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PARTE 2 Análisis no lineal

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Bagni G.T., D’Amore B. (2007). Leonardo e la matematica. In: Giacardi L., Mosca M., Robutti O. (eds.) (2007). Conferenze e Seminari 2006-2007. Associazione Subalpina Mathesis – Seminario di Storia delle Matematiche “T. Viola”. Torino: Kim Williams Books. 89-102.

LEONARDO E LA MATEMATICA

Giorgio T. Bagni Dipartimento di Matematica e Informatica Università di Udine

Bruno D’Amore Dipartimento di Matematica Università di Bologna

Sommario La matematica presente nei codici leonardeschi, pur risentendo del carattere incostante del genio di Vinci, deve essere distinta in due periodi: prima dell’incontro con Luca Pacioli (fase in cui segnaliamo, ad esempio, l’uso non sempre corretto di frazioni) e dopo tale incontro. Per quanto riguarda questa seconda fase saranno esaminate alcune ricerche riguardanti la sezione aurea, le costruzioni “con riga e compasso”, problemi di quadratura delle lunule e gli studi sulle tassellature. Secondo alcuni critici, Leonardo non comprese appieno il metodo scientifico e non possedeva una metodologia; ma non possiamo dimenticare che Leonardo morì quasi un secolo prima della svolta galileiana e che la sua genialità, la sua intuizione, il suo acume hanno appassionato l’umanità per cinquecento anni. 1. Introduzione

«Scienza e umanesimo: un tema antico e anche un po’ consunto», osserva non senza ragione, J. Bruner. «Quando si evocava questo vecchio tema, lo si faceva o per mettere in luce la ricchezza e il calore perenni delle discipline umanistiche (in contrasto con la freddezza della scienza) o per esaltare la distaccata razionalità della scienza (in contrasto con l’evanescenza e la partigianeria delle discipline umanistiche)» (Bruner, 2005, p. 56). Questa posizione merita un approfondimento: infatti, seguendo ancora Bruner, al di là di una vecchia contrapposizione ormai insostenibile, «scienza e discipline umanistiche hanno finito per essere viste entrambe come prodotti artificiali della mente umana, come creazioni che scaturiscono da diversi modi di usarla. Il mondo del Paradiso perduto di Milton e quello dei Principia di Newton non esistono solo nella mente degli uomini; entrambi esistono nel “mondo oggettivo” della cultura» (Bruner, 2005, pp. 56-57; il riferimento conclusivo è a Popper, 1983; uno spunto critico può essere visto ad esempio in: D’Amore, 2001).

Proprio nel mondo oggettivo della cultura è dunque necessario inquadrare ogni momento della storia del pensiero umano e in particolare quella grande “rivoluzione rinascimentale” che L. Geymonat e R. Tisato riassumono in tre componenti: «1) recupero del mondo classico e formazione di una nuova concezione, della natura e di dio; 2) travaglio religioso e frattura del corpus christianorum in chiesa riformata e chiesa cattolica; 3) elaborazione del metodo matematico-sperimentale e conseguente avvio alla scienza moderna» (Geymonat, Tisato, 1970, p. 7). Se spesso gli elementi 1) e 2) sono stati considerati di primaria importanza dagli storici, recentemente «si comincia a comprendere che il terzo fu forse più importante, da un punto di vista storico generale, dei primi due, ai quali peraltro – in specie al primo – è strettamente connesso» (Geymonat, Tisato, 1970, p. 7; Conti, 1992).

Il fatto che la rivoluzione rinascimentale sia da porre in relazione con l’esordio della scienza moderna evidenzia che il periodo a cui facciamo riferimento deve essere considerato uno dei più vivaci e stimolanti dell’intera storia della cultura occidentale e che la sua influenza sulla vita e sulla cultura dei giorni nostri è vasta e importante; anche solo un primo accostamento critico ad esso, dunque, può rivelarsi assai delicato. Gli interessi coltivati (non solo scientifici), i parametri metodologici, gli standard di rigore sono, tra il Quattrocento e il

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Cinquecento, in pieno divenire: la diffusione della stampa a caratteri mobili, ad esempio, si sviluppa dalla seconda metà del XV secolo (Romano, 1969). Al Rinascimento va fatta risalire la svolta che portò artisti e matematici ad elaborare le regole precise per la rappresentazione del reale (Cassina, 1921; Bonelli, 1978), norme codificate in importanti trattati sistematici: le idee di Filippo Brunelleschi (1377-1446) furono riprese da Leon Battista Alberti (1404-1472), autore del lavoro Della Pittura (1435-1436, stampato nel 1511). Piero della Francesca (1416?-1492), uno dei massimi pittori del XV secolo e di tutta la storia dell’arte, è anche un profondo matematico (Arrighi, 1982): egli nel 1475 circa scrisse De prospectiva pingendi, il più importante trattato sulla prospettiva rinascimentale (Piero della Francesca, 1982); ricordiamo che Piero è anche autore di due opere di argomento matematico: una di esse è De quinque corporibus regularibus (ripresa e pubblicata a Venezia nel 1509 in lingua italiana da Luca Pacioli nella III parte della Divina proporzione: Mancini, 1915); l’altra opera matematica di Piero è il Trattato d’abaco (Bagni, D’Amore, 1994).

Paul K. Feyerabend (1924-1994) osserva tuttavia che «una tendenza dominante nelle discussioni metodologiche è quella di accostarsi ai problemi della conoscenza, per così dire, sub specie aeternitatis. Le formulazioni vengono affrontate fra loro senza alcun riguardo alla loro storia» (Feyerabend, 2003, p. 119). Non sarà forse superfluo chiarire che non esiste alcuna forma di sapere (scientifico o di qualsiasi altra specie) che possa essere considerata indipendente da una collocazione storica. Accettiamo dunque, da parte dello stesso Autore, la convinzione che l’intera conoscenza umana «è un processo storico complesso ed eterogeneo che contiene anticipazioni ancora vaghe e incoerenti di future ideologie accanto a sistemi teorici molto sofisticati e a forme di pensiero antiche e fossilizzate. Alcuni suoi elementi sono disponibili nella forma di asserzioni scritte chiare e precise, mentre altri sono nascosti e diventano noti solo per contrasto, per confronto con opinioni nuove e insolite» (Feyerabend, 2003, p. 120, corsivi nel testo).

Queste premesse saranno utili per considerare nella sua ricchezza la figura di Leonardo da Vinci (1452-1519) e i suoi rapporti, non semplici, con la matematica.

2. Leonardo da Vinci

Secondo A. Rupert Hall e Marie Boas Hall, «nel XV secolo l’Italia era la più prospera e colta regione d’Europa. Fu qui che per primo, e con maggior rigoglio, fiorì il Rinascimento dell’arte e della letteratura, della scienza e della tecnologia» (Hall, Boas Hall, 1979, p. 177). E fu in questo ambiente che uomini come Leonardo ebbero la possibilità di esprimere la propria eccezionale, ricchissima personalità. Eppure, anche se le università italiane del XVI secolo eccellevano per il livello dei loro insegnamenti (seguiamo ancora Hall, Boas Hall, 1979, p. 177), dobbiamo tuttavia ricordare che Leonardo fu per tutta la vita amareggiato d’essere “omo sanza lettere”, per sua stessa dichiarazione, in quanto i suoi studi da autodidatta non gli avevano permesso di studiare né latino né greco, e ciò rendeva impossibile un accesso diretto alle opere classiche, specialmente scientifiche, tradotte appunto in quelle due lingue. Dunque Leonardo sviluppò il proprio genio ai margini o addirittura al di fuori delle scuole di pensiero “ufficiali” (Bagni, D’Amore, 2006).

Potrà essere interessante fare riferimento, ad esempio, a uno dei campi di ricerca ritenuti, all’epoca, più importanti e significativi: l’astronomia. I grandi pionieri rinascimentali, Georg Peurbach (1423-1461) e Johannes Müller Regiomontanus (1436-1476), speravano che la disponibilità dell’Almagesto tolemaico in lingua greca potesse portare ad una rivisitazione dell’antico sistema geocentrico che, nella versione originale, era affetto da notevoli deficienze (evidenziate dal pesante scostamento delle osservazioni dalle previsioni). Invece le riflessioni di un astronomo che fu profondo conoscitore di Tolomeo, riflessioni maturate proprio durante i suoi studi a Padova, a Ferrara e soprattutto a Bologna (con Domenico Maria Novara negli ultimi quattro anni del XV secolo) portarono ad un vero, radicale e definitivo ribaltamento di

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prospettiva: quell’astronomo, Nicola Copernico (1473-1543), comprese che proprio la sfera che Tolomeo assegnava ad ogni pianeta e al Sole rifletteva il moto reale della Terra e tra il 1507 e il 1515 iniziò a scrivere il proprio De revolutionibus orbium coelestium (che pubblicò solo poco prima di morire, nel 1543). In una fase così vivace dello sviluppo dell’astronomia, quale fu la posizione assunta da Leonardo?

Nel Codice Atlantico e nel Codice Leicester (ex Codice Hammer) troviamo innumerevoli annotazioni e spunti. Ma il carattere sempre incostante di Leonardo (Vasari, 1964, Nardini, 2004) gli impedì di concretizzare il progetto di un trattato sul “cielo” e sul “mondo” che avrebbe dovuto affiancare gli studi di astronomia a quelli di geologia. I pochi appunti che ci restano appaiono spesso contraddittori: da un lato indicano che Leonardo riteneva la Terra al centro del sistema, dall’altro esprimono a volte perplessità a proposito del moto del Sole; in alcune occasioni lo studio dei corpi celesti veniva poi ricondotto a questioni di illuminazione, proprio nella prospettiva di quella “arte-scienza” che si traduce «in un vantaggio per il pittore, ma anche in un forte impegno della sua attività intellettuale, [vera] chiave del progetto leonardesco, di per sé assurdo, di ricomporre globalmente il sapere» (Chastel, 1978, p. 815). Un progetto forse assurdo, come sottolinea André Chastel (1912-1990), ma una sfida affascinante, maturata nello spirito (anche se, come rilevato, al di fuori della cultura “ufficiale”) dell’epoca: il genio del mancino di Vinci si sviluppò dunque in termini quasi anarchici, in forma spesso isolata.

Dall’astronomia è spontaneo passare alla matematica. Karl Jaspers (1883-1969), grande filosofo e psichiatra tedesco, in una conferenza tenuta più di mezzo secolo fa al Kunsthistorisches Seminar dell’Università di Basilea, rileva che «in Leonardo il discorso matematico è in verità frequente. Ci sono rimasti di lui molti schizzi matematici»; ma «ci si può domandare: sa in generale Leonardo cosa sia la matematica?» (Jaspers, 2001, p. 36; inoltre: Loria, 1929-1933; Marcolongo, 1937; Marinoni, 1982). In effetti, i rapporti tra Leonardo e la matematica furono influenzati da molti fattori, tra i quali l’importante amicizia (Marinoni, 1986) con Luca Pacioli (1445-1514), e non portarono, come vedremo, a risultati davvero significativi, frutto di ricerche organiche. Come sopra notato, il carattere incostante ha portato Leonardo ad indagare di tutto, frequentemente con folgoranti intuizioni che si sono però limitate a restare tali. Anche Jaspers ammette: «un dato di fatto è evidente: Leonardo era un frammentario»; tuttavia bisogna ricordare che «l’opinione secondo la quale egli si sarebbe disperso, perché lunatico, è contraddetta dall’ostinazione e dall’estrema esattezza del suo effettivo lavoro» (Jaspers, 2001, p. 103).

3. Leonardo e il suo tempo

Non è semplice, in generale, accostarsi a un personaggio storico. Hans G. Gadamer (1900-2002) osserva che spesso lo studioso di storia sceglie «i concetti con cui descrive la caratteristica fisionomia storica dei suoi oggetti senza fare esplicitamente attenzione alla loro origine e alla loro giustificazione […] senza rendersi conto che l’appropriatezza descrittiva che trova nei concetti che sceglie può essere estremamente pericolosa per le sue intenzioni, nella misura in cui appiattisce ciò che è storicamente lontano su ciò che è familiare» (Gadamer, 2000, p. 809). Dunque la valutazione di un’epoca lontana non può non risentire del bagaglio culturale, e in particolare metodologico, dello storico stesso, dei suoi parametri di valutazione. Una scelta opposta sarebbe inevitabilmente illusoria: sempre riferendosi al comportamento dello storico, Gadamer nota che «la sua ingenuità diventa davvero abissale quando egli comincia a rendersi conto della problematicità della sua posizione, e arriva per esempio a porre come principio che, nella comprensione storica, si debbano lasciar da parte le proprie idee, cercando di pensare solo secondo i concetti dell’epoca che si vuole conoscere» (Gadamer, 2000, p. 809). E si noti, a tale riguardo, che «l’ingenuità non consiste nel fatto che questo principio della coscienza storica rimane lettera morta, perché l’interprete non riesce

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mai a raggiungere l’ideale di metter completamente da parte se stesso» (Gadamer, 2000, p. 809). Il problema centrale è ben diverso e certamente più profondo; infatti «pensare storicamente significa in realtà portare a compimento quella trasposizione che i concetti del passato subiscono quando noi cerchiamo di pensare in base ad essi. Il pensare storicamente comporta sempre costitutivamente una mediazione tra quei concetti e il proprio pensiero» (Gadamer, 2000, pp. 809-811, corsivo nel testo).

Dunque, il nostro sguardo sulla vita e sulla personalità di Leonardo da Vinci non può né dovrebbe prescindere dal nostro moderno bagaglio culturale. Anzi, è proprio la relazione dialettica tra la nostra cultura ed i “concetti del passato” che rende infine possibile la nostra comprensione e costituisce ciò che chiamiamo “storia”. D’altro canto, com’è ovvio, sarebbe errato pensare di poter trasferire semplicemente gli attuali riferimenti culturali (ad esempio le nostre moderne concezioni sulla delicata questione del “rigore” metodologico) nella considerazione di un periodo storico: una mediazione deve comunque avvenire. L’ineliminabile presenza di una «lente non del tutto trasparente» (Confrey, Smith, 1994, p. 173), determinata dalle concezioni moderne, rende opportuna l’adozione consapevole di un punto di vista, considerando le distorsioni che ciò ovviamente può introdurre e tenendo presente che, attraverso l’adozione di tale prospettiva, stiamo ponendo in contatto due culture «diverse ma non incommensurabili» (Radford, Boero, Vasco, 2000, p. 165; inoltre: Radford, 1997).

La personalità di Leonardo (ma, naturalmente, non intendiamo con ciò affermare che considerazioni analoghe non possano valere anche per altri personaggi dell’epoca) può essere importante e forse decisiva per inquadrare ruolo ed attività dello scienziato-artista rinascimentale. Nota Morris Kline (1908-1992) che «gli artisti rinascimentali erano uomini universali, cioè venivano ingaggiati dai principi per portare a termine ogni tipo di incarico, dalla creazione di grandi dipinti alla progettazione di fortificazioni, canali, ponti, macchine da guerra, palazzi, edifici pubblici e chiese. Erano perciò obbligati a imparare la matematica, la fisica, l’architettura, l’ingegneria, il taglio delle pietre, la lavorazione dei metalli, l’anatomia, la lavorazione del legno, l’ottica, la statica e l’idraulica. Lavoravano manualmente e nello stesso tempo affrontavano i problemi più astratti. Almeno nel XV secolo, erano i migliori fisici matematici» (Kline, 1991, I, p. 271; si vedano in particolare le pp. 253-269; Struik, 1981; Bagni, 1996; Galluzzi, 1996). E Jaspers sottolinea: «è necessario risalire alla condizione sociologica dell’artista nel Rinascimento. Tutti gli uomini erano sudditi, compreso l’artista, essendo egli assegnato al servizio dei potenti, come principi, città e chiese. Tuttavia l’artista dotato di qualche talento era ricercato e corteggiato. Lui soltanto non era un suddito, ma uomo libero […] Non aveva importanza la sua origine, nel suo talento stava la sua patente di nobiltà. Era in suo potere imparare a conoscere tutto quanto esisteva al mondo» (Jaspers, 2001, p. 83).

4. Leonardo e la matematica

Come accennato, è opportuno distinguere l’attività matematica di Leonardo in “prima dell’incontro con Luca Pacioli” e poi. Inizialmente Leonardo non sembra trovarsi a proprio agio neppure con l’aritmetica elementare, ad esempio con le frazioni. Riportiamo alcuni dei tentativi di operare con esse (Bagni, D’Amore, 2006):

Codice Atlantico, foglio 191 v.

Leonardo scrive: «(…) sarà 1212

cioè 01

». Poco oltre, sta trattando con i seguenti numeri:

1121

, 161

, 121

; li trasforma (correttamente) in frazioni improprie: 1213

, 67

, 23

; ora Leonardo

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somma queste tre frazioni e ottiene 78

216. Il risultato è del tutto sbagliato, in quanto dovrebbe

essere 1245

cioè 4

15. Leonardo sembra non riconoscere 12 come denominatore comune e

giunge a quell’improbabile 78. Codice L, foglio 21 v.

Si deve ridurre la frazione 360270

ai minimi termini, operazione che ci aspettiamo fatta con

perizia da qualsiasi studente; si vede subito che si può intanto semplificare per 10 ma, con un minimo di acume, direttamente per 90. Ma Leonardo pasticcia un po’, giungendo alla frazione

corretta 43

più per intuito e analogia che per matematica.

Codice L, foglio 10 v.

Leonardo deve eseguire 32

:43

; sa che si dovrebbe ottenere 98

(lo dice) ma contesta il

risultato: «Quest’è falso imperò ch’egli è più 98

che non è 32

». La contestazione è facilmente

spiegabile: se si divide A per B, ottenendo C, C deve essere minore di A, altrimenti, che razza di “divisione”, cioè “partizione”, è? (D’Amore, Oliva, 1994).

Codice Atlantico, foglio 665 r.

Si vuol moltiplicare 22

per sé stesso; Leonardo ottiene 22

22 × =

24

cioè 2. Da ciò deduce

che 22

2 = e dunque estende, generalizzando: 33

3 = , 44

4 = , …

Per quanto riguarda la geometria, G. Loria osserva che Leonardo si sarebbe

«grandemente giovato dei due splendidi volumi in-f. del dotto e battagliero filologo Giorgio Valla (1406-1457), pubblicati postumi a Venezia nel 1501 col titolo De Expetendis, et fugiendis rebus opus; ché ivi si trovano importanti squarci di scienziati latini e greci (quali Boezio, Erone, Ippocrate da Chio ecc.) che sino a quel giorno non avevano avuto l’onore della stampa» (Loria, 1929-1933, p. 263, n. 1). Non escludiamo che Leonardo possa aver tratto giovamento dalla pubblicazione citata; ma non possiamo dimenticare la scarsissima dimestichezza dell’“omo sanza lettere” con il latino dei testi geometrici del periodo. Pertanto gli spunti eventualmente riconducibili a pubblicazioni come quella citata avrebbero richiesto la continua collaborazione di qualche traduttore esperto in cose matematiche; un’analoga considerazione vale anche per Euclide: la versione italiana degli Elementi curata da Tartaglia riassumeva le sue lezioni veneziane, iniziate nel 1534, e dunque fu resa pubblica dopo la morte di Leonardo (Loria, 1929-1933, p. 292).

Grande interesse dimostra Leonardo verso la costruzione dei poligoni regolari con riga e compasso; divide la circonferenza in 3, 4, 5, 6, 7, 8 e così via in altre quantità di parti uguali, fino al massimo di 48 lati (Codice A, Parigi, f. 11 v.), anche se queste divisioni appaiono in pagine sparse ed in diversi Codici. Molte di tali costruzioni sono solo approssimate.

Spesso Leonardo non dà spiegazioni del perché delle sue indicazioni di procedura, mentre altre volte dichiara di voler dare la ”ragione” (dimostrazione); più che di dimostrazioni, però, si tratta sempre di semplici spiegazioni dell’operato. Nel Forster III (f 68 v. e 69 r), ad

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esempio, affronta il problema di costruire un quadrato somma di due dati, fornendo un procedimento solamente approssimato. Leonardo trascriveva comunque quel che studiava, spesso con commenti personali; tali appunti, per quanto concerne la matematica, sono sempre in volgare, mai in latino, segno del fatto che studiava i trattati che riusciva a capire; questo vezzo non lo abbandonò mai, per cui avremo, anche prima dell’incontro con Pacioli, trascrizioni di suo pugno di interi brani della Summa del frate toscano.

Il problema collegato alla lettura del latino e del greco non impedì comunque a Leonardo di accedere alla cultura matematica del tempo. Ma nel 1493 ad Urbino o nel 1494 a Venezia, esce finalmente a stampa non in latino, l’opera enciclopedica di Luca Pacioli, Summa de aritmetica, geometria, proporzioni et proporzionalità. Leonardo ne acquista senza indugio una copia che ordina da Milano e paga 119 soldi (come annota, con la solita minuzia, nel codice Atlantico, foglio 288 r). La studia e ne trae mille ispirazioni, fino a riassumere i capitoli relativi alla teoria delle proporzioni nel codice Madrid 8936. Ma, più che altro, lo affascina la geometria e in particolare la quadratura del cerchio e la teoria delle lunule.

L’incontro vero e proprio tra Leonardo e Luca avviene a Milano nel 1496, quando il secondo è incaricato dal Duca di insegnare pubblicamente la matematica. L’amicizia e la reciproca stima tra i due sono immediate e fortissime, con frequenti scambi di visite e di favori. Lo stesso Pacioli narra, nelle prime pagine del De Divina Proporzione, di un dibattito («scientifico duello») avvenuto alla corte di Ludovico il Moro il 9 febbraio 1498, con la presenza di ecclesiastici, teologi, medici, ingegneri e «inventori di cose nuove» (tra questi ultimi è inserito Leonardo).

Da Luca, Leonardo impara che cosa vuol dire “dimostrazione” ed assume la denominazione di “avversaria” per l’enunciato da refutare (ancora nel XVIII secolo, il frate sanremese Gerolamo Saccheri chiamava “inimica” l’ipotesi dell’angolo acuto che voleva dimostrare inaccettabile per liberare Euclide da ogni neo ed eliminare ogni possibile geometria non o anti-euclidea: D’Amore, Matteuzzi, 1985). La geometria del Nostro si fa dunque più colta, i problemi proposti sono quasi sempre tratti dall’opera di Pacioli, spesso a sua volta tratti da Euclide. In particolare, Leonardo si innamora della sezione aurea, presentatagli da Luca, che la chiama “divina proporzione”. Molti dei disegni e molte delle riflessioni delle pagine geometriche dei codici leonardeschi hanno come tema la sezione aurea (spesso, però, i calcoli che accompagnano le figure sono piuttosto maldestri).

Per esempio, nel Codice K, f. 74 v, Leonardo divide una “linea” (segmento) in sezione aurea, usando la proposizione XI del II Libro di Euclide, che illustra come «dividere una retta [segmento] data in modo che il rettangolo compreso da tutta la retta e da una delle parti sia uguale al quadrato della parte rimanente» (Frajese, Maccioni, 1970, p. 185; si noti che tale problema viene affrontato anche nella proposizione XXX del VI libro degli Elementi, con l’impiego delle proporzioni). Leonardo trova le misure 4 ed 8, approssimando in maniera assai sbrigativa; calcoli appena più corretti danno invece rispettivamente: 4,5835921 e 7,4164079. Ovviamente, si tratterebbe di valori irrazionali, cosa che Leonardo avrebbe anche potuto non sapere; in ogni caso, anche volendo esprimere i risultati approssimati, tra 7,4164079 e 8 c’è notevole differenza…

Leonardo, tuttavia, si innamora della matematica, man mano che l’apprende, tanto da scrivere, come preludio al suo trattato di Anatomia (Quaderno IV, f. 14 r): «Non mi legga chi non è matematico nei miei principi» (come non ricordare l’antico ammonimento di Platone?). Ma, non lo si dimentichi, per Leonardo, “matematica” è termine da intendersi in senso vasto, come continua a dichiarare nel Codice G, f 96v: «Delle scienze – Nessuna certezza è dove non si po applicare una delle scienze matematiche, ovver che non sono unite con esse matematiche», tanto che (Codice E, f. 8 v): «La meccanica è il paradiso delle scienze matematiche, perché in quella si viene al frutto matematico».

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Altro tema amato da Leonardo riguarda il settore che oggi va sotto il nome di “problemi classici della geometria”, i problemi lanciati nell’antichità greca nella speranza che fossero risolubili con riga e compasso e che invece si dimostrarono (dopo secoli) impossibili da risolvere operando solo con questi mezzi (Kline, 1991; D’Amore, 1993). Tra essi, spiccano per interesse e insistenza quelli della quadratura del cerchio, della trisezione di un angolo generico e la duplicazione del cubo. I Greci diedero soluzioni diverse a ciascuno di questi tre problemi; ma si trattava sempre di soluzioni ottenute con metodi diversi da quello “con riga e compasso”. Nel Codice Atlantico, Leonardo affronta il problema cosiddetto di Delo, cioè della costruzione di un cubo di volume doppio di uno dato (D’Amore, Matteuzzi, 1976): nel f. 161 r,si considerano un cubo di lato 4 (dunque di volume 64) ed un altro di lato 5 (dunque di volume 125) affermando che il secondo è il doppio del primo. Ora, effettivamente, poiché la radice di 128 (doppio di 64) è approssimativamente 5,039, la differenza tra questo lato (voluto) e quello proposto 5, è davvero minima; dal punto di vista matematico, la proposta di soluzione di Leonardo è inaccettabile, mentre, dal punto di vista empirico, effettivamente la proposta è ragionevole.

Certamente una delle passioni geometriche più longeve di Leonardo, alla quale dedicò molte energie e molti fogli di vari codici, è la quadratura di figure curvilinee e in particolare lo studio delle lunule. Non va sottaciuto il fatto che già Leon Battista Alberti, un autore che Leonardo leggeva avidamente, aveva scritto un De lunularum quadratura. Forse il sogno di quadrare il cerchio, che accompagnò Leonardo tutta la vita, prende le mosse proprio da questa opera dell’Alberti (D’Amore, 2005).

Veniamo ora a una questione che spesso chiama in causa il Leonardo matematico. Diversi autorevoli Autori citano supposti “teoremi di Leonardo” relativi a tassellature del piano e a gruppi di simmetrie. In varie pagine del Codice Atlantico ed anche altrove, Leonardo disegna delle tassellature del piano con piastrelle che non sono poligoni regolari: ma si tratta soltanto di disegni accompagnati da commenti, mai da discorsi teorici al riguardo. Leonardo studiò anche approfonditamente le simmetrie in molti codici, per esempio nel Codice Atlantico, in quelli conservati a Parigi, nel Ashburnham, nel B, nel MSB57, come rilevato con estrema puntigliosità in Richter (1970) e Bramly (1991). Tali studi hanno, però, una ragione architettonica e uno scopo estetico assai evidenti: si tratta di studiare come disporre, in grandi cappelle circolari o sotto maestose volte, delle cappelle tutto attorno, in modo che siano simmetriche, in tutte le disposizioni simmetriche possibili. In base a questi disegni e grazie ad una ricorrente mistica del lavoro del Nostro, vari autorevoli studiosi hanno accennato in maniera più o meno esplicita a teoremi di Leonardo sulle simmetrie e, in particolare, sui gruppi ciclici di simmetria. Ma che c’è di vero?

Seguiamo P. Odifreddi: «Ancora una volta questi esempi» (quelli del gruppo delle simmetrie delle croci a braccia uguali, normali o uncinate) «sono caratteristici. Leonardo ha infatti dimostrato che i gruppi diedrali ed i gruppi ciclici costituiscono i soli insiemi di simmetrie possibili per i rosoni, le volte o le cupole. Per quelle figure, cioè, come le finestre delle cattedrali gotiche, o le decorazioni dei capitelli o dei foulard, che ammettono soltanto un numero finito di simmetrie e un centro: ossia, un punto che non viene mosso da nessuna di queste simmetrie. Se invece di un solo punto rimane invariato un intero segmento, allora l’unica possibile simmetria è una riflessione» (Odifreddi, 2005, p. 81). Inoltre: «Per classificare il tipo di simmetria di un rosone, dunque, bastano due osservazioni. Il suo gruppo è diedrale se il rosone appare uguale guardandolo dai due lati del muro, cioè di fuori e di dentro l’edificio, altrimenti è ciclico. E l’ordine del gruppo è uguale al numero degli spicchi che si ripetono» (Odifreddi, 2005, p. 82, in cui non sono forniti riferimenti bibliografici a tale proposito; ma essi sono impliciti, e autorevoli, confermati a voce dallo stesso Autore).

Nel suo celeberrimo e citatissimo volume Transformation geometry (1982), il grande matematico George E. Martin nelle pagine 66-68 attribuisce esplicitamente a Leonardo due

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teoremi che chiama proprio “teoremi di Leonardo”, relativi a gruppi finiti di simmetrie. A sua volta, egli cita come fonte di questa informazione un altro celeberrimo libro di un altro colosso della geometria, Hermann Weyl (1885-1955): il libro è Symmetry, pubblicato nel 1952 a Princeton (la traduzione italiana è del 1962). In esso, alle pagine (dell’edizione italiana) 73, 81, 102-106, Weyl tratta di gruppi ciclici di simmetrie e, in effetti, cita più volte Leonardo, ma senza dare neppure una indicazione sul dove il Nostro avrebbe dimostrato o almeno trattato tali teoremi (Weyl, 1952). Il che ci autorizza a ritenere che questi risultati non siano realmente “teoremi” di Leonardo ma che, ancora una volta, una consolidata tradizione romantica abbia voluto regalare al genio di Vinci quel che non gli appartiene per esaltarne oltre ogni limite la creatività. Egli, certo, molto pensò su tali temi e molti eleganti schizzi e meravigliosi disegni lo confermano, ma in matematica schizzi eccellenti e disegni mirabili sono ben lungi dall’essere accettabili come veri e propri teoremi. 5. Riflessioni conclusive

L’eccezionale personalità di Leonardo, i suoi molteplici interessi artistici e scientifici, il suo approccio a volte incostante, ma sempre curioso, innovativo e straordinariamente creativo fanno dunque parte integrante dell’uomo libero del Rinascimento. Secondo alcuni critici severi, Leonardo fu un uomo che «non comprese appieno il vero metodo scientifico [… e che] non possedeva una metodologia né una filosofia di fondo» (Kline, 1991, p. 262). Ma non possiamo dimenticare che, a proposito dell’approccio alle cose della scienza, Leonardo morì quarantacinque anni prima della nascita di Galileo Galilei.

Citiamo però ancora Jaspers: «ove si ritenga Leonardo un fondatore, tra gli altri, della moderna scienza matematica della natura, questo può essere agevolmente confutato ed è pertanto facile, almeno in apparenza, screditare tutta la sua scienza. Se si vede in lui uno scienziato moderno in senso universale, pur essendo invero ben evidenti le sue numerose e ammirevoli scoperte anatomiche, geologiche e botaniche, tuttavia esse restano oggettivamente superate e dunque ancora interessanti soltanto dal punto di vista storico [Richter, 1970; Bramly, 1991; Perdetti, Laurenza, Salvi, 2005]. Se si pensa a Leonardo come al grande pittore, questa grandezza è inattaccabile, ma al confronto ad altri grandi pittori, essa risulta ancora riconoscibile solo attraverso un’opera frammentaria […] In una cosa però la sua incomparabile grandezza appare manifesta e sovrastorica: nella sostanza di quella totalità da cui discendevano tutte queste ricerche e questa creatività artistica […] È qui che lo scienziato, il tecnico e l’artista sono una realtà unica. […] Questa unità la si può chiamare il filosofo Leonardo, ove s’intenda la filosofia non già come un ramo delle scienze, non già come dottrina, bensì come un conoscere universale che va prendendo coscienza di sé come di un tutto e se stesso riconduce sotto la sua propria guida: come una forma vitale, quindi, di questa umana esistenza che assume in sé il conoscere» (Jaspers, 2001, pp. 99-100; si veda inoltre: Cassirer, 1950, p. 254).

Leonardo dunque seppe sfidare la cultura e l’arte del suo tempo con un acume ed una freschezza che, a distanza di mezzo millennio, non cessano di conquistare. In questa freschezza, nella ricerca appassionata e libera è, forse, il grande messaggio del mancino di Vinci.

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Torino, 11 gennaio 2006