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LIBERA UNIVERSITÀ DI LINGUE E COMUNICAZIONE IULM FACOLTÀ DI SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE E DELLO SPETTACOLO CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN CONSUMI, DISTRIBUZIONE COMMERCIALE E COMUNICAZIONE D’IMPRESA Le storie di successo per la comunicazione interna ed esterna: il caso Aton Docente che ha assegnato l’argomento: Chiar.ma Prof.ssa ALESSANDRA MAZZEI Prova finale di: Francesco De Bortoli Matricola 300775 ANNO ACCADEMICO 2005/2006

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LIBERA UNIVERSITÀ DI LINGUE E COMUNICAZIONE IULM

FACOLTÀ DI SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE E DELLO

SPETTACOLO

CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN CONSUMI, DISTRIBUZ IONE

COMMERCIALE E COMUNICAZIONE D’IMPRESA

Le storie di successo per la

comunicazione interna ed esterna:

il caso Aton

Docente che ha assegnato l’argomento:

Chiar.ma Prof.ssa ALESSANDRA MAZZEI

Prova finale di:

Francesco De Bortoli

Matricola 300775

ANNO ACCADEMICO 2005/2006

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INDICE

INDICE 2

SINTESI 6

1. IL KNOWLEDGE MANAGEMENT: UN NUOVO MODO DI CONCEPIRE L’ORGANIZZAZIONE 9

1.1 LA CONOSCENZA: UNA RISORSA PER L’ORGANIZZAZIONE 9 1.1.1 IL KNOWLEDGE MANAGEMENT SECONDO DIVERSE PROSPETTIVE 13 1.1.2 LE TEORIE ALLA BASE DEL KNOWLEDGE MANAGEMENT 17

1.2 STRATEGIE DI KNOWLEDGE MANAGEMENT 19 1.2.1 LA CONOSCENZA TACITA 19 1.2.2 L’ESPLICITAZIONE DELLA CONOSCENZA 21 1.2.3 L’APPRENDIMENTO ORGANIZZATIVO 24

1.3 LE FORME ORGANIZZATIVE CHE AGEVOLANO IL KNOWLED GE MANAGEMENT 25

1.3.1 LE ORGANIZZAZIONI KNOWLEDGE-INTENSIVE 27 1.3.2 LE PRATICHE DI KNOWLEDGE MANAGEMENT 29

1.3 IL RUOLO DELLA CULTURA ORGANIZZATIVA 30

1.4 LA MEMORIA ORGANIZZATIVA 32 1.4.1 TIPOLOGIE DI MEMORIA ORGANIZZATIVA 37 1.4.2 I CONTRIBUTI DELLA MEMORIA ORGANIZZATIVA 38

2. LE LEARNING HISTORIES, UNO STRUMENTO PER DIFFOND ERE LA CONOSCENZA NELL’ORGANIZZAZIONE 40

2.1 L’APPROCCIO ESPERIENZIALE ALL’APPRENDIMENTO 40 2.1.1 LO STORYTELLING 41 2.1.2 I VANTAGGI DELLE LEARNING HISTORIES 43

2.2 SVILUPPARE LA MEMORIA ORGANIZZATIVA ATTRAVERSO LE LEARNING HISTORIES 44

2.3 LA LEARNING HISTORIES PER L’APPRENDIMENTO ORGAN IZZATIVO 46

2.4 LE FASI DI COSTRUZIONE DI UNA LEARNING HISTORY 49

2.5 UN NUOVO GENERE NELLA LETTERATURA DI BUSINESS 5 1

3. ATON, UNA ORGANIZZAZIONE KNOWLEDGE-INTENSIVE 53

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3.1 LA STORIA DI ATON: LE TAPPE DELL’INNOVAZIONE 53

3.2 L’OFFERTA ATON 55 3.3.1 I SERVIZI DI BASE 56 3.3.2 ALTRI SERVIZI 61

3.3 L’ORGANIZZAZIONE AZIENDALE 64

3.4 MISSION, VALORI GUIDA, VISION E POLITICA PER LA QUALITA’ 66 3.4.1 MISSION 66 3.4.2 IL METODO VALORE: APPLICAZIONE IN UNA MEDIA AZIENDA 67 3.4.3 LA CARTA DEI VALORI DI ATON 73 3.4.4 VISION 76 3.4.5 POLITICA PER LA QUALITA’ 77

3.5 LA COMUNITA’ ATON E IL CLIMA AZIENDALE 79

3.6 LA COMUNICAZIONE 82 3.6.1 LA SCELTA DELLA COMUNICAZIONE ORGANIZZATIVA 82 3.6.2 LA COMUNICAZIONE INTERNA 86 3.6.3 LA COMUNICAZIONE ESTERNA 88 3.6.4 L’ASCOLTO ORGANIZZATO 96

4. LE STORIE AZIENDALI DI SUCCESSO 101

4.1 IL PROCESSO DI RICERCA E IL METODO DEI CASI 101

4.2 I CASE STUDIES, UNO STRUMENTO DI RICERCA QUALIT ATIVA 108 4.2.1 L’USO DEL METODO DEI CASI IN ALCUNE RICERCHE PIONIERISTICHE 109 4.2.2 IL PROCESSO DI REALIZZAZIONE DI UNO STUDIO DI CASO 111 4.2.3 L’IMPIEGO DEI RISULTATI DI UN CASO AZIENDALE 117 4.2.4 LE CARATTERISTICHE DEI METODI DI RICERCA QUALITATIVI E LA QUALITA’ DELLA RICERCA 119

4.3 I CASE STUDIES IN ATON: IL RACCONTO DELLE STORI E DI SUCCESSO 121

4.4 IL PROCESSO DI COSTRUZIONE DEI CASI 123

4.5 I CASE STUDY PER LA COMUNICAZIONE INTERNA: SUPP ORTO AL KNOWLEDGE MANAGEMENT E APPRENDIMENTO ORGANIZZATIVO 128

4.6 GLI STRUMENTI PER DIFFONDERE I CASE STUDIES ALL ’INTERNO 132

4.7 I CASE STUDIES PER LA COMUNICAZIONE ESTERNA: PR OMOTION E ADVERTISING 133

4.8 GLI UTILIZZI DEI CASE STUDIES PER LA COMUNICAZI ONE ESTERNA 137

5. CONCLUSIONI 142

FONTI 150

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4

Alla mia famiglia

Un primo grande ringraziamento lo voglio dedicare alla

professoressa Alessandra Mazzei, che mi ha seguito ed aiutato non solo

nella elaborazione di questa tesi, ma in tutto il percorso accademico nei

miei cinque anni allo Iulm. Grazie per aver contribuito alla mia formazione

con insegnamenti che mi saranno utili nella vita, e non solo in quella

professionale.

Un grande ringraziamento anche alla Aton S.p.A. di Treviso, in particolare

il Presidente Giorgio De Nardi e il Marketing Manager Domenico

Marchetti, che mi hanno dato l’opportunità di svolgere una straordinaria

esperienza di stage e hanno contribuito alla costruzione di questo lavoro.

Grazie anche alle ragazze del Reparto Marketing, Anna, Denisa e Martina,

che mi hanno costantemente aiutato nella mia permanenza in Aton e con

cui ho stretto un forte legame d’amicizia.

Un ringraziamento speciale alla mia famiglia, che mi ha sempre aiutato e

sostenuto, e che ha reso tutto ciò possibile. Questo lavoro è dedicato a

voi.

Un grande grazie anche a tutti gli amici, in particolare Riccardo e Paolo,

che mi sono sempre stati vicini nel momento del bisogno, e a tutte le

persone che mi hanno aiutato e sostenuto.

Grazie.

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SINTESI

I case studies rappresentano un metodo di ricerca qualitativa

utilizzato per raccontare le esperienze aziendali. Si tratta di uno strumento

di ricerca descrittiva, che gli studiosi e i ricercatori utilizzano per formulare

una teoria. Ma è uno strumento estremamente flessibile che consente di

essere adattato ad ogni situazione, e per il raggiungimento di molteplici

obiettivi.

I casi aziendali sono uno strumento a disposizione del Knowledge

Management, la gestione della conoscenza all’interno di una

organizzazione. Rappresentano infatti una metodologia di raccolta di dati,

informazioni, esperienze, opinioni, scoperte ed innovazioni che sono

fondamentali per accrescere il valore dei prodotti e servizi offerti, e che, in

particolar modo in una organizzazione ad alto livello di specializzazione,

possono rappresentare il vero vantaggio competitivo.

La metodologia dello studio di caso viene applicata nelle imprese per

ricostruire e condividere delle learning histories e delle storie di successo,

che rappresentano due strumenti di apprendimento esperienziale.

Il primo capitolo di questa tesi propone una panoramica teorica sul

Knowledge Management (KM). Vengono approfonditi temi come

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l’importanza della risorsa conoscenza, tacita ed esplicita, le varie

prospettive e le strategie di KM, la necessità di trasferire la conoscenza

creata ed accumulata a tutti i membri dell’organizzazione attraverso

l’apprendimento organizzativo, i ruoli della cultura organizzativa e della

memoria d’impresa.

Nel secondo capitolo viene presentato un primo strumento di

raccolta e diffusione di conoscenza e competenze all’interno di una

organizzazione e di supporto all’apprendimento organizzativo: le learning

histories. Si tratta di una metodologia di socializzazione della conoscenza

e di creazione di un documento che racconta, attraverso la pratica dello

storytelling, un particolare evento, storia, esperienza aziendale. Uno

strumento particolare e differente dagli altri perché costruito

congiuntamente da ricercatori esterni e membri interni: è l’organizzazione

che racconta a se stessa la propria storia, con le parole di chi ha vissuto

tali esperienze, storie ed eventi, con l’aiuto e la supervisione di ricercatori

esperti. Uno strumento progettato per essere utilizzato principalmente per

la formazione interna e l’apprendimento.

Il terzo capitolo presenta l’azienda utilizzata come caso di studio in

questa tesi: la Aton di Treviso, leader in Italia nel campo del Mobile

Computing, che opera nel business to business (B2b) proponendosi

come partner globale in grado di fornire consulenza e servizi software ad

alto valore aggiunto in tutte le fasi di automazione della supply chain

(produzione, logistica, distribuzione). Un’organizzazione knowledge-

intensive che opera per progetti, che si rivolge alle imprese, e non al

mass market, e deve di conseguenza sviluppare una comunicazione in

grado di sostenere la reputazione, asset fondamentale per la creazione di

vantaggio competitivo. Un’azienda da sempre orientata alla formazione di

una forte cultura organizzativa, dove l’informalità e lo scambio continuo

sono gli strumenti per la circolazione e il trasferimento da una parte

all’altra dell’impresa, e nelle varie sedi, di informazioni, nuova

conoscenza, scoperte ed innovazioni. Aton ha trovato nelle storie di

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successo la giusta metodologia per raccontare ciò che accade, cosa si fa

e dove si sta andando.

Il quarto capitolo rappresenta il cuore di questa tesi: l’analisi delle

storie di successo come strumento non soltanto di ricerca qualitativa, di

KM e di formazione ed apprendimento, ma come vero e proprio

strumento di comunicazione. L’obiettivo di questo lavoro è di dimostrare

come la metodologia delle storie di successo non sia esclusivamente un

metodo di raccolta di dati, informazioni ed esperienze, ma rappresenti

uno strumento dalla enorme efficacia comunicativa sia all’interno

dell’azienda, sia all’esterno. All’interno per sedimentare la cultura e la

memoria organizzativa, per gestire la conoscenza, trasferire competenze,

innovazioni e nuova conoscenza generata nell’organizzazione.

All’esterno per sostenere la brand image, awareness e soprattutto la

reputazione: non parlando in prima persona, ma facendo esprimere ai

propri clienti i vantaggi apportati dalle soluzioni Aton.

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1. IL KNOWLEDGE MANAGEMENT: UN

NUOVO MODO DI CONCEPIRE

L’ORGANIZZAZIONE

In questo primo capitolo viene descritto il quadro teorico in cui si

inserisce questa tesi: la risorsa conoscenza e la sua gestione nelle

organizzazioni, l’apprendimento organizzativo e la memoria organizzativa

per creare valore. Lo scopo è quello di introdurre le modalità per una più

efficace diffusione della conoscenza, tema che verrà affrontato in seguito

in particolare attraverso lo strumento delle learning histories.

1.1 LA CONOSCENZA: UNA RISORSA PER

L’ORGANIZZAZIONE

La conoscenza è un mix di esperienze, valori, informazioni

contestuali e insight che forniscono un struttura semplificata per valutare e

incorporare nuove esperienze e informazioni. Viene originata e applicata

dalle menti delle persone, e nelle organizzazioni si deposita non solo in

documenti ma anche nelle routine, processi, pratiche e norme (Davenport,

Prusak, 1998).

Secondo Nonaka e Takeuchi (1995) la conoscenza è creata dal flusso di

informazioni, è legata alle credenze e ai vincoli cognitivi di chi la detiene

ed è direttamente connessa all’azione umana.

Davenport e Prusak (ibidem) sottolineano il bisogno di distinguere tra i

concetti di dato, informazione e conoscenza.

I dati sono il risultato, mancante del significato, di qualsiasi operazione. È

la forma in cui le informazioni e la conoscenza vengono immagazzinate e

trasferite. Sono un set di fatti obiettivi e discreti riguardo gli eventi, dei

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record strutturati di transazioni. Quantitativamente l’organizzazione valuta

la gestione dei dati in termini di costi, velocità (di trasferimento,

immagazzinamento, ritrovamento e gestione) e capacità; in termini

qualitativi si misurano tempestività e validità nel tempo, rilevanza e

chiarezza.

I dati diventano informazioni attraverso l’interpretazione, la

contestualizzazione e la strutturazione. Le informazioni dunque sono dati

dotati di una struttura e una organizzazione. Sempre secondo i due autori

l’informazione è un dato a cui è stato aggiunto un significato, un valore, un

dato “that make a difference”(1998:3)

La conoscenza, invece, è il prodotto complesso e strutturato

dell’apprendimento, formato dall’interpretazione di informazioni e credenze

su relazioni causa-effetto, e dall’utilizzo delle informazioni. Nella

produzione di conoscenza attraverso l’interpretazione delle informazioni

intervengono e influiscono le caratteristiche cognitive degli attori (Profili,

2004).

Secondo Nonaka e Takeuchi (1995) infatti, quello che distingue la

conoscenza dall’informazione è proprio il suo essere collegata all’azione

umana e al contesto in cui si sviluppa: anche Davenport e Prusak (1998)

sottolineano l’aspetto pragmatico della conoscenza nella loro definizione

di “working knowledge”.

I due autori aggiungono che la conoscenza si sviluppa nel tempo

attraverso l’esperienza, che include ciò che viene appreso attraverso libri,

corsi, mentori e apprendimento informale. L’esperienza si riferisce a ciò

che è stato fatto e a ciò che c’è accaduto nel passato: uno dei suoi

principali benefici è che fornisce una prospettiva storica che aiuta a

diagnosticare e comprendere nuovi eventi e situazioni.

Questo evidenzia la natura intrinsecamente dinamica e relazionale della

conoscenza, profondamente diversa da quella statica e atomistica

dell’informazione. Quest’ultima è statica perché composta da dati

riguardanti gli stati del mondo e da questi derivanti. La conoscenza invece

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è dinamica perché continua ad avere valore solo se viene continuamente

rigenerata ed accresciuta attraverso processi di apprendimento (Rullani,

1994).

A livello organizzativo la conoscenza è formata da tutto quell’insieme di

competenze individuali e di prassi organizzative attraverso i quali le

relazioni tra individui, gruppi e componenti di un network sono strutturati e

coordinati (Zander e Kogut, 1995). Nelson e Winter (1982, in Profili 2004)

riprendono il concetto di routine, che costituisce la memoria delle

organizzazioni perché racchiude la conoscenza organizzativa e conserva

una rappresentazione del percorso storico dell’impresa. Le routine si

rafforzano continuamente accumulando conoscenza grazie alle ripetute

applicazioni, diventando risposte meccaniche ai problemi di gestione

operativa e strategica.

Secondo Cavalli (2000) la conoscenza è:

• la consapevolezza, la coscienza assimilata nel tempo e nello spazio

derivata da un continuo processo di apprendimento di nozioni ed

esperienze;

• l’uso e l’elaborazione efficiente di dati e informazioni unito a capacità,

competenze, idee, esperienze, commenti, opinioni e motivazioni delle

persone;

• presente nelle menti delle persone, nelle idee, consuetudini e abitudini,

principi e concetti, nei processi, documenti, prodotti e servizi;

• in ambito aziendale, l’utilizzo del capitale intellettuale formato dalle

relazioni e attività intangibili con la struttura esterna (stakeholder), la

struttura interna (processi, sistemi, brevetti, marchi ecc.) e il capitale

umano (competenze e capacità delle persone).

Secondo Cavalli dunque il KM è quell’insieme di strumenti e metodologie

con cui viene creata e scambiata conoscenza all’interno

dell’organizzazione con lo scopo di creare valore per essa.

La conoscenza è una risorsa intangibile fondamentale per

l’impresa: secondo la “Resource-based theory of the firm”, il presidio da

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parte di una impresa di risorse rappresenta la condizione necessaria per

conseguire un vantaggio competitivo sostenibile ed un differenziale di

performance (Troilo, 2001).

Il perseguimento di questo vantaggio competitivo è possibile se queste

risorse sono (Barney, 1991; Boschetti, 1999 in Profili, 2004):

• critiche, cioè indispensabili per sfruttare le opportunità e prevedere e

bloccare le minacce esterne:

• scarse, ovvero difficilmente reperibili dai concorrenti;

• non imitabili;

• non sostituibili con risorse equivalenti, uniche.

Le capacità sono dei processi tangibili o intangibili con cui le risorse sono

impiegate e combinate per raggiungere un fine (Amit e Schoemeker,

1993, in Profili, 2004).

Zander e Kogut (1995), seguendo i lavori di Rogers e Winter, hanno

sviluppato cinque costrutti che caratterizzano la conoscenza di una

organizzazione a livello di competenze individuali e di capacità

organizzative. Questi cinque costrutti sono la codifiability, la teachability, la

complexity, la system dependance e la product observability.

La codifiability rappresenta il livello di codificabilità della conoscenza,

anche se il singolo operatore non ha la possibilità di comprenderla.

La teachability, invece, misura il grado con cui gli individui possono essere

istruiti, a scuola o al lavoro; essa riflette l’insegnamento delle capacità

individuali.

La complexity rappresenta le variazioni nel combinare differenti tipi di

competenze: in breve, la conoscenza aumenta in complessità se vengono

combinate ed utilizzate più tipi di competenze distinte.

System dependence misura quanto la produzione di competenze sia

dipendente dai differenti gruppi di individui con le proprie esperienze.

La product observability, infine, è il grado di imitabilità di una conoscenza,

cioè la facilità o meno da parte dei competitor di copiarla.

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Questi cinque costrutti rappresentano le differenti qualità della conoscenza

e misurano la capacità con cui essa può essere compresa e comunicata

all’interno dell’organizzazione.

1.1.1 IL KNOWLEDGE MANAGEMENT SECONDO DIVERSE

PROSPETTIVE

Argote, McEvily e Reagans (2003) hanno recentemente costruito

un framework di analisi del KM che si basa sull’incrocio di due dimensioni:

gli outcome prodotti e il contesto delle attività di KM. Sulla prima

dimensione si collocano la creazione, il trattenimento e il trasferimento di

conoscenza. Sulla seconda le proprietà del contesto in cui si sviluppano le

attività di KM: proprietà degli attori, delle relazioni tra gli attori e della

conoscenza.

Rielaborando il quadro di Argote, McEvily e Reagans, Profili (2004)

individua quattro aree di ricerca in cui possono inserirsi i contributi teorici

al KM: dell’apprendimento, relazionale, tecnologica e dell’innovazione.

Figura n.1: le principali aree di ricerca del KM (Profili, 2004:25)

APPROCCI OGGETTO D’ANALISI PRINCIPALI OUTCOME

Apprendimento - individui - organizzazione

Acquisizione conoscenza

Relazionale Relazioni tra attori Diffusione conoscenza

Tecnologica Caratteristiche della

conoscenza

Codifica e trasferimento della

conoscenza

Innovazione - individui - organizzazione

Creazione conoscenza

La prima prospettiva, quella dell’apprendimento, deriva dalla

necessità delle organizzazioni di sviluppare strutture flessibili, in grado di

adattarsi ai cambiamenti e con la capacità di apprendere: le learning

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organization. L’apprendimento può essere individuale o organizzativo. Il

primo rappresenta condizione necessaria ma non sufficiente a creare

l’apprendimento organizzativo. Ciò che un individuo apprende all’interno

dell’organizzazione deriva in gran parte da ciò che è conosciuto dagli altri

membri e dal tipo di informazioni presenti: in questo modo

l’organizzazione ha un forte influsso sul processo di apprendimento

individuale, perché possiede dei sistemi cognitivi, una memoria, un

insieme di regole, princìpi e valori che si sono sviluppati nel tempo e si

sono radicati nel tessuto organizzativo.

Quindi l’apprendimento organizzativo non è solo la somma

dell’apprendimento individuale: gli individui agiscono, ma sono “orientati”

dall’organizzazione attraverso la definizione di ruoli, regole, processi

(Hedberg, 1981 in Profili, 2004). Questa prima prospettiva si focalizza sui

processi che trasformano l’esperienza e la conoscenza organizzativa in

possibilità per l’azione futura (knowledge as possibility).

Questo aspetto la distingue dalla prospettiva dell’innovazione, che come

vedremo riguarda i processi di creazione di attività nuove quali prodotti,

servizi, pratiche (knowledge as action). Secondo Cook e Yanow (Profili,

2004) l’apprendimento è l’atto di acquisire conoscenza; per Ahmed, Lim e

Loh (ibidem) è l’insieme di processi in cui viene utilizzata la conoscenza

esistente per produrre nuova conoscenza.

Il modello di Nonaka e Takeuchi (1997) prevede che il processo di

creazione e condivisione della conoscenza avvenga attraverso un

processo di conversione della conoscenza da tacita in esplicita, e

viceversa. La prima è formata dagli aspetti cognitivi degli individui (modo

d’agire, opinioni), la seconda è rappresentata dalla conoscenza nota e

codificata in un linguaggio formale ed accessibile. Questo sottolinea la

fondamentale funzione della comunicazione nel processo di generazione

della conoscenza (Mazzei, 2006). I due autori affermano che la creazione

di conoscenza avviene ad un livello individuale: l’organizzazione deve

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predisporre le condizioni necessarie alla condivisione in tutto il network del

know-how di ogni persona, supportando la creatività e l’innovazione.

Il processo di conversione della conoscenza da tacita in esplicita avviene

attraverso le interazioni sociali che coinvolgono i diversi individui, e si

articola in quattro fasi: la socializzazione, l’esternalizzazione, la

combinazione e l’interiorizzazione.

Nella prima fase, la socializzazione, la conoscenza tacita viene condivisa

tra gli individui durante la collaborazione e il work-in-team. In questo modo

la conoscenza tacita di un individuo diventa conoscenza tacita posseduta

da altri.

Durante l’esternalizzazione la conoscenza implicita viene trasformata in

conoscenza esplicita disponibile per le altre persone attraverso l’utilizzo di

metafore, schemi concettuali, analogie, modelli e narrazioni, che aiutano

gli altri membri a comprendere conoscenze altrimenti difficilmente

assimilabili ed elaborabili.

Il processo di combinazione permette alle conoscenze esplicite di un

gruppo di essere integrate con le conoscenze esplicite di altri gruppi

attraverso riunioni, meeting, conversazioni, attività di comunicazione e

formazione. Ciò permette alla conoscenza di “cristallizzarsi” all’interno dei

sistemi manageriali.

Con l’ultima fase, l’interiorizzazione, la conoscenza esplicita appresa da

un individuo viene incorporata nella sua base di conoscenze tacite sotto

forma di schemi mentali condivisi, attraverso i processi che Kenneth

Arrows ha chiamato “learning by doing”.

Questi processi da soli non assicurano la creazione di conoscenza

creativa: è necessario un continuo processo di interazione fra conoscenza

implicita ed esplicita affinché le conoscenze acquisiscano valore per

l’organizzazione e l’apprendimento individuale diventi apprendimento

organizzativo (Profili, 2004).

La prospettiva relazionale affonda le basi sull’assunto che

l’organizzazione è un sistema aperto e vitale (Golinelli, 2001 in Mazzei,

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2006), che sottolinea la natura relazionale dell’organizzazione:

l’organizzazione è vista come una rete di relazioni fra individui. Questo

porta alla conclusione che non si può spiegare il comportamento

organizzativo prescindendo dalla rete di relazioni che legano i membri

interni ad un’organizzazione e quest’ultima con l’ambiente esterno.

Oltre alla network theory, un altro approccio che sottolinea la funzione

essenziale delle relazioni per la creazione e condivisione di conoscenza

sono le così dette Community of Practice: si tratta di un gruppo di persone

che hanno in comune una identità professionale, formata da competenze

e dalla passione per un’attività. Questo permette loro di condividere

conoscenze ed esperienze in maniera fluida, informale e creativa,

sostenendo la creazione di nuovo sapere (Wenger, Snyder, 2000; Duguid,

2002 in Mazzei, 2006). Per far sì che le comunità di pratica si sviluppino

generando nuova conoscenza a favore di tutta l’organizzazione è

necessario che il top management le individui e le potenzi, sostenendo poi

il trasferimento della conoscenza creata verso tutta l’organizzazione

(Brown, Duguid, 2002 in Mazzei, 2006).

La terza prospettiva, quella tecnologica, nasce da diverse ragioni

(Zahedi, 2000 in Profili, 2004):

• la transizione da un’economia industriale ad una basata sui servizi;

• la globalizzazione dei mercato e la necessità di enormi moli di

informazioni e strumenti di comunicazione efficaci;

• lo sviluppo tecnologico ed informatico, dai sistemi software e hardware

ai network informatici;

• il passaggio da forme organizzative gerarchiche a forme più flessibili,

basate sui processi e sul coordinamento orizzontale.

Per Shapiro e Varian (1999, in Profili, 2004) è informazione tutto quello

che può essere digitalizzato, cioè formato da una sequenza di bit. Le

tecnologie informatiche (ICT) permettono l’accumulazione ed

elaborazione di enormi moli di dati, riducendo l’incertezza e i rischi

connessi ai processi decisionali e permettendo di controllare i processi

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aziendali, accrescendo il valore dell’informazione. Queste tecnologie

hanno profondamente cambiato le modalità di trattamento

dell’informazione, con un forte impatto sulle modalità di coordinamento,

sul lavoro in gruppo e su tutti i processi all’interno dell’organizzazione,

compresi quelli di apprendimento (Profili, 2004).

L’avvento di Internet poi ha eliminato totalmente i limiti spazio-temporali

alla diffusione delle informazioni. Inoltre le ICT permettono di rendere più

veloce ed efficiente la comunicazione e di creare una memoria

organizzativa in forma digitale, alla quale tutti possono accedere e

contribuire (Goodman e Darr, 1996 in Profili, 2004). Non tutte le

conoscenze però possono essere codificate: alcuni aspetti taciti come le

competenze, il “saper fare”, spesso non possono essere immagazzinate

digitalmente.

L’ultima prospettiva, quella dell’innovazione, si riferisce come già

accennato, a tutte quelle attività di ideazione e creazione di nuovi prodotti,

servizi, processi. La conoscenza è la base dei processi di innovazione

perché fornisce all’organizzazione il potenziale per nuove azioni: le

conoscenze vengono combinate ed elaborate per crearne di nuove

(Schumpeter, 1934; Hargadon e Sutton, 1997 in Profili, 2004). Questa

prospettiva vede dunque l’innovazione come quel processo di conversione

della conoscenza in azione. La conoscenza rappresenta dunque la

possibilità di generazione di nuovi artefatti organizzativi, l’insieme di valori,

credenze, gli schemi cognitivi degli attori che permettono la creazione di

nuova conoscenza.

1.1.2 LE TEORIE ALLA BASE DEL KNOWLEDGE MANAGEMENT

Prusak (2001) afferma che ci sono tre filoni teorici che hanno

fortemente contribuito alla affermazione del KM: l’information

management, la teoria della qualità e quella del capitale umano.

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L’information management, sviluppato durante gli anni ’70 e ’80, è

considerato una branca delle scienze sull’informazione e sulla IT. Si tratta

di un insieme di correnti di pensiero, teorie e casi che si focalizzano su

come l’informazione venga gestita, indipendentemente dalle tecnologie

che la immagazzinano e manipolano. Riguarda temi sull’informazione

quali le valutazioni, le operazioni tecniche, il governo, gli schemi.

Informazione, in questo contesto, generalmente significa documenti, dati e

messaggi strutturati.

La teoria della qualità, o “quality movement” come lo chiama Prusak, si

focalizza sugli utenti interni, sui processi e sugli obiettivi dichiarati e

condivisi. Mentre le tecniche del quality movement hanno avuto un ruolo di

successo nei processi manifatturieri, il KM ha un obiettivo più ampio che

include i processi che non si prestano ad un chiara misurazione e

definizione. Il KM include attività come rendere la conoscenza visibile,

sviluppare i processi di condivisione e il governo delle strutture grazie alle

tecniche di analisi e perfezionamento elaborate dal qualità movement.

L’ultimo filone è quello che riguarda il capitale umano, il cui valore però

secondo Prusak tende ad essere distorto e dissipato. L’importante

messaggio degli studiosi di questo tipo di capitale è che investire in esso

può portare a vantaggi finanziari. Investire sul capitale umano significa

attivare processi di apprendimento e formazione, che danno ritorni sotto

forma di maggior produttività, sviluppo delle competenze, capacità

d’innovazione e la liberà del lavoro mobile. Nonostante ciò molte

organizzazioni continuano a pensare che i programmi di formazione ed

apprendimento a favore dei dipendenti siano dei costi e non degli

investimenti, e l’idea che lo sviluppo del capitale umano accresca la

produttività e l’innovazione si sta diffondendo solo da poco nelle aziende.

Per definizione il capitale umano si focalizza sull’individuo, mentre il lavoro

del KM concerne i gruppi, le community e i network (ibidem).

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1.2 STRATEGIE DI KNOWLEDGE MANAGEMENT

La conoscenza è incorporata nelle menti delle persone,

rappresenta la base delle loro competenze, sono incise nelle mappe

mentali e in parte spiegano il loro comportamento. Le conoscenze sono

allo stesso tempo incorporate negli artefatti cognitivi, sono cioè in parte

codificate ed esplicitate e immagazzinate in supporti che ne consentono il

trasferimento, quali database, manuali, procedure, norme (Rullani, 1994).

La conoscenza tacita è incorporata nell’individuo mentre la conoscenza

esplicita è codificata e disponibile. Non sempre è possibile trasformare la

conoscenza tacita in esplicita, perché spesso essa è radicata nell’azione.

Oltre a questo, la conoscenza esplicita mantiene sempre una componente

tacita: è questa componente che la rende efficacemente utilizzabile.

Conoscenza tacita ed esplicita rappresentano cioè due

caratteristiche della conoscenza che si potenziano a vicenda: la

conoscenza implicita crea quel background necessario allo sviluppo e

interpretazione della conoscenza esplicita. Questo consente di riflettere

sulla possibilità di basare le strategie di KM esclusivamente

sull’esplicitazione e codificazione della conoscenza: i processi di

codificazione possono rappresentare un valido supporto alla diffusione

della conoscenza nell’organizzazione.

Questo può avvenire solo se l’organizzazione e il suo contesto sono basati

sul network, sulla fiducia e sulla condivisione di valori, esperienze e

competenze tra i membri (Profili, 2004). È dunque necessario quello che

Alavi e Leidner (2001) chiamano shared knowledge space, uno spazio di

conoscenza condiviso tra i membri dell’organizzazione.

1.2.1 LA CONOSCENZA TACITA

Gli individui conoscono molto di più di quanto non siano capaci di

spiegare. Cercando di raggiungere un obiettivo o nello svolgimento di

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un’attività, essi applicano una serie di norme e regole e utilizzano tutto un

sistema di conoscenze in modo inconsapevole e inconscio, senza che

queste siano del tutto note ed articolate nella memoria. La conoscenza

tacita, perciò, riguarda quella parte della conoscenza che un individuo non

è in grado di esprimere con i mezzi di rappresentazione disponibili come il

linguaggio, la documentazione scritta o la digitalizzazione: essa è più

agevolmente trasferibile con la dimostrazione pratica (Polany, 1966 in

Brown, Duguid, 2001).

Nonaka e Takeuchi (1997) affermano che la conoscenza tacita possiede

due dimensioni: quella cognitiva, che si riferisce ai modelli mentali, ai

paradigmi, credenze e valori che sostengono gli individui nella percezione

e definizione della realtà e sono così radicati da esser difficilmente

articolabili e comunicabili; l’altra dimensione, quella tecnica, comprende le

abilità concrete, definite come know-how, e si formano con l’esperienza e

l’apprendimento.

La conoscenza esplicita, invece, può essere trasmessa in una lingua

formale e sistematica. Attraverso regole scritte, procedure e politiche,

permette di comunicare le modalità di comportamento che ogni membro

dell’organizzazione dovrebbe adottare, ed ha il vantaggio di consentire la

diffusione di un grande numero di informazioni (ibidem).

A livello individuale la conoscenza implicita è un concetto strettamente

legato a quello di skill (Nelson e Winter, 1982, in Profili, 2004): si acquista

attraverso l’esperienza, si esplicita inconsciamente ed è difficile se non

impossibile da spiegare. Ma la conoscenza implicita è presente anche a

livello collettivo (Weick e Roberts, 1993, in Profili, 2004): alcune attività

richiedono la collaborazione e il coordinamento di un gruppo di individui in

uno spazio temporale limitato. Inoltre, le conoscenze tacite sono

profondamente legate al contesto sociale ed organizzativo nel quale sono

state generate (Profili, 2004).

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Secondo Leonard e Sensiper (1998, in Profili, 2004) esistono

principalmente tre modalità con cui la conoscenza tacita può essere

sfruttata dall’organizzazione a suo vantaggio:

• problem solving: è l’applicazione più comune. Un esperto può risolvere

un problema più velocemente ed efficacemente di un principiante

perché possiede un corpo di conoscenze in grado di garantire

l’individuazione, in maniera inconscia, delle attività più appropriate ad

affrontare quel problema;

• problem finding: la conoscenza tacita consente di individuare non solo

le soluzioni ad un problema, ma anche di indagare la natura stessa del

problema per poterlo meglio riconoscere e diagnosticare in futuro;

• predizione ed anticipazione: la conoscenza tacita consente di

interpretare, in maniera non del tutto consapevole, le problematiche

nella loro globalità. Questo permette all’individuo di anticipare e predire

gli avvenimenti, sviluppando un ambiente creativo.

Perchè la conoscenza tacita possa essere efficacemente e velocemente

utilizzata è necessario che l’organizzazione predisponga un contesto

culturale creativo in cui gli individui ricorrono all’esperienza personale e al

loro intuito.

1.2.2 L’ESPLICITAZIONE DELLA CONOSCENZA

Attraverso il processo di codifica le conoscenze contestuali, cioè

quelle prodotte ed adoperate in un dato contesto e che possono essere

trasferite solo attraverso la condivisione di esperienze, vengono “de-

contestualizzate”, ovvero esplicitate e trasmesse in linguaggi

generalmente comprensibili (Rullani, 94).

La codificazione viene effettuata con la creazione di manuali, software o

linee guida che sintetizzano le esperienze immagazzinate da individui che

hanno già affrontato in modo efficace un certo problema e consentono il

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trasferimento di queste esperienze ad un maggior numero di persone

(Profili, 2004).

Secondo Zander e Kogut (1995) le conoscenze, dopo la loro codifica,

possono essere trasferite all’interno dell’organizzazione consentendo di:

• ridurre i costi di trasferimento grazie alla riduzione dei contatti

necessari;

• condividere modelli di comportamento che aiutano a coordinare le

attività attraverso l’allineamento dei comportamenti individuali con gli

obiettivi organizzativi;

• avere una maggiore omogeneità nei comportamenti degli attori, che

aumenta il valore della reputazione e dell’immagine dell’organizzazione

nei confronti dei propri clienti.

Davenport e Prusak affermano che la prima difficoltà che si incontra nel

processo di codifica è come esplicitare la conoscenza senza farle perdere

le sue proprietà distintive e senza trasformarla in “less vibrant information

or data” (1998:68). Gli autori sostengono che un’organizzazione che vuole

codificare la conoscenza deve tenere a mente quattro principi:

• il top management deve decidere a priori gli obiettivi di business a cui

deve servire la conoscenza esplicitata;

• i manager devono essere in grado di identificare tutta la conoscenza

(nelle sue varie forme) esistente e in grado di aiutare a raggiungere gli

obiettivi prefissati: codificare tutta la corporate knowledge sarebbe un

lavoro immenso ed inutile;

• i knowledge manager devono saper valutare l’utilità e la capacità di

essere codificate delle conoscenze;

• gli operatori addetti alla codifica devono identificare un mezzo di

codifica e distribuzione della conoscenza appropriato.

Secondo Profili (2004), le difficoltà nell’articolare e trasferire le

conoscenze tacite sono alla base del vantaggio competitivo detenuto da

molte imprese: i vantaggi generati dalla conoscenza implicita sono

mantenibili nel tempo perché la conoscenza è una risorsa difficilmente

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imitabile o sostituibile con altre equivalenti. Ostacoli alla diffusione della

conoscenza sono rappresentati dall’esistenza in molte organizzazioni di

micro-culture: la codificazione diventa efficace se il linguaggio adottato per

esplicitare le conoscenze è noto e condiviso in tutta la realtà

organizzativa.

Foray (2000) sottolinea però come sia necessario confrontare i vantaggi

conseguenti alla codificazione della conoscenza con i costi e tempi

necessari per attuarla. I benefici della codificazione, infatti, sono

strettamente dipendenti dal numero di individui che possono utilizzare la

conoscenza esplicita e dalla possibilità che tali individui hanno di

applicarla efficacemente: il trasferimento efficace della conoscenza

codificata può dipendere, ad esempio, dalla motivazione da parte

dell’individuo a recepire la conoscenza, cioè dal grado di interesse verso

la stessa.

Secondo Davenport e Prusak (1998) la maggior parte dei progetti di

KM hanno in comune uno dei seguenti obiettivi:

• rendere visibile la conoscenza e il suo ruolo nell’organizzazione;

• generare e sviluppare una cultura knowledge-intensive, stimolando la

condivisione di conoscenze tra membri e aree dell’organizzazione;

• creare una “infrastruttura di conoscenza”, basata non solo su supporti

tecnologici ma anche sullo sviluppo di un network relazionale.

Ahmed, Lim e Loh (2002, in Profili, 2004) suggeriscono una

rappresentazione del KM come combinazione di tecnologie informatiche,

processi organizzativi, strategia e cultura organizzativa. Le ICT hanno un

ruolo fondamentale nei processi di generazione della conoscenza in

quanto agevolano sia la connessione dei diversi attori sia l’accumulazione

di conoscenze, attività basilari per il successo delle strategie di KM. Gli

strumenti di comunicazione favoriscono il collegamento tra membri e aree

dell’organizzazione indipendentemente dalla loro collocazione geografica,

facilitando l’accesso ai database di conoscenze organizzative. Nello

stesso tempo permettono di catturare e distribuire il know-how, attraverso i

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processi di codificazione, immagazzinamento e recupero delle

conoscenze.

1.2.3 L’APPRENDIMENTO ORGANIZZATIVO

Già accennato più volte, cercheremo in questo paragrafo di

inquadrare il concetto di organizational learning.

Le teorie sul learning utilizzate nella documentazione e nella istruzione

vedono l’apprendimento dal punto di vista pedagogico: l’insegnamento è

rappresentato dalla trasmissione di esplicita e astratta conoscenza da un

individuo che detiene questa conoscenza ad un altro che non la detiene e

ne è escluso (Brown, Duguid, 1991).

Ma i teorici dell’apprendimento rifiutano questo modello trasmissivo, che

isola la conoscenza dalla pratica, sviluppando un punto di vista secondo il

quale l’apprendimento è una costruzione sociale in cui la conoscenza

viene riportata nel contesto in cui assume un proprio senso e significato.

Da questa prospettiva, gli individui coinvolti nel processo di apprendimento

(learners) possono essere visti come attori della costruzione della propria

consapevolezza, coinvolti in un ambiente sociale fatto di storie e relazioni.

Ciò che viene appreso è quindi profondamente connesso alle condizioni

ambientali in cui viene appreso (ibidem).

Lave e Wenger (1990, in Brown e Duguid, 1991), con il loro concetto di

legittimate peripheral participation (LPP) forniscono una versatile

descrizione di questa visione “costruttiva” dell’apprendimento. L’LPP non è

un metodo di insegnamento ed educazione, ma uno strumento di

categorizzazione analitica per comprendere l’apprendimento attraverso

differenti metodi, periodi storici e ambienti sociali: cerca quindi di

descrivere l’apprendimento, non l’insegnamento. Secondo questa visione,

l’apprendimento comporta il diventare un insider, entrare cioè a far parte di

qualcosa. I learners non ricevono o si costruiscono una conoscenza

astratta ed oggettiva, piuttosto imparano a comportarsi e ad operare in

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una comunità. Acquisiscono il particolare punto di vista della comunità ed

imparano a parlare il suo linguaggio. In pratica, vengono acculturati. I

learners non acquisiscono semplicemente conoscenza, ma imparano a

comportarsi come membri di una comunità.

La questione centrale dell’apprendimento è diventare un professionista,

uno specialista delle pratiche, non semplicemente apprendere le pratiche.

Questo approccio sposta l’attenzione dai processi cognitivi per portarla

sulle pratiche e sulle comunità in cui la conoscenza assume senso e

significati. Apprendimento, comprensione ed interpretazione sono

importanti questioni che non sono esplicite o esplicabili, ma sono

sviluppate e incastonate nel contesto comunitario (ibidem).

1.3 LE FORME ORGANIZZATIVE CHE AGEVOLANO IL

KNOWLEDGE MANAGEMENT

L’orientamento al cliente e l’esigenza di flessibilità fanno si che

l’organizzazione per processi sia privilegiata rispetto ad un orientamento

gerarchico-funzionale. Il bisogno di adattare i processi interni alle esigenze

del cliente richiede, infatti, che la personalizzazione del servizio sia

realizzata a partire dalla fase di progettazione (Cercola e Sonetti, 1999, in

Profili, 2004).

Le diverse attività, perciò, vanno raggruppate non in base alla loro

similarità, secondo il criterio di specializzazione funzionale, ma sulla base

della loro interdipendenza rispetto allo scopo finale che è la piena

soddisfazione del cliente. Questa logica comporta una riduzione delle

distanze tra i vari livelli gerarchici della struttura organizzativa, perché la

dimensione orizzontale prevale su quella verticale: lo scopo è avvicinare il

più possibile al mercato tutti i membri dell’organizzazione. Questo porta ad

una maggior responsabilizzazione delle risorse umane (empowerment) ed

una maggiore enfasi sui processi di learning individuale e collettivo.

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Questo tipo di forma organizzativa sviluppata in orizzontale e in base ai

processi aziendali è caratterizzata da meccanismi di coordinamento basati

su relazioni laterali di tipo informale (Daft, 2001, in Profili, 2004). A

differenza delle strutture gerarchiche, dove la direzione è basata sulla

centralizzazione, la specializzazione e l’utilizzo dell’autorità formale,

queste organizzazioni stimolano e supportano l’interazione sociale,

agevolando il trasferimento e la condivisione di know-how, in particolare

nelle situazioni in cui la conoscenze è difficilmente osservabile e

fortemente radicata nel contesto sociale (Profili, 2004).

O’Dell e Grayson (1998, in Profili, 2004) aggiungono che la struttura

orizzontale permette agli individui coinvolti in un dato processo di lavorare

assieme, eliminando gli ostacoli alla comunicazione e al coordinamento

rappresentati dai confini tra le unità organizzative.

In definitiva, questo tipo di strutture organizzative sono particolarmente

adatte a quelle tipologie di aziende, tipicamente erogatrici di servizi, che

collocano il cliente al centro dei propri processi aziendali e in cui l’elasticità

strategica e strutturale sono dei valori fondamentali per il coordinamento

delle attività (Fontana, 1997, in Profili, 2004).

Il funzionamento di una struttura orizzontale necessita dell’esistenza di

una cultura organizzativa incentrata sulla fiducia, la collaborazione,

l’apertura e la flessibilità: le risorse umane devono acquisire competenze

trasversali alle diverse unità funzionali, sviluppando capacità decisionali e

autonomia. Questa forma organizzativa, nonostante preveda elevati

investimenti in termini di formazione, sviluppo ed incentivazione delle

risorse umane, e l’attuazione di meccanismi di coordinamento orizzontale,

rappresenta il contesto ideale per la diffusione, sviluppo e condivisione

della conoscenza. Tutta l’organizzazione infatti è orientata alla

collaborazione, alla condivisione di esperienze, alla comunicazione: il

processo aziendale (sia esso un prodotto, un servizio, un’area geografica)

rappresenta il locus dell’apprendimento e dell’innovazione. I responsabili

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del processo (project manager, process owner) ricoprono spesso il ruolo

di integratori della conoscenza (Profili, 2004).

1.3.1 LE ORGANIZZAZIONI KNOWLEDGE-INTENSIVE

Tra le organizzazioni knowledge-intensive ci sono le professional

organization: in queste aziende il vantaggio competitivo si crea attraverso

la capacità di mobilitare e integrare diversi corpi di conoscenze ed

esperienze professionali con lo scopo di generare valore per il cliente

(Lowendahl, 1997 in Profili, 2004).

Secondo Robertson, Scarbrough e Swan (2003) ciò che distingue le

organizzazioni professionali da quelle ad alta intensità di conoscenze è

l’esistenza di regole e strumenti di controllo professionali, che influenzano

i processi di generazione della conoscenza e dell’innovazione. Il problema

nella gestione di questo tipo di organizzazioni sta nella continua necessità

di equilibrio tra le esigenze di formalizzazione, che serve a regolare il

coordinamento organizzativo, e l’alta autonomia e l’indipendenza richiesta

per sostenere l’innovazione, la flessibilità e la creazione di know-how. Le

professional organization sono organizzazione formate da professionals,

cioè degli individui con una ampia conoscenza di base e doti spiccate,

un’ampia indipendenza connessa ad un altro grado di coordinamento e

controllo del proprio operato.

Si tratta di aziende produttrici di servizi, in cui la maggior parte dei

processi viene svolta in presenza o col la partecipazione attiva dei clienti

(Chase e Thansik, 1983 in Profili, 2004). La discrezionalità in queste

organizzazioni viene riconosciuta e legittimata come parte del lavoro

professionale perché legata alla natura stessa delle attività svolte, che non

permette l’applicazione di sistemi di controllo burocratici (Profili, 2004).

Il professionalismo rappresenta il principio organizzativo di divisione del

lavoro, differente da quello del mercato o della burocrazia basati

rispettivamente su prezzo e autorità; esso è una “terza logica” di

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coordinamento che sta prendendo sempre più piede non solo in

organizzazioni governate da logiche professionali ma anche in altre ad

elevato contenuto di conoscenze ed innovazione (Freidson, 2002 in Profili,

1994).

Questo tipo di organizzazioni hanno al proprio interno una serie di

complessità che rendono problematico l’utilizzo di strumenti di

coordinamento burocratici efficaci. Bisogna tener conto in primo luogo

che l’erogazione di servizi professionali richiede la partecipazione di

professionalità molto diverse tra loro: competenze, conoscenze, modi di

fare, cultura, valori e concetti. I risultati e le performance in queste

organizzazioni sono dunque l’integrazione e combinazione di diversi

saperi e capacità, spesso tacite. In secondo luogo, questa complessità

porta spesso ad una iper-specializzazione delle competenze,

accompagnata da una forte autonomia e indipendenza nell’operato.

Questo porta ad un ulteriore bisogno di coordinamento. In terzo luogo,

spesso queste organizzazioni sono dislocate geograficamente in zone

diverse. Dal punto di vista del cliente poi, la natura dei servizi professionali

che non permette una valutazione compiuta prima dell’erogazione porta a

scegliere in base alla reputazione (dell’organizzazione o dei singoli

professionisti che vi operano in essa), che diventa un asset fondamentale.

Altra caratteristica di queste organizzazioni sono le modalità interne di

comunicazione: non vengono utilizzati infatti i canali formali tipicamente

verticali, ma quelli orizzontali: le distanze fra i livelli gerarchici sono molto

assottigliate (Profili, 2004).

Il livello di formalizzazione di una organizzazione varia in base al grado di

standardizzazione utilizzato tramite procedure e regole: più

standardizzazione corrisponde ad una maggiore formalizzazione. In una

organizzazione professionale, risulta difficoltoso, inefficace e

controproducente far ricorso ad una rigida standardizzazione, perché la

complessità ed imprevedibilità del processo di erogazione del servizio

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professionale costringono il professional ad utilizzare una discrezionalità

“caso per caso”, tipicamente per progetto (ibidem).

1.3.2 LE PRATICHE DI KNOWLEDGE MANAGEMENT

Come affermano Davenport e Prusak (1998), parlare di KM porta

spesso la conversazione su territori astratti e filosofici. Ma c’è tutto un

mondo reale di KM fatto di budget, politiche, scadenze, prassi operative.

Il KM è una pratica in continua evoluzione. I due autori, sperimentandola

in più di trenta progetti aziendali, hanno potuto dividerli in tre

macrocategorie a seconda degli obiettivi da raggiungere: creazione di

depositi di conoscenze, miglioramento dell’accesso alle conoscenze,

sviluppo di knowledge culture e environments.

Il primo gruppo di progetti, che ha come scopo la costruzione di

magazzini di conoscenze, tenta di farle diventare delle entità separate

dalle persone che le creano ed utilizzano. L’obiettivo è estrapolare la

conoscenza da documenti, report, presentazioni, articoli ecc. e metterla in

depositi dove sia possibile stoccarla e richiamarla facilmente. Gli autori

individuano tre tipologie di depositi di conoscenza:

• conoscenza esterna (ad esempio l’intelligence per competere);

• conoscenza interna strutturata (report di ricerche, materiali e metodi di

marketing);

• conoscenza interna informale (database di discussioni e condivisione).

Il secondo gruppo di progetti ha come obiettivo facilitare l’accesso alle

conoscenze e il loro trasferimento tra gli individui. Questi progetti non si

focalizzano come i precedenti sulla “cattura” della conoscenza, ma sui

detentori e i potenziali possessori di tali conoscenze. Se la metafora giusta

per i progetti di costruzione di depositi è la libreria, quella giusta per

questo secondo tipo di progetti sono le Pagine Gialle: sapere chi e dove

detiene la conoscenza, e come entrarne in possesso.

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La terza tipologia di progetti riguarda la costruzione di un ambiente

ed una cultura adatti alla condivisione della conoscenza. In questi progetti

ricadono gli sforzi di misurare e migliorare il valore del capitale di

conoscenza, costruire awareness e ricettività culturale, cambiare i

comportamenti riguardo la gestione della conoscenza, sviluppare i

processi di diffusione della conoscenza. Si tratta di progetti che hanno

come scopo quello di far diventare la conoscenza un altro importante

asset per il successo aziendale.

Davenport e Prusak ammettono che queste tre macrocategorie

sono confinate per lo più nella teoria, perché nella pratica i progetti reali

risultavano essere combinazioni delle tre tipologie (ibidem).

1.3 IL RUOLO DELLA CULTURA ORGANIZZATIVA

Per Grandori (1995, in Profili, 2004) si parla di coordinamento

culturale riferendosi all’attività di condizionamento che le norme etiche e i

valori fondanti di una data organizzazione esercitano sul comportamento e

sulle azioni individuali.

La cultura organizzativa, intesa come l’insieme di valori e principi di fondo

condivisi dai membri di una organizzazione, rappresenta una determinante

fondamentale del comportamento organizzativo, in particolare in quelle

realtà organizzative in cui risulti difficile osservare efficacemente

comportamenti e risultati (Profili, 2004).

Nelle organizzazioni orizzontali appena descritte la cultura aziendale

assume un ruolo fondamentale in virtù delle difficoltà di coordinare le

attività attraverso meccanismi formali come la gerarchia e gli standard. La

cultura, fornendo ai membri una identità organizzativa, rappresenta un

sistema di coordinamento “soft” efficace in un contesto in cui i valori

professionali hanno una importanza maggiore rispetto alle norme e agli

obiettivi aziendali. L’utilizzo di strumenti culturali per gestire e coordinare

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le attività si basa sul riconoscimento che la cultura organizzativa, da un

lato, viene a galla ed è trasmessa in moto automatico ed inconsapevole,

come risultato di un processo di apprendimento e di sedimentazione di

consuetudini, modalità operative e valori. Dall’altro, rappresenta un

costrutto che può essere modellato, comunicato e trasmesso ai membri di

una organizzazione attraverso l’utilizzo di riti, simboli, strumenti di

comunicazione, e in particolare attraverso il comportamento del

management che dirige l’organizzazione (ibidem).

Tutti i componenti della cultura aziendale, e in modo particolare i valori,

influenzano il comportamento degli individui e quindi l’approccio alla

creazione, diffusione e applicazione della conoscenza (De Long e Fahey,

2000, in Profili, 2004).

In primo luogo, la conoscenza influisce sul modo di valutare una

conoscenza utile, importante o valida all’interno di una organizzazione. In

secondo luogo, la cultura svolge un fondamentale ruolo di mediatore tra la

conoscenza individuale e quella collettiva.

Inoltre, la cultura influisce sul contesto di interazione sociale: gli strumenti

e i canali di comunicazione utilizzati, la discussione di temi critici, la

frequenza delle relazioni, la presenza di comunicazioni bottom-up, lo

sfruttamento di conoscenze accumulate, la possibilità di apprendere dal

lavoro di colleghi e superiori, sono solo alcune caratteristiche culturali

dell’organizzazione che influenzano le modalità di interazione e quindi il

grado di condivisione della conoscenza (Profili, 2004).

Va quindi individuato non la modalità migliore di sviluppo e

diffusione della conoscenza, ma la modalità che più si adatta ai valori

fondanti e allo stile dell’organizzazione. È fondamentale perciò sviluppare

una “cultura della condivisione”, creando una connessione evidente tra il

knowledge sharing e i problemi, gli obiettivi, i risultati aziendali e i valori

(ibidem)

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1.4 LA MEMORIA ORGANIZZATIVA

L’approccio affrontato in questo paragrafo, la memoria d’impresa, è

quello che più esplicita la capacità di una qualsiasi organizzazione di

salvaguardare e gestire il proprio “sapere” e “saper fare”, in modo da

incorporarlo nelle attività, nella cultura e nei valori condivisi dai

componenti dell’organizzazione stessa (Minguzzi, 2006).

La memoria d’impresa rappresenta quindi una componente fondamentale

del processo cognitivo attuato da una organizzazione attraverso i propri

dipendenti, diventando una base, un “substrato” per l’apprendimento

organizzativo, che modifica e viene a sua volta modificato dall’insieme di

risorse e senso condiviso che costituisce la memoria d’impresa.

Secondo Cross e Baird (2000, in Minguzzi, 2006) esistono svariate

modalità con cui l’apprendimento delle esperienze aziendali può essere

catturato ed integrato nelle pratiche operative e gestionali di una

organizzazione: uno di questi è rappresentato dalle tecnologie per la

distribuzione della conoscenza.

Tuttavia, l’impresa può operare ad un livello più “soft”, ma decisamente più

profondo e pervasivo, cercando di far integrare la conoscenza nella vita

quotidiana dei membri dell’organizzazione, modificando i processi

operativi, prodotti e/o obiettivi in modo da incorporare in tali innovazioni la

nuova conoscenza acquisita attraverso le esperienze capitalizzate. Tale

processo di embeddedment di sapere e apprendimento negli aspetti

operativi e pragmatici, culturali, valoriali e di creazione di senso costituisce

l’operazione-chiave per permettere all’organizzazione di costruirsi una

propria memoria, a partire dalla quale può ricordare ed apprendere, ma

anche dimenticare (Minguzzi, 2006).

Nel saggio Organizational Memory, Walsh e Ungson (1991, in Minguzzi,

2006) considerano i rischi di antropomorfizzare in modo fuorviante le

organizzazioni. Precisando che le analogie tra memoria umana e

organizzativa non possono limitarsi ad analogie di tipo funzionale ma che

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bisogna interrogarsi anche sulla loro validità (le differenze tra memoria

umana e organizzativa), comparabilità (come si reperiscono le

informazioni dalla memoria organizzativa) e consequenzialità (che cosa

comporta per una organizzazione la capacità di immagazzinare la

conoscenza di eventi passati per riutilizzarla nelle decisioni presenti), gli

autori si basano su tre assunti fondamentali:

• le organizzazioni sono funzionalmente simili a sistemi che elaborano

informazioni provenienti dall’ambiente e quindi, come tali, dimostrano

di possedere una memoria funzionalmente simile a quella umana;

• si può desumere l’esistenza di una qualche forma di memoria

organizzativa anche dal fatto che le organizzazioni devono sviluppare

meccanismi e processi per cogliere, interpretare e diagnosticare gli

eventi, con lo scopo di gestire la complessità e l’incertezza

dell’ambiente in cui operano;

• si assume l’organizzazione come un network di significati condivisi tra i

soggetti e indirizzati allo sviluppo e utilizzo di un linguaggio comune e

di interazioni sociali quotidiane. La memoria è un substrato

dell’organizzazione, più o meno latente, non sempre interrelato alle

altre variabili.

Gli autori sostengono che, nonostante l’acquisizione di informazioni sia

una operazione individuale, il processo di condivisione delle conoscenze

crei un sistema interpretativo che trascende in parte quello individuale: è

per questo motivo che una organizzazione riesce a conservare la

conoscenza riguardo al proprio passato anche se alcuni membri-chiave

lasciano l’organizzazione.

La memoria organizzativa rappresenta dunque una serie di informazioni e

conoscenze sviluppate ed immagazzinate nel corso della vita di una

organizzazione, conservate in modo da poter essere convenientemente

richiamate per gestire decisioni presenti, essenzialmente per analogia e

attraverso un meccanismo di stimolo/risposta. La memoria si configura

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così sia come uno stock che come una struttura di stoccaggio di

informazioni e conoscenze.

Tale struttura di conservazione utilizza una logica di funzionamento nelle

tre fasi di acquisizione, salvaguardia e ritrovamento delle informazioni. Per

Walsh e Ungston nella seconda fase vengono utilizzati cinque “contenitori”

(storage bins) tra loro interconnessi, che compongono la struttura della

memoria organizzativa. Questa interconnessione è dovuta al fatto che la

memoria è per natura distributiva: questo significa che l’informazione non

è destinata a rimanere confinata in un luogo centrale, ma che tende a

spargersi all’interno di tutta l’organizzazione.

I cinque bins individuati dagli autori sono gli individui, la cultura

organizzativa, le trasformazioni, la struttura organizzativa e l’ecologia del

luogo di lavoro.

• Gli individui: il loro contributo alla memoria organizzativa è

rappresentato dalla loro capacità di ricordare conoscenze ed

esperienze e dagli orientamenti cognitivi che essi utilizzano per

facilitare il trattamento delle informazioni;

• la cultura organizzativa, rappresentata da una serie di modalità

apprese di percepire, riflettere e trattare i problemi trasmesse ai

membri dell’organizzazione, “incarna” le esperienze passate utili per

affrontare il futuro;

• le trasformazioni, i processi di cambiamento che avvengono all’interno

dell’organizzazione;

• la struttura organizzativa, l’insieme di ruoli, norme ed aspettative;

• l’ecologia del luogo di lavoro, la struttura fisica e materiale

dell’organizzazione, le condizioni di lavoro al suo interno e l’ergonomia.

A questi cinque “contenitori” i due autori ne aggiungono un sesto, gli

archivi, strumenti utili nel reperimento di informazioni sul passato

dell’organizzazione.

Secondo gli autori questo approccio offre numerosi vantaggi: una

riduzione dei costi di transazione e ricerca, a vantaggio dell’efficienza

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aziendale, una maggiore accettazione delle decisioni presenti se

legittimate da decisioni passate (il ruolo della “tradizione”), una

facilitazione delle procedure di definizione dei problemi generando

alternative, una maggior capacità di conservare knowledge.

Ai vantaggi sopraccitati, Walsh e Ungson contrappongono alcuni rischi

derivanti dall’abuso o dall’utilizzo indebito della memoria organizzativa,

come ad esempio il ritrovamento di informazioni tali da spingere ad una

decisione routinaria quando ne sarebbe necessaria una non-routinaria (o il

contrario), o un impiego errato delle informazioni, o un utilizzo di queste

volto a rafforzare l’autocrazia e il dominio da parte di chi sa servirsene.

Per prevenire tali distorsioni la memoria organizzativa deve essere

sempre e comunque collettiva, anche se ciò può mettere in discussione la

distribuzione del potere all’interno dell’organizzazione (ibidem).

Secondo Cecchinato e Lorenzio (2002, in Minguzzi, 2006) ciò che

chiamiamo memoria è un ricostruirsi continuo di forme e non un

depositarsi di contenuti. La rievocazione dell’esperienza passata è

mediata ed elaborata dall’interpretazione del soggetto, che le attribuisce

un significato e un senso in base al contesto in cui avviene questa

rievocazione. In questo senso la memoria è sempre presente e mai

passato.

Nelson e Winter (1982, in Minguzzi, 2006) affermano che la memoria

organizzativa diviene l’identità del “noi” collettivo, non più citata

quotidianamente ma assunta, adoperata e cristallizzata nelle routine che

guidano inconsapevolmente e inconsciamente gli individui.

La memoria organizzativa collettiva che si crea supera le singole memorie

individuali, permettendo la formazione e stabilizzazione di una cultura ed

identità comune (Minguzzi, 2006).

Le routine in cui si sedimentano le interpretazioni comuni possono

diventare prassi difficili da modificare o correggere. Tuttavia la memoria

organizzativa non si riduce unicamente ai suoi aspetti più conservativi e

routinari, perché ne esistono molti altri, dagli archivi ai database, dalle

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regole alle procedure, fino alle memorie individuali. La memoria

organizzativa non è quindi statica, ma cresce e si sviluppa tramite gli

individui che la costituiscono (ibidem).

Anand, Manz e Glick (1998) hanno sviluppato un modello per la

costruzione della memoria organizzativa che denominano “sistemica”.

Partendo dalle teorie organizzative che sostengono che le informazioni e

le conoscenze acquisite da una parte dell’organizzazione devono essere

comunicate velocemente alle altri parti, gli autori sottolineano come la

mole di informazioni acquisite in una organizzazione sia enorme: se tutte

queste conoscenze vengono trasmesse a tutte le parti dell’organizzazione,

i membri di questa subiscono un overload informativo (ibidem).

I tre autori quindi suggeriscono un modello di memoria organizzativa che

prevede la creazione di domini informativi riconosciuti, directory e

allocazioni di informazioni all’interno dell’organizzazione. Questo

approccio richiede che i dipendenti siano informati riguardo alle tipologie di

conoscenze disponibili nei vari domini, e che siano facilitati

nell’acquisizione, elaborazione ed utilizzo di queste conoscenze.

Questo modello prevede:

• la presenza di informazioni e conoscenze incorporate rilevanti

all’interno della memoria sistemica;

• la disponibilità di tali informazioni e conoscenze;

• la costruzione di processi organizzativi e norme che permettono la

condivisione di decisioni, conoscenze e informazioni;

• che la memoria sistemica sia continuamente modificabile e ricreabile

quando i cambiamenti interni o esterni lo rendono necessario.

Steinmueller (2000), oltre a ricordare come la memoria d’impresa e la

condivisione della conoscenza siano particolarmente importanti per le

performance innovative di un impresa, sottolinea come sia diversa la

gestione della conoscenza tra una piccola e una grande organizzazione.

La piccola impresa può infatti sviluppare reti di relazioni e condivisione tra

i dipendenti; per la grande impresa, invece, l’utilizzo di conoscenza

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precedentemente acquisita per risolvere problemi nuovi si rivela fonte di

grandi difficoltà.

L’autore ne indica tre:

• l’organizzazione deve individuare le caratteristiche principali di un

determinato problema per vedere se assomiglia a problemi affrontati in

passato;

• in seguito l’organizzazione deve individuare le fonti di tutte le

informazioni rilevanti, ovvero gli individui che erano stati in grado di

risolvere i problemi precedentemente affrontati;

• se l’identificazione di questi individui risultasse problematica o non

possibile, l’organizzazione dovrebbe essere in grado di reperire tali

conoscenze attraverso altri canali.

1.4.1 TIPOLOGIE DI MEMORIA ORGANIZZATIVA

Allo stesso modo delle conoscenze (le quali, del resto,

costituiscono la materia prima della memoria), anche la memoria

organizzativa si compone di elementi tangibili ed intangibili, a seconda che

ciò che è stato appreso venga formalizzato o meno (Minguzzi, 2006).

Da un lato quindi troviamo l’esperienza personale acquisita durante

l’attività lavorativa, la memoria tacita del come e del perché si è imparato

qualcosa o si sono prese certe decisioni (know-how, know-why).

Dall’altro si ha la memoria dichiarativa, esplicita e codificata sotto forma di

documenti prodotti individualmente o collettivamente: la memoria del “che

cosa” (know-what) reperibile in archivi, database manuali di procedure,

istruzioni, e anche la “letteratura grigia”, cioè annotazioni, relazioni,

brainstorming (ibidem).

Un’altra classificazione viene fornita da Joanna Pomian (1996, in

Minguzzi, 2006). L’autrice suddivide la memoria d’impresa in tre differenti

tipologie, che hanno tra le principali discriminanti le modalità e il tempo di

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costituzione della memoria stessa: le tre categorie di memoria sono quella

tecnica, di progetto e manageriale.

• La memoria tecnica, quella formatasi nel lungo periodo sulla base

dell’esperienza lavorativa di un soggetto che costituisce un capitale di

sapere. In essa rientrano la vita lavorativa, l’esperienza e le decisioni

prese, le strategie passate, le scoperte, gli errori.

• La memoria di progetto si sviluppa qualora l’impresa basi le proprie

attività attorno a progetti circoscritti nel tempo: poiché l’esperienza di

progetto rischia di dissiparsi una volta esauritasi, la salvaguardia di

questo tipo di memoria è fondamentale.

• La memoria manageriale è rappresentata da quell’insieme di

apprendimenti localizzati ed effettuati nel breve periodo che

contribuiscono al buon funzionamento dell’organizzazione.

1.4.2 I CONTRIBUTI DELLA MEMORIA ORGANIZZATIVA

Sono numerosi i benefici che la memoria organizzativa può

apportare per migliorare il funzionamento e l’efficienza

dell’organizzazione, sia da un punto di vista “difensivo” (evitare

conseguenze negative) che da uno “proattivo” (migliorare le performance)

(Minguzzi, 2006).

In primo luogo va menzionata la necessità, spesso sottovalutata, di evitare

perdite di sapere o di savoir-faire a causa della partenza di un esperto o

comunque di un detentore di conoscenza pratica potenzialmente critica

per l’organizzazione. Anticipare i rischi dati dalla perdita di sapere in tali

circostanze diventa un obiettivo primario per il management. Il modo di

ovviare a tali inconvenienti è di costruire, attraverso metodi qualitativi quali

dell’audit (interviste), un insieme esplicito delle conoscenze detenute dagli

individui il cui sapere è considerato importante e lo si vuole

immagazzinare per riutilizzarlo nel futuro: il savoir-faire individuale viene

così capitalizzato nella memoria collettiva (ibidem).

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Altrettanto determinante risulta in molte organizzazioni la capacità di

sfruttare l’esperienza acquisita nei progetti trascorsi e conservare le lezioni

derivanti da strategie ed azioni passate: questo serve a evitare il

ripresentarsi di errori, malfunzionamenti o ambiguità, e per sfruttare al

meglio il “retour d’experience”, ossia il ri-verificarsi in situazioni nuove di

alcune caratteristiche già incontrate in progetti passati. Riconoscere questi

“ritorni d’esperienza” consente di risparmiare tempo, denaro e fatica. Lo

sviluppo di una memoria di progetto consente inoltre la creazione di un

forte spirito di condivisione, facilita il riconoscimento dei contributi

individuali, incoraggia al dialogo e alla partecipazione attiva, migliora il

sentimento di appartenenza al team e all’organizzazione (ibidem).

In definitiva, la memoria organizzativa consente di costruire una

“mappa” delle conoscenze detenute da una organizzazione, un inventario

quotidianamente aggiornato del savoir-faire dell’impresa, che comprende

anche il “chi sa cosa”, le reti di distribuzione e condivisione, le fonti e i

“manipolatori” della conoscenza. Questo, favorendo la circolazione del

sapere all’interno, può aiutare l’organizzazione a reagire e ad adattarsi ai

cambiamenti (ibidem).

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2. LE LEARNING HISTORIES, UNO

STRUMENTO PER DIFFONDERE LA

CONOSCENZA NELL’ORGANIZZAZIONE

In questo capitolo viene descritto uno degli strumenti di KM per

diffondere competenze distintive e comunicazionali, elaborato da Art

Kleiner e George Roth: le learning histories, un differente approccio

all’apprendimento istituzionale.

2.1 L’APPROCCIO ESPERIENZIALE ALL’APPRENDIMENTO

“In our personal lives, experience is often the best teacher” (Kleiner,

Roth, 1997:1). Questo detto ha spinto Art Kleiner e George Roth a

verificarne la validità nella vita di una azienda, e ad interrogarsi su come

gli insegnamenti e le esperienze del passato possono essere trasformate

da un’organizzazione in un “processo” al fine di tramutarli in azioni

operative.

La questione ha interessato un gruppo di studiosi di scienze sociali,

manager e giornalisti al Center for Organizational Learning (di cui Kleiner

e Roth sono membri) del Mit (Massachusetts Institute of Technology), che

hanno sviluppato e testato un mezzo per risolvere il problema

dell’apprendimento organizzativo, chiamando questo strumento “learning

history”.

Una learning history è il racconto di una esperienza aziendale, di un

episodio “critico”, un cambiamento o una riorganizzazione, una nuova

iniziativa, una importante innovazione, un successo aziendale, o un

evento traumatico come un ridimensionamento. Questo documento

descrive l’evento raccogliendo le testimonianze di tutte le persone

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coinvolte, utilizzando un linguaggio ricco dal punto di vista emozionale e

coerente con la storia raccontata.

Le learning histories vengono create attraverso la socializzazione della

conoscenza: raggruppano i resoconti di esperienze vissute

individualmente, esplicitando la conoscenza tacita attraverso la

documentazione della storia e consentendo la combinazione del sapere e

la sua interiorizzazione attraverso la diffusione in tutta l’organizzazione. La

diffusione però non si deve esaurire con la mera distribuzione dei

documenti all’interno della organizzazione. Le learning histories

rappresentano infatti la base per discussioni di gruppo, formati non solo

dalle persone coinvolte nella storia ma anche da chi può apprendere

qualcosa da essa: la miglior soluzione sarebbe includere tutti i manager e

collaboratori dell’organizzazione. Le discussioni di gruppo devono essere

formate da un numero limitato di partecipanti: questo facilita il dialogo, lo

scambio di opinioni e modi di pensare.

Lo scopo di questi meeting è quello di raggiungere una migliore

comprensione degli eventi e delle decisioni, condividere la conoscenza e

la consapevolezza dell’apprendimento organizzativo. In questo modo una

learning history evolve da “prodotto” per creare e diffondere know-how a

“processo” per condividerlo all’interno dell’organizzazione e apprendere da

esso per poter affrontare al meglio le problematiche future.

2.1.1 LO STORYTELLING

Dal punto di vista della sua costruzione, la learning history si basa

sulla pratica dello storytelling (ibidem), un approccio alla comunicazione

che utilizza il potenziale della memorabilità e il forte impatto della

narrazione (Barone, Fontana, 2005).

Le organizzazioni sono composte da individui, da insiemi di soggetti

diversi e in costante interazione tra loro: per questo motivo esse

raccontano una molteplicità di storie in cui si mescolano differenti

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linguaggi, vocabolari e registri narrativi. Questi necessitano di integrazione

e coerenza, poiché solo in questo modo l'impresa potrà raggiungere un

significato comune e un'identità distintiva riconoscibile all'interno e

all'esterno. Con l'emergere di una visione delle organizzazioni come

costruzioni pluralistiche di storie multiple si afferma quindi anche una

nuova concezione della narrazione, che viene oggi rivalutata e

considerata una modalità efficace per una diversa ed innovativa

comprensione, direzione e gestione delle imprese. Ecco perché la

narrazione può diventare uno strumento a disposizione delle imprese per

ridefinire la propria identità, approfondire la propria conoscenza e

migliorare la comunicazione. Attraverso un'analisi dei racconti di vita e di

lavoro delle persone, dei loro vissuti, dei loro modelli di relazione, lo

storytelling permette alle imprese di raggiungere importanti obiettivi:

rendere espliciti i risultati raggiunti, generare consenso e senso di

appartenenza, motivare le persone, far conoscere e comprendere i

cambiamenti in atto (ibidem).

Kleiner e Roth (1997) ricordano come la pratica della narrazione

venga utilizzata dagli albori della civiltà umana, quando i membri delle

antiche società tribali si riunivano attorno ad un fuoco per condividere il

racconto di importanti eventi, guerre, cambiamenti nella leadership delle

tribù o disastri naturali. In queste assemblee tutti i partecipanti

raccontavano la personale versione della storia, secondo la propria

prospettiva, guidati dal capo tribù o dallo sciamano. Queste figure

avevano il compito di commentare la narrazione permettendo di indagare i

processi soggiacenti alla formazione dei significati della storia, portandoli

alla luce. Rivivendo l’evento assieme, e apprendendo collettivamente il

suo significato, il gruppo creava un significato condiviso.

Attraverso la sperimentazione su casi aziendali delle learning histories, il

centro per l’Organizational Learnig del MIT può affermare che questa

pratica può essere utilizzata e portare a concreti risultati anche in ambito

aziendale.

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Lo storytelling quindi “è un metodo utile per l’emersione della

conoscenza, sia individuale che collettiva, distribuita nelle interazioni e, in

particolar modo, di tipo implicito” (Troilo, 2001:117).

2.1.2 I VANTAGGI DELLE LEARNING HISTORIES

Ma quali sono gli effetti della costruzione e condivisione di una learning

history in una organizzazione? Kleiner e Roth individuano la creazione di

fiducia, la libera espressione, il trasferimento di knowledge e la

costruzione di un quadro completo.

Il primo vantaggio percepibile è la creazione di fiducia. Collaboratori o

dipendenti che nel passato credevano che la propria opinione fosse

ignorata si rendono conto del contrario vedendola pubblicata in un

documento. Si combatte quindi il sentimento di isolamento all’interno

dell’organizzazione, dando la possibilità di far sentire le persone coinvolte

in un processo di miglioramento delle performance personali ed aziendali.

Inoltre i gruppi di discussione danno l’opportunità per una riflessione

collettiva: questo aiuta le persone a chiarire paure, perplessità e opinioni,

migliorando il grado di confidenza tra loro. Se la fiducia cresce vengono

gettate le basi per la costruzione di un ambiente lavorativo predisposto

all’apprendimento, in particolare all’apprendimento collettivo, perché

quest’ultimo dipende dalla condivisione di idee e opinioni.

In secondo luogo, le learning histories appaiono particolarmente efficaci

nel far emergere argomenti di cui si vorrebbe parlare ad alta voce ma non

si ha il coraggio, incoraggiando alla libera espressione. Il documento,

grazie alla anonimità dei commenti dei partecipanti, permette di esprimere

liberamente la propria versione dei fatti, portando alla luce considerazioni

che altrimenti rimarrebbero tacite e latenti.

In terzo luogo, l’utilizzo delle learning histories ha particolare successo nel

trasferire knowledge da una parte dell’organizzazione (divisione, area,

reparto) ad un'altra. Le learning histories permettono ai lettori di conoscere

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le ragioni, gli impulsi, gli insight che hanno portato all’apprendimento,

senza limitarsi alla mera lettura di una lezione imparata da altri ma

facilitando la condivisione e l’implementazione di questi nuovi

insegnamenti.

Infine, le learning histories consentono di avere un quadro completo e

abbastanza generalizzabile sullo stato della gestione aziendale, cosa

funziona e cosa no, individuando persone ed aree di intervento.

Questo strumento può essere commissionato per analizzare un evento,

ma i suoi risultati spesso vanno oltre. Uno di questi (ed uno dei più

ricorrenti) è che risultati di tipo “hard” (finanziari, produttivi, tecnici) molto

spesso dipendono da componenti “soft” come la cultura aziendale e la

fiducia all’interno dell’organizzazione.

Le learning histories, contenendo molti altri temi aziendali ricorrenti,

possono così rappresentare delle vere e proprie guide per chi si occupa di

scienze manageriali.

2.2 SVILUPPARE LA MEMORIA ORGANIZZATIVA

ATTRAVERSO LE LEARNING HISTORIES

Una delle sperimentazioni del gruppo di lavoro dell’Organizational

Learning Center del Mit è avvenuta in una raffineria statunitense (Kleiner,

Roth, 1998). E’ stato deciso di ri-orientare le attività della squadra di

produzione di gas butano attivando un processo di apprendimento

continuo. E’ stato costruito un gioco da tavolo interattivo basato sulle

operazioni della raffineria. Attraverso il gioco i dipendenti hanno imparato

a ragionare assieme riguardo i problemi da risolvere: questo ha

galvanizzato in modo inaspettato i partecipanti, spingendoli alla

collaborazione. I risultati sono stati una serie di innovazioni, tra cui un

sistema di controllo delle apparecchiature che da solo ha portato a

risparmiare 1,5 milioni di dollari l’anno.

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Ma i membri del team coinvolto non si sono resi conto appieno dei loro

sforzi e delle conseguenti implicazioni fintantoché non sono stati invitati a

descriverli agli altri dipendenti della raffineria. In un lavoro di gruppo

condotto da un esperto di learning histories esterno e in cui partecipavano

anche i manager, i membri del team hanno raccontato con parole proprie

la storia della loro esperienza di apprendimento, includendo commenti e

domande utili alla gestione futura del team.

Il risultato fisico, un documento di venti pagine, è stato utilizzato per

raggiungere altri successi: problem-solving, credibilità grazie all’inclusione

di fallimenti e incomprensioni interne, ulteriori risparmi e tagli di costi: “il

dialogo aperto è stato il motore del processo di cambiamento interno”

(Kleiner, Roth, 1998:43).

Raccontando la propria esperienza di collaborazione, i membri del team

sono andati ampiamente oltre una semplice lista di best practices o di

miglioramenti di processo: hanno raccolto un insieme di pensieri, opinioni,

commenti, sperimentazioni e questioni in modo da essere forzati a

riflettere sulla esperienza fatta. Il risultato più evidente di questo processo

è, come ogni dipendente e visitatore può attestare, il forte miglioramento

del morale della raffineria. Ma questo non è imputabile direttamente alle

innovazioni apportate, ma allo sviluppo di una collaborazione che ha

portato i dipendenti a rendersi conto di cosa veniva fatto e come, e ad

apprendere da questo.

Una learning history è un documento che racconta

all’organizzazione la sua storia in modo sicuro e strutturato. La sua

principale intenzione è di generare riflessione e open dialogue. Non offre

la risposta alla domanda “come può l’organizzazione crescere e

progredire?”, ma è diretta a generare un contesto comune ed una

comprensione condivisa che costituirà il terreno fertile da cui potranno

nascere le risposte.

Ad uno primo sguardo, le learning histories possono sembrare solo un

altro strumento di sviluppo organizzativo che utilizza metodologie

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qualitative di indagine come le interviste e la raccolta di feedback per

sostenere il cambiamento. Ma le learning histories sono dei documenti

semi-pubblici indirizzati all’organizzazione nel suo complesso, non al top

management o a particolari aree: questo richiede una disciplina diversa

rispetto agli interventi tradizionali.

Sempre secondo Kleiner e Roth, durante la costruzione di una learning

history sono tre gli imperativi che devono essere tenuti a mente: la

necessità di restare fedeli ai dati (cosicché tutto nel report sia considerato

valido), alla storia (in modo da conferirle una miticità che catturi

l’attenzione delle persone) e al pubblico (ciò permette di creare un “calco”

che aiuti in modo pragmatico l’organizzazione ad evolvere).

2.3 LA LEARNING HISTORIES PER L’APPRENDIMENTO

ORGANIZZATIVO

L’idea di creare e sviluppare la learning organization ha preso piede

nei primi anni ’90, ed è stata adottata da multinazionali statunitensi come

Coca-Cola, Shell, Chevron e Tenneco (Kleiner, Roth, 1998). In particolare

i top manager di queste aziende hanno sottolineato come l’approccio

all’apprendimento organizzativo permetta all’organizzazione di generare

continuamente nuovo sapere e capacità per affrontare le avversità. I

middle manager sostengono l’apprendimento organizzativo perché

incoraggia le persone a seguire le proprie ispirazioni e, allo stesso tempo,

a migliorare le performance aziendali. Invece di creare contraddizioni,

l’apprendimento individuale e collettivo si rinforzano a vicenda, creando

uno spirito di comunità e di coinvolgimento personale.

Ma per molti manager rimane comunque una questione critica (Kleiner,

Roth, 1998). Dati gli alti investimenti per sostenere l’apprendimento

organizzativo, re-ingegnerizzazioni e altri sforzi, come essere sicuri che

l’apprendimento sia in atto? Come valutare qualcosa così intrinseco,

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soggettivo e tacito come l’apprendimento? Come riuscire ad imparare

dagli errori commessi nel passato e trovare la chiave per replicare i

successi?

Gli strumenti tipicamente utilizzati per valutare l’apprendimento sono le

convenzionali survey. Ma il limite di questo strumento è che le persone

consce d’esser valutate e giudicate tendono a migliorare le proprie

performance, cercando di intuire e soddisfare i criteri sotto indagine invece

di focalizzarsi sul miglioramento delle proprie capacità. L’intrinseca

aspirazione che guida l’apprendimento viene spesso soppiantata dal

desiderio di sembrare una persona di successo, dalla pressione

estrinseca esercitata dai premi e dalla paura di una ammonizione per non

aver raggiunto determinati risultati. Questo può limitare gli esperti nella

ricerca analitica dei cambiamenti “soft” che portano a risultati più visibili e

facilmente indagabili. È fondamentale in questa fase che le persone

coinvolte siano spronate a mantenere l’attenzione sull’originale

entusiasmo riguardo l’apprendimento.

I membri di un’organizzazione conoscono le motivazioni di problemi,

fallimenti, l’impatto dei cambiamenti nelle politiche interne, e i modi in cui

deve muoversi l’impresa per progredire: hanno una propria interpretazione

dei fatti. Ma questa conoscenza individuale rimane tacita se le persone

non hanno l’opportunità di esplicitarle: l’apprendimento organizzativo è

possibile solo se le imprese trovano il modo di istituzionalizzare la

riflessione collettiva.

La metodologia delle learning histories è nata e si è evoluta come risposta

a questo bisogno: stimolare la riflessione e l’apprendimento collettivo. Le

learning histories vengono solitamente commissionate dal senior

management dopo significativi processi di cambiamento. Questo li porta

ad esaminare anche il proprio comportamento e a volere una valutazione

della propria posizione che vada oltre al “quello che il capo vuole sentire”.

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Kleiner e Roth individuano una serie di differenti momenti nella vita di una

organizzazione, suddivisi in tre macrogruppi, in cui si sente il forte bisogno

e desiderio di una riflessione collettiva.

Il primo caso è quello di un significativo cambiamento: viene a galla il

bisogno di documentarlo, riconoscere un successo e imparare da esso, o

comprendere un fallimento e le sue motivazioni. Una learning history in

questo caso può fornire, invece di uno strumento di auto-riflessione, un

modo per rendere esplicite le proprie considerazioni, il proprio punto di

vista a tutta l’organizzazione.

Il secondo caso è un successo: esso può fornire le fondamenta solide in

cui tutta l’organizzazione può costruire il suo futuro. Per questo è

necessario che tutta l’organizzazione sia coinvolta nel processo di

riflessione: questo significa dare voce a tutti, compresi gli scettici.

Il terzo caso riguarda il bisogno di istituzionalizzare la riflessione riguardo

la corporate identity e le strategie future: in definitiva una riflessione sul

bisogno di conversare e comunicare tra i vari livelli aziendali.

In tutte queste situazioni, per sviluppare la memoria organizzativa è

necessario immagazzinare e trasferire nell’organizzazione tutte le

conoscenze utilizzabili: conoscenze non solo riguardo ad azione da

intraprendere e i loro risultati, ma anche riguardo le teorie tacite che ne

stanno alla base (vantaggi, svantaggi, pregi e difetti).

Ma, notano Kleiner e Roth, la realizzazione pratica della riflessione

organizzativa trova molte barriere nel business. La riflessione necessita

della difficoltosa attività collettiva di costruzione di auto-consapevolezza:

nella maggior parte delle imprese i manager hanno poche opportunità di

discutere liberamente riguardo successi e fallimenti del passato. Non solo:

anche questa volontà di non parlare di questi argomenti costituisce un

taboo.

Quindi per evolvere in learning organization sono necessari tutta una serie

di deliberati meccanismi per condividere le esperienze individuali. Solo

questo può portare le persone ad imparare dai propri successi e fallimenti.

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2.4 LE FASI DI COSTRUZIONE DI UNA LEARNING HISTORY

Dopo aver delineato come le learning histories possano aiutare

l’organizzazione a riflettere ed apprendere, Kleiner e Roth individuano le

sei fasi di costruzione di una learning history: planning, reflective

interviews, distillation, writing, validation, dissemination.

La prima fase, il planning, riguarda la delineazione del tipo di learning

history da costruire e per quali scopi. La prima attività da svolgere è

l’assemblamento del gruppo di lavoro: vengono scelte persone motivate

ad investire tempo e sforzi in questo progetto.

La seconda fase, le reflective interviews, si svolge attraverso interviste

condotte da un esperto esterno, in cui vengono raccolte le opinioni di tutti i

punti di vista ritenuti significativi. Durante le interviste vengono identificati i

risultati tangibili, gli outcomes associabili ad uno sforzo di infondere

l’apprendimento e il miglioramento. Vengono condotte dalle cinquanta alle

duecento interviste, in relazione alla grandezza dell’organizzazione e agli

scopi del progetto: è preferibile raccogliere il maggior numero di punti di

vista possibili, dagli entusiasti agli scettici. Questo perché l’obiettivo è che

tutti, leggendo il documento, si sentano coinvolti e vedano esplicitato e

considerato il proprio modo di pensare. Mentre in altri tipi di indagini

vengono richieste analisi, valutazioni e giudizi, in una learning history si

vuole solamente raccogliere la versione della storia di ognuno. I

partecipanti vengono spronati a parlare in prima persona, lasciandosi alle

spalle i modi di pensare correnti in azienda, e ad esplicitare le proprie

percezioni e osservazioni. Parlando apertamente della propria esperienza

gli intervistati sono portati a fare nuove riflessioni riguardo agli insight delle

proprie e altrui azioni passate.

La terza fase, la distillation, riguarda la trasformazione da parte degli

esperti e di uno staff di membri interni del materiale raccolto in un

coerente set di temi, e la redazione di un report. È stato scelto il termine

“distillazione” dagli autori perché esplicita al meglio l’obiettivo di questa

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attività: prendere l’enorme volume di dati grezzi, purificarli e raffinarli in

modo da renderli facilmente comprensibili a tutta l’organizzazione.

L’essenza di questo lavoro è presentare un documento in cui

l’organizzazione racconta a sé stessa cosa accade e il significato di questi

eventi, non un’analisi da parte di esperti esterni.

La quarta fase, writing, è la stesura del documento, effettuata da team

formati da membri sia interni (dipendenti) che esterni (esperti), suddivisi in

base ai diversi temi. In questa attività, gli esperti abbandonano il ruolo di

ricercatore e osservatore per assumere quello di partner delle persone

che stanno studiando. Il documento viene presentato diviso in due

colonne: in quella a sinistra appare la storia raccontata dai partecipanti, in

quella a destra si trovano questioni, commenti e valutazioni inserite dagli

esperti, che hanno lo scopo di stimolare la riflessione nel lettore.

Attraverso questo format, il lettore può trarre una propria conclusione della

storia. Ogni partecipante viene identificato col ruolo o titolo, non col

proprio nome. Questo permette alle persone di sentirsi libere di esprimere

le proprie opinioni.

La quinta fase è la validation: il documento ritorna ai suoi autori. Prima

della sua diffusione i partecipanti hanno la possibilità di vedere i propri

interventi, modificarli ed approvarli. In aggiunta vengono condotti dei

workshop con piccoli gruppi di partecipanti: questo permette di rivivere la

propria esperienza e di osservare la reazione degli altri membri.

L’ultima fase è la dissemination: il documento è pronto per essere diffuso

all’interno della organizzazione e per essere discusso in team: le persone

vengono riunite per due o tre ore di riflessione e conversazione, in cui

ognuna arriva alla propria conclusione sul significato della esperienza

vissuta e lo condivide con gli altri. Ne escono con una maggiore

consapevolezza sul senso dell’esperienza di team. E soprattutto si crea

un’atmosfera di innovazione e creatività, grazie alla possibilità di dire “qui

è dove dobbiamo operare differentemente”.

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2.5 UN NUOVO GENERE NELLA LETTERATURA DI

BUSINESS

Kleiner e Roth credono che le learning history siano uno strumento

che rappresenta un nuovo genere della business literature per tre motivi:

la forma (il modello a due colonne), i contenuti (il documento contiene la

descrizione del processo di apprendimento dei partecipanti e degli esperti)

e il processo di creazione (la conduzione interna/esterna nella costruzione

e stesura del documento).

I tre elementi critici di questo approccio individuati dagli autori sono:

1. La collaborazione tra i membri interni all’organizzazione ed esperti

esterni di learning history e processi d’apprendimento.

2. Utilizzare come base di partenza azioni e risultati rilevanti.

3. L’utilizzo della tecnica che gli autori denominano “jointly told tale”,

ovvero la scrittura congiunta del documento da parte di membri interni ed

esperti esterni.

Le learning histories affondano le radici in varie teorie, tecniche, scienze

riguardanti capacità, azioni e interventi come il racconto orale,

l’antropologia, la sociologia, la letteratura e il teatro. L’integrazione di

queste teorie e tecniche, utilizzando la filosofia e i princìpi

dell’apprendimento organizzativo, è ciò che rende questo strumento unico.

Uno strumento che permette di portare in superficie, rendere esplicite e

trasformare in knowledge base conoscenze tacite, non scritte e codificate.

Uno strumento che per funzionare deve essere costruito secondo tre

prospettive: la ricerca per dare consistenza e validità attraverso la

veridicità dei dati, la miticità per utilizzare tutto il potere della narrazione, e

il pragmatismo per sviluppare un senso della storia appropriato ed

utilizzabile in modo pratico nella vita organizzativa. Gli autori ammettono

che non c’è un ordine preciso da seguire, ma che l’esperienza ha loro

insegnato che è più facile e logico iniziare dalla research prospective.

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Dunque il significato delle learning history è far comprendere

l’importanza della riflessione riguardo al passato, far capire che per

pianificare le strategie ed azioni future bisogna conoscere ciò che è

accaduto nel passato, ed imparare da esso.

Il learning history process, attraverso la conduzione di interviste di

conversazione e riflessione, la “distillazione” di ciò che le persone hanno

detto, la scrittura organizzata tematicamente e congiuntamente, la

validazione con i partecipanti e la “disseminazione” attraverso workshop

è finalizzato alla costruzione di un documento che consente di indagare e

controllare le azioni e i comportamenti nell’organizzazione.

Una learning history si basa sul passato, ma non è uno strumento statico.

Può essere continuamente revisionato, tramite l’aggiunta di modifiche, di

ulteriori commenti ed opinioni provenienti dai gruppi di discussione o di

nuove informazioni disponibili.

Diventa così uno strumento dinamico e in progress, aiutando

l’organizzazione a riflettere sul proprio passato, sulle strategie elaborate,

sulle azioni intraprese, sui comportamenti a livello individuale e collettivo.

Permette di valutare cosa ha funzionato e cosa no, le strategie di

successo e quelle che hanno portato ad un fallimento, scoprendone le

ragioni tacite di ogni individuo nell’organizzazione.

La reflective organization è condizione necessaria per la creazione della

learning organization.

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3. ATON, UNA ORGANIZZAZIONE

KNOWLEDGE-INTENSIVE

Questo capitolo descrive l’azienda oggetto di studio di questa tesi:

la sua storia, di cosa si occupa, la sua missione e i suoi valori, la sua

comunità aziendale, ed un particolare riferimento alle attività di

comunicazione svolte.

3.1 LA STORIA DI ATON: LE TAPPE DELL’INNOVAZIONE

Nel 1988 Giorgio De Nardi, oggi presidente del Gruppo Aton, fonda

Centro Computer: in quegli anni l’informatica mobile è ancora un ambito

poco sviluppato. Centro Computer nasce a Vicenza, sede in cui vengono

realizzate le prime applicazioni di tentata vendita e gestione in real-time

della logistica con impianti in radiofrequenza.

Il nome odierno dell’azienda è stato scelto dopo un viaggio in Egitto

compiuto nel 1991 dal fondatore, rimasto colpito ed affascinato dalla figura

di Akhenaton, Amenhotep IV faraone della XVIII dinastia del Nuovo Regno

che governò dal 1377 al 1362 a.C., che lottò contro la povertà, la

corruzione e le ingiustizie di casta. Un pioniere che soppresse le

numerose divinità della tradizione egizia sostituendole con una religione

monoteistica, quella del Dio sole Aton. L’azienda ha quindi ereditato, oltre

al nome breve, facile da ricordare e che inizia per A (sta quindi in testa alle

liste e agli indici), l’impegno a non uniformarsi allo status quo, il battersi

per il miglioramento della vita di tutti, l’essere innovatore e pronto a

mettere in discussione tutto, anche privilegi e poteri consolidati.

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Nel 1993 apre la sede di Aton a Villorba,

Treviso, seguita l’anno dopo dalla prima filiale

a Bologna, nel 1995 dalla seconda filiale a

Milano con l’acquisizione dell’azienda ADS e

nel 1997 dalla terza filiale a Roma. Le filiali

hanno la funzione di gestire i clienti di Aton in base all’area geografica. Gli

anni ’90 sono tecnologicamente caratterizzati dai primi impieghi del pen

computing con il riconoscimento della scrittura per applicazioni di raccolta

ordini, tentata vendita, merchandising e magazzino.

Nel 2000 si realizzano i primi Vertical Business Portal con trasmissioni a

banda larga GPRS/UMTS e Internet per informatizzare in tempo reale la

supply chain: dei punti unici di contatto che integrano applicazioni per le

attività mobili con le l’infrastruttura di information technology della sede

centrale.

Nel 2000 Aton riceve la certificazione ISO 9001/UNI EN ISO 9001 a scopo

di progettazione e sviluppo di software, commercializzazione a marchio

del produttore di prodotti hardware e loro integrazione, assistenza tecnica

di sistemi informativi.

Il 2004 è un anno di svolta: l’Aton S.r.l. infatti cambia ragione sociale e

diventa società per azioni, aumentando il capitale sociale da 98 mila euro

a 2,5 milioni di euro.

Nel 2005 Aton compie un altro importante passo nel suo progetto di

crescita acquisendo la Infos Italia Srl. di Torino, società nata nei primi anni

’80 e primo produttore europeo nel settore dei terminali portatili per la

gestione ordini. Con l’ingresso di Infos nel Gruppo, Aton acquisisce un

migliaio di nuovi clienti ed il controllo di tutti i brevetti sviluppati in oltre

vent’anni di attività. Viene quindi aperta la quarta filiale, con l’obiettivo di

gestire i clienti ubicati nel nord-ovest del Paese.

Nel primi mesi del 2006 il Gruppo Aton rafforza la propria struttura e punta

all’internazionalizzazione del business concludendo l’acquisizione del 51%

dell’azienda spagnola Altec SL, che opera dal 1998 a Madrid nel settore

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delle gestione delle infrastrutture di Information Technology e delle

applicazioni mobili, in particolare garantendo assistenza specializzata ai

dispositivi hardware per la tentata vendita e la raccolta ordini dei clienti

Infos in Spagna.

Questa ulteriore acquisizione rafforza la presenza di Aton sul mercato

europeo del mobile computing, consentendo di esportare prodotti, servizi

ed esperienza di altissimo livello in un mercato in forte crescita.

Oggi Aton è un’azienda di medie dimensioni che conta

centocinquanta professional e più di tremilacinquecento clienti attivi, opera

in tutta Europa con business units in Italia e Spagna e partner in

Portogallo e Germania, e investe l'8% del fatturato annuo in R&D.

Fatturato che nel 2005 ammonta a dodici milioni di euro, ma con le ultime

acquisizioni (Infos e Altec) e i nuovi clienti è previsto nel 2006 un fatturato

di diciotto milioni di euro con un forte aumento del tasso di crescita che

negli ultimi cinque anni è stato del 20%. Inoltre Aton ha in programma di

continuare la crescita a livello internazionale, puntando a vasti mercati

come quello statunitense.

Tra i clienti di maggior rilievo spiccano aziende di notevoli dimensioni e

con forte brand awareness come Granarolo, Nuova Parmalat, Rana,

Sammontana, Mila, Segafredo Zanetti, Hausbrandt, Mionetto, Diesel,

Rifle, Furla, Geox, Trudi, Bassetti, Coin, Sara Lee, Api, Henkel, Fischer,

Luxottica, Banca Intesa, Banca Popolare Italiana, Credit Suisse, Deutsche

Bank, Sony Picture Italia, Haier, Daimler-Chrysler e molti altri.

3.2 L’OFFERTA ATON

Aton S.p.A. è leader in Italia nel mercato Mobile & Wireless

Computing, si occupa quindi di soluzioni informatiche e prodotti hardware

con tecnologia mobile.

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Si rivolge a imprese e a operatori proponendosi come partner globale in

grado di fornire consulenza e servizi software ad alto valore aggiunto in

tutte le fasi di automazione della supply chain (produzione, logistica,

distribuzione).

Queste soluzioni sono nate da vent’anni di innovazione tecnologica e di

esperienza verticale nei settori dell'industria e della distribuzione

alimentare, dei beni durevoli e di largo consumo.

Aton ha stretto negli anni una solida politica di alleanze e partnerships

con i principali operatori dell’informatica mobile: Accenture, Ibm e

Microsoft (fornitura software); Fujitsu-Siemens Computer, Intermec,

Symbol e Zebra (fornitura apparecchiature e piattaforme hardware), Tre e

Vodafone (telefonia mobile e trasmissione dati).

Dal 1979 la missione è informatizzare la forza lavoro che opera in

movimento con strumenti di mobility. Con la nuova ri-organizzazione che

ha coinvolto anche la rete vendita, Aton ha suddiviso le proprie aree

d’azione in ASA, Area Strategica d’Affari ((Scott, Sebastiani, 2001): food

retail, food industry, prodotti e servizi per la persona, prodotti e servizi per

la casa, industria, oil-gas & utilities, finanza e altro. Ognuna di queste otto

ASA rappresenta una divisione aziendale, formata da un responsabile

commerciale, dai venditori, da un responsabile tecnico e da vari project

manager. L’obiettivo di queste squadre è di presidiare strettamente i

mercati verticali a loro assegnati per sviluppare il business Aton in questi

specifici settori.

3.3.1 I SERVIZI DI BASE

L’offerta Aton si divide in soluzioni ON, caratterizzate da un

approccio industriale e ad elevate economia di scala, e soluzioni AT,

caratterizzate da un approccio progettuale ad elevate economie di

esperienza e livello di personalizzazione.

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Le soluzioni ON, che rappresentano il core business dell’azienda,

si occupano di tentata vendita, raccolta ordine e logistica di magazzino.

ONroad

La soluzione Aton per la tentata vendita è ONroad, che si rivolge alle

aziende di produzione e distribuzione alimentare e in generale a tutte le

organizzazioni la cui logistica distributiva è basata sul metodo della

tentata vendita.

ONroad utilizza: un hardware specifico per garantire l’emissione di

documenti fiscali sul campo ed aumentare le performance di vendita; un

software dipartimentale a sicurezza elevata contraddistinto da moduli

specifici per la tentata vendita nei vari settori; servizi professionali di

governo totale dell’applicazione, dalla analisi delle esigenze alla gestione

in outsourcing.

ONroad è basato su software continuamente aggiornati e sviluppati, una

scelta adeguata di tecnologie affidabili e una consulenza ad hoc.

I vantaggi di questa soluzione sono la riduzione dei costi di gestione

(TCO) e l’aumento della produttività del processo, la salvaguardia degli

investimenti pregressi negli aggiornamenti tecnologici (possibilità di up-

grade) e il miglioramento della qualità della relazione venditore-cliente

(CRM).

I prodotti hardware studiati per questo tipo di soluzione sono terminali

portatili Wi-Fi con le ultime tecnologie disponibili (schermo touch screen,

Bluetooth. GPRS-GSM), terminali portatili con stampante per

documentazione fiscale, palmari e stampanti portatili. Tutti collegati ai

server aziendali centrali.

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ONsales

La soluzione Aton per la raccolta ordini si chiama ONsales. Questa

soluzione supporta e ottimizza i processi di acquisizione ordini ed è

rivolta alle aziende che commercializzano articoli finiti, su griglia

taglia/colore o prodotti da configurare.

ONsales utilizza: un hardware specifico fisso, trasportabile o mobile per

favorire l’inserimento dei dati in ogni situazione; un software

dipartimentale ad alta affidabilità semplice e completo per snellire tutte le

procedure di acquisizione ordini; servizi professionali di consulenza,

implementazione e mantenimento di tutto il sistema installato.

ONsales si basa sul dominio e l’integrazione di tecnologie innovative e

multi-piattaforma, su capacità di outsourcing sperimentate e sul governo

delle reti commerciali internazionali.

I vantaggi di ONsales sono l’aumento dell’efficienza e della qualità nelle

relazioni tra l’azienda e i suoi clienti, il rafforzamento di tali relazioni nel

momento e nel luogo del contatto e la riduzione della possibilità di errore

nello scambio dell’informazioni tra l’azienda e il personale in mobilità.

I prodotti hardware specifici per questa soluzione sono i palmari che

permettono l’acquisizione di dati immediatamente trasferibili ai server in

sede tramite reti Tri-band, Wi-Fi e tramite Bluetooth.

ONlog

La soluzione Aton per la logistica di magazzino è invece ONlog, un

sistema integrato rivolto alle imprese che commercializzano beni di largo

consumo e in generale a tutte le organizzazioni che hanno la necessità di

gestire la logistica di magazzino in maniera informatizzata.

ONlog utilizza: un hardware specifico di identificazione automatica

(wireless network, bar-code e RFID) per il controllo del movimento

prodotti; un software dipartimentale per il controllo dei processi legati alla

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logistica di magazzino; servizi professionali per il supporto in tutte le fasi

di progetto, dall’analisi ambientale al mantenimento impianto.

ONlog si distingue per essere un sistema per gestire e un cruscotto per

monitorare i livelli di qualità dei magazzini, è disponibile su qualsiasi

piattaforma e si presenta all’avanguardia per quanto riguarda le

applicazioni 3W (web, wireless and warehouse identification).

I vantaggi apportati da ONlog sono: snellire e ottimizzare l’organizzazione

dei magazzini e dei trasporti; la possibilità di fruire di un servizio

interattivo dovunque e in tempo reale, riducendo e variabilizzando i costi;

sollevare il cliente dai problemi e dai rischi legati alla gestione delle

tecnologie tramite l’outsourcing.

I prodotti specifici per la gestione di magazzino tramite ONlog sono i

terminali a lettore laser di bar-code con impugnatura a pistola, terminali

palmari, computer per il fissaggio su carrelli elevatori e veicoli industriali e

stampanti termiche per l’etichettatura, anche con tag RF-ID (radio

frequency identification).

Le soluzioni AT sono prodotti integrati non standardizzati ma costruiti ad

hoc per i clienti, e riguardano la field automation, il controllo di produzione

e la gestione abbonamenti.

ATfield

La soluzione Aton per la field automation è ATfield, un insieme di prodotti

hardware e software realizzati per l’ottimizzazione delle attività di servizio

svolte dai diversi tipi di operatori sul territorio (field work automation).

Queste soluzioni sono caratterizzate da un alto livello di

personalizzazione in relazione alle specificità del lavoro svolto;

consentono la semplificazione e la guida delle attività del personale in

modo da rendere quest’ultimo più efficiente, sicuro ed ordinato nel

servizio eseguito.

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Due esempi di realizzazione sono ATcare e ATsafe.

ATcare consente: la gestione delle attività di manutenzione degli impianti;

il controllo e la localizzazione delle flotte sul territorio, migliorando

l’efficienza del servizio offerto, smistando gli interventi direttamente da

call-center di sede; l’ottimizzazione degli approvvigionamenti dei pezzi di

ricambio controllando puntualmente le giacenze e gli interventi in

garanzia; l’efficienza nella retribuzione degli operatori e la fatturazione ai

clienti, calcolando i tempi effettivi di intervento e di manodopera.

ATsafe invece consente: la gestione delle attività di vigilanza territoriale;

l’interazione continua tra la Centrale Operativa di controllo e il personale

di ronda (guardie) attraverso i massimi livelli di sicurezza e di transito

delle informazioni e le più innovative infrastrutture di comunicazione oggi

disponibili; la registrazione, in tempo reale, delle operazioni di vigilanza e

i loro esiti, supportando e predisponendo le azioni correttive a fronte di

situazioni critiche (allarmi); il miglioramento del servizio sociale,

generando rapporti periodici a disposizione degli Enti Pubblici e dei

cittadini.

ATpro

La soluzione realizzata da Aton per il controllo di produzione si chiama

ATpro, un insieme di soluzioni applicative modulari che permettono la

pianificazione, il monitoraggio e la gestione dei processi di produzione.

ATpro permette: l’implementazione dell’avanzamento della commessa

dal lancio di produzione fino alla sua evasione; l’identificazione del pallet

e delle confezioni tramite sistemi di “stampa e applica”, permettendo il

versamento automatico nel magazzino gestito da ONlog; l’automazione

del processo di controllo della qualità, attraverso il rilevamento elettronico

dei parametri.

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ATfinance

La soluzione Aton per la gestione degli abbonamenti è ATfinance, e si

basa su un software gestionale sviluppato esclusivamente per le

esigenze di questo servizio e sull’utilizzo di Internet come veicolo di

transazione dei dati.

ATfinance consente di: garantire agli utenti il ricevimento delle testate

nelle modalità stabilite ottimizzando la gestione degli abbonamenti interni,

riducendo tempi e costi per l’azienda; sollevare l’azienda dai problemi

legati al monitoraggio degli abbonamenti, ottimizzando tempi e costi

interni (outsourcing); snellire le procedure amministrative (gestione dei

budget, verifica delle fatture, ripartizione sui singoli Centri di Costo).

ATfinance è rivolto ad aziende di medie e grandi dimensioni, istituti

bancari ed assicurativi, Enti statali e parastatali e in generale tutte le

organizzazioni che si caratterizzano per un numero elevato di destinatari

di periodici e un numero elevato di testate d’interesse interno.

3.3.2 ALTRI SERVIZI

Aton accompagna il cliente garantendo consulenza strategica e supporto

tecnico lungo tutto il ciclo di vita delle soluzioni e dei prodotti offerti,

offrendo consulenza, un servizio di Help Desk, l’ASP, il noleggio

operativo, il supporto tecnico e il Service Level Management (SLA).

I servizi di consulenza e start-up sono stati studiati per assistere i clienti

dalle prime fasi di analisi concettuale di un progetto alla stesura dei

requisiti funzionali, allo sviluppo del progetto, fino alla consegna e

all'acquisizione finale completa delle relative competenze.

Grazie ai servizi di consulenza e start-up Aton è in grado di fornire

supporto formativo per diversi tipi di esigenze che possono essere

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presenti nelle diverse strutture organizzative, al fine di migliorarne

l'efficienza dei processi legati alla supply chain.

L’analisi e la consulenza comprendono: sviluppo e manutenzione

software, stesura della documentazione, supporto per l’interfacciamento

dei dati al gestionale/Erp (enterprise resource planning), analisi

ambientale per la radiofrequenza, installazione e formazione al personale

utente e analisi dei costi/benefici nell’implementazione di procedure di

Application Management.

Il servizio di Help Desk garantisce assistenza telefonica, tele-assistenza e

formazione tecnica on-site in sette lingue: italiano, inglese, francese,

tedesco, spagnolo, portoghese, greco, e in diciannove nazioni in tutto il

mondo (Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Gran

Bretagna, Grecia, Irlanda, Italia, Norvegia, Olanda, Portogallo, Repubblica

Ceca, Slovacchia, Spagna, Svezia, Svizzera e Sudafrica).

All’Help Desk si affiancano i servizi di: gestione del parco macchine con

invio immediato di unità sostitutive; reporting strutturato per consentire una

chiara e precisa “fotografia” di tutto ciò che si sta verificando

nell’applicazione sottoposta a tale controllo.

L’ASP (Application Service Providing) consente di erogare da un server

interno servizi in outsourcing degli applicativi lato server evitando al cliente

i costi delle licenze, dell'acquisto, della gestione, dell'aggiornamento delle

componenti hardware e software. Il servizio viene fornito via web

garantendo i massimi livelli di affidabilità e sicurezza.

Il noleggio operativo consiste nell'outsourcing completo dell'hardware e

del software. Il cliente utilizza i prodotti presso la propria sede senza

acquistarli direttamente, ma corrispondendo un canone periodico di affitto.

Con questo servizio si garantisce inoltre al cliente l'assistenza sul parco

macchine installato e l'aggiornamento tecnologico continuo.

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I servizi di assistenza tecnica offerti sono strutturati su diversi livelli per

corrispondere al meglio alle esigenze specifiche di ogni azienda.

L’assistenza via e-mail prevede la presa in carico immediata di ogni

richiesta e la relativa risposta direttamente via e-mail. L'accesso è gratuito

e rappresenta la soluzione ideale per i clienti che non hanno bisogno di un

servizio di assistenza continuativo. Il servizio di Assistenza pre-pagata a

scalare è disponibile in tagli da 5-10-20 ore di assistenza, comprensivi del

servizio di Linea Verde. È la soluzione proposta ai clienti che desiderano

un servizio di assistenza di tipo spot, quindi un rapporto non ricorrente ma

che mantiene per ogni evenienza un filo diretto con il reparto tecnico in

sede.

Il Contratto di Assistenza invece assicura la gestione centralizzata

dell'assistenza, con la copertura di manodopera e parti di ricambio e

risposta immediata da parte del tecnico di riferimento. È la soluzione

proposta ai clienti che desiderano un servizio continuativo.

In aggiunta sono previste numerose opzioni per configurare il servizio

secondo le proprie necessità, quali ad esempio la sostituzione rapida, la

gestione del parco on-line, il Service Level Agreement e il monitoring delle

riparazioni via web.

Il Service Level Management consente di monitorare il livello di

prestazione dei servizi erogati, concordando azioni correttive attraverso

incontri periodici con il cliente. Questo servizio assicura il rispetto dei livelli

di servizio pattuiti con il cliente, il quale corrisponde tariffe proporzionali

alle performance effettivamente raggiunte. Il servizio è regolato in modo

trasparente e collaborativo tramite il Service Level Agreement (SLA) e

l'Operational Level Agreement (OLA) che descrivono tutti i prerequisiti per

l'erogazione dei servizi e definiscono le regole per entrambe le parti,

l'ambito di applicazione e di organizzazione.

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3.3 L’ORGANIZZAZIONE AZIENDALE

L’organigramma rappresentato in figura n. 2 riassume la struttura

dell’azienda dal punto di vista formale, ma non dal punto di vista del

funzionamento dell’organizzazione.

L’azienda vede al vertice una direzione formata dal Presidente Giorgio De

Nardi e dall’Amministratore Delegato Alberto De Nardi. Direttamente

collegate alla direzione sono le aree Amministrazione, Organizzazione e

Logistica. L’area commerciale è suddivisa in ASA (Area Strategica

d’Affari) ed è formata dagli agenti di vendita, l’area Marketing si occupa

della comunicazione interna ed esterna. Le aree Product & Project

Management, Produzione Hardware e Sviluppo Software si occupano

dello sviluppo delle soluzioni e prodotti che Aton propone ai propri clienti.

L’area Services riguarda tutti i servizi di assistenza al cliente.

Al Consiglio di Amministrazione prendono parte tutti i responsabili

(soprannominati GX) delle varie aree.

Figura n. 2: L’organigramma aziendale (rielaborazione da fonti interne)

DIREZIONE

AMMINISTRAZIONE(CONTABILITA’,

FINANZA, RECEPTION)

ORGANIZZAZIONE(QUALITA’,SISTEMI

INFORMATIVI,ACQUISTI)

LOGISTICA

COMMERCIALE MARKETINGPRODUCT & PROJECT MANAGEMENT ONROAD ONSALES

PRODUCT & PROJECT MANAGEMENT ONLOG

Help desk e presidio

Tecnici hardware

SERVICESSVILUPPO SOFTWARE

RESPONSABILE PRODUZIONE HARDWARE

ASA Prodotti per la casa

ASA Idrocarburi

ASA Food Industry

ASA ICT

ASA Finanza

ASA Food Retail

Key Account

ASA Prodotti per la

persona

Tecnici avv. progetti e assistenza

DIREZIONE

AMMINISTRAZIONE(CONTABILITA’,

FINANZA, RECEPTION)

ORGANIZZAZIONE(QUALITA’,SISTEMI

INFORMATIVI,ACQUISTI)

LOGISTICA

COMMERCIALE MARKETINGPRODUCT & PROJECT MANAGEMENT ONROAD ONSALES

PRODUCT & PROJECT MANAGEMENT ONLOG

Help desk e presidio

Tecnici hardware

SERVICESSVILUPPO SOFTWARE

RESPONSABILE PRODUZIONE HARDWARE

ASA Prodotti per la casa

ASA Idrocarburi

ASA Food Industry

ASA ICT

ASA Finanza

ASA Food Retail

Key Account

ASA Prodotti per la

persona

Tecnici avv. progetti e assistenza

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La struttura delle attività aziendali si sviluppa invece secondo un

modello organizzativo basato sui processi e sulle competenze (figura n.

2), sulla base del work flow, in cui le fasi di richiesta, negoziazione,

erogazione e feedback di ogni commessa coinvolgono l’intera azienda.

Aton è infatti una professional organization, forma organizzativa descritta

nel primo capitolo di questo lavoro.

Si è passati quindi dalla singola mansione alla visione collettiva dei

processi, con minori controlli formali e maggiore responsabilizzazione che

incrementano l’attitudine al team working interfunzionale. Il cliente, al

centro del work flow, orienta tutte le azioni.

Nella prima fase, la richiesta, avviene il primo contatto con il potenziale

cliente, in cui l’account manager analizza le esigenze e illustra la

soluzione Aton appropriata e i vantaggi che essa apporta.

Nella fase di negoziazione viene fatta l’analisi in dettaglio del progetto da

avviare, viene presentata l’offerta definitiva, vengono discussi i dettagli del

contratto ed acquisito l’ordine.

Nella fase di erogazione viene creato il team ed avviato il progetto, viene

implementata, installata e collaudata la soluzione ed erogate l’assistenza

e la formazione per l’avviamento.

Nell’ultima fase vengono raccolti i feedback sulla soddisfazione riguardo ai

servizi e prodotti forniti. Il rapporto con il cliente non si esaurisce qui, ma

continua nel tempo con l’assistenza hardware e software, la risoluzione di

problemi, l’avviamento di progetti supplementari, la realizzazione di

interviste e la costruzione di case studies, la fornitura di materiale di

consumo (etichette, carta per stampa).

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Figura n. 3: Il modello organizzativo basato sul work flow (da fonti interne)

3.4 MISSION, VALORI GUIDA, VISION E POLITICA PER LA

QUALITA’

3.4.1 MISSION

Il primo passo del processo di change management avviato da Aton

è stata la definizione della mission aziendale attraverso l’analisi

situazionale realizzata dal board direttivo con il supporto della consulenza:

sono stati studiati storia dell’azienda, precedente mission, necessità

evolutive, traguardi a breve, medio e lungo termine. Obiettivo principale è

stato quello di sintetizzare il processo di evoluzione di Aton per fornire una

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visione corretta della sua realtà odierna e di disegnare un coerente

impegno futuro e il percorso di sviluppo.

La precedente mission (1998) recitava: “Il nostro habitat naturale si

chiama Web, mobile computing e identificazione automatica. Siamo

orgogliosi di disporre del know-how che non si limita a realizzare

pienamente un bisogno, ma anticipa i vostri desideri. Una guida sicura e

un servizio davvero collaudato”.

Nel corso dell’analisi è emersa la necessità di aggiornare la mission,

incentrata sul know-how e sulle tecnologie al servizio dei clienti,

invertendo il rapporto: soggetti principali sono il cliente e il nuovo

approccio di consulenza e partnership, gli strumenti sono le competenze

tecnologiche. L’unico riferimento ai prodotti è la menzione alle tecnologie

digitali mobili per indicare il posizionamento di mercato.

La mission di Aton, espressa dal suo top management, è così

diventata: “ Vogliamo essere il miglior partner dei nostri clienti, aiutandoli a

innovare i loro processi di business, sfruttando la nostra esperienza

specifica e tutte le opportunità offerte dalla nuove tecnologie digitali.

Crediamo nella responsabilità sociale delle imprese e vogliamo continuare

a crescere dando sempre più importanza alle persone, alla cultura,

all’ambiente, alla qualità del lavoro e della vita”.

3.4.2 IL METODO VALORE: APPLICAZIONE IN UNA MEDIA AZIENDA

Aton ha avuto fin dalla sua costituzione una forte attenzione verso

le persone e verso l’ambiente, consolidandosi come una vera e propria

comunità. Via via che le sue dimensioni sono cresciute e il suo successo

sul mercato si è consolidato, il vertice imprenditoriale ha maturato la

volontà di trasformare la “vocazione etica di Aton in una modalità

gestionale consolidata da attuare grazie a metodi già sperimentati e in

grado di valorizzare al meglio la naturale cultura aziendale” (De Nardi,

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2005). Dunque trasformare i valori guida da pratica spontanea a

riferimento principe nel patto azienda/collaboratori, anche a fini operativi.

La svolta nel processo evolutivo di Aton è stata innescata

dall’esigenza di aumentare la redditività aziendale, messa in crisi dal fatto

che l’hardware è sempre più una commodity con bassi margini.

Il riferimento del processo di cambiamento aziendale è stato il Metodo

Valore, per la prima volta applicato in una media impresa, evidenziando la

sua flessibilità.

Il Metodo Valore è un programma modulare di interventi di comunicazione,

di formazione e di gestione che mira a focalizzare il management e a

coinvolgere tutti i collaboratori nei processi di cambiamento, in particolare

quelli di tipo culturale e valoriale (Invernizzi, 2000). L’acronimo significa:

“Valori e Azioni al fine di Liberare e Orientare Rapidamente tutte le

Energie”. Un’organizzazione ha a sua disposizione tutte le energie

necessarie per realizzare i processi di sviluppo e il Metodo Valore ha lo

scopo di attivarle e metterle in gioco per raggiungere gli obiettivi definiti dal

top management.

Il Metodo Valore si basa sulla convinzione che l’efficacia della

comunicazione nelle organizzazioni a rete e basate sulla conoscenza

dipenda in misura crescente dalla coerenza di tutta la comunicazione con

l’identità dell’organizzazione (ibidem). E come sostiene Invernizzi è

dunque indispensabile costituire un sistema organizzativo fortemente

coeso attorno ad un’unica identità distintiva dell’organizzazione.

Quest’ultima infatti è in grado di assicurare quella coerenza di fondo tra

tutte le iniziative di comunicazione in grado di suscitare fra le stesse

sinergie (ibidem).

I processi di cambiamento strategici, guidati dal top management, sono il

mezzo con cui sviluppare e consolidare una cultura e un’identità aziendale

con caratteristiche precise e con un alto grado di condivisione interno.

Il Metodo Valore ha anche importanti effetti all’esterno dell’organizzazione:

dopo il rafforzamento dell’identità organizzativa all’interno sarà possibile

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attivare iniziative di comunicazione rivolte agli stakeholder esterni, e

all’attuazione di comportamenti etici e coerenti nel tempo, con lo scopo di

contribuire al consolidamento di una buona reputazione aziendale.

Il Metodo Valore è composto da sette fasi, o moduli: definizione dei valori

guida, workshop con il top management, indagine di clima, convention con

tutti i manager, piano di comunicazione e formazione, comunicazione a

cascata a tutte le persone, attuazione di interventi gestionali coerenti e

audit e monitoraggio (Invernizzi, 2000).

1. Nella prima fase il general manager rende noti i valori guida che

rappresenteranno il punto di riferimento per tutte le azioni dei manager e

dei dipendenti. I valori guida vengono individuati attraverso interviste in

profondità al general management. Per essere significativi è fondamentale

che vengano espressi in modo sintetico, chiaro e con linguaggio

evocativo. L’output di questa prima fase è la bozza della carta dei valori.

2. Il workshop con il top management ha due obiettivi: in primo luogo

coinvolgerli sui valori dichiarati dal general management chiedendo loro

un contributo per renderli più precisi. In secondo luogo individuare le

azioni operative che possano rendere operativi i valori condivisi

nell’ambito specifico di responsabilità di ciascun manager. Poi ogni

manager si impegnerà a realizzare nella sua area di competenza una o

più azioni che rendano operativi i valori guida strategici.

3. La terza fase, l’indagine di clima interno, serve ad individuare la cultura

organizzativa diffusa tra i diversi gruppi di collaboratori al fine di

individuare le corrette azioni di comunicazione, gestione e formazione

necessarie a diffondere e consolidare la cultura strategica coerente con i

nuovi valori individuati dal management. Questa fase viene effettuata con

metodi di ascolto qualitativi e quantitativi per rilevare i valori culturali

prevalenti, le valutazioni dei collaboratori sull’azione del management e il

livello di soddisfazione per gli aspetti organizzativi, per la gestione delle

risorse umane e per la qualità delle relazioni interne.

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4. La convention con tutti i manager ha come fine quello di comunicare i

nuovi valori e le azioni gestionali attraverso le quali verranno resi operativi:

è importante che sia progettata in modo da facilitare partecipazione e

innescare il processo di cambiamento. Il top management dovrà rendere

esplicito il proprio impegno a realizzare il cambiamento auspicato e

spronerà tutti i manager a dare il proprio contributo.

5. La redazione del piano di comunicazione e formazione prevede

l’individuazione, la progettazione e pianificazione delle iniziative e degli

strumenti di comunicazione e di formazione opportuni per diffondere la

conoscenza dei valori guida e per attivare gli sforzi di tutti i collaboratori

per mettere in atto tali valori. La formulazione del piano di comunicazione

e formazione prende le mosse dalla esplicitazione della Value Proposition.

Quest’ultimo precisa i benefici che i valori guida danno ai dipendenti e agli

stakeholder esterni, rendendo noto che cosa l’azienda si impegna a fare

per metterli in pratica e chiarendo che cosa l’azienda si aspetta da parte

dei collaboratori e come ne premierà i comportamenti coerenti con i valori.

6. La comunicazione a cascata ha l’obiettivo di rendere partecipi tutti i

collaboratori al cambiamento. Si tratta di uno strumento ingegnerizzato di

comunicazione capo-collaboratore che inizia al vertice della gerarchia

aziendale e scende con una serie di incontri ravvicinati nel tempo in cui

ciascun manager condivide il messaggio con i suoi diretti collaboratori.

7. La settima e penultima fase del Metodo Valore riguarda la messa in

atto di interventi gestionali coerenti: si tratta di applicare i valori guida ai

singoli processi produttivi e gestionali. Questa fase rappresenta

l’esplicitazione degli impegni presi dal top management durante il

workshop e assicura la coerenza fra la pratica gestionale e i valori

dichiarati. E’ importante sottolineare che tutti gli atti gestionali hanno una

componente comunicazionale, in quanto confermano che i valori sono in

corso di attuazione. In tale modo questa fase rende il Metodo Valore

permanente, assicurando con ogni azione la continuità del processo di

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miglioramento e di sviluppo dei sistemi gestionali per implementare i valori

guida.

8. L’audit e monitoraggio non deve essere interpretato come la fase finale

del Metodo Valore, bensì il suo centro. Infatti in ciascuna delle sette fasi si

possono e devono attivare iniziative di ascolto e di monitoraggio

qualitative o quantitative. E’ chiaro che il terzo modulo, l’indagine di clima,

è esso stesso un’attività di ascolto di tipo quantitativo, ma ogni fase deve

prevedere una fase di ascolto per verificare il corretto funzionamento del

processo.

Il Metodo Valore è uno strumento estremamente flessibile e deve essere

adattato a ciascuna situazione specifica.

Nel caso Aton, per esempio, si riscontrano quasi tutte le fasi descritte,

anche se non sono state attuate in maniera standard.

Il Metodo Valore in Aton è stato realizzato in quattro fasi (Mazzei, 2006)

1. La definizione dei valori guida ha avuto come base di partenza la

mission di diventare partner dei clienti e di crescere dando sempre più

importanza alle persone, alla cultura, all’ambiente, alla qualità del lavoro e

della vita.

I valori guida, punto di riferimento per la gestione, per la comunicazione e

per i comportamenti, sono stati individuati stimolando la creatività del

gruppo dirigente attraverso il brainstorming. Il top management ha poi

scelto e validato assieme ai manager i cinque valori da prendere come

riferimento: passione, fiducia, innovazione, tempo, relazioni. I valori scelti

sono stati poi descritti, in un lavoro che ha coinvolto tutti i manager di

Aton, in maniera particolareggiata. Momento fondamentale è stata la

definizione dei termini del patto tra l’azienda e le persone che la formano:

come vedremo in seguito, questo patto specifica, per ciascun valore, in

che modo Aton si impegna a rendere attivi ed operativi i suoi valori e cosa

si aspetta in cambio dalle persone. Un messaggio forte che indica i

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manager come primi ambasciatori del cambiamento e della attuazione dei

valori nella gestione aziendale.

2. La seconda fase riguarda l’individuazione di specifiche modalità di

applicazione del valori nei sistemi gestionali e nei processi di lavoro.

Questa fase è stata resa operativa da tre azioni: in primo luogo Aton ha

scelto di ridefinire il proprio sistema d’offerta in modo più consono alle

aspettative dei clienti, spostando l’attenzione generale verso la qualità

dell’offerta. E’ stata poi riorganizzata la Direzione Marketing e

Commerciale secondo un modello basato sulle competenze, con un forte

riferimento ai valori guida. Infine Aton ha deciso di adottare, come

abbiamo visto, un modello organizzativo basato sui processi e sulle

competenze per attuare tutti i valori definiti ed essere più vicina alle

esigenze dei clienti.

3. La terza fase, la redazione del piano di comunicazione, è stata avviata

con la stampa e consegna della carta dei valori a tutti i dipendenti e ai neo

assunti al loro ingresso in azienda. È stata anche inviata ai principali clienti

e fornitori, pubblicata sul sito aziendale e sul portale interno, messa a

disposizione nella sale di attesa dell’azienda affinché tutti i visitatori

potessero prenderla, e poi realizzata sotto forma di quadri appesi negli

uffici dei manager. È stata inoltre progettata ed attuata un’attività di

comunicazione mirata a rafforzare le relazioni con tutti gli stakeholder

attraverso la costruzione di case histories su esperienze di servizio di

successo volte a rassicurare i nuovi potenziali clienti e a condividere know

how all’interno dell’azienda. Questa parte rappresenta il cuore di questa

tesi e sarà approfondita in seguito.

Sono state poi attivate relazioni con i media, campagne di co-branding con

i partner, attività nel sociale e la pubblicazione del bilancio sociale (in fase

di realizzazione). Infine sono stati organizzati dei momenti in comune di

vita extra-professionale, che verranno approfonditi in un paragrafo a parte.

4. L’ultima fase, la realizzazione di attività di ascolto, è stata portata a

termine attraverso la somministrazione di una survey di customer care ad

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un campione di clienti, con lo scopo di rendere noto il loro grado di

soddisfazione. L’ascolto all’interno è stato strutturato attraverso sondaggi

e attività di analisi del clima aziendale. E’ comunque stato facilitato dalle

dimensioni ridotte di Aton, che permettono l’ascolto interpersonale tramite

anche le sole relazioni con i collaboratori, sufficienti a rilevare sia i valori

diffusi che l’interiorizzazione di quelli nuovi.

Il presidente De Nardi indica tra i risultati di questo processo di

focalizzazione dei valori una maggiore stabilità dei rapporti di lavoro, un

migliore recruitment, la riduzione delle incomprensioni nei processi di

comunicazione interna, un passaparola positivo tra clienti attuali e nuovi, il

rafforzamento delle relazioni con i clienti. “Aton ha cambiato marcia, clienti

e progetti sempre più importanti sono guidati meglio sotto tutti i punti di

vista” (De Nardi, 2005).

3.4.3 LA CARTA DEI VALORI DI ATON

Rispettando le regole del brainstorming, ogni collaboratore è stato

messo nella condizione di poter esprimere la sua opinione nella massima

libertà, e ogni aspetto emerso durante la riunione è stato trascritto

fedelmente in uno specifico documento. La prima bozza dei valori guida è

emersa dall’analisi dei tratti distintivi che hanno consentito il successo di

Aton (De Nardi, 2005).

Il passaggio successivo è stata la selezione, da parte del board direttivo,

dei cinque elementi più rappresentativi, che sono stati poi scelti e validati,

e che di seguito vengono riportati (tratti dal materiale e dalle

documentazioni della Direzione Marketing Aton)

Passione, dà l'energia e il coraggio di andare oltre e superare gli ostacoli.

“Abbiamo una grande passione per il nostro lavoro: amiamo le cose ben

fatte e lavoriamo con entusiasmo per realizzarle, cercando sempre di

andare oltre, con l'obiettivo di superare le attese dei nostri clienti”.

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Cosa fa Aton: la proprietà reinveste gli utili in azienda per consentire il suo

massimo sviluppo; s'impegna a considerare i suoi dipendenti come vuole

che loro considerino i clienti.

Cosa si aspetta: che le persone, pur mantenendo la propria individualità,

si considerino Aton al 100% facendo propri missione, valori ed obiettivi

aziendali; che tutti trasmettano nel loro lavoro impegno, energie e talento,

al fine di ottenere nel contempo la realizzazione propria, dei clienti e di

Aton.

Fiducia, ogni giorno rinnovata, responsabilizza.

“Per noi è importante la fiducia creata e coltivata attraverso la trasparenza

e la correttezza nei rapporti, il rigoroso rispetto delle persone e l'affidabilità

nel mantenere gli impegni che ci assumiamo”.

Cosa fa Aton: rende noti i propri dati comunicando il fatturato mensile,

presentando il pannello di controllo trimestrale e organizzando almeno una

convention l'anno sull'andamento dell'azienda; vuole assumersi

responsabilmente gli impegni nella massima chiarezza e affidabilità,

anche attraverso il sistema qualità (ISO9001).

Cosa si aspetta: che le persone sappiano agire con responsabilità,

prodigandosi per superare gli ostacoli e conseguire gli obiettivi assegnati;

che le persone sappiano agire in modo tale da conquistare e mantenere la

fiducia dei loro clienti, sia interni che esterni.

Innovazione, nata dall'esperienza consolidata sul campo, è il differenziale

competitivo.

“Ciascuno di noi può e deve essere imprenditivo nel suo ambito di attività

e di responsabilità, proponendo innovazioni e mettendo in atto

miglioramenti continui, sviluppando e utilizzando tutta la propria creatività”.

Cosa fa Aton: formazione diretta allo sviluppo dell'imprenditività e

dell'empowerment delle persone; apprezza e incoraggia le persone che

osano al fine di ottenere migliori risultati.

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Cosa si aspetta: impegno quotidiano a sperimentare idee nuove e

migliorative uscendo dagli schemi dei comportamenti abituali; desiderio di

partecipare allo sviluppo di Aton con proprie osservazioni e idee,

alimentate da interesse e curiosità nei confronti del mondo esterno.

Tempo, come velocità di realizzazione e rapido time to market delle nuove

tecnologie, è l'elemento chiave per ottenere la piena soddisfazione dei

clienti.

“Vogliamo continuare ad anticipare oggi quello che gli altri faranno

domani. Una grande considerazione del tempo ci spinge a essere sempre

più efficaci, flessibili, rapidi e puntuali, per ottenere la piena soddisfazione

dei nostri clienti”.

Cosa fa Aton: riconosce premi produttività alle persone che raggiungono e

superano gli obiettivi dei tempi di risposta nei servizi ai clienti;

aggiornamento costante delle competenze delle persone, considerandolo

il migliore investimento per far risparmiare tempo e denaro ai clienti.

Cosa si aspetta: che sia ben radicata in tutti la coscienza del valore del

tempo: programmazione, puntualità e concentrazione, seguendo i princìpi

del time management; la consapevolezza che i tempi di finalizzazione

sono uno dei principali fattori competitivi di successo.

Relazioni, fondate sull'ascolto e sul rispetto reciproco, mettono al centro le

persone e il lavoro di squadra.

“La nostra attività, fondata sul lavoro di squadra e sulla partnership coi

nostri clienti e fornitori, vuole stimolare la cooperazione e consolidare

rapporti di fiducia, anche con lo sviluppo della comunicazione e delle

relazioni interpersonali”.

Cosa fa Aton: formazione continua per lo sviluppo delle capacità

individuali di comunicazione interpersonale e per il miglioramento delle

relazioni; eventi aziendali; iniziative sportive e culturali, per passare del

tempo tutti insieme, lontano dagli uffici, anche con i familiari.

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Cosa si aspetta: che le persone insistano sempre sul dialogo

collaborativo, cercando di comunicare e relazionarsi con apertura mentale

e disponibilità; che le persone si propongano di raggiungere i propri

obiettivi professionali in uno spirito di collaborazione con colleghi, clienti

e fornitori.

Questo processo di re-ingegnerizzazione della struttura di Aton ha

avuto come obiettivo porre i valori guida come colonne del cambiamento e

indirizzo per lo sviluppo del differenziale competitivo.

All’interno dell’azienda i valori sono dei riferimenti che orientano e

motivano le persone, e sono utilizzabili a fini gestionali e di incentivazione.

All’esterno consentono di migliorare la competitività e favoriscono la

costruzione di una salda e coerente reputazione.

3.4.4 VISION

Se la mission è diventare un vero e proprio partner per i clienti, non

semplicemente un fornitore ma l’unico interlocutore per quanto riguarda

l’informatizzazione delle attività e della loro gestione, la vision è

rappresentata dal Vertical Business Portal: il One Contact Point. Un

portale per il supply chain management che permette la centralizzazione

ed uniformità dei dati, lo snellimento dell’infrastruttura IT, il monitoraggio e

controllo in real-time, e che diventa un vero e proprio supporto strategico

alle decisioni.

Aton quindi si propone e si vede in futuro come unico punto di contatto,

come partner scelto per la gestione integrata delle attività di logistica

produttiva, distributiva e di magazzino, gestione flotte ed attrezzature, SFA

(Sales Force Automation, automazione della forza di vendita), attività di

reporting e feedback e total data quality management.

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3.4.5 POLITICA PER LA QUALITA’

Di seguito viene riportato il Manifesto della Politica per la Qualità di

Aton.

L’obiettivo che la nostra Azienda intende perseguire e garantire nel

tempo è la sempre maggiore soddisfazione del cliente nei confronti dei

prodotti e dei servizi che gli vengono resi, verso l’eccellenza.

Al fine di raggiungere tale obiettivo, l’Azienda si impone di migliorare

continuamente prodotti, servizi ed organizzazione, mirando alla loro

completa integrazione, nell’ottica di fornire a ciascun cliente la soluzione e

il servizio ideale per le sue specifiche esigenze.

Per raggiungere la massima soddisfazione del cliente, l’Azienda opera

affinché la qualità venga percepita e pienamente apprezzata dalla

clientela, evitando, ad esempio, di promettere cose che non possono

essere garantite.

Il vero traguardo aziendale è il superamento, e non solo il raggiungimento,

delle aspettative del cliente, essendo la qualità non un parametro

assoluto, ma un parametro strettamente legato alla percezione di ciascun

cliente.

A tal fine l’Azienda si fa carico di coinvolgere e affiancare il cliente anche

sugli aspetti non strettamente di propria competenza, ma comunque

correlati all’efficacia delle soluzioni proposte, quali ad es. infrastrutture,

software-house, ecc.

Questo processo si fonda sulla realizzazione dei seguenti punti.

1. Il coinvolgimento più ampio e la partecipazione di tutti i dipendenti e

collaboratori è prerequisito fondamentale per il continuo miglioramento dei

prodotti e dei servizi.

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2. Seguire le attività previste dal Sistema Gestione Qualità è di

fondamentale importanza per realizzare efficacemente tale coinvolgimento

e concorrere tutti al miglioramento dei prodotti e dei servizi.

3. Nell'ambito di queste attività, come in qualsiasi momento lavorativo,

saranno favorite idee e proposte migliorative avanzate dai dipendenti.

4. Ogni Responsabile ha il compito di coordinare i propri collaboratori,

indirizzandoli verso il miglioramento continuo e la generazione di nuovi

spunti qualitativi, attraverso l'utilizzo dei valori guida.

5. Qualità significa un’esperienza positiva per il cliente, cioè far bene e in

tempo le cose giuste sin dalla prima volta. Ciò comporta un maggiore

impegno iniziale, ma una riduzione delle correzioni nei tempi successivi.

6. Ciascun dipendente è inserito in un rapporto di Team all'interno

dell'Azienda. Come "Cliente" deve cooperare a migliorare il servizio del

proprio "Fornitore", (cioè di colui al quale e’ stata richiesta una certa

attività); come "Fornitore" deve fornire il miglior servizio possibile al proprio

"Cliente", determinando la sua soddisfazione.

7. La Direzione, a partire dalle esigenze dei clienti e da quelle del mercato,

definisce annualmente gli Obiettivi del Sistema Qualità. Ciascun

Responsabile di Reparto deve, sulla base di quanto indicato dalla

Direzione, sviluppare i propri Obiettivi di Qualità.

8. Tali Obiettivi costituiscono un elemento di priorità, sia per la Direzione

sia per tutti i Responsabili, che assicurano quindi un impegno personale

costante rivolto al loro raggiungimento.

9. I nostri fornitori devono essere coinvolti nel programma di

miglioramento. Essi costituiscono infatti un importante anello della nostra

catena produttiva.

10. Il successo dell'Azienda richiede il miglioramento professionale e

culturale delle singole Risorse a tutti i livelli. Deve essere pertanto prevista

l'individuazione di un preciso e coerente Piano di Formazione volto

all'effettiva crescita dei collaboratori (documentazione interna Politica per

la Qualità Aton, 2004).

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3.5 LA COMUNITA’ ATON E IL CLIMA AZIENDALE

Se la prima parte della missione di Aton riguarda il diventare

partner dei propri clienti, la seconda si sofferma su un aspetto molto

importante ma spesso trascurato nelle aziende: il capitale umano, riferito

allo spirito di collaborazione per raggiungere gli obiettivi aziendali e alla

qualità del lavoro e della vita.

Aton è fatta di persone che hanno una grande passione per il loro lavoro

ma anche per la vita, lo stare insieme e il divertimento sano e

responsabile.

Fin dalla sua nascita, in Aton è sempre stata fortissima la tendenza alla

costruzione di una vera e propria “comunità”: un sentimento di coesione

che porta a collaborare per il raggiungimento di tutti gli obiettivi, non solo

aziendali ma anche personali, attraverso un clima lavorativo informale,

collaborativo e disteso.

Viene incentivato infatti il rapporto diretto e il confronto tra collaboratori, e

tra collaboratori e GX (denominazione scelta per i manager, nata dall’idea

del G8, il gruppo dei paesi più grandi e potenti della Terra). Grazie anche

al fatto che l’azienda opera per cliente/progetto, tutti in Aton hanno il

proprio ruolo, che è fondamentale al fine del successo e della

soddisfazione del cliente. Questo porta ad una continua interazione e

scambio di informazioni tra tutti i collaboratori, e tra questi e i GX.

Numerose sono infatti le riunioni di aggiornamento o di discussione

riguardo ai vari aspetti dei progetti: così continuo è lo scambio di

informazioni e comunicazione tra i GX e i professionals. Ciò permette di

rimanere sempre focalizzati ed allineati sugli obiettivi da raggiungere, e

consente anche di gestire in maniera veloce e meno problematica i

cambiamenti. La suddivisione dei ruoli, la responsabilizzazione e la fiducia

nei collaboratori permette di instaurare un clima interno disteso, nel quale

ognuno conosce i propri compiti e gli obiettivi che deve raggiungere,

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senza il bisogno di formalizzazione e standardizzazione dei

comportamenti.

La responsabilizzazione permette ad ognuno di essere autonomo nel

proprio ruolo e conoscere bene i compiti da svolgere: ciò permette di

gestire liberamente il tempo e di potersi concedere momenti di pausa in

zone appositamente predisposte (le sale caffé). Altro momento di

coesione e svago è la pausa pranzo: non c’è una mensa aziendale, ma i

dipendenti si organizzano a gruppi per mangiare assieme e creare un

momento di condivisione extra-lavorativa.

Forte è lo spirito di creatività nel promuovere la coesione di gruppo anche

al di fuori dell’ambiente di lavoro tramite l’organizzazione di eventi interni,

eventi di sensibilizzazione sociale, attività varie, momenti di ritrovo, a cui

vengono invitati oltre ai collaboratori anche i loro familiari.

Gli eventi interni che periodicamente vengono organizzati sono

ONsummer e NatalON. Un evento di sensibilizzazione sociale è stato

SpiaggiON, altre attività sono ONart e AtonCup.

ONsummer è la festa estiva di Aton, organizzata prima delle ferie: tutti i

GX, collaboratori e familiari sono invitati a questo evento che viene

realizzato in una struttura munita di piscine e spazi per mangiare e ballare

all’esterno. È un evento a tema in cui vengono organizzate grigliate, giochi

in acqua, serate danzanti, discoteca. Una delle tematizzazioni utilizzate è

stato il Brasile: un gruppo di ballerine e ballerini brasiliani sono stati invitati

ad animare la serata e ad esibirsi in balli tipici come la capoeira, la samba

e la salsa.

NatalON invece è la festa natalizia: ogni anno organizzata in un locale

diverso e con tematizzazioni e ambientazioni sempre nuove ed originali, è

l’occasione per passare del tempo assieme scambiandosi auguri e doni.

La serata comincia con aperitivo e cena e prosegue poi con canti e balli.

Ma gli eventi Aton sono anche sportivi. AtonCup è il torneo di calcio a

cinque inventato ed organizzato interamente da Aton durante il periodo

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estivo. Vengono invitate a parteciparvi le rappresentanze delle aziende di

informatica della provincia di Treviso e dintorni. L’evento, corredato da

cene e serate, ha ogni anno un enorme successo. Ne sono la prova la

crescita del numero degli invitati e gli articoli di giornale pubblicati nei

quotidiani locali.

Aton ha sempre avuto una vocazione etica anche per quanto riguarda la

salvaguardia dell’ambiente. Un’interessante iniziativa ecologica,

organizzata da Aton in collaborazione con l’Ufficio comunale di Eraclea e

col presidio della Protezione Civile, ed aperta a chiunque volesse

partecipare (non solo a GX, dipendenti e familiari) è stata SpiaggiON.

L’azienda ha infatti deciso di passare una giornata a ripulire dai rifiuti la

zona della Laguna del Mort, con l’obiettivo di tradurre in un’azione

simbolica ma concreta i princìpi di responsabilità sociale presenti nella

Carta dei Valori Aton.

Il clima aziendale e la corrispondenza dei comportamenti con i valori guida

vengono annualmente monitorati tramite una survey fatta compilare a tutti

i collaboratori.

L’allineamento dei comportamenti nelle attività aziendali con i valori guida

è anche oggetto di concorsi interni all’azienda: la Best Practice,

l’Akhenaton e il Golden Book.

La Best Practice è un’iniziativa che parte dai GX di Aton: in riferimento ad

ognuno dei cinque valori, il management propone dei collaboratori che

meglio li hanno incarnati attraverso il loro essere ed il loro operato.

Confermate le nomination dal Presidente, tutti i dipendenti sono chiamati a

esprimere la loro preferenza nei confronti di un nominato per ogni valore

tramite voto. Chi riceve più voti vince e viene premiato durante gli eventi

aziendali. I nomi dei vincitori e le motivazioni vengono poi stampati in

appositi book e distribuiti in tutta l’azienda, nonché messi in un’apposita

sezione di ONportal (AtonPeople/Best Practice).

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L’Akhenaton invece è un concorso in cui ogni dipendente propone una

persona che si è distinta nel lavoro quotidiano, motivandone la scelta.

Anche per questo concorso sono previsti premiazioni per i più votati, che

verranno poi segnalati sul portale interno.

Il Golden Book infine è una raccolta mensile di segnalazioni fatte dai

dipendenti in maniera molto informale sui collaboratori: attività svolte con

successo, progetti portati a termine con particolare soddisfazione del

cliente, performance eccellenti, risoluzione di problemi, acquisizione di

nuovi e importanti clienti. Il Golden Book è presente in versione virtuale sul

portale interno.

3.6 LA COMUNICAZIONE

3.6.1 LA SCELTA DELLA COMUNICAZIONE ORGANIZZATIVA

Quando il vertice Aton ha attivato il processo di cambiamento,

l’approccio scelto per ri-progettare l’organizzazione interna ed il rapporto

con il mercato e l’opinione pubblica è quello della comunicazione

organizzativa.

Invernizzi (2000:195) descrive così la comunicazione organizzativa:

“l’insieme dei processi strategici e operativi di creazione, di scambio e di

condivisione di messaggi informativi e valoriali all’interno delle diverse reti

di relazioni che costituiscono l’essenza dell’organizzazione e della sua

collocazione nell’ambiente; la comunicazione organizzativa coinvolge tutti i

membri interni, i collaboratori interno-esterni e tutti i soggetti esterni in

qualche modo interessati o coinvolti nella vita dell’organizzazione

compresi i suoi clienti effettivi o potenziali; la comunicazione organizzativa

costituisce parte integrante dei processi produttivi e decisionali e dei

rapporti con gli ambienti esterni; viene usata per definire e condividere la

missione, la cultura, i valori d’impresa”.

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Il concetto di comunicazione organizzativa ha origine come ampliamento

della comunicazione interna di cui sottolinea la stretta connessione con

tutti gli altri flussi di comunicazione. Essa dunque si riferisce ad un

concetto di comunicazione unitario e non divisibile fra interno ed esterno ai

confini dell’organizzazione. Inoltre la comunicazione organizzativa

sottolinea il fatto che la comunicazione è una componente strutturale

dell’organizzazione, nel senso che nelle imprese che tendono ad essere

delle reti le connessioni sono sempre più elemento costitutivo

fondamentale. La comunicazione è strumento per il funzionamento e lo

sviluppo dell’organizzazione perché insita nei processi di lavoro. Non si

tratta dunque di una sovrastruttura per far conoscere una nuova

immagine. Al contrario la comunicazione è una leva per rendere visibile e

trasparente la realtà aziendale e per far funzionare e far evolvere

l’organizzazione stessa. Infine la comunicazione organizzativa implica il

riferimento agli obiettivi da perseguire e dei pubblici da raggiungere

(ibidem)

La comunicazione organizzativa consente di individuare tre

categorie che ne definiscono i contenuti e gli obiettivi prevalenti

(Invernizzi, 2000 e 1996, Fiocca, 2002 in Mazzei, 2006).

1. La comunicazione funzionale (o gestionale) è quella che supporta i

processi operativi aziendali.

2. La comunicazione strategica (o valoriale) definisce e diffonde i valori

distintivi dell’impresa, la sua mission, le sue strategie in un processo di

continua ricerca di sintonia valoriale fra l’ambiente esterno e quello interno

all’organizzazione.

3. La comunicazione creativa/formativa crea le competenze possedute e

le diffonde nell’organizzazione: essa coincide con la comunicazione per il

knowledge management e sharing, sviluppando il capitale intellettuale

dell’organizzazione.

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Come si sviluppano queste tre categorie di comunicazione in Aton e con

quali strumenti?

La comunicazione funzionale corrisponde ad una serie di strumenti

che supportano i processi operativi in Aton: gli handbook, i manuali

operativi, la documentazione interna e le procedure.

• Gli handbook, i “manuali di settore”: “lo scopo di questi documenti è

avere sempre "sotto mano" la raccolta di tutto quello che sappiamo e

abbiamo fatto nei singoli settori; una guida all'uso, alla gestione corretta

delle negoziazioni, per portare tutto il valore aggiunto, tutta la conoscenza,

che rappresenta la nostra indiscutibile forza; avere a disposizione la

"raccolta" documentale, i dettagli dei progetti fatti e le specifiche esigenze

di settore facilita inoltre il processo formativo di ognuno di noi” (tratto da

http://onportal.aton.it). Esempi sono il Coffee Handbook e il Gas

Handbook, i manuali con tutte le attività portate a termine nel settore del

caffé e degli idrocarburi.

• I manuali operativi delle soluzioni Aton (ON e AT): descrizioni tecniche

delle soluzioni hardware e software e delle possibili applicazioni.

• Documentazione interna: documenti che riguardano presentazioni

dell’azienda e dell’offerta, utilizzati dagli agenti commerciali di Aton per

proporsi ai potenziali clienti.

• Le procedure: schede informative sui passi da seguire nelle attività di

acquisizione ordini clienti, fornitura e approvvigionamenti, progettazione e

realizzazione software, assistenza clienti, gestione delle non conformità,

formazione e addestramento, strumenti di controllo, identificazione e

rintracciabilità prodotto, responsabilità della direzione e verifiche ispettive

interne.

La comunicazione strategica riguarda la creazione e la diffusione

dei cinque valori cardine di Aton già descritti. Gli strumenti utilizzati per

diffonderli sono sia di tipo fisico (carta dei valori su book e quadri) che di

tipo digitale (sito istituzionale e portale interno). Esiste naturalmente un

sistema di monitoraggio tramite survey che ha lo scopo di supervisionare

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l’allineamento dei comportamenti aziendali con i valori. A questo vanno

aggiunte le iniziative Akhenaton, Best Practice e Golden Book (descritte

nel capitolo sulla comunità Aton).

La comunicazione creativo/formativa, che serve a creare e

diffondere le competenze distintive e il knowledge aziendale, utilizza

strumenti già visti nella comunicazione funzionale come gli handbook, i

manuali operativi, la documentazione interna e le schede procedure.

Un altro importantissimo strumento è la formazione. Vengono

programmati corsi formativi (gestiti internamente o da consulenti esterni)

che riguardano tutte le svariate attività aziendali: comunicazione, relazioni

fisiche o telefoniche col cliente, lingue estere, analisi e progettazione

informatica, sviluppo database e software, prodotti hardware,

amministrazione, team building e molti altri.

Ma lo strumento principe, che rappresenta il vero oggetto di studio di

questa tesi, sono i case studies, il racconto delle esperienze aziendali

attraverso lo storytelling. Questo strumento sarà approfondito nel quarto

capitolo di questo lavoro.

Le prassi operative nelle quali Invernizzi (2000) traduce l’impianto

concettuale della comunicazione organizzativa sono:

1. il riferimento di tutta la comunicazione a valori guida eticamente

fondati: questo è stato il primo passo affrontato in Aton;

2. la ricerca di coerenza e sinergie fra tutte le attività di comunicazione e

tra queste e gli atti di gestione;

3. la diffusione di comunicazione interpersonale, dalla consulenza interna

e della formazione sulle competenze di comunicazione interpersonale;

4. l’impiego di metodi manageriali per gestire la comunicazione, quali

l’ascolto, la pianificazione e il monitoraggio;

5. il presidio strategico della comunicazione attraverso il coinvolgimento

del top management nella definizione delle strategie di comunicazione, la

costituzione di una direzione comunicazione e il coinvolgimento del

responsabile della comunicazione nella definizione della strategia

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d’impresa: con la riorganizzazione aziendale attuata da Aton, la

comunicazione è diventata un cardine fondamentale e strutturante di tutta

l’attività aziendale, il top management è stato coinvolto nella definizione di

valori, missione, visione e obiettivi aziendali, e il direttore marketing fa

parte del board portando costantemente all’attenzione del direttivo la

comunicazione.

3.6.2 LA COMUNICAZIONE INTERNA

Nel paragrafo sulla comunità Aton è stato sottolineato quanto

l’azienda presti attenzione ai suoi collaboratori e con quali attività ed

iniziative (soprattutto extra-lavorative).

Gli strumenti specifici della comunicazione interna presenti in Aton sono: il

portale interno, il bollettino mensile interno e le e-mail. L’obiettivo

principale è permettere a tutti i collaboratori e manager di conoscere in

ogni momento cosa fa l’azienda nel suo complesso e cosa fanno gli altri

reparti, in modo da avere una visione globale e integrata delle attività e

facilitarne il coordinamento.

Figura n. 4: il portale interno

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ONportal è il sito aziendale interno, dove sono presenti tutte le

informazioni e le procedure che servono a supportare i processi interni di

tutte le divisioni aziendali (marketing, commerciale e tecnica). Sono poi

presenti link ai valori guida, ai casi aziendali, alla rassegna stampa e agli

altri strumenti di comunicazione interna.

Oltre a questa parte tecnica e formale c’è una sezione informale,

denominata AtonPeople, dedicata alla community interna. Qui è presente

l’interattività, che permette la raccolta di feedback, la somministrazione di

survey per l’analisi del clima aziendale e l’attuazione delle iniziative

Akhenaton, Best Practice e Golden Book. Inoltre sono presenti foto e

testimonianze degli eventi interni, i piani di formazione, i ruoli e i fatti della

comunità, la biblioteca interna, il tema e gli obiettivi annuali. Insomma, una

vera e propria bacheca virtuale in cui viene descritta tutta la vita aziendale,

e non solo.

Il bollettino interno, con uscita mensile, è il giornalino interno di Aton. Qui

vengono riportate tutte le novità, gli eventi a cui Aton partecipa, gli ordini

acquisiti, i progetti avviati, le foto dei protagonisti, le comunicazioni interne,

le segnalazioni, la rassegna stampa del mese. Il bollettino viene sia

spedito a tutti i collaboratori via mail che messo a disposizione sul portale

interno.

Le e-mail sono lo strumento di comunicazione interpersonale più utilizzato

dopo la comunicazione a voce (vis a vis e telefonica).

Ogni manager e ogni collaboratore ha un indirizzo e-mail aziendale

([email protected]) che gestisce tramite Microsoft Outlook dal

proprio PC. Questo strumento permette di scambiare comunicazioni, dati

e documenti in real time in modo informale o meno (dipende dal tipo di

comunicazione) a costi davvero contenuti. Permette inoltre di inviare a tutti

comunicazioni importanti, novità, somministrare le survey e richiedere

feedback.

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3.6.3 LA COMUNICAZIONE ESTERNA

Aton è un’azienda che opera nel B2b: non ha dunque bisogno di

utilizzare strumenti di comunicazione che si rivolgono al mass-market, ma

sceglie gli strumenti più adatti per raggiungere i propri target. Gli strumenti

principali utilizzati sono il sito aziendale, la pubblicità istituzionale su riviste

e periodici specializzati, le cartoline, la partecipazione a eventi tematici, il

periodico AtoNews, le attività di press relations (che vedremo nel

paragrafo dedicato all’ascolto organizzato), e gli ONbook, che verranno

approfonditi nel quarto capitolo.

La strategia comunicazionale di Aton si è basata sulla definizione di

una consequenzialità finalizzata a dare risposte progressive a tre

domande: Chi è Aton? Di cosa si occupa? A chi si rivolge?

Di conseguenza la comunicazione si è sviluppata per diffondere tre

diverse tipologie di awareness: corporate, solution e client. La prima è

stata portata avanti su quotidiani e testate di business nazionali con

appendici a diffusione locale con target i top manager, la seconda sulle

principali testate IT con l’obiettivo di raggiungere i responsabili IT e i Chief

Information Officer, la terza sulle principali testate verticali di

settore/mercato con target i responsabili sviluppo del business e

organizzazione interna.

Figura n. 5: l’home-page del sito aziendale

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La comunicazione in un sito non viene “somministrata” automaticamente,

come in televisione, ma assomiglia di più alla stampa: è il lettore, o

navigatore, a scegliere se e che cosa vuole e leggere o vedere. In

secondo luogo non ha un tempo predeterminato per essere trasmessa e

ricevuta: il lettore o navigatore decide quanto tempo vuole dedicare ad

ogni pagina. Infine, ancor più della stampa, permette di offrire informazioni

precise e dettagliate (Bissat, Livraghi, 1997).

L’home page, molto chiara e semplice da navigare, mostra chiaramente le

funzioni svolte dal sito. In primo luogo informare: parlare in maniera

accurata della storia di Aton e della sua missione, dei suoi valori guida,

della sua visione, delle AtonPeople, dei partner strategici, dell’offerta

(soluzioni e prodotti hardware e software, servizi), delle novità, delle

aziende che l’hanno scelta, delle modalità di risoluzione dei problemi.

In secondo luogo un sito di servizio, che permette di acquistare on-line

prodotti di consumo (e-commerce), contattare i vari reparti aziendali per

avere ulteriori informazioni o per iniziare un rapporto con Aton, risolvere

problemi e ricevere assistenza tecnica.

Un sito chiaro e pieno di informazioni utili che descrive ampiamente

l’attività di Aton, la sua filosofia e il suo modo di agire nei confronti di tutti

gli stakeholder, e che si propone come vero strumento pubblicitario e

promozionale.

Un sito che si presenta graficamente in maniera minimalista e coerente

con tutto il resto del materiale pubblicitario aziendale, in cui solo

l’essenziale e il necessario trova spazio. La scelta di mettere le immagini

di chi lavora in Aton sottolinea l’importanza che hanno le persone ed i loro

ruoli in azienda. Durante la navigazione spuntano delle frasi brevi ed

evocative sotto forma di fumetti che sottolineano il ruolo di Aton: “Aton è

innovazione di business, processi e tecnologie”, “il governo della filiera

sempre e ovunque”, “affidatevi al partner unico per il mobile computing”, “il

nostro impegno con le imprese? Sviluppare con valore l’innovazione”, “un

buon motivo per aver fiducia di noi? Da 20 anni assistiamo 3500 aziende

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in ogni settore”, “sfruttate il vantaggio dell’assistenza e dell’outsourcing”,

“sappiamo come aiutarvi con tempestività ed efficacia”.

Le campagne pubblicitarie

Aton utilizza testate e riviste specializzate in IT (Computer World, Linea

Edp, Wireless, Data Collection), automazione industriale e distributiva

ed economia per attuare campagne settoriali di co-branding con clienti e

alleati. L’idea alla base è proporsi al pubblico specializzato con la

descrizione essenziale delle soluzioni Aton, affiancate dai clienti e dai

casi di successo di applicazione o dai partner strategici, in modo da

sfruttare l’awareness e la notorietà dei loro marchi per infondere fiducia

nei potenziali clienti, attivando poi il cross-marketing riportando al sito

aziendale per approfondimenti.

Di seguito vengono riportate alcune pubblicità stampa, uscite su Computer

World, il settimanale di informatica per le aziende, il 30 gennaio 2006.

Figura n. 6: pubblicità stampa ONgas

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Figura n. 7: pubblicità stampa ONmilk

Figura n. 8: pubblicità stampa ONsales e Help Desk

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Figura n. 9: pubblicità stampa Aton partner Intermec

Questa campagna di comunicazione stampa è stata studiata e realizzata

in collaborazione con clienti prestigiosi a cui Aton ha offerto le sue

soluzioni (Api, Granarolo, Bassetti) e con uno dei principali partner

hardware (Intermec). La struttura di queste pubblicità stampa, posizionate

a fondo pagina, è molto semplice ed intuitiva: un titolo/slogan riassuntivo

con il logo dell’azienda cliente, un visual espressivo ed evocativo e una

body copy. Quest’ultima è affidata al cliente che, reso esplicito e parlando

in prima persona, riassume i vantaggi apportati da Aton alla propria

azienda. È presente inoltre l’indirizzo e il link del sito Aton in cui il progetto

è descritto in maniera più esaustiva, sotto forma di case study. Per il visual

sono state utilizzate immagini semplici ma efficaci: un camioncino con il

logo della soluzione per la tentata vendita nel settore idrocarburi per Api,

una mucca con le onde della radiofrequenza per Granarolo, una giacca

con i bottoni con i colori delle bandiere (che evocano il servizio di Help

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Desk in sette lingue diverse) per Basseti, le pedine del subbuteo che

simboleggiano il gioco di squadra con i partner.

Le campagne di cross-marketing

Uno degli strumenti utilizzati per acquisire visibilità in maniera

efficace è rappresentato dalle campagne di marketing realizzate per

settore merceologico. Grazie all’analisi degli studi e delle tendenze di

mercato, delle normative e dei feed-back commerciali sono stati individuati

i settori strategici su cui concentrare maggiore attenzione: bevande; gelati

e surgelati; caffé; abbigliamento; prodotti per la casa, latte e derivati.

Lo strumento scelto è la cartolina: vengono utilizzati gli stessi

soggetti creati per le pubblicità stampa. La cartolina viene utilizzata come

strumento di marketing 1to1: vengono infatti personalizzate e spedite ai

clienti target, a cui viene legato il cross-marketing che rimanda ad un’area

riservata sul sito internet. L’area riservata è motivo di attrazione per il

target e rappresenta lo strumento interno di verifica sull’andamento: i

visitatori accedono tramite un codice univoco presente nella cartolina, che

consente il monitoring sull’efficacia della comunicazione.

Figura n. 10: modello delle campagne cross-marketing di settore (De Nardi, 2005)

Sito www.aton.i

t/onxxx

Cartolina

Visita Feed back

Target

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Figura n. 11: cartolina ONmilk

Questa cartolina, che ha come target produttori e distributori di latte e

derivati, è composta sul fronte da un visual molto evocativo della

soluzione presentata (la mucca sezionata come un codice a barre

rappresenta la tracciabilità) e da uno slogan accattivante, sul retro una

veloce descrizione della soluzione, un accenno ad una importante azienda

che l’ha adottata e il link all’area riservata sul sito Aton.

Gli eventi tematici

Aton partecipa ogni anno ad eventi tematici e di settore. La

direzione marketing ha deciso di non andare più con propri stand alle fiere

di settore, ma di partecipare con dei suoi rappresentanti a tutti gli eventi

(convention, forum) inerenti ai suoi campi d’azione. Spesso viene invitata

a presentare casi aziendali di successo con dei propri clienti o partner. E’ il

caso dell’evento “La logistica agroalimentare, soluzioni innovative e casi di

eccellenza per l’efficace gestione della supply chain”, organizzato

dall’Università degli Studi di Parma, a cui prende parte anche la Aton con

un intervento del presidente De Nardi dal titolo “Sicurezza e qualità,

tutelare il consumatore attraverso la tecnologia”.

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Altri eventi a cui Aton ha partecipato nel 2006 sono il Manufacturing

Innovation Roadshow 2006, come partner di Microsoft, e il Mobile Force &

Office Forum, entrambi organizzati a Milano e con la partecipazione di

importanti aziende e personalità; il Partner Advisory Council Symbol a

Vienna e l’AEGPL 2006 a Istanbul (convention europea dedicata al

mercato del Gpl) come partner di Symbol.

A tutti gli eventi Aton partecipa col materiale informativo aziendale

personalizzato: pannelli, cartelloni pubblicitari, book con case studies e

presentazioni dell’azienda, e gadget aziendali (penne, block per appunti,

cd interattivi).

AtoNews è l’house organ periodico di Aton. E’ uno strumento tecnico ma

con taglio culturale e gli argomenti sono progetti aziendali di successo,

novità come l’internazionalizzazione di Aton, le nuove normative europee,

le tendenze di mercato. Viene utilizzato sia come strumento di

comunicazione interna che esterna: viene infatti messo on-line sul sito

aziendale e spedito a clienti, partner e fornitori. Inoltre sul sito è possibile

iscriversi per riceverlo gratuitamente al proprio indirizzo e-mail.

Figura n. 12: la copertina del numero di Marzo di AtoNews

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3.6.4 L’ASCOLTO ORGANIZZATO

Altra attività effettuata dalla Direzione Marketing di Aton è l’ascolto

organizzato. Si tratta di un “insieme di tecniche e metodi strutturati che si

utilizzano per conoscere il contesto di riferimento prima di attivare delle

iniziative di relazioni pubbliche e per analizzare le conseguenze della

comunicazione e la valenza comunicazionale delle azioni dell’azienda sui

suoi stakeholder. Esso consiste in un’attività di ricerca proattiva di

informazioni frutto della capacità professionista di comunicazione di

interagire con gli stakeholder e con gli opinion leader” (Mazzei,

2006:cap.7).

L’ascolto organizzato è fondamentale per la funzione strategico-riflettiva

della comunicazione (Grunig, Hunt, 1984; Muzi Falconi, 2002; Van Ruler,

Verčič, Balmer, 2002; Invernizzi, 2004 in Mazzei, 2006), cioè per

“realizzare il processo di comprensione reciproca fra l’azienda e i suoi

interlocutori. I risultati di questo ascolto, opportunamente interpretati dal

professionista di relazioni pubbliche e riportate alla coalizione dominante,

potranno avere peso per le decisioni strategiche dell’impresa” (Mazzei,

2006:cap.7).

Le finalità dell’ascolto organizzato (Mazzei, 2006:cap.7) sono:

1. conoscere l’ambiente di riferimento dell’organizzazione per essere in

grado di recepire i segnali di cambiamento (stili di vita, modelli di

consumo, le caratteristiche degli interlocutori, le opinioni e le percezioni

dei dipendenti, dei clienti e di altri pubblici interni o esterni, bisogni di

comunicazione);

2. individuare i diversi gruppi di stakeholder e gli influenti rilevanti per

l’organizzazione (analizzare documenti prodotti da essi, i loro

comportamenti, intervistarli, identificare le loro aspettative specifiche);

3. analizzare l’organizzazione interna per conoscere il grado di

soddisfazione dei dipendenti, come percepiscono l’ambiente interno ed

esterno, i bisogni di comunicazione sentiti all’interno dell’organizzazione);

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4. ricercare informazioni e contenuti da comunicare;

5. valutare i risultati di iniziative e attività di comunicazione sia durante sia

dopo il processo (grado di esposizione dell’azienda, le audience raggiunte,

gli effetti della comunicazione e delle azioni aziendali).

Gli strumenti utilizzati per attuare l’ascolto organizzato possono essere di

tipo qualitativo o quantitativo (ibidem).

Gli strumenti qualitativi permettono di raccogliere informazioni che danno

una conoscenza ampia e approfondita della realtà. Si impiegano

solitamente per esplorare situazioni poco conosciute sulle quali si vuole

avere una prima conoscenza e formulare ipotesi di lavoro. Per la ricerca

qualitativa si utilizzano metodi che hanno lo scopo di stimolare contributi

liberi ed aperti da parte dei soggetti coinvolti. I più diffusi sono l’intervista

(faccia a faccia, telefonica o on-line) e il focus group.

Gli strumenti quantitativi servono invece ad approfondire la conoscenza

sull’intensità e il grado di alcune caratteristiche che sono già

precedentemente conosciute. La ricerca quantitativa raccoglie

informazioni su un insieme delimitato di argomenti e definisce a priori le

possibilità di risposta. Ciò consente di raccogliere dati su un numero

elevato di soggetti, e di generalizzare i risultati perché raccolti su un

campione rappresentativo di soggetti. Lo strumento principe è la survey.

Gli strumenti utilizzati in Aton sono l’intervista, le survey (interne ed

esterne) e la rassegna stampa e web, con differenti modalità, scopi e

target.

Le interviste vengono realizzate generalmente con i responsabili dei

sistemi informativi delle aziende cliente che seguono il rapporto con Aton

in modo diretto.

A progetto completato, quando il sistema va a regime e si possono

raccogliere le prime indicazioni sui vantaggi acquisiti o sui problemi sorti,

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si chiede al cliente un feedback sull’operato di Aton, sui servizi offerti, sulle

apparecchiature hardware e sui programmi software installati. Ciò serve a

risolvere i problemi eventualmente sorti, a raccogliere ulteriori informazioni

sulla funzionalità dei sistemi e ad avere una testimonianza sul grado di

soddisfazione del cliente.

Le survey si rivolgono sia all’esterno che all’interno di Aton. E’ stato infatti

predisposto un questionario da porre ad un campione rappresentativo di

clienti ai quali viene chiesto un giudizio sull’operato generale di Aton come

partner e come fornitore.

Le domande poste riguardano il grado di soddisfazione (con punteggi che

vanno da pessimo ad eccellente) su: capacità di ascolto e di relazione;

disponibilità, tempestività e competenza dei collaboratori Aton durante le

varie fasi di implementazione del progetto; completezza e chiarezza

dell’offerta; rispetto dei tempi di consegna stabiliti; servizi di assistenza e

riparazione; raggiungimento degli obiettivi; quali aree aziendali possono

essere migliorate, quali altri prodotti e servizi possono essere d’interesse

nel futuro. Inoltre è possibile lasciare suggerimenti di ogni genere e

segnalare eventuali problemi riscontrati.

I clienti scelti a campione vengono contattati telefonicamente per

richiedere la disponibilità di sottoporsi al questionario, inviato poi tramite e-

mail (o via fax). Le modalità di compilazione sono due: direttamente sul

foglio word in allegato, che va rispedito alla Aton, oppure on-line (in questo

caso il cliente accede al sito myservice.aton.info tramite un nome utente

ed una password assegnati).

Le survey interne riguardano l’analisi del clima aziendale. Vengono

somministrate a tutti i dipendenti Aton tramite e-mail una volta all’anno. Le

domande hanno lo scopo di indagare le opinioni dei collaboratori riguardo

all’operato dell’azienda e al contributo che apportano. Non sono vere e

proprie domande a cui rispondere in maniera affermativa o negativa, ma

frasi a cui si chiede di esprimere il grado di accordo. Ad esempio: “perché

ATON abbia successo è necessario che si crei uno spirito di squadra

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basato sulla cooperazione e sulla condivisione delle conoscenze, anche

tra persone appartenenti a funzioni diverse” o “il mio capo tiene conto

delle aspirazioni e degli obiettivi di crescita professionale dei suoi

collaboratori”. A queste istanze si chiede al dipendente di esprimere un

giudizio di accordo che va da 0 a 10. Le istanze riguardano il

comportamento dei superiori ed il rapporto capo/collaboratore, giudizi

generali sui comportamenti dei colleghi, la fiducia nel futuro dell’azienda, i

sistemi di premiazione e incentivazione, il clima instaurato con i colleghi, le

risoluzioni ai problemi che si creano, il grado di libertà di esprimere le

proprie idee e suggerimenti, la condivisione di valori e obiettivi, la cultura

aziendale, la distribuzione dei carichi di lavoro, e molto altro.

I risultati dei questionari dell’anno 2005 sono in elaborazione, mentre

quelli inerenti agli anni 2003 e 2004 hanno sottolineato medie molto alte e

costanti.

L’attività di rassegna stampa ricopre un ruolo molto importante. Le testate

e le riviste analizzate sono quasi esclusivamente quelle di settore: ICT

(Computer World, ICT & Tech Solution del Sole24Ore, Linea EDP,

Week.It, ZeroUno, Wireless, CRN, Data Collection, Office Automatio),

logistica e distribuzione (Mark Up, Food, Reseller Business, Logistica, Il

Giornale della Logistica, Top Trade, Rassegna dell’Imballaggio), economia

e finanza (IlSole24Ore e @lfa, Affari & Finanza, Finanza & Mercati, Milano

Finanza, Economy, Spazio Impresa). Oltre alle testate di settore vengono

monitorati anche i giornali locali (La Tribuna di Treviso, il Gazzettino di

Treviso e il Corriere del Veneto) ed esteri (ad esempio giornali e riviste

spagnole nel caso della acquisizione di Altec SL).

Tutte le testate vengono attentamente analizzate alla ricerca di passaggi e

presenze di Aton, dei temi ad essa legati e degli eventi a cui ha

partecipato.

Aton si affida all’agenzia Burson & Marsteller di Milano per avere

consulenza su tutte le attività di comunicazione: rassegna stampa,

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relazione con i media e altre attività, come la pubblicazione di interviste,

case studies, articoli. L’agenzia si occupa anche della rassegna su web,

monitora i passaggi in Internet sul sito internet e su altri siti.

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4. LE STORIE AZIENDALI DI SUCCESSO

Dopo aver affrontato le tematiche del Knowledge Management ed

uno strumento come la learning history, questo lavoro si prefigge

l’obiettivo di analizzare come uno strumento di ricerca molto somigliante

alla leaning history, il case study, possa essere utilizzato in una

organizzazione con scopi non soltanto di ricerca, ma anche di gestione

della conoscenza e soprattutto di comunicazione interna ed esterna. Lo

studio di un caso è una fonte di apprendimento esperienziale e in quanto

tale può essere utilizzato come strumento di KM. Per questo sembra utile

in questo lavoro approfondire gli aspetti metodologici dello studio di caso,

in quanto strumento di raccolta ed elaborazione di conoscenza. A tale

scopo il capitolo inizia con una panoramica dello studio di caso come

strumento di ricerca a fini gestionali, per il KM, e procede poi con l’analisi

del metodo con il quale i casi di successo sono stati raccolti, elaborati e

comunicati in Aton.

4.1 IL PROCESSO DI RICERCA E IL METODO DEI CASI

Un processo di ricerca è composto da una serie di fasi che

permettono al ricercatore di pianificare il lavoro. Le fasi nella maggior

parte degli studi sono la formulazione del problema, il disegno della

ricerca, la raccolta dei dati e la analisi ed interpretazione dei risultati (Mari,

1994).

La prima fase, la formulazione del problema, è strettamente legata

alla figura del ricercatore e agli obiettivi dello studio: egli utilizza dei

paradigmi di ricerca, composti da concetti, categorie e pregiudizi che

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rappresentano la sua visione del mondo sociale e influenzano il suo modo

di agire.

Dopo aver formulato il problema, è necessario progettare il disegno

della ricerca, cioè il piano d’azione che serve a guidare la raccolta ed

analisi dei dati, fornendo un quadro di riferimento che facilita lo

svolgimento della ricerca e assicura la coerenza tra le varie fasi. I tre

elementi fondamentali del disegno di ricerca sono: il tipo di informazioni da

ricercare, le fonti dei dati e i metodi di raccolta dei dati. La scelta del tipo di

informazioni è determinata dai contenuti del problema oggetto di studio.

Questo guida alla scelta delle fonti dei dati, che possono essere primari

(raccolti specificatamente per lo scopo della ricerca e quindi inizialmente

non esistono) o secondari (già esistenti in quanto raccolti

precedentemente per scopi diversi da quelli indicati dalla ricerca). I

vantaggi dei dati primari sono la massima coincidenza tra dati disponibili e

dati necessari e la loro qualità, e rappresentano gli svantaggi dei dati

secondari, che hanno una bassa qualità e spesso non coincidono con i

dati necessari alla ricerca; gli svantaggi dei dati primari sono l’alto costo in

termini di economici e di tempo, e rappresentano a loro volta i vantaggi dei

dati secondari, facili ed economici da raccogliere. L’ultimo elemento è la

scelta del metodo (o dei metodi) di raccolta dei dati.

Il tema dei metodi e della loro scelta porta ad una divisione delle ricerche

in tre macrocategorie: esplorative, descrittive e causali (Selltiz,

Wrightsman e Cook, 1976, in Mari, 1994).

Le ricerche esplorative sono utilizzate quando si ha una limitata

conoscenza del problema oggetto di studio: l’obiettivo generale è la

formulazione di spiegazioni iniziali riguardo al problema di ricerca. Una

caratteristica di questa tipologia di ricerche è la massima flessibilità e

libertà per quanto riguarda la scelta dei metodi di raccolta dei dati.

Nelle ricerche descrittive il ricercatore ha già delle spiegazioni iniziali sul

problema di ricerca grazie a conoscenze pregresse sul fenomeno:

l’obiettivo generale dunque è la formulazione di una teoria attraverso la

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descrizione delle caratteristiche salienti del problema, la classificazione di

alcune variabili rilevanti ai fini della comprensione, il confronto tra queste

variabili, la stima di alcune grandezze oppure l’esame delle relazioni tra

variabili.

Le ricerche causali hanno come obiettivo una conoscenza ancora più

profonda del problema: l’obiettivo generale è la convalida o la

confutazione di una teoria attraverso la determinazione delle relazioni di

causa-effetto.

La figura n. 13 mostra i principali metodi di raccolta dei dati, che sono

classificati in base a due variabili che sono riscontrabili in ogni ricerca: la

precisione dei dati, cioè l’attendibilità delle misurazioni e la stabilità dei

risultati, e la possibilità di generalizzare i risultati, che fa riferimento alla

validità teorica ed esterna della ricerca. I metodi sono suddivisi anche in

scientifici e non scientifici, distinzione che precisa il grado di precisione dei

dati: un metodo scientifico ha una maggiore precisione e validità dei dati

(Mari, 1994).

Figura n. 13: classificazione dei principali metodi di raccolta dei dati (Mari, 1994, adattata

da Bonoma, 1985)

Possibilità di generalizzare i risultati

Precisione dei dati

Bassa

Bassa

Alta

Alta

Esperimento di laboratorio

Esperimento sul campo

Osservazione

Caso aziendale

Inchiesta

Mito Leggenda

Racconti

Analisi dei documenti

Metodi non scientifici

Metodi scientifici

Studi causali

Studi descrittivi

Studi esplorativi

Vincolo di fattibilità

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La situazione ideale è quella in cui una ricerca riesce a raggiungere livelli

elevati di precisione dei dati e di generalizzazione dei risultati. Ma si tratta

di una situazione soltanto teorica poiché nessun metodo di raccolta dei

dati può eliminare gli ostacoli esistenti per ottenere i livelli auspicati di

entrambi le variabili. In verità esiste una soluzione, la triangolazione,

l’utilizzo cioè di più mezzi per studiare il medesimo fenomeno. Ne

parleremo più approfonditamente in seguito (ibidem).

La posizione dei metodi nel quadrante si basa sugli obiettivi della ricerca.

Se quest’ultimo è la convalida/confutazione di una teoria relativa ad un

fenomeno che può essere studiato al di fuori del proprio ambiente naturale

e che è quantificabile, il fine del ricercatore è la precisione dei dati. In

questo caso il metodo più adatto è l’esperimento di laboratorio, che

consente di analizzare le relazioni causa-effetto in un ambiente artificiale

che garantisce elevata precisione dei dati a scapito della possibilità di

generalizzare i risultati. Ad esempio le ricerche inerenti agli stimoli della

pubblicità su un gruppo di persone (ibidem).

Altra ipotesi riguarda il caso di una ricerca simile alla precedente, ma che

necessita dello studio del fenomeno nel suo contesto naturale. In questo

caso il ricercatore rinuncia, almeno in parte, alla precisione dei dati in

favore ad una più elevata possibilità di generalizzare i risultati, mediante

l’utilizzo degli esperimenti sul campo. Un esempio può essere una ricerca

che studia le reazioni dei consumatori all’introduzione di un nuovo

prodotto o servizio (ibidem).

Gli studi in cui invece l’obiettivo è la formulazione di una teoria privilegiano

la generalizzazione dei risultati: il ricercatore non ha una conoscenza

approfondita del problema e preferisce quindi sacrificare la precisione dei

dati a favore della validità esterna dello studio. Nell’ambito di questo

medesimo obiettivo sono riscontrabili tre diverse situazioni (ibidem).

La prima riguarda le analisi che intendono stimare alcuni aspetti

quantitativi di un fenomeno. In questo caso l’obiettivo specifico della

misurazione quantitativa prevale sull’obiettivo generale di formulazione di

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105

una teoria. Si tratta di problemi studiati nel proprio contesto naturale e che

presentano molteplici caratteristiche quantitative: lo strumento utilizzato in

questi casi è l’inchiesta, che presenta bassa precisione dei dati e

possibilità di generalizzare i risultati.

La seconda situazione è inerente a fenomeni quantificabili che possono

essere studiati sia nei contesti naturali che in quelli artificiali. L’obiettivo

non è stimare, ma descrivere, classificare, confrontare o stabilire relazioni

nel tentativo di concettualizzare il problema. Lo strumento idoneo a questo

tipo di ricerca è l’osservazione. Un tipico esempio è lo studio delle

relazioni tra il personale di front-office e i clienti di un negozio.

La terza situazione è rappresentata dai fenomeni non quantificabili che

devono essere studiati nel proprio contesto. Questa ipotesi ha

caratteristiche simili alla precedente, e utilizza infatti un particolare tipo di

osservazione definita studio sul campo. Un’ alternativa è rappresentata dai

casi aziendali, che sono un metodo più complesso e consentono di

acquisire una conoscenza più approfondita del problema studiato,

facilitando la generalizzazione dei risultati e di quindi la formulazione di

una teoria.

Infine vengono considerati gli studi esplorativi che si prefiggono di

raggiungere una comprensione iniziale del problema. In queste situazioni

non è rilevante né la natura del fenomeno né la precisione e validità

esterna, in quanto si tratta di studi estremamente flessibili inseriti in

ricerche più estese che perseguono altri obiettivi. Lo strumento idoneo è

rappresentato dall’analisi dei documenti, ossia l’esame delle fonti

secondarie. Inoltre vanno ricordati altri metodi non scientifici come

racconti, miti e leggente che sono assimilabili alla storia orale, ovvero

utilizzano la tecnica già affrontata dello storytelling, la narrazione dei fatti

da parte di chi ha una conoscenza diretta del fenomeno studiato.

Dopo aver formulato il disegno di ricerca e scelto il metodo più

idoneo, la terza e quarta fase sono rappresentate dalle attività operative di

raccolta, analisi ed interpretazione dei dati. Gli strumenti utilizzati in questa

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fase, e già citati, sono: l’analisi dei documenti, l’inchiesta, l’osservazione, i

casi aziendali e l’esperimento (ibidem).

L’analisi dei documenti è utilizzata prevalentemente nelle ricerche

esplorative. Il campo di applicazione di questo strumento è rappresentato

dai materiali scritti che contengono dati sul fenomeno indagato. L’analisi

ed interpretazione dei dati si sviluppa secondo due diversi approcci, uno

qualitativo e destrutturato, l’altro quantitativo e molto strutturato. Il primo

approccio si basa sul confronto dei dati raccolti al fine di definire una

tassonomia che consenta di generalizzare il contenuto delle fonti. Il

secondo, quello quantitativo, utilizza l’analisi del contenuto attraverso la

trasformazione dei documenti verbali in numeri.

L’inchiesta è un metodo tramite il quale vengono raccolti dati presso un

campione rappresentativo di soggetti. Vengono formulate alcune domande

successivamente rivolte agli intervistati mediante questionario. Come già

accennato, questo strumento viene utilizzato nelle ricerche in cui l’obiettivo

è la previsione di alcune variabili quantitative del problema studiato. La

raccolta dei dati avviene attraverso l’intervista personale, telefonica o

tramite questionario. La caratteristica che unisce questi strumenti è

l’elevato grado di strutturazione: ciò implica domande predeterminate, uso

più frequente di domande chiuse rispetto a quelle aperte, medesima

sequenza di domande e medesime parole per tutti gli intervistati, al fine di

facilitare il confronto delle risposte. L’analisi e l’interpretazione dei dati

avviene in due momenti distinti a cui corrispondono altrettante attività: la

preparazione dei dati e la loro analisi statistica. La prima attività consiste

nel trattamento dei dati al fine di renderli idonei all’applicazione delle

tecniche statistiche: i dati vengono corretti (vengono eliminati eventuali

errori), codificati (classificati secondo alcune categorie significative) e

tabulati (viene contato il numero di osservazioni che appartengono alle

diverse categorie individuate). Si procede poi con l’analisi statistica dei

dati, che può utilizzare una o più variabili.

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L’osservazione è un metodo utilizzato per raccogliere dati sul

comportamento non verbale attraverso il contatto diretto fra il ricercatore e

i soggetti studiati. Questa osservazione può avvenire i due modi differenti:

partecipante o non partecipante (Bailey, 1991, in Mari, 1994). Il ricercatore

partecipante prende parte regolarmente alle attività che osserva, ossia

sviluppa lo studio e contemporaneamente collabora alla vita sociale della

organizzazione esaminata. Al contrario, il ricercatore non partecipante

concentra la sua attenzione sulla ricerca evitando il contatto con i soggetti

analizzati. L’osservazione viene utilizzata negli studi descrittivi in cui

l’obiettivo è la comprensione approfondita di un problema e la sua

concettualizzazione. I dati vengono raccolti mediante la stesura di note,

cioè appunti che il ricercatore scrive o detta ad un registratore. Questa

stesura deve avvenire al più presto, possibilmente durante l’osservazione,

per non vanificare l’utilità della stessa rischiando di non ricordare tutto ciò

che si è osservato. L’analisi e l’interpretazione dei dati si basa sul

confronto delle note per classificare le caratteristiche più rilevanti dei fatti

osservati.

I casi aziendali (Mari, 1994), possono essere definiti come la descrizione

di una situazione aziendale, coerente con il contesto e con la dimensione

temporale dei fatti esaminati. Questo strumento di raccolta dei dati viene

utilizzato nelle ricerche descrittive che mirano a formulare una teoria. Le

caratteristiche principali dei fenomeni studiati sono la necessità di

analizzare gli eventi nel proprio ambiente naturale e la prevalenza di

problemi non quantificabili. Questo strumento, rappresentando il core di

questa tesi, viene analizzato più approfonditamente in seguito.

L’ultimo strumento a disposizione del ricercatore è l’esperimento, un

metodo che cerca di dimostrare l’esistenza di una relazione causale tra

una o più variabili indipendenti ed una o più variabili dipendenti (Bailey,

1991, in Mari, 1994). Gli esperimenti sono applicati nelle ricerche causali

che studiano fenomeni quantificabili sia in laboratorio che negli ambienti

naturali. La raccolta dei dati segue le seguenti fasi: la misurazione della

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variabile dipendente (pretest), l’introduzione della variabile indipendente

nella situazione o il cambiamento del suo livello se è già presente, e una

nuova misurazione della variabile dipendente (post-test) per vedere se si è

prodotto un cambiamento nel suo valore. L’analisi ed interpretazione dei

dati avviene tramite due tecniche statistiche, ossia l’analisi della varianza

e della covarianza.

4.2 I CASE STUDIES, UNO STRUMENTO DI RICERCA

QUALITATIVA

Mari (1994), descrivendo i casi aziendali, precisa che i casi per la

ricerca sono diversi dai casi didattici. Questa diversità è rappresentata

dalla natura degli obiettivi che i due tipi di casi si prefiggono. La finalità di

una ricerca prescindono da qualsiasi natura pedagogica: un caso di

ricerca può diventare un caso didattico, ma non il contrario, poiché

quest’ultimo è sprovvisto dei presupposti scientifici che caratterizzano il

caso di ricerca.

Bonoma (1985, in Mari, 1994) individua nei casi per la ricerca quattro

caratteristiche distintive, riconducibili ai seguenti aspetti: il contenuto, le

fonti, il contatto diretto con la realtà e la dimensione temporale.

Il contenuto dei casi per la ricerca si concentra sulla descrizione di una

particolare realtà, sia essa positiva (risultati e situazioni aziendali brillanti)

o negativa (risultati mediocri e situazioni critiche). Questa descrizione

deve essere molto approfondita per consentire la ricostruzione di tutti gli

elementi che caratterizzano quel fenomeno/situazione aziendale.

Per procedere con una analisi dettagliata di una situazione aziendale

bisogna far ricorso a più fonti. La loro molteplicità arricchisce la

descrizione e facilità la possibilità di generalizzare i risultati.

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La comprensione di una situazione aziendale richiede poi il contatto diretto

con la realtà studiata. Il ricercatore deve cioè lavorare sul campo, dove i

fatti aziendali accadono.

Infine, la descrizione di una realtà aziendale è più accurata ed

approfondita se si considera l’evoluzione nel tempo degli eventi, la loro

dimensione temporale. Ciò significa che il ricercatore deve analizzare la

successione temporale dei fatti più significativi ai fini della comprensione

del problema. Questo approccio storico consente di evidenziare i legami

esistenti sia tra le variabili interne all’azienda che tra l’ambiente esterno e

l’azienda. Questa caratteristica determina il superamento della definizione

di case history, in quanto tutti i casi per la ricerca presentano un approccio

storico alla descrizione della realtà aziendale.

4.2.1 L’USO DEL METODO DEI CASI IN ALCUNE RICERCHE

PIONIERISTICHE

Hamel (1993) sottolinea come la storia dei case study sia suddivisa

in periodi di utilizzo intenso e periodi di scarso utilizzo. I primi utilizzi di

questo strumento possono essere individuati in Europa, più

specificatamente in Francia, nei lavori di Frédéric Le Play (1806-1882).

Questo studioso, considerato il fondatore degli studi sociologici sul campo,

si concentrò sui cambiamenti sociologici in atto nell’Ottocento, sulle

condizioni delle classi operaie nei differenti luoghi di lavoro di varie nazioni

europee (Francia, Inghilterra, Belgio, Scozia, Irlanda, Austria e Russia). Le

Play sviluppò questo metodo di ricerca basato sulla raccolta di dati tramite

l’osservazione sul campo, con un approccio che corrispondeva

all’ambizione di descrivere i movimenti sociali in atto. Il lavoro di Le Play si

basava sull’assunto che le condizioni di una società nella sua interezza

possono essere rivelate attraverso lo studio sistematico di una appropriata

selezione di micro-unità sociali, come ad esempio le famiglie. Nel suo

“Instruction sur la méthode d’observation dite des monographies de

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famille” (Hamel, 1993), Le Play descrive le tre fasi di costruzione dei suoi

lavori: osservazione dei fatti, interviste ai lavoratori della famiglia su

questioni non direttamente osservabili e raccolta di informazioni

(secondarie) da individui appartenenti alla stessa comunità ma al di fuori

del nucleo familiare analizzato. Le Play aggiungeva poi dati forniti da

autorità sociali, che potevano aiutare a comprendere l’organizzazione

sociale di quel dato contesto. Questo portò poi, durante l’analisi dei dati,

alla identificazione e classificazione di differenti tipologie di famiglie e

strutture sociali.

Successivamente, lo studio della metodologia dei case studies fu

approfondito dalla così nominata “Scuola di Chicago”, il dipartimento di

sociologia dell’università della metropoli dell’Illinois. Dai primi del

Novecento agli anni Trenta la Scuola di Chicago produsse una enorme

quantità di letteratura in merito. Gli studiosi dell’università americana si

concentrarono soprattutto su uno dei fenomeni preminenti in quel

momento storico: l’immigrazione negli Stati Uniti. Furono affrontate

questioni come la povertà, la disoccupazione, le condizioni di vita degli

emigrati e le ragioni che li spingeva ad abbandonare i loro luoghi d’origine

con l’utilizzo di tecniche quali l’osservazione sul campo e la incorporazione

di dati ed informazioni provenienti direttamente dagli “attori” degli eventi

indagati. La raccolta delle prospettive dei partecipanti dei fatti studiati

rappresentava la grande novità degli studi di caso.

Hamel afferma poi che lo sviluppo e il crescente utilizzo di metodologie

quantitative di ricerca portarono al declino dell’uso dei case studies.

Questo situazione si protrasse fino agli anni Sessanta, quando i limiti degli

studi quantitativi riportarono alla luce i vantaggi degli studi di caso.

Le critiche mosse ai case studies riguardano principalmente

l’incapacità di fornire conclusioni generalizzabili. Hamel (1993), Yin (1994)

e Stake (1995) nei loro scritti controbattono questa critica affermando che

il numero di casi studiati non trasforma un caso multiplo (formato dalla

replicazione di più casi) in uno studio macroscopico: ciò significa che per

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111

questi due autori anche un singolo caso può essere considerato

accettabile e capace di fornire risultati generalizzabili. Come vedremo in

seguito, questa visione viene fortemente criticata da Mari (1994).

4.2.2 IL PROCESSO DI REALIZZAZIONE DI UNO STUDIO DI CASO

Il processo di costruzione di un caso aziendale viene suddiviso in

quattro fasi: la formulazione del problema, il disegno della ricerca, la

precomprensione e la comprensione (Mari, 1994). Le quattro attività

vengono illustrate nella figura n. 14.

Figura n. 14: processo di ricerca basata sui casi aziendali (Mari, 1994)

Formulazione

del problema

PrecomprensioneComprensione

Disegno

della ricerca

La prime due fasi, la formulazione del problema e il disegno della

ricerca, sono analoghe a quelle descritte nel precedente paragrafo. Infatti

il ricercatore decide il problema da affrontare, in base agli obiettivi della

ricerca, e sceglie il metodo (o i metodi) di raccolta dei dati. Solo dopo aver

scelto il metodo di raccolta dei dati si evidenziano le peculiarità

determinate dalle caratteristiche dei differenti strumenti di ricerca. Come è

stato accennato nel paragrafo precedente, gli elementi che guidano la

scelta dello strumento da utilizzare sono quattro: l’obiettivo della ricerca, la

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natura del fenomeno studiato, la precisione dei dati e la generalizzabilità

dei risultati. La combinazione delle diverse caratteristiche di ognuno dei

quattro elementi determina la scelta del metodi di raccolta dei dati.

I casi per la ricerca sono coerenti con le seguenti caratteristiche: l’obiettivo

dello studio consiste nella formulazione di una teoria, la natura dei

fenomeni indagati richiede il contatto diretto con il contesto aziendale e

non consente di quantificare l’oggetto indagato, la precisione dei dati è

contenuta e la possibilità di generalizzare i risultati è molto alta.

Quando un ricercatore sceglie di utilizzare lo studio di caso come

strumento di ricerca, deve anche decidere quali casi aziendali studiare.

Questa scelta non si conclude nella fase del disegno di ricerca, ma

continua anche nelle fasi successive. Infatti, il ricercatore traccia una

ipotesi iniziale, circa la individuazione dei casi, durante il disegno di

ricerca. Successivamente, sulla base dei risultati parziali emersi nello

svolgimento dello studio, riformula questa scelta. La selezione dei casi

aziendali riguarda due aspetti: la tipologia (quali casi) e il numero (quanti

casi). La tipologia è determinata in base al problema oggetto di ricerca,

ovvero la natura e le caratteristiche del contenuto di ricerca. Il numero di

casi da sviluppare invece è connesso all’obiettivo della ricerca: come visto

quest’ultimo è quello di formulare una teoria, ossia una

concettualizzazione di un particolare fenomeno che sia generalizzabile. La

possibilità di ottenere questa generalizzazione è legata a sua volta al

numero di casi utilizzati nella ricerca: un numero elevato di casi facilità

pertanto la generalizzabilità dei risultati. Com’è facile notare, la posizione

in merito di Mari è completamente diversa da quelle di Yin, Stake e

Hamel, secondo i quali, come già sottolineato, anche un solo caso può

dare risultati accettabili e generalizzabili.

Il terzo step è la precompresione. Con questo termine Mari (ibidem)

descrive la fase in cui il ricercatore cerca di migliorare la familiarità con il

problema di ricerca, riducendo il divario tra le conoscenze del ricercatore e

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gli aspetti specifici dell’oggetto di studio. La precomprensione si articola in

tre momenti distinti: la raccolta dei dati, il caso pilota e l’analisi iniziale.

La raccolta dei dati si suddivide a sua volta in tre parti: i princìpi, i dati e gli

strumenti. I princìpi si riferiscono ad alcune linee guida che orientano

l’attività di raccolta dei dati nel metodo dei case studies. I princìpi

riguardano tre aspetti. Il primo è la “triangolazione”, termine coniato da Yin

per far riferimento al ricorso a più strumenti di raccolta dei dati (metodo

che migliora sia la precisione dei dati che la possibilità di generalizzare i

risultati). Il secondo aspetto riguarda la creazione di una banca dati, che

deve custodire tutti i dati raccolti nella loro forma originale, ovvero prima di

essere aggregati per diventare case studies. L’ultimo aspetto si riferisce

invece ai legami esistenti tra i dati raccolti, per consentire al ricercatore di

evidenziare la catena logica che gli ha permesso di raggiungere

determinati risultati. Per quanto riguarda invece i dati, esistono le seguenti

tipologie: primari e secondari. Come già accennato, i dati primari sono

quelli raccolti specificatamente per la ricerca in atto, quelli secondari

invece includono i dati esistenti raccolti con differenti scopi. I dati

secondari sono suddivisibili in interni (all’organizzazione) ed esterni. Infine

vanno considerati gli strumenti di raccolta dei dati. Gli studi di caso sono

una metodologia di ricerca che, come evidenziato, usa differenti tipologie

di strumenti, adattandoli alle proprie esigenze (strategia coerente col

principio di triangolazione di Yin e caratteristica di questa metodologia). Gli

strumenti utilizzati sono 1. documenti, 2. interviste e 3. osservazione.

1. L’analisi dei documenti, già accennata nel paragrafo 4.2, può essere

utilizzata anche nella metodologia dei case studies, ma con delle

modifiche. Infatti la tipologia di dati raccolti è duplice: dati secondari interni

ed esterni. I primi sono la parte prevalente nel metodo dei casi,

contrariamente ad altri tipi di ricerche basate quasi esclusivamente

sull’analisi di dati secondati esterni.

2. Le interviste utilizzate nei case studies prevedono un approccio semi-

strutturato, ovvero un insieme di temi ed ipotesi di carattere generale che il

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ricercatore individua prima di incontrare gli intervistati. Nel metodo dei casi

è preferibile l’inserimento di domande chiuse: ciò consente di avere dati

specifici che facilitano la successiva fase di interpretazione dei risultati.

L’applicazione delle interviste in questa metodologia si suddivide in tre

fasi: la preparazione, la conduzione e la sintesi. Durante la preparazione,

il ricercatore si deve informare, attraverso dati secondari esterni, riguardo

l’azienda ed individuare temi, ipotesi e domande specifiche da porre agli

intervistati. La preparazione include anche l’aspetto organizzativo, cioè il

fissare l’incontro. La fase di conduzione è quella in cui il ricercatore

raccoglie concretamente una parte dei dati. L’intervista si divide in

presentazione, sviluppo e conclusione.

• Presentazione: il ricercatore deve

o presentarsi all’intervistato,

o chiarire gli obiettivi della ricerca e il contributo dell’azienda,

o affrontare il tema della riservatezza.

• Sviluppo: il ricercatore deve

o ascoltare mostrando interesse,

o dimostrare di essere preparato sull’azienda e sul settore,

o evitare qualsiasi discussione con l’intervistato,

o intervenire solo per iniziare, porre domande o chiarimenti,

o evitare di esprimere opinioni, giudizi o sentimenti personali,

o prestare attenzione alle esperienze di lavoro dell’intervistato,

o prendere appunti.

• Conclusione: il ricercatore deve

o raccogliere i documenti aziendali,

o chiedere i nominativi di altri potenziali interlocutori aziendali,

o chiedere se necessario una seconda intervista,

o richiedere una verifica degli appunti presi,

o ringraziare l’intervistato per il tempo e contributo forniti.

L’ultima fase dell’intervista, la sintesi, riguarda il riordino degli appunti per

avere un resoconto chiaro dell’intervista: il ricercatore deve evidenziare gli

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aspetti dell’intervista ritenuti significativi per la comprensione del tema

oggetto di ricerca.

3. L’osservazione utilizzata nella metodologia dei casi è denominata

“studio sul campo”. Si tratta di un metodo che si applica nei contesti

naturali mediante un approccio non strutturato e nel quale il ricercatore

può essere partecipante o no a seconda delle circostanze. Questo metodo

è molto importante negli studi di caso poiché permette al ricercatore di

osservare da vicino le aziende oggetto di studio, fornendo ulteriori

indicazioni e dati.

Dopo che i dati sono stati raccolti, si procede con la costruzione del caso

pilota. Questo tipo di caso ha una funzione molto importante, ossia

sottoporre ad una sorta di prova generale il progetto di ricerca. Il caso

pilota aiuta ad evidenziare eventuali problemi presenti tra gli aspetti

scientifici (i contenuti) e gestionali (chi e come effettua la ricerca). Il caso

pilota può ad esempio fornire indicazioni sulla scelta delle aziende e dei

casi più significativi ai fini della ricerca. In definitiva, il caso pilota è uno

strumento che migliora la qualità delle ricerche basate sui case studies.

L’ultima fase della precomprensione è l’analisi iniziale. Questa fase

rappresenta il momento di sintesi dei dati raccolti e di integrazione dei

risultati. L’obiettivo di questa fase è la definizione di una mappa di concetti

per orientare le attività successive del ricercatore.

L’ultima fase del processo di ricerca è la comprensione. Questa

fase è formata da tre situazioni di raccolta dei dati, a cui corrispondono tre

momenti di analisi dei dati, la concettualizzazione, la generalizzazione e la

verifica della generalizzazione.

Le caratteristiche della raccolta dei dati descritte nella fase di

precomprensione possono essere estese anche alla fase di

comprensione, ma con due precisazioni. La prima riguarda i dati, che in

questa fase sono prevalentemente primari e secondari interni, mentre

nella fase di precomprensione sono, in maggioranza, dati secondari

esterni. In altre parole, il ricercatore è impegnato a studiare le aziende nel

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loro contesto mediante l’analisi dei documenti interni, le interviste e

l’osservazione. Viceversa, nella fase di precomprensione, la sua

attenzione è rivolta, principalmente, alla letteratura esistente

sull’argomento e in misura contenuta ai dati derivanti dai contatti con le

aziende. La seconda precisazione riguarda la ripetizione della raccolta dei

dati. Quest’ultima è replicata sia nei tre diversi momenti della fase di

comprensione, sia all’interno di questi. Infatti, ognuno dei tre stadi è

composto da un insieme di casi aziendali; questo comporta che la raccolta

dei dati è un’attività ciclica ripetuta per un numero di volte pari al numero

di casi inclusi nella ricerca. Quindi, per ognuno dei casi aziendali è

necessario predisporre l’analisi dei documenti interni, le interviste e

l’osservazione.

La concettualizzazione è il primo momento di analisi dei dati che

interrompe il lavoro sul campo. Questa fase si articola in due parti: la

stesura dei casi e il successivo esame comparato dei medesimi. La prima

attività consiste nel realizzare una sintesi dei dati raccolti. Dopo che i casi

sono stati sviluppati, si procede ad un loro confronto: l’obiettivo di questa

attività è la costruzione di un modello concettuale che rappresenta il

tentativo di spiegare le divergenze esistenti tra i casi esaminati.

La generalizzazione e la verifica della generalizzazione sono due ulteriori

momenti di analisi dei dati. Ognuna è suddivisa nelle due attività appena

descritte: la stesura dei casi e il loro confronto. Le differenze riguardano gli

obiettivi che ciascuna di esse persegue. La generalizzazione ha un

duplice scopo: in primo luogo, migliorare il modello concettuale costruito

nella fase di concettualizzazione; in secondo luogo, generalizzare tale

modello e le sue implicazioni. Questi obiettivi vengono raggiunti attraverso

la stesura di casi concernenti contesti e settori diversi da quelli studiati

nella fase di concettualizzazione. Lo scopo dell’ultima fase di analisi dei

dati è di sottoporre ad una verifica la generalizzazione dei risultati ottenuti

nelle altre fasi. Anche in questa circostanza sono realizzati alcuni casi

aziendali in contesti e settori completamente differenti da quelli esaminati

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117

in precedenza. La scelta di questi contesti/settori deve infatti enfatizzare la

peculiarità dei casi per riuscire a verificare i limiti del modello concettuale.

4.2.3 L’IMPIEGO DEI RISULTATI DI UN CASO AZIENDALE

Come è stato più volte sottolineato, l’obiettivo degli studi descrittivi,

di cui i case studies fanno parte, è quello di formulare una teoria.

Le caratteristiche essenziali di ogni teoria sono due: la spiegazione che

essa fornisce di un fenomeno e il controllo di questa spiegazione (Bailey,

1991, in Mari, 1994). Il primo aspetto si riferisce al contenuto della teoria

che è rappresentato dal tentativo di spiegare un particolare problema

attraverso la semplificazione e concettualizzazione della realtà. Il secondo

aspetto riguarda la possibilità di verificare empiricamente la spiegazione

del fenomeno, ossia replicare la ricerca per confermare i risultati originali.

Le teorie sono composte da due elementi (Mari, 1994): i concetti e

le proposizioni. I concetti sono immagini o percezioni mentali che, in alcuni

casi, non è possibile osservare direttamente. Un insieme di concetti

collegati fra loro forma una proposizione. I due tipi più rilevanti di

proposizioni sono le ipotesi e le generalizzazioni empiriche. Ad ognuna di

esse corrisponde un metodo per formulare le teorie. Le ipotesi sono

collegate al metodo deduttivo e le generalizzazioni empiriche a quello

induttivo.

Le ipotesi sono spiegazioni provvisorie e non ancora provate del

fenomeno. Queste spiegazioni devono essere provate attraverso una

verifica che ne determina la correttezza o la falsità. Secondo questo

approccio, il ricercatore formula, prima di tutto, una ipotesi in merito ad

alcuni concetti, e solo successivamente la sottopone al controllo

attraverso l’applicazione ad uno o più casi. Questo metodo, definito

deduttivo, prevede il passaggio, attraverso una inferenza, da un principio

generale ad una soluzione particolare.

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Le generalizzazioni empiriche invece sono spiegazioni del fenomeno

derivanti dallo studio di uno o più casi reali. La comprensione del

fenomeno avviene attraverso il contatto diretto con la realtà e rappresenta

una base per una successiva generalizzazione dei risultati. Questo

approccio, definito induttivo, si fonda sull’analisi di alcune situazioni

specifiche per l’individuazione dei concetti che spiegano un preciso

fenomeno: tale esame è eseguito dall’estensione di queste spiegazioni

alla generalità dei casi.

Il metodo induttivo è quello utilizzato nella metodologia dei case studies.

Lo studio di particolari realtà aziendali consente di raggiungere una

comprensione approfondita del problema che si traduce in una sua

concettualizzazione applicabile alla maggior parte delle imprese (ibidem).

Figura n. 15: modello deduttivo ed induttivo (Mari, 1994)

Teoria

Caso/i Generalizzazioni empiriche

Ipotesi Concetti

Concetti Caso/i

Modello deduttivo Modello induttivo

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4.2.4 LE CARATTERISTICHE DEI METODI DI RICERCA QUALITATIVI E

LA QUALITA’ DELLA RICERCA

Come già evidenziato, nella scelta del metodo di raccolta dei dati

bisogna considerare la natura quantitativa o qualitativa del problema di

ricerca. Il metodo dei case studies è stato classificato come strumento

qualitativo di ricerca (Mari, 1994). Ma quali sono le differenze tra metodi

quantitativi e qualitativi?

Mari (1994) afferma che la distinzione è difficile da segnare poiché le due

categorie non sono reciprocamente esclusive. In molte ricerche infatti

convivono aspetti sia quantitativi che qualitativi.

Van Maanen (1983, in Mari, 1994) afferma che i metodi qualitativi possono

essere rappresentati come un insieme di tecniche interpretative il cui

scopo è descrivere, decodificare e tradurre il significato di alcuni fenomeni

sociali, attraverso l’uso di simboli linguistici. Dunque, secondo Mintzberg

(1983, in Mari, 1994) le caratteristiche dei metodi qualitativi sono

l’approccio induttivo, il contatto diretto con la realtà studiata, l’enfasi sulla

descrizione, la prospettiva storica e la flessibilità.

• L’ approccio induttivo. Il punto d’inizio di una ricerca qualitativa non è

la formulazione di ipotesi da verificare sul campo; al contrario, la

ricerca parte dalla realtà studiando i fatti concreti collegati ad un

determinato fenomeno.

• Il contatto diretto con la realtà studiata evidenzia che i metodi qualitativi

utilizzano gli studi sul campo poiché permettono di analizzare un

fenomeno nel suo contesto naturale, in presenza di molte variabili

significative.

• L’enfasi sulla descrizione denota uno degli obiettivi principali della

ricerca, ossia la narrazione approfondita dei fatti. Il ricercatore studia

minuziosamente gli aspetti empirici di un determinato problema per

poter generalizzare i risultati.

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• La prospettiva storica. La descrizione di un fenomeno conseguita con

metodologie qualitative fa riferimento anche alla dimensione temporale

degli eventi. È importante dunque comprendere la dinamica che ha

caratterizzato l’evoluzione di una realtà sociale perché il contesto

storico è un elemento di interpretazione fondamentale.

• La flessibilità indica che i metodi qualitativi si adattano facilmente alle

caratteristiche dei diversi fenomeni studiati. Ciò è dovuto al basso

grado di rigore formale, poiché le ricerche qualitative non perseguono

una significatività statistica, ma sono interessate ad una

concettualizzazione del fenomeno mediante la sua descrizione.

I criteri che determinano la valutazione della qualità di una ricerca

basata sulla metodologia dei casi aziendali fanno riferimento ai seguenti

fattori (Mari, 1994): il paradigma di ricerca, la precisione dei dati, la

generalizzabilità dei risultati, il contributo scientifico e la

conoscenza/capacità del ricercatore.

• Come già accennato, l’adesione ad un determinato paradigma di

ricerca influisce sulle diverse fasi dello studio.

• La precisione dei dati, la correttezza e attendibilità delle misurazioni

influisce fortemente sulla percezione di qualità della ricerca.

• Come già visto nei precedenti paragrafi, il criterio della generalizzabilità

dei risultati è fondamentale in considerazione dell’obiettivo di un case

study, formulare una teoria.

• Il contributo scientifico. La rilevanza di una ricerca, intesa come

processo di accumulazione di conoscenze, è un altro importante

fattore che condiziona la valutazione della qualità.

• Le conoscenze e capacità del ricercatore sono molto importanti data la

forte influenza sul lavoro di ricerca: si considerano in particolare la

conoscenza pregressa del fenomeno in esame, la flessibilità mentale e

la capacità di gestire le relazioni interpersonali.

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4.3 I CASE STUDIES IN ATON: IL RACCONTO DELLE

STORIE DI SUCCESSO

Dopo aver esposto gli enunciati teorici della disciplina del KM ed

aver presentato due strumenti come le learning histories e i case studies,

è ora possibile analizzare il processo di creazione dei casi aziendali e

come essi vengano utilizzati in una organizzazione.

Come abbiamo visto, il case study è uno strumento di ricerca

estremamente flessibile: ciò significa che può essere facilmente modellato

ed adattato a seconda delle esigenze e degli scopi da raggiungere. In

particolare, nel caso di Aton, si è proceduto alla creazione di un modello di

case study ad hoc, adattando lo strumento alle caratteristiche dell’azienda

e del suo business.

In Aton infatti lo studio di caso è uno strumento utilizzato dalla Direzione

Marketing per raccontare le esperienze, in particolare le storie di

successo, dei progetti con i propri clienti. Come evidenziato nel terzo

capitolo, l’azienda opera per progetti: ogni cliente rappresenta una nuova

esperienza. Come vedremo, la costruzione di queste storie di successo

aziendale utilizza la metodologia dei case studies, ma non con lo scopo di

formulare una teoria.

Il processo di ricerca descritto da Mari rappresenta un modello teorico in

cui si presuppone che ci sia un ricercatore esterno che analizza più casi

aziendali: nel caso di Aton il ricercatore è interno, e i casi analizzati non

riguardano diverse realtà aziendali ma le diverse esperienze progettuali

che l’azienda affronta con i propri clienti. In pratica, il fenomeno da

analizzare è l’attività dell’azienda stessa. Oltre a questi aspetti, l’altro

adattamento riguarda gli scopi che tale strumento deve raggiungere: il

modello standard creato in Aton viene replicato per ogni progetto/cliente e

l’obiettivo non è la formulazione di una teoria, almeno non nel senso

stretto di costruzione di un paradigma concettuale, ma (come vedremo nei

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122

prossimi paragrafi) la gestione della conoscenza all’interno

dell’organizzazione e la comunicazione.

Il modello dei case studies utilizzato in Aton può essere considerato una

forma di learning history: dal punto formale non utilizza il modello costruito

da Kleiner e Roth (descritto nel secondo capitolo), ma parte dagli stessi

presupposti enunciati dai due ricercatori americani: la necessità di

raccontare le esperienze aziendali per stimolare la riflessione e

l’apprendimento collettivo, il fatto di raccogliere testimonianze da più parti

dell’organizzazione e che il prodotto finale sia indirizzato all’azienda nel

complesso. Se le learning histories hanno come obiettivi la formazione e

l’apprendimento, i case studies aggiungono anche una funzione di

comunicazione esterna.

I motivi che hanno dunque spinto l’azienda all’utilizzo di questa

metodologia sono svariati:

• avere uno strumento di analisi dei diversi progetti affrontati

contemporaneamente e da personale differente;

• avere uno strumento che permette di avere un quadro generale delle

attività e dei progetti svolti: il rischio del work in team e per progetto ha

insito il rischio di non sapere cosa fanno le altre unità di business e

cosa sta facendo l’azienda nel suo complesso;

• gestire l’enorme quantità di dati primari interni che scaturiscono da

ogni singolo progetto per favorire la costruzione di modelli “standard” di

gestione delle attività nelle diverse aree di business;

• condividere il know-how e le innovazioni che vengono continuamente

generate;

• evidenziare eventuali errori, incidenti di percorso;

• avere a disposizione un potente ed efficace strumento di

comunicazione sia interna, per aiutare a cimentare la cultura

aziendale, la fiducia e il senso di appartenenza, che esterna, per

sviluppare la corporate reputation.

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4.4 IL PROCESSO DI COSTRUZIONE DEI CASI

E’ possibile applicare le quattro fasi del processo di ricerca

individuate da Mari (1994), con i necessari adattamenti, al processo di

costruzione delle storie di successo in Aton. Come descritto in

precedenza, le fasi sono la formulazione del problema, il disegno di

ricerca, la precomprensione e la comprensione.

La formulazione del problema

Come è stato specificato, il ricercatore non è un attore esterno all’azienda

ma fa parte del Reparto Marketing interno. Il fenomeno da analizzare è

“cosa fa l’azienda”: ciò significa che i casi da affrontare sono i progetti che

Aton sviluppa presso i propri clienti. Dato il numero enorme di clienti e

progetti avviati, si deve procedere alla scelta dei casi da sviluppare.

Questa scelta viene effettuata tenendo conto dei seguenti fattori:

• la rilevanza economica del progetto;

• l’attrattività del progetto (innovazioni, nuove soluzioni) e la notorietà del

cliente;

• la disponibilità del cliente a procedere con la stesura di un caso

(questo in particolare per i casi ad uso esterno, che vedremo in

seguito).

Il disegno della ricerca

Nella seconda fase viene sviluppato il piano d’azione e stabilite le attività

da porre in essere. In questo step si devono scegliere il tipo di

informazioni, le fonti a cui attingere e i metodi di raccolta dei dati.

Per quanto riguarda il tipo di informazioni, queste sono prevalentemente

primarie interne (per quanto concerne le applicazioni e le soluzioni

sviluppate per i clienti) e secondarie esterne (dati sui clienti). In Aton è

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stata studiata una particolare griglia, che come vedremo rispecchia il

format formale dello studio di caso. I tipi di informazioni da ricercare

appartengono a quattro categorie: il profilo del cliente, le sue esigenze, la

soluzione sviluppata da Aton per rispondere alle specifiche esigenze e i

vantaggi apportati da tali soluzioni.

Le fonti a cui attingere sono pertanto l’account manager di riferimento (per

conoscere le esigenze del cliente), l’ingegnere software responsabile del

progetto (per avere informazioni dettagliate riguardo alla soluzione

sviluppata per il cliente) e l’azienda cliente stessa (per conoscere il suo

profilo, spesso tratto indirettamente grazie al sito web aziendale, e i

vantaggi e miglioramenti che la soluzione Aton ha apportato).

Per quanto concerne infine i metodi di raccolta dei dati, è stato costruito

un format con le diverse tipologie di informazioni da raccogliere, che viene

compilato dal ricercatore attraverso interviste vis à vis o telefoniche. Il

format viene riportato di seguito.

FORMAT CASE STUDY (da completare come da esempio)

Profilo cliente

Specificare in questa sezione: Chi è – Settore - Numero addetti – Fatturato – Sito web

Esigenze del cliente

Descrivere in questa sezione i motivi per cui il cliente si è rivolto ad Aton Esempio: La collaborazione fra Aton e xxx nasce dall’esigenza del cliente di automatizzare la tentata vendita e l’order entry tramite call center, permettere una gestione informatizzata del magazzino in real time e garantire la tracciabilità di filiera e la gestione dei lotti anche in riferimento alla nuova normativa..

Tipo di applicazione fornita da Aton

Indicare in questa sezione la soluzione fornita da Aton (ad esempio: logistica, tentata vendita, raccolta ordini, controllo produzione, work force automation) Specificare anche il tipo di linea di business coinvolta (ONlog, ONsales, Progetti Speciali, ONway…) e se si tratta di una soluzione standard, una

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soluzione standard con l’aggiunta di personalizzazioni o una soluzione ad hoc. Esempio: Aton ha fornito al cliente ONxxx, una soluzione standard/ad hoc per la gestione della tentata vendita, che permette al cliente di… . Specificare il numero di operatori coinvolti, il software e l’hardware fornito (tipologia e quantità), eventuali servizi erogati (help desk, tecnico in presidio, assistenza hardware, noleggio operativo Aton).

Vantaggi per il cliente

Spiegare in questa sezione i vantaggi che il cliente ha ricavato dalla soluzione fornita da Aton assumendo il punto di vista del cliente.

Esempio: Il beneficio principale è quello di migliorare l’efficienza dell’organizzazione, grazie alla possibilità di disporre di tutti i dati necessari per le analisi in real-time e con la massima sicurezza.

Particolarità

Sottolineare in questa sezione gli aspetti più interessanti della soluzione e della tecnologia fornita. Esempio: L’aspetto più interessante ed innovativo è la modalità di comunicazione wireless tra il dispositivo di raccolta e il palmare. In questo progetto sono state superate le limitazioni tecnologiche e i vincoli ed ostacoli per la gestione della comunicazione via Bluetooth.

Percezione della soddisfazione del

cliente

Indicare il livello di soddisfazione del cliente esprimendo un voto da 1 a 5 (1 = livello minimo), segnalando in questa sezione eventuali problemi e criticità riscontrati nel corso dell’avanzamento del progetto.

Oltre alle interviste, altro strumento di raccolta dati utilizzato è l’analisi dei

documenti interni, che includono dati e informazioni sulle applicazioni

sviluppate presso i clienti, ma che sono spesso di difficile comprensione e

richiedono pertanto un aiuto da parte di un tecnico informatico o un

ingegnere per essere “tradotte” e rese esplicite.

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La precomprensione

Questa fase, necessaria ogni qual volta si affronti un fenomeno nuovo, è

stata affrontata in Aton solo nel periodo iniziale di introduzione della

metodologia dei case studies: una volta sviluppata e collaudata una

procedura standard non era più necessaria una fase di precomprensione.

Questo step ha riguardato perciò la raccolta operativa dei dati, la

compilazione del format attraverso le interviste e l’analisi dei documenti.

Veniva poi steso il caso pilota, controllato e modificato più volte, e si

procedeva con l’analisi iniziale: questo processo ha portato alla

formulazione finale del format da utilizzare.

La comprensione

Non essendo più necessaria la fase di precomprensione grazie alla

replicazione di un modello standard, si passa direttamente a quella di

comprensione, che prevede la raccolta, analisi e raffinazione dei dati, la

stesura del case study provvisorio, seguita da vari check-up e modifiche.

Finito l’iter e dichiarato lo studio di caso definitivo, si è pronti per utilizzarlo

nei modi che vedremo nei prossimi paragrafi. Non avendo come obiettivo

la formulazione di un paradigma teorico, step come la concettualizzazione

e la generalizzazione e verifica della generalizzazione non vengono posti

in essere.

Riassumendo, la costruzione di un case study in Aton avviene in otto fasi:

la scelta dell’azienda-cliente, il colloquio con l’account manager, il

colloquio con l’ingegnere/tecnico informatico, l’intervista al cliente, il profilo

aziendale, il case study provvisorio, il check-up e il case study definitivo.

1. La scelta dell’azienda-cliente avviene in base alla rilevanza economica

del progetto, la sua attrattività in termini di soluzioni, innovazioni e

notorietà del cliente, e l’eventuale disponibilità di quest’ultimo;

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2. il colloquio con l’agente commerciale di riferimento serve a raccogliere

informazioni riguardanti le esigenze del cliente;

3. il colloquio con l’ingegnere/tecnico informatico assegnato al cliente è

necessario per avere informazioni che riguardano la soluzione

sviluppata;

4. l’intervista al cliente (il titolare se trattasi di piccola azienda, il

responsabile dei sistemi informativi, l’IT manager o chi segue i rapporti

con Aton nelle medie e grandi imprese) serve ad avere informazioni sui

vantaggi e miglioramenti apportarti all’azienda dalle soluzioni e servizi

Aton;

5. la raccolta dei dati riguardanti l’azienda serve invece alla costruzione di

un breve profilo aziendale (tramite sito web aziendale, documentazione

cartacea o direttamente al cliente);

6. una volta raccolti tutti i dati e completato il format, viene steso il case

study provvisorio, una sorta di caso pilota;

7. check-up: una volta pronto, il case study provvisorio viene inviato a tutti

gli attori intervistati, e anche al Marketing Manager, richiedendo loro

eventuali errori, modifiche e correzioni;

8. nell’ultima fase, vengono apportate le correzioni e modifiche suggerite

e viene steso il case study definitivo, in formato riassuntivo sotto forma

di scheda in Microsoft PowerPoint (denominato mini case study) e in

formato esteso con Microsoft Word. Una volta approvato dal Marketing

Manager, il case study è pronto per essere utilizzato.

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4.5 I CASE STUDY PER LA COMUNICAZIONE INTERNA:

SUPPORTO AL KNOWLEDGE MANAGEMENT E

APPRENDIMENTO ORGANIZZATIVO

Come già anticipato, l’utilizzo della metodologia dei case studies in

Aton permette di raggiungere significativi risultati.

Le storie di successo in Aton si dividono in due macrocategorie: case

studies per uso interno e case studies per uso interno ed esterno. In

questo paragrafo approfondiremo la prima tipologia.

Quando un progetto presso un cliente è stato sviluppato, è entrato

in funzione ed il cliente è in grado di stabilire ed in caso quantificare i

vantaggi ed i miglioramenti apportati dalla collaborazione con Aton, è

questo il momento in cui viene predisposta la creazione del case study. La

figura n. 16 riporta il work flow su cui si basa la relazione Aton-cliente e

mostra in quale momento viene progettato il case study.

Figura n. 16: la costruzione del case study nel work flow

Negoziazione

Feedback

Richiesta

Erogazione

Negoziazione

Feedback

Richiesta

Erogazione

Costruzione case study

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La costruzione dei casi rappresenta così una ideale continuazione della

relazione tra l’azienda ed i suoi clienti: il rapporto è dinamico, non si

conclude con il pagamento e il rilascio del feedback sulla soddisfazione

sui servizi erogati. La tipologia di servizi e prodotti che Aton vende

necessita di ulteriori servizi come l’assistenza post-vendita. Questi rapporti

continuativi possono quindi portare all’individuazione di altre necessità da

parte dei clienti, dall’implementazione delle soluzioni attivate al rinnovo del

parco macchine. La soddisfazione ha spesso spinto le aziende a

richiedere ulteriori servizi: un esempio sono i molti clienti che avendo

acquistato una soluzione ONroad per la gestione della propria flotta di

vendita, hanno poi richiesto anche l’implementazione con altre soluzioni

come ONlog per la gestione automatizzata dei magazzini e il conseguente

software per interfacciare ONroad con ONlog. In questo caso il case study

è uno strumento utile perché costituisce una sintesi del rapporto tra Aton

ed il cliente, dalla richiesta e dalle esigenze di quest’ultimo fino

all’erogazione dei servizi e alla raccolta del feedback sulla soddisfazione.

Le storie di successo nascono come case studies ad uso interno: se si

verificano le condizioni viste precedentemente, il caso può essere

utilizzato anche per uso esterno.

I case studies utilizzati all’interno dell’azienda hanno due principali finalità,

che verranno approfondite di seguito: la gestione e trasferimento della

conoscenza e l’apprendimento collettivo.

Gli studi di caso utilizzati all’interno dell’organizzazione servono a

raccontare all’azienda quello che fa. Operando per progetti, suddivisi in

aree di business che in Aton sono definite ASA (aree strategiche d’affari) e

gestiti da team che lavorano in maniera indipendente, il rischio è che si

perda il senso di unità aziendale. I case studies diventano così un valido

strumento per avere una visione collettiva e completa delle attività

aziendali.

Aton è una knowledge-based company che basa il suo vantaggio

competitivo sul know-how creato e trasferito da una parta all’altra

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dell’organizzazione. Questa conoscenza è creata dai team che sviluppano

i progetti per i clienti: per non restare ad appannaggio solo dei membri del

gruppo che l’ha creata ed implementata, deve essere trasferita e messa a

disposizione di tutta l’organizzazione. Gli obiettivi sono: permettere di

sapere cosa fanno e come operano le varie unità per gestirle al meglio,

consentire il trasferimento della nuova conoscenza, delle innovazioni,

delle nuove soluzioni agli altri team che possono a loro volta utilizzare le

innovazioni in altri progetti simili, o adattarle per progetti diversi.

In definitiva, la costruzione delle storie di successo serve a raccontare una

esperienza aziendale, a cui hanno partecipato solo pochi membri, a tutta

l’organizzazione, evidenziando le problematiche affrontate, le soluzioni

adottate, gli errori fatti e gli incidenti di percorso: ciò aiuta gli altri membri

dell’organizzazione ad apprendere dalle esperienze altrui, aiutando ad

evitare gli errori, e offrendo un modello di successo che può e deve essere

replicato anche negli altri progetti.

La collezione dei case studies aiuta quindi a condividere la conoscenza

all’interno di una organizzazione molto frammentata (sia a livello di

business nelle varie unità che a livello geografico tra le varie filiali) e in cui

convivono professionalità profondamente diverse fra loro: account

manager, project manager, tecnici informatici, ingegneri software. I case

studies permettono di analizzare tutto l’operato aziendale, perché in ogni

progetto rientrano le attività di tutte le risorse umane dell’organizzazione.

Costituiscono quindi un quadro generale, un framework sull’andamento

aziendale, che aiuta ad individuare gli errori e i fallimenti per evitarli nel

futuro, e le esperienze di successo per poterle replicare.

I case studies rappresentano inoltre uno strumento molto efficace per

semplificare e rendere esplicito il know-how specialistico che altrimenti

sarebbe a solo appannaggio di chi lo produce, cioè gli ingegneri e tecnici

informatici, escludendo tutte le altre figure professionali all’interno

dell’azienda, come gli account manager che quei prodotti e servizi li

devono presentare e vendere ai clienti.

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Il fine dell’utilizzo dei casi all’interno dell’azienda è quindi quello di

riassumere tutto l’operato aziendale, raccogliere ed immagazzinare in

maniera chiara e facilmente comunicabile tutte le informazioni utili

all’azienda, implementando la memoria dell’organizzazione, da cui è

possibile attingere informazioni ogni qual volta ce ne sia bisogno.

Va poi sottolineata la componente soft, quella che influisce sulla cultura

organizzativa in Aton. La libera circolazione delle informazioni favorisce lo

sviluppo di una cultura della conoscenza come valore fondante, in cui tutti

in azienda si sentono partecipi dei successi: ciò porta all’accrescimento

della fiducia e del senso di appartenenza e di orgoglio.

La figura n. 17 mostra un esempio di mini case study Aton ad uso interno.

Figura n. 17: il mini case study Diesel

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4.6 GLI STRUMENTI PER DIFFONDERE I CASE STUDIES

ALL’INTERNO

Abbiamo visto nel terzo capitolo quali sono gli strumenti di

comunicazione interna presenti in Aton: i due principali sono ONportal, il

portale aziendale, e il bollettino interno mensile, a cui vanno aggiunte le

bacheche nelle sale caffé e la posta elettronica.

ONportal è il principale strumento di comunicazione e di condivisione delle

conoscenze presente in azienda. Come descritto, si tratta di un sito

interno continuamente aggiornato dove è possibile mettere a disposizione

di tutti informazioni, documenti, manuali, notizie, creando una sorta di

database aziendale on-line consultabile in maniera veloce e molto

semplice. Per permettere a tutta l’organizzazione di accedere ai case

studies è stato creato un link al centro della home-page del portale: con un

click si apre un file di PowerPoint che contiene tutti i mini case studies,

suddivisi per ASA. I mini case studies possono essere consultati, scaricati

e stampati. Viene naturalmente sottolineato ai collaboratori che si tratta di

materiale ad uso esclusivamente interno per il quale non è stata fatta

richiesta di autorizzazione all’utilizzo per altri scopi.

Figura n. 18: la presenza dei mini case studies sul portale interno

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Altro strumento interno utilizzato per diffondere i case studies è il bollettino

interno mensile: a differenza di ONportal, questo strumento serve

principalmente a comunicare la presenza dei case studies, e dove sono

resi disponibili. Nel bollettino interno infatti vengono riportate le novità,

come ad esempio la messa on-line sul portale di nuovi case studies, o la

loro recente organizzazione per ASA. Il bollettino viene sia spedito

mensilmente a tutti i collaboratori via e-mail che messo a disposizione in

una apposita sezione di ONportal.

Altro mezzo, fisico e non digitale, per comunicare la presenza dei case

studies è rappresentato dalle bacheche presenti nelle sale caffé: qui

vengono appese informazioni e comunicazioni sia di carattere formale che

informale, vengono affisse comunicazioni riguardanti la pubblicazione di

nuovi casi, e vengono invitati i collaboratori a prenderne visione.

Infine, per diffondere informazione c’è la posta elettronica, con la quale

vengono spediti anche i bollettini mensili. Se necessario (ad esempio

quando non è ancora il momento di spedire il bollettino mensile) si utilizza

questo mezzo per diffondere informazioni e novità, come la pubblicazione

di nuovi casi.

4.7 I CASE STUDIES PER LA COMUNICAZIONE ESTERNA:

PROMOTION E ADVERTISING

Come anticipato, se un caso aziendale presenta requisiti come una

significativa rilevanza economica, una forte notorietà del cliente e una

disponibilità di quest’ultimo a concedere l’autorizzazione a pubblicare la

storia di successo e a partecipare ad iniziative di co-marketing, un caso da

interno può diventare esterno.

Dal punto di vista formale, il mini case study in formato PowerPoint non

cambia, a parte la mancanza delle diciture “riservato per uso interno”. Il

contenuto, dato che potrà essere letto da persone esterne all’azienda,

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rimane invariato, ma viene reso dal punto di vista comunicazionale più

enfatico. La novità sta nella stesura del case study anche in formato

esteso Word. Si procede dunque alla raccolta di maggiori informazioni,

dati dettagliati, specifiche tecniche maggiori per quanto riguarda la

soluzione sviluppata, e ad una intervista più approfondita con il cliente.

Aton possiede più di tremilacinquecento clienti attivi, tra cui annovera

aziende e marchi prestigiosi e con forte brand awareness in ogni settore.

L’idea di utilizzare il nome e la notorietà di un proprio cliente per

promuovere le proprie soluzioni nasce da molte considerazioni:

• innanzitutto la possibilità di affiancare al proprio marchio, quello di una

media azienda che opera nel B2b, marchi di aziende prestigiose e con

una forte reputazione nel mass market come Api, Trudy, Granarolo,

Geox, Bassetti, Banca Intesa, Sony, Furla, Rana e molti altri;

• in un settore come quello dei servizi ad alta specializzazione, dei beni

fiducia di cui si può conoscere l’efficienza soltanto dopo l’investimento

e l’utilizzo, la creazione di una forte reputazione è indispensabile per

farsi conoscere, superare le diffidenze e creare vantaggio competitivo;

• in particolare, risulta estremamente efficace la strategia che utilizza la

parola del cliente per promuovere i prodotti e i servizi Aton. Con questa

tecnica, Aton si vuole proporre e presentare attraverso ciò che fa, ma

facendo parlare le grandi aziende con forte notorietà dei vantaggi dei

propri prodotti e servizi. È facile comprendere come sia molto più

efficace una comunicazione in cui a commentare i vantaggi apportati

dalle soluzioni Aton sia il presidente, l’amministratore delegato o l’IT

manager di una famosa azienda cliente e non Aton stessa. Di seguito

viene riportato un esempio di case study Aton esteso.

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Figura n. 19: il case study Granarolo in formato esteso

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4.8 GLI UTILIZZI DEI CASE STUDIES PER LA

COMUNICAZIONE ESTERNA

Sono davvero tanti gli utilizzi esterni delle storie di successo: gli

ONbook per gli account manager, il sito web, Atonews, le campagne di co-

marketing, gli articoli giornalistici, le pubblicità stampa, gli eventi

(conferenze/fiere/convegni).

I mini case studies vengono stampati su schede plastificate in formato A5

e inseriti assieme ad una presentazione aziendale su apposite cartelline,

nere o grigie, con il logo aziendale impresso, gli ONbook. Questi book

vengono consegnati poi agli account manager (della sede e di tutte le

filiali) per essere utilizzati durante il primo contatto con potenziali clienti: gli

agenti hanno così a disposizione uno strumento estremamente efficace ed

impattante per presentare l’azienda, le sue caratteristiche, i suoi prodotti e

servizi e le aziende che l’hanno scelta e sono rimaste soddisfatte delle sue

applicazioni.

Figura n. 20: immagini degli ONbook

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I case studies, in questo caso le versioni estese scritte in Word e

successivamente trasformate in file Pdf, vengono messi on-line sul sito

web aziendale in una speciale sezione denominata “Ci hanno scelto”,

suddivisi per ASA: in questa area vengono enfatizzate le grandi aziende

che hanno scelto soluzioni Aton e il navigatore può informarsi sulle

applicazioni installate, i servizi erogati e il livello di soddisfazioni a

riguardo.

Figura n. 21: la sezione “Ci hanno scelto” del sito web Aton

I case studies in formato esteso vengono anche inseriti come articolo in

Atonews, l’house horgan periodico di Aton. Come sottolineato nel terzo

capitolo, Atonews è uno strumento di comunicazione studiato per uso

esterno, ma utilizzato anche all’interno tramite la messa on-line su

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ONportal. Atonews viene messo on-line sul sito web dell’azienda e spedito

via posta elettronica a tutti i clienti, fornitori e partner. Nel sito è inoltre

possibile iscriversi alla mailing list per riceverlo direttamente sulla propria

casella e-mail.

Figura n. 22: il case study Olitalia sul numero di Settembre 2006 di Atonews

Gli studi di caso autorizzati vengono utilizzati anche nelle campagne di

cross-marketing. Queste campagne, realizzate per settore merceologico,

vengono attivate tramite la creazione e spedizione di cartoline ai clienti

target. In queste cartoline viene brevemente descritta una soluzione Aton,

e il destinatario viene invitato a scoprire sul sito web dell’azienda quali

benefici la soluzione può apportare alla sua impresa (nell’esempio visto

nel capitolo terzo, ad un produttore e distributore di latte e derivati viene

indicato come case study quello di Mila)

La realizzazione di un nuovo case study e la sua autorizzazione per uso

esterno viene seguita solitamente dalla sua pubblicazione, sotto forma di

articolo giornalistico, in una rivista specialistica. Questo permette ad Aton

di essere presente sui media, contribuendo alla diffusione del suo

marchio, delle sue applicazioni e dei clienti che a queste si sono affidati.

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La figura n. 24 riporta la pubblicazione sul numero di Settembre 2006 della

rivista di business Mark Up del case study Mobil Record.

In queste riviste specialistiche sono anche state effettuate delle pubblicità

stampa, descritte nel terzo capitolo, che utilizzano il riferimento al case

study di un progetto presso una nota azienda per promuovere le soluzioni

Aton. E’ naturalmente presente l’indirizzo del link sul sito web dove è

presente il case study esteso.

Figura n. 23: pubblicità stampa ONgas con case study Api

I case studies, sotto forma di book, cartoline, libretti o altro, sono

naturalmente presenti a tutti gli eventi tematici (convegni, fiere, congressi,

manifestazioni) a cui Aton partecipa, a disposizione di chi è interessato ai

servizi e prodotti offerti dall’azienda.

Rimando al case studysul sito aziendale

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Figura n. 24: articolo giornalistico sul case study MobilRecord, pubblicato nel numero di

Settembre 2006 della rivista Mark Up

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5. CONCLUSIONI

Aton rappresenta un ottimo esempio, ed una conferma empirica,

della adattabilità e flessibilità della metodologia delle storie di successo.

Da strumento per la ricerca qualitativa per descrivere fenomeni aziendali

al fine di formulare teorie, il case study è stato trasformato dalla Direzione

Marketing Aton in uno strumento per raccogliere dati ed informazioni sulle

esperienze aziendali di successo con i propri clienti. Uno strumento

dinamico che permette di essere utilizzato efficacemente sia all’interno,

come abbiamo visto per la gestione e il trasferimento della conoscenza e

delle innovazioni, sia all’esterno per sviluppare la corporate reputation.

Aton è una azienda le cui core activities sono sviluppate dai

professionals, collaboratori con spiccate doti personali, indipendenti ed

autonomi nel proprio lavoro ma con la capacità di lavorare in team per il

raggiungimento degli obiettivi, rappresentati dalla soddisfazione delle

esigenze dei clienti. Questo tipo di collaboratori, che sviluppano i progetti

hardware e software per i clienti, devono interfacciarsi con dipendenti con

cultura professionale profondamente diversa: manager, agenti

commerciali, collaboratori amministrativi, addetti all’assistenza telefonica.

Questo ha portato alla necessità di sviluppare una forte cultura

organizzativa attraverso il rafforzamento della comunità aziendale, per

mantenere uniti ed allineati agli obiettivi tutti i diversi attori presenti in

azienda. Per questo motivo le storie di successo rappresentano un

efficace strumento per riassumere le attività aziendali presso i diversi

clienti. Permettono a tutta l’azienda di conoscere i progetti in corso, di

sapere dove e come stanno operando le varie unità aziendali. Come già

sottolineato, permettono inoltre di portare alla luce le cause che hanno

determinato il successo dei progetti, che rappresentano motivo di vanto ed

orgoglio per tutta l’azienda, con lo scopo di apprendere da queste

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esperienze positive per poterle poi replicare in altri progetti. Ma non solo i

casi di successo sono importanti, anzi: nelle situazioni dove emergono

difficoltà, problemi e complicazioni si presenta l’opportunità di sviluppare

soluzioni alternative ed innovazioni vincenti, in un continuo circolo virtuoso

di problem-solving.

Ma l’utilizzo e la diffusione delle storie di successo ha riflessi positivi

anche all’esterno. Aton non si propone ai propri clienti come semplice

fornitore di soluzioni hardware e software, ma come vero e proprio

partner. Il rapporto con i propri clienti è dinamico e non si conclude con

l’operatività delle soluzioni istallate e il rilascio del feedback. Aton è

sempre presente presso il cliente per la risoluzione di problemi,

l’assistenza hardware e software, la fornitura di materiali di consumo, il

rinnovamento del parco macchine, lo studio di nuove soluzioni per le

esigenze che quotidianamente vengono alla luce. Tutto questo porta ad

un rapporto di grande fiducia tra Aton e i propri clienti. Questa fiducia si

concretizza e viene esplicitata attraverso quella che è stata chiamata “la

parola del cliente”: come abbiamo visto infatti, nei case studies si chiede al

cliente di individuare i vantaggi che le soluzioni Aton hanno apportato al

proprio business. Attraverso gli studi di caso divulgati anche all’esterno

tramite il sito, le pubblicità stampa, le attività di cross-marketing, gli articoli

giornalistici, Aton sfrutta la fiducia di clienti prestigiosi e con forte brand

awareness per sviluppare la propria corporate reputation. In un mercato in

cui ciò che si vende è un credence good, la fiducia e la soddisfazione dei

propri clienti risulta essere un asset fondamentale per rafforzare la propria

reputazione, in particolare per una azienda che opera nel B2b.

I vantaggi che le storie di successo portano all’azienda possono essere

così riassunti:

• uno strumento che permette di analizzare i progetti svolti presso i

clienti;

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• un framework, un quadro generale delle attività svolte per rispondere

alla domanda: “cosa fa l’azienda?”;

• uno strumento di esplicitazione e gestione di dati, informazioni,

conoscenza, innovazioni;

• uno strumento per la condivisione e il trasferimento del know-how;

• uno strumento di apprendimento organizzativo per replicare i successi,

evitare di ripetere gli errori commessi e cadere in difficoltà ed incidenti

di percorso;

• uno strumento di comunicazione interna che sviluppa il senso di

appartenenza, la fiducia tra collaboratori, l’orgoglio e la cultura

aziendale;

• uno strumento di comunicazione esterna per sviluppare la corporate

reputation attraverso la fiducia e soddisfazione dei propri clienti, per

presentarsi al meglio al mercato e ai potenziali acquirenti;

• uno strumento di relazione con i propri clienti.

Come sostiene Campodall’Orto (2003), nel concreto il KM non consiste

tanto nella gestione della conoscenza o nella gestione delle risorse

umane, ma si basa sulla creazione di un ambiente in cui gli individui siano

naturalmente incoraggiati a condividere know-how. Può essere dunque

visto come un processo nel quale le persone vengono invitate ad allineare

gli obiettivi e a mettere insieme dati, informazioni ed esperienze per

produrre nuove conoscenze che possano essere utili ed utilizzabili per il

singolo e per l’impresa.

Come abbiamo visto, in Aton sono presenti molteplici metodi di gestione,

condivisione, immagazzinamento e trasferimento delle conoscenze. Le

storie di successo rappresentano un particolare ed innovativo strumento

che si basa sulla raccolta ed elaborazione di dati, informazioni ed

esperienze direttamente dalle persone coinvolte nel fenomeno sotto

studio, in questo caso i progetti presso i clienti.

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Naturalmente, anche questo strumento incontra delle difficoltà nella

sua costruzione e diffusione.

La principale criticità è riscontrabile nella difficoltà di far capire alle

persone coinvolte l’importanza della costruzione delle storie di successo,

questione nota a chi si occupa di marketing, ma non sempre facilmente

comprensibile alle risorse umane appartenenti altri dipartimenti aziendali.

La costruzione di un case study è un processo che richiede agli individui

coinvolti la comprensione dei suoi obiettivi e la disponibilità del proprio

tempo e il del proprio know-how. Questa disponibilità di tempo, da parte

degli account manager e dei tecnici, spesso non è sufficiente per

raccogliere tutte le informazioni necessarie. E’ dunque necessario far

comprendere l’importanza strategica di questo strumento, al fine di creare

un ambiente favorevole al trasferimento della conoscenza che incide

fortemente sulla qualità del case study.

Se la prima e principale criticità riguarda la difficoltà di far comprendere

l’importanza delle storie di successo e dei loro risultati all’interno

dell’azienda, la seconda riguarda invece la comprensione dell’efficacia

comunicativa e relazionale di questo strumento da parte dei clienti. Questi

ultimi infatti sono molto spesso restii a concedere l’autorizzazione per

l’utilizzo esterno dei casi, step necessario per l’inizio del circolo virtuoso di

relazione Aton-cliente. Questo implica da parte del cliente la disponibilità

ad essere intervistato e a concedere l’utilizzo del suo marchio per tutte le

tipologie di comunicazioni esterne che abbiamo analizzato. Aton punta ad

essere partner dei sui clienti non solo dal punto di vista dell’offerta di

prodotti e servizi, ma anche dal punto di vista comunicazionale. Perché

questa unione porta benefici ad entrambi: ad Aton la possibilità di poter

utilizzare la forza del marchio e la soddisfazione di clienti con alta visibilità

per promuovere le proprie soluzioni; alle aziende-clienti l’opportunità di

essere presenti nei media specializzati nel settore tecnologico (giornali e

riviste, siti web, eventi) grazie alla partnership con una azienda leader nel

proprio settore. Quindi, Aton può sviluppare la propria brand reputation

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anche al di fuori del proprio settore, mentre i propri clienti possono

rafforzare la propria immagine di azienda al passo con i tempi anche dal

punto di vista tecnologico.

Dalla analisi di queste due criticità, che riguardano la stessa

questione ma con target differenti, emerge che Aton deve sviluppare la

conoscenza sui case studies e sulla loro importanza per lo sviluppo

dell’azienda, sia internamente che esternamente.

Una proposta per tentare di risolvere queste problematiche riguarda

l’attivazione di strumenti empirici per individuare le opinioni delle persone,

cercando poi di correggerle diffondendo la conoscenza sulle storie di

successo.

Il primo passo dunque è la costruzione di un questionario per sondare il

livello di conoscenza sulla metodologia dei casi di successo ed il livello di

interesse per i casi pubblicati, sia internamente che esternamente. Come

abbiamo visto, la Direzione Marketing mette a disposizione i casi

attraverso molteplici mezzi: il sito, il portale, i book, le pubblicazioni di

articoli su riviste specializzate, il bollettino, l’house organ. È importante

capire quanto lo studio di caso sia utilizzato e come venga percepito, se

venga ritenuto utile ed interessante e se sia in grado di raggiungere gli

obiettivi.

Un questionario apposito può essere predisposto anche per i clienti, sia

quelli che hanno dato l’autorizzazione che quelli che non l’hanno

concessa. Lo scopo è farsi spiegare dai primi i vantaggi percepiti

dell’utilizzo di questo strumento, e dai secondi quali sono le barriere e le

perplessità che li portano a non rilasciare l’autorizzazione.

Dopo aver raccolto ed analizzato le informazioni che provengono da

collaboratori interni e clienti, la seconda fase riguarda l’attivazione di

attività interne e la costruzione di una brochure illustrativa sulla

metodologia dei casi di successo.

Riguardo l’attivazione di attività interne, una tipologia adatta a raggiungere

l’obiettivo, ovvero riflettere sull’importanza del racconto delle esperienze

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aziendali, e già utilizzata nella diffusione delle learning histories, è il focus

group. In riunioni a gruppi, non troppo numerosi per permettere a tutti di

partecipare in maniera attiva, un moderatore restituisce i risultati della

survey, sottolineando le criticità e le perplessità emerse. Si procede poi

con la discussione: ogni partecipante è libero di esprimere le proprie

opinioni in merito. Il focus group è un’attività utile per studiare in profondità

le problematiche, permettere ad ognuno di dire la propria idea, raccogliere

indicazioni utili, difficoltà, proposte e miglioramenti da apportare. Anche se

lo scopo principale è naturalmente quello di spiegare gli obiettivi che i

case studies sono in grado di raggiungere, e la loro importanza strategica

per l’azienda.

Per raggiungere il target esterno invece, ovvero i clienti, la proposta è di

predisporre la creazione di una brochure. Un documento che esponga la

metodologia delle storie di successo, il suo iter di costruzione ed i suoi

obiettivi, sottolineandone l’efficacia comunicativa e i risultati in termini di

immagine e reputazione che si possono ottenere.

Tutto questo ha come obiettivo la costruzione e lo sviluppo di un

ambiente fertile dove condividere la conoscenza, relazionarsi con i clienti

e le loro esigenze.

La metodologia dei casi di successo è un processo che coinvolge tutta

l’azienda e la sua declinazione in una organizzazione come Aton rivela

tutta la sua efficacia nella gestione del patrimonio di conoscenze. Tutta

l’enorme mole di dati, informazioni ed opinioni riguardo a progetti e clienti

viene elaborata ed esplicitata attraverso uno strumento semplice,

fortemente comunicativo ed impattante. Uno strumento che offre

l’opportunità ad aziende che operano basandosi su progetti e clienti, e che

non hanno sbocco nel mercato mainstream, di comunicare all’interno ed

all’esterno il proprio operato, di far parlare di sé attraverso articoli di

giornale, eventi, siti web.

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Uno strumento che coinvolge non solo l’azienda, ma anche i suoi clienti,

invitandoli a partecipare a questo circolo virtuoso che coniuga relazione e

comunicazione. L’efficacia comunicativa raggiunge poi i massimi livelli

nella “parola al cliente”: è esso stesso a parlare di Aton e dei vantaggi che

i prodotti e servizi offerti hanno apportato al proprio business.

Figura n. 25: la “parola al cliente” Unico, società di distribuzione farmaceutica (da

www.aton.eu/casestudies/index.html)

Come si nota dalla figura n. 25, la soddisfazione di un cliente, in questo

caso il maggiore distributore farmaceutico interamente di proprietà dei

farmacisti e terzo polo a livello italiano, risulta molto efficace per

pubblicizzare le soluzioni Aton e l’azienda stessa, con particolare

riferimento ai potenziali clienti con analoghe esigenze.

L’utilizzo delle storie di successo è ormai ben radicato nelle

politiche aziendali di Aton; il top management e la Direzione Marketing

sono consci dei risultati ottenuti grazie a questo strumento e intendono

proseguire sulla strada che è stata tracciata.

Alla luce dell’analisi fatta in questa tesi, l’azienda deve puntare a

consolidare la propria reputazione anche al di fuori del settore del mobile,

per riuscire a raggiungere un più ampio mercato: per fare questo, oltre al

rafforzamento della corporate reputation, si deve puntare allo sviluppo

della awareness del brand, per riuscire superare le diffidenze nei riguardi

di prodotti e servizi altamente innovativi, ma poco conosciuti.

“Riteniamo la scelta di Aton come partner tecnologico uno degli elementi di successo del nostro piano industriale dell'ultimo quadriennio. Un'azienda capace di supportare la nostra capacità operativa con soluzioni integrate, soprattutto relative al Service, che vanno ben oltre il semplice rapporto commerciale di fornitura dei dispositivi e che si sviluppano costantemente in nuove attività di re-engineering da cui ambedue le nostre Società traggono benefici percepibili".

Ing. Antonio M. Aitoro - Direttore Operazioni di Unico

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Per questo Aton ha intrapreso la via delle partnership con i propri clienti

più prestigiosi: come abbiamo visto, l’azienda, leader nel suo settore in

Italia, possiede tra i suoi tremilacinquecento clienti le principali aziende e

multinazionali. Gli obiettivi sono la crescita, il consolidamento della

leadership in Italia e l’espansione all’estero.

Come sottolineato, le storie di successo rappresentano un ottimo

strumento per raggiungere gli obiettivi: rendere stabili ed interattive le

relazioni con i clienti, sfruttare la forza del loro marchio e la loro

soddisfazione riguardo ai prodotti e servizi offerti per promuovere

l’immagine di Aton in Italia e nei mercati esteri dove l’azienda è presente.

Questo sarà possibile se Aton riuscirà a far comprendere l’efficacia della

metodologia dei casi e la loro importanza strategica, sia ai propri

dipendenti che ai clienti.

Perché il maggior numero di attori si senta coinvolto in questo processo di

crescita, non soltanto il top management e la Direzione Marketing.

Per sapere cosa fare e in che direzione andare, bisogna sapere cosa si è

fatto nel passato e cosa si fa nel presente. Le teorie sulla learning

organization e sulla gestione del knowledge indicano la strada della

riflessione e comprensione sul proprio operato, sulle esperienze fatte e

sugli insegnamenti tratti: il learning by doing.

I case studies, con la loro adattabilità e flessibilità, costituiscono un

ottimo strumento operativo per raggiunge questi obiettivi, per far riflettere

l’organizzazione, per individuare ed esplicitare gli insegnamenti, le

scoperte e le innovazioni contenute nelle esperienze passate.

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