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LETTURE CRITICHE · Volume 2 ESPOSITO-PORRO © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI 1 AMBIGUITÀ E CONTRADDIZIONI NELLA CULTURA RINASCIMENTALE Per molto tempo la critica storica ha seguito e tramandato una nozione di “Umanesimo” e un’immagine del Rinascimento – il cui paradigma rimanevano le vicen- de intellettuali e politiche italiane tra Quattrocento e Cin- quecento – indicative di un’epoca “solare”, un’epoca in cui le tenebre del Medioevo si illuminano progressivamente e inarrestabilmente verso l’affermazione dell’uomo come mi- sura ultima della natura e della storia. Emblema di questa linea interpretativa (in cui gli elementi di rottura risultano notevolmente enfatizzati rispetto a quelli di continuità) è la grande opera di Jacob Burckhardt su La civiltà del Rinasci- mento in Italia (1860). I due brani che seguono propongono una più calibrata inquadratura dell’età umanistico-rinascimentale. Nel primo brano, tratto da Eugenio Garin, uno dei massimi studiosi di questo periodo storico, si insiste sul- la discontinuità che il Rinascimento ha costituito rispetto al Medioevo (non tanto nei singoli contenuti dottrinali, quanto piuttosto nel nuovo approccio e nella più generale prospet- tiva di un’autonoma visione dell’uomo e del mondo), ma al tempo stesso si prendono le distanze dal mito della novità e da un’idea, per così dire, “trionfalistica” dell’uomo del Rina- scimento, evidenziando la persistente e dolente consapevo- lezza della perdita ormai irrimediabile di un senso unitario e di un ordine complessivo della realtà. Nel brano di Michele Ciliberto questa lettura in chiaroscuro viene ulteriormente approfondita con l’obiettivo di riformulare l’interpretazione dell’epoca rinascimentale nel segno di una permanente dialettica tra “disincanto” (cioè, una visione tragica della finitezza dell’uomo e del mondo) e “utopia” (vale a dire, la capacità di inventarsi e costruirsi un nuovo ordine del mondo). E. Garin, Medioevo e Rinascimento. Studi e ricerche [Laterza, Bari 2007 2 , pp. 85-86; 95-100] L’interesse che muove oggi da varie parti verso un ripensamento degli aspetti più importanti della cultura umanistico-rinascimentale non è dovuto, io credo, solamente all’essersi logorata, sotto tanti punti di vista, un’interpretazione storica che a suo tempo sedusse molti di noi, ma che ormai si presenta non più rispondente a troppe esigenze metodiche, a troppi problemi che si affacciano attuali alla nostra coscienza, e che ci fanno intendere meglio, e quasi mettono a fuoco, temi e motivi trascurati o ignorati del tutto da chi ci precedette. Questa crisi particolare di una impostazione storica opera senza dubbio; ma in verità essa è come secondaria rispetto al bisogno di renderci conto fino in fondo delle linee orientatrici essenziali della nostra cultu- ra; ed è, appunto, questo bisogno che ci riporta di continuo a quello che rimane un momento cruciale nella storia dell’occidente; e non solo della filosofia in senso stretto come tecnica di- scussione di determinati problemi, ma di tutta la vita dell’uomo, che vide, anzi, proprio allora, mutati gli orizzonti della sua indagine più seria, onde avvenne, forse, che, proprio in quei se- coli decisivi, cadesse per sempre, anche se i professionisti non se ne sono ancora resi ben con- to, una veneranda forma del filosofare. Perché, veramente, si consumò allora, per sempre, una certa maniera di vedere le cose, e per sempre tramontò una annosa immagine del mondo. [...] Laddove una storia di maniera era solita rappresentarsi questo rinascere dell’umanità dell’uomo libero come una marcia trionfale di certezze e di opere, chi ripercorra le testimo- nianze più valide di quel tempo, e penso soprattutto al ’400, trova affiorante ad ogni passo la oscura consapevolezza di una fine, che per gloriosa che sia è pur sempre una fine. Non manca, certo, il richiamo vivo e continuo ad una costruzione nuova; né fa difetto l’assicurazione che l’uomo è davvero capace di ricostruire sé e il suo mondo; ma c’è anche, costante, la coscienza che la sicurezza tranquilla di un universo familiare e domestico, ordinato ed accomodato ai nostri bisogni, è per sempre perduta. [...] da

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LETTURE CRITICHE · Volume 2

ESPOSITO-PORRO • © 2012, GIUS. LATERZA & FIGLI, ROMA-BARI

1 AMBIGUITÀ E CONTRADDIZIONI NELLA CULTURA RINASCIMENTALE

Per molto tempo la critica storica ha seguito e tramandato una nozione di “Umanesimo” e un’immagine del Rinascimento – il cui paradigma rimanevano le vicen-de intellettuali e politiche italiane tra Quattrocento e Cin-quecento – indicative di un’epoca “solare”, un’epoca in cui le tenebre del Medioevo si illuminano progressivamente e inarrestabilmente verso l’affermazione dell’uomo come mi-sura ultima della natura e della storia. Emblema di questa linea interpretativa (in cui gli elementi di rottura risultano notevolmente enfatizzati rispetto a quelli di continuità) è la grande opera di Jacob Burckhardt su La civiltà del Rinasci-mento in Italia (1860).

I due brani che seguono propongono una più calibrata inquadratura dell’età umanistico-rinascimentale.

Nel primo brano, tratto da Eugenio Garin, uno dei massimi studiosi di questo periodo storico, si insiste sul-

la discontinuità che il Rinascimento ha costituito rispetto al Medioevo (non tanto nei singoli contenuti dottrinali, quanto piuttosto nel nuovo approccio e nella più generale prospet-tiva di un’autonoma visione dell’uomo e del mondo), ma al tempo stesso si prendono le distanze dal mito della novità e da un’idea, per così dire, “trionfalistica” dell’uomo del Rina-scimento, evidenziando la persistente e dolente consapevo-lezza della perdita ormai irrimediabile di un senso unitario e di un ordine complessivo della realtà.

Nel brano di Michele Ciliberto questa lettura in chiaroscuro viene ulteriormente approfondita con l’obiettivo di riformulare l’interpretazione dell’epoca rinascimentale nel segno di una permanente dialettica tra “disincanto” (cioè, una visione tragica della finitezza dell’uomo e del mondo) e “utopia” (vale a dire, la capacità di inventarsi e costruirsi un nuovo ordine del mondo).

E. Garin, Medioevo e Rinascimento. Studi e ricerche[Laterza, Bari 20072, pp. 85-86; 95-100]

L’interesse che muove oggi da varie parti verso un ripensamento degli aspetti più importanti della cultura umanistico-rinascimentale non è dovuto, io credo, solamente all’essersi logorata, sotto tanti punti di vista, un’interpretazione storica che a suo tempo sedusse molti di noi, ma che ormai si presenta non più rispondente a troppe esigenze metodiche, a troppi problemi che si affacciano attuali alla nostra coscienza, e che ci fanno intendere meglio, e quasi mettono a fuoco, temi e motivi trascurati o ignorati del tutto da chi ci precedette. Questa crisi particolare di una impostazione storica opera senza dubbio; ma in verità essa è come secondaria rispetto al bisogno di renderci conto fino in fondo delle linee orientatrici essenziali della nostra cultu-ra; ed è, appunto, questo bisogno che ci riporta di continuo a quello che rimane un momento cruciale nella storia dell’occidente; e non solo della filosofia in senso stretto come tecnica di-scussione di determinati problemi, ma di tutta la vita dell’uomo, che vide, anzi, proprio allora, mutati gli orizzonti della sua indagine più seria, onde avvenne, forse, che, proprio in quei se-coli decisivi, cadesse per sempre, anche se i professionisti non se ne sono ancora resi ben con-to, una veneranda forma del filosofare. Perché, veramente, si consumò allora, per sempre, una certa maniera di vedere le cose, e per sempre tramontò una annosa immagine del mondo. [...]

Laddove una storia di maniera era solita rappresentarsi questo rinascere dell’umanità dell’uomo libero come una marcia trionfale di certezze e di opere, chi ripercorra le testimo-nianze più valide di quel tempo, e penso soprattutto al ’400, trova affiorante ad ogni passo la oscura consapevolezza di una fine, che per gloriosa che sia è pur sempre una fine. Non manca, certo, il richiamo vivo e continuo ad una costruzione nuova; né fa difetto l’assicurazione che l’uomo è davvero capace di ricostruire sé e il suo mondo; ma c’è anche, costante, la coscienza che la sicurezza tranquilla di un universo familiare e domestico, ordinato ed accomodato ai nostri bisogni, è per sempre perduta. [...]

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1. Ambiguità e contraddizioni nella cultura rinascimentale · LETTURE CRITICHE

Premetter questo è necessario per sottolineare, assieme all’attualità di un problema, il si-gnificato che resta, sempre più profondo, al tema della novità del pensiero del Rinascimento, contro cui da più parti si muove, sia riconducendo la «rinascita» al secolo XII, o addirittura all’epoca carolingia, sia negando che effettiva novità vi si trovi [...]. Si può dire, anzi, che molta della più recente attività storiografica intorno alle origini del pensiero moderno sia im-pegnata a demolire la visione tradizionale di una rottura, che avrebbe caratterizzato il trapasso da un modo di concepire all’altro [...].

È stata certo una delle conquiste dell’odierna indagine storica aver visto che il mito del rinascere, della nuova luce, e quindi della corrispondente tenebra, era stato proprio il frutto della polemica condotta dagli umanisti contro la cultura dei secoli precedenti. È indiscutibile che gli scrittori del ’400 hanno insistito fino all’esasperazione sulla loro rivolta contro una situazione di barbarie, per una rinascita della humanitas. Come è indiscutibile che il senso di una svolta radicale nel corso della storia non fu mai altrettanto vivo nelle età precedenti. L’i-dea che un mondo intero si inabissa, si fa avanti da ogni parte, e da ogni parte esce conferma-ta, mentre una visione del mondo, che sembrava ormai cristallizzata, cadeva invece irremis-sibilmente. L’immagine tradizionale della terra veniva infranta dalle scoperte; la concezione dell’universo era stata scossa molto prima di Galileo, da quando le premesse «psicologiche» della tesi tolemaica erano state schiantate da tutta un’annosa critica che si trovava ormai ad affrontare le conseguenze, certo non trascurabili, di un universo infinito, della possibilità di altri mondi abitati, di una posizione della terra non più privilegiata. Né v’è bisogno d’insistere sull’eco che idee e osservazioni cosiffatte potevano avere sul piano teologico. Orbene, la pro-duzione storiografica contemporanea, nell’atto stesso in cui ha colto la coscienza che il Rina-scimento ebbe di sé, la ha curiosamente rovesciata nella negazione della sua novità. Se il tema luce-tenebre è vecchio di secoli, ed affonda le sue radici in una antica tradizione religiosa; se, dunque, le tenebre medievali e, con esse, la «rinascita» sono solo un ritrovato polemico bene individuabile, che proprio il Rinascimento ha consegnato alle età successive; se non si tratta che di un argomento di battaglia variamente sfruttato, ma di origine bene accertata; ogni af-fermazione di novità e di frattura è messa in forse. D’altra parte, il lavorio critico per ritrovare nel passato medievale i contenuti specifici delle posizioni rinascimentali più solennemente consacrate, ha avuto facili successi: il Medioevo amava i classici non meno del Rinascimento; Aristotele era sulla bocca di tutti, e forse meglio che nel ’400; Platone era noto anch’esso, e non solo indirettamente. I poeti, gli storici, gli oratori si conoscevano e si apprezzavano. Bernardo Silvestre scriveva poemi filosofici degni di Bruno; Bernardo di Chartres celebrava la veritas filia temporis; i giuristi rinnovavano tutta l’essenza della saggezza romana; la va-lorizzazione dell’uomo era più potente e meditata in san Tommaso che non in Ficino; mentre naturalismo ed empietà, Machiavelli, Pomponazzi, Bruno, proprio là dove sembrano più ar-diti e più nuovi sono più vecchi e lontani: eredi più o meno consapevoli dell’alessandrismo medievale, già condannato nel 1210, dell’averroismo e, attraverso la scienza araba, di remoti spunti ellenistici.

Escluso così, in base alla permanenza di contenuti e problemi, un rinascimento come po-sizione originale sul terreno del pensiero, si è ricondotto il fenomeno umanistico al settore degli studia humanitatis, ma intesi in senso ristretto, come studi grammaticali, che avrebbero assunto nel secolo XIV una maggiore importanza. [...]

La giusta esigenza di intendere il lento processo, sulle cui basi è maturata e fiorita una grande epoca della cultura, si rovescia nella sua negazione, sì che da più parti, oggi, il ric-co contenuto di minuziosi schedari sembra colmare ogni distanza alterando le prospettive. Ancora una volta, è stato fatale quel medesimo errore che era alla base delle vecchie inter-

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pretazioni, intente a ricercare il segreto della novità nella differenza e nell’opposizione dei contenuti. [...]

L’orgoglioso mito della rinascita, della luce che fuga le tenebre, dell’antico che ritorna, nella sua forza polemica non ci rimanda materialmente a un contenuto: sottolinea un animo nuovo, una forma nuova, uno sguardo nuovo rivolto alle cose; sottolinea, soprattutto, la co-scienza desta di questo nuovo nascimento dell’uomo a se stesso. Proprio l’antico, quel mondo classico a cui si guarda con occhi nostalgici, è in tutt’altro modo che viene ormai considerato e amato.

La favola del rinascimento pagano [...] cade nell’atto stesso in cui ci facciamo a studiare la profonda serietà della filologia dell’umanesimo [...]. Proprio qui si opera quel consapevole distacco di cui tanto erano orgogliosi gli umanisti: il distacco del critico, che alla scuola dei classici non va per confondersi con essi, ma per definirsi in rapporto con essi. [...] Un mondo si conchiudeva, e veniva scoperto proprio là dove era conchiuso; antico volto non più fatto materia di una costruzione nuova, ma collocato per sempre nella storia di fronte a noi; non più confuso nella nostra vita, ma contemplato nella sua verità. [...] Il mito rinascimentale dell’antico, proprio nell’atto in cui lo definisce nei suoi caratteri, segna la morte dell’antico. Per questo fra antichità e Medioevo non v’è rottura, o ve n’è assai meno che non fra Medio-evo e Rinascimento; perché solo il Rinascimento, o meglio la filologia umanistica si è resa cosciente di una rottura che il Medioevo aveva pur maturato portandola all’esasperazione. E qui, proprio a questo punto, si affermavano le esigenze più vive della nostra cultura: nella pre-occupazione di definirci attraverso la definizione dell’altro; nell’acquisizione del senso della storia che è senso del tempo; nel vedere la storia e il tempo come dimensioni proprie della vita dell’uomo; nel liberarci e staccarci per sempre dall’immagine di un mondo solido e fisso, scandito nei suoi gradi e saldo nelle sue gerarchie, definitivo; un mondo che è cosmo da con-templare, su cui il tempo non incide, perché sicuro dell’eternità, e per l’eternità ruotante in sé in cerchi sempiterni. E tanto solida era stata quella realtà nella sua non temporale sussistenza, che aveva inesorabilmente stritolato i profeti della liberazione dell’uomo, inducendo proprio la grande speculazione medievale nella diabolica tentazione di assorbire il conturbante mes-saggio cristiano entro la sicurezza del mondo aristotelico.

L’umanesimo, da Petrarca in poi, si spostò su un piano diverso, e cercò, come è proprio di tutti i rinnovamenti fecondi, la soluzione a una via senza uscita per una via nuova: sul terreno della poesia e della filologia, della vita morale e politica, e poi su quello, a volte apparente-mente nemico, eppure intimamente affine, di tutte le arti che volevano empiamente cambiare e sovvertire il mondo. Attraverso la filologia e la poesia vichianamente intese, attraverso il sapere scientifico, era nata la nuova filosofia.

M. Ciliberto, Pensare per contrari. Disincanto e utopia nel Rinascimento[Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2005, pp. 1-3]

Il centro di questa cultura sta [...], almeno a mio giudizio, in una dialettica continua – e aperta a esiti molto diversi – fra una visione tragica della realtà a tutti i livelli e una straordinaria capacità di costruire modelli utopici; sta, appunto, nel rapporto tra ‘disincanto’ e ‘utopia’.

Questa polarità, presente nei maggiori pensatori dell’epoca rinascimentale – da Machia-velli a Bruno –, non è accidentale. Tutt’altro. Quella del Rinascimento è una cultura impernia-ta nel contrasto fra poli che non si sciolgono mai l’uno nell’altro, essendo elementi costanti di una tensione la quale, specie nei suoi rappresentanti più alti, non si risolve mai in maniera

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1. Ambiguità e contraddizioni nella cultura rinascimentale · LETTURE CRITICHE

definitiva, una volta per tutte. Sta qui, al fondo, l’originalità – e la specificità – di quell’epoca straordinaria; e qui sta anche la distanza fra l’esperienza rinascimentale e quello che si è soliti definire ‘mondo moderno’, il quale si è confrontato con molte di quelle tensioni, ma dando ad esse un esito originale, in un quadro assai definito. A differenza di quanto abbia pensato una gloriosa tradizione storiografica, tra Rinascimento e ‘mondo moderno’ ci sono differenze incolmabili, pur se lungamente occultate dal mito del Rinascimento come ‘genesi’ dell’età moderna. Quella lunga stagione ormai è finita, né ha senso rimpiangerla: per cogliere il si-gnificato e il valore del Rinascimento non è più necessario connetterlo, in modo strutturale, all’epoca ‘moderna’ come spesso si è fatto, fornendo paradossalmente argomenti a coloro che hanno cercato di cancellare il Rinascimento costruendo, per contrasto, una immagine della ‘modernità’ imperniata sul primato della ‘ragione scientifica’ classica. Oggi che il concetto stesso di ‘mondo moderno’ è in crisi, anzi in via di dissoluzione, sarebbe veramente insensato che continuasse ad essere, nel bene e nel male, pietra di paragone del Rinascimento.

Insistere ancora su modelli di ascendenza genericamente burckhardtiana, incentrati sulla rivendicazione del carattere ‘solare’, armonico del Rinascimento (modelli da cui in verità è lo stesso Burckhardt ad essere del tutto lontano), è, dunque, sbagliato. Ma è altrettanto sbagliato battere in modo unilaterale sulla dimensione notturna, umbratile del Rinascimento, che pure c’è stata, e in modo cospicuo, ma che non può diventare una sorta di moda, come spesso è accaduto negli ultimi decenni, per motivi di ordine storico che non sarebbe difficile decifrare. Sono, l’uno e l’altro, modelli critici da cui occorre prendere le distanze. Come si è cominciato a dire, il nucleo centrale di questa esperienza sta, infatti, nella dialettica costante – e mai risol-ta – tra disincanto e utopia, tra sogno e disperazione, tra acuto, e tragico, realismo e una stra-ordinaria capacità di proiettarsi oltre la realtà, attraverso la costruzione di grandi miti religiosi, estetici, scientifici, umani – nell’accezione più larga del termine. Ignorare uno solo dei lati di questa permanente tensione vuoi dire non cogliere il ‘centro’ del Rinascimento, quello che ne ha fatto, e continua a farne, un momento eccezionale nella storia dell’Italia e dell’umanità.

È probabile, anzi, sicuro che in questa dialettica mai conclusa abbia giocato un ruolo cen-trale la ‘crisi’ italiana, e la consapevolezza di questa ‘crisi’ che i pensatori più importanti dell’epoca hanno avuto, in un modo, e in una misura, addirittura tragici. Si tratta di un dato centrale che, spesso, si tende a dimenticare, specie nei lavori di una ‘storia della cultura’ asetticamente concepita. Ma ciò che conta nella loro esperienza – facendone una vicenda intellettuale ed umana irripetibile – è proprio la capacità che essi, al contempo, hanno avuto di spingersi oltre questa crisi, costruendo grandi ‘utopie’ che la riscattano, e la risolvono, consegnando all’Italia un ruolo eccezionale nella storia della civiltà. Né si tratta di un aspetto caratteristico solo dei filosofi o dei pensatori politici: anche in una personalità operante in un campo assai diverso come Michelangelo – per fare un nome solo, ma grande – questa dinami-ca dei ‘contrari’ risulta assai chiara, come appare in maniera esemplare dalla contrapposizione strutturale fra ‘corpo’ e ‘luce’, fra ‘sommersi’ e ‘salvati’ della Cappella Sistina; o dalla figura tragica – e mai risolta – dei ‘prigioni’.

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2 FILOSOFIA DELLA NATURA E SCIENZA MODERNA

La nascita di quella che chiamiamo “età moder-na” trova certamente uno dei suoi momenti di gestazione nel progressivo affermarsi, a partire da alcune decisive scoperte di carattere scientifico, di una nuova concezione dell’universo fisico e della posizione del mondo al suo in-terno.

Una breve mappa della scienza europea è offer-ta dal brano di Paolo Rossi.

Il brano di Alexandre Koyré coglie tutta la por-

tata del passaggio dal mondo chiuso all’universo infinito nella coscienza europea tra Cinquecento e Seicento.

Thomas S. Khun, infine, mostra la straordina-ria importanza degli studi di Copernico nel dare avvio ad una rivoluzione destinata a travalicare ben presto i confini della scienza per estendersi all’intero pensiero “moderno”, al punto da diventare, come tuttora testimonia il nostro linguaggio, il prototipo di ogni cambiamento epocale (che infatti siamo soliti definire: “rivoluzione copernicana”).

P. Rossi, La nascita della scienza moderna in Europa[Laterza, Roma-Bari 1997, pp. ix-xiii]

Non c’è, in Europa, un «luogo di nascita» di quella complicata realtà storica che chiamiamo oggi scienza moderna. Quel luogo è l’intera Europa. Vale la pena di ricordare anche le cose che tutti sanno: che Copernico era polacco, Bacone, Harvey e Newton inglesi, Cartesio, Fer-mat e Pascal francesi, Tycho Brahe danese, Paracelso, Keplero e Leibniz tedeschi, Huygens olandese, Galilei, Torricelli e Malpighi italiani. Il discorso di ciascuno di questi personaggi fu legato a quello degli altri, in una realtà artificiale o ideale, priva di frontiere, in una Repub-blica della Scienza che si costruì faticosamente un suo spazio in situazioni sociali e politiche sempre difficili, spesso drammatiche, talora tragiche.

La scienza moderna non è nata nella quiete dei campus o nell’atmosfera un po’ artificiale dei laboratori di ricerca attorno ai quali, ma non dentro i quali (come avveniva da secoli e ancora avviene nei conventi) sembra scorrere il fiume sanguinoso e melmoso della storia. Per una semplice ragione: perché quelle istituzioni (per quanto concerne quel sapere che chiamiamo «scientifico») non erano ancora nate e perché per il lavoro dei «filosofi naturali» non erano ancora state costruite quelle torri d’avorio tanto fruttuosamente utilizzate e tanto ingiustamente vituperate nel corso del nostro secolo.

Anche se quasi tutti gli scienziati del Seicento hanno studiato in una università, sono pochi i nomi di scienziati la cui carriera si sia svolta per intero o prevalentemente all’interno dell’u-niversità. Le università non furono al centro della ricerca scientifica. La scienza moderna nacque al di fuori delle università, spesso in polemica con esse e si trasformò, nel corso del Seicento e più ancora nei due secoli successivi, in una attività sociale organizzata in grado di darsi sue proprie istituzioni. [...]

L’Europa che visse un periodo decisivo della sua difficile e drammatica storia nei cen-tossessanta anni che separano il De revolutionibus di Copernico (1543) dall’Ottica di New-ton (1704) era radicalmente diversa (anche per quanto riguarda il mondo della quotidianità) dall’Europa nella quale oggi ci è concesso di vivere.

Nella cittadina di Leonberg, in Svevia, nel corso dell’inverno del 1615-16 vennero bru-ciate sei streghe. In un paesotto vicino, Weil (oggi Weil der Stadt), la cui popolazione non superava le duecento famiglie, fra il 1615 e il 1629, ne verranno bruciate trentotto. Una vec-chia un po’ pettegola e strana, di nome Katharine, che viveva a Leonberg, venne accusata dalla moglie di un vetraio di aver fatto ammalare una vicina con una pozione magica, di

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2. Filosofia della natura e scienza moderna · LETTURE CRITICHE

aver gettato il malocchio sui figli di un sarto e di averli fatti morire, di aver trafficato con un becchino per procurarsi il cranio di suo padre che voleva regalare come calice a uno dei suoi figli, astrologo e dedito alla magia nera. Una bambina di dodici anni che portava dei mattoni a cuocere al forno, incontrò per la strada quella vecchia e provò al braccio un terribile dolore che le tenne il braccio e le dita come paralizzati per alcuni giorni. Non per caso lombaggine e torcicollo vengono ancora oggi chiamati in Germania Hexenschuss, in Danimarca Hekse-skud e, in Italia, colpo della strega. Quella vecchia, che aveva allora settantatré anni, venne accusata di stregoneria, fu tenuta per mesi in catene, fu chiamata a discolparsi da 49 capi di accusa, fu sottoposta alla territio, ovvero all’interrogatorio con minaccia di tortura di fronte al boia e al seguito di una accurata descrizione dei molti strumenti a disposizione del medesimo. Dopo più di un anno di prigione, venne finalmente assolta il 4 ottobre del 1621, a sei anni di distanza dalle prime accuse. Non le fu possibile tornare a vivere a Leonberg perché sarebbe stata linciata dalla popolazione.

Quella vecchia aveva un figlio famoso, che si chiamava Johannes Kepler, il quale si era impegnato spasmodicamente nella sua difesa e che, negli anni del processo, oltre a un centina-io di pagine scritte per difendere sua madre dalla tortura e dal rogo, scriveva anche le pagine dell’Harmonices mundi nelle quali è contenuta quella che viene chiamata, nei manuali, la terza legge di Keplero. Alla radice del mondo c’era, per Keplero, una celestiale armonia che gli appariva (come è scritto nel quarto capitolo del quinto libro) «simile a un Sole che splende attraverso le nuvole». Keplero era ben consapevole del fatto che quella stessa armonia non regnava sulla terra. Nel sesto capitolo del libro dedicato ai suoni prodotti dai pianeti scriveva che, essendo le note prodotte dalla terra Mi-Fa-Mi, se ne poteva concludere che sulla terra regnavano la Miseria e la Fame. Aveva terminato la stesura del testo tre mesi dopo che era morta la figlia Katharine.

In quel mondo ci sono poche biografie di scienziati quietamente dediti alla ricerca. Non importa pensare al rogo di Giordano Bruno o alla tragedia di Galilei. Basta, per rendersene conto, leggere la Vie de monsieur Descartes di Adrien Baillet. L’Europa di quei decenni non vide solo i processi alle streghe e l’opera dei tribunali dell’Inquisizione. Non pensiamo quasi mai al significato letterale dell’espressione Guerra dei Trent’anni. Quell’Europa era attraver-sata in lungo e in largo da eserciti di mercenari che si portavano dietro artigiani, cucinieri, prostitute, ragazzi scappati di casa, venditori ambulanti e che si lasciavano alle spalle ruberie, ribalderie, incendi, donne violentate e contadini ammazzati, raccolti distrutti, chiese profanate e villaggi saccheggiati. In quell’Europa, città come Milano, Siviglia, Napoli, Londra videro dimezzati i loro abitanti dalla peste che ebbe i caratteri di una lunghissima e terrificante, cro-nica epidemia. Le cose descritte da Defoe per la peste di Londra e da Manzoni per la peste di Milano si ripeterono più e più volte.

Solo all’interno del contesto di una Repubblica ideale, che tendeva a rendersi indipendente dalle lotte, dai contrasti, dalle miserie del mondo, poteva nascere la stupefacente affermazio-ne – che è di Francesco Bacone – secondo la quale una scienza esercitata in vista della gloria o della potenza del proprio paese è qualcosa di moralmente meno nobile di una scienza che si pone al servizio dell’intera specie umana. Solo in quel contesto poteva nascere l’affer-mazione – che è di Marin Mersenne il quale si riferiva agli Indiani canadesi e ai contadini dell’Occidente – secondo la quale «un uomo non può fare nulla che un altro uomo non possa egualmente fare e ciascun uomo contiene in sé tutto ciò che gli è necessario per filosofare e per ragionare di tutte le cose». C’è inoltre qualcosa che accomuna in modo forte i protagoni-sti della rivoluzione scientifica: la consapevolezza che attraverso la loro opera sta nascendo qualcosa. Il termine novus ricorre in modo quasi ossessivo in varie centinaia di titoli di libri

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scientifici del Seicento: dalla Nova de universis philosophia di Francesco Patrizi e dalla Newe Attractive di Robert Norman, al Novum Organum di Bacone, fino all’Astronomia Nova di Keplero e ai Discorsi intorno a due nuove scienze di Galilei.

In quegli anni prende vita e rapidamente raggiunge la piena maturità una forma di sapere che ha caratteristiche strutturalmente diverse dalle altre forme della cultura e che giunge fa-ticosamente a crearsi sue proprie istituzioni e suoi propri specifici linguaggi. Questo sapere richiede «sensate esperienze» e «certe dimostrazioni» e, a differenza di quanto era avvenuto nella tradizione, richiede che queste due complicate cose vadano insieme, siano indissolubil-mente legate l’una all’altra. Ogni affermazione deve essere «pubblica», cioè legata al control-lo da parte di altri, deve essere presentata e dimostrata ad altri, discussa e soggetta a possibili confutazioni. In quel mondo ci sono persone che ammettono di aver sbagliato, di non riuscire a dimostrare ciò che intendevano dimostrare, che debbono arrendersi alle evidenze che altri hanno addotto. È ovvio che ciò avviene molto di rado, che le resistenze al cambiamento sono (come in tutti i gruppi umani) assai forti, ma il fatto che si stabilisca fermamente che la verità delle proposizioni non dipende affatto dalla autorevolezza di chi le pronuncia e non è in al-cun modo legata a una qualche rivelazione o illuminazione è andato a costituire una sorta di patrimonio ideale al quale gli Europei possono ancora oggi richiamarsi come a un valore non rinunciabile.

A. Koyré, Dal mondo chiuso all’universo infinito[trad. di L. Cafiero, Feltrinelli, Milano 1970, pp. 7-9]

Molto spesso, nello studiare la storia del pensiero scientifico e filosofico del Cinquecento e del Seicento – i quali sono così strettamente collegati e connessi da divenire incomprensibili se considerati separatamente – sono stato costretto a riconoscere, come molti altri prima di me, che in questo periodo lo spirito umano, o almeno quello europeo, subì una profonda rivo-luzione che mutò i fondamenti e gli schemi stessi del nostro pensiero e di cui la scienza e la filosofia moderne sono al contempo la radice ed il frutto.

Questa rivoluzione o, come è stata chiamata, questa “crisi della coscienza europea”, è stata descritta e spiegata in molti modi diversi. Così, benché si ammetta generalmente che lo sviluppo della nuova cosmologia – che sostituì al mondo geocentrico, od anche antropocen-trico, dell’astronomia greca e medievale l’universo eliocentrico e, più tardi, quello privo di centro dell’astronomia moderna – abbia svolto un ruolo primario in questo processo, alcuni storici, soprattutto interessati alle implicazioni sociali dei mutamenti spirituali, hanno sotto-lineato una pretesa conversione dello spirito umano dalla theoria alla praxis, dalla scientia contemplativa alla scientia activa et operativa, che trasformò l’uomo da spettatore in padrone e dominatore della natura. Altri hanno insistito sulla sostituzione dello schema teleologico ed organicistico di pensiero ed esplicazione con il modello meccanicistico e causale, fatto che portò a quella “meccanizzazione della visione del mondo” tanto predominante nell’epoca moderna, e in particolare nel XVII secolo.

Altri ancora hanno semplicemente descritto la disperazione e la confusione introdotte dalla “nuova filosofia” in un mondo da cui era sparita ogni coerenza e in cui i cieli non annuncia-vano più la gloria di Dio.

Per quel che mi concerne, ho tentato [...] di definire i modelli strutturali della nuova e dell’antica concezione del mondo e di determinare i mutamenti introdotti dalla rivoluzione

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del XVII secolo. Questi mi sembravano riducibili a due azioni fondamentali e strettamente connesse, che caratterizzavo come distruzione del cosmo e geometrizzazione dello spazio, cioè la sostituzione della concezione del mondo come un tutto finito e ben ordinato, la cui struttura spaziale incorporava una gerarchia di perfezione e valore, con quella di un univer-so indefinito, od anche infinito, non più unito da una subordinazione naturale, ma unificato soltanto dall’identità delle sue leggi e delle sue componenti ultime e fondamentali; nonché la sostituzione della concezione aristotelica dello spazio – insieme differenziato di luoghi natu-rali – con quella della geometria euclidea – mera estensione infinita ed omogenea – da quel momento considerata identica allo spazio reale del mondo. Questo mutamento spirituale non avvenne, naturalmente, in maniera improvvisa: anche le rivoluzioni hanno bisogno di tempo per compiersi, anch’esse hanno una storia. Infatti, le sfere celesti che racchiudevano e tene-vano insieme il mondo non sparirono di colpo in una potente esplosione; la bolla del mondo crebbe e si gonfiò, prima di scoppiare e di sparire insieme allo spazio che la circondava.

Il cammino che portò dal mondo chiuso degli antichi a quello aperto dei moderni non fu, di fatto, molto lungo: appena un centinaio di anni separano il De revolutionibus orbium co-elestium di Copernico (1543) dai Principia philosophiae di Descartes (1644); e da questi ai Philosophiae naturalis principia mathematica (1687) non passano che quarant’anni. D’altra parte, fu piuttosto difficile, pieno di ostacoli e di blocchi pericolosi; ovvero, per usare un lin-guaggio più semplice, i problemi compresi nell’infinitizzazione dell’universo erano troppo profondi, le implicazioni troppo estensibili ed importanti per consentire un progresso lineare. La scienza, la filosofia, perfino la teologia, erano tutte a buon diritto interessate alle questioni della natura dello spazio, della struttura della materia e dei modelli di azione, come pure al problema della natura, struttura e valore del pensiero e della scienza umana: e sono appunto esse – scienza, filosofia e teologia, rappresentate spesso dalle stesse persone, Keplero e New-ton, Descartes e Leibniz – che partecipano ed operano in quel grande dibattito che, iniziatosi con Bruno e Keplero, termina, in verità provvisoriamente, con Newton e Leibniz.

T.S. Kuhn, La rivoluzione copernicana. L’astronomia planetaria nello sviluppo del pensiero occidentale[trad. di T. Gaino, Einaudi, Torino 1972, pp. 3-7]

La rivoluzione copernicana fu una rivoluzione di idee, una trasformazione della concezione che l’uomo aveva dell’universo e del suo particolare rapporto con esso. Questo episodio della storia del pensiero rinascimentale è stato spesso esaltato come una svolta fondamentale nello sviluppo intellettuale dell’uomo in Occidente. Eppure la rivoluzione riguardava i dettagli più oscuri ed astrusi della ricerca astronomica. Come può aver raggiunto una tale importanza? Che cosa vuol dire l’espressione «rivoluzione copernicana»?

Nel 1543 Nicola Copernico propose di migliorare la precisione e la semplicità delle teorie astronomiche trasferendo al Sole molte funzioni astronomiche attribuite in precedenza alla Terra. Prima della sua proposta, la Terra aveva sempre costituito il centro fisso attorno a cui gli astronomi calcolavano i movimenti delle stelle e dei pianeti. Un secolo dopo, il Sole ave-va rimpiazzato la Terra, almeno nel campo astronomico, come centro dei moti planetari e la Terra, divenuta uno fra diversi pianeti in movimento, aveva perso la sua funzione astronomica eccezionale. Molte delle più grandi conquiste dell’astronomia moderna son dovute a questa trasformazione. Il primo significato della rivoluzione copernicana è dunque quello di una riforma delle concezioni fondamentali dell’astronomia.

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La riforma astronomica non è tuttavia il solo aspetto della rivoluzione. Alla pubblicazione del De Revolutionibus di Copernico nel 1543 seguirono altre radicali variazioni nel rapporto di comprensione fra l’uomo e la natura. Molte di queste innovazioni, che culminarono un secolo e mezzo più tardi nella concezione newtoniana dell’universo, furono gli ulteriori e imprevisti risultati della dottrina astronomica di Copernico. Egli propose il moto della Terra nel tentativo di migliorare le tecniche usate nelle previsioni delle posizioni astronomiche dei corpi celesti. Per le altre scienze la sua proposta sollevò semplicemente dei nuovi problemi e, finché questi non furono risolti, la concezione che l’astronomo aveva dell’universo rimase incompatibile con quella degli altri scienziati. Durante il secolo XVII la riconciliazione di queste altre scienze con l’astronomia copernicana costituì un importante incentivo del gene-rale fermento intellettuale, noto ora come la rivoluzione scientifica. Con la rivoluzione scien-tifica, la scienza acquisì il nuovo grande ruolo che essa ha da allora avuto nello sviluppo della società e del pensiero in Occidente.

Ma anche le sue conseguenze in campo scientifico non esauriscono i significati della rivo-luzione. Copernico visse ed operò in un periodo i cui rapidi mutamenti nella vita politica, eco-nomica ed intellettuale preparavano i fondamenti della moderna civiltà europea ed americana. La sua dottrina planetaria e la concezione ad essa legata di un universo incentrato nel Sole furono strumenti del passaggio dalla società medievale alla moderna società occidentale, in quanto investivano apparentemente il rapporto dell’uomo con l’universo e con Dio. Intrapresa come una revisione strettamente tecnica, ad alto livello matematico, dell’astronomia classica, la teoria copernicana diventò un centro focale delle terribili controversie in campo religioso, filosofico e nelle dottrine sociali che, nei due secoli successivi alla scoperta dell’America, fissarono l’orientamento del pensiero moderno. Uomini che credevano che la loro dimora terrestre fosse soltanto un pianeta, ruotante ciecamente attorno ad una fra miliardi di stelle, valutavano la loro posizione nello schema cosmico ben diversamente dai loro predecessori che vedevano la Terra come l’unico centro focale della creazione divina. La rivoluzione co-pernicana ebbe quindi parte in una certa trasformazione nella concezione dei valori dell’uomo occidentale. [...]

A causa delle sue conseguenze tecniche e storiche, la rivoluzione copernicana è uno degli episodi più affascinanti dell’intera storia della scienza. Ma essa possiede un ulteriore signifi-cato che trascende il suo soggetto specifico: mette in luce un processo che oggi noi abbiamo un gran bisogno di capire. La civiltà occidentale contemporanea, più di ogni altra trascorsa civiltà, dipende da concetti scientifici, sia per la sua filosofia d’ogni giorno sia per i suoi mezzi di sostentamento. Ma le teorie scientifiche che occupano tanto posto nella nostra vita quoti-diana non sono probabilmente da considerarsi definitive. La concezione astronomica affer-matasi di un universo in cui le stelle, compreso il nostro Sole, sono sparse qua e là attraverso uno spazio infinito non ha ancora quattro secoli di vita, ed è già tuttavia superata. Prima che tale concezione venisse sviluppata da Copernico e dai suoi successori, per spiegare i fenomeni che l’uomo osservava nei cieli si faceva ricorso ad altri princìpi sulla struttura dell’universo. Queste dottrine astronomiche più antiche erano sostanzialmente diverse da quelle di oggi, ma la maggior parte di esse, ai loro tempi, erano oggetto della stessa fede assoluta che noi oggi prestiamo alle nostre. Inoltre, si credeva in esse per le medesime ragioni: offrivano risposte plausibili alle domande che parevano importanti. Altre scienze offrono esempi simili della fugacità di credenze scientifiche considerate preziose conquiste. In effetti, i concetti fonda-mentali dell’astronomia hanno resistito più a lungo della maggior parte degli altri.

La variabilità dei suoi concetti fondamentali non è argomento sufficiente per rinnegare la scienza. Ogni nuova dottrina scientifica conserva un forte nucleo delle nozioni fornite dalla

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dottrina precedente e lo arricchisce. La scienza va avanti sostituendo vecchie con nuove teo-rie. Ma un’epoca dominata dalla scienza come la nostra ha bisogno di una certa prospettiva da cui esaminare quei princìpi scientifici ai quali essa presta tanta fede, e la storia fornisce una base importante per tale prospettiva. Se possiamo scoprire le origini di alcune concezioni scientifiche moderne ed il modo in cui esse si sostituirono a quelle di un’epoca anteriore, sia-mo in grado con maggiore approssimazione di valutare intelligentemente le loro probabilità di resistere al tempo. [...]

Poiché la dottrina copernicana è, sotto molti aspetti, una tipica teoria scientifica, il suo iter storico può illustrare alcuni dei processi attraverso cui i concetti scientifici si evolvono e sostituiscono quelli precedenti. Tuttavia, nelle sue conseguenze extrascientifiche, la dottrina copernicana non è tipica: ben poche teorie scientifiche hanno avuto effetti così importanti sul pensiero non scientifico. Non è però neppure unica. Nel secolo XIX, la teoria evoluzionistica di Darwin sollevò interrogativi extrascientifici dello stesso tipo. Nel nostro secolo, la teoria della relatività di Einstein e quelle psicoanalitiche di Freud creano centri di discussione da cui potrebbero derivare nuovi orientamenti, ancor più radicali, del pensiero occidentale. Freud stesso ha messo in rilievo il parallelismo tra la scoperta di Copernico che la Terra era sempli-cemente un pianeta e della sua scoperta che l’inconscio controllava buona parte del comporta-mento dell’uomo. Che conosciamo o meno le loro teorie, siamo intellettualmente gli eredi di uomini come Copernico e Darwin. I processi fondamentali del nostro pensiero hanno da loro ricevuto nuova forma, proprio come il pensiero dei nostri figli e nipoti sarà stato riplasmato dall’opera di Einstein e di Freud. Abbiamo bisogno di qualcosa di più della comprensione del processo interno di sviluppo nel mondo della scienza. Dobbiamo capire anche come la solu-zione proposta da uno scienziato per un problema apparentemente di non grande importanza e di alto livello tecnico possa, all’occasione, mutare fondamentalmente la posizione dell’uomo di fronte ai problemi basilari della vita d’ogni giorno.

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3 LA RICOSTRUZIONE DEI DUE PROCESSI A GALILEI

La storia dei due processi a Galileo Galilei (1616 e 1633) – le cui principali coordinate sono qui tracciate da un brano di Mario D’Addio – è una storia che merita di es-sere nuovamente raccontata, dal momento che essa è stata gravata da pesanti ipoteche ideologiche, mentre un’atten-zione maggiore a tutti i fattori in gioco in questo famoso caso (un’attenzione, peraltro, resa effettivamente possibile dalla recente apertura degli archivi vaticani) ci permette di comprendere e valutare lucidamente le diverse posizioni nel dibattito e di considerare con più oggettività storica i fatti e

le intenzioni. Ad esempio, si dovranno distinguere più chia-ramente le preoccupazioni dei sostenitori “integralisti” del sistema tolemaico, e dunque degli scienziati, da quelle dei teologi cattolici, fermo restando – al di là di ogni revisione – che nel caso Galilei l’errore più grande è forse stato quello di aver contrapposto la scienza alla fede, ciò che non era né nelle intenzioni della Chiesa (che non a caso ha pubblica-mente rivisto la posizione assunta in quella circostanza), né nelle intenzioni dello scienziato.

M. D’Addio, Il caso Galilei. Processo, scienza, verità[Edizioni Studium, Roma 1993, pp. 13-22]

Il processo di Galileo fu, come è noto, la conclusione di una lunga, accesa querelle che per tanti aspetti impegnò gli ambienti culturali, accademici, ecclesiastici italiani, in particolare fiorentini e romani, fra il 1613 e il 1633; l’astronomia era la passione del tempo, anche per-ché strettamente connessa con l’astrologia, cui i potenti chiedevano lumi sul loro futuro, sì che ogni scoperta, ogni notizia che riguardasse la «volta del cielo», «le stelle», era appresa e commentata con vivissimo interesse. Si spiega quindi la vasta eco suscitata dalle scoperte galileiane – i satelliti di Giove, la superficie della Luna, le fasi di Venere, la forma di Saturno – come le prime critiche, le osservazioni polemiche da parte dei fedelissimi della concezione aristotelica della natura, e del cielo in particolare, che non potevano ammettere l’esistenza di fenomeni celesti che mettevano in dubbio o apertamente contraddicevano il cosmo aristoteli-co-tolemaico e quindi i princìpi sui quali si fondava ; e le prime denunce da parte degli accesi, a volte un po’ esaltati, difensori della concezione teologico-religiosa del sistema tolemaico, che, come è noto, sembrava trovare la sua indubitabile conferma in alcune famose «espres-sioni» della Scrittura.

Non c’erano solamente la curiosità e l’interesse scientifico, la preoccupazione per afferma-zioni che avrebbero potuto dissolvere consolidate convinzioni religiose, ma anche l’arcano, il misterioso, il meraviglioso, il grandioso, che le scoperte di Galileo sembravano convogliare verso un nuovo «essere nel mondo». Si determinò quindi nella società colta italiana della prima metà del Seicento una forte tensione esistenziale in cui si espresse l’esigenza del «nuo-vo», delle «nuove idee», cui si contrappose, per una naturale reazione psicologica, quella di difendere le verità acquisite, fondate sulla consolidata tradizione e sull’evidenza del senso comune. Il dibattito fra «novatori» e «tradizionalisti » fu caratterizzato dal particolare animus di una società colta, incline a discettare nelle accademie e a confrontarsi in una sorta di «duelli oratori», che spesso sollecitavano le gelosie, il puntiglio, il partito preso, il gusto di mettere alla berlina il proprio contraddittore.

A questa logica del «discorso accademico» nessuno dei partecipanti al dibattito riuscì a sottrarsi: Galileo, teorico del metodo sperimentale e della scienza moderna, è anche un mae-stro nell’arte di «inventare» e «costruire» argomentazioni stringenti per dimostrare la sua tesi e battere il suo avversario. Basterà ricordare il Saggiatore, opera che può certamente essere

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3. La ricostruzione dei due processi a Galilei · LETTURE CRITICHE

definita come i «prolegomeni ad ogni futura scienza della natura», ma che nel contempo svol-ge, in pagine di alto valore letterario, una «dialettica» dell’argomentazione tutta umanistica: come è noto, la tesi sostenuta e «dimostrata» da Galileo – essere le comete un fenomeno astronomico del tutto apparente – non è vera, mentre quella del suo avversario, il gesuita padre Grassi – essere la cometa un corpo celeste –, è vera. Di qui la complessità del dibattito in cui confluiscono motivi sentimentali e personali, interessi culturali, religiosi, filosofici e, naturalmente, squisitamente scientifici, che animarono Galileo come diversi suoi contraddit-tori: essa scaturisce, anche, dal fatto che il vecchio e il nuovo erano intimamente connessi in un rapporto dialettico che occorre tenere presente in sede di valutazione storica del dibattito e delle sue «conclusioni giudiziarie».

La sentenza del giugno 1633 invece di porre fine al dibattito, come era nelle attese di Urba-no VIII, ebbe l’effetto di radicalizzarlo: da una parte la verità, dall’altra l’errore, da una parte la scienza, dall’altra la religione dogmatica ed autoritaria. Questa contrapposizione fu l’impli-cita premessa della questione galileiana durante la seconda metà del Seicento e fu assunta ed esplicitamente dichiarata dalla cultura illuministica, per la quale la vicenda di Galileo acqui-stò un valore emblematico: la condanna era, a contrario, una prova inconfutabile della verità della ragione scientifica. Di qui l’interesse vivissimo per la questione galileiana, e soprattutto per i due processi celebrati sotto il vincolo della segretezza; ne partecipò persino un politico, generale e statista, pressato da ben altri interessi .e preoccupazioni di governo: Napoleone, il quale richiese esplicitamente, in occasione del trasferimento dell’Archivio dell’Inquisizio-ne in Francia, gli atti dei ·processi di Galileo con il deliberato proposito di promuoverne la pubblicazione. Le successive vicende politiche non consentirono la realizzazione di questa iniziativa: il codice contenente il «fascicolo processuale» non venne consegnato in occasione della restituzione dell’Archivio alla Santa Sede, rimase in Francia e poté essere recuperato dopo lunghe trattative diplomatiche solamente nel 1843.

Intorno alla pubblicazione degli atti del processo si rinnovava l’interesse per la questione galileiana, e si riprendeva, nell’ottica della cultura e della filosofia positivistiche, la contrap-posizione fra ragione-scienza e religione, il che naturalmente dava alla ricerca storica un dichiarato taglio ideologico da una parte e una precisa intonazione apologetica dall’altra. Pur con questi limiti, si iniziava un lavoro di approfondimento critico dal punto di vista storico e soprattutto da quello filologico, con la pubblicazione di una serie di importanti documenti galileiani e con una ricostruzione storica precisa dell’ambiente culturale e scientifico in cui si svolse la vicenda galileiana, dei personaggi che vi parteciparono, degli episodi più significa-tivi, con indagini puntuali condotte a livello della storia della scienza, che culminò poi nell’e-dizione nazionale delle opere di Galileo, dovuta all’opera veramente meritoria di Antonio Favaro. Sulla base di quest’ampia, pressoché completa documentazione, l’indagine storica in quest’ultimo cinquantennio è venuta sempre più precisando i complessi aspetti della questio-ne galileiana, indagandola non solamente nel contesto culturale italiano, ma anche in quello europeo, nei suoi rapporti con il rinnovamento degli studi sollecitato dall’opera di Copernico, da quella di Tycho Brahe e di Keplero, in modo da intendere sempre meglio le argomentazio-ni scientifiche di Galileo e dei suoi contraddittori. La questione galileiana si è venuta così, a poco a poco, storicizzando, sempre più viene considerata un fatto storico, da studiare, quindi, storicamente: le vecchie prospettive ideologiche si sono attenuate, come certi toni apologe-tici sono stati sostanzialmente abbandonati; in occasione del terzo centenario della morte di Galileo, Agostino Gemelli rilevava: «[...] i cattolici non temono di riconoscere lealmente che il processo contro di lui fu un errore [...] fu un errore dei teologi che, come osservò Pastor, è divenuto ammonimento costante».

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La questione copernicana-galileiana è, per molti aspetti, la storia di un «errore», delle diffi-coltà – storicamente oggettive – a riconoscere la nuova verità scientifica: la teoria copernicana venne condannata prima perché «falsa e assurda in filosofia», cioè sul piano della ragione, e poi perché contraria alla Scrittura. Si trattava, in ultima analisi, nel caso si fosse accolta la tesi copernicana, di negare la ragione che si fondava sulla comune esperienza dei nostri sensi. Burtt ha sottolineato l’estrema difficoltà ad abbandonare questo tipo di razionalità: «Si può dire che anche se non ci fosse stato alcuno scrupolo religioso che si opponesse all’astronomia copernicana, la gente sensata dell’intera Europa, e in particolare le persone dotate di spirito empirico, l’avrebbero considerata un folle invito ad accogliere i frutti prematuri di un’imma-ginazione incontrollata, preferendola alle sicure induzioni, elaborate un po’ alla volta. Poiché si insiste sull’empirismo, che caratterizza la filosofia attuale, è opportuno ricordarsi questo fatto. Gli empiristi contemporanei, se fossero vissuti nel XVII secolo, avrebbero per primi posto in ridicolo la nuova filosofia dell’universo».

Gli undici teologi che dettero il parere in occasione del processo del 1616 certamente non erano molto addentro nelle complesse questioni astronomiche e matematiche, ma non furono i soli a giudicare in quel modo l’ipotesi copernicana: di lì a pochi anni il loro parere sarebbe stato avallato da un filosofo, che viene giustamente riconosciuto come uno dei padri del me-todo sperimentale e antesignano dell’illuminismo, Francesco Bacone, che nel Nuovo Organo poneva il sistema copernicano fra gli «idola tribus», di cui ogni uomo veramente razionale avrebbe dovuto liberarsi: una «invenzione», concepita solamente per «far tornare» i calcoli matematici dei moti dei pianeti: un sistema astronomico del tutto fittizio, basato sul moto della terra, una vera assurdità che si fondava su astratte ipotesi matematiche, e che non esitava a giudicare «falsissimo».

All’inizio, la verità, che apre nuovi orizzonti e rinnova radicalmente le nostre conoscenze, non è un «dato sperimentale», è invece una visione intellettuale, che anticipa tutti i dati dell’e-sperienza e che s’impone alla mente anche, e per certi aspetti soprattutto, contro le acquisite e tradizionali «sensate esperienze»; ce lo dice lo stesso Galileo: «[...] Né posso a bastanza ammirare l’eminenza dell’ingegno di quelli che [...] hanno con la vivacità dell’intelletto loro fatta forza tale a i loro proprii sensi, che abbiano possuto antepor quel che il discorso gli det-tava, a quello che le sensate esperienze gli mostravano apertissimamente in contrario». Ma non basta «vedere» mentalmente la verità, bisogna dimostrarla, e quindi comunicarla agli altri perché a loro volta riescano ad intenderla, e ciò inevitabilmente comporta l’uso di termini ed espressioni a volte ad essa inadeguati: di qui i fraintendimenti, gli equivoci, gli errori. La verità, per essere riconosciuta, deve essere «verificata»: l’errore è l’inevitabile momento di «falsificazione», che, storicamente, accompagna ogni enunciazione di verità.

Tutta la vicenda galileiana, a livello della cultura laica e di quella ecclesiastica, è stata caratterizzata dall’esperienza errore-verità: in questa prospettiva la storia dei due processi rivela le incertezze, le perplessità, i dubbi, il riserbo che caratterizzarono gli atteggiamenti degli ambienti ecclesiastici e di autorevoli personaggi impegnati nella questione. Si ha la netta impressione che all’interno della Curia non vi fosse un sicuro orientamento per la tesi tradizionale: la Curia era sostanzialmente divisa fra i fautori di Galileo ed i suoi avversari, e fra questi diversi nutrivano fondati dubbi sul sistema tolemaico o ticonico. In effetti, non si sapeva bene «che cosa» condannare e perché condannare: un’opinione scientifica? può essere oggetto di fede un’opinione scientifica? La questione dal punto di vista teologico-religioso era complessa: vi erano a tal proposito orientamenti fondati su una autorevole tradizione cattolica a favore di Galileo che andavano esaminati, approfonditi. La discussione non poteva essere ristretta ai teologi romani che facevano capo alle Congregazioni dell’Inquisizione e dell’In-

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3. La ricostruzione dei due processi a Galilei · LETTURE CRITICHE

dice. La condanna quindi non ebbe una «maturazione teologico-religiosa» e da questo punto di vista non manifestò l’opinione della Chiesa, per il semplice fatto che non si era ancora for-mata e che non ebbe tempo per esprimersi. In effetti, l’errore non fu tanto dei teologi, ma di coloro che si assunsero la responsabilità della decisione senza attendere che la Chiesa, come comunità ecclesiastica, esprimesse un suo sicuro orientamento.

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4 TARDA SCOLASTICA E PENSIERO MODERNO

Contrariamente a quanto si è pensato per molto tempo sull’origine della filosofia moderna, e cioè che essa si sarebbe sviluppata nella rottura polemica con la filoso-fia scolastica ereditata dai secoli precedenti, nella ricerca contemporanea è ormai stato acquisito come un dato lar-gamente condiviso dagli studiosi che l’origine della filosofia moderna va cercata per diversi aspetti – a livello concettua-le e linguistico – proprio all’interno della filosofia scolasti-ca, come si può vedere nel caso emblematico di Francisco Suárez – un teologo gesuita vissuto tra il XVI e il XVII secolo

– il cui manuale di metafisica ebbe una straordinaria diffu-sione in tutti i Collegi e le Università dell’Europa e del Nuovo Mondo (e in quanto tale fu studiato da quasi tutti i filosofi moderni, da Descartes a Spinoza, da Leibniz a Vico).

Le Disputazioni metafisiche (1597) di Suárez, come si leggerà nel brano di Costantino Esposito proposto di seguito, mostrano quel terreno di continuità con la tra-dizione scolastica all’interno del quale soltanto si possono valutare adeguatamente le profonde discontinuità e rotture del pensiero moderno.

C. Esposito, Introduzione a Francisco Suárez, Disputazioni metafisiche I-III[a cura di C. Esposito, nuova ed. riveduta e ampliata, Bompiani, Milano 2007, pp. 24-28]

Suárez nasce come teologo e filosofo prettamente «scolastico», ed è certamente all’interno di quella che è stata chiamata la «seconda» o la «tarda» Scolastica, che egli va collocato, come nel suo orizzonte più proprio. Ma fatto questo, ancora non si riuscirebbe a comprendere il motivo di una presenza e di un’influenza ben più vasta di questo Autore nella filosofia tardo-rinascimentale e moderna, a meno che non si debba riconoscere – come del resto la critica più attenta ha già da tempo confermato – il ruolo determinante svolto da questa tradizione «ecclesiastica» nel formarsi della mentalità e della teoria filosofica dei «moderni».

All’interno della filosofia scolastica, peraltro, il pensiero di Suárez ha rappresentato certo una corrente, ma più nel senso di una tendenza, che nel senso di una vera e propria «scuola», e forse proprio per questo è stata ancora più diffusa. Segno di ciò è il fatto che in diversi trattati o corsi di filosofia pubblicati in Europa nel XVII e nel XVIII secolo da autori scolastici – non solo gesuiti, ma anche domenicani, benedettini o carmelitani, e tutti di larga diffusione – si avverta chiaramente l’influsso delle Disputazioni suareziane in diverse questioni, ma soprat-tutto nell’impianto sistematico (sempre più autonomo rispetto al commento aristotelico) e nel procedimento metodico di riduzione dei diversi problemi metafisici alla loro pura fondazione ontologica. Dalle diverse «Cattedre» intitolate a Suárez, sorte un po’ dappertutto in Spagna già subito dopo la sua morte (a Salamanca, Alcalá de Henares, Valladolid, Burgos), quello che si trasmette è, più che una dottrina particolare, soprattutto un approccio sistematico peculiare ai problemi della filosofia e della teologia.

E anche quando, nel nostro secolo, si è parlato di «suarezismo», contrapponendolo po-lemicamente al «tomismo» (in particolare riguardo alle questioni della potenza e dell’atto, della distinzione di essenza ed essere, del principio di individuazione, della funzione dell’u-niversale e della conoscenza del singolare; e con le accuse specifiche di «eclettismo» e di «nominalismo») lo si è fatto – sia da parte dei sostenitori che degli avversari – per sottolineare o rispettivamente per negare la continuità del teologo spagnolo con l’Aquinate, quindi come una vera e propria «battaglia di principi» sul modo più adeguato di intendere la metafisica (e la terminologia) tommasiana all’interno della filosofia scolastica. Una controversia, quest’ul-tima, che, nonostante sia rimasta spesso rinchiusa entro i confini delle scuole ecclesiastiche, ha evidenziato – anche al di là degli irrigidimenti dottrinali contrapposti – questioni storio-

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4. Tarda Scolastica e pensiero moderno · LETTURE CRITICHE

grafiche e critiche di grande rilievo per comprendere il posto e ancor di più l’effetto che le Disputazioni hanno avuto direttamente, e soprattutto indirettamente, nel pensiero filosofico della nostra epoca.

Un documento diretto, invece, di questo influsso lo troviamo in tutt’altro contesto, dove forse meno ce lo aspetteremmo, ma dove probabilmente le Disputazioni danno maggior prova di sé (certo anche al di là dell’intenzione del suo autore). Intendiamo riferirci alla presenza di quest’opera – come già accennato in precedenza – nelle Università dell’Europa protestante, da cui giunge come referenza diretta agli autori della Scuola razionalista tedesca. Singolare situazione, quella che vede uno dei teologi di punta dell’ufficialità cattolica, diventare uno degli autori di filosofia più studiati nel campo «avversario» (nel quale peraltro egli viene visto come un importante punto di collegamento con tutta la tradizione medievale, prezioso soprattutto perché non identificabile con la classica via tomista, con la quale i teologi riformati hanno presumibilmente qualche difficoltà). Ma non si tratta di una semplice coincidenza, anzi crediamo che il caso possa essere spiegabile proprio in base al carattere per così dire «neutro» dell’ontologia suareziana, non impegnata cioè con nient’altro se non con la pura costituzione essenziale dell’ente, e quindi fruibile in certo modo all’interno di orizzonti culturali anche nettamente differenti. Ma se, al tempo stesso, si riflette sul fatto che il progetto metafisico di Suárez conserva un nesso programmatico diretto con la provenienza e la finalizzazione teolo-gica, questa circostanza storica acuisce ancor di più il problema della possibilità e dell’effet-tiva tenuta di quel nesso.

Resta il fatto che le Disputazioni hanno continuato ad essere lette e a lasciare la loro im-pronta (e il loro linguaggio), passando per così dire illese anche attraverso la rottura di quel nesso con la teologia cattolica da cui pure avevano tratto la loro origine. Ma si potrebbe anche osservare che proprio esse hanno costituito uno dei canali attraverso cui questa tradizione teo-logica è stata trasmessa, in modo naturalizzato o secolarizzato – appunto come «ontologia» –, nella filosofia moderna. Descartes [...] studia quest’opera al Collegio gesuitico di La Flèche, e l’utilizzerà nelle sue Meditationes; Leibniz la leggerà appena sedicenne, «come fosse un romanzo» (sic), e la citerà nella sua tesi latina difesa all’Università di Lipsia sul principio di individuazione; Grozio considererà Suárez un filosofo e teologo di ineguagliabile penetra-zione; Berkeley valorizzerà nel suo Alcifrone il concetto suareziano della conoscenza divina in rapporto a quella umana; e il giovane Vico si chiuderà letteralmente «un anno in casa» per venire a capo della «Metafisica» del Padre Suárez. Fino a Schopenhauer, che cita spesso le Disputazioni – «questo vero e proprio compendio dell’intera filosofia scolastica» –; e a Franz Brentano, che proprio introducendo il suo celebre studio su Aristotele, afferma che «chi desiderasse conoscere storicamente la grande molteplicità di opinioni di diversi aristotelici, nel medioevo particolarmente [a proposito dell’unico oggetto della metafisica, vale a dire la questione “che cos’è l’essere”], veda F. Suárez, Disputationes metaphysicae, pars prior, disp. I, sect. 2».

Sarà forse anche grazie a Brentano che Heidegger si interesserà a quest’opera, consideran-dola come il punto in cui si può valutare più chiaramente tutta l’interpretazione cristiano-me-dievale della metafisica aristotelica, e al tempo stesso come il momento decisivo in cui viene stabilito il carattere fondamentale della filosofia moderna, nella sua forma e nei suoi contenuti (quello che Heidegger stesso chiamerà il destino onto-teo-logico della metafisica). Questa interpretazione – che a dire il vero riprende per molti versi valutazioni già formulate nella critica scolastica – ha avuto però il merito particolare di riportare Suárez sulla scena della storia della metafisica, come uno dei suoi più grandi, anche se meno conosciuti, protagonisti. I testi dei corsi universitari in cui Heidegger parla di Suárez (risalenti agli anni Venti) sono stati

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pubblicati solo a partire dal 1975, ma senza dubbio è il suo stesso principio ermeneutico di affronto della storia della metafisica a favorire un’attenzione rinnovata al pensatore spagnolo.

La stessa interpretazione di Gilson, il quale, da storico della filosofia medievale, verso la fine degli anni Quaranta si è impegnato a considerare la vera e propria svolta epocale impres-sa da Suárez alla metafisica tomista, rintracciando in essa tutte le premesse del razionalismo moderno, probabilmente sarebbe stata meno ricca di risultati se non si fosse incrociata con la lettura heideggeriana, pur secondo un angolo visuale del tutto diverso.

All’interno di questo contesto, che abbiamo dovuto necessariamente semplificare (ad esempio, non va dimenticata la costante attenzione riservata a Suárez nel mondo spagnolo e in quello americano, nonché l’interesse sempre molto vivo agli aspetti giuridici del suo pensiero), a partire dalla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso si è avuto un fiorire, dapprima sporadico, ma in seguito sempre più rigoglioso, dell’interesse alle Disputazioni, che ha portato alla pubblicazione di studi monografici di grande rilievo (basti ricordare, tra i diversi altri, i nomi di Siewerth, Marion, Honnefelder e Courtine), che sicuramente hanno segnato prospettive che ancora fanno pensare. Forse oggi si potrebbe smentire l’osservazione fatta da Heidegger nel 1929 a proposito di Suárez, e cioè che «il significato di questo teologo e filosofo non viene affatto apprezzato nella misura in cui tale pensatore meriterebbe». Ma una cosa è certa, e cioè che i problemi che quest’opera ha posto e che, nella lunga durata, ancora silenziosamente pone alla nostra storia, oggi, superato il compimento del suo quarto centena-rio, continuano ad inquietarci.

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5. Scienza e metafisica nel pensiero di Cartesio · LETTURE CRITICHE

5 SCIENZA E METAFISICA NEL PENSIERO DI CARTESIO

Con il “soggetto” cartesiano pare che la filosofia moderna diventi una via obbligata da cui non si può fare più ritorno, ma questo soggetto viene abitualmente considerato – anche nell’immaginario collettivo – come un io solipsi-stico, separato dal mondo e sottraentesi ad ogni rapporto (sebbene poi, naturalmente, esso renda possibile attraverso il metodo della mathesis universalis tutti i rapporti esatti con il mondo). A ben vedere, tuttavia, le cose stanno diversa-mente: se infatti l’io si presenta fin dall’inizio come radical-mente dubitante, proprio questa sua posizione è il segno inequivocabile che esso è già in rapporto con la verità (per quanto essa sia intesa come qualcosa di desiderato e non ancora raggiunto, e che tuttavia l’uomo non può mai costru-ire semplicemente da sé).

Al problema del dubbio sono dedicate le pagine di Stefano Di Bella.

E quando l’io giungerà finalmente a riemergere dal vortice del dubbio radicale, riconoscendo la sua esisten-za come sostanza pensante, lo potrà fare – come sottoli-neano le pagine di Jean-Luc Marion – in quanto esso è strutturalmente rapporto, sia pure concepito come uno sdoppiamento tutto interno all’io o come un rapporto con un Dio ingannatore. Persino nell’ipotesi negativa che io sia ingannato, infatti, è nel rapporto con questo “altro da me” che io posso pensare me stesso.

Tale rapporto si chiarirà definitivamente nella III Meditazione, allorquando Descartes dimostrerà l’esistenza di Dio (per sua natura benevolo) attraverso l’idea innata dell’infinito. Come risulta suggestivamente dalle pagine di Emmanuel Lévinas questo è il caso unico in cui il conte-nuto dell’idea è oggettivamente più grande dell’idea stessa e la trascende.

S. Di Bella, Le «Meditazioni metafisiche» di Cartesio. Introduzione alla lettura[La Nuova Italia Scientifica, Roma 1997, pp. 33-36]

Nella I parte del Discorso sul metodo, Descartes racconta di come gli studi compiuti al colle-gio della Flèche – «una delle più celebri scuole d’Europa» – avessero lasciato in lui una pro-fonda insoddisfazione verso il sapere del suo tempo; e di come altrettanto insoddisfacente si fosse rivelato il tentativo di cercare la saggezza «nel gran libro del mondo». In questa duplice delusione, la sua storia personale assume un valore esemplare. Nel periodo tra le guerre di religione e il consolidarsi dell’assolutismo, l’imperativo di conformarsi all’ordine costituito, religioso e politico, è l’altra faccia di un profondo smarrimento di fronte alle lacerazioni delle Chiese cristiane e alla crisi dell’autorità religiosa, alla realtà di una politica che, con la “ra-gion di Stato”, ha gettato le sue maschere ideali, al disorientamento indotto dal dilatarsi degli orizzonti geografici e dal crollo del cosmo antico, messo in discussione da un’incipiente nuo-va scienza le cui evidenze appaiono controintuitive agli occhi del senso comune. Su questo sfondo si situa la fortuna di una letteratura che in forme diverse – dall’Apologia di Raimondo Sebond di Montaigne al Quod nihil scitur di Sanchez – rinnova i temi della tradizione scettica suggerendo, spesso in chiave fideistica o conservatrice, una drastica riduzione delle nostre pretese conoscitive e il ricorso sistematico alla sospensione del giudizio. Anche nel récit del 1637 una sfiducia generalizzata e uno stato di sospensione sono l’esito naturale dell’incontro con una pluralità di “maestri” (la molteplicità delle opinioni filosofiche e dei modi di vivere) in conflitto tra di loro. Ma questo dubbio è nel Discorso soltanto il problema di partenza. Il dubbio abbozzato nella IV parte si presenta invece come un tentativo di risposta, un tentativo rischioso che Descartes si è risolto ad intraprendere molti anni dopo (e gli interventi succes-sivi attesteranno che neppure lì esso è stato condotto fino in fondo: la sua attuazione radicale dovrà attendere appunto le Meditazioni). Nella scansione della ricostruzione autobiografica

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appare la distanza tra il dubbio scettico, solidale con una situazione culturale, e il dubbio come impresa originale.

Originalità (“eroismo”, per dirla con Hegel) che non si misura anzitutto attraverso il grado di radicalità o la scelta degli argomenti, ma attraverso il telos che lo orienta. La sospensione non è più l’esito accettato o addirittura perseguito, ma la situazione da cui il dubbio deve li-berare: le opinioni incerte non vanno bilanciate ma respinte, e la distruzione è finalizzata ad un forte intento costruttivo, di “rifondazione” (secondo le predilette metafore architettoniche). All’origine non c’è infatti una rinuncia, ma una volontà strenua di verità. Ad essere cambiata è però l’immagine della verità da ricercare, sulla traccia del contrasto tra l’incertezza delle opinioni e la certezza esibita dalla matematica: fin dalla III delle Regole, e dal primo precetto metodico del Discorso, l’impegno è ad accettare come vero solo ciò che – conformemente agli standard dei geometri – è evidente e indubitabile. La verità come incontrovertibilità si an-nuncia fin dall’inizio sotto il duplice profilo di ciò che è oggetto di un intueri, di una visione, e di ciò che supera ogni possibilità di dubbio. Quello che è stato chiamato “dubbio metodico” (espressione assente nei testi) è un test deliberato e consapevolmente condotto per realizzare, se possibile, questo ideale di certezza; come tale si distingue dall’iniziale dubbio naturale, crisi spontanea indotta dal contrasto tra le opinioni o dall’affacciarsi di nuove esperienze; ma anche dal dubbio altrettanto deliberato e sistematico dello scettico, che mira a stabilizzare il conflitto delle opinioni e la risultante epochè. Nel nuovo progetto diventa decisiva l’equipa-razione nel valore epistemico di ciò che è dubbio a ciò che è falso, ovvero la trasformazione del dubbio in deliberata negazione. Cedere su questo punto significherebbe dar spazio al ve-rosimile, quindi ai giudizi probabili che ci lascerebbero irretiti nell’incertezza dell’opinione, o ai pregiudizi che una lunga consuetudine ha trasformato in pseudoevidenze. Il giovane uscito dalla Flèche spontaneamente aveva finito col non dar credito a nessuna delle dottrine opina-bili, ma la decisione matura di rifiutare il probabile ha ben altra portata: essa estende il dub-bio ai fondamenti del conoscere, attaccando l’esperienza anteriore alle formazioni filosofico-scientifiche. A questo livello, è spontaneo l’assenso verso ciò che è sommamente probabile (quindi effettivamente ragionevole, come Descartes riconosce), e occorre un notevole sforzo per opporvisi. Non si deve però pensare che quello del dubbio sia un partito preso che trova la propria giustificazione solo in se stesso. Sempre è richiesta – oltre alla generale motiva-zione di dubitare per disfarsi dell’incerto – una ragione particolare di dubitare delle credenze via via prese in esame; ma questa può essere un semplice sospetto, una possibilità remota e magari confusa, o sommamente improbabile. Ciò basterà a produrre un dubbio, sia pure “iperbolico” o “metafisico”: inincidente dal punto di vista naturale e pratico, ma decisivo per l’impresa teorica, in quanto sufficiente a precludere quella “certezza metafisica” che, come totale indubitabilità, ne costituisce il traguardo. Alla distinzione sfumata di diversi gradi di verità e quindi di assenso, si sostituisce la cesura netta tra atteggiamento pratico e teorico, che comporta la squalifica dal punto di vista della teoria degli standard di ragionevolezza accet-tati per la pratica. Mentre il vecchio scetticismo finiva col demolire le sovrastrutture teoriche lasciando intatta un’apparente immediatezza dell’esperienza, il nuovo dubbio non riconosce alcun privilegio all’esperienza “naturale”.

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5. Scienza e metafisica nel pensiero di Cartesio · LETTURE CRITICHE

J.-L. Marion, Questioni cartesiane sull’io e su Dio[trad. di I. Agostini, Le Monnier Università, Firenze 2010, pp. 13-16, 18-20]

Avanziamo l’ipotesi che la formulazione ego sum, ego existo dispieghi un’accezione del pri-mo principio della filosofia radicalmente diversa da quella permessa dalla formula e dall’in-terpretazione canoniche, ego cogito, ergo sum. Assumiamo senza riserve, in altri termini, un’osservazione straordinariamente pertinente di Husserl: «Dietro la trivialità apparente della sua proposizione celebre ego cogito, ergo sum, si aprono abissi spalancati e oscuri». Di quali abissi si tratta? La nostra ipotesi sarà la seguente: mentre la formula privilegiata dall’inter-pretazione canonica conduce necessariamente ad un solipsismo, la seconda libera un’alterità originaria dell’ego.

Disconosciamo tanto meno il paradosso di questa ipotesi che un critico recente, che sotto-linea anch’egli il privilegio della formula di Meditatio II, finisce, seguendo un percorso con-trario al nostro, col confermarvi il solipsismo. Sottolinea infatti con acutezza E. Balibar che questa formula si esplicita infine nella sequenza «Non intendo però ancora a sufficienza chi mai sia quell’io, quell’io che necessariamente già sono / Nondum vero satis intelligo, quisnam sim ego ille, qui jam necessario sum». Ora, questa si riporta facilmente a *sum ego ille, qui sum, o a io sono, io che sono; vale a dire, essa imita niente di meno che il sum, qui sum di Eso-do 3, 14. E, in questo nome divino – il Nome –, si compie la più alta identità di sé a sé, la sola che giustificherebbe d’altronde un solipsismo. Per quanto brutale appaia, tale interpretazione è, nondimeno, letteralmente accettabile. Noi, tuttavia, la contesteremo [...].

Non rimane, dunque, che leggere in modo completamente diverso l’ego sum, ego existo proprio a Meditatio II [...]. Vale a dire, a partire da una sequenza [...] che è ad esso antecedente e ad esso conduce. Questa sequenza dispiega un’argomentazione complessa [...]; cercheremo di seguirne i quattro momenti. La prima sequenza (B Op I 712, AT VII 24, ll. 19-26)1 tenta di contestare la conclusione precedente, cioè che tutto ciò che vedo è falso, che niente è certo («[...] nihil esse certi», B Op I 712, AT VII 24, l. 18). A tal scopo, si domanda se non ci sia ancora qualche altra cosa di «diverso/diversum» (B Op I 712-713, AT VII 24, l. 19), di cui io non possa assolutamente dubitare. Cosa significa qui «diverso»? Certamente, si tratta di tutto ciò che potrebbe non cadere sotto il dubbio, come i corpi e le nature semplici materiali (B Op I 712, AT VII 24, ll. 16-17), dunque di altre cose. Ma c’è di più: si tratta non solamente di un altro, ma, più radicalmente, di un altri, così poco identificabile da restare «[...] aliquis Deus, vel quocumque nomine illum vocem» (B Op I 712, AT VII 24, ll. 21-22). Donde questo primo e strano risultato: altri sorge dunque, a titolo di ipotesi, prima persino dell’ego, sin dal primo tentativo per sorpassare il dubbio. Si tratta infatti davvero di altri (e non di un altro in genera-le), poiché gli si riconosce il nome di «Dio». [...] Dio o ciò che ne tiene qui luogo (lo si chiami come si vuole) s’impone subito come l’interlocutore dell’ego: senza esistere, senza mostrare essenza, senza nome, è sufficiente a ingannarmi e a interloquirmi; incondizionato, perché perfettamente astratto, non ha alcun bisogno di realtà per mettere la realtà in dubbio mediante me e per me. [...] Senza dubbio, il ragionamento si ribalta immediatamente: se altri mi invia questi pensieri, perché non pensare che sia direttamente io a produrli (ipsemet author, AT VII 24, l. 24, «[...] di essi potrei essere proprio io l’autore», B Op I 713)? Ma questa sostituzione non modifica lo spazio di interlocuzione, poiché l’ego, divenendo la causa eventuale delle

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1 B Op I = René Descartes. Opere. 1637-1649, a cura di G. Belgioioso, con la collaborazione di I. Agostini, F. Marrone, M. Savini, Bompiani, Milano 2009; AT = René Descartes. Œuvres, éd. par Ch. Adam et P. Tannery, nouv. présent. par J. Beaude, P. Costabel, A. Gabbey et B. Rochot, 11 voll., Vrin, Paris 1964-1974.

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idee che ad esso giungono, pretende soltanto di assumere, oltre al suo proprio ruolo, quello di altri; si tratta del primo uso di un’ipotesi di cui Descartes non temerà mai la contraddizione – essere la causa in me, ma sconosciuta da me, dell’idea di un altro da me; qui io sarò sia l’ego, sia il suo altri. Anche il primo accenno alla mia esistenza – «Numquid ergo saltem ego aliquid sum?» (B Op I 712, AT VII 24, ll. 24-25), o «Non sono, forse, allora, almeno io qualcosa?» (B Op I 713) – si espone ad un’obiezione semplice e forte: non ho sensi, né corpo; vale a dire, non posso accedere all’alterità rispetto a me stesso attraverso il sensibile, messo in dubbio; non essendo altro (sensibile) che me, non posso dunque causare le mie idee al posto di un altri; di conseguenza, io non sono altri e, con lo stesso movimento, io non sono me stesso, neppure me. Straordinariamente, io non accedo all’essere nel momento stesso in cui neppure l’altri indeterminato vi perviene – tanto l’orizzonte del primo coincide precisamente col secondo.

La seconda sequenza (B Op I 712, AT VII 24, ll. 26-25, l. 5) sembra, a una prima lettura, confutare l’ipotesi di uno spazio interlocutorio per l’ego, poiché non si interroga che sulla sua sola identità e non tenta che di resistere («Haereo tamen», B Op I 712, AT VII 24, l. 26) all’o-biezione (i) che io non sono aliquid poiché i corpi e il sensibile non sono. Il controargomento va tuttavia da sé: (ii) sono così riducibile al mio corpo e ai sensi da non poter esistere senza di essi? Ma anche questo controargomento è subito contrastato: (iii) sono convinto che al mondo non esiste né Terra, né cielo, né corpo, né menti; ciò che riprende, quasi letteralmente, l’argo-mento del dubbio iperbolico di Meditatio I. Meditatio II omette le nature semplici materiali (estensione, figura, grandezza, luogo, ecc.), la cui messa in dubbio è tuttavia la sola a rendere possibile quella del «cielo e della terra»; eppure essa aggiunge le menti, che non cadevano sot-to il dubbio iperbolico. Questa modifica non ha che uno scopo: includere nel dubbio stesso le cogitationes e dunque l’ego. Per quanto discutibile, quest’argomento può dunque pretendere di ricusare che «[...] ego aliquid sum» (B Op I 712, AT VII 24, l. 25): le menti, come i corpi, cadono sotto il dubbio; persino io, «[...] etiam me [...]» (B Op I 712, AT VII 25, l. 4), dunque, non sono. Si attenderebbe qui la replica teoricamente migliore: l’argomento non vale, perché allarga il dubbio dai corpi alle menti senza alcuna giustificazione. Descartes preferisce però un’altra risposta: ricorda che l’argomento (iii) riposava sulla mia convinzione dell’universalità (discutibile) del dubbio iperbolico – «[...] mi sono persuaso – mihi persuasi» (B Op I 712-713, AT VII 25, l. 2); e, invece di rispondere sul contenuto (allargato a torto) o sulla fondatezza di questa convinzione, ne considera la sola forma: quale che sia il contenuto di cui mi sono persuaso, quantomeno mi sono persuaso, io, di questo contenuto. Di qui (iv): «Imo certe ego eram, si quid mihi persuasi» (B Op I 712, AT VII 25, l. 5). Il francese commenta, ancora: «Non certes; j’étais sans doute, si je me suis persuadé [ou seulement si j’ai pensé quelque chose]» (AT IX-1 19, ll. 28-30). In breve, la conclusione dell’argomento (iii) «[...] me non esse [...]» (B Op I 713, AT VII 25, 11. 4-5), «[...] non esisto [...]» (B Op I 713) si contraddice, come un performativo invertito: se io penso (o dico) che non sono, io sono, perché l’atto, producendo il mio non-essere (contenuto), stabilisce il mio essere (performance). [...]

La terza sequenza (B Op I 714-715, AT VII 25, ll. 5-10) conferma subito questa disposizio-ne dialogica, rimpiazzando la formula «[...] certe ego eram, si quid mihi persuasi/[...] esistevo certamente, se mi sono persuaso di qualcosa» con un’altra, equivalente, ma esplicitamente dialogica. «Haud dubie igitur ego etiam sum, si me fallit» (B Op I 713, AT VII 25, ll. 7-8), «Senza dubbio, allora, esisto anche io, se egli mi fa sbagliare» (B Op I 712, AT VII 19, l. 32). Certamente, «io mi sono persuaso» si oppone a «io mi sono sbagliato» come il certo al falso; di fatto, l’inversione del valore di verità non cambia nulla all’identità formale dei due sintagmi (persuadermi, sbagliarmi); e, soprattutto, un solo e medesimo risultato vale per l’uno (positivo) come per l’altro (negativo): io sono («[...] ego eram», «[...] ego etiam sum»); il che

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5. Scienza e metafisica nel pensiero di Cartesio · LETTURE CRITICHE

significa che la mia esistenza risulta, indifferentemente, dalla mia autopersuasione e dal mio errore. Come spiegare questo paradosso? Ammettendo che i contenuti non hanno importanza, ma che conta solo la permanenza dell’unica struttura. Quale struttura, se non quella di un dialogo? Questo dialogo suppone un altro locutore, che interpella l’ego e lo precede: di fatto, quando l’ego ammette che egli è, ammette prima di tutto che non è che il secondo, che viene dopo un altro – «[...] ego etiam sum [...]»; se non è che anche, chi è allora il primo? La risposta va da sé: colui che mi inganna, con grande astuzia e potenza, ma di cui io ignoro l’identità («[...] deceptor nescio quis [...]», B Op I 714, AT VII 25, l. 6 – «[...] un non so quale ingan-natore [...]», B Op I 715). Senza dubbio, la sua esistenza non è stata ancora dimostrata; senza dubbio, ancora, quando quest’altra esistenza sarà dimostrata, non concernerà che una potenza suprema, purificata da ogni inganno. Resta nondimeno il fatto che solo questo interlocutore senza esistenza certa, ma anteriore alla mia, può permettermi di provare e di sperimentare la mia: bisogna che egli forse mi inganni, affinché io sappia che sono certamente. Io sono, se egli mi inganna; il che implica che io non sono che se egli mi inganna, dunque si rivolge a me, mi interpella, mi provoca. L’esistenza certa risulta dalla mia interpellanza tramite ciò che, sebbene incerto, tuttavia la precede. Esista o non esista colui che mi inganna, purché egli si rivolga a me, io sono. Sono nella stretta misura e nel tempo stesso in cui sono interpellato. [...]

La quarta sequenza (B Op I 714, AT VII 25, ll. 10-13) sembra tuttavia, di primo acchito, contraddire questa conclusione. Effettivamente, ristabilisce il corto circuito dell’ego senza menzionare «un non so quale ingannatore»: qui, Ego sum, ego existo si trova proferito e per-formato da me, esclusivamente «a me» (B Op I 714, AT VII 25, l. 12). Si tratta di una ripresa dell’argomento (iv) della seconda sequenza, «[...] ego eram, si quid mihi persuasi» (B Op I 714, AT VII 25, l. 5)? Senza alcun dubbio: nei due casi, altri (B Op I 714, AT VII 24, l. 21; B Op I 714, AT VII 25, l. 6) passa in secondo piano, al fine di abbreviare l’argomento e renderlo più incalzante. Ma [...] la disposizione dialogica, lungi dallo scomparire, si sposta e gioca tra l’ego (mihi, me) come interpellato e l’ego come interpellante (come l’altri da sé) [...]. Questo dialogo di sé a sé non deve comprendersi solo come una riflessione su di sé – «[...] mens in se conversa», «[...] solus secedo», «[...] mens, dum intelligit, se ad seipsam quodammodo con-vertat» –, in breve come una rappresentazione di sé a sé. Bisognerebbe piuttosto riconoscere qui un rivolgersi a sé, una presa di parola verso (cioè contro) di sé: «[...] meque solum allo-quendo» (B Op I 726, AT VII 34, l. 16), prendendo a parte me stesso, interpellandomi. Io, che non sono, mi rendo estraneo a me stesso per pronunciare e proferire, precedendo me stesso, quest’altra esistenza (che è tuttavia la mia) e, in atto, assicurarla. [...]

Concludiamo dunque che la formula ego sum, ego existo esprime, in Meditatio II e qui soltanto, un argomento assolutamente originale e irriducibile all’interpretazione canonica che privilegia la formula ego cogito, ergo sum. Qui, l’ego si assicura della sua esistenza mediante la sua inscrizione originaria (prima di essere) in uno spazio dialogico, dove un atto illocuto-rio – trovarsi ingannato – tramite un altri primo, indeterminato e anonimo lo riconosce come tale e gli assegna d’essere. Il solipsismo e l’identità chiusa di sé a sé non definiscono dunque necessariamente, né sempre, l’ego sum cartesiano [...]. Questo ego sum può anche (e a volte deve) riceversi a partire da un’interlocuzione originaria, che lo apre subito su un altri. Che questo altri resti vuoto e problematico rende tanto più emblematica la funzione costitutiva che esercita sull’ego. Prima di essere cosa pensante, l’ego esiste come ingannato e persuaso, dunque come cosa pensata – *res cogitans cogitata. Così, la prima verità, ego sum, ego existo, non dice la prima parola. La ascolta.

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E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità[trad. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 20066, pp. 46-47, 215-217]

L’essere conoscente resta separato dall’essere conosciuto. L’ambiguità dell’evidenza prima di Cartesio che rivela, di volta in volta, l’io e Dio senza confonderli, che li rivela come due mo-menti distinti dell’evidenza che si fondano a vicenda, caratterizza appunto il senso della sepa-razione. La separazione dell’Io si afferma così come non-contingente, come non-provvisoria. La distanza tra me e Dio, radicale e necessaria, si produce proprio nell’essere. Per questo, la trascendenza filosofica differisce dalla trascendenza delle religioni – nel senso correntemente taumaturgico e generalmente vissuto di questo termine – dalla trascendenza già (o ancora) partecipazione, immersa nell’essere verso il quale va, che a sua volta trattiene, come per fargli violenza, nelle sue reti invisibili, l’essere che trascende.

Questa relazione del Medesimo con l’Altro, senza che la trascendenza della relazione tron-chi i legami implicati da una relazione, ma senza che questi legami uniscano in un tutto il Me-desimo e l’Altro, è fissata di fatto, nella situazione descritta da Cartesio nella quale l’«io pen-so» ha con l’Infinito, che non può affatto contenere e dal quale è separato, una relazione detta «idea dell’infinito». Certo anche le cose, le nozioni matematiche e morali, secondo Cartesio, ci sono presentate dalle loro idee e se ne distinguono. Ma l’idea dell’infinito è eccezionale in quanto il suo ideatum va al di là della sua idea, mentre per le cose la coincidenza totale delle loro realtà «oggettiva» e «formale» non è esclusa; a rigore, avremmo potuto rendere conto da soli di tutte le idee, eccettuata quella dell’Infinito. Senza decidere nulla per il momento del vero significato della presenza in noi delle idee delle cose, senza aderire all’argomentazione cartesiana che prova l’esistenza separata dell’Infinito attraverso la finitezza dell’essere che ha un’idea dell’infinito (infatti non ha forse molto senso provare un’esistenza descrivendo una situazione anteriore alla prova e ai problemi d’esistenza), vale la pena di sottolineare che la trascendenza dell’Infinito rispetto all’io che ne è separato e che lo pensa, misura, se così si può dire, proprio la sua infinitezza. La distanza che separa ideatum ed idea costituisce qui appunto il contenuto dell’ideatum. L’infinito è il carattere proprio di un essere trascendente in quanto trascendente, l’infinito è l’assolutamente altro. Il trascendente è l’unico ideatum di cui possiamo avere in noi solo un’idea; esso è infinitamente lontano dalla sua idea – cioè esteriore – perché è infinito. [...]

Il cogito cartesiano mostra infatti di fondarsi, alla fine della terza meditazione, sulla cer-tezza dell’esistenza divina, in quanto infinita e rispetto alla quale si pone e si concepisce la finitezza del cogito o il dubbio. Questa finitezza non potrebbe essere determinata, come nei moderni, senza il riferimento all’infinito, partendo dalla mortalità del soggetto, per esem-pio. Il soggetto cartesiano si dà un punto di vista che gli è esterno e a partire dal quale può comprendersi. Se in un primo momento Cartesio acquista una coscienza indubitabile di sé, autonomamente, in un secondo momento – riflessione sulla riflessione – si accorge delle con-dizioni di questa certezza. Questa certezza dipende dalla chiarezza e dalla distinzione – ma la certezza stessa è cercata a causa della presenza dell’infinito in questo pensiero finito che senza questa presenza ignorerebbe la sua finitezza: «...vedo manifestamente che si trova più realtà nella sostanza infinita che nella sostanza finita, e quindi che ho, in certo modo, in me prima la nozione dell’infinito che del finito, cioè prima la nozione di Dio che di me stesso. Perché come potrei conoscere che dubito e che desidero, cioè che mi manca qualche cosa, e che non sono del tutto perfetto, se non avessi in me nessuna idea di un essere più perfetto del mio, dal cui paragone riconoscere i difetti della mia natura?».

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5. Scienza e metafisica nel pensiero di Cartesio · LETTURE CRITICHE

La posizione del pensiero in seno all’infinito che lo ha creato e che gli ha dato l’idea dell’infinito, si scopre con un ragionamento o con una intuizione che possono porre esclusiva-mente e dei temi? L’infinito non potrebbe essere tematizzato e la distinzione tra ragionamento ed intuizione non è adatta all’accesso all’infinito. La relazione con l’infinito, nella doppia struttura dell’infinito che è presente al finito, ma è presente fuori dal finito, non è estranea alla teoria? Noi vi abbiamo visto la relazione etica. Se Husserl vede nel cogito una soggettività che non ha alcun fondamento all’infuori di sé, costituisce l’idea dell’infinito e se la dà come oggetto. La non-costituzione dell’infinito in Cartesio lascia una porta aperta. Il riferimento del cogito finito all’infinito di Dio non consiste in una semplice tematizzazione di Dio. Io rendo conto di ogni oggetto per conto mio, li contengo. L’idea dell’infinito non è oggetto per me. L’argomento ontologico consiste nel mutamento di questo «oggetto» in essere, in indipen-denza da me. Dio è l’Altro. Se pensare consiste nel riferirsi ad un oggetto, bisogna credere che il pensiero dell’infinito non è un pensiero. Che cos’è positivamente? Cartesio non pone il problema. È in ogni caso evidente che l’intuizione dell’infinito conserva un senso razionalista e non diverrà in alcun modo l’irruzione di Dio attraverso un’emozione interiore. Cartesio, meglio di un idealista o di un realista, scopre una relazione con un’alterità totale, irriducibile all’interiorità e che, però, non fa violenza all’interiorità; una ricettività senza passività, un rapporto tra libertà.

L’ultimo capoverso della terza meditazione ci riporta ad una relazione con l’infinito che, attraverso il pensiero, va al di là del pensiero e diventa relazione personale. La contempla-zione si muta in ammirazione, adorazione e gioia. Non si tratta più di un «oggetto infinito» ancora conosciuto e tematizzato, ma di una maestà: «...mi sembra molto a proposito fermarmi qualche tempo alla contemplazione di questo Dio perfettissimo, di ponderare a mio agio i suoi meravigliosi attributi, di considerare, ammirare e adorare l’incomparabile beltà di questa immensa luce, almeno tanto quanto potrà permettermelo la forza del mio spirito, che ne resta in certo modo abbagliato. Poiché, come la fede c’insegna che la sovrana felicità dell’altra vita non consiste che in questa contemplazione della divina Maestà, così sperimentiamo fin da adesso che una simile meditazione, sebbene incomparabilmente meno perfetta, ci fa godere della maggior gioia di cui siamo capaci in questa vita».

Questo capoverso non ci appare così come un ornamento stilistico o come un prudente omaggio alla religione, ma come l’espressione di questa trasformazione dell’idea dell’infini-to, attuata dalla conoscenza, in Maestà incontrata come volto.

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6 VISIONE DELLA VITA E DELL’UOMO IN SPINOZA

Di particolare importanza per comprendere la posizione radicale assunta da Spinoza nell’orizzonte della filosofia post-cartesiana e il suo proposito di costruire una netta alternativa alla concezione di Dio, del mondo e della natura umana ereditata dalla tradizione ebraico-cristiana è la storia della provenienza del filosofo da quella medesima tradizione.

Le pagine di Steven Nadler che seguono, nelle quali viene ricostruito il doloroso affaire della scomunica di Spinoza da parte della comunità sefardita di Amsterdam in-sieme all’espulsione dall’intero popolo ebraico, suggerisco-

no attraverso la ricostruzione biografica che il grande tenta-tivo del filosofo è stato quello di radicalizzare l’idea ebraica dell’alleanza tra uomo e Dio, eliminando sia dal concetto di Dio sia da quello della libertà del singolo individuo ogni carattere di personalità e trascendenza: dal Dio-creatore al Dio-natura; dall’uomo come ente creato alla mente come ultima modalità della necessità universale.

Le pagine di Emanuela Scribano si soffermano su questo estremo tentativo spinoziano di identificare Dio con l’ordine necessario del mondo e il compimento dell’uo-mo nella contemplazione amorosa della necessità.

S. Nadler, Baruch Spinoza e l’Olanda del Seicento[trad. di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2002, pp. 133-135, 140-141, 143-147, 149-150, 170-171]

Il 27 luglio 1656 fu data lettura del seguente testo in ebraico, di fronte alla volta della sinagoga dell’Houtgracht:

I Signori del ma’amad, da lungo tempo a conoscenza delle opinioni e delle azioni malvagie di Ba-ruch de Spinoza, hanno cercato in vari modi e con diverse promesse di farlo tornare sulla retta via. Ma non essendo riusciti a correggerlo in alcun modo e continuando viceversa a ricevere quotidia-namente informazioni serie sulle abominevoli eresie che egli ha compiuto e insegnato nonché sui suoi atti mostruosi, e avendo numerosi testimoni credibili di tutto questo che hanno deposto e testi-moniato a tale proposito al cospetto del suddetto Espinoza, sono giunti alla conclusione della verità di tali fatti; e dopo aver preso in esame la questione in presenza degli onorevoli chachamim, hanno deciso, con il loro consenso, che il suddetto Espin0za sia scomunicato ed espulso dal popolo di Israele. Su decreto degli angeli e su ordine dei santi, noi scomunichiamo, espelliamo, malediciamo e danniamo Baruch de Espinoza, con il consenso di Dio, sia Egli lodato, e con il consenso dell’in-tera santa congregazione, e di fronte a questi rotoli che recano scritti al loro interno i 613 precetti; maledicendolo con la scomunica con la quale Joshua mise al bando Gerico e con la maledizione con cui Elisha maledisse i fanciulli e con tutti i castighi che sono scritti nel Libro della Legge. Che egli sia maledetto di giorno e maledetto di notte, maledetto quando si sdraia e maledetto quando si alza, maledetto quando esce e maledetto quando rientra. Il Signore non lo risparmierà: al contrario, la collera del Signore e la sua gelosia si abbatteranno su quest’uomo, e tutte le maledizioni scritte in questo libro penderanno su di lui, e il Signore cancellerà il suo nome da sotto il cielo. Il Signore lo allontanerà con tutto il male dalle tribù di Israele, in obbedienza a tutte le maledizioni scritte in questo libro della legge. Voi invece, voi che siete fedeli al Signore vostro Dio, ciascuno di voi è vivo quest’oggi.

Il documento si concludeva con l’avvertimento: «nessuno comunichi con lui, neppure per iscritto, né gli accordi alcun favore, né stia con lui sotto lo stesso tetto, né si avvicini a lui più di quattro cubiti; né legga alcun trattato composto o scritto da lui». Una versione portoghese fu depositata più tardi negli archivi della comunità. Con questo proclama, un cherem – vale a dire un bando o una scomunica – fu pronunciato nel 1656 contro Baruch de Spinoza dai parnassim riuniti nel ma’amad della comunità. E non fu mai revocato.

Un cherem è una misura punitiva o coercitiva adottata da una comunità ebraica nei con-

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6. Visione della vita e dell’uomo in Spinoza · LETTURE CRITICHE

fronti dei suoi membri recalcitranti o ribelli. Risale come minimo al periodo tannaitico, vale a dire all’epoca in cui fu redatta la Mishnah (I e II secolo d.C.). [...]

Per i saggi della Mishnah cherem (o meglio ancora niddui) si trasformò [...] progressiva-mente in una forma di scomunica. Ogni persona che avesse disobbedito a un ordine o violato una legge veniva dichiarata menuddeh, ossia «corrotta», e doveva essere isolata dal resto della comunità e trattata sempre con disprezzo. [...]

In tutto, tra il 1622 e il 1683, stando alle ricerche dello storico Yosef Kaplan, trentanove uomini e una donna furono scomunicati dalla congregazione alla quale apparteneva Spinoza, per periodi che andavano da un giorno agli undici anni. [...]

Il testo della scomunica di Spinoza sorpassa per veemenza e accanimento tutti gli altri che furono pronunciati nell’Houtgracht. Non esiste nessun altro documento di cherem emesso dalla comunità in quel periodo da cui trasudi la stessa collera. [...]

La domanda scontata è allora: perché Spinoza fu scomunicato con una simile irruenza? Né il suo cherem né altri documenti dell’epoca ci dicono con esattezza quali fossero «le sue opinioni e azioni malvagie [más opinioins e obras]», o quali «abominevoli eresie [horrendas heregias]» egli avesse insegnato, o quali «atti mostruosi [ynormes obras]» avesse commesso. Aveva solo ventitre anni, a quel tempo, e non aveva ancora pubblicato nulla. Neppure, per quanto ci è dato sapere, aveva fino ad allora scritto alcun trattato. Spinoza non farà mai cenno a questo periodo della sua vita nel cospicuo carteggio, e dunque non darà mai modo ai suoi corrispondenti (e a noi) di capire per quali ragioni egli fu espulso. Il fatto di avere abbandona-to gli studi ebraici – allontanandosi presumibilmente dalla yeshivà di Keter Torah – per rice-vere altrove un’educazione filosofica e scientifica potrebbe avere innervosito i suoi «maestri» all’interno della comunità, in particolare Mortera. I rabbini non potevano certo essere felici di vederlo andare a scuola da Van den Enden, se a quel tempo già lo stava facendo. Si può anche ipotizzare che Spinoza, una volta finito il periodo di lutto per la morte del padre, stesse frequentando poco la sinagoga e badasse sempre meno all’osservanza della legge ebraica (so-prattutto per quanto riguarda il Sabbhath e le norme dietetiche). In questo caso, i parnassim potrebbero aver pensato di far pendere su di lui la minaccia di un cherem per convincerlo a rientrare nei ranghi. Ma nessuna di queste ipotesi basta comunque a spiegare la veemenza della sua scomunica. [...]

La risposta dunque va cercata nelle «eresie» e nelle «opinioni malvagie » di Spinoza. [...]Sia nell’Etica, il capolavoro iniziato nei primi anni Sessanta, sia nel Breve trattato su Dio,

l’uomo e il suo bene, un testo di poco anteriore (risalente forse al 166o, solo quattro anni dopo la scomunica!) in cui sono già esposte, anche se talvolta in forma embrionale, alcune idee dell’Etica, Spinoza in sostanza nega l’immortalità dell’anima umana intesa nel senso di una sopravvivenza al di là della morte. Benché ci tenga a ribadire che la mente (o una parte di essa) è eterna e continua a esistere in Dio dopo la morte del corpo, egli sostiene che l’anima individuale perisce con il corpo. Dunque, non c’è nessuna ragione di temere un castigo eterno o di sperare in un’eterna ricompensa. A ben vedere, egli spiega, timore e speranza sono sem-plici emozioni manipolate dai capi religiosi per tenere a bada il proprio gregge. L’idea di un Dio che agisce come libero giudice, assegnando castighi e ricompense, si basa su un’assurda antropomorfizzazione. «Essi stabilirono che gli Dei indirizzano tutto a uso degli uomini per legarli a sé ed essere da loro tenuti in sommo onore; onde avvenne che tutti escogitassero diverse maniere di adorare Dio, seconda la loro indole». La superstizione, l’ignoranza e il pregiudizio sono perciò alla base di ogni religione istituzionalizzata. In verità, insiste Spinoza, Dio è semplicemente la sostanza infinita e, come tale, è assolutamente identico alla Natura. Ogni altra cosa discende dalla natura di Dio in modo perfettamente necessario. Spinoza nega,

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così, che gli esseri umani siano liberi, in senso proprio, o possano fare nulla «da se stessi» per contribuire alla propria salvezza e al proprio bene.

Secondo il Trattato teologico-politico, poi, il Pentateuco, composto dei primi cinque libri della Bibbia ebraica, non è stato davvero scritto da Mosè, e i suoi precetti non sono dunque di origine divina. Anche se il testo contiene in effetti una sorta di «messaggio divino» tradotto in insegnamenti morali, esso fu comunque opera di un certo numero di autori e curatori poste-riori. Dunque, lo scritto pervenutoci è in realtà il frutto di un naturale processo di trasmissione storica. Secondo Spinoza, inoltre, il popolo ebraico è «eletto» solo nel senso che ha goduto in passato di una certa «felicità» e di una certa autonomia di governo. Con l’aiuto di Dio, gli ebrei furono in grado di preservarsi come nazione per lungo tempo, creando una società unita e fondata su precise leggi. La nozione ebraica di «popolo prescelto» non ha pertanto alcuna rilevanza metafisica o morale; e un’elezione del genere non è detto che sia una loro prerogati-va. Gli ebrei non sono una nazione moralmente superiore alle altre, o magari più saggia. [...]

Non sono certo sentimenti che potessero intenerire il cuore di un rabbino del Seicento. E ci sono buone ragioni per credere che alcune di queste idee, che Spinoza cominciò a mettere per iscritto al più tardi nel 166o, gli fossero già ben chiare nel 1656. Diverse fonti ci confermano che Spinoza compose un’Apologia dopo la scomunica, per spiegare il suo «allontanamento» dalla religione ebraica. Il leggendario manoscritto, che si ritiene fosse scritto in spagnolo (è quanto sostiene Bayle) e recasse il titolo di Apologia para justificarse de su abdicacion de la sinagoga, non fu mai stampato e non è mai stato ritrovato. Se questo testo è davvero esistito comunque, è inverosimile che Spinoza lo volesse inviare ai parnassim o ai rabbini della con-gregazione, anche perché non c’è motivo di credere che egli abbia fatto o concepito il minimo tentativo di fare ufficialmente appello a coloro che lo avevano scomunicato. In questa prima espressione scritta delle sue idee era contenuta invece, a quanto pare, buona parte del materia-le che sarebbe ricomparso in seguito nel Trattatto teologico-politico, inclusa presumibilmente la negazione dell’origine divina della Torah e incluse le tesi sull’«elezione del popolo ebrai-co». Una delle fonti di Bayle e dei nostri testimoni in proposito, Salomon Van Til, professore di teologia a Utrecht, scrisse nel 1684 che:

questo nemico della religione [Spinoza] fu il primo ad avere l’audacia di mettere in dubbio l’autori-tà dei libri del Vecchio e del Nuovo Testamento, cercando di mostrare al mondo come questi scritti fossero stati più volte ritoccati e modificati dall’intervento degli uomini e come fossero stati elevati in seguito all’autorità di scritture divine. Egli espose nel dettaglio queste idee in una dissertazione contro il Vecchio Testamento scritta in spagnolo, dal titolo «Giustificazione del mio allontanamento dalla religione ebraica». Seguendo però il consiglio di amici, egli tenne per sé questo scritto e cercò di dare forma più compiuta e sistematica alle sue idee in un’altra opera, pubblicata poi nel 167o con il titolo Tractatus theologico-politicus.

[...] Oltre alle voci su trattati andati persi, ci sono anche ragioni piu tangibili per pensare che le idee espresse da Spinoza nelle sue opere scritte – e in particolare quelle su Dio, l’anima e la Torah – già circolassero nella sua testa (giungendo forse fino alla lingua) verso la metà degli anni Cinquanta. Per prima cosa, c’è la testimonianza di un vecchio che sostiene di avere conosciuto il filosofo di persona. Il viaggiatore tedesco Gottlieb Stolle parlò infatti con lui nel 1704, e dichiarò che Spinoza era stato scomunicato poiché affermava che «i Libri di Mosè erano opera dell’uomo [ein Menschlich Buch] e dunque non erano stati scritti da Mosè». Poi, c’è la storia delle domande poste a Spinoza dai suoi colleghi di studio nella comunità. Stan-do alla scansione degli eventi prima del cherem proposta da Lucas, nella congregazione le tesi di Spinoza furono discusse in lungo e in largo; la gente, e in particolare i rabbini, erano

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6. Visione della vita e dell’uomo in Spinoza · LETTURE CRITICHE

piuttosto incuriositi dalle idee del giovane. Come racconta Lucas – e questo aneddoto è con-fermato pure da una seconda fonte – «tra i suoi sostenitori più entusiasti c’erano due giovani che, dichiarandosi suoi amici, gli chiesero di esporre fino in fondo il suo punto di vista. Gli garantirono che, di qualunque cosa si fosse trattato, non doveva temere alcun problema, dato che la loro curiosità era motivata unicamente dal desiderio di chiarire certi dubbi». Gli dissero che se uno leggeva attentamente Mosè e i profeti, poteva anche pensare che l’anima non fosse immortale e Dio fosse materiale. «Che ve ne pare?, – chiesero a Spinoza. – Dio ha un corpo? L’anima è immortale?». Vinta qualche esitazione iniziale, Spinoza stette al gioco.

Confesso, disse [Spinoza], che, dal momento che nella Bibbia non c’è nessun riferimento al non materiale o all’incorporeo, non c’è motivo di credere che Dio non abbia un corpo. Tanto più che, come dice il Profeta, Dio è grande, e non si può concepire la grandezza senza estensione e, quindi, a prescindere dal corpo. Per quanto riguarda gli spiriti, le Scritture non dicono che essi sono sostanze reali e permanenti, bensì semplici fantasmi, chiamati angeli poiché Dio li adopera per annunciare il suo volere; sono fatti in modo tale da restare invisibili, come gli angeli e ogni altra sorta di spiriti, poiché la loro materia è assai fine e diafana, tanto che li si può vedere solo come si vedono i fanta-smi, negli specchi, in sogno, oppure di notte.

[...] Quando il cherem fu letto dinanzi alla congregazione riunita, il 27 luglio (sesto giorno di Ab), Spinoza con ogni probabilità non era presente. Aveva il diritto di ricorrere in appello presso i magistrati comunali, qualora avesse ritenuto di essere stato punito ingiustamente o con eccessiva severità. [...] Spinoza non lo fece. [...] E la sua reazione al provvedimento di espulsione è forse colta meglio da Lucas, quando gli fa dire: «Meglio così; non mi costringo-no a fare nulla che non avrei fatto di mia spontanea volontà se non avessi temuto lo scandalo. Ma, dal momento che è questo che vogliono, imbocco volentieri la strada che mi si apre davanti, con la consolazione che la mia partenza è ancor più innocente dell’esodo dei primi ebrei dall’Egitto».

E. Scribano, Guida alla lettura dell’«Etica» di Spinoza[Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 157-160]

Platone e Aristotele hanno introdotto nella tradizione occidentale l’idea che la virtù più elevata cui la mente umana possa accedere sia la conoscenza e la contemplazione del primo principio, un’attività teoretica, dunque, cui corrisponde uno stato d’animo di pieno appa-gamento:

una vita siffatta sarà superiore alla condizione dell’uomo: infatti non è in quanto è uomo che vivrà in questo modo, ma in quanto in lui è presente qualcosa di divino. [...] Di conseguenza, se l’intel-letto è una cosa divina rispetto all’uomo, anche la vita secondo l’intelletto sarà divina rispetto alla vita dell’uomo. [...] per quanto è possibile, si deve diventare immortale e compiere ogni cosa per vivere in modo conforme a quella che, tra le cose che sono nell’individuo, è la più alta (Aristotele, Etica Nicomachea, X, 7, 1177b).

Per questo, la virtù contemplativa è superiore a tutte le attività virtuose che concernono la vita pratica: «La vita vissuta secondo l’altra specie di virtù è felice in senso secondario, giac-ché le attività secondo questa specie sono puramente umane. [...] Al contrario la virtù dell’in-telletto è separata dal corpo» (Etica Nicomachea, X, 8, 1178a). Poiché la virtù contemplativa,

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secondo Aristotele, è l’unica virtù posseduta anche dagli dèi, essa mette l’uomo in condizione di partecipare della stessa ‘beatitudine’ di cui godono le divinità. La beatitudine è quel senti-mento di pieno appagamento che pervade coloro che hanno raggiunto la massima perfezione, e nella massima perfezione permangono.

La tradizione cristiana si è appropriata di questa tesi e l’ha trasferita nella dimensione alla quale possono accedere le anime dei giusti che partecipano della vita di Dio, conoscono quel che Dio conosce e colmano quindi la distanza tra creatore e creature: sono i beati, coloro che partecipano dell’intelletto di Dio e dell’amore che Dio rivolge a se stesso. Spinoza riporta ora alla sua dimensione esclusivamente filosofica la teoria della vita eterna e divina che la mente raggiunge nella sua attività conoscitiva più alta. Nella dimensione eterna nella quale le idee adeguate hanno come premessa la conoscenza di Dio, ovvero nella conoscenza del terzo ge-nere, la mente stessa diviene parte dell’eterna vita di Dio: «la nostra mente, in quanto intende, è un eterno modo del pensare, che è determinato da un altro modo eterno del pensare, e questo a sua volta da un altro e così all’infinito; così che tutti insieme costituiscono l’eterno e infinito intelletto di Dio» (V, prop. 40 s.). Nell’eternità la mente non perde la sua finitezza, ma sa di essere parte dell’intelletto divino dal momento che, come Dio, essa possiede solo idee ade-guate. È quindi possibile considerare sotto il solo aspetto dell’eternità, senza più preoccuparci delle loro ricadute nel tempo, le acquisizioni della mente in quanto conosce adeguatamente. L’acquisizione che ora ci interessa è quella che ha guidato tutta l’esposizione dell’Etica, quel-la che più volte è stata evocata come il fine della trattazione e che ne ha determinato le scelte espositive: la beatitudine, ovvero l’amore intellettuale di Dio, ovvero la libertà della mente.

La mente ha già sperimentato l’amore di Dio, quello che si innesca nella conoscenza dei propri affetti. Si tratta di una conoscenza adeguata, che deve entrare nella dimensione del tempo, per combattere le passioni presenti. Per l’aspetto per il quale l’amore di Dio era fatto giocare nel tempo e concerneva quindi il corpo nella durata, l’amore non poteva essere attri-buito a Dio, né si poteva chiedere che Dio ricambiasse l’amore degli uomini. Ora invece si considera la vita della parte eterna della mente indipendentemente dal tempo e l’aspetto eter-no di quello stesso amore. Alla conoscenza eterna corrisponde una emozione eterna, l’amore intellettuale di Dio: «L’amore intellettuale di Dio, che nasce dal terzo genere di conoscenza, è eterno» (V, prop. 33). È la massima ‘virtù’ della mente, la sua prova di maggiore autonomia, quella che è accompagnata dalla massima soddisfazione (V, prop. 27), ossia dalla beatitudine.

Il presupposto dell’amore intellettuale di Dio – chiamato intellettuale proprio perché ri-svolto emotivo della sola parte eterna della mente, il suo intelletto –, è che anche Dio ama se stesso. Inaspettatamente, Spinoza introduce una dimensione affettiva in Dio, quella stessa che già gli attribuiva Aristotele e con lui la tradizione cristiana: la sua beatitudine. Come sappiamo, Dio non passa da una minore a una maggiore perfezione, quindi non può provare quella gioia che, nella mente finita, è indizio del suo perfezionamento, e, tuttavia, Dio gode della massima perfezione. Si può parlare di amore di Dio verso se stesso, perché il sentimento che accompagna il possesso eterno della massima perfezione corrisponde alle caratteristiche dell’amore: è un godimento accompagnato dall’idea di ciò che lo causa. Dio, infatti, conosce se stesso, sa che la sua stessa perfezione è causa della sua beatitudine, e quindi prova gioia accompagnata dall’idea di se stesso, quindi ama se stesso: «Dio ama se stesso con infinito amore intellettuale» (V, prop. 35). In base a questo recupero della tesi di una beatitudine di-vina, che era stata prima aristotelica e poi cristiana, Spinoza può recuperare anche quel che aveva escluso nella dimensione temporale: l’amore di Dio verso gli uomini.

Anche in questo caso siamo di fronte alla riappropriazione di quel che il pensiero cristiano, inglobando al suo interno le tesi aristoteliche, aveva pensato della condizione dei beati: essi

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6. Visione della vita e dell’uomo in Spinoza · LETTURE CRITICHE

fanno parte di Dio, diventano ‘deiformi’, come usavano dire i teologi scolastici, ossia tutto quel che avviene nelle loro menti è parte di quel che avviene in Dio, la distanza tra finito e infinito non è più la distanza tra due unità di misura incomparabili, ma il finito sperimenta in grado quantitativamente limitato quel che avviene in Dio in grado infinito, a cominciare dalla conoscenza divina: le idee della mente del beato sono le stesse idee della mente divina. Come per i beati della tradizione cristiana, anche per Spinoza la mente che conosce adeguatamente ha le stesse idee di Dio. Lo stesso accade nel caso dell’amore dell’uomo verso Dio rispetto all’amore di Dio verso se stesso, di cui si occupa la proposizione trentaseiesima: «L’amore intellettuale della mente verso Dio è lo stesso amore di Dio con il quale Dio ama se stesso [...] cioè l’amore intellettuale della mente verso Dio è parte dell’amore infinito con il quale Dio ama se stesso», con una conseguenza clamorosa tratta nel corollario: «Ne segue che Dio, in quanto ama se stesso, ama gli uomini e conseguentemente che l’amore di Dio verso gli uomini, e l’amore intellettuale della mente verso Dio, è uno solo e lo stesso». Il ragionamen-to è di questo tipo: l’amore intellettuale della mente umana è parte dell’amore di Dio verso se stesso, perché le menti umane, quando conoscono adeguatamente, sono parti della mente divina, quindi, se Dio ama se stesso, Dio ama anche gli uomini che ne sono parte (V, prop. 35 e prop. 36). A differenza dell’amore nel tempo che Dio non poteva provare (V, prop. 19), l’amore intellettuale è la condizione emotiva che corrisponde necessariamente al godimento della dimensione eterna, e quindi può essere attribuito a Dio nei confronti degli uomini, nella misura in cui gli uomini partecipano della dimensione eterna.

Proprio perché nella conoscenza adeguata l’uomo sa di essere in Dio, può ora essergli attribuita a pieno titolo quella libertà che, nelle virtù etiche, costituiva solo un ideale che non poteva realizzarsi completamente. In quanto l’uomo conosce come Dio conosce e prova l’amore intellettuale verso Dio che è parte dell’amore che Dio prova per se stesso, l’uomo si può dire libero come libero è Dio: «comprendiamo chiaramente in che cosa consiste la nostra salvezza, ossia beatitudine, ossia libertà, e cioè nel costante e eterno amore verso Dio, ossia nell’amore di Dio verso gli uomini», e, di seguito, viene spontaneo a Spinoza far riferimento alla Gloria di cui si parla nelle Scritture, a proposito della dimensione nella quale si trova Dio e che Dio può far partecipare agli uomini: «E precisamente questo amore, ossia beatitudine nei Sacri codici si chiama Gloria» (V, prop. 36 s.). L’uomo, per la parte in cui ha attinto alla conoscenza adeguata, si è reso davvero uguale a Dio, e non potrebbe essere diversamente dal momento che la libertà di cui si parla discende dal possesso delle idee adeguate speculative che, come sappiamo fin dalla Parte Seconda, sono uguali in Dio e nella mente finita.

La dimensione eterna dell’amore intellettuale, ossia il fatto che esso sia il risvolto emo-tivo delle conoscenze che la mente acquisisce in quanto eterna, fa sì che, sebbene si possa descrivere questo amore in termini temporali, e parlare di una mente che inizia a provare questo amore, o che passa a una maggiore perfezione, l’amore intellettuale non conosca una scansione temporale: «Sebbene questo amore verso Dio non abbia avuto un principio, ha tuttavia tutte le perfezioni dell’amore» (V, prop. 33). Per questo, nell’amore intellettuale si prova una gioia che, al contrario della gioia finora studiata, non indica un passaggio da una perfezione minore a una perfezione maggiore, ma indica il possesso della perfezione somma, e ad esso corrisponde non la gioia ma la beatitudine: «se la gioia consiste nella transizione ad una maggiore perfezione, la beatitudine in verità deve consistere in ciò che la mente è dotata della stessa perfezione» (V, prop. 33 s.).

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7 LA FILOSOFIA LEIBNIZIANA NEL SEGNO DELLA “PIEGA”

Il pensiero straordinariamente multiforme di Lei-bniz è stato giustamente interpretato come la cifra dell’inte-ra cultura dell’età barocca. Una cultura che cerca di legare, collegare, incrociare e far compenetrare tutti gli aspetti della realtà – del mondo come dell’io – attraverso la potenza connettiva della ratio. Una ragione intesa non soltanto come capacità conoscitiva dell’uomo, ma come motivazione di tutto ciò che c’è. Non a caso il motto dell’intero pensiero leibniziano può essere: “Nulla è senza ragione”. Non solo

gli enti matematici, non solo le verità logiche, ma anche gli eventi storici e le possibili azioni dell’uomo libero.

Le pagine di Gilles Deleuze che seguono pre-sentano la filosofia leibniziana nel segno della “piega”, una delle immagini più appropriate per definire – analogamente alla strutturazione dello spazio nell’architettura barocca – il concetto di monade, la nozione di materia, nonché il rap-porto tra anima e corpo, come un universo concentrato e ripiegato in se stesso.

G. Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco[trad. di V. Gianolio, Einaudi, Torino 1990, pp. 5-7, 42-46]

Il Barocco non rimanda a un’essenza, ma piuttosto a una funzione, a un tratto. Non smette mai di fare pieghe. Questo fenomeno non è una sua invenzione: ci sono tutte le pieghe provenienti dall’Oriente, le pieghe greche, romane, romaniche, gotiche, classiche... Ma il Barocco av-volge e riavvolge le pieghe, le spinge all’infinito, piega su piega, piega secondo piega. Il suo tratto distintivo è rappresentato dalla piega che si prolunga all’infinito. Dapprima il Barocco le diversifica seguendo due direzioni, seguendo due infiniti, come se l’infinito avesse due piani: i ripiegamenti della materia, e le pieghe nell’anima. Il basso, la materia è ammassata, in un primo genere di pieghe, e poi organizzata a partire da un secondo genere, in modo tale che le sue parti costituiscano organi «piegati differentemente e più o meno sviluppati». In alto l’anima canta la gloria di Dio in quanto essa percorre le sue proprie pieghe, senza giungere a svilupparle del tutto, «poiché vanno all’infinito». Un labirinto è detto multiplo, in senso etimologico, poiché è costituito da molteplici meandri. Il molteplice, non è soltanto ciò che ha molte parti, ma ciò che è piegato in molti modi. Un labirinto corrisponde esattamente a ogni piano: il labirinto del continuo nella materia e nelle sue parti, il labirinto della libertà nell’anima e nei suoi predicati. Se Cartesio è stato incapace di risolverli, è perché ha cercato il segreto del continuo in percorsi rettilinei, e quello della libertà nella rettitudine dell’anima, ignorando e l’inclinazione dell’anima e la curvatura della materia. Occorre una «crittografia» che, insieme, enumeri la natura e decifri l’anima, veda nei ripiegamenti della materia e legga nelle pieghe dell’anima.

È cosa certa che i due piani comunicano tra loro (ed è per questa ragione che il continuo risale nell’anima). Ci sono anime in basso, sensitive, animali, o anche un piano in basso nelle anime, e i ripiegamenti della materia le avvolgono, le avviluppano. Quando verremo a sapere che le anime non possono avere finestre aperte verso l’esterno, bisognerà, almeno in un primo tempo, ammetterlo per le anime in alto, raziocinanti, salite all’altro piano («elevazione»). Il piano superiore è quello senza finestre: camera o cubicolo oscuro, adorno soltanto di una tela ben tesa «diversificata da pieghe» come un derma messo a nudo. Queste pieghe, corde o parti elastiche formate sulla tela opaca, rappresentano le conoscenze innate, ma che passa-no all’atto sotto le sollecitazioni della materia. Poiché quest’ultima determina «vibrazioni o oscillazioni» all’estremità inferiore delle corde, con l’aiuto intermediario di «qualche piccola apertura» che si trova la piano inferiore. Leibniz opera dunque un grande meccanismo baroc-

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7. La filosofia leibniziana nel segno della “piega” · LETTURE CRITICHE

co, tra il piano inferiore munito di finestre, e il piano superiore, cieco e chiuso, ma per contro risonante, come una sala da musica che fosse in grado di riprodurre in suoni i movimenti visibili in basso. Si potrebbe obiettare che questo testo non esprime il pensiero di Leibniz, ma il momento più intenso del suo possibile atto di conciliazione con quello di Locke. Determina tuttavia un modo di rappresentare, come Leibniz affermerà sempre, una corrispondenza e perfino una comunicazione tra i due piani, tra i due labirinti, i ripiegamenti della materia e le pieghe nell’anima. Una piega tra le due pieghe? E la stessa immagine, quella delle venature del marmo, si attaglia ai due a condizioni differenti: a volte le venature sono i ripiegamenti di materia che attorniano i viventi presi nella massa, così come il cubo di marmo è simile a un lago ondoso, popolato di pesci. A volte le venature sono le idee innate nell’anima, come le figure ripiegate o le statue sbozzate e ancora intrappolate nel blocco di marmo. La materia è marmorizzata, l’anima è marmorizzata, ma in due modi differenti.

[...] Risulta impossibile capire la monade leibniziana, e il suo sistema luce-specchio-punto di vista-arredamento interno, se non li si paragona all’architettura barocca. [...] La monade è una cellula, una sacrestia più ancora di un atomo: una stanza senza porta né finestra, dove ogni azione è interna.

La monade è l’autonomia dell’interno, un interno senza esterno. Ma ha come correlato l’indipendenza della facciata, un esterno senza interno. La facciata, dunque, può avere porte e finestre, è piena di buchi, pur non essendoci un vuoto apparente, poiché un buco è il luogo di una materia più rarefatta. Le porte e le finestre della materia aprono oppure chiudono soltanto dal di fuori o verso il fuori. Certamente, la materia organica delinea già un’interiorizzazione, ma relativa, sempre in divenire e mai compiuta. Così come una piega passa attraverso il vi-vente, ma per dividere l’interiorità assoluta della monade come principio metafisico di vita e l’esteriorità infinita della materia come legge fisica di fenomeno. Due insiemi infiniti di cui l’uno non raggiunge l’altro: «La divisione infinita dell’esteriorità si prolunga incessantemente e rimane aperta, bisogna allora uscire dall’esterno e prospettare un’unità puntuale interiore... Il campo del fisico, del naturale, del fenomenico, del contingente è del tutto immerso nell’in-terazione infinita di catene aperte: per questo fatto è non metafisico. Il campo della metafisica si trova al di là, e chiude l’interazione..., la monade è quel punto fisso mai raggiunto dalla suddivisione infinita, e che chiude lo spazio infinitamente diviso». Ciò che può definire l’ar-chitettura barocca, è questa scissione della facciata e dello spazio di dentro, dell’interno e dell’esterno, l’autonomia dell’interno e l’indipendenza dell’esterno, in circostanze tali che ciascuno dei due termini ripropone l’altro. [...] Tra l’interno e l’esterno, la spontaneità del

– La casa barocca –(allegoria)

Stanze comuni, munitedi «qualche piccola apertura»:i cinque sensi

Stanza chiusa privata,tappezzata da una «teladiversificata da pieghe»

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dentro e la determinazione del fuori, ci vorrà un nuovo modulo di corrispondenza di cui gli architetti prebarocchi non avevano idea [...].

Dapprima la nuova armonia sarà resa possibile dalla distinzione tra i due piani, in quanto essa risolve la tensione o suddivide la scissione. Il piano in basso si fa carico della facciata, si allunga aprendosi in fori, s’incurva seguendo i ripiegamenti determinati da una materia pesan-te che costituisce una zona infinita di ricezione o di ricettività. Il piano in alto si chiude, puro interno senza esterno, interiorità chiusa in assenza di gravità, tappezzata di pieghe spontanee che sono soltanto quelle di un’anima o di uno spirito. Così che il mondo barocco, come ha dimostrato Wölfflin, si organizza secondo due vettori, lo sprofondamento in basso, la spinta verso l’alto. È stato Leibniz a far coesistere la tendenza di un sistema lento a trovare il suo equilibrio il più basso possibile, laddove la somma delle masse non può più scendere, e la tendenza a innalzarsi, la più alta aspirazione di un sistema in mancanza di gravità, laddove le anime sono destinate a diventare raziocinanti, come in un quadro del Tintoretto. Che l’uno sia metafisico e concerni le anime, che l’altro sia fisico e concerni i corpi, la cosa non impedisce ai due vettori di comporre uno stesso mondo, una stessa casa. E non soltanto essi si distribu-iscono in funzione di una linea che si attualizza in un piano, e si realizza nell’altro, ma una corrispondenza superiore non smette di ricondurli l’uno all’altro. [...]

La scissione tra l’interno e l’esterno rinvia dunque alla distinzione dei due piani, ma quest’ultima rimanda alla Piega, che s’attualizza nelle pieghe intime racchiuse dall’anima nel piano in alto, e che si effettua nei ripiegamenti che la materia fa nascere gli uni dagli altri, sempre all’esterno, nel piano in basso. Così che la piega ideale è lo Zwiefalt, piega che differenzia e si differenzia. Quando Heidegger evoca lo Zwiefalt come il differenziante della differenza, vuole dire prima di tutto che la differenziazione non rinvia a un indifferenziato precostituito, ma a una differenza che non smette di spiegarsi e ripiegarsi da ciascuno dei due lati. Non si spiega l’uno se non ripiegando l’altro, in una coestensività dello svelamento e del velamento dell’Essere, della presenza e del ritiro dell’esistente. La «duplicità» della piega si riproduce necessariamente dai due lati e li distingue, ma, distinguendoli li ricollega l’uno all’altro, scissione i cui due termini si rilanciano vicendevolmente, tensione di cui ogni piega è tesa nell’altra.

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8. Metafisica, antropologia e politica in Hobbes · LETTURE CRITICHE

8 METAFISICA, ANTROPOLOGIA E POLITICA IN HOBBES

La chiave per comprendere nella sua interezza il pensiero di Thomas Hobbes è costituita dal concorso di tre fattori che vanno sempre considerati connessi e interdipen-denti: metafisica, antropologia e politica.

Il brano di Angelo Campodonico aiuta a focaliz-zare i presupposti metafisici del pensiero hobbesiano (ossia il corporeismo meccanicista), la sua base gnoseologica (il sensismo) e la sua struttura epistemologica (il nominalismo).

Il brano di Norberto Bobbio, invece, affronta

in modo particolare un problema centrale nella filosofia di Hobbes, quello riguardante il nesso tra legge naturale e leg-ge civile. A partire da una nuova concezione della ragione umana come calcolo, Hobbes ha infatti sviluppato sia un’i-dea di diritto naturale, sia un’idea di diritto positivo: il che spiega il fatto che a questo autore si siano richiamati tanto i teorici del giusnaturalismo, quanto quelli del positivismo giuridico.

A. Campodonico, Metafisica e antropologia in Thomas Hobbes[Res Editrice, Milano 1982, pp. 79-80, 82-87]

L’elaborazione di una dettagliata epistemologia rappresenta, in Hobbes, un momento logica-mente e cronologicamente successivo a quello della costituzione, nelle sue grandi linee, di un metodo filosofico efficace di approccio alla realtà. Tanto è vero che ci vorranno molti anni prima che egli giunga alla definitiva formulazione dell’epistemologia del De corpore.

Nello sviluppo del suo pensiero, il primo momento è dato dall’intuizione di un metodo di approccio ai fenomeni, sotteso da una precisa ed unitaria, anche se non sempre esplicitata, concezione del reale. In questa fase è già presente il progetto del sistema. Sulla base di questa concezione globale della realtà naturale, Hobbes pensa di poter attuare un sistema deduttivo unitario, ispirantesi al modello della geometria euclidea e in grado di dar ragione della genesi dei fenomeni oggetto di esperienza. In questo sistema il concetto di movimento gioca un ruolo essenziale, sia sul piano ontologico, sia su quello metodologico.

Il secondo momento è dato dall’applicazione del nuovo metodo alla struttura della cono-scenza, sia al fine di verificarne le possibilità, estendendolo anche all’esame dei fenomeni impercettibili e complessi, sia di provare l’oggettività delle sole qualità primarie. In questa seconda prospettiva, l’applicazione del meccanicismo alla fisiologia della sensazione dovreb-be servire a fondare l’oggettività del meccanicismo stesso.

Il terzo momento è dato dal tentativo di esplicitare l’epistemologia implicita nel progetto hobbesiano del sistema e nel suo metodo di approccio alla realtà. Paradossalmente, proprio nella misura in cui Hobbes vuol esplicitare, in modo rigoroso, l’epistemologia che sottende il suo progetto di sistema, esso rivela difficoltà e contraddizioni e tende a venir meno nella sua pretesa deduttività e unità. Hobbes è così costretto a cercare nuove soluzioni, fino ad ammettere come scienze pienamente tali solo la geometria e la filosofia politica. Tuttavia, la «crisi» del sistema non significa messa in discussione delle intuizioni centrali di Hobbes, in particolare del privilegiamento del metodo geometrico-deduttivo e della sua concezione del reale costituito esclusivamente dai corpi e dal movimento. Queste convinzioni restano (per quanto riguarda il meccanicismo si verifica addirittura un rafforzamento), benché Hobbes non riesca nel suo sforzo di inserirle coerentemente entro un sistema unitario.

Chiedersi perché Hobbes non riesca a formulare un’epistemologia adeguata alla sua con-cezione «meccanicista» del reale, di cui è peraltro pienamente convinto, significa scavare nel-la struttura più intima della sua filosofia, per coglierne i presupposti radicali, anche impliciti, e

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per comprendere così come egli di fatto «vedesse» la realtà. Per fare questo [...] cerchiamo di evidenziare quali asserzioni, di tipo gnoseologico e anche metafisico, essa presupponga. [...]

Al di là di ogni possibile interpretazione della genesi della posizione gnoseologica, pro-pria di Hobbes, resta il fatto che, nella sua descrizione del processo conoscitivo e nella sua epistemologia, sono insite delle tensioni che superano il piano stesso della gnoseologia e che sollecitano a evidenziare il substrato «metafisico», costituito dai presupposti ultimi del siste-ma. Due ci sembrano i presupposti di questo pensiero, considerato nel suo insieme: 1) sullo sfondo, l’affermazione implicita di un atomismo ontologico, contraddistinto dall’univocità, che si manifesta nel sensismo e nell’atomismo concettuale; 2) in primo piano, l’affermazione della struttura meccanicistica della realtà. Esaminiamo questi due aspetti separatamente, con le loro implicazioni, per poi cogliere il rapporto che intercorre fra di loro.

Consideriamo il primo aspetto. Se v’è, come soprattutto ha notato il Pacchi, un’evoluzione del nominalismo di Hobbes da posizioni più radicali (presenti, in particolare, nelle Objectio-nes a Cartesio e nel De motu), ad altre più vicine al concettualismo (nel De corpore), tuttavia si può sempre riscontrare, alla base del suo atteggiamento conoscitivo, il presupposto, affer-mato già nei suoi primi scritti, in base al quale «non c’è nulla che veramente esiste al mondo se non singoli corpi individuali che producono singoli atti individuali...».

Esiste solo l’individuo, la cui esistenza può essere conosciuta veramente solo nel singolo atto del senso. Nella realtà non v’è mai nulla di universale, intuibile dall’intelletto. La forza di questa convinzione, che Hobbes riceve da una lunga tradizione di pensiero nominalista, si ripercuote anche sulla sua concezione dell’uomo. Conseguenza logica di questo «atomismo ontologico» è, come si è notato, l’originale nominalismo hobbesiano, in cui solo il nome rag-giunge l’universalità e, di conseguenza, alcune implicazioni, particolarmente accentuate in opere come il De motu, e cioè il venir meno del riscontro oggettivo dei generi e delle specie (per cui un nome può essere associato ad altri, secondo diversi criteri, e in ciò gioca l’arbitrio umano), il formalismo della verità e, infine, il convenzionalismo e l’arbitrarismo dei primi princìpi della scienza. Nella sua epistemologia della scienza naturale, il pensiero di Hobbes è costretto dalla matrice sensista portata alle sue estreme conseguenze, o a rifarsi all’esperienza per ricavare i dati essenziali alla scienza, venendo meno così all’universalità cui aspira, o, d’altro lato, a liberarsi dal riferimento all’esperienza, per attingere nella scienza, concepita ora sul modello della geometria, un’universalità che rischia però di essere astratta e tautologica. In realtà, data questa prospettiva, le uniche scienze che rispondono ai requisiti di Hobbes, possono essere quelle, i cui princìpi sono posti, in ultima analisi, dalle convenzioni umane e che si staccano dalla natura (la geometria e la filosofia politica). [...]

D’altro lato, e passiamo così al secondo polo del pensiero di Hobbes, egli è, fin dall’inizio, profondamente convinto che la realtà sia effettivamente un «meccanismo» composto esclusi-vamente di corpi, che si trovano in «collocazione semplice» nello spazio-tempo e che mutano solo attraverso il moto locale, in base ad una ferrea necessità causale. La sua stessa fisiologia del processo conoscitivo è subordinata a tale presupposto, fin dalle prime opere filosofiche. L’elaborazione concettuale, anche se Hobbes, dato il pregiudizio sensista, non sembra esserne cosciente, risente dell’opera dell’intelletto della fisico-matematica galileiana, che si esplica nell’affermazione di una concezione matematica dello spazio e nella riduzione della causalità a moto locale.

Se i corpi sono legati fra di loro da un nesso causale necessario, come nella scienza gali-leiana, il nominalismo tende, nella riflessione epistemologica del De corpore, a trasformarsi in concettualismo, per giustificare la realtà delle relazioni ben determinate che sussistono tra i corpi. Questa rappresenta, tuttavia, una soluzione ancora carente, perché i nessi fra i concetti

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8. Metafisica, antropologia e politica in Hobbes · LETTURE CRITICHE

sono determinati in base alla precarietà dell’esperienza oppure, in modo dogmatico, attraver-so un’intuizione. [...]

Qualora riesaminiamo complessivamente i presupposti ultimi del pensiero di Hobbes, notiamo il permanere di due poli al loro interno, uno implicito, rappresentato dalla «meta-fisica» atomistica del sensismo-nominalismo, e uno, più esplicito, rappresentato dalla «me-tafisica» del meccanicismo (nonostante che Hobbes si dichiari sempre antimetafisico). La compresenza di questi due poli fa sì che nessuna delle due tendenze abbia mai totalmente la prevalenza e dà luogo sia ad una significativa oscillazione del pensiero hobbesiano lungo l’arco del suo sviluppo, sia ad un contemperamento delle rispettive esigenze. Ricorrendo ad un’immagine, mentre sullo sfondo della «Weltanschauung» di Hobbes implicitamente appare il tema sensistico-nominalistico, con il relativo presupposto atomista contraddistinto dall’univocità, più in superficie, ma così da lasciare intravedere lo sfondo, è presente l’opera unificante del meccanicismo, costruito dall’intelletto scientifico, con il relativo imperiali-smo espistemologico.

In sintesi, si può affermare che i presupposti del sensismo-nominalismo di Hobbes siano vinti, ma solo sul piano ontologico ed in modo «dogmatico», dalla tendenza «unificante» della metafisica del meccanicismo. Infatti, se questo, di fatto, trionfa sul piano della concezione della realtà, anche grazie ai caratteri di disintegrazione ed univocità insiti nel presupposto no-minalista, non riesce tuttavia a fondarsi pienamente sul piano gnoseologico, proprio a causa di quel presupposto. Date le sue premesse sensiste da un lato, e, dall’altro, dato il suo desiderio di fare della nuova meccanica una scienza deduttiva e necessaria, estensibile a tutta la natura, Hobbes si trova senza altra via d’uscita. Egli non può aderire alla soluzione galileiana che rinuncia a «tentar le essenze», perché si sente ed è soprattutto un filosofo, neppure può aderire all’impostazione di un Mersenne, perché questi non parte dall’istanza «razionalista» di una scienza deduttiva e indiscutibile nelle sue conclusioni, tanto meno all’impostazione innatista cartesiana, perché glielo vietano il suo sensismo e la sua netta opzione antispiritualistica. Di qui le difficoltà insite nel suo sistema filosofico, ma anche l’originalità della sua posizione rispetto alle altre presenti nel variegato panorama della filosofia del Seicento.

Al di là delle difficoltà sul piano epistemologico, è un fatto che il meccanicismo si afferma in modo netto. Hobbes si riconosce pienamente in questa concezione della realtà, soprattutto, perché essa si rivela efficace, in quanto garantisce, in via di principio, la totale manipolabilità della natura. In realtà, la logica che muove il tentativo unificante hobbesiano, con tutte le sue contraddizioni, sembra essere, come si è accennato nel primo capitolo, la logica del potere, la tendenza cioè ad unificare una realtà disgregata e lontana da Dio, quale è quella rappresentata dall’atomismo nominalista, per impadronirsene e così acquistare sicurezza: «scientia propter potentiam». A sua volta, la realtà ridotta a meccanismo si presta ad essere misurata e ma-nipolata totalmente. Questo atteggiamento manipolatorio, che prende spunto dalla scoperta dell’efficacia della «nuova scienza» fisica, otterrà i suoi maggiori successi nella costruzione politica.

Se si va ulteriormente a fondo nell’esame dell’atteggiamento hobbesiano di fronte alla re-altà, si può notare che ciò che lo differenzia rispetto alla posizione classica e cristiana, e che dà ragione della potenziale manipolabilità del reale, è il venir meno del «senso dell’essere», dello stupore di fronte all’essere. In Hobbes c’è stupore per l’ordinamento complesso della realtà, per la scoperta delle cause, ma non per l’essere in quanto tale. Non si ritrova, qui, né l’atteg-giamento greco-aristotelico, che sacralizza il cosmo, né quello cristiano-tomista, che coglie negli enti creati, accanto e al di là delle essenze, l’emergenza dell’atto di essere che rimanda al Creatore. Hobbes, invece, ricupera i temi della tradizione nominalista presente anche nella

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Scolastica cinquecentesca e dissolve le tradizionali distinzioni ontologiche nell’esistenza di fatto dell’«ens» attestata dall’esperienza.

Rispondendo a White, che, nel De mundo, afferma la coincidenza, in Dio, di essenza ed esistenza, Hobbes va oltre tale tesi e sostiene significativamente che «l’esistenza e l’essenza di ogni ente, sia creato che increato, sono la medesima cosa». Infatti, «essere ed essenza, esistere ed esistenza sono nomi sinonimi, dal medesimo preciso significato. Quando, infatti, diciamo semplicemente che c’è qualcosa, sottinteso il predicato nella copula è, vogliamo significare la stessa cosa che se dicessimo che qualcosa è ente, o qualcosa è esistente. Infatti, “ente”, posto semplicemente, suona allo stesso modo di esistente, quindi ente ed esistente hanno la medesi-ma essenza; ma l’essenza dell’esistente è l’esistenza, come l’essenza dell’ente; la stessa cosa è quindi l’essenza dell’ente e l’esistenza, sia che quell’ente sia “a se” o “ab alio”». [...]

Il presupposto metafisico non problematizzato che sta all’origine di questa posizione e che accomuna la tendenza nominalista-riformata, a quella «meccanicista», è l’affermazione della pura positività del dato, sulla cui esistenza non si fanno domande, ma che semplicemente si accetta e al quale, come nel caso della fede secondo Hobbes, si «obbedisce». [...]

Hobbes si preoccupa di mostrare, quindi, come tutto ciò che è, ha, entro la realtà, una cau-sa necessaria e sufficiente per essere strutturato in tal modo, cioè per avere quell’essenza. In questa prospettiva, parlare di contingenza e di libertà è solo segno di ignoranza. Il passaggio, da questa posizione nei riguardi dell’essere ad un atteggiamento manipolatorio e strumentale della ragione di fronte al reale è breve. L’uomo si afferma, non in quanto è in ascolto e in contemplazione dell’essere che si rivela, ma in quanto «possiede» l’essere. Dato il sottofondo sensista-nominalista sempre presente, quest’opera di dominio trova, di fatto, la sua massima esaltazione, non nella filosofia naturale (le conclusioni della fisica sperimentale sono solo ipotetiche), ma quando sfocia sul terreno pratico per eccellenza, nella scienza del «corpo» politico, «creato» dall’opera dell’uomo.

N. Bobbio, Thomas Hobbes[Einaudi, Torino 1989, pp. 111-121]

Thomas Hobbes appartiene, di fatto, alla storia del diritto naturale: non vi è trattazione intorno alla storia del pensiero giuridico e politico che non menzioni ed esamini la sua filosofia, come una delle espressioni tipiche della corrente giusnaturalistica. D’altra parte, Hobbes appartie-ne, di diritto, alla storia del positivismo giuridico: la sua concezione della legge e dello stato è un’anticipazione, davvero sorprendente, delle teorie positivistiche del secolo scorso, nelle quali culmina la tendenza antigiusnaturalistica iniziata dallo storicismo romantico. Quando si parla, ad esempio, di Austin, si è soliti ricordare che ha avuto un precursore (isolato) in Hob-bes. Giusnaturalismo e positivismo sono due correnti antitetiche, perennemente in polemica: l’una rappresenta la negazione dell’altra. Com’è possibile che Hobbes appartenga, contem-poraneamente, a tutte e due? Se hanno ragione gli storici del diritto naturale nell’annoverare l’autore del Leviathan, insieme con Grozio, Spinoza, Pufendorf, tra i quattro grandi giusna-turalisti del Seicento, come può la teoria politica hobbesiana essere assunta a modello storico per quegli accaniti avversari del diritto naturale che sono stati i fondatori del positivismo giuridico, la cui fortuna dura ininterrottamente, ormai da quasi un secolo, tra i giuristi? E se, invece, hanno ragione i positivisti, non è venuta l’ora di rivedere lo schema tradizionale delle storie del diritto naturale ed espungere il nome di Thomas Hobbes? [...]

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8. Metafisica, antropologia e politica in Hobbes · LETTURE CRITICHE

Il problema si può porre brevemente in questi termini: Hobbes ha espresso nel suo siste-ma una delle concezioni più caratteristiche e rigorose della giustizia formale che mai siano state sostenute. Per concezione della giustizia formale s’intende quella concezione in base alla quale la giustizia consiste nell’adempimento degli obblighi, quale che sia il contenuto dell’obbligo, o, considerando una particolare specie di obblighi (quelli del cittadino nei con-fronti dello stato), nell’obbedienza alla legge quale che sia il contenuto della legge. Questa concezione è espressa da Hobbes nei noti passi in cui afferma che non si può commettere ingiustizia se non con colui col quale si è stretto un qualche patto o una promessa, e quindi giustizia significa adempimento, ingiustizia inadempimento del patto o della promessa. Da questa definizione segue che mentre nello stato di natura, dove gli uomini non sono legati tra loro da alcun patto, non si può parlare di azioni giuste od ingiuste (ma soltanto di azioni utili o dannose), costituito che sia lo stato civile attraverso il patto intersoggettivo di unione, azio-ne giusta è quella conforme alla legge, che deriva dalla volontà del sovrano espressa in base alle condizioni stabilite dal patto sociale, ingiusta quella non conforme. Si tratta, come ognun vede, di una chiara formulazione della concezione legalistica della giustizia che è un aspetto della concezione formale della giustizia.

La caratteristica della concezione legalistica della giustizia è la considerazione della leg-ge, in quanto comando di colui che ha il potere legittimo di comandare, come unico e non superabile criterio del giusto e dell’ingiusto; è giusto ciò che è comandato, per il solo fatto di essere comandato da chi ha il potere di comandare; è ingiusto ciò che è proibito, per il solo fatto che è proibito. In tal modo, come ognun vede, la concezione legalistica della giustizia è l’ideologia del positivismo giuridico, cioè di quella concezione giuridica che, considerando il diritto positivo come criterio autosufficiente del giusto e dell’ingiusto, elimina totalmente ogni riferimento al diritto naturale, inteso come quel complesso di princìpi o di norme di condotta che ci dovrebbero permettere di prendere posizione di fronte al diritto positivo per approvarlo o disapprovarlo. Eppure – ed è qui che nasce il problema critico sopra accennato – tutto il sistema giuridico hobbesiano riposa sopra il riconoscimento dell’esistenza delle leggi naturali, allo studio delle quali vien dedicato, com’è noto, nei suoi libri politici una specifica ed ampia trattazione. Donde sorge la domanda: come può essere un’espressione tipica della concezione formale della giustizia un sistema di diritto che prende le mosse dall’ammissione delle leggi naturali?

La stessa difficoltà si affaccia se affrontiamo la questione in quest’altro modo. Il fine e il risultato del sistema hobbesiano è la teoria dello stato assoluto, cioè di uno stato il cui potere sia il più privo di vincoli e di limiti che sia possibile umanamente escogitare. Uno dei caratteri salienti dell’indagine hobbesiana è la caccia sistematica e spietata a tutto ciò in cui si possa annidare un vincolo o un limite al potere dello stato. Alla fine di questa caccia condotta con abilità, rigore e passione razionale, Hobbes è riuscito a darci il concetto di uno stato in cui è condotto alle estreme conseguenze il fenomeno della monopolizzazione statale del diritto attraverso l’accurata eliminazione di tutte le fonti giuridiche che non siano la legge, o volontà del sovrano (e in primis del diritto consuetudinario), e di tutti gli ordinamenti giuridici che non siano quello statale (in particolare dell’ordinamento della Chiesa, di quello della comu-nità internazionale, di quello degli enti associativi minori). Orbene, il monopolio giuridico dello stato non potrà dirsi completo se accanto al diritto positivo, alle varie forme in cui si può attuare una normatività positiva, si lasci sopravvivere la legge naturale; o, in altre parole, un potere statale non potrà dirsi assoluto, cioè senza vincoli, se si riconosca esistenza e le-gittimità a un insieme di leggi, come sono appunto le leggi naturali, superiori per loro intima costituzione alle leggi positive e a cui le leggi positive debbono uniformarsi. Eppure Hobbes,

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come si è detto poc’anzi, non solo ha collocato il suo sistema statale sopra il piedestallo tra-dizionale della legge naturale, ma ha posto continuamente, ogni qual volta se ne è presentata l’occasione, la legge naturale accanto alla legge positiva, sì che il richiamo ad essa è costante, e i passi in cui viene citata sono, oltre la trattazione specifica ricordata, innumerevoli. Donde anche qui una domanda analoga alla precedente: com’è possibile l’assolutezza del potere sta-tale se la volontà del sovrano deve fare i conti con la legge naturale? A che fine eliminare ogni forma di diritto non statale se poi si lascia sopravvivere il più pericoloso avversario di ogni diritto positivo, cioè il diritto naturale? [...]

La definizione che Hobbes dà della legge naturale non differisce formalmente dalle defini-zioni tradizionali. Per Hobbes la legge naturale è un dettame della retta ragione. Come tale la legge naturale si differenzia dalla legge positiva che è posta dalla volontà. Ciò che costituisce la differenza della definizione hobbesiana da quella degli altri giusnaturalisti è il diverso si-gnificato di ragione. Per Hobbes la ragione è una operazione di calcolo con la quale traiamo delle conseguenze dai nomi convenuti per esprimere e notare i nostri pensieri. Non ha un va-lore sostanziale, ma soltanto formale; non ci rivela l’essenze, ma ci mette in grado di ricavare da certi princìpi certe conseguenze; non è la facoltà con cui apprendiamo la verità evidente dei primi princìpi, ma la facoltà del ragionamento. È stato detto, ancora recentemente, che la ra-gione di Hobbes non ha un significato ontologico, ma metodologico. Essa non è un apprendi-mento di princìpi evidenti ma un metodo per pensare. La concezione ch’egli ha della ragione non è metafisica, ma strumentale. Lo stesso Hobbes, alla definizione sopra riportata di legge naturale, fa seguire questa annotazione: «Per retta ragione nello stato naturale dell’umanità, diversamente dalla maggior parte degli scrittori che la considerano una facoltà infallibile, intendo l’atto di ragionare, cioè il ragionamento, proprio a ciascun individuo e vero, nei ri-guardi delle azioni che possono portare utilità o danno agli altri uomini».

Da questo diverso significato di ragione deriva una differenza fondamentale tra la conce-zione hobbesiana della legge naturale e le concezioni tradizionali. Per queste ultime la natu-ralis ratio o recta ratio prescrive ciò che è buono o cattivo in se stesso; per Hobbes, invece, indica ciò che è buono o cattivo rispetto a un determinato fine: «Quelle che chiamiamo leggi di natura non sono altro che una specie di conclusione tratta dalla ragione in merito a quel che si deve fare o tralasciare». E con una maggior chiarezza: «...non sono che conclusioni, o teoremi, relativi a ciò che conduce alla conservazione e alla difesa di se stessi». Del resto, non vi possono essere princìpi per sé veri in una filosofia nominalistica come quella di Hobbes, secondo la quale «vero e falso sono attributi del discorso, non delle cose, e, dove non vi è discorso non vi è né verità né falsità».

Posto che la legge naturale indica, secondo Hobbes, ciò che è buono o cattivo rispetto a un dato fine, il problema fondamentale per la comprensione della legge naturale viene rinviato alla posizione e alla comprensione del problema del fine. Qui la differenza tra la concezione hobbesiana e quella tradizionale si approfondisce. Il fine supremo dell’uomo, è, dal punto di vista utilitaristico da cui si pone Hobbes, la pace. Per gli altri giusnaturalisti il fine supremo è il bene (morale). Perciò, mentre per i giusnaturalisti tradizionali la legge naturale prescrive ciò che è buono e proibisce ciò che è cattivo (indipendentemente dall’utilità o dal danno che se ne può trarre), e per questa ragione essi possono parlare di qualcosa che è buono o cattivo in se stesso; per Hobbes la legge naturale indica ciò che è conveniente o non conveniente per il raggiungimento del fine della pace, e questo a sua volta rappresenta la suprema utilità. Perciò la legge naturale fondamentale prescrive di cercare la pace. Da questa legge fonda-mentale, considerata come il principio primo della ragione pratica, derivano tutte le altre leggi naturali, che Hobbes chiama appunto «derivate», per mostrare che il suo sistema è un sistema

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8. Metafisica, antropologia e politica in Hobbes · LETTURE CRITICHE

deduttivo, conforme ai canoni di quel razionalismo non metafisico cui è giunto attraverso la consuetudine con le scienze matematiche. Egli infatti rimprovera ai suoi predecessori il fatto che «non avendo osservato che la bontà delle azioni è riposta nell’essere queste ordi-nate al conseguimento della pace, e la malvagità nell’essere ordinate a procurar discordia, hanno fondato una filosofia morale completamente estranea alla legge morale e non sempre coerente a se stessa». Si badi che la conoscenza dello stesso fine ultimo, la pace, non è una conoscenza immediata, ricavata da una naturalis ratio, capace di apprendere verità evidenti; ma è anch’essa, coerentemente con la gnoseologia hobbesiana, una conoscenza tratta da un ragionamento che procede da princìpi a conseguenze. Il fine della pace, per Hobbes, è ricavato dallo studio positivo della natura umana; il quale mostra che l’uomo, dominato dall’istinto di conservazione, considera la vita come il valore supremo. [...]

Teniamo ben presenti questi due punti: 1) le leggi naturali non prescrivono azioni buone in se stesse, ma azioni buone relativamente a un certo fine; 2) questo fine è la pace (o la con-servazione della vita). Entrambe queste affermazioni ci servono per comprendere come da una premessa giusnaturalistica – attraverso una modificazione del concetto tradizionale di legge naturale – Hobbes sia giunto a una conclusione positivistica. Posto come fine la pace (ciò che Hobbes considera come la prescrizione della legge naturale fondamentale), la prima legge naturale derivata è quella secondo cui «il diritto a tutto non si deve conservare, ma certi diritti si devono o trasferire o abbandonare». Ma attraverso la rinunzia al diritto su tutto e al trasferimento di questo diritto ad altri, l’uomo esce dallo stato di natura e costituisce lo stato civile. Dunque la prima legge di natura è quella che prescrive di costituire lo stato. Ciò vuol dire che lo stato è il mezzo più efficace per conseguire la pace (e quindi per realizzare il valore supremo della conservazione della vita). Ma se lo stato è il mezzo più efficace per conseguire la pace, ciò significa che l’uomo realizza mediante lo stato – vale a dire mediante l’organo incaricato di produrre leggi positive – il fine supremo posto dalla legge naturale. In tal modo lo stato è fondato sulla stessa legge naturale e le leggi positive – la cui produzione è la ragione stessa del sorgere dello stato – traggono dalla legge naturale la loro giustificazione. In altri termini: la legge naturale afferma che per raggiungere il fine prescritto dalla stessa legge na-turale l’uomo deve lasciarsi governare dalle leggi positive. È da parte della legge naturale una dichiarazione di impotenza: e infatti, a tacer d’altro, le leggi naturali non obbligano se non in coscienza, cioè non obbligano, data la concezione utilitaristica di Hobbes, affatto; ed è, nello stesso tempo, un’abdicazione di fronte alla forza delle leggi positive. In forma più radicale: la legge naturale è quel dettame della nostra ragione che suggerisce all’uomo, se vuol ottenere la pace, di obbedire in tutto e per tutto soltanto alle leggi positive. [...]

Hobbes dunque si è valso delle leggi naturali soltanto come di un espediente – tanto più efficace quanto più accreditato per il lungo e autorevole impiego – per dare un fondamento ben accetto al potere assoluto del sovrano, e quindi all’incontrastata supremazia del dirit-to positivo. Ma appunto, adoperandola come un espediente, l’ha completamente svuotata di contenuto e privata di ogni prestigio. Val la pena di osservare, se pur di sfuggita, che l’uso delle categorie degli avversari per dimostrare proprio l’opposto di quello che gli avversari intendono, fa parte delle più caratteristiche astuzie hobbesiane, è un aspetto, fra i più brillanti e attraenti, della sua vocazione di polemista. [...] Gli avversari sostenevano che la presenza di una legge naturale al di sopra delle leggi positive legittima il cittadino a resistere contro l’oppressione? Ebbene, Hobbes trae così bene l’acqua al suo mulino da riuscire a dimostrare che l’obbedienza assoluta e incondizionata è nientemeno che il dettame primo e fondamentale della stessa legge naturale.

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9 AMBIGUITÀ E CONTRADDIZIONI NELLA CULTURA DELL’ILLUMINISMO

L’interpretazione dell’Illuminismo è stata sin dall’inizio un fattore costitutivo dello stesso fenomeno che si voleva interpretare. Dalla celeberrima domanda “Che cos’è l’Illuminismo?”, posta da una rivista berlinese (1784) e a cui Kant diede l’altrettanto famosa risposta che esso consiste nella «uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso», cioè nel «valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro» e nell’avere «il coraggio di ser-virsi della propria intelligenza» (Sapere aude!), gli illuministi hanno sempre avvertito l’urgenza di ridefinire la natura, gli strumenti e le conseguenze del loro compito.

I tre brani che seguono costituiscono alcune esemplificazioni di questa “autocomprensione” dell’Illumi-nismo tra le diverse altre che se ne potrebbero addurre: la prima, forse la più classica, è quella di Ernst Cassirer, il quale individua il proprium dell’Illuminismo nella scoperta dell’essenza della ragione e della sua più specifica capaci-tà nella conoscenza scientifico-naturale, sul modello della fisica newtoniana, esempio di rigore logico e di verifica spe-rimentale.

Come controcanto di questa concezione dell’Il-

luminismo quale progressivo dispiegamento della cono-scenza scientifica e fattore di emancipazione della natura umana, Max Horkheimer e Theodor W. Adorno hanno in-vece sottolineato l’inevitabile “dialettica” che l’Illuminismo porta sempre con sé: da un lato, una promessa di demitiz-zazione e quindi di liberazione dell’agire razionale rispetto ai vincoli della religione e della metafisica, spezzati grazie alla potenza critica della conoscenza scientifica; dall’altro, il rischio sempre incombente che la misurazione e l’oggetti-vazione scientifica della natura divenga lo strumento di un nuovo soggiogamento degli uomini e della società da parte di chi detiene il potere.

Un terzo brano, di Vincenzo Ferrone e Daniel Roche, propone infine di considerare l’Illuminismo come un canone di valori di volta in volta sempre condivisi e insieme discussi, capaci di costruire un orizzonte di socializzazio-ne e di progresso culturale. In questo caso, l’Illuminismo si identifica con le speranze di costruire un mondo migliore sulla base di princìpi razionali, senza illudersi di poter mai realizzare perfettamente questo compito.

E. Cassirer, La filosofia dell’Illuminismo[trad. di E. Pocar, La Nuova Italia, Firenze 1952, pp. 21-26, 29-31]

Il secolo XVIII è pervaso dalla fede nell’unità e nell’immutabilità della ragione. Questa è sempre la stessa per tutti i soggetti pensanti, per tutte le nazioni, tutte le epoche, tutte le civiltà. Dalla vicenda dei dogmi religiosi, delle massime e convinzioni morali, delle opinioni e dei giudizi teorici si può staccare un nucleo fisso e costante che esprime in questa sua identità e costanza la vera essenza della ragione. Per noi, anche quando ci troviamo d’accordo sistema-ticamente e oggettivamente con certi fini fondamentali della filosofia illuministica, la parola «ragione» ha perduto da gran tempo la sua semplicità e la sua univoca determinatezza. Noi non possiamo, direi, servirci di questa parola senza che ci si affacci alla mente la sua storia: e continuamente ci accorgiamo quanto sia profondo il mutamento di significato che essa subì nello svolgersi di questa storia. E questo fatto ci fa notare sempre più quanto poco valore abbia la parola «ragione» o la parola «razionalismo», anche nei riguardi di una definizione puramente storica. Il genus proximum rimane vago e indeterminato; esso diventa preciso e determinato solo quando gli si aggiunga la giusta differentia specifica. Dove cercare, per il secolo XVIII, questa differenza specifica? E se esso ci teneva a dirsi «secolo della ragione», «secolo filosofico», in che consiste la distinzione di questa definizione? In quale senso è intesa qui la «filosofia»? Quali compiti particolari le sono attribuiti e quali mezzi ha a sua disposi-zione onde adempiere a quei compiti, onde porre sopra un sicuro fondamento la dottrina del mondo e quella dell’uomo? [...]

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9. Ambiguità e contraddizioni nella cultura dell’Illuminismo · LETTURE CRITICHE

Il secolo XVII aveva posto il vero compito della conoscenza filosofica nella costruzione del «sistema» filosofico. Gli pareva di aver raggiunto e di essersi assicurato un sapere vera-mente «filosofico» solamente quando il pensiero, partendo da un essere supremo e da una certezza fondamentale, suprema e intuitiva, sia riuscito a diffondere il lume di questa certezza su ogni essere derivato e su ogni derivato sapere. Il che avviene quando, col metodo della di-mostrazione e della rigida deduzione, si annettono a quella prima certezza altre tesi indirette e si percorrono, attraverso quella indiretta connessione, tutti gli anelli della catena dello scibile in un cerchio compiuto. Nessun anello può essere staccato dall’insieme; nessuno può spie-garsi da e con sé stesso. L’unica vera spiegazione che possa trovare consiste invece nella sua «derivazione», nella rigida deduzione sistematica, con la quale lo si riporta alla prima causa dell’essere e della certezza, si misura la sua distanza da quella prima causa e si determina il numero degli anelli intermedi che da essa lo separano. Il secolo XVIII ha rinunciato a questa specie e forma di «deduzione», di derivazione e motivazione sistematica. Esso non gareggia più col Descartes e col Malebranche, col Leibniz e con lo Spinoza per conquistare il premio del rigore sistematico e della sistematica completezza. Ma va in cerca di un altro concetto di verità e di «filosofia» che possa ampliare entrambi e renderli più liberi e mobili, più concreti e vivi. Il periodo dell’illuminismo non trae l’ideale di questo pensiero dalle dottrine filosofiche del passato; ma esso ideale gli si viene formando sul modello e sull’esempio che riscontra nella scienza naturale di quel tempo. Si cerca di risolvere il problema centrale riguardante il metodo della filosofia, anziché mediante il Discours de la Méthode di Cartesio, risalendo alle Regulae philosophandi del Newton e questa risoluzione imprime tosto agli studi una direzio-ne del tutto diversa. Il Newton infatti non procede per pure deduzioni, ma per analisi. Egli non comincia dal porre determinati princìpi, determinati concetti universali, onde procedere di qui, a mano a mano, mediante sillogismi astratti, verso la conoscenza del particolare, del-l’«effettivo»; ma il suo pensiero si muove in senso opposto. Quel che è dato sono i fenomeni; quel che cerchiamo i princìpi. [...] Un punto di partenza realmente univoco non ce lo può dare l’astrazione o la «definizione» fisica, ma soltanto l’esperienza e l’osservazione. Con questa constatazione il Newton non intende affatto, né lo intendono i suoi discepoli e successori, affermare un’antitesi tra «esperienza» e «pensiero» [...]. Quel che si cerca infatti e che si pre-suppone come esistenza inviolabile è l’ordine e la perfetta normalità di ciò che è effettivo; ma questa normalità denota che l’effettivo non è una semplice sostanza, una quantità sconnessa di unità, bensì che in esso si può scoprire una forma che lo pervade e lo governa. Questa forma è data nella sua determinabilità matematica, nella sua configurazione in base al numero e alla misura.

Ma appunto questa configurazione non può essere anticipata nel semplice concetto, ma deve essere scoperta e provata nel fatto stesso. Non si passa quindi dai concetti e dai princìpi ai fenomeni, ma viceversa. L’osservazione è il datum; il principio e la norma il quaesitum. Questo nuovo ordine di precedenza metodico ha impresso il suo suggello a tutto il pensiero del secolo XVIII. [...]

La prova concreta e direttamente persuasiva del fatto che, in questa unione e conciliazione del «positivo» e del «razionale», non si tratta di un puro e semplice postulato, ma di una mèta raggiungibile, di un ideale rigorosamente realizzabile, il pensiero dell’illuminismo la desume dal cammino percorso effettivamente dalla scienza fin dai tempi del suo rinnovamento. Nel progresso della conoscenza della natura o nelle singole fasi da essa percorse esso crede quasi di toccar con mano quel suo ideale. Qui infatti può seguire passo passo il cammino trionfale del moderno spirito analitico. Questo spirito aveva infatti assoggettato, nel corso di poco meno di un secolo e mezzo, l’insieme della realtà, e pareva avesse finalmente raggiunto la

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grande mèta di unire la molteplicità dei fenomeni naturali in una norma unica, semplicemente universale. E questa formula cosmologica, concretata nella legge newtoniana dell’attrazione universale, non era stata trovata fortuitamente né scoperta attraverso singoli esperimenti fatti a tentoni, ma la sua scoperta aveva seguito una via severamente metodica. Il Newton porta a compimento ciò che il Kepler e il Galilei avevano incominciato: e questi tre nomi non indicano soltanto grandi individualità di scienziati, ma sono segnacoli e pietre miliari della conoscenza e della stessa mentalità scientifico-naturale. [...]

La filosofia del secolo XVIII prende sempre per punto di partenza [...] il paradigma me-todico della fisica newtoniana; ma lo volge tosto all’universale. Essa non si accontenta di intendere l’analisi come il grande strumento intellettuale della conoscenza fisico-matematica, ma vi scorge l’armamentario necessario e indispensabile del pensiero in genere. Verso la metà del secolo la vittoria di questa concezione è ormai decisa. Per quanto i singoli pensatori e le singole scuole siano divergenti nei risultati, in queste premesse gnoseologiche sono piena-mente d’accordo. Il Traité de Métaphysique del Voltaire, l’Introduzione all’Enciclopedia del d’Alembert e lo studio del Kant «sulla chiarezza dei princìpi della teologia naturale e della morale» parlano tutti lo stesso linguaggio. Tutti affermano che il vero metodo della metafisica coincide in fondo con quello che il Newton aveva introdotto, con risultati così fecondi, nella conoscenza della natura. Il Voltaire dichiara che l’uomo, quando pretende di penetrare nell’in-teriore essenza delle cose e di conoscerle in sé stesse, s’accorge tosto dei limiti posti alle sue facoltà: egli viene a trovarsi nelle condizioni del cieco cui si chiede un giudizio sull’essenza del colore. L’analisi però è il bastone che la natura benigna ha messo in mano al cieco. Con l’aiuto di questo bastone egli può avanzare a tentoni nel mondo dei fenomeni, può avvertirne la successione, accertarsi del loro ordine, e questo è tutto quello che gli occorre per il suo orientamento spirituale, per la formazione della vita e della scienza. «Noi non dobbiamo mai appoggiarci a semplici ipotesi; non dobbiamo mai incominciare dall’invenzione di princìpi, coi quali ci mettiamo poi a spiegare tutte le cose. Dobbiamo invece incominciare dall’esatta scomposizione dei fenomeni che ci sono noti. Se non ricorriamo alla bussola della matematica e alla fiaccola dell’esperienza, non siamo in grado di procedere di un passo». Ma, provvisti di questi due istrumenti, possiamo e dobbiamo avventurarci sull’alto mare del sapere. Cer-to, dobbiamo rinunciare alla speranza di poter strappare un giorno alle cose il loro ultimo mistero, di penetrare nell’essere assoluto della materia o dell’anima umana: ma l’«interno della natura» non ci è affatto precluso, se intendiamo con ciò il suo ordine empirico e la sua empirica normalità. In questa empiria che fa da mediatrice, noi possiamo trovare un punto d’appoggio donde proseguire in tutte le direzioni. La forza della ragione umana non consiste nel rompere questa cerchia, nel facilitarci una via d’uscita verso il regno della trascendenza, ma nell’insegnarci a percorrerla con sicurezza e a sentirci in essa come a casa nostra. Qui si manifesta ancora una volta un notevole cambiamento di significato subìto dal concetto di ragione rispetto alla concezione del secolo XVII. Per i grandi sistemi metafisici del secolo XVII, per il Descartes e il Malebranche, per lo Spinoza e il Leibniz la ragione è il territorio delle «verità eterne», di quelle verità che sono comuni allo spirito umano e a quello divino. Ciò che conosciamo e intuiamo in grazia della ragione, lo intuiamo direttamente «in Dio»: ogni atto della ragione ci conferma la partecipazione all’essenza divina, ci schiude il regno dell’intelligibile, del soprasensibile. Il secolo XVIII dà alla ragione un altro significato, più modesto. Essa non è più un complesso «di idee innate» date prima di ogni esperienza, nelle quali ci si manifesta l’essenza assoluta delle cose. La ragione non è tanto un siffatto possesso quanto piuttosto una data forma di acquisto. Non è l’erario né il tesoro dello spirito, nel quale sia ben custodita la verità, come una moneta coniata; è invece la forza originaria dello spirito,

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9. Ambiguità e contraddizioni nella cultura dell’Illuminismo · LETTURE CRITICHE

la quale conduce alla scoperta della verità e alla sua determinazione. Questo atto determinante è il germe e l’indispensabile premessa di ogni vera sicurezza. Tutto il secolo XVIII intende la ragione in questo significato. Esso non la considera come un fisso contenuto di cognizioni, di princìpi, di verità, ma piuttosto come una facoltà, come una forza che si può comprendere pienamente soltanto nel suo esercizio e nella sua esplicazione.

M. Horkheimer - Th.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo[trad. di R. Solmi, introd. di C. Galli, Einaudi, Torino 1997, pp. 11-14, 32-33, 48-49]

L’illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sem-pre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura. Il programma dell’illuminismo era di liberare il mondo dalla magia. Esso si proponeva di dissolvere i miti e di rovesciare l’imma-ginazione con la scienza. Bacone, «il padre della filosofia sperimentale», ha già raccolto i vari motivi. Egli disprezza gli adepti della tradizione, che «prima credono che altri sappiano ciò che essi non sanno; e poi di sapere essi stessi ciò che non sanno. [...] La superiorità dell’uomo è nel sapere, su questo non c’è alcun dubbio. In esso sono racchiuse molte cose che i re con tutti i loro tesori non possono comprare, su cui la loro autorità non comanda, di cui i loro in-formatori e relatori non possono recare novella, alle cui terre d’origine i loro naviganti e sco-pritori non possono indirizzare il corso. Oggi dominiamo la natura solo nella nostra opinione, e siamo sottoposti alla sua necessità; ma se ci lasciassimo guidare da lei nell’invenzione, potremmo comandarle nella pratica».

[...] Bacone ha saputo cogliere esattamente l’animus della scienza successiva. Il felice connubio, a cui egli pensa, fra l’intelletto umano e la natura delle cose, è di tipo patriarcale: l’intelletto che vince la superstizione deve comandare alla natura disincantata. Il sapere, che è potere, non conosce limiti, né nell’asservimento delle creature, né nella sua docile acquie-scenza ai signori del mondo. Esso è a disposizione, come di tutti gli scopi dell’economia borghese, nella fabbrica e sul campo di battaglia, così di tutti gli operatori senza riguardo alla loro origine. I re non dispongono della tecnica più direttamente di quanto ne dispongano i mercanti: essa è democratica come il sistema economico in cui si sviluppa. La tecnica è l’es-senza di questo sapere. Esso non tende a concetti e ad immagini, alla felicità della conoscenza, ma al metodo, allo sfruttamento del lavoro altrui, al capitale. Tutte le scoperte che riserva, ancora secondo Bacone, sono a loro volta solo strumenti: la radio come stampa sublimata, il caccia come artiglieria più efficiente, la teleguida come bussola più sicura. Ciò che gli uo-mini vogliono apprendere dalla natura, è come utilizzarla ai fini del dominio integrale della natura e degli uomini. Non c’è altro che tenga. [...] Potere e conoscenza sono sinonimi. [...] Ciò che importa non è quella soddisfazione che gli uomini chiamano verità, ma l’operation, il procedimento efficace; non in «discorsi plausibili, edificanti, dignitosi o pieni di effetto, o in pretesi argomenti evidenti, ma nell’operosità e nel lavoro, e nella scoperta di particolari prima sconosciuti per un migliore equipaggiamento e aiuto nella vita», è «il vero scopo e ufficio della scienza». [...]

La liberazione del mondo dalla magia è la liquidazione dell’animismo. [...] Le cosmolo-gie presocratiche fissano il momento del trapasso. L’umido, l’indistinto, l’aria, il fuoco, che appaiono in esse come materia prima della natura, sono residui appena razionalizzati della concezione mitica. Come le immagini della generazione dalla terra e dal fiume, giunte ai

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Greci dal Nilo, diventarono qui princìpi ilozoistici, elementi, così l’inesauribile ambiguità dei demoni mitici si spiritualizzò nella forma pura delle essenze ontologiche. Da ultimo, con le idee di Platone, anche le divinità patriarcali dell’Olimpo sono investite dal logos filosofico. Ma nell’eredità platonica ed aristotelica della metafisica l’illuminismo riconobbe le antiche forze e perseguitò come superstizione la pretesa di verità degli universali. Nell’autorità dei concetti generali esso crede ancora di scorgere la paura dei demoni, con le immagini e ripro-duzioni dei quali, nel rituale magico, gli uomini cercavano di influenzare la natura. D’ora in poi la materia dev’essere dominata al di fuori di ogni illusione di forze ad essa superiori o in essa immanenti, di qualità occulte. Ciò che non si piega al criterio del calcolo e dell’utilità, è, agli occhi dell’illuminismo, sospetto. [...]

Identificando in anticipo il mondo matematizzato fino in fondo con la verità, l’illuminismo si crede al sicuro dal ritorno del mito. Esso identifica il pensiero con la matematica. [...] L’il-luminismo ha accantonato l’esigenza classica di pensare il pensiero [...] perché essa lo distrae dall’imperativo di guidare la prassi [...]. Il procedimento matematico è assurto, per così dire, a rituale del pensiero. Nonostante l’autolimitazione assiomatica, esso si pone come necessario e oggettivo: trasforma il pensiero in cosa, strumento, come esso stesso volentieri lo chiama.

[...] Rinunciando al pensiero, che si vendica, nella sua forma reificata – come matematica, macchina, organizzazione – dell’uomo immemore di esso, l’illuminismo ha rinunciato alla sua stessa realizzazione. [...] Il mitico rispetto scientifico dei popoli per il dato che essi produ-cono continuamente finisce per diventare, a sua volta, un dato di fatto, la roccaforte di fronte a cui anche la fantasia rivoluzionaria si vergogna di sé come utopismo e degenera in passiva fiducia nella tendenza oggettiva della storia. Come organo di questo adattamento, come pura costruzione di mezzi, l’illuminismo è così distruttivo [...]. Esso perviene a se stesso solo de-nunciando [...] il principio del cieco dominio.

V. Ferrone - D. Roche, L’Illuminismo nella cultura contemporanea. Storia e storiografia[Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 102-109]

La storia letteraria e la storia delle idee permettono di concepire il pluralismo fondamentale dell’Illuminismo. Questo non si presenta in nessun momento come un corpo di dottrine, come una somma di princìpi sempre applicabili, ma piuttosto come un insieme di valori capaci di riunire i letterati, di accendere dibattiti, di essere accettati o respinti perché sono la traduzione dell’«attitudine critica come virtù in generale», come scriveva Foucault. Alla verità, intesa come dogma e arte di governare le anime e i corpi, succede l’arte di non essere governati senza scelta. Da allora in poi, il sapere pratico e il sapere teorico non sono separabili e il loro gioco dialettico coinvolge e integra nuovi rapporti con il mondo, con la società, con la Chiesa, con lo Stato e con gli altri. La coerenza, come sottolinea lo studio delle grandi polemiche, in economia quella del lusso o del commercio, nella scienza il dibattito su Newton o le discus-sioni sulla chimica dell’aria, nella filosofia sociale la questione del diritto criminale o dell’as-sistenza, e così in materia religiosa le discussioni sulla tolleranza come forma indispensabile della libertà di pensiero, molto al di là dell’unico ambito della religione, si è sviluppata nel conflitto d’opinione.

Questa constatazione permette di riunire il destino diverso di queste idee fondamentali che il secolo XVIII ha discusso, e di interrogarsi sulla gerarchia di appropriazione dei concetti che è in grado di modificarne il significato e la risonanza nella pratica. «Che ragionino ma che

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9. Ambiguità e contraddizioni nella cultura dell’Illuminismo · LETTURE CRITICHE

obbediscano», diceva Federico II di Prussia dei suoi filosofi e accademici, e Caterina II, che ospita Diderot ma senza accogliere i suoi progetti fervidi di idee per trasformare l’Impero rus-so, dimostra che i despoti illuminati pensano con le stesse parole degli intellettuali ma senza conferire loro assolutamente lo stesso significato. Le tradizioni nazionali e locali di accesso alla cultura, il legame delle professioni erudite con la religione e il potere non hanno ovunque la stessa intensità filosofica, e secondo i livelli la stessa capacità di far aderire con coraggio allo «spirito critico universale» kantiano. H.G. Gadamer ci ha convinti da molto tempo della forza attiva dei «pregiudizi veri». In Germania un philosophe può essere senza problemi un philosophe cristiano, in Francia è una questione dibattuta, e un argomento di elogi accademici per riconciliare il conformismo e il movimento. Ecco perché la trasformazione che è possibile apprezzare con sfumature a seconda degli ambienti e dei luoghi coinvolge in modo particolare i valori che riguardano il destino dell’uomo e il senso del disincanto del mondo: quelli che sconvolgono il rapporto col potere e lo Stato mettono in discussione dappertutto l’ubbidienza federiciana; infine i concetti e le idee che rimodellano simultaneamente le conoscenze e i sa-peri, le azioni utilitaristiche e pratiche.

La capacità di eterogeneità dei valori offerti alla scelta degli individui rimane grande ma viene rimodellata, a seconda dei pensatori, dei paesi, dei momenti, mediante l’interazione dell’atteggiamento critico e della tradizione comune. Coesistono a gradi diversi atteggiamenti che coprono tutta la gamma dei rapporti col sacro e col religioso come forse non era mai accaduto prima; atei materialisti, libertini di pensiero, free-thinkers, philosophes, philoso-phes cristiani, non godono ancora di uno statuto egualitario ma di una progressiva tolleranza e di un implicito riconoscimento in nome del diritto naturale e secondo rapporti nuovi che devono gestire la relazione del potere e della coscienza. In ogni caso nulla è precluso e la ragione operativa alla maniera di d’Holbach o Diderot modella la morale allo stesso modo in cui permette d’interpretare la natura, con Helvétius e Rousseau, in modo contraddittorio essa illumina l’antropologia filosofica e politica. Tale ragione può divenire il simbolo stesso dell’Illuminismo proprio quando ci si interroga sui suoi limiti e sulla sua capacità riguardo all’universalità sociale.

Il rapporto con la morale è parimenti sconvolto da questo confronto dell’uomo sia con le realtà terrene sia con le finalità ultime. La virtù praticabile da tutti si scinde dagli imperativi teologici, la bontà naturale dell’uomo, la simpatia e il senso morale mettono d’accordo i teorici proprio quando divergono riguardo alla loro dipendenza dalla religione, al loro riconoscimen-to dell’interesse come motore delle azioni umane, all’inquietudine o all’ottimismo. La felicità è a questo prezzo: idea meno nuova di quanto non sembri ma profondamente rinnovata perché tutti si sono impadroniti di una questione fino a quel momento riservata ai dotti, perché si vuo-le confrontarla all’esperienza molteplice che offre l’esistenza, perché vi si scopre ancora una volta l’affermazione secolarizzante dell’autonomia individuale. L’individuo è ormai investito della libera responsabilità della sua felicità. Come per la morale della quale è uno dei campi di applicazione e di sperimentazione, la felicità dei philosophes vede esplodere i manifesti dell’inquietudine e il ritorno del represso, della violenza e del male. L’ottimismo illuministico è contraddetto dal pessimismo della derisione e dell’eccesso. La filosofia del bene per il bene e il romanzo del male per il male limita doppiamente l’empirismo illuministico. Kant dissocia il vincolo secolare della virtù e della felicità, libera la morale da tutte le motivazioni personali, maniera di risolvere il dubbio che non risolve più la religione. Di fronte ai valori nuovi, le for-me religiose non restano rinchiuse all’interno di manifestazioni di resistenza e di ostilità. La ragione impregna la riflessione dei chierici per il perfezionamento individuale dei fedeli, essa ispira non senza dibattito l’esegesi e contamina l’apologetica. Nuovi sentimenti l’animano,

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privilegiati dalla formalità delle pratiche, l’allontanamento della paura dell’aldilà, e che sono diffusi da libri, pie associazioni, sermoni. La sensibilità e la funzione sociale della religione, l’utilità, riconciliano le confessioni, i philosophes e i non philosophes.

Quando la filosofia decide di rimodellare il volto della città degli uomini, tra utopia e rifor-ma, diritto e storia, tutti i valori sono mobilitati e alcuni vanno a inscriversi definitivamente nel catalogo delle esigenze politiche dell’avvenire. Libertà, uguaglianza costituiscono, con altri elementi, una piattaforma di rivendicazioni che poco a poco s’imporrà nei diversi paesi dell’Europa delimitando il terreno di conflitti reali, tra le libertà politiche e civili e le libertà economiche, tra l’uguaglianza degli uomini sul piano politico e sul piano sociale. La vera libertà consiste nel conformarsi a delle leggi che rimedino alla disuguaglianza naturale degli uomini, dirà il barone d’Holbach. E i contributi mostrano qui i legami costanti che uniscono le pratiche e i valori, il fatto che questi non funzionino in astratto nel cielo delle idee e dei libri. La filantropia, che è uno dei grandi movimenti che animano la riflessione e l’azione della Repubblica delle Lettere, dalle logge alle accademie, incarna questa volontà ottimista laicizzando la carità, medicalizzando lo spazio per il sogno di una felicità estesa al maggior numero di persone. L’educazione è un altro luogo in cui si affrontano le disuguaglianze e le libertà, quella del sesso, quella delle classi, quelle della famiglia. D’Alembert, nell’articolo Collège dell’Encyclopédie, ha presentato tutte le poste in gioco del dibattito che conduce a interrogarsi su due questioni brucianti: fino a che punto bisogna educare il popolo? Come for-mare nell’entusiasmo un’unità morale nella patria? Nei dibattiti delle istituzioni di sociabilità, nei libri, si fondano la riorganizzazione dei princìpi della vita comune, una «nuova lingua» serve a giustificare i diritti delle nazioni, a riflettere sui rapporti tra la morale e la politica, ad instaurare procedure nuove che cambino il rapporto del sapere e del potere. Gli affari, quelli in cui intervengono Voltaire e i grandi giuristi, le querelles sulle riforme di ogni genere, il cui modello è passato dall’Inghilterra al continente, servono da campo di sperimentazione, che mobilita discorsi e comportamento dalla lingua nuova. Adattamento e riadattamento vi si instaurano in un gioco di sostegni e di rimandi, che fa appello alla conoscenza e alle pratiche della società tradizionale per sostituirvi il nuovo vocabolario-chiave dei nuovi diritti nella vita di tutti. L’importanza di questi giochi di parole e del loro utilizzo figura nel paragone dell’uso di reazione che passa dall’ambito scientifico e fisico, quello dell’equilibrio, a tutti i linguaggi poetici, romanzeschi, filosofici. Il trasferimento del calcolo alle forze sociali inscrive l’effetto della parola nell’ambito dei conflitti pro o contro il progresso, pro o contro gli squilibri e gli effetti perversi delle buone intenzioni.

L’originalità del mondo dei Lumi sta nel fatto che rispetto ad ogni altra epoca della storia gli uomini illuminati hanno creduto alla vocazione delle scienze per migliorare la condizione di tutti. Le arti e le scienze che compongono la base del credo enciclopedico e accademico sono allora nella cultura a un punto d’integrazione mai raggiunto. La ragione diventa allora amministrativa, può distruggere pregiudizi, come in altri ambiti, e mobilitare il sapere per comprendere, trasformare, agire. In questo sforzo per fondare uno Stato e una società più governabile perché più razionale, vagheggiati da Beccaria o Bentham, molteplici imprese sono all’opera, l’inchiesta descrittiva o statistica, le riflessioni sull’analisi matematica dei fatti sociali (Condorcet), il rapporto con l’economia politica, la questione dell’intervento dello Stato o del liberismo selvaggio. Tutti i paesi offrono il loro contributo alle discussioni in tutti gli ambiti che sono unificate, a partire dagli anni Settanta, dall’opera di Smith, dal suo ap-proccio laicizzato dei problemi, dalla sua attenzione per trovare delle regolazioni nell’ambito dell’economia e dal suo voto di lavorare alla felicità di tutti gli uomini. Dietro l’impresa di conoscenza, le strategie della politica sono sempre presenti.

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9. Ambiguità e contraddizioni nella cultura dell’Illuminismo · LETTURE CRITICHE

Questa grande speranza di costruire un mondo migliore con i princìpi della ragione e della scienza mostra tuttavia quanto sia necessario non avere un’illusione totale circa l’i-dentificazione dell’Illuminismo e del pensiero scientifico nuovo fondato sull’esperienza e la matematizzazione. La Scienza dell’Illuminismo non è mai completamente astratta e separa-bile dai suoi luoghi e dai suoi metodi di elaborazione, dai suoi dibattiti e dalle sue imprese unificatrici. La scienza conquista allora il suo prestigio sociale, poiché essa ha riunito le élite di talento, beneficiando della costituzione di una rete solida ed efficace, di corrispondenza, di giornali, di scambi. Ma dietro la facciata di un mondo armonioso non bisogna dimenticare le illusioni e i conflitti, il disaccordo che hanno i cartesiani con i newtoniani, gli scontri tra i ciarlatani, i dilettanti, i professionisti, il dibattito sulla certezza di cui Diderot è uno dei pro-tagonisti eloquenti, quello sulla seconda Rivoluzione scientifica, quella della chimica e delle scienze fisiologiche. Insomma, ciò che riunisce qui scienziati e uomini di cultura, letterati e inetti, è l’affermazione di un credo. L’utilità deve rendere la filosofia e la scienza popolari. La sua comprensione da parte di tutti è una posta in gioco della cultura nuova di cui s’intravede l’importanza nei dibattiti che oppongono gli esclusi dalle principali istituzioni scientifiche e i veri scienziati professionalizzati. Una medesima questione unisce tale dibattito a quelli che animano la politica e la morale, vale a dire la questione della rappresentazione della virtù e degli usi del sapere.

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10 CONOSCENZA E MORALE IN HUME

Gli studi critici sulla filosofia humeana hanno per lo più seguito un doppio binario interpretativo: da una parte, come si vedrà nel brano di Federico Laudisa, quello di leggere il filosofo scozzese in una prospettiva kantiana, presentando il suo tentativo di ricostruire una “scienza della natura umana” come una tappa fondamentale in vista di quella riflessione sulle capacità, i limiti e i compiti della ra-gione umana che sarà canonizzata, appunto, nella filosofia

critico-trascendentale di Kant. Dall’altra parte, come si ve-drà nel testo di Eugenio Lecaldano, la critica ha seguito il binario di una maggiore autonomia della riflessione hu-meana, soprattutto per quel che riguarda la morale come “scienza dell’uomo” dotata dello stesso rigore metodolo-gico della fisica newtoniana. Svincolato così dalla filosofia kantiana, Hume costituirebbe invece la fonte diretta delle discussioni etiche contemporanee.

F. Laudisa, Hume[Carocci, Roma 2009, pp. 11-15]

Nel suo affresco della cultura filosofica del Settecento europeo, un grande storico della filoso-fia come Ernst Cassirer sottolineava come lo spirito dell’illuminismo consistesse «non tanto in un determinato e indicabile contenuto di pensiero quanto piuttosto nell’uso che l’illumini-smo fa del pensiero filosofico, nel posto che gli concede e nel compito che gli assegna». Nel suo libro Cassirer rappresenta efficacemente l’impostazione “autofondazionale” delle teorie della conoscenza proprie del Settecento filosofico, un’impostazione nella quale il progetto filosofico di David Hume si iscrive pienamente. Il consolidamento teorico metodologico della scienza moderna trasmette all’indagine filosofica il compito di un’indagine sulla mappa e la struttura di una ragione umana considerata essa stessa come un oggetto del mondo. La ne-cessità di assegnare a questa indagine un carattere analitico e sistematico, fondato sul ricono-scimento di una situazione di confusione e inaffidabilità metodica della riflessione filosofica tradizionale sulle strutture della ragione, è un tema ricorrente nella filosofia moderna della conoscenza. In un noto passo della Epistola al lettore che apre il suo Saggio, John Locke sceglie di rappresentare questa tensione teorica collocando l’origine del suo libro in una sem-plice e apparentemente innocua discussione con alcuni amici, svoltasi con ogni probabilità nell’inverno del 1673:

Dopo esserci affaticati per qualche tempo senza aver fatto un passo avanti nella soluzione dei dubbi che ci imbarazzavano, mi venne fatto di pensare che eravamo su una strada sbagliata; e che, prima di impegnarci in ricerche di quel genere, era necessario esaminare le nostre stesse capacità, e ve-dere quali oggetti siano alla portata della nostra intelligenza, e quali invece siano superiori alla nostra comprensione (s, Epistola, vol. 1, p. 7, corsivo mio)1.

La ricerca sulle potenzialità e i limiti della razionalità umana si configurava dunque non soltanto come logicamente prioritaria nel progetto di costruzione della mappa della conoscen-za umana – ogni prodotto intellettuale doveva infatti essere in qualche modo il frutto dell’uso di quelle facoltà il cui ambito si intendeva indagare – ma anche assolutamente urgente, alla luce di una presunta totale assenza di ordine e sistematicità nell’insieme dei prodotti della ragione. Ancora nella sua Prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura

da

1 s = Saggio sull’intelligenza umana, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 2003; crp = Critica della ragion pura, Tea, Milano 1996; t = Trattato sulla natura umana, in D. Hume, Opere filosofiche, a cura di E. Lecaldano, 4 voll., Laterza, Roma-Bari 1987, vol. 1 [i riferimenti alle pp. sono preceduti dal numero del libro, dal numero della parte e dal numero della sezione]; l = Leviatano, a cura di R. Santi, Bompiani, Milano 2001; riu = Ricerca sull’intelletto umano, in D. Hume, Opere filosofiche cit., vol. 2; et = Estratto del Trattato sulla natura umana, in D. Hume, Opere filosofiche cit., vol. 4.

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10. Conoscenza e morale in Hume · LETTURE CRITICHE

del 1787, più di un secolo dopo la discussione evocata nell’Epistola lockiana, Kant osservava come alla metafisica – intesa come teoria dei fondamenti della ragione – non fosse «ancora toccata la sorte benigna di poter intraprendere il sicuro cammino della scienza». Egli presen-tava la metafisica stessa come

un campo di battaglia, campo che ha tutta l’apparenza di non servire che ad esercitare le forze dei contendenti in una contesa fittizia nella quale nessuno di essi ha mai potuto raggiungere nemmeno il più piccolo successo territoriale, per fondare sulla sua vittoria un possesso durevole (crp, p. 9).

La metafora kantiana richiama proprio un’espressione di Hume, che nell’Introduzione al Trattato presentava anch’egli le esigenze e gli obiettivi della sua impresa filosofica sullo sfon-do di una scena filosofica dipinta con i colori del caos:

Poiché chi possiede discernimento e sapere s’avvede facilmente quanto siano deboli le basi dei sistemi più accreditati, anche di quelli che accampano maggiori pretese alla precisione e profondità del ragionamento. Princìpi accettati ciecamente, conseguenze mal dedotte dai princìpi, mancanza di coerenza nelle parti e di evidenza nell’insieme: ecco quel che s’incontra dappertutto nei sistemi dei più eminenti filosofi e che ha fatto cadere in discredito la stessa filosofia (t, Introduzione, pp. 5-6).

La critica verso la mancanza di metodo è in realtà un motivo che si affaccia molto presto all’attenzione di Hume. Una particolare importanza è attribuita in questo senso a una lettera che Hume indirizza (senza poi in realtà spedirla) a un medico, il dottor Arbuthnot. In questa lettera Hume racconta un evento al quale egli attribuisce un’importanza decisiva nell’orien-tamento della sua vocazione filosofica: l’aver sperimentato uno stato depressivo, che Hume lascia sospeso tra la sfera fisiologica e quella morale, e che mette letterariamente in scena come raffigurazione simbolica di una crisi di crescita speculativa e, di conseguenza, come una svolta irreversibile nell’evoluzione del suo pensiero. La lettera, che si presenta come una sorta di prima parziale autobiografia, ha attirato l’attenzione di larga parte degli studiosi humiani contemporanei per il riferimento che Hume fa a una sorta di illuminazione concet-tuale che non lo avrebbe più lasciato e che egli qualifica proprio come una «nuova scena del pensiero». L’aprirsi di questa nuova prospettiva è interpretato dalla maggior parte della letteratura humiana come la consapevolezza di voler perseguire ciò che si annuncerà poi nel sottotitolo del suo Trattato sulla natura umana, vale a dire «un tentativo di introdurre il me-todo sperimentale di ragionamento negli argomenti morali». Hume osserva infatti nella sua lettera che la filosofia «morale» – intesa in senso lato come la riflessione organica sull’uomo e le sue facoltà che andrà a formare il nucleo della «scienza della natura umana» – continua a essere sostanzialmente quella tramandata dai filosofi antichi; essa ne eredita così il difetto fondamentale, quello

di essere cioè interamente ipotetica e di dipendere più dall’invenzione che dall’esperienza. Ognuno si affidava alla propria fantasia nell’erigere schemi di virtù e di felicità, senza considerare la natura umana da cui deve dipendere ogni conclusione morale (l, p. 67).

Molti anni dopo, nella prima sezione della Ricerca sull’intelletto umano (intitolata Le differenti specie di filosofia), Hume ritorna su questa motivazione fondante della propria inda-gine filosofica. Per costruire una scienza della natura umana sono possibili – sostiene Hume – due strategie alternative. La prima persegue uno scopo essenzialmente letterario ed edifican-te: collocando la natura umana nel campo dell’etica tradizionalmente intesa, questa strategia si propone semplicemente di rappresentare una serie di esempi di comportamenti virtuosi e di favorirne l’imitazione sfruttando quanto più possibile le risorse dell’immaginazione e

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dell’estetica. Questa strategia potrà magari essere raffinata, ma risulterà alla fine priva di si-stematicità e potrà al massimo assomigliare più a una casistica che a un sistema filosofico. Ma esiste una strategia differente, nella quale Hume intende evidentemente iscrivere la propria indagine: i filosofi che perseguono questa seconda strategia

considerano la natura umana come oggetto di speculazione e la esaminano con un’indagine accu-rata, allo scopo di trovare i princìpi che regolano il nostro intelletto e quelli che danno origine ai nostri sentimenti e che ci fanno approvare o riprovare qualche particolare oggetto, azione o com-portamento (riu I, p. 2).

Fondamentale per comprendere il particolare significato che Hume attribuisce alla sua im-presa è dunque il riferimento al tipo di riflessione condotta in particolare nell’etica antica. Alla luce sia della specifica formazione intellettuale di Hume [...], sia del fatto che obiettivo dell’a-nalisi humiana è una nozione di natura umana molto ampia, che include sia l’aspetto pura-mente razionale e conoscitivo dell’individuo sia l’aspetto della sua vita morale ed emotiva, le riflessioni condotte dai filosofi, scrittori e moralisti antichi assumono una notevole rilevanza. Da un lato, Hume educa dunque la sua prospettiva teorica alla sorgente di una visione uma-nistica della soggettività – una visione costruita sulla lettura di Seneca, Cicerone e Plutarco, non meno che su quella di Cartesio, Malebranche e Bayle – e nella quale la componente etica ed emotiva è strutturalmente inscindibile dalle caratteristiche conoscitive e razionali. L’acce-zione stessa dell’espressione filosofia morale in Hume è notevolmente più ampia di quanto larga parte della tradizione precedente e successiva sia stata disposta a riconoscere (cfr. per esempio t, 1.3.15, p. 189; riu IV, p. 41). Ma dal punto di vista della sua aspirazione a una riflessione strutturata e sistematica, Hume matura una crescente insoddisfazione nei confronti della mancanza di rigore che emerge dagli scritti morali degli antichi (et, p. 5).

Nella struttura dei principali testi humiani dedicati al fondamento della conoscenza, le se-zioni introduttive fanno dunque emergere chiaramente le intenzioni fondazionali della rifles-sione humiana. Obiettivo dell’indagine humiana è la costruzione di una scienza della natura umana che passi attraverso la formulazione di quella che nella prima Ricerca Hume definisce «geografia della mente, o delineazione delle diverse parti e poteri della mente» (riu 1, p. 11). L’obiettivo di una geografia – o anatomia – della mente umana (cfr. anche t, 1.4.6, p. 275; riu IV, p. 33; et, p. 6) appare motivato da un’istanza in larga misura fondazionale nel senso che, se attuata con successo, la costruzione “scientifica” di Hume si incaricherà di dimostrare la dipendenza di ogni prodotto mentale dalle caratteristiche strutturali di tale natura umana.

È evidente che tutte le scienze hanno una relazione più o meno grande con la natura umana, e anche quelle che sembrano più indipendenti, in un modo o nell’altro vi si riallacciano. Perfino la matematica, la filosofia naturale e la religione naturale dipendono in certo qual modo dalla scienza dell’uomo, poiché rientrano nella conoscenza degli uomini, i quali ne giudicano con le loro forze e facoltà mentali. È impossibile prevedere quali mutamenti e progressi noi potremmo fare in queste scienze se conoscessimo a fondo la portata e la forza dell’intelletto umano, e se potessimo spiegare la natura delle idee di cui ci serviamo e delle operazioni che compiamo nei nostri ragionamenti (t, Introduzione, p. 6).

E. Lecaldano, Hume e la nascita dell’etica contemporanea[Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 29-30, 33-37]

Dopo una lunga fase in cui Hume è stato considerato prevalentemente come un filosofo o scet-tico o naturalista, più recentemente è stata presentata una caratterizzazione del suo contributo

da

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nel Trattato come quella di uno «psicologo». Questa tendenza interpretativa ha il merito di sot-tolineare più di quanto fosse stato fatto nel passato gli intenti fortemente scientifici della ricerca humeana ed il prevalere in essa delle esigenze descrittive ed esplicative. Presentare Hume come uno psicologo più che come un filosofo permette anche di marcare la distanza tra il progetto humeano e quello tradizionalmente considerato più proprio della filosofia di una ricerca sul pia-no logico-critico rivolta esclusivamente a scoprire i fondamenti epistemologici e gnoseologici della conoscenza o dell’etica. Questa linea interpretativa consente, per così dire, di spiazzare la lettura che di Hume è stata proposta da Kant e da quasi tutti gli interpreti successivi, e di sotto-lineare tutte quelle parti dell’opera di Hume per cui essa risulta dissonante rispetto ad un’ottica esclusivamente in chiave epistemologica o gnoseologica o comunque fondazionale.

Pur condividendo la presa di distanza dalle letture riduttive di Hume in chiave kantiana o comunque gnoseologizzante, vanno fatte alcune precisazioni che rendono impossibile – a meno che non si usi l’espressione in un senso molto generico e del tutto privo di connotazioni storiche – accettare un’assimilazione della «scienza dell’uomo» di Hume alla psicologia scien-tifica nel senso in cui oggi l’intendiamo. Come del resto va analogamente rifiutata la proposta di assimilare la ricerca humeana con l’antropologia culturale o con un’altra qualsiasi delle scienze dell’uomo che sono nate e poi si sono consolidate nel corso degli ultimi due secoli. I tratti della «scienza dell’uomo» di Hume risultano così specifici e peculiari che non solo è fuorviante il tentativo di assimilarla con una delle scienze umane successivamente costituitesi, ma non ha nemmeno senso presentarla come un’anticipazione o premessa di qualcuna di esse in particolare e in alternativa alle altre. Il progetto di Hume e la sua esecuzione presentano in realtà un unicum che giustifica da un altro versante la conclusione che egli stesso trasse: «Mai tentativo letterario fu più sfortunato del mio Trattato sulla natura umana. Fu un vero aborto di stampa e non si conquistò neanche il merito di sollevare un po’ di rumore fra i fanatici» (O.IV. 332)1. La «scienza dell’uomo» di Hume in ciò che essa ha di peculiare non ha eredi. [...]

Nella «scienza dell’uomo» di Hume ritorna insistentemente la pretesa di fondare le con-clusioni sull’esperienza. Alcune analisi sulla simpatia, il senso morale, le motivazioni del comportamento umano, la lista delle virtù naturali e artificiali prendono l’avvio nel Trattato da osservazioni ed esperienze ritenute comuni a tutti gli uomini. Proprio in quanto vi è nella filosofia di Hume un uso dell’esperienza come fonte di tesi centrali della «scienza dell’uo-mo», questa non può essere interpretata come una ricostruzione delle condizioni logiche della conoscenza e della morale. Una lettura in chiave kantiana taglia cioè fuori tutta quella parte per cui il Trattato di Hume si presenta anche come una ricostruzione empirica di quello che è effettivamente la natura umana. Uno dei temi conduttori dell’etica di Hume è, ad esempio, quello di fare valere la realtà effettiva della natura umana, contro gli unilateralismi e gli ec-cessi dei creatori di immagini artificiose ed astratte: e gli opposti unilateralismi cui Hume guarda criticamente sono poi sia quello dei teorici dell’egoismo come Hobbes e Mandeville, sia quello dei teorici della benevolenza universale come Shaftesbury e Hutcheson. L’appello all’ esperienza gioca dunque in Hume un ruolo decisivo: non solo fornisce allo scienziato del-la natura umana i dati reali che egli deve spiegare e ricostruire nella loro genesi, ma permette anche di espungere dall’universo dei dati che occorre spiegare tutte quelle entità fittizie o immagini distorte di cui abbondano i sistemi filosofici tradizionali.

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1 O.IV. = D. Hume, Opere filosofiche, a cura di E. Lecaldano, 4 voll., Laterza, Roma-Bari 1987, vol. 4: Estratto del Trattato sulla natura umana, Lettera di un gentiluomo al suo amico a Edimburgo, Storia naturale della religione, Dialoghi sulla religione naturale, Lettere, La mia vita; Saggio = Saggio sull’intelletto umano, a cura di M. e N. Abbagnano, Utet, Torino 1971; O.I. = D. Hume, Opere filosofiche cit., vol. 1: Trattato sulla natura umana.

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Hume ha poi una sua teoria dell’esperienza che adotta ed elabora. Qui non c’è molto da aggiungere a quanto la ricerca storiografica ha già stabilito. La concezione di Hume si colloca all’interno di quell’approccio all’esperienza vista come insieme di idee (way of ideas) che Lo-cke aveva articolatamente presentato nel 1689 nel Saggio sull’intelletto umano. È recentemen-te risultato chiaro come questo paradigma diffuso tra il XVII e il XVIII secolo vada interpreta-to in modo meno riduttivo della lettura che ne hanno presentato gli interpreti tradizionali dell’ empirismo britannico che la riconducevano ai soli Locke e Berkeley, e come ad esso vadano ricondotti anche molti risultati della linea epistemologica che da Descartes giunge a Malebran-che. La concezione dell’esperienza di Hume è così sintetizzabile ai fini della nostra ricerca attuale. L’esperienza ha origine con impressioni che possono essere o semplici o complesse, o di sensazione o di riflessione. Per quanto riguarda le impressioni di riflessione – centrali per capire l’etica di Hume in quanto passioni e vita morale sono riconducibili ad esse – nel Trat-tato esse venivano concepite non già, come nel Saggio di Locke, quali prodotto della «osser-vazione da parte della mente» sulle proprie operazioni «interne» (Saggio, I. VI. 1-2), ma piut-tosto come una nuova impressione che nasce nella mente quando si reagisce alle percezioni di sensazione (O.I. 19-20). La causa di queste impressioni è ignota, perché per quanti sforzi noi si faccia non potremo mai andare al di là dell’universo delle percezioni. Ammettere che la causa è ignota non esclude però riconoscere che nel caso delle impressioni la mente riceve passiva-mente un contenuto che non crea da sola o inventa. L’attività di elaborazione o creazione della mente è, per altro, secondo Hume ragguardevole in quanto si estende a tutto l’universo delle idee, ovvero a quelle che sono delle copie meno forti delle impressioni. È nel campo delle idee che la mente, come immaginazione, interviene a rielaborare, associare e unire percezioni in modo tale da produrne di nuove. Ma tutto questo edificio trova la sua base in impressioni che si presentano alla mente di ciascun essere umano con una forza ed una evidenza innegabili. A questo livello delle impressioni Hume farà spesso riferimento nella sua «scienza dell’uomo» sia riconducendo idee complesse alle impressioni che le costituiscono, sia facendo appello alle impressioni del lettore per fissare alcuni dati evidenti sulla natura umana.

Storicamente caratterizzato era anche il modello di scienza a cui il giovane Hume faceva riferimento. [...]

Nell’avviare la sua ricerca sui problemi morali ricorrendo ai metodi scientifici il giovane Hume aveva sicuramente presente i grandi risultati che nel campo della filosofia della natura erano stati realizzati nei decenni precedenti da Newton. Studi approfonditi hanno già ricostru-ito sistematicamente la questione dell’influenza di Newton su Hume, sia per quanto riguarda la genesi del progetto della «scienza dell’uomo», negli anni (1721-25) in cui Hume frequenta-va l’Università di Edimburgo, sia per quanto riguarda un raffronto tra le tesi della sua filosofia e le conclusioni elaborate da Newton specialmente nei Principia e nell’Ottica. [...]

Ripercorrendo gli undici luoghi delle opere pubblicate di Hume in cui vi è un diretto rife-rimento a Newton non possiamo certo avere prove che il nostro filosofo conoscesse diretta-mente le parti più matematiche e di rilevanza per la teoria meccanica dei Principia. Possiamo però provare che Hume conosceva e aveva riflettuto sulle parti metodologiche delle opere di Newton ed in particolare sulle «regole del filosofare».

Non è mancato chi ha sostenuto che larga parte della filosofia di Hume – in particolare letta attraverso l’ottica delle argomentazioni sviluppate nei Dialoghi sulla religione naturale – va vista come il tentativo di applicare rigorosamente la metodologia di Newton al di là degli stessi risultati raggiunti dall’autore dei Principia: realizzando dunque una ricostruzione coerentemen-te empiristica della realtà. Di certo Hume riprendeva dalle «regole del filosofare» dei Principia di Newton alcuni princìpi metodici che applicherà poi rigorosamente nell’elaborazione della

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10. Conoscenza e morale in Hume · LETTURE CRITICHE

sua «scienza dell’uomo». Così egli darà grande importanza alla struttura sistematica e unitaria della sua ricerca: parte degli approfondimenti anatomici da lui presentati nel Trattato sulla na-tura umana e sulla morale sono proprio derivabili dalla esigenza di rintracciare analogie tra dif-ferenti fenomeni e fare emergere più profonde omogeneità nel modo di procedere della mente umana. Hume riprendeva poi dalla metodologia di Newton anche l’ampio ricorso – non privo di ambiguità – alla nozione di «ipotesi». Hume riteneva che lo scienziato della natura umana doveva in primo luogo basarsi solo «sull’esperienza o l’osservazione» (O.I. 8): poi cercare di costruire un «sistema» che si sforzasse di rendere tutti i «princìpi» della scienza della natura umana «per quanto è possibile universali» spiegando «gli effetti con poche e semplicissime cause» (O.I. 8). Si trattava cioè di procedere nello studio della natura umana facendo valere lo stesso principio di economia fatto valere da Newton per la spiegazione dei movimenti dei corpi: ovvero di individuare un qualche principio o forza che svolgesse in essa la medesima funzione esplicativa centrale che Newton aveva scoperto essere propria della forza di gravitazione. Di origine newtoniana sono anche le condizioni negative che una ricerca scientifica sulla natura umana doveva, secondo Hume, soddisfare. In primo luogo andava rifiutata la «metafisica», intesa non già come una necessaria analisi sottile e profonda o come «anatomia della natura umana», quanto piuttosto come una pretesa conoscenza dei «princìpi primi dell’anima» (O.I. 8). La scienza dell’uomo, come la scienza della natura, non deve cioè pretendere di estendersi alle essenze o qualità occulte, ma limitarsi a rendere conto di ciò che è osservabile. Infine Hume non mancava di riproporre lo slogan newtoniano di opposizione alle «ipotesi», intese come «conget-ture presuntuose e chimeriche» sulle «ultime e originarie qualità della natura umana» (O.I. 8-9). Anche se poi Hume non mancava – anche qui in accordo con Newton – di chiamare proprio «ipotesi» i princìpi fondamentali della sua scienza. Anche per Hume come per Newton possia-mo cioè concludere che vengono rifiutate le ipotesi fittizie e si cerca di avanzare ipotesi fertili.

Le regole metodologiche accettate da Hume non erano delle mere formule verbali, ma proprio da una loro applicazione conseguente derivavano alcune novità sostanziali della ri-cerca sulla natura umana. La fedeltà di Hume al modello newtoniano viene allargata anche sul piano delle conclusioni sostanziali della ricerca. Anche in questo caso Hume segnala esplici-tamente le analogie con la filosofia naturale newtoniana, marcando con una terminologia di derivazione newtoniana gli esiti positivi realizzati nel corso dell’elaborazione della «scienza dell’uomo». Basta qui ricordare i due casi più evidenti. Da una parte Hume segnala l’im-portanza della scoperta dell’associazione delle idee nell’immaginazione sottolineando che si tratta di «una specie di attrazione [...] che si trova ad avere nel mondo mentale, non meno che in quello naturale, degli effetti straordinari, mostrandosi in forme non meno numerose e svariate» (O.I. 24). Dall’altra, una volta delineata la identità di procedure mentali da cui si originano la credenza e la simpatia – una sorta di esito conclusivo della ricerca – Hume sottolinea la centralità sul piano architettonico della sua scoperta con un linguaggio di chiara derivazione newtoniana: «Ciò che è più notevole in tutta questa faccenda è la decisa conferma che questi fenomeni danno al sistema sopra esposto riguardante l’intelletto, e quindi a questo che stiamo ora esponendo riguardante le passioni; i due sistemi, infatti, sono analoghi [...]. Tutto ciò è oggetto della più comune esperienza e non dipende da una qualche ipotesi propria della filosofia» (O.I. 335). Hume nel corso della stesura del Trattato giunse forse a convin-cersi di essere riuscito nell’intento di costruire una «scienza dell’uomo» con gli stessi meriti della fisica newtoniana. Certo proprio dall’ambizioso progetto di eguagliare in sistematicità, compiutezza, solidità la fisica newtoniana sgorgheranno alcune delle conclusioni più caratte-ristiche dell’etica di Hume. Fu poi lo stesso Hume a mettere da parte nelle Ricerche le pretese sistematiche e le più sottili analisi anatomiche della natura umana presentate nel Trattato.

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11 LA FILOSOFIA TRASCENDENTALE DI KANT

Il cuore della novità teorica della filosofia di Kant consiste senza dubbio nel concetto di “trascendentale”. È attraverso questo concetto riguardante le condizioni di pos-sibilità a priori della conoscenza del mondo che Kant ha la-sciato la sua impronta più persistente nei secoli successivi sino ai giorni nostri. Ad una messa a fuoco del nesso fra “trascendentale” e “a priori” sono dedicate le pagine del classico studio introduttivo su Kant di Sofia Vanni Rovighi. Strettamente legato allo sviluppo del concetto di “trascen-dentale” è un altro concetto con cui lo stesso Kant ha voluto presentare la svolta critica della filosofia, vale a dire il con-cetto di “rivoluzione copernicana”, a cui sono dedicate le pagine tratte da un saggio di Otfried Höffe.

Di seguito si troveranno poi due esempi signi-ficativi di come la filosofia critica kantiana abbia non solo determinato il complesso dei problemi della filosofia suc-

cessiva, fornendo un nuovo vocabolario concettuale, ma abbia dato prova della sua originalità e fecondità in contesti e tradizioni filosofiche anche assai diverse tra di loro. È il caso di Martin Heidegger e della sua interpretazione della Critica della ragion pura come una nuova fondazione del-la metafisica, in cui assume un ruolo centrale il problema dell’esistenza umana come comprensione finita dell’essere. Ed è anche il caso di Peter F. Strawson (autore collocato in una prospettiva più analitica rispetto a quella continentale e heideggeriana) che interpreta il tema classico dei limiti della ragione e della metafisica kantiana dell’esperienza come un problema non del tutto risolto da Kant – quello del rapporto tra la nostra possibilità di conoscere il mondo, e l’esistenza in sé del mondo che conosciamo solo empiricamente. Da questa vera e propria aporia avranno origine molte delle fi-losofie dei secoli successivi.

S. Vanni Rovighi, Introduzione allo studio di Kant[La Scuola, Brescia 1971, pp. 116-120]

Nello studio della Critica della ragion pura ci imbatteremo subito nell’aggettivo trascenden-tale: dottrina trascendentale degli elementi e dottrina trascendentale del metodo, estetica tra-scendentale e logica trascendentale. Di nessun aggettivo, forse, si fa più abuso e più scempio nella filosofia. Cerchiamo quindi di capire che cosa esso significhi per Kant.

Il recensore della Critica nelle «Göttinger gelehrten Anzeigen» (Garve-Feder) aveva in-teso il termine trascendentale nel senso di «superiore»; Kant osserva in una nota ai Prolego-meni: «Per amor del Cielo, non ‘superiore’. Le alte torri e i grandi uomini metafisici (che a queste assomigliano), intorno a cui vi è di solito molto vento, non sono per me. Il mio posto è la fertile bassura (bathos) dell’esperienza, e la parola trascendentale, il cui significato, in tanti modi da me spiegato, non è stato neppure una volta capito dal recensore... non significa qualche cosa che oltrepassa ogni esperienza, ma qualcosa che certo la precede (a priori), e non è determinato a nulla più che a render possibile la conoscenza dell’esperienza».

Che il significato del termine trascendentale fosse stato tanto chiaramente spiegato nella Critica, non è forse proprio esatto, e sarebbe molto utile una ricerca sui vari significati che il termine assume in Kant. In mancanza di questa, proveremo a dare qualche cenno in proposito.

“Trascendentale” significa nella terminologia scolastica: ciò che trascende le categorie. Tra-scendentali sono quegli aspetti così universali del reale che sono impliciti in ogni predicato che si attribuisca al reale, quindi sono più ampi di ogni predicato, anche dei supremi predicati del reale, detti, aristotelicamente, categorie. Trascendentale nel significato scolastico è l’essere, perché l’essere è implicito in ogni genere di realtà, e il concetto di essere è più ampio di qualsi-asi genere di realtà, di qualsiasi categoria di realtà. Più ampio della categoria sostanza, perché anche la qualità e le altre determinazioni (accidenti) della sostanza sono essere, più ampio della categoria qualità, perché anche la quantità è essere, e così via. Trascendentale sarà quindi ciò che ha la stessa ampiezza dell’essere, trascendentali sono quei predicati che si ritrovano, per

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11. La filosofia trascendentale di Kant · LETTURE CRITICHE

dir così, dovunque si trovi l’essere. Trascendentale nel significato scolastico è dunque l’essere e tutto ciò che compete all’essere in quanto tale (ens et ea quae consequuntur per se ens).

Possiamo poi osservare che, siccome il concetto di essere è implicito in ogni concetto, è implicito nel concetto di qualsiasi oggetto, l’essere e i predicati trascendentali sono condizio-ne della pensabilità di ogni oggetto, poiché non si può pensare nulla senza pensarlo implici-tamente come ente.

Nella filosofia prekantiana (così in Wolff per esempio) si chiamava philosophia transscen-dentalis la metafisica generale o ontologia: quella che studia l’essere e le sue proprietà tra-scendentali, e in questo significato il termine philosophia transscendentalis è assunto da Kant nella Monadologia physica, «Sed quo tandem pacto – si domanda infatti Kant – hoc in nego-tio metaphysicam geometriae conciliare licet, cum gryphes facilius equis quam philosophia transscendentalis geometriae jungi posse videatur?». Dove è evidente che Kant assume come sinonimi i termini metaphysica e philosophia transscendentalis.

Dobbiamo inoltre tener presente che il razionalismo prekantiano aveva assunto da Cartesio la persuasione che la metafisica (come del resto ogni scienza rigorosa) non si può fondare su nozioni astratte dall’esperienza, ma deve essere fondata su concetti che l’intelletto possiede indipendentemente dall’esperienza: a priori. La metafisica, e più precisamente la sua parte generale, l’ontologia, ossia la filosofia trascendentale, deve fondarsi su «concetti puri», intesi come li intendeva ancora Kant nella Dissertazione del ’70. Si capisce quindi che la metafisica (o filosofia trascendentale nel senso precritico) fosse ivi definita così: «Philosophia autem prima continens principia usus intellectus puri est Metaphysica».

Nella lettera a M. Herz del 21 febbraio 1772 si dice ancora: «...la filosofia trascendentale, ossia tutti i concetti della ragione pura».

Ma che cosa sono i concetti della ragione pura?Il mutamento nel significato del termine trascendentale segue il mutamento della teoria sui

concetti puri: finché i concetti puri erano ritenuti rappresentazioni delle res sicuti sunt, come nella Dissertazione del ’70, la filosofia trascendentale era la metafisica in senso tradizionale: dottrina delle cose in sé; quando i concetti puri diventano forme capaci di rappresentare un oggetto solo a condizione di unificare un materiale di intuizioni sensibili (capaci quindi di rap-presentare solo le cose come appaiono) la filosofia trascendentale diventa la teoria del modo in cui ci appaiono gli oggetti. «Chiamo trascendentale ogni conoscenza che ha a che fare non con oggetti, ma col nostro modo di conoscere gli oggetti in quanto deve essere possibile a priori». Nella prima edizione della Critica Kant aveva scritto: «Chiamo trascendentale ogni conoscenza che ha a che fare non con oggetti, ma coi nostri concetti a priori degli oggetti in generale». E poiché ogni scienza rigorosa adopera concetti a priori, poiché a priori equivale per Kant a necessario ed universale, egli aveva precisato, più avanti, che «non ogni cono-scenza a priori si deve chiamare trascendentale» – anche le proposizioni della geometria sono a priori – «ma solo quella mediante la quale conosciamo che e come certe rappresentazioni (intuizioni o concetti) sono adoperate a priori o sono possibili; ossia [si deve chiamare tra-scendentale] la possibilità della conoscenza o l’uso della conoscenza a priori». A priori è per esempio la geometria, trascendentale è la teoria dello spazio come intuizione pura, che spiega come sia possibile la geometria.

Ma Kant ha lavorato undici anni per arrivare alla dottrina della Critica della ragion pura, per estendere anche ai concetti dell’intelletto la teoria già esposta nel ’70 sullo spazio e sul tempo, e nei cinque mesi nei quali ha redatto la Critica della ragion pura ha certo adoperato pagine scritte durante quel lungo periodo: questo mi sembra un risultato difficilmente confu-tabile della Kant-philologie. Si trovano quindi, nella stessa Critica della ragion pura, tracce

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della evoluzione del suo pensiero. Così, si trova talora nella Critica il termine ‘trascendentale’ usato ancora nel significato antico o precritico di ‘appartenente alla cosa in sé’, specie nella parte più antica dell’opera, che è certo la Dialettica trascendentale.

Possiamo dunque, molto all’ingrosso, distinguere tre significati del termine ‘trascenden-tale’: 1) significato antico o precritico: trascendentale è ciò che appartiene alla cosa in sé; filosofia trascendentale è la metafisica e più precisamente l’ontologia. 2) Significato nuovo o critico: trascendentale è l’indagine di ciò che, da parte nostra, rende possibile l’oggetto. Po-tremmo dire che la filosofia trascendentale resta anche nel nuovo significato indagine dell’es-sere dell’oggetto; ma nella concezione critica l’essere dell’oggetto consiste nel suo appari-re; filosofia trascendentale diventa quindi l’indagine delle condizioni alle quali può apparire all’uomo un oggetto; indagine del nostro modo di conoscere. Non però del nostro modo di conoscere considerato come un fatto psicologico, come un evento del nostro spirito, sibbene del nostro modo di conoscere in quanto costituisce l’oggetto stesso: in quanto dà all’oggetto la sua oggettività e quindi fonda la conoscenza a priori.

Ricordiamo poi che talora, come nelle definizioni che abbiamo citato, l’aggettivo ‘tra-scendentale’ è attribuito all’indagine sulle condizioni che costituiscono l’oggettività dell’og-getto; talora è attribuito a queste condizioni stesse, come, per esempio, quando Kant parla dell’«unità trascendentale dell’appercezione».

3) Ma dicendo che il trascendentale costituisce l’oggettività dell’oggetto abbiamo toccato un terzo significato del termine ‘trascendentale’; abbiamo toccato l’aspetto comune al primo e al secondo significato, e per questo vorrei chiamare neutro questo terzo significato: trascen-dentale è la condizione della possibilità dell’oggetto in quanto tale – e quindi della sua pen-sabilità –. Nella concezione antica ciò per cui l’oggetto è oggetto, ossia è conoscibile – l’es-sere – riflette, sia pure in modo inadeguato, le strutture della realtà, mentre nella concezione critica ciò per cui l’oggetto è oggetto è il complesso delle forme che rendono intelligibile una «materia» caotica di impressioni soggettive. Comunque, e nell’una e nell’altra concezione il trascendentale è condizione della possibilità dell’oggetto.

O. Höffe, Immanuel Kant[ed. it. a cura di V. Verra, trad. di S. Carboncini, Il Mulino, Bologna 1986, pp. 38-42]

Mentre nella prima prefazione Kant sembra ancora cercare di guadagnare l’attenzione del let-tore, nella prefazione alla seconda edizione dimostra tutta la tranquillità di un autore sicuro del-le proprie idee rivoluzionarie. Nel frattempo ha elaborato i Prolegomeni e raggiunta maggior chiarezza in alcuni punti. Poiché il contesto teorico emerge generalmente in modo più chiaro nella seconda edizione, questa costituisce la base dell’esposizione della Critica. Il motivo prin-cipale della nuova prefazione consiste nella rivoluzione copernicana del modo di pensare.

Kant vuole condurre la metafisica sul «cammino sicuro della scienza». A questo scopo essa non deve di volta in volta prendere sempre un nuovo inizio, bensì piuttosto compiere dei passi in avanti. Tali passi in avanti sono possibili solo se si procede secondo un piano e fini precisi e se gli specialisti della materia si accordano sul procedimento da adottare. Ciò che però manca alla metafisica è un metodo universalmente riconosciuto e malgrado un adoprarsi in tale dire-zione, che dura da millenni, non ci si possono aspettare progressi di sorta. Kant vuole fondare tale metodo con la Critica della ragion pura. L’opera non contiene ancora la metafisica in for-ma di scienza, ma piuttosto le premesse necessarie di questa: essa è un «trattato sul metodo».

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11. La filosofia trascendentale di Kant · LETTURE CRITICHE

Kant mostra come sia possibile trovare il cammino sicuro della scienza sull’esempio di tre discipline che fino ai giorni nostri valgono indiscutibilmente come scienze: vale a dire la logica, la matematica e la scienza della natura. Ad avere il compito più facile è la logica. Dal momento che essa non indaga «null’altro che le regole formali di tutto il pensiero», si è sem-pre mossa «fin dai tempi più antichi», cioè fin da Aristotele, sul cammino sicuro della scienza. Poiché nella logica «l’intelletto non si occupa d’altro che di se stesso e della propria forma» essa è però soltanto «il vestibolo delle scienze» e nell’esercizio della critica della ragione svolge soltanto il ruolo di immagine in negativo delle scienze reali.

Le scienze reali hanno a che fare con oggetti. Dopo una fase di cieco «brancolamento» trovano il cammino sicuro della scienza tramite «la genialità di un singolo uomo». Tale trova-ta di genio che fonda la scienza consiste in una «rivoluzione del modo di pensare». Nel caso della matematica tale rivoluzione ha avuto luogo già nell’antichità e si basa su di un’idea che viene messa in pratica in ogni dimostrazione geometrica: per gli scopi della scienza non basta semplicemente attenersi a ciò che si vede nella figura o indagarne il concetto, bensì occorre saperla costruire secondo propri concetti a priori. Tale idea ha un significato gravido di con-seguenze: si può sapere con sicurezza di una cosa soltanto ciò che è stato posto da noi stessi nel suo concetto: la conoscenza scientifica diviene possibile solo attraverso un addentrarsi creativo del pensiero nelle cose ed un costruire. Tuttavia ciò che viene posto nella cosa non può provenire da opinioni personali precostituite, altrimenti si otterrebbero trovate arbitra-rie, ma nessuna conoscenza oggettiva. La matematica come scienza deve dunque la propria esistenza ad una condizione apparentemente impossibile: ad un presupposto soggettivo che ciononostante sia valido oggettivamente.

Kant scopre la stessa struttura di fondo anche nella scienza della natura. Per diventare scienza anche la fisica ha bisogno di una «rivoluzione del suo modo di pensare». Tale rivolu-zione consiste nell’idea, proposta dal filosofo inglese Bacone (1561-1626), fondata però dagli esperimenti di Galilei e Torricelli, che la ragione conosca della natura «soltanto ciò che essa stessa produce secondo il proprio disegno». Come confermano gli scienziati moderni con la loro prassi e la loro teoria, essi si pongono nei confronti della natura non in veste «di scolaro che stia a sentire tutto ciò che piace al maestro, bensì di giudice che nell’esercizio delle sue funzioni costringe i testimoni a rispondere alle domande che egli loro rivolge».

Affinché anche la metafisica raggiunga finalmente il rango di scienza, Kant propone anche per essa una rivoluzione del modo di pensare che, come nel caso della matematica e della scienza della natura, ponga il soggetto conoscente in un rapporto creativo con l’oggetto. Kant considera la propria proposta un’ipotesi, un esperimento della ragione che si giustifica attra-verso il proprio successo. La sua filosofia trascendentale non pretende affatto, come spesso viene obiettato, di essere infallibile, la qual cosa contraddirebbe la condizione minimale della attuale filosofia della scienza, vale a dire la falsificabilità. La confutazione di schemi di pen-siero trascendentali non ha luogo però con i mezzi delle scienze empiriche. Poiché si tratta di esperimenti di pensiero da parte della ragione, essi possono confermarsi o naufragare solo in rapporto alla ragione stessa.

L’esperimento della ragione si afferma con successo in due fasi. Dapprima Kant ritiene che la sua proposta permetta di fondare l’oggettività della matematica e della scienza (matemati-ca) della natura; questo avviene nella «estetica trascendentale» e nella «analitica trascenden-tale». La Critica della ragion pura contiene, nelle sue due prime parti, una teoria filosofica della matematica e della scienza matematica della natura. Contrariamente alle tendenze del neokantismo a ridurre la prima critica della ragione ad una «teoria dell’esperienza», l’opera contiene una parte ulteriore, la «dialettica trascendentale». In essa Kant mostra come, nel

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modo tradizionale di pensare, l’oggetto della metafisica, l’incondizionato, non possa «ve-nir pensato senza contraddizione». Sulla base del nuovo modo di pensare le contraddizioni (antinomie), invece, si risolvono. In ciò consiste la controprova della proposta rivoluzione del modo di pensare: la ragione si concilia con se stessa in modo tale che l’esperimento può essere considerato riuscito, la proposta come vera e fondata. Esso si eleva quindi al rango di una teoria valida.

Kant paragona la propria proposta con la scoperta dell’astronomo Copernico: per questo motivo l’esperimento della ragione è divenuto noto sotto il nome di «rivoluzione (svolta) copernicana». L’importanza storica dell’opera di Copernico non consiste per Kant nella con-futazione di una teoria astronomica tradizionale. In modo assai più fondamentale Copernico supera il punto di vista della coscienza naturale, dimostra la natura illusoria dell’opinione che il sole giri intorno alla terra ed intravede la verità di un nuovo modo, non più naturale, di considerare il soggetto in rapporto al proprio oggetto, il movimento del sole e dei pianeti. Analogamente Kant si prefigge, nella Critica della ragion pura, qualcosa di più di una confu-tazione di teorie metafisiche. Egli non si accontenta di superare il razionalismo, l’empirismo e lo scetticismo, ma fonda soprattutto una nuova posizione del soggetto nei confronti dell’og-gettività. La conoscenza non deve più rivolgersi ulteriormente verso l’oggetto, bensì l’oggetto deve dirigersi verso la nostra conoscenza.

Alla coscienza naturale questa pretesa deve necessariamente sembrare assurda, in quan-to si parla di una conoscenza oggettiva in contrapposizione ad una soggettiva, solo quando si considerano le cose per come sono in loro stesse, cioè indipendentemente dal soggetto. La rivoluzione kantiana del modo di pensare pretende che la ragione umana si liberi dalla chiusura in questa prospettiva naturale, il realismo gnoseologico. La necessarietà e l’univer-salità che appartengono alla conoscenza oggettiva, afferma Kant, non hanno origine, come noi riteniamo comunemente, negli oggetti, bensì nel soggetto conoscente. Tuttavia Kant non sostiene che la conoscenza oggettiva dipende dalla costituzione empirica del soggetto, dalla struttura del cervello, dalla storia delle stirpi umane e dalle esperienze sociali. Una tale affer-mazione sarebbe nei fatti priva di senso. La sua ricerca concerne le condizioni, indipendenti dall’esperienza, della conoscenza oggettiva, che si trovano nella costituzione pre-empirica del soggetto.

La rivoluzione copernicana di Kant consiste nell’affermazione che gli oggetti della co-noscenza obbiettiva non compaiono da se stessi, ma devono essere portati ad apparenza dal soggetto (trascendentale). Essi quindi non devono più essere ulteriormente definiti cose, che sussistono per sé, ma fenomeni. Poiché con ciò è mutato il fondamento dell’oggettività e la teoria degli oggetti, l’ontologia, è resa dipendente da una teoria del soggetto, un’ontologia autonoma non può più sussistere. L’efficace trovata della Critica della ragion pura consiste nella limitazione di entrambi gli aspetti: una teoria filosofica dell’ente, di ciò che è un ogget-to, può da una parte essere fornita, soltanto come teoria della conoscenza dell’ente, mentre dall’altra una teoria della conoscenza può essere ottenuta soltanto come determinazione del concetto di oggetto.

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11. La filosofia trascendentale di Kant · LETTURE CRITICHE

M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica[trad. di M.E. Reina riveduta da V. Verra, introd. di V. Verra, Laterza, Roma-Bari 1981, pp. 185-188]

È sempre più evidente che non ci avvicineremo all’autentico risultato della fondazione kan-tiana, finché ci atterremo a una qualsiasi definizione o a una tesi messa in formula. Ci acco-steremo all’autentico filosofare kantiano soltanto se rinunceremo, ancor più risolutamente di quanto non abbiamo fatto finora, a chiederci che cosa dica Kant, per domandarci invece che cosa accada nel corso della fondazione da lui intrapresa. L’interpretazione più originaria della Critica della ragion pura, da noi svolta nelle pagine precedenti, non ha altro scopo che quello di porre in luce tale accadimento.

Che cosa è risultato veramente nel corso della fondazione kantiana? Non che il fondamen-to è l’immaginazione trascendentale, non che questa fondazione si traduce in una domanda circa l’essenza della ragione umana, ma che Kant, nello svelare la soggettività del soggetto, indietreggia di fronte al fondamento da lui stesso posto.

Questo indietreggiare non fa parte anch’esso del risultato? Quale fatto comporta? Forse una inconseguenza imputabile a Kant? Questo indietreggiare, questo rifiuto ad andare fino in fondo, è soltanto un dato negativo? Per nulla, giacché anzi ci fa vedere come Kant, nel corso della fondazione, scavi da sé sotto i propri piedi il terreno sul quale all’inizio aveva poggiato la sua Critica. Il concetto di ragion pura e l’unità di una ragion pura sensibile divengono un problema. La ricerca intesa a penetrare la soggettività del soggetto, la «deduzione soggetti-va», conduce nel buio. Kant evita di far appello alla propria antropologia, non solo perché questa è empirica e non pura, ma perché la fondazione medesima, nel corso del suo svolgi-mento, pone in discussione il modo stesso dell’indagine sull’uomo.

Non si tratta di cercare una risposta alla domanda circa l’essenza dell’uomo, ma di chie-dersi in primissimo luogo quale sia, in una fondazione della metafisica, il solo modo in cui un’indagine sull’uomo può e deve, in genere, aver luogo.

L’esigenza di porre in questione la stessa indagine sull’uomo costituisce la problematica che si fa strada e viene in luce nel corso della fondazione kantiana della metafisica. Ormai è chiaro: l’indietreggiare di Kant di fronte al fondamento da lui svelato (l’immaginazione trascendentale), indietreggiare rispondente all’intento di salvare la ragion pura, ossia di man-tenere stabile il proprio terreno di base, è quel movimento del pensiero filosofico, che palesa il cedimento di tale terreno e, insieme, l’abisso della metafisica.

Soltanto grazie a questo risultato, l’interpretazione originaria della fondazione kantiana, da noi svolta, ottiene la sua giustificazione e può dimostrarsi necessaria. Non il vano impulso verso una più radicale originarietà, non il desiderio illimitato di sapere, ma unicamente il proposito di mettere in risalto il processo interno della fondazione e, pertanto, la vera proble-matica della fondazione medesima, ha guidato quest’interpretazione in ogni suo sforzo.

Ma se la fondazione non accantona l’interrogativo sull’essenza dell’uomo e nemmeno gli fornisce una netta risposta, limitandosi invece a mostrare come esso sia da porre in discus-sione, che ne è della quarta domanda di Kant, alla quale la metaphysica specialis, nonché l’autentico filosofare, dovrebbero far capo?

Potremo porre questa domanda nel modo dovuto soltanto se la elaboreremo, come doman-da, in base alla comprensione, ora raggiunta, del risultato della fondazione, rinunciando a una risposta prematura.

Bisogna chiedersi: perché le tre domande (1. Che cosa posso sapere? 2. Che cosa devo fare? 3. Che cosa posso sperare?) «si lasciano rapportare» alla quarta? Perché «tutto ciò si

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potrebbe mettere in conto all’antropologia»? Che cosa c’è di comune in queste tre domande, e sotto quale riguardo esse formano un tutto unitario, al punto da poter essere ricondotte a una quarta? Come dev’essere formulata questa quarta domanda, per poter assumere da sola, in modo unitario, la portata delle altre tre?

Nelle tre domande suddette si compendia il più intimo interesse della ragione umana. Sono in questione un potere, un dovere e un diritto della ragione umana.

Allorché un potere è in questione e richiede la delimitazione delle proprie possibilità, vuol dire che è già in uno stato di impotenza. Un essere onnipotente non ha bisogno di chiedersi: che cosa posso? ossia: che cosa non posso? Non solo non ha bisogno di porsi questo inter-rogativo, ma non può in alcun caso porselo, per la sua stessa natura. Questo suo non-potere non è però una deficienza, è anzi immunità da qualsiasi deficienza o «negazione». Chi invece chiede: che cosa posso? rivela con ciò una finitezza. L’essere che viene sollecitato radical-mente, nel proprio interesse più intimo, da questa domanda, manifesta una finitezza inerente alla sua più intima essenza.

Allorché un dovere è in questione, chi si pone l’interrogativo oscilla fra un «sì» e un «no», è incalzato da ciò che non deve. Un essere profondamente interessato a un dovere, sa di trovar-si nello stato di chi “non ha ancora adempiuto”, per cui deve chiedersi che cosa debba, in ge-nerale. Questo “non ancora” d’un adempimento, a sua volta indeterminato, è l’indice del fatto che un essere, il quale annette il suo più intimo interesse a un dovere, è, nel suo fondo, finito.

Allorché un diritto è in questione, entra in gioco qualcosa che il richiedente può vedersi concedere o vietare. Ci si domanda che cosa si abbia diritto e che cosa non si abbia diritto di attendersi. Ma ogni attesa denuncia una privazione. E se tale indigenza trova incremento nell’interesse più intimo della ragione umana, quest’ultima dà prova di essere una ragione essenzialmente finita.

Senonché, la ragione umana, nel porre queste domande, non solo denuncia la propria fini-tezza, ma dirige il proprio interesse più intimo sulla finitezza medesima. Per la ragione umana, non si tratta di accantonare in qualche modo potere, dovere e diritto, per estinguere così la fi-nitezza, ma si tratta, al contrario, proprio di assicurarsi di tale finitezza, per mantenersi in essa.

La finitezza non è quindi un semplice accessorio della ragion pura umana; è invece un rendersi finita della ragione stessa, è la «cura» per il suo poter-essere-finita.

In conclusione: la ragione umana non è finita perché pone le tre domande suddette, ma, viceversa, pone queste domande perché è finita, e lo è precisamente in modo tale, che nel suo esser ragione “ne va” di questa stessa finitezza. Proprio per il fatto che queste tre domande vertono su quest’unico oggetto, la finitezza, esse «si lasciano» rapportare alla quarta: che cos’è l’uomo?

Anzi, le tre domande, in sé, non sono altro che la quarta domanda: non solo possono, ma devono per essenza essere rapportate a quest’ultima. Tale riferimento, però, diviene essenzia-le e necessario soltanto qualora la quarta domanda abbia perduto la sua iniziale generalità e in-determinatezza e sia stata ridotta all’univocità di un’interrogazione sulla finitezza dell’uomo.

Trattandosi d’una domanda di tal fatta, il suo giusto posto non è in coda alle tre precedenti; essa diventa la prima, dalla quale le altre tre prendono avvio.

Ma il risultato raggiunto, nonostante il precisarsi della domanda sull’uomo, anzi proprio per questo, non porta che a un inasprimento del problema connesso a tale domanda. Bisogna ora chiedersi a quale specie di interrogazione sull’uomo corrisponda questa domanda, e se non si tratti, dopo tutto, ancora di un quesito antropologico. Così, solo a questo punto, il ri-sultato della fondazione kantiana si profila con sufficiente nettezza, in modo da permettere di individuare, nella fondazione medesima, una più originaria possibilità di ripetizione.

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11. La filosofia trascendentale di Kant · LETTURE CRITICHE

La fondazione della metafisica trova la sua base nell’interrogazione sulla finitezza dell’uo-mo, in guisa tale che la finitezza medesima può, ora soltanto, diventare problema. La fonda-zione della metafisica è «risoluzione» (analitica) della nostra conoscenza, ossia della cono-scenza finita, nei suoi elementi. Kant la definisce «uno studio della nostra interna natura». Questo studio, peraltro, può evitare di essere una ricerca arbitraria sull’uomo, condotta alla cieca, e può costituire anzi per il filosofo un dovere, solo se la problematica, che essenzial-mente lo guida, viene afferrata in modo sufficientemente originario e comprensivo, e se, a partire da essa, la «natura interna» del nostro se-stesso viene posta in questione come finitezza inerente all’uomo.

Per quanto numerose ed essenziali possano essere le nozioni che l’«antropologia filoso-fica» ci fornirà ancora sull’uomo, essa non potrà mai, solo perché è antropologia, assurgere al rango legittimo di disciplina fondamentale della filosofia. Al contrario, essa cela in sé il costante pericolo che la necessità di perfezionare la ricerca sull’uomo, sempre e solo in forma problematica, in vista di una fondazione della metafisica, resti celata.

Non è questa la sede per appurare se e come l’antropologia filosofica – indipendentemente dal problema di una fondazione della metafisica – abbia una sua funzione specifica.

P.F. Strawson, Saggio sulla «Critica della ragion pura»[trad. di M. Palumbo, Laterza, Roma-Bari 1985, pp. 27-31]

È necessario osservare [...] qualcosa sull’idealismo trascendentale. [...] Questa teoria non af-ferma solo che non possiamo conoscere una realtà soprasensibile. Essa afferma, piuttosto, che la realtà è soprasensibile e che noi non possiamo conoscerla. Ci sono numerosi punti in cui questa teoria cade nell’incomprensibilità. Consideriamo, per esempio, la concezione dello spazio e del tempo come forme della nostra sensibilità e, quindi, il fatto che tutte le cose che percepiamo nello spazio e nel tempo, compresi noi stessi, non sono che apparenze, e non cose in sé. Quindi, noi siamo coscienti di noi stessi in modo temporale, di come appariamo, e non di come siamo in noi stessi. Ma cosa vuol dire che appariamo a noi stessi in modo temporale? Appariamo realmente in questo modo, oppure ci appare di apparire in questo modo? Sembra necessario scegliere subito la prima alternativa, o rimandare inutilmente a un’inutile elabora-zione di essa. È allora un fatto temporale, un fatto che riguarda ciò che accade nel tempo, il modo in cui realmente appariamo a noi stessi? Ma questo vorrebbe dire rinunciare alla nostra scelta; infatti, tutto ciò che accade nel tempo appartiene al campo delle apparenze. Quindi che noi si appaia realmente a noi stessi in modo temporale non può essere un fatto su ciò che ac-cade nel tempo. Io appaio realmente a me stesso in modo temporale, ma non appaio realmente in modo temporale a me stesso. Ma cosa significa l’espressione «apparire realmente»? Non si può rispondere a questa domanda; i confini della comprensibilità sono stati completamente superati. Kant può difficilmente sostenere che questo fatto non sia allarmante, dal momento che è conforme alla norma posta dal principio di significanza, un principio che deriva dallo stesso insieme di teorie a cui appartiene anche la teoria in questione. Non si può difendere una teoria incomprensibile affermando che la sua incomprensibilità è garantita da un principio che deriva dalla teoria stessa.

[...] Sappiamo che a ogni essere del mondo naturale spazio-temporale della scienza e dell’osservazione quotidiana gli oggetti spazio-temporali di questo mondo possono apparire in modo sensibile, solo se influenzano in qualche modo la costituzione di questo essere. Il

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modo in cui gli oggetti appaiono e le caratteristiche che essi appaiono possedere dipendono, in parte, dalla costituzione degli esseri a cui appaiono. Se questa costituzione fosse diversa, gli oggetti stessi apparirebbero in modo diverso. Molti filosofi, come ad esempio Locke e Russell, hanno visto in ciò una ragione valida per negare la possibile coscienza sensibile o percettiva delle cose come realmente sono, o come sono in sé. Per esempio, gli oggetti ci appaiono colorati; ma essi non sono da ritenere realmente colorati. Si tratta piuttosto del fatto che gli oggetti hanno, in realtà, determinate proprietà fisiche, che noi abbiamo una de-terminata costituzione fisica e che l’effetto delle prime su quest’ultima fa si che gli oggetti ci appaiano colorati. Questo ragionamento, pur non avendo una forza costrittiva, è del tutto comprensibile. In questo caso, però, conosciamo il significato dell’espressione «oggetti come realmente sono». Essi sono gli oggetti che riteniamo dotati unicamente di quelle proprietà che le teorie fisiche, e in particolare le teorie che forniscono spiegazioni del meccanismo causale di percezione, attribuiscono ad essi. Questi oggetti, cosi concepiti, hanno realmente quelle proprietà (primarie), in base alle quali possono apparire in modo diverso a esseri che possiedano un diverso sistema sensorio e nervoso. Ma questi oggetti non possiedono quelle ulteriori proprietà (secondarie), la cui apparente presenza può essere considerata un effetto delle proprietà primarie sul sistema sensorio.

Forse possiamo non essere attratti da questa concezione, ma essa è comprensibile. Il filo-sofo dalla mentalità scientifica, che l’accetta, si allontana, in effetti, da alcune applicazioni or-dinarie del contrasto fra apparenza e realtà. Infatti, non c’è nessun caso (come lamentava Ber-keley) in cui le cose, come realmente sono secondo questo filosofo, possono apparire come esse realmente sono. Ma non esclude la possibilità di conoscere empiricamente le cose come realmente sono. Il legame con l’esperienza sensibile è ancora presente; è solo meno diretto.

La concezione kantiana del contrasto tra le cose come sono in sé e le cose come appaiono sembra avere lo stesso punto di partenza della concezione che del contrasto ha un filosofo dalla mentalità scientifica. Esse hanno in comune la tesi che non è possibile essere consa-pevoli degli oggetti come sono in sé, dal momento che possiamo essere consapevoli degli oggetti solo se ne siamo modificati, e che, quindi, gli stessi oggetti ci appaiono solo come il risultato di queste modificazioni. Il passaggio seguente è, però, completamente diverso. Il filosofo dalla mentalità scientifica non nega la conoscenza empirica delle cose come sono in sé, che ci modificano nella produzione delle apparenze sensibili. Ciò che nega è solo il fatto che quelle proprietà che in condizioni normali le cose appaiono avere siano incluse (o siano tutte incluse) tra le proprietà che esse hanno, e che noi sappiamo che hanno, come cose in sé. Kant, invece, nega ogni possibile conoscenza empirica di quelle cose, come sono in sé, che ci modificano nella produzione delle apparenze sensibili. Coerentemente con questa negazione, o meglio con ciò che essa richiede, Kant nega anche che gli oggetti fisici della scienza siano quelle cose come sono in sé che ci modificano nella produzione dell’esperienza sensibile. L’intero sistema spazio-temporale del mondo naturale ha origine nella costituzione recettiva del soggetto di esperienza e il mondo naturale non è che mera apparenza. In questo modo, Kant può formalmente conciliare questa negazione con quel punto di partenza che è condi-viso dal filosofo dalla mentalità scientifica, e che riguarda il contrasto tra le cose come sono in sé e le cose come appaiono. Ma il prezzo di questa conciliazione formale è alto. Infatti, la risultante trasposizione della terminologia degli oggetti, che «modificano» la costituzione dei soggetti, porta questa terminologia completamente al di fuori dell’ambito del suo uso com-prensibile, cioè dell’ambito spazio-temporale. La teoria che sostiene la possibilità di percepire le cose solo come appaiono, e non come sono in sé, dal momento che le loro apparenze sono il risultato delle nostre modificazioni da parte degli oggetti, è una teoria comprensibile finché

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11. La filosofia trascendentale di Kant · LETTURE CRITICHE

intendiamo il «modificare» come qualcosa che accade nello spazio e nel tempo. Ma quando a ciò si aggiunge la necessità di concepire anche lo spazio e il tempo come delle capacità o disposizioni a essere modificati in un certo modo da oggetti che non sono in se stessi nello spazio e nel tempo, allora non possiamo più comprendere questa teoria, in quanto non pos-siamo più sapere che cosa significhi «modificare», o come dobbiamo intendere «noi stessi».

Kant dà, in realtà, ulteriori informazioni sul tema del «modificare», ma non un ulteriore chiarimento. Una capacità percettiva che dipenda dall’esistenza dell’oggetto di percezione è una capacità in cui «la facoltà di rappresentazione del soggetto è modificata dall’oggetto». Di conseguenza, la percezione di cose in sé («intuizione non sensibile o intellettuale») sarebbe una percezione creativa, tale da produrre il proprio oggetto; una capacità percettiva che «per quanto noi arriviamo ad intendere può appartenere soltanto all’Essere supremo». Kant osser-va che non siamo in grado di comprendere la possibilità di una tale capacità percettiva. Ma non osserva che l’oscurità che avvolge queste nozioni avvolge anche l’intera teoria delle cose nello spazio e nel tempo come apparenze.

Le teorie dei fenomeni e dei noumeni, dell’idealismo trascendentale, della fondamentale soggettività del mondo naturale possono, quindi, essere interpretate in questo senso: possia-mo indicare i passaggi, attraverso cui il modello originario o l’analogia dominante, è deviato e posto in una forma che viola ogni condizione accettabile di comprensibilità, compreso lo stesso principio kantiano di significanza. Inoltre, possiamo affermare che il modello o l’im-magine che ne risultano potevano aiutare Kant a stabilire delle idee più accettabili: il modello sembra sia garantire il principio di significanza, sia giustificare la possibilità del suo program-ma di una metafisica «scientifica» dell’esperienza. Potremmo, e anzi dovremmo, dare spazio nella filosofia a un concetto che realizzi almeno alcune delle funzioni negative del concetto kantiano di noumeno. Se respingiamo, come privo di senso, il dogma secondo cui il nostro schema concettuale non corrisponde in alcun punto alla Realtà, non dobbiamo, però, accettare il dogma restrittivo secondo cui la Realtà è completamente compresa, come è effettivamente, da quello schema. Possiamo ammettere senza difficoltà l’esistenza di fatti che non conoscia-mo. Dobbiamo anche ammettere la possibile esistenza di generi di fatti di cui non abbiamo attualmente alcuna concezione, così come gli uomini del passato non avevano la concezione di generi di fatti che sono ora ammessi dai nostri schemi concettuali, ma che non lo erano dai loro. Impariamo non solo a risolvere vecchie questioni, ma anche a porne di nuove. Questa idea di aspetti della Realtà che potrebbero essere descritti nelle risposte a questioni che, per il momento, non sappiamo porre è simile all’idea del regno noumenico, anche se non formu-lata in uno stile così drastico. Infatti, è un’idea che limita la pretesa dell’effettiva conoscenza umana e dell’esperienza di essere «coesistive con il reale».

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12 LOGICA, DIALETTICA E STORIA IN HEGEL

Una delle chiavi decisive per aprire le mille porte

disseminate lungo il percorso speculativo di Hegel è senza

dubbio quella della logica. Non si tratta solo della celebre

prima partizione nel sistema enciclopedico hegeliano – ap-

punto la Scienza della logica – ma di una più vasta interpre-

tazione della struttura e delle leggi dinamiche del pensiero

come l’armatura dell’intera realtà. Le pagine di Angelica

Nuzzo colgono il ruolo svolto dal “logico”, ben al di là della

logica disciplinare, nelle molteplici scansioni del pensiero

dialettico hegeliano.

La potenza dinamica di questa dialettica ha

sempre trovato, come è noto, uno dei suoi momenti più em-

blematici nella #gura della lotta tra Servo e Signore, illustra-

ta da Hegel in pagine celeberrime della Fenomenologia dello

spirito (1807). Si tratta di uno dei luoghi che hanno eserci-

tato l’in$usso maggiore di Hegel sulla #loso#a successiva

(un caso per tutti, Karl Marx) e che qui viene ripercorso at-

traverso una vera e propria interpretazione d’autore, quella

del #losofo Alexandre Kojève. In questa lettura si fa leva sul

fenomeno del desiderio come esperienza fondamentale del

passaggio dal sentimento di sé all’autocoscienza.

Al brano di Fulvio Tessitore si è af#data la rico-

struzione della concezione hegeliana della storia e del ten-

tativo di comprensione speculativa della realtà intera sotto il

segno dello storicismo.

In#ne il brano di Giuseppe Bedeschi tratteggia

sinteticamente la concezione hegeliana dello Stato, mo-

mento culminante non solo del pensiero più strettamente

politico-giuridico dell’autore, ma della più generale inten-

zione hegeliana di rendere lo Spirito mondo.

A. Nuzzo, La logica[in Guida a Hegel, a cura di C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 39-45]

-va nelle tre edizioni della

o del sistema. -

doveva costituire una guida ed un orientamento per coloro che seguivano le lezioni di Hegel.

logica che dava compiuto sviluppo allo schema generale che sarà tracciato nei lineamenti

La logica è per Hegel una .In questa presentazione generale della logica hegeliana, vorrei chiarire innanzi tutto il

è parte. Questo consentirà di far emergere i requisiti strutturali più generali che la logica deve

circa la che Hegel assegna alla logica all’interno della costruzione

essere tuttavia scienza soltanto in quanto assume la forma del ‘sistema’, ovvero in quanto sia resa capace di aprirsi ad una dimensione di comprensione della verità. La logica, come

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12. Logica, dialettica e storia in Hegel · LETTURE CRITICHE

pensiero alla in quanto tale.Hegel introduce una distinzione terminologica piuttosto singolare e certamente innovativa

rispetto alla logica tradizionale, che risulta di fondamentale importanza nello svolgimento ) ed il ‘logi-

le forme del pensiero prese nella loro ‘purezza’. Essa è la prima disciplina o sfera del sistema; è una ‘parte’ del sistema totale della scienza e proprio per questo è scienza essa stessa. Il logico o l’elemento logico è invece un medium od una dimensione teorica particolare all’in-

stesso assunto come forma. In quanto tale, a differenza della logica, l’elemento logico non

logica, successivamente il ‘logico’ della natura e dello spirito. Il ‘logico’ si propone così come il lato complementare rispetto alla trattazione della dimensione ‘reale’ degli oggetti naturali e spirituali.

una ‘parte’ del sistema, mentre il secondo indica una dimensione che, pur non essendo l’u-tutta l’estensione

per Hegel, non soltanto scienza e dell’intero, ma anche scienza e del medesimo.

esso, la logica è, secondo Hegel, un , .

Che la logica debba essere assolutamente priva di presupposti è una tesi cruciale del pensiero

di vista sistematico generale, quella tesi stabilisce il rapporto della logica con la -

alla dimensione ‘pura’

‘presupposto’ interno della logica stessa. La logica -

della scienza nella dimensione oggettiva del pensiero puro, ovvero in una dimensione in cui l’opposizione della coscienza soggettiva è, di fatto, completamente superata. La situazione in

la sua implicazione necessaria. La logica speculativa è così il vero tesi della mancanza di presupposizioni propria della logica determina tuttavia anche il proble-ma del suo cominciamento interno. Che

e debba essere l’inizio di questa logica, sono due problemi per Hegel diversi, anche se strettamente collegati. Entrambi si riportano alla negazione di ogni presupposto valido per il

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-dere, per la propria tematizzazione, alcun presupposto aggiuntivo; dovrà essere tale da porsi invece come presupposto necessario di ogni successiva determinazione e di ogni successivo svolgimento. Il cominciamento sarà così, per Hegel, il «puro essere», l’essere immediato e privo di ogni determinazione che, nella sua assoluta purezza e vuotezza è poi identico al puro nulla.

-ne sistematica nelle forme dello ‘spirito assoluto’, la determinazione innanzi tutto del «con-

differenza che nella sua posizione iniziale in quanto fondamento del sistema, la logica come scienza ultima ha come -

ritorno circolare chiarisce anche, retrospettivamente, il carattere di quella fondazione prima: si tratta di una qualcosa che si ponga come successivo ed indipendente dal fondamento stesso. È esclusi-

auto-riferita ed auto-fondante del pensiero.

A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel[ed. it. a cura di G.F. Frigo, Adelphi, Milano 1996, pp. 17-23]

questo si differenzia essenzialmente dall’animale, che non va oltre il livello del semplice

comprendere l’origine dell’Io rivelato dalla parola.-

portamento cognitivo, contemplativo, passivo di un essere o di un «soggetto conoscente» -

«soggetto conoscente» si «perde» nell’oggetto conosciuto. La contemplazione rivela l’ogget-

-

--

-

realtà biologica, di una vita animale. Ma, se il Desiderio animale è la condizione necessaria

All’opposto della conoscenza, che mantiene l’uomo in una quiete passiva, il Desiderio lo

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12. Logica, dialettica e storia in Hegel · LETTURE CRITICHE

rende in-quieto e lo spinge all’azione. Essendo nata dal Desiderio, l’azione tende a soddisfar-

dell’oggetto desiderato: per soddisfare la fame, ad esempio, occorre distruggere o, in ogni

così com’è, l’azione lo distrugge; se non nel suo essere, almeno nella sua forma data. E, in rapporto al dato, ogni «negatività-negatrice» è necessariamente attiva. Ma l’azione negatrice non è puramente distruttiva. Infatti, se l’azione che nasce dal Desiderio, per soddisfarlo, di-strugge una realtà oggettiva, al suo posto essa crea, in e mediante questa stessa distruzione, una realtà soggettiva. L’essere che mangia, per esempio, crea e mantiene la propria realtà mediante la soppressione della realtà altra rispetto alla sua, mediante la trasformazione di una realtà altra in realtà propria, mediante l’«assimilazione», l’«interiorizzazione» d’una realtà «estranea», «esterna». In generale, l’Io del Desiderio è un vuoto che riceve un contenuto po-sitivo reale solo dall’azione negatrice che soddisfa il Desiderio, distruggendo, trasformando e «assimilando» il non-Io desiderato. Il contenuto positivo dell’Io, costituito dalla negazione, è

un non-Io «naturale», l’Io sarà anch’esso «naturale». L’Io creato dalla soddisfazione attiva di un tale Desiderio avrà la medesima natura delle cose verso cui questo Desiderio si dirige: sarà un Io «cosale», un Io meramente vivente, un Io animale. E questo Io naturale, funzione

arriverà mai all’Autocoscienza.

non-naturale, verso qualcosa che oltrepassi la realtà data. Ora, la sola cosa che oltrepassi que-sto reale dato è lo stesso Desiderio. Infatti, il Desiderio, assunto come tale, cioè prima della sua soddisfazione, è in realtà solo un niente rivelato, un vuoto irreale. Dato che il Desiderio è la rivelazione di un vuoto, la presenza dell’assenza di una realtà, esso è essenzialmente altro dalla cosa desiderata, altro da una cosa, da un essere reale statico e dato, eternamente mantenentesi nell’identità con se stesso. Il Desiderio che si dirige verso un altro Desiderio, assunto in quanto Desiderio, creerà dunque, mediante l’azione negatrice e assimilatrice che lo soddisfa, un Io essenzialmente altro dall’«Io» animale. Quest’Io che si «nutre» di Desideri sarà anch’esso nel suo stesso essere Desiderio, creato nella e dalla soddisfazione del suo Desi-derio. E, dal momento che il Desiderio si realizza in quanto azione negatrice del dato, l’essere di questo Io sarà azione. Quest’Io non sarà, come l’«Io» animale, «identità» o eguaglianza

forma universale non sarà spazio, ma tempo. Dunque, per quest’Io il mantenimento nell’e-

voluta, progresso cosciente e volontario. È l’atto di trascendere il dato che gli è dato e che esso

costituirsi all’interno della realtà animale, occorre che questa realtà sia essenzialmente mol-

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realtà umana è una realtà sociale, la società è umana solo in quanto insieme di Desideri che reciprocamente si desiderano come Desideri. Il Desiderio umano, o meglio ancora, antro-pogeno, costituente un individuo libero e storico, cosciente della sua individualità, della sua

soltanto un sentimento della propria vita) per il fatto che si dirige non verso un oggetto reale, «positivo», dato, ma verso un altro Desiderio. Così, per esempio, nel rapporto tra l’uomo e la donna, il Desiderio è umano unicamente se l’uno non desidera il corpo bensì il desiderio dell’altro, se vuole «possedere» o «assimilare» il Desiderio assunto come tale, se cioè vuole essere «desiderato», «amato» o, meglio ancora, «riconosciuto» nel suo valore umano, nella

è umano soltanto nella misura in cui è «mediato» dal Desiderio di un altro che si dirige sullo

crea solo mediante l’azione che soddisfa tali Desideri: la storia umana è la storia dei Desideri desiderati.

-male. Il Desiderio umano tende anch’esso a soddisfarsi mediante un’azione negatrice, anzi trasformatrice e assimilatrice. L’uomo si «nutre» di Desideri come l’animale si nutre di cose reali. E l’Io umano, realizzato mediante la soddisfazione attiva dei suoi Desideri umani, è fun-

il suo Desiderio umano prevalga effettivamente in lui su quello animale. Ora, ogni Desiderio è desiderio di un valore. Il valore supremo per l’animale è la sua vita animale. Tutti i Desideri dell’animale sono, in ultima analisi, una funzione del desiderio che esso ha di conservare la vita. Il Desiderio umano deve dunque prevalere su questo desiderio di conservazione. Detto

Desiderio umano. In e mediante questo rischio la realtà umana si crea e si rivela come realtà:

L’uomo «risulta» umano quando rischia la vita per soddisfare il suo Desiderio umano, cioè quel Desiderio che si dirige su un altro Desiderio. Ora, desiderare un Desiderio è voler sosti-tuire se stesso al valore desiderato da questo Desiderio. Infatti, senza questa sostituzione si desidererebbe il valore, l’oggetto desiderato, non il Desiderio stesso. Desiderare il Desiderio di un altro è dunque, in ultima analisi, desiderare che il valore che io sono o che io «rappre-sento» sia il valore desiderato da quest’altro: voglio che egli «riconosca» il mio valore come suo valore, voglio che egli mi «riconosca» come un valore autonomo. Detto altrimenti, ogni

dei conti, funzione del desiderio di «riconoscimento». E il rischio della vita mediante il quale -

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12. Logica, dialettica e storia in Hegel · LETTURE CRITICHE

l’«origine» dell’Autocoscienza è dunque necessariamente parlare d’una lotta a morte in vista del «riconoscimento».

terra. Infatti, l’essere umano si costituisce solo in funzione di un Desiderio che si dirige su un

--

una tale lotta la realtà umana si genera, si costituisce, si realizza e si rivela a se stessa e agli altri. Essa non si realizza dunque e non si rivela se non come realtà «riconosciuta».

l’uno cedesse all’altro, che abbandonasse la lotta prima della morte dell’altro, che «ricono-scesse» l’altro invece di farsi «riconoscere» da lui. Ma, se così fosse, la realizzazione e la rive-

-possibilità resta identica nel caso in cui uno solo degli avversari venga ucciso. Infatti, con lui sparisce quell’altro Desiderio su cui deve dirigersi il Desiderio per essere umano. Il soprav-

dunque che la nascente realtà umana sia molteplice. Occorre anche che questa molteplicità, questa «società», implichi due comportamenti umani o antropogeni essenzialmente diversi.

avversari restino in vita dopo la lotta. Ora, questo non è possibile se non a condizione che, in questa lotta, essi si comportino in maniera diversa. Con atti di libertà irriducibili, anzi impre-vedibili o «indeducibili», essi devono costituirsi come ineguali in e mediante questa stessa

desiderio di «riconoscimento». Deve abbandonare il suo desiderio e soddisfare il desiderio dell’altro: lo deve «riconoscere» senza esserne «riconosciuto». Ora, «riconoscerlo» in questo modo è «riconoscerlo» come suo signore e riconoscersi e farsi riconoscere come servo del

-

-

il suo divenire, se il suo essere umano nello spazio è il suo essere nel tempo o come tempo, se

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la realtà umana rivelata non è altro che la storia universale, questa storia deve essere la storia

-liazione mediante la «sintesi», se la storia, nel senso forte della parola, ha necessariamente un

Desiderio deve portare alla soddisfazione, se la scienza dell’uomo deve avere il valore di una

-prio e forte del termine.

F. Tessitore, Introduzione a Lo storicismo[Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 33-41, 43-45]

--

della storia, in conseguenza della sua razionalità, affermata come premessa. Basta aprire le per leggere:

È una verità che presupponiamo la certezza che nella storia del mondo vi sia una ragione e non la

storia del mondo è razionale e razionale deve essere: una volontà divina domina poderosa nel mon-do e non è così impotente da non saperne determinare il grande contenuto.

Ancor più nettamente e chiaramente, con assoluta conseguenzialità, dal riconoscimento che la storia è «l’immagine e l’atto della ragione», «la categoria della ragione stessa», che «la ragione è il pensiero che determina se stesso in piena libertà», si deduce che la «provvidenza

quale è quella che ne determina le grandi rivoluzioni»1. Del resto razionalità e provvidenza coincidono e danno senso a una storicità che è espressione del governo divino del mondo.

-

-dere che vi sia ragione soltanto nella natura e non già nello spirito. Chi considera come accidentale

2.

1 G.W.F. Hegel, Lezi , trad. it. di G.

2 I

da

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12. Logica, dialettica e storia in Hegel · LETTURE CRITICHE

ma all’«occhio del concetto» implichi un «modo di procedere aprioristico». Ebbene, «tale

procedere»: «l’ della storia cui deve corrispondere l’esperienza» . Di fronte a quella

esplicite contestazioni, tant’è la sicurezza del suo convincimento, avverte che l’oggetto della

ma come «universale determinato, cioè in generale un popolo, lo spirito del popolo»4. Que-sta è l’espressione del

), dentro la quale non c’è posto per l’individuale e per gli individui, la cui connessione, rispettosa di ciascuno di essi, è l’ intesa come criterio ideale

al contrario Hegel nelle dell’esistenza e della caducità non di sua tasca, ma con le passioni degli individui» , i quali sono le provvisorie incarnazioni dell’universale.

si opera nel tempo tende soltanto a far sì che lo spirito riconosca se stesso, che si oggettivizzi a se

.

-tamente investono i diversi tipi della considerazione storica intorno ai quali Hegel raccoglie

La storia è «conciliazione», la parola ricorrente con immancabilità nei momenti nevralgici

-siste l’evoluzione che mira a «rendere intellegibile il male di fronte all’assoluto potere della

entrare del tutto nella storia del mondo, dove il «male deve essere compreso nel concetto dello spirito pensante conciliato con la sua negazione»

I4 I Ivi, p. . Id., t i , trad. it. di E. Codignola e 2

Id., a, ci

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degli animi angusti e delle teste vuote». Egli «esige che lo si conosca» senza residui, respin-

respingendo retrospettivamente il valore moderno e riformatore del , l’au-totrasparenza del concetto, che è l’esplicazione della storia dello spirito, rigetta la distinzione dello storicismo vichiano tra opera di Dio e opera dell’uomo. La «vera umiltà è nel ricono-scere Iddio in tutto, nel tributargli onore dappertutto e principalmente nel teatro della storia

e non anche nella storia, opera presunta dell’uomo. Ma c’è di più. L’autotrasparenza dell’asso-

«implica la nota del negativo»10, che è, come dicono le , «una forma dell’esteriorità» rispetto all’idea, la quale, «pensata nella sua quiete

è indubbiamente senza tempo»11.

Comprendendo la storia del mondo, abbiamo a che fare con la storia anzitutto nell’aspetto per cui essa si presenta come passato. Ma non è meno vero che abbiamo sempre a che fare col presente.

, nel senso dell’assoluta presenza.

-

forma e nel suo potere»12

della ricerca storica, il restringimento del passato.-

intesa come quello spazio che occupano i popoli i quali, pur avendo raggiunto un notevole grado di evoluzione, hanno vissuto senza organizzazione statale, che è il solo luogo dove vive

la chiarezza della coscienza che se ne ha fornisce la capacità e l’esigenza di conservarla in tale forma»

anche in senso orizzontale, cioè tematicamente. Lo si vede assai bene quando si consideri che

alla valutazione del presente. Infatti, «quel che è presente e vivo» è la materia della -

che acutamente interpretino i discorsi di Tucidide e il loro valore di azioni, Hegel enumera

approfonditi da chi voglia gustare la storia per rapida impressione e segnano, quale che sia la loro grandezza, un momento aurorale e superato di narrazione storica.

Ivi, p. . Ivi, p. 22.

10 11 Id., t i , 12 Id.,

I

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12. Logica, dialettica e storia in Hegel · LETTURE CRITICHE

«Andare al di là del presente»14 è il carattere della , sulla quale Hegel si sofferma con articolate distinzioni, nelle quali non è infondato scorgere le linee della sua storia

-

-sioni morali», dimenticando che nelle «compilazioni della storia del mondo non bastano i

-

esempio, nel classicismo rivoluzionario, e «noiose» sono le storie di questo tipo, le quali fan-

contemporanea e con lo storicismo critico che variamente la ispirava, respinte da Hegel, per-

«concreto e assolutamente attuale», «il Mercurio delle azioni, degli individui e degli eventi,

-

luogo, cioè nel concetto» . Con lo studio delle fonti, questi «storici di professione» cadono

cioè giudizi «sulle narrazioni storiche e una ricerca circa la loro veridicità e credibilità». In altri termini, l’attività critica che, rivolta alla credibilità e veridicità delle tradizioni, ritiene

necessaria della storia nella quale nulla si perde, nulla fuoriesce dal processo di autotrasparen-za dello spirito. La ricerca critica pretende di inserire, nella necessità dello spirito universale

della storia, sono presuntuose, «arbitrarie immaginazioni e combinazioni», «aborto antistori-co frutto di vana fantasia»

-ca del mondo», all’esteriorità inessenziale, all’estrinsecità cioè all’empiricità della trattazio-

20.

14 I

I Cfr. ivi, p. 12. Ivi, p. 10. I

20 G.W.F. Hegel, , trad. it. di G.

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LETTURE CRITICHE · Volume 2

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21, non hanno saputo distinguere tra il nucleo razionale del reale e la scorza empirica dell’accidentale, che non è reale, ma arbitrio intellettualistico. La coscienza infelice di questi storici

dove più è priva di vita, parla maggiormente dello spirito; dove più mestamente e aridamente parla, ha in bocca la parola ; dove manifesta il più gretto egoismo del vano orgoglio, più ha in bocca la parola 22.

, l’espressione anche hegeliana usata costantemente nel -

unità e direzione alla vita statale e culturale, consentendo la ricerca della razionalità intrinseca alla storicità delle azioni umane, non è la razionalità presupposta che i fatti, tutt’al più, rappre-

storico che rappresenta, per cui la conoscenza dei fatti si risolve nella conoscenza dello spirito del popolo che in essi si rivelaspontaneità della storia e spirito sistematico) vuole servire a superare la distinzione kantiana

, nell’esperienza esperita non in base all’arbitrio e al caso, ma secondo un criterio di intrinseca razionalità. Il che, pur vicino all’hegelismo, è poco

neppure la più rilevante) quale Dilthey l’ha intesa, fondazione razionale delle scienze dello spirito non subordinata «alla sistematica della ragione» alla quale, invece, Hegel ha sottomes-so24

aveva escluso dalla connessione della ragione in quanto esistenza individuale, in quanto for-ma particolare della vita, in quanto caso e arbitrio».

G. Bedeschi, Il pensiero politico e giuridico[in Guida a Hegel, a cura di C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 184-189]

-

-

da

21

22 Ivi, p. 10.

24 W. Dilthey,

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-

immoto, nel quale la libertà perviene al suo supremo diritto, così come questo scopo ultimo ha il più alto diritto di fronte agli individui, il cui dovere supremo è di essere componenti dello

1.

enfatico, e ci si sforza di cogliere il concreto contenuto socio-politico del pensiero hegeliano

-

diritto di avere una proprietà, ecc.), e deve fare di tali diritti uno dei suoi momenti essenziali

e irrazionale).

in guardia contro l’errore di confonderlo con la società civile, ovvero di ‘schiacciarlo’ su di -

zialmente nella sicurezza e nella protezione della proprietà privata e della libertà personale, «allora

-cimento»2

stesso ha oggettività, verità ed eticità soltanto in quanto è un membro del medesimo. L’ -

.

la prosperità degli individui; che, quindi, l’interesse della famiglia e della società civile deve -

lere proprio della particolarità, che deve serbare il suo diritto»4.-

sociale), tutto e parti, l’Intero e gli individui che lo compongono con le loro autonome attività. Tutti questi elementi devono essere intimamente connessi e organicamente fusi, in modo tale che l’uno non possa prescindere dall’altro.

12. Logica, dialettica e storia in Hegel · LETTURE CRITICHE

1 2 . .

4 FD

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-to astratta, come una sorta di Dio terreno, che svaluta fortemente il ruolo degli individui. Lo

sostanza,

l’essenza universale degli individui, i quali vi stanno solamente come un che di accidentale.

.Questa non è certo una affermazione isolata. In realtà Hegel ha compiuto una vera e propria

elementi accidentali, che nulla hanno di autonomo da proporre o da rivendicare. «L’incedere

volontà»: ecco un’affermazione di Hegel divenuta celebre, ma nient’affatto eccezionale, poi-

-

tale) non ha propriamente storia; senza storia esistevano i popoli prima della formazione dello .

-lunque lettore delle sa che si tratta di un tema centrale,

un principio. La manifestazione più alta di un popolo è la sua costituzione politica, che non è affatto qualcosa di casuale o di arbitrario, ma è intimamente connessa con la religione, l’arte,

.-

di una concezione che fa perno sulla , sullo di un popolo. Questa sostanza spirituale, questo spirito, è, in ultima analisi, il «genio nazionale» di un popolo, dal

valore di verità: le forze spirituali, che vigono in un popolo e lo governano» .

FD

Hegel, F. Meinecke,

G.W.F. Hegel,

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12. Logica, dialettica e storia in Hegel · LETTURE CRITICHE

. In que-

quelli sono i suoi strumenti»10 -gi, l’individuo deve obbedire a quella costituzione e a quelle leggi: e in tale obbedienza egli ha la libertà.

Beninteso, sulla base di questi presupposti, quando Hegel parla di «costituzione» dello

nel senso anglosas-sone dell’espressione»11.

. «La costitu-

vita organica»12

popolo la costituzione che gli è adeguata e che è a lui conveniente.

10 .11

12 FD