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Il MISTERO DELLA VITA CRISTIANA L’esemplarità degli Apostoli Pietro e Paolo e delle prime comunità Lettura spirituale degli Atti degli Apostoli a cura di P. Pino Stancari, sj Ariccia, 29 giugno- 3 luglio 2005

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Il MISTERO DELLA VITA CRISTIANA

L’esemplarità degli Apostoli Pietro e Paolo e delle prime comunità

Lettura spirituale degli Atti degli Apostoli

a cura di P. Pino Stancari, sj Ariccia, 29 giugno- 3 luglio 2005

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Presentazione

Pensiamo di fare cosa gradita a tutte le sorelle mettendo a disposizione gli appunti1 della lectio biblica sugli Atti degli Apostoli, che p. Pino Stancari, sj, ha svolto per noi, durante gli Esercizi Spirituali che hanno dato inizio al nostro 7° Capitolo Generale, ad Ariccia, nei giorni 29 giugno-3 luglio 2005.

L’icona degli apostoli Pietro e Paolo e delle prime comunità cristiane, che è stata posta come riferimento biblico del nostro cammino nel Sessennio 2005-2011, trova nell’ascolto e nella preghiera del secondo libro di San Luca, gli Atti degli Apostoli, uno speciale nutrimento per la nostra fede e la nostra spiritualità pastorale.

La lettura spirituale di p. Pino ci aiuta a conoscere, in modo forse a noi più vicino, gli apostoli Pietro e Paolo, nel loro cammino di maturazione della vita cristiana e della dimensione contemplativa della missione pastorale. Afferrati da Cristo e a Lui configurati, i nostri protettori e modelli, ci consegnano una testimonianza efficace per la nostra vocazione nella Chiesa.

Insieme con loro prendono rilievo figure minori ma decisive nella vita delle prime comunità cristiane, come Stefano, Barnaba, Giacomo, Maria, sorella di Barnaba, Lidia, commerciante di porpora e molti altri. Il percorso di fede e di sequela che hanno compiuto ci attrae e c’interpella per la sua radicalità e bellezza.

Il commento di p. Pino ci sarà utile anche per l’itinerario di preghiera che è proposto a tutte le sorelle e le comunità, durante i tempi forti d’Avvento e di Quaresima, allo scopo di condividere il più possibile la nostra vita in Cristo, nell’ascolto della Parola e nel ministero di cura pastorale a noi affidato.

Sr. Marta e sorelle dell’équipe di redazione

Roma, 22 febbraio 2006 Festa della cattedra di S. Pietro

1 Trascritti dalla registrazione e non rivisti dall’Autore.

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Introduzione: il mistero della vita cristiana Leggendo il libro degli Atti siamo invitati a fare un percorso

di carattere formativo-carismatico, che potrà essere utile alla vostra ricerca. Nel libro degli Atti degli Apostoli possiamo contemplare il dono e il mistero della vita cristiana. Pietro e Paolo ci aiutano ad entrare e contemplare questo mistero: il carisma della vita cristiana. L’evangelista Luca, nella sua duplice opera ci offre due discorsi inseparabili:

- il mistero di Cristo: Vangelo secondo Luca - il mistero della vita cristiana: Atti degli Apostoli.

Luca ha scritto il Vangelo proprio per svelarci e per aiutarci a comprendere quali sono le modalità di incontro con Cristo. Perciò, all’inizio del secondo libro, quello degli Atti degli Apostoli, rimanda la nostra ricerca al 1° libro, cioè al Vangelo.

Questi due discorsi non possono esistere l'uno senza l'altro, perché non esiste vita cristiana senza l'incontro con Cristo, che ha assunto la vita dell'uomo e l’ha condivisa. La vita cristiana è relazione con Cristo, il mistero del Signore vivente. Dio ci ha visitati, il cielo ha visitato la terra, l'Eterno ha visitato il tempo. L’infinita ricchezza del Dio vivente si è depositata nelle misure limitate del mondo: tempo e spazio. La visita di Dio nella misura del limite. Ci ha visitato, ci visiterà. È il senso delle cose: Dio visita e riempie la vita umana di senso.

Adesso si tratta di aderire a quella visita, di entrare a contatto con quella visita, di immergerci in quella novità che è il Figlio, morto e risorto.

La visita di Dio determina una svolta che è avvenuta e che vale per sempre. Oggi, dice Luca, cioè tutta la storia è ricapitolata in quest'oggi. Sia il passato che il futuro sono in questo oggi di Dio. È la visita di Dio che rende odierna la storia umana e fa di ogni giorno l’oggi. La data è convenzionale: 29 giugno 2005. È oggi perché Dio ci ha visitati. Perché ogni giorno è inserito nell’oggi della visita di Dio. È la visita di Dio che

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riempie l'oggi. L’intenzione di Luca è di aiutarci ad entrare in quell’oggi e trovare dimora in quell’oggi. È l’oggi dell’intenzione di Dio realizzata nella storia umana.

Atti 1: Una comunione d’Amore nella libertà Atti 1,1-3: "Teofilo" vuol dire "amico di Dio", "amato da Dio".

Amato e amante. Scopriamo che siamo dentro una relazione d’amore: discorso sempre nuovo. Una relazione d’amore che non è ancora stata sufficientemente valorizzata. Tu sei Teofilo, c’è una scoperta ancora da realizzare per quanto riguarda questo coinvolgimento nella relazione d’Amore che è la visita del Signore.

vv. 3-14. Nei versetti seguenti si narra di gente angustiata, incerta, smarrita perché il Signore se ne è andato, non lo vedono più. Si contano: chi siamo? Quanti siamo? Come vivere questa pienezza di comunione in modo da corrispondere all’amore del Dio Vivente, se Lui non c’è più?2 La nuvola l’ha nascosto al nostro sguardo. Gli apostoli, testimoni del cielo aperto (Lc 3,21), adesso vedono che il cielo si chiude (At 1,9). Sono disorientati. Sono 11 e non 12. C'è anche uno scompenso, un disagio evidente. Allora Pietro dice che bisogna diventare 11+1, però il numero sarà sempre un po’ traballante.

v. 15: Non è una questione numerica ma di qualità carismatica. Qui si può fare riferimento al libro dei Numeri, specialmente ai primi capitoli che parlano del censimento: troviamo gente accampata, senza fissa dimora, però l’alleanza è stata impostata, la relazione attivata, poi ci sarà il viaggio, l’attraversamento del deserto, l’alleanza. Anche noi, talvolta, ci sentiamo reduci di una grande impresa e non sappiamo come

2 Le sottolineature nel testo sono redazionali e vogliono indicare la particolare enfasi che il relatore ha voluto dare al contenuto.

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realizzare quel contatto che costituisce il riferimento determinante, oggi.

“Tornerà allo stesso modo con cui l’avete visto andare in cielo”

(v. 11). Così come si è allontanato si avvicinerà: è un appuntamento. In questo intervallo tra Lui che si è allontanato e Lui che ritorna c’è tutto il tempo della nostra vita cristiana. Intanto passano le generazioni, intanto noi passiamo. C’è l’annuncio di quella novità che definisce la vita cristiana, tutto il tempo della vita cristiana diventa oggi. Come è possibile che il 30 giugno 2005 sia l’oggi di Cristo Signore che ci ha visitati e che ritorna? Questo è il problema di ogni pastorale!

Numeri 27,17: sul Sinai avviene l’alleanza, lì dove il popolo

è accampato e Mosè vuole radunare le pecore per il Pastore. Il Pastore che entra ed esce, oggi! Il Pastore! Esodo 19: come avviene l’alleanza? Attraverso Mosè il Signore spiega l’alleanza con il popolo: voglio realizzare tra me e te una relazione di vita stabile, che rimane, che coinvolge tutto, che vale sempre. Voglio instaurare con te una comunione d’amore nella libertà. Ti ho liberato apposta dall’Egitto, perché tra me e te, che sei libero, posso instaurare una relazione di vita che pensavo sin dall’inizio. Voglio realizzare tra me e te una relazione di vita nella gratuità dell’amore, per questo sei libero.

Dio è santo perché è il Vivente. Santità è pienezza delle

relazioni nell’amore. Ma noi non siamo proporzionati a Lui. Come è possibile un’alleanza tra Lui che è Santo e noi che siamo accampati qui? Tra Lui e noi c’è una diversità immensa e allora non è possibile l’alleanza! Come facciamo a fare alleanza se tu sei Santo e noi siamo accampati nella nostra miseria? Allora il Signore spiega: guarda che voglio instaurare una comunione di vita tra me e te. Per questo ti dono la mia legge (la Torah).

Occorre comprendere in modo più sapiente quello che è avvenuto nella storia della salvezza. Nell’esperienza del popolo di Dio, la Legge è il dono per eccellenza. La distanza tra Dio e il

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suo popolo viene riempita dal dono della Legge. Io mi impegno ad aprire una strada, dice Dio, a costruire un ponte per superare la distanza che ci separa: ecco la Legge. Ed ecco perché il popolo rimane abbracciato alla Legge. Tu che ricevi la Legge da me, adesso sei in grado di avvicinarti a me, per entrare pienamente in quel rapporto di alleanza tra me e te e così ritornare alla pienezza della vita.

Atti 2: Il dono dello Spirito Il popolo di Dio a Pentecoste celebra il dono della Legge. E

nel giorno di Pentecoste scende lo Spirito sulla Chiesa radunata in preghiera. Lo Spirito santo è il soffio del Dio vivente, quella presenza misteriosa del Dio Vivente, per cui la distanza tra Gesù e noi è superata: ora è lo Spirito di Dio che riempie il vuoto, non più la Legge ma lo Spirito santo. Noi e il Figlio, coinvolti in una comunione vitale perché lo Spirito di Dio riempie la distanza che ci separava. Lo Spirito del Dio vivente riempie la distanza tra il Figlio intronizzato e noi che siamo accampati nella miseria. Lo Spirito di Dio è potenza di Dio, Presenza, quella corrente di vita che passa attraverso tutte le realtà, che tutto vuole trascinare verso la comunione con il Figlio, perché tutto sia ricapitolato in Lui, perché tutto sia incastonato e assimilato alla carne gloriosa di Cristo che regna. Lo Spirito santo vuole sigillarci nella comunione con Cristo Signore: non c’è quindi da chiedersi che cosa vuole lo Spirito santo da noi, perché è questa comunione con Gesù che Egli vuole!

Quella distanza che imbarazzava i discepoli ora è superata. Come rendere testimonianza alla Risurrezione? È la nostra relazione di vita con Cristo, che è risorto dai morti, la testimonianza per il mondo. Tra Lui e noi, ormai c’è un coinvolgimento vitale, anche se noi siamo ancora schiacciati sotto il peso della morte. Al v. 14 e seguenti, Pietro prende la parola, è il primo discorso di Pietro a Gerusalemme. Il discorso si svolge in tre parti:

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1° parte: vv. 14-21 (cf. Gioele 3) Pietro cita il profeta e chiarisce che i discepoli non sono ubriachi, sono diventati profeti. La profezia è la capacità di invocare il Nome del Signore. Il nome è un principio di relazione. Invocare il suo Nome è entrare nella relazione vitale con Dio. Invocare il Nome di Gesù! Il Nome santo del Dio vivente! Chiunque invocherà il Nome di Gesù sarà salvato. Questa profezia ci consente di chiamare per nome il Kyrios: ecco il contenuto di ogni pastorale della vita cristiana. Gesù si fa chiamare per nome da noi perché lo Spirito santo fa di noi dei profeti.

2° parte: vv. 22-31 Pietro chiama per nome il Signore: Gesù è il Messia, il Cristo.

3° parte: vv. 32-36 Pietro sta esercitando la profezia. Gesù è il Signore! Pietro sceglie alcune citazioni dai Salmi 16, 110. Chiamiamo per nome Gesù: è Messia, è Signore, tutto appartiene a Lui, alla sua sovranità e da Lui riceviamo lo Spirito della Vita che fa di noi dei profeti. Il v. 36 ricapitola ogni cosa: Dio ha costituito Signore quel Gesù che abbiamo rifiutato in tanti modi. Quel Gesù è Kyrios e Cristo, cioè Signore e Messia. Noi siamo in relazione di vita con Lui e in Lui tutte le promesse si sono compiute. Noi siamo in grado di chiamare per nome quel Gesù che abbiamo rifiutato. Chiamarlo per nome è un esercizio profetico, opera dello Spirito santo. Tutta l’evangelizzazione avviene nel Nome di Gesù. L’evangelizzazione è il nostro coinvolgimento nell’oggi della visita: Gesù!

v. 37: quelli che ascoltavano si sentirono trafiggere il cuore, è la compunzione. Dobbiamo convertirci! La conversione non è altro che questo rivolgimento della nostra vita verso Gesù. È il nostro affidamento alla corrente dello Spirito che opera in noi e ci trascina verso di Lui. Con il Nuovo Testamento ora noi comprendiamo il valore dell’Antico Testamento, capiamo che non possiamo più farne a meno.

Al v. 39, risulta che abbiamo ancora bisogno di contarci.

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Atti 3,1-4,22: Nel Nome di Gesù

Pietro, per la prima volta a Gerusalemme, si dedica a quella testimonianza della risurrezione del Signore che si chiama anche evangelizzazione. C’è una profezia che incrocia la storia degli uomini, la vita di tutti noi. Pietro è il testimone, e con lui gli altri undici, naturalmente. Pietro non da solo, ma Pietro in modo dichiarato, e Luca ci tiene a mettere in evidenza la figura di Pietro nell’esercizio della vita cristiana.

Dico esercizio della vita cristiana nel senso che l’evangelizzazione è l’esercizio della vita cristiana, non è un compito riservato a degli specialisti, a dei tecnici della pastorale. L’evangelizzazione è l’esercizio della vita cristiana, è la profezia della vita cristiana, è il contenuto stesso della vita cristiana che si realizza come testimonianza alla risurrezione del Signore, quella invocazione del nome di Gesù che incrocia il mondo, che attraversa la storia umana, che interseca tutto lo spazio e tutto il tempo della nostra condizione umana.

Nei primi cinque capitoli degli Atti degli Apostoli, tutto avviene a Gerusalemme e sia per Pietro che per gli altri, l’interlocutore della loro testimonianza è il popolo d’Israele, il popolo della prima alleanza, a cui Pietro e gli altri appartengono. Il loro popolo, il popolo delle promesse, il popolo della liberazione, il popolo dell’alleanza. Il primo destinatario dell’evangelizzazione è Israele. La prima evangelizzazione avviene a Gerusalemme, dove sono raccolte tutte le componenti, tutte le rappresentanze del popolo di Israele.

Dando uno sguardo al cap. 3 all’episodio che vi leggiamo all’inizio del capitolo, quando Pietro e Giovanni salgono al tempio per la preghiera e incontrano un uomo storpio dalla nascita. Ricordate il dialogo tra Pietro e lo storpio? “Nel nome di Gesù di Nazareth, che è il Messia, cammina e entra con noi nel tempio”. Nel nome di Gesù. Se ricordate quello che accade nelle pagine seguenti, vi sarete accorte che tutto il racconto è determinato da questa invocazione del Nome: Gesù!

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Nel nome di Gesù quel tale entra con Pietro e Giovanni, si aggrappa a loro, fanno un gruppo unico. Vedete il v. 11 del c. 3 “mentre egli teneva Pietro e Giovanni, tutto il popolo fuori di sé per lo stupore, accorse verso di loro al portico detto di Salomone”. All’interno del tempio troviamo Pietro e Giovanni e lo storpio aggrappato a loro, perché se lo sono come caricato sulle spalle. Egli teneva Pietro e Giovanni, li stringeva. Nel nome di Gesù!.

Nel Nome di Gesù non è un riferimento anagrafico. Il nome di Gesù è un riferimento vitale, è una relazione vitale. Noi viviamo in forza dell’appartenenza a Gesù, in forza della comunione di vita che ci lega a Lui, che è risorto dai morti ed è vivente nella gloria. È in forza di quel vincolo di comunione, che ormai ci sigilla nella gloria del Figlio di Dio, risorto dai morti, che siamo coinvolti nella novità di cui egli è il protagonista: la visita di Dio. Nel nome di Gesù, per tutti gli uomini, si apre la strada del ritorno alla vita, uomini che non sanno vivere, uomini che non sono più capaci di vivere, hanno perso il contatto con la vita e devono essere rieducati alla vita.

In Cristo gli uomini imparano nuovamente a vivere, ritrovano la strada che si apre per loro e ritornano alla pienezza delle relazioni vitali, e la relazione con il Dio vivente diventa la struttura che ricapitola in sé tutte le relazioni con le creature di Dio, nel tempo e nello spazio. Gli uomini ritornano alla vita nel nome di Gesù, in forza della relazione con Gesù e la relazione con Gesù è realizzata perché lo Spirito di Dio opera efficacemente. Tutto è rivelazione di un dono d’amore gratuito, un dono d’amore purissimo, un dono d’amore eterno, un dono d’amore “oggi”, per noi!

Il c. 3, tutto di seguito fino al c. 4, v. 22, nel racconto degli Atti, ruota attorno al fatto che Luca ci ha raccontato: lo storpio, che era storpio dalla nascita, è entrato nel tempio. Allora la gente chiede: Come mai? Nel nome di chi? Pietro fa un discorso, un secondo discorso: “Proprio per la fede riposta in Lui il nome di Gesù ha dato vigore a quest’uomo che voi vedete e conoscete; la fede in lui ha dato a quest’uomo la perfetta guarigione alla presenza di tutti voi” (3,16). Pietro

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spiega che è nel nome di Gesù che quest’uomo è entrato, è per questo motivo che le porte si sono aperte, per questo motivo lo storpio, che era fuori del tempio, si ritrova all’interno del tempio.

Al c. 4, sono le autorità di Gerusalemme che si interrogano sul fatto dello storpio. Prima la gente, ora le autorità. “Stavano ancora parlando al popolo, quando sopraggiunsero i sacerdoti, il capitano del tempio e i Sadducei, irritati per il fatto che essi insegnavano al popolo e annunziavano in Gesù la risurrezione dei morti. Li arrestarono e li portarono in prigione fino al giorno dopo, dato che era ormai sera” (cf. 4,1-2). Passa la notte e il giorno dopo vengono interrogati: “In nome di chi avete fatto questo?”. Adesso sono interrogati Pietro e Giovanni. E Pietro, pieno di Spirito Santo risponde:

"Capi del popolo e anziani, visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato ad un uomo infermo e in qual modo egli abbia ottenuto la salute” (4,8-9). Qui salute sta per salvezza, Pietro si chiede: come è avvenuto che quest’uomo è di nuovo in cammino per ritornare alla pienezza della vita, alla salvezza? “La cosa sia nota a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno - Nel nome di Gesù di Nazareth! - che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi sano e salvo. Questo Gesù è la pietra che, scartata da voi, costruttori, è diventata testata d’angolo. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (4,10-12). Pietro sta dicendo che non c’è un altro riferimento, in base al quale, noi possiamo ritornare alla pienezza della vita. È in forza della nostra appartenenza a Gesù, in forza di questo coinvolgimento vitale nella Pasqua di Gesù, che è morto ed è Risorto, che noi siamo vivi e in cammino. È in quanto noi apparteniamo a Lui vivente, che possiamo essere salvati.

Al v. 22, Luca ci parla ancora di quell’uomo sul quale era avvenuto il miracolo della guarigione, il quale aveva “più di quarant’anni”, 40 anni sono gli anni di una vita, una generazione, una vita consumata, una vita finita, una vita perduta… ed ora, nel Nome di Gesù, è aperta per quell’uomo una strada per ritornare alla pienezza della vita.

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Pietro è la figura che emerge e accanto a lui ci sono i discepoli,

la comunità che cresce. Sono accampati e man mano ci sono altri che si raccolgono nel nome di Gesù. Scoperta strabiliante, sconcertante e imprevedibile, la scoperta di essere in relazione con il Figlio di Dio che è intronizzato nella gloria, quando ancora siamo accampati nel deserto. Siamo così derelitti, storpi e ammalati eppure siamo già in comunione con Lui, eppure siamo in questa comunione gloriosa. Ci contiamo tra di noi: 11+1, 12-1, facciamo anche il Capitolo, siamo accampati in fondo a un deserto e siamo già in comunione con Lui, Gesù!

Siamo a Gerusalemme, in Israele, in un ambiente ancora circoscritto, niente di particolare… Israele, un popolo che riceve per primo la testimonianza della novità realizzata: la visita di Dio. Israele è il primo destinatario della visita di Dio.

Atti 6 e 7: La testimonianza di Stefano Ora, nel racconto degli Atti, si arriva a una svolta, una cosa

che per il momento è ancora solo accennata, però non c’è dubbio che tutto ciò che viene dopo, nel corso del racconto, passa attraverso questa svolta. Nei capitoli 6 e 7 fino al c. 8,4 incontriamo una figura che svolge un ruolo decisivo nella crescita della prima evangelizzazione ed è la figura di Stefano. Noi stiamo facendo conoscenza con Pietro, poi faremo conoscenza con Paolo, ma sullo sfondo ci sono altri personaggi, altre figure, anzi possiamo dire che nel circuito Pietro-Paolo, Paolo-Pietro c’è tutto un mondo.

Il nostro evangelista Luca mette in evidenza la figura di Stefano. Siamo giunti a una svolta. Fino a questo momento tutto è avvenuto all’interno di Gerusalemme. Tutto è avvenuto in un contesto ben delimitato. L’evangelizzazione è rivolta a Israele. Già abbiamo trovato degli accenni, già degli affacci verso prospettive ulteriori, già luci che si accendono in una profondità inesplorata. Già, però non ancora. Ed è giusto e necessario che sia così.

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Ora nel racconto succede che, mentre cresce questa prima comunità di Gerusalemme ci sono delle tensioni, delle asprezze, delle incomprensioni, delle difficoltà: questo è inevitabile. D’altra parte, quelli che sono adesso discepoli che crescono insieme e camminano insieme nel nome di Gesù, appartengono tutti al popolo di Israele, ma il popolo di Israele è un popolo caratterizzato da tante e tante diversità. Così anticamente, così ancora oggi. Noi abbiamo un’immagine di un Israele compatto, monolitico: invece al suo interno si sono diversità per noi inimmaginabili.

Tra i discepoli ci sono delle tensioni. Quelle tensioni che sono all’interno della grande comunità di Israele si ripropongono all’interno della piccola comunità dei discepoli. Tra giudei ellenisti ed ebrei esiste una divisione fondamentale. I Giudei ellenisti sono quelli che parlano greco, perché provengono dalle comunità della diaspora, termine che indica le comunità di israeliti disperse tra i popoli pagani. La maggior parte del popolo di Israele vive in diaspora. Solo una parte, minoritaria, vive nella terra, sono gli ebrei e normalmente parlano aramaico, gli altri parlano la lingua dei popoli, la lingua del mondo, la lingua dei pagani, la lingua internazionale: sono gli ellenisti. Tra queste due componenti ci sono delle tensioni, perché i giudei che dimorano nella terra d’Israele sono in grado di frequentare il tempio. Il tempio è il grande sacramento dell’alleanza e solo a Gerusalemme, nel tempio, viene celebrato il culto. Non ci sono altri templi in giro per il mondo, ma solo a Gerusalemme.

I giudei che abitano nella terra di Israele sono in grado di osservare tutti i precetti perché sono nella terra, perché i precetti della legge sono riservati a coloro che abitano la terra. Ma coloro che abitano fuori da questa terra, non sono in contatto con il tempio, non possono partecipare al culto e non sono in grado di osservare i precetti della Legge. Però sono dei giudei e sono sinceri, sono onesti e sono desiderosi di rispondere alla propria vocazione ma sono oggettivamente impediti perché sono in diaspora e l’osservanza dei precetti suppone ed esige la dimora nella terra. Manca il contatto con il tempio.

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Già da diversi secoli, all’interno di questi gruppi in diaspora si è sviluppata una teologia spirituale, atta a promuovere la devozione, la preghiera, l’impegno teologale proprio di quelli che non possono frequentare il tempio. Questi sono andati sviluppando una visione delle cose, diremmo noi, di tipo più spirituale. Quello che conta non è il culto nei suoi riti liturgici, quello che conta è il culto interiore e così non è l’osservanza materiale dei precetti - oltretutto questa osservanza è impossibile - ma quello che conta è l’atteggiamento del cuore, il desiderio del cuore, la motivazione profonda.

Questi giudei ellenisti sono in contatto con il mondo dei pagani. Questo può diventare molto compromettente, può darsi che ci siano delle difficoltà di identità, di dispersione, di assimilazione, per cui molti di questi che sono nella diaspora, si dimenticano di essere giudei che appartengono al popolo di Dio. Ma è anche vero che questo rapporto con popoli stranieri, con popoli pagani favorisce una maturazione interiore spesso molto vivace. Ricordate che anche Saulo nasce in un ambiente della diaspora e parla greco.

E ci sono giudei che vivono, abitano e lavorano nella terra: gli ebrei. È comprensibile. Questi giudei di lingua aramaica considerano gli altri giudei ellenisti come giudei di seconda categoria, di seconda o terza classe, o comunque squalificati. Non sono ritenuti dei veri giudei, dei veri osservanti, proprio su temi fondamentali: il tempio e il culto, l’osservanza dei precetti, la legge. Succede anche che molti giudei della diaspora si trasferiscono a Gerusalemme quando sono diventati anziani, per morire a Gerusalemme. Sono diventati anziani e non hanno più niente da fare e vanno a Gerusalemme per morire e così Gerusalemme diventa un grande cimitero, tanti cimiteri: ebraici, musulmani, cristiani. Gerusalemme è un posto adatto per morire.

All’interno della comunità dei discepoli ci si pone questo interrogativo: perché gli anziani che parlano greco non sono trattati con particolare attenzione come meriterebbero? Si creano dei conflitti. “In quei giorni, mentre aumentava il numero dei discepoli, sorse un malcontento fra gli ellenisti verso gli Ebrei, perché venivano trascurate

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le loro vedove nella distribuzione quotidiana.” (6,1). Si tratta delle vedove degli ellenisti che venivano trascurate nella distribuzione quotidiana.

Si pone un problema ed ecco una soluzione, una distinzione e nello stesso tempo l’impegno a mantenere la solidarietà, la vicinanza, la responsabilità comune ma, una distinzione necessaria. Ci sono i dodici e adesso ci sono anche i sette. I sette si prenderanno cura e c’è bisogno di un particolare impegno per le necessità di questi discepoli, che provengono dal mondo e dall’ambiente degli ellenisti. I sette sono Stefano, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timòne, Parmenàs e Nicola, nomi greci. Il settimo, Nicola è un pagano convertito, è un pagano che si è convertito al giudaismo.

L’attenzione dell’autore degli Atti, l’evangelista Luca, si concentra su Stefano, perché Stefano è pieno di Spirito santo. È un uomo molto dotato, pieno di grazia e di energia, dà grande slancio all’annuncio, si dà da fare e si mette a servizio di tutti. Ma ecco che i suoi vecchi amici, quelli che appartengono alla sinagoga o a quelle sinagoghe da cui provengono i giudei ellenisti, lo contestano. Stefano è contestato da loro, da quelli che hanno condiviso tutto con lui. Sono presenti “alcuni della sinagoga detta dei "liberti" comprendente anche i Cirenei, gli Alessandrini e altri della Cilicia e dell`Asia, a disputare con Stefano” (6, 9).

Sono i vecchi amici, i vecchi compagni di cordata, i vecchi compagni di partito, giudei ellenisti che hanno dovuto sostenere l’urto, la tensione, il conflitto con gli altri giudei, quelli che parlano aramaico. Si conoscono bene tra di loro, fanno presto ad accusare Stefano e a dire: Stefano è un bestemmiatore contro Mosè, contro la legge e contro Dio. Fanno presto ad accusare Stefano. Soltanto che oramai per Stefano è tutto cambiato, perché per lui, che è diventato discepolo del Signore le crisi non sono più quelle di prima. Non c’è più il problema di non poter frequentare il tempio perché si è fuori dalla terra. Per Stefano, ora tutto prende un altro significato nel nome di Gesù. Il culto, il tempio è nel corpo di Gesù, il corpo glorioso del Signore. La legge è nel nome di Gesù. La Parola fatta carne è nel nome di Gesù.

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Tutto per Stefano è cambiato soltanto che i suoi vecchi amici adesso lo accusano e lo accusano in base a quelle opinioni che loro stessi condividono. Vogliono accusare lui davanti alle autorità giudaiche, ma il motivo non è determinato da quelle opinioni che loro stessi condividono. Il vero motivo sta nel fatto che Stefano ha cominciato a vivere in modo diverso, non sanno neanche come dirlo: non lo sopportiamo più, non è dei nostri. Lo accusano per quei motivi per cui dovrebbero essere loro accusati, perché sono giudei ellenisti.

“Lo abbiamo udito dichiarare che Gesù il Nazareno distruggerà questo luogo e sovvertirà i costumi tramandatici da Mosè" (v. 14). Stefano non dice questo, dice che Gesù è il tempio, Gesù è la legge realizzata. E per questo Stefano è accusato pubblicamente: “tutti quelli che sedevano nel sinedrio, fissando gli occhi su di lui, videro il suo volto come quello di un angelo.” (v. 15). Ecco, l’attenzione ora si concentra sul volto di Stefano e per tutto il c. 7, il volto di Stefano diventa sorgente da cui proviene un messaggio.

Stefano fa un lungo discorso, una lunga catechesi, per tutto il c. 7, fino al v 53. Stefano parla. Dovrebbe essere un discorso difensivo. In realtà Stefano non si difende, spiega il senso di ciò che sta avvenendo e spiega tutto nel nome di Gesù. Non si difende, d’altra parte non potrebbe difendersi. Spiega come in realtà tutto avviene nel nome di Gesù. Non si tratta di stabilire chi ha ragione e chi ha torto, chi è nel vero e chi è nel falso. Egli spiega che cosa sta succedendo. Nel suo lungo discorso Stefano ricostruisce, per tappe, la storia della salvezza.

Il c. 7 è pieno di citazioni. Basta uno sguardo a queste righe e ce ne rendiamo conto, c’è un intarsio di citazioni. Ma per ogni tappa della storia della salvezza, Stefano mette in evidenza un passaggio particolare. Vedete che le cose sono andate in quel modo per cui, da una tappa all’altra, la storia del nostro popolo è divenuta un processo di crescita, dall’ inizio, dai patriarchi, da Abramo, da quelli che hanno ricevuto la promessa e poi attraverso quelli che sono discesi in Egitto e poi quelli che sono stati tirati fuori dall’Egitto, nell’attraversata del deserto, ecc…

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Di tappa in tappa questo cammino, questo processo di crescita è stato determinato dalla presenza di qualcuno che, rifiutato dai suoi, è divenuto il testimone di una forza nuova, di un dono d’amore più grande, testimone di una fecondità più universale, sin dall’inizio. E Stefano narra: Giuseppe venduto dai fratelli. Giuseppe, che poi diventa lo strumento di cui Dio si serve, provvidenzialmente, per aprire prospettive nuove. Così Mosè, contestato, aggredito, rifiutato dai suoi, ma proprio lui diviene lo strumento di cui Dio si serve per donare la legge al suo popolo e per guidare il suo popolo nel deserto e per manifestare, in modo così straordinario la sua misericordia.

Là dove, da una tappa all’altra, la nostra storia, - spiega Stefano, - dimostra come noi abbiamo resistito, come noi abbiamo rifiutato, come noi siamo stati ribelli, puntualmente, proprio attraverso qualcuno che ha subito gli effetti della nostra ribellione, del nostro rifiuto, Dio ci ha guidati, ci ha fatti crescere in una esperienza d’amore. In qualche modo questa è come una regola della storia della salvezza: è necessario che l’opera di Dio, la salvezza, passi attraverso la presenza di qualcuno che è stato rifiutato, in modo tale che, la ribellione umana, diventi lo strumento per rivelare la misericordia.

È come dire che questo è il meccanismo che agisce dal di dentro della storia umana e trasforma la storia di peccato in storia di salvezza. Quella che è la storia del peccato è trasformata dal di dentro in storia di salvezza, perché la salvezza non è un regalo che viene dal fuori, ma una novità che esplode dal di dentro. Queste sono le modalità di Dio.

Il v. 51 dice “O gente testarda e pagana nel cuore e nelle orecchie, voi sempre opponete resistenza allo Spirito Santo; come i vostri padri, così anche voi. Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Giusto”. Adesso siamo arrivati agli ultimi tempi e il giusto è il Messia, e che cosa è capitato? Il Giusto “del quale voi ora siete divenuti traditori e uccisori”(v. 52), proprio attraverso il rifiuto che ha subito da parte

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del suo popolo, ha reso manifesta l’opera della salvezza. Una sovrabbondanza d’amore, una ricchezza d’amore, una grandezza d’amore che ha trasformato il rifiuto in salvezza, nella salvezza secondo le intenzioni di Dio. Era necessario che il giusto patisse, era necessario che il giusto soffrisse… Era necessario!

Ricordate quante volte ritorna questa formula. C’e un disegno provvidenziale. È veramente il “meccanismo” che dall’interno governa la visita di Dio nella storia umana. Era necessario che tutta la cattiveria degli uomini venisse trasformata in una offerta di salvezza. Il giusto è stato tradito e ucciso proprio da “voi che avete ricevuto la legge per mano degli angeli e non l’avete osservata” (v. 53). Vedete che Stefano sta arrivando a questo punto.

Così vanno le cose. Così vanno le cose “nel nome di Gesù”. Sapete cosa sta dicendo Stefano, adesso? Se voi ve la prendete con me, questo non è dovuto al fatto che siete più cattivi di me o che io sono più buono di voi. Voi non siete più cattivi di me ed io non sono più buono di voi. Se le cose vanno in questo modo, nel nome di Gesù, è per confermare che l’opera iniziata da Dio per la salvezza degli uomini, cresce. Io sono qui - dice Stefano – non tanto per dichiarare che voi siete cattivi e nemmeno per dire: applauditemi perché sono bravo, buono. Io sono qui per dirvi, per annunciarvi, per testimoniarvi che l’amore di Dio è più grande del peccato umano.

Il martirio è una testimonianza d’amore che riguarda proprio i persecutori, gli oppressori. È l’annuncio di un amore più grande che trasforma il rifiuto ricevuto, l’aggressione subita, trasforma la miseria, la cattiveria, l’ingiustizia degli uomini in salvezza. Trasforma questa storia in storia di salvezza. Il martirio è la testimonianza matura della vita cristiana, per cui, nel nome di Gesù, gli avversari sono benedetti, i nemici sono amati.

E Stefano sta spiegando tutto questo: io sono qui e le cose vanno in questo modo perché nel nome di Gesù, non è compito mio condannarvi e nemmeno è compito mio pretendere di farci una bella figura, perché io comunque rimango un pover’uomo. Io sono

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qui per spiegarvi che l’amore di Dio trasforma la cattiveria dei cuori in una vittoria della salvezza. Così sono andate le cose. Per questo il Giusto è stato rifiutato e intronizzato. Il servo crocifisso, inchiodato, è stato glorificato. Il v. 55 dice che Stefano: “pieno di Spirito Santo, fissando gli occhi al cielo, vide la gloria di Dio e Gesù che stava alla sua destra e disse: Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell'uomo che sta alla destra di Dio. Proruppero allora in grida altissime turandosi gli orecchi; poi si scagliarono tutti insieme contro di lui, lo trascinarono fuori della città e si misero a lapidarlo. E i testimoni deposero i loro mantelli ai piedi di un giovane, chiamato Saulo”.

È la prima volta che si parla di Saulo. Il nome di Saulo qui compare tre volte. Vedete che qui è semplicemente un accenno, ma già il racconto è impostato in modo tale da anticipare la fecondità di questo avvenimento. Mentre Stefano subisce l’aggressione fino alla morte, già sono preparati elementi di una fecondità nuova, che traboccherà. Perché ciò che sta avvenendo “nel nome di Gesù” non dimostra la cattiveria degli uomini ma l’amore di Dio. E così lapidavano Stefano mentre pregava e diceva: “Signore Gesù, accogli il mio spirito. Poi piegò le ginocchia e gridò forte: Signore, non imputar loro questo peccato. Detto questo, morì.” (vv. 59-60). Ricordate che Stefano ripete quasi alla lettera le parole di Gesù: “Signore, non imputar loro questo peccato”. Questo è il martirio, è la testimonianza matura della vita cristiana. Porta su di sé il carico di un fallimento per esprimere la fecondità di quella forza di amore che Dio ha donato al mondo intero.

Inizia così il capitolo 8°: “Saulo era fra coloro che approvarono la sua uccisione - Si parla di Saulo due volte: prima dicendo che i mantelli di quelli che lapidavano Stefano erano posti ai piedi di Saulo e ora si dice che Saulo approvava.- In quel giorno scoppiò una violenta persecuzione contro la Chiesa di Gerusalemme - Persecuzione. Adesso il fenomeno dilaga; non è soltanto un caso, quello di Stefano, ma c’è la persecuzione per la Chiesa, per l’ecclesìa - e tutti, ad eccezione degli apostoli, furono dispersi nelle regioni della Giudea e della Samaria (v. 1)”.

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A questo punto del racconto cominciamo a spostarci fuori da Gerusalemme. Una persecuzione? Una dispersione? Ma questo spostamento diventerà una crescita straordinaria, fino agli estremi confini della terra. Per ora è appena un inizio. Il v. 58 del c. 7 aveva appena detto: “lo trascinarono fuori della città e si misero a lapidarlo”. Fuori della città: significa che è superato un confine e adesso coloro che sono perseguitati si disperdono nelle regioni della Giudea e della Samaria. Dunque strade nuove. “Persone pie seppellirono Stefano e fecero un grande lutto per lui. Saulo intanto infuriava contro la Chiesa ed entrando nelle case prendeva uomini e donne e li faceva mettere in prigione. (8,1-3). Abbiamo Saulo che custodiva i mantelli, Saulo che approvava, ora si parla ancora di Saulo che infuria contro la Chiesa e entrando nelle case prende uomini e donne e li fa mettere in prigione. “Quelli però che erano stati dispersi andavano per il paese e diffondevano la parola di Dio” (v. 4).

È superata una barriera. Il martirio di Stefano, la persecuzione di altri è il momento della maturità della prima Chiesa, la prima comunità dei discepoli. Maturità che coincide con la testimonianza di un amore più grande. Per questo la prima comunità dei discepoli è pronta per affrontare le strade del mondo, perchè è passata attraverso il crogiuolo della persecuzione, è passata attraverso l’incrocio di tutte le asprezze, tutte le incomprensioni, tutte le violenze e tutta la cattiveria, compresa anche la propria. Tutte le insufficienze, tutta questa storia di peccato “nel nome di Gesù” è oramai affrontata e attraversata dalla testimonianza di una benedizione, che converte e che salva.

Tra Pietro e Paolo, come perno di questo circuito, troviamo Stefano.

Il carisma di Pietro

Guardando al martirio di Stefano in At 6-8,4 vi dicevo che queste pagine segnano una storia, sono il segno della maturità,

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quella maturità della vita cristiana da cui dipende poi la crescita della evangelizzazione, come, vedremo, avverrà successivamente.

Fino a questo momento tutto è avvenuto entro i confini di Gerusalemme. In ogni caso la prima evangelizzazione riguarda il popolo della Prima Alleanza, Israele è il primo destinatario dell’evangelizzazione. L’oggi della visita di Dio nella storia umana riguarda, senza alcun dubbio, in modo diretto e immediato il popolo che ha ricevuto le promesse, il popolo messianico, il popolo che è stato educato nella esperienza dell’alleanza. Ma la figura di Stefano segna una svolta.

Noi abbiamo già conosciuto l’impegno con cui Pietro si dedica alla testimonianza del Signore Risorto, con potenza di Spirito Santo, nel nome di Gesù: l’invocazione del nome di Gesù, il riferimento a lui, il Figlio di Dio che ormai è intronizzato nella gloria.

Questa linea rappresenta lo svolgimento dei fatti del libro degli Atti e abbiamo messo in evidenza il fatto che i primi cinque capitoli ci parlano della prima evangelizzazione, a Gerusalemme. Poi, vi dicevo, l’avvenimento di Stefano che prepara lo sviluppo, una crescita, e non c’è dubbio che questa crescita è impossibile se a Gerusalemme non fosse avvenuto quello che abbiamo già preso in considerazione.

A Gerusalemme abbiamo la prima comunità dei discepoli del Signore, la Chiesa madre di tutte le Chiese, la Chiesa di Gerusalemme che rimane come il grembo fecondo a cui tutte le altre Chiese fanno riferimento. Questa prima esperienza della vita cristiana, questa prima testimonianza, questa novità che è stata realizzata per la prima volta, questo nucleo essenziale rimane il riferimento originario di tutta l’evangelizzazione, di tutta la storia della Chiesa, di tutta la missione che i discepoli del Signore svolgeranno nel corso delle generazioni, di Chiesa in Chiesa. È il nucleo della vita cristiana, la vita di coloro che, mentre sono accampati nella miseria, già appartengono a quella comunione con il Signore Vivente, che rivela la sua signoria, la sua sovranità, la sua regalità. Coloro che già appartengono a lui e sono in comunione con

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lui, vivono nel nome di Gesù, mentre sono accampati nella miseria della condizione umana.

In questo nucleo essenziale è coinvolto Israele, perché questa prima evangelizzazione riguarda tutti i figli di Israele e sono tali i discepoli a Gerusalemme, la Chiesa madre. Vedete come la presenza di Israele è interna alla nostra testimonianza cristiana, in un senso proprio genetico. Non soltanto con riferimento ideale e non soltanto con una esemplarità, di tipo parabolico, ma proprio nella genesi della vita cristiana, della crescita della evangelizzazione, la presenza di Israele deve essere riconosciuta e apprezzata all’origine di tutto, perché la prima Chiesa è composta esclusivamente di ebrei. La prima testimonianza è espressa e vissuta da giudei che si rivolgono ad altri giudei. In questa prima esperienza della vita cristiana, della vita evangelica, in questa origine è già presente il seme che si svilupperà in tante altre direzioni, in una prospettiva sempre più universale. C’è questa crescita perché c’è questa origine.

A Gerusalemme abbiamo riconosciuto la presenza di Stefano, così strutturale in rapporto alla crescita della evangelizzazione, il significato del suo martirio, di questa sua obbedienza a una forza di amore, che è vittoriosa, questa sua obbedienza ad una fecondità d’amore che porta in sé anche la presenza ostile e violenta di coloro che rifiutano.

Quando la prima testimonianza cristiana giunge a questo livello di maturità già porta in sé quello slancio per cui non ci sono confini, che proietta oramai l’evangelizzazione in un orizzonte universale. Stefano benedice i suoi persecutori, li evangelizza. Quando avviene questo, ecco che è giunto il momento in cui l’evangelizzazione può svolgersi su tutte le strade, in tutte le direzioni fino agli estremi confini della terra.

D’altra parte anche le nostre Chiese sono sempre state fondate sulle testimonianze dei martiri. Nell’altare c’è uno spazio riservato proprio a questo. Non è pensabile che la Chiesa sia costruita in maniera diversa da questa modalità. Sarebbe una aberrazione pastorale, una eresia pastorale. Noi non riusciamo a comprendere

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fino in fondo il valore di questa testimonianza, il valore del martirio che sta a fondamento dell’evangelizzazione.

Intanto abbiamo conosciuto Pietro, ma abbiamo anche fatto conoscenza, marginalmente, con un personaggio che si chiama Saulo e che poi si chiamerà Paolo. Non c’è dubbio, Pietro e Paolo sono i due grandi protagonisti degli Atti degli Apostoli. Non ci sono solo loro, infatti abbiamo fatto conoscenza con altri piccoli personaggi. Uno dei piccoli personaggi, nientemeno, si chiama Stefano, piccoli per modo di dire. Però è vero che i grandi protagonisti sono Pietro e Paolo. Tant’è vero che possiamo dire che gli Atti degli Apostoli sono gli atti di Pietro e Paolo. Pietro e Paolo, inseparabili tra di loro.

Possiamo dire, un po’ sommariamente, che la prima parte degli Atti è dedicata a Pietro e la seconda parte è dedicata a Paolo. Più esattamente noi scopriamo che la figura di Pietro è dominante dall’inizio. Abbiamo incontrato già Pietro e la sua figura rimane sulla scena fino al c. 15, con alterne vicende. La figura di Paolo è comparsa già qui e rimane poi dominante fino alla fine del racconto degli Atti degli apostoli. Allora vedete che non sono semplicemente due parti, sono anelli incrociati, anelli collegati tra di loro, sono racconti costruiti in modo tale da favorire la contemplazione di questo aggancio. Notate come la figura di Stefano è qui, in qualche modo, l’elemento che chiude e stringe l’aggancio.

Noi conosciamo Pietro e ora vogliamo mettere in evidenza una nota caratteristica di questo personaggio. Il nostro Pietro è caratterizzato da una “specialità”, qualcuno potrebbe dire da un carisma. Ma il carisma vero è quello della vita cristiana3. Pietro ha una specialità: aprire le porte. Lui apre le porte. E un portinaio! È il carisma petrino, è il carisma della porta. Abbiamo accennato a questo episodio il primo giorno.

Atti 3,1-16 “Pietro e Giovanni salgono al Tempio” – dunque siamo a Gerusalemme – il tempio è il grande sacramento dell’alleanza, la 3 E spesso succede che tutti pensano ai carismi particolari e nessuno pensa alla vita cristiana, il Vangelo non conta più e quello che conta è specializzarsi in un particolare secondario.

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presenza del Signore che ha stretto un rapporto di alleanza con il suo popolo, Israele. Il Tempio è il sacramento per eccellenza, il punto di riferimento anche di coloro che sono dispersi, i giudei della diaspora e gli ellenisti che salgono a Gerusalemme per visitare il tempio, per vedere la gloria, come si dice nell’AT, per vedere la gloria di Dio! Siamo venuti per vederti! E “per vederti” vuol dire: per partecipare al culto, per entrare nel Tempio. Nel Tempio si vede la gloria di Dio. Il Tempio è il grande criterio sacramentale che raccoglie l’identità del popolo di Dio. Ecco, il popolo di Dio è rappresentato dal Tempio come riferimento sacramentale.

Pietro e Giovanni stanno salendo al tempio per la preghiera verso le tre del pomeriggio. Sono perfettamente inseriti nella realtà di Israele, nella devozione di Israele, nella tradizione di Israele. Si recano al tempio per la preghiera quotidiana. E “qui di solito veniva portato un uomo, storpio fin dalla nascita e lo ponevano ogni giorno presso la porta del tempio detta «Bella»” (3,2).

C’è una porta ed è la porta del Tempio, la porta Bella. E questo tale sta seduto lì e chiede l’elemosina a coloro che entrano nel Tempio. È una posizione strategica, perché da quella porta passa tanta gente e lui chiede l’elemosina. Attenzione però, perché quest’uomo, che è storpio dalla nascita, sta in quella posizione non tanto per chiedere l’elemosina ma per un altro motivo, perché a lui l’ingresso nel tempio è precluso, impedito, non può entrare nel Tempio. Gli storpi, i ciechi e coloro che sono segnati da altre forme di disabilità, di deformità, di menomazione, non possono entrare nel Tempio. Sono in situazioni di impurità per questo non possono entrare, l’ingresso per loro è precluso.

Quel tale sta sulla soglia, passa molta gente a cui chiede l’elemosina ma lui non può entrare. L’ha detto anche Davide (cf. 2Sam 5,8): “I ciechi e gli zoppi non entreranno”. Come non possono entrare i samaritani, come non possono entrare i lebbrosi…. Dunque ci sono tante applicazioni di questo principio: si può entrare, si può varcare quella soglia, si può passare attraverso quella porta solo in uno stato di purità che deve essere testimoniato. E quel tale, storpio dalla nascita, è certamente in una situazione di

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impurità che gli impedisce di entrare. Infatti, non entra e non può entrare.

Arrivano Pietro e Giovanni e lo storpio li vede mentre stanno entrando nel Tempio. Al v. 3 leggiamo: “vedendo Pietro e Giovanni che stavano per entrare nel tempio”. Egli non vede semplicemente Pietro e Giovanni ma li vede “entrare nel Tempio”, li vede mentre stanno per entrare nel Tempio e “domandò loro l’elemosina”. Allora Pietro fissò lo sguardo su di lui, insieme a Giovanni e disse: “guarda verso di noi”, lui già stava guardando verso di loro. “Guarda verso di noi” ha un significato più forte di un semplice sguardo. “Guarda verso di noi”, guarda quello che stiamo facendo, il comportamento, il gesto che stiamo compiendo. Egli si volse verso di loro, in greco si usa un verbo che significa tutto un contorcimento. Si volse verso di loro aspettando di ricevere qualche cosa, ma Pietro gli disse "Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!"(3,6). Nel nome di Gesù, entra! Entra con noi nel tempio!

Pietro non sta semplicemente compiendo un atto prodigioso, ma sta evangelizzando Israele nel nome di Gesù. Entra nel Tempio, nel nome di Gesù, tu che sei uno storpio, tu che sei un escluso. Nel nome di Gesù la porta del Tempio si apre per te. Pietro sta evangelizzando Israele, e questo rimane sempre l’obiettivo missionario di Pietro. La prima e indimenticabile prospettiva di evangelizzazione riguarda Israele. Non è semplicemente in questione la sorte di quel tale, ma è in questione il significato del Tempio, è in questione l’identità di Israele, la vocazione di Israele. È nel nome di Gesù che anche lo storpio può entrare.

Vediamo che Pietro e Giovanni hanno preso quel tale in braccio, se lo sono caricato addosso. E “presolo per la mano destra, lo sollevò. Di colpo i suoi piedi e le caviglie si rinvigorirono e balzato in piedi camminava; ed entrò con loro nel tempio camminando, saltando e lodando Dio. Tutto il popolo lo vide camminare e lodare Dio e riconoscevano che era quello che sedeva a chiedere l’elemosina alla porta Bella del tempio ed erano meravigliati e stupiti per quello che gli era accaduto”(vv. 7-10).

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E tutti sono stupiti e meravigliati perché vedono uno storpio entrare nel tempio. Quel tale che chiedeva l‘elemosina fuori dal tempio, perché per lui le porte erano chiuse, ora entra! Aprire questa porta per Pietro è realizzare in modo autorevole, responsabile, efficace l’evangelizzazione di Israele, con tutte le contrarietà a cui va incontro e con tutte le incertezze che ancora permangono, con tutte le insufficienze di un programma che ancora dovrà affrontare ben altri sviluppi. Qui c’è Pietro! E la porta si apre! Questo è il carisma petrino!

Leggendo fino al c. 8 v. 4, vediamo che già abbiamo incontrato

Saulo, abbiamo incontrato Stefano, con quello che gli è successo, e Pietro che è presente. Nel c. 8 dal v. 5 ci è presentato un altro personaggio minore che si chiama Filippo, che è un altro dei sette diaconi, come Stefano.

Il c. 8 ha la funzione di intermezzo perché, mentre Stefano, fuori di Gerusalemme, viene lapidato, Filippo, fuori di Gerusalemme, intraprende nuove esperienze di evangelizzazione. Ormai il Vangelo va verso la periferia. Filippo si rivolge ai Samaritani, a un pagano convertito al giudaismo che viene dall’Etiopia. Realtà sempre più originali, ma sempre all’interno del popolo di Israele. Samaritani, con tante polemiche, ma siamo ancora all’interno di quello schema. Un pagano convertito, con tutte le difficoltà del caso, però è un pellegrino salito a Gerusalemme per il Tempio, per celebrare il culto.

Ci occuperemo del c. 9 più avanti, dove sulla scena irrompe Saulo. Quando ancora la figura dominante è quella di Pietro, già Saulo è coinvolto: vite che si intrecciano!.

Atti 9,32ss: L’opera di Pietro fuori di Gerusalemme Prendendo il v. 32 del c. 9 si apre una sezione dedicata a Pietro

da 9, 32 fino a 11,18. Prenderemo in considerazione tre racconti nei quali Luca,

evangelista, scrive e racconta. Luca è un pittore, è iconografo,

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dipinge per noi l’icona della vita cristiana, attraverso i volti dei primi discepoli. Pietro è colui che apre la porta.

Troviamo tre racconti dove c’è sempre Pietro sulla scena:

a) 9,32-35 Il primo è un breve racconto sulla guarigione di Enea a Lidda

b) 9,36-43 Il secondo è di media grandezza: Pietro risuscita la discepola Tabità, a Giaffa.

c) 10,1–11,18 Il terzo racconto, il battesimo del centurione Cornelio a Cesarea, occupa un capitolo e mezzo, un racconto lunghissimo. Quest’ultimo è il racconto più lungo tra quelli che leggiamo negli Atti. Dunque c’è una crescita evidente: da un episodio raccontato in poche righe, a un racconto con misure letterarie medie fino a un racconto lunghissimo, che occupa uno spazio enorme nell’economia letteraria complessiva del nostro libro. Non c’è dubbio che l’attenzione è concentrata qui. Che cosa avviene? Avviene che per la prima volta Pietro evangelizza i pagani.

Nel primo racconto Pietro si trova a Lidda. È interessante perché anche Pietro, che ha lasciato Gerusalemme, è ormai segnato da una missione fuori da Gerusalemme. Dopo quello che è successo, oramai le strade si allargano. Pietro va a Lidda, una località dove attualmente c’è l’aeroporto.

Nel secondo racconto Pietro è a Giaffa, sulla riva del mare, l’attuale Tel Aviv.

Nel terzo racconto Pietro è a Cesarea. Come vedete man mano cresce la distanza geografica rispetto a Gerusalemme.

Lidda, Giaffa, Cesarea. La distanza che va crescendo rispetto a Gerusalemme serve a raffigurare questa proiezione verso gli estremi confini, in una prospettiva per cui non ci sono più limiti, non ci sono più impedimenti. Nel suo piccolo, Pietro sta realizzando una testimonianza esemplare.

Che cosa succede a Lidda? Un uomo di nome Enea “da otto anni giaceva su un lettuccio ed era paralitico.” Ebbene, Pietro dice: "Enea, Gesù Cristo ti guarisce alzati e rifatti il letto”. Un paralitico che

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guarisce. “Lo videro tutti gli abitanti di Lidda e del Saròn e si convertirono al Signore”.

Nel secondo racconto, a Giaffa, una discepola chiamata Tabità, una brava signora, una vedova, è morta. “A Giaffa c’era una discepola chiamata Tabità, nome che significa "Gazzella", la quale abbondava in opere buone e faceva molte elemosine”. Arriva Pietro e Tabità è viva, risuscitata! Avviene per la prima volta la risurrezione di un morto.

Ma subito dopo, accade qualcosa di molto più importante. Il racconto è costruito da Luca in modo da far intendere che quello che succede a Cesarea è molto più importante della guarigione di un paralitico, molto più importante della risurrezione di un morto. Perché poi Tabità è morta un’altra volta. Quello che avviene a Cesarea è avvenimento straordinario, immensamente più originale e più imprevedibile che la risurrezione di un morto. Quello che avviene a Cesarea rimane come una novità che trascina dietro di sé tutto lo svolgimento del tempo.

Pietro, da parte sua, dimostra di essere disponibile a questa novità. Sulla strada Pietro si è rivolto a coloro che incontra per essere ospitato. Questa disponibilità di Pietro, che è anche una necessità di ordine pratico: deve essere ospitato, vuole essere ospitato, chiede di essere ospitato, è comunque segno della sua disponibilità ad andare incontro alle situazioni e a prendere contatto con le persone che incontra. La sua disponibilità a condividere le situazioni del mondo. Questo suo atteggiamento comunque è già impostato. A Lidda è ospite, a Giaffa è ospite.

Vedete però che non è così normale accettare l‘ospitalità, accettare di essere ospitato. È riconoscente per l’accoglienza che riceve. A Giaffa c’è qualcosa di particolare, Pietro è ospitato da Simone, un conciatore di pelli, che è un mestiere impuro. Anche la sua casa è impura, perciò Pietro accetta l’ospitalità sul terrazzo di casa. Ma comunque accetta l’ospitalità in una casa che di per sé sarebbe poco raccomandabile. Vedete come la situazione sta crescendo, sta maturando, come gli spazi sono sempre più ampi, fino a quando arriviamo a Cesarea.

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Atti 10: Pietro evangelizza i pagani A Cesarea c’è un ufficiale romano, il centurione Cornelio, la

legione decima della coorte italica, forse un calabrese. Cesarea è la sede del procuratore romano, dove è acquartierata buona parte della legione: è il grande centro amministrativo della regione. Cornelio sta da alcuni anni a Cesarea, è una persona buona, che prega, che fa elemosina, gli piace ascoltare, aiutare, è una persona stimata. Sta pregando e un angelo del Signore gli dice: “Manda qualcuno dei tuoi a cercare un certo Simone detto anche Pietro che sta a Giaffa e ospite nella casa di Simone il conciatore” (v. 9).

Mentre gli inviati di Cornelio sono per strada, (v. 11), Pietro sale, verso mezzogiorno, sulla terrazza a pregare e si addormenta, mentre dorme ha la visione del cielo aperto e una tovaglia, piena di animali anche impuri che scende dal cielo, e la voce gli dice: “Pietro uccidi e mangia”. Ma Pietro non ha mai mangiato nulla di impuro. Poi ascolta per tre volte le stesse parole: «Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo più profano». Il cielo si apre. E Pietro ancora non capisce.

v. 17: Intanto gli uomini mandati da Cornelio sono giunti alla porta della casa di Simone il conciatore, dove Pietro è ospite, e lui li fa entrare (v. 23). Vedete la concomitanza? Non c’è più nulla di profano: Pietro li ospita in casa d’altri. Allora il giorno seguente si mise in viaggio con loro e alcuni fratelli di Giaffa lo accompagnarono. Un piccolo corteo pontificio. Il giorno dopo arrivò a Cesarea dove Cornelio stava ad aspettare e aveva invitato i congiunti e gli amici intimi.

“Mentre Pietro stava per entrare...” Attenti perché qui c’è una soglia da varcare, c’è una porta da aprire. Come posso io accettare di varcare la soglia della casa di un pagano? (v. 25), Cornelio, esce ad accoglierlo e lo ferma fuori (come un altro centurione aveva fermato Gesù alla porta, cf. Mt 8,8), perché sa che i giudei non possono entrare nella casa dei pagani. Lì, sulla porta, Pietro ricorda il cielo aperto del v. 11: se il cielo si è aperto allora non c’è nessun

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ostacolo per fare crescere il Vangelo, coinvolgendo tutte le creature di Dio.

Ormai non ci sono più barriere per l’Evangelo, tutto si spalanca davanti a Pietro in modo tale da coinvolgere tutte le creature di Dio. Non ci sono più confini, non ci sono più limiti, non ci sono più impedimenti né di ordine geografico né di ordine temporale, né culturale, né sociale. Pietro entra nella casa di Cornelio, tanto è vero che Cornelio non se l’aspetta, gli va incontro e si getta ai suoi piedi. Pietro lo fa rialzare e mentre conversano entra in casa. Nessun giudeo poteva entrare nella casa di un pagano, quello che avviene qui è una piccola rivoluzione (vv. 27-29), una svolta!

Questo ingresso vale più della risurrezione di un morto, della guarigione di un paralitico! Questo ingresso segna un avvenimento nuovo, che dà un’impronta nuova alla storia umana. Pietro accetta l’ospitalità nella casa di un pagano, mangia alla tavola di un pagano!

Adesso Pietro comprende il significato della visione avuta sulla terrazza della casa del conciatore. Dio mi ha mostrato che non si deve dire profano o immondo a nessun uomo, per questo sono venuto senza esitare, quando mi hai mandato a chiamare.

Adesso Cornelio spiega perché lo ha mandato a chiamare e Pietro sviluppa una catechesi, è la prima catechesi rivolta ai pagani. In primo luogo Pietro apre la porta per evangelizzare Israele e in secondo luogo, ora apre la porta ai pagani. Pietro attorniato da tutta la comunità che collabora con Lui, inaugura questa evangelizzazione al mondo dei pagani. È vero che è ancora un episodio piccolo, ma assume un valore esplosivo. Per la prima volta Pietro catechizza i pagani e poi spiega agli altri come sono andate le cose.

vv. 34ss: Pietro evangelizza Cornelio, e mentre sta ancora parlando, lo Spirito Santo scende anche sui pagani (vv. 44ss.) E i giudei che erano venuti con Pietro si meravigliarono che anche sui pagani si effondesse il dono dello Spirito Santo. Li sentivano infatti parlare lingue e magnificare Dio. Invocano il Nome di Gesù, anche

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loro come lo ha invocato la Madre del Signore nel magnificat! Allora Pietro dice: “Forse che si può impedire di battezzare con acqua quelli che sono stati battezzati nello Spirito? E ordinò che fossero battezzati nel Nome di Gesù”. Gesù è il Messia di Israele ed è il Signore di tutti. “Dopo tutto questo lo pregarono di fermarsi alcuni giorni” (v. 36). E Pietro si ferma ancora a casa di Cornelio.

Intanto gli apostoli e fratelli che stavano nella Giudea, a Gerusalemme, nella Chiesa madre, vennero a sapere che anche i pagani avevano accolto la Parola di Dio. Quando Pietro tornò a Gerusalemme, i giudei osservanti lo rimproverarono, e lui allora raccontò come anche i pagani si erano convertiti e lo Spirito Santo aveva fatto anche di loro dei profeti che lodano Dio.

Si è spalancato lo spazio che consentirà alla Chiesa di procedere in ogni direzione. Pietro e la Chiesa, con lui e accanto a lui, apre la porta che consente a tutti di entrare. “Chi ero io per porre impedimento a Dio?” (v. 17). “Allora all’udire tutto questo si “calmarono” e cominciarono a glorificare Dio” (v. 18). “si calmarono” è lo stesso verbo che si usa in greco per il riposo sabbatico: comincia il riposo del Messia, è il giorno in cui la visita di Dio si è compiuta nel Figlio di Dio morto e risorto per tutti, anche per i pagani. Ormai tutta la storia futura è ricapitolata in questo sabato. Non c’è più un’altra tappa nella storia umana da aspettare, è quell’unico giorno in cui la visita di Dio si è compiuta, la Pasqua del Figlio per la nostra conversione.

Pietro apre le porte: è il suo ministero, il suo carisma. È così per quanto riguarda il tempio di Gerusalemme, nel senso della evangelizzazione rivolta ad Israele e questo costituisce un riferimento originario insostituibile, per ogni altra futura evangelizzazione: il primo destinatario dell’Evangelo rimane Israele.

In secondo luogo abbiamo considerato il gesto intraprendente di Pietro che apre la porta per entrare nella casa di un pagano, il centurione Cornelio, a Cesarea. Così è impostata l’evangelizzazione che si orienta verso tutti gli uomini: per ora é soltanto un personaggio, una famiglia, una casa, ma la prospettiva è ecumenica.

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Per la prima volta viene evangelizzato un pagano. Anche i pagani sono inseriti nella comunione con il Figlio di Dio che è morto ed è risorto. Vale per Cornelio, ma vale per ogni altro uomo, per ogni altro essere umano, per ogni altra creatura di questo mondo.

Pietro trascina la Chiesa verso i pagani e nello stesso tempo è sostenuto dalla Chiesa in questa prospettiva di evangelizzazione, che ormai si orienta verso il mondo, verso l’umanità intera.

Ora andiamo avanti ma poi torneremo ancora indietro, per mettere in evidenza alcuni collegamenti che sono preziosi, di cui dobbiamo renderci conto, che non hanno un valore letterario, narrativo, ma sono collegamenti che hanno un valore teologico. In una raffigurazione iconografica tutto è teologia, anche le cornici sono teologia, anche i drappeggi, anche i gesti sono teologia. Dunque l’evangelizzazione cresce: prima è rivolta ad Israele, poi è rivolta ai pagani, a tutti gli uomini. Pietro apre la porta, con Pietro è la Chiesa che si muove verso confini sempre più ampi. Atti 12: Pietro, liberato dal carcere, evangelizza la Chiesa Ricordate che questa è la prima lettura della festa solenne dei santi Pietro e Paolo, del 29 di giugno, che purtroppo non si legge in modo completo, così come Luca ce la dipinge. Noi daremo uno sguardo più completo a tutto questo episodio. Leggiamo i versetti di questo episodio così come sono. Basta questo riferimento già elaborato per noi, e che già conosciamo. “In quel tempo il re Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa” (v. 1). Questo re Erode non è Erode il grande, né Erode Antipa è un altro Erode, è Agrippa I. Questo Erode, che regna dal 41 al 44 d.C., si appoggia sul partito dei farisei e perseguita alcuni membri della Chiesa e fa uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni.

Siamo ancora inseriti in quel clima di persecuzione di cui ci siamo occupati considerando il martirio di Stefano. Per la prima volta la persecuzione si è mostrata in modo così drammatico che

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Stefano è stato ucciso. Stefano è il primo martire, in assoluto. Adesso Giacomo, che è il primo martire nel gruppo dei 12. È il motivo per cui la devozione del popolo cristiano verso Gerusalemme è stata caratterizzata da questo richiamo, perché Gerusalemme è il luogo nel quale il primo tra i dodici è stato coinvolto nella persecuzione sino alla morte.

Il pellegrinaggio verso Gerusalemme, la prima Chiesa, i primi martiri è il pellegrinaggio verso san Giacomo. Quando, nei secoli successivi, non fu più possibile attraversare il mare per giungere a Gerusalemme, il pellegrinaggio si concludeva a Santiago de Compostela, in Spagna, dove si venera la memoria di Giacomo. “In quel tempo…”, qui il tempo è un kairos, un’occasione preziosa, quel tempo di particolare fecondità che abbiamo già potuto comprendere attraverso la testimonianza di Stefano. Il martirio come manifestazione di quella forza d’amore che oramai è in grado di affrontare tutte le avversità, in modo da esprimere un valore di comunione, di riconciliazione, un valore di benedizione che trasforma dal di dentro tutte le miserie umane, le cattiverie, le ingiustizie, le violenze. Tutto viene interpretato come occasione propizia, occasione positiva per crescere, secondo il disegno provvidenziale dell’amore di Dio. “(Erode) vedendo che questo (l’uccisione di Giacomo) era gradito ai giudei decise di arrestare anche Pietro”(v. 3). Pietro è in carcere. Non è la prima volta per lui, ma adesso questa carcerazione di Pietro acquista un rilievo davvero speciale. Pietro in carcere: è successo a lui, succede ad altri. Un cristiano in carcere, un povero cristiano che non conta nulla. Nessuno è in grado di evitare questo.

Erano quelli i giorni degli azzimi, vicini alla pasqua. Pietro è un cristiano che fa pasqua in carcere. “Fattolo catturare lo gettò in prigione consegnandolo in custodia(…) col proposito di farlo comparire davanti al popolo dopo la Pasqua” (v. 4). È la pasqua di quell’anno, la festa degli azzimi. È in concomitanza con la festa dei giudei che i discepoli celebrano la Pasqua vittoriosa del Messia, Gesù, il Figlio di Dio. Nei giorni di pasqua Pietro è in carcere, “Pietro era tenuto in prigione mentre una preghiera saliva incessantemente a Dio dalla Chiesa

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per lui”(v. 5). La Chiesa è in preghiera, è Chiesa composta da discepoli che non sanno cosa fare, che non sono in grado di intervenire, non possono evitare il fatto che Pietro sia incatenato, trattenuto in carcere, nella prospettiva di una condanna a morte.

Questa è la sorte di Pietro, ma è una occasione propizia per Pietro perchè si trova nella condizione di quella umanità che fin dal tempo di Adamo, l’antico Adamo, è un’umanità incatenata. La discendenza di Adamo, l’umanità nel corso della storia, si trova in una situazione di schiavitù, di ostilità, di prigionia e, ricordate, che il Messia è stato annunciato proprio, insieme con la missione a Lui affidata, come colui consacrato a liberare dal carcere i prigionieri. Il famoso poema di Is 61:”Lo Spirito del Signore Dio è su di me, mi ha consacrato (...) a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri”. Nel Vangelo secondo Luca, Gesù, nella sinagoga di Nazareth, legge nel rotolo del profeta Isaia proprio questi versetti. (Lc 4). Il Messia viene per liberare coloro che sono carcerati. Il Messia viene per liberare coloro che sono prigionieri delle tenebre e dell’ombra di morte.

Questo stato di oscurità, di oppressione, di incatenamento è lo stato in cui si trova l’umanità da Adamo in poi. Adamo è sprofondato nella sua miseria e tutta la discendenza di Adamo porta con sé le conseguenze infami, disgustose, vergognose, di questo stato di cose, le conseguenze di questa miseria che viene da lontano e che si trascina nel corso delle generazioni. Pietro è oramai inserito nella novità dell’Evangelo, nell’oggi della visita di Dio, ma Pietro si trova qui, per quello che è successo, a condividere la situazione che è sperimentata da tutti gli altri uomini, da tutta la miserabile discendenza di Adamo. E vedete che non ci sono sconti, non ci sono favori per Pietro, non ci sono soluzioni privilegiate per lui, non ci sono garanzie istituzionali. Pietro è in carcere.

È la sorte di Adamo, da Adamo in poi, l’abisso oscuro in cui è sprofondata la discendenza di Adamo è una prigione. È vero, Pietro è testimone della risurrezione, ma, intanto, Pietro condivide la miseria di Adamo. D’altra parte noi lo sappiamo sin dall’inizio:

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siamo un accampamento di miserabili e nello stesso tempo sperimentiamo la comunione con il Cristo vivente, glorioso, risorto! E in questo caso per Pietro, l’accampamento di miserabili è diventato un carcere in cui è stato gettato lui con tanta altra povera gente, che aspetta di crepare e che creperà, come dei vermi schiacciati sotto terra: generazione dopo generazione. Cosa non è successo nel corso della storia! La storia umana ha spazzato via generazioni e generazioni di figli di Adamo. Pietro si trova con loro, tra i figli di Adamo, schiacciati dal male.

Il Messia di Israele, che è il Signore di tutti, è venuto, è morto ed è risorto per ogni miserabile figlio di Adamo che crepa come un verme. Ma Pietro sta celebrando la Pasqua in carcere, sta celebrando la festa del Signore, la festa del Messia, del Figlio intronizzato, l’evento che si è compiuto una volta per tutte, che ha un valore universale, quell’evento che esprime la fecondità dell’Amore vittorioso, per tutti i miserabili figli di Adamo che crepano come vermi.

“In quella notte…Pietro, legato con due catene, stava dormendo, mentre davanti alla porta le sentinelle custodivano il carcere” (v. 6). C’è una porta. Quando c’è Pietro c’è sempre una porta, questa volta è la porta di un carcere. È notte e Pietro sta dormendo, legato con due catene, in mezzo a due soldati. Ricordate il racconto del c. 2 della Genesi? Adamo dormiente nel giardino. E ricordate nel Vangelo secondo Giovanni, il nuovo Adamo, Gesù, dormiente, appeso alla croce? Nel racconto della passione, in tutti e quattro i Vangeli, Gesù è il nuovo Adamo che si addormenta nella morte mentre pende dalla croce, in mezzo ai due malfattori.

“Ecco gli si presentò un angelo del Signore e una luce sfolgorò nella cella…” (v. 7). Toccò il fianco di Pietro e lo destò. Notate che il termine angelo in greco, anghelos, ha la stessa assonanza del termine vangelo. È Pietro che sta custodendo in se stesso la fecondità dell’Evangelo. Pietro sta scoprendo, sta verificando, dal di dentro della sua drammatica situazione in cui è precipitato, sta sperimentando qual è la folgorante energia dell’Evangelo. Questo

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vale per lui, vale per ogni povero figlio di Adamo, di oggi e domani, ovunque si trovi, per ogni pover’uomo di questo mondo, che è trattato come poltiglia da schiacciare.

Un angelo del Signore: ricordate il famoso oracolo messianico? Isaia c. 9, è la prima lettura della messa di mezzanotte a Natale: “Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce, su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse”. È Pasqua ma è anche Natale: è tutto!

È la luce del Signore vivente, è la luce del Messia glorioso, è la luce dell’Evangelo che coinvolge tutti gli uomini, discendenti dall’antico Adamo, nell’evento nuovo di cui è portatore il nuovo Adamo. La luce sfolgorò nella cella e l’angelo toccò il fianco di Pietro, colpisce il fianco. Ricordate l’antico Adamo che è colpito al fianco e dal fianco viene tratta Eva? Il termine fianco compare nel NT solo un’altra volta, in Giovanni 19,34, viene colpito con la lancia il fianco del Signore dormiente, che pende dalla croce. È il sonno del nuovo Adamo, dal cui fianco sgorgano sangue ed acqua, l’umanità nuova che ormai è compagna del Messia.

Il Messia attraverso la morte ha legato a sé, ha sposato a sé ogni creatura umana, ha instaurato un vincolo di comunione che riguarda tutti gli uomini, perché nessun uomo sfugge, nessun uomo può sottrarsi a questo rapporto di comunione con Lui, che è sigillato mediante la morte. Gli uomini muoiono, ieri, oggi e domani, bianchi e neri, in ogni parte della terra, tutti muoiono e Cristo, attraverso la morte, li incontra tutti, perché, avendo sposato la nostra umanità segnata dalla morte, ci ha incontrati proprio lì e ci incontrerà tutti per coinvolgerci nella sua risurrezione.

In carcere Pietro sta celebrando la Pasqua, non come un rito, ma come il momento decisivo della sua conversione evangelica. Un fianco squarciato: Pietro si sveglia, ricordate? Al risveglio dell’antico Adamo: “ossa delle mie ossa, carne della mia carne”. Ricordate anche Maria di Magdala nel giardino, c. 20 di Giovanni? Adesso è il risveglio di Pietro, di un cristiano che celebra la Pasqua. Le catene gli caddero dalle mani e l’angelo dice a lui: “avvolgiti il

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mantello e seguimi!” Pietro prese a seguirlo ma non si era accorto che era realtà quello che stava accadendo.

Vedete, si è svegliato ma mica tanto, anche noi siamo così. Questo fa parte del carisma petrino! Credeva infatti di avere avuto una visione: ma è proprio vero che l’umanità è redenta? È proprio vero che l’umanità è amata, che tutti i miserabili figli di Adamo, che muoiono come fango della terra e ritornano alla terra, sono redenti dalla morte, che ogni creatura umana è salvata dalla morte? È proprio vero, constata Pietro, perché anche per un solo figlio di Adamo, peccatore, miserabile, il Figlio di Dio è morto ed è risorto, lo Spirito di Dio è stato effuso, la paternità di Dio si è squarciata, il grembo della paternità di Dio si è spalancato.

Credeva di avere una visione ed invece è la realtà. Questo capita anche a noi: andiamo a caccia di visioni ma intanto la realtà è immensamente più grande delle visioni. La realtà è che per ogni povera creatura umana di questo mondo la visita di Dio si è compiuta e noi siamo sottratti alla morte.

Oltrepassarono la prima guardia, arrivarono alla prima porta, poi alla seconda. Vedete come si aprono le porte? Arrivò alla porta di ferro che immette in città e la porta si aprì da sé, automaticamente. Uscirono, percorsero una strada e ad un tratto l’angelo si dileguò da lui e rimase solo Pietro, in giro per la città. Interessante anche questo, perché quando Adamo si sveglia nel giardino, accanto a sé ha la compagna, Eva. Adesso Pietro si sveglia e accanto a sé ha la città, la periferia di una città, i vicoli di una città, i palazzi di una città, le casupole di una città, accanto a sé ha “carne della mia carne e sangue del mio sangue”. Ha accanto a sé il mondo.

Pietro rientrato in sé. Anche questa espressione richiama il c. 15 di Luca, la famosa parabola del Padre misericordioso e del figlio che se ne va in una città lontana e poi, rientrato in sé, ritorna. Questo è il momento forte di conversione evangelica. Pietro dice: “Ora sono veramente certo che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha strappato dalla mano di Erode e da tutto ciò che si attendeva il popolo dei giudei” (v. 11). Questo vale per ogni altro figlio di Adamo, ieri, oggi

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e domani. Vale per ogni piccola creatura umana, misera e sconosciuta. Mi sono reso conto che è tutto vero. E dopo aver riflettuto si recò alla casa di Maria. Questa Maria è la madre di Giovanni, detto anche Marco, ed è sorella di Barnaba: nella sua casa si raccoglie la comunità dei discepoli che stanno celebrando la Pasqua.

E adesso Pietro si reca nella casa di questa Maria. Pietro è dietro una porta chiusa e questa porta è la porta della Chiesa, è la casa di Maria, là dove sono raccolti i discepoli in preghiera, perché stanno celebrando la Pasqua. E questa volta Pietro non è più nella condizione di chi, accompagnato dalla Chiesa, sostenuto dalla Chiesa, visita la casa di Cornelio, apre la porta per entrare, nella prospettiva di evangelizzazione rivolta al mondo pagano. Adesso Pietro, dall’esterno, bussa alla porta della Chiesa: dall’esterno, come un mendicante di questo mondo, come uno degli innumerevoli poveri e viandanti di questo mondo che sono dispersi nelle avventure più inenarrabili. Bussa dall’esterno perché quella porta si deve aprire.

Anche questo è proprio del ministero petrino. C’è una evangelizzazione che è sempre necessaria, sempre urgente proprio per la Chiesa. E questa volta Pietro si presenta e bussa a alla porta della Chiesa, perché vuole che quella porta si apra, e lo fa in nome di ogni povero figlio di Adamo che è stato liberato. Perché per ogni povero figlio di Adamo Gesù è stato inchiodato, Gesù è stato tradito, Gesù è morto ed è risorto.

Anche per noi, nella notte della veglia pasquale, tutto comincia all’esterno. Nelle nostre Chiese, di rito latino, si fa così: si accende un fuoco all’esterno, la chiesa è al buio e dall’esterno si entra nell’edificio, che ha un valore simbolico ed esprime l’assemblea. Nel rito delle Chiese orientali si bussa alla chiesa che è chiusa, con un crocifisso in mano, finché non si apre. Perché? Per simboleggiare che Pietro bussa ancora alla porta della Chiesa. Perché la Chiesa deve essere sempre evangelizzata e rievangelizzata, perché anche per la Chiesa è inesauribile l’attualità del Vangelo. Troviamo qui

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Pietro che bussa perché si tratta di rilanciare con energia, con pazienza, con coraggio l’opera di evangelizzazione che è diretta alla stessa Chiesa, la quale, nello stesso tempo, accompagna Pietro nell’evangelizzazione rivolta ad Israele, rivolta ai popoli pagani.

“Appena ebbe bussato alla porta esterna una fanciulla di nome Rode, si avvicinò per sentire chi era, riconosciuta la voce di Pietro quella giovane non aprì” (v. 13). La porta non si apre. Si è aperta la porta del carcere automaticamente, si sono aperte tutte le porte, tutti i soldati si sono tirati indietro, Pietro si è trovato in mezzo alla città, dopo essere stato trattenuto in un pozzo oscuro e ora la porta della Chiesa non si apre. C’è Pietro! Tu vaneggi, sei pazza, le dicono. È la stessa cosa che dicono alle donne che sono andate al sepolcro: siete pazze!

Ma la ragazza insiste, nel frattempo stanno pregando proprio per Pietro. Povero Pietro! Preghiamo per lui, noi siamo solidali, vicini a lui, ma intanto lui sta bussando alla porta, come un mendicante bisognoso e noi non gli apriamo. Ma Pietro continua a bussare finché la porta non si apre, perché questo è il suo ministero: Aprire la porta della Chiesa!

“Questi intanto continuava a bussare” (v.16). E quando finalmente aprirono la porta e lo videro, Pietro fece segno con la mano di tacere, segno che non ha tempo da perdere. Vedete non c’è bisogno di commenti, non c’è bisogno di spiegazioni, di interviste. Fece cenno di tacere e narrò come il Signore lo aveva tratto fuori dal carcere e disse: “riferite questo a Giacomo”. Si tratta di Giacomo il minore, perché Giacomo maggiore è stato già ucciso da Erode. Questo Giacomo, parente di Gesù, svolge un ruolo prestigioso nella prima comunità a Gerusalemme. Pietro dice: “Riferite questo a Giacomo e ai fratelli e si incamminò verso un altro luogo” (v. 17).

Non ha tempo da perdere perché ormai davanti a lui si apre uno spazio immenso. Partì verso un altro luogo. Quale luogo? Non c’è bisogno di precisare perché siamo di fronte ad un affaccio che non ha più confini, sia per quanto riguarda l’estensione dell’orizzonte sia per quanto riguarda l’intensità del cammino che bisogna fare, perché si tratta di scavare nel fondo del cuore umano.

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Estensione ed intensità: un altro luogo. Pietro ha aperto un’altra porta: la casa di Maria, la Chiesa. E ora va, esce di scena.

È vero che nel racconto degli Atti, Pietro rispunta ancora nel capitolo 15, ma è una comparsa che fa da sponda a un discorso che di per sé è ormai completo: l’universalità dell’evangelizzazione.

Nel frattempo, nel racconto degli Atti, come sappiamo, è segnalata la presenza di Saulo e quando Pietro bussa alla porta di quella Chiesa, la casa di Maria, sorella di Barnaba, sapete che in quella casa c’era anche Paolo, anche lui era tra quelli che stavano celebrando la Pasqua, perciò anche Paolo viene evangelizzato da Pietro.

Atti 9: La conversione di Saulo Teniamo sempre presente la figura di Pietro, una figura che è

presente anche quando se ne va’. Nel c. 12, leggevamo ieri, che Pietro sparisce, ma è presente. Rimane anche quando non c’è. Perché Pietro apre le porte e quando sparisce vuol dire che sta aprendo una porta più grande, una porta che ancora non vediamo. Diceva al v. 17 del c. 12: “poi uscì e si incamminò verso un altro luogo”, uscì e si incamminò verso un altro luogo. Queste sono parole molto studiate. Il nostro evangelista Luca è teologo, è iconografo, dipinge con le parole.

Adesso noi spostiamo l’attenzione verso Paolo ma non possiamo mai dimenticare Pietro. Abbiamo già incontrato il nome di un personaggio che si chiama Saulo. Alla fine del c. 7 e alla fine del c. 8 mentre Stefano subiva il martirio, Saulo… Solo un accenno ma un accenno insistente perché il nome di Saulo compare tre volte di seguito: Saulo, Saulo, Saulo. È vero che il nome di questo personaggio viene citato per individuare un atteggiamento di opposizione di rifiuto, anzi un atteggiamento di violenza … Ora Saulo ricompare all’inizio del c. 9.

Chi è questo Saulo? “Saulo sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al Sommo Sacerdote e gli chiese

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lettere per le Sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne, seguaci della dottrina di Cristo” (vv. 1-2). Saulo è un giudeo molto impegnato, è un giovane studioso, è teologo pieno di fervore, di fervore pastorale. È un uomo generoso e con tante capacità di ordine intellettuale e con tanta energia. È un uomo con dei problemi di ordine teologico, di ordine pastorale: il suo problema fondamentale è il problema della salvezza. Come avviene che Dio salva il mondo?

È il tema della giustificazione come dirà poi nelle sue lettere. La giustificazione, la salvezza, l’opera di Dio per la salvezza del mondo. Paolo è convinto che l’opera di Dio per la salvezza del mondo si compie attraverso quella particolare vocazione che è stata assegnata al popolo dell’Alleanza, Israele. La salvezza per gli uomini di questo mondo, per tutta l’umanità, dipende dalla risposta di Israele alla sua vocazione. Dio salva il mondo in Israele, attraverso Israele.

Proprio perché i fedeli del popolo di Dio realizzano pienamente la propria vocazione, proprio perché il popolo dell’Alleanza è consacrato all’osservanza della legge, il mondo è salvato. Ecco che attraverso Israele, in forza dell’osservanza dei precetti, in cui sono impegnati e a cui sono tenuti i fedeli di Israele, Dio salva tutti. Per questo l’osservanza dei precetti per un uomo, per un credente, per un teologo, per un testimone così generoso nel servizio pastorale come è Paolo, l’osservanza dei precetti della legge non è una questione di fanatismo moralistico, individualistico, per la salvezza personale. L’osservanza dei precetti della legge per un uomo come Paolo è una missione per la salvezza del mondo, perché nel suo quadro teologico Dio salva l’umanità attraverso quella particolare missione che ha affidato al popolo dell’Alleanza d’Israele.

Se noi ebrei, pensa Saulo, siamo coerenti, premurosi, autentici nell’osservanza della legge, dunque nel rispondere a Dio che ha fatto alleanza con noi, se noi siamo al nostro posto, Dio salva tutti. Il fatto è che poi, come Paolo dice nelle sue lettere, questa osservanza dei precetti della legge non si riesce a vivere. Allora il dramma, l’angoscia, il turbamento e d’altra parte l’accanimento, l’insistenza,

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la passione… di un vero giudeo, di un vero osservante… Paolo sta ragionando su queste cose, sta rimuginando questi pensieri, gli bollono dentro le domande sulle questioni teologiche, pastorali.

Sulla strada di Damasco. Siamo sempre più lontani da Gerusalemme. Lo schema geografico del racconto, su cui insistevo, è puntualmente confermato. Nel c. 8 siamo usciti da Gerusalemme. Filippo si sposta in Samaria, poi scende verso Gaza, poi risale verso Cesarea. Più avanti nel c. 10, Pietro si sposta a Giaffa, poi a Lidda e a Cesarea. Adesso Paolo a Damasco.

Intanto a Damasco c’è qualcuno che ha aderito al nome di Gesù, che ha dedicato la propria vita all’incontro con Gesù. Già a Damasco Gesù è riconosciuto Messia, Gesù é il Signore. Ancora il linguaggio non è chiaro, ancora la dottrina non è elaborata ma la vita si esprime in questi termini. La relazione con Gesù, Messia e Signore, la relazione con Lui che ha vinto la morte, la relazione con lui ci fa vivere. Si intravede quella prospettiva di una vita nuova e una salvezza per tutti gli uomini attraverso la relazione con Gesù. È risorto dai morti perché Gesù è Messia e Signore. Si intravede tutto quello che Luca ci racconta e che si svolge all’interno del popolo di Israele, nelle sue diverse componenti.

Ma c’è già qualcuno a Damasco che segue la via di Gesù e Saulo va a Damasco con l’incarico di reprimere questi seguaci della “dottrina” di Gesù. Paolo è tutto preso dalla preoccupazione di raccogliere quelli del suo popolo, in una prospettiva di impegno sempre più risoluto e sempre più intransigente nell’osservanza della legge, perché altrimenti si disperdono le forze, perché ci si smarrisce per la strada, perché così si perde l’appuntamento con la missione che Dio ci ha affidato, la nostra missione rinnegata, tradita e così via.

Proprio mentre nell’animo di Saulo si agitano tumultuosamente tutte queste preoccupazioni, c’è una folgorazione, la luce. È come un lampo e, notate bene, che è una luce che riduce Saulo alla cecità. Saulo rimane al buio, Saulo è cieco, Saulo non vede, però è una luce. Per adesso è solo un lampo improvviso, ma è proprio un ribaltamento completo della prospettiva. Come avviene

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che Dio salva gli uomini? Come avviene che la misericordia di Dio riporta gli uomini alla pienezza della vita? Nella teologia di Saulo questo avviene attraverso l’impegno del popolo di Israele, il popolo della legge che è tenuto all’osservanza della legge.

Ma se la salvezza degli uomini passa attraverso Gesù, attraverso di Lui, in Lui, in forza di Lui che è il Cristo, che è il Signore, allora è il ribaltamento di tutto. Non è in forza delle osservanze della legge a cui è tenuto il popolo di Israele, ma in forza di Gesù, morto e risorto, Messia di Israele, Signore di tutti. Per Saulo questo è un momento in cui si illumina tutto ma è anche vero che ancora non riesce a dire niente, non riesce a spiegare però si illumina tutto e si ribalta tutto.

Saulo è stato formato alla scuola di Gamaliele e sa tante cose. Conosce i discepoli del Signore e li combatte proprio perché li conosce, sa anche quali sono le loro convinzioni. Saulo è formato e adesso la prospettiva si ribalta. Ha passato la sua vita a combattere contro quei tali, i discepoli di Gesù, di cui conosce benissimo che si sono impegnati nella relazione con Gesù e, adesso, avviene in lui un ribaltamento.

Ora, all’improvviso, Saulo si rende conto che: “proprio colui che io rifiuto, colui che io voglio contestare, colui contro il quale io voglio combattere, proprio colui che io rinnego con tutta la mia forza, proprio Lui mi accoglie”. “Saulo, Saulo perché mi perseguiti?”. “Chi sei Signore?” (vv. 4b-6)… Signore… “io sono Gesù che tu perseguiti. Alzati e va’ in città e ti sarà detto che cosa devi fare”. Vedete il ribaltamento è completo. Paolo combatte contro Gesù attraverso quei discepoli che nel nome di Gesù si raccolgono, nel nome di Gesù battezzano, nel nome di Gesù evangelizzano. Nella relazione con Gesù vivono.

Per combattere contro Gesù, Paolo ha impegnato la sua vita. Quel che conta è l’osservanza dei precetti. Quel che conta è che Israele sia radicato nell’impegno dell’Alleanza per la salvezza del mondo.

Gesù, il Crocifisso, Gesù, lo svergognato, Gesù, quel personaggio disonorato… e Paolo sa bene queste cose. Paolo non ha conosciuto direttamente Gesù ma sa bene come sono andate le cose.

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Ma ora comprende che proprio lui è lo strumento di Dio per accogliere gli uomini, per contenere il mondo, per ricapitolare la storia umana in un unico disegno di salvezza. Proprio colui che è stato rifiutato, proprio colui che io ho rifiutato, proprio colui che io rifiuto, proprio lui è la rivelazione dell’amore di Dio che mi ha accolto.

In questa rivelazione dell’amore di Dio, che mi accoglie, vi è lo spazio per accogliere tutto il mondo, perché lo spazio è in Cristo Signore, attraverso di Lui. La cosiddetta conversione di Saulo, assume le caratteristiche di una fondamentale, radicale, esperienza di debito. Saulo scopre intimamente, profondamente, radicalmente di essere un debitore. Per un uomo serio come Paolo, un credente fino all’impegno più assoluto della legge, questo è un ribaltamento totale. L’opera di salvezza, secondo le intenzioni di Dio, si compie non secondo le osservanze a cui è tenuto il popolo dell’Alleanza ma per la sua gratuita iniziativa d’Amore realizzata in Cristo.

Non perché c’è un privilegio per noi a danno degli altri, ma perché attraverso questo nostro privilegio è l’umanità intera che ne trarrà vantaggio, una responsabilità missionaria fin dall’inizio per Paolo. Il disegno della misericordia di Dio, che giustifica le sue creature per riportarle alla pienezza della vita, questo disegno si è compiuto mediante quella visita, che ha come protagonista Gesù, il Figlio rifiutato, schiacciato, rinnegato, tradito, ucciso. L’opera della salvezza, rivelazione di Dio e della sua misericordia universale, riguarda me e riguarda tutti gli uomini, nella gratuità.

Nella gratuità piena, Saulo scopre di essere debitore. “Io sono Gesù che tu perseguiti”. Quel Gesù, che tu perseguiti, è il Signore che ricapitola la storia di tutti gli uomini peccatori, tutti gli uomini che rifiutano, tutti gli uomini che muoiono, all’interno di un disegno di misericordia. Gesù, che tu perseguiti, è proprio lui che si prende cura di te, che vuole te, che cerca te, che ama te, che salva te. Me! Questo è il senso della storia umana, questo è il senso della storia della salvezza.

Saulo scopre di essere un uomo debitore, un debitore nei confronti di Dio. Ancora tante cose non le sa, tanto è vero che

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rimane come muto, cieco e non sa come muoversi. Qualche volta pensando alla conversione di Saulo sulla via di Damasco, pensiamo a un personaggio che subito si lancia in una avventurosa opera di conquista. Qualche volta anche noi diciamo: capitasse anche a me come è capitato a Saulo sulla via di Damasco, allora sì che mi convertirei! In realtà un uomo veramente convertito come è Saulo, non fa una bella figura.

Cosa fa Saulo? Non sa fare niente. Rimane imbambolato, schiacciato, tutto stralunato, steso a terra, non ci vede, non sa dove andare, e noi diciamo: magari capitasse anche a me, allora sì che avrei le idee chiare. Invece Saulo non ha le idee chiare, non sa dove sbattere la testa. Ma perché? Perché la conversione non è un fatto ideologico, è un incontro vitale, personale, con Cristo.

Sapete che cosa succede? Ci sono altri con lui nella carovana: hanno udito dei rumori ma non vedono niente. Paolo parla da solo. Se uno parla da solo per la strada, è un matto. E non vedono nessuno, e Saulo si alza da terra, apre gli occhi, ma non ci vede. Ecco come vanno le cose quando uno si converte. Un uomo che non sa come muoversi, uno che non sa decidersi, un uomo che non trova il linguaggio adatto per spiegare quello che gli è successo.

Allora presolo per mano lo conducono a Damasco: ci sono altri che si prendono cura di lui. “Guidandolo per mano lo condussero a Damasco, dove rimase per tre giorni senza vedere, senza prendere né cibo né bevanda.” (vv. 8b-9). C’è qualcuno che l’ha preso per mano. Badate bene che se non l’avessero preso per mano, Saulo sarebbe rimasto là. Un uomo che si converte è un debitore! Sullo sfondo possiamo vedere questa esperienza di un debito assoluto, in rapporto ad un disegno d’amore che è gratuito. Si è rivelato a noi quel disegno d’amore attraverso la visita di Dio, attraverso il Figlio, Gesù, che è il Cristo ed il Signore. Gesù, che è stato rifiutato, che è morto. In quella prospettiva, su quello sfondo, c’è qualcuno che mi prende per mano e mi porta a casa.

A Damasco, Saulo sta tre giorni senza mangiare e senza bere. Ancora il problema non è risolto, ma intanto ci sono quelli che l’hanno preso per mano. Se non c’è qualcuno che si prende cura di

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me, che ha pietà di me, che mi sopporta, che mi raccoglie sulla strada quando io sono un derelitto qualunque... Ma io sono il grande Saulo… Tu sei un mentecatto qualunque. Se non c’è qualcuno che si prende cura di un mentecatto, che parla da solo per la strada, se non c’è qualcuno che ti prende per mano, non sai dove andare!

La storia del nostro Saulo adesso procede secondo questo schema, lungo questo filo conduttore: l’esperienza del debito. Man mano che dietro a Saulo delle porte si chiudono (ricordate che davanti a Pietro invece le porte si aprono). Adesso invece dietro Saulo si chiudono delle porte. E’ un po’ diverso. Per Pietro porte che si aprono, per Saulo porte che gli si chiudono dietro le spalle. E lui che non sa dove sbattere la testa, lui che è costretto a sperimentare che cosa vuol dire essere debitore.

Adesso si trova a Damasco e a Damasco c’era un discepolo che si chiama Anania. Compare qui un altro personaggio, uno dei piccoli personaggi che però nello stesso tempo sono grandi. Questo Anania, in preghiera, riceve un messaggio: va a trovare Saulo, abita in quella casa. Anania è informato perché i discepoli se l’aspettavano e sanno che Saulo è venuto a Damasco per reprimere, per contrastare, per giudicare, ha le carte in regola, è stato incaricato addirittura dal Sommo Sacerdote per fare questa opera di controllo. Anania ha tutte le buone ragioni per starsene alla larga, altro che andare a trovare Saulo! Io so- dice Anania – che lui è venuto apposta per disturbare il nostro cammino di vita.

Cosa ne sa Anania di quello che è successo per strada! Anche Saulo, da parte sua, non riesce a trovare le parole per spiegare che cosa gli è successo. Ebbene, il Signore disse ad Anania: “Va’ ” E quando Anania va’ “entrò nella casa, impose le mani e disse: Saulo fratello mio” (v. 17).

Questo gesto di Anania, Saulo non lo dimenticherà mai. C’è qualcuno che lo ha chiamato “fratello” quando aveva tutte le buone ragioni per mantenere le distanze o, in quel momento di debolezza, avrebbe potuto approfittare per fargli notare il suo errore. Anania invece va’ e dice: ”Saulo, fratello mio, mi ha mandato a te il Signore che ti è apparso sulla via per la quale venivi, perché tu riacquisti la vista e sia

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colmo di Spirito Santo” (v. 17). Con Anania c’è tutta una piccola Chiesa che si muove. Saulo, il convertito, è un uomo nuovo, che sta imparando cosa vuol dire essere debitore, cosa vuol dire essere gratuitamente avvicinato, gratuitamente interpellato, gratuitamente accompagnato, come quelli che l’hanno preso per mano. Con Anania c’è tutta una piccola Chiesa, che si rivolge a lui nei termini di un rapporto fraterno: “Saulo fratello mio!”.

E adesso Saulo riacquista la vista, poi il battesimo, poi mangia e beve e le forze ritornano, poi subito si dà da fare a Damasco. Nella lettera ai Galati, Paolo dice che in realtà passano tre anni. Nel racconto degli Atti degli Apostoli gli avvenimenti sono concentrati: a Damasco subito proclamava che Gesù era Figlio di Dio. Intanto la gente si commuove, ci sono quelli preoccupati, poi ci sono altri che invece sono interessati.

Al v. 22 “Saulo si rinfrancava sempre di più e confondeva i Giudei residenti a Damasco dimostrando che Gesù è il Messia, che Gesù è il Cristo. Trascorsero così diversi giorni e i giudei fecero un complotto per ucciderlo.” Dunque a Damasco le cose si mettono male per Saulo. Un complotto per ucciderlo. Ma i loro piani vennero a conoscenza di Saulo. Essi facevano la guardia anche alle porte della città di giorno e di notte per sopprimerlo, ma i discepoli di notte lo presero e lo fecero discendere dalle mura calandolo su una cesta. Non è una partenza gloriosa, non è un comportamento molto eroico. Però c’è qualcuno che gli ha chiuso la porta dietro le spalle e lui passa oltre e dall’alto delle mura si fa calare dentro una cesta e se ne va’. Una porta chiusa dietro le spalle.

È successo questo e intanto ci sono quelli che l’hanno accompagnato e gli hanno consentito di allontanarsi. Certamente la vita di Saulo è cambiata, ma non dimenticate mai che l’organizzazione della sua vita, l’interpretazione della sua vita è cambiata man mano che Saulo ha imparato a ringraziare perchè qualcun altro si è gratuitamente preso cura di lui. E sullo sfondo vedete il mistero di Dio, che gratuitamente si è preso cura di lui. In Gesù, che è il Cristo, che è il Signore, in Lui la visita di Dio si è compiuta. Quelli che l’hanno preso per mano, Anania che è andato a visitarlo e ha detto “Saulo fratello mio”.

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E adesso siamo a Gerusalemme. “Venuto a Gerusalemme cercava di unirsi con i discepoli” (9,26). È una scena interessante questa. Cercava di inserirsi nella comunità. Saulo sembra dire: amici miei, io mi sono convertito, ora datemi spazio perché io ho tante energie. Sono pieno di slanci e di entusiasmi e adesso datemi spazio.

Sapete che cosa succede, invece? Quando bussa per entrare nella Chiesa di Gerusalemme, dove era conosciuto bene, tutti hanno paura di lui, non credendo ancora che fosse un discepolo. Infatti Saulo aveva vissuto per anni a Gerusalemme e conosce quelle persone, ma esse non si fidano di lui. Questa esperienza è poi condivisa da tanti cristiani che cercano la Chiesa ma non la trovano. Cercano un po’ di spazio ma non lo trovano.

Ci sono anche dei motivi per cui avere paura e i discepoli hanno le loro ragioni. Saulo è un mendicante che chiede di essere accolto nella Chiesa di Gerusalemme e sa bene che non ha le carte in regola.

Atti 11-12: Barnaba, il dono della mediazione Per quanto ne sappiamo, Saulo sarebbe ancora là se non fosse

intervenuto un altro gesto di gratuità. E chissà quanti ancora, in giro per il mondo, quanti altri poveri cristiani come Saulo stanno chiedendo, alla maniera dei mendicanti, di essere accolti nella Chiesa, e mancano coloro che sono attenti a queste richieste!. Quante energie sprecate e quante possibilità di servizio e di crescita nella fede, e quanti carismi dispersi per questa mancanza!

Saulo è un mendicante che chiede di essere accolto nella Chiesa di Gerusalemme. A Gerusalemme c’era un certo Barnaba. Altro piccolo personaggio, che poi diventa grandissimo, è Barnaba che prende Saulo con sé. Barnaba che, in verità si chiama Giuseppe e il suo sopranome è Barnaba, figlio della consolazione, è un consolatore nato, una di quelle persone che sono buoni d’animo. Questo Barnaba è un uomo amante delle mediazioni, è un uomo che cerca le soluzioni pacificanti, è uno fatto così.

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Sapete cosa fa Barnaba? Va’ e dice agli apostoli: “garantisco io per lui” e racconta che cosa è accaduto. Fa un gran discorso. “Barnaba lo prese con sé, lo presentò agli apostoli e raccontò loro come durante il viaggio aveva visto il Signore che gli aveva parlato, e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. Così egli poté stare con loro e andava e veniva a Gerusalemme, parlando apertamente nel nome di Gesù, e parlava e discuteva con gli Ebrei di lingua greca” (9,27-29a) dunque vedete ancora una volta Saulo è debitore. Se non fosse stato per Barnaba, Saulo sarebbe ancora là. Cosa capita agli uomini veramente convertiti!

Io pensavo che per diventare san Paolo bisognasse sfoderare la spada e tenerla ben affilata e scintillante, invece per diventare san Paolo bisognava scoprire e sperimentare fino in fondo cosa vuol dire essere un debitore. Infatti sono un mendicante che non ha diritto a niente. E gratuitamente lo hanno preso per mano: Anania, lo ha preso per mano, Barnaba, che a Gerusalemme garantisce per lui, si è preso la briga di ascoltarlo, di parlare, e poi simpatizzava, perché Barnaba era un uomo tanto disponibile all’ascolto, e ha capito il valore di questa persona. Gli ha dato tempo perché potesse esprimersi, potesse dire.

Saulo a Gerusalemme si dà da fare, perché comincia a ripensare le cose, comincia a elaborare una catechesi, comincia a chiarire, perché è un teologo nato. Saulo è teologo per formazione, ma già istintivamente e naturalmente Saulo è un teologo, nella radice della sua vita. Ha delle competenze in materia e subito si dà da fare, si mette a discutere di qua e di là.

Ma gli ebrei di lingua greca “tentarono di ucciderlo” (9,29b). Sapete cosa succede qui? Succede che, chi lo aveva accolto nella Chiesa, che sono poi le autorità della Chiesa madre di Gerusalemme, dicono: noi abbiamo già molti problemi per conto nostro, adesso che sei arrivato tu i problemi sono aumentati. Torna a casa. È vero che Barnaba è intervenuto, ci ha spiegato, capiamo bene tante cose. Ma è meglio che vai via. “Venutolo però a sapere i fratelli, lo condussero a Cesarèa e lo fecero partire per Tarso.” (9,30).

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Questa è la narrazione, che è sempre carica di sapienza teologica. C’è un’altra porta che si chiude. Questa volta è la porta della Chiesa di Gerusalemme. Vai a Tarso. Tarso è in Cilicia, nella penisola anatolica. Sparisci di qua. Subito dopo Luca dice: “La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria”. Luca è un narratore un po’ umorista: finalmente Saulo se ne andato, adesso sì, che si respira e possiamo fare cose serie.

La Chiesa “cresceva e camminava” (9,31a) indubbiamente c’è una crescita “nel timore del Signore, colma del conforto dello Spirito Santo.” (9,31b). Intanto Saulo si trova a Tarso e per quanto ne sappiamo a questo punto, la carriera di Saulo è finita, fine della corsa, binario morto. Saulo rimase a Tarso una decina di anni e ci risiede stabilmente.

Ma come? Saulo deve evangelizzare i pagani, Saulo deve andare in giro per il mondo a fondare le Chiese e c’è bisogno proprio di una evangelizzazione teologicamente fondata, e invece rimane dieci anni a Tarso. A fare che cosa? Niente! Avrà rimesso in piedi l’azienda di famiglia: la tessitura delle coperte, dei tappeti, poi la preghiera, lo studio: è tutto lì! Per 10 anni Paolo sta in pace. Che strano! Qui bisogna evangelizzare il mondo e Saulo, la cui vita è cambiata in modo così completo, così radicale, vive nascosto, a Tarso, in silenzio! Nessuno ne sa più niente per molto tempo.

Mentre Pietro si muove da Gerusalemme verso Giaffa, verso Cesarea, Paolo, quest’uomo nuovo, è nascosto a Tarso, in silenzio: studia, prega, lavora. Il c. 11 al v. 19 leggiamo: “Intanto quelli che erano stati dispersi dopo la persecuzione scoppiata al tempo di Stefano, erano arrivati fin nella Fenicia, a Cipro e ad Antiochia e non predicavano la parola a nessuno fuorché ai Giudei”. Si rivolgono ad altri giudei come loro, sempre nell’ambito della grande comunità che raccoglie i figli di Israele. “Ma alcuni di loro, cittadini di Cipro e di Cirène, giunti ad Antiochia, cominciarono a parlare anche ai Greci, predicando la buona novella del Signore Gesù.” (v. 20).

Dunque ad Antiochia, che è una grande metropoli, (tra l’altro anche Luca è di Antiochia), quell’episodio unico di conversione a Cristo, accaduto a Cesarea, diventa un fenomeno di massa. Ad

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Antiochia sono molti i pagani che si convertono. Predicano il Vangelo del Signore Gesù anche ai greci. È un fenomeno di massa. La cosa adesso non può più essere banalizzata. Il fatto è rilevante e si impone.

A Gerusalemme sono preoccupati di queste conversioni di massa e si chiedono cosa è successo. Le autorità della Chiesa madre intervengono. “La mano del Signore era con loro e così un gran numero credette e si convertì al Signore. La notizia giunse agli orecchi della Chiesa di Gerusalemme, la quale mandò Barnaba ad Antiochia – la persona adatta- Quando questi giunse e vide la grazia del Signore, si rallegrò e, da uomo virtuoso qual era e pieno di Spirito Santo e di fede, esortava tutti a perseverare con cuore risoluto nel Signore. E una folla considerevole fu condotta al Signore.” (vv. 21-24).

Barnaba si rende conto che questo fatto nuovo, che cioè i pagani si convertono in massa, esige un linguaggio nuovo, una catechesi nuova, una teologia nuova, una capacità interpretativa delle cose, ci vuole un discorso. Bisogna mettere a fuoco i temi nuovi con la competenza necessaria. Succede allora che Barnaba si ricorda di Saulo e pensa che ci vorrebbe uno come Saulo. Ma sono passati diversi anni e Barnaba non sa nemmeno se Saulo sia vivo.

Si mette in viaggio, va a Tarso, lo cerca e lo trova e lo invita ad andare con lui ad Antiochia perché c’è bisogno di uno come lui. “Barnaba poi partì alla volta di Tarso per cercare Saulo e trovatolo lo condusse ad Antiochia.” (v. 25) Ad Antiochia c’è bisogno di uno come te! Saulo cede alle insistenze di Barnaba e rientra in scena, lo può fare perché c’è chi lo ha cercato, perché c’è qualcun altro che si è ricordato di lui.

Barnaba, un uomo modesto, è una figura di grandissimo rilievo per il suo saper apprezzare le qualità di un altro, il suo saper valorizzare Saulo. Se non ci fosse stato Barnaba, Saulo sarebbe rimasto a Tarso. “Rimasero insieme un anno intero in quella comunità e istruirono molta gente” (v. 26a) . Istruirono molti perché ora c’è Saulo. Infatti, sono anni e anni che Saulo sta scrutando la Scrittura, che sta pensando queste cose e che ha in mano la chiave teologica per interpretare la questione pastorale. “Ad Antiochia per la prima volta i

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discepoli furono chiamati Cristiani.” (v. 26b). Ormai è una realtà presente che assume una sua autonomia. Prima la comunità dei discepoli era una componente del popolo d’Israele, ora ha già una sua fisionomia.

Le Chiese fuori di Gerusalemme godono di un benessere sufficiente, più che sufficiente. Sono Chiese ormai caratterizzate dalla presenza di pagani, sempre più numerosi. Queste Chiese inviano a Gerusalemme degli aiuti, per un senso di debito nei confronti della Chiesa madre, senso di responsabilità nei confronti di questi poveri di Gerusalemme, che non sanno più come sopravvivere. Gli aiuti inviati a Gerusalemme vengono affidati a Barnaba e a Saulo: ”questo fecero indirizzandolo agli anziani, per mezzo di Barnaba e Saulo” (v. 30).

Nel c. 12, leggiamo che a Gerusalemme avviene la carcerazione e la liberazione di Pietro; Barnaba e Saulo sono a Gerusalemme e la casa di Maria, madre di Giovanni, detto Marco, era la casa nella quale sono ospitati anche loro, perché Maria è sorella o cognata di Barnaba e Marco è suo nipote. Tutto quello che succede in quella casa, quando Pietro si presenta e bussa, riguarda la Chiesa, ma riguarda anche Barnaba e Saulo. Anche loro erano là, e quella volta anche Saulo è stato evangelizzato da Pietro.

Una volta ancora, una volta in più, Saulo è debitore. È debitore a quelli che lo hanno preso per mano lungo la strada, ad Anania che l’ha chiamato “fratello mio”, a Barnaba che l’ha presentato alla Chiesa, che è andato a cercarlo a Tarso molti anni dopo e l’ha messo nel circuito della grande evangelizzazione ai pagani. In 12,24 leggiamo: “Intanto la parola di Dio cresceva e si diffondeva. Barnaba e Saulo poi, compiuta la loro missione, tornarono da Gerusalemme prendendo con loro Giovanni, detto anche Marco”. Quando, quella volta, Pietro bussava alla porta, anche Saulo era là.

Ormai per Saulo, la vita è cambiata. Da quando Barnaba è andato a cercarlo a Tarso, se l’è portato dietro ad Antiochia, la caratteristica del nostro personaggio in questa prima fase della sua vita cristiana, è riconoscibile in quella esperienza di debito, di un dono gratuitamente ricevuto. Per cui c’è un debito, ci sono debiti

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che si accumulano, che si aggiungono, uno sopra l’altro. Barnaba ha interceduto per lui, Barnaba è andato a cercarlo a Tarso e si è ricordato di lui, e ad Antiochia lo ha lanciato in un impegno pastorale che il nostro Paolo nemmeno immaginava.

Adesso a Gerusalemme Saulo riceve da parte di Pietro una lezione evangelica davvero fecondissima. Nello stesso tempo, alle spalle di Saulo le porte si chiudono. Questo potrebbe significare solitudine, una solitudine sempre più intensa, sempre più drammatica. Porte che si chiudono a Damasco, a Gerusalemme, a Tarso, e ad Antiochia. Porte che si chiudono e Saulo è spinto su strade nuove, su strade sconosciute. Un senso di smarrimento potrebbe paralizzarlo, eppure nell’esperienza di Saulo, proprio qui, si manifesta la scoperta di un dono sempre nuovo.

Proprio nel momento in cui le porte si chiudono dietro di lui, e non c’è più possibilità di tornare indietro, non c’è più retroterra, non c’è più possibilità di ricorrere a un riparo, perché i ponti sono bruciati alle sue spalle, proprio in quel momento Saulo sperimenta la novità di un dono che si aggiunge al precedente e così lo spazio della sua vita è sempre più largo e ha una esperienza interiore sempre più commovente, sempre più profonda. Esperienza di un cuore che si apre, di uno spazio che si allarga sempre di più, di un cuore che respira ampio.

Ma non c’è Saulo senza Pietro. E’ anche vero che Pietro è sbilanciato verso Saulo. Pietro l’abbiamo visto nel c. 12, quando ormai affronta strade nuove, per cui sembra scomparire. Pietro scompare non perché non ha più niente da fare, perché ormai quello che ha da fare Pietro si chiama Saulo. Negli Atti degli Apostoli siamo inseriti dentro un vortice, come un turbine, è un circuito, è come un girotondo. I due personaggi che costituiscono le figure dominanti sono appunto i due elementi che danno forma essenziale a questo girotondo, Pietro e Paolo.

Poi ci sono tutti gli altri personaggi naturalmente, e non c’è Pietro senza Paolo e viceversa e i due si rincorrono tra di loro e ciascuno dei due ha bisogno dell’altro e allo stesso tempo ciascuno si mette a disposizione dell’altro.

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La vita cristiana è una cosa strana e d’altra parte è la novità, è il frutto della visita di Dio. Non l’abbiamo inventata noi la vita cristiana4. La nostra relazione misteriosa con il Signore Gesù. Non dimenticatelo mai, mentre siamo accampati nella miseria, la novità di Dio è presente nella storia umana.

Nella vita cristiana c’è Pietro e c’é Paolo e noi siamo Pietro e siamo Paolo. Quando cerchiamo Pietro, spesso abbiamo l’idea, che cercare Pietro significhi trovare una specie di comandante che gestisce l’istituzione e invece cerchiamo Pietro e troviamo l’uomo che apre le porte e che corre. Abbiamo incontrato Paolo e l’idea che abbiamo è che Paolo è il grande protagonista della missione per evangelizzare il mondo! Questa idea l’abbiamo archiviata in qualche angolo del cervello: grande protagonista della missione! Ma Paolo è molto di più.

Infatti sono passati tanti anni e Saulo è rimasto a casa sua a fare il tessitore di tende. Si è già convertito da un pezzo, ma prega, studia, lavora. Nella strada di Damasco già è avvenuto tutto quello che doveva avvenire, ma Saulo entra nel discorso in modo pieno e maturo soltanto dopo molti anni, perché è debitore. Nel suo servizio missionario, nella sua testimonianza, in quella che adesso sarà la sua attività straordinaria, infatti nessuno può dimenticare, nessuno può discutere o contraddire il valore straordinario della opera di evangelizzazione promossa da Paolo, è vero, ma, in tutto, egli è radicalmente debitore.

Qualche volta noi ragioniamo in questi termini: c’è l’istituzione poi c’è la profezia, Pietro e Paolo. Negli Atti degli Apostoli scopriamo che l’istituzione esplode profeticamente e la profezia è radicalmente debitrice. La vita cristiana ci scappa di mano mentre noi cerchiamo di stringere e afferrare altre cose, come i nostri carismi, i cosìdetti carismi. Ma la vita cristiana è come un materiale incandescente che viene da lontano dal mistero di Dio.

4 Noi ci inventiamo tante altre faccende, ci preoccupiamo di dividere carismi e contro carismi a modo nostro. Ma queste cose sono invenzioni nostre: Dopo ci facciamo sopra i convegni, le divise, anche pacchetti, fiocchetti, sono cose nostre, mentre invece la vita cristiana è opera di Dio, è relazione misteriosa con il Signore Gesù.

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Atti 13-20: I viaggi missionari di Paolo Nel racconto degli Atti, dal c. 13, hanno inizio i grandi viaggi

missionari di Paolo. Viaggi che partono da Antiochia. Interessante notare che c’è un spostamento da Gerusalemme verso Antiochia. Gerusalemme rimane la Chiesa madre. Gerusalemme è certamente punto di riferimento, però l’attività missionaria di Paolo si appoggia sulla Chiesa di Antiochia, c’è uno spostamento del centro.

Il fatto è che nell’evangelizzazione il centro non sta nella sede da cui dipende l’organizzazione, ma il centro sta sempre là dove l’Evangelo incontra l’uomo, incontra la gente, incontra la storia umana. La vita cristiana è sempre spostata. La vita cristiana, l’equilibrio della Chiesa, la novità evangelica è sempre decentrata, perché là dove l’Evangelo incontra la realtà del mondo, là “è oggi”, là è il centro.

Antiochia, primo grande viaggio missionario che troviamo

raccontato nei cc. 13 e 14, poi si aggiunge il c. 15, da Antiochia ad Antiochia. Notate alcuni particolari, nel corso di questo viaggio, Saulo cambia nome, si chiama Paolo, da questo momento anche ufficialmente “allora Saulo detto anche Paolo” (13,9), probabilmente si chiamava già così, era il suo nome romano, Paolo. Paulus, in latino, vuol dire piccolo. Con il nome Saulo c’è una certa assonanza, ed è interessante che questo cambio del nome avvenga adesso, nel corso del viaggio.

Tra l’altro Saulo e Barnaba hanno incontrato a Cipro una personalità importante nel mondo amministrativo che si chiama Sergio Paolo, un funzionario romano, il Proconsole. Paolo detto anche Saulo, non è soltanto un’annotazione anagrafica. Luca ci vuole aiutare a comprendere come nel corso di questo viaggio missionario Saulo prende nome, prende identità, riceve il nome che interpreta la sua identità più profonda: Paolo.

Nel nostro piccolo qualcosa del genere certamente succede anche a noi. Chi sono veramente io? Chi sono veramente, me l’hanno detto le persone che ho incontrato, le strade che ho percorso, gli avvenimenti a cui ho partecipato, gli impegni che ho

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affrontato, i fallimenti che ho sperimentato. Chi sono io? Il nome mi viene dato nel corso del viaggio che ho affrontato, in obbedienza alla missione ricevuta.

Saulo prende nome. Si specchia, impara a conoscere se stesso specchiandosi nelle persone che incontra. Saulo si chiama Paolo proprio quando ha incontrato un altro, un personaggio illustre con un suo travaglio interiore, che si chiama Sergio Paolo, con un suo cammino di conversione.

Notate come nel corso del viaggio cambiano anche i ruoli. Barnaba è la persona più importante e Paolo è un collaboratore di Barnaba. Però in 13,13 leggiamo: “Salpati da Pafo, Paolo e i suoi compagni giunsero a Perge di Panfilia”. La situazione si svolge, matura, si complica in modo tale per cui cambiano i ruoli. Nel corso del viaggio non è più vero che Barnaba è una figura di spicco e Paolo collaboratore. È sempre più vero che è lui, Paolo, la personalità che emerge e dà una spinta decisiva al grande viaggio missionario intrapreso.

Questo a Barnaba non provoca nessun disturbo. Non è Barnaba che protesta e dice: Qui comando io! Barnaba è andato a cercare Saulo a Tarso perché si è ricordato di lui e aveva conservato per tutti quegli anni la memoria del valore straordinario di quella persona. Il viaggio diventa un contesto oggettivo, concreto, un contesto nel quale si precisano i ruoli.

Certamente c’è bisogno delle programmazioni, dei progetti, li dobbiamo fare… però non funzionano mai. Perché? Perché la vita è un’altra cosa e non soltanto la vita, ma l’opera di Dio è un’altra cosa. L’opera di Dio che ridefinisce tutto. Tutto deve essere interpretato, montato e rimontato, tutto è distrutto e ricostruito e tutto, nella nostra condizione umana, entra dentro a un travaglio di conversione.

Paolo impara, scopre, è impegnato in questo viaggio non perché ha studiato tanto e adesso mette a frutto le scoperte che ha conquistato con il suo impegno di teologo e così via, ma Paolo è a scuola là dov’è, nel corso del viaggio, costantemente scopre che il protagonista è il Signore Vivente: è Lui che opera, è Lui che

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realizza, è Lui che apre le strade, è Lui che illumina gli incroci, è Lui che s’impone come la sua presenza decisiva, risolutiva.

La missione è un’esperienza contemplativa Tanto è vero che qui il viaggio, nei capitoli 13 e 14, assume le

caratteristiche di una vera e propria esperienza contemplativa. Il grande viaggio missionario di Paolo è un’esperienza contemplativa dell’opera di Dio, è l’esperienza di Dio. In tutti gli avvenimenti, in tutti i luoghi, in tutte le persone Paolo scopre di essere anticipato. Dovunque Paolo arriva scopre che il Signore è già presente, che la Parola di Dio sta già realizzando, con potenza creatrice, una realtà nuova.

Qualche volta abbiamo l’impressione che Paolo, come

coraggioso missionario, sia lanciato per le strade del mondo, come se dovesse piantare una bandierina, e poter dire: siamo arrivati qua. Invece, Paolo dovunque arriva scopre che è già stato preceduto. Questo suo impegno missionario è un impegno contemplativo. La Parola di Dio corre, la Parola d Dio irrompe, la Parola di Dio dilaga, la Parola di Dio precede, la Parola di Dio è già operante, la Parola di Dio è vivente, la presenza del Signore è già attiva nel cuore di ogni uomo.

Che cosa Dio ha fatto? Che cosa Dio sta facendo? Una grande esperienza contemplativa! Paolo e Barnaba quando tornano indietro raccontano quello che è avvenuto. Porte che si chiudono, porte che si aprono. Paolo si rivolge prima di tutto ai giudei, ma questa porta si chiude. Paolo è, per cosi dire, costretto a rivolgersi ai pagani, ad Antiochia di Pisìdia, nella sinagoga fa un lungo discorso, dicendo tra l’altro: “Vi annunziamo la buona notizia che la promessa fatta ai padri si è compiuta perché Dio l’ha attuata per noi, loro figli, risuscitando Gesù (…). Vi sia dunque noto, fratelli che per opera di lui vi viene annunziata la remissione dei peccati” (13,32-38). Siamo giustificati per Lui. Le

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promesse sono compiute in Lui e in Lui si compie la remissione dei peccati, a cui nessuno è potuto arrivare mediante la legge di Mosè.

Paolo continua: “Guardate dunque che non avvenga su di voi ciò che è detto nei profeti…- Qui sta citando il profeta Abacuc - perché un’opera io compio ai vostri giorni” (13,40-41). Il testo greco dice “un’opera io opero”. L’opera di Dio che Paolo sta contemplando, non l’ha inventata lui, non è il suo programma, non è il suo proposito, non è il suo progetto, Paolo si trova costretto ad obbedire ad un’iniziativa.

E qual è quest’opera? L’opera del Vangelo che supera i confini previsti, supera ogni barriera e dilaga in tutte le direzioni, per raggiungere tutti i popoli. Infatti nei versetti 44-46 “il sabato seguente quasi tutta la gente si radunò per ascoltare… Quando videro quella moltitudine i giudei furono pieni di gelosia e contraddicevano le affermazioni di Paolo, bestemmiando. Allora Paolo e Barnaba con franchezza dichiararono: - Era necessario che fosse annunziata a voi per primi la Parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco, noi ci rivolgiamo ai pagani”. Questa è opera di Dio e noi siamo trascinati da questa forza, noi siamo obbedienti ad un’iniziativa che non è nostra, noi siamo spettatori di un’opera che Dio sta compiendo.

Interessante notare il modo con cui Luca descrive l’opera del grande missionario: Paolo è come uno spettatore, che sta guardando quello che si compie sotto i suoi occhi. Guarda non perché non ha niente da fare, ma perché la verità intima delle cose è proprio questa, Dio agisce e opera secondo il suo disegno e Paolo, mentre evangelizza contempla quest’opera di Dio e racconta: “La Parola di Dio si diffondeva … non appena arrivati radunano la comunità e raccontarono…” (13,49-14,27).

Pietro dirime la questione della circoncisione Al c. 15 la questione dibattuta in Gerusalemme è la circon-

cisione per quelli che si convertono provenienti dal paganesimo.

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Paolo e Barnaba si oppongono perché per diventare discepoli del Signore non è necessario diventare prima giudei. Un conto è Israele che ha una sua identità, che rimane unica e insostituibile: Israele, il popolo dei circoncisi. Ma coloro che hanno incontrato Cristo da una diversa realtà, sono già in Cristo. Coloro che sono chiamati alla relazione con Cristo, morto e risorto, coloro che sono coinvolti nella sua Pasqua, coloro che sono battezzati in Lui, incorporati in Lui, non sono tenuti a diventare Giudei.

Qui ricompare Pietro che conclude il dissidio affermando che non bisogna chiedere la circoncisione ai pagani. Nel c. 15, dopo il discorso di Pietro, si dice che tutta l’assemblea tacque. Pietro è il primo evangelizzatore di un pagano, non dimentichiamolo. Egli prende posizione in modo lucidissimo. Nel v. 12 l’assemblea tace e ascolta Paolo e Barnaba. Essi raccontano e sono testimoni di quanto hanno contemplato, di come hanno riconosciuto e ammirato l’opera di Dio in mezzo ai pagani. Come Dio è sempre all’opera nel mondo, come Dio è sempre presente. Per questo si è compiuta la visita di Dio, per questo il Figlio è disceso, per questo il Figlio è risalito, è morto ed è risorto, per questo, oggi, la storia di tutti gli uomini si ricapitola.

Raccontano, ed è interessante, perché in questo caso Paolo e Barnaba, insieme, non fanno un discorso di carattere teoretico, ma raccontano quanti segni e meraviglie Dio ha compiuto tra i pagani; come il cuore umano appartiene a Dio e non c’è cuore umano, non c’è creatura umana che possa rimanere estranea all’opera di Dio. Non ci sono più barriere tra cielo e terra ormai nel Nome di Gesù; per quanto un uomo possa essere distante geograficamente, culturalmente, per le sue abitudini, comportamenti o relazioni viene raggiunto, perché Gesù è il Signore del cuore umano.

Interviene Giacomo e insieme prendono la decisione di non chiedere ai pagani che si convertono la circoscrizione, ma di chiedere solo degli atteggiamenti che permettano la convivenza tra i giudei e i pagani. Convivenza che non è una cosa facile, perché i giudei comunque sono presi dalle loro cose e i pagani hanno un’altra cultura. Ma bisogna aiutarsi, accordarsi, intendersi. Non si

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può, né si deve pretendere che dei pagani quando si convertono a Cristo devono prima diventare giudei.

Poi Paolo e Barnaba tornano ad Antiochia e da qui parte il secondo viaggio missionario, che troviamo raccontato fino al cap 18, v. 22. Cosa succede adesso? “Dopo alcuni giorni Paolo disse a Barnaba: ritorniamo a far visita a tutti i fratelli…”(15,36). Per questo viaggio Barnaba vuole prendere anche Giovanni detto Marco, suo nipote, ma Paolo non vuole, perché Marco si era allontanato da loro, mentre erano nella Panfilia. Marco era tornato indietro. Non aveva partecipato all’opera. Ci fu un dissenso tale che Barnaba prende Marco e s’imbarca per Cipro, mentre Paolo sceglie Sila e parte raccomandato dai fratelli alla grazia del Signore. Paolo e Barnaba si dividono, strade diverse.

Paolo entra in Europa Paolo attraversa, per via di terra, tutta la penisola anatolica,

l’attuale Turchia. Si nota che Paolo, nel corso del viaggio, ha delle incertezze. Torna nelle città dove era passato e dove si erano formate delle piccole comunità, che intanto sono cresciute. In 16,6 leggiamo “attraversarono quindi la Frigia e la regione della Galazia, avendo lo Spirito Santo vietato loro di predicare la Parola in Asia”. C’è un vento contrario, un soffio contrario. Paolo voleva arrivare a Efeso, che è il capoluogo della provincia d’Asia, ma si dirige verso il Mar Nero, “Raggiunta la Misia si dirigevano verso la Bitinia, ma lo Spirito di Gesù non lo permise loro” (16,7). Il soffio di Dio è contrario, non lo permette.

Paolo si muove agitato nel turbine dei venti, non sa come orientarsi. C’è qualcosa che si sta manifestando, ma Paolo ancora non lo comprende bene, non sa ancora cosa deve succedere. Luca dice che lo Spirito di Gesù sposta Paolo e i compagni, verso Troade, a nord, sul Mar Egeo. E lì finisce la corsa perchè c’è il mare e non si può andare oltre per via terra. Cosa succede? Paolo capisce che deve attraversare il mare. “Durante la notte apparve a Paolo una

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visione, gli stava davanti un macedone.” (16,9), la Macedonia sta dall’altra parte del mare Egeo.

Questo non è un mare qualunque, questo è il mare che separa l’Asia dall’Europa, l’Oriente dall’Occidente, sono due mondi. Paolo è un uomo dell’Asia, è un’orientale, ma anche Gesù è un’orientale. Tutti questi personaggi del primo periodo sono radicati nella cultura del mondo asiatico, con tante caratteristiche che variano, ma c’è un’impronta di fondo comune a tutti: l’Oriente. Un breve tratto di mare ma, non c’è dubbio, è un confine vero. Nel frattempo il grande Impero romano sta unificando Oriente e Occidente, ma è un’unificazione amministrativa, un fatto tecnico. Le caratteristiche di fondo rimangono: culture, eredità sapienziali, comportamenti, organizzazione sociale rimangono radicalmente diversi.

Paolo è un uomo dell’Oriente e adesso, nel secondo grande viaggio missionario, per la prima volta Paolo entra in Europa. Un Macedone in sogno lo supplica di venire ad annunciare la Parola (16,17-18). Da Troade a Neapoli e a Filippi e poi a Tessalonica, Atene, Corinto. E’ l’Occidente. Queste pagine sono molto interessanti per la vostra missione pastorale, perché per Paolo adesso è tutto nuovo.

Intanto come si presenta, subito lo guardano male. Questo è uno di quelli che puzzano. Da come è vestito a come parla, come si muove, è già identificato. Un orientale, un altro ancora che sbarca in Europa! Non se ne può più!… Ma Paolo ha i documenti in regola, è un cittadino romano, da questo punto di vista è superdotato.… ma non fa in tempo a tirare fuori i documenti che subito è portato in galera. Paolo è un uomo maturo, sapiente, dignitoso ma non conta nulla, perché comunque lo mandano in galera.

Dopo si renderanno conto e si scuseranno. Ma intanto Paolo è trattato come uno che non vale niente. come se gli dicessero: ricordati che sei in un mondo in cui non vali niente, perché tu sei dall’altra parte del mare: questo è il nostro mondo. Qui si fanno le cose come diciamo noi. Sei pericoloso perché diverso, quindi in prigione. Perché? Perché hai cattivo odore, perché puzzi… Paolo sperimenta queste cose tutte sulla sua pelle. Lui che è partito per

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evangelizzare, con una grande prospettiva missionaria, si rende conto che questo è un altro mondo. In Oriente questo non gli era mai capitato.

A Filippi si mette a cercare la Sinagoga, perché è abituato ad andare sempre nella sinagoga, perché dappertutto ci sono delle comunità ebraiche della diaspora, dove vi sono persone stimate, pacificate, normalmente. Anche le sinagoghe nelle località più disperse sono presenze dignitose. Ma a Filippi non trova la sinagoga.

Va lungo il fiume perché gli dicono che lì si troveranno i giudei per la preghiera sabbatica. Lì trova invece delle donne. Cosa che non gli era mai capitato, donne che pregano, sono cose solo che riguardano l’Occidente. Da quando aveva 12 anni Paolo non aveva più avuto a che fare con donne, poi è vergine, non è sposato. Arriva in Occidente e lì trova donne che pregano. C’è Lidia che è descritta come un capofamiglia, fa l’industriale. Tutte cose alle quali Paolo non è abituato. Poi quando scrive la lettera ai Galati: “in Cristo Gesù non c’è più uomo né donna ma tutti siamo uno in Cristo” (cfr 3,28) si avverte che le sue non sono affermazioni teoriche. Paolo si è trovato in un ambiente sociale che non è il suo. Dappertutto compaiono donne. In Oriente la donna non compare in pubblico, e ancora oggi la preghiera è un mestiere per gli uomini.

Intanto Paolo si guarda attorno: è tutto ridimensionato, è tutto da ripensare, da riorganizzare, e poi c’è gente che lo ascolta, ma nel complesso ci sono difficoltà enormi e si trova sempre più solo. Paolo si trova ad Atene dove tiene un discorso che registra un clamoroso fallimento, nessuno lo prende in considerazione. Poi a Corinto (c. 18) Paolo è solo e siamo nel cuore del secondo viaggio missionario. Sila e Timoteo sono stati mandati a vedere cosa è successo a Tessalonica.

Paolo a Corinto non sa più come tirare avanti e deve rimettersi a lavorare e per lavorare si collega con dei profughi che sono stati espulsi da Roma: “Trovò un giudeo chiamato Aquila, arrivato da poco dall’Italia con la moglie Priscilla” (v. 2). Paolo va ad abitare con loro e lavora con loro perché sono del suo stesso mestiere. Paolo

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missionario che lavora per vivere. Questo è il suo ambiente. A Corinto Paolo si trova con i baraccati, con i profughi, con gli esuli e lavora per sopravvivere.

“Ogni sabato poi discuteva nella sinagoga e cercava di persuadere giudei e greci…”(v. 4). Sta a Corinto un anno e mezzo. Questa è proprio Corinto, una delle grandi Chiese neotestamentarie. Paolo sperimenta nel corso del suo viaggio missionario una povertà che gli squarcia il cuore, in un mondo che non è il suo, in un contesto sociale che non corrisponde ai suoi sentimenti, nel quadro di un impianto culturale, che non è il suo. Ecco cosa significa per Paolo: “non c’è più giudeo ne greco, non c’è più uomo né donna, non c’è più schiavo o libero… ma uno in Cristo” (Gal 3,8).

In At 18,9 “La notte in visione il Signore disse a Paolo: non avere paura,… perché io ho un popolo numeroso in questa città”. Ricordate Giona a Ninive? (cf Gn 1-3). Adesso è Paolo a Corinto che sente “io ho un popolo numeroso in questa città” (18,10). Nella seconda lettera ai Corinzi Paolo dice “quando sono venuto da voi ero tremante”, proprio vero. È la novità di Dio che si esprime con il linguaggio dell’Evangelo, nella gratuità dell’Evangelo. Vedete come l’attività missionaria di Paolo, su strade sempre nuove e su orizzonti sempre più ampi, coincide con lo spalancamento dell’animo suo, con l’apertura di uno spazio del cuore inesplorato. Questo Paolo non se lo era mai immaginato.

Il terzo viaggio missionario di Paolo A Corinto succede un episodio grottesco (18, 12-17). Dai

giudei, che a Corinto erano una piccola minoranza, Paolo viene accusato e portato davanti al proconsole romano Gallione e il proconsole, quando vede che si tratta di giudei, con un antisemitismo rozzo, li butta fuori. Poi in piazza vengono presi a sassate. “Allora tutti afferrarono Sostene, capo della sinagoga e lo percossero davanti al tribunale, ma Gallione non si curava affatto di tutto ciò” (v. 17). Gallione è un magistrato che dovrebbe essere garante

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dell’ordine pubblico, e invece non se ne cura affatto. Paolo personalmente ha esibito le sue ragioni e tra l’altro da accusato non riceve nessun danno, perché la questione ha preso un’altra piega.

Nella Prima lettera ai Corinti Paolo dice: “qui con me c’è Sostene”. Quel tale, Sostene, che quella volta a Corinto fu malmenato, ora è qui con me. Qualche anno dopo infatti questo Sostene si era avvicinato a Paolo e ora si trova a Efeso con lui. E così Paolo torna indietro e va ad Antiochia. Dopo essere passato da Gerusalemme torna ad Antiochia e riparte per un altro viaggio missionario: “Trascorso colà un po’ di tempo, partì di nuovo percorrendo di seguito le regioni della Galazia e della Frigia, confermando nella fede tutti i discepoli.” (18,23).

In questo terzo viaggio, Paolo raggiunge Efeso e lì si ferma per tre anni, un lungo periodo, e vi svolge un ministero molto intenso, un’attività pastorale efficacissima. Lì si ferma e scrive diverse lettere. Ma con il passare del tempo, pochi anni, Paolo si rende conto che c’è qualcosa che non funziona. Perché malgrado tutto l’impegno, tutta la serietà con cui ha messo in ordine il quadro teologico, malgrado tutti gli strumenti della nuova catechesi, qui ancora l’Evangelo non è passato, o è passato a metà, superficialmente. In profondità, ci sono incertezze, ci sono ambiguità, ci sono nodi non sciolti, ci sono delle oscurità non illuminate, ci sono delle contraddizioni.

Al c. 18 e poi al c. 19 si racconta che a Efeso succedono cose buffe, un po’ curiose. Ci sono quelli che vanno a cercare il battesimo di Giovanni, quelli che ancora cercano forme di esorcismo un po’ sballato. Paolo si accorge che c’è qualcosa che non quadra. Abituato a passare nelle sinagoghe, poi dalle sinagoghe si rivolge ai pagani, dal suo punto di vista dovrebbe esserci la strada aperta, spianata…dovremmo essere pronti!… E invece ci sono dei ritardi, ci sono delle resistenze, ci sono dei residui, ci sono delle scorie inquinate, ci sono delle zone ancora non evangelizzate nell’animo umano, nella vita umana.

Allora sapete cosa succede? Paolo ci pensa. Ci fermiamo a 19,21: “Dopo questi fatti, Paolo si mise in animo di attraversare la

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Macedonia e l`Acaia e di recarsi a Gerusalemme dicendo: «Dopo essere stato là devo vedere anche Roma»". Paolo sta ripensando a tutto il suo programma pastorale.

Mentre lavora, sono passati alcuni anni, Paolo sta rimuginando tra sè e sè, e sta rielaborando il suo progetto. Sta pensando: faccio un viaggio in Macedonia e in Acaia per visitare nuovamente le Chiese e poi ritornerò a Gerusalemme. Bisogna ritornare a Gerusalemme, bisogna ripartire da capo. È necessario ripartire da Gerusalemme. Dopo essere stato là devo vedere anche Roma. Ecco devo ritornare da capo, perché per andare avanti in questa ricerca missionaria, in questa attività di evangelizzazione universale, bisogna tornare indietro per procedere dall’inizio.

Roma, la capitale dell’Impero, è come dire la meta finale! E quando Gerusalemme sarà evangelizzata, quando sarà evangelizzato Israele, quando saremo finalmente appoggiati su radici libere per una piena fruttificazione, allora potremo andare a Roma, e sarà come una passeggiata! È una prospettiva un poco trionfale. Comunque si può dire che quando una persona fa un piano è sempre un piano trionfale, altrimenti non lo farebbe. E come dire: ho trovato il modo di risolvere il problema.

Paolo ha trovato questo piano: bisogna ripartire da Gerusalemme e una volta che avremo espugnato Gerusalemme, una volta che avremo proprio evangelizzato il cuore di Gerusalemme, una volta che il popolo sarà finalmente aperto per accogliere il Messia, il Signore Gesù, allora tutti i popoli accorreranno a Gerusalemme. E’ la voce dei grandi profeti del tempo passato che dice proprio così!. Tutti i popoli accorreranno. Paolo sta pensando a queste cose. Soltanto che poi le sue prospettive trionfali non corrispondono alla realtà. Ma la realtà è l’opera di Dio, nel nome di Gesù, mentre le sue prospettive trionfali sono illusioni che passano.

A Efeso scoppia un tumulto, una gran confusione, gente che protesta (c. 19). Paolo non capisce più niente e se ne va precipitosamente. Urta contro un ostacolo mostruoso, un ostacolo

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infernale, c’è qualcosa di demoniaco. Stiamo galleggiando sulla superficie di un abisso e sotto c’è un mostro. Paolo si è reso conto che i suoi progetti sono poco corrispondenti alla realtà. La realtà è molto più drammatica, ma rimane vero che la realtà delle cose, del mondo, della vita degli uomini, delle storie dei popoli è affidata alla Signoria di Dio e del suo Messia.

Paolo ripensa a tutta la sua missione

Paolo è a Efeso, mentre sta ripensando a tutta la sua attività, al

suo impegno pastorale, che è il motivo della sua vita. Questo è lo stesso che dire: sta ripensando alla sua vita cristiana. Perché la corsa missionaria, per Paolo, è lo stesso che la sua risposta alla vita cristiana, è la sua vita cristiana. La profezia che invoca il “nome di Gesù” e che incrocia la storia degli uomini, la presenza di altri, di tutti, la vita cristiana che diventa missione, è la vita cristiana. La missione non è qualcosa che si aggiunge come una specie di giacchetta che si mette e si toglie a secondo delle circostanze.

Paolo si sta interrogando perché qualcosa non funziona esattamente secondo il suo programma. Ha avuto a che fare con porte che si chiudono e poi, corrispondenti alle porte che si chiudono, spazi sempre più ampi che si allargano nel mondo, nel cuore umano. Spazi nuovi. Paolo si è abituato a rivolgersi ai Giudei, alla sua gente, al suo popolo, alla sua realtà teologale, inconfondibile, alla sua appartenenza al popolo d’Israele, alle sinagoghe.

Poi Paolo si è abituato a constatare che le porte delle sinagoghe si chiudono, mentre si aprono gli spazi di incontro con i pagani. È un po’ come il piano della sua attività pastorale fino al momento in cui ripensa tutto. Bisogna ritornare a quelle promesse che già erano state annunciate dagli antichi profeti. Ricordate: Gerusalemme che si innalza e diventa una luce che splende sulla scena del mondo. Gerusalemme che diventa un faro, un riferimento inconfondibile, un segnale… tutti i popoli accorreranno. I profeti hanno già annunciato questo.

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Dunque Paolo si è reso conto che non riesce a raccogliere i frutti previsti, che l’evangelizzazione non procede con quella promessa di risultati che da parte sua non aveva programmato. L’evangelizzazione rimane a metà. Sappiamo bene anche noi 2000 anni dopo! Non c’è il risultato completo. Ci sono sempre dei rigurgiti, dei fenomeni regressivi, dei fenomeni di decadenza, non si arriva mai. Bisogna sempre ripartire da capo perché non si arriva mai. L’evangelizzazione non è passata in profondità!

Dunque bisogna tornare a Gerusalemme. Quando Gerusalemme sarà evangelizzata, quando Israele finalmente sarà docile per accogliere il compimento delle promesse, ecco un segnale luminoso, uno splendore inconfondibile, ecco come tutti i popoli accorreranno. Allora l’evangelizzazione sarà semplice. Saranno i popoli che confluiranno. Paolo sente che deve ritornare a Gerusalemme. È un ripensamento serio, che indica come Paolo ragiona sulle cose. È un programma di impegno personale, è la sua vita cristiana.

Ma Paolo si sbaglia. Si sbagliano anche i santi. Al v. 23 del c. 19 ci viene detto: “Verso quel tempo scoppiò un grande tumulto riguardo alla nuova dottrina”. Un tumulto tale per cui non si capisce più niente. È come un terremoto. Tutti i piani, i progetti, i propositi di Paolo saltano per aria. Non è la prima volta che Paolo sperimenta cosa vuol dire che le porte si chiudono per lui. Questa volta sono le porte di Efeso che si chiudono. Paolo se ne va. La situazione è tale per cui non può più vivere a Efeso. La situazione è tale che Paolo se ne deve andare. Vedete bene che non se va perché ha paura di subire dei danni, se ne va perché non vede bene come stanno le cose.

Allora si rimette in viaggio: “Appena cessato il tumulto, Paolo mandò a chiamare i discepoli e, dopo averli incoraggiati, li salutò e si mise in viaggio per la Macedonia”(20,1). Si è reso conto che il suo programma non interpretava bene la realtà delle cose. Deve ripensare tutto daccapo. E questo viaggio di Paolo adesso diventa come un tempo di ritiro, che dura alcuni mesi, in modo tale che può rielaborare i pensieri, può rimettere in ordine le sue esperienze, può

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ritrovare il filo conduttore della sua missione, il filo conduttore della sua vita cristiana.

Il c. 20 è un capitolo importante nel racconto degli Atti. Sullo sfondo sempre la grande prospettiva della evangelizzazione universale e poi il problema di Paolo: che cosa devo fare? Dove devo andare? Quali sono i passaggi da fare? Aveva messo a fuoco una prospettiva, per così dire, di tipo trionfale. Andiamo a Gerusalemme, una volta che Gerusalemme sarà conquistata: ecco una luce che splende e popoli che si raccoglieranno come un’unica famiglia, creature redente.

La situazione precipita e Paolo si accorge che gli manca improvvisamente il terreno sotto i piedi. Le cose non vanno come lui le aveva programmate. Si mette in viaggio e nel corso di questo viaggio Paolo è accompagnato da segni dolorosi, motivi di angoscia e ombre di morte. Tra l’altro, a Troade, muore un bambino durante una celebrazione. Poi quel bambino viene richiamato in vita, ma è un segno terribile: un ombra di morte, un indizio di morte.

E Paolo ci ripensa, vuole arrivare a Gerusalemme, ma mentre procede nel suo viaggio, accompagnato da altri, verso Gerusalemme, Paolo ha sempre di più il sapore della morte nel cuore. Alcuni particolari: al v. 16: “Paolo aveva deciso di passare al largo di Efeso per evitare di subire ritardi nella provincia di Asia: gli premeva di essere a Gerusalemme, se possibile, per il giorno della Pentecoste”.

Paolo vuole tornare a Gerusalemme per la Pentecoste, notate il riferimento al c. 2 degli Atti. Qualcosa gli è sfuggito. Anche noi abbiamo continuamente bisogno di tornare al racconto degli Atti, perché dopo duemila anni qualcosa sfugge anche a noi.

Un altro particolare: nel c. 20, nel racconto, ogni tanto compare la prima persona plurale “noi”. Al v. 5 “Questi però, partiti prima di noi ci attendevano a Troade, noi invece salpammo da Filippi dopo i giorni degli Azzimi e li raggiungemmo in capo a cinque giorni a Troade dove ci trattenemmo una settimana”. E qui, in questo racconto degli Atti, da

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Pasqua a Pentecoste, le tappe sono scandite dalla ricorrenza settimanale. Sono sette settimane. Di domenica in domenica.

Il “noi”, poiché c’è anche Luca che racconta, non è la prima volta che viene usato. Se voi tornate al c. 16 v. 10 per la prima volta è comparsa la prima persona plurale “noi”: “Dopo che ebbe avuto questa visione, subito cercammo di partire per la Macedonia, ritenendo che Dio ci aveva chiamati ad annunziarvi la parola del Signore”. In quel momento si racconta l’ingresso in Europa.

Dove Luca usa la prima persona plurale, vuol dire che non c’è solo lui, narratore, ma suppone che ci siamo anche noi, lettori. Ci siamo anche noi. Nelle pagine che adesso abbiamo sotto gli occhi ritorna più volta l’uso della prima persona plurale noi. Dove leggiamo “noi” vuol dire che il racconto è impostato in modo tale da comprendere situazioni che sono di Paolo, ma che sono anche nostre.

Ritornando al c. 20, a Mileto, Paolo convoca gli anziani della Chiesa efesina e poi fa un bel discorso. È il famoso discorso di At 20 e dice queste cose: “Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà” (v. 20).

Paolo sta dicendo: io non so cosa mi capiterà. È un po’ diverso dal programma di poco tempo prima quando aveva un discorso molto chiaro, molto preciso… quando aveva appunto un programma di evangelizzazione del mondo. Ora dice: Io non so cosa mi attende, e “so soltanto che lo Spirito Santo in ogni città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni. Non ritengo tuttavia la mia vita meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio” (vv. 23-24).

Poco più avanti Paolo vede davanti a sè l’ombra della morte. Tanto è vero che al v. 36 “Detto questo, si inginocchiò con tutti loro e pregò. Tutti scoppiarono in un gran pianto”. Avevano preso sul serio la situazione e capito il senso di ciò che Paolo sta dicendo “io non so dove andrò a finire però davanti a me, mentre mi avvicino a Gerusalemme, si prospetta in modo sempre più evidente, la

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necessità di morire, perché se vado a Gerusalemme mi capiterà qualche cosa e certamente morirò.

E la gente piange: “gettandosi al collo di Paolo lo baciavano, addolorati soprattutto perché aveva detto che non avrebbero più rivisto il suo volto. E lo accompagnarono fino alla nave” (vv. 37-38). Nel corso del viaggio il programma è cambiato. Non è più quella visione pastorale di trionfo, più o meno organico, dell’evangelizzazione ma il programma di un uomo come Paolo che dice: “qui è la volta buona che divento martire”. Però, sotto sotto, questa idea che finalmente diventa martire anche lui, c’è anche un’idea che fa piacere. È vero che non è più come prima, è un altro programma. Però anche questo programma alternativo ha un suo aspetto trionfale. Io sono un incompreso. I grandi programmi non hanno avuto risultati allora non mi resta altro che il martirio.

Al c. 21 “Appena ci fummo separati da loro, salpammo” (v. 1). Vedete la prima persona plurale. E così da Mileto “approdammo a Tolemàide (l’attuale Akko)… andammo a salutare i fratelli e restammo un giorno con loro. Ripartiti il giorno seguente, giungemmo a Cesarèa; ed entrati nella casa dell`evangelista Filippo, che era uno dei Sette, sostammo presso di lui. Egli aveva quattro figlie vergini, che avevano il dono della profezia” (vv. 7-9).

Proseguiamo la lettura: “Eravamo qui da alcuni giorni, quando giunse dalla Giudea un profeta di nome Agabo. Egli venne da noi e, presa la cintura di Paolo, si legò i piedi e le mani e disse: "Questo dice lo Spirito Santo: l’uomo a cui appartiene questa cintura sarà legato così dai Giudei a Gerusalemme e verrà quindi consegnato nelle mani dei pagani" (vv. 10-11). Per Paolo, lo dice anche Agabo, a Gerusalemme le cose si mettono male. “All’udire queste cose, noi e quelli del luogo pregammo Paolo di non andare più a Gerusalemme. Ma Paolo rispose: «Perché fate così, continuando a piangere e a spezzarmi il cuore? Io sono pronto non soltanto a esser legato, ma a morire a Gerusalemme per il nome del Signore Gesù»"(vv. 12-13).

Paolo dice: io ho capito come devono andare le cose, finalmente sono arrivato alla soluzione del problema: debbo salire a

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Gerusalemme per morire “nel nome di Gesù”. Voi ricordate che nel Vangelo c’è stato un altro che ha detto questo. Pietro ha detto: “Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte". (Lc 22,33). Paolo è sincero, come Pietro era sincero.

Paolo dice: adesso: ho capito che non è più il trionfo dell’evangelizzazione, come io programmavo precedentemente, che costituisce l’obiettivo, lo scopo della mia vita. Ora ho capito che lo scopo della mia vita è il trionfo del martirio. Devo salire a Gerusalemme, “Nel nome di Gesù”. Non riescono a persuaderlo, allora “smettemmo di insistere dicendo: «Sia fatta la volontà del Signore!»"(v. 14). Ma Paolo si sbaglia un’altra volta.

Atti 21 - 23: Paolo imprigionato Paolo arriva a Gerusalemme per la festa di Pentecoste, sono in

corso gli ultimi preparativi. Salgono e Paolo porta con sé aiuti per la Chiesa di Gerusalemme. Ha raccolto nelle Chiese che sono disperse in tanti luoghi, ha portato contributi, beni economici per aiutare la Chiesa madre. È una Chiesa tutta composta di giudei, sono i giudei che hanno accumulato, nel corso dei tempi, dei risentimenti nei confronti di Paolo, perché lo ritengono un traditore, un giudeo rinnegato… Si dicono tante cose su Paolo, anche tante menzogne.

La previsione è questa: vado a Gerusalemme e qualcuno mi ucciderà “nel nome di Gesù”. Adesso ha capito: il programma è riformulato in questi termini. Non è il trionfo della pastorale ma è il trionfo del martirio. Una testimonianza generosa, davvero strabiliante. Arriva a Gerusalemme e non succede niente, anzi trova discepoli cristiani della Chiesa madre che lo accolgono bene, cordialmente. C’è Giacomo, il minore. Paolo racconta le sue cose e sono molto interessati.

Lo aiutano, lo ospitano e poi gli danno un suggerimento: qui ci sono molti che ce l’hanno con te. Dato che ci sono alcuni dei nostri che hanno fatto un voto e devono concludere il loro voto con l’offerta di un sacrificio nel tempio. Però per offrire un sacrificio nel tempio ci vuole disponibilità di denaro. Tu provvedi per loro,

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mettiti anche tu con loro, in modo tale da dimostrare che tu sei un uomo devoto, fedelissimo, che frequenti il tempio. E Paolo ci tiene a questo.

“Allora Paolo prese con sé quegli uomini e il giorno seguente, fatta insieme con loro la purificazione, entrò nel tempio per comunicare il compimento dei giorni della purificazione, quando sarebbe stata presentata l’offerta per ciascuno di loro” (21,26). Per prenotare il sacrificio, diremmo noi. “Stavano ormai per finire i sette giorni, quando i Giudei della provincia d’Asia, vistolo nel tempio, aizzarono tutta la folla e misero le mani su di lui gridando: "Uomini d’Israele, aiuto! Questo è l’uomo che va insegnando a tutti e dovunque contro il popolo, contro la legge e contro questo luogo" (vv. 27-28a).

Non è vero quanto dicono di Paolo e quelli che parlano sono asiatici, sono giudei della diaspora che hanno conosciuto Paolo a Efeso, capoluogo della provincia di Asia. Hanno rancori contro di lui e dicono: “ora ha introdotto perfino dei Greci nel tempio e ha profanato il luogo santo!” (v. 28b). Non è affatto vero, lo avevano visto in giro per Gerusalemme a parlare con dei pagani e lo conoscevano: “Avevano infatti veduto poco prima Tròfimo di Efeso in sua compagnia per la città, e pensavano che Paolo lo avesse fatto entrare nel tempio” (v. 29). Lo hanno visto in città ma non in sua compagnia nel tempio, perché Paolo non si sarebbe mai permesso di portare un pagano nel tempio.

Pietro nel tempio si è tirato dietro lo storpio e lo ha fatto entrare, ma la situazione adesso non è più la stessa. Paolo non fa quello che ha fatto Pietro, ma i suoi accusatori dicono che ha profanato il tempio. Insistono dicendo che è pericoloso e che, dappertutto, in giro per il mondo, bestemmia contro il nostro popolo, contro la legge di Mosè, contro il tempio.

Paolo pensa che ormai si realizza il suo programma e si arriva alla sua esecuzione, con il martirio. Al v. 30 “ Allora tutta la città fu in subbuglio e il popolo accorse da ogni parte. Impadronitisi di Paolo, lo trascinarono fuori del tempio e subito furono chiuse le porte”. Dietro alle spalle di Paolo si chiudono le porte. Adesso si è chiusa la porta del tempio ed è il momento buono che lo massacrano di botte, lo

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travolgono, lo trascinano. Finalmente è martire “nel nome di Gesù!”. “Stavano già cercando di ucciderlo, quando fu riferito al tribuno della coorte che tutta Gerusalemme era in rivolta” (v. 31). Il tribuno, un ufficiale superiore, è in grado di comandare una legione. Qui comanda tutte le truppe della legione romana che ha una coorte che risiede a Gerusalemme.

Il Tribuno è informato e “Immediatamente egli prese con sé dei soldati e dei centurioni e si precipitò verso i rivoltosi. Alla vista del tribuno e dei soldati, cessarono di percuotere Paolo.” (v. 32). Dopo di che mentre lo stanno uccidendo arrivano i soldati. Per Paolo il programma non funziona, c’è qualcosa che non va rispetto a quello che aveva pensato. Neanche il programma alternativo di Paolo si realizza. Niente martirio.

Intanto in quella confusione, il tribuno non capisce che cosa stia succedendo, né chi sia Paolo, ma interviene: “Allora il tribuno si avvicinò, lo arrestò e ordinò che fosse legato con due catene; intanto s’informava chi fosse e che cosa avesse fatto. Tra la folla però chi diceva una cosa, chi un’altra. Nell’impossibilità di accertare la realtà dei fatti a causa della confusione, ordinò di condurlo nella fortezza.” (vv. 33-34).

E intanto “La massa della gente infatti veniva dietro, urlando: «A morte!». Sul punto di esser condotto nella fortezza, Paolo disse al tribuno: «Posso dirti una parola?». «Conosci il greco, disse quello, allora non sei quell’egiziano che in questi ultimi tempi ha sobillato e condotto nel deserto i quattromila ribelli?». Rispose Paolo: «Io sono un Giudeo di Tarso di Cilicia, cittadino di una città non certo senza importanza. Ma ti prego, lascia che rivolga la parola a questa gente». Avendo egli acconsentito, Paolo, stando in piedi sui gradini, fece cenno con la mano al popolo e, fattosi un grande silenzio, rivolse loro la parola in ebraico…” (vv. 36-40).

Paolo prende la parola, sempre sotto sorveglianza armata. Al c. 22 abbiamo un discorso che Paolo rivolge alla gente, ma prima di tutto è un discorso che rivolge a se stesso. È un racconto della sua vita in termini essenziali, ma è il racconto che Paolo sta cercando di ricostruire in se stesso. Non è il momento questo di andare a fare testimonianze in pubblico, ma è il momento nel quale, con rapidità esplosiva, l’animo di Paolo sta ribollendo tutto e sta ricostruendo il

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racconto della sua vita. Ma chi sono io? La mia vita, il mio essere cristiano? Che cosa mi è successo, da dove salto fuori?

Paolo racconta tutto quello che gli è successo e ad un certo momento, verso la fine del discorso, è come folgorato da un ricordo. Il ricordo di Paolo si concentra su un particolare. Sta ricostruendo i fatti e sta cercando di capire che cosa è successo, qual è la logica dei fatti, qual è il motivo che dal di dentro spiega il senso della sua vita, della sua vocazione, del suo discepolato, il fatto che è divenuto cristiano e quindi l’evangelizzazione e tutto il resto. E’ il ricordo di Stefano.

Quella volta quando Stefano era aggredito ingiustamente, quando era travolto dalla violenza di tutti, in modo così ingiusto, io ero là, anch’io sono tra quelli che hanno ricevuto da Stefano una testimonianza d’amore. Anch’io sono tra quelli che Stefano ha benedetto, anch’io sono tra quelli che Stefano ha affidato alla misericordia di Dio. All’origine della mia vita cristiana c’è qualcuno che mi ha voluto bene gratuitamente, come all’origine dell’Evangelo.

Paolo ha ritrovato quell’origine all’interno della quale era già contenuto tutto lo sviluppo successivo: qualcuno che mi ha amato gratuitamente. La mia vita cristiana è nata là, è radicata là, era già tutto seminato là, quando qualcuno mi ha amato gratuitamente.

“Quando si versava il sangue di Stefano, tuo testimone, anch’io ero presente e approvavo e custodivo i vestiti di quelli che lo uccidevano” (22,17). A questo punto Paolo non ha più niente da aggiungere, il racconto si ferma qui. Tra l’altro poi la gente si scatena e non stanno ad ascoltare. Ma Paolo è arrivato al punto in cui ha chiarito l’origine della sua vocazione. Sono stato evangelizzato quando ancora ero nemico. E’ la radice della mia vita cristiana ed è la radice che già conteneva in sé tutto quello che è stato lo sviluppo successivo della mia vita. Fino a tutto quell’impegno pastorale al quale Paolo si è dedicato con tanta generosità.

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Adesso, dopo questo ricordo folgorante del martirio di Stefano, che lo ha generato alla vita cristiana, per Paolo cambia tutto.

“ Fino a queste parole erano stati ad ascoltarlo, ma allora alzarono la voce gridando: - Toglilo di mezzo, non deve più vivere! - E poiché continuavano ad urlare, a gettare via i mantelli e a lanciare polvere in aria, il tribuno ordinò di portarlo nella fortezza, prescrivendo di interrogarlo a colpi di flagello, al fine di sapere per quale motivo gli gridavano contro in tal modo” (v. 22). Soluzione sproporzionata perché non è necessario flagellare qualcuno per sapere qualcosa. Chi passa sotto il flagello dei romani riporta delle conseguenze che, se non sono la morte, sono comunque delle disabilità permanenti per il resto della vita.

E’ vero che Paolo non è diventato martire durante l’aggressione della folla, ma ora è arrivato il momento: la flagellazione, che è comunque un martirio. Tra l’altro per mano dei soldati romani, un motivo in più per dire: proprio come a Gesù. E invece per Paolo non è così, perché qualcosa è cambiato dentro di lui.

“Quando l’ebbero legato con le cinghie, Paolo disse al centurione che gli stava accanto: - Potete voi giudicare un cittadino romano non ancora giudicato? (…) Anche il tribuno ebbe paura, rendendosi conto che Paolo era cittadino romano e che lui lo aveva messo in catene.” (vv. 25.29).

Ma come? Qualche giorno prima Paolo ha detto che andava a Gerusalemme per morire e adesso, che è sul punto di morire martire, dice: sono cittadino romano, sapendo che questo lo salvava dalla flagellazione. Qualcosa è cambiato dentro di lui. Tanti discorsi, tanti propositi, quelli di Mileto che piangono e lo supplicano di non andare, ma lui appariva risoluto. Arriva il momento giusto e lui dice: io sono un cittadino romano.

Paolo ora si è reso conto che la sua vita cristiana dipende da un altro riferimento. Qui importa poco morire o restare in vita, importa poco morire a Gerusalemme o altrove, quello che conta è che qualcuno mi ha amato gratuitamente e che la mia vita cristiana acquista pienezza di significato perchè io sono in grado di amare gratuitamente.

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Paolo si ferma, perché si rende conto che la sua vita cristiana non è ancora giunta a questo punto. Che senso ha desiderare il martirio se non è un martirio d’amore? Se non sono ancora in grado di amare gratuitamente? Se ancora non benedico i miei nemici, i miei avversari e se ancora non sono entrato in quella pienezza di testimonianza che è stata all’origine di tutto?

E’ la Pasqua del Signore Gesù, ed ecco che all’origine di tutto c’è la testimonianza di Stefano. Paolo non ha mai incontrato personalmente Gesù, nemmeno noi lo abbiamo visto, ma abbiamo incontrato certamente un “povero cristo” che ci ha amato gratuitamente. Un derelitto, come Stefano, che mentre subiva le conseguenze di quella ingiusta violenza, benediceva, anch’io l’ho incontrato. Altrimenti non sarei qua, noi non saremmo qua. La Chiesa non sarebbe Chiesa, le generazioni di credenti non si succederebbero nel corso della storia umana, l’evangelizzazione sarebbe soltanto una fantasia che si dilegua nell’aria, se non fosse vero che qualcuno ci ha amato.

Non abbiamo fisicamente incontrato Lui, Cristo Signore, ma un “povero cristo” che ci ha amato lo abbiamo incontrato. Adesso Paolo si ferma e considera che le apparenze esterne sono ben diverse da come le aveva immaginate.

Rimane il fatto che Paolo è incatenato e comunque imprigionato. Il tribuno vuole risolvere il problema e il giorno dopo, (c. 23) cerca un confronto nel Sinedrio, poi si rende conto che la questione è troppo impegnativa, vuole liberarsi della faccenda e decide di trasferire il problema al governatore romano, che sta a Cesarea.

Prima però Paolo viene fatto comparire davanti al Sinedrio. E anche lì c’è una polemica: Paolo che si dà da fare per difendersi, addirittura in modo quasi aggressivo nei confronti dei suoi accusatori. Ma come? Prima voleva morire martire e ora si mette ad usare ben altri metodi! Lui sa che il Sinedrio è diviso tra il partito dei farisei e il partito dei sadducei, e allora si appella alla parte dei farisei, perché Paolo è un fariseo. Cominciano a litigare le due fazioni.

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Il tribuno non comprende e decide di mandare Paolo al governatore, lui risolverà il problema. Scrive una lettera al suo superiore, in cui dice tante cose, anche nella speranza di fare carriera. Nel frattempo ci sono quaranta congiurati che hanno deciso di uccidere Paolo. Paolo viene informato attraverso un suo nipote, e manda il ragazzo ad informare il tribuno. Leggiamo al v. 23 in cui il tribuno dà ordini: “Preparate duecento soldati per andare a Cesarea, insieme con settanta cavalieri e duecento lancieri, tre ore dopo il tramonto”.

E’ un esercito e addirittura deve viaggiare di notte per portare Paolo a Cesarea! Al v. 24 leggiamo “Siano pronte anche delle cavalcature e fatevi montare Paolo, perché sia condotto sano e salvo dal governatore Felice”. Quanta fatica per “salire” a Gerusalemme e diventare martire e adesso questa processione così mastodontica per “discendere” da Gerusalemme a Cesarea!

Qui si parla di cavalcatura. Quando Paolo si è convertito non è caduto da cavallo, come lascia intendere una certa iconografia. Al c. 9 il cavallo non c’è. Mai Paolo è caduto da cavallo, ora invece è stato caricato su un cavallo per andare da Gerusalemme a Cesarea.

Quello che sta accadendo a Paolo, mentre sulla cavalcatura viene portato a Cesare, ci richiama la storia dell’uomo incappato nei briganti di cui ci parla Luca (10, 25-37) nel suo vangelo, nota come la parabola del buon samaritano. La conosciamo. Quell’uomo è caduto in mano ai briganti e giace sul ciglio della strada…Tutti i passanti scendono lasciandosi alle spalle Gerusalemme. Finché c’è un Samaritano che sale. Un Samaritano a Gerusalemme, di per sé, non avrebbe niente da fare, perché a Gerusalemme non lo vogliono.

Ma lui, il Samaritano che è Gesù, sale. Vede il malcapitato, lo carica sulla cavalcatura e lo porta alla locanda. E’ lo stesso verbo, in greco, usato per Gesù quando entra a Gerusalemme sulla cavalcatura. Quando Gesù entra a Gerusalemme, sulla cavalcatura con lui c’è il pover’uomo che giaceva sulla strada, ci siamo noi, c’è anche Paolo, che è stato caricato da Gesù lungo la strada.

Vedete il programma di Paolo è saltato per aria. Ma mai come adesso Paolo è stato vicino a Gesù, mai come adesso Paolo scopre

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che Gesù lo ha guardato, lo ha riconosciuto, si è preso cura di lui, Gesù ha versato olio e vino sulle sue ferite, lo ha caricato sulla cavalcatura, mai come adesso Paolo è stato vicino a Gesù.

Quindi, niente martirio, anzi, adesso comincia il tempo di una lunga carcerazione, Paolo resta mesi, anni in carcere. A far che cosa? Intanto il tribuno, il procuratore che fanno questo e quest’altro e poi e poi.. bisogna evangelizzare i pagani, andare in giro per il mondo. Mai come adesso Paolo è stato vicino a Gesù. E’ il tempo forte della conversione. E’ il tempo decisivo, determinante, per la conversione di Paolo, un tempo lunghissimo.

Atti 24- 28: Il noviziato finale di Paolo Nel c. 23 v. 11 vi leggiamo“la notte seguente gli viene accanto il

Signore e gli dice: coraggio…” vedete, le porte si chiudono ma nello stesso tempo lo spazio è più grande, è uno spazio dentro il cuore. Gli viene accanto il Signore. Ma Paolo è in carcere. E’ il tempo per Paolo del noviziato finale della sua vita. Anche fisicamente Paolo è costretto a rimanere nello spazio ristretto di un carcere, i grandi progetti dell’attività pastorale sono spazzati via. Il grande progetto del suo martirio, nel Nome di Gesù, ora sembra una piccolezza, rispetto ad anni ed anni di carcere. Ma intanto lo spazio interiore di Paolo si allarga. In questo piccolo angolo di mondo, che è un carcere, il cuore di un cristiano si spalanca sempre di più, e con lui un disegno d’amore eterno, l’amore di Dio.

Paolo si trova a Cesarea nel pretorio, è agli arresti e viene ascoltato dal procuratore romano Felice. E intanto passa il tempo. Resta a Cesarea per due anni. Felice è un funzionario dello stato che fa il suo mestiere, gl’importa poco la verità, la giustizia, l’onestà. Fa’ il suo mestiere. E Paolo rimane in prigione. Felice si aspettava soldi da Paolo, ma Paolo non ha denaro e non c’è nessuno che paga per lui. Non c’è nessuno che intervenga. Paolo è solo. E’ una situazione compromettente. E’ una situazione imbrogliata. Il Procuratore

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vuole guadagnarsi qualcosa ma non ci guadagna, e perciò Paolo resta in carcere.

E’ una situazione squallida. Paolo non è diventato martire a Gerusalemme, ma è stato abbandonato a sé stesso, Paolo vive un giorno dopo l’altro in un ambiente poco raccomandabile, alle prese con persone che non sono certo al suo livello. E’ in carcere, ci sono le guardie, ci sono le persone ragguardevoli che hanno delle responsabilità verso di lui. Ma Paolo sta lì. Cosa fa? Legge, studia, prega, tratta con tutti, dialoga con tutti.

E’ veramente il tempo decisivo per quanto riguarda la formazione cristiana di Paolo. Spesso quest’ultimi capitoli degli Atti vengono trascurati, si leggono poco, di corsa e si dimentica di prendere in considerazione che è il tempo più prezioso per la maturazione della vita cristiana.

Tanto quello che doveva succedere già è successo, adesso non succede niente, quindi tanto vale arrivare subito alla fine. Invece questi pochi capitoli coprono lo svolgimento di anni e sono gli anni decisivi per la formazione di un cristiano come Paolo.

Sono gli anni decisivi per quanto riguarda il suo discepolato, la sua profezia nel Nome di Gesù, la sua immersione nel mistero del Signore, che è morto e che è risorto. Per quanto riguarda la sua comunione con Gesù. Il protagonista della visita di Dio, della gratuità dell’Amore. Paolo sta imparando ad amare, per questo il nostro Luca dà tanta importanza a questi capitoli. Anche se noi quando li leggiamo facciamo finta che non ci siano.

Noi preferiamo leggere i capitoli che raccontano quando Paolo predica in piazza, quando fa l’apostolato. Ma poi ci accorgiamo che le cose non corrispondono. Adesso Paolo è in carcere. Dunque non ci interessa più, non riguarda più il nostro carisma. Però questo che è il carisma della vita cristiana, e purtroppo lo trascuriamo ed è questo carisma che deve giungere alla sua maturazione.

In un luogo così chiuso, così angusto, così ristretto, nella cella di un carcere, lo spazio del cuore si allarga. Paolo ne vede di tutti i colori. Paolo è pronto a dialogare con tutti. Rendiamoci conto che

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coloro che dovevano essere più vicini a lui, essere accanto a lui, magari fare una colletta per liberarlo, si sono dimenticati di lui. Nessuno ha detto: paghiamo per lui, per la sua liberazione. E’ rimasto solo, ma Paolo non si scandalizza più di niente e di nessuno.

Intanto (c. 25) è arrivato a Cesarea un altro procuratore romano: Festo. Di nuovo il processo, ma non ci sono soluzioni. Allora Paolo chiede di andare a Roma per essere processato davanti all’Imperatore. E’ cittadino romano e dunque ha il diritto di essere processato a Roma. Ma che figura ci fa un procuratore mandando un imputato senza imputazione? Bisogna trovare un’imputazione, ma non c’è.

E qui compare il re Agrippa II. Una figura squallida e sua “sorella” Berenice. Vogliono parlare con Paolo, sono curiosi. Paolo compare davanti al procuratore e a Erode Agrippa e fa un discorso. Al c. 26 per la terza volta Paolo racconta quello che è avvenuto, e mentre racconta Paolo continua a riflettere su quello che è successo. Come nel c. 22 anche qui Paolo racconta. Spiega cosa gli è successo.

“Per queste cose i giudei mi assalirono… io posso rendere testimonianza…” (26, 21). Nell’originale greco si traduce: io posso rendere testimonianza al piccolo e al grande. Noi immaginiamo che Paolo stia viaggiando per le strade del mondo perché deve evangelizzare i pagani, ma invece Paolo sta in carcere e parla con i vicini. Parla con le guardie, con i piccoli e con i grandi. Ogni tanto si trova con il procuratore romano. Rendo testimonianza ai piccoli e ai grandi. “Nulla ho insegnato di diverso da ciò che i profeti, compreso Mosè, hanno detto dover accadere, cioè che il Messia avrebbe sofferto; che, come primo dei risorti, avrebbe recato la luce a Israele e ai pagani” (vv. 22-24).

Ecco è la visita di Dio oggi! La promessa di Dio è compiuta. E’ l’opera di Dio che si è realizzata. E’ la rivelazione di un amore vittorioso, di un amore glorioso, più grande di tutto, che contiene tutto, che riconcilia tutte le creature secondo le intenzioni del Creatore. Mentre egli parlava così, Festo dice: “sei pazzo Paolo”. E Paolo risponde che non è pazzo. Anzi desidera che altri possano

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essere come lui, tranne che per le catene. Ma in verità nessuno è interessato al suo discorso. Si decide perciò di mandarlo a Roma, perché da cittadino romano, si è appellato a Cesare.

Viaggio verso Roma Il racconto degli Atti prosegue narrando le vicissitudini di

questo viaggio di Paolo, persino un naufragio. Ricordate il libro di Giona, il profeta. Anche Giona fa un naufragio. Paolo naufraga nel Mediterraneo e tutti si salvano. Questo viaggio acquista il significato simbolico di una ricapitolazione generale. E’ la storia di Paolo, della sua vita: un naufragio.

Allora diventa un fallimento, ma è il suo battesimo, un battesimo che acquista adesso una fecondità davvero straordinaria perché nel suo battesimo personale , nel suo morire in comunione con Gesù, c’è una forza di vita fecondissima, una forza di amore che contiene tutto il mondo e tutta la storia umana, la nave, il mare, la storia del mondo.

Paolo è sulla nave ma come cristiano è solo. Eppure, attraverso quel naufragio sta evangelizzando in pienezza, attraverso la sua esperienza così personale, così limitata, annuncia la gratuità di Dio, porta in sé la storia dell’umanità. Oltre tutto, al c. 27, ritorna la prima persona plurale: “il giorno dopo facemmo scalo a Sidòne e Giulio, con gesto cortese verso Paolo, gli permise di recarsi dagli amici e di riceverne le cure” (v. 3). C’è un centurione romano di nome Giulio. E’ un uomo cordiale che gli concede di muoversi con una certa libertà.

Paolo ormai è capace di sorridere a tutti, anche al centurione romano, sprigiona una simpatia, una cordialità verso tutti. Soffia il vento, ci sono venti che irrompono sulla scena con una potenza straordinaria. E’ un vortice di venti: vv. 4.7.12.14. E’ un pezzo che negli Atti non si parlava dallo Spirito Santo, l’ultima volta che si è parlato dallo Spirito Santo è stato al c. 21, quando Paolo cercava di celebrare la Pentecoste a Gerusalemme. Adesso la Pentecoste sembra coincidere con questa esplosione di venti che sconvolgono

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la scena del mondo, la superficie del mare, l’umanità, il viaggio di Paolo.

La grande tempesta è affrontata da Paolo come rivelazione di quel disegno provvidenziale per cui si compie l’opera di Dio, la visita di Dio che realizza una totalità d’amore, che ha un valore, eterno, definitivo, universale: la salvezza! E’ una storia di salvezza, è una tempesta, è la Pentecoste! Il naufragio, il disastro, il pericolo di affondamento, qui anneghiamo tutti…nel battesimo che è la Pasqua del Signore, la storia della nostra salvezza.

Nel corso del viaggio il problema diviene sempre più urgente, qui è in gioco la vita di tutti; la vita di tutti gli altri che sono sulla nave è legata alla vita di Paolo. C’è un legame indissolubile ormai tra la vita degli altri e la vita di Paolo. Qui è in questione la salvezza universale. Il racconto mette in evidenza che non c’è più possibilità di distinguere tra Paolo e gli altri: se c’è salvezza per Paolo, per la sua vita, allo stesso tempo c’è salvezza per tutti.

“Da vari giorni non compariva più il sole... tuttavia non ci sarà nessuna perdita di vite umane, bensì unicamente della nave” (vv. 20.22). Nessuna perdita di vite. “ Mi apparve un angelo di Dio, quel Dio a cui appartengo e che servo…” (v. 23). Paolo racconta che dovendo lui arrivare a Roma, tutti gli altri si salveranno. Coraggio, tutto accadrà come è stato annunziato.

“Finché non spuntò il giorno” (v. 33a). Il giorno è oggi, è sempre oggi, il giorno in cui sorge l’alba ed illumina la scena per condurci al porto della salvezza. Certo con tanti disastri, con tanti tribolazioni, con tante sofferenze… e allora, “oggi è il 14° giorno che passate digiuni nell’attesa, senza prender nulla. Per questo vi esorto a prendere cibo”(vv. 33-34). Questa è l’attualità della storia di tutti gli uomini. Oggi è la Pasqua del Signore, oggi è la rivelazione di un’opera del Signore che rimane per sempre, vittoriosa, che ha una fecondità universale, è oggi la nuova creazione nel soffio dello Spirito Santo.

“Dette queste parole, prese del pane, rese grazie a Dio alla presenza di tutti, lo spezzò e per primo ne mangiò” (v. 35). Sapete cosa fa qui

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Paolo? Celebra l’Eucaristia. Prende il pane e celebra l’Eucaristia davanti ai pagani, davanti al mondo. La grande preghiera di benedizione, un grande segno della riconciliazione e della nuova creazione. La gente è incoraggiata anche se non capisce. Ma tutti prendono cibo e si rianimano.

Poi la nave si incaglia, se ne va a pezzi, ma tutti si mettono in salvo. La vita di Paolo ha preso una piega interessante. Mai come adesso Paolo si è trovato proprio inserito nell’oggi della salvezza di tutta l’umanità. Questo è il valore della storia umana, dal momento che il Figlio di Dio è disceso e risalito, è morto e risorto, lo Spirito di Dio è stato diffuso. Quelli che erano sulla nave non lo sanno, né Paolo è in grado di spiegarlo. Ma l’opera della salvezza si compie, oggi (cf v. 40).

Arrivano a Malta (c. 28). Qui di nuovo ci sono incontri che Paolo non avrebbe immaginato. Attorno a Paolo anche degli sconosciuti. Paolo riesce a scoprire il valore autentico, prezioso che persone sconosciute manifestano con i loro comportamenti, con le loro parole piene di umanità. Gente buona. “Ci accolsero attorno a un fuoco” (v. 2). E qui accade qualcosa di molto interessante: una vipera si attacca alla mano di Paolo mentre sta raccogliendo alcuni sterpi per ravvivare il fuoco.

Scampato dal mare, pensano gli astanti, quest’uomo ora morirà per la vipera. Ma non è così, Paolo scuote la mano e la vipera cade nel fuoco senza fargli alcun male. Tutti restano impressionati. Notate che la vipera appare all’inizio del racconto di Luca e qui alla fine (cf Giovanni Battista: razza di vipere!).

Ma qui abbiamo a che fare con un uomo nuovo, Paolo, che non subisce alcun danno da parte del serpente, il serpente non ha più veleno per lui, non ha più veleno. Quando un uomo è rinnovato in Cristo non ha più niente da temere, il serpente non ha più potere, perché vedete tutto per quell’uomo diventa rivelazione d’amore. Potrà morire, morirà, ma tutto in quell’uomo rimane testimonianza della misericordia vittoriosa di Dio, testimonianza di Gesù. Il serpente non ha più potere.

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Poi Paolo si dà da fare. A Malta passano alcuni mesi, passa l’inverno. Riprendono il viaggio. Approdano a Siracusa, poi a Reggio Calabria. C’è lo scirocco, un vento del Sud, e arrivano a Pozzuoli, dove sono accolti da alcuni fratelli. Poi dopo una settimana arrivano a Roma. Paolo rimane carcerato, è sotto custodia militare, ma in una situazione che gli permette di mantenere tanti contatti. Passano altri due anni, non è uno scherzo. Sono altri due anni a Roma.

Il processo non ha luogo. Vedete quanto tempo! Oltre tutto ci interesserebbe sapere cosa succede dopo, invece qui il nostro Luca non ci dice come vanno a finire tutte queste cose. Ma poi da altre fonti, sappiano che Paolo sarà martire a Roma, ma questo Luca non ce lo racconta. Perché il martirio non significa automaticamente lapidazione o decapitazione, il martirio è la profezia della vita cristiana, che si esprime con le innumerevoli possibilità dell’amore gratuito.

Il resto, in un certo modo, è coreografia, perché la qualità autentica della vita cristiana, la fecondità della vita cristiana sta nella pazienza di una testimonianza d’amore, che è profezia della vita cristiana. Questo è il motivo per cui Paolo nelle icone è raffigurato con i capelli che hanno un ciuffo centrale sulla fronte: è il segno dell’Agape. Paolo è raffigurato come il maestro dell’amore, dell’agape.

A Roma Paolo prende contatti con gli altri giudei che sono residenti nella capitale dell’impero. Spiega le sue cose. Ci sono quelli che si avvicinano interessati, e ci sono quelli che sono risentiti. Una storia vecchia questa.

Nei vv. 26-27 si fa riferimento ad una citazione di Is 6,9: “va’ da questo popolo… porgerete l’orecchio, ma non comprenderete…”, al v. 28 Paolo dice: “Sia dunque noto a voi che questa salvezza di Dio viene ora rivolta ai pagani ed essi l’ascolteranno”. Paolo ha sempre davanti a sé questo panorama immenso, questa visione del mondo, della storia umana, l’evangelizzazione dei vicini e dei lontani. Oggi e per il tempo che verrà. Porte che si chiudono e il cuore che si apre. Un

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piccolo cristiano come Paolo, in un angolo di mondo, porta in sé la visita di Dio, oggi!

“Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva presa a prigione e accoglieva tutti” (v. 30). Siamo arrivati alla fine, ma forse a noi non sembra la fine. Tant’è vero che alcuni studiosi pensavano che era sparita l’ultima parte degli Atti. Ma gli Atti finiscono proprio qui. Paolo che accoglieva tutti. Una stanza per accogliere il mondo. Un “povero cristo” sconosciuto, in un angolo del mondo, che accoglie tutti nella stessa gratuità d’amore con cui è stato amato da Cristo.

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Indice

Presentazione

3

Introduzione: il mistero della vita cristiana

4

Atti 1: Una comunione d’Amore nella libertà

5

Atti 2: Il dono dello Spirito

7

Atti 3,1-4,22: Nel Nome di Gesù

9

Atti 6 e 7: La testimonianza di Stefano

12

Il carisma di Pietro

20

Atti 9,32ss: L’opera di Pietro fuori di Gerusalemme

26

Atti 10: Pietro evangelizza i pagani

29

Atti 12: Pietro, liberato dal carcere, evangelizza la Chiesa

32

Atti 9: La conversione di Saulo

40

Atti 11-12: Barnaba, il dono della mediazione

48

Atti 13-20: I viaggi missionari di Paolo

55

La missione è un’esperienza contemplativa

57

Pietro dirime la questione della circoncisione

58

Paolo entra in Europa

60

Il terzo viaggio missionario di Paolo

63

Paolo ripensa a tutta la sua missione

66

Atti 21 - 23: Paolo imprigionato

71

Atti 24- 28: Il noviziato finale di Paolo

78

Viaggio verso Roma

81

Indice

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Lettura spirituale degli Atti degli Apostoli - 87

Lettura spirituale degli Atti degli Apostoli - 88

Descrizione dell’icona L’icona degli apostoli Pietro e Paolo, è un’opera recente e si

trova nella chiesa parrocchiale dei Santi Pietro e Paolo a Castelrotto (Bolzano).

Raffigura i due massimi apostoli e pastori della Chiesa nell’atto di sostenere la Chiesa di Dio e di presentarla a Cristo sposo, che nell’icona appare nella mandorla in alto.

Cristo, fondamento e pietra angolare della Chiesa, si avvale del ministero di Pietro, che apre le porte dell’Evangelo a tutti ed evangelizza la stessa Chiesa. E del ministero di Paolo, che dona alla Chiesa il linguaggio teologico nuovo per la sua missione universale.

Ambedue gli apostoli sono le colonne portanti dell’edificio spirituale della Chiesa e reggono tra le mani i sacri Testi, su cui è testimoniata la loro funzione pastorale.

Il loro piedi divaricati esprimono l’atteggiamento di chi è in cammino, per annunciare l’Evangelo attraverso il tempo e lo spazio.

Casa generalizia – Roma Febbraio 2006