeabilità con la realtà sociale del diritto processuale -- si è insinuata nell'ambito di un intervento legislativo fortemente innovatore. Pertanto è possibile risolvere le controversie affidandone la decisione a giudici privati: ciò come manifestazione insopprimibile dell’autonomia negoziale. L’aspetto particolare della decisione privata è che lo Stato le attribuisce il carattere giurisdizionale (cioè di sentenza).

Ciò vale solamente per l’arbitrato formale o rituale, regolato dal codice di procedura civile.

Tuttavia la prassi conosce un arbitrato irrituale, che sia ha quando le parti, pur rimettendo la decisione ad altri arbitri privati, lo fanno senza osservare le forme rigorose previste dalla legge, sicché la decisione troverà la sua forza vincolante solo nel consenso delle parti stesse, come per qualunque altro negozio, e non in un riconoscimento formale dell’organo giurisdizionale.

In definitiva con il primo le parti tendono attraverso il giudizio privato, ad ottenere un atto destinato ad acquistare autorità di sentenza; con il secondo, invece, tendono a formare un atto avente la natura e l’efficacia di un contratto.

Se l’accordo fra le parti in sede di conclusione del contratto deferisce ad uno o più terzi, per la determinazione (in misura più o meno ampia) della prestazione oggetto del contratto o/e l’integrazione di un elemento contrattuale si ha il c.d. arbitraggio

139. Il conseguente dictum del terzo, non è una manifestazione di volontà che

concorra con quella dei contraenti, bensì un atto intellettivo che s’introduce nel contratto per relationem, che rimane l’unica fonte dell’efficacia negoziale.

Il giudizio del terzo (c.d. arbitratore) consiste in un equo apprezzamento o/e in un mero arbitrio, ove espressamente previsto.

Quindi, a differenza dell’arbitrato, l’arbitraggio non ha struttura processuale140, cioè un iter di formazione del dictum tipico, infatti è possibile che i contraenti, nel riferirsi al terzo, dispongano che il suo dictum sia emesso previo contraddittorio come per esempio in caso di rinegoziazione del contratto.

Il compito del terzo è quello di esprimere una valutazione logico-conoscitiva e cioè un giudizio in ordine all’interpretazione di una fattispecie già completata e formatasi e sulla quale la situazione litigiosa è insorta (logicamente e cronologicamente) in un momento successivo alla disposizione degli interessi su cui si contrasta.

Quanto sopra detto sull’arbitraggio va ripetuto per la c.d. perizia contrattuale,

dove i paciscenti deferiscono la determinazione di un elemento ad un terzo, scelto per la sua competenza tecnica. Il dictum del terzo prenderà il nome di perizia. Anche qui come nell’arbitraggio non è detto che vi sia controversia tra le parti. La conciliazione stragiudiziale non ha nulla a che vedere con l’arbitrato.

139 Il codice civile vigente contiene una disposizione generale di favore per l’arbitraggio, ricavabile dall’art. 1349, contenuto nella sezione dedicata all’oggetto del contratto, nella parte in cui è disposto che “se la determinazione della prestazione dedotta in contratto è deferita ad un terzo e non risulta che le parti volessero rimettersi al suo mero arbitrio, il terzo deve procedere con equo apprezzamento”. 140 “Da un compromesso nasce un rapporto, cioè l’antitesi di quello che nasce, o si pretende nasca dai cosiddetti

contratti o negozi processuali; e nasce un rapporto fra le parti, cioè l’antitesi di quello che vediamo avvenire nel

processo.”SATTA, Contributo alla dottrina dell’arbitrato, Milano, 1969, pag.73

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In essa il terzo che, scelto dalle parti, si adopera per conciliarle svolge funzioni diverse da quella dell’arbitro, non essendo investito di alcun potere d’imporre un certo assetto sostanziale. Infatti l’assetto sostanziale è stabilito dalle parti nell’accordo di conciliazione. Similmente all’arbitrato la conciliazione stragiudiziale sul piano privatistico presenta un concentrato iter a struttura dialettica. Infine diverso dall’arbitrato è l’Ombudsman o difensore civico. In tale sistema mancano due fondamentali connottati che caratterizzano l’arbitrato: quello del contraddittorio in quanto ai fini del suo dictum è prevista soltanto la facoltà del difensore civico di chiedere dati e notizie, e quello della decisione vincolante per ambo le parti. In effetti è un mezzo alternativo di risoluzione della controversia che è assimilabile tanto alla conciliazione, quanto all’arbitrato (c.d. med-arb).

Diversamente, se l’accordo invece conferisce al terzo o ai terzi il potere di decidere la controversia in via di composizione amichevole o transattiva, rispettando il contraddittorio, si ha il c.d. arbitrato irrituale o libero.

L’arbitrato irrituale, perciò, consiste nel conferimento all’arbitro, mediante compromesso, del potere d’incidere direttamente, con la propria volizione, nel patrimonio delle parti e si conclude con la tale volizione: il lodo.

Qui, il giudizio del terzo non deve essere manifestamente iniquo, ma arbitrario e non ha efficacia di sentenza.

L’arbitrato rituale è invece un vero e proprio processo di cognizione privato che trova origine in un incarico conferito ad uno o più arbitri di decidere una controversia su impulso delle parti di un contratto.

In quest’ultima ipotesi, il giudizio degli arbitri (c.d. lodo arbitrale) consiste in un accertamento che ha la stessa efficacia di quello giudiziale che è reso, secondo equità e diritto.

Nell’arbitrato quindi, il collegio è chiamato a interpretare una norma esistente mentre, nell’arbitraggio, a crearne una nuova.

L'arbitrato per le controversie individuali offre spunti problematici più interessanti, anche se appare come un istituto dotato di grandi potenzialità che la disciplina legislativa è però sempre riuscita ad ingabbiare saldamente con una rigida serie di limitazioni.

Nell’ambito del lavoro dipendente, le tecniche dell’arbitrato in sede sindacale vanno considerate non solo come uno strumento che riduca il carico giudiziario, ma come istituti di completamento dell’ordinamento intersindacale.

Ciò significa che l’arbitrato di diritto del lavoro deve essere inteso come un meccanismo che ha come fine una rapida composizione, secondo giustizia sostanziale, delle contrastanti posizioni del lavoratore dipendente e del datore di lavoro nell’interesse della utilità sociale.

Svariate norme costituzionali, infatti, appaiono espressione del principio della doverosa tutela delle posizioni economiche più deboli, ed è perciò da ritenere che ogni legge intesa a realizzare questa soddisfi un interesse che la stessa Corte Costituzionale considera attinente all’ordinata vita della collettività e, quindi, di utilità sociale

141.

141 Il limite dell’utilità sociale è stato elaborato nella teoria della “funzionalizzazione dell’attività economica privata”, che porta a ritenere che l’attività economica privata non costituisca esercizio di una libertà, bensì svolgimento di una

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Ecco che l’esigenza del conseguimento di tali fini, come giustifica la imposizione di condizioni restrittive per lo svolgimento dell’autonomia contrattuale, così può consentire la modifica o l’eliminazione di clausole di contratti in corso, quando esse si rivelino contrastanti con l’utilità sociale.

La radice sistematica di tale strumento si distacca dalle ipotesi giurisdizionalistiche ex artt. 806 ss. cod. proc. civ., come pure dalle espressioni negoziali contenute nell’articolo 1349 cod. civ.

Quanto sopra detto consente di affermare che tale ipotesi realizzerebbe un depotenziamento della carica del principio di inderogabilità delle norme dello Stato in materia di diritto del lavoro e/o della indisponibilità dei diritti distinguendo e definendo

una inderogabilità assoluta e di ordine pubblico ed una inderogabilità unilaterale e

relativa, rendendo in tale materia il principio dell’autonomia privata più flessibile. Il che significa realizzare l’anello tetralogico della giustizia privata:

Fig.1 – L’anello tetralogico della giustizia privata

Si tratta di vedere se possa attuarsi una ridefinizione delle forme tradizionali di

protezione e soprattutto degli strumenti per renderle più effettive, perché è proprio l'effettività che viene erosa in questi ambiti.

La disciplina protettiva minima potrebbe essere ripensata per concentrarla laddove è praticabile e giustificata; tenendo conto che larghi strati di lavoratori sono sostenuti da un tessuto socio-economico ricco e spesso in grado di tutelarsi da soli ben più che agli albori dell'industrialismo.

Dunque, il diritto del lavoro non è più strumento di garanzia di diritti fondamentali tradizionali, ma anche dei nuovi diritti che stanno a metà tra il sociale e il privato (i cd droits de tirage sociaux).

A questi vanno aggiunti i nuovi diritti legati a dimensioni esistenziali. quali il diritto ad essere flessibili, il diritto alla privacy, alla differenza, a nuove identità; e tutto ciò ha pure a che vedere con una nuova funzione, di esaltazione dell'autonomia individuale, affidata allo stesso contratto individuale di lavoro.

Una nuova identità assume anche il diritto del lavoro come strumento di giustizia distributiva dell'uguaglianza il quale deve essere inteso, non come mera divisione della

“funzione sociale” che si realizza in una attività discrezionale immediatamente sottoponibile al sindacato del giudice ordinario, perché utilità sociale è espressione dotata di efficacia precettiva sul piano costituzionale

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ricchezza prodotta nei luoghi della produzione, ma come redistribuzione delle opportunità individuali e come lotta all'esclusione sociale.

3.3 - Il ruolo del sindacato.

L’art. 39 primo comma della Costituzione, secondo cui l’organizzazione sindacale è libera, costituisce il fulcro normativo della autonomia collettiva.

Tale principio racchiude “il riconoscimento apportato dal diritto dello Stato ad

organismi e ad un originario ordinamento di tutela degli interessi dei lavoratori” del

quale esso “ammette l’esistenza e garantisce l’azione, rinunciando all’obiettivo di

disciplinare autoritativamente conflitti e rapporti in tale sfera della vita sociale”142. Ciò determina che tale principio non può trovare una regolamentazione diretta da

parte dei soggetti, ma debba esprimersi nella disciplina delle attività sindacali. Quindi, vi è la necessità di apprestare un complesso di garanzie necessarie e

minime, affinché ciò si realizzi. Ecco che il contratto collettivo assume una funzione atta a realizzare tale

principio solamente attraverso una disciplina di inderogabilità non vulnerabile dalla volontà delle parti.

Da qui, la necessità di affermare la prevalenza dell’interesse collettivo sull’interesse individuale precludendo all’autonomia individuale dei singoli lavoratori e datori di lavoro di apportare modificazioni peggiorative alla disciplina collettiva143.

Quindi il contratto collettivo è atto che assume per l’ordinamento statuale efficacia regolativa dei rapporti di lavoro, analoga all’efficacia delle norme di legge.

Ciò non significa che lo Stato abbia abdicato a favore delle associazioni sindacali una riserva di competenza normativa per esempio in materia di arbitrato, infatti nel produrre le norme contenute nel d.lgs. n.80/98 e nel d.lgs. n.387/98 ha riaffermato la propria responsabilità indicando le condizioni minime che i contratti o accordi collettivi nazionali di lavoro devono contenere.

Certamente le nuove disposizioni legislative esprimono una connotazione comune, pur nella diversità strutturale: la contrattazione sindacale quale tramite necessario per i regimi vincolistici posti dalla legge.

Pertanto è deducibile da quanto sopra detto che occorre leggere le norme in questione come strumenti di sostegno indiretto alla contrattazione ed alla stessa azione sindacale, cui viene offerta la possibilità di intervenire nella fase patologica del rapporto per contribuire alla soluzione del conflitto di interessi in atto tra datore di lavoro e lavoratore.

Le summenzionate disposizioni di legge consentono di cogliere un diverso profilo che dà ragione a chi ritiene che il legislatore abbia creato degli strumenti di tutela certamente incongrui alle consuete modalità di intervento protettivo a favore del singolo lavoratore considerato alla stregua di contraente più debole e, dunque, destinati a porre

142 SCOGNAMIGLIO, Il lavoro nella Costituzione Italiana, Milano, 1978, pag.112 143 DELL’OLIO, L’organizzazione e l’azione sindacale pag.114. Si tratta di interessi che, “per quanto più o meno direttamente traducibili in profilidella condizione del soggetto...... sfuggono ad una gestione meramente individuale per così dire atomistica..... né sono agevolmente suscettibili di realizzazione mediante posizioni soggettive interne” al rapporto di lavoro.

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altrettanti limiti invalicabili all’autonomia delle parti individuali del rapporto di lavoro, anche se la soluzione del conflitto coinvolge interessi collettivi dei lavoratori.

Infine occorre far rilevare come il legislatore, per la prima volta ha svolto un’opera razionalizzatrice similmente a quanto ha fatto la giurisprudenza, precostituendo il dettato normativo un termine di riferimento rigido per la contrattazione collettiva.

Non bisogna dimenticare che il contratto collettivo non è soltanto un metodo per stabilire norme generali ed astratte, ordinate alla disciplina dei rapporti individuali di lavoro, ma è anche un metodo per regolare l’uso del potere sociale dei gruppi organizzati, perciò l’intervento giudiziale non può non essere subordinato alla fonte dell’autonomia collettiva.

Certamente nella novella del ’98 è riscontrabile un criterio di flessibilità reciproca tra fonti legali e contrattuali tale da realizzare una relazione di fungibilità e di concorrenza delle due fonti su tali istituti.

Infatti il legislatore tende ormai a obliterale l’art.39 della Cost, riconoscendo ai contratti collettivi una funzione di fonte di produzione normativa extraordine.

Queste certezze sono state divelte non solo dalla globalizzazione, ma dal riconoscimento del carattere sovraordinato della normativa comunitaria rispetto a quella nazionale.

Le regole comunitarie prevarrebbero su quelle interne contrastanti, ma innanzitutto, sempre che nelle seconde non sia lecita un’interpretazione conformatrice e adeguatrice rispetto allo spirito e al testo delle prime; e comunque non tramite abrogazioni o caducazioni bensì semplici disapplicazioni da parte del giudice di merito che dichiari inapplicabili le norme interne per palese contrasto con le regole poste, nell’ambito della propria sfera di competenza, dall’Unione europea.

La giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee non ha del resto mai avuto esitazioni nell’individuare nello Stato l’unico soggetto responsabile dell’adempimento degli obblighi comunitari, al punto da negare che esso possa invocare, al fine di giustificare eventuali inosservanze di tali obblighi, le garanzie previste dal proprio ordinamento per le autonomie regionali.

Ma ancor di più, riteniamo che le modifiche apportate dal legislatore costituzionale all’art.117 Cost. incidono sull’attività negoziale collettiva tradizionale.

Infatti il senso prevalente dell’art.117 Cost. è quello per cui le Regioni sono diventate titolari delle funzioni già loro trasferite in via amministrativa in tema di mercato del lavoro con particolare riferimento alle politiche attive, almeno in concorrenza con interventi di legislazione ordinaria.

Occorre in primo luogo ricordare che lo Stato ha legislazione esclusiva in materia di rapporti dello Stato con l’Unione Europea (art.117, 2° comma, lett a), Cost).

Ancora l’art.117, 2° comma, lett. M) assegna allo Stato la determinazione dei livelli essenziali elle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, Tale concetto è poi ripreso dall’art.120, 2° comma della Cost.

Non bisogna dimenticare che il nuovo Titolo V della Cost. in sostanza inverte il precedente sistema di distribuzione delle competenze, tant’è che l’art.117, 4° comma, dispone che spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non

espressamente riservata alla legislazione dello Stato, ed assegna quella concorrente in

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materia di tutela e sicurezza del lavoro, professioni, previdenza complementare ed

integrativa, però nei limiti dei principi fondamentali (art.117 , 3° comma Cost.). Poco importa ricondurre alla formula “ordinamento civile” di cui al già ricordato

art.117, 2° comma, l’esclusività della potestà legislativa dello Stato in materia di rapporti di lavoro ed i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, perché devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, se viene riconosciuta alla legislazione concorrente regionale uno spazio non semplicemente attuativo di quello nazionale, anche a carattere integrativo e sostitutivo e se i poteri sostitutivi dello Stato devono essere esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione (art.120, 2° comma, ultimo inciso).

Infatti, la verticalizzazione delle fonti determina sicuramente una rivisitazione di numerosi istituti che compongono attualmente la legislazione nazionale in materia di mercati e rapporti di lavoro e l’impossibilità da parte del legislatore nazionale di delegare la contrattazione collettiva per l’attività di integrazione, perché oggi compete alle Regioni.

Tutto ciò determina un decentramento anche della contrattazione collettiva a livello locale (regionale) ed assisteremo alla nascita dei contratti collettivi regionali.

In definitiva lo Stato ha competenza esclusiva nelle materie riconducibili al concetto di ordinamento civile, nel quale occorre ricomprendere la normativa disciplinatrice della fattispecie giuridica costituita dal lavoro subordinato e quindi, la parte dell’ordinamento giuslavoristico che governa il rapporto individuale di lavoro.

Le regioni hanno potestà legislativa concorrente in materia di tutela e sicurezza del

lavoro, intesa come protezione dei lavoratori dipendenti nel mercato, e deve essere esercitata nell’ambito di principi fondamentali che la legislazione dello Stato ha il compito di definire.

L’obbligo traspositivo delle direttive comunitarie incombe allo Stato che ne resta vincolato anche nelle materie di competenza esclusiva e concorrente delle regioni, potendovi, provvedere anche ricorrendo allo strumento della legge delega.

Il sindacato che è un attore centrale dell'economia del lavoro perché nasce come il mediatore della risposta del movimento operaio alla sfida del capitalismo e, più precisamente, del mercato del lavoro, nuova istituzione che nasce con la rivoluzione industriale, avranno grosse difficoltà a modificare la distribuzione: 1) del reddito; 2)

della ricchezza; 3) del potere nell'economia e nella società.

Quindi non più un sindacato tipicamente organizzato su base nazionale e con una contrattazione collettiva ha generalmente luogo a livello nazionale e/o settoriale, ma sicuramente più riformista con lo scopo di mantenere o migliorare le condizioni di lavoro, mentre il fine della contrattazione collettiva sarà quello di contrastare e correggere le diversità nelle condizioni iniziali del potere contrattuale delle due parti: lavoratori isolati, da un lato, e oligopoli industriali, dall'altro.

In questo senso il sindacato riformista è ideologicamente cooptato dal capitalismo. Questo sindacato interpreterà il proprio ruolo in una interdipendenza non più con il

partito, ma con le esigenze della società locale. Quindi, un sindacato che non è necessariamente consensuale con la politica del

governo. Il grado di centralizzazione della contrattazione collettiva è, di conseguenza, basso.

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Quindi assisteremo ad un sindacato "del pane e del burro", della "coscienza del posto" piuttosto della coscienza di classe contenuto tipico del sindacalismo vigente.

Il sindacato riformista accetterà la cogestione perché capitale e lavoro rappresentano due facce della stessa medaglia.

Non bisogna dimenticare che il sindacato è un agente contrattuale nel processo di determinazione del costo del lavoro (tasso e struttura salariale).

Il lavoro è un oggetto di scambio, il suo prezzo è il saggio di salario. I sindacati, quindi, non saranno più considerati come un fatto "istituzionale. Quindi è opportuno ricordare come in presenza di un elevato grado di

centralizzazione del sistema di relazioni industriali, una politica neokeynesiana rappresenta lo strumento ottimale per evitare, o per ridurre, le aspettative inflazionistiche con costi minori in termini di disoccupazione.

Se, invece, il sistema di relazioni industriali è decentrato, le aspettative inflazionistiche possono essere ridotte solo attraverso una politica monetarista.

Ma questo implica costi assai più elevati in termini di disoccupazione e di prodotto perduto.

Un sistema di relazioni industriali centralizzato è un sistema in cui le principali organizzazioni sindacali e imprenditoriali sono disposte ad accettare, ed abbastanza forti da attuare, una regolazione attenta della politica economica, attraverso la variabile del salario monetario, per ogni dato obiettivo, per così dire, predeterminato, o programmato, di crescita dei prezzi.

Ognuno dei protagonisti (sindacati, imprenditori e governo) riconosce ed autonomamente rispetta (di qui il termine di neocooptazione) il ruolo giocato dagli altri due attori del sistema.

Essi possono così regolare il salario reale e monetario alla luce di obiettivi condivisi dagli altri principali partners sociali, anche in vista di riforme economiche e/o istituzionali.

Il salario monetario può, ma non deve, divenire l'unità di misura di uno scambio che è trasferito dal mercato alla c.d. arena politica.

Ciò che è necessario, oltre al consenso ideologico e politico, è il coinvolgimento, almeno informale anche se non istituzionale, dei sindacati all'interno della macchina economica e politica del governo.

È quello che viene definito dagli economisti il fine tuning (accurata sintonizzazione), cioè l'orientamento interventista della politica economica, secondo il quale l'autorità di governo può e deve calibrare i propri interventi sulla domanda complessiva per una regolazione precisa del livello dell'attività produttiva e dell'occupazione.

Sotto il profilo culturale, l'idea di fine tuning si contrappone alla convinzione opposta di non poter modificare le tendenze "naturali" del sistema o di provocare inevitabilmente con le politiche di intervento disturbi imprevedibili al sistema.

Quest'ultima visione induce a preferire l'applicazione di semplici "regole" in modo tale da evitare, se non altro, pressioni inflazionistiche, instabilità delle aspettative e, in ultima analisi, impulsi ciclici.

La realizzazione del fine tuning dell'economia suppone evidentemente la conoscenza precisa del sistema economico e dei suoi tempi di reazione.

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È tuttavia difficile immaginare che lo sviluppo della teoria della politica economica possa stabilmente rinunciare all'aspirazione a prevedere sempre meglio, e conseguentemente controllare, le reazioni del sistema alle misure d'intervento.

Un sistema di relazioni industriali centralizzato è un sistema dove i rinnovi dei contratti salariali (e più in generale i rinnovi dei contratti che determinano il costo del lavoro) hanno luogo prevalentemente a livello nazionale e/o industriale o regionale, piuttosto che a livello di azienda.

Inoltre esso è un sistema dove la relazione gerarchica trai i sindacati consente una struttura organizzativa (confederazione) centralizzata.

E dove pochi rinnovi contrattuali influenzano direttamente (attraverso il c.d. diritto di coalizione negativa, ossia la clausola erga omnes) o indirettamente (tramite il pattern

bargaining) un'alta percentuale della forza lavoro. Infine, esso è un sistema dove i rinnovi contrattuali tendono a svolgersi

contemporaneamente e a intervalli molto ravvicinati Infatti i contratti di più lunga durata (diciamo due o tre anni) consentono di

ammortizzare meglio i costi della contrattazione e degli scioperi, mentre i contratti di più breve durata permettono agli attori di aggiustarsi più rapidamente ad eventi reali e monetari inattesi.

D'altra parte, in sistema conflittuale, l'accorciamento della durata del contratto può creare maggiori occasioni di controversia e di conflitto e, pertanto, divenire un fattore che aumenta il decentramento del sistema delle relazioni industriali.

Quindi intervalli contrattuali sincronici, sta invece a significare che i contratti nei diversi settori si svolgono contemporaneamente o quasi, favorendo così il temporaneo rispetto delle relatività salariali tra un settore, o un sindacato, e l'altro.

Uno schema di contrattazione diverso, basato su contratti non sincronizzati, potrebbe tendere a beneficiare alcuni gruppi di lavoratori a svantaggio di altri, creando condizioni per una rincorsa salariale.

Secondo Tarantelli, questo può essere visto come un'applicazione del ben noto problema del free-riding, cioè del beneficio gratuito di un bene (pubblico) e di chi dovrebbe assumersi l'onere del costo dei beni pubblici e così considerando la stabilità dei prezzi e dei salari monetari come bene pubblico.

Un sindacato che persegue il free-riding ha un residuo ideologico molto alto, in generale diretto a scambiare i macro-beni (sussidi pubblici di disoccupazione, i fondi pensionistici, i corsi di aggiornamento, l'assicurazione malattie per i lavoratori, e, più in generale, tutto l'insieme di interventi in mano al governo nel campo della distribuzione del reddito, del salario sociale, della politica del lavoro e della legislazione sociale).

Quindi è un sindacato conflittuale che cerca di tentare di guadagnare il sostegno della base incoraggiando un comportamento, che ha come obbiettivo finale non più l'aumento dei salari in quanto tale ma la destabilizzazione del sistema.

Infine, l'esistenza di un numero ristretto di contratti chiave, cioè di contratti che ne influenzano molti altri, rafforza il grado di centralizzazione di un sistema di relazioni industriali.

Questo è il significato del termine pattern bargaining utilizzato in precedenza. In conclusione, si può dire che questa seconda dimensione della centralizzazione

definisce la struttura, o la forma istituzionale, di un sistema di contrattazione collettiva.

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Un sistema centralizzato di relazioni industriali è, infine, un sistema dove i procedimenti con cui si dirimono le dispute di lavoro rendono credibile un contratto una volta che esso sia stato firmato.

Ciò deve valere per le dispute di diritto (concernenti l'applicazione delle regole di un contratto già firmato) che per le dispute d'interesse (in occasione di un rinnovo contrattuale).

Gli Stati Uniti e il Canada sono esempi di relazioni industriali dove la terza condizione è soddisfatta, ma non lo sono nè la prima nè la seconda.

Negli Stati Uniti, per esempio, vi sono circa 194.000 diversi contratti di lavoro, in vigore ad ogni istante di tempo.

I contratti durano, in media, tre anni. I rinnovi contrattuali sono sincronizzati. Il sistema mostra una struttura molto complessa e largamente instabile di pattern

bargaining. La confederazione principale, l'American Federation of Labor - Congress of

Industrial Organizations, non contratta per i sindacati affiliati, tanto da non aver mai firmato un contratto.

I Paesi anglosassoni, hanno avallato una concezione fortemente monopolistica delle rappresentanze sindacali, con l'applicazione del principio della rappresentanza esclusiva (USA) e con il disconoscimento sostanziale della cosiddetta libertà sindacale negativa, vale a dire della libertà dei lavoratori di non aderire o di recedere dal sindacato (negata dalle pratiche diffuse in quei paesi di sicurezza sindacale).

Tale peculiarità distingue il nostro sistema che è fondato sul riconoscimento della libertà sindacale negativa.

Nel nostro ordinamento, tale difesa è assunta dal legislatore dello; mentre nei paesi anglosassoni essa è affidata alla stessa azione contrattuale dalle organizzazioni sindacali, nelle aree beninteso dove la loro rappresentatività è sufficientemente forte da imporsi al datore di lavoro.

L'Austria, la Svezia, La Norvegia e la Danimarca sono, al contrario, sistemi di relazioni industriali centralizzati dove tutte e tre le condizioni precedenti sono soddisfatte, sebbene in misura diversa.

Lo stesso è vero per la Germania e per il Giappone. In quest'ultimo paese la contrattazione avviene a livello di fabbrica o di azienda.

Ma essa viene informalmente coordinata centralmente ogni anno, durante la cosiddetta offensiva di primavera, dalle tre principali organizzazioni sindacali.

Inoltre, nel sistema contrattuale giapponese vi è un alto grado di pattern

bargaining. Sistemi decentrati di relazioni industriali, sono costituiti dall'Australia, Nuova

Zelanda, Inghilterra. Qui la centralizzazione è assente in tutte le tre dimensioni sopra ricordate. Poi abbiamo la Francia e l'Italia, dove questa è vero sia per la prima che per la

terza dimensione. Il sistema italiano è il miglio esempio di un sistema di reazioni industriale

decomposto. Secondo Tarantelli la definizione offerta del grado di centralizzazione di un

sistema di relazioni industriali equivale ad una definizione del grado di "neocorporativismo".

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Il neocorporativismo ha molti precursori storici che risalgono fino all'economia medievale.

Nel medio evo gli interessi in conflitto tra maestri e lavoratori nella varie professioni erano organizzati in corporazioni di mestiere. Il termine corporativismo, durante il regime di Mussolini, descriveva invece le politiche del regime fascista. da allora si è teso a collegare il corporativismo con un regime autoritario.

Questo termine è così divenuto il peggiorativo di un concetto analitico. L'attuale ripresa della discussione sul corporativismo ha comportato varie definizioni e approcci diversi.

Di questi, quello proposto da Winkler attribuisce al governo la "mano forte", allo scopo di controllare il sistema economico con politiche dei redditi attuate per decreto o per statuto: "Il corporativismo è..... visto come la cooptazione dei vari gruppi di interesse

all'interno del processo decisionale del governo e la istituzionalizzazione del loro ruolo.

Il principio corporatista è che gli obbiettivi economici sono raggiunti meglio tramite uno

sforzo cooperativo piuttosto che attraverso processi competitivi. Questo principio deriva

dalla più ampia teoria corporatista della società. La società viene vista come consistente

in diversi elementi unificati in un unico Organismo, che forma un corpus, da cui la

parola corporativismo. Questi elementi sono uniti poichè sono reciprocamente

interdipendenti, ognuno si propone dei compiti che sono richiesti anche dagli altri; la

sopravvivenza indipendente è impossibile.Pertanto, la società è caratterizzata non dal

conflitto di interessi multipli, ma da un condiviso interesse verso l'esistenza collettiva

...... Il meccanismo teorico tramite il quale di raggiunge l'unità non è la contrattazione

pluralistica o il compromesso, ma la cooperazione organizzata dallo Stato..... Le

economie di mercato sono considerate come intrinsecamente anarchiche ......." (Winkler,

Corporatism, "European Juornal of Sociology, 1976, p.101 e ss.). Si è riportato il pensiero di Winkler sul punto allo scopo di sottolineare la

centralizzazione di un sistema di relazioni industriali con un termine che indichi con chiarezza la misura in cui un sistema di relazioni è centralizzato.

È praticamente impossibile per qualsiasi gruppo di lavoro o sindacato prevedere con sicurezza i risultati finali sui salari, sui prezzi e sul tasso di profitto di una politica dei redditi o di una tregua salariale.

Perciò Tarantelli propone di utilizzare il modello di Heiner. Questo modello è del tutto generale, nel senso che può essere applicato a

qualunque situazione in cui vi è necessità di spiegare il comportamento umano in condizioni di incertezza: nel nostro caso se accettare o meno una politica dei redditi, ovvero una tregua o un taglio salariale.

L'equazione che sta alla base del modello di Heiner consente di individuare in termini di probabilità condizionata, il momento in cui la politica dei redditi si riveli effettivamente vantaggiosa per il gruppo in questione.

In definitiva l'equazione sopra detta è data da un rapporto di affidabilità (indica il rapporto tra una scelta con risultati vantaggiosi o svantaggiosi) maggiore o uguale al limite di tolleranza.

Il rapporto di affidabilità deve almeno eguagliare questo limite, affinché un lavoratore o un sindacato, possa trarre beneficio da una politica dei redditi.

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Questa equazione consente di affermare che un alto grado di neocorporatismo, riducendo le aspettative inflazionistiche, consente dunque di ridurre il tasso di inflazione senza incorrere in maggiori costi in termini di disoccupazione.

Inoltre, esso, rende più elevata la probabilità che i lavoratori, una volta accettato un taglio dei salari, non vengano poi scottati da un alto tasso di inflazione, e di conseguenza, da un più basso salario reale.

In base a quanto detto, si può concludere che, in un sistema caratterizzato da un basso grado di neocorporatismo, qualunque tentativo di ridurre il tasso d'inflazione, tramite l'impiego di politiche di restrizione dell'offerta di moneta, si scontrerà con un elevato grado di avversione al rischio dei lavoratori contro i tagli salariali.

Ne consegue che l'annuncio di una politica dei redditi, in un sistema con un basso grado di neocorporativismo è meno credibile.

Bisogna far rilevare anche che all'aumentare del tasso di disoccupazione, i lavoratori hanno bisogno di dosi progressivamente minori di affidabilità per accettare una politica dei redditi.

Riassumendo, possiamo affermare che nel modello proposto da Tarantelli l'incertezza è minimizzata quanto maggiore è il grado di neocorporatismo, perciò maggiore è l'affidabilità e la credibilità dell'annuncio di una politica dei redditi, maggiore è il coinvolgimento dei tre attori nella politica dei redditi o nel contratto sociale; maggiore è la credibilità di una politica di tutti i redditi e non solo del salario monetario.

Occorre far rilevare come già detto che esiste una asimmetria tra il sindacato dei lavoratori ed il sindacato degli imprenditori, per un potere di delega che contrasta con l'impossibilità tecnica, in un economia di mercato, di una delega credibile per quanto riguarda la politica dei prezzi.

Nessun sindacato delle imprese, può invece, decidere sui listini dei prezzi delle imprese.

Anzi, non è affatto detto che una modifica della struttura salariale voluta dal sindacato a favore di certi settori o regioni sia gradita agli imprenditori. Alcuni imprenditori per esempio, possono temere che questa ristrutturazione modifichi la struttura settoriale e territoriale dei prezzi (come effetto del cambiamento della struttura dei salari) a sfavore dei settori in cui essi operano.

L'unica alternativa, in presenza di un sistema di relazioni industriali decentrato, è forse una TIP (Tax-based Incomes Policy) sui salari e/o sui prezzi capace di eliminare il free-riding in precedenza discusso.

Non è un caso che le TIP siano nate in sistemi decentrati di relazioni industriali, come l'Inghilterra e gli Stati Uniti. Ma come l'esperienza dimostra, proprio in questi paesi, esse non funzionano per le difficoltà che le istituzioni incontrano per farle applicare.

Dunque il modello neocorporativo offre chiari vantaggi sul piano del rientro delle aspettative inflazionistiche.

Esso permette, inoltre, di evitare spinte da costi salariali e conflitto industriale, con le conseguenze economiche che da queste derivano.

Ma, il consenso necessario al funzionamento del modello neocorporativo è spesso, anche se non sempre, ottenuto attraverso una serie di scambi politici tra governo e parti sociali che possono risultare costosi e/o distorsivi in termini di spesa pubblica, di

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trasferimenti a certi gruppi sociali, di entrate fiscali, di rigidità burocratiche ed istituzionali e così via.

La centralizzazione negoziale della politica del salario e dell'inflazione può dar luogo a gravi distorsioni su variabili quali la struttura salariale, dell'occupazione e della produzione; a troppo elevati costi per la spesa pubblica come effetto di scambi politici che avvengono non in nome dell'ottimalità parietana ma sulla base di accordi politici contingente tra il governo e le altre due parti sociali; a soffocamento dell'autonomia aziendale nelle sfere contrattuali di una specifica competenza; a rigidità e burocratizzazioni di vari tipo e natura.

Certo è che lo scambio politico, qualora necessario per realizzare l'accordo centralizzato tra le parti sociali, può essere indirizzato dal parlamento e quindi condizionare ciascuna variabile del sistema delle relazioni industriali ex ante.

Questo modello italiano di sindacato, sostenuto ma non regolato, si è rivelato alquanto stabile. Infatti il sindacato italiano si è proposto di redistribuire il lavoro, di partecipare al

processo di accumulazione, di diffondere esperienze di partecipazione ai processi produttivi e tecnologici delle imprese, di essere protagonista della politica dei redditi e, attraverso la concertazione, dello “sviluppo dal basso”

In tale azione il sindacato si riallaccia ad una serie di fattori che formano un retaggio

nazionale dal quale risulta difficile affrancarsi, e cioè: - lo sviluppo economico duale, che traccia ancora una linea di demarcazione netta

tra le aree settentrionali e meridionali della penisola; - il persistere di elevati tassi di disoccupazione, soprattutto tra le categorie deboli

del mercato del lavoro (dequalificati, giovani, donne, disoccupati di lunga durata); - la necessità di modernizzare le infrastrutture logistiche e di rendere efficiente

l’erogazione dei servizi amministrativi pubblici; - l’esistenza di un welfare state di stampo universalistico e, allo stesso tempo,

largamente incompiuto (è noto che la rete di sicurezza collettiva italiana è caratterizzata da ampie zone d’ombra nel campo delle politiche familiari, dell’assistenza sociale e della formazione lungo tutto l’arco della vita).

Per il Sindacato, quindi, fare rappresentanza sociale in questo scenario costituisce certamente un nuovo tipo di impegno, perché sono costantemente posti in discussione riferimenti e principi per lungo tempo statici e certi, quali la tendenza ad interloquire soprattutto con le istituzioni nazionali centrali: oggi, invece, la gestione del potere, è sempre più decentrata e organizzata a livello locale ed è proprio questo il livello con il quale il sindacato dovrà confrontarsi frequentemente.

Ciò non significa che il modello non risenta di tensioni. Infatti le teorie del contratto collettivo e della rappresentanza sindacale non possono

essere più ricostruite sul modello idealtipico tratto dalla tradizionale funzione allocativa e di standardizzazione della contrattazione collettiva nazionale144.

Più in generale le tensioni nel modello si accrescono a causa delle pressioni sulla rappresentatività del sindacato, proveniente dai nuovi soggetti lavoratori della società

144 Aris Accornero ci ha dato conto di come i contorni dei lavori e degli interessi vadano slabbrandosi a tal punto che i processi di cambiamento procedono non per sostituzioni di tipi, ma per continua addizione: è cosi, come si sommano i lavori e gli interessi, non è affatto escluso che si moltiplichino conseguentemente le rappresentanze e gli strumenti di tutela collettiva.

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terziarizzata e dalle reazioni delle imprese, che ricercano con questi soggetti accordi diretti, al di fuori del sindacato. Pertanto, si introducono in maniera massiccia tecniche di controllo legislativo sull'autonomia contrattuale, mediante la previsione di norme inderogabili in peius

soprattutto in tema di costo del lavoro; mentre la stessa contrattazione tende a diventare triangolare coinvolgendo il potere pubblico ed avvicinandosi sempre più al modo di produzione normativa. La tipica inderogabilità unilaterale della disciplina protettiva viene parzialmente alterata; si ammettono forme diverse di deroga anche in peius da parte dell'autonomia collettiva rivolte ad attenuare vincoli ritenuti insostenibili all'amministrazione del rapporto di lavoro nell'impresa e nel mercato.

Infatti, dal contratto/rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno ed indeterminato tendenzialmente per tutta la vita, prototipo di riferimento di tutta la disciplina del lavoro, si sono staccate forme di rapporto ordinate secondo diversi "gradi" di intensità, quantitativa e temporale, di autonomia e di caratterizzazione privato-pubblico.

Al lavoro subordinato tradizionale si avvicinano, in un continuum, forme di lavoro parasubordinato, cooperativo, associato; il lavoro a tempo pieno ed indeterminato si riduce a favore del lavoro a termine, part-time e di rapporti in vario modo misti o di alternanza fra formazione e lavoro.

Questo che viene definito il lavoro autonomo di seconda generazione, per distinguerlo e per marcarne le differenze (possesso di competenze tecnico culturali che si riferiscono in primo luogo all’universo della comunicazione) dal lavoro autonomo di prima generazione (quello delle tradizionali professioni artigiane o d'altro genere) non può essere il nuovo soggetto perché la realtà sociale è irreversibilmente caratterizzata dal trionfo della moltitudine

145, cioè dal passaggio da una massa strutturata da rapporti di classe a una massa anonima, costituita da un pulviscolo di soggettività isolate e reciprocamente in competizione. Socialità e fiducia divengono risorse scarse, dal momento che non sono più generate automaticamente dall’esistenza di luoghi di aggregazione come la fabbrica, il sindacato,146.

Oggi non si compete fra imprese ma fra sistemi territoriali, fra reti corte e reti lunghe147. Reti corte che si riferiscono ai distretti industriali e alle relazioni di

145 Le analisi sociologiche dell’epoca precedente si fondavano sul concetto di massa, nell’ambito del quale si articolava il concetto di classe. Oggi ci troviamo a dover fare i conti con la moltitudine. Con questo termine si definisce una massa al cui interno i tradizionali rapporti di classe sono stati soppiantati da meccanismi "egologici": rottura delle solidarietà di classe e ceto, isolamento e solitudine dei soggetti, individualismo proprietario A. BONOMI Il trionfo della moltitudine. Forme e conflitti della società che viene, ed. Bollati Boringhieri, e Il capitalismo

molecolare. La società al lavoro nel Nord Italia 146 Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia, a cura di Sergio Bologna e Andrea Fumagalli (Feltrinelli editore) 147 Si tratta di concetti che esprimono la dinamica del capitalismo molecolare come nuova forma di appropriazione capitalistica delle risorse sociali del territorio. I tradizionali rapporti di subfornitura - che legano grande, media e piccola impresa configurando il territorio locale come distretto industriale – non tramontano. Al contrario: i processi di decentramento produttivo integrano una massa crescente di lavoratori autonomi di prima generazione (il pulviscolo artigianale) nel ciclo produttivo flessibile. Tuttavia queste reti corte possono sopravvivere solo grazie al lavoro autonomo di seconda generazione che costruisce le reti lunghe delle imprese mondializzate, vale a dire l’apparato di comunicazione attraverso il quale queste ultime sfruttano le risorse locali per conquistare nicchie del mercato globale.

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subfornitura fra grande, media e piccola impresa, e reti lunghe che nascono dai grandi processi di delocalizzazione,

Ormai é noto a tutti che più nessun settore merceologico è uguale a prima, in modo speciale quelli investiti dai processi di liberalizzazione e di privatizzazione.

In secondo luogo il lavoro flessibile è da considerare non come una mera modalità di accesso al mercato del lavoro, bensì come un dato strutturale che ormai configura un vero e proprio doppio regime del medesimo.

Dal punto di vista della rappresentanza sociale sappiamo come stanno le cose: la prima rimane un'area tuttora saldamente presidiata dalle tutele contrattuali e sindacali; la seconda è, invece, libera.

Il terzo aspetto da tenere ben presente è che le flessibilità non sono una modalità di prestazione riservata ai settori della cosiddetta new economy, ma investono profondamente e massicciamente anche la old economy.

E' chiaro dunque che non siamo di fronte ad una patologia, bensì ad una trasformazione profonda e permanente del mercato del lavoro.

Ogni strategia di intervento sindacale sulla qualità e la quantità del lavoro che prescindesse da questo assunto sarebbe destinata al fallimento.

Ridotta all'essenziale, la chiave concettuale della flessibilità del lavoro è la

libertà, così come quella della rigidità era ed è il vincolo: il problema è, chi la controlla. Se la chiave della libertà è nelle mani esclusive dell'imprenditore, produce

tendenzialmente sotto-salario, precarietà e sfruttamento; se è nelle mani del lavoratore la chiave della libertà si può tradurre in opportunità, in qualità professionale ed in retribuzione.

Se le cose stanno così, è sbagliato dichiarare guerra alle flessibilità: il compito del sindacato è quello di volgerla a favore dei lavoratori.

Solo l'azione contrattuale del sindacato può trasformare il precariato in opportunità, ed il sotto-salario in buone retribuzioni.

D'altro canto cos'è la flessibilità se non il trasferimento del rischio d'impresa dall'imprenditore al lavoratore? Se il rischio è la motivazione della remunerazione del capitale, perché non deve valere la stessa regola per il lavoro? Nel passato la manodopera esuberante in agricoltura è stata scaricata nell’industria (in Italia è scomparso ormai più dell’80% dei contadini nel giro di un secolo); la manodopera esuberante nell’industria è stata scaricata nei servizi (in Italia è scomparso il 20% degli operai manifatturieri nel giro di un trentennio) e la manodopera esuberante nei servizi è stata scaricata nell’informazione (che, nei paesi avanzati, impiega il 40% della popolazione attiva).

In realtà, tutto ciò mostra, oggi, evidenti segni di crisi di rappresentatività del sindacato che è un sindacato che tutela non il lavoro, bensì i diritti in un contesto caratterizzato da un'alta densità conflittuale, in gran parte determinata da una disfunzione della capacità rappresentativa, che realizza la consapevolezza del carattere più presunto che reale della rappresentatività del sindacato.

Il problema è particolarmente acuto quando, come nel caso prima richiamato, la rappresentatività serve ad individuare i soggetti legittimati a stipulare contratti collettivi con efficacia generalizzata.

Tutto ciò ci consente di sostenere l’esistenza di una organizzazione pubblicistica della categoria, rispetto al gruppo professionale, in cui, in ultima analisi, la

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identificazione del gruppo professionale è il risultato di una scelta effettuata dallo Stato, anche se la gestione degli interessi della categoria così organizzata avrebbe potuto svolgersi in modo autonomo e democratico (cosiddetto corporativismo democratico).

Dunque, assisteremo sempre più ad organizzazioni che non hanno struttura associativa, in linea con il dettato costituzionale (art.39, 1° comma Cost.), il quale impiega il termine “organizzazione” che implica una nozione più ampia del fenomeno sindacale, tale da comprendere forme organizzatorie diverse da quella associativa, purché idonee a ricevere la qualificazione di "sindacati".

Infatti, sotto il profilo teleologico, è sindacale un atto o un'attività diretta all'autotutela di interessi connessi a relazioni giuridiche in cui sia dedotta l'attività di lavoro (e non solo di lavoro dipendente); tale connessione deve essere intesa in senso ampio, risultando decisiva, quasi sempre, in pratica, la qualificazione data dal soggetto stesso il quale è tuttavia, titolare della libertà sindacale, come d'altronde anche del parallelo diritto di sciopero.

3.5 –Le sintropie del mercato del lavoro: il lavoro sommerso

Il lavoro sommerso in Italia, ha le stesse caratteristiche socio-economiche del lavoro sommerso, in Europa e nel mondo ?

Esiste un denominatore comune? E’ veramente un fenomeno di effettiva concorrenza sleale e/o di mancata contribuzione fiscale ? E’ un fenomeno che ritarda lo sviluppo socio-economico di un territorio ? E’ sufficiente una disposizione di legge che fissi un termine entro cui tale fenomeno può dirsi cessato ? Ma l’economia sommersa è veramente quell’area dell’attività economica che sfugge al sistema di tassazione e, in gran parte, alle statistiche ufficiali ?

Secondo l’economista R. Brunetta “il sommerso rappresenta la via italiana

all’omologazione agli standars europei in termini di flessibilità del mercato del lavoro e

di tipologie contrattuali”. Infatti se si contabilizzasse il sommerso, i nostri indicatori del mercato del lavoro,

sarebbero in linea con i valori medi europei, come pure i conti del welfare. Ancora qualche altra domanda. Al sud il lavoro sommerso, è sommerso

d’azienda, cioè quando restano conosciuti alle autorità sia l’azienda che il lavoratore o è sommerso di lavoro, laddove le aziende regolari utilizzano manodopera aggiuntiva o occultano parte della prestazione lavorativa dei dipendenti? Il lavoro sommerso in Italia, costituisce una tipologia strutturale del sistema produttivo, perché coinvolge la maggior parte degli imprenditori e dei lavoratori e perché le aziende emerse, se ne avvantaggiano per ridurre il costo della manodopera e gli altri oneri fiscali ? Il sistema produttivo italiano è essenzialmente un sistema che si fonda sul lavoro sommerso? La struttura dell’occupazione in Italia, è condizionata dal lavoro sommerso ?

Vorrei fermarmi qui ed in particolare su quest’ultimo profilo, che è d’importanza straordinaria.

Declinati i suoi fondamenti, il lavoro sommerso viene ripiegato per intero nelle procedure, che come vuoti recipienti, sono capaci di accogliere qualsiasi contenuto.

Il fenomeno non discende più da un contenuto socio-economico, ma dall’osservanza di procedure poste dall’ordinamento.

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Il conflitto tra questi due modelli quello sommerso e quello emerso, quello irregolare e quello regolare, determinano un conflitto socio-economico.

Un conflitto che pur nobilitato da un assetto assiologico, è risolto in base a procedure, che non realizzano valori, ma solamente la validità procedurale del modello lavoro regolare.

In definitiva una pro-posizione diventa posizione. Il problema si complica se la posizione del lavoro sommerso nell’economia è

quella di essere strumento dell’economia. E come affermare che il fenomeno lavoro sommerso è un problema di territorialità, che si contrappone alla spazialità di economia e tecnica.

Non è un caso che i Trattati europei mirino a formare “…..uno spazio senza

frontiere interne, non un territorio più ampio ed esteso, ma uno spazio cioè una sede di

scambi, che trascende il territorio dei singoli Stati. Non un grande luogo, ma un ambito

de-localizzato e, perciò, de-storicizzato….”. Perciò, avviene che l’individuo, in quanto parte dell’accordo di scambio, non sia

più cittadino, membro di una determinata e storica civitas, ma assume la posizione di venditore o di compratore.

Il divario, determina una scissione tra l’individuo, quale membro della civitas politico-giuridica e l’individuo quale membro dello spazio economico.

Ed allora, il diritto perde la propria capacità regolatrice, per rappresentare la differenza logica tra la regola e il regolato: ossia, tra diritto, da un lato, e capitalismo dall’altro. Secondo E. Severino nelle democrazie occidentali la norma ha ordinato una volontà di

profitto che, lasciata a se stessa, si sarebbe liberata e tutto si libererebbe il più possibile dalla regola politico-giuridica e imporrebbe essa la propria regola, alla politica al diritto, alla morale, alla religione, cioè subordinerebbe gli interessi e i bisogni della società al processo produttivo volto all’incremento del profitto.

Il capitalismo tende ad una deregulation! Tende a realizzare scopi escludenti, per soddisfare bisogni legittimanti la realizzazione di un nuovo modello che assume rispetto al modello normato le caratteristiche di un modello separato e diverso, però concreto e non astratto rispetto al primo.

Il modello sta cambiando e il nuovo va decifrato. Le norme non sono più scopi, ma mezzi, delle procedure, che continuano a descrivere qualcosa, ma in modo diverso da come e da quello che prescrivono in quanto scopi.

Ecco, quindi, che le norme sono pronte a ricevere qualsiasi contenuto ordinato alla volontà del profitto, che si libera dalla regola politico-giuridica e subordina gli interessi e i bisogni della società al processo produttivo volto all’incremento del profitto.

Ma non è proprio così, perché il capitalismo ha bisogno del diritto, per legittimare la propria esistenza per posizionare l’incremento del profitto come scopo meritevole di protezione.

In tutto ciò non c’è alcun fondamento contenutistico, ma soltanto un fondamento procedurale.

Del resto non possiamo che prendere atto che la nascita del sommergismo, come

diritto posto è la risposta che l’ordinamento da ad un atteggiamento del mercato, ad una

entropia, cioè ad un fenomeno che secondo il capitalismo è legittimo, ma secondo il

capitalismo normato costituisce qualcosa di diverso.

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Assumendo come posto il primo significato (capitalismo), il lavoro sommerso è

legittimo, diversamente assumendolo come entropia del capitalismo normato, il lavoro

sommerso è illegittimo. In linea di principio possiamo affermare che il sommergismo, è caratterizzato

dall’abolizione massiccia del lavoro, pur continuando a fare del lavoro, dalla sua destandardizzazione e demassificazione postfodiste, dalla necessità di destatizzazione e burocratizzazione delle protezione sociale che hanno dato vita a un brulichio di attività autoorganizzate e autodeterminate in funzione di bisogni immediati e mediati.

Del resto il lavoro svolge una funzione socialmente identificata e normalizzata nella produzione e riproduzione del tutto sociale ed è identificabile mediante le competenze socialmente definite che esso dispiega secondo procedure determinate.

Il lavoro sommerso pur non costituendo l’esercizio di competenze istituzionalmente certificate secondo procedure omologate, svolge in quanto lavoro una funzione sociale e quindi risponde a bisogni socialmente definiti.

Perciò si è consentito sostituire alle leggi che le società-Stato si danno, le leggi anonime del mercato ed al lavoro regolare il sommergismo tanto da codificarlo come un modello socio-economico incaricato di perpetuare la società del lavoro.

Orbene, il legislatore con la legge 18 ottobre 2001, n.383 negli articoli da 1 a 3, disciplina interventi finalizzati a favorire l’emersione del cosiddetto “lavoro sommerso” da legittimare, perché in violazione delle vigenti normative di carattere tributario e contributivo.

Così pone lo scopo: fornisce un incentivo alla ripresa e allo sviluppo economico. Il legislatore da un lato, finisce per dirci quali rapporti legittimare perché

esprimono una concreta effettività di sviluppo, dall’altro si limita ad indicare come quei rapporti possono farsi legittimi, dunque regolari.

In definitiva il legislatore con la legge n.383/2001 per la prima volta supera la distinzione del fenomeno tra ciò che è illegale e ciò che è legale, per identificare delle

aree per cui esistono problemi di misurazione: illegale, sommerso, informale. Ed il lavoro sommerso, così anche quello c.d. informale era sempre illegale,

perché contrario all’ordinamento giuridico e quindi contra ius.

Bisogna, infatti, prestare attenzione al fatto che un’attività può essere o produttiva o redistributiva; soltanto la prima ha un valore sulla stima del PIL, mentre la seconda non implica creazione di valore aggiunto.

Il nuovo sistema dei conti economici nazionali e regionali SEC ha prodotto modificazioni nella definizione di economia e di occupazione sommersa148.

Infatti le stime fornite dall’ISTAT fino ad oggi utilizzavano un concetto di economia sommersa che includeva le tre componenti dell’economia non osservata: sommerso statistico, commerso economico e settore informale.

La revisione, invece ha comportato che le tre componenti sono stimate in modo indipendente e solo il sommerso economico rappresenta la dimensione non regolare del fenomeno occupazione.

Il sommerso economico, ma anche quello giuridico, (il lavoro sommerso sotto alcuni aspetti ha connotazioni di quest’ultimo tipo) comprende attività caratterizzate dalla deliberata volontà di non rispettare le norme di legge (non penale) al fine di ridurre

148 A.BALDASSIRINI, L’occupazione sommersa nei nuovi dati di contabilità nazionale, in Casini Benvenuti S. (a cura di), Il nuovo sistema dei conti nazionali e regionali SEC 1995, Franco Angeli, 2000.

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i costi di produzione. D’altra parte, l’illegalità in senso lato si riferisce alle attività che infrangono la legge attraverso la violazione di norme riguardanti tasse, contributi sociali, alcuni standard legali come il salario minimo, il numero massimo di ore lavorative, norme sanitarie e di sicurezza, ecc. 149

Diversamente, il settore informale del sommerso fa riferimento a unità produttive che appartengono al settore delle famiglie e che non possono essere associate ad altre unità produttive e perciò non vengono necessariamente svolte per evadere le tasse o i contributi sociali, mentre è questo il motivo sottostante il sommerso non

registrato per ragioni economiche150

.

La presenza di una forma di sommergismo multiforme e strutturale ci pone di fronte a delle scelte politiche, sociali, sociologiche ed economiche di rottura rispetto al passato anche recente.

Non sono sufficienti dichiarazioni di emersione, che in definitiva sono dei “condoni fiscali e contributivi” vestiti con l’abito delle grande occasioni.

Occorre investire in una nuova etica e cultura del lavoro, che consenta il definitivo distacco da una logica assistenziale storicamente diffusa nel substrato socio-economico delle regioni meridionali ed in particolare per ciò che ci riguarda dell’Italia.

Orbene, l’idea è quella di introdurre un nuovo modello di organizzazione del

lavoro fondato sulla modularità e sulla partecipazione della prestazione lavorativa. Il lavoro modulare e partecipato (cooperativo) per le caratteristiche del mercato

del lavoro calabrese, segmentato e diafasico, consente non solo di attivare politiche volte ad affrontare il problema dell’economia sommersa, ma anche quello di superare il modello di impresa che opera nel territorio calabrese, intesa a minimizzare i costi tramite l’ampia dimensione degli impianti e l’uniformità dei prodotti, sulla rigidità dei processi e della tipologia dei beni posti sul mercato.

Sul piano del lavoro, tale modello, necessita solamente di un tipo di lavoro, con l’esclusione di altre tipologie più vicine alle trasformazioni strutturali e tecnologiche che consentirebbero, una maggiore elasticità ed efficienza del sistema.

E’ una mutazione culturale. Infatti il lavoro modulare e partecipato presuppone la definizione di nuovi diritti,

nuove libertà, nuove sicurezze collettive, nuove sistemazioni nello spazio che costituiscono la scelta di una nuova società: la società del tempo scelto e della

multiattività. Quindi, una società che sposta la produzione del legame sociale verso i rapporti

di cooperazione, regolati non solo dal mercato e dal capitale, ma anche dalla reciprocità e dalla mutualità.

Quindi, un lavoro che legittima la discontinuità del lavoro senza subire la discontinuità del reddito, che è produttrice di precarietà.

Si tratta di disconnettere dal lavoro il diritto di avere diritti, in particolare il diritto

149 L’economia sommersa indica l’insieme della produzione legale di cui la pubblica amministrazione non ha conoscenza per diverse ragioni: a) evasione fiscale; b) evasione di contributi sociali; c) non osservanza di regole dettate dalla legge relativamente a: salario minimo, numero massimo di ore di lavoro, sicurezza sul lavoro, ecc.; d) mancato rispetto di norme amministrative, come nel caso della mancata compilazione dei questionari statistici o di altri moduli amministrativi, ecc. 150 Le unità produttive sono caratterizzate: a) dal basso livello di organizzazione, dalla poca o nessuna divisione tra lavoro e capitale; c) dalle relazioni di lavoro fondate per lo più sull’occupazione occasionale, sulla parentela, sulle relazioni personali e sociali, in contrapposizione ai contratti formali.

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a ciò che è prodotto e producibile senza lavoro, o con sempre minor lavoro, come se i diritti sono beni vendibili.

Dunque, bisogna abbandonare il paradigma: il lavoro: un bene; l’impiego:un

privilegio.

Perché il tempo di lavoro ha cessato di essere il tempo sociale dominante. Ma tutto ciò che rilevanza ha con il lavoro sommerso in Italia ? “Il punto di

partenza, questa volta è una riflessione espressamente politica. La multiattività, la

riduzione dello “spazio eccessivo” che l’impresa e il lavoro hanno assunto, sono

presentate come un’aspirazione comune che deve trovare la sua espressione collettiva e

la sua realizzazione politica attraverso un cambiamento della società. Questo

cambiamento è necessario alla sopravvivenza (o alla ricostruzione) di una società nella

quale le persone e le imprese ad un tempo possano svilupparsi traendo vantaggio dalla

nuova natura delle forse produttive. Questa società deve essere costruita in maniera tale

che le forme di impiego flessibili, discontinue, evolutive, lungi dall’essere causa di

disintegrazione sociale, diano origine a nuove forme di socialità e di coesione” 151 La maggior quota di unità di lavoro irregolari su quelle totali riscontrata in Italia,

dove, nel 2000, 3 unità su 10152 sono irregolari può essere riassunta nell’espressione: afferra ciò che cambia!

Per entrare nell’argomento delle tipologie di strumenti utilizzati per l’emersione non è male.

In particolare, abbandonata la scelta dei “condoni” contributivi e fiscali, sono state utilizzate due tipologie: detrazioni fiscali in edilizia e riallineamento.

Ciò che accomuna questi strumenti e che agiscono sulla convenienza alla disapplicazione delle regole, però divergono per i criteri d’intervento e, di conseguenza, per livello d’incidenza sulle varie forme di evasione e di collegamento allo sviluppo.

Per il riallineamento il beneficiario dell’incentivo è l’impresa meridionale. L’azione è diretta all’abbattimento dei costi del fattore lavoro e l’opportunità di accedervi passa attraverso il recepimento di un’intesa locale che vede coinvolti i soggetti rappresentanti le parti interessate, con l’obiettivo di recuperare sulle diverse forme di lavoro non regolare la legalità per indebolire le forme di concorrenza sleale.

Per quando riguarda le detrazioni d’imposta, il soggetto diretto dell’incentivo è il committente persona fisica. L’azione si sostanzia in detrazioni IRPEF e abbattimento IVA di alcune spese di ristrutturazione con l’obiettivo di stimolo congiunturale alla domanda e di contrasto del lavoro nero e dell’evasione fiscale.

In Italia i dati forniti dal Ministero delle Finanze e dall’ANCE elaborati dallo SVIMEZ attestano indifferenza allo strumento della detrazione fiscale, mentre il riallineamento ha raggiunto un coinvolgimento significativo poco sotto del 30% specialmente nei settori dell’abbigliamento, nei servizi e nell’agricoltura tali strumenti.

Il riallineamento si è rivelato uno strumento che funziona prevalentemente sulle realtà grigie, ossia imprese che sono conosciute che utilizzano parte dell’evasione per autofinanziarsi.

Tali azioni dimostrano la necessità di un approccio di analisi che ponga l’accento sulle diseconomie di contesto che ostacolano la sostenibilità delle regole.

I condoni, previdenziali e fiscali, le detrazioni fiscali, il riallineamento sono delle

151 A. Gorz Miserie del presente ricchezza del possibile. Pag.113 - 1997 Editions Galilée 152 Fonte SVIMEZ in Rapporto 2001 sull’economia del Mezzogiorno Il Mulino 2001, pag.797.

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azioni isolate di temporaneo abbattimento dei costi in un intervento locale, mentre la costituzione degli organismi sul lavoro sommerso segnano l’inizio di un nuovo approccio all’entropia ed all’interpretazione del fenomeno.

Infatti non si può non convenire con la SVIMEZ che “l’argomento innovativo,

alla base di questo ulteriore sforzo di intervento pubblico per affrontare il sommerso, è

il collegamento delle ragioni più strettamente aziendali (prodotti, produttività dei fattori,

tecnologia gestionale e di processo, costo dei fattori) con le variabili riconducibili

all’economia di contesto (infrastrutture materiali di base, capitale umano, capitale

sociale, istituzioni locali, mercato)”.

In Italia, la diffusa presenza di economia sommersa, riguarda non soltanto il lavoro dipendente ma anche fasce non marginali di lavoro autonomo. Esaminiamo separatamente i quattro segmenti del lavoro non regolare:

• Posizioni lavorative multiple: queste misurano la quantità di lavoro prestata da persone che hanno una prima occupazione;

• Stranieri non residenti: è costituito dalla popolazione residente e quindi l’indagine non misura fenomeni quali l’immigrazione extracomunitaria;

• Persone non occupate pur effettuando ore di lavoro: questa componente è costituito dal fenomeno del lavoro "non regolare" inteso sia in senso stretto come lavoro nero sia come lavoro marginale, occasionale, saltuario, anche se amministrativamente in regola. Per definizione, non avendo strumenti per definire la quota di lavoro nero e quella di lavoro marginale, la contabilità nazionale ha adottato l’ipotesi di considerarlo interamente lavoro nero;

• Occupati in modo non regolare (lavoro nero): si ricorda che questa componente è stata stimata attraverso due fasi principali: integrazione delle fonti dal lato delle famiglie (censimento della popolazione) e successivo confronto con i dati dal lato delle imprese; gli occupati irregolari risultano pari al numero di occupati che eccede quello rilevato presso le imprese (che costituisce la quota di regolari).

Dunque, la rigidità nella regolamentazione del rapporto di lavoro, obbliga il nostro Paese ad attuare interventi strutturali che favoriscono la domanda e l’offerta di lavoro ed in particolare un nuovo assetto della regolazione del sistema degli incentivi e degli ammortizzatori sociali, che concorra a realizzare un equilibrio tra flessibilità e sicurezza.

L’equilibrio da raggiungere è tra flessibilità e precarizzazione, tra contratti flessibili e contratti tradizionali, tra generazione giovani e generazioni di yong old.

A questo si aggiunge il problema del lavoro sommerso associato alla sommersione dell’attività e quindi dell’economia.

Chi deve governare il problema, ponendo in essere azioni efficaci, ha necessità di fotografare il fenomeno attraverso la stima della sua entità, di individuare le cause e le conseguenze principali del fenomeno.

Non possiamo nascondere le difficoltà di scelta di politiche dirette nel breve tempo, a far rientrare il fenomeno dentro limiti accettabili e ad eliminarlo completamente nel lungo periodo.

Intanto, le difficoltà sono quelle di individuare univocamente ciò che si intende per economia sommersa, data la molteplicità delle sue manifestazioni e la pluralità di cause e contesti socio-economici cui queste sono legate.

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Superata tale difficoltà di ordine metodologico vi è la necessità di realizzare un sistema efficace e coerente di strumenti intesi a garantire trasparenza al mercato del lavoro e a migliorare la capacità di inserimento professionale dei disoccupati e di quanti sono in cerca di una prima occupazione, con l’obiettivo di restringere sempre di più il fenomeno del lavoro sommerso.

Quali politiche attive del lavoro, quindi, devono essere concentrate per fare emergere il lavoro sommerso che non è solamente un fenomeno che riguarda il lavoro subordinato, ma anche il lavoro autonomo? Quali strumenti sono capaci di innestare meccanismi di crescita autoimprenditoriale e di promozione sociale ?

Intanto, occorre, continuare la politica di incentivi volti ad incoraggiare la nascita di imprese e di forme organizzate di lavoro autonomo.

Innanzitutto lo scopo è quello di stimolare la creazione di piccole e medie imprese, specie nelle aree svantaggiate, e l’autoimpiego con il particolare intento di accrescere il capitale umano e lo spirito imprenditoriale dei giovani, delle donne e dei disoccupati di lungo periodo.

Tutti questi elementi rientrano nei pilastri della strategia europea per l’occupazione.

Inoltre, è necessario iniziare un’intensa attività di promozione sul territorio dei vantaggi insiti nell’emersione conseguenti alla possibilità di usufruire degli incentivi nazionali ad esso dedicati (credito d’imposta, provvedimenti per l’emersione, scuola degli agenti di sviluppo e dell’emersione).

Infine, occorre formare specifiche figure professionali dedicate ad un costante dialogo con le parti sociali e con le imprese al fine di diffondere le opportunità connesse con il lavoro regolare.

Tutto ciò richiede: a) coinvolgimento e consenso delle parti sociali; b) piani per

stabilire le politiche di lungo periodo; c) modifiche al contesto istituzionale che

garantiscano la corretta applicazione delle strategie e la credibilità delle autorità di

politica economica. Infine, non bisogna dimenticare però il principio-cardine del nostro ordinamento

costituzionale, quello di uguaglianza, che è parametro delle questioni sollevate, talvolta esclusivo, talvolta abbinato, con una endiadi, al principio-criterio di ragionevolezza.

Rispetto a tali parametri, il controllo di costituzionalità non può non arrestarsi alla verifica che il mezzo prescelto dal legislatore, rispetto al fine, non sia palesemente sproporzionato, ovvero si limiti all'accertamento del "corretto uso del potere normativo", che evidenzi una carenza di causa o ragione della disciplina censurata: come tale, quindi, implicante un vizio della legge, perché fondato sulla irragionevole differenziazione ovvero, a seconda dei casi, sulla irragionevole omologazione delle situazioni poste a raffronto.

Al contrario, il principio di eguaglianza non potrà essere invocato quando si pongano a raffronto situazioni strutturalmente diverse, per indurre una modifica dell'ordinamento vigente secondo una prospettiva costituzionalmente non necessitata, o quando la statuizione chiesta dal giudice rimettente determinerebbe essa stessa un'ingiustificata disparità di trattamento.

Nel quadro del sistema delle autonomie regionali, poi, il principio di eguaglianza si converte in quello unitario sancito dall'art. 5 della Costituzione, ed è invocato quando

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la disciplina di certe materie debba essere uniforme in tutto il territorio nazionale, non potendosi ammettere differenziazioni o soluzioni difformi tra Regione e Regione.

3.6 - L’anello tetralogico e la logica fuzzy: i principi della teoria e

l’applicazione al diritto del lavoro.

La logica fuzzy - tra le altre funzioni - ha quella di migliorare la decisione ed introdurre la scienza (la verità nel lessico parsoniano/luhmanniano) come mezzo per fare interagire i diversi soggetti del processo decisionale e costituire, quindi, le premesse di una comunità razionale fondata dialogicamente.

Il problema è che questi obiettivi entrano in frizione con un quadro nel quale le tradizionali certezze sono in discussione. Il ricorso alla conoscenza scientifica come mezzo per alleggerire i conflitti e ridurre la complessità nella società contemporanea ha luogo in un momento in cui sta avvenendo - per usare l’espressione di Vleck - il passaggio dal razionalismo scientifico al relativismo democratico [...].

La contraddizione tra la domanda di certezza e di razionalità scientificamente fondata ed il crescente relativismo che invece si incontra anche nelle aree tradizionalmente considerate a bassa incertezza valoriale, non è di per sé un dato negativo o di crisi (come si amava dire qualche anno fa).

Dubbio, criticità, esplorazione sono atteggiamenti costanti nella comunità scientifica. Cautela e probabilismo sono, perciò, alla base delle risposte che la scienza è oggi in grado di dare.

Paradossalmente, uno dei motivi per cui ci si rivolge, oggi, alla scienza è l’esigenza di certezza, di verità non opinabile o influenzabile da giudizi-pregiudizi politici o ideologici. Si tratta della domanda diffusa parson-luhmanniana di riduzione della complessità tramite “la verità”.

L’uso dello logica fuzzy si presenta non privo di difficoltà, concernenti per lo più la natura stessa delle conoscenze scientifiche necessarie, sia in riferimento al livello di

complessità dei sistemi di valori coinvolti che possono essere affrontati solo in una visione sistemica e, conseguentemente, su nuove basi metodologiche, sia alla nuova

situazione di produzione/uso delle conoscenze che si determina e che in larga misura deve ancora essere correttamente definita a livello teorico.

A tutto ciò si aggiunge la diffusa consapevolezza dei ricercatori di dover operare in questo campo, come d’altronde in tutto il settore degli studi di previsione che implicano l’esplorazione del complesso rapporto fra tecnologie e società, in condizioni di incertezza sui contenuti e di carenza metodologica, in quanto l’ampia casistica, l’eterogeneità delle variabili in gioco e le conseguenti difficoltà di riduzione e modellizzazione dei sistemi in esame, non consentono codificazioni e generalizzazioni proprie di una vera e propria disciplina scientifica.

A questo punto s’impone una avvertenza per il lettore. La necessità di soffermarsi sui principi base della logica fuzzy, risente della novità dello strumento e consentire a chi non conosce la esistenza in un quadro di sintesi utile per la comprensione delle argomentazioni qui contenute.

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Infatti sarebbe paradossale che “……le teorie scientifiche più altamente

sviluppate e utili siano espresse estensivamente in termini di oggetti mai incontrati

nell’esperienza……”153 La domanda che un giurista potrebbe facilmente porsi a questo punto è: il diritto

è un mondo fuzzy ? Non crediamo che si possa dare una risposta affermativa, siamo però convinti che la fuzziness sia uno strumento di ermeneutica utile per l’operatore del diritto, in particolare per risolvere la vaghezza che si presenta nel momento in cui occorre attribuire un significato alla norma, per misurarne la precisa estensione e la possibilità di applicazione al dato rapporto sociale da regolare, in definitiva quando occorre eseguire una operazione logica di conoscenza154.

L’utilità dello strumento si coglie ancor di più nel caso in cui non esista una norma specifica, e quindi prima di interpretarla o prima che si interpreti, si tratta di ricercare, o di ricostruire la norma e ciò va sicuramente realizzato tenendo conto dell’elemento di fatto che la norma si proponga di disciplinare.

Infatti, evolvendosi il substrato di fatto, si evolve anche la portata della norma. Del resto anche nel nostro ordinamento “…..il giudice è chiamato dalla stessa

legge a suo “cooperatore ed ausiliario” nell’attuazione del diritto. Poiché, o la legge

segna soltanto la direttiva del principio e lascia prudente apprezzamento del giudice

secondo le circostanze di farne applicazione, o attribuisce al giudice secondo le

circostanze di farne applicazione, o perfezionare dei rapporti giuridici tra le parti,

oppure subordina l’applicazione del principio a momenti di fatto incerti ed oscillanti,

che hanno un valore sociale, e quindi subiscono nella loro significazione una mobilità e

pieghevolezza che rende possibile un continuo contatto tra il diritto e la vita. Esempi del

primo caso sono tutte quelle disposizioni, in cui è detto che il giudice deve giudicare

avuto riguardo alle circostanze del caso, secondo le circostanze, per gravi motivi, giusti

motivi, eccettera155

. Nel secondo gruppo rientrano quegli articoli in cui il giudice spiega

un’attività conciliatrice degli interessi delle parti o nell’interesse sociale, oppure integra

le statuizioni private..”156 La finalità del processo valutativo è perciò l’individuazione dei legami

“funzionali” e non meccanici, rigidi, tra i diversi fattori iniziali e le modificazioni avvenute durante l’iter procedurale.

Infatti, non esiste un metodo, ma una pluralità di metodi che consentono di individuare e quindi “ritagliare” le regole sul singolo caso, all’interno di una “teoria contingente”.

Del resto le scelte dell’interprete non dipendono dall’autorità personale, ma dai principi su cui si fondano, non è ammissibile infatti che in esse si possa avvertire una totale libertà di giudizio157, però la libertà dell’interprete si sviluppa in misura ampia quando si esercita attraverso schemi mentali per rappresentare le cose mediante concetti

153 Black, 1937, p.427 154 C. LUZZATI, La vaghezza delle norme, Milano 1990, spec. P. 310-313 155 v. per esempio c.c. art. 537, 819, 846, 980, 1165, 1173, 1816, 681, 984, 54, 133, 859, 1652, 1735, 154, 254, 255, ecc. 156 F. FERRARA Potere del legislatore e funzione del giudice in L’antiformalismo giuridico a cura di Aristide Tanzi Ed. Raffello Cortina Editore, 1999 pag. 257 157 F. GENI’ I poteri dell’interpretazione in relazione agli elementi tecnici e scientifici dell’elaborazione del diritto. Il

contrasto tra scienza e tecnica in L’antiformalismo giuridico a cura di Aristide Tanzi Ed. Raffello Cortina Editore, 1999 pag. 261 e ss.

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che, poi, organizza, per costruire tipi e categorie, nel cui ambito inserisce quei fenomeni della vita sociale che è necessario regolamentare.

Il diritto del lavoro, poi, “……..è un diritto in continua elaborazione, che assai

difficilmente si riduce entro le strettoie della legislazione vigente, la quale lo contempla

in modo inadeguato……^158

Tutto ciò va inteso, come l’insieme delle attività che regolano il meccanismo di feedback con cui gestire il processo decisionale.

In questa logica il meccanismo di feedback non riguarda solo il raggiungimento degli obiettivi (per esempio, qualificare il tipo), ma tutti gli elementi che possono migliorare la capacità decisionale ed operativa dell’interprete dei dati.

Nessuna decisione, tuttavia, è libera da giudizi di tipo soggettivo. L’oggettività è definita all’interno della priorità circoscritta dal decisore o dalla fattispecie sottoposta al suo esame, e dalla percezione dell’oggettività che lo stesso può avere. Le decisioni riguardanti il tipo di informazione che deve essere raccolta, la scelta dei dati, i criteri di selezione, il peso relativo da dare a ciascun elemento sono tutti elementi che coinvolgono dei giudizi di valore. Perché la decisione abbia successo, questi giudizi devono essere resi in maniera esplicita.

Infatti, la selezione dei criteri deve essere il più possibile effettuata su base razionale e i dati devono essere raccolti dalle fonti disponibili più appropriate.

Dunque, occorre che il metodo della misurazione sia costituito da una procedura che fornisca gli strumenti per mettere in collegamento un concetto, o dei concetti, a un insieme di osservazioni controllate, in modo che si possa raggiungere una conoscenza ordinata dei concetti stessi. Questo metodo giunge alla teoria attraverso l’accumulazione di prove empiriche; è essenziale, quindi, che i dati forniti dal processo di misurazione siano validi e riproducibili.

Non bisogna dimenticare però che il diritto positivo è un sistema chiuso non privo di lacune e contraddizioni tanto che interpretazioni più ampie o più restrittive non consentono di qualificarlo aperto, né regole interpretative possono essere collocate allo stesso grado delle norme giuridiche.

Sebbene, bisogna anche convenire con Kantorowicz che la scienza del diritto, non può limitarsi ad analizzare i testi legislativi ma deve creare il diritto utilizzando strumenti e tecniche non propriamente formalizzate159 e, quindi il diritto positivo è un sistema culturalmente aperto nel momento stesso in cui viene esercitata la funzione ermeneutica.

Infatti, il processo di positivizzazione del diritto espone il sistema giuridico a un duplice rischio: quello della esuberanza di fattispecie concrete marginali rispetto al casus

legis delle fattispecie normative e quello delle inconcruenze tra la nuova fenomenologia e /o la nuova percezione della complessità e le fattispecie che sarebbero deputate a selezionarle.

Più veloce è la dinamica di trasformazione, più è sentita l’esigenza normopoietica interpretativa, che consente al sistema complesso di prendere forma dalle interazioni delle sue parti.

Il sistema giuridico, cioè si forma sulla base delle interazioni che si sviluppano tra

158 F.PERGOLESI Il diritto del lavoro come diritto libero in L’antiformalismo giuridico a cura di Aristide Tanzi Ed. Raffello Cortina Editore, 1999 pag. 137. 159 KANTOROWICZ La lotta per la scienza del diritto 1906.

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le regole di cui si compone (in tal senso è autopoietico). Interpretare significa innanzitutto tradurre e interpretare il diritto del lavoro

significa tradurre le forme del lavoro, che si manifestano nella realtà giuridica. Nel presente lavoro, quindi, verranno illustrati la formazione di sottoinsiemi che

costituiscono gli elementi distintivi per la valutazione della qualificazione giuridica di un rapporto di lavoro subordinato, utilizzando la logica fuzzy. L’obiettivo è evidenziare la superiorità di questa tecnica, che si configura come una metodologia di intervento atta a rilevare fattori di “cambiamento” in una realtà in cui è in corso un intervento,rispetto a quelle più classiche, in termini di maggiore flessibilità del sistema e di coerenza del giudizio finale, alle reali caratteristiche della natura del rapporto giuridico e agli elementi che lo compongono (soggetto, oggetto, tempo e spazio) nelle loro molteplici forme.

Infatti l’obiettivo è quello di dimostrare che la costruzione dell’ordine giuridico così come ogni ordine di cui l’individuo è soggetto protagonista, è dato dalla centralità del “rapporto” cioè di complessi di diritti e di doveri collegati non con l’espressione di una volontà, ma con il ruolo rivestito (relationship).

In questo modo più si svincolano i doveri dell’individuo dalla libera volontà di obbligarsi, e si ricollegano al suo ruolo, più il diritto può assolvere una funzione sociale che altrimenti gli sarebbe preclusa160

In definitiva attraverso al fuzzy logic verranno isolati campi di nuova complessità

i quali a loro voltà verranno sottoposti a principi regolativi loro propri, nell’ambito dell’autopoiesi dell’ordinamento, che costituisce un paradigma atto a superare l’alternativa duale tradizionale secondo cui se la regola introdotta costituisce un novum, di essa è sì possibile l’inventio, ma non anche una cognitio; mentre se tale regola si rappresenta come il prodotto di una cognizione, ciò vuol dire anche che essa di dava già sempre, e quindi non costituisce un novum e non può essere oggetto di vera e propria inventio.

Ragion per cui l’attività interpretativa produce l’organizzazione delle norme, divenendo l’entropia del sistema giuridico e rendendo flessibile il modello positivista e quindi lo dota di effettivà e di certezza.

Molteplici sono le forme con cui un'attività lavorativa può essere resa, ed i confini tra le stesse non sono sempre facili da tracciare, poiché per ogni tipo, trova applicazione una disciplina differente.

La difficoltà di distinguere le diverse tipologie di lavoro dipende, in primo luogo, dal fatto che il legislatore, non ha ritenuto di specificare in modo analitico i tratti distintivi delle stesse.

Infatti, il Codice Civile, che costituisce la principale fonte normativa al riguardo, si limita a qualificare in modo abbastanza generico le due principali categorie: il lavoro subordinato e il lavoro autonomo.

L'articolo 2094 c.c. definisce lavoratore subordinato colui che si impegna, a fronte di una retribuzione, a prestare il proprio lavoro alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore, senza ulteriori specificazioni; mentre si ha un contratto d'opera, e quindi una prestazione di lavoro autonomo, quando ci si obbliga a rendere in prima persona un'opera o un servizio "senza vincolo di subordinazione" (art. 2222 c.c.).

160 Pound, The Spirit of the Common Law, Boston 1921, trad. It. Sulla II ed. del 1966 Lo spirito della Common Law, a cura di G. Buttà, Milano 1970, pag. 29.

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Del tutto estranea alla normativa codicistica è la nozione di collaborazione coordinata e continuativa (talora qualificata come parasubordinazione, in virtù della prossimità al lavoro subordinato, ma da ricondursi alla più generale categoria del lavoro autonomo), ben si comprende come non sia per nulla agevole inquadrare in modo sistematico tali istituti.

Innanzitutto, è bene precisare come neppure la stipulazione di accordi, che qualifichino un rapporto di lavoro in un modo piuttosto che in un altro, sia decisiva. Laddove un rapporto abbia effettivamente natura subordinata insorgono, indipendentemente dalla volontà delle parti, determinati obblighi inderogabili, specie di natura contributiva. Pertanto, si rende sempre e comunque necessario, laddove si tratti di valutare la reale natura del rapporto stesso, esaminare, in concreto, le caratteristiche con cui questo si svolge o, se cessato, si è svolto.

A tal fine, la giurisprudenza ha individuato una serie di indici, alcuni più importanti altri secondari, la cui verifica è utile per potere valutare se un rapporto lavorativo sia caratterizzato da subordinazione o autonomia.

Tra gli indici di cui si deve tenere conto, quello che comunemente si ritiene assumere particolare importanza nel rivelare la natura subordinata del rapporto riguarda il pieno assoggettamento del prestatore di lavoro al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro ed utilizzando a contrario l’espressione dell’art. 2222 c.c. con vincolo di subordinazione.

In concreto, tale assoggettamento significa operare secondo orari di lavoro indicati dall'imprenditore, nei locali aziendali e con strumenti messi a disposizione dal datore di lavoro; svolgere tutte le attività che, di volta in volta, vengono indicate dall'imprenditore e che sono necessarie per il buon andamento dell'impresa; dover richiedere permessi in caso si abbia necessità di assentarsi o non si possa rispettare gli orari previsti; dover comunicare assenze e malattie; dover richiedere permessi in caso si abbia necessità di assentarsi o non si possa rispettare gli orari previsti; dover effettuare le ferie nei periodi indicati dal datore di lavoro, ecc: in una parola, non essere, appunto, autonomi, di determinare tempi e modi della propria attività lavorativa.

In quest'ottica, se è facile comprendere quale sia la differenza tra il lavoro subordinato ed il lavoro autonomo in senso proprio, che, nel linguaggio comune, si identifica con quello del libero professionista o del commerciante, più difficile è capire quale spazio residui per la collaborazione coordinata e continuativa.

Infatti, a differenza del lavoratore autonomo, che ha di regola una propria, sia pur minima, struttura imprenditoriale, una specifica professionalità e dunque una possibilità di operare a favore di più soggetti, il collaboratore coordinato è colui che, di regola, rende la propria prestazione per un periodo significativo a favore di uno specifico soggetto, secondo modalità predeterminate e senza margini di discrezionalità. Di fatto, ciò finisce col produrre, in gran parte dei casi, un affievolimento delle distinzioni con i lavoratori subordinati, divenendo, anche il collaboratore, parte integrante della struttura imprenditoriale, con la necessità di sottostare ad obblighi analoghi a quelli previsti per i dipendenti, ma senza le medesime tutele. Peraltro, la distinzione tra lavoro subordinato e collaborazione coordinata e continuativa potrebbe divenire, in futuro, ancora più sfumata, per restare in tema potremmo dire fuzzy ; basti pensare, ad esempio, al telelavoro: attività lavorativa da svolgersi a domicilio grazie alle avanzate tecnologie informatiche.

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Naturalmente, per un lavoratore non è conveniente un rapporto di lavoro autonomo, almeno se questo rapporto non sia caratterizzato da una reale autonomia. Infatti, la retribuzione apparentemente più alta rispetto a quella del dipendente regolarmente assunto, si accompagna, oltre al costante incremento del carico fiscale, la bassa contribuzione previdenziale, ovvero, per intendersi, la maturazione di una pensione irrisoria, nonché l'impossibilità di ricevere un'indennità nei periodi di malattia.

Inoltre, al lavoratore autonomo, sia o meno coordinata e continuativa la sua prestazione, non si applicano tutte le tutele che, invece, sono accordate al lavoratore subordinato, a partire da quelle che garantiscono la stabilità del posto di lavoro.

Del resto, anche per le imprese il vantaggio di avvalersi di prestazioni di collaborazione piuttosto che di lavoro subordinato rischia di essere, in molti casi, più apparente che reale: a fronte di un consistente (anche se oggi in calo) risparmio contributivo, si pone il rischio, concreto, di una vertenza promossa dal lavoratore (magari a seguito dell'interruzione del rapporto) volta ad accertare, retroattivamente, l'effettiva natura subordinata del rapporto di lavoro. Il che può comportare, nell'ipotesi estrema, l'obbligo di assumere il lavoratore, di risarcirgli il danno per il licenziamento e, soprattutto, di versargli tutti i contributi previdenziali precedentemente risparmiati, per di più con l'aggravio di sanzioni e more.

Il rapporto di lavoro autonomo si costituisce attraverso la stipulazione di un contratto d’opera. Quest’ultimo è disciplinato dagli artt. 2222 e seguenti del Codice Civile, ai sensi del quale con il contratto d’opera una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione verso il committente.

Come emerge chiaramente dalla definizione, il rapporto di lavoro autonomo è caratterizzato innanzitutto dall’elemento della indipendenza del lavoratore, nel senso che quest’ultimo presta la sua opera al di fuori di un contesto organizzativo e senza sottoporsi all’attività di direzione di un datore di lavoro.

Il lavoratore autonomo può avvalersi di una propria organizzazione di persone e di beni e, quindi, può anche essere un imprenditore, purché il suo lavoro rimanga comunque prevalente. In altri termini l’attività oggetto del contratto di lavoro autonomo non può mai imputarsi all’impresa di cui il lavoratore autonomo sia eventualmente titolare, poiché altrimenti si ricadrebbe nell’ipotesi, diversa, del contratto di appalto.

Ciò che distingue il lavoro autonomo dal lavoro subordinato non è tanto, quindi, l’oggetto della prestazione, quanto le modalità con le quali effettivamente essa è svolta. Infatti, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, nessuna prestazione di attività lavorativa pone un’esigenza aprioristica di essere resa nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato piuttosto che in quello di un rapporto di lavoro autonomo.

Pertanto, ciò che conta ai fini della qualificazione di un rapporto è l’effettivo atteggiarsi dello stesso durante il suo svolgimento: per definirsi autonomo il lavoratore deve espletare la propria attività in modo discrezionale, ossia senza assoggettamento ad un’assidua attività di vigilanza e controllo del committente.

È possibile, peraltro, che l’attività oggetto del contratto venga regolata in base ad elementi predeterminati dalla volontà negoziale e paritaria delle parti nella fase formativa del contratto, ma il committente non deve mai impartire direttive volte a determinare le modalità, anche di tempo e di luogo, della prestazione delle energie

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lavorative cioè esercitare il potere direttivo, organizzativo e disciplinare proprio del datore di lavoro.

Ciò non toglie che al committente competa un potere di controllo in corso d’opera consistente nella verifica della rispondenza dell’opera o del servizio alle determinazioni del contratto nonché dell’esecuzione a regola d’arte da parte del lavoratore autonomo.

L’autonomia non esclude neanche l’eventuale inserimento del lavoratore nell’organizzazione dell’impresa, purché non si determini un assoggettamento del prestatore ai poteri direttivi e disciplinari del datore di lavoro. Altri aspetti distintivi del lavoro autonomo sono: l’assenza di vincoli orari, l’impossibilità per il datore di lavoro di infliggere sanzioni disciplinari, libertà di decidere tempi e modi dello svolgimento della prestazione, compenso normalmente commisurato all’intera prestazione e non su base oraria.

Oggetto del contratto può essere qualsiasi attività di carattere manuale, tecnico o intellettuale idonea a produrre un risultato economico. Si può trattare anche di un’attività continuata nel tempo.

Il corrispettivo può essere in denaro o in natura. La mancata determinazione del corrispettivo nel contratto comporta il ricorso alle tariffe professionali o agli usi, ovvero al giudice che decide in via equitativa.

Si esclude, invece, in modo prevalente l’applicazione dell’art. 36 Cost. sulla retribuzione proporzionata e sufficiente che riguarda soltanto il lavoro subordinato. Ne consegue che il corrispettivo dovrà essere commisurato all’opera o servizio prestato senza tener conto, più in generale, delle esigenze di vita del lavoratore e della sua famiglia.

Quanto sopra esposto circa le differenze tra lavoro subordinato, autonomo e di parasubordinazione induce ad utilizzare nella materia in esame la logica fuzzy per misurare la subordinazione e quindi differenziare il modello lavoro subordinato dagli altri due sopra indicati.

La necessità di misurare correttamente la subordinazione emerge sia nelle fasi di screening e monitoring delle singole posizioni, sia nell’ottica più ampia della definizione della prestazione di lavoro subordinato. In questi ultimi anni, tuttavia, l’importanza di un efficace controllo e gestione del rischio di qualificare una prestazione di lavoro subordinata o meno è aumentata, in virtù di alcuni cambiamenti del quadro di riferimento giuridico, sociale ed economico.

Tutti questi fattori hanno amplificato l’interesse delle imprese verso i modelli di flessibilità, di lavoro autonomo (cfr. a-subordinato) e parasubordinato. Con questo lavoro si vuole, innanzitutto, illustrare quali sono le peculiarità della logica fuzzy

161[1] applicata al diritto del lavoro come metodo innovatore per individuarne il tipo. A questo fine i paragrafi 1 e 2 sono dedicati all’analisi dei concetti di insieme fuzzy, funzione di appartenenza e variabile linguistica.

Il secondo obiettivo è mettere in relazione il concetto di subordinazione con quello di logica fuzzy, illustrando il funzionamento di un metodo inferenziale fuzzy per la valutazione del tipo di prestazione.

161[1]Si è scelto di mantenere il termine fuzzy perché è difficile trovare un vocabolo italiano che abbia le stesse proprietà di quello inglese. Fuzzy si può tradurre come sfocato, indistinto, ma questi termini non sono sostituibili all’originale in tutti i contesti.

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La logica fuzzy ha operato una rivoluzione copernicana. Al centro dell'attenzione non è più soltanto il modello matematico del sistema, tanto più che si tratta di un sistema spesso elusivo, con caratteristiche mutevoli e non classificabili con sicurezza. Vi è invece il comportamento di un operatore umano, che adotta regole sorprendentemente semplici ma efficaci. L'attenzione si sposta sul procedimento mentale di una persona che pensa a come cavarsela di fronte a una novità. Questo procedimento, più intuitivo che rigidamente matematico, non è però approssimativo o privo di basi cognitive. Il supporto matematico e il rigore logico vengono mantenuti attraverso l'uso delle funzioni di appartenenza e delle regole inferenziali basate sugli operatori logici And Or Not, tanto è vero che il procedimento di "fuzzificazione" e "defuzzificazione" (il passaggio dai valori numeri ci alle regole di comportamento e viceversa) può essere svolto ad esempio da un software in C. Le case costruttrici di microelettronica (come National, Motorola, Omron) offrono supporti hardware e software per implementare soluzioni fuzzy.

La messa a punto delle regole, (c.d.tuning), la scelta delle variabili più adatte a descrivere il sistema, la scelta degli aspetti da privilegiare o da ritenere secondari è la fase più importante della logica fuzzy.

Nella fuzzy logic assume un valore enorme l'esperienza di operatori che in precedenza hanno affrontato gli stessi problemi. Le regole fuzzy nascono proprio da questa esperienza, dal fatto che qualcuno ha adottato prima di noi strategie rivelatesi efficaci. Pensate a quando abbiamo iniziato questo nostro terribile, ma affascinante lavoro di insegnanti: siamo andati in cerca di informazioni e consigli rivolgendoci ai colleghi più esperti, o di opinioni diverse dalle nostre (e vi esorto a continuare a farlo anche se vi manca poco alla pensione!), poi ci abbiamo rimuginato un po' e ci siamo fatti le nostre regole, sperando di far prima e meglio.

Con la fuzzy logic è possibile applicare contemporaneamente più regole, diminuendo il tempo di elaborazione che occorrerebbe se affrontassimo i problemi in modo rigorosamente sequenziale.

La logica tradizionale occidentale, di cui Aristotele è giustamente ritenuto il fondatore, poggia su fondamenta che possono essere linguisticamente rappresentate dall'aggettivo "binario".

Ad ogni asserzione infatti può essere attribuito un valore "vero" o "falso", 1 oppure 0, bianco oppure nero. Tale modo di pensare esclude quindi a priori ogni possibile mediazione tra queste due posizioni "estreme". Si ha infatti la contraddizione (il cosiddetto "buco nero" della logica aristotelica) proprio quando una asserzione è contemporaneamente vera e falsa.

Questi concetti rivestono un'importanza chiave nella matematica, in quanto per parlare di insiemi e di elementi è essenziale poter stabilire il grado di verità (0 oppure 1, appunto) della affermazione: "x è un elemento dell'insieme A".

E' necessario approfondire l'argomento con un minimo di formalizzazione, per comprendere il senso della rivoluzione "copernicana" implicita nella logica "fuzzy".

Supponiamo di avere un insieme globale U di "universo", che contiene tutti gli "oggetti" che intendiamo trattare. Gli insiemi A che ci interessano sono quindi sottoinsiemi di U (si dice anche che sono contenuti in U) e si scrive A U. L'appartenenza dell'elemento x all'insieme A (x A) è descrivibile mediante la funzione caratteristica di A o funzione "membership" (di appartenenza) MA. Questa funzione non

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è altro che l'associazione a ogni "oggetto" x U del numero 0 se x non è elemento di A (x A), o del numero 1 se invece x A. Si usa scrivere qualcosa del genere:

MA: U 0,1 che si legge "MA è definita in U a valori nell'insieme costituito da 0 e 1"

x U: x A MA(x)=0

x A MA(x)=1

Un insieme, con tutte le sue proprietà, è individuato dalla sua funzione membership. Mediante le funzioni membership (ogni insieme ha la sua) è inoltre facile definire, in termini di operazioni algebriche, le varie operazioni tra insiemi: passaggio al complementare, intersezione, unione ecc. Dato un qualsiasi insieme A (e un qualsiasi insieme B):

il complementare di A rispetto ad U (cioè la sua "negazione") si indica con ~A e ha la funzione membership: M~A(x)=1-MA(x); l'unione di A e B (A B) è definita dalla funzione MA B(x)=MAX(MA(x), MB(x)); analogamente, l'intersezione A B è definita dalla funzione MA

B(x)=MIN(MA(x), MB(x)).162

Questo non è altro che la riconferma del principio di non contraddizione. La mediazione tra posizioni contraddittorie non trova alcuno spazio in questa logica.

Il nostro modo di pensare e di affrontare i problemi che le situazioni reali pongono hanno ben poco di bivalente. Pensare attraverso i principi della logica bivalente significa non contraddire i principi basilari di tale logica: il principio di non contraddizione e il principio del terzo escluso.

Ricordiamo brevemente che il primo principio afferma che un generico elemento x non può appartenere contemporaneamente ad un insieme A ed al suo complemento Ac; il secondo principio afferma che l'unione di un insieme con il suo complemento produce l'insieme universo, chiamato X, al quale appartiene qualunque elemento x. Cosa significa questo in termini pratici?

Consideriamo un gruppo di persone, e decidiamo di voler discutere intorno alla loro altezza. All'interno di questo gruppo ci saranno delle persone alte e delle persone basse (non alte), ma sicuramente ci sarà anche un insieme di persone che avremmo difficoltà a definire alte, oppure basse, dal momento che ci sembreranno"abbastanza alte" o "non proprio basse". La teoria degli insiemi classici ci permette di affermare che X 162 Osservazione: la funzione membership della intersezione (cioè la parte comune) tra A e la sua negazione ~A assume valore nullo in tutto l'universo U. Infatti: se x A si ha che MA(x)=1; quindi M~A(x)=1-MA(x)=1-1=0; quindi MIN(1,0)=0;

se invece x A si ha che MA(x)=0; quindi M~A(x)=1-MA(x)=1-0=1; quindi MIN(0,1)=0.

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appartiene all'insieme delle persone alte, o che Y appartiene all'insieme delle persone basse,

Questa convinzione che le cose possano essere solo "zero" o "uno" muove fin dall'antichità. Si pensi alla logica binaria di Aristotele che si riduce ad asserire A o Non-A. Heisenberg dimostrò ai fisici come non tutti gli enunciati della fisica siano necessariamente veri o falsi. Bertrand Russell scopri il paradosso del mentitore di creta: Un cretese afferma che tutti i cretesi mentono, egli mente? Persino Einstein aveva tratto le sue considerazioni sul chiaroscuro della logica fuzzy: "Nella misura in cui le leggi della matematica si riferiscono alla realtà non sono certe. E nella misura in cui sono certe, non si riferiscono alla realtà".

Bart Kosko chiamo tutto questo "il problema della non-corrispondenza: il problema è in chiaroscuro ma la scienza non contempla che il bianco o il nero assoluti." Parliamo sempre in termini di zero o uno ma la verità sta nella via di mezzo.

La scienza descrive il mondo attraverso degli enunciati che non sono interamente veri o interamenti falsi, non sono bivalenti ma polivalenti, la loro verità totale sta nella via di mezzo, nei grigi chiaroscuri fuzzy. Tutte le convinzioni scientifiche possono essere fatte crollare da una nuova esperienza. L'affermazione un filo d'erba è verde è messa in crisi dal filo d'erba che diventa marrone.

Le leggi della scienza non sono leggi o meglio, non lo sono nell'accezione di leggi logiche come 2+2=4. Queste leggi fissano semplicemente le osservazioni eseguite in tempi vicini nell'angolo di universo a noi conosciuto.

Per anni si è continuato ad ignorare l'aspetto fuzzy del mondo e invece che approfondirlo si è fatto di tutto per affondarlo ed ignorarlo. Neppure Einstein offriva alternative, anzi, fermo nella sua veste di scienziato aggiunse una nuova teoria della bivalenza: il concetto di probabilità. Secondo la teoria matematica del caso ad ogni evento può essere associato un numero per rappresentare la probabilità del suo verificarsi. In generale la somma della probabilità che un evento si verifichi e quella che ciò non accada è uno.

La probabilità svanisce con l'aumento dell'informazione. Sembra quindi che la probabilità possa risolvere il problema della visione fuzzy

del mondo e della visione con la logica classica. Invece non fa altro che aggravare la situazione, si occupa infatti di bianco o nero, testa o croce, si focalizza su due eventi precisi. Nonostante la sua importanza, nemmeno la probabilità è riuscita ad attenuare le discrepanze tra logica e dati di fatto.

La caratteristica fondamentale dell’approccio fuzzy è la ridefinizione del concetto di appartenenza ad un insieme, o meglio la generalizzazione del criterio di definizione di un insieme. Lofti Zadeh fece notare come spesso in natura non ci si trovi di fronte a insiemi nettamente separati, a cui si possano applicare principi dell’insiemistica classica come quello della non contraddizione o quello del terzo escluso.

In moltissimi casi esistono intrinsecamente ambiguità e gli insiemi non sono quindi definibili in modo strettamente matematico.

La generalizzazione del concetto di insieme viene effettuata ridefinendo in maniera quantitativa il concetto di appartenenza, associando ad ogni elemento una coppia: la classe ed il grado di appartenenza a quella classe.

Il passo successivo, dopo la definizione degli insiemi fuzzy, è l’approdo ad una teoria applicativa rispetto al concetto innovativo dell’appartenenza graduata. Si arriva

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quindi alla logica fuzzy, formalizzazione matematica di metodi di ragionamento basati su una graduale separazione tra vero e falso e su informazioni consistenti, ma non definite con precisione: procedimenti molto simili ai processi decisionali umani.

Aspetti molto comuni del vivere quotidiano si relazionano con concetti di indeterminatezza.

La logica fuzzy può essere vista come un’estensione della logica multivalori, ma i suoi campi applicativi sono abbastanza differenti. Perciò il fatto che questo tipo di logica abbia a che fare con metodi di ragionamento ”approssimato” più che con metodi precisi implica che in generale il rigore non gioca, in questo ambito, un ruolo così importante come nella logica classica. Possiamo quindi affermare che nella logica fuzzy tutto, incluso la verità, è qualcosa di graduato. Il grande potere espressivo della logica fuzzy deriva dal fatto che essa contiene, come casi particolari, non solo le logiche classiche a due valori e multivalori, ma anche la teoria della probabilità. Cominciamo dando la la definizione di insieme fuzzy.

Un insieme fuzzy è un insieme il cui confine non è ”crisp”, cioè non è netto. In altre parole quando si parla di appartenenza di un elemento ad un insieme fuzzy si può parlare al tempo stesso di grado di appartenenza.

Enunciamo di seguito le caratteristiche principali che differenziano le logiche tradizionali da una logica fuzzy:

1. Nella logica a due valori una proposizione p è vera o falsa. Nei sistemi multivalori una proposizione p può essere vera o falsa o assumere un valore intermedio che può essere un elemento di un insieme T finito o infinito. Nella logica fuzzy invece i valori veri sono tutti quelli permessi in un intervallo determinato dai sottoinsiemi fuzzy di T. Per capire diciamo che se T è l’intervallo [0; 1], allora un valore vero in logica fuzzy, per esempio molto vero, può essere interpretato come un sottoinsieme fuzzy dell’intervallo T. Allo stesso modo poco vero o altri. Pensiamo ad esempio di dover dare un giudizio di altezza su di una persona. Si potrà dire che questa persona è molto alta, poco alta, abbastanza alta, bassa. Tutti questi sono sottoinsiemi fuzzy del più grande insieme ”altezza”. In questo senso un valore fuzzy può essere visto come una caratterizzazione imprecisa di un valore vero numerico.

2. I predicati in una logica a due valori devono essere precisi, nel senso che gli aggettivi utilizzati possono essere del tipo ”vero o falso”. Nella logica fuzzy invece si possono utilizzare attributi come ”mortale”, ”sempre”, ma più in generale aggettivi come ”malato”, ”alto”, ”largo”, ”stanco”.

3. La logica a due valori e multivalori permette l’uso di due soli quantificatori: ”tutto” e ”qualcuno”. In contrapposizione la logica fuzzy permette l’uso di quantificatori tipo ”parecchi”, ”molti”, ”frequentemente”. Questi quantificatori possono essere interpretati come numeri fuzzy che forniscono una caratterizzazione imprecisa della cardinalità di uno o più insiemi fuzzy o non fuzzy.

4. Nella logica a due valori una proposizione p può essere qualificata con un attributo: ”vero” o ”falso”. La logica fuzzy invece permette l’uso di tre tipi principali di qualificatori:

a) Qualificatori di verità come ”molto vero”, ”vero”, ”poco vero” oltre che

”falso”.

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b) Qualificatori di probabilità come ”probabilmente” o ”improbabile”.

c) Qualificatori di possibilità come ”possibilmente”.

Si può quindi asserire che la logica fuzzy ha due significati differenti. In un senso stretto la logica fuzzy è un’estensione della logica multivalori, ma in un senso più vasto, che poi è quello più in uso, è sinonimo di Teoria degli insiemi fuzzy. Una tale teoria è qualcosa che ha a che fare con la classe di oggetti con contorni non netti in cui l’appartenenza è un grado di libertà. Qualsiasi dei due significati si prenda in considerazione è chiaro che lo spirito e la sostanza di una logica fuzzy sono ben diversi da quelli di una logica multivalori.

Quindi, la transizione alla logica fuzzy (“buddista”) si attua ammettendo che la funzione membership possa assumere tutti i valori dell'intervallo [0,1] e non solo i valori estremi 0 e 1. Questo significa accettare la possibilità che un certo oggetto x "appartenga solo in parte" all'insieme A. In altri termini, il valore numerico MA(x) è il grado di appartenenza di x ad A. Se MA(x)=0, x non è in A; se MA(x)=1, x è totalmente (100%) in A; se MA(x)=0.35, x appartiene al 35% ad A; e così via.

L'insieme definito tramite una siffatta funzione di appartenenza è detto "insieme fuzzy", (insieme sfocato), perché i suoi elementi non sono "del tutto suoi".

Le operazioni tra insiemi fuzzy si effettuano lavorando sulle corrispondenti funzioni membership, in maniera formalmente identica a quanto visto con gli insiemi aristotelici.

Le funzioni membership che si usano in pratica sono molto semplici: sostanzialmente triangoli e trapezi. Sono però utili anche i cosiddetti "singleton", che assumono valore 1 in corrispondenza di specifici valori della variabile x, che d'ora in poi considereremo numerica.

Uno degli elementi fondamentali della logica fuzzy è il concetto di variabile

linguistica ossia di una variabile i cui valori siano parole più che numeri. E' per questo che la logica fuzzy ha molto in comune con l’intuizione e il pensiero umano. E' chiaro che, se nella risoluzione di un problema posso tollerare maggiormente le imprecisioni, riuscirò ad abbassare la complessità dei metodi utilizzati per raggiungere la soluzione.

Un altro elemento fondamentale è il concetto di regola fuzzy. In una regola del tipo

if (x1 is A1) and (x2 is A2) and ... (xi is Ai) and ... (xn is An) then

y1 = B1, y2 = B2, ... yi = Bi, ... ym = Bm

si chiamano antecedenti della regola ognuno dei termini (xi is Ai) e si chiamano conseguenti quelli del tipo (yi = Bi).

Sebbene esistano altri sistemi basati su regole, appartenenti ad un più vasto insieme denominato intelligenze artificiali, come la fuzzy, nessuno di questi possiede il motore che lavori con gli antecedenti ed i conseguenti della regola..

Nella logica fuzzy questa macchina è fornita dal calcolo delle regole fuzzy. Vediamo ora alcuni riscontri che questo tipo di logica ha nel linguaggio parlato. La logica è la scienza che sancisce i principi formali della ragione. In questo

senso la logica fuzzy ha a che fare con i principi formali del pensiero ”approssimato” e

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considera il ragionamento preciso come caso limite. In altre parole il fulcro della logica fuzzy è che, diversamente dai sistemi logici classici, essa mira a modellare un modo impreciso di ragionare. Quest’ultimo gioca invece un ruolo essenziale nella abilità umana di prendere decisioni razionali in un ambiente di incertezze e imprecisioni. Questa abilità dipende dalla nostra capacità di ”inferire” una risposta appropriata da una domanda che è inesatta, incompleta o totalmente inaffidabile.

L’inferenza può essere pensata come una deduzione intesa a provare o sottolineare una conseguenza logica. Altresì per inferenza si può intendere un procedimento di generalizzazione dei risultati ottenuti attraverso una rilevazione parziale dei campioni.

La violazione della legge del terzo escluso non modifica solo le procedure di ripartizione in classi di collezioni di elementi. L’insieme fuzzy, infatti, è uno strumento efficace anche per rappresentare la natura intrinsecamente imprecisa del mondo reale e per ideare un sistema innovativo per l’inferenza di fenomeni complessi come quelli giuridici.

Secondo le tecniche tradizionali di analisi la comprensione di un fenomeno coincide con la capacità di descriverlo in termini quantitativi, in genere tramite equazioni alle differenze, differenziali e integrali. I modelli matematici utilizzati per questo fine hanno la caratteristica comune di operare semplificazioni e astrazioni per giungere ad una rappresentazione formale dei dati a disposizione e del problema oggetto di studio. Nel caso di fenomeni troppo complessi (nei quali le dipendenze tra variabili sono non lineari e non vi è un modello di riferimento per definirle in termini quantitativi) o mal definiti (poiché le informazioni a disposizione sono imprecise) le metodologie classiche sono inadatte o perché incapaci di produrre modelli di analisi o perché tali modelli risultano incoerenti rispetto alla realtà. Queste problematiche sono tipiche dei fenomeni economici e finanziari e avvalorano l’esistenza del principio di incompatibilità, secondo il quale “Allorché aumenta la complessità di un sistema, diminuisce la nostra capacità di fare enunciati precisi e significativi sul suo comportamento, finché si raggiunge una soglia oltre la quale la precisione, da un lato, e il significato (o l’aderenza), dall’altro, diventano caratteristiche quasi reciprocamente escludentesi.(…) Un corollario può essere succintamente così enunciato: più da vicino si considera un problema concernente il mondo reale, più fuzzy diventa la sua soluzione”163. Più aumenta la precisione, più emerge la natura fuzzy delle cose.

Secondo la logica fuzzy, nei casi di questo tipo è necessario abbandonare la formulazione tramite misure precise preferendo tecniche di analisi che imitino il processo cognitivo umano. L’uomo, infatti, dimostra un’innata abilità nel ragionare e prendere decisioni efficienti in condizioni di incertezza e imprecisione, e nell’analizzare masse di dati e fenomeni complessi. Tutti questi processi di ragionamento si fondano su percezioni (della distanza, della direzione, della rischiosità ecc.) che sono le unità elementari della conoscenza.

Tali percezioni sono accomunate da alcune proprietà quali la parzialità, la dipendenza dal contesto di riferimento e la granularità. Con questo termine si fa riferimento al fatto che l’uomo tende a strutturare le informazioni in granuli, ossia in categorie di oggetti raggruppati in base a caratteristiche comuni come la somiglianza, l’indistiguibilità, la prossimità. Di conseguenza, la superiorità del ragionamento umano 163 Zadeh, L.A., “From circuit theory to system theory”, Proceedings IRE, vol.50, 1961, pp.856-865.

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rispetto a quello matematico è imputabile essenzialmente a due fattori: la tolleranza nei confronti dell’imprecisione e la capacità di sintesi, ossia di estrarre da un vasto numero di informazioni quel sottoinsieme di dati necessario per prendere una decisione razionale. In virtù di queste due caratteristiche, infatti, è possibile manipolare gli elementi primari della conoscenza, le percezioni, ed esprimerli in forma di granuli, ossia di insiemi fuzzy. Lo strumento utilizzato per queste operazioni è il linguaggio naturale, mezzo principale di comunicazione, caratterizzato dalle stesse proprietà di sintesi e di flessibilità rispetto al contesto, dei concetti che rappresenta.

La teoria del calcolo linguistico si propone, quindi, di fornire un corpo di regole per l’inferenza che, unendo la matematica fuzzy al linguaggio naturale, consentano di trattare dati quantitativi in forma di parole per mantenere la valenza intuitiva del ragionamento umano.

Il primo passo consiste in una diversa interpretazione della struttura e delle funzioni del linguaggio.

Dato il linguaggio naturale L, si definisce x una generica parola. Ogni x può

essere visto come il risultato di una descrizione sintetica di un insieme fuzzy ( )xM

appartenente all'universo dei discorsi U, dove ( )xM rappresenta il significato di x , ossia racchiude tutte le percezioni del concetto descritto sommariamente dalla parola x . Pertanto, il linguaggio è composto di elementi che sono detti labels, etichette di insiemi fuzzy, ed è definito come un sistema per assegnare a tali insiemi i labels che li descrivono.

Su questa base è possibile definire in modo diverso le variabili di un problema. Si consideri, ad esempio, l’analisi del rischio affrontato da un operatore. I modelli classici di analisi in genere si basano su un approccio di tipo probabilistico che considera la probabilità della perdita economica, l’entità della stessa e l’affidabilità della stima. Questa impostazione, tuttavia, può sperimentare numerosi ostacoli alla sua applicazione. Innanzi tutto, necessita di una notevole quantità di dati che non sempre possono essere reperibili, poiché l’ambito nel quale si svolge il processo studiato è complesso e dinamico.

Soprattutto per alcuni fattori, come le possibili fonti di rischio o l’impatto delle perdite sugli operatori, è piuttosto frequente che le informazioni a disposizione non siano esaustive e l’incertezza derivante dall’imprecisione della conoscenza è uno dei casi più tipici per la logica fuzzy. Inoltre, molti elementi necessari all’analisi del rischio sono intuitivi e soggettivi, quindi non esprimibili in termini numerici.

Per questi motivi, il rischio può essere trasformato in una variabile linguistica, ossia una variabile i cui valori sono labels di insiemi fuzzy. Il procedimento da seguire prevede l’individuazione degli attributi linguistici, come “alto”, “medio”, ecc, che possono descrivere l’andamento quantitativo della variabile. Ad ognuno di questi si assegna un insieme, che include una parte dei possibili valori numerici che la variabile rischio può assumere e che viene inserito nel suo dominio al posto di quest’ultimi. La figura 1 descrive graficamente il legame tra i vari elementi.

La definizione di una variabile linguistica implica, sostanzialmente, l’applicazione di un vincolo elastico, ai valori crisp di partenza. Infatti, ogni attributo linguistico opera come una restrizione sull’intera scala di questi valori, vincolandoli alle funzioni di appartenenza degli insiemi assegnati. I gradi di appartenenza esprimono la

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compatibilità tra il concetto linguistico espresso dai labels e il valore numerico di partenza.

In termini più rigorosi, si può affermare che il linguaggio L è uno strumento per stabilire una corrispondenza tra un insieme di termini T e un universo del discorso U (per semplicità si assume che T sia un insieme crisp). Questa corrispondenza è caratterizzata da una relazione fuzzy da T in U, che associa ad ogni termine x in T e a ogni oggetto y

in U il grado ( )yx,µ al quale x aderisce a y . Per esempio, se giovanex = e

anniy 23= , allora ( )23,giovaneµ potrebbe essere 0.9 (o un altro valore, secondo come è stato definito l’insieme di riferimento).

Una relazione fuzzy R dall’insieme X all’insieme Y è un sottoinsieme del

prodotto Cartesiano164 YX × , dove YX × è l’insieme di coppie ordinate ( )yx, , YyXx ∈∈ , .

R è caratterizzata da una funzione di appartenenza bivariata ( )yxR ,µ e si esprime

( ) ( )yxyxRYX

R ,/,∫ ×≡ µ

.

Di conseguenza, dato un certo attributo x , la funzione di appartenenza ( )yx,µ

definisce un sottoinsieme fuzzy ( )xM di U, la cui funzione di appartenenza è data da

( )( ) ( )yxyx ,µµµ ≡ , ,Tx ∈ Uy ∈

Questo sottoinsieme fuzzy è, ovviamente, il significato di x e la relazione fuzzy è il vincolo imposto ai valori di partenza della variabile.

Oltre alle parole, considerate termini primari, le variabili linguistiche possono assumere anche valori complessi, ossia generati dalla concatenazione di più elementi. La teoria, infatti, definisce altre classi di termini, come le negazioni e i connettori logici (and, or), oppure come gli hedges (molto, abbastanza, ecc.) che hanno la funzione di generare insiemi più ampi per la variabile linguistica cui si riferiscono.

Pertanto, se la conoscenza relativa ad un fenomeno è esprimibile con un insieme di frasi, in conformità a quanto detto finora, ogni frase espressa in linguaggio naturale è interpretabile come una rete di vincoli fuzzy e l’informazione contenuta in ognuna è trasmessa proprio in virtù dell’applicazione di tali restrizioni ai valori delle variabili.

164 Sia A un sottoinsieme fuzzy dell’universo del discorso U, e sia B un sottoinsieme fuzzy dell’universo del discorso V.

Il prodotto Cartesiano dei due insieme fuzzy BA × è definito da

( ) ( ) ( )vuvuBA BVU

A ,/µµ ∩≡× ∫ ×

dove VU × indica il prodotto Cartesiano dei due insiemi crisp U e V.

Questa definizione sostanzialmente significa che BA × è un insieme fuzzy di coppie ordinate ( )vu, il cui grado di

appartenenza a BA × è dato da ( ) ( )vu BA µµ ∩ .

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Le regole del calcolo linguistico, che consentono di estendere ed esplicitare tali vincoli tra i vari termini, sono gli strumenti fondamentali per eseguire un processo di inferenza fuzzy

165. L’elemento comune a tutti i sistemi inferenziali fuzzy, infatti, è la formalizzazione

di un algoritmo di regole del tipo “IF A THEN B”. Si tratta di un metodo utilizzato anche dalla logica matematica per descrivere in parole la funzione tabellare di una relazione di dipendenza tra due variabili. La prima parte è detta premessa e prevede l’introduzione anche di più di una variabile tramite il connettore logico AND, mentre la seconda parte è la conclusione. Nel caso del loro utilizzo in un sistema fuzzy, naturalmente le variabili saranno linguistiche e non crisp.

Inserite in un sistema inferenziale le regole servono per rappresentare basi di dati e concetti euristici, vale a dire la conoscenza degli esperti del settore e i processi che generano i giudizi emessi da tali soggetti riguardo al loro campo di attività. Il blocco di regole di un sistema svolge la funzione di replicare il comportamento di un decisore umano, attraverso la rappresentazione in termini linguistici delle relazioni tra le variabili di input e quelle di output.

Il sistema che si ottiene è caratterizzato da una migliore capacità di interazione con l’operatore umano, poiché l’utilizzo del linguaggio al posto della formulazione matematica lo rende più comprensibile. Questo fatto migliora le prestazioni del sistema e ne consente l’applicazione ai problemi non lineari e a quelli influenzati dall’azione dell’uomo.

L’inferenza sui dati consiste nel fatto che, una volta definiti i domini delle variabili tramite insiemi fuzzy, le categorie degli input sono collegate attraverso le regole con quelle degli output. Successivamente si aggregano le risposte e si applica un’operazione di defuzzificazione per tornare ad un valore non linguistico.

I sistemi di questo tipo hanno avuto un notevole successo in questi ultimi anni e sono utilizzati in molti settori diversi, dal supporto alle decisioni (come ad esempio i sistemi per le diagnosi mediche) al controllo dei processi industriali, fino alla valutazione degli investimenti finanziari.

3.7 - Un sistema fuzzy per la subordinazione

In questo paragrafo si descrive il procedimento che porta alla creazione di un

sistema inferenziale fuzzy per la valutazione, nella fase di screening, della qualificazione del rapporto di lavoro quale subordinato.

L’ideazione del sistema fuzzy si articola lungo sei fasi, che si basano su un approccio al problema di tipo input-output:

a)definizione delle variabili del modello,

b) fuzzificazione di queste,

c) determinazione del blocco di regole,

d) scelta della procedura di aggregazione,

165 Lo studio della teoria del calcolo linguistico richiederebbe una trattazione a parte, data la sua complessità e, soprattutto, varietà di approcci. Alcuni concetti sono illustrati nel paragrafo 3, in relazione al sistema descritto. Per ulteriori approfondimenti vedi Kaufmann, A. e Gupta, M.M., “Introduction to Fuzzy Arithmetic: Theory and

Applications”, Von Nostrand, New York, 1985.

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e) inferenza sui dati,

f) defuzzificazione del risultato.

Nella scelta degli operatori di aggregazione si è fatto riferimento al modello di Mamdani e Assilian166, che è stata la prima applicazione del calcolo linguistico ad un problema di controllo ed è ancora molto utilizzato in virtù della sua semplicità.

La prima fase prevede la definizione di quali sono gli input del modello, ossia quali sono le informazioni utili per delineare il profilo di rapporto di lavoro e che, quindi, saranno inserite nel sistema e trasformate in valori fuzzy.

Al primo gruppo di dati appartengono, ovviamente, gli indicatori, che verranno individuati utilizzando le pronunzie della giuridsprudenza.

Infatti, la giurisprudenza è autorefenziale nei confronti dell’ordinamento ed anche con se stessa e, quindi, utilizzare gli atti prodotti, consente di mettere in evidenza l’aspetto autopoietico del sistema giuridico.

L’autorefenzialità, cioè la prassi o lo stile di fare riferimento ai propri precedenti, è una delle tecniche a cui ricorre la giurisprudenza italiana, spesso anche quando è creativa. L’autorefenzialità è documentata dalle massime e dalle motivazioni delle decisioni. Il precedente che costituisce nel common law il fulcro del sistema, non è stato mai considerato un modello obbligatorio per legge, ma lo è diventato sotto due punti di vista: grazie al ruolo nomofilattico della Corte di Cassazione (art.65 della legge sull’ordinamento giudiziario) e grazie alla prassi forense e agli indirizzi della giurisprudenza di merito, che tendono ad adeguarsi ai dicta della Suprema Corte167.

Giova premettere che a fini della qualificazione del rapporto di lavoro, poiché l'iniziale contratto è causa d'un rapporto che si protrae nel tempo, la volontà che esprime e lo stesso nomen iuris che utilizza, pur necessari elementi di valutazione, non costituiscono fattori assorbenti; ed il comportamento posteriore alla conclusione del contratto diventa elemento necessario non solo (per l'art. 1362 secondo comma c.c.) all'interpretazione dello stesso iniziale contratto (Cass. 22 giugno 1997 n. 5520), bensì all'accertamento di una nuova diversa volontà eventualmente intervenuta nel corso della relativa attuazione e diretta a modificare singole clausole e talora la stessa natura del rapporto di lavoro inizialmente previste; e pertanto in caso di contrasto fra iniziali dati formali e successivi dati fattuali (emergenti dallo svolgimento del rapporto), questi assumono necessariamente un rilievo prevalente.

Qui viene in rilievo la questione del ruolo del soggetto nell’attività da questi svolta, più che la volontà espressa e forma da questa assegnata al rapporto.

Ecco che nell'ambito di questo concreto svolgimento, l'elemento distintivo del rapporto di lavoro subordinato è l'assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore, con la conseguente limitazione della sua autonomia ed il suo conseguente inserimento nell'organizzazione aziendale (Cass. 4 marzo 1998 n. 2370, 25 luglio 1994 n. 6919). A questi si aggiungono dati di natura più generale come l'assenza di rischio, la continuità della prestazione, l'osservanza d'un orario e la forma della

166 Mamdani, E.H. e Assilian, S. “An experiment in linguistic synthesis with a fuzzy logic controler”, International Journal of Man-Machine studies, 7, 1975 pp 1-13. 167 F.GALGANO, Il precedente giudiziario in civil law, in Atlante di diritto privato comparato, Bologna 1990, pp.30 e ss.

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retribuzione assumono natura meramente sussidiaria e non decisiva (Cass. 15 maggio 1991 n. 5409, 29 marzo 1990 n. 2553).

Il fattore nuovo è costituito dall’inserimento nel sistema dei dati qualitativi. La giurisprudenza è solita valutare tutta una serie di indici. tra i più significativi:

il fatto che l'attività lavorativa si volga presso i locali aziendali;

una presenza costante sul lavoro, specie se ad orario fisso e caratterizzata da

un vero e proprio obbligo di presenza (e dunque con necessità di avvertire e di

giustificarsi in caso di assenza);

il concordare il periodo feriale;

l'utilizzo, per lo svolgimento dell'attività lavorativa, di strumenti di proprietà

del datore di lavoro;

il ricevere costantemente ordini e disposizioni;

la mancanza, in capo al lavoratore, di una propria attività imprenditoriale e

della relativa struttura, sia pur minima.

Nessuno degli elementi sopra indicati è, di per sé, determinante ma, laddove sia riscontrabile la contemporanea presenza di più indici tra quelli esemplificativamente indicati, ciò potrà costituire una prova della natura subordinata del rapporto.

A tal fine riportiamo alcune massime da cui è facile astrarre una serie di indici come sopra indicati

1. Requisiti determinanti ai fini della distinzione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato sono ravvisabili:

a) nell'assoggettamento del lavoratore al potere organizzativo, gerarchico e

disciplinare del datore di lavoro - potere che deve estrinsecarsi in specifici ordini (e non

in semplici direttive, compatibili anche con il lavoro autonomo) -,

b) nell'esercizio di una assidua attività di vigilanza e controllo

sull'esecuzione dell'attività lavorativa;

c) nello stabile inserimento del lavoratore nell'organizzazione aziendale del

datore di lavoro;

d) il rischio economico dell'attività lavorativa e la forma di retribuzione

hanno, invece, carattere sussidiario (e sono utilizzabili specialmente quando nel caso

concreto non emergano elementi univoci a favore dell'una o dell'altra soluzione), fermo

restando che l'accertamento sull'esistenza o meno del vincolo di subordinazione è

insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione adeguata e immune da vizi

logici e giuridici (Cass. 11/9/00, n. 11936, pres. De Musis, in Orient. giur. lav. 2000,

pag. 642) ;

2. Nelle situazioni ove, per la particolare attività (come in alcune forme di lavoro in agricoltura), alcuni aspetti (orari, mansioni) non assumono natura rigida, il mero

inserimento del lavoratore nell'azienda non è parametro di qualificazione nel senso della subordinazione, né può costituire elemento esclusivo per dedurre la subordinazione stessa; il parametro di qualificazione si risolve, quindi, necessariamente negli elementi (non diversamente deducibili) dei quali l'inserimento è mera conseguenza:

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a) la sussistenza e la permanenza dell'obbligo del lavoratore di mantenere a

disposizione del datore l'attività lavorativa nella sua indifferenziata materialità (come

operae);

b) la sussistenza e la permanenza del suo conseguente assoggettamento al

potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro stesso (Cass. 25/2/00, n. 2171, pres.

Bucarelli, in Riv. it. dir. lav. 2001, pag. 212, con nota di Ponari, Violazione del dovere

di esclusiva nel rapporto di pubblico impiego e qualificazione della prestazione vietata);

3. Ai fini della distinzione tra lavoro autonomo e subordinato, quando l'elemento dell'assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile a causa della peculiarità delle mansioni (e, in particolare, della loro natura intellettuale o professionale) e del relativo atteggiarsi del rapporto, occorre fare riferimento a criteri

complementari e sussidiari - come quelli: a) della collaborazione,

b) della continuità delle prestazioni,

c) dell'osservanza di un orario determinato,

d) del versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita,

e) del coordinamento dell'attività lavorativa

f) dell'assetto organizzativo dato dal datore di lavoro,

g) dell'assenza in capo al lavoratore di una sia pur minima struttura

imprenditoriale –

che, privi ciascuno di valore decisivo, possono essere valutati globalmente con indizi probatori della subordinazione (Cass. 26/8/00, n. 11182, pres. Trezza, in Orient. giur. lav. 2000, pag. 648)

4. Nelle prestazioni professionali di alto profilo, come l'esercizio della professione medica, la subordinazione, intesa come assoggettamento al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, risulta necessariamente più attenuata e sfumata. In tal caso è necessario fare riferimento al potere direttivo

dell'imprenditore non con riguardo al contenuto delle prestazioni, né alle loro modalità sotto il profilo tecnico, ma ai limiti esterni dell'attività professionale, vale a dire all'inquadramento della prestazione nell'ambito dell'organizzazione aziendale, fermo restando che, per aversi subordinazione, non è necessario che il potere direttivo del datore di lavoro si esplichi mediante ordini continui o che la vigilanza svolta sul lavoratore sia strettamente vincolante, potendo l'assoggettamento realizzarsi attraverso direttive programmatiche o di coordinamento dell'attività del lavoratore medesimo (Corte Appello Potenza 12/10/00, pres. Scermino, est. Vetrone, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 924);

5. Ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come autonomo o subordinato deve farsi riferimento al concreto atteggiarsi del rapporto stesso e alle sue specifiche modalità di svolgimento, potendo il richiamo alla iniziale volontà delle parti, cristallizzatasi nella redazione del contratto di lavoro, valere come elemento di

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valutazione ai fini dell'identificazione della natura del rapporto solo se ed in quanto le

concrete modalità di svolgimento dello stesso lascino margini di ambiguità e/o

incertezze (Cass. 9/6/00, n. 7931, pres. De Musis, in Orient. giur. lav. 2000, pag. 663) ;

6. L’elemento caratterizzante il lavoro subordinato è il vincolo della subordinazione, inteso come inserimento del lavoratore nell’organizzazione dell’impresa in via continuativa e sistematica, nonché come esercizio di una costante vigilanza del datore di lavoro sull’operato del lavoratore, mentre hanno valore sussidiario altri elementi, quali:

a) le modalità della prestazione,

b) la forma del compenso,

c) l’osservanza di un determinato orario

(Cass.1/10/97 n. 9606, est. Putaturo, pres. Panzarani, in D&L 1998, 472)

7. Ai fini della decisione circa la natura subordinata di un rapporto di lavoro deve verificarsi, secondo la tesi c.d. tipologica della subordinazione, la ricorrenza di indici che, in una valutazione di prevalenza, fondino un giudizio di approssimazione a una figura tipica; nella fattispecie è stata affermata la natura subordinata del rapporto risultando accertati i seguenti elementi:

a) inserzione della prestazione nell'attività aziendale,

b) parziale svolgimento della prestazione stessa nei locali dell'azienda,

c) continuità, orario di lavoro sia pure elastico,

d) eterodeterminazione,

e) potere dispositivo nei confronti di altri dipendenti,

f) percezione di compenso fisso garantito (oltre che di una parte mobile)

(Pret. Milano 24/1/95, est. De Angelis, in D&L 1995, 635)

8. Va ritenuta la natura subordinata e non autonoma del rapporto di lavoro, ove sia accertata l’esistenza del vincolo di subordinazione, ricavabile, pur in presenza di una

certa flessibilità dell’orario, dalla valutazione complessiva di una serie di elementi di fatto sintomatici, quali:

a) la natura delle mansioni esercitate,

b) la totale assenza di rischio d’impresa e organizzazione imprenditoriale

del prestatore,

c) l’inserimento nell’organizzazione imprenditoriale del datore con utilizzo

esclusivo di strumenti dal medesimo forniti,

d) la retribuzione fissa mensile non correlata al risultato del lavoro

prestato,

e) la continuità e l’esclusività della prestazione

(Pret. Parma 12/12/96, est. Federico, in D&L 1997, 616)

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9. In relazione alla configurabilità, da un lato, di una nozione giuridica di subordinazione nella prestazione di lavoro (che dà rilievo alla messa a disposizione da parte del lavoratore delle proprie energie a favore del datore di lavoro, con l'assoggettamento al suo potere direttivo e disciplinare) e, dall'altro, di elementi

sintomatici della situazione di subordinazione (quali: a) la continuità dello svolgimento delle mansioni,

b) il versamento a cadenze periodiche del relativo compenso,

c) la presenza di direttive tecniche e di poteri di controllo e disciplinari,

d) il coordinamento dell'attività lavorativa rispetto all'assetto organizzativo

aziendale all'alienità del risultato,

e) l'esecuzione del lavoro all'interno della struttura dell'impresa con

materiali e attrezzature proprie della stessa,

f) l'osservanza di un vicolo di orario, l'assenza di rischio economico),

il giudizio relativo alla qualificazione di uno specifico rapporto come subordinato o autonomo ha carattere sintetico (nel senso che, rilevati alcuni indici significativi, li valuta nel loro assieme, in relazione alle peculiarità del caso concreto) e integra un giudizio di fatto censurabile, in sede di legittimità, solo per ciò che riguarda sia la individuazione dei caratteri identificativi del lavoro subordinato, mentre è insindacabile, se sorretta da motivazione adeguata ed immune da vizi logici e giuridici, la scelta degli elementi di fatto cui attribuire, da soli o in varia combinazione tra loro, rilevanza qualificatoria sia la riconduzione o meno degli stessi allo schema contrattuale del lavoro subordinato) (Cass. 2/9/00, n. 11502, pres. Grieco, in Orient. giur. lav. 2000, pag. 638)

10. L'apposizione di una clausola di rendimento minimo, che costituisce un elemento accessorio del contratto di lavoro, è compatibile con la natura subordinata del rapporto, non potendo escludersi una obbligazione di risultato ove questo sia da conseguire con le modalità tipiche del lavoro dipendente (Cass. 13/7/00, n. 9292, pres. Grieco, in Riv. it. dir. lav. 2001, pag. 220, con nota di Tiraboschi, Lavoro dirigenziale e novazione simulata);

11. Ove la presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative fra persone legate da vincoli di parentela o affinità debba essere esclusa per l'accertato difetto della

convivenza degli interessati, non opera "ipso iure" una presunzione di contrario

contenuto, indicativo cioè dell'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato; pertanto, in caso di contestazione, la parte che faccia valere diritti derivanti da tale rapporto ha comunque l'obbligo di dimostrarne, con prova precisa e rigorosa, tutti gli elementi costitutivi e, in particolare, i requisiti indefettibili della onerosità e della subordinazione (Trib. Milano 16/3/01, est. Cincotti, in Orient. giur. lav. 2001, pag. 67);

12. Ai fini dell'accertamento della natura subordinata di un rapporto di lavoro, alla stregua del criterio di effettività, devono ritenersi prevalenti, sull'assetto formale della obbligazione lavorativa concordato ab initio o modificato in corso di rapporto, le

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modalità concrete di esecuzione dello stesso, se sono tali da poter contraddire e vanificare la qualificazione ad esso attribuita dalle parti (Cass. 13/7/00, n. 9292, pres. Grieco, in Riv. it. dir. lav. 2001, pag. 220, con nota di Tiraboschi, Lavoro dirigenziale e novazione simulata);

13. Ove le parti, nel regolare i loro reciproci interessi, abbiano dichiarato di voler escludere la natura subordinata di un rapporto di lavoro, è possibile pervenire ad una diversa qualificazione di esso soltanto se si dimostra in concreto l'elemento della subordinazione, intesa come vincolo di natura personale, che assoggetta il prestatore di lavoro al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore, che si deve estrinsecare nella specificazione della prestazione lavorativa richiesta in adempimento delle obbligazioni assunte dal prestatore medesimo; subordinazione che deve essere in fatto provata nello svolgimento del rapporto di lavoro (Cass. 22/11/99 n. 12926, pres. Lanni, in Riv. it. dir. lav. 2000, pag. 633, con nota di Granata, Organizzazione di tendenza, contratto di lavoro subordinato e licenziamento individuale: il caso del telefono Azzurro);

14. In tema di distinzione tra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato e contratto di lavoro subordinato, la riconducibilità del rapporto all’uno o all’altro degli schemi predetti esige un’indagine del giudice del merito volta a cogliere la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti, tenendo conto, in particolare, che il primo implica l’obbligo del rendiconto periodico dell’associante, mentre il rapporto di lavoro subordinato implica un effettivo vincolo di subordinazione, più ampio del generico potere dell’associante di impartire direttive ed istruzioni al cointeressato (quali possono essere quelle relative all’andamento generale dell’azienda e quindi all’orario di lavoro e sostituzione momentanea degli addetti ai vari reparti, connessi alla natura stessa dell’attività economica esercitata e quindi all’apertura al pubblico) (Cass. 10/8/99, n. 8578, pres. Maiorano, in Lavoro giur. 2000, pag. 943, con nota di Collia , La natura subordinata del rapporto di lavoro)

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In virtù della rappresentazione formale di concetti linguistici, la logica fuzzy, infatti, consente di introdurre nello stesso modello anche le informazioni di natura più soggettiva che, normalmente, sono valutate autonomamente dagli interpreti al di fuori dei modelli di ermeneutica. In questo modo la visione degli elementi è più organica e tutti i dati a disposizione sono sottoposti allo stesso tipo di inferenza.

Fig.2 -I metodi identificativi della fattispecie

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I metodi identificativi della fattispecie concreta alla fattispecie astratta (cfr. legale) sono quello sussuntivo e quello tipologico. Il primo metodo si propone di trovare tutte le possibili combinazioni alternative tra gli elementi (idee-dati) che caratterizzano la soluzione problematica da adottare per qualificare la fattispecie concreta. Il secondo metodo procede da un tutto gli elementi che lo compongono (idee-dati) per cercare di comprendere il perché dell’unica soluzione da adottare per qualificare la fattispecie concreta. In effetti, il metodo più utilizzato è quello della sussunzione che significa essenzialmente sussumere un oggetto sotto un concetto, secondo il criterio dell’identità della fattispecie concreta rispetto alla fattispecie astratta o secondo quello per prevalente o approssimazione, che utilizza anche quello tipologico (Fig.2)

A questo punto non ci resta che definire i criteri identificativi della fattispecie utilizzando i dicta della giurisprudenza.

Definiti gli inputs del sistema si costruisce un albero decisionale che sia in grado di raggrupparli con logiche di affinità, affinché fattori che descrivono lo stesso profilo appartengano allo stesso gruppo in modo da fornire un unico punteggio complessivo.

Il passaggio successivo è quello della fuzzificazione dei dati a disposizione. Il procedimento non comporta nessuna perdita d’informazioni ma, solo un cambiamento nel quadro di riferimento.

Gli input e l’output del modello, o variabili base, sono trasformati in variabili linguistiche tramite la definizione, nei loro domini, degli attributi linguistici (i labels) e l’assegnazione di insiemi fuzzy ad ognuno di essi. A titolo di esempio si consideri che i due indici volontà delle parti e forma(cfr. Cass.25 gennaio 1993 n.812), secondo cui un rapporto di lavoro subordinato può essere sostituito da uno di lavoro autonomo a seguito di uno specifico negozio novativo, ma a tal fine è necessario che all'univoca volontà delle parti di mutare il regime giuridico (ed il "nomen iuris") del rapporto, devono essere accompagnati da un effettivo mutamento dello svolgimento delle prestazioni lavorative come conseguenza del venire meno del vincolo di assoggettamento del lavoratore al datore di lavoro, ancorché rimanga eventualmente identico il contenuto della prestazione stessa.

Per ogni variabile, quindi, si deve individuare il campo di variazione, ossia una scala di valori numerici di riferimento, ricorrendo ad esempio a quella usata dalla Giurisprudenza, oppure basandosi sulla letteratura giuridica relativa a tali indici (Fig.3).

Pertanto di stabilisce che: l

m

n

CCCC

BBBB

AAAA

,...,

,...,

,...,

21

21

21

=

=

=

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151

Fig.3 - Criteri identificativi giurisprudenziali

Dove n, m e l sono il numero di attributi scelti per ogni variabile, mentre

321 ,, UUU sono i loro insiemi universo (sottoinsiemi di R) definiti dal campo di variazione precedentemente specificato.

Poiché ogni labels è in realtà la descrizione sintetica di un insieme fuzzy, ne consegue che:

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( )( ) 1:, UxxxA Aii ∈= µ per ogni i= 1,…,n

( )( ) 2:, UyyyB Bjj ∈= µ per ogni j= 1,…,m

( )( ) 3:, UzzzC Ckk ∈= µ per ogni k= 1,…,l

A questo punto, si devono definire le funzioni di appartenenza che consentono di valutare il grado di prossimità tra un valore numerico, e gli attributi che lo descrivono, in modo da scegliere quello che riassume meglio il giudizio assegnabile a tale valore. La logica fuzzy non prescrive regole a tale riguardo. La scelta della funzione, infatti, è context-dependent ed è solo la conoscenza del fenomeno oggetto di analisi a poter indirizzare l’operatore.

Esistono, tuttavia, alcuni principi, dettati per lo più dal buon senso. Innanzi tutto, le funzioni degli insiemi che descrivono una variabile linguistica dovrebbero sovrapporsi con quelle più vicine (in modo da descrivere la gradualità del giudizio) in una misura che varia dal 10% al 50%. Inoltre, la somma dei punti verticali di sovrapposizione dovrebbe essere inferiore ad uno e la densità degli insiemi fuzzy dovrebbe essere massima intorno al punto di controllo ottimo e diminuire progressivamente all’aumentare della distanza da tale punto.

Per quanto riguarda l’ampiezza della base e la forma della funzione di appartenenza, in genere si ricorre alle funzioni triangolari o trapezoidali poiché sono più semplici da calcolare e non riducono l’efficienza informativa del sistema rispetto a funzioni più complesse.

Ad ogni modo, è importante sottolineare che la specificazione di tutti questi aspetti della funzione di appartenenza è la traduzione matematica di ciò che gli esperti pensano degli attributi linguistici usati e del loro contributo, oltre che della conoscenza del fenomeno. Si tratta, quindi, di una fase del processo molto delicata poiché la scelta effettuata determinerà il grado di attivazione delle regole e, quindi, anche quali di queste influenzeranno effettivamente la risposta dell’output.

In sostanza, la soggettività dell’azione degli operatori coinvolti è come se producesse una ponderazione degli input, influenzando in modo decisivo l’efficacia esplicativa del modello.

Le figure 2 e 3 illustrano le possibili funzioni di appartenenza dei due indici scelti come esempi.

Segue la fase dell’indicazione del corpo di regole che determina la strategia seguita dal modello. Come già detto, tali regole sono ideate sulla base della sentenza della giurisprudenza e, quindi, la loro capacità esplicativa delle relazioni esistenti tra le variabili dipende, in primis, dagli indici elaborati dalla giurisprudenza. Questo fattore si riflette nella definizione delle possibili combinazioni relative agli effetti del precedente sull’output. Per maggiore chiarezza consideriamo ancora una volta l’esempio dei due indici.

Con riferimento alla notazione precedente, una generica regola è definita come:

IF x è iA AND y è jB THEN z è ijC

Dato A e B, il numero di regole necessario a gestire il processo decisionale è pari a mn × , vale a dire 9, in quanto come indicato dalle figure 2 e 3, sono stati assegnati tre

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attributi linguistici ad entrambe le variabili. A questo punto, sono l’esperienza e la cultura giuridica relativa al significato degli indicatori della subordinazione a determinare le combinazioni tra valori degli input e valori dell’output, come in questo esempio:

1) IF A is low AND B is low THEN C is low

2) IF A is low AND B is medium THEN C is low

3) IF A is low AND B is high THEN C is medium

4) IF A is medium AND B is low THEN C is medium

5) IF A is medium AND B is medium THEN C is high

6) IF A is medium AND B is high THEN C is high

7) IF A is high AND B is low THEN C is medium

8) IF A is high AND B is medium THEN C is medium

9) IF A is high AND B is high THEN C is high

La fase successiva è quella della scelta del metodo di aggregazione tra premessa e conclusione delle regole e, in seguito, della valutazione di quest’ultime. Secondo l’approccio di Mandani, il valore espresso dall’antecedente si calcola con l’operatore min:

( ) ( ) ( )( )ijBAij ayxyx

ji== µµµ ;min,

Ottenuto questo primo risultato si passa alla determinazione del conseguente ovvero della parte “THEN”, come segue:

( ) ( ) ( ) ( )( )zyxzkji CBA

conseg

ij µµµµ ;;min= La valutazione finale si determina aggregando tutte le conseguenze usando ad

esempio, l’operatore del massimo:

( ) ( )( )zz conseg

ijij

conseg µµ max= Il processo d’inferenza, quindi, consiste nei seguenti passaggi. Dati due possibili

valori numerici della subordinazione, questi sono inseriti nei grafici delle funzioni di appartenenza e in questo modo si calcola in che misura tali valori soddisfano i concetti espressi dagli attributi.

Ipotizziamo che tali valori esprimibili in termini di grado di appartenenza interessino, rispettivamente per la subordinazione, gli attributi Low e Medium, e per l’autonomia l’attributo High. Nei primi due riquadri della figura 4 sono riportate le funzioni interessate e il grado. Questi labels attivano le regole 3 e 6

REGOLA 3) IF A is low AND B is high THEN C is medium

REGOLA 6) IF A is medium AND B is high THEN C is high

Per ogni premessa attivata, in base all’operatore di aggregazione prescelto, si considera il minimo tra i due valori delle funzioni di appartenenza. Pertanto per la regola

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3 sarà il valore Low del A e per la regola 6 quello High della b. Questi sono detti gradi di attivazione, poiché esprimono in che misura la premessa attiva il proprio conseguente.

Il passaggio successivo implica l’applicazione di questi valori all’interno della funzione di appartenenza dell’output interessata. Come evidenziato dalla figura 4, i valori minimi delle premesse sono inseriti in tali funzioni e le tagliano ai rispettivi livelli (ossia la variabile linguistica output si interseca con un insieme fuzzy con funzione di appartenenza costante ed uguale al livello di attivazione).

L’ultimo passaggio prevede la valutazione del massimo tra tutte le regole attivate dai dati inseriti. La figura 5 descrive graficamente questo procedimento che matematicamente è dato dall’unione degli insiemi interessati.

Il valore ottenuto deve essere defuzzificato, affinché possa essere comparabile e leggibile rispetto ai termini iniziali di inputs che sono stati immessi nel processo.

La teoria fuzzy ha sviluppato più di un procedimento per effettuare la conversione dell’output ma, tra questi i più diffusi sono il metodo del centroide e quello della media del massimo. L’applicazione di quest’ultimo fornisce il risultato più plausibile rispetto ai dati di input. Il procedimento del centroide produce l’ascissa del centro di gravità dell’insieme dei risultati mediante la somma dei momenti dell’area e rappresenta il miglior compromesso tra esito del procedimento e la sua traduzione.

In ogni caso l’interpretazione della defuzzificazione e la scelta dei metodi più appropriati da impiegare richiede la comprensione approfondita del significato linguistico che sottende alla conversione degli insiemi fuzzy in insiemi crisp.

L’output del modello è un c, una valutazione del profilo di subordinazione, che può essere inserito in un sistema di opportunamente definito. Non si ottiene una stima della probabilità di subordinazione, che, quindi, si calcolerà tramite l’osservazione delle frequenze assolute di ogni classe su un certo intervallo di tempo.

Dunque, la logica fuzzy si propone come uno stimatore model-free che approssima una funzione attraverso associazioni linguistiche tra input e output. In questo modo, si formalizzano modelli matematici che esprimono la gradualità dei processi umani di valutazione e sistemi inferenziali più coerenti rispetto al loro oggetto di studio e che giungono a conclusioni più realistiche.

Per quanto riguarda l’applicazione il sistema studiato offre una serie di vantaggi rispetto agli altri modelli a disposizione.

In relazione ai dati, è possibile inserire nel sistema anche quelli di natura qualitativa per valutarne l’apporto informativo. Inoltre, il sistema non si serve dei dati storici per la taratura del modello. In questo modo si evita la tipica perdita di significatività nel lungo periodo dei risultati ottenuti.

Relativamente alla struttura, il sistema si distingue per la sua semplicità e flessibilità. Il processo che conduce all’elaborazione di un giudizio finale. Questa differenza costituisce un vantaggio comparato in termini di semplicità di utilizzo, di adattabilità del sistema e di efficienza. Ogni singola variabile di ingresso, infatti, ha un rapporto chiaro con le altre, così come i blocchi di regole utilizzati sono noti e sempre verificabili da parte dell’istituto. I benefici conseguenti sono innanzi tutto quantificabili in termini di comprensibilità per l’utilizzatore finale, il quale può monitorare il processo, conoscerne sempre con chiarezza la ratio di fondo e, quindi, essere più consapevole del significato di ogni giudizio di merito ottenuto tramite il sistema. In particolare, è possibile conoscere non solo il punteggio finale, ma anche quelli dei passaggi intermedi

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e dei singoli filoni che hanno contribuito al risultato. In questo modo, l’interprete, in caso di esito negativo da parte del modello, può verificare quale siano i dati che hanno condotto il sistema a scartare il tipo o ad assegnarle un punteggio non soddisfacente. Questo tipo di informazione può rivelarsi preziosa, poiché immettendo e/o richiedendo delle informazioni aggiuntive relative al filone di dati in questione, è possibile a volte che i dati di input così modificati generino un giudizio migliore.

Infatti quando l’oggetto dell'accertamento è un rapporto di lavoro subordinato e quindi, sia in questione la distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, è censurabile in sede di legittimità soltanto la determinazione dei criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto, mentre costituisce accertamento di fatto, come tale incensurabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione adeguata ed immune da vizi logici e giuridici, la valutazione delle risultanze processuali che hanno indotto il giudice del merito ad operare una determinata qualificazione del rapporto controverso (cfr. Cass.23 agosto 2000 n.l 1045).

Un limite piuttosto evidente del sistema, invece, è quello relativo alla definizione della funzione di appartenenza, lasciata alla soggettività dell’interprete. Le conseguenze di questa scelta ricadono sul sottoinsieme di regole attivate e in definitiva sull’output, ottenuto come se si fosse inserita una ponderazione. Pertanto, è indispensabile raccogliere il maggior numero possibile di informazioni e valutare con attenzione la scelta fatta, pena il raggiungimento di risultati non significativi.

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Appendice

1 - La teoria degli insiemi fuzzy

L’insieme è un concetto fondamentale in matematica e in logica, poiché consente di trasformare le classificazioni operate tramite il linguaggio naturale in formulazioni matematiche. Per convenzione, si è soliti definire un insieme come una classe di oggetti

ben definiti. Più precisamente, un insieme è assegnato non appena sia data una regola che consenta di affermare se un oggetto appartiene o no all’insieme di riferimento. Ad ogni modo, qualsiasi regola si definisca, la relazione tra un insieme e i suoi elementi è descrivibile attraverso la funzione caratteristica.

Sia X un insieme classico detto universo, il cui elemento generico è x e sia A un

sottoinsieme di X. Dato un elemento X∈x si può verificare solo una delle due

condizioni: A oppureA ∉∈ xx , e, quindi, è possibile definire la seguente funzione caratteristica del sottoinsieme A

1,0X:A →f

( )

∉⇔

∈⇔=

A0

A1A

x

xxf

dove 0,1 è detto insieme di valutazione e la funzione caratteristica da X in 0,1 definisce l’appartenenza di un sottoinsieme A a X.

Questa funzione sottintende un principio fondamentale, noto come legge del terzo

escluso, che è alla base di tutte le discipline scientifiche. Nel rispetto di questo principio, l’analisi di fenomeni, l’elaborazione di dati e la deduzione di soluzioni sono condotte secondo un approccio dicotomico. Pertanto, non si può verificare il caso di un elemento x che appartenga sia all’insieme A sia al suo complemento non-A, né tanto meno può essere definita un’appartenenza solo parziale ad un insieme di riferimento. Questa logica binaria, anche se ha l’indubbio pregio della semplicità, è valida nel caso dell’analisi simbolica, nel mondo artificiale della matematica, ma è incoerente rispetto al mondo reale.

Una delle possibili incongruenze di questa impostazione è quella relativa al passaggio tra classi.

Per cercare di risolvere queste difficoltà di analisi e classificazione, L.A. Zadeh propose nel 1965168[2] come strumento alternativo l’insieme fuzzy, “una classe di oggetti con una continuità di gradi di appartenenza”.

168[Un insieme fuzzy è una classe di oggetti con un continuum di gradi di appartenenza. Tale insieme è caratterizzato da una funzione di appartenenza (caratteristica) che assegna ad ogni oggetto un grado di appartenenza compreso tra zero e uno. Le nozioni di inclusione, unione, intersezione, complemento, relazione, convessità, ecc. sono estese a tali insiemi, e diverse proprietà di queste nozioni sono stabilite nel contesto degli insiemi fuzzy.” Zadeh, L.A., "Fuzzy sets", Information and Control Vol. 8, 1963, p.338.

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Sia X uno spazio di punti (oggetti) detto universo e x un generico elemento di questo insieme169[3], un insieme fuzzy F in X è caratterizzato da una funzione di appartenenza

( )xFµ che associa ad ogni punto in X un numero reale nell’intervallo [0, 1].

I valori di ( )xFµ in x rappresentano il grado di appartenenza di xa F, quindi più il valore della funzione si approssima all’unità e maggiore è il grado di appartenenza di xa F. Quest’ultimo non è altro che un sottoinsieme senza confini definiti di X, o, più

formalmente, si afferma che il dominio di definizione di ( )xFµ è un sottoinsieme di X.

Quindi un insieme fuzzy F è completamente definito dall’insieme di coppie ordinate

( )( ) ( ) [ ] 1,0 F,, F FF ∈∈= xxxx µµ

La funzione di appartenenza di un insieme fuzzy costituisce il carattere distintivo rispetto alla teoria classica. Nel primo caso, tale funzione mappa ogni elemento di un insieme in un intervallo di valori compreso tra 0 e 1, mentre la funzione caratteristica crisp [4] genera un insieme di coppie ordinate in cui il primo valore è un elemento dell’insieme A,

mentre il secondo è un elemento dell’insieme di valutazione 1,0 .

In questo modo si misura il grado di compatibilità di un oggetto con il concetto rappresentato dall’insieme fuzzy. In un certo senso, il significato di grado di

appartenenza può essere assimilato a quello di elasticità, perché descrive in che

misura il concetto rappresentato dall’insieme fuzzy deve essere forzato, “teso”, per adattarsi agli elementi che contiene.

Conformemente a Zadeh (1975b) utilizzerò la seguente notazione per gli insiemi fuzzy:

(a) Se A è un insieme fuzzy sul dominio finito u1,...,un

A=A(u1)/u1 +...+ A(un)/un

o analogamente

A=i=1..n A(ui)/ui

(b) se A è insieme fuzzy sul dominio continuo [0,1]

A = [0,1] A(u)/u con u [0,1]

Per quanto riguarda la definizione di funzione di appartenenza, non esistono regole precise per la sua specificazione. Sono stati proposti vari metodi per calcolarla, ma in definitiva si tratta di un concetto soggettivo e dipendente dal contesto cui si fa riferimento e, per questo motivo, non può essere trattato come una funzione crisp. Per ottenere una definizione adeguata, è sufficiente conoscere le caratteristiche del problema che si sta trattando e su questa base stabilire quale sia la forma più adeguata.

169Un universo non è mai fuzzy.

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Spesso il significato di questa funzione è stato erroneamente interpretato come una misura di probabilità. In effetti, una certa confusione può essere causata dal fatto che entrambe le discipline appartengono all’ampia famiglia delle teorie dell’informazione e sembrano condividere il medesimo obiettivo, ossia fornire un modello matematico per rappresentare l’incertezza. Inoltre, l’intervallo di definizione della funzione di appartenenza di un insieme fuzzy coincide con quello della probabilità di un evento, inducendo, di conseguenza, la possibile conclusione che le due funzioni descrivano lo stesso fenomeno.

Esistono, invece, differenze sostanziali sia del punto di vista teorico sia da quello operativo. Per quanto riguarda il primo punto, l’incertezza oggetto di studio delle due teorie non è la medesima. La teoria della probabilità, infatti, è incentrata sulla veridicità del risultato, ossia sul verificarsi o meno di un evento. Il suo obiettivo è fornire una rigorosa struttura per prendere decisioni in caso di incertezza degli eventi.

L’incertezza cui fa riferimento la teoria fuzzy, invece, non è imputabile ad una distribuzione casuale ma, alla vaghezza e all’imprecisione che caratterizzano i fenomeni reali e la nostra capacità di descriverli. La funzione di appartenenza non è una funzione

aleatoria, poiché si applica ad un evento che si è verificato, ma non si può dire in che misura. Come sarà chiarito nel prossimo paragrafo, la logica fuzzy è una generalizzazione dei modelli algebrici per gestire le imprecisioni lessicali e la gradualità dei giudizi. Come tale, non deve essere considerata come antagonista alle tecniche più classiche di analisi, ma come una valida alternativa in casi in cui quest’ultime non siano efficienti.

Dal punto di vista operativo, la teoria fuzzy non rispetta un concetto fondamentale per

l’approccio probabilistico: il principio di additività, per il quale ( ) ( )AP1AP −= , cioè la somma di un insieme e della sua negazione deve dare sempre 1. Inoltre, mentre l’insieme

dei risultati generati da una funzione di probabilità è dato da Ω2 170, nel caso di una funzione di appartenenza fuzzy, l’insieme dei possibili esiti cui essa può dar luogo (se

riferita ad un insieme Ω di variabili definite) è dato da[ ]Ω1,0 , poiché ad ogni Ω∈ω la funzione fuzzy assegna un determinato grado di appartenenza compreso tra 0 e 1.

Per quanto riguarda gli strumenti di analisi a disposizione della logica fuzzy, la violazione della legge del terzo escluso comporta la ridefinizione degli strumenti della matematica. Infatti, secondo il principio di estensione171[6], poiché la teoria degli insiemi fuzzy è una generalizzazione di quella classica, può essere applicata a qualsiasi metodo di analisi o teoria per fuzzificarne il contenuto. L’effetto finale di questo principio è biunivoco:

Da una parte si consente di utilizzare tutta la matematica classica per trattare le quantità fuzzy, fornendo in questo modo alla teoria tutti gli strumenti utili alla sua diffusione ed efficacia.

170 Dubois D., Prade H., “Fuzzy Sets and Probability: Misunderstandings, Bridges and Gaps”, Second IEEE International Conference on Fuzzy Systems, 1993. 171Zadeh, L.A., “The concept of a linguistic variable and its application to approximate reasoning“, Information Science, 8 e 9, 1975.

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Dall’altra si ammette l’estensione del concetto fuzzy a tutte le teorie basate sugli insiemi.

Pertanto si possono ridefinire i concetti di unione e di intersezione degli insiemi fuzzy.

Chiamiamo X l’universo di riferimento e A e B due insiemi fuzzy.

L’unione di due insiemi fuzzy A e B è un insieme fuzzy BAC ∪= la cui funzione di appartenenza è collegata a quelle di A con B dalla seguente relazione:

( ) ( ) ( )[ ] X,,Max BAC ∈= xxfxfxf oppure più brevemente, in termini di algebra proposizionale:

BAC fff ∨= dove il simbolo ∨ serve per la disgiunzione di due enunciati e si legge “o”.

Quindi l’unione di A e B è il più piccolo insieme fuzzy contenente sia A sia B.

L’intersezione di due insiemi fuzzy A e B è un insieme fuzzy BAC ∩= , la cui funzione di appartenenza è collegata con quelle di A e di B da

( ) ( ) ( )[ ] X,,Min BAC ∈= xxfxfxf oppure in algebra proposizionale:

BC fffA

∧= dove il simbolo ∧ serve per la congiunzione degli enunciati e si legge “e”.

Come nel caso dell’unione, è facilmente dimostrabile172 che l’intersezione di A e B è il più grande insieme fuzzy contenuto sia in A sia in B.

Questa interpretazione dell’unione e dell’intersezione tra insiemi fuzzy in termini di massimo e minimo è alla base del calcolo inferenziale, come illustrato nel paragrafo 3.

2 - Definizioni e proprietà

In questo paragrafo verranno estese agli insiemi fuzzy le definizioni relative agli insiemi crisp. Mentre per alcuni casi questa operazione è immediata, l'estensione di altre proprietà richiederà qualche parola di spiegazione.

Siano A, B e C insiemi fuzzy definiti su un dominio comune X.

(1) L'insieme fuzzy A si dice vuoto se la sua funzione di appartenenza A(x) è uguale a

zero per ogni x ∈ X.

172Zadeh, L.A., "Fuzzy sets", Information and Control, Vol. 8, 1963, pp.338-353.

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(2) Due insiemi fuzzy A e B si dicono uguali (con notazione A=B) se A(x) = B(x) per

ogni x in X.

(3) Il complemento di un insieme fuzzy A si indica A’ e viene definito da

A’(x) = ¬A(x) ∀ x ∈ X (2.8)

(4) A è contenuto in (o è sottoinsieme di) B se la funzione di appartenenza di A è minore

della funzione di appartenenza di B per ogni x in X. In simboli

A ⊆ B se A(x) ≤ B(x) ∀ x ∈ X (2.9)

Questa definizione sostenuta dai primi teorici della logica fuzzy, in particolare da Zadeh, non è da tutti condivisa. Infatti dati due insiemi fuzzy A e B, la risposta alla domanda "A è sottoinsieme di B?" è necessariamente o Sì o No; Kosko (1993) proporrà in alternativa una nozione di ‘sottoinsiemità’ fuzzy (fuzzy subsethood) secondo cui la risposta alla domanda precedente sia una questione di misura, variabile anch'essa nell'intervallo [0,1], sia cioè una risposta fuzzy. Avremo come conseguenza che dati due insiemi A e B qualunque su uno stesso universo, A sarà sempre sottoinsieme di B (e B di A), anche se in molti casi in misura zero. Per quanto questa idea porti a risultati apparentemente paradossali (l'intero è contenuto nella parte) Kosko fa di essa il suo cavallo di battaglia dimostrando attraverso il Teorema di Sottoinsiemità che la teoria della probabilità è riconducibile alla teoria degli insiemi fuzzy (cfr. Kosko 1990). Per gli scopi di questo capitolo, cioè una presentazione generale della nozione di insieme fuzzy, la scelta tra le due alternative per la definizione di sottoinsieme non sarà rilevante, e quindi assumerò come valida (2.9).

5) L'unione di due insiemi fuzzy A e B, con notazione C = A ∪ B, è un insieme fuzzy C la

cui funzione di appartenenza C(x) si trova nella seguente relazione con le funzioni di

partenza A(x) e B(x)

C(x) = A(x) ∨ B(x) ∀ x ∈ X. (2.10)

Intuitivamente l'insieme unione di A e B sarà il più piccolo insieme fuzzy che li contiene

entrambi.

Si dimostra facilmente che l'unione gode della proprietà associativa, dal momento che ∨

è associativa:

A ∪ (B ∪ C) = (A ∪ B) ∪ C

(6) L'intersezione di due insiemi fuzzy A e B è un insieme fuzzy C, indicato C = A ∩ B, la

cui funzione di appartenenza C(x) si trova nella seguente relazione con A(x) e B(x)

C(x) = A(x) ∧ B(x) ∀ x ∈ X. (2.11)

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Intuitivamente l'intersezione di A e B è il più grande insieme fuzzy che è contenuto in

entrambi. Come l'unione, anche l'intersezione gode della proprietà associativa.

Molte delle identità definite per gli insiemi ordinari possono essere estese agli insiemi

fuzzy. Ad esempio

(A ∪ B)' = A' ∩ B' Leggi di De Morgan (2.12)

(A ∩ B)' = A' ∪ B'

C ∩ (A ∪ B) = (C ∩ A) ∪ (C ∩ B) Distributività (2.13)

C ∪ (A ∩ B) = (C ∪ A) ∩ (C ∪ B)

l’identità è da intendersi come una identità delle corrispettive funzioni di appartenenza.

(7) Il nucleo di un insieme fuzzy A su un dominio X è l’insieme crisp degli elementi di X

il cui grado di appartenenza ad A è uguale all’unità

nucleo(A) = x ∈ X | A(x)=1 con A ⊂f X

(8) Il supporto di un insieme fuzzy A su un dominio X è l’insieme crisp ordinario degli

elementi di X il cui grado di appartenenza ad A è diverso da zero

supp(A) = x ∈ X | A(x) ≠ 0 con A ⊂f X

(9) L’altezza di un insieme fuzzy è il massimo tra i gradi di appartenenza

altezza(A) = ∨A(x); x ∈ X con A ⊂f X

(10) Convessità. Indichiamo con Nn il sottoinsieme finito dei numeri naturali 1,...,n. Un

insieme ordinario A in ℜn si dice convesso se, per ogni coppia di punti r = <r1,...,rn> e s

= <s1,...,sn> in A ed ogni numero reale λ compreso tra 0 e 1, il punto

t = (λri + (1 - λ)si | i ∈ Nn)

si trova anch'esso in A. In altre parole potremo dire che un insieme A in ℜn è convesso

se per ogni coppia di punti (r, s) in A, tutti i punti giacenti sulla retta che collega r a s

sono contenuti nell'insieme A. Analogamente assumiamo X = ℜn. Un insieme fuzzy A su

ℜnsarà convesso sse

A(x1) ∧ A(x2) ≤ A(λx1 + (1 - λ)x2) (2.14)

per tutti gli x1 e x2 in ℜne tutti i valori λ in [0,1]. Se A e B sono convessi, tale è anche

A ∩ B.

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166

(11) Tagli-α. Quando vogliamo esibire un elemento x ∈ X che appartiene tipicamente

all'insieme fuzzy A, cioè che ne rappresenta un esemplare tipico, possiamo richiedere

che il suo valore di appartenenza sia maggiore di una qualche soglia α, con α ∈ L.

L'insieme in senso ordinario di tali elementi viene definito il taglio-α Aα di A

Aα = x ∈ X | α ≤ A(x) . (2.15)

Si dimostra facilmente che valgono le proprietà:

(A ∪ B)α = Aα ∪ Bα, (A ∩ B)α = Aα ∩ Bα. (2.16)

(12) Insiemi fuzzy normalizzati. Un insieme fuzzy A sul dominio X Si dice normalizzato

se la sua funzione caratteristica A(x) assume valore 1 per almeno un elemento x ∈ X.

(13) Numeri fuzzy. Un insieme fuzzy convesso e normalizzato sull’insieme dei numeri

reali ℜ si dice numero fuzzy. Analogamente un numero naturale fuzzy sarà un insieme

fuzzy convesso e normalizzato su N. Esempi di numeri fuzzy sono:

• Circa 12.5

• Molto più grande di 10

• molto piccolo.

(14) Cardinalità. Alla domanda "quante persone alte ci sono in questa stanza" si

potrebbero dare risposte di diverso tipo: (a) circa 4; (b) 4; (c) 3.52.

L’insieme delle persone alte è evidentemente fuzzy, quindi il problema si traduce in una ricerca della estensione fuzzy per il concetto di cardinalità. Delle tre risposte possibili, la (a) è evidentemente una risposta fuzzy, e più precisamente un numero fuzzy. La (b) rappresenta una defuzzificazione, ottenuta in un qualche modo non ancora determinato, di (a). Infine la risposta (c) sebbene sia scarsamente intuitiva, rappresenta la soluzione più frequentemente usata in campo fuzzy. Chiamerò (a), (b) e (c) rispettivamente Cardinalità fuzzy, cardinalità numerica e cardinalità scalare (o conteggio-sigma) conformemente alla tradizione. Possiamo dire anche che (a) è una funzione da insiemi fuzzy a numeri naturali fuzzy, (b) una funzione da insiemi fuzzy a numeri naturali, (c) una funzione da insiemi fuzzy a numeri reali. Tali funzioni, per essere plausibili come cardinalità, devono soddisfare la seguente condizione di complementazione (CC):

(CC) card(A') = |X| - card(A)

dove |X| é la cardinalità in senso classico del dominio

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Il volume consiste nella proposta, nell’articolazione e prova della teoria dell’anello tetralogico, primum movens. Questa teoria consente di costruire il dover-essere/diritto del lavoro, attraverso l’essere/lavoro. Si sostiene che i valori nascono dalle idee e queste idee vengono razionalizzate fino ad una razionalizzazione diffusa. Questo fenomeno di razionalizzazione spiega che i diritti tendono a crescere man mano che il lavoro assume forme sempre più diverse e complesse, quindi si ha la necessità di forme di tutela diverse. C’è un elemento conduttore, po-tremmo dire un DNA, che congiunge il lavoro, i diritti e le tutele e questo è l’anello tetralogico che costituisce la catena del valore. Il libro, dopo una prima parte dedicata alla teoria dell’anello tetralogico, è stato diviso in tre parti, più un appendice dedicata alla fuzzy logic, corrispondenti a ciascun argomento, che costituisce la catena del valore (lavoro-diritti-tutele). Innovativa ed originale è l’applicazione della fuzzy logic quale strumento di interpretazione degli istituti di diritto del lavoro.

Pasquale Melissari nasce a Reggio Calabria nel 1957, docente Universitario di Sociologia dell’Organizzazione, Organizzazione, Sociologia del lavoro e dei processi industriali, Diritto del lavoro, è autore di numerose pubblicazioni di diritto, economia e sociologia del lavoro, è esperto di politiche attive del lavoro nonché consulente di enti pubblici e di imprese pubbliche e private. Esercita la professione di avvocato, di revisore contabile e consulente del lavoro.