leskov nikolaj semenovič - il viaggiatore incantato

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I Navigavamo sul lago Làdoga dall'isola di Kònevec a quella di Valaàm e lungo il viaggio approdammo per necessità della navigazione al porto di Korela. Qui molti di noi ebbero la curiosità di scendere a terra e si recarono su vivaci cavallini finnici a visitare la deserta cittadina. Poi il capitano terminò i preparativi per riprendere il viaggio e salpammo. Dopo la visita di Korela era del tutto naturale che il discorso cadesse su questo povero sebbene straordinariamente antico villaggio russo, di cui è difficile immaginare qualcosa di più triste. Sulla nave tutti condividevano questa opinione e uno dei passeggeri, persona incline alle generalizzazioni filosofiche e agli scherzi politici, osservò che non riusciva assolutamente a capire come mai a Pietroburgo vigesse il costume di spedire le persone scomode in località più o meno remote, con gravi spese per l'erario a causa del loro trasporto, quando lì, a due passi dalla capitale, sulle coste del Làdoga c'era un luogo così eccellente come Korela, dove anche i liberi pensatori più incalliti non avrebbero potuto resistere all'apatia della popolazione e alla noia spaventosa di una natura opprimente e avara. «Sono sicuro», disse questo viaggiatore, «che nel caso in questione è immancabilmente colpa della routine burocratica, oppure, forse, in ultima istanza, della mancanza delle necessarie informazioni». Qualcuno che viaggiava sovente da quelle parti, replicò che pareva che anche lì, in epoche diverse, avessero vissuto non so quali proscritti, ma che tutti quanti, a quanto sembrava, non avessero resistito a lungo. «Un seminarista, un giovanotto gagliardo, fu mandato qui come sagrestano per la sua insolenza (le deportazioni di questo genere non sono mai riuscito a capirle). Dunque, arrivato qui, a lungo si era fatto animo sperando sempre di migliorare in qualche modo la sua sorte, ma poi si mise a bere e bevve a tal punto che uscì completamente di cervello e mandò una supplica perché piuttosto si ordinasse al più presto "di fucilarlo o di arruolarlo come soldato, oppure, se ciò fosse stato impossibile, di impiccarlo"». «E quale risoluzione fu adottata in conseguenza?» «Mm... n... non so davvero; egli comunque non attese questa risoluzione: si impiccò di sua iniziativa». «E fece benissimo» interloquì il filosofo. «Benissimo?», replicò il narratore, evidentemente un mercante e, in aggiunta a ciò, persona posata e religiosa. «Perché no? Per lo meno morì e buona notte al secchio». «Come "buona notte al secchio", signore? E nell'altro mondo cosa lo aspetterà? I suicidi, infatti, saranno tormentati in eterno. Per loro nessuno può nemmeno pregare». Il filosofo sorrise velenosamente, ma non rispose nulla, in compenso tanto contro di lui che contro il mercante si fece avanti un nuovo contraddittore, che inaspettatamente prese le difese del sagrestano che aveva eseguito su di sé la condanna capitale senza il permesso delle autorità. Si trattava di un nuovo passeggero che, senza che nessuno di noi lo avesse notato, si era imbarcato a Kònevec. Fino a quel momento era rimasto in silenzio e nessuno gli aveva rivolto la minima attenzione, ma ora tutti si voltarono verso di lui e, probabilmente, si meravigliarono che avesse potuto passare fino a quel momento inosservato.Era un uomo di statura smisurata, con una faccia abbronzata e aperta, e folti capelli ondulati color piombo: tanto strano era il riflesso della sua brizzolatura. Portava la tonaca col largo cinturone di cuoio dei conversi e un alto berretto nero di panno. Era impossibile capire se fosse un converso o un monaco tonsurato, perché i monaci delle isole del Làdoga, non solo quando sono in viaggio, ma anche sulle isole, non sempre portano la kamilavka, ma, con semplicità campagnuola, si accontentano di semplici berrette. A questo nostro nuovo compagno di viaggio, che in seguito si rivelo una persona straordinariamente interessante, si potevano dare all'aspetto poco più di cinquanta'anni, ma era un gigante nel vero senso della parola, e inoltre un tipico, ingenuo, bonario gigante russo che ricordava il vecchio Il'jà Mùromec del bellissimo quadro di Verešè agin o del poema del conte Aleksàndr Tolstòj. Sembrava che per lui sarebbe stato più confacente, invece che indossare la tonaca, cavalcare un «baio» e vagare nella foresta con enormi ciocie ai piedi, annusando pigramente come «odora di resina e di fragole l'oscura selva». Ma nonostante tutta quella bonaria ingenuità non occorreva molto spirito d'osservazione per riconoscere in lui un uomo che aveva veduto molte cose e, come si suol dire, «navigato». Aveva un modo di fare ardito, sicuro di sé, sebbene senza sgradevole disinvoltura, e prese a parlare con una piacevole voce di basso, in tono manierato. «Tutto ciò non significa niente», cominciò emettendo pigramente e mollemente una parola dopo l'altra di sotto ai folti baffi brizzolati e attorti all'insù. «Io, quel che voi dite dell'altro mondo e dei suicidi, non lo accetto. E anche che nessuno possa pregare per loro è una sciocchezza,perché esiste un uomo che può, assai semplicemente e nella maniera più facile, por rimedio alla loro situazione». Gli fu domandato chi fosse quell'uomo che conosceva e aggiustava le faccende dei suicidi dopo la loro morte. «Ecco chi è», rispose il gigante con la tonaca, «in un villaggio della diocesi di Mosca c'è un pretuccio, un ubriacone incallito che per poco non lo spretavano, il quale traffica con loro». «Come lo sapete?» «Ma di grazia, signori, non sono io solo a saperlo: nel circondario di Mosca lo sanno tutti perché della faccenda si è occupato lo stesso eminentissimo metropolita Filarèt».

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Page 1: Leskov Nikolaj Semenovič - Il viaggiatore incantato

I

Navigavamo sul lago Làdoga dall'isola di Kònevec a quella di Valaàm e lungo il viaggio approdammo per necessità della navigazione al porto di Korela. Qui molti di noi ebbero la curiosità di scendere a terra e si recarono su vivaci cavallini finnici a visitare la deserta cittadina. Poi il capitano terminò i preparativi per riprendere il viaggio e salpammo.

Dopo la visita di Korela era del tutto naturale che il discorso cadesse su questo povero sebbene straordinariamente antico villaggio russo, di cui è difficile immaginare qualcosa di più triste. Sulla nave tutti condividevano questa opinione e uno dei passeggeri, persona incline alle generalizzazioni filosofiche e agli scherzi politici, osservò che non riusciva assolutamente a capire come mai a Pietroburgo vigesse il costume di spedire le persone scomode in località più o meno remote, con gravi spese per l'erario a causa del loro trasporto, quando lì, a due passi dalla capitale, sulle coste del Làdoga c'era un luogo così eccellente come Korela, dove anche i liberi pensatori più incalliti non avrebbero potuto resistere all'apatia della popolazione e alla noia spaventosa di una natura opprimente e avara.

«Sono sicuro», disse questo viaggiatore, «che nel caso in questione è immancabilmente colpa della routine burocratica, oppure, forse, in ultima istanza, della mancanza delle necessarie informazioni».

Qualcuno che viaggiava sovente da quelle parti, replicò che pareva che anche lì, in epoche diverse, avessero vissuto non so quali proscritti, ma che tutti quanti, a quanto sembrava, non avessero resistito a lungo.

«Un seminarista, un giovanotto gagliardo, fu mandato qui come sagrestano per la sua insolenza (le deportazioni di questo genere non sono mai riuscito a capirle). Dunque, arrivato qui, a lungo si era fatto animo sperando sempre di migliorare in qualche modo la sua sorte, ma poi si mise a bere e bevve a tal punto che uscì completamente di cervello e mandò una supplica perché piuttosto si ordinasse al più presto "di fucilarlo o di arruolarlo come soldato, oppure, se ciò fosse stato impossibile, di impiccarlo"».

«E quale risoluzione fu adottata in conseguenza?»«Mm... n... non so davvero; egli comunque non attese questa risoluzione: si impiccò di sua iniziativa».«E fece benissimo» interloquì il filosofo.«Benissimo?», replicò il narratore, evidentemente un mercante e, in aggiunta a ciò, persona posata e religiosa.«Perché no? Per lo meno morì e buona notte al secchio».«Come "buona notte al secchio", signore? E nell'altro mondo cosa lo aspetterà? I suicidi, infatti, saranno

tormentati in eterno. Per loro nessuno può nemmeno pregare».Il filosofo sorrise velenosamente, ma non rispose nulla, in compenso tanto contro di lui che contro il mercante

si fece avanti un nuovo contraddittore, che inaspettatamente prese le difese del sagrestano che aveva eseguito su di sé la condanna capitale senza il permesso delle autorità.

Si trattava di un nuovo passeggero che, senza che nessuno di noi lo avesse notato, si era imbarcato a Kònevec. Fino a quel momento era rimasto in silenzio e nessuno gli aveva rivolto la minima attenzione, ma ora tutti si voltarono verso di lui e, probabilmente, si meravigliarono che avesse potuto passare fino a quel momento inosservato.Era un uomo di statura smisurata, con una faccia abbronzata e aperta, e folti capelli ondulati color piombo: tanto strano era il riflesso della sua brizzolatura. Portava la tonaca col largo cinturone di cuoio dei conversi e un alto berretto nero di panno. Era impossibile capire se fosse un converso o un monaco tonsurato, perché i monaci delle isole del Làdoga, non solo quando sono in viaggio, ma anche sulle isole, non sempre portano la kamilavka, ma, con semplicità campagnuola, si accontentano di semplici berrette. A questo nostro nuovo compagno di viaggio, che in seguito si rivelo una persona straordinariamente interessante, si potevano dare all'aspetto poco più di cinquanta'anni, ma era un gigante nel vero senso della parola, e inoltre un tipico, ingenuo, bonario gigante russo che ricordava il vecchio Il'jà Mùromec del bellissimo quadro di Verešèagin o del poema del conte Aleksàndr Tolstòj. Sembrava che per lui sarebbe stato più confacente, invece che indossare la tonaca, cavalcare un «baio» e vagare nella foresta con enormi ciocie ai piedi, annusando pigramente come «odora di resina e di fragole l'oscura selva».

Ma nonostante tutta quella bonaria ingenuità non occorreva molto spirito d'osservazione per riconoscere in lui un uomo che aveva veduto molte cose e, come si suol dire, «navigato». Aveva un modo di fare ardito, sicuro di sé, sebbene senza sgradevole disinvoltura, e prese a parlare con una piacevole voce di basso, in tono manierato.

«Tutto ciò non significa niente», cominciò emettendo pigramente e mollemente una parola dopo l'altra di sotto ai folti baffi brizzolati e attorti all'insù. «Io, quel che voi dite dell'altro mondo e dei suicidi, non lo accetto. E anche che nessuno possa pregare per loro è una sciocchezza,perché esiste un uomo che può, assai semplicemente e nella maniera più facile, por rimedio alla loro situazione».

Gli fu domandato chi fosse quell'uomo che conosceva e aggiustava le faccende dei suicidi dopo la loro morte.«Ecco chi è», rispose il gigante con la tonaca, «in un villaggio della diocesi di Mosca c'è un pretuccio, un

ubriacone incallito che per poco non lo spretavano, il quale traffica con loro».«Come lo sapete?»«Ma di grazia, signori, non sono io solo a saperlo: nel circondario di Mosca lo sanno tutti perché della faccenda

si è occupato lo stesso eminentissimo metropolita Filarèt».

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Seguì una piccola pausa e qualcuno disse che tutto ciò era abbastanza dubbio.L'uomo con la tonaca non si offese minimamente di questa osservazione e replicò:«Sì, signore, di primo acchito la cosa appare, effettivamente, dubbia. E non c'è nulla di sorprendente se ci

appare dubbia, visto che Sua Eminenza stesso a lungo non ci ha creduto e poi, avendo ricevuto prove certe, ha visto che non si poteva non crederci, e ci ha creduto».

I passeggeri chiesero con insistenza al monaco di raccontare quella storia prodigiosa ed egli non rifiutò e cominciò:

«Raccontano che un vicario una volta scrivesse a Sua Eminenza che, così e così, questo pretuccio era un ubriacone spaventoso, beveva e non si occupava della parrocchia. E nella sostanza la denuncia era giusta. Il metropolita ordinò che mandassero il pretuccio da lui a Mosca. Lo esaminò e si rese conto che, effettivamente, il pretuccio era un beone e decise di togliergli la parrocchia. Fu un colpo per il pretuccio che smise persino di bere; non faceva che tormentarsi e piangere: "A che punto sono arrivato, e che altro mi resta da fare se non porre fine ai miei giorni! Non mi è rimasto che questo", dice. "Allora, per lo meno, il metropolita si impietosirà della mia sventurata famiglia e darà a mia figlia uno sposo che prenda il mio posto e provveda alla famiglia". Benissimo, dunque aveva proprio deciso di farla finita e aveva fissato persino il giorno, ma poiché era in fondo un'anima buona, pensò: "Va bene; morire, mettiamo, morirò, ma non sono una bestia, non sono senz'anima: la mia anima, dopo, dove andrà?". E da quel momento la sua tristezza divenne ancora maggiore. Benissimo, dunque: lui si macerava dalla tristezza, ma il metropolita aveva deciso che lui non dovesse avere più il posto perché beveva, e un giorno, dopo la refezione, si coricò su un divanetto a riposare con un libro e si addormentò. Benissimo, dunque: si addormentò oppure soltanto si assopì, quando a un tratto gli parve di vedere aprirsi la porta della sua cella. Egli gridò: "Chi é là?", pensando che fosse un servo venuto a riferirli qualcosa, ma, invece del servo, guarda e vede entrare uno starec con una faccia così buona, e il metropolita subito riconobbe il beato Sergij.

Il metropolita dice:"Sei tu, santissimo padre Sergij?".E il santo risponde:"Sono io, o servo di Dio Filarèt".Il metropolita domanda:"Cosa desidera la tua purezza dalla mia indegnità?".E il santo Sergij risponde:"Voglio la grazia per qualcuno"."A chi comandi di concederla?"E il santo fece il nome del pretuccio che era stato privato del posto perché beveva e se ne andò; il metropolita

si svegliò e pensa: "Come interpretare ciò? È un semplice sogno, oppure una fantasia, o un'apparizione dall'aldilà?". E si mise a riflettere e, da uomo famoso per il suo intelletto in tutto il mondo, concluse che si trattava di un semplice sogno, poiché era mai possibile che il beato Sergij, dedito al digiuno e fedele custode dei costumi più morigerati, intercedesse per un sacerdote debole e dalla vita sregolata? Dunque, benissimo: Sua Eminenza giudicò così e lasciò che la faccenda procedesse secondo il suo corso naturale, e, per parte sua, continuò a passare il tempo come si conveniva e, all'ora dovuta, andò di nuovo a dormire. Ma di nuovo si era appena addormentato che di nuovo ebbe una visione e tale da gettare il grande spirito del metropolita in ancor maggiore sgomento. Figuratevi: un frastuono... un frastuono così terribile che sarebbe impossibile descriverlo... Dei cavalieri al galoppo... uno stuolo sterminato... volano, tutti vestiti di verde, con corazze e piume e cavalli che sembrano leoni, neri come corvi, e li precede un altero comandante vestito allo stesso modo, e dove lui indica con un'insegna di colore scuro, tutti galoppano, e sull'insegna c'è un serpente. Il metropolita non sa cosa significhi quella cavalcata, ma il comandante ordina:

"Squartateli", dice, "adesso non c'è più colui che prega per loro", e procedette oltre; e dietro al comandante i suoi guerrieri, e dietro di loro, come uno stormo di sparute oche selvatiche a primavera, sfilò una moltitudine di ombre miserabili che facevano segno al metropolita con espressione triste e lamentosa, gemendo sommessamente tra i singhiozzi: "Fagli grazia! lui è il solo che prega per noi". Il metropolita, non appena si degnò di alzarsi, mandò subito a chiamare il pretuccio ubriacone e gli domandò come e per chi pregasse. E il pope, per la povertà del suo spirito, si smarrì davanti al prelato e risponde: "Io, Eminenza, prego come è prescritto". E a stento Sua Eminenza riuscì a fargli confessare: "Ho peccato", dice, "in una cosa sola: poiché la mia anima è debole e per la disperazione penso che sia meglio togliersi la vita, prego sempre al santo offertorio per coloro che sono morti senza pentirsi dei peccati e si sono dati da se stessi la morte...". Be', a questo punto il metropolita capì chi fossero le ombre che nella visione erano passate davanti a lui simili a sparute oche selvatiche, e non volle rallegrare i demoni che procedevano davanti a loro assetati di tormentarle, e benedisse il pretuccio dicendogli: "Va", si degnò di dirgli, "non peccare più e continua a pregare per coloro per cui hai pregato", e lo rimandò alla sua parrocchia. Così, dunque, un uomo simile può sempre essere utile a coloro che non sopportano il travaglio della vita, poiché egli non rinuncerà alla sua audace vocazione e annoierà il Creatore intercedendo per loro finché Egli dovrà perdonarli».

«Perché mai dovrà?»«Perché è detto: "bussate"; da Lui stesso, infatti, è stato ordinato, e dunque così sarà».«Ma dite, per favore, a parte questo sacerdote moscovita, possibile che nessun altro preghi per i suicidi?»

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«Non saprei davvero che dirvi su questo punto. A quanto si dice, non si dovrebbe pregare Dio per loro, perché sono dei ribelli, ma d'altronde forse taluni, non comprendendo ciò, pregano per loro. Il giorno della Trinità o il lunedì di Pentecoste, tuttavia, mi sembra che sia persino permesso a tutti di pregare per loro. Allora si recitano anche delle preghiere speciali. Preghiere meravigliose, commoventi, non smetterei mai di ascoltarle».

«Non si possono, dunque, recitare negli altri giorni?»«Non saprei. Questo bisognerebbe domandarlo a qualcuno istruito: loro dovrebbero saperlo; ma dato che la

cosa non mi riguarda, non mi è mai capitato di parlarne».«E non avete osservato se queste preghiere vengano ripetute qualche volta durante le funzioni?»«No, signore, non l'ho notato; ma voi, d'altra parte non fate molto conto di quel che dico, perché in realtà

assisto di rado alle funzioni».«Come mai?»«Le mie occupazioni non me lo consentono».«Siete un monaco o un diacono?»«No, sono ancora soltanto un converso»«Tuttavia questo già significa che siete un frate?»«Mm... sì; in generale tutti la pensano così».«Per pensarlo lo pensano», interloquì a questo punto il mercante, «soltanto che un oblato può ancora finir con

la testa rasata a fare il soldato».Il gigante in saio non si offese affatto per questa osservazione, bensì si limitò soltanto a pensarci un po' sopra e

poi rispose: «Sì, è possibile, e, a quanto si dice, ci sono stati casi del genere; io però sono già vecchio: ho cinquantatré anni e il servizio militare per me non è una novità».

«Voi dunque avete servito sotto le armi?»«Sissignore».«Cos'eri, sottufficiale?», gli chiese di nuovo il mercante.«No, non ero sottufficiale».«Allora che: soldato, o guardia, o attendente?»«No, non avete indovinato; tuttavia sono un autentico militare e sono stato nell'esercito fin quasi da bambino».«Dunque sei un kantonìst», irritato insistette il mercante.«Neppure».«Il diavolo ti capisce: chi sei dunque?»«Sono un konesèr».«Co-o-o-sa?»«Sono un konesèr, signore, un konesèr, o per dirla in maniera più semplice, un intenditore di cavalli, e prestavo

servizio presso gli ufficiali di rimonta per consigliarli».«O bella!»«Sissignore, ho scelto e domato qualche migliaio di cavalli. Ho ammansito certe belve... di quelle che, ad

esempio, si impennano sulle zampe posteriori e poi si gettan giù a capofitto in modo che il cavaliere può spezzarsi il petto contro il pomo della sella, ma con me nemmeno una c'è riuscita».

«E come facevate a domare i cavalli di questo genere?»«Come facevo?... molto semplicemente perché io per questo ho ricevuto dalla natura un dono particolare.

Appena saltato in sella non davo il tempo al cavallo di raccapezzarsi, lo afferravo con tutte le mie forze per l'orecchio con la mano sinistra e lo tiravo da una parte, e con la destra gli davo un pugno sulla zucca tra le orecchie, inoltre facevo stridere i denti in maniera così terribile che a qualcuno usciva persino dalle narici cervello misto a sangue, e si calmava».

«E poi?»«Poi si scende, lo si accarezza, gli si dà il tempo di guardarti, in modo che gli resti una buona impressione, e

poi si rimonta in sella e si parte».«E il cavallo dopo di ciò si comporta docilmente?»«Sì, perché il cavallo è intelligente e sente con che genere d'uomo ha a che fare e quali sono i suoi intendimenti

su di lui. Me, per esempio, qualsiasi cavallo in vista di ciò mi amava e mi era affezionato. A Mosca, al maneggio, c'era un cavallo che era sfuggito di mano a tutti i domatori e aveva imparato, briccone, a mordere il cavaliere ai ginocchi. Semplicemente, come un diavolo gli azzannava coi suoi detoni tutta la rotula del ginocchio e gliela stritolava. Parecchie persone erano morte per causa sua. A quell'epoca era venuto a Mosca l'inglese Rarey, "il domatore furioso" lo chiamavano, ma per poco quel perfido cavallo non dilaniò anche lui, tuttavia lo svergognò; egli si salvò soltanto perché, dicono, portava delle ginocchiere d'acciaio, cosicché il cavallo, pur avendolo addentato alla gamba, non riuscì a morderlo e lo scavalcò; altrimenti per lui sarebbe stata la morte. Ma io lo sistemai come si deve».

«Raccontate, per favore, come avete fatto?»«Con l'aiuto di Dio, signore, perché, ve lo ripeto, io ho un dono per questo. Questo mister Rarey, il cosiddetto

"domatore furioso", e gli altri che avevano tentato di domare quel cavallo, per vincere la sua rabbia avevano puntato tutto sulle briglie, in modo da non permettergli di girare la testa né da una parte né dall'altra; io, invece, inventai un metodo del tutto opposto; non appena l'inglese Rarey ebbe rinunciato, dico: "Sciocchezze, é affare da nulla, perché

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questo cavallo non ha altro che è posseduto dal demonio. Un inglese questo non lo può capire,io invece ne verrò a capo e trovero il rimedio". I superiori diedero il loro assenso. Allora dico: "Conducetelo fuori porta Drogomìlovskaja!". Ve lo condussero. Benissimo; lo portammo per le briglie in un vallone dalle parti di Fili, dove d'estate villeggiano i signori. Guardo: era un luogo vasto e adatto, dunque, all'opera! Montai su quel cannibale senza camicia, scalzo, con addosso soltanto gli šarovary e il berretto, e sul corpo nudo avevo legato una fettuccia del santo e valoroso principe Vsèvolod Gavriìl di Nòvgorod, che veneravo ardentemente per il suo valore e a cui mi affidavo; e su quella fettuccia era ricamato il suo motto: "A nessuno cederò il mio onore". In mano poi non avevo alcuno strumento particolare, all'infuori, nell'una, di un robusto staffile tartaro di non più di due libbre con una palla di piombo all'estremità, e nell'altra di un semplice vasetto di coccio smaltato con della pasta liquida. Ebbene signori, montai in sella e quattro uomini tiravano il muso al cavallo per le briglie in direzione opposta per impedirgli di azzannare qualcuno. E lui, diavolaccio, vedendo che architettiamo qualcosa ai suoi danni, nitrisce, stride, suda, scalpita furiosamente, cerca di mordermi. Io, veduto ciò, ordino agli stallieri: "Strappategli subito il morso a questo briccone". Quelli non credono alle proprie orecchie, che io dia loro un tale ordine, e sgranano gli occhi. Io dico: "Ma cosa aspettate! Non mi sentite forse? Dovete eseguire immediatamente quello che vi ordino!". Ma quelli mi rispondono: "Cosa dici, Ivàn Sever'janyè (nel mondo mi chiamavano Ivàn Sever'janyè signor Fljagin): com'é possibile che tu ordini di togliergli il morso?". Io cominciai ad arrabbiarmi con loro perché vedevo e sentivo tra le gambe che il cavallo stava imbizzarrendosi per la rabbia,per cui gli diedi una buona stretta con le ginocchia e a loro gridai: "Levateglielo!". Essi volevano ancora dirmi qualcosa, ma qui mi infuriai del tutto e non appena feci stridere i denti essi in un attimo gli strapparono via il morso e scapparono chi di qua, chi di là; io allora in quello stesso primo istante, quando lui non se lo aspettava, trach, gli sbatto il vasetto sulla fronte: il vasetto si ruppe e la pasta gli colò negli occhi e nelle narici. Lui si spaventò e pensa: "Cos'è mai questo?". Io in fretta mi tolgo dalla testa il berretto con la sinistra e con esso spalmo ancor di più la pasta negli occhi al cavallo, e intanto con lo staffile gli assesto un colpo nel fianco... Lui fa un salto e si slancia in avanti, ma io gli soffrego ancora gli occhi col berretto per confondergli del tutto la vista, e inoltre gli do un altro colpo con lo staffile sull'altro fianco... E giù a frustarlo a più non posso. Non gli lascio il tempo né di tirare il fiato né di guardarsi attorno, continuo a strofinargli la pasta sul muso col mio berretto, lo faccio tremare con lo stridore dei denti, lo spavento, gli scortico entrambi i fianchi con lo staffile per fargli capire che non sto scherzando... Lui lo capì, cessò di impuntarsi e si mise a correre. Correva, caro, correva, e io non facevo che frustarlo: quanto più ubbidientemente lui correva, con tanta più lena io lavoravo di frusta, finché entrambi cominciammo a stancarci: a me doleva la spalla e il braccio non mi si alzava più e anche lui, vedo, aveva cessato di guardarmi di sbieco e la lingua gli penzolava fuori dalla bocca. Qui, vedendo che chiedeva perdono, smontai in fretta di sella, gli ripulii gli occhi, lo afferrai per la criniera e gli dissi: «Fermo, figlio di un cane, cibo da cani!», e, come lo tirai giù, lui si inginocchiò davanti a me e da quel momento diventò così ubbidiente che meglio non si poteva pretendere: si lasciava montare e cavalcare, soltanto poco tempo dopo crepò».

«Crepò tuttavia?»«Sissignore; era una bestia molto orgogliosa, si era ammansito quanto alla condotta, ma non aveva potuto

vincere la propria natura. E il signor Rarey, venuto a sapere la cosa, mi propose di entrare al suo servizio».«Ebbene, avete lavorato per lui?»«Nossignore».«Perché mai?»«Come dirvi? Innanzitutto perché in realtà io ero un konesèr ed ero più abituato a quel lavoro, cioè alla scelta

dei cavalli, che a domarli, mentre a lui occorreva qualcuno unicamente per ammansire gli animali furiosi, in secondo luogo perché da parte sua credo che questo fosse soltanto un subdolo trucco».

«Che trucco?»«Voleva imparare da me il segreto»«E voi glielo avreste venduto?»«Sì, glielo avrei venduto».«Allora perché l'affare è andato a monte?»«Così... deve aver avuto paura di me».«Raccontateci, di grazia, quest'altra storia».«Non ci fu nessun'altra storia particolare, signore, soltanto lui mi fa: "Rivelami, fratellino, il tuo segreto: ti darò

un sacco di soldi e ti assumerò come konesèr". Ma dato che io non sono mai stato capace di ingannare nessuno, gli rispondo: "Che segreto è mai questo! È una sciocchezza". Ma lui continua a prendere la cosa alla maniera inglese, da scienziato, e non mi crede; mi fa: "Be'se non vuoi rivelarmelo, andiamo a bere insieme del rhum". Dopo di che bevemmo insieme una gran quantità di rhum, fino a che lui, diventato tutto rosso, mi disse, come sapeva: "Su, adesso dimmelo: cosa hai fatto al cavallo?". E io gli rispondo: "Ecco cosa gli ho fatto...", e l'ho guardato facendo la faccia più terribile che potevo e ho fatto stridere i denti, e, non avendo sottomano in quel momento il vasetto con la pasta, per fargli l'esempio ho afferrato il bicchiere e l'ho alzato contro di lui. Vedendo ciò lui si è gettato subito sotto il tavolo e poi è sgattaiolato via e addio, non c'è stato più verso di trovarlo da nessuna parte. Da quella volta non l'ho piu visto».

«Per questo non siete entrato al suo servizio?»«Proprio per questo. E poi come avrei fatto a entrare al suo servizio, se dopo di allora egli aveva perfino paura

di incontrarmi? E sì che allora ne avevo una gran voglia, perché quando avevamo fatto a gara a chi beveva più rhum mi era piaciuto molto, ma, evidentemente, non si sfugge al proprio destino e io dovevo seguire un'altra vocazione».

Page 5: Leskov Nikolaj Semenovič - Il viaggiatore incantato

«E quale ritenete che sia la vostra vocazione?»«Non saprei, come dirvi... Ne ho viste tante, mi è capitato di stare sopra i cavalli, e sotto i cavalli, sono stato

prigioniero, ho fatto la guerra, ho menato le mani e sono stato storpiato in maniera tale che non tutti sarebbero sopravvissuti».

«E quando vi siete ritirato in convento?»«Non molto tempo fa, soltanto da alcuni anni, dopo tutta una vita».«E avete sentito la vocazione anche per questo?»«Mm... n... non so come spiegarvelo... d'altronde bisogna pensare che ce l'avessi».«Perché lo dite così, come se non ne foste sicuro?»«Ma, perché, come si fa a esserne sicuro, quando non sono nemmeno in grado di abbracciare tutta quanta la

mia immensa vita trascorsa?»«Come mai?»«Perché molte cose non le ho nemmeno fatte di mia volontà».«E per volontà di chi, allora?»«Per un voto dei miei genitori».«E che cosa vi è accaduto a causa di questo voto?»«Durante tutta la mia vita sono stato lì-lì per perire e me la son sempre cavata».«Possibile?»«Proprio così, signore».«Raccontateci, per favore, la vostra vita».«Perché no? Quel che ricordo, prego, posso raccontarvelo, però devo cominciare dal principio».«Fateci la grazia. Sarà ancor più interessante».«Be', non so, signore, se sarà interessante, ma abbiate la compiacenza di ascoltarmi».

II

L'ex-konesèr Ivàn Sever'janyè, signor Fljagin, cominciò il suo racconto così:«Sono nato in condizione servile e i miei genitori erano domestici del conte K., nel governatorato di Orèl. Ora

questi possedimenti, in mano ai giovani signori, sono andati in malora, ma ai tempi del vecchio conte erano assai notevoli. Nel villaggio di G., dove il conte stesso si compiaceva di vivere, c'era un'enorme, grandiosa residenza, con dipendenze per gli ospiti, una galleria fatta apposta per il gioco dei birilli, il teatro, il canile, orsi vivi legati al palo, giardini, si organizzavano concerti vocali con cantanti propri, attori propri rappresentavano spettacoli di ogni genere; avevamo i nostri tessitori e artigiani di ogni specie; ma la cosa a cui si rivolgevano le cure maggiori era l'allevamento dei cavalli. A ogni lavoro era addetto del personale apposito, ma alle scuderie venivano rivolte le cure maggiori e come un tempo nell'esercito da un soldato discendeva un kantonìst per fare la guerra, così da noi dal cocchiere discendeva un piccolo cocchiere per guidare i cavalli, dallo stalliere un piccolo stalliere per accudirli, dal servo che dava loro da mangiare un piccolo servo per portare il foraggio dal fienile alle mangiatoie. Mio padre era il cocchiere Sever'jàn, e sebbene non fosse tra i primissimi cocchieri, dato che da noi ce n'era una gran quantità, tuttavia conduceva un tiro a sei e nel corteo imperiale una volta fu al settimo posto e fu ricompensato con una banconota azzurra di quelle di una volta. Della mia genitrice rimasi orfano in giovanissima età e non la ricordo, dato che ero un figlio della preghiera, ossia ella a lungo non aveva avuto figli e pregava continuamente Dio perché venissi al mondo, e non appena la sua preghiera fu esaudita e mi partorì, subito morì perché io venni al mondo con una testa straordinariamente grossa per cui non mi chiamavano Ivàn Fljagin, ma semplicemente Testone. Vivendo accanto a mio padre nella corte dei cocchieri, passavo tutto il mio tempo nella stalla e lì mi impadronii del segreto della conoscenza dell'animale e, si può dire, presi ad amare il cavallo perché, quando'ero ancora piccolo, strisciavo carponi tra le loro zampe e loro non mi facevano del male, e quando poi fui cresciuto imparai a conoscerli. Da noi l'allevamento era separato dalle scuderie e noi, gente di scuderia, non ce ne occupavamo e ricevevamo di lì i puledri e li addestravamo. Da noi ogni cocchiere col suo postiglione aveva sei cavalli, tutti di razze diverse: di V'jatka, di Kazàn', calmucchi, del Bit'jùg, del Don, e tutti questi erano cavalli venuti di fuori, che venivano comprati alle fiere, altrimenti, si capisce, in maggior numero c'erano i nostri, d'allevamento, ma di questi non è il caso di parlare, perché i cavalli d'allevamento sono pacifici e non hanno né carattere forte, né fantasia vivace mentre gli altri erano veri selvaggi, delle belve terribili. Di solito il conte li comperava a lotti interi, tutta una mandria in blocco, a buon mercato, a otto-dieci rubli a capo, e appena li avevamo portati a casa, subito cominciavamo ad addestrarli. Facevano una resistenza terribile. A volte addirittura la metà crepava, ma non si lasciava addestrare: se ne stavano lì nel cortile sempre ombrosi che perfino i muri li facevano inalberare, e non facevano che storcere gli occhi verso il cielo, come uccelli. A volte ti prendeva perfino compassione a guardarne qualcuno perché ti pareva che il poverino avrebbe voluto volar via, ma non aveva ali... E per nulla al mondo fin dal principio mangiava o beveva avena o acqua dal truogolo e si seccava, si seccava, finché si consumava del tutto e tirava le cuoia. A volte la perdita superava la metà di quello che si comprava, specialmente coi chirghisi. Amano terribilmente la libertà della steppa. Quanto a quelli poi che si avvezzano e sopravvivono, anche di questi un non piccolo numero tocca storpiarne durante

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l'addestramento, perché contro la loro selvatichezza c'è un unico rimedio: la severità, ma in compenso quelli che resistono a tutta quest'educazione e ammaestramento, ne vien fuori una tale qualità che nessun cavallo d'allevamento potrà mai stare alla pari con loro per virtù equestre.

Mio padre, Sever'jàn Ivanyè , guidava un tiro a sei di chirghisi e, quando fui cresciuto, mi misero con lui come aiutante sullo stesso tiro. Erano cavalli feroci non come quelli di adesso di cavalleria che danno agli ufficiali.Noi questi cavalli da ufficiali li chiamavamo caffettieri perché non c'è nessun gusto a cavalcarli, dato che gli ufficiali su di essi possono persino starsene seduti, mentre quelli erano semplicemente delle belve, aspidi e basilischi tutt'insieme: cosa non valevano quei musi, quei denti, oppure quelle zampone, o la criniera... be', a farla breve, uno spavento! Non conoscevano stanchezza; non solo ottanta, ma perfino cento e centoquindici verste dal villaggio a Orèl, o per tornare a casa, sempre con lo stesso passo, per loro era niente farle senza riposo. Quando si lanciavano c'era soltanto da stare attenti che sullo slancio non oltrepassassero il luogo di destinazione. All'epoca in cui montai per la prima volta sul cavallo-guida, da sella, avevo soltanto undici anni e avevo la vera voce che, secondo le usanze di allora, si esigeva dai postiglioni dei nobili: la più penetrante, sonora e a tal punto prolungata che potevo intonare quel "dddidi-i-i-ttt-y-oo" e farlo durare mezz'ora; ma ancora per complessione non ero robusto, cosicché non riuscivo a sopportare bene in sella i lunghi viaggi e perciò m'assellavano al cavallo, ossia mi assicuravano con delle cinghie alla sella, al sottopancia, a tutto, in modo tale che mi fosse impossibile cadere. Venivi sbattuto a morte e persino, più di una volta, ti intormentivi e perdevi i sensi, ma ciononostante continuavi a stare in sella nella tua posizione e daccapo, stanco di venir sbatacchiato, ritornavi in te. Lavoro non leggero; per via, a volte, avvenivano tali cambiamenti: ora perdevi le forze, ora ti riprendevi; arrivato a casa poi ti tiravano giù di sella come morto, ti deponevano e ti facevano annusare del rafano; be', tuttavia poi ci feci l'abitudine e tutto questo non mi faceva più nulla; anzi, a volte, in viaggio mi ingegnavo di continuo di allungare una frustata a qualche contadino incontrato per via. Questi modi malandrini di postiglioni sono cosa ben nota. Così una volta andavamo col conte in visita. S'era d'estate, faceva un tempo splendido e il conte col cane viaggiava su un calesse scoperto, mio padre guidava un tiro a quattro e io davanti galoppavo a briglia sciolta; a un certo punto la strada devia dalla via maestra e inizia un tratto speciale di una quindicina di verste che porta a un convento chiamato Eremo di P. Questa stradina i monaci l'avevano aggiustata perché fosse più allettante recarsi da loro: com'è più che naturale sulla strada demaniale c'erano erbacce e sterpi e ovunque spuntavano radiche nodose, mentre la stradina che portava all'eremo era tutta pulita, spazzata e ai bordi c'erano dei filari di betulle, per cui c'era un verde, un profumo, e la vista spaziava lontano sui campi... In una parola si stava così bene che mi sarei messo a gridare a squarciagola, ma, si capisce, gridare senza motivo non si poteva, sicché mi trattenevo e galoppavo; solo che a un tratto, alla terza o alla quarta versta prima del convento si cominciò a scender giù per un lieve pendio e improvvisamente scorsi davanti a me un minuscolo puntino... qualcosa strisciava lungo la strada come un riccetto. Io mi rallegrai di questa circostanza e con tutte le mie forze intonai il mio "dddd-i-i-i-t-t-t-y-o-o" che echeggiò lontano una versta, e tanto mi scaldai, che quando stavamo per raggiungere il carro a due contro cui avevo gridato, mi sollevai sulle staffe e vidi che sul carro c'era un uomo sdraiato sul fieno. Questi, di certo piacevolmente riscaldato dal solicello nella brezza fresca, nontemendo nulla, dormiva della grossa, beatamente disteso a pancia in giù, e aveva perfino allargato le braccia come se volesse abbracciare il fieno. Vedendo che non si faceva da parte, mi buttai di lato e, affiancatolo, ritto sulle staffe, per la prima volta allora feci stridere i denti e con tutte le mie forze gli assestai una frustata sulla schiena. I suoi cavalli col carro presero l'abbrivio giù per la china e lui saltò su di colpo, un vecchietto con un berrettino da converso come quello che porto io ora, con un viso così pietoso come quello di una vecchia, tutto spaventato, con le lacrime che gli colavano dagli occhi, e si dibatteva sul fieno come un ghiozzo nella padella, e a un tratto non distinguendo, probabilmente, dove fosse il bordo, mezzo addormentato com'era, ruzzolò dal carro sotto la ruota e finì nella polvere... si impigliò coi piedi nelle briglie... A me, a mio padre e al conte stesso sulle prime venne da ridere, a vederlo ruzzolar giù, ma poi vidi che i cavalli laggiù, al ponte, avevano urtato con la ruota contro un palo e si erano fermati, e lui non si rialzava e non si rigirava... Ci avvicinammo: lo guardai e vidi che era nella polvere, tutto grigio, e nel volto non si scorgeva nemmeno più il naso, ma solo una fessura da cui scorreva sangue... Il conte ordinò che ci fermassimo, discese, guardò e disse: "È morto". Minacciò che a casa per questo mi avrebbe fatto frustare, e ordinò di andar subito al convento. Fu mandato qualcuno al ponte, il conte conferì con l'abate e quell'autunno venne inviato tutto un convoglio di carri carichi d'avena, farina e carpe essiccate; quanto a me mio padre, lì al convento, dietro le rimesse, mi batté con la frusta sulle brache, ma non mi frustò per davvero perché per il mio mestiere subito dopo dovevo di nuovo montare a cavallo. E con questo la faccenda fu chiusa, ma quella notte stessa venne da me in sogno quel monaco che avevo frustato, e di nuovo piangeva come una donna. Gli dico:

"Che vuoi da me? Vattene via!".E lui risponde:"Tu", dice, "m'hai tolto la vita senza che potessi pentirmi dei miei peccati"."Be', son poche le cose che capitano!", rispondo. "Che posso farti adesso? Sai bene che non l'ho fatto apposta.

E poi", dico, "di che ti lamenti? Sei morto e tutto é finito"."Per esser finito", fa, "effettivamente è finito, e di questo ti sono molto grato, ma adesso sono venuto da parte

di tua madre a chiederti se sai che sei suo figlio pregato""Certo che lo so", faccio io, "l'ho sentito dire, nonnaFedos'ja me ne ha parlato più di una volta"."E lo sai", continua, "che inoltre tu sei un figlio promesso?"

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"Come sarebbe a dire?""Sarebbe a dire questo", dice, "che sei promesso a Dio" ."E chi mai mi ha promesso a Lui?""Tua madre"."Be', allora", dico, "che venga lei stessa a dirmelo, perché tu potresti essertelo inventato"."No", dice lui, "non me lo sono inventato, ma lei non può venire"."Perché?""Perché", dice, "da noi qui non è come da voi sulla terra: non tutti quelli di qui parlano e appaiono ai vivi, ma

soltanto coloro a cui ciò è concesso. Ma se vuoi", fa, "ti darò un segno per convincertene"."Sì, dammelo", rispondo, "ma quale segno?""Il segno sarà questo", dice, "che sarai molte volte sul punto di perire e nemmeno una volta perirai, finché

verrà la tua vera fine, e tu allora ricorderai la promessa fatta su di te da tua madre e ti farai monaco"."Benissimo", rispondo, "sono d'accordo e attendo".Egli sparì e io mi svegliai e dimenticai tutto, non sospettando che tutte quelle sciagure dovessero subito

cominciare una dopo l'altra. Ma ecco che dopo un po' di tempo andavamo col conte e la contessa a Voronež - portavamo lì, alle nuove reliquie, la contessina che aveva i piedi storti, per chiedere la grazia -, e ci fermammo nel distretto di El'c, al villaggio di Krutòe, per dar da mangiare ai cavalli, e io mi addormentai di nuovo accanto all'abbeveratoio, e vidi di nuovo arrivare quel monachino che avevo ucciso il quale mi disse:

"Ascolta, Testoncino, ho compassione di te: domanda subito ai signori il permesso di entrare in convento, ti lasceranno andare".

Gli rispondo:"E perché mai?".E lui mi fa:"Be', bada, quanto male altrimenti dovrai soffrire".Va bene, penso, devi pur gracchiare, dal momento che ti ho ucciso, e con questo mi levai, aiutai mio padre ad

attaccare i cavalli e ripartimmo; la montagna lì è ripida da non dire e di fianco c'è un precipizio dove a quei tempi era perita un'infinità di gente. Il conte dunque mi dice:

"Bada, Testone, procedi con cautela".Ma io per questo ero bravo, e per quanto le redini dei cavalli timonieri, cui spetta regolare la discesa, le regga il

cocchiere, tuttavia sapevo aiutare molto mio padre. I suoi timonieri erano forti e sostenenti: erano capaci di scendere addirittura seduti con la coda per terra, ma ce n'era uno, l'infame, con l'astronomia: appena lo tiravi forte, subito rizzava il capo all'insù e il diavolo sa dove guardasse in cielo! Non c'è di peggio di questi cavalli astronomi alla stanga, e specialmente al timone sono pericolosissimi, a un cavallo con questo vizio il postiglione deve stare sempre molto attento, perché un astronomo non vede nemmeno lui dove mette i piedi e non si sa dove va a finire. Tutto questo del mio astronomo, naturalmente, io lo sapevo e aiutavo di continuo mio padre: il mio cavallo da sella e l'accoppiato li trattenevo con le briglie sul gomito sinistro e li disponevo con le code sul muso dei timonieri e il timone tra le groppe, e tenevo lo staffile sempre pronto davanti agli occhi dell'astronomo, e appena vedevo che guardava in cielo, giù sul muso! e lui subito lo abbassava, e così scendevamo magnificamente. E lo stesso anche quella volta: facevamo scendere l'equipaggio e io mi do da fare, sapete, davanti al timone e tengo buono l'astronomo con lo staffile, quando a un tratto vedo che lui non sente più né le briglie di mio padre né il mio staffile, ha la bocca tutta insanguinata per il morso e strabuzza gli occhi, e a un tratto sento qualcosa scricchiolare dietro a me, e paf, tutto l'equipaggio di colpo si slancia in avanti. S'era rotto il freno! Io grido a mio padre: "Reggi! reggi!", e lui a me: "Reggi! reggi!". Ma che vuoi mai reggere, quando tutti e sei i cavalli corrono come indemoniati senza vedere più nulla! All'improvviso qualcosa mi schizzò davanti agli occhi, guardo: mio padre era volato giù di serpa... una briglia si era spezzata... E davanti a noi c'era quello spaventoso precipizio... Non so se ebbi compassione dei signori o di me stesso, fatto sta che, vedendo la fine inevitabile, mi gettai dal cavallo da sella sul timone e rimasi appeso alla punta... Non so nemmeno quanto pesassi allora, ma a contrappeso ero molto pesante cosicché strozzai i timonieri a tal punto che cominciarono a rantolare e... guardo, i miei battistrada non ci sono più come troncati via, mentre io spenzolo proprio sopra il precipizio e la carrozza s'é fermata contro i cavalli di stanga che avevo strozzato col timone.

Solo allora ritornai in me e fui preso dal terrore, le mani mi si sciolsero e volai giù, e non ricordo più nulla. Ripresi conoscenza non so quanto tempo dopo, e vedo che sono in un'izbà, e un marcantonio di contadino mi dice:

"Ebbene, piccolo, possibile che tu sia vivo?".Io rispondo:"A quanto pare sì"."E ti ricordi", fa, "che cosa ti è capitato?".Cercai di ricordare e mi tornò alla mente che i cavalli ci avevano preso la mano e che mi ero gettato sulla punta

del timone ed ero rimasto appeso sopra l'abisso, ma di quello che era successo dopo non sapevo nulla.Il contadino sorrise:"E come potresti mai saperlo", fa, "in fondo al burrone i tuoi battistrada non sono nemmeno arrivati vivi, si

sono sfracellati, mentre te, come una forza misteriosa ti ha salvato: sei andato a finire sopra un ammasso d'argilla e sopra di esso sei scivolato giù come su una slitta. Pensavamo che fossi morto, ma guardiamo, e respiravi, soltanto il tuo

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spirito era stato oscurato dall'aria. Be', e ora", fa, "se puoi, alzati e corri dal tuo santo: il conte ha lasciato dei denari per seppellire se fossi morto, o portarti da lui a Voronež se rimanevi in vita".

E così partii, ma durante tutto il tragitto non dissi nulla e ascoltai il contadino che mi portava che seguitava a suonare sulla fisarmonica La signora.

Non appena arrivammo a Voronež il conte mi mandò a chiamare e disse alla contessa:"Ecco, contessa", disse, "noi dobbiamo la nostra salvezza a questo ragazzaccio".La contessa assentì soltanto col capo e il conte fece:"Chiedimi quello che vuoi, Testone, e io ti darò tutto".Io dico:"Non so cosa chiedere!".E lui dice:"Be', di che cosa avresti voglia?".Io pensai, pensai e poi dissi:"Di una fisarmonica".Il conte scoppiò a ridere e disse:"Be', sei per davvero uno sciocco, d'altronde, va da sé, quando verrà il tempo mi ricorderò io di te, ma la

fisarmonica", dice, "gli sia comprata subito".Un lacchè andò alla bottega e mi portò la fisarmonica alla stalla:"To'", fa, "suona".Io la presi e cominciai a suonare, ma vidi che non sapevo far nulla e subito la lasciai, e poi, il giorno dopo,

delle pellegrine me la rubarono dalla rimessa.Avrei dovuto in quell'occasione approfittare della benevolenza del conte e, come mi aveva consigliato il

monaco, chiedergli che mi lasciasse allora stesso entrare in convento; invece, non so nemmeno io perché, chiesi la fisarmonica e così rifiutai la mia prima vocazione, e perciò passai di tribolazione in tribolazione, sempre più soffrendo, sebbene non perissi mai del tutto, finché, per la mia incredulità, tutto quello che il monaco mi aveva predetto nella visione non si fu avverato.

III

Dopo questo atto di munificenza dei miei signori, non avevo ancora fatto in tempo a tornare a casa con loro con i cavalli nuovi comprati a Voronež per ricostituire il tiro a sei, che mi venne il capriccio di sistemare nella stalla, sopra un ripiano, dei colombi col ciuffo, un colombo e una colomba. Il colombo era color argilla, mentre la colombella era bianca, con le zampe rosse-rosse, assai bellina!... Mi piacevano un mondo, specie quando la notte il colombo tubava: era così bello starlo a sentire! Di giorno poi volavano tra i cavalli, si posavano sulle mangiatoie e si baciavano... Era un piacere per un ragazzo guardare tutto questo.

E dopo questi baci cominciarono a nascere i piccoli; ne covarono una coppia e, mentre questa cresceva, loro seguitavano a baciarsi e di nuovo si posarono sulle uova e le covarono... E i colombini erano piccoli-piccoli, simili a batuffoli di lana, senza penne, e gialli come quelle palline nell'erba che chiamano "malva di gatto", ma i becchi, in compenso, erano grossi peggio dei nasi dei principi cercassi... Presi a osservarli, questi colombini, e per non far loro male, ne presi uno per il beccuccio e lo guardavo, lo guardavo senza fine, com'era tenero, mentre il colombo cercava di portarselo via. Io mi divertivo a stuzzicarlo col colombino, ma quando lo riposi nel nido non respirava più. Che rabbia! Lo riscaldavo nel palmo della mano, gli alitavo sopra, cercavo in tutti i modi di rianimarlo: niente da fare, era morto e basta! Mi arrabbiai, presi e lo scaraventai fuori dalla finestra. Be', non importa, ce n'era rimasto un altro nel nido! Quello crepato una gatta bianca saltata fuori chissa da dove lo raccolse e se lo portò via di corsa. La vidi bene quella gatta: era tutta bianca e sulla fronte, come un berrettino, aveva una macchia nera. Be', penso fra me e me, il diavolo la porti, che se lo mangi quello morto! Però la notte mentre dormo sento sul ripiano sopra il mio letto che il colombo si dibatte furioso con qualcuno. Salto su e guardo, era una notte di luna e vedo che di nuovo quella stessa gatta bianca si trascina via l'altro mio colombello, quello vivo.

"Ah, no", penso, "perché deve fare così?", e la rincorsi e le tirai uno stivale, ma non la colpii e così lei si portò via il mio colombello e certamente se lo mangiò da qualche parte. Rimasero desolati i miei colombini, ma non si afflissero a lungo e cominciarono di nuovo a baciarsi, e di nuovo ecco pronta una coppia di piccoli, ma di nuovo sbuca fuori quella dannata gatta... Il diavolo sa come facesse a spiare tutto questo, solo una volta guardo ed ecco che di nuovo in pieno giorno trascina un colombino e così destramente che non mi trovai nemmeno niente sotto mano da tirarle addosso. A questo punto decisi di darle una lezione e sistemai sulla finestra un laccio fatto in modo tale che, non appena la notte mostrò il muso, subito fu acchiappata, e se ne stava lì a lamentarsi e a miagolare. Subito la tolsi dal laccio, la infilai col muso e le zampe anteriori nel gambale di uno stivale, perché non graffiasse, e le zappette posteriori assieme alla coda gliele afferrai con la mano sinistra, coperta da un guanto, con la destra staccai dalla parete lo staffile e cominciai a strigliarla sopra il mio letto. Un centocinquanta colpi di staffile, credo, le rifilai, e con tutta la mia forza, tanto che smise persino di dibattersi. Allora la tirai fuori dallo stivale e penso: è crepata o non è crepata? Come si fa,

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penso, a vedere se e viva o morta? E depostala sulla soglia con una piccola accetta le troncai la coda: lei fece "miaia", sussultò tutta, si voltolò una decina di volte e corse via.

"Bene", penso, "adesso, si spera, non verrai più qui un'altra volta a dar fastidio ai miei colombini"; e, per farle più spavento, la mattina dopo presi la coda che le avevo troncato, e con un chiodino la inchiodai all'esterno, sopra la finestra, ed ero molto soddisfatto di questo. Soltanto, dopo un'ora o due al più, vedo entrare di corsa la cameriera della contessa, che da quando era nata non aveva mai messo piede da noi nella stalla, con l'ombrellino in mano e grida:

"Ahà, ahà! Ecco chi è stato! Ecco chi è stato!".Io dico:"Che c'è?""Sei stato tu", dice, "a sconciare Zòzin'ka? Confessalo: è sulla tua finestra che è inchiodato il suo codino".Le rispondo:"Be', che importanza ha se ho inchiodato il suo codino alla finestra?""Ma come", dice, "hai osato?""E lei", faccio io, "come ha osato mangiare i miei colombini?""Oh, capirai che cosa preziosa i tuoi piccioncini!"."Neppure la gatta è una gran signora".Crescendo, sapete, avevo imparato a questionare."Gran cosa", dico, "una gatta così".E quella zanzara:"Come osi parlarmi così: non sai dunque che era la mia gatta e che la contessa stessa la coccolava?", e così

dicendo, paffete con la manina sulla mia guancia, e io, che anch'io fin da piccolo sono stato lesto di mano, senza pensarci due volte, afferrai una scopa sudicia appoggiata vicino alla porta e gliela sbattei sul sedere...

Dio mio, che pandemonio si levò! Mi condussero per essere giudicato nell'ufficio dell'amministratore tedesco, e lui sentenziò che fossi frustato quanto più ferocemente possibile e poi che fossi cacciato dalla stalla e mandato nel giardino inglese a spaccare col martello i ciottoli per i vialetti... Fui frustato in modo terribilmente feroce, tanto che non riuscivo più a rialzarmi e mi riportarono da mio padre sopra una stuoia, ma questo non sarebbe stato ancora nulla, invece la seconda punizione, stare ginocchioni a spaccar ciottoli... questo mi tormentò al punto che non facevo che pensare a come liberarmene, finché decisi di farla finita con la vita. Mi procurai da un servitorello una forte corda da sacchi da zucchero e la sera me ne andai a fare il bagno e di lì nel boschetto di tremoli dietro l'aia, mi inginocchiai pregai per tutti i cristiani, legai la corda a un ramo, allentai il nodo scorsoio e ci infilai dentro la testa. Non restava che saltare e buonanotte al secchio... Io col mio carattere avevo fatto tutto quanto con la massima tranquillatà, solo che non appena presi lo slancio, saltai dal ramo e rimasi appeso, subito mi ritrovai steso a terra e davanti a me c'era uno zingaro con un coltello in mano e ride coi denti bianchissimi che scintillavano nella notte in mezzo al muso nero

"Cosa stai facendo", dice, "contadino?""E a te che importa?""O che", insiste, "non ti piace la vita?""A quanto pare", dico, "non è tutta zucchero"."In tal caso, invece di impiccare con le tue mani, vieni piuttosto", mi fa, "a vivere con noi, forse verrai appeso

in un altro modo"."Ma voi chi siete e di che cosa vivete? Non siete per caso dei ladri?""Sì", dice, "siamo ladri e bricconi"."È così dunque", dico, "e all'occorrenza magari scannate anche la gente...""Capita", dice, "di fare anche questo".Io pensai e pensai al da farsi: se rimanevo, il giorno dopo e il giorno dopo ancora sarebbe stata sempre la stessa

storia, stattene in ginocchio sul vialetto e tup-tup, spacca i ciottoli col martelletto, e mi erano già venuti i calli sulle ginocchia per quel lavoro e nelle orecchie mi rimbombavano le risa di quanti mi schernivano perché l'infame tedesco, per una coda di gatto, mi aveva condannato a frantumare un'intera montagna di pietre. Tutti mi prendevano in giro: "E vai in giro a dire che sei il salvatore, che hai salvato la vita ai padroni". Avevo proprio perso la pazienza, e pensando a tutto questo, cioè che, a meno di impiccarmi, avrei dovuto ricominciare allo stesso modo, scrollai le spalle, scoppiai a piangere e mi feci brigante.

IV

Qui quell'astuto zingaro non mi diede il tempo di ritornare in me stesso e mi disse:"Perché", mi fa, "io possa fidarmi di te, che non ritornerai indietro, tu mi devi subito Condur fuori dalla stalla

dei padroni un paio di cavalli, e i migliori, in modo che da qui a domattina possiamo filarcela lontano".Io mi afflissi: mi ripugnava tremendamente rubare; tuttavia, una volta in ballo bisognava ballare, e così,

conoscendo la stalla come le mie tasche, condussi fuori nell'aia senza difficoltà una coppia di cavalli generosi, di quelli che non sapevano cosa fosse la stanchezza, inoltre lo zingaro cavo subito fuori di tasca dei denti di lupo infilati in una

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cordicella e li appese al collo a entrambi i cavalli, dopo di che montammo in sella e partimmo. I cavalli sentendo sopra di sé l'osso di lupo volavano in maniera incredibile e la mattina ci fermammo a cento verste di distanza, sotto la città di Karaèev. Qui vendemmo subito i cavalli a un locandiere, prendemmo i soldi e, arrivati a un fiumicello, cominciammo a fare le parti. Per i cavalli avevamo preso trecento rubli, si intende di quelli di allora, in assegnati, ma lo zingaro mi dà in tutto un solo rublo d'argento e dice:

"Ecco la tua parte"."Come sarebbe a dire", dico, "sono stato io a rubare quei cavalli e potevo pagarla più cara di te, perché, invece,

la mia parte è così piccola?""Perché non è cresciuta di più"."Queste", faccio io, "sono stupidaggini: perché ti prendi tanto per te?""Perché", dice, "io sono il maestro e tu sei ancora un allievo"."Ma che allievo", dico io, "tu imbrogli!" e, una parola tira l'altra, litigammo. Alla fine gli dico:"Non voglio più stare con te perché sei un furfante".E lui mi risponde:"Vattene pure, fratello, per l'amor di Cristo, perchè sei senza passaporto e con te si finisce nei guai".Così ci separammo e io mi recai dall'assessore per denunciarmi che ero un servo fuggiasco, ma appena ebbi

raccontato questa storia al suo scrivano, quello mi fa:"Sei proprio un imbecille: perché vuoi denunciarti? Ce li hai dieci rubli?""No", dico io, "ho soltanto un rublo d'argento, ma dieci non ce li ho"."Be', forse hai qualcos'altro, magari una croce d'argento al collo, oppure che cos'hai lì, all'orecchio: un

orecchino?""Sì", dico, "è un piccolo orecchino"."È d'argento?""Sì, è d'argento, e ho anche una croce d'argento del convento di San Mitrofanij"."Be', su", dice, "togliteli alla svelta, e dammeli, io ti faccio l'attestato di emancipazione e te ne vai a Nikolaev,

da quelle parti hanno bisogno di un sacco di gente e Dio sa quanti vagabondi fuggono laggiù".Io gli diedi il rublo, la croce e l'orecchino ed egli mi scrisse l'attestato, ci mise il suggello dell'assessore e mi fa:"Ecco, per il suggello dovresti pagarmi il supplemento, perché lo faccio pagare a tutti, ma ho compassione

della tua povertà e d'altra parte non voglio che gli attestati di mia mano non siano in perfetto ordine. Va'", mi dice, "e se c'è qualcun altro che ne ha bisogno, mandalo da me".

"Ma guarda", penso, "un vero benefattore: mi ha tolto la croce dal collo e dice pure di aver compassione!". Non gli mandai nessuno e me ne andai nel nome di Cristo senza nemmeno un soldino di rame.

Arrivo in quella città e vado al mercato a cercar lavoro.Di gente che cercava lavoro risultò che ce n'era pochissima, in tutto tre persone, e tutti, a quanto pare, mezzi vagabondi come me, mentre di gente che voleva ingaggiare ne accorse una quantità e si mise a disputare per averci e a tirarci chi da una parte, chi dall'altra. Su di me si gettò un signore enorme, più grande di me, che spintonò via senza tanti complimenti tutti gli altri e, afferratomi per entrambe le mani, mi trascinò via: mi tirava e nello stesso tempo respingeva a pugni gli altri da tutte le parti imprecando senza posa, ma aveva gli occhi colmi di lacrime. Mi condusse in una casupola messa assieme in fretta Dio sa con che cosa e mi dice:

"Dimmi la verità: sei un fuggiasco, non è vero?".Io dico:"Sì, sono un fuggiasco"."Sei un ladro", mi fa, "o un assassino, o semplicemente un vagabondo?".Io gli rispondo:"Perchè me lo chiedete?""Per sapere meglio per quale incombenza sei più adatto".Io gli raccontai tutto quanto, perché ero fuggito, ed egli a un tratto mi getta le braccia al collo, mi bacia e dice:"Proprio uno così mi serve, proprio uno così mi serve!Sicuramente", dice, "se avevi compassione per i

colombini puoi allevare la mia creatura: ti prendo come balia".Io mi spaventai:"Come sarebbe", dico, "come balia? Per questa incombenza non sono assolutamente adatto"."No, sciocchezze", fa, "vedo che tu puoi fare la balia; altrimenti per me è una sciagura, perché mia moglie dalla

malinconia m'è scappata con un ufficiale di rimonta e m'ha lasciato una figlia poppante, e io non ho tempo né modo di nutrirla, e così tu me l'alleverai e io ti darò due rubli al mese di salario".

"Di grazia", gli rispondo, "qui non è questione dei due rubli, ma come potrò assolvere una simile incombenza?""Sciocchezze", fa, "non sei forse un russo? Un russo si trae d'impaccio in ogni situazione"."E che fa", dico io, "se sono un russo? Sono però un uomo e di quello che occorre per nutrire un lattante non

sono dotato"."Ma io", fa, "a questo riguardo per aiutarti ti comprerò una capra da un ebreo: tu mungila e con quel latte

allevami la figlia".Io ci pensai su e dico:

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"Naturalmente, con una capra perché si può ben allevare una bambina, solamente", gli dico, "mi sembra che per questa incombenza una donna farebbe meglio al caso vostro" .

"No", risponde, "di donne per favore non parlarmene: a causa loro nascono storie d'ogni genere e poi non saprei dove andarle a prendere, se poi tu non acconsentirai ad accudire mia figlia, io chiamerò subito i cosacchi e ordinerò loro di legare e di portarti alla polizia, e di là ti rispediranno a casa per traduzione. Scegli dunque che cosa preferisci: di nuovo frantumare pietre nel viale in giardino, oppure allevare la mia bambina?".

Ci pensai su: no, indietro ormai non sarei più tornato, e acconsentii a rimanere come balia. Quel giorno stesso comprammo da un ebreo una capra bianca col suo capretto. Il capretto lo scannai e ce lo mangiammo io e il padrone con la lapša, e la capra la munsi e col suo latte cominciai ad allattare la bambina. La bambina era piccola e così misera da far pietà: non faceva che frignare. Il mio padrone, suo padre, era un impiegato di origine polacca e a casa, briccone, non ci stava mai, ma correva sempre da questo o da quello dei suoi compagni a giocare a carte, mentre io lì solo con la mia pupilla, con la mocciosetta, e cominciai ad affezionarmici terribilmente perché in quel posto mi annoiavo in modo insopportabile e, non avendo altro da fare, non m'occupavo che di lei. Ora ponevo la bimba in un mastellino e la lavavo perbenino, oppure, se da qualche parte sulla pellina le spuntava un foruncolino subito ci spargevo la farina; ora le pettinavo la testina, oppure la dondolavo sulle ginocchia, oppure, se in casa mi annoiavo troppo, me la ficcavo in seno e andavo alla laguna a sciacquare i panni, e la capra, che anch'essa ci si era affezionata, a volte veniva a spasso dietro a noi. Così tirai avanti fino all'estate successiva e la mia bambina crebbe e cominciò a reggersi in piedi, però mi accorsi che le gambette erano un po' incurvate. Lo riferii al padrone, ma lui non dette importanza alla cosa e disse soltanto:

"E io", fa, "che cosa c'entro? Portala dal dottore e fagliela vedere: vedrà lui".Io ce la portai e il medico disse:"È il male inglese, bisogna metterla nella sabbia".E così cominciai a fare: scelsi sulla riva della laguna un posticipo dove c'era della sabbia e, appena c'era una

bella giornata calda, prendevo la capra e la bambina e me ne andavo laggiù con loro. Scavavo con le mani la sabbia calda e ci seppellivo la bambina fino alla cintola e le davo dei bastoncini e delle pietruzze per giocare, mentre la nostra capra girava attorno a noi e brucava l'erba e io me ne stavo seduto abbracciandomi le gambe e, appisolatomi, dormivo.

Trascorrevamo così giornate intere, noi tre da soli, e questo per me era il rimedio migliore contro la noia, perché, lo ripeto, la noia era terribile, e soprattutto a questo punto, in primavera, quando cominciai a seppellire la bambina nella sabbia e a dormire in riva alla laguna, ebbero inizio vari sogni sconclusionati. Non appena mi addormentavo, la laguna si metteva a rumoreggiare e dalla steppa spirava un vento caldo e assieme ad esso sembrava che mi investisse qualcosa di magico e mi assaliva una terribile visione: vedevo non so che steppe, dei cavalli e continuamente mi sembrava che qualcuno mi chiamasse e mi invitasse non so dove: lo sentivo persino gridare il mio nome: "Ivàn! Ivàn! Vieni, fratello Ivàn!". Ti riscuoti, sobbalzi e sputi: pfù, vi pigliasse un accidente, perché mi avete chiamato? Ti guardi intorno: una noia, la capra se n'era ormai andata lontano, vagava brucando l'erba, e la bambina se ne stava lì, mezza sepolta nella sabbia e nient'altro... Ah, che noia! Il deserto, il sole e la laguna, e di nuovo ti addormentavi e quella cosa, quel soffio portato dalla brezza, di nuovo si insinuava nell'anima e gridava: "Ivàn! Andiamo, fratello Ivàn!". Imprecavi persino, dicevi: "Ma mostrati dunque, che il diavolo ti porti! Chi sei, perché mi chiami a questo modo?". Ed ecco che una volta, arrabbiato così, me ne stavo seduto e guardavo tra la veglia e il sonno oltre la laguna, e di laggiù si levò come una nuvoletta e vola diritta verso di me; penso: ferma, dove vai, benedetta, mi vuoi infradiciare? E a un tratto vedo ritto sopra di me quel monaco con la faccia da vecchia che tanto tempo prima, quando facevo il postiglione, avevo frustato con lo staffile. Dico: "Ferma, vattene via!". Ma lui dolcemente mi dice con voce argentina: "Andiamo, Ivàn, fratello, andiamo! Dovrai ancora patire molto, ma poi arriverai alla meta". Imprecai contro di lui nel sonno e gli dico: "Dove devo andare con te e quale meta debbo raggiungere?". Ma lui improvvisamente di nuovo si trasforma in una nuvoletta e attraverso di essa mi fece vedere non so nemmeno io che cosa: la steppa e certi selvaggi, dei saraceni, come ce n'è nelle fiabe di Eruslàn e di Bova Korolevic, con grandi colbacchi irsuti e con frecce, su terribili cavalli selvaggi. E insieme con quel che vedevo mi parve di sentire ghigni, nitriti, risa selvagge, e poi d'improvviso un turbine... si levò una nuvola di sabbia e poi più nulla, si sentiva soltanto lo squillare acuto e sommesso di una campana, e, tutto soffuso da un chiarore scarlatto un grande convento bianco appare su in cima, e sulle mura camminano dei grandi angeli alati con lance d'oro, e attorno il mare, e appena qualche angelo batte con la lancia sullo scudo, subito tutta'attorno al convento il mare si agita e comincia a spumeggiare e dall'abisso voci spaventose urlano: "Santo!" .

"Be'", penso, "ecco che si ricomincia con la storia del farsi monaco!", e mi sveglio stizzito e con meraviglia vedo che qualcuno con l'espressione più tenera è inginocchiato sulla sabbia sopra la mia signorina, e versa lacrime a fiumi.

Rimango a lungo a guardare, pensando: non sarà per caso la mia visione che continua? Ma poi vedo che non scompare, mi alzo e mi avvicino: una dama aveva dissotterrato la mia bambina da sotto la sabbia e, presala in braccio, la baciava piangendo.

Io le domando:"Cosa vi occorre?".E lei si slancia verso di me stringendo la bambina al petto e sussurra:"È la mia bambina, mia figlia, mia figlia!".Io le dico:

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"Be', e con questo?""Dammela", dice."Come ti salta in testa", dico, "che io te la dia?""Possibile", dice, "che tu non ne abbia compassione? Lo vedi come si stringe a me"."Per stringersi, be', è uno stupido bamboccio e si strin-ge anche a me, ma dartela non te la do"."Perché?""Perché mi è stata affidata affinché la sorvegliassi; ecco anche la capra che ci segue, e la bambina devo

riportarla al padre".Lei, quella piccola signora, cominciò a piangere e a torcersi le manine."Be', va bene", disse, "se non vuoi darmi la bambina, almeno", disse, "non dire a mio marito e tuo padrone che

mi hai visto e torna domani qui in questo stesso posto con la bambina, perché possa ancora coccolarla"."Questa", dissi, "è un'altra faccenda, questo lo prometto e lo farò".E veramente non dissi nulla di lei al mio padrone, e l'indomani presi capra e bambina e andai di nuovo alla

laguna, e la signora era già lì che aspettava. Se ne stava seduta in una fossetta, ma appena ci scorse, balzò fuori e si mise a correre, e piangeva e rideva, e metteva giocattoli in ambedue le manine alla bambina, e perfino alla nostra capra appese al collo un campanellino legato con un nastro rosso, e a me diede una pipa, una borsa col tabacco e un pettine.

"Fuma", disse, "questa pipa, ti prego, baderò io alla bambina" .E cominciammo così a vederci là, sulla laguna: la signora sempre dietro alla bambina, mentre io dormivo;

qualche volta invece si mette a raccontarli che lei al suo paese era stata maritata a forza al mio padrone... dalla cattiva matrigna... che lei a questo suo marito in nessun modo era riuscita a volergli bene. Mentre quello... l'altro, l'ufficiale di rimonta... ebbene, quello lo amava e si lamentava che contro la sua volontà se ne era innamorata. Perché mio marito, come tu, dice, ben sai, fa una vita disordinata,mentre quello con quei... come si dice?... baffetti, mi pare, lo sa il diavolo, si veste sempre, dice, per bene e si prende cura di me, ma, dice, con tutto questo non posso essere felice, perché provo pena per questa bambina. E adesso, dice, io e lui siamo venuti qui e stiamo in casa di uno dei suoi compagni, ma vivo sempre col terrore che mio marito lo venga a sapere, e presto partiremo, e io soffrirò di nuovo per la bambina.

"Be'", dico, "che vuoi fare: se tu, andando contro la legge e la religione, sei venuta meno al tuo sacramento, devi pur soffrire un po'".

Ma lei si mise a piangere e di giorno in giorno piangeva in modo sempre più pietoso, assillandomi con le sue lamentazioni, e, improvvisamente, di punto in bianco cominciò a prometterei di continuo quattrini. E infine venne a congedarsi per l'ultima volta e disse:

"Ascolta, Ivàn (ormai sapeva il mio nome), ascolta", dice, "quel che ti dico: adesso", dice, "verrà qui lui".Io le domando:"E chi?".E lei mi risponde:"L'ufficiale".Faccio io:"Be', e a me che importa?".E lei racconta che lui quella notte aveva vinto un'infinità di quattrini e che aveva detto che, per farle piacere, mi

avrebbe dato mille rubli per questo, perché io, cioè, le consegnassi sua figlia."Be', questo", dico, "non sarà mai"."Ma perché, Ivàn? perché?", insiste. "Possibile che tu non provi pena che io e lei siamo separate?""Be'", dico, "pena o non pena, tuttavia io non mi sono mai venduto né per tanti né per pochi quattrini, e non mi

venderò, per cui che l'ufficiale si tenga tutte le sue migliaia di rubli, ma tua figlia restera con me".E lei giù a piangere, ma io dico:"È meglio che tu non pianga, perché io me ne infischio".Lei dice:"Non hai cuore, sei fatto di pietra".E io rispondo:"Non sono affatto di pietra, ma come tutti son fatto di carne e d'ossa, ma sono un uomo che fa il suo dovere e di

parola: mi sono impegnato a custodire la bambina e manterrò la parola".Lei cerca di convincermi che, in verità, dice, giudica tu stesso, la bambina starà meglio con me!"Anche se fosse", rispondo, "questo non è affar mio"."Possibile", urla lei, "che debba di nuovo separarmi dalla mia bambina?""Ebbene", dico, "se tu sei andata contro la legge e la religione...".Ma non avevo ancora finito di pronunciare questa frase che ecco venire verso di noi attraverso la steppa un

ulano leggero. Allora i militari andavano in giro come si conviene, alla brava, in autentica uniforme militare, non come quelli di adesso, che sembrano degli scrivani. Viene questo ufficiale di rimonta degli ulani con un tal portamento, pugni sui fianchi, e col cappotto gettato sulle spalle... forse di forza non ne aveva affatto, ma che arie!... Guardo questo visitatore e penso: "Mi piacerebbe proprio, per scacciare la noia, giocare un po' con lui". E decisi che se appena mi avesse detto una parola qualsiasi, io gli avrei risposto nel modo piu villano possibile, e magari, se Dio voleva, ci

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saremmo battuti a nostro piacimento. Sarà magnifico, mi dico estasiato, e non sento ormai più quello che nel frattempo mi dice piangendo la mia piccola signora, ma ho soltanto voglia di giocare.

V

Avendo deciso di procurarmi un simile spasso, penso: come potrei meglio stuzzicare questo ufficiale, in modo che mi salti addosso? Prendo, mi siedo, tiro fuori di tasca il pettine e comincio come a pettinarmi il capo con esso; l'ufficiale dal canto suo si avvicina e va difilato dalla sua signora.

Lei: ta-ta-ta, ta-ta, a lui, ossia che io non le do la bambina.E lui le carezza la testolina e dice:"Non è niente, animuccia, non è niente: troverò io adesso il modo con lui. Gli sciorineremo", dice, "i quattrini e

vedrai come gli brilleranno gli occhi! E se neppure questo mezzo funzionerà, allora semplicemente gli porteremo via la bambina", e con queste parole mi si avvicina e mi porge un mazzo di assegnati dicendo:

"Ecco", dice, "qui ci sono esattamente mille rubli, dacci la bambina, prendi i soldi e vattene dove ti pare".E io a bella posta faccio il villano, non gli rispondo subito, prima mi alzo pian piano, poi appendo il pettine alla

cintura, tossisco e infine dico:"No", dico, "questo tuo mezzo, Vostra Eccellenza, con me non funziona", e presi, gli strappai dalle mani i

biglietti, ci sputai sopra e li gettai via dicendo:"Forza, piglia, riporta, raccatta!".Lui andò su tutte le furie, diventò rosso rosso e si lanciò su di me; ma a me, voi stessi potete vedere la mia

complessione, che mi ci voleva per aver ragione d'un ufficialetto in divisa? Gli diedi una spintarella leggera, così ed ecco fatto: volò con gli speroni all'aria, e la sciabola da una parte. Subito misi il piede sopra questa sua sciabola e la calpestai dicendo:

"Ecco", dico, "schiaccerò così sotto i piedi anche il tuo ardire".Tuttavia, sebbene debole di forze, era un ufficialetto intrepido: visto che gli sarebbe stato impossibile

ritogliermi la sciaboletta, se la slaccia e si precipita impetuosamente contro di me coi suoi pugnetti... Anche così, si capisce, non concluse nulla con me, tranne che si prese un po' di botte, però mi piacque il suo carattere fiero e nobile: io non presi i suoi soldi e nemmeno lui li raccolse.

Quando smettemmo di batterci, gli gridai:"Prendi dunque, Vostra Serenità, i tuoi quattrini, ti verranno buoni per pagare il viaggio!".Cosa mai credete? Egli non li raccoglie, ma corre diritto dalla bambina e l'afferra; ma, naturalmente, l'afferra

per una mano, e io subito afferrala per l'altra! E dico:"Be', tira: vediamo a chi resterà la metà piu grossa!".Lui urla:"Vigliacco, vigliacco, mostro!", e così dicendo mi sputa in faccia, lascia andare la bambina e ormai trascina via

soltanto la piccola signora, ma quella disperata geme in modo straziante e, condotta via a forza, pur seguendolo protende gli occhi e le braccia verso di me e la bambina...ed ecco che la vedo, che la sento come lacerarsi a metà, da viva, metà verso di lui, metà verso la bambina... Ma proprio in quell'istante improvvisamente vedo arrivare di corsa dalla città il mio padrone, quello presso cui servivo, e già in mano ha una pistola e spara a tutto spiano da quella, e grida:

"Fermali, Ivàn! Fermali!"."Ma perché mai", penso fra me "te li devo fermare? Che si amino pure!", e raggiungo la piccola signora con

l'ulano, consegno loro la bambina e dico:"Eccovi il marmocchio! Solo che adesso", dico, "dovete portarvi via anche me, altrimenti lui mi consegnerà

alla giustizia perché non sono in regola con il passaporto".Lei dice:"Andiamo, caro Ivàn, andiamo, vivrai con noi".Così partimmo al galoppo e ci portammo via la frugoletta, la mia pupilla, mentre la capra, i soldi e il mio

passaporto rimasero a quell'altro mio padrone.Per tutta la strada, fino a Penza, viaggiando con quei miei nuovi signori seduto a cassetta sul tarantàs non

facevo che pensare: ho fatto bene a battere un ufficiale? In verità egli ha prestato giuramento e in guerra difende la patria con la sciabola, forse il sovrano stesso gli dà del "voi" per il suo grado, e io, imbecille, l'ho offeso a questo modo!... Ma poi smetto di pensare a questo e comincio a pensare a un'altra cosa: dove mi porterà adesso il destino; ma a Penza c'era una fiera e l'ulano mi dice:

"Ascolta, Ivàn, tu sai bene, penso, che non posso tenerti con me".Io dico:"Perché mai?""Perché", risponde, "io sono un militare e tu non hai nessun passaporto"."No", dico, "ce l'avevo il passaporto, solo che era falso" .

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"Ecco, lo vedi", mi risponde, "ma adesso non hai più neppure quello. Eccoti duecento rubli per il viaggio, e vattene con Dio dove vuoi".

A me, lo confesso, dispiaceva terribilmente separarmi da loro, perché volevo bene alla bambina; ma non c'era niente da fare, per cui dico:

"Be', addio", dico, "vi ringrazio devotamente per la vostra ricompensa, soltanto c'è ancora una cosa"."Di che si tratta?", chiede."Del fatto", rispondo, "che sono in colpa nei vostri confronti perché mi sono battuto con voi e vi ho mancato di

rispetto".Lui si mette a ridere e fa:"Ma che sarà mai, che Dio sia con te, sei un brav'uomo"."Nossignore", rispondo, "non basta che sono un brav'uomo, non si può finirla così, perché potrebbe rimanermi

sulla coscienza: voi siete un difensore della patria e forse il sovrano vi ha dato del 'voi'"."Questo", risponde, "è vero: quando ci assegnano i gradi, sul diploma scrivono: 'Vi nominiamo e ordiniamo

che voi siate onorati e rispettati'"."Be', permettete dunque", dico, "questo non posso assolutamente sopportarlo...""Ma adesso", dice, "cosa mai vuoi farci? Che tu sia piu forte di me e che tu mi abbia picchiato, questo non lo si

puo ritirare...""Ritirarlo", dico, "non si può, ma almeno, per alleggerire la mia coscienza, fate quel che volete, ma favorite

picchiarmi voi stesso un po'", e prendo e gonfio entrambe le guance davanti a lui."Ma perché mai?", dice, "perché mai dovrei picchiarti?""Così", rispondo, "per la mia coscienza, affinché non abbia offeso un ufficiale del mio sovrano senza

punizione".Egli scoppiò a ridere, ma io gonfiai le guance quanto più potevo e di nuovo me ne stavo lì.Lui mi domanda:"Perché mai ti gonfi? Perché fai le boccacce?".E io gli dico:"Mi sono preparato alla maniera dei soldati, secondo il regolamento: favorite", dico, "colpirmi da tutti e due i

lati", e di nuovo gonfiai le guance; ma lui all'improvviso invece di picchiarmi, mi gettò le braccia al collo e si mise a baciarmi dicendo:

"Basta, per l'amor di Cristo, Ivàn, basta: per nulla al mondo ti colpirò nemmeno una volta, soltanto vattene al più presto, prima che Màšen'ka e la figlia tornino a casa, altrimenti piangeranno molto per te".

"Ah, questo", dico, "è un altro affare; perché rattristarle?".E sebbene non avessi voglia di andarmene, tuttavia non c'era nulla da fare: così partii in fretta, senza

congedarmi da loro, e uscito dal portone, mi fermai e pensai:"E adesso dove andrò?". E in verità, benché fosse trascorso tanto tempo da quando ero scappato dai miei

signori e vagabondavo, tuttavia da nessuna parte avevo scaldato il posto sotto di me... "Basta", pensai, "andrò alla polizia e mi denuncerò, soltanto che, però", pensai, "di nuovo ora c'è questo che non va bene, che adesso ho dei quattrini e alla polizia me li toglieranno tutti: fammene almeno spendere un po', mi berrò almeno del tè con le ciambelle all'osteria fino a saziarmi". Me ne andai così alla fiera a un'osteria, chiesi del tè con le ciambelle e bevvi per un pezzo, ma poi vidi che non era assolutamente possibile tirarla più in lungo, e me ne andai a spasso. Esco fuori oltre il fiume Sura, nella steppa, dove c'erano i recinti dei cavalli e, accanto a essi, i tartari nelle kibitke.Tutte le kibitke erano eguali, ma una era assai variopinta, e attorno a essa una moltitudine di signori era intenta a provare i cavalli da sella. Diverse persone - borghesi, militari, possidenti - venute alla fiera, se ne stavano lì ritte, fumavano la pipa, e in mezzo a loro sopra un feltro variopinto, sottile e lungo come una pertica, è seduto un tartaro dall'aria grave, con una vestaglia rattoppata e una tjubetejka ricamata d'oro. Mi guardo intorno e, vedendo uno che era con me all'osteria a bere il tè, gli chiedo chi fosse mai quel tartaro così importante da star seduto lui solo tra tutti. E quel tale mi risponde:

"Possibile", dice, "che tu non lo conosca? È il khan Džangar" ."E chi è mai questo khan Džangar?".E quello mi fa:"Il khan Džangar", dice, "è il primo allevatore di cavalli della steppa, le sue mandrie pascolano dal Volga fino

all'Uràl per tutti i Ryn'-peskì, e lui stesso, questo khan Džangar, nella steppa è lo stesso che lo zar"."Dunque", faccio io, "questa steppa non è sotto di noi?""No", mi risponde, "è sotto di noi, soltanto che noi non possiamo in alcun modo impadronircene, perché

laggiù, fino al Caspio, ci sono soltanto piane salate, oppure soltanto erba e uccelli a perdita d'occhio, e un impiegato lì non ne può cavar nulla, ecco perché", dice, "lì regna il khan Džangar e laggiù nei Ryn'-peskì, si dice, egli ha i suoi šichi e šich-zady e mamy e azii e dervisci e ulani, ed egli li punisce tutti come gli piace e loro sono contenti di sottomettersi a lui".

Io ascolto queste parole e proprio in quell'istante vedo che un tartaretto caccia davanti al khan una piccola giumenta bianca e si mette a barbugliare qualcosa; quello allora si levò, prese una frusta con un lungo manico e si mise proprio davanti alla testa della giumenta puntandole la frusta contro la fronte. Ma come descrivevi la posa di quel brigante? Semplicemente una meravigliosa statua davanti a cui stare in ammirazione, e subito si vedeva che scorgeva

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tutte le viscere del cavallo. E dato che in questo campo anch'io fin da piccolo ho avuto l'occhio acuto, vedevo che a sua volta la giumenta riconosceva in lui l'intenditore e a sua volta se ne stava tutta tesa, come a dire: te', guardami e ammira! E in tale posa questo tartaro contegnoso guardava, guardava questa giumenta, senza girarle intorno come fanno i nostri ufficiali, che sconclusionatamente si agitano attorno al cavallo; lui, invece, la guardava sempre dallo stesso punto e improvvisamente abbassò la frusta e in silenzio si baciò le dita: come a dire: "Un pezzo raro!", e di nuovo, incrociando le gambe, si sedette sul feltro, mentre la giumenta subito drizzò le orecchie, sbuffò e prese a scalpitare.

Allora i signori che erano lì attorno in piedi cominciarono a contrattarla dandosi sulla voce l'un l'altro: uno offre cento rubli e quell'altro centocinquanta e così via alzando sempre più il prezzo in gara fra loro. La giumenta era veramente meravigliosa: non grande di statura, a somiglianza di un cavallo arabo, ma armoniosa, la testolina piccola, l'occhietto pieno come una melina, gli orecchi tesi, i fianchi sonorissimi, ariosi, la groppa come una freccia e le zappette leggere, tornite, le più adatte alla corsa. Io, che sono un amatore di questo genere di bellezza, non riuscivo assolutamente a staccare gli occhi da quella giumenta. Ma khan Džangar, vedendo che tutti erano stati presi dalla frenesia per lei e che i signori rilanciavano il prezzo come invasati, accennò al sudicio tartaretto e questo le balzò in groppa, a quel cigno, e la lancia al galoppo: cavalca, sapete, al modo tartaro, stringendola con le ginocchia, e quella sotto di lui mette le ali e vola come un uccello senza scomporsi, e non appena lui le si china sul garrese e la incita con un grido, quella si impenna assieme alla sabbia in un turbine. "Ah tu, serpente!", penso fra me e me, "ah tu, otarda della steppa, aspide! Dove mai hai potuto nascere così?". E sento la mia anima slanciarsi verso di lei verso quella cavalla, mossa da una innata passione. Il tartaraccio la rimenò indietro, lei sbuffò di colpo da tutte e due le froge, soffiò fuori tutta l'aria e si scrollò di dosso tutta la stanchezza, dopo di che non ansimava né stronfiava più. "Ah tu", penso, "piccola cara; ah tu piccola cara!". Credo che se il tartaro mi avesse chiesto per lei non solo l'anima, ma il padre e la madre carnale, non avrei avuto pieta nemmeno di loro, ma non c'era neppure da pensare che potessi procurarmi un simile corridore, visto che per lei, tra signori e ufficiali di rimonta, non si sa a quale prezzo erano arrivati, ma questo sarebbe stato ancora nulla, quando ad un tratto, mentre ancora il mercato non era concluso e nessuno se l'era ancora aggiudicata, vedemmo arrivare al galoppo sopra un morello d'oltre Sura, da Seliksa, un impetuoso cavaliere che agitava il largo cappello, arrivò in un battibaleno, balzò a terra, abbandonò il cavallo e difilato si precipitò verso la giumenta bianca e di nuovo si piantò di fronte a lei, come la prima statua, e disse:

"La giumenta è mia".Ma il khan ribatte:"E come può essere tua? I signori mi danno cinquecento monete per lei".Ma quel cavaliere, un tartaraccio enorme e panciuto, col muso bruciato e spellato come se fosse stato

scorticato, e gli occhi piccoli come fessure, di colpo urla:"Do cento monete più di tutti gli altri!".I signori si impuntano e promettono ancora di più, ma il rinsecchito khan Džangar se ne sta seduto schioccando

le labbra, quando ecco che dalla Sura, dall'altra sponda, galoppa un altro cavaliere tartaro, sopra un sauro dalla lunga criniera, e costui a sua volta era magro-magro, giallo, tutto pelle e ossa, ma ancor più temerario di quello arrivato prima. Scivola giù di sella, si pianta come un chiodo davanti alla giumenta bianca e fa:

"Offro più di tutti: voglio che la giumenta sia mia!".Io domando al mio vicino come stia la faccenda fra loro. E quello mi risponde:"La faccenda sta", dice, "che khan Džangar è una testa fina. Non è la prima volta", dice, "ma si può dire a ogni

fiera imbastisce un trucco del genere, che prima vende tutti i suoi cavalli ordinari che porta qui, e poi l'ultimo giorno, il diavolo sa da dove, ne tira fuori come dal seno uno o due tali, che i konesèr var fuori di senno; e lui, il furbo tartaro, sta a guardare e si diverte, e ci prende pure i quattrini. Conoscendo questa sua abitudine, tutti ormai aspettano quest'ultimo cavallo, e coì è andata anche questa volta: tutti pensavano che il khan ora sarebbe partito e difatti stanotte partirà, e guarda un po' adesso che giumenta ha tirato fuori!..."

"È una meraviglia", dico, "di cavalla!"."È davvero una meraviglia; lui, si dice, l'ha condotta alla fiera in mezzo al branco, in modo che, dietro gli altri

cavalli, nessuno la potesse vedere, e nessuno ne sapeva nulla, eccetto questi tartari venuti con lui, e anche a quelli aveva detto che la giumenta non era in vendita, ma la teneva per sé, e di notte l'aveva separata dagli altri cavalli e l'aveva cacciata in un bosco dalle parti di Mordovskij išim, e laggiù la faceva pascolare in una radura da un apposito cavallaro, e ora all'improvviso l'ha tirata fuori e l'ha messa in vendita, e tu guarda che cose dell'altro mondo accadranno qui per causa sua e quanto quel cane ci prenderà, anzi, se vuoi scommettiamo a chi se la aggiudicherà?"

"Perché mai?", dico. "Perché scommettere?""Perché", risponde, "qui ora se ne vedranno delle belle: tutti i signori immancabilmente si tireranno indietro, e

la cavalla se la prenderà uno di questi due asiatici"."Come?", chiedo. "Sono tanto ricchi?""Sono ricchi", risponde, "e sono sfegatati amatori di cavalli: mantengono propri grandi branchi di cavalli e non

si cederebbero mai, per nulla al mondo, un buon cavallo personale. Tutti li conoscono: quel pancione con tutto il muso spellato si chiama Bakšej Otuèev, e quello mingherlino, tutto pelle e ossa, È epkun Emgurèeev, tutt'e due sono amatori accaniti, e tu guarda soltanto che cosa ti combinano".

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Io taccio e guardo: i signori che si erano contesi la giumenta ormai si erano fatti da parte e si limitavano a guardare, mentre quei due tartari si davano spintoni l'un l'altro e continuamente battevano sulle mani di khan Džangar, e s'aggrappano alla giumenta agitandosi e gridando;l'uno urla:

"Io do per lei, oltre alle monete, ancora cinque teste (cioè cinque cavalli)", e l'altro strilla:"Menti, brutto muso: io ne do dieci".Bakšej Otuèev grida:"Io do quindici teste".E È epkun Emgurèeev:"Venti".Bakšej:"Venticinque".E È epkun:"Trenta".Di più, evidentemente, nessuno dei due ormai ne aveva... È epkun aveva gridato trenta e Bakšej ne offriva

anche lui soltanto trenta, e non di più; ma in compenso È epkun promette anche, in aggiunta, la sella, e Bakšej la sella e la veste, e anche È epkun si toglie la veste e di nuovo nessuno ha più nulla da offrire più dell'altro. È epkun gridò: "Ascoltami, khan Džangar: tornarò a casa e ti porterò mia figlia", e Bakšej promette anche lui la figlia, e di nuovo non hanno più nulla con cui prevalere l'uno sull'altro. A questo punto tutto il tartarume che assisteva a questo mercato, si mise a urlare e a schiamazzare alla loro maniera; li separano perché non si spingano vicendevolmente alla rovina, li trascinano, È epkun e Bakšej, uno di qua e l'altro di là, danno loro dei colpi nei fianchi, cercano di persuaderli.

Io domando al mio vicino:"Dimmi, per favore, cosa stanno tacendo?""Vedi", dice, "ai principi che stan mettendo pace tra loro dispiace che È epkun e Bakšej siano andati troppo in

là nell'alzare il prezzo, e così li separano affinché tornino in sé e trovino un modo onorevole perché l'uno ceda all'altro la giumenta".

"Com'è possibile", domando, "che uno ceda all'altro la giumenta, quando essa piace talmente a entrambi? Questo non può essere".

"E perché mai?", risponde. "Gli asiatici sono gente assennata e posata: rifletteranno che non è il caso di perdere inutilmente i propri averi e daranno a khan Džangar quello che lui chiede, e chi debba prendersi il cavallo lo decideranno di comune accordo a suon di frusta".

Io m'incuriosisco:"Come sarebbe a dire 'a suon di frusta'?".E quello mi risponde:"Non serve domandare, guarda: questa è una cosa da vedere; adesso comincia".Guardo e vedo che sia Bakšej Otuèev che È epkun Emgurèeev si sono, sembra, entrambi calmati, si divincolano

dai loro pacieri tartari, corrono l'uno verso l'altro e si battono sulle mani."Sgodà!", vale a dire: d'accordo.E l'altro risponde lo stesso:"Sgodà: d'accordo!"Ed entrambi a un tempo si tolsero e gettarono a terra vesti e sopravvesti e stivaletti di marocchino, si levarono

le camicie d'indiana e, rimasti soltanto con le larghe brache a strisce, giù, si sedettero per terra l'uno di fronte all'altro come beccacce della steppa, e attesero.

Era la prima volta che mi capitava di assistere a uno spettacolo così straordinario e aspettavo di vedere il seguito. Essi si porsero l'un l'altro la mano sinistra e se l'afferrarono forte, distesero le gambe e le puntarono pianta contro pianta, e gridarono: "Dai!".

Che cosa mai chiedessero che venisse loro dato non lo immaginavo, ma quelli, il tartarume, dalla folla risposero:

"Subito, baèka, subito".Ed ecco che dal mucchio esce fuori un vecchio tartaro dall'aria grave, che tiene in mano due robusti scudisci li

confronta e li mostra a tutti gli spettatori e anche a È epkun e a Bakšej: "Guardate", dice, "sono eguali"."Sono eguali", grida il tartarume, "tutti noi vediamo che sono fatti lealmente, le fruste sono eguali! Che

incomincino".E Bakšej e È epkun ardono d'impazienza e fanno per afferrare gli scudisci.Ma il tartaro gravemente dice loro: "aspettate" ed è lui stesso a porger loro gli scudisci: uno a È epkun e uno a

Bakšej, e batte piano le mani: uno, due e tre... E appena ebbe battuto le mani per la terra volta, Bakšej frustò con tutte le sue forte È epkun dietro la spalla sulla schiena nuda, e Cepkun di rimando a lui allo stesso modo. E cominciarono a riverirsi l'un l'altro così: si guardano negli occhi, puntano i piedi pianta contro pianta e si stringono forte le sinistre, mentre con le destre si frustano... Uh, come si frustavano principescamente! L'uno menava un buon colpo, e l'altro rispondeva con un colpo ancora migliore. A entrambi gli occhi erano diventati vitrei, e le mani sinistre si erano intormentite, ma né l'uno né l'altro si arrendeva.

Io domando al mio conoscente:

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"Ma cos'è", dico, "che fanno?Sarebbe come quando i signori si sfidano a duello?""Sì", risponde lui, "è anche questo un duello, solo che questo", dice, "non è per l'onore, ma per non andare in

rovina" ."E dunque", domando, "possono continuare a lungo a frustarsi così?""Finché ne avranno voglia", dice, "e finché basteranno loro le forze".E quelli continuano a frustarsi, mentre la gente si è messa a discutere: alcuni dicono: "È epkun la spunterà su

Bakšej", mentre altri ribattono: "Bakšej batterà È epkun", e chi ne ha voglia scommette, gli uni su È epkun, gli altri su Bakšej, ognuno su colui sul quale ripone più speranze.Con occhio da intenditore guardano loro gli occhi, i denti, le schiene e, da certi segni, capiscono chi dà più affidamento e per quello scommettono. L'uomo con cui lì parlavo era anch'egli uno degli spettatori esperti e dapprima aveva puntato su Bakšej, ma poi dice:

"Ah, addio, sono andate in fumo le mie venti copechi: È epkun batterà Bakšej".E io dico:"Come si fa a saperlo? Non si può ancora affermar niente di sicuro: entrambi siedono ancora alla pari".E quello mi risponde:"Siedono alla pari", dice, "ma il modo di picchiare non è lo stesso"."Come?", dico io. "A mio parere, Bakšej picchia ancora con più vivacità"."Proprio questo", risponde, "è il guaio. No, sono perdute le venti copeche su di lui: È epkun lo batterà"."Che stravaganza è questa?", penso. "In che maniera balorda ragiona il mio conoscente? Eppure", rifletto,

"deve intendersene molto di queste cose, se scommette!".E mi prese, sapete, una gran curiosità, per cui continuai a importunare questo mio conoscente:"Dimmi", dico, "caro uomo, perché adesso temi per Bakšej?".E lui dice:"Eh, che sciocco zoticone sei! Guarda", dice, "la schiena di Bakšej".Guardo: niente, la schiena è grande, maschia, larga e convessa come un guanciale."E vedi", dice, "come picchia?".Guardo e vedo che picchia con furia, gli occhi gli schizza persino dalle orbite, e dove colpisce segna a sangue."Be', adesso immagina come sta dentro le viscere"."Come sarebbe a dire", faccio io, "dentro alle viscere? Io vedo soltanto che siede diritto, che ha spalancato la

bocca e aspira l'aria a tutta forza".Ma il mio conoscente dice:"Proprio questo è il guaio: la sua schiena è troppo grande e tutto il colpo ci si posa sopra comodamente; batte

con furia, ansa e respira a bocca aperta: Così con l'aria si brucerà tutte le viscere"."Come", domando, "È epkun darebbe dunque più affidamento?""Senza dubbio", risponde, "dà più affidamento: vedi com'è tutto secco, è tutto pelle e ossa, e la sua schiena è

incurvata come un badile, il colpo non c'è modo che cada per intero su di essa, ma soltanto su piccoli punti, e lui, guarda come annaffia Bakšej con misura, senza affrettare i colpi, ma con maestria, e non toglie via di colpo la frusta, ma lascia che la pelle si gonfi sotto di essa. Per questo appunto Bakšej ha la schiena tutta gonfia e livida come un paiolo, ma non c'è sangue, e così tutto il dolore gli resta dentro al corpo, mentre sulla schiena magra di È epkun la pelle crepita e si spacca come quella di un porcellino arrostito, e per questo tutto il dolore se ne va via col sangue, e così avrà la meglio su Bakšej. Lo capisci questo adesso?"

"Adesso", dico, "lo capisco". E in effetti avevo capito di colpo tutta quell'usanza asiatica e la cosa mi interessava moltissimo: com'era più conveniente contenersi in una simile evenienza?"

"Ma c'è una cosa ancora più importante", mi fa segno il mio conoscente, "osserva come quel maledetto È epkun si dà bene il ritmo col muso: vedi, dà la frustata e a sua volta sopporta il colpo e batte le palpebre a tempo, è meglio che sgranare gli occhi come li sgrana Bakšej, inoltre È epkun ha serrato i denti e si morde le labbra: anche questo aiuta di più, perché attraverso la bocca chiusa non gli penetra soverchia arsura dentro".

Io mi impressi nella mente tutte queste curiose osservazioni e guardo attentamente È epkun e Bakšej, e anche a me divenne chiaro che Bakšej immancabilmente sarebbe caduto giù, perché ormai aveva gli occhi completamente fissi e le labbra gli erano diventate sottili come spago scoprendo interamente la dentatura... Ed effettivamente, vediamo, Bakšej frustò ancora È epkun una ventina di volte, ogni volta sempre più debolmente, e a un tratto crollò all'indietro e lasciò andare la mano sinistra di È epkun, mentre continuava ad agitare la destra come per picchiare, ma ormai privo di conoscenza, svenuto. Qui il mio conoscente disse: "È finita: sono perdute le mie venti copeche". A questo punto tutti i tartari si misero a parlare, felicitarono È epkun, gridarono:

"Aj, che testa È epkun Emgurèeev, aj, che testa fina! L'hai proprio frustato per bene Bakšej! Monta, ora la giumenta è tua!".

E lo stesso khan Džangar si alzò dal feltro e camminò avanti e indietro schioccando le labbra, e anche lui disse:"È tua, È epkun, la giumenta è tua: monta, sprona, riposati sopra di lei".E È epkun si alzò: il sangue gli scorreva a rivoli sulla schiena, ma lui non dava segno di dolore, pose sulla

groppa alla giumenta la propria veste e la sopravveste e le saltò sopra appoggiandosi col ventre sulla groppa e in quella posizione partì, e io fui ripreso dalla malinconia.

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"Ecco", penso, "tutto adesso è finito e ricomincerò a pensare alla mia situazione", mentre non avevo proprio voglia di pensarci.

Fortuna che quel mio conoscente mi dice:"Aspetta, non andartene, qui immancabilmente succederà ancora qualcosa".Io dico:"Cosa deve mai succedere? È tutto finito"."No", dice, "non è finita, guarda", dice, "come il khan Džangar accende la pipa. Vedi, fa le fiammate: vuol dire

che sicuramente ha in mente ancora qualcosa, una cosa proprio da asiatico"."Be'", penso fra me: "Ah, se soltanto ci sarà ancora qualcosa di questo genere, purché ci sia qualcuno che

scommetta per me, io certo non mollerò!".

VI

E cosa vi degnate di credere? Tutto andò esattamente come desideravo: khan Džangar manda fiammate dalla pipa, e verso di lui accorre dalla piana un altro tararetto, ma questo non sopra una seconda giumenta come quella che È epkun aveva preso a Bakšej, bensì su un puledro moro impossibile da descrivere. Avete mai visto correre lungo una proda in mezzo al grano il rallo, l'uccellino che nella nostra lingua, nel dialetto di Orèl, si chiama dergaè? Distende le ali e il didietro, diversamente dagli altri uccelli, non si allarga nell'aria, ma pende all'ingiù, e stende le gambe verso il basso, come se non gli servissero: sembra veramente che corra sull'aria. Ecco, questo nuovo cavallo, a somiglianza di quell'uccello, sembrava che volasse portato da una forza non sua.

Davvero non racconto bugie se dico che neppure volava, ma semplicemente la terra gli si allungava dietro. Una simile leggerezza non l'avevo mai vista da quando ero al mondo, né sapevo come valutare quel cavallo, per quali tesori a chi sarebbe toccato, a quale principe reale, e tanto meno avrei mai pensato che quel cavallo sarebbe diventato mio».

«Come sarebbe diventato vostro?», interruppero il narratore gli ascoltatori meravigliati.«Così, signori, mio, di pieno diritto, ma soltanto per un momento, e in che maniera degnatevi di ascoltarlo, se

vi piace. I signori, secondo la loro abitudine, cominciarono a disputarsi anche questo cavallo, e il mio ufficiale di rimonta, a cui avevo regalato la bambina, anche lui si immischiò, ma contro di loro, come se potesse stare a pari con loro, si fece avanti il tartaro Savakirej, un bassotto, piccolo, ma robusto,indiavolato, con la testa rasata, come tornita, e rotonda, come una giovane e soda palla di cavolo, e il muso rosso come una carota, e tutto quanto assomigliava a un sano e fresco ortaggio. Grida: "Perché", dice,"gettar via denaro inutilmente? Chi vuole metta giù la somma che chiede il khan e faccia a frustate con me per vedere a chi toccherà il cavallo".

Ai signori, si capisce, una cosa simile non si conveniva ed essi perciò si fecero subito da parte; e poi, come avrebbero potuto fare a frustate con quel tartaro: quel miscredente li avrebbe battuti tutti. Quanto al mio ufficiale di rimonta allora a quattrini non se la passava troppo bene, perché a Penza aveva perduto di nuovo alle carte, però il cavallo, vedo, gli piace molto. Così lo tirai da dietro per la manica, e gli dico: così e così, dico, non serve offrire più del necessario, ma quel che il khan domanda, datoglielo, e io mi siederò a battermi con Savakirej all'amichevole. Lui non avrebbe voluto, ma io lo convinsi dicendo:

"Fatemi la grazia: lo desidero".Be', e così facemmo».«Come? voi con quel tartaro... vi siete frustati a vicenda? »«Sissignore, ci battemmo anche noi allo stesso modo all'amichevole, e il puledro toccò a me».«Dunque avete battuto il tartaro?»«Lo battei, signore, non senza fatica, ma ebbi la meglio su di lui».«In verità deve trattarsi di un dolore terribile».«Mmm... come dirvi... Sì, da principio si sente; e anzi fa molto male, specialmente per la mancanza

d'abitudine, inoltre quel Savakirej usava anche lui questa astuzia di battere per far gonfiar la pelle, in modo che non uscisse il sangue, ma io contro questa sua sottile arte applicai una mia tattica ingegnosa: quando lui mi colpiva, facevo un movimento con la schiena sotto lo scudiscio e così trovai il modo di lacerarmi subito la pelle, in tal maniera sventai il pericolo e finii a frustate questo Savakirej».

«Come "finiste"? Volete dire che l'avete frustato a morte?»«Sissignore, lui per la sua ostinazione e per politica resistette così scioccamente, che se ne andò all'altro

mondo», rispose con tono bonario e spassionato il narratore e, vedendo che gli ascoltatori lo guardavano tutti se non con orrore, con muto sconcerto, sentì come la necessità di completare il proprio racconto con una spiegazione.

«Vedete», prosegui, «ciò accadde non per colpa mia, ma sua, perchè egli passava per l'uomo più gagliardo di tutti i Ryn'-peskì e a causa di questa ambizione per nulla al mondo voleva cedermi e voleva soffrire nobilmente affinché per causa sua non cadesse il disonore su tutta la nazione asiatica, ma non ce la fece, poveretto, e contro di me non resistette, probabilmente perché io m'ero messo in bocca una moneta. Questo aiuta moltissimo, e io la mordevo di continuo, per non sentire il dolore, e per distrarsi contavo nella mia mente i colpi, così non mi facevano nulla».

«E quanti colpi avete contato, dunque?», interruppero il narratore.

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«Ecco, questo con sicurezza non posso dirlo; ricordo di aver contato fino a duecentottantadue, ma poi improvvisamente ebbi un giramento di testa, come un mancamento, e per un momento persi conoscenza e continuai a picchiare così, senza contare, soltanto che proprio allora Savakirej alzò per l'ultima volta il braccio contro di me, ma ormai non riuscì più a colpirmi, e cadde in avanti, addosso a me, come un pupazzo: guardarono, era morto... Tfù, che imbecille! Perché aveva resistito fino a quel punto? Per poco per causa sua non finii in galera. Il tartarume non fece una piega: l'avevo ammazzato e pace: i patti erano quelli perché anche lui avrebbe potuto uccidermi a frustate, ma i nostri, i russi, fa persin rabbia come non capiscano questo, e così si gettarono contro di me. Io dico:

"Be', e a voi che importa? Cosa volete?""Come!", dicono. "Hai ucciso l'asiatico!""Be', e che c'è", faccio io, "se l'ho ucciso? Era una faccenda amichevole. Sarebbe forse stato meglio se era lui a

uccidere me?""Lui", dicono, "poteva frustrarti a morte e per lui non ci sarebbe stato nulla di male perché lui è di un'altra fede,

ma tu", dicono, "devi essere giudicato secondo la legge cristiana. Andiamo", dicono, "alla polizia".Be', io penso fra me: "Va bene, fratelli, andate a giudicare i venti nella piana"; e siccome, secondo me, non c'è

niente di peggio della polizia, subito sgattaiolo dietro a un tartaro, e poi dietro a un altro. Sussurro loro:"Salvatemi, principi: avete visto voi stessi che è accaduto in un combattimento leale...".Essi si strinsero e si misero a spingerli l'uno dietro l'altro, così mi nascosero».«Cioè permettete... come fecero a nascondervi?»«Fuggii del tutto con loro nelle loro steppe».«Addirittura nelle steppe! »«Sissignore, proprio nei Ryn'-peskì ».«E ci rimaneste a lungo? »«Dieci anni interi: mi portarono nei Ryn'-peskì che avevo ventitré anni e ne avevo trentaquattro quando fuggii

indietro di laggiù ».« Ebbene, vi piaceva o no vivere nella steppa? »«Nossignore; cosa può mai piacere laggiù? noia e nient'altro; solamente, prima era impossibile andarsene».«Perché mai? I tartari vi tenevano forse in una fossa, oppure vi facevano la guardia?»«Nossignore, essi sono buoni, non mi trattarono tanto ignobilmente, da mettermi in una fossa o in ceppi, ma

semplicemente mi dicono: "Tu, Ivàn, sii nostro amico; noi", dicono, "ti vogliamo molto bene e tu vivi con noi nella steppa e sii un uomo utile, cura i cavalli e aiuta le donne"».

«E voi lo facevate?»«Sì; tra loro facevo da medico e curavo loro stessi, e tutto il bestiame, e i cavalli, e le pecore, ma soprattutto le

loro donne, le tartare».«Dunque voi sapete curare?»«Come dirvi... In fondo non ci vuole poi una grande astuzia per fare questo... A seconda della malattia di

ciascuno, gli davo dell'aloè o della radice di galanga, e gli passava, e aloè loro ne avevano molto: a Saratov un tartaro ne aveva trovato un sacco intero e l'aveva portato, e prima che arrivassi io, loro non sapevano come adoperarlo ».

«E vi siete abituato a vivere con loro?»«Nossignore, desideravo sempre di tornare».«E possibile che non ci fosse modo di andarsene via da loro?»«Nossignore, altrimenti, se avessi avuto i piedi in ordine, da quel dì, me ne sarei tornato indietro in patria!».«Cosa vi era dunque successo ai piedi?»«Dopo la prima volta, mi avevano messo sotto il crine».«Come sarebbe a dire?... Scusate, abbiate pazienza, non comprendiamo bene: cosa significa che vi avevano

messo sotto il crine?»«Tra loro questo è il sistema più comune: se hanno preso a voler bene a qualcuno e vogliono trattenerlo e

quello prova nostalgia o tenta di fuggire, allora lo sistemano in modo che non se ne vada. Così fecero anche con me dopo che una volta avevo provato ad andarmene e mi ero smarrito, mi catturano e dicono: "Sai, Ivàn, tu sii nostro amico, e perché tu non te ne vada di nuovo da noi, sarà meglio che noi ti incidiamo i talloni e ci infiliamo dentro un po' di crine"; e mi conciarono in modo tale i piedi che per tutto il tempo mi trascinavo a quattro zampe».

«Dite, per favore, come effettuano questa orribile operazione?»«Molto semplicemente: una decina d'uomini mi rovesciarono a terra e dicono: "Tu grida, Ivàn, piu forte che

puoi quando cominceremo a tagliare: ti dara sollievo", e mi si sedettero sopra, e uno di loro, esperto in quest'arte, in un attimo mi fece un'incisione nella pelle sotto le piante e ci versò dentro crine di cavallo trinciato e poi di nuovo richiuse la pelle e la cucì col filo. Dopo di ciò mi tennero per alcuni giorni con le mani legate, temendo che mi lacerassi le ferite e ne estraessi il crine col marcio; ma non appena la pelle guarì mi lasciarono andare: "Adesso", dicono, "salve, Ivàn, adesso sei davvero nostro amico e di qui da noi non te ne andrai mai più".

Allora mi alzai appena in piedi e crollai di nuovo a terra: il pelo trinciato che sotto la pelle mi era penetrato nei talloni, si piantava nella carne viva con un dolore così mortale, che non solo era impossibile fare un passo, ma perfino non c'era modo di reggersi ritti. In vita mia non avevo mai pianto, ma qui mi misi addirittura a urlare a squarciagola.

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"Cosa mi avete mai fatto", dico, "asiatici maledetti? Avreste fatto meglio, serpi, a uccidermi del tutto, piuttosto di ridurmi uno storpio per tutta la vita, che non posso nemmeno camminare!".

Ed essi mi rispondono:"Non è nulla, Ivàn, non è nulla, perché ti offendi per una simile sciocchezza?""Questa, dico, sarebbe dunque una sciocchezza? Storpiare così un uomo, e poi non dovrebbe neppure

offendersi?""E tu", dicono, "ingegnati, non camminare direttamente sulle piante, ma cammina a gambe larghe sui

malleoli"."Tfù, vigliacchi!", pensai fra me e mi voltai dall'altra parte e smisi di parlare; nella mia testa decisi che

piuttosto sarei morto, ma non mi sarei messo, secondo il loro consiglio, a camminare a gambe larghe sui malleoli; ma poi, a furia di giacere, fui preso da una noia mortale e cominciai a provare e a poco a poco presi a zoppicare sui malleoli. Loro però non ridevano affatto di me per questo, anzi dicevano:

"Ecco, bene, Ivàn, cammini bene".«Che sventura, ma come fu che avevate tentato di andarvene e foste ripreso?»«Fuggire è impossibile; la steppa è tutta uguale, non ci sono strade e si ha fame... Camminai tre giorni, mi sfinii

peggio di una volpe, avevo catturato con le mani non so che uccello e l'avevo mangiato crudo, ma poi di nuovo la fame, e non c'era acqua... Come si poteva camminare?...Così caddi e loro mi trovarono, mi presero e mi misero sotto il crine ».Qualcuno tra gli ascoltatori a questo proposito osservò che doveva essere estremamente disagevole camminare sulle caviglie.

«Sulle prime anzi va proprio male», rispose Ivàn Sever'janyè, «e anche dopo, sebbene avessi imparato, tuttavia era impossibile camminare a lungo. In compenso, però, questo tartarume, non lo nascondo, da allora si prese bene cura di me.

"Adesso", dicono, "per te, Ivàn, è difficile stare da solo, non ti è agevole portare l'acqua né prepararti quant'altro ti serve. Prenditi ora, fratello", dicono, "una Nataša, noi ti daremo una buona Nataša, scegli quella che vuoi".

Io dico:"Cosa volete che scelga: una vale l'altra. Datemi quella che capita". E così, sui due piedi, senza tante

discussioni,mi sposarono».«Come! Vi sposarono a una tartara?»«Sissignore, si capisce, a una tartara. Dapprima a una, alla moglie di quello stesso Savakirej che avevo frustato

a morte, solo che lei, questa tartara, non risultò per niente di mio gusto: se ne stava come immusonita e sembrava sempre che avesse paura di me, non mi rallegrava affatto. Forse aveva nostalgia del marito, oppure qualcosa le pesava sul cuore. Be', così essi si accorsero che aveva preso ad angustiarmi e subito me ne portarono un'altra; questa era una bambina, di non più di tredici anni... Mi dissero:

"Pigliati, Ivàn, anche questa Nataša, questa ti darà più diletto".E io la presi».«Ebbene? Questa effettivamente vi diede più diletto?» domandarono a Ivàn Sever'janyè gli ascoltatori.«Sì», rispose lui, «questa risultò più piacente, soltanto accadeva che a volte ti rallegrava, a volte invece ti

faceva stizzire con le sue monellerie».«Che monellerie faceva?»«Di vario genere... Quello che le frullava per il capo; a volte ti saltava sulle ginocchia; oppure dormivi e lei ti

faceva cadere col piede la tjubetejka dalla testa e la gettava dove capitava, e rideva. Se la minacciavi, rideva a crepapelle e, come una rusalka, si metteva a correre, e per me, a quattro zampe, era impossibile raggiungerla, stramazzavi e scoppiavi a ridere anche tu».

«Ma voi, laggiù, nella steppa, vi eravate rasato il capo e portavate la tjubetejka?»«Sissignore».«E perché mai? Probabilmente volevate piacere alle vostre mogli?»«Nossignore; maggiormente per la pulizia, perché laggiù non ci sono bagni».«Sicché, dunque, voi avevate due mogli allo stesso tempo?»«Sissignore, in quella steppa due; ma poi, dall'altro khan, da Agašimola, che mi rubò a Otuèev, me ne diedero

altre due».«Scusate», indagò di nuovo uno degli ascoltatori, «come poterono mai rubarvi?»«Con l'inganno. Infatti da Penza ero fuggito colla gente di È epkun Emgurèeev e per cinque anni di fila vissi

nell'orda di Emgurèeev, e da lui, quando si festeggiava qualcosa, convenivano tutti i principi, e gli ulani, e gli šich-zady e i malo-zady, e a volte venivano anche il khan Džangar e Bakšej Otuèev.

«Quello che È epkun aveva battuto a frustate?»«Sì, quello stesso».«Com'è possibile?... Dunque Bakšej non serbava rancore contro È epkun?»«E perché mai?»«Perché quello lo aveva frustato e gli aveva portato via il cavallo».«Nossignore, loro per questo non serbano mai rancore: chi batte un altro secondo un accordo amichevole,

riceva quel che deve ricevere e basta; soltanto una volta il khan Džangar, effettivamente, mi rimproverò... "Eh, Ivàn",

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dice, "eh, sei una testa vuota, Ivàn: perché ti sei seduto a frustarti con Savakirej al posto del principe russo? Io" dice, "avrei voluto ridere a vedere il principe stesso togliersi la camicia!".

"Questo", gli rispondo, "lo avresti aspettato invano"."Perché?""Perché i nostri principi", dico, "sono pusillanimi e non sono virili, e la loro forza è insignificante".Egli comprese."Lo avevo visto anch'io", dice, "che tra loro", dice,"non vi sono veri amatori, ma soltanto, se vogliono avere

qualcosa, è per mezzo del denaro"."È vero", dico, "senza denaro non son capaci di far nulla". Be', quanto ad Agašimola, lui era di un'orda lontana,

i suoi branchi vagavano da qualche parte proprio sopra il Caspio; egli amava molto i medici e mi chiamò a curare la sua khanessa e promise in cambio molti capi di bestiame a Emgurèej. Emgurèej mi permise di recami da lui: presi con me dell'aloè e della radice di galanga e partii con lui. Ma Agašimola, appena mi ebbe in mano sua, via lontano al galoppo con tutto il suo seguito, otto giorni cavalcammo».

«Anche voi cavalcavate?»«Sissignore».«E i vostri piedi?»«Ebbene?»«Ma quel pelo trinciato che avevate nei talloni non vi dava dunque fastidio?»«Per niente; l'hanno studiata bene: quello a cui loro hanno messo sotto il crine non può camminare bene, ma a

cavallo è ancora meglio di uno normale, perché, camminando a gambe larghe, si abitua a tenere sempre le gambe incurvate, e con esse stringe il cavallo come in un cerchione, così che in nessun modo quello riesce a scavalcano».

«Be', e che cosa ne fu di voi nella nuova steppa, presso Agašimola?»«Fui per perire di nuovo e in maniera arico più crudele».«Ma non periste?»«No, non perii».«Fateci dunque la grazia, raccontateci cosa avete sofferto in seguito presso Agašimola».«Prego».

VII

«Appena la gente di Agašimola arrivò con me all'accampamento, subito via in un altro posto e non mi lasciarono più partire.

"Perché, Ivàn", dicono, "vuoi startene lì con Emgurèeev? Emgurèeev è un ladro, tu resta con noi, noi volentieri ti rispetteremo e ti daremo delle buone Nataše. Laggiù avevi soltanto due Nataše, ma noi te ne daremo di più".

"Perché", dico, "dovrei averne di più? Di più non me ne occorrono"."No", dicono, "tu non capisci: più Nataše hai meglio è, ti faranno più piccoli Kolja e tutti ti strilleranno

'tatino'"."Be'", dico, "ho proprio voglia di mettermi ad allevare tartarini! Se ci fosse chi li battezzasse e comunicasse,

sarebbe ancora un altro affare, ma così, per quanti ne metta al mondo sarebbero tutti vostri, e non ortodossi, e comincerebbero a imbrogliare i nostri contadini appena cresciuti". Così mi presi di nuovo due mogli, ma non ne accettai di più, perché se uno ha molte femmine, anche se sono tartare, esse litigano, maledette, e bisogna continuamente ammaestrarle ».

«Be', e dite, amavate queste vostre nuove mogli?»«Come?»«Queste vostre nuove mogli, le amavate?»«Amarle?... Ah, cioè voi parlate di quella faccenda? Normalmente, una che avevo avuto da Agašimola era

sevizievole con me, così io, niente... ne avevo compassione».«E quella bambina, così giovane, che prima avevate avuto in moglie? Quella probabilmente vi piaceva di più?»«Non c'è male; anche di lei avevo compassione».«E ne avevate probabilmente nostalgia quando vi rubarono da un'orda all'altra?»«No, nostalgia non ne avevo».«Ma di certo anche laggiù, da quelle prime mogli, avevate avuto figlioli...»«Eccome, ne avevo avuti: la moglie di Savakirej mi partorì due piccoli Kolja e due piccole Nataše, e

quell'altra,la piccola, in cinque anni me ne partorì cinque, perché in una volta mise al mondo una coppia di piccoli Kolja».

«Permettete, tuttavia, una domanda: perché li chiamate continuamente "piccoli Kolja" e "piccole Nataše"?»«Questo è l'uso tartaro. Fra loro un russo adulto è sempre Ivàn, e una donna Nataša, mentre i maschietti li

chiamano piccoli Kolja; così le mie mogli, sebbene fossero tartare, per causa mia le consideravano ormai tutte russe e le

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chiamavano Nataše, e i maschietti piccoli Kolja. Tutto questo, però, si capisce, era soltanto una cosa superficiale,perché essi erano privi di tutti i sacramenti della Chiesa e io non li consideravo figli miei».

«Come non li consideravate vostri? Perché mai?»«E come avrei potuto considerarli tali, se non erano battezzati e cresimati? »«E i vostri sentimenti paterni?»«Cosa intendete dire?»«Ma possibile che questi bambini non li amaste nemmeno un po' e non provaste mai tenerezza per loro?»«Ma come volete che provassi tenerezza? Si capisce, se, a volte, eri solo e qualcuno correva da te, gli passavi

la mano sulla testolina, lo accarezzavi e gli dicevi: "Va' da tua madre", soltanto accadeva di rado, perché avevo altro per la testa».

«Perché? Avevate molto da fare?»«No, assolutamente nulla, ma provavo nostalgia: desideravo tanto ritornare a casa, in Russia».«Dunque voi nemmeno in dieci anni vi siete abituato alle steppe?»«Nossignore, avevo voglia di tornare a casa... mi ero immalinconito. Soprattutto la sera, oppure anche in pieno

giorno, quando fa bel tempo, fa caldo, l'accampamento è silenzioso, tutto il tartarume per l'afa si rifugia sotto le tende e dorme, ma io sollevo un lembo della mia tenda e guardo la steppa... In una direzione, nei'altra: dappertutto e uguale... Una vista torrida, atroce; uno spazio sconfinato; erbe a non finire; lo sparto bianco, piumoso, che ondeggia come un mare d'argento, e il venticello ne porta l'odore: sa di pecora, e il sole inonda ogni cosa, brucia, e della steppa, come di una vita penosa, non si immagina da nessuna parte la fine, e allora la profondità della malinconia non ha fondo... Guardi tu stesso non sai dove, e all'improvviso davanti a te, spuntato chissà da dove, si delinea un convento o una chiesa, e ti sovvieni della terra battezzata e scoppi a piangere».

Ivàn Sever'janyè si fermò, sospirò profondamente per il ricordo e proseguì:«Oppure era ancor peggio nelle terre salate proprio in riva al Caspio: il sole è rosso, cuoce, il terreno brilla, il

mare brilla... Lo stordimento a causa di questo brillio è perfino peggiore di quello che dà lo sparto, e allora non sai dove, in quale parte dell'universo, annoverarti, ossia se sei vivo o sei morto e soffri nell'inferno, senza speranza, per i tuoi peccati. Là, dove la steppa è più folta di sparto, essa, tuttavia, è più allegra; là, almeno, ogni tanto si vede il grigiazzurro della salvia, oppure il minuto assenzio e la santoreggia screziano il biancore, qui invece è tutto un unico brillio... Là, da qualche parte, il fuoco divampa per l'erba, si leva un trambusto: si alzano in volo ottarde, beccacce e chiurli della steppa, e comincia la caccia. Questi tudak , o, nella lingua di qui, ottarde, gli si corre sopra a cavallo e li si ammazzano colpendoli con lunghi staffili; a volte poi, d'un tratto, bisogna mettersi in salvo dal fuoco noi stessi coi cavalli... Questa è pur sempre una distrazione. Poi sul terreno bruciato attecchisce la fragola; uccelli di ogni genere vi volano sopra, per lo più minutaglia, e l'aria si riempie del loro cinguettio... Inoltre, poi da qualche parte trovi anche qualche arbusto: un sorbo, un pesco selvatico oppure un citiso... E quando al leva del sole la nebbia si posa in rugiada, sembra di sentir odore di frescura e dalle piante emanano profumi... Nonostante tutto questo, anche lì, si capisce, è una noia, ma tuttavia è sopportabile, invece, nelle terre salate - il Signore non dia a nessuno di soggiornare a lungo. Il cavallo lì per un po' è contento: lecca il sale e a causa di esso beve molto e ingrassa, ma per l'uomo lì e la fine. Non c'è nemmeno un essere vivente, soltanto, come per scherno, c'è un solo uccellino dal becco rosso, una specie della nostra rondine, del tutto insignificante, solo che sulla bocca ha questo bordo rosso. Perché voli a quei lidi marini, non so, ma poiché lì non c'è niente dove possa posarsi, cade sul terreno salato, giace per un po' sul ventre, guardi, s'è riscosso e ha spiccato di nuovo il volo, e tu sei privato anche di questo perché non hai ali, e sei di nuovo lì, e non hai ne morte, né vita, né penitenza, e se muori ti mettono come un montone nel sale e resta lì come un pezzo di carne salata fino alla fine del mondo! Ma arico più ripugnante di questo è d'inverno quando c'è la tjuben'ka: la neve è poca, copre appena l'erba e la gela; i tartari allora se ne stanno tutti nelle jurte addosso al fuoco, fumano... Spesso, anche, dalla noia s'azzuffano fra loro. Allora esci fuori e non c'è nulla da guardare: i cavalli rizzano il pelo e camminano a testa bassa, così magri che si vedono soltanto le criniere e le code sventolare al vento. Trascinano le zampe a fatica e con lo zoccolo raspano la crosta di neve e rosicchiano l'erba gelata, e così si nutrono, e questo si chiama tjuben'kovat'. È insopportabile. Sola distrazione è che se notano che un cavallo si è molto indebolito e non è in grado di tjuben'kovat ', cioè non riesce a rompere la neve con lo zoccolo e a strappare le radici ghiacciate coi denti, subito gli tagliano la gola col coltello, gli tolgono la pelle e mangiano la carne. Una carne schifosissima, però: dolce come la mammella di vacca, ma dura; per necessità, si capisce, si mangia, ma è disgustosa. Fortuna ancora che una delle mie mogli sapeva affumicare le costole di cavallo: prendeva una costola così com'era, con la carne da tutte e due le parti, la infilava in un grosso budello e l'affumicava sopra il focolare. Così va ancora bene, si può mangiare meglio perché per lo meno ha un odore che assomiglia a quello del prosciutto, ma al gusto è egualmente disgustosa.Ed ecco rosicchi una simile porcheria e improvvisamente ti viene in mente: eh, a casa, invece, da noi adesso al villaggio spennano le anatre e le oche, scannano i maiali, cuociono gli šèi ben grassi con la collottola di maiale, e padre Il'jà, il nostro prete, un vecchietto buono come il pane,presto andrà in giro a cantare la gloria di Cristo, accompagnato dai sagrestani, dalle mogli dei preti e dei sagrestani e dai seminaristi, e sono tutti brilli, benché lui, padre Il'jà, non possa bere molto: nella casa dei padroni il maggiordomo gli presenta un bicchierino; anche nell'ufficio l'amministratore e la governante gli fanno portare qualcosa per onorarlo, padre Il'jà così comincia a perdere le forze e quando arriva da noi, alle case della servitù, trascina a stento i piedi ubriaco: nella prima izbà manda giù ancora bene o male un bicchierino, ma poi non ce la fa più e versa tutto quanto in una bottiglietta sotto la pianeta. In ogni cosa è così, alla mano, anche per quel che riguarda il cibo, se vede qualche pietanza appetitosa,

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chiede: "Datemene un po'", dice, "in un foglio di giornale, che la avvolgo e me la porto a casa". Di solito gli rispondono: "Non ne abbiamo, bàtjuška, carta di giornale", e lui non si arrabbia e la prende così, senza tante storie, e senza avvolgerla la passa alla moglie, e procede oltre sempre con la stessa calma. Ah, signori, quando ti cominciano a venire in mente tutti questi ricordi dell'infanzia senti un'oppressione nell'anima e improvvisamente provi una stretta alle viscere al pensiero del luogo dove stai perdendo la tua vita, lontano da tutta quella felicità e da quanti anni non ti sei confessato e che vivi senza matrimonio e morrai senza funerale, e allora ti assale l'angoscia e... attendi la notte, esci fuori pian piano dietro all'accampamento, affinché né le mogli, né i figli, né alcuno di quei miscredenti ti veda, e ti metti a pregare... e preghi... preghi tanto, che la neve perfino si fonde sotto le ginocchia, e, dove sono cadute le lacrime, il mattino dopo scorgi l'erbetta».

Il narratore tacque e abbassò il capo. Nessuno lo disturbò; tutti sembravano compenetrati di un sentimento di rispetto per il santo dolore dei suoi ultimi ricordi; ma, tra scorso un momento, lo stesso Ivàn Sever'jànyè sospirò e fece un gesto di noncuranza con la mano; si tolse dalla testa il copricapo monastico e, segnatori, disse:

«Ma tutto ciò e passato, grazie a Dio!».Lo lasciammo riprende fiato e poi ci arrischiammo a fargli nuove domande su come lui, quel nostro gigante incantato, avesse rimesso in sesto i suoi calcagni guastati dal crine trinciato e per quali vie fosse fuggito dalla steppa dei tartari, dalle sue Nataše e dai suoi piccoli Kolja, e fosse finito in convento.

Ivàn Sever'janyè soddisfece questa curiosità con totale sincerità, venir meno alla quale, evidentemente, gli riusciva del tutto impossibile.

VIII

Per amore della consequenzialità nello sviluppo della storia di Ivàn Sever'janyè, che aveva suscitato il nostro interesse, lo pregammo di raccontarci innanzitutto con quali mezzi straordinari si fosse liberato del suo crine e fosse fuggito dalla prigionia. Egli ci fece di ciò il seguente resoconto:

«Avevo perduto ogni speranza di ritornare mai più a casa e di rivedere la mia patria. Mi sembrava impossibile persino pensarci, e anche la nostalgia aveva cominciato a spegnersi in me. Vivevo come una statua insensibile e niente più; ma a volte pensavo che da noi, a casa, in chiesa, quello stesso padre Il'jà che chiedeva sempre carta di giornale, durante la funzione pregava "per i naviganti e i viaggiatori, per coloro che soffrono e i prigionieri", e io, quando sentivo questo, pensavo sempre: perché? Siamo forse in guerra adesso, per pregare per i prigionieri? Ma ecco che adesso lo capivo, perché si pregava a quel modo, ma non capivo come mai da tutte quelle preghiere non me ne venisse alcun giovamento e, per dirla tutta, benché non perdessi la fede, tuttavia ero turbato e smisi di pregare.

"A che pro pregare", pensavo, "se non se ne ricava nulla?".Nel frattempo una volta improvvisamente sento che il tartarume, non si sa perché, si mette in agitazione.Io dico:"Che c'è?""Niente", rispondono, "dalla vostra terra sono arrivati due mullah, hanno un salvacondotto dello zar bianco e

vanno lontano a predicare la loro fede".Io balzai su, dico:"Dove sono?".Mi indicarono una jurta e mi recai dove mi avevano indicato. Arrivo e vedo: lì si erano raccolti molti šich-zady

e malo-zady e mamy e dervisci, tutti seduti a gambe incrociate sopra i feltri, e in mezzo a loro ci sono due sconosciuti che, nonostante gli abiti da viaggio, si vedeva chiaramente che erano di condizione ecclesiastica; se ne stavano in piedi in mezzo a quell'accozzaglia e insegnavano ai tartari la parola di Dio.

Appena li scorsi mi rallegrai di vedere dei russi e il cuore in petto mi cominciò a palpitare, e caddi ai loro piedi scoppiando in singhiozzi. Anch'essi si rallegrarono di quel mio ossequio ed entrambi esclamarono:

"Ebbene? Ebbene! Vedete? Vedete come agisce la grazia? Ecco che essa ha già toccato uno dei vostri ed egli ripudia Maometto".

Ma i tartari rispondono che non agiva nessuna grazia: questo è un vostro Ivàn, uno dei vostri, un russo, soltanto che vive quaggiù prigioniero presso di noi.

I missionari rimasero assai malcontenti della cosa. Non volevano credere che fossi russo, ma interloquii io stesso:

"No", dico, "sono davvero russo! Padri spirituali", dico, "abbiate compassione, tiratemi fuori di qui! È ormai l'undicesimo anno che languisco quaggiù prigioniero e vedete come mi hanno storpiato: non posso camminare".

Essi, però, non degnarono le mie parole della benché minima attenzione e, voltatisi dall'altra parte, ripresero a predicare senza curarsi d'altro.

Io pensai: "Perché prendersela per questo: loro sono ufficiali del governo e forse sarebbe imbarazzante per loro comportarsi diversamente con me davanti ai tartari", e me ne andai, ma poi scelsi un momento in cui erano soli in un accampamento a parte e, precipitatori da loro, gli raccontai tutto, la sorte crudelissima che mi toccava sopportare, e li pregai:

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"Impauriteli", dico, "padri benefattori, col nostro padre lo zar bianco: ditegli che egli non vuole che gli asiatici trattengano a forza prigionieri i suoi sudditi, o meglio ancora pagate loro un riscatto per me, e io vi servirò. Vivendo qui", dico, "ho appreso benissimo la loro lingua tartara e posso esservi utile".

Ma essi mi rispondono:"Cosa vuoi, figliolo", dicono, "non abbiamo di che riscattarti, e impaurire gli infedeli", dicono, "a noi non è

concesso, perché anche così sono gente perfida e ribelle, e con loro per politica ci comportiamo cortesemente"."Dunque, allora", dico, "per questa vostra politica debbo marcire in eterno in mano loro?""Ebbene, figliolo", dicono, "è la stessa cosa dove si marcisce, ma tu prega: la misericordia di Dio è

grande,forse egli ti trarrà di ambasce"."Io", dico, "ho pregato, ma ormai non ho più forze e ho deposto ogni speranza"."Invece tu", dicono, "non disperare perché questo è un grave peccato!""Sì", dico, "non dispero, soltanto... come mai vi comportate così... mi amareggia molto che voi siate russi,

paesani, e non vogliate aiutarmi in nessun modo"."No", rispondono, "tu, figlio, in questo non immischiarci, noi siamo in Cristo e in Cristo non c'è né elleno né

giudeo: nostri paesani sono tutti i fedeli. Per noi sono tutti eguali, tutti eguali"."Tutti?", dico."Sì", rispondono, "tutti, questo è il precetto che ci ha dato l'apostolo Paolo. Dovunque noi andiamo, noi non

disputiamo... ciò a noi non si confà. Tu sei uno schiavo e, che vuoi farci, pazienta, perché anche secondo l'apostolo Paolo", dicono, "gli schiavi debbono obbedire. Ma tu ricordati che sei un cristiano, e perciò non è il caso che noi ci prendiamo pensiero per te, anche senza di noi le porte del paradiso sono aperte per la tua anima, mentre costoro saranno nelle tenebre se noi non li convertiamo, perciò dobbiamo prenderci cura di loro".

E mi mostrano un libriccino."Ecco", dicono, "vedi quanti nomi sono segnati su questo registro? Sono tutte persone che noi abbiamo

convertito alla nostra fede!".Non parlai più con loro e non li vidi più, tranne uno e anche quello per caso: corse da me una volta non so di

dove un mio figlioletto e dice:"Da noi sul lago, babbino, è disteso un uomo".Andai a vedere: gli avevano strappato le calze dalle gambe fino alle ginocchia e i guanti dalle mani fino ai

gomiti, il tartarume sa far questo con arte: fa un taglio tutt'attorno e poi tira, così strappa la pelle; e la testa di quell'uomo giaceva da una parte con una croce incisa sulla fronte.

"Eh", penso, "tu non hai voluto, paesano, darti briga per me, e io ti ho condannato, ma tu hai meritato di ricevere la corona del martirio. Perdonami ora per amor di Cristo!".

E presi e gli feci sopra il segno della croce, composi la sua testa col tronco, mi inchinai fino a terra, e lo seppellii, e cantai sulla sua tomba l'O Dio Santo; che fine abbia fatto il suo compagno non lo so; ma probabilmente finì anche lui col ricevere la corona del martirio perché dopo di allora nella nostra orda fra le tartare presero a girare un'infinità di piccole icone, proprio quelle che avevano con sé quei missionari».

«Ma questi missionari si spingono fin laggiù, nei Ryn'-peskì?»«Eccome, ci vanno, soltanto senza nessun profitto».«Come mai?»«Non sanno da che verso prenderli. L'asiatico bisogna portarlo alla fede con la paura, in modo che tremi dal

terrore, mentre loro predicano loro un Dio mite. Ciò da principio non va assolutamente bene, perché l'asiatico un Dio mite, senza minaccia, non lo rispetterà e massacrerà i suoi predicatori».

«Ma soprattutto bisogna ritenere che, recandosi tra gli asiatici, non si deve portare con sé né denaro né oggetti preziosi».

«Sissignore, ma, d'altronde, non crederanno egualmente che uno sia venuto senza portare nulla con sé, penseranno che abbia sepolto qualcosa da qualche parte nella steppa e cominceranno a torturarlo fino a farlo morire».

«Che briganti!».«Sissignore; così accadde a un giudeo me presente: arrivò chissà da dove un vecchio giudeo e anche lui parlava

della fede. Era un uomo buono e, evidentemente, pieno di zelo per la sua fede; era tutto coperto di stracci tanto che gli si vedeva dappertutto la carne, e si mise a parlare della fede in modo tale che uno, pareva, non avrebbe mai smesso di ascoltarlo. Io da principio mi ero messo a disputare con lui: che fede è mai la vostra, dicevo, se non avete santi, ma lui mi dice: li abbiamo, e cominciò a leggermi nel Talmud quali santi hanno... molto interessante, e il Talmud, dice, l'hascritto il rabbino Iovoz ben Levi, che era così dotto che i peccatori non potevano guardarlo; bastava uno sguardo e subito morivano tutti, per cui Dio lo chiamò davanti a se e disse: "Ehi, tu, dotto rabbino Iovoz ben Levi! È una buona cosa che tu sia così dotto, soltanto non è bene che per causa tua tutti i miei giudeucci debbano morire. Non per questo,dice, li ho fatti trasmigrare con Mosè attraverso la steppa e ho fatto attraversare loro il mare. Perciò vattene dunque fuori dalla tua patria e vivi là, dove nessuno possa vederti".E il rabbino Levi come s'incamminò si imbatté in quel famoso posto dove c'era il paradiso, e lì si seppellì nella sabbia fino al collo e rimase lì nella sabbia tredici anni, ma, pur essendo sepolto fino al collo, ogni sabato si cucinava un agnello che veniva arrostito da un fuoco che discendeva dal cielo. E se una zanzara o una mosca gli si posavano sul naso per bere il suo sangue, anche loro erano subito divorate dal fuoco celeste... Agli asiatici piacque molto questa storia del dotto rabbino, ed essi rimasero a lungo

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ad ascoltare quel giudeo, ma poi gli si avvicinarono e cominciarono a interrogarlo: dove aveva seppellito i suoi quattrini venendo da loro? Come giurò e spergiurò, bàtjuški, il giudeo che non aveva quattrini, che Dio l'aveva mandato lì senza nulla, con la sua sola saggezza, tuttavia loro non gli credettero, tirarono fuori dal fuoco dei carboni, distesero sulla brace ardente una pelle di cavallo, ce lo misero sopra e cominciarono a rosolarlo. Che parlasse, che dicesse loro dov'erano i quattrini. Ma quando videro che era diventato tutto nero e che non emetteva più voce:

"Basta", dicono, "sotterriamolo nella sabbia fino al collo: forse ciò lo guarirà".E lo seppellirono, ma tuttavia il giudeo, anche così sotterrato, morì e la sua testa nereggiò a lungo fuori dalla

sabbia, ma i bambini cominciarono ad averne paura, così la troncarono e la gettarono in un pozzo secco»«Va' un po' a predicare a gente simile!»«Sissignore; è assai difficile, eppure tuttavia quel giudeo i quattrini ce li aveva».«Ce li aveva?!»«Sissignore; più tardi i lupi e gli sciacalli cominciarono a dilaniano e, pezzo a pezzo, a poco a poco lo tirarono

tutto fuori dalla sabbia, finché arrivarono alle calzature. A questo punto fecero a brani gli stivaletti e dalla suola rotolarono fuori sette monete. Le trovarono in seguito».

«Be', ma voi come avete fatto a sfuggire dalle loro grinfie?»«Fu un miracolo a salvarmi».«E chi fece dunque il miracolo di portarvi in salvo?»«Talafa».«Chi è mai questo Talafa: anche lui un tartaro?»«Nossignore; egli è di altra razza, indiana, anzi non è nemmeno un indiano qualunque, ma un loro dio disceso

in terra».Pregato dagli ascoltatori, Ivàn Sever'janyè Fljagin raccontò quanto segue su questo nuovo atto della

tragicommedia della sua vita.

IX

«Dopo che i tartari si furono sbarazzati dei nostri missionari, passò di nuovo poco meno d'un anno e s'era di nuovo d'inverno, e noi cacciammo i branchi a tjuben'kovat' in contrade più meridionali, verso il Caspio, e qui un giorno, verso sera, all'improvviso giunsero da noi due uomini, se soltanto si possono considerare uomini. Chissà chi erano, e da dove venivano e di che stirpe e condizione fossero. Non avevano neppure una vera lingua, né russa,né tartara, ma dicevano una parola nella nostra lingua,una in tartaro, e fra loro parlavano non si sa in quale altra lingua. Entrambi non vecchi, uno bruno, con una grande barba, in una veste lunga, poteva parere un tartaro, soltanto che la sua veste non era variopinta, ma tutta rossa, e in testa portava un berretto persiano a punta; l'altro, invece, era rossiccio, anche lui in veste lunga, ma con un'aria da furbone: aveva sempre con sé non so che cassettine e, non appena c'era un momento che nessuno lo guardava, si toglieva la veste e rimaneva in sole brache e giubbetto, cuciti come ne portano in Russia certi tedeschi nelle officine. Ed era sempre intento a frugare e rovistare in quelle cassettine, ma cosa ci tenesse lo sa il diavolo. Dicevano di esser venuti da Chiva a comprar cavalli e che volevano laggiù da loro far guerra a qualcuno, a chi però non lo dicevano, ma soltanto sobillavano tutto il torturammo contro i russi. Sento questo rossiccio, che non sapeva parlare gran che, farfugliare qualcosa in russo come "commendant" e sputare; tuttavia denaro con sé non ne avevano perché loro, gli asiatici, lo sanno che se si va nella steppa con del denaro, non se ne esce fuori con la testa sulle spalle, bensì invogliavano i nostri tartari a condurre loro i branchi sul loro fiume, il Dar'ja, dove si sarebbero fatti i conti. Il tartarume tentennava ora di qua ora di là, e non sapeva se consentire a questo o no. Pensano e ripensano, come se scavassero l'oro, ma evidentemente avevano paura di qualcosa.

E quelli ora cercavano di convincerli con le buone, ma poi cominciarono anche a spaventarli."Conduceteli da noi", dicono, "altrimenti vi può capitare qualche disgrazia: noi abbiamo il dio Talafa, ed egli

ha inviato con noi il suo fuoco. Dio non voglia che vada in collera".I tartari non conoscevano questo dio e dubitavano che potesse far loro qualcosa d'inverno nella steppa col suo

fuoco. Ma quello con la barba nera e la veste rossa, venuto da Chiva, dice: se dubitate, questa notte stessa Talafa vi mostrerà la sua forza, soltanto, dice, se vedrete o udirete qualcosa, non uscite fuori, altrimenti lui vi incenerità.Naturalmente ciò, nella noia invernale della steppa, parve a tutti tremendamente interessante, e tutti noi, benché temessimo un po' quell'evento terribile, eravamo però contenti di vedere cosa avrebbe fatto quel dio indiano; con che cosa, con quale prodigio si sarebbe manifestato.

Ci ritirammo presto con le mogli e coi figli sotto le tende e attendiamo... Tutto era buio e silenzioso come ogni notte, ma ecco a un tratto, nel primo sonno, sento qualcosa come una tormenta sibilare e scoppiettare nella steppa, e attraverso il sonno mi parve come se dal cielo piovessero scintille.

Mi riscossi e vidi che le mie mogli si rigiravano e i bambini si erano messi a piangere. Dico:"Ss! tappate loro la bocca, che poppino invece di piangere".Quelli si misero a succhiare e ritornò di nuovo il silenzio, ma nella steppa buia, in alto, di nuovo sibilò un

fuoco... sibilò e di nuovo scoppiò...

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"Be'", penso, "però, evidentemente, Talafa non è uno scherzo!".E lui poco dopo si mise di nuovo a sibilare, ma ora in tutta'altra maniera: spiccò il volo una sorta di uccello di

fuoco, con la coda anch'essa di fuoco, un fuoco straordinario, rosso come il sangue, e quando scoppia diventa giallo e poi azzurro.

Nel campo sento che tutto sembra morto. Nessuno, si capisce, poteva non aver sentito una simile sparatoria, ma tutti, evidentemente, si erano spaventati e rimanevano sotto le loro pellicce. Si sentiva soltanto la terra tremare, sussultare e poi arrestarsi di nuovo. Erano i cavalli, si può immaginare, che scalpitavano e si stringevano in mucchio, e si sentì a un tratto che quei chiviani o indiani correvano non so dove, e subito ecco di nuovo il fuoco guizzare per la steppa come un serpente... Appena i cavalli videro ciò, si lanciarono al galoppo... Il tartarume dimenticò anche la propria paura, saltarono tutti fuori scuotendo le zucche e strillando: "Allah! Allah!", e via all'inseguimento, ma quelli, i chiviani, erano scomparsi e non ce n'era traccia avevano lasciato soltanto una delle loro cassettine per ricordo... E allora, mentre tutti i nostri uomini validi si erano lanciati all'inseguimento del branco e nel campo erano rimasti soltanto le femmine e i vecchi, guardai cosa ci fosse in quella cassettina. Vedo che ci sono varie polveri e medicine e tubetti di carta: mi misi ad esaminare uno di questi tubetti vicino al fuoco, ed ecco che mi scoppia che a momenti mi brucia tutti gli occhi, e vola in alto e lì... bbbachchch, una pioggia di stelle... "Eh, eh", penso fra me, "questo, a quanto pare, non è un dio, ma semplicemente un fuoco artificiale, come ne lanciavano da noi ai giardini pubblici", e appena di nuovo faccio scoppiare un altro tubetto, vedo che i vecchi tartari rimasti si sono gettati a terra e giacciono immobili a faccia ingiù lì dove sono caduti con le gambe soltanto che gli tremano... Dapprima anch'io mi spaventai, ma poi quando vidi come tremavano, d'improvviso il mio stato d'animo mutò completamente e, per la prima volta da quando ero stato fatto prigioniero, feci stridere i denti e cominciai a pronunciare contro di loro gridando più forte che potevo tutte le parole sconosciute che mi venivano in mente:

"Parlé-bien-comsà-scire-mir-adiù-musiù!".E lanciai un altro tubetto con una girandola... A questo punto ormai loro, vedendo come correva la girandola

infocata, erano come morti... Il fuoco si spense e loro continuavano a rimanere sdraiati e soltanto uno si azzarda appena a sollevare la testa e subito rimette giù il muso e mi fa segno soltanto col dito chiamandomi accanto a sé. Io mi avvicino e dico:

"Be', che c'è? Parla, maledetto, cosa vuoi: la morte o la vita?", perché vedo che ormai hanno una paura dannata di me.

"Perdonaci", dicono, "Ivàn, non darci la morte, dacci la vita".E da un'altra parte anche gli altri assentono e mi chiedono tutti perdono e la vita.Io vedo che le mie cose

avevano preso una buona piega: sicuramente ormai avevo patito abbastanza per i miei peccati, e prego:"Madre santissima, regina, San Nicola Intercessore piccoli cigni miei, colombelli, aiutatemi, benefattori!".E ai tartari con tono severo chiedo:"Per che cosa e a qual fine vi devo perdonare e farvi grazia della vita?""Perdonaci", dicono, "che non abbiamo creduto nel tuo dio"."Ahà", penso, "ecco come li ho spaventati", e dico:"Eh no, fratellini, vi sbagliate, questo di esservi messi contro la religione non ve lo perdono per nulla al

mondo!". E di nuovo faccio stridere i denti e dissigillai un altro tubetto.Questo era un razzo... Un fuoco e uno schianto tremendi.Grido ai tartari:"Ebbene: ancora un istante e vi stermino tutti se non volete credere nel mio dio"."Non sterminarci", rispondono, "siamo tutti d'accordo di sottometterci al vostro dio".E io smisi di accendere i fuochi artificiali e li battezzai nel fiumicello ».«Li battezzaste lì, all'istante, sui due piedi?»«In quell'istante medesimo. Non c'era da aspettare a lungo: non bisognava che avessero il tempo di ripensarci.

Versai loro dell'acqua sulle zucche sopra un buco nel ghiaccio, recitai "Nel nome del Padre e del Figlio", e misi loro al collo le crocette che avevano lasciato i missionari ordinai anche loro di venerare come un martire quel missionario che era stato ucciso e di pregare per lui, e mostrai loro la sua tomba».

«E loro pregarono?»«Sissignore».«Tuttavia loro, in verità, non conoscevano nessuna preghiera cristiana, o gliele insegnaste voi? »«No; non avevo il tempo di insegnargliele perché vedevo che era venuto il momento buono per scappare, così

ordinai loro: pregate come avete fatto sinora, alla vecchia maniera, soltanto non vi azzardate a nominare Allah, ma menzionate invece Gesù Cristo. Così essi abbracciarono la nostra confessione».

«Be', e poi come faceste tuttavia a fuggire da questi nuovi cristiani coi vostri piedi storpiati, e come guariste?»«In seguito trovai fra quei fuochi artificiali una polvere corrosiva che appena applicata al corpo lo bruciava

terribilmente. Io me la misi addosso e finsi di essere malato e di continuo, mentre giacevo sotto il feltro, con questa polvere mi guastavo i calcagni e continuai così per due settimane, finché tutta la carne sotto i piedi andò in suppurazione e tutto quel crine che dieci anni prima i tartari mi ci avevano messo dentro non uscì fuori col pus. Mi rimisi in forze quanto più presto possibile, ma non lo davo a vedere, anzi fingevo di sentirmi ancor peggio, e ordinai ai vecchi e alle femmine di pregare per me col più grande fervore, perché, dissi, stavo per morire. E imposi loro una sorta

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di digiuno di penitenza, e intimai loro di non uscire dalle jurte per tre giorni, e per impaurirli di più lanciai il fuoco artificiale più grosso, e me ne andai...»

«Ma essi non vi inseguirono?»«No; avevano altro a cui pensare che a correrci dietro! Li avevo tanto sfiniti col digiuno e spaventati che

probabilmente se ne rimasero buoni per tre giorni senza mettere il naso fuori dalle jurte, e dopo, anche se guardarono fuori, ormai ero troppo lontano per cercarli. I piedi, dopo che avevo estratto da essi il crine, si erano asciugati ed erano diventati così leggeri che, una volta presa la rincorsa, attraversai correndo tutta la steppa».

«Sempre a piedi?»«E come se no? Lì non c'è strada di passaggio, non si incontra nessuno, e se si incontra, non c'è da rallegrarsi di

chi trovi. Il quarto giorno scorsi un ciuvascio solo che cacciava avanti cinque cavalli. Mi fa: "Monta in sella".Io ebbi paura e non montai».«Perché avete avuto paura di lui?»«Ma, così... mi parve infido, e poi non si riusciva a capire di che religione fosse, e senza questo nella steppa si

ha paura. Ma lui, l'insensato, grida:"Monta", dice, "si starà più allegri a cavalcare in due".Io dico:"Ma tu chi sei? Forse sei un senza dio"."Come", fa, "non ho tio? È il tartaro che non ha tio, io invece tio ce l'ho"."Chi è dunque", dico, "il tuo dio?""Per me", dice, "tutto è tio: il sole è tio, e la luna è tio, e le stelle sono tio... tutto è tio. Come sarebbe a dire, che

io non ho tio?""Tutto!... mm... tutto", dico, "per te è dio, ma Gesù Cristo dunque non è dio?""No", dice, "anche lui è tio, e la Madonna è tio e Nikolàè è tio...""Quale Nikolàè?", dico."Quello che sta solo d'inverno e solo d'estate".Lo lodai perché venerava il santo russo Nicola Taumaturgo."Veneralo", dico, "sempre, perché egli è russo", e già stavo per approvare del tutto la sua fede e andare con lui,

ma per fortuna egli cianciò troppo e si tradì."Eccome lo venero", dice, "Nikolàè: sebbene d'inverno non m'inchini a lui, d'estate però gli do un ventino

perché mi protegga per benino le vacche, sì! Però di lui solo non mi fido, e così sacrifico un torello a Keremet'".Io mi arrabbiai."Come osi", dico, "non fidare di San Nicola Taumaturgo e a lui, che è russo, offrire soltanto un ventino mentre

alla tua schifosa Keremet' mordvina offri un torello intero! Vattene via", dico, "non voglio venire con te...non cavalcherò con te, se manchi di rispetto così a San Nicola Taumaturgo".

E non montai a cavallo: mi misi a camminare a tutta forza e, prima che potessi raccapezzarmi, verso la sera del terzo giorno mi accorsi che si vedeva dell'acqua e delle persone. Mi stesi per timore nell'erba e spiai che gente fosse. Temevo, infatti, di andare a finire daccapo in una prigionia ancor peggiore, ma vedo che quella gente stava cuocendo del cibo... Debbono essere dei cristiani, penso.Strisciai ancor più vicino: guardo, si fanno il segno della croce e bevono vodka: be', allora vuol dire che sono russi!... A questo punto saltai fuori dall'erba e mi feci vedere. Risultò che era una squadra di pesca: stavano catturando il pesce. Essi, come si conviene tra conterranei, mi accolgono affettuosamente e dicono:

"Bevi la vodka!".Io rispondo:"Fratelli miei, stando con il tartarume mi sono completamente disabituato"."Non fa niente", dicono, "qui sei fra i tuoi connazionali, ti riabituerai: bevi!".Io mi versai un bicchierino e pensai:"Ebbene, sia benedetto il Signore per il mio ritorno!", e bevo d'un fiato, ma quei bravi ragazzi dei pescatori

insistono."Bevi ancora!", dicono. "Guarda come ti sei ridotto senza vodka".Io me ne concessi un altro e divenni assai

aperto: raccontai loro tutto: di dov'ero e dove e come avevo soggiornato. Tutta la notte, seduto accanto al fuoco, raccontai loro le mie vicende e bevvi vodka, ed ero così felice di essere di nuovo nella santa Russia, ma verso il mattino, quando già il falò stava per spegnersi e quasi tutti quelli che erano stati ad ascoltarmi si erano addormentati, uno della squadra mi dice:

"Ma ce l'hai il passaporto?".Io dico:"No, non ce l'ho"."Ma se non ce l'hai", dice, "qui per te è la prigione"."Be', allora", dico, "rimarrò qui da voi; qui da voi, forse, si può vivere anche senza passaporto".E lui mi risponde:"Vivere", dice, "qui da noi senza passaporto si può, ma non si può morire".Io dico:

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"Perché questo?""E come farebbe", dice, "il pope a registranti, se non hai il passaporto?""E allora", dico, "in tal caso che debbo fare?""Allora", dice, "ti butteremo nell'acqua per nutrire i pesci" ."Senza pope?""Senza pope".Io, avendo un po' bevuto, mi spaventai terribilmente e mi misi a piangere e a lamentarmi, ma il pescatore

scoppiò a ridere."Ho scherzato", disse, "muori senza paura: ti seppelliremo nella terra natia".Ma io ormai ero molto amareggiato e dissi:"Bello scherzo. Se mi farete spesso di questi scherzi io non arriverò alla prossima primavera".E appena quell'ultimo della compagnia si fu addormentato, mi levai in fretta e me ne andai via, e arrivai ad

Astrachan', guadagnai a giornata un rublo e da quel momento mi misi a bere così accanitamente che non ricordo come mi ritrovassi in un'altra città e lì ero rinchiuso in prigione; da lì poi sotto scorta mi rispedirono nel mio governatorato. Mi condussero nella nostra città, mi frustarono alla polizia e mi riportarono nella nostra tenuta. La contessa che mi aveva fatto frustare per la coda di gatto era ormai morta, e il conte era rimasto solo, ma era assai invecchiato, era diventato bigotto e aveva dimenticato la passione per i cavalli. Gli riferirono che ero arrivato, egli si ricordò di me e ordinò che venissi frustato un'altra volta a casa e che andassi dal prete, da padre Il'jà, per la confessione. Be', mi frustarono alla maniera antica, nell'izbà dell'amministrazione, e andai da padre Il'jà, e quello si mise a confessarmi e per tre anni non mi permise di comunicarmi...

Io dico:"Ma come, padre, sono tanti anni che aspetto di comunicarmi...""Non vuo dire", fa lui, "che hai aspettato: perché hai tenuto presso di te delle tartare come mogli? Lo sai", dice,

"che sono ancora indulgente ad escludere soltanto dalla comunione, perché se dovessi punirti secondo la regola dei santi padri, allora bisognerebbe bruciarti addosso sulla carne viva tutti gli abiti, soltanto", dice, "tu di questo non aver paura, perché adesso questo non è permesso dalla legge di polizia".

"Be'", penso, "che fare: anche se resterò senza comunione, almeno vivrò a casa mia, mi ristorerò dalla prigionia", ma il conte questo non lo volle. Si degnò di dire:

"Io", dice, "non posso tollerare accanto a me uno che è escluso dalla comunione"E ordinò all'amministratore di farmi frustare un'altra volta pubblicamente per ammaestramento generale, e poi

di mandarmi a lavorare fuori pagando il tributo. E così fu fatto: mi frustarono, questa volta alla maniera nuova, sul terrazzino davanti all'ufficio, alla presenza di tutti i servi, e mi diedero il passaporto. Sul momento mi sentii felice di essere, dopo tanti anni, finalmente un uomo libero, con le carte in regola. Non avevo alcuna intenzione precisa, ma Dio mi aveva concesso la Pratica»

«Quale?»«Sempre nello stesso campo, quello dei cavalli. Cominciai dal niente, senza un centesimo, e presto raggiunsi

una posizione ragguardevole e avrei potuto sistemarmi ancora meglio, se non fosse stato per una certa faccenda».«Di che cosa si tratta, se è lecito?»«Caddi sotto il potente dominio di svariati spiriti e delle passioni e inoltre di una cosa inverosimile».«Quale sarebbe questa cosa inverosimile sotto il cui dominio cadeste?»«Il magnetismo, signori»«Cosa? Il magnetismo?!»«Sissignore, l'influsso magnetico di una certa persona...»«In che modo avvertivate sopra di voi la sua influenza?»«In me agiva una volontà estranea e io vivevo il destino di un altro».«Fu allora, dunque, che incontraste la vostra propria rovina, dopo la quale riteneste che dovevate adempiere il

voto di vostra madre ed entrare in convento?»«Nossignore, ciò avvenne arico più tardi, ma antecedentemente mi capitarono molte altre svariate avventure

prima che mi convincessi veramente».«Potete raccontarci anche queste avventure?»«Perché no? Con mio grande piacere...»«Allora prego».

X

«Ricevuto il passaporto, mi incamminai senza alcun progetto su me stesso e, giunto a una fiera, vidi che uno zingaro stava barattando un cavallo con un contadino e lo ingannava spudoratamente; per provarne la forza, aveva attaccato il proprio cavalluccio a un carro di miglio e quello del contadino a uno di mele. La forza, naturalmente, è la stessa, ma il cavallo del contadino faticava, perché l'odore delle mele lo frastorna, dato che per il cavallo questo odore è

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terribilmente sgradevole, inoltre vidi che il cavallo dello zingaro soffriva di svenimenti, il che si poteva capire subito perché sulla fronte aveva il segno dove era stato applicato il fuoco, ma lo zingaro diceva: "È una verruca". Io però, si capisce, avevo compassione del contadino, perché con un cavallo che sveniva non avrebbe potuto lavorare, dato che sarebbe finito a gambe all'aria e addio, inoltre allora odiavo a morte gli zingari perché da loro per primi ero stato indotto a vagabondare e verosimilmente presentivo ancora qualcos'altro, come s'avverò. Rivelai al contadino questo difetto del cavallo, e appena lo zingaro si mise a disputare con me, che non gli era stato applicato il fuoco sulla fronte, ma che si trattava di una verruca, io a riprova che avevo ragione infilai uno spillo al cavallo nel rene, e lui subito paf ! per terra e cominciò a contorcersi. E io presi e scelsi ai contadini un buon cavallo basandomi sulle mie conoscenze, e loro per questo mi diedero acquavite e da mangiare e due decini, e facemmo gran baldoria. Così cominciò: cresceva il capitale e mi sbronzavo a tutto spiano, e non passò un mese che mi accorsi che la cosa andava bene: mi bardai tutto di placche e di arnesi da medico dei cavalli e cominciai a girare di fiera in fiera e dovunque davo utili consigli alla povera gente, facevo buoni guadagni e mi bevevo tutti i miei compensi; nel frattempo ero diventato per tutti i mercanti zigani un vero castigo di Dio e venni a sapere per vie traverse che essi si preparavano a bastonarmi. Io cominciai a guardarmi da ciò, perché erano tanti e io solo, e loro non riuscirono a sorprendermi nemmeno una volta da solo per prestarmi a loro piacimento e davanti ai contadini non osavano perché quelli per la mia onestà prendevano sempre le mie parti. Allora misero in giro la voce che ero uno stregone e che, se m'intendevo di bestie, non era per merito mio; però, si capisce, erano tutte sciocchezze: io per il cavallo, come vi ho riferito, ho un dono e sarei pronto a insegnarlo a chiunque, soltanto che, però, questo non servirebbe a nessuno».

«Perché non servirebbe?»«Nessuno capirebbe, perché per questo l'unica cosa è avere un dono di natura, e più di una volta ho fatto questa

esperienza, che l'ho insegnato, ma tutto è stato invano; ma permettete, di ciò più avanti.Quando la mia fama rimbombò per le fiere, che vedevo fin nelle viscere del cavallo, un ufficiale di rimonta, un

principe, mi offrì cento rubli:"Rivelami", dice, "fratello il tuo segreto: come fai a capirli? La cosa per me è molto importante".E io rispondo:"Io non ho alcun segreto, in me questo è un dono di natura".Ma lui insiste:"Tuttavia rivelami: come fai a raccapezzarti? E perché non pensi che dica così per dire, eccoti cento rubli".Che dovevo fare? Mi strinsi nelle spalle, annodai i soldi in uno straccietto e dico: favorite, dico, quel che so ve

lo racconterò, e voi compiacetevi di ascoltare e di imparare ma se non imparerete e non ne trarrete alcuna utilità, di ciò non rispondo.

Tuttavia anche questo gli stette bene e dice: "Be', non darti pensiero se imparo o no, tu dimmelo e basta"."Per prima cosa", dico, "se uno vuol capire quel che un cavallo ha dentro, deve mettersi in una buona posizione

mentre lo esamina e non scostarsene mai. Al primo sguardo bisogna osservare attentamente la testa e poi guardare tutto il cavallo fino alla coda, senza dimenarsi come fanno gli ufficiali che toccano la nuca, il garrese, il naso, le coste e lo sterno, oppure quel che capita, senza alcun costrutto. Perciò i sensali amano un mondo gli ufficiali, a causa di questo loro dimenarsi. Il sensale non appena vede un militare che si agita così, subito comincia a far girare e contorcersi il cavallo davanti a lui, a farlo voltare da tutte le parti, ma quella parte che non vuole fargli vedere, non gliela mostrerà a nessun patto, e proprio lì c'è il difetto, e di questi difetti ce n'è un'infinità: se il cavallo ha gli orecchi penduli, gli tagliano un palmo di pelle sulla nuca, la tirano, la cuciono, la spalmano di mastice, e lui così raddrizza gli orecchi, ma non per molto: la pelle si rilassa e gli orecchi spenzolano di nuovo. Se uno va in cerca di una coppia di cavalli e se, per esempio, un cavallo ha una stellina sulla fronte, i sensali si ingegnano di farne una anche all'altro: strofinano il pelo con la pomice, oppure applicano dove occorre una rapa cotta bollente, in modo che vi cresca del pelo bianco, ed esso subito cresce, ma comunque, se si guarda bene, il pelo cresciuto in questa maniera è sempre, rispetto a quello vero, un po' più lungo e rigonfio, come fosse una barbetta. Ancora maggiormente i sensali imbrogliano la gente con gli occhi: se un cavallo ha un affossamento sopra l'occhio ed è brutto da vedere, il sensale punge la pelle con uno spillo e poi accosta le labbra e soffia a lungo in quel punto, e tanto soffia che la pelle si solleva e l'occhio si fa più fresco e bello. Questo è facile da farsi perché, a soffiargli nell'occhio, al cavallo fa piacere a causa del tepore del fiato, e se ne sta fermo senza scalpitare, ma poi l'aria esce ed esso ha di nuovo le fosse sopra gli occhi. Contro questo c'è un solo mezzo: tastare vicino all'osso se c'è dell'aria. Ma è ancora più da ridere quando vendono i cavalli ciechi. È una vera commedia. L'ufficialetto, per esempio, avvicina all'occhio del cavallo una pagliuzza per vedere se il cavallo la distingue, ma intanto non vede che il sensale, nel momento in cui la bestia deve girare il capo, gli dà un pugno nella pancia o nel fianco. Mentre un altro, anche se lo accarezza pian piano, invece ha un chiodino nel guanto e sembra che accarezzi e invece punge". E al mio ufficiale di rimonta gliene spiegai dieci volte di più di quanto ho riferito qui, ma ciò non gli fu di nessuna utilità: il giorno dopo, guardo, e vedo che ha comprato dei cavalli che erano rozze una peggio dell'altra, e anche mi chiama a vederli e dice:

"Be', fratello, ammira come ho imparato a capire i cavalli".Io getto uno sguardo, scoppio a ridere e rispondo che, dico, non valeva neppure la pena di guardare:"Questo ha le spalle troppo carnose, aggancerà la terra con le zampe; questo quando si corica si mette lo

zoccolo sotto la pancia e al massimo tra un anno si farà venire un'ernia; e questo quando mangia l'avena pesta per terra

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con la zampa anteriore e batte col ginocchio contro la mangiatoia", e criticai così tutti i suoi acquisti e tutto risultò come io dicevo.

Il principe il giorno dopo mi dice:"No, Ivàn, è vero: io non posso capire il tuo dono, entra piuttosto al mio servizio come konesèr e scegli tu i

cavalli, io mi limiterò a sborsare i quattrini".Io acconsentii e vissi magnificamente tre anni interi,non come servo e salariato, ma piuttosto come amico e

collaboratore, e se non mi avessero rovinato le mie uscite,avrei potuto perfino farmi un capitale, perché secondo le usanze in questo campo, qualunque allevatore arriva, subito lui stesso fa conoscenza con l'ufficiale di rimonta, e manda una persona fidata dal konesèr, per tirarlo se possibile dalla propria parte, perché gli allevatori sanno bene che la vera forza non è nell'ufficiale, ma nel fatto che egli abbia accanto un vero konesèr. E io ero, come vi ho riferito, un konesèr nato e mettevo in opera questo mio dono naturale coscienziosamente: per nulla al mondo avrei potuto ingannare la persona di cui ero al servizio. E il mio principe questo lo sentiva e mi stimava molto e vivevamo in piena familiarità. Lui, se la notte aveva perduto tutto al gioco da qualche parte, subito la mattina, appena alzato, veniva in vestaglia da me nella stalla e diceva:

"Ebbene, mio quasi semistimabile Ivàn Sever'janyè! Come vanno le vostre faccende?".Egli mi chiamava sempre scherzando quasi semistimabile, ma, come vedrete, mi stimava pienamente.

Io però sapevo cosa voleva dire se lui arrivava con questo scherzo, e allora gli rispondevo:"Non mi lamento: le mie faccende, grazie a Dio, vanno bene, ma non so come vadano a vostra eccellenza:

come vanno i vostri affari?""I miei", dice, "vanno in modo talmente schifoso che peggio non si può desiderare"."Di che si tratta?", dico "Di sicuro ieri siete di nuovo rimasto al verde come pochi giorni fa?""Voi", risponde, "vi siete degnato di indovinare, mio semistimabilissimo; sissignore, sono rimasto al verde,

sono rimasto al verde"."E di quanto", domando, "vostra grazia è stata alleggerita?".Lui subito rispondeva quante migliaia di rubli aveva perso e io scuotevo la testa e dicevo:"Bisognerebbe strigliare per bene vostra eccellenza, ma non c'è chi possa farlo".Lui scoppiava a ridere e dice:"Proprio così: non c'è chi possa farlo"."Ma ecco, stendetevi sul mio lettino e io vi infilerò in testa un sacchetto pulito e vi frusterò io".Lui, si capisce, cominciava a starmi dietro perché gli dessi dei soldi per la rivincita."No", dice, "invece di frustarmi, dammi piuttosto un po' dei quattrini delle spese per una piccola rivincita:

vado, mi rifaccio e sbanco tutti"."Vi ringrazio umilmente", rispondo, "ma questo no: 'gioca, ma non cercare di rifarti', dice il proverbio"."Così mi ringrazi!", incomincia a dire ridendo, e poi comincia ad arrabbiarsi: "Su, per favore", dice, "non

passare i limiti, piantala di farmi da tutore e dammi i soldi"».Domandammo a Ivàn Sever'janyè se avesse mai dato al suo principe i soldi per la rivincita.«Mai», rispose. «O lo ingannavo dicendo di aver speso tutto per l'avena, o semplicemente fuggivo dalla corte».«Certo a causa di ciò lui si arrabbiava con voi?»«Sissignore; subito, a volte, dichiarava: "Finito! Voi, semistimabilissimo, non siete più al mio servizio".Io rispondevo:"E che me ne importa, benissimo. Favorite il mio passaporto" ."Bene", diceva, "favorite fare fagotto: domani riceverete il vostro passaporto".L'indomani però non se ne parlava più. Al massimo un'ora dopo veniva da me in tutta'altra disposizione di

spirito e diceva:"Vi ringrazio, mio ultrainsignificante, di aver avuto carattere e di non avermi dato i soldi per la rivincita".E si ricordava poi sempre di questo, così che, se durante le mie uscite mi accadeva qualcosa, anche lui era

indulgente con me come un fratello».«Ma a voi cosa accadeva?»«Vi ho già spiegato che mi accadeva di fare delle uscite».«Ma cosa intendete per uscite?»«Uscivo dalla corte a far baldoria. Avendo imparato a bere acquavite, evitavo di berne ogni giorno e ne facevo

uso in modo moderato, ma se accadeva che qualcosa mi turbasse, allora mi veniva una smania terribile di bere e subito facevo un'uscita e scomparivo per alcuni giorni. E questo mi prendeva senza che si riuscisse a capire il perché; per esempio, quando si consegnavano i cavalli, essi, sembra, non ti sono fratelli, eppure ti vien nostalgia di loro e ti metti a bere. Specialmente se ti separavi da un cavallo molto bello, allora, quel mascalzone, ce l'avevi sempre davanti agli occhi, al punto che, per sfuggire alla malia che spira da lui, facevi un'uscita»

«Cioè vi mettevate a bere?»«Sissignore; uscivo e cominciavo a bere».«E per lungo tempo?»«Mm... n... n... non era sempre uguale, a seconda delle uscite: delle volte bevi finché non ti sei bevuto tutto e, o

qualcuno te le suona, o tu stesso picchi qualcuno, ma un'altra volta vien fuori più breve, resti un po' in gattabuia, oppure

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trascorri la notte nel fosso e sei contento, ti passa. In questi casi ormai mi attenevo a una regola e appena sentivo che dovevo fare un'uscita, andavo dal principe e dicevo:

"Così e così, vostra eccellenza, favorite ricevere i quattrini perché io sparisco".Egli ormai non discuteva, ma prendeva i quattrini oppure soltanto, a volte, mi domandava:"Vostra grazia intende far bisboccia a lungo?"."Be'", io gli rispondo "a seconda della smania che provo: di un'uscita lunga o breve".E me ne andavo, e allora badava lui stesso ai cavalli e mi aspettava finché non finiva l'uscita, e tutto andava

bene; soltanto, però, questa mia debolezza mi venne terribilmente a noia e improvvisamente mi misi in testa di liberarmene; fu allora appunto che feci un'ultima uscita, tale che ancora adesso mi vien paura a ricordarmene».

XI

Noi, s'intende, pregammo Ivàn Sever'janyè di essere tanto cortese da narrarci anche questo nuovo disgraziato episodio della sua vita, ed egli, bontà sua, naturalmente non si rifiutò e ci riferì sulla sua «ultima uscita» quel che segue:

«S'era comprata da un allevamento la cavalla Didone giovane, di manto baio-dorato, adatta a una sella di ufficiale. Era una bellezza prodigiosa: testolina graziosa, occhietti leggiadri, narici sottili e aperte sì da permetterle di respirare a suo agio; criniera leggera; il petto sistemato fra le spalle felicemente, come una navicella, la vita flessuosa, le zappette leggere fasciate di bianco e le agita che sembra giochi... In una parola, chi è amatore e ha un'idea di che cos'è la bellezza, davanti a un animale simile può rimanere incantato. Essa mi andava tanto a genio che neppure uscivo più dalla stalla dov'era e non facevo che lasciarla dalla gioia. A volte la ripulivo e la strigliavo io stesso tutta quanta con un fazzoletto bianco, in modo che nemmeno un granello di polvere le rimanesse nel pelame, e addirittura la baciavo anche proprio sulla piccola fronte, sul ciuffetto dove il suo pelame dorato si divideva... In quel periodo si svolgevano due fiere contemporaneamente, una a L. e l'altra a K., e io e il principe ci separammo: in una agivo io e all'altra si recò il principe. E all'improvviso ricevo da lui una lettera, in cui scrive: "Mandami qui", dice, "i tali e tali cavalli e Didone". Mi era sconosciuto il motivo per cui voleva quella mia bellezza, che rallegrava il mio occhio da amatore. Ma, naturalmente, pensai che l'avesse barattata con qualcuno, o venduta, o, ancor più probabilmente, persa alle carte, povera colombella... E così mandai Didone con gli stallieri e fui preso da una terribile malinconia, e mi venne il desiderio di fare un'uscita. Ma la mia situazione in quel momento era del tutto diversa dal solito: vi ho riferito che avevo sempre l'abitudine che, se mi prendeva la smania di un'uscita, mi presentavo al principe, gli consegnavo tutti i quattrini, che sempre avevo in mano grandi somme, e dicevo: "Sparirò per tot oppure tot giorni". Ma allora, come potevo sistemare in quel modo le cose, se il mio principe non c'era? Così penso fra me: "No, tuttavia rinuncerò a bere, poiché non c'è il mio principe e mi è impossibile fare un'uscita per bene, dato che non c'è a chi consegnare i soldi e ho in mano una somma ingente, più di cinquemila rubli". Decisi dunque che non si poteva fare, e mi attenni fermamente a questa decisione, e non davo spazio alla mia voglia di fare un'uscita e di scomparire per benino, tuttavia, però, non sento nessun indebolimento di questo desiderio, ma, al contrario, smanio sempre più di fare un'uscita. E finalmente fui sempre più ossessionato da un unico pensiero: come fare in modo da soddisfare la mia voglia di fare un'uscita e preservare i quattrini del principe? E cominciai con questo intento a nasconderli, e li andavo nascondendo nei luoghi più impensati, dove a nessuno sarebbe venuto in mente di nasconderli... Penso: "Che fare? Evidentemente non riesci a dominarti Metterò al sicuro i quattrini, penso, e poi darò sfogo alla mia smania e farò un'uscita". Solo che mi assalì una preoccupazione: dove li nasconderò questi maledetti quattrini? Dovunque li riponessi, appena mi allontanavo subito mi veniva in testa l'idea che qualcuno li avrebbe rubati. E andavo, li riprendevo e li nascondevo da un'altra parte... Mi sfinii semplicemente a furia di nasconderli nei fienili, nelle cantine, nelle gronde e in altri posti altrettanto incredibili per ritorci qualcosa, ma appena mi allontanavo, subito ogni volta mi sembrava che qualcuno mi avesse visto nasconderli e li avrebbe immancabilmente scovati, e di nuovo tornavo indietro e li ritiravo fuori e li portavo con me, e di nuovo pensavo: "No, ora basta, evidentemente stavolta non è destino che mi cavi la voglia". E improvvisamente mi venne un'ispirazione divina: certo è il demonio che mi tormenta con questa smania, sicché andrò e lo scarcerò da me, l'infame, col sacramento! E andai alla prima messa, pregai, presi la particola e, uscendo dalla chiesa, vedo che sulla parete è dipinto il Giudizio Universale e lì, in un angolo, c'è il diavolo nella Geenna con gli angeli che lo battono con una catena. Mi fermai, guardai e pregai gli angeli col più grande fervore, al diavolo invece, sputando, mostrai il pugno sul muso:

"Eccoti le fiche, con queste comprati quel che vuoi", e dopo di ciò mi tranquillizzai completamente e, date a casa le opportune disposizioni, me ne andai all'osteria a bere il tè... E lì all'osteria vedo che tra gli avventori c'è un certo tipo losco. Un uomo vuoto-stravuoto. M'era capitato di vederlo anche prima e non lo stimavo più di un ciarlatano o di un pagliaccio, perché non faceva che andare in giro per le fiere a chiedere sovvenzioni ai signori in francese. Sembrava che fosse di origine nobile e che avesse servito nell'esercito, ma aveva scialacquato tutto il suo e l'aveva perso alle carte, e ora vagava per il mondo... Lì, nell'osteria dove m'ero recato, i servitori lo volevano buttar fuori ma lui rifiutava di andarsene e se ne rimaneva lì e diceva:

"Ma voi lo sapete chi sono io? Non sono certo par vostro possedevo servi della gleba e un'infinità di giovanotti come voi per mio puro piacere li ho frustati nella stalla, e se ho perduto tutto, è stato per una speciale volontà di Dio e su di me c'è il segno dell'ira, e perciò nessuno osa toccarmi".

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Quelli non gli credono e ridono, e lui racconta come viveva e che andava in giro in carrozza, e che cacciava tutti i signori civili dal giardino pubblico, e che una volta era andato dalla moglie del governatore nudo, "adesso, invece", dice, "sono stato maledetto per i miei capricci e tutta la mia natura è diventata di sasso e debbo continuamente inzupparla, perciò dammi della vodka! Io non ho i soldi per pagarla, ma in compenso la ingoierò col vetro".

Un avventore ordinò che gli fosse servita per vedere come avrebbe mangiato il vetro. Lui subito tracannò la vodka e, come aveva promesso, cominciò onestamente a sgranocchiare coi denti il bicchierino di vetro e davanti a tutti lo inghiottì, e tutti erano fuori di sé dalla meraviglia e sghignazzavano. Io invece provai compassione che un nobile per la sua passione per l'acquavite sacrificasse persino la pancia. Pensai: bisogna dargli almeno da sciacquarsi le budella da questo vetro, e ordinai che gli portassero un altro bicchierino a mie spese, ma non lo obbligai a mangiare il vetro. Gli dissi: non occorre, non mangiarlo. Egli lo apprezzò e mi diede la mano:

"Di sicuro", dice, "tu sei figlio di servi di casa"."Sì", dico, "proprio così"."E si vede subito", dice, "che sei fatto d'altra pasta, rispetto a questi porci. Gran-mersì", dice, "a te per questo".Io dico:"Di nulla, va' con Dio"."No", risponde, "io sono molto contento di scambiare due parole con te. Scostati, che mi siedo accanto a te"."Be'", dico, "prego, accomodati".Egli si sedette accanto a me e cominciò a raccontare di che insigne famiglia era e che grande educazione avesse

ricevuto, e dice ancora:"Cosa... stai bevendo tè?""Sì, tè. Se vuoi, bevilo anche tu con me"."Grazie", risponde, "ma io il tè non lo posso bere"."Perché?""Perché", dice, "ho una testa disperata, e non da tè: ordina piuttosto che mi portino un altro bicchierino di

vodka!...". E così una volta, due volte, tre volte riuscì a farsi offrire da me della vodka e cominciò a venirmi fortemente a noia a causa di questo. Ma mi disgustò ancora di più che egli dicesse assai poco la verità, continuava invece a fare il gradasso e non si sa cosa inventava sul proprio conto, oppure a un tratto si avviliva, piangeva e non faceva che parlare della vanità di ogni cosa.

"Pensa", dice, "che razza d'uomo sono io! Dio in persona", dice, "mi ha creato lo stesso anno dell'imperatore e dunque sono suo coetaneo".

"Be', e che significa?""Significa che, con tutto questo, qual è la mia situazione?Nonostante tutto questo, io", dice, "non sono affatto

una persona distinta, e son venuto fuori una nullità e, come adesso hai potuto vedere, sono anche disprezzato da tutti".E con queste parole pretese di nuovo della vodka, ma questa volta ordinò che gliene portassero un'intera caraffa, e cominciò a raccontarmi una storia interminabile su come nelle osterie i mercanti ridevano alle sue spalle, e alla fine dice:

"Quelli", dice, "sono gente ignorante e pensano che sia una cosa facile bere in continuazione e mangiarci sopra il bicchierino! È invece una vocazione assai difficile, fratello, e per molti è addirittura impossibile; ma io ho addestrato la mia natura, perché vedo che bisogna scontare la propria condanna, e io sopporto".

"Perché", ragiono, "accanirsi tanto in questa abitudine? Abbandonala"."Abbandonarla?", risponde. "Ah, no, fratello, abbandonarla mi è impossibile"."Perché", dico, "ti è impossibile?""Mi è impossibile", risponde, "per due motivi: in primo luogo, perché io, se non bevo acquavite, non riesco mai

ad andare a letto e seguito ad andare in giro; e in secondo luogo, quel che più conta, perché questo i miei sentimenti cristiani non me lo consentono".

"Come sarebbe a dire? Che tu non riesca ad andare a letto, questo lo si può capire, perché cerchi sempre da bere, ma che i sentimenti cristiani non ti permettano di abbandonare un simile dannoso e schifoso vizio, questo non lo voglio credere".

"Sì", risponde, "ecco che tu non vuoi crederci... Dicono tutti così... Ma cosa pensi, se io abbandonassi l'abitudine di ubriacarmi e qualcun altro la prendesse e se la tenesse, ne sarebbe contento oppure no?"

"Dio ne liberi! No, credo che non se ne rallegrerebbe"."Ahà!", dice. "Ecco appunto, e se è necessario che sia io a soffrire, allora voi per lo meno rispettatemi per

questo, e tu ordinari un'altra caraffa di vodka!".Io battei sul tavolo e gli ordinai un'altra caraffa, e lo stavo ad ascoltare perché la cosa aveva cominciato a

parermi divertente, e lui continuò con queste parole:"È giusto così", dice, "che questo tormento continui a sopportarlo io, piuttosto che tocchi a un altro, perché io",

dice, "sono di buona famiglia e ho ricevuto un'autentica educazione, tanto che quando'ero ancora piccolissimo pregavo addirittura Dio in francese, ma ero spietato e tormentavo la gente, perdevo a carte i miei servi; dividevo le madri dai figli; mi presi una moglie ricca e la feci morire, e, infine, pur essendo io il colpevole di tutto, inveivo contro Dio: perché avevo un tal carattere? E Lui mi punì: mi diede un altro carattere, che in me non c'è il benché minimo orgoglio, mi sputino pure negli occhi, mi schiaffeggino sulle guance, purché possa ubriacarmi e dimenticare me stesso".

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"Ebbene", domando, "adesso non inveisci più contro questo carattere?""No", risponde, "perché, sebbene esso sia peggiore,d'altra parte è migliore"."Come sarebbe?", dico. "Non capisco bene come possa essere peggiore ma migliore...""È così", risponde, "che adesso so soltanto una cosa, che rovino me stesso, ma in compenso non posso più

rovinare gli altri, perché tutti mi voltano le spalle. Io", dice, "adesso sono proprio come Giobbe nel letamaio, e in questo", dice, "è racchiusa tutta la mia felicità e la mia salvezza", e scolò di nuovo tutta la vodka e ne domandò un'altra caraffa e dice:

"Ma tu la sai una cosa, caro amico: non disprezzare mai nessuno, perché nessuno può sapere per che cosa ognuno è tormentato e soffre a causa di una certa passione. E se anche tu sei afflitto da qualche passione, non la abbandonare di testa tua, affinché un altro uomo non la prenda e non ne venga tormentato; ma cerca invece un uomo che di sua volontà si prenda da te quella debolezza".

"Ma dov'è mai possibile trovare un uomo simile!", dico. "Nessuno acconsentirebbe"."Perché?", risponde. "Non devi nemmeno anidar lontano: un tale uomo sta davanti a te, sono io quell'uomo".Io dico:"Scherzi?".Ma lui improvvisamente balza su e dice:"No, non scherzo, e se non ci credi, mettimi alla prova" ."Ma come faccio", dico, "a metterti alla prova?""Molto semplicemente: desideri sapere qual è il mio dono? Io, fratello, ho un grande dono: ecco, vedi? Io

adesso sono ubriaco... È così o no: sono ubriaco?"Io lo guardo e vedo che è completamente violaceo e tutto imbambolato, e barcolla sulle gambe, e dico:"Sì, si capisce che sei ubriaco"."Be', adesso voltati un momento verso l'icona e recita mentalmente un 'Padre nostro".Mi voltai ed effettivamente, appena, guardando l'icona, ebbi recitato mentalmente un "Padre nostro", quel

signorotto ubriaco mi intima di nuovo:"Su, adesso guardami: ora sono ubriaco oppure no?".Mi voltai e vedo che lui era saldo in gamba e sorrideva come se non avesse mai avuto nulla.Io dico:"Che significa? Qual è il segreto?".E lui risponde:"Questo", dice, "non è un segreto, si chiama magnetismo"."Non capisco", dico. "Che cos'è?""Nell'uomo", dice, "è racchiusa una volontà speciale che non si può dissipare né bevendo, né dormendo, perché

essa è innata. Io", dice, "t'ho mostrato questo perché capissi che, se volessi, potrei fermarmi subito e non ricomincerei mai più a bere, ma io questo non lo voglio, affinché nessun altro si metta a bere al posto mio, e io, una volta emendatomi, non dimenticassi Dio. Ma a qualunque altra persona io sono pronto e posso togliergli in un attimo il vizio del bere".

"Allora toglilo a me", dico, "fammi la grazia!"."Ma tu dunque bevi?", dice."Bevo", dico, "e a volte bevo anche assai sfrenatamente"."Be', non aver paura", dice, "ci penso io, per ricompensarti della tua generosità ti guarirò completamente"."Ah, fammi la grazia, ti prego, guariscimi!"."Prego", dice, "caro, prego: tu mi hai pagato da bere e in ricompensa io farò questo per te; ti libererò dal tuo

vizio e lo prenderò su di me", e dicendo questo gridò al cameriere di portare altra acquavite e due bicchierini.Io dico:"Perché due bicchierini?""Uno", dice, "per me, e uno per te!"."Io", dico, "non berrò".Ma lui di colpo sembrò andare in collera e dice:"Tsss! Silans! Non una parola! Tu adesso chi sei? L'ammalato"."Be'"‚ dico, "va bene, sia pure come vuoi tu: sono l'ammalato"."E io", dice,"sono il medico e tu devi fare quello che ti dico e prendere la medicina", e così dicendo riempì un

bicchierino per me e uno per sé e cominciò ad agitare le mani nell'aria sopra il mio, come un cappellano del vescovo.Agitò, agitò e ordina:"Bevi!".Io esitai, ma poiché, a dire il vero, anch'io avevo una gran voglia di assaggiare un po' di acquavite e lui me lo

ordinava: "Beviamo", penso, "non per altro, ma per la curiosità!", e bevvi."È buona?", domanda. "È saporita o amara?""Non saprei cosa dirti".

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"Questo vuol dire", fa, "che ne hai presa poca", e me ne versò un secondo bicchierino e di nuovo si mise ad armeggiarci sopra con le mani. Armeggia, armeggia, poi scuote le mani e di nuovo mi costringe a bere anche quest'altro bicchierino e mi domanda: "E questa com'è?".

Io scherzando dico:"Questa mi è sembrata un po' pesante".Egli assentì con la testa e subito agitò le mani su un terzo bicchierino e di nuovo mi comanda: "Bevi!". Io bevvi

e dico:"Questa è più leggera", e dopo di ciò ci do sotto io stesso colla caraffa e ne offro a lui e ne verso per me, e giù a

bere.Egli in ciò non mi ostacola, soltanto non mi permette di bere nemmeno un bicchierino così, senza che ci abbia

fatto sopra i suoi gesti, ma appena allungo la mano subito me lo toglie dicendo:"Sciù, silans... atendè", e prima ci agita sopra le mani e poi die:"Adesso è pronto, puoi prendere la medicina secondo la prescrizione".E proseguii la cura in questo modo lì all'osteria assieme a quel signorotto fino a tarda sera, ed ero sempre molto

tranquillo perché sapevo che bevevo non per capriccio,ma per smettere. Tastavo ogni tanto i quattrini in petto e sentivo che erano tutti, come dovevano essere, al loro posto intatti, e continuavo.

Il signore lì, bevendo con me, mi raccontava d'ogni cosa, come in vita sua aveva fatto baldoria e s'era divertito, e specialmente dell'amore, e alla fine cominciò a prendersela con me che io non capivo niente dell'amore.

Io dico:"Che vuoi farci se non sono attratto da queste sciocchezze? Ti basti il fatto che tu capisci tutto e in compenso

guarda che razza di vagabondo sei".Ma lui dice:"Sciù, silans! L'amore è una cosa sacra!"."Sciocchezze", dico io."Tanghero", dice, "e furfante, se osi ridere del sacro sentimento del mio cuore e dire che sono sciocchezze"."Sì", dico, "sono proprio sciocchezze"."Ma tu capisci", dice, "cosa vuo dire 'bellezza perfezione di natura'?"."Sì", dico, "io capisco la bellezza di un cavallo".Lui salta su e voleva colpirmi sull'orecchio."Forse che un cavallo", fa, "è bellezza perfezione di natura?".Ma dato che era abbastanza tardi egli non poté addurre alcun argomento a dimostrazione di questo, invece

l'oste, vedendo che eravamo tutt'e due ubriachi, strizzò l'occhio ai garzoni e quelli in sei si precipitarono su di noi dicendo... "Favorite fuori", e nello stesso tempo ci afferrarono entrambi per le braccia e ci misero fuori chiudendosi dietro la porta col catenaccio per la notte.

E qui ebbe inizio un tale incantesimo, che, anche se sono trascorsi moltissimi anni dopo questo fatto, tuttavia ancor oggi non riesco a capire che cosa avvenne e quale forza agisse su di me, ma certo tentazioni e prodigi quali ne sopportai allora, mi sembra, non si trovano nemmeno in una delle vite dei Èet'Minej.

XII

Per prima cosa, appena fui volato fuori dalla porta, subito mi infilai una mano nel petto e mi accertai se c'era il portafoglio. Risultò che c'era. "Adesso", pensai, "tutto sta nel riuscire a riportarci felicemente a casa". Ma c'era la notte più scura che vi possiate immaginare. D'estate, sapete, dalle nostre parti, nei pressi di Kursk, ci sono a volte notti così scure, ma tiepidissime e dolcissime: per il cielo sono appese le stelle come lanterne, ma giù di sotto regna un'oscurità così fitta che sembra che qualcuno ti frughi e ti tocchi... Alla fiera, poi, c'è un'infinità di gente cattiva e capita abbastanza spesso che qualcuno venga derubato e ucciso. Quanto a me, benché mi sentissi forte, tuttavia pensavo che, in primo luogo ero ubriaco, e in secondo luogo se mi saltavano addosso in dieci o più persone, anche se si è molto forti non c'è niente da fare e ti spogliano, e, sebbene fossi cotto, ricordavo tuttavia che, quando, alzandomi e risedendomi più di una volta, avevo pagato, il mio compagno, quel signorotto, aveva visto che avevo con me un monte di quattrini.Perciò all'improvviso, sapete, mi venne in testa un'idea: non ci sarà per caso da parte sua qualche tradimento ai miei danni? Dov'era in verità? Ci avevano messi alla porta assieme, e lui dov'era andato a cacciarsi tanto in fretta?

Me ne stavo lì e cautamente mi guardavo attorno, e, non conoscendo il suo nome, piano piano lo chiamavo così:

"Mi senti?", dico. "Dove sei, magnetizzatore?".E lui all'improvviso, come un diavolo, mi sbuca fuori proprio davanti agli occhi e dice:"Eccomi".Ma a me parve che non fosse la sua voce e nelle tenebre anche il muso non mi pareva il suo.

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"Vieni un po' più vicino", dico. E quando egli si fu avvicinato, lo afferrai per le spalle e mi misi ad osservarlo, e non riuscivo assolutamente a riconoscere chi fosse: appena l'ebbi toccato, improvvisamente, com'è come non è, persi del tutto la memoria. Sento soltanto che borbotta qualcosa in francese: "di-ca-ti-li-ca-tipe", e io non ci capisco niente.

"Che diavolo borbotti?", dico.E lui di nuovo in francese:"Di-ca-ti-li-ca-tipe" ."E piantai", dico, "stupido, rispondimi in russo: chi sei, perché ti ho scordato?".Risponde:"Di-ca-ti-li-ca-tipe: sono il magnetizzatore"."Ttù", dico, "razza di furfante!", e per un momento mi pare di ricordare chi fosse, ma lo fisso e vedo che ha due

nasi!... Due nasi e basta! Ma ci rifletto, e ridimentico chi è..."Ah tu", penso, "che tu sia maledetto, e di dove, furfante, sei saltato fuori?", e di nuovo gli domando:"Chi sei?".E lui di nuovo:"Il magnetizzatore"."Sprofonda dunque", dico, "lasciarmi in pace: sei forse il diavolo?""Non proprio", dice, "ma qualcosa del genere".Io gli assesto un colpo sulla fronte, ma lui si offende e dice:"Perché mi hai colpito? Io ti faccio del bene e ti libero dalla smania del bere, e tu mi percuoti?".Ma io, per quanto mi sforzassi, di nuovo mi sor dimenticato chi sia, e dico:"Ma si può sapere chi sei?".E lui dice:"Sono il tuo eterno amico"."Be'", dico, "bene, ma se sei mio amico, come puoi farmi del male?""No", dice, "io ti presenterò un tale pti-com-pë, che ti sentirai un altro uomo"."Piantala", dico, "per favore, di dire sciocchezze"."È la verità", dice, "è la verità: una tale pti-com-pë...""Non blaterare", dico, "diavolo, con me in francese: io non capisco cosa sia questo pti-com-pë!""Io", dice, "ti darò un nuovo concetto della vita"."Ah, è così", dico, "soltanto, quale nuovo concetto della vita puoi mai darmi tu?""Questo", dice, "che tu comprenderai la bellezza perfezione di natura"."E come mai la comprenderò così all'improvviso?""Vieni, andiamo", dice, "lo vedrai subito"."Bene", dico, "andiamo".E ci avviammo. Barcollavamo entrambi, ma tuttavia camminavamo, benché io non sapessi dove andavamo,

solo a un tratto mi viene in mente: ma chi è questo qui con me? e di nuovo dico:"Ferma! Dimmi, chi sei? Altrimenti non vengo".Lui me lo dice e per un momento mi pare di ricordare,e domando:"Come mai dimentico chi sei?".E lui risponde:"È l'azione del mio magnetismo; ma tu non aver paura, adesso ti passerà, soltanto aspetta che ti trasmetto un

po'più di magnetismo".E a un tratto mi voltò di schiena e si mise a frugarmi con le dita sulla nuca, tra i capelli... Una cosa

straordinaria: scavava lì come se volesse entrami nella testa.Dico:"Senti tu... chi sei! Cosa frughi lì?''"Aspetta", risponde, "sta' fermo: sto infondendo in te il mio fluido magnetico"."Va bene", dico, "che mi infondi il fluido, ma non è che per caso vuoi derubarmi?".Lui nega con sdegno."Be', allora aspetta", dico "che controllo i quattrini".Li controllai: i quattrini erano al loro posto."Be'", dico, "adesso ci credo che non sei un ladro", ma chi fosse me l'ero di nuovo scordato, soltanto che ormai

non mi ricordavo più di domandarglielo, ma ero tutto preso dal fatto che sentivo che lui sembrava mi fosse penetrato dentro attraverso la nuca e guardasse il mondo attraverso i miei occhi, come se per lui essi fossero soltanto delle lenti.

"Ma guarda", penso, "che bello scherzo mi ha fatto!Che fine ha fatto", chiedo, "la mia vista?""La tua", dice, "ora non c'è più"."Che sciocchezza è questa", dico, "che non c'è più?""È così", risponde. "Con la tua vista ora vedrai soltanto quello che non c'è"."Ecco", dico, "un altro bel rebus! Via, adesso mi sforzo".Aguzzo gli occhi, sapete, con tutte le mie forze, e vedo che da tutti gli angoli bui svariati ceffi ributtanti sopra

certe zappette mi guardano e mi sbarrano la strada e stanno ad aspettarmi ai crocicchi e dicono: "Lo uccideremo e gli

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prenderemo il tesoro". E davanti a me c'è di nuovo il mio spiritato signorotto e il suo viso risplende tutto di luce, e dietro a me sento un terribile frastuono e una gran baraonda, voci, strimpelli, grida, strilli e allegre risate. Mi guardo attorno e mi rendo conto che sono appoggiato con la schiena a non so quale edificio, le cui finestre sono aperte e illuminate, ed è di lì che vengono quelle diverse voci, e il chiasso, e il gemere di una chitarra, mentre davanti a me c'è di nuovo il mio signorotto che continua ad alitarmi le mani davanti al viso, e poi me le passa sul petto, si ferma sopra il cuore, preme, e mi prende per le dita delle mani, le scuote delicatamente, e di nuovo agita le mani, e si dà tanto da fare che vedo che è persino tutto in sudore.

Soltanto a questo punto, quando dalle finestre della casa cominciò a piovere luce e sentii che riprendevo conoscenza, cessai di aver paura di lui e dissi:

"Ascolta, tu, chiunque tu sia, Satana, o diavolo, o piccolo demonio, fammi soltanto un piacere: o destami, o dissolviti".

E lui mi risponde:"Aspetta", dice,"non è il momento: è ancora pericoloso, tu ancora non puoi sopportarlo".Io dico:"Che cosa non posso sopportare?""Quello", dice, "che nelle eteree sfere adesso sta avvenendo"."Come mai", dico, "non sento niente di speciale?".Ma lui insiste che io non ascolto come si deve e mi dice in linguaggio ecclesiastico:"Tu", dice, "per sentire segui l'esempio del suonatore di gusli ,quando egli reclina il capo e, intendendo

l'orecchio al canto, muove il plettro con la mano"."No", penso, "cos'è mai questo? Questo non somiglia proprio al discorso di un ubriaco, come s'è messo a

parlare?".E lui mi guarda e in silenzio passa le mani su di me, e continua a persuadermi allo stesso modo."Così", dice, "dalle corde percosse insieme con arte esce un canto e il suonatore di gusli si rallegra e prova una

dolcezza ineffabile".È proprio, vi dico, come se non udissi parole, ma un'acqua viva scorrermi accanto all'orecchio, e penso: "Altro

che ubriaco! Guarda com'è capace di paria bene delle cose del Signore!". Ma nel frattempo il mio signorotto ha smesso di dimenarsi e pronuncia questo discorso:

"Be', adesso può bastare; ora svegliati", dice, "e fatti forza! ".E così dicendo si chinò e si mise a cercare a lungo nella tasca dei pantaloni e, infine, tirò fuori qualcosa.

Guardo, era un pezzettino di zucchero così, piccino piccino, e tutto sporco, evidentemente perché era rimasto lì dentro a lungo. Egli grattò via con le unghie la sporcizia, ci soffiò sopra e disse:

"Apri la bocca".Io dissi:"Perché?", ma la aprii. E lui mi ficcò tra le labbra quel pezzetto di zucchero dicendo:"Coraggio", disse, "succhia; è zucchero istruttivo magnetico: ti darà forza".Capii, sebbene lo dicesse in francese, che parlava del magnetismo e non gli domandai più nulla, e, tutto intento

a succhiare lo zucchero, non vedevo ormai più chi me lo aveva dato. Il diavolo sa se se n'era andato da qualche parte in quel momento o dove altro fosse sparito, fatto sta che rimasi solo e, ripresa perfettamente coscienza, pensai: perché lo devo stare ad aspettare? Adesso devo ritornare a casa. Ma ecco un'altra complicazione: non sapevo in che via mi trovassi e presso quale casa. E penso: ma è davvero una casa? Forse mi pare soltanto così, ma è tutto un incantesimo... Adesso è notte, tutti dormono, perché invece qui c'è luce? ... Be', sarà meglio provare... entrerò, guardarò cosa c'è là dentro: se ci sono degli uomini in carne e ossa, chiederò loro la strada per tornare a casa, se invece è soltanto un inganno degli occhi, e non sono uomini vivi... in questo caso che pericolo c'è? dirò: "Il nostro luogo è sacro, via da me", e tutto svanirà

XIII

Salgo con questa ardita risolutezza sul terrazzino d'ingresso, mi faccio il segno della croce e pronuncio lo scongiuro, ma niente: la casa sta sempre lì, non vacilla, e vedo che la porta è aperta e davanti c'è un grande vestibolo, e, in fondo a esso, sulla parete, brilla una lanterna con una candela. Mi guardo attorno e vedo che a sinistra ci sono altre due porte, entrambe rivestite di stuoie, e sopra di esse degli altri candelieri dello stesso genere con degli specchi a forma di stella. Penso: che razza di casa è mai questa: un'osteria non sembrerebbe, però si vede che è un posto aperto al pubblico, di che genere però non lo capisco. A un tratto però tendo l'orecchio e sento effondersi da dietro una di quelle porte ricoperte di stuoie una canzone... languida languida, appassionata, e la canta una voce che sembra una campana scarlatta, tanto strizza l'anima e la fa prigioniera. Ascolto e non avanzo più oltre, ma ecco che in quel mentre si apre improvvisamente una porticina più lontano e vedo che da essa esce uno zingaro alto in brache di seta e giubbetto di velluto, e fa uscire in fretta qualcuno da una certa porta sotto la lanterna più lontana, che dapprima non avevo notato.

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Devo dire che, sebbene non fossi riuscito a vedere bene chi aveva accompagnato fuori, tuttavia mi era parso che si trattasse del mio magnetizzatore, e gli dice dietro:

"Va bene, va bene, non ti offendere, caro, se ti diamo soltanto mezzo rublo, ma vieni domani, e se da lui tireremo fuori qualcosa di buono, te ne daremo ancora per averlo condotto qui da noi".

E con queste parole richiuse la porta col saliscendi e corse come se si fosse accorto solo allora della mia presenza, e mi aprì davanti la porta sotto lo specchietto dicendo:

"Accomodatevi, signor mercante, favorite ascoltare le nostre canzoni! Abbiamo delle buone voci".E con queste parole spalancò pian piano la porta davanti a me... Allora, egregi signori, si impadronì di me non

so quale sensazione, ma così familiare che improvvisamente sentii che appartenevo tutto quanto a quel luogo, anima e corpo. Quella stanza era vastissima, ma bassa e il soffitto malandato faceva una pancia all'ingiù, tutto era scuro, affumicato, e il fumo di tabacco era così denso che quasi non ci si accorgeva del lampadario che risplendeva in alto.E in basso, in quel gran fumo, c'era della gente... moltissima, un'infinità, e davanti a loro una giovane zingara cantava con la voce che avevo sentito. Tra l'altro, quando entrai, ella aveva appena finito di prolungare soavemente, su una tonalità acutissima, l'ultima nota fino a che si era spenta e la sua vocina era venuta meno... Quando la sua voce venne meno parve che, assieme a essa, ogni cosa intorno morisse come per incanto... In compenso dopo un momento tutti balzarono su come forsennati battendo le mani e urlando. Io mi chiedevo meravigliato come mai ci fosse lì tutta quella gente che sembrava continuare a spuntare dal fumo in numero sempre maggiore. "Uh", penso, "non si tratterà per caso di qualche sortilegio invece che di persone?". Però vedo diversi signori che conoscevo, ufficiali di rimonta e allevatori, e riconosco anche dei semplici ricchi mercanti e possidenti terrieri che erano amatori di cavalli, e in mezzo a tutto questo pubblico girava quella zingara con un aspetto... non la si può neppure descrivere come una donna, ma sembrava una serpe lucente che appoggiandosi sulla coda si muove piegando tutto il busto e lanciando ardenti bagliori dagli occhi neri.Curiosa figura! E nelle mani reggeva un grande vassoio,su cui, lungo i bordi, erano disposti molti bicchieri di champagne e nel mezzo un mucchio di denaro da far spavento. Mancava soltanto l'argento, altrimenti c'erano oro e biglietti, e cinciallegre turchine, e anatrelle grige, e pernici rosse: soltanto di cigni bianchi non ce n'erano. Colui a cui ella porgeva il bicchiere, subito beveva il vino e, a seconda del proprio entusiasmo, gettava nel vassoio oro o biglietti, e lei allora lo baciava sulla bocca e si inchinava.Ella fece il giro della prima e della seconda fila gli ospiti erano seduti come in semicerchio e poi passa lungol'ultima fila, oltre la quale stavo io, in piedi dietro una sedia, e già si era voltata per tornare indietro senza offrirmi nulla, ma il vecchio zingaro che camminava dietro di lei improvvisamente gridò:

"Gruška!", e accennò a me con gli occhi. Lei lo guardò battendo le ciglia... Dio che ciglia! Lunghissime, nere, che sembravano vive e volavano come uccelli, ma dai suoi occhi notai, quando il vecchio le diede quell'ordine, che era stata tutta come percorsa da un soffio d'ira. Cioè era contrariata che le ordinassero di offrirmi da bere, ma tuttavia ella fece il suo dovere: venne da me dietro l'ultima fila, s'inchinò e disse:

"Bevi, caro ospite, alla mia salute!".E io non riuscii neanche a risponderle, a tal punto di colpo mi stregò! Quando ella si chinò davanti a me sopra

il vassoio e vidi sulla sua testa, tra i capelli neri, serpeggiare, come d'argento, la scriminatura e stenderle dietro, di colpo divenni come assatanato e perdetti il senno. Bevo il vino che mi offre e, attraverso il bicchiere, la guardo in viso e non riesco in nessun modo a distinguere se sia di colorito bruno o bianco, e intanto vedo sotto la sua pelle fina, come in una susina al sole, rosseggiare l'incarnato e sulla tenera tempia pulsare una venuzza... "Ecco", penso,"dov'è la vera bellezza che si chiama perfezione di natura; il magnetizzatore ha detto la verità: non è assolutamente come nel cavallo, in una bestia venduta".

Ed ecco vuotai il bicchiere e lo battei sul vassoio, e lei stava lì ad aspettare di vedere per che cosa dovrà accarezzarmi. Infilai in fretta a questo scopo la mano in tasca, ma mi capitavano sotto mano soltanto quartini e ventini e altra minutaglia di poco valore. È poco, penso; è indecente regalare roba simile a una tale piccola vipera, e sarebbe vergogna davanti agli altri! E i signori, sento, non troppo a bassa voce dicono allo zingaro:

"Eh, Vasilij Ivanov, perché ordini a Gruša di far onore a quel contadino? È offensivo per noi".Ma lui risponde:"Da noi, signori, per ogni ospite c'è onore e posto, e mia figlia conosce l'antica usanza zigana dei padri; non

avete poi affatto da offendevi, perché voi ancora non sapete come qualche uomo semplice può apprezzare la bellezza e il talento. Si hanno vari esempi di questo".

E io, sentendo, penso:"Ah voi, che il lupo vi mangi! Forse perché siete più ricchi di me, avete anche più sentimento? No, ormai sia

quel che sia: poi pagherò il mio debito al principe servendolo, ma adesso non mi coprirò di vergogna e non umilierò questa bellezza mai veduta con la mia avarizia".

E ficcatami una mano in seno, estrassi dal pacco un cigno da cento rubli e lo sbattei sul vassoio. E la zingarella si pose il vassoio su una manina sola e con l'altra mi terse la bocca con un bianco fazzoletto e me la sfiorò così leggermente che non sembrava nemmeno un bacio, e invece fu come se m'iniettasse qualche veleno, e si allontanò.

Ella si allontanò e io sarei rimasto allo stesso posto, ma quel vecchio zingaro, il padre di questa Gruša, e un altro zingaro mi presero sottobraccio e mi trascinano avanti facendomi accomodare in primissima fila, accanto al capo della polizia e ad altri signori.

Io, a dire la verità, neppure ne avevo voglia: non volevo rimanere e volevo uscire; ma loro mi pregavano, non mi lasciavano andare e chiamavano:

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"Gruša! Grunjuška, trattieni il nostro gradito ospite!".E quella venne fuori e, lo sa il nemico cosa sapeva fare con quegli occhi: mi lanciò uno sguardo e fu come se

avesse gettato qualche contagio nei miei, e disse:"Non farci un affronto: resta nostro ospite in questo luogo" ."Chi potrebbe mai farti un affronto?", dissi, e mi sedetti.Ed ella di nuovo mi baciò, e di nuovo la stessa sensazione: come se mi toccasse le labbra con un pennellino

avvelenato, e mi ustionasse attraverso tutto il sangue fin dentro al cuore.E dopo di ciò ricominciarono i canti e le danze, e di nuovo un' altra zingara passò con lo champagne, anche

questa bella, ma neanche da confrontare a Gruša! Non era bella neppure la metà, e perciò a lei nel vassoio, rastrellai nella tasca dei quartini e glieli gettai... I signori ridacchiarono fra loro della cosa, ma a me non importava nulla, perché guardavo una cosa sola, dov'era questa Grušen'ka, e aspettavo di ascoltare la sua voce da sola, senza coro, ma lei non cantava. Se ne stava a sedere con gli altri e accompagnava, ma a solo non ne faceva, così non riuscivo a sentire la sua voce, ma vedevo soltanto la boccaccia coi bianchi destini... "Eh, tu", pensai, "destino mio di orfano: sono entrato un momento, ci ho rimesso cento rubli e non la sentirò nemmeno da sola!". Per mia fortuna, però, non ero io solo che desideravo ascoltarla: anche gli altri signori, i visitatori importanti, durante un intervallo si misero a gridare tutti assieme:

"Gruša! Gruša! La Barchetta, Gruša! La Barchetta!".Ed ecco che gli zingari si misero a tossire, il giovane fratello prese la chitarra e lei si mise a cantare. Sapete, il

loro canto è sempre penetrante e tocca il cuore, ma quando udii quella sua medesima voce che già mi aveva incantato da dietro la porta, mi intenerii. Accidenti, come mi piacque! Ella cominciò in modo apparentemente un po' rozzo, da uomo, così: "U-u-rla il ma-a-re, ge-e-me il ma-a-re", ed era proprio come se si udisse davvero gemere il mare e la navicella sul punto di essere inghiottita lottare coi flutti. Ma poi a un tratto ecco un totale cambiamento di voce, quando si rivolge alla stella: "Aurea, cara, messaggera del giorno, quando tu risplendi, le sciagure terrene non mi toccano". Ed ecco di nuovo un altro cambiamento che non t'aspetti. Nel loro canto ci sono di continuo di questi cambiamenti: ora piange, si strugge, semplicemente ti cava fuori l'anima dal corpo, poi all'improvviso attacca in tutt'altra maniera ed è come se di colpo ti rimettesse il cuore al suo posto... Così anche adesso questo"mare" con la "barchetta" lei lo agitava, ma ecco gli altri si mettono tutti a strillare in coro:

Dža-là-la. Dža-là-là.Dža-là-la pringalà!Dža-là-la pringalà.Gaj da èepuringalja!Gej gop-gaj, ta gara!Gej gop-gaj, ta gara!

e poi Grùsen'ka passò di nuovo col vino e col vassoio ed io le tirai fuori di nuovo dal seno un altro cigno... Tutti cominciarono a girarsi verso di me, perché con i miei regali li facevo sfigurare, tanto che dopo di me avevano perfino vergogna a dare le loro offerte, ma a me decisamente non importava più nulla perché quello era il mio volere, di esprimere il mio cuore, di manifestare la mia anima, e la manifestai. Ogni volta che Gruša cantava io le davo un cigno, e ormai non tenevo più il conto di quanti ne avessi fatti volar via, ma li davo e basta, in compenso se gli altri tutti insieme la pregavano di cantare, ella rispondeva di no a tutte le loro preghiere dicendo che era stanca, se invece io solo facevo cenno allo zingaro come a dire: "non si potrebbe forzarla?", quello subito le lanciava un'occhiata e lei cantava. Ed ella cantò molto, signori, una canzone più possente dell'altra, e io gliene avevo già gettati molti di cigni, un'infinità, ma alla fine, non so a che ora, quando ormai albeggiava, era stanca davvero, sfinita, e guardandomi con intenzione intonò: "Allontanati, non guardarmi, scompari dagli occhi miei". Come se con queste parole mi scacciasse, ma con altre sembrava mi chiedesse:

"Vuoi forse giocare con la mia anima leonina e provare su di te tutta la forza della bellezza?". E io, giù un altro cigno! Ella mi baciò di nuovo, controvoglia, e fu come se mi pungesse, e negli occhi sembrava le ardesse una fiamma scura, ma quelli, gli altri, in quell'ora perfida, per terminare attaccarono a urlare come forsennati:

Senti, senti dolce amata,Come t'amo, o mia agognata!

e tutti van loro dietro in coro e guardano Gruša, e anch'io la guardo e canto: "Senti, senti!". E poi, quando gli zingari attaccarono: "Balla, izbà, balla braciere, il padrone non ha dove giacere", tutti di colpo si lanciarono nella danza... Danzano gli zingari, danzano le zingare, danzano anche i signori: volteggiano tutti assieme, come se veramente l'izbà si fosse messa a ballare. Le zingare volano davanti ai signori e quelli dietro a loro, i giovani lanciando fischi, quelli più anziani ansimando. Al suo posto, guardo, non è rimasto più nessuno... Persino i più posati, dai quali non ti saresti mai aspettato simili buffonerie, anche loro si sono alzati tutti. Taluno fra i più contegnosi rimane seduto più a lungo e sulle prime si vede che si vergogna molto di unirsi alla danza e si limita a seguire con l'occhio oppure a torcersi un baffo, ma poi un diavolo lo tira per la spalla, un altro gli muove il piede e, guardi, eccolo improvvisamente balzare in piedi e,

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benché non sappia ballare, si mette a far Dio sa quali movimenti con le gambe! Il capo della polizia grasso oltraggrasso, con due figlie maritate, anche quello, assieme ai generi, ansima che pare un luccio e rimesta coi calcagni, ma un ussaro ufficiale di rimonta, un capitano ricco e prestante, danzatore ardito, spicca in mezzo a tutti: le mani sui fianchi batte i tacchi arrovesciando i piedi all'insù, procede dinnanzi a tutti, si pavoneggia, mulina le braccia, e quando si incrocia con Gruša scuote il capo, getta il berretto ai suoi piedi e grida: "Camminaci sopra, calpestalo, bellissima!" e lei...Oh, che danzatrice era anche lei! Ho visto come danzano le attrici nei teatri, ma tutto questo-tfù!-è come un cavallo da ufficiale senza fantasia, che durante la parata caracolla solo per mettersi in mostra, Dio sa perché si pavoneggia, ma gli manca il fuoco della vita. Questo schianto di donna, invece, appena si è lanciata scivola via come il faraone, non si dimena, ma dentro quella serpe si sentono crepitare le cartilagini e il midollo scorrere d'osso in osso, quando poi si ferma, si piega in avanti, muove la spalla e tocca con la fronte la punta del piede... Una pittura! Allo spettacolo della sua danza fu proprio come se tutti perdessero completamente la ragione: si protendono verso di lei fuori di sé, smemorati: chi ha le lacrime agli occhi, chi mostra i denti, ma tutti gridano:

"Non ci importa nulla dei quattrini: danza!", e le gettano ai piedi così, semplicemente, senza motivo, chi oro e chi biglietti. Tutto turbinava sempre più forte ed io soltanto continuavo a rimanere lì seduto, ma non sapevo se avrei resistito a lungo perché non potevo guardarla calpestare il berretto dell'ussaro... Lei ci metteva il piede sopra e il diavolo mi pizzicava una vena, ce lo metteva di nuovo e quello un altro pizzicotto, finché pensai: "Cosa sto a tormentarmi qui inutilmente? Lascerò anch'io la mia anima sollazzarsi un po' in libertà", e, balzato in piedi, scansai con uno spintone l'ussaro e mi lanciai a ballare davanti a Gruša accoccolato sui calcagni... E perché lei non mettesse il piede sul berretto di quello, dell'ussaro, inventai questo espediente:

"Voi", penso, "gridate tutti che non vi importa nulla dei quattrini, ma con questo non mi incantate: io invece che non me ne importa nulla lo dimostrerò coi fatti", e, fatto un salto, tiro fuori un cigno dal seno, glielo getto ai piedi gridando: "Camminaci sopra! Calpestalo!". Lei dapprima-come se niente fosse... il mio cigno valeva di più del berretto dell'ussaro, ma lei neanche lo guarda e continua a non aver occhi che per l'ussaro; fortuna però che il vecchio zingaro se ne accorse e come batté il piede guardandola!... Lei capì e mi venne dietro... Scivola verso di me con gli occhi bassi, come il serpente Gorynišèe che brucia il terreno con la sua rabbia, e io galoppo davanti a lei con l'aspetto di un demonio, e ogni volta che faccio un salto davanti a lei le getto un cigno sotto il piedino... La venero a tal punto che penso: non sei stata forse tu, maledetta, a creare il cielo e la terra? E sfacciatamente le grido: "Dai, più forte!" continuando a gettarle cigni sotto i piedi, e a un tratto come infilo la mano in seno per tirare fuori un altro, guardo e vedo che ne sono rimasti una decina in tutto... "Tfù!", pensai, "che il diavolo vi porti via tutti quanti!" e, appallottolatili, glieli buttai tutti in una volta sotto i piedi, poi presi dalla tavola una bottiglia di champagne, le spezzai il collo e gridai:

"Fatti da parte, anima mia, se no t'annaffio!" e la scolai d'un fiato alla sua salute perché dopo quel ballo m'era venuta una sete terribile ».

XIV

«Be', e che cosa accadde poi?», domandammo a Ivàn Sever' janiè.«Poi tutto andò proprio come lui aveva promesso».«Chi lo aveva promesso?».«Ma il magnetizzatore che mi aveva trasmesso il suo influsso scacciò effettivamente da me il demonio del bere

come aveva promesso, e da quella volta io non ho più bevuto nemmeno un bicchierino. L'effetto fu davvero forte ».«Be',e come andò a finire col vostro principe per i cigni che avevate fatto volar via?»«Ma, non lo so nemmeno io, assai semplicemente: come tornassi a casa da quegli zingari non me lo ricordo

nemmeno, né come mi mettessi a letto, ma ecco che sento il principe bussare e chiamare e cerco di alzarmi dalla cassapanca, ma non riesco assolutamente a trovare la sponda e a scendere. Striscio da una parte, e niente sponda; mi volto dall'altra, neanche lì c'è la sponda... Insomma m'ero smarrito sopra la cassapanca e basta!... Il principe grida: "Ivàn Sever'janiè!". E io rispondo: "Subito!" e striscio da tutte le parti e continuo a non trovare la sponda, finché penso: be',se non posso scendere, salterò giù, e preso lo slancio saltai più lontano che potei, e sento qualcosa sbatterei sul muso e qualcosa attorno a me tintinnare e andare in frantumi, e anche dietro sento un tintinnio e qualcosa che va in frantumi, e la voce del principe dice all'attendente:

"Fa' luce, presto!" .E io sto lì senza muovermi perché non so se vedo tutto questo sopra di me in sogno o da sveglio, e credo di

essere ancora sopra la cassapanca e di non aver ancora raggiunto la sponda; invece, appena l'attendente portò il lume, vedo che son sul pavimento e che ero saltato col muso dentro la cristalliera del padrone fracassando tutto...»

«Come avevate potuto smarrirvi a quel modo?»«Assai semplicemente: pensavo di dormire secondo la mia normale abitudine sopra la cassapanca, e invece,

evidentemente, di ritorno dagli zingari, mi ero coricato direttamente sul pavimento, così avevo continuato a strisciare cercando la sponda e poi avevo fatto un salto... ed ero saltato dentro alla cristalliera. Mi ero smarrito perché quello... il magnetizzatore, aveva cacciato da me il demonio del bere e mi aveva messo alle costole quello dello smarrimento... Subito mi vennero in mente le sue parole, quando aveva detto: "Che non sia peggio, se lasci il bere", e andai a cercarlo,

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volevo chiedergli che mi smagnetizzasse come prima, ma non lo trovai. S'era presi troppi diavoli addosso e non aveva resistito, lì stesso, dall'ostessa dirimpetto agli zingari, si era ubriacato a tal punto che ne era morto».

«E così voi restaste magnetizzato?»«Proprio così».«E agì a lungo su di voi questo magnetismo?»«Perché mai a lungo? Forse agisce ancora adesso».«Ci interesserebbe tuttavia sapere come faceste col principe... Possibile che non aveste alcuna spiegazione con

lui a proposito dei cigni?»«Nossignore, la spiegazione ci fu, ma niente di grave.Anche il principe era tornato a casa che aveva perso tutto,

e si mise a chiedermi soldi per la rivincita. Io dico:"Lasciate stare: non ho il becco d'un quattrino".Lui pensa che scherzi, ma io dico:"No, per davvero, in vostra assenza ho fatto una grande uscita"."Ma dove mai", dice, "hai potuto gettare cinquemila rubli in una sola uscita?...".Io dico:"Li ho gettati tutti insieme a una zingara...".Lui non ci crede.Io dico:"Be', non credetevi; ma vi sto dicendo la verità".Egli sulle prime si arrabbia e dice:"Chiudi un po' la porta che ti insegno io a buttar via il denaro del governo", ma poi, cambiando idea

all'improvviso, dice: "Non fa niente, sono anch'io scapestrato come te".E tornò nella sua camera a finire il suo sonno, mentre anch'io andai nel fienile e mi rimisi a dormire. Ritornai in

me all'ospedale e sentii che dicevano che avevo avuto la febbre bianca e che avevo tentato di impiccarmi, ma, grazie a Dio, mi avevano legato con la camicia di forza. Poi guarii e mi presentai al principe nel suo villaggio perché nel frattempo s'era dimesso dall'esercito; gli dico:

"Vostra eccellenza, debbo risarcivi dei vostri soldi lavorando".Lui risponde:"Va' al diavolo".Vedo che è molto offeso con me, mi avvicino a lui e mi chino."Che significa?", dice."Per lo meno strigliatemi come si deve!".Ma lui risponde:"Che ne sai tu che io sia in collera con te? Può darsi, invece, che non ti consideri neppure per niente colpevole""Di grazia", dico "come non sarei colpevole, se ho buttato via una tale infinità di quattrini? Lo so da me che un

infame come me sarebbe poco impiccarlo".Ma lui risponde:"Ma che vuoi farci, fratello, se sei un artista?""Come sarebbe?", dico."Proprio così", risponde, "proprio così, caro Ivàn Sever'janyè, voi, mio semistimabilissimo, siete un artista"."Davvero", dico, "non lo capisco"."Tu", dice, "non pensare qualcosa di male, io stesso, infatti, sono un artista"."Be', ecco", penso, "si capisce: si vede che non son stato il solo a ingozzarsi fino alla febbre bianca".Ma lui si alzò, batté la pipa a terra e disse:"Che c'è da meravigliarsi se hai gettato davanti a lei tutto quello che avevi con te? Io, fratello, per lei ho dato

quello che non ho e non ho mai avuto".Io lo guardai con tanto d'occhi."Bàtjuška", dico, "per l'amor di Dio, cosa dite mai, ho perfino paura di ascoltare"."Be'", risponde, "non ti spaventare troppo, Dio è misericordioso e forse in qualche modo ne uscirò, soltanto che

per questa Gruša ho dato cinquantamila rubli alla tribù".Io rimango a bocca aperta:"Come", dico, "cinquantamila! Per una zingara? Ma li vale, forse, quella serpe?""Be'", dice, "ecco che voi, semistimabilissimo, vi siete messo a parlare in modo stupido e non artistico... Come

sarebbe li vale? La donna vale qualsiasi cosa al mondo, perché lei ti può infliggere una tale ferita che per tutto l'impero non riusciresti a guarirne, mentre lei sola in un attimo te la può sanare".

E io penso che tutto ciò è vero, ma scuoto il capo e dico:"Una somma simile! Cinquantamila rubli addirittura!"."Sì, sì", dice, "e non ripeterlo più, perché, fortuna che si sono accontentati di quelli, altrimenti io gliene avrei

dati anche di più... tutto, qualunque cosa avrei dato loro"."Avreste dovuto", dico, "sputarci sopra e basta"."Non potevo", dice, "fratello, sputarci sopra".

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"Perché mai?""Lei mi ha ferito con la bellezza e il talento e io debbo guarirne, altrimenti uscirò di senno. Ma tu dimmi: non è

vero che è bella? Eh? È vero? C'è di che perdere il senno per causa sua?...".Io mi morsi le labbra limitandomi a scuotere il capo in silenzio come a dire:"È vero, è vero!"."A me", dice il principe, "a me, sai, per una donna non importerebbe nulla di morire. Lo puoi capire questo che

morire non importi nulla?""Che c'è", dico, "qui di incomprensibile: la bellezza, la perfezione di natura...""Che cosa intendi con questo?""Intendo dire questo", dico, "che la bellezza è la perfezione della natura, e a causa di essa per l'uomo

affascinato morire... è perfino una gioia!"."Bravo", risponde il mio principe, "bravo, mio quasi semistimabilissimo e ultrainsignificante Ivàn Sever'janyè!

Proprio così, morire è una gioia e proprio questo adesso mi dà dolcezza, che per lei ho mandato all'aria tutta la mia vita: ho dato le dimissioni dall'esercito, ho ipotecato la proprietà e d'ora in poi vivrò qui senza vedere anima viva e la guarderò tutto il tempo in volto".

Qui abbassai ancor di più il capo e sussurrai:"Come", dico, "la guarderete in volto? È dunque qui?".E lui risponde:"Come potrebbe essere altrimenti? Si capisce che è qui!" ."È mai possibile?", dico."Aspetta un momento", dice, "adesso la faccio venire".E così dicendo mi lasciò e uscì dalla porta. Io sto lì, aspetto e penso:"Eh, non è bene che tu dica così, che non farai altro che guardarla in volto! Ti verrà a noia!". Ma su questo non

sto a ragionar troppo sopra perché, appena penso che lei e lì, subito sento addirittura un calore al petto e la mente mi si confonde; penso: "Davvero adesso la rivedrò?". Ma eccoli a un tratto entrare: il principe davanti, e in una mano regge una chitarra con un largo nastro scarlatto, mentre con l'altra trascina per entrambe le mani Grùšen'ka, che cammina a testa bassa, recalcitrante, senza guardare, soltanto le enormi ciglia nere palpitanti come ali d'uccello sopra le guance.

Il principe la condusse dentro, la prese in braccio e la depose, come una bambina, con le gambe piegate sopra un ampio e soffice divano; le ficcò un cuscino di velluto dietro la schiena, gliene mise un altro sotto il gomito destro, poi le infilò il nastro della chitarra sopra la spalla e le pose le dita sulle corde. Quindi si sedette sul pavimento, accanto al divano, e chinò la testa verso la sua scarpetta scarlatta di marocchino facendomi cenno come a dire:

"Siediti anche tu".Io mi lasciai andare pian-piano sul pavimento accanto alla soglia, accovacciata anch'io sulle gambe: me ne sto

lì seduto e la guardo. Sopravvenne un tale silenzio che si provava perfin nausea. Sedetti-sedetti, che perfino le ginocchia mi si spezzavano, ma la guardo e lei è sempre nella stessa posizione, guardo il principe e vedo che per lo struggimento s'è rosicchiato tutto un baffo, ma non le dice nulla.

Io gli accenno, come a dire:"Che fate, ordinatele di cantare!". Ma lui risponde con la stessa pantomima come a dire: "Non mi darebbe

retta".E di nuovo ce ne stiamo entrambi seduti sul pavimento e aspettiamo, ma lei a un tratto comincia come a

vaneggiare, a sospirare e a piangere pian piano, e una lacrimuccia le scorre dal ciglio, e le dita come vespe strisciano e tambureggiano... E a un tratto ella si mise a cantare piano piano, come se piangesse: "Brava gente, ascoltate la tristezza del mio cuore".

Il principe bisbiglia: "Ebbene?".E, anch'io bisbigliando, gli rispondo in francese: "Pti-com-pë", e non ho altro da dire, ma lei in quell'istante

all'improvviso grida: "E per la mia bellezza mi venderanno, mi venderanno", e scagliata via lontano la chitarra dalle ginocchia e strappatasi il fazzoletto dalla testa si gettò a faccia ingiù sul divano, ficcò il volto fra le palme e pianse, e anch'io, guardandola, piansi, e anche il principe... anche lui scoppiò a piangere, ma prese la chitarra e, come se non cantasse, ma celebrasse l'uffizio, gemette: "Se tu sapessi tutto il fuoco dell'amore, tutta la tristezza dell'anima mia ardente", e giù a piangere. E canta e singhiozza: "Pacifica me senza pace, fa' felice me infelice". Quando si fu tanto dolorosamente commosso, lei, vedo, porse orecchio alle sue lacrime e al canto e cominciò a calmarsi e a rabbonirsi, e a un tratto tirò fuori pian piano un braccino di sotto al viso e, come una madre, con esso gli avvinse teneramente la testa...

Be', a questo punto compresi che in quel momento lei aveva avuto compassione di lui e subito lo avrebbe pacificato e avrebbe sanato tutta la tristezza della sua anima ardente, e, alzatomi pian piano, me ne andai alla chetichella ».

«E di certo è allora che entraste in convento? », domandò qualcuno al narratore.«Nossignore: non ancora, più tardi», rispose Ivàn Sever'janyè , e aggiunse che gli sarebbe toccato vederne

ancora tante a questo mondo per causa di quella donna, finché sopra di lei non si fosse compiuto tutto quello che era destino si compisse.Gli ascoltatori, si capisce, si diedero a pregarlo perché raccontasse loro, magari succintamente, la storia di Grunja, e Ivàn Sever'janyè esaudì la loro richiesta.

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XV

«Vedete», cominciò Ivàn Sever'janyè, «il mio principe era d'animo buono, ma volubile. Se gli veniva voglia di una cosa, subito a qualsiasi costo tirala fuori e mettigliela lì, altrimenti usciva di senno, e in quei momenti, pur di ottenerla, era pronto a qualsiasi sacrificio, ma poi, quando l'aveva avuta, non si teneva cara la sua felicità. Così gli accadde anche con questa zingara, e il padre di lei, di Gruša, e tutti gli altri zingari della loro tribù, questo aspetto del suo carattere lo avevano subito capito alla perfezione e gli avevano domandato per lei Dio sa quale prezzo, più di quanto tutto il suo patrimonio familiare gli consentisse, perché lui possedeva sì una bella proprietà, ma in dissesto. Tanti soldi, quanti la tribù ne voleva per Gruša, il principe allora in contanti non ne aveva, ed egli perciò fece un debito e non poté più prestar servizio nell'esercito.

Conoscendo tutte queste sue abitudini, da lui non mi aspettavo granché di buono, e nemmeno per Gruša, e tutto andò come pensavo. La colmava d'attenzioni, la guardava e sospirava senza staccarsene un momento, ma a un tratto cominciò a sbadigliare e a chiamarmi perché gli facessi compagnia.

"Siediti", dice, "ascolta".Io prendo una sedia, mi siedo da qualche parte vicino alla porta e ascolto. Spesso andava così: lui talvolta le

chiedeva di cantare e lei rispondeva:"Per chi dovrei cantare? Tu", dice, "ti sei fatto freddo, mentre io voglio che al mio canto l'anima di qualcuno si

infiammi e si tormenti".Il principe allora mandava subito a chiamarmi e io e lui ascoltavamo; poi però Gruša stessa cominciò a

ricordargli di chiamarmi, e a trattari molto affabilmente, e dopo che aveva cantato più di una volta bevvi il tè nel suo appartamento assieme al principe, soltanto, si capisce, su un tavolo separato, oppure da qualche parte accanto alla finestrella, ma se rimaneva sola, mi faceva sedere sempre accanto a sé, alla buona. Passò così un certo tempo, ma il principe si faceva sempre più cupo e una volta mi disse:

"Sai una cosa, Ivàn Sever'janyè, così e così, le mie faccende vanno assai male".Io dico:"Perché vanno male? Sia lode a Dio, vivete come si deve e avete tutto".Ma lui all'improvviso si offese."Come siete stupido", dice, "mio semistimabilissimo,'ho tutto', eh? E che cosa ho?""Ma tutto", dico, "quel che vi occorre"."Non è vero", dice, "sono diventato povero, adesso devo lesinarmi anche la bottiglia di vino per il pranzo. È

mai vita questa? È mai vita?"."Ecco", penso, "quello che ti cruccia", e dico:"Be', se qualche volta manca il vino, non è una gran disgrazia, si può sopportare, in compenso avete quel che è

più dolce del vino e del miele".Ma lui capì che alludevo a Gruša, e provò come vergogna davanti a me; cammina avanti e indietro, fa un gesto

con la mano, e dice:"Naturalmente... naturalmente... si capisce... soltanto però... Ecco ormai sei mesi che vivo qui e in casa mia non

ho visto anima viva di fuori...""Ma che ve ne fate", dico, "di uno di fuori, quando avete l'anima agognata?".Il principe avvampò."A-hà", penso, "è questa dunque la canzone che hai intonato?" e dico:"E allora che fare adesso?""Mettiamoci", dice, "a commerciare in cavalli. Voglio",dice, "che gli ufficiali di rimonta e gli allevatori

riprendano a venire da me".È una faccenda stupida e non da signori commerciare in cavalli, ma, penso, purché il bambino sia contento e

non pianga... e dico: "Come volete".E cominciammo ad allevare puledri. Ma appena ci eravamo messi nell'impresa, il principe si lanciò a capofitto

in quella passione: appena rimediava un po' di quattrini, subito comprava dei cavalli, e prendeva qualsiasi cosa, arraffava senza discernimento, non mi ascoltava... Ne comprammo un subisso, ma non si vendeva... Lui subito si scoraggiò e abbandonò i cavalli, e via ad architettare quel che gli saltava in mente: ora si dà anima e corpo a costruire un mulino fuori dall'ordinario, un'altra volta mette su una selleria, da ogni impresa non ne ricavava che perdite e debiti, e soprattutto si rovinava l'umore... Non stava mai in casa, correva sempre di qua e di là in cerca Dio sa di cosa, e Gruša rimaneva sola e in quello stato... gravida.Era triste. "Lo vedo poco", dice, ma si vince e lo copre d'attenzioni; appena s'accorge che lui dopo un giorno o due comincia ad annoiarsi, subito è lei la prima a dirgli:

"Tu", dice, "mio smeraldo di zaffiro, dovresti andare da qualche parte a divertirti un po', invece di star qui con me: io sono una ragazza semplice, ignorante".

A queste parole lui, lì per lì, provava vergogna e le baciava le mani e per un giorno o due si faceva forza, poi però, in compenso, appena prendeva il via si buttava a capofitto, e lei la affidava a me.

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"Abbine cura", dice, "semistimabile Ivàn Sever'janyè, tu sei un artista, non sei un fanfarone come me, sei un autentico artista di alto livello, e così sai parlare con lei in modo tale che è un passatempo per entrambi, mentre a me questi 'smeraldi di zaffiro' mi fanno venir sonno".

Io dico:"E perché mai? È una parola d'amore"."D'amore sì", dice, "ma stupida e noiosa".Io non risposi nulla, ma soltanto da allora cominciai adandar da lei senza complimenti: quando il principe non

c'era, andavo ogni giorno da lei due volte al giorno a bere il tè e la distraevo come potevo.E c'era da che distrarla, infatti, se si metteva a parlare,non faceva che lamentarsi:"Mio caro, mio affettuoso amico Ivàn Sever'janyè", cominciava a dire, "la gelosia mi tormenta

dolorosamente,colombello mio".Ma io, si capisce, la tranquillizzavo:"Perché", dico, "tormentarsi tanto? Dovunque vada,ritorna sempre da te".Ma lei scoppiava a piangere e si batteva il petto con le mani e diceva:"No, dimmelo... non me lo nascondere, amico mio affettuoso, dove va?""Dai signori vicini", dico, "oppure in città"."E non c'è forse", dice, "da qualche parte laggiù chi lo possa separare da me? Dimmi: forse prima di me egli

amava qualcuna ed è ritornato da lei, oppure forse, l'assassino, si è messo in testa di sposarsi?" e mentre diceva così gli occhi le si accendevano in modo tale che faceva spavento perfino a guardarla.

Io la consolavo, ma fra di me,pensavo:"Chi lo sa che cosa fa", perché in quel periodo lo vedevamo poco.E da quando le era venuta in mente l'idea che egli volesse sposarsi, non faceva che pregarmi:"Su, caro Ivàn Sever'janyè , va' in città; va' e scopri esattamente ogni cosa sul suo conto e riferiscimi tutto senza

nascondermi nulla".E mi stava alle costole sempre di più con questa richiesta, finché mi impietosì a tal punto che pensai:"Be', vada come vada, ci andrò. Però se scoprirò qualcosa di brutto quanto al tradimento, non le dirò tutto; in

ogni caso vedrò e metterò tutto in chiaro".Scelsi il pretesto che bisognava che andassi io stesso dagli erboristi a far provvista delle medicine per i cavalli,

e mi misi in viaggio, ma non così, alla buona, bensì con un astuto espediente.Gruša non sapeva, e ai servi era stato severissimamente ordinato di non dirglielo, che il principe, prima di

quella faccenda con lei, aveva avuto in città un altro amore, una della nobiltà, la figlia di un consigliere, Evgen'ja Semènovna. Era una gran suonatrice di pianoforte, famosa in tutta la città, e un'ottima signorina, anche lei molto bella, e aveva avuto col mio principe una figlia, ma era diventata grassa ed egli, si diceva, per questo l'aveva lasciata. Tuttavia, avendo a quell'epoca ancora un grosso capitale, egli aveva comprato a questa signorina e alla figlia una casa, dove esse vivevano di qualche piccola rendita. Da questa Evgen'ja Semènovna il principe, dopo averla ricompensata, non c'era più andato, ma i nostri servi serbavano un buon ricordo della sua bontà e ogni volta che andavano in città passavano da lei, perché le volevano bene e lei era sempre affettuosissima con tutti i nostri e chiedeva notizie del principe.

Così, arrivato in città, vado diritto da lei, da questa buona signora, e le domando:"Io, màtuška Evgen'ja Semènovna, mi fermo da voi".Lei mi risponde:"Ebbene, mi fa assai piacere. Soltanto, come mai", dice, "non vai dal principe, nel suo appartamento?""Dunque", dico, "è qui in città?""Sì", dice, "è già qui da due settimane e sta mettendo in piedi non so quale affare"."Quale altro affare ancora?", dico."Prende in affitto", dice, "una fabbrica di panno"."Signore Iddio!", dico. "Cos'altro mai ha escogitato?""Perché", dice, "non è forse una buona idea?""Niente", dico, "è solo che la cosa mi meraviglia".Ella sorride."No", dice, "meravigliati piuttosto di questo: il principe mi ha mandato una lettera chiedendosi di riceverlo

oggi perché vuo vedere la figlia"."Ebbene", dico, "e voi, màtuška Evgen'ja Semènovna,avete acconsentito?".Ella si stringe nelle spalle e risponde:"Perché no? Che venga pure e veda la figlia", e dopo queste parole si fece pensierosa, se ne stava seduta con la

testa bassa, ed era lei stessa ancora tanto giovane, bianca e tornita, inoltre anche il suo modo di fare era tutto diverso da quello di Gruša.. quella, infatti, non sapeva dire altro che il suo "smeraldo di zaffiro", mentre questa era tutt'altra cosa... Ne divenni geloso.

"Oh", penso fra me, "purché lui, quando guarderà la bambina, non si metta a guardare anche te col suo cuore insaziabile! Da questo alla mia Grùšen'ka non ne verrebbe nulla di buono". E assorto in questi pensieri me ne sto seduto in casa di Evgen'ja Semènovna, nella stanza dei bambini, dove ella aveva ordinato alla balia di servirmi il tè, ma a un tratto sento che suonano alla porta e la cameriera arriva di corsa tutta lieta e dice alla balia:

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"È venuto da noi il principino!".Subito feci per alzarmi e andarmene in cucina, ma la balia Tat'jama Jàkovlevna era una vecchietta moscovita di

quelle ciarliere: le piaceva un mondo parlare in continuazione e non voleva a causa di questo privarsi di un ascoltatore, così dice:

"Non andartene, Ivàn Golovanyè ,ritiriamoci invece di qua, nel guardaroba, ci sederemo dietro l'armadio, lei non lo farà entrare qui in nessun caso e io e te ci faremo un'altra chiacchieratina".

Io acconsentii perché, a causa della loquacità di Tat'jama Jàkovlevna, speravo di venire a sapere da lei qualcosa di utile per Gruša, e, dato che Evgen'ja Semènovna mi aveva fatto mandare un flaconcino da acqua di Colonia riempito di rhum per il tè, e io ormai non bevevo più, penso: verserò alla buona vecchietta un po' di questo scioglilingua dal flaconcino nel teuccio, chissà che, bontà sua, non abbia a spiattellarmi qualcosa che altrimenti non mi avrebbe detto.

Ci ritirammo dalla stanza dei bambini e ce ne stavamo seduti dietro agli armadi, ma questa stanzetta degli armadi era strettina, a dirla in breve, un corridoio con una porta in fondo, e quella porta dava proprio nella stanza dove Evgen'ja Semènovna aveva ricevuto il principe, e anzi per di più proprio accanto al divano dove erano seduti. Insomma, da loro mi separava soltanto quella porta chiusa, tappezzata da quel lato di stoffa, altrimenti era come se fossi stato nella stessa stanza con loro, tanto sentivo tutto.

Il principe appena entrato dice:"Buongiorno, vecchia e provata amica!".E lei gli risponde:"Buongiorno principe! A cosa devo?".E lui a lei:"Di questo", dice, "parleremo dopo, ma prima lascia che ti saluti e permetti che ti baci sulla testolina", e io

sento che le schiocca un bacio sulla testa e le chiede della figlia. Evgen'ja Semènovna gli risponde che è in casa."È in buona salute?""Sì", dice."Sarà cresciuta...".Evgen'ja Semènovna scoppia a ridere e risponde:"Si capisce", dice, "che è cresciuta".Il principe risponde:"Spero che me la farai vedere...""Perché no?", risponde lei. "Con piacere", e, alzatasi,entra nella camera dei bambini e chiama quella stessa

balia,Tat'jana Jàkovlevna, con la quale stavo prendendo il tè."Baliuccia", dice, "conducete Ljùdoèka dal principe".Tat'jana Jàkovlevna sputò, posò il piattino sul tavolo e disse:"Oh, che il diavolo vi porti, non fai neanche in tempo a sederti di buon appetito a tavola a far due parole con

una persona, che subito immancabilmente ti interrompono e non ti permettono di far niente a tuo piacimento!", poi mi nascose in fretta dietro alle gonne della padrona appese alla parete dicendo: "Aspetta qui", e uscì con la bambina, mentre io restai solo dietro agli armadi, e a un tratto sento che il principe bacia e ribacia la bambina e la fa saltellare sulle ginocchia, e poi dice:

"Vuoi fare un giro in carrozza, mio anfàn?".Quella non gli risponde; allora lui fa a Evgen'ja Semènovna:"Že vu pri", dice, "per favore, che vada con la balia a fare un giro sulla mia carrozza".Quella gli rispose qualcosa in francese, come a dire: perché e purquà, ma lui a sua volta le dice qualcosa come

a dire: "è assolutamente necessario", e così si scambiarono delle parole per due o tre volte, e poi Evgen'ja Semènovna malvolentieri dice alla balia:

"Vestitela e andate".Quelle partirono e loro due rimasero soli soletti, e io lì accanto nascosto a origliare, dato che non avrei

nemmeno potuto uscire da dietro gli armadi, e inoltre fra me pensavo: "Ecco che è venuta la mia ora e adesso scoprirò la verità, chi sta macchinando qualcosa ai danni di Gruša".

XVI

Venuto in questa risoluzione, di origliare, non mi accontentai di ciò, ma mi venne anche voglia di vedere coi miei occhi quel che era possibile e ci riuscii: montai senza far rumore in piedi sopra uno sgabello e subito scorsi una fessura sopra la porta e vi appoggiai avidamente l'occhio.Vedo che il principe è seduto sul divano, mentre la signora e in piedi accanto alla finestra e certamente guarda sistemare in carrozza la sua bambina.

Partita la carrozza ella si volta e dice:"Ebbene, principe, ho fatto tutto come volevate, e oraditemi: per quale affare siete venuto da me?".E lui risponde:

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"Ma che affare!... un affare non è un orso, non scappa certo nel bosco, ma tu prima vieni qui vicino a me, sediamoci vicini e parliamo un po' da buoni amici, come eravamo soliti fare una volta".

La signora rimane in piedi, con le braccia dietro la schiena, appoggiata alla finestra, e tace aggrottando le ciglia. Il principe la prega:

"Che fai", dice, "ti prego, ho bisogno di parlare con te" .Quella obbedisce, si avvicina, e lui subito, vedendo questo, si mette di nuovo a scherzare:"Su, siediti, siediti come una volta", e cerca di abbracciarla, ma lei lo respinge e dice:"Al fatto, principe, al fatto, parlate: in che cosa posso servirvi?""Ma come", domanda il principe. "Dunque dovrei metter giù la cosa nuda e cruda, senza tante parole?""Naturalmente", dice lei, "spiegate senza ambagi di che si tratta: ci conosciamo intimamente e non è il caso di

far cerimonie"."Mi occorrono dei soldi", dice il principe.Quella lo guarda e tace."Non molti", proferì il principe."E quanti?""Adesso in tutto un ventimila".Quella di nuovo non risponde, e il principe via a decantare la cosa: "Io", dice, "comprerò la fabbrica di

panni,ma non ho nemmeno un centesimo, però se la compro divento un milionario; io", dice, "trasformerò tutto, distruggerò e butterò via tutte le vecchie attrezzature e comincerò a fare stoffe sgargianti e a vendere agli asiatici a Nižnij. Le tesserò col materiale più scadente, ma le tingerò in modo sgargiante, tutto andrà a puntino e guadagnerò una montagna di quattrini, ma adesso mi servono soltanto ventimila rubli di caparra per la fabbrica". Evgen'ja Semènovna dice:

"Ma dove trovarli?""Nemmeno io lo so, ma bisogna che li trovi e per il resto il mio calcolo è esatto al cento per cento: ho un

uomo,Ivàn il Testone, un ex-konesèr dell'esercito, assai stupido, ma una persona d'oro, onesto e coscienzioso, che è stato a lungo prigioniero degli asiatici e conosce perfettamente tutti i loro gusti, e adesso a San Makarij c'è una fiera; lo manderò laggiù a raccogliere le ordinazioni e a prendere i campioni, e si incasseranno degli anticipi... allora... per prima cosa restituirò subito questi ventimila...".

E tacque; la signora rimane un po' in silenzio e poi comincia:"Il vostro calcolo, principe, è esatto", dice."Non è vero?""È esatto", dice, "è esatto; voi farete così: darete la caparra per la fabbrica e dopo di questo cominceranno a

consideravi un industriale; in società si comincerà a dire che i vostri affari si sono riaggiustati...""Sì"."Sì; e allora...""Il Testone raccoglierà a San Makarij le ordinazioni e gli anticipi e io restituirò il debito e diventerò ricco"."No, per favore, non interrompetemi: voi prima con tutto questo getterete polvere negli occhi al maresciallo

della nobiltà, e, finché vi reputerà un riccone, ne sposerete la figlia e allora, prendendo la sua dote, diventerete ricco sul serio".

"Tu pensi questo?", dice il principe.E la signora risponde:"Perché? Voi pensate forse diversamente""Allora", dice, "se tu capisci tutto, conceda Dio che sia come parlano le tue labbra e che noi possiamo bere il

miele" ."Noi?""Certamente", dice, "allora staremo bene tutti: tu adesso ipotecherai per me la casa, e io per ventimila rubli ne

darò diecimila di interessi a mia figlia".La signora risponde:"La casa è vostra: voi gliel'avete donata e voi dunque riprendetevela, se vi occorre".Lui comincia a dire che: "No", dice, "la casa non è mia; e tu sei sua madre, io lo chiedo a te... naturalmente

soltanto se tu ti fidi di me...".Ma lei ribatte:"Ah, basta, principe", dice, "forse che solo in questo mi sono fidata? Io vi ho affidato la mia vita e il mio

onore""Ah, sì", dice, "tu parli... Be'", grazie, grazie, benissimo. Dunque domani posso mandare da te l'ipoteca da

firmare?""Mandatela", dice, "la firmerò"."Ma non hai paura?""No", dice, "ho già perduto quella cosa, dopo la quale non si ha più nulla da temere"."E non ti dispiace? Parla: non ti dispiace? Certo mi ami ancora un pochino... È vero? Oppure provi

semplicemente compassione, eh?".

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Ella a queste parole scoppiò soltanto a ridere, dicendo"Smettetela, principe, di dire sciocchezze. Non volete piuttosto che vi faccia portare della marmellata di more

con lo zucchero? Ne ho di assai gustosa".Lui dovette offendersi: evidentemente non era questo che si aspettava; si alzò e sorrise."No", dice, "mangiatela tu la tua marmellata, adesso ho altro per la testa che le tue more. Ti ringrazio e addio",

e comincia a baciarle le mani, e giusto in quell'istante fu di ritorno la carrozza.Evgen'ja Semènovna gli porge la mano per salutarlo e dice:

"E come sistemerete le cose con la vostra zingara dagli occhi neri?""Ah, è vero! Come sei sempre intelligente! Che tu ci creda oppure no, mi ricordo sempre della tua intelligenza

e ti ringrazio di avermi ricordato adesso quello zaffiro''."Ma dunque", dice, "davvero ve ne sareste dimenticato?""Quant'è vero Iddio", dice, "me n'ero dimenticato.M'era uscita del tutto di mente, invece, in effetti, bisogna

sistemare quella stupida""Sistematela dunque", risponde Evgen'ja Semènovna, "soltanto fatelo per bene: lei, infatti, non è freddo sangue

russo mescolato con latte fresco, non si rassegnerà docilmente e non vi perdonerà nulla in nome del passato"."Non fa niente", risponde, "in qualche modo si metterà l'animo in pace" ."Vi ama, principe? Si dice che vi ami addirittura molto...""Mi ha annoiato da morire; ma grazie a Dio, per mia fortuna lei e Testone sono grandi amici"."Da questo che ve ne viene?", domanda Evgen'ja Semènovna."Niente, comprerò loro una casa e iscriverò Ivàn alla corporazione dei mercanti, si sposeranno e cominceranno

una nuova vita".Evgen'ja Semènovna scosse la testa e sorridendo proferì:"Eh, principino, principino, dissennato principino: dov'è la vostra coscienza?".E il principe risponde:"Lascia perdere, per favore, la mia coscienza. Quant'è vero Iddio, adesso ho altro a cui pensare che a lei: se

solo potessi far venire qui Ivàn il Testone in giornata...".La signora gli disse che Ivàn il Testone era in città e addirittura si era fermato da lei. Il principe si rallegrò

molto di ciò e ordinò di mandarmi quanto prima possibile da lui, e subito si congedò.Dopo di ciò tutto da noi andò in fretta come in una favola. Il principe mi dette un'infinità di procure e di

attestati che lui aveva una fabbrica, e mi insegnò a dire che qualità di panni produceva, e mi mandò direttamente dalla città a San Makarij, cosicché non riuscii neppure a vedere Gruša, tuttavia però, a causa di lei, rimasi offeso col principe: come aveva mai potuto dire che doveva essere mia moglie? A San Makarij ebbi una fortuna sfacciata: raccolsi in gran quantità ordinazioni fra gli asiatici, e denaro, e campioni, e tutto il denaro lo inviai al principe, e io stesso ritornai indietro e non riuscivo a riconoscere la casa... Tutto là era cambiato, semplicemente come per qualche incantesimo: tutto era stato rinnovato, come una izbà riordinata per le feste, e dell'ala dove abitava Gruša non c'era più traccia: era stata demolita e al suo posto era stata eretta una nuova costruzione. Io rimasi a bocca aperta e mi precipitai: dov'era Gruša? Ma nessuno sapeva niente di lei; e il personale di servizio era tutto nuovo, salariato e superbissimo, cosicché non avevo più la facilità di accesso al principe di prima. Fino ad allora fra me e lui tutto era stato alla maniera militare, alla buona, mentre adesso tutto era regolato dalla politica e se avevo qualcosa da dire al principe non c'era modo di farlo se non attraverso il cameriere personale.

Questo non lo sopportavo, a tal punto che non sarei rimasto lì nemmeno un minuto e me ne sarei andato immediatamente, non fosse stato che provavo una gran compassione per Gruša e non riuscivo in alcun modo a sapere dove fosse andata a finire. A chiunque della vecchia servitù domandassi, tutti tacevano: evidentemente era stato loro proibito severamente di parlare. A stento da una vecchia serva cavai che Grušen'ka ancora poco tempo prima era lì e, dice, era in tutto una decina di giorni che era partita assieme al principe in carrozza per non si sa dove, e da allora non era più tornata indietro. Io comincio a far domande ai cocchieri che li avevano portati, ma nemmeno loro mi dicono nulla. Mi dissero soltanto che il principe aveva cambiato i suoi cavalli alla stazione di posta e li aveva rimandati indietro, mentre lui e Gruša avevano proseguito per non si sa dove con dei cavalli a nolo. Dovunque sbattessi la testa, nessuna traccia e basta: forse lo scellerato l'aveva sgozzata col coltello, o le aveva sparato con la pistola e l'aveva gettata in un fosso da qualche parte nel bosco ricoprendola di foglie secche, oppure l'aveva affogata... Da un uomo appassionato, infatti, ci si può aspettare facilmente tutto questo; e lei gli era di impedimento per il suo matrimonio, perché Evgen'ja Semènovna aveva detto la verità: Gruša lo amava, quello scellerato, con tutta la passione del suo amore sfrenato, mortale, di zigana, e non avrebbe potuto sopportare e rassegnarsi come aveva fatto Evgen'ja Semènovna, una cristiana russa che consumava la sua vita davanti a lui come una lampada votiva. In quella, invece, penso, il fuoco zingaresco è divampato in fosco incendio non appena lui le ha detto delle nozze, e subito sarà diventata un demonio, così lui l'ha fatta fuori.

E più covo in testa questo pensiero, più mi convinco che la cosa non poteva essere andata altrimenti, e non posso guardare tutti i preparativi per il suo matrimonio con la figlia del maresciallo. Quando poi venne il giorno delle nozze e a tutti i servi furono distribuiti dei fazzoletti colorati e un vestito nuovo confacente alle loro mansioni io non mi misi ne il fazzoletto, ne l'abito, ma portai tutto nella stalla e lo gettai nel mio bugigattolo, e me ne andai sin dal mattino nel bosco e camminai, senza sapere io stesso il perché, fino a sera pensando continuamente: non mi imbatterò da

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qualche parte nel suo cadavere? Venne la sera e uscii fuori, mi sedetti sulla riva scoscesa del fiumicello; dall'altra parte del fiume tutta la casa arde e risplende di luci e la festa è al culmine; i convitati se la spassano e la musica tuona che si sente fin lontano. Ma io continuo a rimanere lì seduto e guardo non più la casa stessa, ma nell'acqua dove quella luce e tutta riflessa e svaria in fiotti, come se le colonne si muovessero e si fossero aperte le dimore delle acque. E mi prese una tale tristezza, una tal pena, che persino - cosa che neppure in prigionia mi era mai accaduta - cominciai a parlare con le potenze invisibili, e, come si racconta nella favola della sorellina Alènuška che il fratello chiamava, chiamo la mia orfanella Grùnjuška con tono lamentoso:

"Sorellina mia", dico, "mia Grùnjuška! Rispondimi,mostrati a me per un istante!" e cosa favorite pensare? Gemetti così tre volte e mi prese lo sgomento, mi pareva di continuo che qualcuno corresse verso di me; ed ecco mi raggiunge, si agita attorno a me, mi sussurra all'orecchio qualcosa e di sopra la spalla mi guarda in viso, e all'improvviso nell'oscurità notturna un fruscio!... E qualcosa mi si aggrappa addosso tutto fremente...

XVII

Per la paura poco mancò che cadessi a terra, ma non persi affatto i sensi e avvertii accanto a me qualcosa di vivo e leggero, come una gru ferita, che si dibatteva e sospirava senza dire niente.

Formulai mentalmente una preghiera, e cosa credete?vedo davanti al mio viso proprio quello di Gruša..."Mia cara!", dico. "Colombella! Sei viva o mi sei apparsa dall'altro mondo? Non fa niente", dico, "non aver

segreti, dimmi la verità: di te, povera orfana, non avrò paura nemmeno se sei morta".Ma lei, tratto un sospiro dal profondo del petto, dice:"Son viva"."Be'", dico, "sia lode a Dio"."Però", dice, "sono fuggita qui per morire"."Che dici", dico, "che Dio ti perdoni, Grùnjuška: perché morire? Andiamo a vivere una vita felice: io lavorerò

per te, povera orfanella, e ti procurerò una stanzetta separata, e tu vivrai con me come una cara sorella".Ma lei risponde:"No, Ivàn Sever'janyè, no, mio affettuoso, caro e sincero amico, ricevi da me, orfana, eterno ossequio per

questa tua parola, ma io, zingara sventurata, non posso più vivere perché posso condurre a perdizione un'anima innocente".

Le chiedo:"Di chi parli mai? Per l'anima di chi ti dispiace?".E lei risponde:"Di lei, della giovane moglie del mio assassino perché lei, giovane anima, non ha colpa di nulla, ma il mio

cuore geloso non può lo stesso sopportarla e io perderei lei e me stessa" ."Che dici", dico, "segnati: sei ben battezzata... che ne sarebbe dell'anima tua?""No-o-o", risponde, "non m'importa nemmeno dell'anima, vada pure all'inferno. Qui è un inferno peggiore!".Vedo che la donna è tutta sconvolta e fuori di sé: la prendo per mano e la trattengo, e la osservo e rimango

sbalordito di com'era spaventosamente cambiata: dov'era andata a finire tutta la sua bellezza? Carne addosso era come se non ne avesse più, solo gli occhi le ardevano in mezzo al volto scuro, come quelli del lupo nella notte, e sembravano due volte più grandi di prima, il ventre inoltre le si era gonfiato, perché la sua gravidanza volgeva ormai al termine, mentre il visino si era contratto in un pugno e ciocche nere le scendevano scomposte sulle guance.Guardo il vestitino che aveva indosso: era scuro, di indiana, tutto a brandelli e le scarpette erano calzate sul piede nudo.

"Dimmi", dico, "da dove sei sbucata fuori; dove sei stata e perché sei così disadorna?".Lei a un tratto sorride e dice:"Come?... non son forse bella?... Sono bella! È il caro amico del cuore che mi ha adornata così in cambio del

mio fedele amore: perché ho dimenticato colui che amavo più di lui e mi sono data tutta a lui, senza senno e senza calcolo, e lui in compenso mi ha rinchiuso in un luogo remoto e ha messo dei guardiani che custodissero rigorosamente la mia bellezza...".

E dette queste parole improvvisamente scoppia a ridere e proferisce con rabbia:"Ah, testa stupida di principotto: una zingara è forse una signorina che possano trattenerla le serrature? Se

voglio, adesso stesso le balzo addosso e le sbrano la gola alla tua giovane sposa".Vedo che trema tutta, tanto la tormenta la gelosia, e penso: "Proviamo a distoglierla da questi pensieri, invece

che con la paura dell'inferno, con i dolci ricordi", e dico:"Eppure", dico, "ti amava davvero! E come ti amava! Come baciava i tuoi piedi... A volte stava in ginocchio

davanti al divano mentre tu cantavi e copriva di baci la tua scarpetta rossa di sopra e di sotto, sulla suola...".Ella si mise ad ascoltare e batteva le ciglia nere sulle guance rinsecchite e, guardando nell'acqua, cominciò con

voce echeggiante e sommessa:"Mi amava", dice, "mi amava, l'assassino, mi amava, era pronto a qualsiasi sacrificio, finché non era caro al

mio cuore, ma appena mi sono innamorata di lui, mi ha abbandonata. E perché?... E forse meglio di me la mia rivale, o

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l'amerà più di me?... Stupido, stupido! Non riscalda il sole dell'inverno in confronto a quello dell'estate, non vedrà mai un amore come quello di cui l'ho amato io;diglielo: Gruša, morendo, così ti ha divinato e così ha scritto nel tuo destino".

Io mi rallegrai che si fosse messa a parlare e insistetti.Le domandai:"Ma cosa è accaduto fra voi e qual è la causa di tutto questo?".Lei batte le mani e disse:"Ah, non c'è stato nulla e tutto è dovuto solo al suo tradimento... Ho cessato di piacergli, il motivo è tutto qui",

e mentre diceva così, sapete, cominciò a singhiozzare. "Lui", dice, "mi faceva fare degli abiti secondo il suo gusto, che non vanno bene a una gravida: stretti e a vita;io li indossavo, mi mettevo in posa, e lui si arrabbiava, dice: 'Toglitelo, non ti sta bene'; se non li mettevo e comparivo in vestaglia, si arrabbiava ancor di più, dice: 'Come ti sei ridotta?'. Capii che ormai non sarei più riuscita a farlo ritornar da me, che gli ero diventata odiosa...".

E qui si mise a singhiozzare a dirotto e guardando avanti sussurrò:"Da tanto tempo", dice, "mi ero accorta che non gli ero più cara, però volevo conoscere la sua coscienza;

pensavo: non lo contrarierò in nulla e starò a vedere se avrà compassione, e lui aveva compassione...".Ed ella mi raccontò a proposito della sua ultima separazione dal principe tali assurdità che nemmeno capii e

neppure adesso riesco a capire come un uomo perfido possa abbandonare per sempre una donna per cose simili.

XVIII

Gruša mi raccontò che: "Quando tu", dice, "sei partito e non ti sei fatto più vivo", ossia quando ero andato a San Makarij, "il principe per parecchio tempo non si fece vedere a casa, e mi giunse voce che si sposava... A causa di questa voce io piansi terribilmente e dimagrii... Il cuore mi doleva e il bambino si agitava... pensavo che mi sarebbe morto nel ventre. Ma a questo punto, sento improvvisamente che dicono: 'Arriva!'. Tutto dentro di me si mise a palpitare... Mi precipitai a casa nella dipendenza per vestirmi il meglio possibile per la sua venuta, mi misi gli orecchini di smeraldo, e tirai giù dalla parete da sotto il lenzuolo il suo abito preferito, quello blu marino col pizzo e largo in vita... Mi vesto in fretta, ma dietro l'abito non si abbottona... così lo lasciai slacciato e mi gettai sulle spalle in fretta lo scialle scarlatto in modo che non si vedesse che era sbottonato e corsi fuori sul terrazzino incontro a lui... tremavo tutta e non ricordo come gridai:

"Amor mio dorato di smeraldo e di zaffiro!' e gli gettai le braccia al collo e svenni...".Si era sentita male."Mi risvegliai", dice, "nella mia camera... ero distesa sul divano e cercavo continuamente di ricordare: era in

sogno o nella realtà che l'avevo abbracciato? Soltanto", dice, "ero terribilmente debole", e a lungo non lo aveva visto... Lo mandava continuamente a chiamare, ma lui non veniva.

Finalmente viene e lei dice:"Perché mi hai abbandonata così e dimenticata?".E lui dice:"Ho degli affari".Lei risponde:"Che affari?", dice. "Perché prima non li avevi? Mio smeraldo di brillante!", e di nuovo protese le braccia per

abbracciarlo, ma lui corrugò la fronte e all'improvviso le strinse con tutte le sue forze il collo con il cordoncino della croce...

"Per fortuna mia", dice, "il cordoncino di seta che portavo non era robusto, era marcio e mezzo strappato perché da tempo ci portavo attaccato l'amuleto, altrimenti mi avrebbe strangolata; e credo che lui volesse proprio questo, perché sbiancò persino tutto e sibilò:

"Perché porti dei cordoncini così sozzi?".E io dico:"Che t'importa del mio cordoncino? Era pulito, ma su di me è diventato nero a causa della malinconia e del

sudore dell'angoscia".E lui:"Tfù, tfù, tfù", sputò, sputò e se ne andò, ma prima di sera entra adirato e dice:"Andiamo a fare un giro in carrozza!" e fece finta di essere affettuoso e mi baciò sulla testa: e io, senza temer

nulla, salii con lui e andai. Viaggiammo a lungo e due volte cambiammo i cavalli, ma dove andassimo, non riesco assolutamente a farmelo dire, ma vedo che eravamo arrivati in un luogo boscoso e paludoso, squallido e selvaggio.E in mezzo al bosco giungemmo a certi alveari e dietro agli alveari c'era una fattoria e qui ci accolsero tre giovani e robuste ragazze odnodvorki in gonne rosse e blu, chiamandomi "signora". Appena scesi dalla carrozza, esse mi afferrarono sotto le braccia e mi trasportarono diritto in una camera tutta riordinata.

Subito, non so perché, per tutto questo, e soprattutto per quelle odnodvorki, mi sentii turbare e provai una stretta al cuore.

"Che significa?", gli chiedo. "Che stazione è questa?".E lui risponde:

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"Tu ora vivrai qui".Cominciai a piangere, a baciargli le mani, perché non mi abbandonasse lì, ma lui non ebbe compassione: mi

respinse e se ne andò...".Qui Grùšen'ka tacque e abbassò il visino, ma poi sospira e dice:"Volevo andarmene, cento volte ho tentato, ma era impossibile: quelle giovani odnodvorki mi facevano la

guardia, non mi perdevano di vista un momento... Mi struggevo, alla fine però mi venne l'idea di trarle in inganno e mi finsi spensierata, allegra, come se mi fosse venuta voglia di andare a spasso. Esse mi condussero a passeggio nel bosco, ma sempre tenendomi d'occhio, io però guardavo gli alberi, in cima ai rami, e dalla corteccia capii qual è il lato verso mezzogiorno, ed escogitai il modo per sfuggire a quelle ragazze e ieri ci sono riuscita. Ieri dopo pranzo sono uscita con loro nel prato:

"Su, care", dico, "giochiamo a mosca cieca nel prato".Loro acconsentirono."Però invece degli occhi", dico, "leghiamoci l'un l'altra le mani di dietro, per acchiapparci da dietro".Acconsentirono anche a questo.Legai alla prima le mani strette strette dietro la schiena e assieme alla seconda corsi dietro un cespuglio e lì

legai anche quella, al suo grido accorre poi la terza e sotto gli occhi delle altre legai a viva forza anche quella; loro gridavano, ma io, benché gravida, mi misi a correre più in fretta di un focoso destriero: corsi sempre attraverso il bosco per tutta la notte, e stamattina sono caduta sfinita presso dei vecchi ceppi in una folta tagliata. Qui mi si è avvicinato un vecchio decrepito, mi parla, biascica in modo incomprensibile, ed è tutto coperto di cera, odora tutto di miele e sulle sue sopracciglia gialle formicolano le api. Io gli ho detto che volevo vedere te, Ivàn Sever'janyè, e lui dice:

"Chiamalo, sposa, una volta sottovento e una volta controvento: lui sarà preso dalla nostalgia e verrà a cercarti, e vi incontrerete". Mi ha dato dell'acqua, da bere, e del miele sopra un cetriolino per farmi riprende forze. Io ho bevuto l'acqua e ho mangiato il cetriolino, e ho ripreso il cammino, e continuavo a chiamarti, come aveva ordinato, una volta sottovento e una volta controvento, ed ecco che ci siamo incontrati. Grazie!", e mi abbracciò e baciò,dicendo:

"Tu per me sei come un caro fratello".Io dico:"E tu per me sei come una cara sorella", e per la commozione mi vennero le lacrime agli occhi.Ma lei piange e dice:"Lo so, Ivàn Sever'janyè, so e capisco tutto; tu solo mi hai amato, mio caro e sincero, affettuoso amico.

Dimostrami adesso per l'ultima volta il tuo amore, fa' quello che ti chiedo in quest'ora terribile"."Dimmi", rispondo, "cosa desideri?""No", dice, "tu prima giurami su quanto di più terribile c'è al mondo che farai ciò che ti chiederò".Io glielo giurai sulla salvezza della mia anima, e lei dice:"È poco: per amor mio questo giuramento lo potresti infrangere. No", dice, "giura su qualcosa di più terribile"."Ma", dico, "qual'cosa di più terribile non riesco a immaginarlo" ."Be'", dice, "allora l'ho immaginato io per te, ripeti insieme a me senza starci a pensar sopra".Io come uno sciocco prometto e lei dice:"Giura sulla mia anima, come hai fatto sulla tua, che sia dannata se non mi obbedirai"."Bene", dico, e prendo e giuro sulla sua anima."Dunque, ascolta", dice, "salva al più presto la mia anima; io", dice, "non ho più forze di vivere e di

tormentarmi così vedendo il suo tradimento e l'affronto che mi fa.Se vivo un giorno ancora io ammazzo sia lui che lei, oppure, se li risparmio, ammazzo me stessa e perdo per sempre la mia anima... Abbi compassione di me, mio caro, mio fratello diletto; dammi una coltellata qui sul cuore".

Io mi scosto da lei e la segno, e indietreggio, ma lei mi avvince le ginocchia con le braccine e piange, si getta ai miei piedi e cerca di convincermi:

"Tu", dice, "vivrai e farai penitenza pregando Dio per la mia anima e anche per la tua, non spingermi alla perdizione, non fare che alzi la mano su me stessa... Su..."».

Ivàn Sever'janyè aggrottò terribilmente le ciglia e, mordendosi i baffi, emise un sospiro dal profondo del petto come se gli si stesse spezzando:

«Mi prese dalla tasca il coltello... Io aprì... raddrizzò la lama... e me lo ficca in mano... E lei... si mise a dire cose che non si potevano sopportare...

"Se non mi ucciderai", dice, "per vendicarmi di tutti voi divennerò la donna più spudorata".Io cominciai a tremare tutto e le ordinai di pregare, ma non la trafissi, bensì presi e la gettai giù dalla ripa

scoscesa nel fiume... ».Tutti noi, udita quest'ultima confessione di Ivàn Sever'janyè , per la prima volta dubitammo della veridicità del

suo racconto e serbammo un silenzio piuttosto lungo, infine però qualcuno tossì e disse:«Annegò?... »«Sprofondò fra i flutti», rispose Ivàn Sever'janyè.«E voi?»«Come sarebbe a dire?»«Avete sofferto, immagino?»

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«Si capisce».

XIX

«Corsi via di lì, da quel posto, senzal giorno senza sapere io stesso dove andavo e mi stancai da non poterne più, e a un tratto mi raggiunge qualcuno, un vecchietto e una vecchietta seduti l'uno accanto all'altro sopra un carretto, e dicono:

"Sali, poverino, ti portiamo noi".Io salii. Loro vanno e si disperano:"Abbiamo un grande dolore", dicono, "ci prendono il figliolo soldato e non abbiamo il denaro per assumere un

altro al suo posto".Io provo compassione dei vecchietti e dico:"Ci andrei io per voi, senza compenso, ma non ho lautunnale, asciutta, brillava il sole, ma faceva freddo e c'era

vento, la polvere si sollevava e mulinavano le foglie gialle; io non sapevo che ora fosse, e che luogo fosse quello e dove conducesse quella strada, e non avevo niente dentro all'anima, né un sentimento, né una determinazione di cosa fare, ma pensavo una cosa solamente, che adesso l'anima di Gruša era perduta e che era mio dovere riscattarla dall'inferno con le mie sofferenze. Ma come mettere in atto questo non lo sapevo e per questo mi angustiavo, a un tratto però qualcosa mi tocco sulla spalla: guardo, era una fronda caduta dal salice, e volò via, volò lontano, e a un tratto ecco venire Gruša, soltanto piccola, non più grande che se avesse avuto sei o sette anni, e dietro le spalle aveva minuscole alucce; ma appena la vidi, subito volò via come una freccia e dietro a lei si levarono soltanto polvere e foglie secche.

Penso: sicuramente è la sua anima che mi segue, di certo mi chiama e mi indica il cammino. E mi incamminai. Camminai tutto il giorno senza sapere io stesso dove andavo e mi stancai da non poterne più, e a un tratto mi raggiunge qualcuno, un vecchietto e una vecchietta seduti l'uno accanto all'altro sopra un carretto, e dicono:

"Sali, poverino, ti portiamo noi".Io salii. Loro vanno e si disperano:"Abbiamo un grande dolore", dicono, "ci prendono il figliolo soldato e non abbiamo il denaro per assumere un

altro al suo posto".Io provo compassione dei vecchietti e dico:"Ci andrei io per voi, senza compenso, ma non ho le carte".Ma loro dicono:"Sciocchezze: di questo ci occupiamo noi; tu di' soltanto di chiamarti come nostro figlio, Pètr Serdjukòv"."Ebbene", rispondo, "per me fa lo stesso: io pregherò il mio angelo Ivàn il Precursore, e posso chiamarmi come

a voi accomoda".Restammo così, ed essi mi portarono in un'altra città e mi presentarono come recluta al posto del figlio e mi

diedero venticinque rubli in monete per il viaggio e inoltre promisero di aiutarmi per tutta la vita. Io quei soldi che presi da loro, venticinque rubli, li diedi subito a un convento povero come offerta per l'anima di Gruša, e quanto a me cominciai a pregare i superiori che mi destinassero nel Caucaso, dove potessi al più presto morire per la fede.Così avvenne, e trascorsi nel Caucaso più di quindici anni e non rivelai a nessuno né il mio vero nome, né il mio stato, ma continuai a farmi chiamare Pètr Serdjukòv, soltanto che il giorno del mio santo pregavo Dio per me, con l'intercessione del Precursore. E mi ero ormai dimenticato della mia precedente esistenza e condizione, e stavo facendo in questo modo l'ultimo anno di servizio, quand'ecco che, proprio il giorno del mio santo, stavamo inseguendo dei tartari, ma quelli ci imbrogliarono e si rifugiarono oltre il fiume Kojsa. Di queste Kojse in quella regione ve ne sono parecchie: c'è quella che scorre attraverso l'Andija, che si chiama appunto andiana, quella che scorre attraverso l'Avarija, che si chiama Kojsa avariana, quella korikumiana e quella kusikumuiana, e confluiscono tutte e dalla loro confluenza ha inizio il fiume Sulak. Ma già da sole sono tutte rapide e fredde, specialmente l'andiana, al di là della quale si erano ritirati i tartari. Noi da questa parte ne avevamo uccisi un'infinità di quei tartari, ma quelli che erano riusciti a passare la Kojsa si erano appostati dietro le rocce e, appena ci facevamo vedere, ci sparavano. Ma sparano stando bene attenti a non sprecare un colpo, risparmiando la polvere per farci un danno sicuro, sanno infatti che noi di munizioni ne abbiamo senza paragone più di loro, e ci provocano perdite tali che noi rimaniamo fermi in vista davanti a loro, ma loro, bricconi, non fanno mai fuoco su di noi. Avevamo un colonnello di animo intrepido che amava atteggiarsi a Suvorov, diceva di continuo "Dio misericordioso" e col suo esempio infondeva coraggio. Così anche adesso si sedette sulla riva, si levò gli stivali e immerse le gambe fino al ginocchio in quell'acqua fredda, e la decanta: "Dio misericordioso", dice, "com'è calda l'acqua: sembra latte appena munto nel secchio.Chi, bravi giovani, si offre volontario per passare a nuoto dall'altra parte e tendere una fune per fare un ponte?".

Il colonnello se ne stava lì seduto a discorrere in questo modo con noi e i tartari dall'altra parte sporsero fuori due canne di fucile da una fenditura, ma non spararono. Appena, però, due soldatini si offrirono volontari e si gettarono a nuoto, balenò una fiammata e tutti e due quei soldatini sparirono nella Kojsa. Recuperammo la fune, mandammo un'altra coppia, e noi intanto tempestammo di pallottole le rocce dove erano nascosti i tartari, ma non riuscimmo a far loro alcun danno perché le nostre pallottole venivano respinte dalle rocce, mentre loro, gli scomunicati, appena sputano

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sui nuotatori, l'acqua si intorbida di sangue e anche questi altri due soldatini sparirono. Dopo di loro si fece avanti una terza coppia, e anche loro non riuscirono a nuotare nemmeno fino al mezzo della Kojsa che i tartari affogarono anche loro. A questo punto,dopo la terza coppia, pochi ormai si offrivano volontari, perché era chiaro a tutti che quella non era una guerra, ma semplicemente una carneficina, e tuttavia bisognava punire i malfattori. Il colonnello allora dice:

"Ascoltate, miei bravi. Non c'è per caso fra voi qualcuno che sa di avere sull'anima un peccato mortale? Dio misericordioso, non sarebbe una bella cosa per lui adesso lavare il misfatto col proprio sangue?".

E io pensai:"Quale occasione migliore di questa debbo aspettare per por fine alla mia vita? Benedici, Signore, la mia ora!"

e mi feci avanti, mi spogliai, recitai il "Padre nostro" battei la fronte a terra in tutte le direzioni rivolto verso i superiori e i compagni e dico fra me: "Be', Gruša, sorella mia elettiva, accogli il mio sangue per il bene dell'anima tua!", e così dicendo mi posi fra i denti una sottile cordicella all'altra estremità della quale era legata la fune, e, presa la rincorsa sulla riva, saltai nell'acqua.

L'acqua era terribilmente fredda: provai perfino una fitta sotto le ascelle, e mi manca il fiato, i crampi mi stirano le gambe, ma tuttavia nuoto... Sopra di me volano le nostre pallottole e attorno a me battono sull'acqua quelle tartare, ma non mi colpiscono, e non so se sono ferito o no, sta di fatto che raggiunsi la riva... Qui i tartari non potevano ormai più colpirmi, perché mi ero messo proprio sotto le rocce e per tirare su di me, avrebbero dovuto uscir fuori allo scoperto e i nostri dall'altra riva li tempestavano di pallottole come sabbia. Così me ne sto sotto le rocce e tiro la fune, e la tesi e approntammo un ponticello ed ecco che i nostri ormai vengono alla mia volta, ma io continuo a rimanere lì come fuori di me, senza capir nulla perché penso: qualcuno ha visto quello che ho visto io? E io, mentre nuotavo, avevo veduto Gruša volare sopra di me, ed era come un'adolescente di sedici anni, e ora aveva ali immense, lucenti, che coprivano tutto il fiume, ed era stata lei a farmi scudo con esse... Tuttavia vedo che nessuno fa parola di questo: ebbene, penso, bisogna che ne parli io stesso. Quando il colonnello si mette ad abbracciarmi e mi bacia e mi elogia:

"Oh, Dio misericordioso", dice, "che ragazzo in gamba sei, Pètr Serdjukòv!".Io rispondo:"Io, Vostra Eccellenza, non sono in gamba, sono invece un gran peccatore e né la terra né l'acqua mi vogliono

ricevere".Lui domanda:"Qual è il tuo peccato?".E io rispondo:"Io", dico, "in vita mia ho ucciso molte anime innocenti", e la notte sotto la tenda gli raccontai tutto quello che

ora vi ho narrato.Lui ascoltò, ascoltò, ci pensò su e disse:"Dio misericordioso, quante ne hai sopportate tu solo!Comunque, fratello, sia come tu vuoi, ma bisogna

promuoverti ufficiale. Io manderò una proposta in questo senso".Io dico:"Come volete, però mandate anche laggiù una richiesta per accertare se non è vero quel che riferisco, che ho

ucciso la zingara"."Va bene", dice, "manderò anche questa richiesta".E la richiesta fu inviata, ma quella carta viaggiò, viaggiò e tornò indietro con una risposta negativa. Vi si

spiegava che, dicevano, da noi non è mai avvenuto un fatto simile con nessuna zingara, quanto al detto Ivàn Sever'janyè sebbene fosse stato in servizio presso il principe, tuttavia se ne era andato libero contro riscatto per procura e successivamente era morto in casa dei contadini demaniali Serdjukòv.

Be', che altro dovevo fare, più che denunciare la mia colpa?Ma il colonnello mi dice:"Non ti azzardare più, fratello, a inventarti simili cose sul tuo conto: è che, mentre attraversavi a nuoto la

Kojsa, a causa dell'acqua fredda ti ha dato un poco di volta il cervello, e io", dice, "sono assai contento per te che sia tutto falso quello che hai detto contro te stesso. Ora sarai ufficiale; e questa, Dio misericordioso, è proprio una bella cosa".

A questo punto anche a me si confusero le idee: avevo davvero gettato Gruša nell'acqua, o quella volta era stata tutta una mia viva immaginazione a causa della terribile nostalgia che avevo di lei?

E mi fecero ufficiale per atto di valore, soltanto che, dato che continuavo a insistere sulla mia verità, che si dovesse mettere in chiaro la mia vita precedente, per non aver più noie da parte mia, mi misero a riposo con la croce di San Giorgio.

"Ci felicitiamo con te", dicono, "adesso sei nobile e puoi diventare funzionario; Dio misericordioso, che vita tranquilla!" e il colonnello mi diede una lettera per un pezzo grosso di Pietroburgo. "Va'", dice, "lui farà la tua carriera e il tuo bene". E con questa lettera mi recai fino a Piter,ma con la carriera non ebbi fortuna».

«Come mai?»«Rimasi a lungo senza posto, e poi capitai alla fità, e a causa di questo andò ancor peggio.«Come "alla fità"? Cosa significa? »«Quel protettore dal quale ero stato inviato per la carriera, mi trovò un posto all'ufficio indirizzi come

impiegato, e lì ogni impiegato ha la sua lettera secondo la quale dà le informazioni.

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Certe lettere sono molto buone, come per esempio la buki, o la pokoj, o la kako: molti cognomi cominciano per quelle lettere e l'impiegato ha il suo profitto, io invece fui messo alla fità. La lettera più insignificante, pochissimi ci si iscrivono, e ancora quelli che sotto ogni rispetto le appartengono, tutti la schivano e fanno i furbi: chi appena vuole nobilitarsi subito di sua iniziativa invece che alla fità si iscrive al fert. Lo cerchi, lo cerchi sotto la fità, ed è soltanto fatica sprecata: lui si è iscritto sotto il fert . Non c'è nessun guadagno, ma devi stare in ufficio; be', vedendo che le cose andavano male, mi misi a cerca di nuovo lavoro alla maniera antica, come cocchiere, ma nessuno mi prende; dicono: "Tu sei un ufficiale nobile e hai una decorazione militare, sarebbe indecente ingiuriarti o picchiarti...". Ci sarebbe stato semplicemente da impiccarsi, ma grazie a Dio non arrivai fino a questo, ma, per non morire di fame, presi e diventai artista».

«Che genere di artista siete stato?»«Recitavo».«In quale teatro?»«In un baraccone sulla piazza dell'Ammiragliato. Lì non sdegnano la nobiltà e accettano tutti: ci sono anche

ufficiali e capouffici e studenti,ma specialmente molti del senato".«E quella vita vi piaceva?»«Nossignore».«Come mai?»«Innanzitutto lo studio della parte e le prove si svolgono nella settimana santa o prima di carnevale, quando in

chiesa si canta l'Aprimi le porte della penitenza, e poi io avevo una parte molto difficile».«Quale?»«Facevo la parte del demonio».«Perché è particolarmente difficile?»«E come? In due quadri bisogna ballare e fare le capriole, e fare le capriole è terribilmente scomodo, perché sei

tutto rivestito da una pelle irsuta di vecchio caprone col pelo all'infuori, e hai una coda lunga, col fil di ferro dentro, che ti si infila continuamente fra le gambe, mentre le corna in testa ti si impigliano in ogni cosa, e poi non avevo più gli anni di una volta, quand'ero giovane e mi mancava l'agilità; e, come non bastasse, era prescritto che durante tutta la rappresentazione dovessi essere picchiato. È terribile quanto questo sia fastidioso! I bastoni, mettiamo pure, sor vuoti, fatti di tela di sacco imbottita di ovatta, ma lo stesso è terribilmente fastidioso sopportare che chlop, chlop sempre addosso a te, alcuni poi, per il freddo o per divertimento, si ingegnano a batterti in modo abbastanza doloroso. Specialmente gli impiegati del senato,che in questo sono esperti e solidali: tenso sempre per i loro e quando gli capita sotto tiro un militare gli danno addosso a tutto spiano, e si mettono a picchiarlo senza posa davanti a tutto il pubblico da mezzogiorno, appena viene innalzata la bandiera della polizia, e continuano fino a notte fonda, e ognuno per divertire il pubblico si ingegna di picchiare più rumorosamente. Non c'è proprio niente di piacevole. E in aggiunta a tutto questo anche lì mi successe un fatto spiacevole, dopo di che dovetti lasciare la mia parte».

«Cosa mai vi accadde?»«Presi per il ciuffo un principe».«Come un principe?»«Cioè, non uno vero, uno da teatro: era uno del senato, un segretario collegiale, ma da noi faceva la parte del

principe ».«Perché mai lo avete picchiato?»«Se ne sarebbe meritate anche di più. Era un burlone maligno e non faceva che inventar scherzi ai danni di

tutti».«Anche ai vostri?»«Sissignore; mi faceva molti scherzi: mi rovinava il costume; si infilava di soppiatto nel locale dove a volte

andavamo a riscaldarci attorno al braciere e m'agganciava la coda alle corna, oppure mi faceva qualche altra stupidaggine per burla, e io senza accorgermene uscivo fuori così davanti al pubblico e il padrone andava in collera; tuttavia quelle che faceva a me gliele perdontti sul corpo. Mi prese una gran compassione di lei e gliele suonai».

«E come andò a finire?»«Niente; sotto il palco non c'erano testimoni, eccetto quella stessa fata, però tutti i nostri del senato si

ribellarono e non vollero più avermi nella troupe, e, dato che lì erano quelli che facevano le parti più importanti, il padrone per accontentarli mi cacciò».

«E dove andaste a finire allora?»«Sarei rimasto del tutto senza tetto né cibo, ma quella nobile fata mi nutriva, soltanto ebbi vergogna che lei, tti

sul corpo. Mi prese una gran compassione di lei e gliele suonai».«E come andò a finire?»«Niente; sotto il palco non c'erano testimoni, eccetto quella stessa fata, però tutti i nostri del senato si

ribellarono e non vollero più avermi nella troupe, e, dato che lì erano quelli che facevano le parti più importanti, il padrone per accontentarli mi cacciò».

«E dove andaste a finire allora?»

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«Sarei rimasto del tutto senza tetto né cibo, ma quella nobile fata mi nutriva, soltanto ebbi vergogna che lei, poverina, faticasse tanto a tirare avanti, e non facevo che pensare a come tirarmi fuori da quella situazione. Alla fità non volevo tornare, per di più lì ormai c'era un altro pover'uomo che penava, così presi ed entrai in convento».

«Soltanto per questo?»«Che altro potevo fare? Non sapevo dove sbatter la testa. Là invece si stava bene».«Vi piacque la vita monastica»«Assai; mi piacque assai: lì si sta tranquilli, come al reggimento, c'è molto di simile, hai tutto pronto: sei

vestito e calzato e nutrio a tirare avanti, e non facevo che pensare a come tirarmi fuo«Ma questa sottomissione talvolta non vi pesa?»

«Perché mai? Quanto più l'uomo si sottomette, tanto più vive tranquillo, soprattutto poi nel mio caso non c'è proprio da lamentarsi: alle funzioni in chiesa non ci vado che quando io stesso lo desidero, e svolgo le mie mansioni nella maniera abituale, mi dicono: "Attacca i cavalli, padre Izmaìl" (adesso mi chiamo Izmaìl), e io li attacco; mi dicono: "Padre Izmaìl, stacca i cavalli", e io li stacco».

«Permettete», dicemmo, «come sarebbe a dire? Risulta che in convento siete rimasto... addetto ai cavalli?»«Ho continuato a fare il cocchiere. In convento di questo mio grado di ufficiale non hanno paura, perché

sebbene io sia ancora nella tonsura minore, son pur sempre un monaco e sono alla pari con tutti».«E prenderete presto la tonsura maggiore?»«Non la prenderò».«Perché?»«Così... non mi ritengo degno».«Questo sempre per via dei vecchi peccati o errori?»«S... sissignore. E poi a che pro? Io sono molto contento del mio stato e vivo in pace».«Ma voi avete raccontato a qualcuno prima d'ora tutta la vostra storia, che ora avete raccontata a noi?»«Come no, più di una volta l'ho raccontata; ma come fare quando non si hanno documenti... non ci

credono...Così anche in convento mi sor portato dietro la menzogna mondana, e anche lì sono annoverato tra i nobili. Ma ormai, comunque, mi avvicino al termine della mia vita;sto diventando vecchio».

La storia del viaggiatore incantato era manifestamente giunta alla fine, restava da togliersi soltanto una curiosità: come gli erano andate le cose in convento?

XX

Poiché il nostro viaggiatore nel suo racconto era giunto al suo ultimo approdo terreno, al convento, a cui, secondo la sua profonda fede, era predestinato fin dalla nascita, e dato che lì, a quanto pareva, si trovava tanto bene sotto ogni rispetto, c'era da pensare che là dentro Ivàn Sever'janyè non fosse più incappato in altre disavventure; e invece risultò del tutto altrimenti. Uno dei nostri compagni di viaggio rammentò che i monaci, secondo tutte le storie che di loro si raccontano, soffrono di continuo grandi tribolazioni a causa del Diavolo, e domandò:

«Ma diteci, vi prego, il Diavolo in convento non vi ha tentato? Si dice, infatti, che egli tenti di continuo i monaci».

Ivàn Sever'janyè lanciò di sotto i sopraccigli uno sguardo tranquillo sull'interlocutore e rispose:«E come non mi avrebbe tentato? Si capisce, se lo stesso apostolo Paolo non gli sfuggì e nell'epistola scrive

che "l'angelo di Satana gli fu dato nella carne", povero forse io, uomo debole e peccatore, non subire i suoi tormenti?»«E cosa avete subito da lui?»«Molte cose».«Di che genere?»«Di continuo varie porcherie, ma dapprima, finché non lo ebbi sopraffatto, ci furono anche delle tentazioni».«Ma voi sopraffaceste anche lui, il demonio stesso?»«E come fare altrimenti? È ben questo lo scopo in convento, ma in coscienza devo dire che non ci sarei

riuscito, se non me lo avesse insegnato un santo starec, perché lui era pratico e sapeva come guarire da ogni tentazione. Appena mi aprii a lui e gli dissi che Gruša continuava ad apparirmi di continuo così vivamente che sembrava che tutta l'aria attorno a me non spirasse che di lei, lui subito ci pensò su e disse:

"Giacomo l'apostolo dice: 'Lottate contro il diavolo ed egli fuggirà da voi', e tu", dice, "lotta". E mi instruì a fare così: "Quando", dice, "senti uno scioglimento di cuore e ti rammenti di lei, sappi che vuol dire che è l'angelo di Satana che si avvicina a te, e tu allora accingiti subito all'impresa contro di lui: per prima cosa mettiti in ginocchio. I ginocchi nell'uomo", dice, "sono il principale strumento: appena ti getti in ginocchio l'anima vola subito in alto, e tu qui, in questa elevazione, batti la fronte a terra quanto più forte puoi, fino a non poterne più, e macerati col digiuno per sfinirti, e il diavolo quando vedrà il tuo impegno nell'impresa, a nessun patto vi resisterà e subito fuggirà via perché avrà paura con un tal uomo di condurlo coi suoi maneggi ancor più diritto a Cristo, e penserà: 'Meglio lasciarlo in pace e non tentarlo, forse così si smarrirà più presto'". Cominciai a fare così ed effettivamente tutto passò».

«Vi siete tormentato a lungo in questo modo, prima che l'angelo di Satana recedesse da voi?»

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«Sì, a lungo; e sempre ho avuto ragione di lui, del nemico, soltanto con l'estenuazione, perché lui non teme nient'altro: sul principio facevo fino a mille prosternazioni a terra e per quattro giorni non toccavo cibo né acqua, ma poi lui capì che non poteva misurarsi con me e si scoraggiò e si indebolì: appena vedeva che gettavo dalla finestra il mio pignattino di cibo e mettevo mano al rosario per contare le prosternazioni, lui già capiva che facevo sul serio e che mi preparavo all'impresa, e fuggiva via. Ha una paura terribile, infatti, di condurre l'uomo al conforto della speranza».

«Mettiamo pure... voi dunque lo avete sconfitto, ma in verità quanto avete sopportato voi stesso per causa sua!»

«Niente; che sarà mai? Opprimevo l'oppressore, ma a me stesso non facevo alcun male».«Ed ora vi siete completamente liberato di lui?»«Del tutto».«Ed egli non vi appare mai?»«In aspetto tentatore di donna, non viene mai, e se a volte si fa vedere da qualche parte, in un angolino della

cella, lo fa ormai nell'aspetto più pietoso: strilla come se fosse un porcellino che sta tirando le cuoia. Ora il mascalzone non lo tormento nemmeno più, ma mi faccio soltanto un segno di croce e mi prosterno e lui smette di grugnire ».

«Be', sia lodato Dio, che siete venuto a capo di tutto ciò ».«Sì; le tentazioni del Diavolo maggiore le ho superate, ma vi dirò, benché questo sia contro la regola, che le

porcherie dei piccoli diavoletti mi hanno maggiormente dato noia ».«Dunque anche i diavoletti vi si son messi alle costole? »«Eccome! Mettiamo pure che per grado siano proprio insignificanti, ma in compenso ti assalgono di

continuo...»«Cosa vi fanno mai?»«Son proprio dei ragazzini, e inoltre laggiù nell'inferno sono un'infinità e, col vitto assicurato e non avendo

nulla da fare, chiedono di venire sulla terra a esercitarsi a tormentare, e ne fanno di tutti i colori, e quanto più uno vuol essere posato nella sua condizione, tanto più gli danno noia».

«E che cosa fanno, per esempio... in che modo possono dar noia? »«Per esempio vi mettono sotto i piedi qualche cosa o ve la infilano sotto, e quando la rovesci o la mandi in

pezzi e in questo modo irriti e fai andare in collera qualcuno, per loro è il divertimento principale, vanno in solluchero: battono le mani e corrono dal loro capo: anche noi, dicono, abbiamo confuso qualcuno, ora per ricompensa dacci un soldino. Ecco come si danno da fare... Sono dei bambini».

«In che modo, per esempio, sono riusciti a confondevi?»«Ma ecco, per esempio, da noi avvenne un tale caso che un giudeo si impiccò nel bosco nei pressi del

convento, e tutti i novizi cominciarono a dire che era Giuda e che di notte si aggirava per il convento sospirando, e v'erano molti testimoni di questo. Ma io per lui non me ne facevo un cruccio perché pensavo: son forse pochi i giudei rimasti da noi? Però una volta di notte, mentre dormo nella stalla, all'improvviso sento che qualcuno si avvicina e infila dentro il muso sopra la traversa della porta, e sospira. Io recitai una preghiera: no, è ancora lì. Feci un segno di croce: è sempre lì e di nuovo sospira. "Be'", dico,"che ti posso fare: pregare per te non posso perché sei giudeo, e anche se non fossi giudeo, io non ho il privilegio di pregare per i suicidi, vattene dunque lontano da me nel bosco o nel deserto". Quando ebbi recitato su di lui questo scongiuro, lui si allontanò e io mi riaddormentai, ma la notte dopo il mascalzone viene di nuovo e di nuovo sospira... mi impedisce di dormire ed è sempre lì. Per quanto mi armassi di pazienza, non ce la facevo proprio più! "Tfù, screanzato", penso, "non c'è abbastanza posto per te nel bosco o sul sagrato, che devi per forza intrufolanti qui da me nella stalla? Be', niente da fare, evidentemente contro di te bisogna inventare un buon sistema", e il giorno dopo presi e con un carbone schietto tracciai sulla porta una gran croce, e quando venne la notte andai a dormire tranquillo pensando: ormai non verrà più, ma appena con queste parole mi fui addormentato, ecco che di nuovo è lì e di nuovo sospira! Accidenti a te, bandito, con te non c'è niente da fare! Per tutta la notte quant'era lunga mi spaventò a quel modo, e il mattino, appena sonarono la prima campana per la funzione del mattino, salto giù in fretta dal letto e corro a far le mie rimostranze al priore ma mi si fa incontro il campanaro, fratello Diomìd, e dice

"Perché sei così spaventato?".Io dico:"Così e così, per tutta la notte ho avuto questa seccatura e vado dal priore"Ma fratello Diomìd risponde:"Lascia stare", dice, "non ci andare, il priore ieri si è messo una sanguisuga al naso e ora è arrabbiatissimo e in

questa faccenda non ti aiuterebbe affatto; io, invece, se vuoi, ti posso aiutare assai meglio di lui".Io dico:"Per me fa assolutamente lo stesso; soltanto, fammi la grazia, aiutami, e io in compenso ti regalerò i miei

vecchi guantoni pesanti, ti faranno molto comodo d'inverno per suonare le campane"."Va bene", risponde.Gli diedi i guantoni e lui mi portò dal campanile una vecchia porta di chiesa sulla quale era dipinto l'apostolo

Pietro con le chiavi del Regno dei Cieli in mano."Ecco qua", dice, "e la cosa più importante e che ci sono le chiavi: basta che tu ti barrichi con questa porta e

nessuno passerà attraverso di essa".

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Per poco non mi prosternai ai suoi piedi per la gioia e pensai: perché barricarsi con questa porta e poi rimuoverla? Piuttosto la monterò stabilmente in modo che essa mi serva sempre da protezione, e presi e la fissai sui più grossi e robusti gangheri, e inoltre per sicurezza la puntellai con un pesantissimo blocco di pietra, e tutto questo lo feci in una sola giornata, prima di sera, e, appena venne la notte, mi coricai all'ora solita e dormo. Soltanto, cosa favorite credere? Lo sento di nuovo che respira! Non credevo proprio alle mie orecchie, che fosse possibile, ma niente respira e non c'è che dire! Ma non basta che respira, spinge anche la porta... Sulla porta vecchia avevo un catenaccio all'interno, ma su questa, dato che facevo affidamento soprattutto sulla sua santità, non avevo montato catenaccio, anche perché non ce n'era stato neppure il tempo, e così lui la spinge a quel modo e di volta in volta sempre più arditamente, e infine mi sembra quasi di vedere il suo muso spuntare, ma la porta spinta dal blocco girò e lo sbatté a tutta forza all'indietro... Lui balzò indietro, evidentemente si grattò e, aspettato un momento, dagli a spingere ancora più forte, ed ecco di nuovo spuntare il suo muso, ma il blocco glielo pestò ancor più sodo... Dovette fargli male, ed egli si calmò e non ci provò più, e io mi riaddormentai, ma poco tempo passò e lui, vedo, il mascalzone eccolo che ricomincia con un nuovo artifizio.Ora non dava più di cozzo per ficcarsi dentro direttamente, ma scostò pian piano con le corna la porta e, dato che io mi ero coperto la testa col pellicciotto, lui all'improvviso mi strappò sfrontatamente il pellicciotto di dosso e si mise a leccarmi l'orecchio... Una simile impudenza non la sopportai più: infilai la mano sotto il letto, afferrai la scure e gli assestai un colpo; lui, sento, emise un muggito e stramazzò sul posto. "Be'", penso, "te lo sei meritato", ma invece il mattino guardo e non c'è nessun giudeo, ma quei diavoletti al suo posto mi avevano messo sotto la nostra vacca del convento »

«E voi l'avevate ferita?»«L'avevo squartata con la scure! Vi fu uno scompiglio terribile al convento ».«E magari aveste delle noie a causa di questo?»«Sissignore; il padre superiore disse che avevo avuto tutte quelle visioni perché andavo poco in chiesa e

dispose che, governati i cavalli, stessi sempre accanto alla grata per l'accensione delle candele, ma qui loro, quegli schifosi diavoletti, me la fecero ancor più bella e mi misero nei guai definitivamente. Proprio il giorno del Redentore delle Acque, alla messa della sera, quando si benedicono i pani, il padre superiore e il monaco sacerdote stanno, secondo il loro rango, nel mezzo della chiesa, e una fedele, una vecchietta, mi porge una candelina e dice:

"Mettila, padre, per la festa".Io mi accostai al leggio dov'era appoggiata l'icona del Redentore delle Acque e mi misi ad attaccare la

candelina, ma ne feci cadere un'altra. Mi chinai per raccogliere quella, mi misi a riattaccarla, e ne feci cadere due. Mi misi a rimetterle a posto, ma guardo, ne ho fatte cadere quattro.Io soltanto tentennai il capo: be', pensai, sono daccapo senz'altro i diavoletti che mi molestano e me le fanno cadere di mano... Mi chinai e mi rialzai in fretta con le candele cadute, ma ecco che con la nuca urtai da sotto il candeliere... e le candele caddero da tutte le parti. Be', a questo punto mi arrabbiai e presi e con la mano buttai giù tutte le rimanenti. "Ebbene", penso, "se siamo arrivati a questo punto, preferisco rovesciare io stesso tutto quanto alle spicce"».

«E cosa vi accadde a causa di questo?»«Volevano mandarmi sotto processo per questo, ma un asceta, l'uomo di Dio Sysoj, che vive da noi in una cella

scavata nel terreno, dunque lui prese le mie parti."Perché", dice, "volete farlo processare, se sono stati i servitori di Satana a confonderlo?".Il padre superiore gli dette ascolto e ordinò che fossi calato in un sotterraneo vuoto senza denunciarmi».«E vi tennero a lungo rinchiuso nel sotterraneo?»«Il padre superiore non aveva ordinato per quanto tempo di preciso, ma aveva detto soltanto di "rinchiudermi",

e così rimasi là dentro per tutta l'estate fino ai primi geli».«Bisogna ben credere che nel sotterraneo la noia e la sofferenza non fossero inferiori che nella steppa...»«Ma no: come si possono mettere a confronto? Lì si sentiva il suono delle campane della chiesa e mi facevano

visita i compagni. Venivano, si mettevano sopra la fossa e parlavamo, e il padre economo aveva ordinato che mi calassero con una corda una macina affinché macinassi il sale per la cucina. Che confronto ci può mai essere con la steppa o un altro posto?»

«E poi, quando vi tirarono fuori? Probabilmente ai primi geli, perché si era fatto freddo? »«Nossignore, non fu per questo, non fu affatto per il freddo, ma per un'altra ragione, perché cominciai a

profetare».«A profetizzare?!»«Sissignore, io nel sotterraneo alla fine mi ero messo a riflettere che avevo uno spirito proprio da nulla, e

quante ne dovevo sopportare per causa sua, e che non riuscivo per niente a perfezionarmi, e avevo mandato un novizio da un dotto starec a chiedergli se potevo pregare Dio che mi desse un altro spirito più confacente. E lo starec aveva ordinato di dirmi che: "Preghi", dice, "come si deve, e allora potrà aspettare ciò che non si può aspettare".

E così feci: per tre notti rimasi di continuo su questo strumento, sulle ginocchia, nella mia buca, e con lo spirito elevai la mia preghiera al Cielo e mi misi ad attendere che si compisse un qualche perfezionamento nella mia anima.E da noi c'era un altro monaco, Gerontij, assai colto, che teneva diversi libri e giornali, e una volta mi diede da leggere la vita del beato Tichon Zadonskij, e quando gli capitava di passare accanto alla mia fossa, sempre prendeva e di sotto la tonaca mi gettava un giornale.

"Leggi", dice, "e fa' tesoro delle cose utili: nella fossa ciò ti sarà di distrazione".

Page 56: Leskov Nikolaj Semenovič - Il viaggiatore incantato

Io, in attesa dell'impossibile esaudimento della mia preghiera, cominciai nel frattempo a occuparmi in queste letture: appena ho macinato tutto il sale che mi è stato assegnato da macinare, mi metto a leggere, e dapprima lessi nella vita del beato Tichon come fu visitato nella sua cella dalla santissima Vergine e dai santi apostoli Pietro e Paolo. È scritto che il servo di Dio Tichon allora si mise a pregare la Madonna per il mantenimento della pace in terra, ma l'apostolo Paolo gli rispose con voce sonante indicandogli il segno di quando sarebbe cessata la pace, con queste parole: "Quando", dice, "tutti diranno pace e sicurezza, allora su di loro improvvisamente si abbatterà l'universale rovina". E io cominciai a meditare a lungo su queste parole dell'apostolo e dapprima non riuscivo assolutamente a capire questo: perché l'apostolo aveva fatto al santo quella rivelazione con tali parole? Dopo di ciò leggo sui giornali che sia da noi che nei paesi stranieri, in ogni luogo, non si fa incessantemente che proclamare la pace universale. E qui la mia preghiera venne esaudita, e improvvisamente cominciai a capire che stava avvicinandosi ciò che era stato detto: "Quando diranno pace, improvvisamente si abbatterà l'universale rovina", e mi empii di terrore per il mio popolo russo, e cominciai a pregare e a esortare piangendo tutti gli altri che venivano da me alla fossa: pregate, dico, perché ogni nemico e avversario sia prostrato ai piedi del nostro zar, perché ci sovrasta la rovina universale. E m'era stato dato il dono delle lacrime in meravigliosa abbondanza!... e piangevo continuamente per la patria. Al padre superiore fu riferito che, dicono, il nostro Izmaìl nel sotterraneo si è messo a pianger forte e a profetizzare la guerra. Il padre superiore ordinò allora di trasferirmi per questo in una izbà vuota nell'orto e di mettermi l'immagine del Santo silenzio, nella quale il Salvatore è rappresentato con le ali ripiegate, in aspetto di angelo, ma con le insegne di Sabaoth al posto della corona, e le braccia incrociate placidamente sul petto. E mi fu ordinato di fare delle prosternazioni davanti a quell'immagine, fintanto che non fosse taciuto in me lo spirito profetico. Così venni rinchiuso con quella immagine e rimasi lì rinchiuso in quella izbà pregando continuamente davanti al Santo silenzio, ma appena vedevo qualcuno, in me si risvegliava lo spirito e parlavo. Allora il superiore mandò da me un medico a vedere se fossi in senno, o se mi si fosse per caso guastata qualche rotella. Il medico rimase a lungo con me nell'izbà e, proprio come voi, stette ad ascoltare tutta la mia storia e sputò:

"Eh, fratello", dice, "sei proprio un tamburo: t'hanno battuto e ribattuto, ma tuttavia ancora non riescono in nessun modo a sfondarti".

Io dico:"Che farci? Si vede che così deve essere".E lui, dopo aver ascoltato ogni cosa, disse al superiore:"Io", dice, "non riesco a capire che pesce sia: se sia soltanto un semplicione, o se gli abbia dato di volta il

cervello, o se sia davvero un profeta. Questo", dice, "è di vostra pertinenza e io di ciò non mi intendo, ma la mia opinione è questa: cacciatelo", dice, "che se ne vada da qualche parte il più lontano possibile, che scorrazzi un po'; forse incantato sembrò sentire di nuovo spirare su di sé lo spirito profetico e cadde in un placido raccoglimento che nessuno degli interlocutori si permise di interrompere nemmeno con una sola nuova domanda. E poi cos'altro gli si sarebbe potuto ancora domandare? Il racconto del suo passato ce lo aveva fatto con tutta la schiettezza della sua anima semplice, e quanto alle sue predizioni rimangono per il momento in mano a Colui che nasconde i Suoi disegni agli intelligenti e ai saggi e li rivela soltanto talvolta Santo silenzio non vi è stato di giovamento?»

«Non so che dire: mi sforzo, sto zitto, ma lo spirito è più forte».«E cosa vi fa?»«Continua a ripetermi sempre la stessa cosa: "arruolati"».«Dunque vi accingete ad andare voi stesso a combattere?»«E come no? Immancabilmente: desidero moltissimo morire per il mio popolo».«Ma come farete: andrete a combattere col cappello da pope e la tonaca?»«Nossignore; allora mi toglierò il cappello da pope e indosserò l'uniforme».Detto questo il viaggiatore incantato sembrò sentire di nuovo spirare su di sé lo spirito profetico e cadde in un

placido raccoglimento che nessuno degli interlocutori si permise di interrompere nemmeno con una sola nuova domanda. E poi cos'altro gli si sarebbe potuto ancora domandare? Il racconto del suo passato ce lo aveva fatto con tutta la schiettezza della sua anima semplice, e quanto alle sue predizioni rimangono per il momento in mano a Colui che nasconde i Suoi disegni agli intelligenti e ai saggi e li rivela soltanto talvolta ai pargoli.