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NICOLA MAGGI LAURA TORRICINI COLLEZIONARE FOTOGRAFIA Le Guide di CdT

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NICOLA MAGGI

LAURA TORRICINI COLLEZIONARE FOTOGRAFIA

Le Guide di CdT

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Sommario

INTRODUZIONE .................................................... 4

BREVE STORIA DELLA FOTOGRAFIA .................... 6

Definizione ........................................................ 6

La nascita della fotografia................................. 6

La stampa fotografica ....................................... 7

Le grandi campagne fotografiche

dell’Ottocento .................................................. 7

La nascita delle istantanee ............................... 8

Le prime associazioni fotografiche ................... 9

Alfred Stieglitz e la nascita della “fotografia

diretta” ............................................................. 9

Nel segno di DaDa .......................................... 11

Europa Vs U.S.A. ............................................. 11

Il Surrealismo e l’affermazione come Arte ..... 11

Professione Fotoreporter ............................... 12

Tra arte e pubblicità ....................................... 13

Gli anni Settanta: Narrative Art e Conceptual

Art ................................................................... 14

Gli anni Ottanta e il kitsch .............................. 15

Gli anni Novanta e la Scuola di Düsseldorf ..... 15

La fotografia in Italia ....................................... 16

L’era digitale ................................................... 16

LA VOCE DEL COLLEZIONISTA: FABIO CASTELLI 18

TIRATURA & DIMENSIONI .................................. 23

Tiratura ed Edizione: una definizione incerta . 24

Edizioni limitate e illimitate ............................ 26

Le Prove d'Artista ........................................... 27

Le dimensioni .................................................. 28

IL VINTAGE ......................................................... 29

Alle origini del termine Vintage ...................... 29

Le Stampe Vintage .......................................... 30

Vintage = migliore? ......................................... 31

Vintage sì, Vintage no .................................... 32

LE TECNICHE ...................................................... 34

Positivi diretti ................................................. 34

Materiali negativi ........................................... 34

Stampe da negativo ....................................... 35

Tecniche non argentiche................................ 36

Moderni procedimenti a colori ...................... 38

Stampe a sviluppo istantaneo........................ 39

Stampe digitali ............................................... 39

FIRME, TIMBRI E ANNOTAZIONI ....................... 42

Le firme .......................................................... 44

I Timbri ........................................................... 44

Le Annotazioni ............................................... 45

LA CONSERVAZIONE E IL RESTAURO ................ 47

La manipolazione ........................................... 47

L’ambiente ..................................................... 49

La luce ........................................................ 49

L’umidità relativa ....................................... 50

La temperatura .......................................... 50

L’inquinamento .......................................... 50

Gli agenti biologici...................................... 50

Il condizionamento ........................................ 51

Il grande formato nella fotografia

contemporanea ............................................. 52

Gli interventi preventivi ................................. 53

Gli interventi curativi ..................................... 53

Prevenire è meglio che curare ....................... 53

Esposizione delle opere – Montaggi .............. 54

Fotografie laminate su pannello rigido ...... 55

Fotografie montate di faccia tipo Diasec

(Face mounting) ......................................... 55

GLOSSARIO ........................................................ 56

Le Guide ◊ 3

II edizione: marzo 2015 © 2015 Collezione da Tiffany

Via Atto Vannucci, 14 50134 – Firenze www.collezionedatiffany.com

[email protected]

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INTRODUZIONE

I prezzi della fotografia nelle aste internazionali

hanno impiegato molto tempo a crescere, ma

oggi i lavori di alcuni fotografi raggiungono valori

una volta riservati solo ai migliori dipinti. E questo

anche se la fotografia, per sua natura, è una

forma d’arte riproducibile che può generare

multipli. Negli ultimi quindici anni, la fotografia

sembra aver raggiunto un pieno riconoscimento

come forma d’arte e adesso rappresenta un

mercato nel vero senso della parola, anche se

questo particolare segmento pesa sul totale del

mercato globale dell’arte per lo 0.7%. Tra i

migliori fotografi andati all’asta nel 2014, Cindy

Sherman, con Untitled Film Stills (1977) ha

raggiunto i 5.9 milioni di dollari nell’asta di

Christie’s del 12 novembre scorso a New York. Il

miglior risultato dell’anno per quanto riguarda

questo segmento. La Sherman, assieme al

connazionale Richard Prince e al tedesco Andreas

Gursky è oggi ai vertici del mercato. Nel 2014,

però, le uniche altre fotografie che hanno

superato il milione di dollari sono un lavoro di

Gilbert & George e uno di Mike Kelly (morto nel

2012).

Quelli appena citati sono solo alcuni degli

indicatori che mettono in evidenza l’ormai

conclamato successo della fotografia tra amatori

d’arte e collezionisti. Un successo che parte da

lontano, se si pensa che il collezionismo di

fotografia inizia, praticamente, con la nascita di

questo mezzo anche se ancora non si può parlare

di un collezionismo rivolto alla fotografia come

arte: si raccolgono carte-de-visites, immagini di

celebrità e foto di viaggio. Patria di questo proto-

collezionismo: l’Inghilterra, dove, già dalla metà

dell’Ottocento, la galleria londinese P & D

Colnaghi rappresenta il lavoro di fotografi come

Roger Fenton e Julia Margaret Cameron. Sempre

a Londra, peraltro, si tiene nel 1854 la prima asta

di fotografie. Date, queste, che consegnano

all’Inghilterra un vero e proprio primato se si

considera che dovrà passare almeno un secolo

prima che negli Stati Uniti avvenga qualcosa di

simile: la Marshal Sale, prima asta fotografica

organizzata dalla Swan Gallery risale, infatti, al

1952.

Date a parte, si può dire che il collezionismo di

fotografia sia ormai una realtà consolidata già

all’inizio del XX secolo anche se si dovranno

attendere gli anni Settanta per veder nascere il

mercato della fotografia come lo conosciamo

oggi. In un solo decennio i prezzi delle fotografie

quadruplicano e si moltiplicano le mostre

dedicate dai musei a questa “giovane” arte,

appuntamenti che approfondiscono la

conoscenza di questo medium da parte del

pubblico la cui attenzione per la fotografia cresce

a dismisura.

Negli ultimi decenni, infatti, oltre alle varie

sezioni di fotografia aperte presso alcune grandi

istituzioni museali, come la galleria Joyce and

Robert Menschel, dedicata alla fotografia

moderna e contemporanea e inaugurata nel 2007

presso il Metropolitan museum of art (MET) di

New York; sono stati creati In Europa diversi

musei specifici. Alcuni di questi sono attivi da

molti anni: il Centre national de la photographie e

il Patrimoine photographique, confluiti nel 2004

nella Galerie nationale du Jeu de Paume, a Parigi,

o il Musée de l’Elysée di Losanna, che esiste dal

1985, e, sempre in Svizzera, il Fotomuseum di

Winterthur, creato nel 1994. In Italia, abbiamo il

Museo nazionale Alinari della fotografia (MNAF),

il Fotomuseo Giuseppe Panini a Modena e, dal

2004, esiste anche il Museo di fotografia

contemporanea (MFC) a Cinisello Balsamo, che

conserva importanti collezioni di autori italiani e

stranieri.

Questa attenzione per la fotografia da parte del

sistema dell’arte ha un immediato riflesso sul

valore di mercato di questo medium: alla metà

degli anni Novanta da Sotheby’s l’asta dedicata a

Man Ray raggiunge il record del 99% di venduto,

contribuendo alla stabilità del mercato; e,

arrivando a tempi più recenti, tra il 2012 e il 2013

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sono stati decine i nuovi record d’asta stabiliti a

New York e a Londra, tanto che alcuni tra i

fotografi più importanti figurano ai primi posti

anche delle classifiche degli artisti più venduti al

mondo. Basti pensare al già citato tedesco

Andreas Gursky le cui opere hanno superato i 2.7

milioni di euro o al canadese Jeff Walls i cui

lavori, nel 2011, non superavano i 700mila euro e

oggi volano sopra i 2 milioni.

Nonostante questi record, la fotografia è uno dei

pochi settori dell’arte che è ancora possibile

ritenere “accessibile”, almeno dal punto di vista

economico. Non è un caso, d’altronde, che la

fotografia riesca ad attirare a sé collezionisti

abbastanza giovani, tra i 35 e i 40 anni, che

decidono di iniziare la loro “carriera” partendo

proprio da opere fotografiche.

Sfortunatamente, “accessibile” non sempre fa

rima con “comprensibile”: come molto spesso

succede nel mondo dell’arte, anche il mercato

della fotografia è guidato da una serie di regole

non scritte che però è fondamentale conoscere

per potersi muovere con sicurezza e piacere in

questo mondo. Da questa considerazione nasce

l’idea di questa guida che Collezione da Tiffany, il

primo blog italiano dedicato al collezionismo

d’arte contemporanea, pubblica con l’obiettivo di

avvicinare quanti più appassionati possibili a

questa forma d’arte e di dare il proprio

contributo per il decollo di un mercato della

fotografia che sia chiaro e trasparante. Decollo

che non può prescindere dal coinvolgere i

collezionisti di arte contemporanea.

Firenze, 11/03/2015

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BREVE STORIA DELLA

FOTOGRAFIA

uando ci si avvicina alla storia della

fotografia, sono essenzialmente due gli

aspetti da tenere presenti . Il primo è di

carattere tecnico: fino agli inizi del XX

Secolo la storia di quest’arte, infatti, non può

disgiungersi dalla storia e dai progressi delle

tecniche e dei materiali in quanto sono

assolutamente vincolanti per i risultati, tanto

che spesso, fototipi di epoca ottocentesca

sono valutati più per il medium che per

l’immagine. Il secondo aspetto è, invece, di

carattere estetico: la fotografia ha sempre

avuto un rapporto molto contrastato con la

pittura, dal confronto con la quale non è mai

riuscita a liberarsi, sia che la si ritenesse serva

sia che la si considerasse forma d’arte

superiore, tanto che è stata spesso, e continua

ad esserlo, erroneamente giudicata con gli

stessi parametri estetici.

Definizione

Volendone dare una definizione, si può dire

che la fotografia è qualsiasi sistema che

permetta di convertire, in modo più o meno

permanente e visibile, immagini prodotte su

supporto con l’azione di radiazioni

ultraviolette e infrarosse. La sostanza chimica

che, per le sue doti di fotosensibilità, è stata

più usata è l’argento in alcuni suoi composti

come il nitrato d’argento e lo Ioduro

d’argento.

La nascita della fotografia

La fotografia ha una data di nascita

“ufficiale”: 9 luglio 1839 quando al

procedimento fotografico di Louis Jacque

Mandè Daguerre (1787- 1851), scenografo e

creatore di diorami, viene concesso il brevetto

dall’Accademia delle Scienze di Parigi. Il suo

socio, e vero “scienziato”, Joseph Nicéphore

Niepce (1765-1833), che già negli anni venti

aveva prodotto diverse eliografie, muore

prima di vedere questo riconoscimento. Nasce

così il Dagherrotipo (1839-1860 ca.): una

lastra ricoperta d’argento che, esposta ai

vapori dello iodio (ioduro d’argento), messa

in camera oscura e posizionata davanti al

soggetto da riprendere, dopo una posa

decisamente lunga e un lavaggio in sale

marino e mercurio (per eliminare ogni residuo

di ioduro d’argento che potesse continuare a

scurirsi), mostra un’immagine speculare

dell’oggetto ripreso. Di una nitidezza e

lucentezza sconvolgente per l’epoca, questa

tecnica rivoluziona il mondo del ritratto, ora

alla portata di tutti, e della memoria familiare

e collettiva. Rivela inoltre all’uomo la sua

pochezza nell’ osservazione diretta della

natura, minando il suo senso di assoluto. Il

dagherrotipo è un unicum, da cui è

impossibile ricavare delle copie.

Figura 1 - Louis-Jacques-Mandé Daguerre, Natura morta,

1837, Dagherrotipo

Più o meno negli stessi anni, in Inghilterra,

William Henry Fox Talbot (1801-1877) fa

esperimenti trattando fogli di carta con nitrato

d’argento e poi applicandoci sopra degli

oggetti (foglie, pizzi, etc.) ed esponendoli

alla luce; ne derivano immagini negative

definite “disegni fotogenici” che vengono

lavati in un bagno di fissaggio con sale da

cucina. Questi sono poi usati come negativi,

posti a contatto con altri fogli sensibilizzati ed

esposti alla luce anche per un paio d’ore.

L’uso protratto, però, li rende illeggibili in

breve tempo; si deve allo scienziato Sir John

F.W. Herschel (1738-1822) l’invenzione del

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bagno di fissaggio definitivo: l’iposolfito di

sodio, usato ancora oggi. Nel 1841 Talbot

perfeziona la sua tecnica lasciando esposti alla

luce i fogli per poco tempo e “sviluppando”

poi, con bagni chimici, l’immagine latente

creando i primi negativi su carta: i calotipi ,

che vengono usati per creare positivi per

contatto. Tutta la stampa del periodo avviene

per contatto e non per proiezione così il

positivo ha sempre le stesse dimensioni del

negativo.

La stampa fotografica

La prima carta su cui viene stampata la

fotografia è un foglio imbevuto di soluzione

salina, detta “carta salata”. Questa, nel 1850,

viene soppiantata dalla carta all’albumina

(1850–1885ca.), inventata da Blanquart-

Evrard (1802-1872) usando le chiare d’uovo.

Questa carta ha una finitura lucida e compatta

e, una volta preparata, può essere conservata

per molto tempo prima dell’uso. Sempre nel

1839 lo scozzese Mungo Ponton (1801-

1880) scopre la fotosensibilità del bicromato

di potassio e inventa, così, la prima tecnica

fotografica non argentica: il bicromato,

esposto alla luce, diventa insolubile e, una

volta lavato, le particelle non sensibilizzate

vengono eliminate dal foglio; tale

procedimento si rivelerà fondamentale per la

fotoincisione. Questa scoperta permette, nel

1856, a Alphonse-Louis Poitevin (1819-

1882) di inventare sia le stampe al carbone,

estremamente stabili e che possono essere

create in diversi colori in base ai pigmenti

usati; sia la tecnica fotomeccanica della

collotipia per riprodurre fotografie con

inchiostro tipografico.

Nel 1851 L’inglese Frederick Scott Archer

(1813-1857) inventa il procedimento al

collodio umido, un metodo per sensibilizzare

lastre di vetro e farne negativi mescolando i

sali d’argento al collodio (fulmicotone). In

questo modo si elimina sia l’unicità e la

delicatezza del dagherrotipo sia la brunosità

delle stampe ottenute da calotipi a causa della

fibrosità della carta. Il collodio soppianta,

così, tutte le altre tecniche fino agli anni

Ottanta dell’Ottocento.

Figura 2 - Immagine realizzata con il procedimento del collodio umido inventato da Frederick Scott Archer nel

1851.

Dalla tecnica del collodio nascono quelli che

vengono chiamati i “dagherrotipi dei poveri” :

l’Ambrotipo (1850-1870 ca.), praticamente

un positivo ottenuto mettendo uno sfondo

nero alla lastra vetro, sviluppato e fissato e

poi lavato con acido nitrico; il Ferrotipo (o

tintype), inventato dall’americano Hamilton

Smith (1819-1903) nel 1856 e che usa lo

stesso procedimento al collodio ma cambia il

supporto passando a delle semplici lastre in

ferro che sono molto più resistenti e possono

anche essere spedite.

Le grandi campagne

fotografiche dell’Ottocento

Alleggeriti i macchinari e i procedimenti, il

fotografo inizia a viaggiare sia a seguito di

spedizioni scientifiche e naturalistiche, sia a

seguito di campagne belliche. Tra i primi:

Roger Fenton (1829-1869) che seguì la

guerra in Crimea. Sono soprattutto gli

americani che vanno alla scoperta del loro

territorio: memorabili le foto di Timothy

O’Sullivan (1840-1882) per la Geological

Geographical Survey (1873) o quelle di

Alexander Gardner (1821-1882)per la

costruzione di parte della Union Pacific

RailRoad.

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Con la nuova tecnologia al collodio si

comincia a fotografare in modo sistematico

tutto il bacino del Mediterraneo e il fotografo

occidentale si avventura anche nel mondo

orientale; si cominciano a esplorare le città

europee e americane nei loro aspetti più

poveri. La fotografia inizia così a rivestire

un’importanza capitale come documentazione

geografica, etnografica e sociologica. Un suo

uso massiccio è richiesto dalle

amministrazioni locali per testimoniare le

condizioni di quartieri e popolazioni in

un’ottica di risanamento urbanistico.

Migliaia di vedute di monumenti, chiese,

palazzi o paesaggi sono scattate col solo

scopo della vendita ai turisti. Tale è la

richiesta che si fondano delle vere e proprie

società editoriali dove dietro un solo nome

famoso lavorano parecchi assistenti. In Italia

le maggiori industrie del genere sono quella

fiorentina dei fratelli Alinari (fondata nel

1852) e quella di Giorgio Sommer (1834-

1914) a Napoli.

Fa parte di questa produzione anche la

fotografia stereoscopica, scatti presi da

macchine con due obbiettivi che danno

l’illusione della tridimensionalità se visti

attraverso uno stereoscopio. Questo tipo di

fotografia, che vuole essere schietta e di

immediata comprensione, è definita

“topografica” per distinguerla da quella che,

pur avendo magari gli stessi soggetti, è invece

mossa da finalità estetiche e usata come

mezzo di espressione personale.

La nascita delle istantanee

Nel 1880 il collodio cade in disuso ed è

sostituito dall’emulsione alla gelatina al

bromuro d’argento che permette di preparare

le lastre in anticipo e di svilupparle poi in

laboratorio; inizia così l’epoca della fotografia

moderna: nascono le prime macchine

fotografiche portatili già con negativi inseriti

il cui sviluppo verrà fatto da appositi

laboratori, permettendo così a tutti di scattare

fotografie, o meglio “istantanee” (snapshots)

per fissare un ricordo, senza nessuna pretesa

artistica. L’emblema dell’epoca è lo slogan

con cui George Eastman, inventore della

macchina fotografica Kodak, pubblicizza la

stessa: “Premete il bottone, noi faremo il

resto”. (Interessante sapere che la prima

macchina fotografica Kodak lavorava con

negativi circolari). Nel 1891 viene introdotta

Figura 3 - Alexander Gardner, Leavenworth, Il Ponte Lawrence & Galveston R. R. sul fiume Kansas, 1867. Immagine stereoscopica realizzata per la campagna “Across the Continent on the Union Pacific Railway, Eastern Division”

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la celluloide come supporto per i negativi e la

gelatina sensibilizzata viene applicata sulle

carta da sviluppo.

Le prime associazioni

fotografiche

Ovunque, in Europa e in America, nascono

associazioni fotografiche che indicono

concorsi, allestiscono mostre e premi, sempre

però con una sorta di vassallaggio verso le

indicazioni delle accademie pittoriche e dei

vari Salon internazionali. Al Camera Club di

Londra, Peter Henry Emerson (1856- 1936)

tiene la conferenza “La Fotografia, arte

pittorica” (1886) in cui, pur dichiarando la

fotografia superiore al disegno e all’incisione

per aderenza alla natura, la sottomette alle

regole estetiche della pittura che, per lui,

corrisponde alla scuola di Barbizon, e

colonizza tutta Europa con serie di suoi scatti

di paesaggi (Naturalistic Photography),

sempre lievemente sfuocati (fluo), in cui la

mano del fotografo interviene nella resa

estetica del positivo. Emerson, nonostante

abbia successivamente rinnegato il suo

lavoro, condiziona potentemente il gusto

fotografico dell’epoca se si pensa che le

poche fotografie presenti ai Salon vengono

scelte da pittori e che il valore estetico

pittorico è la qualità dominante.

Tale caratteristica è esaltata dall’introduzione

del procedimento di stampa alla gomma

bicromatata che, con esposizioni successive

della carta, permette di sovrapporre colori

diversi sullo stesso positivo, di lavorare la

superficie col pennello e di usare carte

colorate o di consistenze ruvide, tanto da

poter assimilare alcune stampe ad acquerelli. I

fotografi pittorialisti hanno così il mezzo

ideale per esprimere la loro artisticità

attraverso lo strumento fotografico.

Per capire questo fenomeno basta sfogliare

alcune riproduzioni pubblicate nella rivista

“Camera Work” fondata da Alfred Stieglitz

(1864-1946) a New York. Anzi, forse, per

raccontare quanto succede in Europa e in

America a cavallo dei due secoli bisogna

proprio partire dall’esperienza professionale

di Stieglitz, il fotografo che più di tutti ha

condizionato il modo di fare fotografia sui

due lati dell’Oceano.

Alfred Stieglitz e la nascita

della “fotografia diretta”

Già tra i più apprezzati partecipanti del

Photographic Salon europeo (esemplare The

Net Mender del 1894), Alfred Stieglitz

(1864-1946) dirige il “Camera Club” di New

York, diffonde i principi del pittorialismo

fotografico e, allestendo diverse mostre, dà

visibilità a autori emergenti come Edward

Steichen (1879-1973)e Alvin Langdon

Coburn (1882- 1966). Nel 1902 fonda con

altri colleghi sia la Photo-Secession, i cui

principale obbiettivo è far progredire la

fotografia come arte pittorica, sia la rivista

“Camera Work” (1903- 1917).

I membri della Photo-Secession dominano

anche la scena europea: nel 1908 al

Photographic Salon di Londra sono esposte

per lo più immagini di autori americani ed è

evidente lo scarto tra la passività con cui gli

europei si sono adattati allo stile pittorico

impressionistico e le nuove strade che

percorrono oltre oceano, incarnate nella

fotografia esposta da Coburn Flip-Flap

(1908).

Figura 4 - Il primo numero di Camera Work fondata da Alfred Stieglitz nel 1903

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L’evoluzione di Photo-Secession porta

all’affermazione della fotografia come arte a

sé: «La forma si adegua alla funzione»; cioè si

cominciano ad elogiare fotografie che

sembrano fotografie, senza le manipolazioni

presenti nelle opere precedenti. Lo scatto

fotografico deve essere identificazione di

soggetto e forma (Emblematica la fotografia

di Stieglitz del 1907, The Steerage ).

Nasce così la Straight Photography, la

“fotografia diretta” che implica una ripresa

del soggetto in sé e non come accessorio dei

sentimenti del fotografo. Stieglitz apre la

galleria “291” a New York e per primo

espone accanto a fotografie opere di artisti

quali Picasso, Picabia, Brancusi, Duchamp.

Stieglitz ricerca in modo ossessivo la verità

scevra da ogni condizionamento e la trova,

alla fine degli anni Venti, nel fotografare le

nuvole, da lui definite “Equivalents”; in esse

lo spettatore riconosce da un lato il soggetto

semplice e banale, ma dall’altro anche una

valenza espressiva; la macchina fotografica

dota immagini comuni di nuovi significati.

Sono per lo più i fotografi americani che si

dedicano alla purezza del mezzo: Edward

Steichen, che dal 1920 rinnega tutta la sua

produzione precedente ; Paul Strand (1890-

1976) che pubblica negli ultimi numeri di

Camera Work e Edward Weston (1886-

1958) che rinnega il flou delle sue prime

opere per dedicarsi a una messa a fuoco nitida

in ogni punto della stampa, essenzialità di

visione e ricchezza di dettaglio. Per Weston

estetica e tecnica si equivalgono.

L’opera di Weston diviene d’ispirazione per

molti e nel 1932 viene fondato il gruppo

“f/64”, la cui regola base rasenta il

dogmatismo più severo: la fotografia deve

essere a fuoco in ogni particolare, stampata a

contatto su carta brillante in bianco e nero.

Tra i membri più noti possiamo citare Ansel

Adams (1902-1984) che dedica tutta la sua

vita all’interpretazione della natura e a

dominare le complessità tecniche della

riproduzione fotomeccanica.

Figura 5 - Paul Strand, Ritratto di Giovane, Francia, 1951

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***

agli anni Venti del Novecento le

avanguardie artistiche, in primis il

Dadaismo, iniziano a interessarsi alla

fotografia facendo un uso del mezzo fotografico

per lo più evocativo, per cui spesso l’oggetto

ripreso è trasfigurato, assemblato, rivoluzionato,

portato a significare altro.

Nel segno di DaDa

E’ Marcel Duchamp (1887-1968) che

risemantizza la fotografia in maniera

rivoluzionaria, rendendo evidente il fatto che la

fotografia assomigli a un quadro ma in realtà

funzioni come un ready-made. In Duchamp

troviamo tutte le spinte artistiche che verranno poi

enucleate nel corso del secolo: dalla

rappresentazione dell’ambiguità sessuale (Rrose

Selavy – 1920 ca.) all’indifferenza verso la

capacità tecnica (molte delle sue fotografie furono

scattate dall’amico Man Ray), alla

contaminazione con altri mezzi espressivi

attraverso i fotomontaggi che, diversamente da

quelli ottocenteschi che miravano ad un’assoluta

verosimiglianza, puntano più sull’associazione di

idee - mescolando fotografie, disegni e stampe

tipografiche -, vengono usati soprattutto nelle

riviste e a scopi propagandistici, intrecciandosi

così strettamente alla storia politica del primo

Novecento.

Europa Vs U.S.A.

La pratica fotografica si libera da certe formalità e

nascono così le Rayografie di Man Ray (1890-

1976) e i fotogrammi di Làszlo Moholy Nagy

(1895-1946), creati con le tecniche ideate da

Talbot nell’Ottocento; nascono le doppie pose di

Aleksandr Rodcenko (18895- 1956) e i suoi arditi

tagli prospettici.

Figura 6 - Un Fotogramma di László Moholy-Nagy realizzato nel 1938 © VG Bild-Kunst, Bonn 2010

Interessante rilevare come gli aspetti più

innovativi della fotografia in questo periodo si

spostano di nuovo verso l’Europa, mentre

l’America con Weston e Steiglitz si arrocca su un

neopittorialismo che continua a seguire i

parametri dell’estetica pittorica e della perfezione

tecnica. La giovane nazione resta ancorata alla

ripresa pura del soggetto forse perché deve ancora

finire di conoscere se stessa, il suo territorio.

Nasce in quest’ottica il grandioso progetto della

Farm Security Administration del 1935 che

ordina una campagna fotografica sulla condizione

della vita rurale statunientese. Memorabili i lavori

di Walker Evans (1903-1975) e Dorothea Lange

(1895-1965) che sentono fortemente il valore

della foto come documento e riescono in questi

reportage a trasformare il contingente in valore

assoluto.

Il Surrealismo e

l’affermazione come Arte

E’ soprattutto la poetica surrealista che, esaltando

la capacità di registrare in maniera automatica ciò

che propone il mondo, vede nella macchina

fotografica il mezzo ideale per questo fine,

portando così la fotografia a essere riconosciuta

arte per quello che è, senza bisogno di

manipolazioni manuali, di sovrastrutture estetiche.

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In questa nuova ottica assurge a simbolo perfetto

del Surrealismo Eugene Atget (1857- 1927) che

conobbe una straordinaria fortuna postuma per le

sue fotografie di scorci anonimi di Parigi, trattati

come object trouvé e, non a caso, la sua fortuna

nasce dall’interesse dell’assistente di Man Ray,

Berenice Abbott.

Figura 7 - Eugène Atget, La Rue Quincampoix, Vue Prise de la rue des Lombards, 4e arrondissement, 1908 - George Eastman House collection

Nell’ambito surrealista interessanti sono i lavori di

Brassai (1899- 1984), in particolare la schedatura

dei graffiti anonimi lasciati sui muri di Parigi, che

anticipa l’aspetto della performance e dell’idea di

arte pubblica che sarà centrale nei decenni

seguenti.

Professione Fotoreporter

Tra le due guerre si diffonde la professione di

fotoreporter e il fotografo inizia ad essere

presente ovunque: dagli eventi ufficiali, alla

cronaca, agli scenari bellici e tutto questo

materiale confluisce nelle riviste che si fanno

sempre più numerose e diffuse, una su tutte

l’americana Life (1937-) i cui fotografi sono i

primi ad essere mandati al fronte durante la

Seconda Guerra Mondiale.

Il fatto che le fotografie vengano fatte per essere

pubblicate fa sì che siano i redattori a scegliere le

immagini più adatte ad illustrare la storia,

andando così a formare quello che sarà il gusto

del pubblico, la sua attesa; sulla lunga distanza

questo condizionerà una larga parte della

fotografia cosiddetta “industriale”: da quella dei

paparazzi a quella pubblicitaria.

Compagna inseparabile dei fotoreporter è la

macchina fotografica automatica che, dagli anni

Trenta, è rappresentata dalla Leica, duttile in ogni

situazione, sia sulla scena dello sbarco in

Normandia con Robert Capa (1913-1954), sia

nelle istantanee “costruite” di Henri Cartier-

Bresson (1908 -2004). Proprio Cartier-Bresson ha

la capacità unica, riconoscibilissima e

difficilissima da replicare, di catturare l’istante in

cui il soggetto è nel suo aspetto più significativo,

con un’armonia di forme, espressione e contenuto.

Robert Capa, Henri Cartier- Bresson e, in maniera

ancor più precisa, Robert Frank (1924 – col libro

The Americans - 1958), Williem Klein (1928-) e

Weegee (1899-1968 – col libro Naked city -

1945), si contraddistinguono per la loro continua

tensione ad essere immersi nel mondo e per

cercare sempre la relazione uomo-mondo; famosa

la frase di Capa a riguardo: «Se una foto non è

venuta bene vuol dire che non eri abbastanza

vicino». Questo approccio verso il mondo è lo

stesso che caratterizza la corrente dell’arte

Informale che domina Europa e America dalla

fine della Seconda Guerra Mondiale agli anni

Sessanta e che in pittura ha risultati visuali

diversissimi, basati sulla macchia, il grumo, la

spontaneità del gesto.

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Tra arte e pubblicità

Si arriva così alle porte degli anni Sessanta e

all’esplosione della Pop Art, incarnata senza

dubbio dalla figura di Andy Warhol (1928-1987)

e della sua Factory. E’ del 1964 anche il testo

rivoluzionario di McLuhan che con il suo slogan,

“il medium è il messaggio”, enuclea finalmente

l’importanza del mezzo con cui si vuole

comunicare.

La Pop Art estranea oggetti di uso quotidiano dal

loro contesto utilitaristico con l’isolamento e

l’ingrandimento (per esempio le scatole “Brillo”),

dando loro un rilievo eccezionale, ma senza

esprimere alcun giudizio. La fotografia, nei

riguardi del mondo, fa le stesse cose: separa un

oggetto dal suo contesto e lo esalta, ma al tempo

stesso non lo giudica. Da sempre la fotografia era

stata criticata dall’arte ufficiale per queste sue

caratteristiche inalienabili, con la Pop Art invece

troviamo una coincidenza sorprendente: fondante

sia la frase di Warhol - «vorrei essere una

macchina» - sia la sua passione per i ritratti fatti

nelle cabine automatiche per le fototessere.

La sospensione del giudizio, la forte voglia di

relazionarsi col mondo, non in modo empatico,

ma identificandosi quasi nella macchina

fotografica, si trova in tutta l’opera di Diane

Arbus (1923-1971), allieva di Lisette Model

(1901-1983), e famosa per le foto di “mostri”: il

non-giudizio della Pop Art le permette di

avventurarsi in qualsiasi ambito, con un desiderio

di accumulo di più soggetti possibili, fattibile

principalmente grazie alla fotografia. Si apre, così,

la strada a una maggior commercializzazione

dell’arte: la pubblicità inizia a servirsene e

viceversa, e l’artista comincia a muoversi tra i due

mondi senza nessuno “scrupolo”, fino ad arrivare

ad oggi dove un artista come David LaChapelle

(1963-) può usare l’identico suo prodotto per una

pubblicità e per un museo.

Figura 8 - Il numero del magazine Picture Post del 3 Dicembre 1938 con le foto di Robert Capa sulla battaglia del Rio Segre

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Figura 9 - Andy Warhol, Coke, 1984, polaroid, pezzo unico. © The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts, Inc.

Gli anni Settanta: Narrative

Art e Conceptual Art

Gli anni Settanta sono caratterizzati da movimenti

artistici che si allontanano sempre di più dalla

vecchia idea di immagine e si dedicano alla

performance e a modalità artistiche estemporanee:

Body Art, Narrative Art e Conceptual Art.

In tutte e tre la fotografia è stata necessaria per

eternare il gesto e il suo uso non è stato

meramente funzionale, bensì strettamente

connesso al messaggio dell’artista. Ciò che fa

Arnulf Rainer (1929-), con le sue pose goffe ed

estreme, oppure Urs Luthi (1947-) col suo

trasformismo ambiguo o, ancora, Luigi Ontani

(1943-) con la sua divertita e fantastica oniricità,

trova il vero mezzo espressivo nella fotografia

intesa come specchio in cui inverare una parte di

se e, in quest’ottica, si possono leggere e capire

artisti dai risultati del tutto diversi come Gina

Pane (1939-1990) o Francesca Woodman (1958-

1981).

La Narrative Art può essere divisa in due filoni,

quello che si richiama a dei fermi immagine di

film, congelando un attimo di un’azione che lascia

lo spettatore spaesato e curioso: impossibile

capire cosa è successo prima e cosa succederà

dopo (Cindy Shermann 1954-, Duane Michals

1932-); e quello che si richiama alla tipologia

degli album di famiglia per qualità fotografica e

per la presenza a volte di didascalie, come

nell’opera di Nan Goldin (1954-). La sua capacità

empatica coi soggetti è disarmante ed allarmante e

prevalica qualsiasi aspetto formale dell’opera per

evidenziare la totale fusione con il momento

ripreso; non a caso tutta una serie di fotografia

narrativa viene etichettata come “stile Goldin”.

Sia la Narrative Art che la Conceptual Art vanno

verso una denigrazione dell’aspetto tecnico-

formale della ripresa e della stampa fotografica,

da un lato, per evidenziare il più possibile la

natura indicale della fotografia, cioè la sua

imprescindibile relazione col mondo e la sua

capacità di evocare emozioni e concetti (in sintesi:

il suo valore è più concettuale che formale);

dall’altro, perché sentono di dover combattere

ancora contro la dicotomia ottocentesca dove la

capacità tecnica pareva sopperire a un’incapacità

artistica.

Figura 10 - Francesca Woodman, Untitled, New York, 1979-80

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Gli anni Ottanta e il kitsch

Questo aspetto di noncuranza tecnica scompare

negli anni Ottanta ad opera di due grandi figure

quali Robert Mapplethorpe (1946-1989) e Helmut

Newton (1920-2004) che con la loro opera

sintetizzano perfettamente la ventata edonistica

di libertà ed emancipazione del decennio.

Mapplethorpe, con la sua qualità fotografica alta,

pittorica e precisa, ha la capacità limpida, pura ed

essenziale di riportare sulla gelatina scene di atti

sessuali espliciti, in cui è spesso partecipe, in una

completa fusione tra arte e vita (i suoi modelli

sono amici ed amanti).

Newton, invece, parte da una carriera di fotografo

di moda per approdare poi a personali e musei;

crea un’arte algida e perfetta, ma lontanissima da

una qualche esperienza reale di vita: i suoi nudi

sono “troppo”, i suoi ambienti sono di una

ricercatezza stereotipata e solletica l’animo

voyeristico dello spettatore che indugia alla

ricerca del dettaglio più lubrico.

Figura 11 - Helmut Newton, Ecco vengono II, dalla serie Big Nudes Paris 1981 © Helmut Newton Estate

Il meccanismo di portare a livelli qualitativamente

alti contenuti di “serie B” , quali la pornografia,

infrange del tutto le barriere tra contenuti “alti” e

“bassi” e attua appieno l’ingresso del kitsch

nell’arte. Ingresso che pare sancito anche

dall’abbandono del colore per certi soggetti e

l’uso quasi esclusivo del bianco/nero; una

caratterizzazione estetica che a volte può apparire

stridente con la forte spinta alla rottura di canoni

presente nella fotografia contemporanea, ma che

di fatto connota la maggior parte della produzione

artistica del periodo. Solo un certo tipo di arte, che

vuole omologarsi all’uso popolare della macchina

fotografica, fa uso del colore, ma spesso in

maniera non calibrata, disattenta, proprio come

succede per gli scatti della gente comune. E’ stato

William Eggleston negli anni Settanta a sdoganare

un uso del colore calibrato e corretto ed elemento

portante del messaggio (“Triciclo”, 1970).

Gli anni Novanta e la Scuola

di Düsseldorf

La cura formale nella costruzione dell’immagine

di Mapplethorpe e Newton rivela come ormai

l’aspetto concettuale che vive nell’immagine

fotografica abbia preso il giusto sopravvento su

trite convinzioni pittoriche e fa sì che fotografi

trascurati negli anni Settanta proprio, per le loro

capacità, trovino negli anni Novanta un riscontro e

un successo planetario.

Paradigmatica la coppia Becher, Bernahard (1931-

2007) e Hilla (1934-), fautori di una fotografia

rigorosa ed oggettiva basata sulla schedatura del

mondo; eredi di August Sander (1876- 1964) e del

suo grandioso progetto di Face of our time,

osteggiato dal regime nazista; riprendono la sua

impostazione asciutta, documentaria per la

catalogazione di “tipi”, nel loro caso non umani

ma architettonici (silos, industrie etc.). Insegnanti

all’Accademia di Düsseldorf formano artisti come

Candida Hofer (1944-), Thomas Ruff (1958-),

Thomas Struth (1954-) e la loro influenza è

evidente nelle opere di tutti e tre. Interessante è

notare come per questo gruppo sia nodale anche la

dimensione e la collocazione della foto

nell’esposizione museale. Nulla è lasciato al caso:

la foto è concepita in un punto preciso di una

sequenza decisa dal fotografo ed è inamovibile e

inalienabile dalla stessa; le dimensioni, spesso

enormi, aumentano, da un lato, il senso di

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straniamento (per esempio le “fototessere” di

Ruff), dall’altro, agevolano l’immersione totale

dello spettatore nell’immagine ( le “biblioteche”

della Hofer).

Figura 12 - Thomas Ruff, Portrait (M. Roeser), 1999

La fotografia in Italia

Nel panorama italiano spicca negli anni Settanta

l’opera concettuale di Franco Vaccari (1936-), sia

a livello fotografico che teorico, con la

pubblicazione nel 1979 di “La fotografia e

l’inconscio tecnologico”, testo in cui difende il

carattere basso della fotografia e ricusa il concetto

di autorialità nell’atto fotografico; esemplare in tal

senso la sua esposizione a Venezia del 1972.

L’autonomia della macchina fotografica è

perfettamente esplicitata anche nelle opere di

Giulio Paolini (1940).

Negli anni ottanta vediamo emergere sul territorio

nazionale un movimento nuovo ed originale che si

incentra sul paesaggio visto non in maniera

trionfalistica, “da cartolina”, ma come paradigma

della precarietà di ciò che siamo; un paesaggio

“debole” sempre al confine tra urbano e rurale, tra

uso ed abbandono. Il movimento è caratterizzato

da un’attenta cura formale dello scatto

(prospettiva, bilanciamento luci, etc.); immagini

belle che non nascono da un gusto estetico, ma

dalla volontà di inverare un’esperienza umana.

Alfiere del movimento è Luigi Ghirri (1943-

1992)coi suoi paesaggi dai colori brumosi,

dimessi e discreti che, formalmente perfetti, danno

una sorta di tranquillità e di piacere estetico per

poi turbarci con il vero messaggio sottostante. Di

non meno rilievo l’opera di Gabriele Basilico

(1943) che dichiara esplicitamente di rifarsi

all’insegnamento di Walker Evans per la sua

fotografia descrittiva, inverata soprattutto nei

paesaggi architettonici. Nei suoi scatti Basilico

mira a una sospensione del giudizio su quanto

riprende e a un dialogo continuo col mondo

perché: cosa ci condiziona di più di quello che ci

sta intorno?

Sulla stessa linea si muovono Olivo Barbieri

(1953-), Guido Guidi (1941-), Mimmo Jodice

(1934-) e pochi altri che hanno fatto grande la

fotografia italiana nel mondo; ma all’interno del

contesto italiano il loro esempio ha creato solo

epigoni con pochi guizzi di originalità.

L’era digitale

Altro spartiacque nella storia della fotografia è

l’arrivo della tecnologia digitale che, sovvertendo

la modalità di ripresa dell’immagine, ha creato

inizialmente problemi di ordine teorico, di fatto

superati e smentiti dall’uso libero ed entusiasta da

parte degli artisti di questa nuova possibilità

artistica. Col digitale l’immersione nel mondo è a

360 gradi, 24 ore al giorno e allo stesso tempo la

creazioni di mondi onirici e paralleli non ha più

limiti. Artisti e materiali si moltiplicano a

dismisura ed è in pratica impossibile seguirne

percorsi ed evoluzioni.

Il crescente successo della fotografia ha fatto sì

che privati (gallerie, collezionisti) ed istituzioni

(musei, fondazioni) si aprissero anche alla

scoperta di artisti non occidentali (soprattutto

africani ed orientali) portando alla pubblicazione e

diffusione delle loro opere, ampliando

ulteriormente il panorama da analizzare.

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Maurizio Galimberti (Como, 1956) Ritratto di Fabio Castelli, 2003,

mosaico Polaroid, cm 82x48, opera unica

Courtesy: Fabio Castelli

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LA VOCE DEL COLLEZIONISTA:

FABIO CASTELLI

l ruolo della fotografia d’arte nel mercato

dai primi anni Novanta ad oggi si è

solidamente definito. Negli anni è

aumentata l’attenzione delle grandi istituzioni

culturali per questo medium e, parallelamente,

si è formato nei suoi confronti un interesse

sempre più ampio da parte dei collezionisti.

Tutto ciò ha fatto sì che artisti di primo piano

come Cindy Sherman, Andreas Gursky o

Richard Prince continuino a registrare risultati

strabilianti nelle aste internazionali. Record a

parte, quello della fotografia rimane ancora

uno dei punti di accesso privilegiati per chi si

avvicina al collezionismo d’arte

contemporanea, permettendo ai giovani

collezionisti di mettere insieme una collezione

di pregio con budget tutto sommato contenuti.

II fatto che le fotografie siano potenzialmente

più economiche non significa, però, che ci si

debba approcciare al collezionismo di questa

forma d’arte in modo superficiale. Come per

il resto del mercato dell’arte contemporanea,

infatti, anche per la fotografia esistono regole

non scritte che un collezionista (o aspirante

tale) deve assolutamente conoscere per non

incorrere in brutte sorprese. Nel

collezionismo, come in altri campi della vita,

d’altronde, niente è più prezioso

dell’esperienza e, nel nostro paese, la persona

più autorevole nel campo del collezionismo di

fotografia è certamente Fabio Castelli

fondatore, tra le altre cose, del MIA Fair –

Milano Image Art, la più importante fiera di

fotografia che si tenga in Italia.

Nicola Maggi: Lei ha iniziato a collezionare

fotografia negli anni Settanta. Come è

cominciata questa sua avventura?

Fabio Castelli: «Nella mia vita ho

collezionato moltissime cose diverse. Tra

queste la grafica, di cui ho creato

un’importante collezione che andava dagli

incunaboli fino ai contemporanei, toccando

tutti i supporti tecnici che poteva offrire. Ad

un certo punto, in questa mia disamina

approfondita di tutte quelle che sono le

tecniche e le dimostrazioni del massimo

risultato ottenibile da esse, sono arrivato al

I

Figura 13 - Fabio Castelli ritratto da Angela lo Priore

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cliché-verre che, come lei sa, è praticamente

un disegno fatto su un vetro traslucido che

viene messo su una carta fotosensibile ed

esposto alla luce per poi sottoporre la carta al

processo di sviluppo e fissaggio.

Caratteristiche che ne fanno un vero e proprio

trait d’union tra la stampa e la fotografia. Da

questo incontro ho deciso di approfondire la

fotografia».

Figura 14 - Jean Baptiste Camille Corot, Le jardin

d’Orace,1855, cliché –verre, cm 38x30.9. Courtesy: Fabio Castelli

N.M.: All’inizio su quali artisti si è

fermata la sua attenzione?

F.C.: «Fin dall’inizio ho adottato lo stesso

tipo di approccio che avevo utilizzato per la

grafica, partendo dagli “incunaboli” della

fotografia arrivando fino ai contemporanei. In

questo modo ho dato vita ad una collezione

che ripercorre tutta la storia della fotografia

dai Dagherrotipi fino ad oggi. Per me,

d’altronde, collezionare è stato sempre un

modo per conoscere. Ho cercato di riempire,

così come facevamo con le figurine, questo

album immaginario della storia della

fotografia con immagini che permettessero di

avere una visione coerente e logica di come si

inseriva questo grande viaggio nel mondo

dell’arte. Anche sotto il profilo storico

dell’evoluzione culturale, l’importanza della

fotografia è enorme, ha una valenza

straordinaria. L’impressionismo nasce dai

primi fotogrammi mossi della fotografia, da

Muibridge in poi; con la nascita del

pittorialismo, ha dato la possibilità alla pittura

di andare verso l’astratto e ha aperto la strada

alle avanguardie storiche. C’è

un’intersecazione straordinaria e la

comprensione di tutto ciò è proprio il bello di

collezionare, almeno per me, poi ognuno

colleziona nel suo modo».

N.M.: La fotografia sta riscuotendo un

successo sempre maggiore, in particolare

tra i giovani tra i 25 e 30 anni attirati anche

dal fatto di poter acquistare delle opere di

un certo pregio a prezzi ancora accessibili.

Che consiglio si sente di dare a questi nuovi

collezionisti?

F.C.: «Bisogna sempre vedere

l’atteggiamento. La generazione di cui parla,

che poi è quella di mia figlia, purtroppo

guarda troppo al discorso investimento.

Spesso la prima domanda che fanno è:

Quanto varrà nel futuro? Questo non può

essere il primo punto, l’investimento deve

essere inteso come acquisto oculato: comprate

qualcosa da una galleria che abbia un certo

prestigio e una certa storia; l’opera di un

autore che abbia un impegno serio

nell’attività che svolge e, soprattutto, qualcosa

che vi piace che soddisfi il vostro gusto

estetico e vi gratifichi. Uno dei test

fondamentali della qualità di un’opera è la

durata nel tempo del piacere di averla davanti

agli occhi. Se compri la fotografia di un

mazzo di fiori, sicuramente uno fresco, messo

in un bel vaso, ad un certo punto ti dà molto

di più che vedere sempre quell’immagine.

Devi capire quale beneficio trai dal guardare

costantemente un’opera e, quindi, deve essere

un lavoro che ha un contenuto non

esclusivamente estetico, ma che dica

qualcosa di più, che ti faccia pensare ogni

volta che lo vedi, che sia un memento per

qualcosa che sai essere importante. Quindi, il

primo approccio deve essere questo. E deve

essere fatto con consapevolezza: riguardo sia

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alla galleria che all’autore, il quale deve

garantirti una continuità della sua presenza sul

mercato e quindi la possibilità di poterlo

seguire, presupponendo anche un

miglioramento delle sue quotazioni e un

interesse del pubblico».

N.M. Nella sua lunga carriera di

collezionista qual è stata un’esperienza che

l’ha segnata particolarmente nel suo modo

di muoversi sul mercato?

F.B. «Ero a Paris Photo, compro un’opera di

un artista internazionale da una grande

galleria, tiratura 3 esemplari, e pago l’anticipo

per tenerla ferma. Mentre giro per la fiera mi

viene in mente la possibilità che ce ne siano

altre copie. Visto che so che c’è questa

consuetudine, chiamo per chiedere di

controllare. Sul momento mi rassicurano per

poi, però, richiamarmi e dirmi: ho chiamato

l’artista ce ne è un’altra tiratura di 5. A

questo punto sono tornato allo stand della

galleria e chiedendo di rilasciarmi un

certificato in cui la mia opera risultasse la

numero 2 di una tiratura di 8, al che mi

rispondono che questo non è possibile perché

ne è già stata venduta una anche dell’altra

serie. A quel punto ho richiesto indietro i

soldi. E questo è un aneddoto per dire che

questo mal costume è diffuso. Tutti i galleristi

e gli artisti tentano di fare i furbi con il

risultato di far scappare il collezionista che

rimane fregato. Queste regole del gioco sono

fondamentali per dare un costrutto al mercato

della fotografia. Tutte queste piccole cose

sono fondamentali».

N.M. Quello delle tirature è un tema

delicato nella fotografia che vede prendere

dai vari attori posizioni diverse, in

particolare se messo in rapporto con le

dimensioni della fotografia...

F.C.: «Io affermo che sia truffa fare delle

edizioni diverse a seconda delle dimensioni.

Se della stessa immagine stampi 3 esemplari

di una dimensione e 10 di un’altra, secondo

me devi dire che fai una tiratura di 13

esemplari suddivisi in dimensioni diverse. E’

vero che la dimensione fa parte del linguaggio

artistico però non è talmente importante da

farla diversa: è la stessa immagine più grande

o più piccola. Quindi di quell’immagine tu ha

fatto 13 copie. Poi, quando farai

successivamente un catalogo ragionato, dirai

che di quell’immagine ne hai fatte 6 di un tipo

e 7 dell’altro. In sostanza l’importante è il

numero 13 più, eventualmente, 1 o 2 prove

d’artista. Questa è la tiratura».

N.M. : le prove d’artista … altro tasto

delicato…

F.C.: «Quello delle prove d’artista è un altro

tema con cui gli autori, diciamo, bypassano

l’obbligo di dichiarazione di tiratura: la prova

d’artista va dichiarata esattamente come la

Figura 15 - Olivo Barbieri, Monteggiano, 1986, stampa cromogenica, cm 22x45,5. Courtesy: Fabio Castelli

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tiratura. Nella tiratura ci sono 5 copie più due

prove d’artista e devono essere dichiarate

altrimenti uno fa 20 prove d’artista e utilizza

questo escamotage per fare le tirature che

vuole; oppure per fare la bella figura e dare

all’asta charity un’opera di cui esiste una

tiratura ma di cui do una prova d’artista. E

questo tradisce coloro a cui sono state

regolarmente vendute perché si aumenta il

numero di copie sul mercato. La dichiarazione

di tiratura deve essere espressa dicendo, ad

esempio: 5 copie + 2 prove d’artista. Se

vogliamo essere ancora più precisi e toccare

una questione di riconoscimento, i numeri

delle copie della tiratura sono in numeri arabi

e quelli delle prove d’artista in numeri

romani. Si mutua, praticamente, l’esperienza

della grafica che usa questo stesso sistema di

numerazione».

N.M.: Dal punto di vista del valore

economico vi è qualche differenza tra le

varie copie?

F.C.: «Non cambia assolutamente nulla. Fare

differenze tra una fotografia 1/5 rispetto a una

5/5 è assolutamente feticismo puro perché

non c’è nessun degrado. Diciamo che nella

grafica si giustifica maggiormente, in

particolare nella punta secca dove quando si

arriva verso la 15 o la 20 si schiacciano le

barbe per cui cambia il segno, o

nell’acquaforte quando, diciamo, il rame

comincia a consumarsi e serve un’acciaiatura

che lo rende più rigido e meno fresco. Ma già

nella litografia tutto ciò è meno visibile.

Tornando alla fotografia, ci possono essere,

invece, prezzi che aumentano perché siamo

vicini all’ultima copia disponibile e quindi

cala l’offerta rispetto alla domanda. E’ questo

è lecito ma è un atteggiamento che non amo:

Figura 16 - Claus Goedike, VII 34, 1999, stampa cromogenica montata su legno e plexiglas, cm 56x70. Edizione 2/5+1 p.a. Courtesy: Fabio Castelli

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un po’ troppo orientato al business».

N.M.: La prova d’artista, invece, che

valore ha rispetto ad una copia della

tiratura?

F.C.: «Uguale. E’ un modo per differenziare.

Diciamo che la prova d’artista è quella che il

fotografo si tiene per sé e alla fine te la vende

quando non ci sono più copie disponibili.

Oppure gli serve per remunerare chi fa parte

del progetto: a te stampatore, invece di darti

dei soldi, di do un’opera, una prova d’artista.

Diventa moneta per coloro che sono coinvolti

nella produzione dell’opera. Può capitare,

però, che costino meno perché sono opere

meno direttamente coinvolte nel circuito, per

cui magari uno vuole monetizzare un ricavo a

fronte di un costo sostenuto per produrre le

opere ed è quindi disposto a fare uno sconto

sul prezzo, sul valore rispetto a quello del

mercato perché per lui è un ricavo della sua

attività produttiva».

N.M.: A proposito di prezzi, se si vuole fare

un acquisto oculato è necessario sapere

qual è il valore economico di un artista,

avere dei punti di riferimento ma questo

non è sempre facile in particolare se si

tratta di artisti non ancora arrivati al

mercato secondario (quello delle aste per

capirsi, ndr)…

F.C.: «Certo, quando parliamo di nomi che

iniziano ed essere presenti nelle aste, sono

sicuramente più controllabili ma si ha sempre

la possibilità di verificare. Se il tuo

interlocutore è una galleria seria mi fiderei Se,

invece, uno si fida del proprio gusto e compra

cose il cui riferimento non è oggettivabile

attraverso prezzi d’asta deve sapere che può

partire da meno di 1000 euro e arrivare fino ai

2500-3000 euro. Quando i prezzi cominciano

ad andare sopra i 5000 euro, invece, lì i

riferimenti li può avere guardando gallerie

diverse. E’ molto difficile che uno abbia

difficoltà. Diciamo che l’approccio giusto è

quello di iniziare con opere che hanno prezzi

relativamente bassi in modo tale da capire

cosa gli piace e poi girare».

Immagine di sfondo: Paolo Parma, Untitled

#0015, Al di là della luce, 2011, stampa giclée su

carta cotone, cm 60x60. Edizione 2/3

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TIRATURA & DIMENSIONI

l 1° novembre 1941, il fotografo e

ambientalista americano Ansel Adams,

famoso per i suoi paesaggi in bianco e

nero, scatta, da una spalletta della Route 84,

Moonrise, Hernandez, New Mexico. «E 'stata

fatta dopo il tramonto, c'era un bagliore

crepuscolare sulle cime distanti e nuvole. -

ricorderà Adams nel 1943, quando la foto fu

pubblicata sull'annuario US Camera - I valori

di luminosità medi di primo piano sono stati

collocati sulla "U" dell'esposimetro Weston

Master. Apparentemente i valori della luna e

delle cime lontane non si trovano al di sopra

della "A" dell'esposimetro. Alcuni possono

considerare questa fotografia un "tour de

force", ma io la considero una fotografia

piuttosto normale di un tipico paesaggio del

New Mexico. La fotografia al crepuscolo è

purtroppo trascurata; ciò che può essere triste

e poco interessante alla luce del giorno può

assumere una magnifica qualità nella

penombra tra il tramonto e il buio».

Stampata per la prima volta nel 1942 ed

esposta al MoMa di New York nel 1944,

Moonrise, Hernandez, New Mexico, diventerà

nel tempo estremamente popolare attraendo,

sempre di più, l'attenzione dei collezionisti.

Un crescente successo che ha spinto Ansel

Adams a stamparne la bellezza di 1300 copie

in tutta la sua carriera senza che questo abbia,

alla resa dei conti, intaccato il suo valore né

artistico né di mercato. Basti pensare che nel

2006 una stampa dello scatto realizzato dal

fondatore del gruppo f/64 è stata battuta

all'asta da Sotheby's per circa 610 mila dollari,

contro una stima iniziale tra i 150 e i 250

mila. Nel 2010, sempre Sotheby's, ne ha

battuta un'altra, di grandi dimensioni, per 518

mila dollari. A seconda delle dimensioni,

copie di Moonrise, Hernandez, New Mexico,

I

Figura 17 - Ansel Adams, Moonrise, Hernandez, New Mexico, 1941

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sono state vendute per tutti i prezzi.

La storia della fotografia di Ansel Adams è un

caso esemplare di come l'applicazione del

concetto di tiratura e edizione alla fotografia

possa risultare, alla resa dei conti, una

forzatura dovuta, in primo luogo, al mercato.

Sono per prime le gallerie, infatti, che già

dagli anni Cinquanta iniziano a chiedere ai

fotografi delle rarità e delle edizioni limitate.

Pur rimanendo sempre una scelta dell'artista,

infatti, la limitazione di un'edizione influisce

sul valore di mercato di un'opera e,

conseguentemente, sul suo prezzo di vendita,

secondo la “classica” logica della domanda e

dell'offerta. Negli anni, la questione della

limitazione di

un'edizione, della

numerazione delle

stampe, è stata

oggetto di un

acceso dibattito che

ha visto coinvolti,

per primi, proprio i

fotografi divisi tra

chi accettava questa

idea e chi la

riteneva, invece,

un'imposizione

quasi contro natura

nei confronti di un

mezzo, la

fotografia, che

aveva nella

riproducibilità una

delle sue

caratteristiche

fondanti. Non è un

caso, d'altronde, se

fino agli anni

Ottanta i fotografi si sono limitati a datare e

firmare le stampe. E, anche quando

decidevano di numerare le stampe, questo

rappresentava più una dichiarazione di intenti:

di fatto si numera a priori ma si stampa on

demand. Procediamo, però, con ordine.

Tiratura ed Edizione: una

definizione incerta

Il concetto di tiratura arriva alla fotografia

d'arte dal mondo della grafica e, in

particolare, dalle stampe del XX secolo che,

proprio per motivi di mercato, vedono

l'introduzione di nuovi comportamenti e

norme. In primo luogo la stampa di un

numero prestabilito di esemplari che, nel loro

insieme, compongono l'edizione e il cui

numero rappresenta la tiratura. Un po' come

avviene nei quotidiani: se leggete il colophon

di un giornale troverete indicata la tiratura di

quella determinata

edizione.

L'entità di una

tiratura, nella

grafica moderna,

viene stabilita in

base a vari fattori,

in primo luogo il

potenziale

mercato.

A differenza delle

stampe antiche,

quindi, il punto di

riferimento non è

più lo stato di

“salute” della

lastra che, di

impressione in

impressione, si

deteriora, facendo

perdere di qualità

(e di valore)

all'esemplare ma

una stima della domanda.

Definito il numero degli esemplari che

comporranno l'edizione e eseguita la tiratura, i

fogli venigono così numerati a matita in uno

dei due angoli inferiori della stampa. La

numerazione è composta, solitamente, da due

cifre in numeri arabi separate da un trattino

diagonale, X/Y, dove X rappresenta il numero

dell'esemplare e Y il totale della tiratura.

Parallelamente a questo tipo di numerazione

Figura 18 - Susan Hiller, Auras and Levitations, 2011. Nell'angolo in basso a sinistra si può vedere la numerazione dell'edizione dalla quale capiamo che si tratta dell'esemplare n. 5 di una tiratura di 10.

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se ne sviluppa un altro con cifre in numeri

romani impiegato per indicare, all'interno di

una medesima tiratura, esemplari con

caratteristiche diverse come, ad esempio, la

tipologia di carta utilizzata. Questo doppia

numerazione, con gli anni, è stata poi

utilizzata anche per differenziare gli esemplari

riservati all'autore e quelli destinati all'editore.

A queste tirature si è aggiunta, poi, quella

delle Prove d'Artista (p.d.a.), una volta

escluse dal mercato e destinate ad amici,

critici e collaboratori. Questa differenza di

numerazione ha creato, come si può ben

capire, una certa confusione, in quanto sugli

esemplari è indicato una consistenza della

tiratura che non corrisponde a quella reale.

Con lo sdoganamento della fotografia come

forma d'arte e il costituirsi di un suo mercato e

di un suo collezionismo, si riversa in questo

mondo quanto detto relativamente alla tiratura

nella grafica d'arte moderna, contraddizioni

comprese. Nella fotografia, come nella grafica

d'arte, il termine edizione sfugge ad una

definizione universale e questo rende le cose

abbastanza complicate, in quanto soggette ad

interpretazione tanto da parte dell'artista

quanto del mercato. Tra le varie scuole di

pensiero ne esiste una più conservatrice a cui

appartengono quei fotografi che creano delle

edizioni basate sull'immagine in sé: se

dichiarano un'edizione di 50 esemplari potete

essere ragionevolmente certi che sul mercato

non ne esistano più di 50, e questo a

prescindere dalle loro dimensioni. In altre

parole è l'immagine che conta e questo anche

se le dimensioni, come vedremo, hanno

comunque una loro importanza per quanto

riguarda il linguaggio dell'artista.

A questo modo di interpretare l'edizione se ne

affianca un secondo a cui fanno capo quei

fotografi che realizzano edizioni illimitate di

esemplari dalle dimensioni più piccole e

edizioni limitate di quelli più grandi. In

questo caso sono le dimensioni a dettar legge:

ad ogni grandezza corrisponde una edizione

diversa con una differente tiratura (e

numerazione). Capite bene che, stando così le

cose, i confini che dovrebbero delimitare con

chiarezza la definizione di edizione si fanno

abbastanza labili e, con essi, le certezze del

Figura 19 - Un'edizione limitata

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a26

collezionista. E certo non è applicabile una

definizione estremamente rigida che vorrebbe

l'edizione composta da esemplari tutti

stampati nello stesso momento, sulla stessa

carta, con gli stessi tempi di esposizione e lo

stesso equipaggiamento.

Dal nostro punto di vista, la definizione più

corretta di edizione è quella sostenuta anche

da Fabio Castelli, collezionista di fama

internazionale da tempo impegnato a creare le

condizioni per un decollo del mercato della

fotografia che si fondi su un collezionismo

consapevole: il termine edizione indica

l’insieme di un corpus prestabilito di

esemplari il cui numero è detto tiratura. Non

c’è bisogno che tutti gli esemplari siano stati

stampati nello stesso momento ma, se previsto

dall’autore, possono esserlo in momenti

successivi e in dimensioni diverse, a seconda

della domanda del mercato.

Secondo questa definizione, dunque, è

sufficiente che l’artista definisca a priori

l’entità dell’edizione per poi stampare,

successivamente, le copie a seconda delle

richieste pervenute,, apponendo la

numerazione successiva. Per esempio: se

l’autore decide che la sua immagine può

essere stampata in tre diverse dimensioni

(30x40; 60x80; 90x120) e che l’edizione

totale deve ammontare a 12 esemplari, le

copie, a prescindere dalla dimensione, anche

se stampate in tempi diversi porteranno la

numerazione da 1/12 a 12/12 in modo che

stampe di dimensioni diverse siano incluse

comunque nell’ambito di una stessa tiratura.

Naturalmente i relativi prezzi saranno diversi

a seconda delle dimensioni. Questo approccio

permette di sapere con certezza l’identità

totale dell’edizione senza correre il rischio di

trovare sul mercato ulteriori copie stampate

con la scusa di dimensioni diverse o di carte

diverse, o altro, e messe in circolazione per

interessi di parte ma che di fatto inflazionano

il mercato.

Edizioni limitate e illimitate

Ferme restando le due scuole di pensiero

indicate, è possibile dire che con il termine

edizione si indica quante volte è stata

stampata un'immagine: se l'artista decide di

stamparne un unico esemplare si parla di

pezzo unico, mentre se ne vengono stampati

più esemplari questi sono da considerarsi tutti

originali e non delle riproduzioni.

Un'edizione, inoltre, può essere limitata o

illimitata; numerata o non numerata a

discrezione dell'artista. Anche se spesso si

ritiene che un'edizione limitata valga di più

rispetto ad una non limitata questo non è

necessariamente vero e, a tal proposito,

l'esempio di Moonrise, Hernandez, New

Mexico di Ansel Adams parla chiaro. Infine,

come detto, un artista può scegliere se

numerare o meno un’edizione. Se si tratta di

una edizione limitata la numerazione, come

avviene nella grafica sarà a due cifre, separate

da un trattino diagonale, in cui il numero a

destra indica il totale degli esemplari esistenti

e quello a sinistra il numero dell'esemplare in

questione. Nel caso di edizioni illimitate,

Figura 20 - Oliver Boberg, Neubau, 2001, C-Print, 17/20. In questo caso la numerazione è apposta sul retro della foto

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invece, la numerazione sarà del tipo #10:

indicando in questo modo l'esemplare n.10 di

un totale indeterminato.

A tal proposito è da sottolineare come

l'eventuale aumento di copie di un'edizione

non fa perdere valore di mercato all'opera se a

farlo è l'autore stesso. Non è un caso, infatti,

se alcuni artisti non hanno voluto che, dopo la

loro morte, si realizzassero altre stampe da

negativo: la scelta del tempo di esposizione

della carta e il bilanciamento dei toni, infatti,

avrebbe bisogno sempre della supervisione

del fotografo. Per questo il numero degli

esemplari di un'edizione può non

corrispondere al numero dichiarato. E' il caso,

ad esempio, di Richard Avedon, i cui lavori

non sono stati più stampati dopo la sua

scomparsa – per sua stessa richiesta –

lasciando presumibilmente “incomplete”

edizioni che, in origine, prevedevano anche

100 esemplari. Ma questa situazione la

ritroviamo anche nel lavoro di artisti come

Franco Fontana che, negli anni Settanta,

sperimentando il mezzo fotografico, ha

dichiarato edizioni di 100 pezzi per poi

stamparne solo alcune copie ma numerate

comunque X/100.

Le Prove d'Artista

Comunque la si pensi, in un mercato della

fotografia d'arte in continua evoluzione con

valori in costante crescita, l'edizione limitata è

diventato quasi un obbligo per il fotografo

interessato a lavorare in questo mondo sempre

alla ricerca del pezzo unico e della rarità. La

stessa logica che sta alla base della scelta

dell'edizione limitata, ossia quella del numero

chiuso, ha fatto sì, peraltro, che sul mercato

stiano apparendo, sempre più spesso, le

cosiddette prove d'artista, originariamente,

come visto anche per la grafica, non destinate

al mercato ma riservate all'artista o utilizzate

da questo come ricompensa per un

collaboratore molto stretto o un critico.

Figura 21 - Sara Rossi Amalia, dalla seria Casa Reale, 2004, II/II p.d.a. Grazie alla dicitura apposta dall'artista sul retro dell'immagine, sappiamo che si tratta della seconda prova d'artista di due realizzate per quest'opera.

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Normalmente le prove d'artista sono un

massimo di tre e vengono numerate, a

differenza dell'edizione, con numeri romani.

Al di là di questa differenza, dal punto di vista

del mercato devono essere considerate alla

stregua delle altre stampe.

Le dimensioni

«Quando si compra una fotografia è cruciale

capire le dimensioni dell'edizione del lavoro

in questione. Si dovrebbe conoscere, inoltre, il

numero delle prove d'artista realizzate della

stessa immagine. Come pure se gli artisti

hanno utilizzato lo stesso negativo per

stampare una versione più grande o più

piccola di uno stesso lavoro, ciascuna delle

quali corrisponde ad una edizione. Tutto ciò è

fondamentale per comprendere l'universo di

copie disponibili di una stessa immagine, allo

scopo di capire e assegnare il giusto valore

alla foto in questione». L'autore di questa

dichiarazione è nientemeno che Nick

Simunovic, direttore della Gagosian Gallery

di Hong Kong che rappresenta artisti come

Andreas Gursky che detiene, con Rhein II

(1999), il più alto record d'asta per una

fotografia: 4.3 milioni di dollari. Ma cosa

determina la scelta di un formato piuttosto che

di un altro nella stampa di una fotografia?

Fino alla metà degli anni Novanta, gli artisti

sceglievano i grandi formati per potenziare

l'effetto empatico dell'immagine, per un

maggior coinvolgimento dello spettatore

davanti alla fotografia appesa al muro in

occasione di una mostra. Un tentativo,

dunque, di avvicinare l'immagine fotografica

a quella pittorica sotto il profilo dell'impatto.

Il grande formato in questo caso costituiva,

peraltro, un elemento di rarità che influiva in

modo positivo sul prezzo: pochi esemplari di

grandi dimensioni ad un prezzo più elevato

contro un numero molto più vasto di stampe

in formato più piccolo e dal costo più

contenuto.

Con la fotografia contemporanea la

dimensione diventa un elemento interno alla

ricerca del fotografo che opta per il grande

formato al fine di dare un nuovo significato

alle immagini. E' il caso, ad esempio, dei

lavori realizzati dagli esponenti della Scuola

di Düsseldorf - Thomas Ruff e Andreas

Gursky in testa - che, pur portando avanti

percorsi artistici personali, hanno in comune

la posizione “oggettiva” nei confronti del

soggetto fotografato, la “disumanizzazione”

delle immagini, la sperimentazione su grandi

formati. Oppure, tanto per rimanere in Italia,

alle fotografie metropolitane di Olivo

Barbieri, con le quali l'artista modenese

indaga nelle memorie dei luoghi che si

modificano, che cambiano forma e rapporti

dimensionali.

Da quanto detto emerge in modo chiaro come

i fattori che determinano la scelta di un

formato possano essere molteplici. Si va da

motivi prettamente artistici ad altri puramente

economici. Questa varietà di motivazioni, ci

ricorda come una fotografia non debba essere

valutata a partire dalla sua fisicità. Nel

valutare l'opera fotografica, l'elemento

dimensionale deve essere maneggiato con

cura e, in primo luogo, deve essere letto nel

più ampio contesto dell'opera complessiva di

un fotografo: è fondamentale capire se la

scelta di una dimensione sia una scelta

artistica o se, invece, non sia un escamotage

per eludere i limiti imposti dalla pratica

dell'edizione limitata.

L'opera di Thomas Ruff Substrat 26 III, del 2005

(280 x 188 cm), installata in una sala di Palazzo

Banci Buonamici a Prato, in occasione della

mostra organizzata nel 2010 da Dryphoto Arte

Contemporanea.

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IL VINTAGE

ei primi anni Ottanta, il mercato

delle fotografie di Ansel Adams fa

registrare un crollo vertiginoso.

Immagini che pochissimi anni prima si

vendevano tra i 4000 e i 16000 dollari vedono

il loro valore quasi dimezzarsi: sono gli effetti

della recessione, l'offerta supera la domanda

e il mercato si ferma. Oggi le opere del

fotografo americano, come abbiamo visto

parlando di Tiratura&Dimensioni, sono

arrivate a valere attorno ai 100mila dollari nel

caso di particolari stampe Vintage della

famosa Moonrise, Hernandez, New Mexico,

scattata da Adams nel 1941 e stampata nel

1942. E' l'effetto di un cambiamento nel

mercato avvenuto negli anni Novanta e che ha

visto un incremento di interesse, appunto, per

le cosiddette stampe vintage che argina la

stampa “senza regole” di nuovi esemplari dei

lavori di artisti come Adams ma anche Andre

Kertesz o Henri Cartier-Bresson. Ma cos'è

questa parola magica che fa lievitare così

tanto i prezzi?

Alle origini del termine

Vintage

Con molta probabilità, durante la vostra vita,

la parola vintage vi sarà apparsa davanti agli

occhi nelle più svariate occasioni. Dal mondo

della moda a quello della musica, infatti,

questo termine è tra i più utilizzati (e abusati)

degli ultimi decenni. Nato dal latino

vindēmia, filtrato attraverso il francese antico

dove diventa vendenge, l’aggettivo Vintage è

stato coniato, in primo luogo, per indicare vini

di particolare pregio diventando sinonimo

dell’espressione d’annata. Dal mondo

dell’enologia questo termine si è poi diffuso

in tutti i campi possibili assumendo, di volta

in volta, connotazioni specifiche. Nella moda,

N

Figura 22 - Il termine vintage dal vino si è diffuso a vari settori. In primo luogo alla moda dove esistono addirittura guide per vestire, truccarsi e pettinarsi vintage.

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tanto per fare un esempio, con vintage si

connota un capo di abbigliamento non

classificabile come semplicemente “usato” ma

d’epoca, di lusso o firmato (pensate agli

occhiali anni Settanta tornati di moda

ultimamente). Ma, a seconda delle mode e del

settore, Vintage diventano determinati oggetti

che assurgono quasi a ruolo di icone e così lo

potrebbe essere una Fender Stratocaster degli

anni Sessanta o un pianoforte Rhodes

autentico, così come un orologio Casio o un

Commodore 64 degli anni Ottanta. Dai

negozi di usato à la page a eBay, vintage –

come recita anche la

definizione reperibile

su Wikipedia, «è un

attributo che definisce

le qualità ed il valore

di un oggetto prodotto

almeno vent'anni

prima del momento

attuale e che può

altresì essere riferito a

secoli passati senza

necessariamente

essere circoscritto al

Ventesimo secolo. Gli

oggetti definiti

Vintage sono

considerati oggetti di

culto per differenti

ragioni tra le quali le

qualità superiori con

cui sono stati prodotti, se

confrontati ad altre

produzioni precedenti o successive dello

stesso manufatto, o per ragioni legate a motivi

di cultura o costume».

E la fotografia? Come spesso accade nel

mercato dell'arte, molte delle certezze che

pensiamo di avere vivendo nel mondo

“normale” si incrinano. Quando si parla di

stampe vintage, infatti, non si intendono

affatto foto d'epoca nell'accezione più comune

di questa espressione...

Le Stampe Vintage

In un mercato dell'arte sempre affamato di

pezzi unici e rarità, l'avvento di un medium

come la fotografia che, idealmente, permette

la creazione di opere riproducibili all'infinito,

pone una sfida senza eguali. Una sfida che gli

operatori del settore hanno affrontato, negli

anni, introducendo

limitazioni in grado di

arginare rischi come,

ad esempio, la

svalutazione di una

determinata opera

dovuta ad un eccesso

di offerta. Per dirla

con Walter Benjamin

il mercato dell'arte

cerca di “salvare”

l'aura dell'opera d'arte

e con essa,

ovviamente, il suo

valore economico. In

una visione non

dissimile da quella

esposta dal critico

tedesco, infatti, il

mercato vede nella

riproducibilità dell'opera

d'arte la messa in crisi

della stesso concetto di autenticità, legato

all'unicità e all'irripetibilità dell'opera. Per

questo, dopo la numerazione delle stampe e

l'introduzione dell'edizione limitata, fa la sua

comparsa il termine vintage che sta ad

indicare, secondo la definizione più

comunemente utilizzata, una «stampa eseguita

dall'autore (o da un laboratorio sotto il

controllo dell'autore) in un periodo non

superiore ai due o tre anni dopo la data dello

Figura 23 - Egon Egone, Tuscan Cypresses, 1926, vintage, stampa ai sali d'argento,cm 34x25. Courtesy: Fabio Castelli

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scatto dell'immagine stessa». Anche se alcuni

autori fanno salire questo tempo fino a cinque

anni, vale sempre la regola secondo la quale

più questo è breve, maggiore è il valore della

foto. Le stampe realizzate molto dopo lo

creazione del negativo, anche realizzate dallo

stesso autore, tendono ad avere un valore di

mercato minore. Tutto ciò innesca un sistema

premiante che predilige, dunque, alcune

stampe di uno scatto rispetto ad altre,

tutelando, così, in modo ancor più stringente,

la rarità dell'opera. Non solo, in alcuni

momenti, il vintage è stato interpretato quasi

come sinonimo di autentico, in quanto questo

concetto si basa sull'idea che essendo la

stampa molto vicina al momento dello scatto,

questa rispecchi maggiormente le intenzioni

dell'artista. Non a caso, il loro valore

economico maggiore, rispetto ad altre stampe

più tarde della stessa foto, rende quasi il

termine vintage sinonimo di migliore, proprio

come accadeva, in origine, per il vino.

Vintage = migliore?

Quella che potrebbe sembrare una definizione

perfettamente accettabile, negli anni ha dato

vita ad un acceso dibattito che ha avuto – e

continua ad avere – partecipanti illustri come

Allan Douglass Coleman, fotografo e primo

critico fotografico del New York Times.

Secondo Colemann la definizione “ufficiale”

di Vintage presenta due problemi di base: da

un lato, infatti, sembra dare per scontato che

Figura 24 - Joost Schmidt, Rilievo di un uomo in corsa, 1932, vintage, stampa ai sali d’argento, cm 5,8x7. Courtesy: Fabio Castelli

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le prime stampe, come detto, siano le

migliori; dall'altro, sembra implicare il fatto

che niente se non una stampa vintage sia

meritevole dell'attenzione dei collezionisti.

Questo approccio, afferma il critico del NYT,

non tiene conto di una parte essenziale di

questo particolare medium e, allo stesso

tempo, ignora il metodo di lavoro adottato da

tantissimi fotografi, tra i quali anche alcuni

dei più grandi come Bill Brandt o il più volte

citato Ansel Adams: conservare per anni i

negativi per svilupparli molto dopo il loro

utilizzo o tornare su un particolare negativo in

tempi successivi per reinterpretarlo. Non è

raro, d'altronde, che le

stampe più tarde

realizzata da un

fotografo o da un

laboratorio sotto la sua

supervisione, siano in

realtà migliori delle

prime. «Il punto

essenziale – scrive a

tal proposito A. D.

Colemann sul sito web

dell'Archivio di Bill

Brandt - è che un

fotografo può avere un

rapporto continuo con

i suo negativi, talvolta

lungo quanto la sua

vita. Questo è un

elemento legato alla

natura stessa del

medium. Comprendere questo fatto è cruciale

per un collezionista che intenda sviluppare un

approccio coerente alla fotografia». Egli

giunge così a chiedere che venga formulata

una nuova definizione di vintage in quanto

quella attuale, secondo lui, inquadra solo un

aspetto del problema.

Ma i dubbi sulla definizione di vintage

sembrano non affliggere solo personalità

come Colemann. La stessa IPAD -

l'associazione internazionale dei mercanti di

fotografia d'arte, nata con l'intento di

mantenere standard elevati in questo

particolare mercato – ha recentemente

suggerito ai suoi membri di sostituire la

parola vintage con la semplice indicazione

delle due date relative allo scatto e alla

stampa. Un suggerimento che, però, presenta

numerose vulnerabilità: in primo luogo legate

all'accuratezza delle datazioni.

Vintage sì, Vintage no

Un volta di più la

parola d'ordine del

collezionista deve

essere: cautela.

Sostenere in modo

assoluto il primato del

vintage sulle altre

stampe, è un

approccio da non

ritenersi

completamente

corretto. Come visto,

il primato cronologico,

infatti, non è detto che

coincida con quello

qualitativo. Oltre a

ciò, a seconda delle

epoche, può essere

molto difficile

stabilire con certezza cosa sia realmente

Vintage o no. Come racconta il collezionista

Alex Novak, membro fondatore, tra le altre

cose, del Getty Museum Photographyc

Council, «specialmente quando la data di

stampa valica il 1953 diventa difficile dire

quando una stampa è realmente Vintage senza

ricorrere a test molto costosi». E questo a

causa, principalmente, di particolari

sbiancanti aggiunti in quel periodo alle carte

Figura 25 - Hans Bellmer, La Poupée, 1937- 1939, vintage, stampa ai Sali d’argento colorata a mano, cm 14,8x14,2. Courtesy: Fabio Castelli

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fotografiche che fanno sì che molte stampe

vintage risultino identiche a stampe più tarde.

Anche per questo, non sono molti i mercanti

in grado di distinguere, realmente, una stampa

vintage e, non a caso, se per i galleristi il

problema viene risolto con il certificato di

autenticità, le case d'asta, normalmente, non

danno alcuna garanzia in questo senso,

certificando solo l'attribuzione dell'opera ad

un determinato artista.

Un esempio di quanto possa essere spinosa la

questione? Nel 1994 un esemplare della

fotografia Powerhouse Mechanic di Lewis

Hine viene battuto da Christie's per 90 mila

dollari. Nonostante un numero improbabile di

originali firmati di Hine presenti sul mercato,

sono poche le richieste di spiegazione: a

garantire il tutto basta il nome di Walter

Rosemblum, fonte delle immagini e curatore e

conservatore dell'opera di Hine fin dal giorno

della sua morte, avvenuta nel 1940. Ci vorrà

un giovane fisico, Michael Mattis, coadiuvato

dall'esperto forense del FBI, Walter Rentanen,

specializzato nell'analisi della carta, per

scoprire la realtà, ossia che si trattavano di

falsi vintage: dalle analisi risultò che la carta

era fatta con polpa di legno e non con gli

stracci, e quindi posteriore agli anni Trenta.

Inoltre questa era risultata positiva per quanto

riguardava la presenza di quegli agenti

sbiancanti che abbiamo detto essere stati

introdotti negli anni Cinquanta e che la

rendono luminescente se esposta a raggi

ultravioletti. Infine, fu rilevato un piccolo

cambiamento nel logo Agfa del timbro a

secco: prova finale che la foto, in realtà, era

una stampa realizzata tra il 1958 e il 1975.

Alla difficoltà di determinare ad occhi nudo

l'autenticità di una stampa vintage posteriore

ai primi anni Cinquanta, va poi aggiunto

quanto sostenuto anche da Colemann circa il

fatto che alcuni artisti ritornano su un

negativo per rielaborarlo, talvolta anche alla

luce di migliorate capacità tecniche. La cosa

migliore, allora, è valutare caso per caso,

artista per artista, tenendo sempre presente

che una stampa Vintage può arrivare a costare

anche 10 volte il prezzo di una stampa più

tarda. Una maggiorazione che talvolta ha un

senso, altre meno. Ed è giusto che ogni

collezionista si interroghi e faccia le sue scelte

con consapevolezza anche giungendo alla

decisione “estrema” di acquistare più stampe

di un'opera, temporalmente distanti tra loro, al

fine di documentare i vari cambiamenti. Una

soluzione che, ad esempio, potrebbe

interessare chi sta mettendo insieme una

collezione dedicata all'opera di un solo artista

o ad un solo genere.

Sullo sfondo: Lewis Hine, Power house mechanic

working on steam pump, 1920

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LE TECNICHE

iversamente da altre arti, in cui la

tecnica di produzione dell’opera ha

generalmente poche o minime

variazioni o innovazioni lungo periodi storici

piuttosto lunghi, la fotografia ha collezionato,

in quasi due secoli di vita, una quantità

straordinaria di processi fotografici sia per

riprendere le immagini sia per riproporle su

un supporto durevole. E, come già detto

altrove, soprattutto per quanto riguarda la

fotografia storica, spesso la tecnica ha più

valore del soggetto.

Di seguito si presenta una carrellata in ordine,

cronologico, delle principali tecniche di

stampa fotografica tentando di darne brevi ed

esaustive descrizioni.

PRIMA PARTE

Positivi diretti

Dagherrotipo (1839-1860 ca.) – Immagine

fotochimica unica su lastra di rame argentata:

è un positivo diretto con destra e sinistra

invertite rispetto al soggetto. La lastra veniva

esposta ai vapori di iodio per la

sensibilizzazione, spesso i dagherrotipi erano

colorati con pigmenti per assimilarli ai ritratti

pittorici. Erano conservati in appositi “case” –

cornici con vetro sigillate per preservarli più a

lungo e inserite custodie in pelle finemente

lavorate. Le lastre usate erano di misure

standardizzate: cm. 21.5×16.5; 10.5×8; 7×5.5;

16×12; 8×7.

Ambrotipo (1853 – 1865 ca.) – Dal greco

“indistruttibile”. Lastra di vetro su cui si

stendeva collodio umido. In genere si tratta di

ritratti fortemente sottoesposti che, osservati

in particolari condizioni, possono apparire sia

positivi che negativi.

Ferrotipo (1856 – 1870 ca.) – Fogli di ferro,

laccati di nero e coperti da un’emulsione

sensibile, in genere gelatina al bromuro, ma

anche al collodio che, dopo lo sviluppo, dà

un’immagine positiva di riflesso.

Materiali negativi

Disegno fotogenico (1839) – Fogli di carta su

cui è spalmata una sostanza sensibilizzante e

poi esposti alla luce con un oggetto (pizzo,

foglia etc.) appoggiato sopra. Inventato da

Talbot.

Calotipo (1841- 1860 ca.) – Negativo su carta

o stampa positiva diretta. Primo procedimento

in cui l’immagine dopo l’esposizione rimane

latente, ha bisogno cioè di essere “sviluppata”

tramite un lavaggio successivo

all’esposizione. Procedimento inventato da

Fox Talbot, tra le varie migliorie quella della

ceratura della carta di Gustave Le Gray nel

1851 che rendeva il foglio più trasparente. Il

calotipo permetteva di ottenere copie a

contatto; le stampe, però, presentavano una

certa granulosità dovuta alle fibre della carta.

Negativo all’albumina (1848 – 1852 ca.) –

Preparazione di lastre fotografiche negative su

vetro con albume d’uovo, il procedimento fu

velocemente soppiantato dal collodio umido,

ma rimase a lungo per la stampa.

Negativo al Collodio Umido (1850 – 1870

ca.) – Molto più sensibile del procedimento

all’albumina. Le lastre in vetro dovevano

essere esposte e sviluppate subito dopo la loro

preparazione, ancora umide, altrimenti

perdevano la sensibilità. Il procedimento al

collodio umido fu sostituito da quello al

collodio secco (1864) creato addizionando al

collodio sostanze idrosolubili per cui le lastre

potevano essere preparate ed usate a distanza

di tempo. In genere il collodio si usa per le

stampe ad annerimento diretto.

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Negativo alla gelatina secca (1871- 1920 ca.)

– Lastre di vetro su cui è stesa una gelatina

sciolta in acqua che ha in sospensione

bromuro d’argento che permette

un’esposizione veloce, anche di cose in

movimento. Prodotta in fabbrica, non più

artigianalmente. Questi negativi sono usati

per le stampe a sviluppo.

Negativo al Nitrato di Cellulosa (1920 –

1940 ca.) – Prodotto dalla Kodak dal 1883,

materiale flessibile, antenato dei rullini, molto

usato anche nel cinema. Ha però una serie di

svantaggi in quanto non è stabile, è

infiammabile e tende a sbriciolarsi.

Negativo all’Acetato di Cellulosa (Safety

film) (1939 – 1950) – In sostituzione del

nitrato, ha il vantaggio di non essere

infiammabile, ma non è molto stabile e si

restringe deformandosi nel tempo.

Negativo al Triacetato di Cellulosa (1947-)

– Usato ancora oggi, materiale durevole e

stabile.

Negativo al Poliestere (1940- 1960) – E’ il

più resistente ma molto caro. Usato solo dai

professionisti. (è il PET, lo stesso delle

bottiglie).

Stampe da negativo

Nelle stampe vanno distinte, soprattutto per

l’Ottocento, quelle fatte ad Annerimento

Diretto (POP- Printing out paper), cioè

quando la carta sensibilizzata è a diretto

contatto con il negativo e poi esposta alla luce

per molto tempo, dette anche stampe a

contatto; e quelle fatte per Sviluppo (DOP –

Developing out paper) in cui si impressione

sulla carta un’immagine latente che diviene

visibile con il bagno di sviluppo. Il

procedimento POP decade nel Novecento e in

genere veniva usato con carta a un solo strato;

mentre in procedimento DOP è quello che si

continua ad usare anche oggi nella camera

oscura e si usa con carte a strati multipli o

politenate.

La diversità di questi due procedimenti, oltre

che dai medium su cui sono usati, si può

notare anche dai toni dei grigi delle stampe

stesse: più caldi nei primo, più freddi nel

secondo.

Tutti i procedimenti descritti di seguito sono

in bianco/nero.

Carta Salata (1840-1860) – Semplici fogli di

carta da disegno imbevuti di cloruro di sodio

con soluzione di nitrato d’argento (un solo

strato). La superficie sensibilizzata veniva

posta a contatto con un negativo e, per azione

della luce, i sali d’argento si trasformavano in

argento metallico, con effetto rossastro

dell’immagine. Dopo l’annerimento diretto

veniva virata e fissata.

Carta Albuminata (1851- 1900 ca.) – Il

foglio di carta veniva ricoperto con bianco

d’uovo nel quale erano sciolti bromuro di

potassio e acido acetico (due strati). Una volta

asciutta una soluzione di nitrato d’argento

veniva agitata sulla superficie, poi di nuovo

asciugata. Questa è il primo tipo di carta che

viene prodotto industrialmente. La carta

sensibilizzata era messa a contatto con il

negativo. Poi la stampa veniva messa in una

soluzione di cloruro d’oro che le dava una

sfumatura di un marrone intenso, fissata in

iposolfito di sodio, lavata completamente e

asciugata. Le albumine sono molto sottili e

con il tempo tendono ad arrotolarsi, per

questo le si trova generalmente montate su

supporti di cartone.

Carte Aristotipiche (1886- 1920) –

Comprendono sia positivi al collodio ad

annerimento diretto sia positivi alla gelatina

ad annerimento diretto (carta al citrato). Il

foglio di carta era coperto prima da uno strato

di barita (solfato di bario) e su questo era

stesa l’emulsione o di gelatina al cloruro

d’argento o di collodio (tre strati). Potevano

essere di aspetto lucido se erano virate con

cloruro di sodio o opaco se veniva aggiunto

dell’amido all’emulsione. Essendo

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difficilissimo distinguere tra le due emulsioni

si può procedere a un test dell’acqua:

poggiando una goccia d’acqua sulla superficie

si noterà che la gelatina rigonfia mentre il

collodio è impermeabile. Le carte

aristotipiche ebbero una notevole diffusione,

sostituendo quasi completamente quelle

albuminate, ma intorno al 1920 caddero a loro

volta in disuso.

Carta alla gelatina ai Sali d’argento (1880/)

– Foglio di carta con barita ed emulsione di

gelatina con generalmente bromuro d’argento,

perché è il sale più sensibile. Carta a tre strati

usata in camera oscura con ingranditore e luce

elettrica (DOP). Per migliorare la stabilità

della stampa nel tempo si è aumentato il

numero di lavaggi a cui viene sottoposta la

carta (sviluppo- doppio fissaggio- stop) per

sopportare tutto questo è stata creata una carta

detta politenata che ha uno strato di plastica

sia sul retro sia tra la carta e l’emulsione. La

carta baritata però si conserva meglio nel

tempo.

NOTA: Tutte le stampe di cui abbiamo

parlato sopra in genere vengono sottoposte a

Viraggio, che è un trattamento chimico che

serve a migliorare la stabilità di una

fotografia e trasformare il colore di

un’immagine argentica. L’argento si unisce

ad un altro composto quale oro, platino,

selenio, uranio e zolfo. I primi due tipi di

viraggio sono i più stabili, danno toni caldi

all’immagine, ma sono i più costosi; gli ultimi

due danno il caratteristico color seppia.

Tecniche non argentiche

Ci sono procedimenti che sfruttano la

fotosensibilità di elementi chimici diversi

rispetto all’ argento.

Platinotipia (1880- 1930 ca.) – Carta

sensibilizzata con sali di platino e ossalato

Figura 26 - Minor White, Window Easter Sunday, Rochester NY, 1963. Stampa ai sali d'argento. 28x35.5 cm. Courtesy: Fabio Castelli

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ferrico, quest’ultimo, modificandosi in ferroso

per esposizione alla luce, fa si che i sali di

platino si trasformino in platino, metallo ben

più stabile dell’argento. E’ una carta a un

unico strato e si stampa per annerimento

diretto. Fu messa sul mercato dalla

Platinotype Company di Londra, essendo però

molto costosa decadde durante la Prima

Guerra Mondiale venendo sostituita dalla più

economica Carta al Palladio, che sfrutta

esattamente lo stesso procedimento ma con i

sali di palladio.

Cianotipia (1880- 1910) – Anche detta Blue-

print perché l’immagine finale è di colore

blu. Metodo veloce

basato su sali di ferro,

carta a un unico strato e

ad annerimento diretto.

Oggi è usato per

planimetrie.

Procedimento al

carbone (1860/) – Si

stende sulla carta una

miscela di particelle di

carbone, gelatina e

bicromato di potassio.

Carta a due strati e ad

annerimento diretto.

Dopo l’esposizione le

parti non impressionate

venivano lavate,

ottenendo cosi

un’immagine con

chiaroscuri proporzionali

alla densità e alla

trasparenza del negativo.

Per migliorarne i mezzi

toni si creò un procedimento di trasporto

(transfert) su carta al carbone acquistabile in

commercio in tre differenti colori: nera,

seppia e bruno-rossastra. In pratica

l’emulsione esposta, indurita, veniva staccata

dal foglio originale e riposizionata su un

nuovo foglio. Poiché l’immagine così era

rovesciata, solitamente si eseguiva un

secondo transfert.

Procedimento alla gomma bicromatata (

1855/) – Semplificazione delle tecniche di

stampa al carbone. Un procedimento si basa

sulla proprietà della gomma arabica, in

presenza di bicromato di potassio, di

diventare insolubile se esposta per qualche

tempo alla luce. Un pigmento viene mescolato

con la gomma bicromatata e applicato sulla

superficie di un foglio di carta da disegno.

Carta a due strati e ad annerimento diretto.

Molto usata dai pittorialisti perché si può

intervenire con altri strati di gomma e

pigmento per rafforzare le zone deboli e

inoltre si possono fare modifiche con

pennello.

SECONDA PARTE

Nelle due sezioni

seguenti ci sono forse

indicazioni un po’astruse

e di difficile

comprensione, il motivo

per cui sono state

compilate è perché uno

possa avere un minimo di

guida tecnica a quello che

acquista soprattutto nella

fotografia contemporanea

poiché con il prevalere

dell’aspetto industriale

spesso su molti supporti

moderni è praticamente

impossibile qualsiasi tipo

di restauro in quanto le

composizioni dei medium

sono troppo complesse e

misteriose.

Serve anche a sfatare un’errata idea di una

maggior qualità in senso di durata delle

stampe moderne..anzi, quasi più della stampa

antica la stampa moderna ha bisogno di essere

maneggiata con cura, poco esposta, non

piegata e la sua durata è comunque inferiore.

Deve essere il gallerista o chi per esso ad

essere in grado di comunicarvi tutti i dati

tecnici dell’oggetto, su che tipo di carta è

stato stampato, con quali inchiostri e con

Figura 27 - Wilhelm Von Gloeden, Seated youth and child holding vases of roses, 1914. Stampa salata virata seppia. 39.5x29 cm. Courtesy: Fabio Castelli.

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quali macchinari, le referenze dell’eventuale

laboratorio in cui il lavoro è stato stampato.

Moderni procedimenti a

colori

Stampe Cromogeniche – C print (1940/) –

Sono le fotografie a colori che tutti hanno a

casa. La composizione è complessa, fino agli

anni ’70 il supporto era cartaceo o in acetato

pigmentato (Kodak dal 1940). Sul supporto

primario vengono stesi diversi strati

contenenti coloranti JMC (Giallo-Magenta-

Ciano). L’immagine è molto instabile a causa

della fragilità chimica dei coloranti. Dal 1970

con in supporti in RC Paper si ottiene miglior

stabilità. I procedimenti più stabili oggi sul

mercato sono :

Fujicolor Crystal Archive (1997) notato sul verso della stampa

Kodak Endura (2002) notato sul verso della stampa

Una volta che i colori hanno virato è impossibile ripristinarli.

Diapositive Ektachrome e Kodachrome –

Entrambe a base di coloranti cromogeni e

quindi con le stesse problematiche delle

stampe. Le Kodachrome sono più stabili

perché i copulanti sono nel rivelatore: non ci

sono dunque copulanti residui nelle immagini

a strati. Essendo tutti prodotti industriali e

frutto di brevetti l’indicazione del tipo di

materiale è sempre stampigliata sull’oggetto.

Figura 28 - Luigi Ghirri, Senza Titolo, della serie: Paesaggi di Cartone, 1971. Stampa cromogenica su carta al polietilene. 18.5x23 cm. Courtesy: Fabio Castelli

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Procedimento a colori per distruzione di

coloranti (Detto anche Dye destruction)

Cibachrome 1963 – Ilfochrome 1991.

S’impone a partire dal 1980. Si basa sulla

dustruzione selettiva dei coloranti JMC

distrubuiti in tre strati in cui sono presenti

anche sali d’argento. Supporto di poliestere e

polietilene. L’immagine finale è di coloranti

azoici, prodotti sintetici, che sono stabili; il

problema è la stabilità meccanica del medium

che si divide in bande.

Stampe a sviluppo

istantaneo

Polaroid – Si divide in due tecniche: quella in

cui il negativo e il positivo sono separabili

(1947 Polaroid b/n – 1963 Polacolor – 1984

Fuji instant film FP 100) e quella in cui c’è un

blocco unico con uscita automatica

dall’apparecchio, detto sistema integrale

(1972 SX 70). Soprattutto il sistema integrale

ha i coloranti molto instabili alla luce (infatti i

grandi formati professionali sono sempre in

positivo/ negativo separabili), all’umidità e al

calore. E’ il procedimento più instabile di

tutti.

Procedimento a colori per trasferimento di

coloranti (Detto anche Dye transfer)

In commercio con diversi nomi, come

Pinatype (1880), Eastman Wash-off relief

(1936). Tra il 1945-1994 prodotto da Kodak e

poi dal 1995 Dye Tranfer Corporation per il

mercato americano.

E’ usato principalmente da artisti e mondo

professionale.,è il procedimento più caro ma

anche più stabile. Sulla carta c’è una strato

baritato e uno di gelatina brillante più tre

strati (matrici) in gelatina caricati ciascuno

con JMC.

La sovrapposizione delle tre immagini

avviene per trasferimento (dye transfer). Si

prepara una matrice di gelatina che assorbe la

materia colorante in misura proporzionale alle

luci e alle ombre e che, messa a contatto con

la carta, dà luogo all’immagine colorata.

Le tecniche a carbone, alla gomma

bicromatata e dye transfer richiedono tre

negativi distinti. Se il soggetto è immobile, è

facile fare esposizioni in tempi successivi, ma

se si devono riprendere soggetti in movimento

bisogna fare esposizioni simultanee. Le tre

matrici di gelatina sensibilizzata

corrispondente alla selezione tricromia blu,

verde e rossa, vengono inchiostrate in giallo,

magenta e ciano, e stampate su uno stesso

supporto di carta alla gelatina dando una

stampa a colori.

Questo procedimento ha un’ottima stabilità

all’oscurità mentre alla luce reagisce molto

meglio delle stampe cromogeniche.

Stampe digitali

Stampe a getto d’inchiostro – Sono le più

comuni, mercato molto diffuso, anche

“casalingo”. Difficile darne una descrizione

precisa perché le caratteristiche di una stampa

dipendono dal tipo di stampante, dal tipo di

inchiostro e dal tipo di carta. Dopo un periodo

di “stampa selvaggia” si è sentita la necessità

di regolamentare questo tipo di stampa per

poter dare parametri di qualità e durevolezza.

Stampa a getto d’inchiostro “fine art” IRIS

– Nel 1987 nasce la prima stampante IRIS

(nome commerciale) e negli anni Novanta le

IRIS-print o Giclée hanno avuto la loro età

dell’oro. Usata soprattutto da artisti o per

riproduzioni. Si può usare con qualsiasi tipo

di carta, sia semplice o con strato di gelatina.

Si basa sulla quadricromia (JMCK). Sono

stampe molto fragili perché i colori non sono

dentro la carta, ma sopra, quindi sono soggetti

a colature in presenza di umidità o acqua e a

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forti sbiadimenti in presenza di luce. Per

ovviare a questo a volte le stampe venivano

verniciate, ma dopo un po’ la stessa vernice si

deteriora e a volte assume un colore giallastro.

Stampa a getto d’inchiostro pigmentato di

tipo “fine art” – Iniziano ad essere usate

negli anni Novanta, soprattutto per le

produzioni di artisti che spesso si rivolgono

ad atelier specializzati in questo tipo di

stampa. In genere si usa una carta stile

“acquerello” (Sommerset, Hahnemuhle,

Lyson, Velin d’Arches) perché gli inchiostri

pigmentati sono più adatti alle carte opache, è

possibile usarli però anche su carte brillanti.

E’ poco raccomandabile verniciate gli

inchiostri pigmentati su carta opaca nella

speranza di dare lucentezza. Grazie

all’inchiostro pigmentato (che non è a base

d’acqua) le stampe risultano più stabili, ma i

colori sono comunque sensibili alla luce e alle

abrasioni.

Stampa a getto d’inchiostro su carta

commerciale multistrato – Inizia a

comparire negli anni Novanta ed è diventata

in fretta il procedimento più usato sul mercato

della stampa fotografica. Le carte sono

vendute dall’industria delle stampanti. Copre

sia il mercato amatoriale che quello

professionale-artistico per i prezzi molto più

bassi delle stampe “fine art”. Le carte essendo

industriale hanno una struttura molto

complessa e nei loro strati sono inseriti anche

agenti protettivi anti-UV, anti-ossidanti e filtri

ottici, possono essere usate con coloranti o

pigmenti e possono essere di due tipi:

Carte microporose: strato ricevente minerale che rende la carta poco flessibile e quindi non va arrotolata. Se viene stampata a coloranti è molto sensibile all’acqua e alla luce, se invece viene stampata a pigmenti è davvero molto sensibile all’abrasione.

Carta con strato ricevitore a polimero assorbente: meno sensibile all’inquinamento, all’acqua e all’abrasione.

Rispetto ad altre stampe il problema di queste

Figura 29 - Jiang Zhi, Rainbow n. 1-6, 2006. Digital color print. 80x120 cm. Edizione 6/12. Courtesy: Fabio Castelli

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con carta commerciale è che spesso il

deterioramento non è ne progressivo né

lineare.

Elettrofotografia (Stampe Laser) – Nel

1975 nasce la prima stampante laser e da

allora il mercato si è allargato notevolmente.

Col tempo la qualità delle stampe è molto

migliorata, sonno comunque prodotti non

pensati per un mercato patrimoniale. Si dice

che a volte i fotografi usano questa tecnologia

per realizzare “sterline fotografiche” cioè

vendere molte copie delle loro fotografie.

Segue lo stesso principio delle fotocopiatrici e

per questo motivo le stampe sono molto

fragili poiché il toner può deteriorarsi

polverizzandosi soprattutto se si utilizza carta

plastificata. Molto instabili alla luce.

Riccardo Varini, Serie Silenzi S18-09, 2012.

Stampa su carta cotone 100% Epson

Velvet Fine Art, a pigmenti K3. 30x45 cm.

Ed. 1/27 + II p.a. Courtesy: Fabio Castelli

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FIRME, TIMBRI E

ANNOTAZIONI

el 1827, Joseph Nicéphore Niépce si

reca alla Royal Society di Londra per

presentare la sua scoperta che lui

chiama ancora Eliografia ma che, di fatto, è

passata alla storia come la prima fotografia:

un’immagine di fabbricati e di tetti adiacenti

la sua abitazione, Le Gras, a Saint Loup

deVarennes, vicino a Chalon sur Saône,

ripresa dopo un’esposizione di circa otto ore

effettuata con una camera oscura posizionata

davanti a una finestra.

Figura 30 - Joseph Nicéphore Niépce, Vista dallo studio della casa di Le Gras, 1827.

Oggi conservata presso la Gernsheim

Collection dell’Harry Ransom Humanities

Research Center dell’Università del Texas,

questa prima fotografia è data per persa per

più di un secolo, ossia fino al 1952, quando è

stata ritrovata da Helmut Gernsheim che la

data, appunto, 1827, grazie ad una

annotazione presente sul retro dell’immagine

in cui si legge: «Il primo risultato ottenuto

spontaneamente dall'azione della luce da Mr.

Niepce. Chalon sur Saône. 1827. Il primo

successo dell’esperimento del Signor Niépce

di fissare in modo permanente un’immagine

dalla natura». Autore di questa iscrizione è

Francis Bauer, il contatto del fotografo e

ricercatore francese in Inghilterra a cui viene

affidata l’immagine durante il soggiorno per

la presentazione alla Royal Society.

Un’annotazione fondamentale per la

datazione e l’attribuzione che farà Gernsheim

ma anche per la stessa storia della fotografia.

Figura 31 - Il retro della foto di Niépce con le annotazioni di Francis Bauer

Questo aneddoto ci fa capire quanto i “segni”

presenti su una fotografia possono essere

rilevanti per chi si interessa di questa arte e,

magari, vuole diventarne un collezionista.

Quando si decide di comprare una fotografia,

infatti, deve essere sempre attentamente

valutata la presenza o meno, su di essa, di

firme, iniziali, timbri o la loro assenza. Per

alcuni artisti, infatti, può essere molto

importante come un’immagine è stata firmata.

Se pensiamo, ad esempio, alle foto di Edward

Weston, pietra miliare della storia della

fotografia a cui si deve l’avvicinarsi di questa

arte al linguaggio delle avanguardie di primo

Novecento, il loro valore può oscillare anche

di diverse migliaia di dollari a seconda che

siano firmate o meno. Per altri fotografi, in

particolare quelli europei attivi tra le guerre,

invece, la presenza o meno della firma incide

decisamente meno sul loro valore. Le stampe

tarde non firmate, realizzate dopo la morte di

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un artista, inoltre, possono esporre il

collezionista ad un alto rischio di frode o di

speculazione, perché non ci sono garanzie sul

numero degli esemplari presenti sul mercato

e, molto spesso, sono solo delle cattive

imitazioni degli originali. Non dobbiamo

dimenticare, infatti, che nella maggior parte

dei casi, la miglior garanzia che un’opera

fotografica mantenga il suo valore è che sia

una stampa vintage, firmata e rara. Ancora

una volta, dunque, è difficile dare una ricetta

precisa ma è necessario valutare caso per caso

e questo mette ancor più in evidenza la

necessità, da parte del collezionista, di avere

un buona preparazione.

Detto questo, prima di analizzare i vari

“segni” che si possono trovare sul verso o sul

recto di un’immagine, voglio ricordare che la

loro presenza è bene che sia documentata

fotograficamente ai fini assicurativi e per il

ritrovamento delle opere in caso di furto o

smarrimento, secondo quanto stabilito dallo

standard internazionale per la descrizione dei

beni culturali Object ID, elaborato nel 1993

dal J. Paul Getty Trust, lanciato nel 1997 e

oggi adottato dalle principali forze

dell’ordine, tra le quali FBI, Scotland Yard e

Interpol.

Per questo, quando si osserva un’opera

fotografica in una galleria e si sta decidendo

se acquistarla o meno, conviene sempre

vedere anche il retro della foto, a costo di

farla smontare: non accontentatevi di quello

Figura 32 - Edward Weston, New Mexico, 1941. In basso a destra è stata evidenziata la sigla con le iniziali del suo nome e la data.

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che vi viene detto, verificate sempre tutto!

Le firme

Come per la pittura o per la grafica d’arte,

anche nella fotografia ha preso piede, in modo

ormai consolidato, l’abitudine da parte

dell’artista di firmare i vari esemplari. Un

modo per “rivendicarne”

la paternità ma anche per

garantirne l’autenticità.

Ma dove si trova la

firma? Se avete

passeggiato per una fiera

o per una mostra di

fotografia, adesso, molto

probabilmente, vi starete

chiedendo come mai non

avete visto la firma

dell’autore sulle foto

esposte. La risposta è

molto semplice: se alcuni

fotografi firmano la

propria opera in basso,

proprio come fanno i

loro colleghi pittori, sono

invece la maggioranza

quelli che preferiscono

apporre la propria firma

sul retro dell’immagine,

assieme alla data e alle

eventuali indicazioni

relative al titolo

dell’opera, alla serie.

Usualmente firma ed

informazioni vengono

scritte a matita, e questo a fini conservativi,

ossia per evitare danni futuri all’opera.

Talvolta, la firma e le informazioni di cui

abbiamo appena parlato, possono essere

applicate sull’opera (o sul passepartout se non

addirittura sul retro della cornice) con

un’etichetta in cui vengono riportati anche i

dati della galleria. E’ un’abitudine recente ma

che sta prendendo sempre più piede tra gli

artisti.

I Timbri

Anche se non mancano artisti che timbrano a

secco, o in modo

tradizionale, le

proprie opere –

in Italia

possiamo citare,

ad esempio, i

Readymade di

Maurizio

Galimberti –

l’abitudine di

applicare il

proprio timbro

sulle opere

appartiene più

allo stampatore o

al montatore che

non all’artista.

Ma viene

utilizzato anche

dalle Agenzie o

dalle Fondazioni

che curano

l’opera di artisti

ormai scomparsi.

Non è raro,

inoltre, che sul

retro delle

fotografie siano

presenti timbri che rimandano a collezioni

private o pubbliche a cui le opere sono

appartenute in passato. Il timbro non

sostituisce la firma o l’etichetta ma,

normalmente, vi si affianca riportando dati

ulteriori e relativi, appunto, al soggetto che

l’ha apposto.

Figura 33 - Vista fronte / retro di Via Marina (1990), fotografia di Mimmo Jodice. Sul retro si può vedere la firma dell’autore.

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Le Annotazioni

Cosa dire, infine, delle annotazioni…

dovendone fare un elenco per tipologia

probabilmente non basterebbe un libro. Sul

retro delle fotografie (ma anche sul davanti)

se ne trovano di tutti i tipi: dalle dediche,

tipiche delle stampe Vintage, all’indicazione

del titolo, passando da dichiarazioni di intenti

a note che hanno tutto il sapore degli appunti

di viaggio, in cui è descritta la genesi di uno

scatto, fino ad indicazioni tecniche – come la

dicitura “Fotografia non manipolata al

computer” che applica Gianni Berengo

Gardin – o di destinazione d’uso, come quella

che si trova dietro la celebre fotografia di

Robert Capa del soldato lealista che cade in

punto di morte durate la guerra civile

spagnola, sul cui si legge: «Robert Capa //

Not for Reproduction».

Edward Weston, Excusado, 1925. Nell’angolo

in basso a sinistra è possibile vedere le iniziali

del nome del fotografo poste vicino alla

numerazione della serie. Nell’angolo in basso

a destra, invece, troviamo la firma e la data.

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Recto e Verso della foto Morte di un miliziano

lealista di Robert Capa (Spagna, 1936 – © Robert

Capa / International Center of Photography /

Magnum Photos). Sul retro si possono vedere

numerosi timbri e annotazioni. In particolare

quella del fratello Cornell Capa nella quale è

raccontata la storia di questa fotografia.

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LA CONSERVAZIONE E IL

RESTAURO

Quello che segue non vuole essere un

manuale del fai da te nella conservazione e

restauro delle opere fotografiche che, di fatto,

sono materie delicatissime e che hanno

bisogno di tempo, studio, esperienza e

ambienti idonei, ma piuttosto vuole far

emergere quanti accorgimenti l’appassionato

di fotografia deve imparare ad avere se vuole

far sì che la sua collezione abbia una buona

possibilità di durare nel tempo e di non

deprezzarsi a causa di una cattiva

conservazione che ne

può minare la stabilità.

Insomma, se sognate

di poter esporre in

pieno sole, in salotto,

magari vicino a un

camino, un’opera

fotografica e pensate

che per ridarle

lucentezza ed

eliminare sporco e

polvere basti una

passata di alcool, non

stupitevi se dopo pochi

anni l’immagine sarà

irriconoscibile e

irrimediabilmente

rovinata.

Ricordiamo che la fotografia non è un poster,

né un quadro incorniciato; una semplice

spolveratura un po’ aggressiva potrebbe

rigarne la superficie in modo irrimediabile,

una passata di vetril sul vetro o sulla plastica

di montaggio potrebbe innescare reazioni

chimiche imprevedibili e deleterie per

l’immagine. Ed è bene non toccare neppure i

vecchi adesivi presenti sul retro delle

immagini.

Nel dubbio (e riguardo alla fotografia si è

sempre nel dubbio) meglio, davvero, non fare

nulla e rivolgersi a un restauratore

specializzato. Se una volta capitava che fosse

un restauratore di carta (libri, stampe,

disegni), che si improvvisava esperto di

fotografia partendo dal presupposto che era

costituita dallo stesso materiale a lui noto,

oggi sono molti gli specialisti preparati in

materia di fotografia e quindi si possono

ottenere consulenze o interventi più che

garantiti.

Quelle che scriviamo di seguito sono delle

indicazioni generali di comportamento e delle

prese di coscienza di quello a cui si va

incontro iniziando un rapporto d’amore con

la fotografia

Quasi tutto il materiale fotografico era ed è

sensibile ai fattori

ambientali, non solo

alla temperatura,

all’umidità relativa,

all’inquinamento

atmosferico, ma anche

alle sostanze ossidanti

emesse dai materiali

da costruzione, quali

vernici murali, arredi

in legno, cartoni e

persino le buste o

confezioni originali

utilizzate per

proteggere i materiali

fotografici. Vediamo,

dunque, come

dobbiamo comportarci con le nostre

fotografie.

La manipolazione

La difesa principale che un collezionista può

attuare per mantenere in buono stato le

proprie opere è una corretta manipolazione.

Alcune regole semplici e una rigorosa

disciplina permettono di evitare un gran

numero di alterazioni meccaniche dovute ad

errate manipolazioni umane: segni

d’impronte, rotture di lastre, stampe lacerate o

sgualcite, negativi rigati, ecc.

Figura 34 - Se una volta capitava che fosse un restauratore di carta che si improvvisava esperto di fotografia oggi sono molti gli specialisti preparati in materia

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Questo è quello che si dovrebbe fare:

trasportare i documenti su un vassoio imparare a tenere la fotografia con due

mani o supportarla con un cartoncino più rigido;

indossare guanti di cotone puliti quando si consultano i materiali fotografici e non toccare mai il lato dell’emulsione dell’immagine fotografica (esempio: stampe, negativi, diapositive, lucidi, ecc.);

limitare i tempi di manipolazione, poiché calore e umidità prodotte dalle mani possono comunque deformare le immagini;

preparare una superficie di lavoro e di studio pulita;

non utilizzare nastri adesivi, graffette, cavalieri, puntine o elastici sul materiale fotografico; non utilizzare mai carpette o buste in PVC.

Tutti i materiali di conservazione dovrebbero

superare il Photographic Activity Test

(PAT), come indicato negli standard in base

alla norma ISO 145523-1999 PAT. Questo

test rigoroso valuta gli effetti dei materiali di

conservazione sui materiali fotografici.

Attualmente molti produttori e fornitori di

materiale di conservazione eseguono questo

test sui loro prodotti. Se possibile, quindi,

acquistate prodotti che hanno superato il PAT

o richiedete che tutto il materiale di

conservazione acquistato debba averlo

superato.

La carta e il cartone dovrebbero essere

conformi ai seguenti criteri:

alta percentuale di cellulosa (oltre 87%); pH neutro (attorno al 6.5-7.5); bassissimo contenuto di zolfo; legante neutro, libera da lignina, da

particelle metalliche, acide, perossidi, formaldeide e da agenti nocivi derivanti dall’incollaggio.

Figura 35 - I materiali fotografici dovrebbero essere manipolati indossando sempre guanti di cotone puliti.

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L’ambiente

Per valutare o migliorare l’ambiente in cui si

andranno a conservare le opere bisogna

prestare attenzione a vari parametri:

La luce

Lo spettro visibile della luce (violettoblu-

verde-giallo-arancione-rosso) si situa su

lunghezze d’onda fra i 400 e i 750 nm. Sono

le radiazioni che precedono (ultraviolette) e

quelle che seguono (infrarosse) che

determinano principalmente il deterioramento

dei supporti fotografici: i raggi UV

provocano uno scolorimento dello strato

dell’immagine mentre i raggi IR fanno

apparire un ingiallimento. Inoltre, più la

lunghezza d’onda è piccola, più essa origina

reazioni importanti nei materiali organici

quali cellulosa, collagene, pigmenti organici,

ecc.

Va evitata la luce naturale e le fonti di

illuminazione devono essere messe lontane

dalle opere, per evitare il surriscaldamento

delle stesse. Per questo andrebbero

privilegiati i sistemi di illuminazione

intermittenti.

Per attenuare gli effetti nefasti della luce

naturale, esistono tre soluzioni possibili:

le sale d’esposizione devono essere orientate a nord,

installare tende esterne, impiegare filtri sulle finestre.

Per la luce artificiale vediamo che le lampade

incandescenti, con filamento al tungsteno, non

emettono radiazioni UV ma provocano una

colorazione giallastra come pure una forte

emanazione di calore. Mentre le lampade

alogene (iodio + quarzo), offrono una resa

migliore dei colori ma un’emanazione di

calore superiore a quelle al tungsteno. E’ utile

dotarle di un filtro UV. La lampada meno

dannosa è quella fluorescente, anche in questo

va sempre però installato un filtro UV

policarbonato.

E’ importante ridurre l’intensità luminosa:

150 lux per stampe moderne in bianco e nero,

Figura 36 - Va evitata la luce naturale e le fonti di illuminazione devono essere messe lontane dalle opere, per evitare il surriscaldamento delle stesse.

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50 lux per stampe a colori e per le copie del diciannovesimo secolo.

E’ , infine, limitare i tempi di esposizione e

per questo sono consigliate luci intermittenti.

L’umidità relativa

Se è troppo bassa aumenta gli effetti

dell’elettricità statica e provoca screpolature

sull’emulsione. Se troppo alta si genera

un’idrolisi dei coloranti e della gelatina che

favorisce la formazione e in seguito la

proliferazione di determinate spore e di alcuni

funghi all’interno dell’emulsione.

La temperatura

Questo fattore si combina strettamente con

l’umidità relativa. Una

temperatura troppo

elevata attacca la

gelatina e provoca dei

distacchi

dell’emulsione. Al

contrario, una

temperatura bassa

associata ad

un’umidità relativa

adeguata favorisce un

notevole allungamento

della vita dei supporti

fotografici. Va da sé che

fluttuazioni di

temperatura e umidità dovrebbero essere

evitate.

Fluttuazioni di temperatura e umidità

dovrebbero essere evitate

Generalmente la temperatura dovrebbe essere

mantenuta più bassa possibile e costantemente

monitorata; di seguito alcuni dati generali,

fermo restando che le scelte vanno fatte dopo

aver consultato uno specialista, soprattutto per

i materiali a colori:

le stampe e i negativi in bianco e nero dovrebbero essere conservati ad una temperatura sotto ai 18° C e l’umidità relativa (UR%) attorno al 30-40%;

i materiali a colori dovrebbero essere conservati in ambienti a bassa temperatura (sotto i 2° C e 30-40% di UR) per assicurare la durata.

per le collezioni fotografiche composte da differenti procedimenti è raccomandato il tasso di umidità relativa del 35-40%.

L’inquinamento

L’inquinamento atmosferico ha innumerevoli

effetti dannosi sui supporti fotografici. Alcuni

gas, quali l’anidride solforosa, l’ossido

d’azoto, i cloruri e i solventi, attaccano

l’argento metallico ossidandolo.

Stesso discorso per le particelle solide

dell’aria (minerali e organiche) che

danneggiano

l’emulsione e

provocano delle

rigature indelebili. Tra

gli inquinanti che

possono danneggiare

le pellicole si

comprendono i

perossidi (derivanti

dalla carta e dal

legno), composti di

cloro, ossidi di azoto,

diossidi di zolfo,

acido solfidrico (di

solito gli elastici

possono contenere

zolfo), impurità nelle colle, gas emanati dalle

vernici, ozono prodotto da fotocopiatori e da

certe lampade e apparecchiature elettriche,

ammoniaca, fumo, insetticidi, polvere,

particelle abrasive e funghi. Sono consigliati

filtri d’aria a carbone attivo e moquette a

bouclé, piuttosto che rasata, perché pezzetti di

fibra abrasivi possono essere rilasciati dal

pelo rasato per un tempo molto lungo.

Gli agenti biologici

I supporti fotografici sono facilmente attaccati

da certi funghi e da certi batteri. Funghi e

batteri s’installano sullo strato argenteo e

distruggono l’immagine. Quando si

Figura 37 - L’inquinamento atmosferico ha innumerevoli effetti dannosi sui supporti fotografici

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acquisiscono documenti fotografici, è utile

procedere ad un attento esame di ogni

supporto fotografico onde separare i pezzi

contaminati. Questi ultimi dovranno essere

affidati a un restauratore specializzato, il

quale procederà a trattamenti fungicidi,

insetticidi e battericidi.

Per quanto concerne i pezzi in buono stato, il

rispetto delle condizioni di conservazione

(temperatura + umidità relativa) rappresenta

la miglior garanzia contro ogni agente

biologico. È importante separare i supporti

che si stanno deteriorando da quelli in buone

condizioni: i materiali in corso di

deterioramento, infatti, producono sostanze di

degradazione che possono indurre

deterioramenti in altri supporti fotografici.

Il condizionamento

Per condizionamento nel mondo della

conservazione e del restauro si intendono tutti

quei materiali e quelle pratiche atte a

conservare nel modo più corretto possibile un

oggetto. Riguarda, quindi, non solo il tipo di

carta o di plastica con cui si copre una

fotografia ma anche la posizione in cui la si

conserva.

Differenti tipologie di materiali fotografici,

come vetro e pellicole fotografiche, stampe a

contatto, fotografie a colori, lucidi dovrebbero

essere conservate separatamente. Soprattutto,

sarebbe opportuno conservare ogni tipo di

materiale su pellicola isolato da altri tipi di

pellicola. Tale organizzazione protegge gli

altri supporti fotografici dai prodotti nocivi

derivanti dalla degradazione del nitrato di

cellulosa e degli acetati di cellulosa. In

particolare, l’acido nitrico che si forma dalla

degradazione del nitrato di cellulosa può far

sbiadire le immagini su argento, far diventare

morbidi e perfino appiccicosi i leganti di

gelatina e corrodere i contenitori e gli armadi

di metallo. Questo tipo di organizzazione per

qualità dei materiali rende anche più efficiente

ed efficace il monitoraggio dello stato della

raccolta.

La soluzione migliore per le fotografie di

piccolo formato non è conservarle in quadro

ma collocare ogni singola foto in una busta di

carta idonea (opaca o mylar), riducendo così i

possibili danni alla fotografia, e aggiungere

protezione grazie anche all’uso di un

cartoncino di supporto che permetta di

Figura 38 - La soluzione migliore per le fotografie di piccolo formato è conservarle in una busta di carta idonea (opaca o mylar)

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manipolare la foto senza toccarla.

Per i grandi formati, invece, la messa in

cornice può essere un mezzo di

conservazione, in genere con polipropilene

per la protezione contro l’acqua. Ci vuole

l’introduzione di uno spessore , o

distanziatore, nell’interfaccia immagine-vetro,

per evitare problemi d’aderenza

difficilmente reversibili e risolvibili.

Attenzione particolare deve essere data alle

stampe fotografiche di grande formato

montate su cartone, poiché spesso il cartone

originale è acido e estremamente fragile: la

fragilità del supporto può mettere a rischio la

stessa immagine perché il cartone può

rompersi danneggiando la fotografia.

Una volta che le fotografie sono state

collocate in cartelle, raccoglitori o buste,

possono essere immagazzinate verticalmente,

o orizzontalmente, in scatole con apertura sul

fronte per agevolare l’estrazione e la

ricollocazione. L’immagazzinamento

orizzontale delle fotografie è generalmente

preferibile alla conservazione verticale,

poiché lo scaffale, o cassetto, permette un

naturale supporto e evita danni meccanici

come l’incurvatura.

E’ ottimale avere due livelli di contenitori:

busta e scatola, ma va comunque evitato

l’affollamento di pezzi in scatole o cartelle.

Tutto il materiale, inoltre, deve avere inerzia

chimica comprovata. Il condizionamento

corretto è molto utile in quanto crea un effetto

tampone da T e HR, protegge dalla luce e da

danni meccanici.

Il grande formato nella

fotografia contemporanea

La fotografia contemporanea spesso ha grandi

formati e questo porta a diversi inconvenienti:

peso instabilità fisica natura dei materiali e del montaggio, che

può essere fatto con supporti inadatti come il legno o in maniera irreversibile come con lastre di metallo.

Inoltre, mentre per la fotografia storica

si conoscono abbastanza bene

materiali e tecniche, la fotografia

contemporanea, in cui gioca un ruolo

preponderante l’industria, ha strutture

Figura 39 - Per i grandi formati la messa in cornice può essere un buon mezzo di conservazione

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e composizioni complesse, spesso

coperte da brevetti o segreti

industriali, per cui è difficilissimo

poter intervenire in maniera certa su

alcuni problemi. Di fatto, le alterazioni

chimiche e biologiche sono

irreversibili e i danni sono evidenti

anche nell’alterazione dei colori e

bisognerebbe eliminarne le fonti

come: colle, adesivi, spore, supporti

inadatti, sempre con l’attenzione a non

modificare l’opera.

Soprattutto per l’opera d’arte contemporanea

sono indispensabili informazioni tecniche e

storiche sull’opera e si dovrebbe avere sempre

presenti le scelte dell’artista concernenti

l’esposizione. Sarebbe importante conoscere

anche il nome del montatore. Per opere di

grande formato che invece non hanno

montaggio è importante ricordare di non

arrotolarle perché ci sono rischi di rotture e di

deformazioni irreversibili.

Gli interventi preventivi

Una volta in possesso di una fotografia

sarebbe opportuno far verificare da uno

specialista se ha bisogno dei seguenti

interventi:

pulizia; rimozione adesivi; smontaggio (non solo per la

composizione chimica dei supporti, che può essere una fonte di alterazione, ma anche perché, a volte, il montaggio può creare tensioni nell’originale causando deformazione o incrinature dell’immagine).

Gli interventi curativi

Di fronte a una necessità oggettiva

d’intervento, per cercare di ripristinare lo

stato ottimale dell’opera bisogna prima di

tutto ricordarsi che, spesso, meno si fa e

meglio è, e poi si può procedere ai seguenti

passaggi:

riposizionamento in piano dell’opera; consolidamento degli strappi e delle parti

mancanti; reintegrazioni.

E’ da notare che se per le foto contemporanee

si tende a chiedere molto spesso un restauro

estetico, molto legato al valore di mercato, per

quella storica si pensa più a un restauro

archeologico.

Prevenire è meglio che

curare

Nell’acquisto di un’opera fotografica bisogna

richiedere informazioni precise

sull’assemblaggio, il condizionamento, le

Figura 40 - Ogni fotografia dovrebbe avere un suo imballaggio dedicato realizzato con materiali certificati

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condizioni di archiviazione e quelle

d’esposizione; spesso il come è vissuta

un’opera è evidente già da come il gallerista

ce la propone. L’oggetto dovrebbe avere un

suo imballaggio dedicato, realizzato con

materiali certificati, e facciamo attenzione

anche a come il personale la manipola: a volte

il segno di impronte digitali sull’immagine

appare dopo molto tempo che l’opera è stata

toccata nella maniera scorretta; ricordiamo

inoltre che non esistono procedimenti di

restauro che possano ripristinare l’opera, a

volte si tenta di coprire il danno con ritocco

pittorico, ma su superfici lisce e brillanti

spesso è impossibile.

Per il restauro delle foto a colori va tenuto

presente che nessun restauro è possibile nel

caso di un alterazione chimica dei coloranti,

che è di fatto la principale forma di degrado;

l’instabilità dei coloranti può portare a viraggi

di colore dovuti al degrado di collanti residui

sulla carta o al degrado dei coloranti stessi.

Con la fotografia a colori ci troviamo ad

affrontare problematiche conservative assai

complesse, in quanto, da un lato, c’è una

grande sensibilità dei coloranti ai solventi e

agli inquinanti, dall’altro, c’è una cattiva

conoscenza dei materiali fotografici dovuta,

come detto, a questioni di mercato industriale.

L’unico modo per preservarsi da spiacevoli

scoperte è attuare da subito interventi

preventivi che controllino luce, temperatura,

umidità relativa e contaminanti.

Esposizione delle opere –

Montaggi

Ci sono norme internazionali che

regolamentano i parametri espositivi e i

materiali da usare (uno su tutti lo AFNOR Z

010 – jun 2005 e segg.) e indicano, per

esempio, quali tipi di trattamento del legno

sono idonei per le teche espositive o quali

vernici speciali possono essere usate, fermo

restando che vadano applicate almeno tre

settimane prima dell’utilizzo, in modo che

tutti i solventi o altri prodotti chimici siano

evaporati.

Riguardo ai metalli vanno prediletti alcuni

tipi di acciaio galvanizzato o inossidabile,

oppure alluminio o alluminio Dibond

(alluminio speciale, marchio registrato).

Per i materiali plastici sono raccomandati

polietilene, polipropilene, gli acrilici, i

policarbonati e il plexiglass, mentre gomme e

siliconi possono rilasciare nel tempo elementi

di deterioramento molto pericolosi. Da evitare

il poliestere, poichè sulla superfici brillanti

crea un effetto di ferrotypage e a causa

dell’elettrostatica può creare delle bande sulla

superficie dell’immagine.

Per l’esposizione è sempre consigliabile che

l’opera sia chiusa correttamente in una

cornice, per le stampe digitali su superfici

porose o le Iris questo aiuta a prevenire il

contatto con l’ozono, gas tra i più dannosi per

loro ed elemento molto presente nelle città a

causa dell’inquinamento.

In linea generale è auspicabile che solo

materiali a norma, tra adesivi, colle e carta,

Figura 41 - Questo disegno mostra, in sezione, un montaggio archivistico per fotografie d’arte

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debbano essere messi a contatto con l’opera.

Sul mercato c’è una predominanza di supporti

plastificati e per questi non si è ancora trovata

nessuna soluzione soddisfacente in caso di

deformazioni fisiche .

I montaggi contemporanei hanno il difetto di

essere in gran parte irreversibili, mentre

sarebbe consigliabile, per le stampe digitali

fine art su carta, interporre uno strato di carta

tra l’opera e l’assemblaggio fatto su Dibond o

su alluminio o su pvc. O creare un montaggio

su cerniera, simile a quello delle litografie.

Non avere un vetro davanti all’immagine

porta a danni meccanici e da inquinanti.

I montaggi dei grandi formati si possono

dividere in due gruppi:

Fotografie laminate su pannello

rigido

Nel tempo possono presentare una

deformazione del supporto che implica quella

dell’opera, oppure avere difetti di incollatura

che possono provocare bolle sulla superficie o

creare interstizi per la polvere. Se non sono

protette da passepartout queste immagini

possono avere evidenti alterazioni cromatiche

dei bordi e sulla superficie.

Fotografie montate di faccia tipo

Diasec (Face mounting)

Si tratta di far aderire l’immagine di faccia al

vetro tramite l’eliminazione dell’aria tra i due:

questo da un effetto bagnato e aumenta la

saturazione dei contrasti, ma è solo

un’illusione di protezione poiché il montaggio

è realizzato tramite adesivo a base di silicone

che rilascia acido acetico o composti

ammoniacali che rovinano l’immagine;

oppure tramite una pellicola adesiva per

pressione, oppure con sistema sottovuoto

(Vacuum Diasec – marchio registrato). In

genere si usa il plexiglas che a sua volta è

sensibile a umidità relativa e calore, in tal

modo assomma le sue alle problematiche

della fotografia. Lo smontaggio è impossibile

e l’immagine diventa in pratica un oggetto in

plastica.

Le alternative meno invasive sono:

Assemblaggio tramite adesivo a doppia faccia amovibile dal pannello di supporto.

Assemblaggio pieno tramite strati sacrificabili per lo smontaggio.

Assemblaggio con cerniere.

Sullo sfondo: un’immagine dello Edward Steichen Photography Study Center

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GLOSSARIO

Si riporta, qui di seguito, il vocabolario

minimo dell’aspirante collezionista di

fotografia. L’elenco proposto non ha la

pretesa di essere esaustivo ma vuole solo

fornire quei termini fondamentali per iniziare

a muoversi in questo mondo nonché fornire

un riassunto dei temi più importanti affrontati

nei vari fascicoli di questa guida.

A AMBROTIPO

Dal greco “indistruttibile”. Lastra di vetro su

cui si stendeva collodio umido. In genere si

tratta di ritratti fortemente sottoesposti che,

osservati in particolari condizioni, possono

apparire sia positivi che negativi.

ARCHIVIO FOTOGRAFICO

Insieme di fotografie (negativi e positivi),

attrezzature fotografiche e altri materiali. Può

venire inteso anche come spazio fisico di

conservazione dei materiali.

AUTENTICA Certificato, posto sul retro dell’opera,

contenente i dati di produzione di

provenienza.

B BARITE

Solfato di bario. Polvere bianchissima stesa

nelle carte fotografiche dette appunto baritate,

tra l'emulsione e il supporto in carta.

BROMURO D'ARGENTO

Alogenuro d'argento, usato in fotografia per

rendere sensibile la superficie di lastre e

pellicole, combinato poi con la gelatina

permette la preparazione di emulsioni molto

sensibili.

C CALOTIPO

Negativo su carta o stampa positiva diretta.

Primo procedimento in cui l’immagine dopo

l’esposizione rimane latente, ha bisogno cioè

di essere “sviluppata” tramite un lavaggio

sduccessivo all’esposizione. Procedimento

inventato da Fox Talbot, tra le varie migliorie

quella della ceratura della carta di Gustave Le

Gray nel 1851 che rendeva il foglio più

trasparente. Il calotipo permetteva di ottenere

copie a contatto; le stampe, però,

presentavano una certa granulosità dovuta alle

fibre della carta.

CAMERA OSCURA

Lo spazio di lavoro per lo sviluppo e la

stampa di pellicole fotografiche e la

realizzazione di stampe.

CARTA ALBUMINATA

Tecnica inventata nel 1850 da Blanquart-

Evrard. Un foglio di carta del tipo da disegno

veniva coperto da uno strato di albumina

contenente del sale e sensibilizzato agitandolo

leggermente in soluzione di nitrato d'argento;

la stampa avveniva per annerimento diretto.

L'immagine di solito veniva sottoposta ad un

viraggio all'oro e poi fissata.

CARTA BARITATA

Rivestita generalmente di gelatina - solfato di

bario. Inventata nel 1881.

CARTA AL CARBONE

Carta fotografica ai sali di cromo usata in

origine per ottenere positivi fotografici con

caratteri simili ai disegni a carboncino. Si

tratta di solito di un foglio di carta sottile

ricoperto di una pellicola di gelatina

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bicromatata contenente particelle di carbone o

altro pigmento. Le stampe al carbone, ideate

da Alphonse Poitevin (1855-56) sono molto

durevoli. Fra quelle commercializzate dopo il

1889 la carta Artigue, detta charbon-velour, e

quella Fresson, detta charbon-satin.

CARTA SALATA

Semplici fogli di carta da disegno imbevuti di

cloruro di sodio con soluzione di nitrato

d'argento (un solo strato). La superficie

sensibilizzata veniva posta a contatto con un

negativo e, per azione della luce, i sali

d'argento si trasformavano in argento

metallico, con effetto rossastro dell'immagine.

Dopo l'annerimento diretto veniva virata e

fissata.

C-PRINT

Sono le fotografie a colori che tutti hanno a

casa. La composizione è complessa, fino agli

anni ’70 il supporto era cartaceo o in acetato

pigmentato (Kodak dal 1940). Sul supporto

primario vengono stesi diversi strati

contenenti coloranti JMC (Giallo-Magenta-

Ciano). L’immagine è molto instabile a causa

della fragilità chimica dei coloranti. Dal 1970

con in supporti in RC Paper si ottiene miglior

stabilità. I procedimenti più stabili oggi sul

mercato sono: Fujicolor Crystal Archive

(1997) notato sul verso della stampa; Kodak

Endura (2002) notato sul verso della stampa.

Una volta che i colori hanno virato è

impossibile ripristinarli.

D DAGHERROTIPO

Immagine fotochimica unica su lastra di rame

argentata, è un positivo diretto con destra e

sinistra invertite rispetto al soggetto. La lastra

veniva esposta ai vapori di iodio per la

sensibilizzazione, spesso i dagherrotipi erano

colorati con pigmenti per assimilarli ai ritratti

pittorici. Erano conservati in appositi “case” –

cornici con vetro sigillate per preservarli più a

lungo e inserite custodie in pelle finemente

lavorate. Le lastre usate erano di misure

standardizzate: cm. 21.5x16.5; 10.5x8; 7x5.5;

16x12; 8x7.

DIBOND

Il Dibond è una lastra composita costituita da

due lamiere in alluminio, spessore 0,3

mm/cad., con interposto un nucleo in

polietilene. L'assoluta planarità e la perfetta

finitura in colore bianco assicurano un

accurato allineamento delle lastre sia di

piccolo che di grande formato ed un'elevata

definizione della stampa.

E EDIZIONE

Con il termine edizione si indica l’insieme di

un numero prestabilito di esemplari il cui

numero è detto tiratura. Non c’è bisogno che

tutti gli esemplari siano stati stampati nello

stesso momento ma, se previsto dall’autore,

possono esserlo in momenti successivi e in

dimensioni diverse, a seconda della domanda

del mercato. Un’edizione, inoltre, può essere

limitata o illimitata; numerata o non numerata

a discrezione dell’artista. Anche se spesso si

ritiene che un’edizione limitata valga di più

rispetto ad una non limitata questo non è

necessariamente vero. Se si tratta di una

edizione limitata la numerazione sarà a due

cifre separate da un trattino diagonale in cui il

numero a destra indica il totale degli

esemplari esistenti e quello a sinistra il

numero dell’esemplare in questione. Nel caso

di edizioni illimitate, invece, la numerazione

sarà del tipo #10: indicando in questo modo

l’esemplare n.10 di un totale indeterminato.

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F

FINE ART

Termine con il quale si indica un tipo di

stampa molto accurato destinata al

collezionismo.

FOTOINCISIONE

Procedimento fotomeccanico che utilizza la

fotografia per ricavare, su lastra di zinco o di

rame sensibilizzata, un'incisione a rilievo,

dalla quale si possa ottenere, con la stampa

fotografica, la riproduzione dell'originale. Si

basa sull'invenzione di Fox Talbot che nel

1852 brevettò un metodo per incidere lastre di

zinco o rame appositamente sensibilizzate,

dalle quali trarre stampe. Nel 1858 ne

migliorò il procedimento ricoprendo il

rivestimento di gelatina e bicromato di

potassio con polvere di resina. In generale

tutti i procedimenti di fotoincisione si basano

sulle proprietà della gelatina bicromatata o del

bitume di diventare insolubili dopo

l'esposizione alla luce.

G

GOMMA BICROMATA (PROCEDIMENTO

ALLA)

Semplificazione delle tecniche di stampa al

carbone. il procedimento si basa sulla

proprietà della gomma arabica, in presenza di

bicromato di potassio, di modificare la propria

idrosolubilità se esposta per qualche tempo

alla luce. Quanto più forte è l'azione della luce

sulla gomma bicromatata tanto meno

facilmente questa si scioglie. Un pigmento

viene mescolato con la gomma bicromatata e

applicato sulla superficie di un foglio di carta

da disegno, che viene quindi lavato. Una volta

asciutto, il foglio viene messo sotto un

negativo ed esposto alla luce. Poi si lava con

acqua calda e allora appare l'immagine. Lo

sviluppo è fatto con un pennello. Se sulla

carta si versa acqua caldissima, tutto il

pigmento viene tolto. Le zone deboli possono

essere rafforzate rivestendo nuovamente la

carta con gomma arabica e pigmento. In

questo modo si possono applicare colori

diversi sullo stesso foglio di carta. Molte

combinazioni sono così possibili: si può

rivestire di gomma un foglio di platino e

stamparlo di nuovo per dargli maggiore

profondità.

H HYBRID DIGITAL PRINT

Stampa fotografica da file fotografico digitale

ottenuta con l’impiego dell’attrezzatura film

printer, ossia macchinari che impressionano la

pellicola con una luce laser.

I IMMAGINE LATENTE

Immagine invisibile a occhio nudo che si

forma nell'emulsione fotografica colpita dalla

luce. Diventa visibile (viene rivelata)

mediante l'azione chimica del bagno di

sviluppo.

L LAMBDA

Tipo di stampa digitale da file su carta

fotografica che viene impressionata mediante

la proiezione di tre fasci di luce laser colorati

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RGB (rosso, verde e blu). La Stampa

Lambda, il cui nome deriva da quello della

macchina, si distingue dalle altre tecnologie di

stampa digitale per la totale assenza di retino,

la nitidezza, la “naturalezza” e ricchezza dei

toni e delle sfumature.

M MODERN PRINT

Stampa fotografica ottenuta da negativo

originale eseguita a distanza dalla data di

scatto dall'autore o sotto la sua guida.

N NEGATIVO

Immagine ottenuta esponendo alla luce una

pellicola o una lastra trattata con materiale

fotosensibile i cui valori tonali sono invertiti

rispetto a quelli del soggetto fotografato.

NUMERI F

Serie di numeri che indicano le aperture con

cui si è impostata una lente. Più alto è il

numero, più stretta è l’apertura: f/16, ad

esempio, è più stretto che f/11.

O OLEOBROMIA

Procedimento di stampa fotografica dovuto a

C. Welborne-Piper nel 1907 e nello stesso

anno proposto anche da L. Wall, rimasto in

uso fino al 1930. La matrice argentica su carta

al bromuro veniva immersa in un bagno

particolare che nel far scomparire l'immagine,

solidificava la gelatina grazie al bicromato di

potassio, proporzionalmente alla quantità di

argento dell'immagine. Questa veniva

inumidita in modo da far assorbire acqua alla

gelatina. Sulla superficie veniva steso

inchiostro litografico o grasso. Nei chiari e

nei mezzi toni dove la gelatina era ben

impregnata, l'inchiostro non aderiva.

Successive passate di inchiostro steso a

pennello permettevano di raggiungere l'effetto

desiderato. Il nome deriva dalla fusione della

stampa originale e il pigmento oleoso.

OLEOTIPIA

Procedimento di riproduzione fotografica con

inchiostro grasso, su carta gelatinata,

preventivamente trattata con bicromato di

potassio, utilizzato per lo più nella

riproduzione di stampe artistiche; fu

realizzato nel 1855 da Poitevin. Tipo di

stampa al pigmento.

P PORTFOLIO

Cartella in cui sono raccolte fotografie scelte

e organizzate generalmente dallo stesso

autore. Oppure edizione limitata di un gruppo

di immagini selezionate da un gallerista o da

un editore d'arte conservate un una cartella, o

contenitore.

PROVA D’ARTISTA (P.D.A.)

Una o più stampe sperimentali dell’artista

realizzate e dichiarate oltre la tiratura

ufficiale. La prova d’artista originariamente

non era destinata al mercato ma riservata

all’artista o utilizzate da questo come

ricompensa per un collaboratore molto stretto

o un critico. Normalmente le prove d’artista

sono un massimo di tre e vengono numerate, a

differenza degli altri esemplari dell’edizione,

con numeri romani. Al di là di questa

differenza, dal punto di vista del mercato

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devono essere considerate alla stregua delle

altre stampe.

R RIPRODUZIONE

Copia di ogni immagine, oggetto, o

documento che sono una imitazione fedele e

fatta senza intento a ingannare. Spesso sono

fatte con tecnica meccanica, come quella

fotografica o processi di stampa. Esse

possono essere anche in altri media, esempio,

incisione di un dipinto, o di una differente

dimensione dall'originale.

RISTAMPA

Nuova stampa da negativo.

S STAMPA A CONTATTO

Stampa ottenuta esponendo la carta

fotografica a contatto con il negativo.

L'immagine sulla stampa ha lo stesso formato

di quella del negativo.

STAMPA ALL’ALBUMINA

Stampa a contatto su carta carta ricoperto con

del bianco d'uovo nel quale erano sciolti

bromuro di potassio e acido acetico (due

strati). Una volta asciutta una soluzione di

nitrato d'argento veniva agitata sulla

superficie, poi di nuovo asciugata. Questa è il

primo tipo di carta che viene prodotto

industrialmente. La carta sensibilizzata era

messa a contatto con il negativo. Poi la

stampa veniva messa in una soluzione di

cloruro d'oro che le dava una sfumatura di un

marrone intenso, fissata in iposolfito di sodio,

lavata completamente e asciugata. Le

albumine sono molto sottili e con il tempo

tendono ad arrotolarsi, per questo le si trova

generalmente montate su supporti di cartone.

STAMPA AL CARBONE

Questo procedimento di stampa consisteva

nello stendere sulla carta una miscela di

particelle di carbone, gelatina e bicromato di

potassio. Dopo l'esposizione le parti non

impressionate venivano lavate, ottenendo cosi

un'immagine con chiaroscuri proporzionali

alla densità e alla trasparenza del negativo.

Per migliorarne i mezzi toni si creò un

procedimento di trasporto (transfert) su carta

al carbone acquistabile in commercio in tre

differenti colori: nera, seppia e bruno-

rossastra. In pratica l’emulsione esposta,

indurita, veniva staccata dal foglio originale e

riposizionata su un nuovo foglio. Poiché

l'immagine così era rovesciata, solitamente si

eseguiva un secondo transfert.

STAMPA CIBACROME

La stampa Cibachrome (o Ilfochrome, o R-

print), messa a punto nel 1963, s’impone a

partire dal 1980. E’ di fatto, il primo

procedimento a colori industriale a fornire

immagini capaci di competere in durata con il

bianco e nero. Si tratta di un processo di

stampa positivo-positivo, ossia dalla pellicola

alla carta. Si basa sulla distruzioni selettiva

dei coloranti JMC distribuiti in tre strati in cui

sono presenti anche sali d’argento. Supporto

di poliestere e polietilene. L’immagine finale

è di coloranti azoici, prodotti sintetici, che

sono stabili; il problema è la stabilità

meccanica del medium che si divide in bande.

STAMPA DIGITALE

Termine generico col quale si indica una

stampa generata con processi elettronici e

impressa direttamente sul supporto da

stampare.

STAMPE INKJET (A GETTO D’INCHIOSTRO)

Sono le più comuni, mercato molto diffuso,

anche “casalingo”. Difficile darne una

descrizione precisa perché le caratteristiche di

una stampa dipendono dal tipo di stampante,

dal tipo di inchiostro e dal tipo di carta. Dopo

un periodo di “stampa selvaggia” si è sentita

la necessità di regolamentare questo tipo di

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a61

stampa per poter dare parametri di qualità e

durevolezza.

STAMPA IRIS O GICLÉE

Nel 1987 nasce la prima stampante IRIS

(nome commerciale) e negli anni Novanta le

IRIS-print o Giclée hanno avuto la loro età

dell’oro. Usata soprattutto da artisti o per

riproduzioni. Si può usare con qualsiasi tipo

di carta, sia semplice o con strato di gelatina.

Si basa sulla quadricromia (JMCK). Sono

stampe molto fragili perché i colori non sono

dentro la carta, ma sopra, quindi sono soggetti

a colature in presenza di umidità o acqua e a

forti sbiadimenti in presenza di luce. Per

ovviare a questo a volte le stampe venivano

verniciate, ma dopo un po’ la stessa vernice si

deteriora e a volte assume un colore giallastro.

STAMPA POSTUMA

Fotografia stampata da negativo originale

dopo la morte dell'autore. Sono dette anche

Estate Prints.

STAMPA AL PLATINO Processo di stampa utilizzato per il bianco e

nero che impiega una carta sensibilizzata con

sali di platino e ossalato ferrico. Quest’ultimo,

modificandosi in ferroso per esposizione alla

luce, fa sì che i sali di platino si trasformino in

platino, metallo ben più stabile dell'argento.

E’ una carta a un unico strato e si stampa per

annerimento diretto. Fu messa sul mercato

dalla Platinotype Company di Londra,

essendo però molto costosa decadde durante

la Prima Guerra Mondiale venendo sostituita

dalla più economica Carta al Palladio, che

sfrutta esattamente lo stesso procedimento ma

con i sali di palladio.

STAMPA AI SALI D’ARGENTO

E’ il processo di stampa più utilizzato per il

bianco e nero e utilizza una carta a tre strati in

camera oscura con ingranditore e luce

elettrica (DOP). Il Foglio di carta è trattato

con barita ed emulsione di gelatina con

bromuro d’argento, perché è il sale più

sensibile. Per migliorare la stabilità della

stampa nel tempo si è aumentato il numero di

lavaggi a cui viene sottoposta la carta

(sviluppo- doppio fissaggio- stop) per

sopportare tutto questo è stata creata una carta

detta politenata che ha uno strato di plastica

sia sul retro sia tra la carta e l’emulsione. La

carta baritata però si conserva meglio nel

tempo.

T TIRATURA

La tiratura indica la quantità di copie stampate

per ogni singola opera fotografica. Può

variare da pochi esemplari a un numero

infinito poiché le ristampe non comporta

deterioramento dell’originale che avviene,

invece, nell’incisione.

V VINTAGE

Stampa eseguita dall’autore (o da un

laboratorio sotto il controllo dell’autore) in un

periodo non superiore ai due o tre anni dopo

la data dello scatto dell’immagine stessa.

VIRAGGIO

Trattamento chimico che serve a migliorare la

stabilità di una fotografia e trasformare il

colore di un'immagine argentica. L'argento si

unisce ad un altro composto quale oro,

platino, selenio e zolfo.

P

agin

a62

Collezione da Tiffany

Via Atto Vannucci n. 14 - 50134 - Firenze

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Fondatore: Nicola Maggi