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Lezione n. 1 In questa introduzione vorrei offrire una panoramica dei temi che affronteremo. Voglio disegnare una specie di mappa concettuale che mette in relazione tra loro i diversi contenuti, partendo dal titolo di questa materia di insegnamento: "politiche territoriali dei servizi sanitari e sociali". Ma prima ancora desidero rendere palese l'aspirazione che le politiche sanitarie e sociali migliorino rispetto ad ora, tramite appropriati processi democratici. Dovrebbero essere indenni dalla corruzione, oggi così diffusa. Ma dovrebbero essere anche meno inquinate da dogmi e parzialità, e diventare più sensibili alla necessità di adottare appropriati metodi decisionali che valorizzino ogni utile contributo. Non è un compito facile. La politica, infatti, deve confrontarsi contemporaneamente con giudizi di fatto e giudizi di valore. Nell'ambito dei processi democratici, si deve ricorrere al metodo scientifico, per supportare i giudizi di fatto, e alla "strategia dell'equilibrio riflessivo" , per giungere a un'intesa sui giudizi di valore. Dai giudizi di valore, in particolare, nascono le difficoltà della politica. Anche perché giudizi di valore diversi orientano le scelte su problemi e fatti diversi. E perfino quando si riesce a ragionare insieme sullo stesso problema, sono diversi gli aspetti problematici su cui i vari gruppi politici tendono a concentrare la loro attenzione, influenzati da differenti motivazioni. Perciò le varie posizioni sugli obbiettivi e i mezzi per raggiungerli risultano spesso inconciliabili tra loro. 1) Cosa si intende per politica? Desidero chiarire subito il significato che voglio attribuire al termine politica". Infatti, inizia tutto di qui. Assumo che la politica sia, insieme, l'arte e la scienza di costruire la "città", di creare le condizioni favorevoli per relazioni di pace e amicizia tra tutti i cittadini. Essa ha a che fare, quindi, con la capacità e volontà di tessere dei legami sociali. Intesa in questo senso la politica aspira al bene comune e presuppone che la prerogativa dell'essere umano consista nelle sue relazioni: in quelle che nel tempo hanno costruito la personalità dei singoli e continuano, poi, ad animarli nella vita di ogni giorno. La questione delicata, però, nel perseguimento del bene comune, è che questo può dividere. Sembra strano, ma quasi mai il bene comune corrisponde con le preferenze di ciascuno. Quando gli interessi di alcuni gruppi si trovano in conflitto, la politica dovrebbe schierarsi a favore dei più deboli, di chi ha meno autonomia, minori possibilità di fare sentire la propria voce ed esprimere le proprie ragioni. Questa presa di posizione, che muove da una concezione personalistica dell'essere umano e, nel contempo, da una concezione di potere intimamente legata al servizio, non è l'unica possibile. Ci sono, infatti, diverse teorie della giustizia che si esprimono in modo differente sull'idea di politica. Ma l'approccio che qui proponiamo assume un significato particolare, soprattutto per i servizi sanitari e sociali. Questi, infatti, tradizionalmente si occupano di persone che, in momenti delicati della loro esistenza, vengono a trovarsi in condizioni di bisogno e necessitano, perciò, di essere aiutati. Esula, quindi, dalla nostra idea di politica l'arte di acquisire, mantenere ed espandere il potere a favore di se stessi e della propria parte, poiché questa idea ci sembra, piuttosto, la sua degenerazione: ciò che la politica può finire per diventare in circostanze avverse, in climi di sfiducia e conflitto . Parleremo, quindi, dei modi di costruire la città per la realizzazione del bene comune, focalizzando il nostro interesse sui problemi sanitari e sociali. Incominceremo con un problema prioritario: quello delle disuguaglianze nelle nostre società, per le conseguenze che esercita sul benessere sanitario e sociale. Accenneremo, poi, a una questione

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Lezione n. 1 In questa introduzione vorrei offrire una panoramica dei temi che affronteremo. Voglio disegnare una specie di mappa concettuale che mette in relazione tra loro i diversi contenuti, partendo dal titolo di questa materia di insegnamento: "politiche territoriali dei servizi sanitari e sociali". Ma prima ancora desidero rendere palese l'aspirazione che le politiche sanitarie e sociali migliorino rispetto ad ora, tramite appropriati processi democratici. Dovrebbero essere indenni dalla corruzione, oggi così diffusa. Ma dovrebbero essere anche meno inquinate da dogmi e parzialità, e diventare più sensibili alla necessità di adottare appropriati metodi decisionali che valorizzino ogni utile contributo. Non è un compito facile. La politica, infatti, deve confrontarsi contemporaneamente con giudizi di fatto e giudizi di valore. Nell'ambito dei processi democratici, si deve ricorrere al metodo scientifico, per supportare i giudizi di fatto, e alla "strategia dell'equilibrio riflessivo" , per giungere a un'intesa sui giudizi di valore. Dai giudizi di valore, in particolare, nascono le difficoltà della politica. Anche perché giudizi di valore diversi orientano le scelte su problemi e fatti diversi. E perfino quando si riesce a ragionare insieme sullo stesso problema, sono diversi gli aspetti problematici su cui i vari gruppi politici tendono a concentrare la loro attenzione, influenzati da differenti motivazioni. Perciò le varie posizioni sugli obbiettivi e i mezzi per raggiungerli risultano spesso inconciliabili tra loro. 1) Cosa si intende per politica? Desidero chiarire subito il significato che voglio attribuire al termine politica". Infatti, inizia tutto di qui. Assumo che la politica sia, insieme, l'arte e la scienza di costruire la "città", di creare le condizioni favorevoli per relazioni di pace e amicizia tra tutti i cittadini. Essa ha a che fare, quindi, con la capacità e volontà di tessere dei legami sociali. Intesa in questo senso la politica aspira al bene comune e presuppone che la prerogativa dell'essere umano consista nelle sue relazioni: in quelle che nel tempo hanno costruito la personalità dei singoli e continuano, poi, ad animarli nella vita di ogni giorno. La questione delicata, però, nel perseguimento del bene comune, è che questo può dividere. Sembra strano, ma quasi mai il bene comune corrisponde con le preferenze di ciascuno. Quando gli interessi di alcuni gruppi si trovano in conflitto, la politica dovrebbe schierarsi a favore dei più deboli, di chi ha meno autonomia, minori possibilità di fare sentire la propria voce ed esprimere le proprie ragioni. Questa presa di posizione, che muove da una concezione personalistica dell'essere umano e, nel contempo, da una concezione di potere intimamente legata al servizio, non è l'unica possibile. Ci sono, infatti, diverse teorie della giustizia che si esprimono in modo differente sull'idea di politica. Ma l'approccio che qui proponiamo assume un significato particolare, soprattutto per i servizi sanitari e sociali. Questi, infatti, tradizionalmente si occupano di persone che, in momenti delicati della loro esistenza, vengono a trovarsi in condizioni di bisogno e necessitano, perciò, di essere aiutati. Esula, quindi, dalla nostra idea di politica l'arte di acquisire, mantenere ed espandere il potere a favore di se stessi e della propria parte, poiché questa idea ci sembra, piuttosto, la sua degenerazione: ciò che la politica può finire per diventare in circostanze avverse, in climi di sfiducia e conflitto . Parleremo, quindi, dei modi di costruire la città per la realizzazione del bene comune, focalizzando il nostro interesse sui problemi sanitari e sociali. Incominceremo con un problema prioritario: quello delle disuguaglianze nelle nostre società, per le conseguenze che esercita sul benessere sanitario e sociale. Accenneremo, poi, a una questione

cruciale e molto attuale, quella dell'universalità e gratuità dei servizi sanitari poiché queste caratteristiche così importanti corrono il rischio di non poter essere più mantenute nel prossimo futuro. Cercheremo di applicare, in risposta a problemi come questo, principi diversi delle differenti teorie della giustizia, per ragionare su quelli che ci sembrano più convincenti. Dovremo, infatti, arrivare ad esprimere dei giudizi ben ponderati, capaci di tener conto sia dei fatti che dei valori in campo, mediando armonicamente, nelle nostre decisioni, tra la pressione esercitata dagli uni e dagli altri. 2) Qual è la priorità di cui occuparsi? Dopo aver riflettuto sul modo di esercitare l'arte della politica e sui principi che devono orientare il suo agire, ragioneremo su ciò di cui deve occuparsi prioritariamente la politica sanitaria e sociale. Oggi esiste un problema gravissimo da affrontare con la massima urgenza. E' il problema della disuguaglianza. Di questo problema tratta il libro di Wilkinson e Pickett intitolato "La misura dell'anima". La disuguaglianza ha impatti tremendi sia sul benessere sanitario che su quello sociale. La priorità della disuguaglianza non è dovuta solo a un ideale di giustizia che potrebbe scuotere più o meno fortemente le nostre coscienze. I giudizi di valore relativi al suo grado di gravità, infatti, potrebbero differire grandemente, a seconda delle diverse esperienze di vita e degli orientamenti politici di ciascuno di noi. Qualcuno, inoltre, potrebbe obbiettare, in modo sostanzialmente corretto, che anche un eccessivo egualitarismo potrebbe essere ingiusto, al pari di un'eccessiva disuguaglianza. La priorità del problema delle disuguaglianze, almeno nelle sue forme più vistose, si impone, invece, alla luce di ciò che oggi sappiamo relativamente ai suoi impatti e all'efficacia ed efficienza dei rimedi che possiamo adottare. Le priorità, infatti, non sono solo definite dalla gravità e dalla frequenza dei diversi problemi, ma anche dall'efficacia ed efficienza delle soluzioni possibili. Impareremo a parlare del rapporto tra costi e utilità, misurato, da una parte, calcolando i costi sostenuti per realizzare gli interventi possibili di politica sanitaria e sociale e, dall’altra, calcolando le utilità, in base agli esiti di benessere ottenuti. Tanto più favorevole è il rapporto tra costi e utilità, tanto più opportuno diventa l'intervento. Se il problema della disuguaglianza e dei suoi impatti negativi fosse insolubile, la politica potrebbe trascurarlo. Non potrebbe certo essere prioritario. Diventerebbe, se mai, un problema di competenza della ricerca. Oggi, invece, i dati scientifici dimostrano con evidenza che siamo di fronte a una nuova era per la politica e l'economia dei Paesi più industrializzati, come il nostro. Il contenimento delle sperequazioni realizzato, ad esempio, in Paesi come la Svezia o il Giappone, procura un netto vantaggio nel benessere dei loro cittadini. Altri Paesi come gli Stati Uniti pagano, invece, un enorme sacrificio di vite umane e salute a causa delle forti sperequazioni che hanno accumulato negli anni. La conoscenza disponibile ci raccomanda di cambiare la direzione dell'impegno economico e politico per arrivare a società meno sperequate e, di conseguenza, gravate da una minore mole di problemi sanitari e sociali. Non dobbiamo più investire sul progressivo incremento del Pil, ma sull'attenuazione delle scandalose differenze di reddito che riguardano i vari cittadini. Anche perché le eccessive disuguaglianze non danneggiano esclusivamente i gruppi sociali più svantaggiati all'interno di un Paese, ma fanno male all'intera società nel suo complesso, inclusi i più ricchi. Le eccessive disuguaglianze comportano per tutti un aumento della mortalità, dei disturbi mentali, dell'ansia, dello stress, delle tossicodipendenze, della violenza e criminalità. 3) Come agiscono le disuguaglianze?

Dovremmo, a questo punto, chiederci attraverso quali vie le disuguaglianze diventano causa di un così gran numero di problemi sanitari e sociali. Attraverso il ricorso a nuovi approcci di studio basati sui "corsi di vita" si è potuto constatare che il destino delle singole persone, le traiettorie esistenziali delle loro vite e gli eventi correlati con la salute sono per larga parte pre-determinati, fin dal momento del concepimento, dalla posizione sociale occupata dai loro genitori. Le eccessive sperequazioni sociali non vanno rimosse esclusivamente perché sono disfunzionali per le società nel loro complesso, ma anche perché sono profondamente ingiuste, dal momento che predeterminano in larga parte il destino delle persone e impediscono, in un certo senso, che tutti gli uomini nascano liberi e uguali in dignità e diritti. Al di là dei meccanismi profondi di ordine fisio-patologico che interessano il sistema endocrino e quello immunitario, vedremo che le disuguaglianze generano risentimento, ostilità, sfiducia. Sfilacciano la rete delle relazioni sociali. La rete delle relazioni sociali oggi è considerata così importante, per i problemi di benessere, che si impone lo studio della sua struttura e di alcuni semplici metodi quantitativi per analizzarla e comprenderne meglio le potenzialità. La rete delle relazioni nell'ambito sanitario e sociale entra, infatti, con un duplice ruolo: può sia diventare un fattore di suscettibilità alle malattie che un fattore cruciale per un'appropriata assistenza e riabilitazione dei malati. 4) Di quale prevenzione deve occuparsi la sanità pubblica? Se il problema politico prioritario è diventato quello delle disuguaglianze, allora le politiche sanitarie e sociali dovranno occuparsi finalmente della vera prevenzione. Lo faranno smettendo di perpetuare l'errore ormai inveterato di medicalizzare dei problemi che sono esclusivamente sociali. Serve a poco insegnare ad essere più assennati nei propri stili di vita. Non è quasi mai vero che sapere che qualcosa fa male può, di per sé, indurre a cambiare i comportamenti dannosi. E' raro che un fumatore smetta di fumare solo perché viene a sapere che il fumo è nocivo. La strategia di prevenzione individuale, basata sugli interventi rivolti alle persone esposte ad "alti rischi", finalizzata a far assumere farmaci "protettivi" o a cambiare i loro stili di vita, si è rivelata, oltre che poco efficace, inutilmente costosa. E' irrealistico pensare che i più poveri, in particolare, possano continuare a vivere nelle stesse condizioni di prima, ma senza più soccombere di fronte ai disturbi mentali, alle gravidanze adolescenziali, agli insuccessi scolastici, all'alcolismo, alle tossicodipendenze e all'obesità semplicemente per il fatto che sono stati informati della possibilità di adottare abitudini personali più salutari. Servono strategie di prevenzione rivolte alla totalità della popolazione e, ancora prima, interventi che, diminuendo le sperequazioni, promuovano una maggiore autonomia e un maggior controllo sulla propria vita da parte di tutti. Il nuovo welfare che ci attendiamo non dovrà basarsi, come ora, soprattutto su strategie riparative, ma contribuire a creare le condizioni sociali, economiche e culturali favorevoli alla salute di tutti. La salute dipende soprattutto dai modi in cui si nasce, si cresce, si vive, si studia, si lavora e si invecchia. Ci sarà ancora bisogno di servizi volti a diagnosi, cura, riabilitazione e palliazione perché le malattie e le disabilità non potranno mai scomparire, ma la leva dell'impegno dovrà essere rappresentata eminentemente dalla prevenzione, per recuperare in parte il tempo perduto. 5) A che disciplina scientifica riferirsi? Delineare politiche sanitarie e sociali di questo tipo e applicarle alla popolazione nel suo insieme comporta il ricorso alla disciplina fondamentale della sanità pubblica: l'epidemiologia. Così come la medicina clinica si interessa dei problemi del singolo malato, l'epidemiologia si interessa, invece, dei problemi di salute della popolazione.

Essa viene definita come la scienza che studia la frequenza e la distribuzione dei fenomeni correlati con la salute nelle popolazioni e analizza i fattori di rischio che influenzano tali frequenze e distribuzioni. Accenneremo alle unità di misura fondamentali (i tassi di incidenza e di prevalenza) che utilizza l'epidemiologia per definire le priorità, prevenire le malattie, pianificare i suoi interventi e valutare il raggiungimento dei risultati previsti. Soprattutto, in riferimento ai nuovi sviluppi nel campo della epidemiologia delle malattie croniche, faremo cenno a suoi approcci di studio estremamente promettenti, quelli basati su studi longitudinali che seguono con misure ripetute le singole persone di un campione nel corso di un'intera esistenza. Nell'ambito delle malattie croniche, l'interesse non può più essere concentrato su ciò che accade in un determinato momento storico. Le malattie croniche sono, infatti, influenzate da fattori che agiscono fin dalle fasi della vita embrionale. Si parla di approcci di studio basati sul "corso della vita" (life-course approach) per distinguerli da altri studi longitudinali più limitati nel tempo e dagli studi trasversali che si riducono ad osservare le situazioni in un determinato momento e non tengono conto dei cambiamenti avvenuti nel tempo. 6) Idee più ricche per politiche più innovative Insomma, le politiche territoriali che vogliamo proporre devono essere innovative per tanti versi. Richiedono profondi mutamenti culturali che si scontrano con le idee più tradizionali e con potenti interessi precostituiti. Bisogna arrivare a una diversa consapevolezza e costruire in noi stessi e nelle nuove generazioni delle coscienze più mature. Non solo per quel che riguarda la prevenzione, ma anche per quel che riguarda i servizi abbiamo bisogno di ricorrere a nuove idee, più ricche di quelle tradizionali. Dibatteremo di questa necessità avvalendoci di alcune testimonianze di persone che hanno profonde competenze e/o responsabilità in alcuni servizi della nostra provincia. Ragioneremo, così, sulle questioni più critiche relative ai diversi servizi e sulla necessità di nuovi riferimenti culturali per le istituzioni, gli operatori e i cittadini. Si tratta di un programma impegnativo, oltre che innovativo. Faremo del nostro meglio. E' essenziale il vostro contributo per renderlo stimolante. Vi invito a non fare mancare i vostri apporti e a esprimere liberamente i vostri commenti o qualsiasi richiesta di delucidazioni. Lezione 2'

L'articolo del professor Garattini (allegato 1) ci offre degli spunti interessanti. La questione di una diversa conoscenza si pone perché, come sosteneva Einstein, non si possono risolvere i problemi restando ancorati alla stessa conoscenza che li ha generati. E aggiungeva, poi, che è folle continuare a ripetere le stesse cose e sperare di ottenere dei risultati diversi. Dobbiamo, perciò, elevarci a un grado di conoscenza più profonda e, sulla base di questa, cambiare le nostre strategie politiche.

Le nuove politiche devono essere, allora, in relazione: - con nuovi e/o altri saperi; - con un diverso sentire; - con saperi legati a un diverso sentire. Nuovi saperi

Garattini ci mette in guardia dalle false novità. Le mode, in particolare in campo medico, non sono degli sviluppi casuali. Sono create ad arte sulla base dell'interesse di gruppi particolarmente forti che hanno il potere di forgiarle a proprio vantaggio. Questi fatti non possono essere ignorati. Le politiche sanitarie, per essere incisive e riuscire a migliorare la salute della popolazione, devono scaturire dalla consapevolezza degli interessi in gioco. Questi devono essere lucidamente analizzati nella loro diffusione e nella loro forza di attrazione. Esiste, infatti, una rete estesissima e intricata di interessi che confliggono con quelli dei pazienti e degli Stati che finanziano i servizi sanitari nazionali. L'interesse degli Stati è adottare gli interventi che procurano maggiori guadagni di salute, a parità di costi. L' interesse dell'industria della salute è adottare gli interventi che procurano un maggior margine di profitto, indipendentemente dal beneficio che arrecano. Non è che la politica in sanità debba necessariamente lottare contro gli interessi dell'industria o delle cliniche private o dell'uno o l'altro specialista. Non è questa la finalità della politica. Essa deve, però, privilegiare, in prima istanza, gli interessi dei cittadini e dei malati. In subordine, gli interessi degli altri attori possono essere, in tutto o in parte, soddisfatti, a patto di contenerne avidità e prepotenza. Esempi di false novità in ambito farmacologico a) I servizi sanitari nazionali (SSN) non dovrebbero dimostrare alcun interesse per l'uso di nuovi farmaci che abbiano come unica prerogativa l'efficacia e la sicurezza. Il SSN potrebbe pretendere qualcosa di più. Ciò che, infatti, dovrebbe importare praticamente è sapere in quale misura il nuovo farmaco (ma il concetto potrebbe essere esteso a qualsiasi nuovo "intervento") ha un rapporto favorevole tra costo ed efficacia e in che misura funziona meglio rispetto a quanto è già presente sul mercato. Se il nuovo non apportasse nessun vantaggio rispetto a ciò che già esiste, non dovrebbe esserci alcuna ragione per mettere in commercio e utilizzare un nuovo prodotto da parte del SSN. Si procurerebbe solo lo svantaggio di aumentare i rischi connessi con prodotti meno collaudati oltre che di incrementare i costi, così come quasi sempre avviene per i nuovi farmaci. b) I SSN dovrebbero pretendere la pubblicazione dei risultati di tutti gli studi compiuti, in quanto contribuiscono a migliorare la conoscenza scientifica. Non esistono studi "negativi" o "positivi", ma solo risultati, tutti egualmente utili al progresso della scienza. Purtroppo, invece, gli studi con risultati "negativi" non vengono pubblicati , salvo poi essere ripresi e manipolati per arrivare a dimostrare qualcosa di diverso rispetto alle intenzioni iniziali, comunque in grado di far vendere e realizzare utili. Se, ad esempio, non si riesce a dimostrare che il nuovo farmaco anti-tumorale A è in grado di aumentare la sopravvivenza e la qualità della vita rispetto al vecchio farmaco B, si cerca di cambiare le carte in tavola. Lo studio viene ripreso e si cambia l'ipotesi che vuole essere confermata. Si escogita, allora, di mettere invece in evidenza la proprietà del nuovo farmaco di ridurre le dimensioni del tumore in misura maggiore rispetto al farmaco B. Ma ciò che interessa veramente è ridurre la dimensione del tumore o aumentare la sopravvivenza e la qualità della vita? A proposito, sempre, di nuovi o altri saperi, ci sono anche saperi "contro-corrente" che conducono a una tecnologia semplice, a basso costo, non guidata dal profitto, ma dai problemi della gente e dai benefici di salute. Sono quei saperi che ci aprono gli occhi, che non ingannano con promesse irrealizzabili, non creano falsi bisogni, né ingigantiscono quelli esistenti. Sono saperi che talvolta abbattono falsi miti come quello dei check-up e degli screening.

Hanno a cuore la sostenibilità, la sobrietà. Adottano una prospettiva sistemica e si concentrano sulle priorità della storia umana. Sono attenti agli effetti complessivi delle loro applicazioni nel tentativo di creare meno problemi di quanti ne risolvano. Potremmo chiederci come essi possano avere queste prerogative così preziose e diverse dai saperi più tradizionali? Principalmente perché, oltre ad essere alimentati dai fatti, ossia da una base empirica, come tutti gli altri saperi, testimoniano in modo armonico, senza assolutizzarne nessuno, i valori che molti proclamano ma pochi praticano: quelli di giustizia, libertà e solidarietà. E' il caso, ad esempio, dei saperi connessi con la ricerca sui servizi sanitari. Ricerca sui servizi sanitari Ci sono saperi che nascono sia dalla volontà di capire ciò che si sta facendo che da quella di valutare i risultati dei servizi sanitari. Sono connessi col desiderio di consentire alle organizzazioni sanitarie di apprendere costantemente dal proprio lavoro, al fine di revisionarlo e migliorarlo. Uno dei tanti esempi può essere dato dal grafico che appare in fondo alla pagina del nostro esercizio. I ricercatori si sono interrogati su quale sia la relazione tra la spesa pro-capite investita nei servizi sanitari e la longevità media della popolazione in diversi Stati. La risposta ottenuta dall'analisi dei dati è che questa relazione, se esiste, è molto debole. La salute, di cui la longevità è un indicatore abbastanza accurato, dipende, quindi, da molti altri fattori. Se facciamo riferimento al cosiddetto modello bio-psico-sociale della salute, possiamo renderci conto della molteplicità dei fattori in gioco. Per quale motivo, allora, continuiamo a medicalizzare, all'interno dei servizi sanitari, dei problemi di salute che sono, viceversa, eminentemente sociali nella loro natura? Non sarà perché gli interessi in gioco ci impediscono di vedere i problemi per come sono nella realtà concreta dei fatti? Non sarà perché la professione medica è così estesamente rappresentata nei vari parlamenti e ha difficoltà a spaziare al di fuori dell'ambito delle sue discipline? Forse diventare consapevoli di queste distorsioni e tenerne conto per cambiare le nostre strategie politiche equivale a raggiungere una conoscenza di tipo diverso. Non potrebbe essere questa la scoperta, ovvero il livello di conoscenza più profondo di cui parla Einstein, da cui partire per affrontare in modo nuovo il problema della sostenibilità dei servizi sanitari? Nuovi modi di sentire Quanto è coinvolta la politica di fronte ai problemi della salute, della sofferenza e della malattia? A Bruxelles ci sono circa 2000 organizzazioni lobbistiche che hanno sede nei palazzi vicini al parlamento, con lo scopo principale di sostenere gli interessi dell'una o dell'altra industria presso i rappresentanti politici degli Stati europei. A Washington ce ne sono anche di più, a loro volta impegnate a promuovere gli interessi delle principali aziende degli Stati Uniti. Come fanno, allora, i parlamentari a non mettersi nei panni dell'industria e a rivestire, invece, i panni delle persone malate e di chi sta peggio? Che grado di empatia hanno sviluppato nei confronti dei più deboli e indifesi per resistere alle pressioni lobbistiche e alle seduzioni dei gruppi di interesse? Esistono altrettante "lobby" in grado di spingere in una direzione differente, verso gli interessi della popolazione nel suo insieme? L'arrendevolezza che spesso constatiamo nei nostri rappresentanti politici forse è semplicemente dovuta al cedimento di fronte a forze troppo impari rispetto alla loro capacità di resistenza. In alternativa, potrebbe essere plausibile anche un'altra spiegazione. Lo schierarsi a favore degli interessi dell'industria non dipende tanto dalle pressioni lobbistiche o dai propri interessi egoistici, ma dalla convinzione radicata che, avvantaggiando le industrie

e promuovendo,così, la crescita economica, tutti possano finire per avere un loro tornaconto. Si suole ripetere che succede lo stesso con l'alta marea, quando l'innalzamento del livello del mare fa sollevare e galleggiare sull'acqua anche le barche che si erano prima impantanate nel fango. Si tratta, evidentemente, di una metafora che vuole illustrare un "paradigma" sbagliato, ossia una di quelle "verità" date per scontate che, in modo quasi inconsapevole, influenzano le nostre decisioni, nonostante una messe enorme di fatti dimostri ogni giorno la verità del contrario. Dagli anni 80 in poi, infatti, nei Paesi industrializzati, la linea che segna l'andamento della qualità della vita ha assunto un andamento divergente rispetto a quella che marca la crescita della produzione e del consumo. Da allora in poi la gente ha cominciato a star peggio. Tanto più in questi ultimi anni, dopo che l'economia è entrata in recessione in Europa e, in particolare, nel nostro Paese.

Per resistere, allora, alle pressioni delle lobby e ai paradigmi della cultura dominante c'è bisogno di essere ispirati da un diverso sentire. Dobbiamo guardare dentro di noi, alla nostra storia evolutiva, alle scoperte delle neuroscienze e, sulla base di una nuova consapevolezza, riconoscere che l'essenza costitutiva degli uomini e delle donne di tutti i tempi è la relazione. A incominciare dalle interazioni delle particelle sub-atomiche e poi degli atomi tra loro, che si combinano per costruire le molecole, e delle molecole per creare unità sub-cellulari, fino ai tessuti, agli organi, alle persone, le famiglie, le comunità, gli Stati, gli ecosistemi.... Tutto ciò che è al mondo è il risultato di una relazione. Perciò abbiamo la responsabilità straordinaria di rendere armoniche, "generative" queste relazioni, se vogliamo migliorare noi stessi e tutto ciò che ci attornia. Dobbiamo voler bene al mondo. Quando la relazione è armonica, i nostri rapporti sono improntati all'amicizia, alla giustizia, alla sincerità, alla compassione, all'onestà. Tutte le volte che proviamo questi sentimenti, per ogni cosa che facciamo, tendiamo a immettere armonia in ciascun nodo della rete di relazioni di cui siamo parte. Finiamo per sentirci emotivamente coinvolti, nel flusso della storia, col divenire del mondo. Anche la sanità ha bisogno di questa ispirazione per contribuire a migliorare la salute di tutti.

Lezione 3- 4-5 La scorsa volta, dopo aver ricordato ciò che la politica dovrebbe significare per noi, abbiamo commentato insieme un articolo del professor Garattini. La politica dovrebbe alimentarsi di nuovi saperi e essere ispirata da un diverso modo di sentire. A questo proposito, dovremmo tutti diventare consapevoli del legame che ci unisce. Perché l'essenza costitutiva dell'essere umano, ma anche di tutto ciò che esiste al mondo, è la relazione. A incominciare dalla relazione degli atomi tra di loro, delle molecole e delle particelle subcellulari fino agli organismi, alle famiglie, alle comunità, alle nazioni e agli ecosistemi. Non si tratta tanto di nostre intime convinzioni, ma del portato di scoperte scientifiche. Ad esempio, la teoria dell'evoluzione spiega la comparsa dell'homo sapiens a partire dalle interazioni dei costituenti elementari di una cellula primordiale (cellula LUCA). E, volendo arrivare alle prerogative più squisitamente umane e alle capacità intellettive, oggi le neuroscienze dimostrano che la nostra mente è una proprietà emergente che nasce dalle relazioni tra il cervello, l'ambiente esterno e le altre parti del corpo. Se è la relazione a costruirci a poco a poco per quello che siamo, la qualità del nostro essere al mondo dipende, in gran parte, dalla qualità delle relazioni che ci hanno in qualche modo riguardato. Un nuovo sentire, allora, dovrebbe discendere da questa

consapevolezza. Dovrebbe motivare la volontà di contribuire a migliorare noi stessi e il mondo, migliorando le relazioni che lo costruiscono, a incominciare da quelle cui partecipiamo e che dipendono anche da noi. Si tratta di prestare attenzione alla cura, al rispetto, all'ascolto... Nella lezione di oggi vedremo come questo nuovo modo di sentire rappresenti il terreno favorevole su cui sviluppare le nostre decisioni e attività per poter raggiungere gradi superiori di certezza e accordo. E' un atteggiamento di fondo che sta alla base delle cosiddette condizioni discorsive ideali di cui ci parla Habermas. Condizioni che dovrebbero fecondare i nostri dibattiti anche su argomenti difficili, caratterizzati da posizioni di partenza contrastanti. Dicevamo, ad esempio, che la politica dovrebbe aspirare al "bene comune". Non dovrebbe perseguire un bene comune predefinito, ma aspirare a costruire insieme e condividere una visione di bene comune. Si tratta, comunque, di qualcosa che è difficile definire e perseguire concretamente. Infatti, il bene comune, paradossalmente, è qualcosa che divide. Non corrisponde quasi mai con le preferenze e gli interessi di ciascuno. Chi sacrificare, allora, e perché? Come arrivare a delle decisioni politicamente difendibili sul piano logico ed etico? Di qui a 3 anni saranno disponibili, per la sanità, 30 miliardi in meno. Il rettore della nostra università giovedì scorso ha segnalato un sottofinanziamento di 15 milioni di euro rispetto alla media nazionale: viene in parte violato il diritto allo studio nelle giovani generazioni... Cosa fare, come reagire di fronte a questi vincoli? Per rispondere a queste domande è utile riferirsi alla cosiddetta matrice di Stacey che ci permette di riflettere sul grado di complessità dei problemi da affrontare e sulla possibilità di raggiungere, insieme con altri, più elevati gradi di certezza e accordo su ciò che bisogna decidere e fare. La definizione di politiche sanitarie e sociali relative alle più diverse problematiche implica che siano coinvolti nelle decisioni molteplici attori, ciascuno con la propria storia, cultura, il proprio linguaggio, il proprio ruolo. Non si tratterà mai di decisioni prese una volta per tutte, ma di processi decisionali che evolvono e si perfezionano nel tempo, man mano cresce il grado di certezza e accordo tra i partecipanti. Occorre dibattere insieme per comprendere meglio la natura del problema e accordarsi sui modi di affrontarlo e gestirlo. Di fronte a problemi complessi, come quello della disuguaglianza cui accennavamo la scorsa volta, non sarà possibile trovare delle risposte risolutive, ma si potranno reperire modalità adatte per contenerli e gestirli. Per realizzare dei cambiamenti migliorativi non ci si può accontentare di adesioni formali da parte dei diversi attori. Occorrono, viceversa, delle ragioni convincenti per superare eventuali resistenze e ottenere adesioni sincere. Incominciamo con l'illustrazione della matrice di Stacey.

Figura 1.2

Il diagramma “certezza-accordo”.

CERTEZZA

alta ACCORDO

bassa

alto basso

Area del

Caos

Area della

semplicità

OBBIETTIVI

INTERVENTI

cambiamenti

PROBLEMA

cambiamenti

Area

della

complessità

Il diagramma "certezza-accordo" ci permette, prima di tutto, di inquadrare i diversi problemi in cui ci imbattiamo. Per scegliere il posto in cui collocare, nel diagramma, il problema alla nostra attenzione, dobbiamo distinguere la zona della complessità dalla zona del caos e da quella della semplicità. La zona della complessità richiede dei comportamenti di "adattamento". Essa ospita problemi in cui il grado di accordo e di certezza è insufficiente a rendere ovvi i passi successivi per un'appropriata gestione del problema in esame, ma, nello stesso tempo, non è talmente basso da rendere plausibile ogni decisione e far precipitare la situazione nel caos. La zona della complessità non implica la possibilità di strategie predefinite, ma confida nella definizione di strategie passo-passo che si definiscono durante il cammino percorso insieme. La figura include lo schema decisionale della teoria della direzione dei servizi sanitari per farci comprendere come l'incertezza e il disaccordo possono riguardare sia l'esame del problema che la definizione degli obbiettivi da raggiungere e dei mezzi adatti da impiegare. Nei processi politici assume una delicatezza particolare l'esame della natura del problema e dei suoi aspetti più critici, cui sono legati, poi, gli obbiettivi da perseguire e i mezzi da impiegare. Occorre, infatti, evitare di accapigliarsi sulle soluzioni prima di aver ben compreso il problema nella sua essenza.

Diversi dubbi potrebbero anche sussistere riguardo a una serie di cambiamenti capaci, nel tempo, di influenzare il problema nella sua evoluzione. La complessità di questi processi deriva dal fatto che i giudizi sono molto influenzati dalla soggettività di ciascuno e perturbati dalla ricorsività. Le tappe illustrate nello schema non sono, infatti, sequenziali, ma ricorsive. Si sa che per decidere su una situazione ritenuta problematica occorre definire degli obbiettivi da raggiungere e degli interventi capaci di ottenere i risultati desiderati. Si tratta del classico metodo decisionale dei fini e dei mezzi. In realtà, però, la questione problematica può essere concepita in modi diversi a seconda dei valori e della finalità che ispirano i singoli attori e del grado di esperienza e confidenza che ciascuno ha maturato con le diverse tipologie di interventi possibili. In più, i cambiamenti che avvengono, nel tempo, nel contesto di riferimento, modificano continuamente il problema e i suoi aspetti più critici. Per tutti questi motivi il processo assume, in realtà, un andamento ricorsivo che può provocare stanchezza e confusione. La zona della semplicità, invece, è tipicamente quella delle soluzioni predefinite, per problemi su cui esiste un buon grado di certezza e accordo. In questa area, si può, quindi, pianificare e controllare con un certo agio. Si possono citare, ad esempio, i vari protocolli per interventi chirurgici di routine. In questi casi il sistema non ha bisogno di far emergere nuovi comportamenti, ma di adottare soluzioni efficaci, eque ed efficienti, ormai universalmente assodate, su cui si è raggiunto un elevato livello di competenza. Le questioni relative alle malattie croniche, così come quelle relative alla disuguaglianza, occupano, invece, la zona della complessità, fino ai bordi del caos. Occorre riconoscerle nella loro natura, contrastando la tentazione di banalizzarle, che scaturisce dal desiderio molto umano di una maggiore sicurezza, ma conduce inevitabilmente a soluzioni inefficaci e di breve respiro. Occorre anche evitare, all'altro estremo, di essere sopraffatti dalla stanchezza e cadere nel caos, senza tentare di raggiungere tutte le intese possibili. Condizioni discorsive ideali e relazioni generative Di fronte a problemi complessi, la via più promettente, per non precipitare nel disaccordo e nell'incertezza, è quella di costruire delle "condizioni discorsive ideali" in grado di far emergere decisioni ed azioni appropriate alle circostanze. Sono queste particolari condizioni che consentono l'arricchimento reciproco di tutti i partecipanti al dibattito. Le relazioni sono generative perché generano in ciascuno un supplemento di comprensione e sensibilità. L'antidoto migliore per evitare i rischi opposti della semplificazione e del caos è quello di dibattere con metodo sul problema da affrontare, senza annullare necessariamente qualsiasi ambiguità, senza pretendere di risolvere tutte le contraddizioni o strappare un accordo ad ogni costo. Il nostro istinto, basato su un pensiero riduzionistico, sarebbe invece quello di muoversi forzatamente verso la zona della semplicità, cara al fanatismo dei tecnocrati e a quello dei dogmatici. Per evitare questa trappola vanno create le circostanze che, secondo Habermas, possono essere qualificate come "discorsive ideali", ossia dotate delle seguenti caratteristiche: - è accordata a tutti i partecipanti al dibattito la stessa possibilità di prendere la parola (ciò è segno di accoglienza e rispetto reciproci);

- sono assenti distorsioni comunicative intenzionali (per questo è dannosa la presenza ai tavoli decisionali di persone portatrici di evidenti conflitti di interesse perché, a priori, non sono interessate alla verità, ma a confondere la realtà o occultarla); - vige l'impegno a raggiungere gradi superiori di certezza e accordo tramite argomentazioni critiche, con caratteristiche di comprensibilità, sincerità (l'intenzione di dire ciò che ci sembra vero) e veridicità (l'impegno di ricercare e affermare la verità). A proposito di veridicità, l'aspirazione è duplice. Si intende, infatti: a) rappresentare in modo veritiero la realtà, nei suoi aspetti quantitativi e qualitativi, secondo i dettami della scienza, per arrivare ad appropriati giudizi di fatto; b) assegnare un valore appropriato ai vari aspetti di ciò che è reale, secondo i dettami della coscienza, per arrivare a giudizi di valore ben ponderati. E, sulla base di questi, definire le implicazioni dei giudizi di fatto, ossia decidere su cosa valga la pena di concentrare il proprio impegno e perché farlo. La veridicità, per i giudizi di fatto, non può che tener conto di un fondamento empirico. Per i giudizi di valore, invece, la veridicità dovrebbe fondarsi su una base ermeneutica e, più precisamente, sulla strategia del cosiddetto "equilibrio riflessivo". Si tratta di una strategia intellettuale, su cui ci soffermeremo più avanti, volta a mediare tra la pressione dei fatti e quella dei valori, dal momento che giudizi di fatto e giudizi di valore si influenzano a vicenda. L'esempio seguente può spiegarlo. Se il fenomeno della dipendenza da gioco d'azzardo risulta, nei fatti, frequente e miete molte vittime, la mia inquietudine per il problema tende ad essere più acuta, e il mio giudizio di valore, riguardo a chi specula su queste debolezze umane, diventa più severo. Quindi, i giudizi di fatto, in questo caso, influenzano i giudizi di valore. D'altra parte, nel caso in cui fossi stato colpito personalmente dal dramma del gioco d'azzardo (ad esempio, avessi avuto il padre giocatore che ha sperperato i beni di famiglia) e avessi così sviluppato una forte avversione contro di esso, sarei portato a scovare e mettere in luce il fenomeno anche in situazioni che non rivestono un carattere francamente patologico. In un caso come questo, il mio iniziale giudizio di valore condiziona la percezione della realtà in cui sono immerso e i miei giudizi di fatto. Qual è la metodologia adatta per proporre argomentazioni critiche in grado di condurci a gradi superiori di certezza e accordo? Una risposta un po' schematica potrebbe tener distinti tra loro i giudizi di fatto e i giudizi di valore. Per i giudizi di fatto potremmo indicare il metodo scientifico come quello più adatto; per i giudizi di valore ci si potrebbe rifare alla cosiddetta strategia dell'equilibrio riflessivo. Attraverso il ricorso a questi 2 metodi, quindi, potremmo arrivare a una migliore comprensione di problemi che hanno attirato la nostra attenzione. Poi, al di là degli schematismi, ci renderemo conto che i giudizi di fatto sono inestricabilmente intrecciati con quelli di valore e viceversa. Non esiste, infatti, una qualsiasi osservazione della realtà che possa qualificarsi come "pura", così come sosteneva Popper. L'osservazione, per essere tale, ha bisogno di un punto di vista, di un oggetto determinato, di uno scopo preciso, di una motivazione,di un certo inquadramento del problema di interesse... Perciò i fatti non sono separabili dalle emozioni e dai ricordi che suscitano. Tutte le percezioni che rivestono un qualche significato per noi sono sempre associate alle emozioni e si trascinano dietro paure, desideri, aspirazioni, frustrazioni... In che cosa consiste il metodo scientifico?

Incominciamo con un accenno al metodo scientifico che dovrebbe consentire, tramite argomentazioni critiche, di pervenire a giudizi di fatto più certi e condivisibili. Possono esserci delle situazioni in cui è sufficiente una condivisione della conoscenza già disponibile tra tutti i partecipanti al processo decisionale. Si potrebbe partire con l'esame dei risultati di ricerche condotte in passato da altri. Anche in casi come questi, la conoscenza del metodo scientifico si rivela necessaria per riuscire a distinguere i risultati della ricerca su cui possiamo confidare da quella che non merita la nostra fiducia. Se le ricerche sono pertinenti e rilevanti rispetto al nostro problema di interesse e sono state condotte adeguatamente, possiamo confidare, almeno in parte, nei risultati cui sono pervenute e dirimere le incertezze che avevamo prima di conoscerle. Applicare nella pratica i risultati della ricerca scientifica significa passare attraverso la costruzione o, più spesso, l'uso di "revisioni sistematiche" e di eventuali "meta-analisi". In una revisione sistematica ogni studio rilevante e pertinente con il problema di interesse è valutato nella sua qualità. Una revisione sistematica della letteratura scientifica è in grado di recare un grande contributo. Si parla di revisioni sistematiche perché non tutti gli studi meritano la stessa fiducia, né hanno la stessa dignità. Talvolta, addirittura, giungono a conclusioni tra loro discordanti. Occorre, perciò, distinguere gli studi su cui possiamo contare da quelli che, per la loro natura, impostazione e modalità di svolgimento, dobbiamo scartare. Ci si può anche avvalere delle cosiddette meta-analisi. Esse riguardano gli studi sperimentali. I risultati di diversi studi (raggruppabili secondo criteri di somiglianza) possono essere combinati insieme in un'analisi statistica (meta-analisi) dove a ciascuno studio è assegnato un peso proporzionale al numero di persone osservate. Semplificando, se 2 studi analoghi conducessero a risultati opposti, ma avessero coinvolto un numero di persone molto diverso, potrei dare maggior peso ai risultati dello studio effettuato sulla popolazione più numerosa. Queste revisioni e meta-analisi, nell'ambito della sanità pubblica, hanno contribuito alla "evidence based public health", ossia alla disamina e alla conseguente adozione di pratiche di sanità pubblica basate sui risultati consolidati della letteratura scientifica degna di meritare la nostra fiducia. In altri casi, per lo studio di situazioni più circostanziate, potrebbe essere necessario condurre degli studi scientifici sul problema di nostro interesse, troppo specifico per essere assimilabile a esperienze precedenti. Quando, poi, gli interventi sono complessi, come spesso accade nel caso di problemi di rilevanza politica, è difficile trovare in letteratura esperienze precedenti dello stesso tipo. Se, però, teniamo conto sapientemente delle analogie e delle differenze esistenti tra ciò che si vuol fare e ciò che è già stato fatto e valutato, si possono comunque trarre dallo studio della letteratura scientifica preziose indicazioni per il nostro impegno futuro. Sia nel caso in cui ci limitiamo a revisionare la letteratura scientifica, sia nel caso in cui conduciamo direttamente una ricerca, vale la pena di ricordare alcune fasi fondamentali di uno studio condotto con metodo scientifico. Quali sono queste fasi fondamentali? 1) Una prima tappa è quella della formulazione di un'ipotesi "falsificabile" relativa al problema di interesse. La falsificabilità è una caratteristica propria della scienza. Le teorie scientifiche, infatti, sono tali in quanto possono essere messe alla prova e falsificate. L'ipotesi potrebbe riguardare, ad esempio, il fatto che la disuguaglianza si sia accentuata negli ultimi decenni o che essa sia causa di malessere sanitario e sociale.

2) Una seconda fase è quella del disegno di uno studio in grado di falsificare l'ipotesi formulata. Tale studio può essere o osservazionale o sperimentale. 3) Una terza fase consiste nella realizzazione dello studio e nella successiva valutazione dei risultati conseguiti, sulla base dei quali l'ipotesi viene "temporaneamente" accettata o rifiutata. Esaminiamo uno per uno questi passaggi, mettendo in evidenza alcune caratteristiche importanti. 1) A proposito della falsificabilità dell'ipotesi, ciò che contraddistingue gli enunciati scientifici dalle semplici congetture ha a che fare col metodo utilizzato. Gli enunciati scientifici sono il risultato di uno studio disegnato in modo da essere in grado di fare rifiutare l'ipotesi quando non ci sia sufficiente evidenza che sia vera.. Le semplici congetture sono il portato di altri ragionamenti. Ad esempio, l'affermazione contenuta nella teoria psicoanalitica dei sogni per cui essi rappresenterebbero dei tentativi di realizzare dei desideri, magari inconsci, non è di tipo scientifico perché non è falsificabile tramite uno studio osservazionale o sperimentale. Se, infatti, in uno studio osservazionale, qualcuno dicesse, a proposito del proprio sogno, che non corrisponde con alcun desiderio, gli si potrebbe sempre obiettare che quel desiderio non è stato da lui riconosciuto perché giace nelle profondità del suo inconscio. A questa stregua l'ipotesi secondo la quale i sogni sono desideri non è falsificabile per sua natura. Quando, infatti, qualcuno si esprime in senso contrario all'ipotesi viene accusato di sbagliarsi. Persino gli incubi potrebbero essere spiegati come desideri. L’apparente paradosso viene spiegato sostenendo che in soggetti disturbati da atteggiamenti masochistici, gli incubi sarebbero, in realtà, desideri reconditi. 2) Nella seconda fase dobbiamo disegnare uno studio in grado di falsificare l'ipotesi formulata. Abbiamo anticipato che lo studio può essere osservazionale o sperimentale. Chiariamo qui cosa si intende per l'uno e per l'altro. Lo studio osservazionale è quello in cui ci si limita ad osservare la realtà per come si presenta, senza intervenire in alcun modo a modificare il corso naturale degli eventi. In realtà si tratta di una semplificazione perché il fatto stesso di effettuare un'osservazione modifica in qualche modo anche chi viene osservato, soprattutto nell'ambito delle scienze umane. Trascurando, comunque, questa precisazione, negli studi osservazionali ci si può accontentare di "fotografare" la realtà (nel caso in cui interessi una sua descrizione in un determinato punto temporale) o si può procedere a "filmarla" (nel caso in cui si sia interessati a seguire lo scorrere degli eventi per un determinato periodo di tempo). Lo studio sperimentale è, invece, quello in cui lo studioso realizza il suo esperimento intervenendo attivamente a modificare la realtà, con l'intento di tenere sotto controllo delle variabili che potrebbero interferire con la validità delle sue conclusioni. La randomizzazione e la creazione di un gruppo di controllo sono due tra gli stratagemmi più usuali cui ricorre lo sperimentatore. Tipicamente si vogliono evitare 2 rischi: a) quello per cui i risultati osservati non siano ascrivibili ai fattori di cui si vuole misurare l'effetto, ma a differenze presenti già in precedenza nei soggetti sottoposti all'esperimento (ad esempio i soggetti del gruppo A hanno risposto a un intervento di counseling di un dato tipo meglio dei soggetti del gruppo B che sono stati sottoposti a un intervento di counseling diverso dai soggetti del gruppo A. La differenza, tuttavia,

non è ascrivibile al tipo di counseling praticato, ma al fatto che i soggetti del gruppo A sono diversi dai soggetti del gruppo B: più ricettivi e desiderosi di migliorare la loro condizione) -b) quello per cui i risultati osservati non siano ascrivibili ai fattori di cui voglio misurare l'effetto, ma semplicemente a fattori legati al passare del tempo e alle relative modificazioni che ciò comporta. Per contrastare questi rischi il ricercatore può avvalersi di 2 procedure. La prima è la randomizzazione, ossia l'assegnazione casuale delle unità osservazionali ai diversi gruppi di trattamento o non trattamento. La seconda procedura è la creazione, accanto al gruppo dei trattati, di un gruppo di controllo, caratterizzato, nel caso più semplice, dall'assenza di trattamento, in cui i risultati rifletteranno le modifiche intervenute nel tempo, comunque indipendenti dal trattamento in esame. Supponiamo di effettuare un esperimento su 300 persone.La randomizzazione implica che ad ogni malato, ad esempio, venga assegnato un numero riferibile a qualsiasi tipo di ordinamento (es. alfabetico, data di nascita, numerazione in un elenco...) Tramite l'estrazione dalle tavole dei numeri casuali ( numeri random) potrei, così, scegliere a caso i primi 150 numeri (corrispondenti ad altrettanti soggetti) da assegnare al gruppo dei trattati e gli altri 150 da assegnare al gruppo dei controlli. Il confronto eseguito con queste modalità tra i 2 gruppi mi permetterà: - di assicurarmi, nei limiti del possibile, che i soggetti assegnati al gruppo dei trattati e a quello dei controlli differiscano solo per effetto del caso e - di separare l'effetto del trattamento dal puro effetto del tempo. Ciò non sarebbe stato possibile in assenza di un gruppo di controllo. Nel caso, ad esempio, di una malattia banale come il raffreddore che passa da sé nell'arco di circa 1 settimana, un qualunque farmaco somministrato a un unico gruppo di persone raffreddate, in assenza di un gruppo di controllo, avrebbe potuto far concludere sull'esistenza di un effetto benefico, per via dell'avvenuta guarigione, a distanza di 7 giorni, nella maggior parte dei soggetti di questo gruppo. Viceversa, l'esistenza di un gruppo di controllo consente di evidenziare che non sussiste alcuna differenza nella guarigione tra il gruppo dei trattati e quello dei controlli permettendo, così, di tener distinto l'effetto del farmaco da quello del tempo che, passando, consente di guarire. Così come è importante l'esistenza di un gruppo di controllo, nella sperimentazione è cruciale la cosiddetta randomizzazione. Per spiegarlo voglio raccontarvi un aneddoto. Alcuni ricercatori, anziché ricorrere alla corretta procedura di randomizzazione, per provare l'efficacia di un ipnotico su 2 gruppi di topolini erano ricorsi a un'altra procedura. In una grande gabbia erano contenuti in tutto 100 topolini. Prelevarono di seguito i topolini dalla gabbia: ai primi 50 somministrarono l'ipnotico, agli altri 50 somministrarono un placebo. Essi volevano confrontare nei singoli topolini dei 2 gruppi la capacità di reazione, la mobilità, la vigilanza e tutte le caratteristiche che avrebbero dovuto essere sedate nel gruppo trattato con l'ipnotico. L'esperimento portò a concludere che l'ipnotico somministrato ai primi 50 topolini era molto efficace perché c'era una differenza significativa nella "vivacità" misurata nei 2 gruppi. Se non che, questo esperimento, condotto poi da altri ricercatori, ricorrendo a una corretta procedura di randomizzazione, portò a risultati completamente diversi: il farmaco utilizzato non era per niente efficace. Non veniva, infatti, rilevata alcuna differenza di risultato nei 2 gruppi di topolini. La domanda che vi faccio è: cosa non aveva funzionato nel primo esperimento? Perché si era arrivati a risultati erronei? L'errore era dovuto alla mancanza di una corretta procedura di randomizzazione.

Attraverso quale meccanismo, allora, si era potuto arrivare a conclusioni così sbagliate? La cattura di un topolino nella gabbia per l'assegnazione prima al gruppo dei trattati e, poi, a quello dei controlli, dipende molto dalla vivacità dei singoli topolini che cercano di scappare per non essere presi. I primi topolini catturati sono quelli meno vivaci, meno mobili e vigili. Gli ultimi sono,invece, i più vivaci, Perciò le differenze misurate erano semplicemente dovute a caratteristiche presenti in precedenza nei topolini, indipendentemente dall'effetto della somministrazione del farmaco ipnotico. Si era incorsi nel cosiddetto "bias" (vizio) di selezione, per cui le differenze erano dovute alle caratteristiche dei topolini selezionati nei 2 gruppi, non alle proprietà del farmaco. Tale farmaco, infatti, in una sperimentazione successiva (questa volta condotta con procedure corrette) si era rivelato del tutto inefficace. In conclusione, negli studi sperimentali, attraverso la randomizzazione e la costruzione di un gruppo di controllo posso mettermi al riparo da 2 possibili fonti di errore in grado di pregiudicare la correttezza delle conclusioni sui confronti cui sono interessato: 1) il "vizio" (in inglese bias) di selezione per cui le unità trattate in un certo modo sono diverse da quelle trattate in un modo alternativo; 2) il "vizio" di osservazione per cui le unità trattate in un certo modo vengono osservate più meticolosamente, e quelle trattate in modo diverso vengono osservate meno meticolosamente o nemmeno vengono prese in considerazione quando, ad esempio, non esiste un gruppo di controllo. In aggiunta a questi 2 tipi di errore, è sempre in agguato anche il cosiddetto "errore casuale". Esso è dovuto alla variabilità individuale che non possiamo certo eliminare perché è una caratteristica propria della vita. Come ci si può cautelare rispetto a questo errore? Occorre aumentare la popolazione dello studio. Attraverso l'aumento della numerosità del campione su cui effettuo lo studio posso diminuire l'errore casuale. Senza approfondire la dimostrazione, è intuitivo come, ad esempio, confrontare l'effetto di 2 diversi trattamenti su 2 gruppi costituiti ciascuno da 1 persona possa portare a errori casuali superiori che nel caso in cui i gruppi siano costituiti ciascuno da 10 o, a maggior ragione, da 1000 persone.

4' e 5' Lezione A giudicare da quello che succede a pochi giorni di distanza dal voto, sembra che si possa dire tutto e il contrario di tutto su qualsiasi cosa: non solo sulla politica, ma anche sulla sanità, sull'economia, le tasse, il lavoro, la scuola, la giustizia.. Sembra che sia venuto meno il senso del pudore e non ci si vergogni più di mettere a nudo una completa assenza di buon senso. Di fronte a questa situazione, il nostro sforzo di chiarire come i giudizi di fatto debbano basarsi su un fondamento empirico e scomodare, a questo fine, il metodo scientifico, può sembrare un vezzo intellettualistico, qualcosa di assolutamente fuori luogo. Eppure, è proprio per la situazione disgraziata in cui versiamo che occorre impegnarsi a preparare un futuro migliore, Con questa premessa riprenderemo tra poco alcuni concetti sul metodo scientifico. Successivamente parleremo della strategia dell'equilibrio riflessivo che, relativamente al raggiungimento di più alti gradi di certezza e accordo sui giudizi di valore, ricopre un ruolo analogo al metodo scientifico che riguarda, invece, i giudizi di fatto. Riprendiamo ora il filo del nostro discorso. Abbiamo visto come occorra creare delle condizioni discorsive ideali. Tali condizioni portano a delle relazioni generative. Così il dibattito diventa più fecondo e facilita la definizione di strategie condivise. Esso deve basarsi su argomentazioni critiche per raggiungere gradi superiori di certezza e accordo, sia in merito a giudizi di fatto che a giudizi di valore. Sottolineavamo, inoltre, che queste argomentazioni critiche, per arrivare a dei giudizi di fatto via via più certi e condivisi, devono ricorrere al metodo scientifico e all'applicazione dei suoi risultati. Ci si può così avvalere della capacità degli studi scientifici di quantificare, ad esempio, la frequenza di un problema, la grandezza e la tipologia delle sue conseguenze negative, l'utilità di eventuali strategie adottabili, la loro probabilità di successo. Abbiamo ricordato anche, per sommi capi, in cosa consiste il metodo scientifico: come esso richieda, ad esempio, la formulazione di un'ipotesi falsificabile, la pianificazione e realizzazione di uno studio e la valutazione dei suoi risultati. A proposito degli studi avevamo visto che potevano essere osservazionali o sperimentali. Ci sono notevoli differenze tra gli uni e gli altri. Eravamo, infine, arrivati a ragionare sui campi di applicazione degli studi osservazionali e sperimentali. Gli scopi diversi degli studi osservazionali e sperimentali Gli studi osservazionali e sperimentali, in campo biomedico, tendono a scopi diversi. Essi sono richiesti in circostanze differenti: non sono sostituibili l'uno con l'altro. Nel caso in cui l'ipotesi da testare nello studio sia quella di un effetto non desiderato, di un danno relativo a una determinata esposizione, lo studio non può che essere osservazionale. Invece, nel caso in cui l'ipotesi sia di un effetto voluto, di un beneficio relativo a una determinata esposizione, lo studio non può che essere sperimentale. Sarebbe, infatti, possibile condurre un esperimento e somministrare un agente supposto nocivo a un gruppo di persone? Immaginate che la mia esperienza mi porti a ipotizzare la cancerogenesi di una sostanza chimica utilizzata in un certo settore industriale. Potrei condurre un esperimento per testare la mia ipotesi o dovrei invece compiere uno studio osservazionale? Certamente occorrerebbe pensare a uno studio osservazionale, raccogliendo, ad esempio, i dati di interesse sulle persone che sono state esposte nel corso della loro vita (come la presenza di un determinato tumore) al fattore sospettato di

cancerogenesi per confrontarle con persone che, viceversa, non sono state esposte allo stesso fattore. Forse non è così chiaro, invece, perché non possano essere condotti degli studi osservazionali per dimostrare l’effetto di un trattamento supposto benefico, somministrato intenzionalmente proprio in virtù di questa supposizione. Immaginiamo che, sulla base della mia esperienza, abbia il sospetto che un farmaco anti-ipertensivo non sia così efficace come si vuole far credere e non riesca a ridurre la pressione arteriosa. Se, per testare la mia ipotesi misurassi la pressione in un gruppo di persone trattate con esso e in un gruppo non trattato, potrei arrivare alla conclusione che il farmaco non serve a nulla o, addirittura, ha un effetto peggiorativo. Ma queste conclusioni non sarebbero valide. Perché? Perché il gruppo dei trattati avrebbe presumibilmente una pressione più alta del gruppo dei non trattati. Infatti, le persone, generalmente, vengono trattate con farmaci dotati di proprietà anti-ipertensive in quanto sono ipertese. Le persone che non vengono trattate, in genere, differiscono da quelle trattate in quanto non sono ipertese. Perciò esse non hanno bisogno di questi farmaci specifici. A falsare i risultati di uno studio di questo tipo interviene un "vizio di selezione" per i soggetti del primo e del secondo gruppo: non sono diversi esclusivamente per via della somministrazione o meno dell'anti-ipertensivo, ma per via della precedente presenza o assenza di una condizione ipertensiva che ne ha indicato o meno il trattamento farmacologico. Si potrebbe fare un ulteriore esempio, tratto, questa volta, dal campo della scuola. Potrei voler valutare se le lezioni di ripetizione di matematica servono a migliorare il profitto degli studenti che le prendono. A questo fine si potrebbero confrontare in una scuola i voti presi in matematica da chi ricorre alle lezioni di ripetizione e da chi non vi ricorre. Sarebbe plausibile trovare che chi non ricorre alle lezioni di ripetizione prende voti migliori. Questo risultato non è dovuto al fatto che le lezioni non servono, ma al fatto che gli studenti che non vi ricorrono, in genere, sono più versati in matematica rispetto a chi vi ricorre. E’ questo un ulteriore esempio per dimostrare come gli studi osservazionali non siano adatti a testare l’ipotesi di un effetto supposto benefico. Sono necessari, a questi fini, gli studi sperimentali. Accenniamo, ora, all'ultima fase che caratterizza uno studio effettuato secondo le procedure del metodo scientifico. Si tratta della raccolta, analisi e interpretazione dei risultati. La statistica ci aiuta a prendere delle decisioni difendibili, coerenti coi risultati ottenuti. Ci troviamo, così, nelle condizioni di accettare o rifiutare l'ipotesi che avevamo formulato inizialmente. Si tratta, comunque e sempre, di conclusioni provvisorie. E' importante sottolineare come la scienza aderisca a una concezione dinamica della verità. Essa rifiuta sia la concezione dogmatica di verità (secondo cui la verità è già nota e non va messa in discussione) che quella scettica, secondo cui ogni opinione si equivale, e la scelta tra opzioni diverse dipende solo dalla convenienza di chi decide. L'accettazione, così come l'eventuale rifiuto di un'ipotesi, è sempre temporanea, fino a prova contraria. Nelle discipline scientifiche mature, la scienza, per passi successivi, conduce a un perfezionamento della conoscenza di cui si dovrà tener conto per migliorare i nostri processi decisionali. L'atteggiamento del ricercatore dovrebbe essere sempre vigile nei confronti di nuovi indizi che, magari, lo portano a contraddire le conclusioni di un precedente studio. Una qualità cruciale dello scienziato è, perciò, la sua onestà intellettuale che è tanto più tutelata quanto più egli è distante da situazioni di conflitto di interesse,

La strategia dell'equilibrio riflessivo Dopo aver così accennato, almeno in termini generali, al metodo scientifico che ci aiuta a ragionare criticamente sui giudizi di fatto, intendo spiegare, ora, come, invece, per ragionare criticamente sui giudizi di valore e pervenire a giudizi morali ben ponderati, occorra riflettere sul concetto di giustizia. Secondo alcuni una società giusta è quella che massimizza il benessere, secondo altri è quella che rispetta la libertà, per altri è quella egualitaria, secondo altri ancora è quella che favorisce un comportamento virtuoso. Ma chi stabilisce quali sono le virtù da premiare e i vizi da perseguitare? Le nostre società oggi sono pluraliste, vogliono apparire neutrali di fronte ai diversi valori e alle differenti concezioni di vita buona. Ognuno, nella sua esistenza, dovrebbe realizzare la "propria" concezione di vita buona, senza essere obbligato a coltivarne altre. Sembra pericoloso imporre per legge i comportamenti virtuosi perché si scade facilmente nell'intolleranza e nella coercizione. Aristotele insegna, invece, che la giustizia consiste nel dare a ciascuno ciò che merita e, per poter stabilire chi merita che cosa, dobbiamo definire le virtù che devono essere onorate e premiate. La pensano diversamente Kant e Rawls. Le teorie moderne della giustizia partono dalla libertà, anche perché non possono prescindere dal pluralismo culturale, politico, religioso, valoriale delle nostre società. Ma questo è un problema perché dovrebbe esistere un qualche fine sovra-ordinato che favorisca la coesione, che impedisca la balcanizzazione. Sembra, quindi, che una società giusta non è solo quella che vuole accrescere la prosperità economica e rispettare la libertà o tutelare l'eguaglianza, ma è anche quella che favorisce comportamenti virtuosi e si interroga su giudizi di valore. E' comunque un mondo variegato. Porsi il problema della giustizia significa chiedersi come distribuire le cose cui diamo valore: diritti e doveri, ricchezza, redditi, benessere, cariche e onori, potere e occasioni. La filosofia politica non è in grado di dare risposte certe a problemi di questo tipo ma contribuisce a offrire chiarezza. Non offre soluzioni pre-confezionate, ma suggerisce una strategia per affrontare le discussioni etiche. E' quella dell'equilibrio riflessivo, che procede per tappe. In linea con la filosofia morale analitica, di marca anglosassone (che manifesta una particolare attenzione al linguaggio e alla specificità dei problemi), ma di derivazione socratica (perché comporta un continuo interrogarsi), la strategia dell'equilibrio riflessivo consiste in una sequenza di tappe di ragionamento di questo tipo: a) dobbiamo partire da un problema che ci sta a cuore, ad esempio quello dell'aborto (scelta di un problema); b) dobbiamo poi esprimere una nostra opinione (ad esempio, la nostra contrarietà all'aborto) rispetto al problema e cercare di motivarla in base a un principio pertinente col problema in esame: ad esempio, quello secondo cui la vita è sacra (scelta di un principio); c) dobbiamo, in seguito, applicare questo principio sia al problema in esame che ad altri problemi analoghi, per i quali esista la stessa pertinenza del principio, e ragionare sulle conseguenze della sua applicazione (applicazione del principio al problema in esame e a problemi analoghi). Ci accorgeremo, così, che, applicando lo stesso principio, non solo l'aborto andrebbe bandito, ma dovrebbero essere messi al bando anche la pena di morte, la guerra, le sanzioni economiche contro gli Stati, i limiti di finanziamento dei servizi sanitari e sociali; d) a questo punto, dovremmo esprimere dei giudizi ben ponderati relativi all'applicazione del principio a tutti questi casi e pervenire, eventualmente, a una rivisitazione della nostra opinione e del principio stesso. Ad esempio, in virtù di quale principio può essere giustificato l'intervento armato per impedire un genocidio? In virtù di quale principio può essere giustificato il limite di finanziamento dei servizi sanitari o

escluso un trattamento troppo costoso? In virtù di quale principio può essere giustificato l'aborto in caso di stupro o per impedire un grave nocumento alla salute della madre o per interrompere la gravidanza in un'adolescente? e) Il principio della sacralità della vita andrebbe, perciò, rivisitato e, nella sua nuova formulazione, andrebbe di nuovo applicato a tutti i problemi considerati per valutare le conseguenze che provoca ed esprimere, su di esse e sul principio stesso, dei giudizi ben ponderati. Potrebbe essere adottato, ad esempio, il principio per cui va rispettata, nel più alto grado possibile, la dignità di ogni vita umana. Nel caso in cui non fossimo sufficientemente sicuri dell'appropriatezza del principio e delle sue applicazioni nei diversi contesti, potremo di nuovo procedere con una sua rivisitazione. In questo modo si reitera il ciclo a partenza dalla fase descritta al punto b). A proposito di politiche sanitarie e sociali, è opportuno un cenno ai dati di fatto relativi all'interruzione volontaria della gravidanza (IVG), oltre che alla legislazione italiana sull'aborto (legge 194 del 1978) e ai principi cui si è ispirato il legislatore. Per quanto riguarda i dati, ci troviamo di fronte a un problema in progressiva diminuzione. Nel 2007 il decremento è stato del 46% rispetto a quello che si verificava nel primi anni di applicazione della legge. Oggi il tasso di abortività è di circa 9 donne su mille (si considera, per convenzione, la fascia di età tra 15 e 49 anni). I dati dimostrano, comunque, un netto gradiente sociale, per cui il problema dell'aborto colpisce maggiormente le persone con un livello socio-economico più basso. Nonostante le specifiche indicazioni normative della legge 194, restano poche, ad esempio nella nostra provincia, le donne che si rivolgono ai consultori familiari per ottenere la certificazione per Ivg. Ciò preclude tutta una serie di potenzialità preventive in cui i consultori sarebbero implicati, anche in ordine alla prevenzione delle recidive. Capita, infatti, che le IVG si ripetano a distanza di tempo nella stessa persona. Nella popolazione della nostra provincia il tasso complessivo di IVG è nell’ordine del 6 per mille. Se si distinguono le donne italiane dalle straniere si passa da un tasso del 4 per mille per le italiane a un tasso di circa il 20 per mille per le straniere. Il rischio di andare incontro a una Ivg per le donne straniere è 5 volte più alto che per le italiane (indagine personale del 2007). I dati, anche in questo delicatissimo campo, evidenziano la necessità di un impegno aggiuntivo. Per quanto riguarda la legislazione vigente, dovendo prendere posizione tra gli interessi eventualmente conflittuali dell'embrione e della madre, il legislatore ha deciso di privilegiare gli interessi materni. Il principio è quello della tutela della qualità di vita e della salute della madre. La legge 194 prevede, infatti, che l'interruzione della gravidanza possa essere praticata entro i primi 90 giorni. Dopo, è previsto il cosiddetto «aborto terapeutico», in particolare situazioni e, di solito, entro la 24ª settimana di gestazione, anche se un termine ultimo non è esplicitato. Dopo i 90 giorni è possibile l'interruzione in caso di rischio di salute per la donna o in caso di malformazione che metta a rischio la salute della gestante. «L'interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi 90 giorni - recita l'articolo 6 della legge - può essere praticata: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna»

I ragionamenti sui giudizi di valore non ricorrono all'empirismo, che costituisce l'epistemologia primaria (ossia il metodo fondamentale di acquisizione di conoscenza) quando si investiga nel campo della realtà materiale. Si ricorre, invece, all'ermeneutica.

La conoscenza su ciò che è bene o ciò che è male, su ciò che è giusto o sbagliato proviene dal dialogo e dalla riflessione (con se stessi e con altri) tramite il linguaggio e l'interpretazione. L'oggetto della conoscenza ha a che fare con la mente umana, i processi di conoscenza sono dialogici (non monologici), l'interpretazione è fondamentalmente qualitativa (non quantitativa). Sembra più difficile accordarsi su giudizi di valore. Non ci si può basare, come per i giudizi di fatto, sull'oggettività e la riproducibilità dei risultati. Non si perviene a conclusioni certe. Non possiamo aspettarci di arrivare a dei fondamenti etici assoluti, ma a posizioni difendibili, ispirate a principi che, opportunamente qualificati, possono essere applicati coerentemente in ambiti analoghi dell'esperienza umana. Possiamo, così, mantenere un certo grado di coerenza tra i nostri giudizi. Non possiamo, ad esempio, schierarci contro l'aborto ed essere favorevoli alla pena di morte. Non possiamo proclamare che la salute non ha prezzo e tollerare che muoiano di fame e di freddo i barboni nelle nostre città. E' una strategia che considera i valori e i principi, ma non li assolutizza. Non prescinde dalla realtà cui i principi vengono applicati perché valuta le conseguenze pratiche dell'applicazione del principio in situazioni reali. In questo senso essa cerca un giusto equilibrio tra la pressione dei fatti e quella dei valori che ci stanno a cuore. Anche se non si raggiunge la perfezione si arriva, perlomeno, a posizioni difendibili sul piano logico ed etico.

Lezione 5'

Cercheremo, ora, di applicare gli insegnamenti teorici di queste lezioni iniziali. Per farlo prenderemo in considerazione un problema assolutamente prioritario per la sanità e i servizi sociali: quello delle disuguaglianze, di cui parla ampiamente il bel libro di Wilkinson e Pickett.. Cercheremo di esprimere dei giudizi attraverso argomentazioni critiche, sia in ambito di fatti che di valori.. a) Dovremo, prima di tutto, condividere alcuni giudizi di fatto. Ad esempio, come viene generalmente definita la disuguaglianza, qual è la portata di questo problema, come si può misurare, quali sono i suoi impatti negativi? A questo scopo faremo riferimento ai risultati di alcuni studi scientifici che hanno affrontato specificamente questi aspetti. b) Ci scambieremo, poi, le nostre opinioni su quanto la disuguaglianza possa considerarsi ingiusta e, quindi, sui principi cui ispirarsi per esprimere giudizi di valore da attribuire a questo fenomeno. Per farlo ricorreremo alla sequenza di ragionamenti suggeriti dalla strategia dell'equilibrio riflessivo. Tenteremo, quindi, di applicare insieme i metodi che sono più adatti alle nostre diverse argomentazioni critiche sulla disuguaglianza, confidando così, di poter arrivare a comprenderla meglio e condividere le strategie per affrontarla. Dobbiamo, prima di tutto, chiarire cosa intendiamo per disuguaglianza, sulla base delle definizioni più usuali, e perché costituisce un problema. Vedi schema Giudizi di fatto 1) Cosa intendiamo per disuguaglianza? Ci riferiamo alle differenze esistenti nelle condizioni socio-economiche degli esseri umani. Accenneremo sia a quelle presenti

all'interno di ciascun Paese sia a quelle che risultano dai confronti internazionali dei vari Paesi. Solitamente si ricorre a 4 diversi indicatori di posizione socio-economica che ci permettono di misurarla e analizzarla secondo varie prospettive: - livello di reddito; - grado di istruzione; - tipologia di abitazione; - tipologia di occupazione. Dirò subito che, ad esempio in sanità, nei flussi amministrativi correnti, purtroppo è raro avere a disposizione questi indicatori che oggi manifestano tutta la loro importanza. Si tratta di una lacuna che dovrebbe essere colmata con urgenza per poter misurare con la dovuta serietà la portata delle disuguaglianze, mettendo in relazione la posizione socio-economica con i diversi fenomeni sanitari. 2) Qual è l'andamento delle disuguaglianze? Questi indicatori possono essere misurati attraverso studi trasversali che fotografano la situazione di una o più variabili in un determinato momento storico, oppure in studi longitudinali che analizzano i cambiamenti che intercorrono nel tempo nelle stesse persone. La maggior parte degli studi è di tipo trasversale e quindi non mette in evidenza i cambiamenti che marcano le diverse traiettorie esistenziali delle singole persone. Gli studi trasversali ripetuti in epoche diverse segnalano che la disuguaglianza è cresciuta nel tempo. Il caso degli Usa è un po' emblematico di quanto è accaduto nei Paesi dell'occidente industrializzato. Se, ad esempio, le differenze di reddito tra lo stipendio di un amministratore delegato di una grande industria e quello di un operaio, fino agli anni 70, potevano variare tra 30 e 40 volte, oggi, queste differenze sono aumentate fino a 300 e 400 volte, in conseguenza delle ondate neoliberistiche di questi ultimi decenni. Esaminando, invece, le variazioni che riguardano nel tempo le singole persone, come, appunto, negli studi longitudinali, si può studiare la cosiddetta mobilità ascendente intra-generazionale (per cui si raggiungono posizioni sociali progressivamente superiori all'interno di una sola generazione) o inter-generazionale, quando la posizione socio-economica dei figli viene confrontata con quella dei loro genitori. In questi ultimi decenni la mobilità sociale ascendente è diminuita sia all'interno delle generazioni che tra le generazioni. Ci confrontiamo con società più cristallizzate nelle loro differenze di origine. 3) Che relazione esiste tra reddito medio pro- capite e qualità di vita nei diversi Paesi? Per capire meglio il problema delle disuguaglianze nella ricchezza dei diversi Paesi, possiamo analizzare la relazione esistente tra reddito pro-capite e longevità. Nella figura 1.1 la longevità viene presa come esempio di indicatore di benessere (vedi “La misura dell’anima” pag 21). Possiamo constatare che la longevità sale all'aumento del reddito medio pro-capite fino a una certa soglia che si situa tra i 20.000 e i 30.000 dollari. Dopo questa soglia, che distingue i Paesi più ricchi dagli altri, la longevità non sale più. Se, poi, si mettesse al posto della longevità un altro indicatore qualsiasi di benessere o di qualità della vita, il grafico sarebbe del tutto sovrapponibile. Mentre la relazione tra reddito e benessere appare netta nella prima parte del grafico, dove si ha un incremento evidente a ogni aumento successivo del reddito, nell'ultima parte del grafico, per gli aumenti oltre una certa soglia, la relazione svanisce completamente.

A un livello globale, sarebbe quindi importante concentrare gli sforzi nel miglioramento del reddito dei Paesi più poveri, perché questo potrebbe imprimere un sostanziale beneficio alla loro qualità di vita. 4) Perché si può affermare che il Pil ha esaurito la sua funzione nei Paesi più industrializzati? L'aumento del reddito medio pro-capite non è ormai più legato all'aumento della qualità di vita nei Paesi dell'occidente industrializzato. Il risultato messo in evidenza dalla figura 1.1 non ci sorprende più di tanto perché è conforme a quanto ci aspettiamo in base a una legge universale in campo economico: quella dei benefici marginali decrescenti. Sulla base di questa legge, all'acquisto di successive unità di un bene, il beneficio ottenuto diventa via via minore, fino ad annullarsi. Il risultato evidenziato, confortato da tanti altri dello stesso tipo è, comunque, di importanza storica. In base ad esso, infatti, si può affermare empiricamente che il Pil ha esaurito la sua funzione nei Paesi industrializzati. Il suo aumento non è più correlato con il benessere delle persone. Dopo gli anni 70 l'andamento degli indicatori di qualità della vita e quelli relativo al Pil hanno assunto, infatti, direzioni divergenti. I primi hanno incominciato a calare progressivamente mentre ancora il Pil proseguiva la sua ascesa, fino alla crisi del 2008. E' finita un'era, per i Paesi industrializzati. Dovrebbe iniziarne un'altra radicalmente diversa. 5) Con che cosa è correlato, allora, il benessere sociale e sanitario? Resta associato con la sperequazione. Questa può essere calcolata attraverso il cosiddetto coefficiente di Gini che varia tra 0 (quando il reddito è distribuito in modo assolutamente uguale) e 1 (quando la totalità del reddito appartiene a una sola persona). L'Onu, invece, misura la sperequazione come rapporto tra il reddito che acquisisce il 20% più ricco e quello acquisito dal 20% più povero della popolazione. Nella figura 2.1 vengono ordinati i vari Paesi industrializzati per il loro grado di sperequazione (“La misura dell’anima”, pag. 29). Se ora isoliamo i 30 Paesi più ricchi al mondo e correliamo il grado di sperequazione dei redditi presente all'interno della loro popolazione con un indice di benessere, possiamo constatare ancora l'esistenza di una relazione abbastanza netta (vedi figura 2.2 “La misura dell’anima”). Tanto minore è la sperequazione all'interno dei Paesi ricchi tanto minori sono i problemi sanitari e sociali. La qualità della vita nei Paesi ricchi, quindi, non è correlata con il reddito medio pro-capite, ma con la diminuzione delle sperequazioni. Queste relazioni sono analizzate approfonditamente da 2 studiosi (Wilkinson e Pickett) in un recente libro tradotto in italiano edito da Feltrinelli, intitolato "La misura dell'anima". Se fossero prese con la dovuta serietà imprimerebbero un nuovo corso all'economia e alla politica. Ci insegnano 2 cose importanti: a) i Paesi ricchi sono arrivati alla fine di un'epoca storica basata sul progressivo incremento del Pil. L'incremento del Pil, infatti, dimostra di avere esaurito i suoi effetti benefici. Sarebbe provvidenziale, oltre che consolatorio, tenerne conto in questi anni caratterizzati, in diversi Paesi, da un arretramento del Pil. b) Per ottenere, quindi, un maggior progresso e una nuova vera crescita occorre orientarsi verso qualcosa di diverso e, precisamente, verso società più equilibrate che mettano al centro delle loro politiche l'equità, sensibili all'equa uguaglianza delle opportunità, tramite un welfare più attento ai "veri" bisogni, una distribuzione dei redditi

meno sperequata e l'adozione di meccanismi retributivi e redistributivi più funzionali. La vera crescita, nei Paesi industrializzati, non deve tendere all'aumento del Pil, ma all'aumento dell'equilibrio. Tutto questo è vero per i Paesi ricchi. Per gli altri, che non hanno ancora raggiunto una soglia minima di ricchezza, il Pil conserva ancora la sua importanza. La lezione che i Paesi in via di sviluppo potrebbero comunque imparare dalla storia è di riservare la dovuta attenzione anche ai problemi dell'equità, oltre che all'aumento del loro Pil. Si tratta di una lezione che, ad esempio, tra i Paesi emergenti, il Brasile dimostra di aver ben appreso e che resta, invece, del tutto inascoltata da un Paese come la Russia. Contemporaneamente, a un livello internazionale, la questione di una migliore distribuzione del reddito tra Paesi ricchi e poveri mantiene un'importanza cruciale, poiché si dovrebbe raggiungere anche su questo piano un diverso equilibrio nella distribuzione delle ricchezze. 6) L'esistenza di un'associazione statistica tra sperequazione e malessere sanitario e sociale equivale all'esistenza di un rapporto di causa-effetto? La presenza di un’associazione statistica non dimostra, di per sé, una relazione causale. Un esempio, a conferma di queste affermazioni, potrebbe venire dalla colorazione giallastra delle dita presente nei forti fumatori. Non è certo questa colorazione ad aumentare l’incidenza del cancro polmonare. Essa è associata causalmente al fumo, ma solo statisticamente al cancro polmonare. Ma a parte questa corretta obiezione, un altro aspetto critico, nel concludere che esiste effettivamente un rapporto di causa-effetto tra sperequazioni e bassa longevità, viene dall'oggetto dello studio. La difficoltà è data dal fatto che l'associazione statistica è stata ottenuta al livello di interi Paesi. I Paesi esaminati, infatti, potrebbero differire tra loro, oltre che per le sperequazioni, per numerosissime altre variabili che non sono state considerate nello studio e che potrebbero risultare la vera causa del malessere sanitario e sociale. Qualcuno potrebbe obiettare, tanto per fare un esempio, che la vera causa del malessere è l'inquinamento dell'aria, di cui non si è tenuto conto nello studio. Il passo metodologico successivo, per analizzare meglio un'associazione trovata a livello di Paese (in questo caso tra disuguaglianza e un indicatore di benessere come la longevità) è quello di ricercare l'associazione a un livello più elementare, nelle singole persone. Lo scopo è di chiarire se succede la stessa cosa anche per le singole persone: se oltre che per i Paesi è vero che anche nelle persone una maggiore disuguaglianza si accompagni a un maggior malessere sanitario e sociale. Diversi studi effettuati sull'associazione tra gradiente sociale e salute hanno verificato questa correlazione anche nelle singole persone. Si può, quindi, essere ragionevolmente sicuri che le differenze nei problemi sanitari e sociali rappresentati nella figura che abbiamo commentato sono provocate da disuguaglianze sociali. E' possibile, ad esempio, mettere costantemente in evidenza l'associazione statistica tra i diversi indicatori di posizione sociale (reddito, istruzione, occupazione, abitazione) e la salute. I risultati dei diversi studi sono, quindi, coerenti tra di loro. Ma, a corroborare l'esistenza di un rapporto di causa-effetto, valgono anche altre dimostrazioni, come: a) la corretta sequenza temporale per cui le cause precedono gli effetti; b) la forza dell'associazione, che risulta alta. Ad esempio, la prevalenza di malattie croniche tra le donne italiane classificate per grado di istruzione è di 3,5 volte più alta nel gruppo con una scolarità elementare rispetto al gruppo più istruito; c) l'esistenza di un effetto dose-dipendente, per cui gli impatti negativi sulla salute crescono all'aumentare dello svantaggio sociale misurato da ogni singolo indicatore di posizione;

d) l'attributo di una plausibilità biologica a questa associazione, dovuta sia allo stress generato dalla disuguaglianza (di cui parleremo al punto successivo) sia anche al fatto che l'esposizione a fattori di rischio noti (fumo, alcol, sedentarietà, cattiva alimentazione, obesità) aumenta gradualmente con l'incremento dello svantaggio sociale. 7) Attraverso quali meccanismi le sperequazioni causano malessere sanitario e sociale? Le sperequazioni provocano risentimento, ostilità, senso di inferiorità, sfiducia. Generano, quindi, ansia e stress. Lo stress è una reazione di adattamento dell'organismo a situazioni che lo mettono alla prova, dal punto di vista fisico e psico-sociale. Bisogna distinguere le reazioni di breve periodo, che possono essere utili, da quelle che si protraggono nel tempo. Queste ultime caratterizzano lo stress cronico e hanno effetti deleteri per la salute. L'ormone interessato è il cortisolo, prodotto dalla parte corticale del surrene. Esso media gli effetti dannosi dello stress sulla salute, a partire dallo sviluppo cognitivo, dalle malattie cardiovascolari, i disturbi mentali fino all'indebolimento delle difese immunitarie. Al di là dei meccanismi fisio-patologici, endocrini e immunitari attraverso cui le sperequazioni sconvolgono la vita dei singoli , influenzano le relazioni che tengono unite le persone e finiscono per corrodere i legami d'amicizia e vicinanza. Sfilacciano le reti sociali. Equivalgono a fattori inquinanti che nuocciono al benessere delle società nella loro interezza. Non fanno male solo ai più poveri, ma a tutte le classi sociali. Questo mi sembra essere il punto di forza e il principale valore aggiunto delle ricerche di Wilkinson e Pickett. Ad esempio, può essere molto istruttivo il confronto tra Svezia e Inghilterra. Risulta, infatti, che i tassi di mortalità della classe sociale inferiore in Svezia sono più bassi rispetto a quelli della classe sociale più alta in Inghilterra (Vedi Figura tratta da “La misura dell’anima). . Sulla base di questi risultati possiamo affermare che, così come ci sono delle persone malate e delle persone sane, allo stesso modo esistono delle società malate e delle società sane. Ci sono fondate ragioni per credere che le sperequazioni siano la causa della malattia di queste società. La sperequazione è disfunzionale per le nostre popolazioni. Infatti, tanto più le società sono sperequate, tanto più aumenta la probabilità di essere esposti a fattori nocivi, di diventare più vulnerabili a questi stessi fattori e ammalarsi, di subire conseguenze di maggiore gravità in rapporto con queste malattie e disabilità. 8) Quali correlazioni con la disuguaglianza possono essere menzionate in campo sanitario e sociale? In ambito sanitario possono essere elencati: longevità, mortalità infantile, mortalità per incidenti, morbosità e mortalità per malattie croniche e disturbi mentali. Sappiamo, ad esempio, che esistono delle differenze notevoli nell'attesa di vita tra i diversi Paesi del mondo. Ad esempio, ci sono quasi 37 anni di differenza nella longevità tra Zimbahwe e Giappone (47 anni a confronto con 83,2); ci sono 7 anni di differenza all'interno di uno stesso Paese, ad esempio l'Inghilterra, per quel che riguarda la longevità tra uomini che vivono nelle aree più degradate e in quelle più ricche (77 contro 70). Differenze ancora più alte (di 17 anni) esistono per l'attesa di vita libera da disabilità tra ricchi e poveri (53 anni per i più poveri e 70 anni per i più ricchi). Analogamente succede, poi, per la salute percepita, l'obesità, l'esposizione a fattori di rischio, gli infortuni lavorativi, gli incidenti, gli avvelenamenti dei bambini..

In ambito sociale possiamo citare: insuccesso scolastico, gravidanza nelle adolescenti, tossicodipendenze, alcolismo, violenza, criminalità... 9) In quale età della vita si verifica il maggior impatto delle disuguaglianze sul benessere sanitario e sociale? Sono soprattutto gli studi epidemiologici relativi alle malattie croniche a svelarci che i periodi più critici sono legati alle fasi più precoci dell'esistenza (gestazione, nascita, primi mesi di vita). Questo lega indissolubilmente il destino dei figli a quello dei loro genitori, soprattutto alle condizioni della madre che li ospita in utero durante la gravidanza e li accudisce poi in un rapporto di stretta vicinanza. Se vogliamo interessarci davvero dei problemi dei minori che poi si trascineranno dietro di sé il retaggio di eventuali esposizioni nocive precoci, non possiamo disinteressarci dei problemi dei loro genitori. Oggi conosciamo l'origine embrio-fetale delle malattie croniche cardiovascolari. Ad esempio, una bassa crescita intra-uterina costituisce un fattore di rischio importante per una varietà di disturbi cronici come l'ipertensione, il diabete di tipo 2, l'infarto e l'ictus () Dal punto di vista, poi, dello sviluppo della personalità, il fattore che più di ogni altro influisce sul rendimento scolastico è l'ambiente familiare (Wilkinson). L'apprendimento inizia alla nascita. Molti studi hanno dimostrato che i comportamenti conosciuti nell'infanzia tendono ad essere replicati nell'età adulta. Ad esempio, i bambini maltrattati o abusati tendono ad abusare e maltrattare a loro volta nel corso della vita adulta. La scuola da sola non è in grado di controbilanciare l'influenza di un ambiente familiare inadeguato (vedi Figura Allegato 2). Conta, soprattutto, promuovere condizioni di maggior benessere nelle famiglie d'origine. La scuola, infatti, riproduce le disuguaglianze, le conferma, non riesce a colmarle. Nello studio della coorte britannica del 1970 si dimostra, ad esempio, che i bambini di alto livello sociale riescono a recuperare lo svantaggio di una bassa capacità cognitiva posseduta all'età di 22 mesi (10' percentile) piazzandosi, a 10 anni a un livello corrispondente al 60' percentile. Quelli di basso livello sociale che partono da una capacità cognitiva analoga non riescono, invece, a recuperare che minimamente. D'altra parte, i bambini di basso livello sociale che avevano una buona capacità cognitiva a 22 mesi (90' percentile) all'età di 10 anni peggiorano la loro posizione piazzandosi sotto il livello raggiunto dai loro coetanei che a 22 mesi si posizionavano al 10' percentile, ma appartenevano a un'alta classe sociale. E' come se ai bimbi più svantaggiati si fosse legata una zavorra ai piedi e, ai bimbi più fortunati, si fossero invece, messe le ali. Dovremmo mettere le ali a tutti i bambini o, perlomeno, liberarli dalle zavorre.

Altri esempi. 1) Vedi confronti sulla situazione dei bambini: l'italia a confronto con altri Paesi secondo l’Unicef (Tabella tratta da “Internazionale”: allegato n. 3) Il rapporto dell'Unicef, purtroppo, mette in luce una verità molto amara che riguarda il nostro Paese. Esso occupa le ultime posizioni in classifica, benché i nostri uomini di governo abbiano enfatizzato da anni il valore della famiglia e proclamino continuamente di schierarsi a sua difesa. Tutta questa ostentazione priva di contenuti suona veramente ipocrita. Tanto più se consideriamo la peculiare avarizia nelle politiche nazionali di contrasto alle forme più gravi di deprivazione. Nel 2007, ad esempio, l'Europa ha destinato alle politiche minorili e di sostegno alla famiglia mediamente il 2,1% del proprio Pil. L'Italia, il paese che più di ogni altro ha fatto della retorica della famiglia il

cavallo di battaglia delle sue politiche sociali, ha destinato un misero 1,2%, poco più della metà della media europea.

2) Cosa vorrebbe dire essere equi in tema di pensioni? Equità e pensioni

Equità è una parola grossa. Se ne discute molto a proposito delle manovre di governo, in particolare riguardo ai cambiamenti introdotti nel 2011 dalle norme sulle pensioni. Non si vuole, qui, entrare nel dettaglio dei provvedimenti, ma tentare di chiarire che cosa potrebbe significare il valore dell'equità se fosse tenuto in adeguata considerazione anche solo per quanto riguarda questo particolare ambito della vita umana.

- Allo stadio più elementare, equità potrebbe significare non togliere a chi ha meno per dare a chi possiede di più. Sembrerebbe scontato. Si tratta, infatti, di un pre-requisito necessario, nel senso che di equità si dovrebbe incominciare a parlare solo dopo avere soddisfatto questa condizione preliminare. Eppure, se teniamo presente quello che avviene riguardo alle pensioni, sembra, proprio, una punizione a danno dei più poveri. Col sistema contributivo, infatti, ognuno concorre, nel corso della vita lavorativa, a mettere da parte una certa somma. Questa somma, opportunamente rivalutata grazie a una gestione il più possibile oculata, dovrebbe, poi, essere restituita, a chi la ha accantonata, in frazioni mensili, sulla base del calcolo della speranza di vita residua dopo l'età del pensionamento. Se la speranza di vita di una determinata categoria di lavoratori è più bassa, le frazioni mensili dovrebbero essere più alte perché la somma totale accumulata coi contributi versati non va più divisa per i mesi relativi, ad esempio, a 14 anni di vita residua, ma a 10. Invece, il calcolo è basato sulla speranza di vita "media". Non si tiene conto di quello che, purtroppo, si sa, ossia che la longevità varia a seconda della posizione sociale. Tra le categorie sociali più svantaggiate (come gli operai con basso grado di istruzione) e quelle più fortunate, la differenza nella durata della vita residua a 65 anni può arrivare a 4 anni sui 14 mediamente previsti. In base al metodo vigente si restituisce, ai pensionati delle classi sociali più avvantaggiate, qualcosa di più di quello che spetterebbe, e ai pensionati delle classi sociali inferiori, qualcosa di meno: equipariamo tutti alla media senza tener conto, come dovremmo, della situazione reale dimostrata dalle statistiche attuariali. Quindi, come si anticipava, diamo meno di quanto dovremmo ai più poveri e diamo, invece, più di quanto dovremmo a chi sta meglio. Togliamo ai più poveri per dare ai più ricchi.

- Una volta assodato che non si deve togliere a nessuno ciò che gli appartiene, se volessimo essere equi a un gradino appena successivo, dovremmo dare di più a chi ha più bisogno. Infatti, sempre a proposito delle classi sociali e degli studi statistico-epidemiologici che le riguardano, sappiamo anche che le differenze nella speranza di vita libera da disabilità, tra i gruppi più svantaggiati e quelli più fortunati, sono ben maggiori della semplice speranza di vita. Ad esempio, nel Regno Unito, dove questi fenomeni sono stati più studiati, le differenze salgono a ben 17 anni: 53 anni per i più poveri e 70 anni per i più ricchi. Uno scarto così importante dovrebbe farci ragionare, in termini di equità, non solo sulla necessità di differenziare adeguatamente l'età di cessazione del lavoro, ma anche di rendere il più possibile funzionali i servizi sanitari e sociali essenziali affinché le persone che ne hanno più bisogno possano utilizzarli con costi minimi. Le code d'attesa, la compartecipazione alla spesa, la tortuosità dei percorsi burocratici e assistenziali rappresentano ostacoli da rimuovere, se si vuole rispettare effettivamente il valore dell'equità, perché colpiscono più crudelmente le persone con maggiori bisogni. A queste dovrebbero essere assicurati percorsi facilitati per agevolarne la fruizione.

- Se, poi, si volesse salire su un gradino ancora più alto della scala dell'equità, dovremmo riflettere più approfonditamente sui danni provocati dalle sperequazioni. Gli studi epidemiologici hanno ormai dimostrato come i Paesi più sperequati siano gravati da maggiori problemi sanitari e sociali e raggiungano livelli più bassi nell' "Indice di sviluppo umano" misurato dall'Onu. Accade, addirittura, che le classi sociali del grado

più basso di un Paese meno sperequato, come la Svezia, godano di una maggiore longevità delle classi sociali del grado più alto di un Paese più sperequato, come il Regno Unito. Per ridurre le sperequazioni non esiste solo la strategia redistributiva, a seguito del prelievo fiscale, ma è anche possibile intervenire a monte, sulle retribuzioni. Un tempo, fino agli anni 70, veniva considerato equo che l'amministratore delegato di una grande impresa guadagnasse fino a 30 volte lo stipendio di un usciere. Oggi succede che guadagni 300-400 volte più di lui. Per via della legge dei benefici marginali decrescenti, il vantaggio personale che deriva da quote di reddito così astronomiche si approssima allo zero. Si alimentano esclusivamente avidità e invidia. Se, viceversa, si volessero rimpolpare al di sopra di una soglia minima di decenza gli stipendi più magri connessi coi lavori meno qualificati, si potrebbe consentire ai lavoratori, tra l'altro, di versare dei contributi più cospicui per la successiva pensione. Non si scadrebbe, certo, nell’egualitarismo. Sarebbe un modo per riconoscere un minimo di dignità al lavoro di tutti e garantire maggior sicurezza per il futuro.

L'esempio delle pensioni, pur nella sua semplicità, chiarisce alcuni possibili significati e implicazioni del valore dell'equità. E' importante che se ne parli, magari allargando la prospettiva ad altri campi dell’esistenza umana. Dovrebbe risultare evidente, infatti, che, se non possiamo realisticamente aspettarci molto dalla “crescita”, la società nel suo complesso potrebbe, viceversa, aspettarsi tantissimo dall'equità, ossia da una crescita particolare, quella dell’equilibrio. Le sperequazioni sono nocive a tutti, come un gas tossico che ammorba l’aria da respirare. Non fanno male solo ai più sfortunati che ne sopportano, tuttavia, il maggior peso, ma privano di benessere e salute anche le componenti più avvantaggiate della società. Insomma, se non riusciamo a convincerci del valore dell'equità grazie a ragioni morali, dovremmo persuaderci almeno sulla base di ragioni pragmatiche. In un modo o nell'altro l’equità finirà per rappresentare il traguardo più ambito da raggiungere. E' importante, però, diventarne fin da ora consapevoli, senza restare troppo a lungo inebriati dall’illusione di una “crescita” che, purtroppo, di progressivo ha solo il suo squilibrio. Lezione 6’ e 7' Oggi riprendiamo con il problema delle disuguaglianze. Grazie all'analisi di diversi risultati tratti da studi scientifici internazionali, siamo riusciti a condividere dei giudizi di fatto relativi all'impatto delle sperequazioni socio-economiche sul benessere della popolazione del mondo industrializzato. I dati disponibili ci hanno dimostrato che le sperequazioni non danneggiano solo i più sfortunati, ai gradini più bassi della scala socio-economica, ma danneggiano le popolazioni nel loro complesso. In base al grado di sperequazione esistente si potrebbero distinguere, da un parte, delle società più malate e, dall'altra, delle società più sane. Per di più, le disuguaglianze provocano i loro danni fin dal concepimento e dalle fasi più precoci dell'esistenza. Possiamo, quindi, affermare di aver dimostrato che sono malefiche perché generano malessere sia da un punto di vista sanitario che sociale. Ma, oltre che malefiche, le disuguaglianze sono anche ingiuste? Continuando a riflettere sulle disuguaglianze, nella lezione di oggi, ci chiederemo quanto siano inique le sperequazioni esistenti. Non basta, infatti, sapere, sulla base di giudizi di fatto, che esse generano una gran quota di sofferenza. Se vogliamo cambiare la

situazione attuale, contraddistinta da una mole così estesa di disuguaglianze, dobbiamo anche convincerci che sono inaccettabili, in quanto profondamente inique. Dovremmo, quindi, arrivare a persuaderci reciprocamente e condividere dei giudizi di valore. Prima di proseguire, vale ancora la pena ricordare che la distinzione tra giudizi di fatto e giudizi di valore, così insistentemente richiamata, ha una finalità didascalica, per aiutarci a comprendere le componenti più specifiche dei nostri giudizi e avvalerci dei metodi più appropriati per chiarirli e condividerli. Nella realtà, qualsiasi esperienza che noi facciamo del mondo, è inestricabilmente intrecciata con le 2 componenti: i fatti e i valori ad essi attribuiti. La percezione del mondo, perciò, non è mai puramente oggettiva, ma sempre intrisa delle emozioni che suscita, Dopo aver chiarito le ragioni dell'approccio analitico che stiamo seguendo, continuiamo col nostro ragionamento. Giudizi di valore Che giudizio di valore, allora, esprimiamo sull'esistenza delle disuguaglianze e dei loro impatti? Certo, disuguaglianze così abissali da mettere qualche fortunato nelle condizioni di soddisfare qualsiasi capriccio e, all'altro estremo, tali da non consentire ad altri di sfamarsi o ripararsi sotto un tetto sono difficilmente accettabili. Addirittura ci ripugnano, in particolare quelle esibite, a volte in modo sfacciato. Ma anche un eccesso di uguaglianza, come l'egualitarismo più bieco che non riconosce l'impegno, il merito e lo spirito di sacrificio, è a sua volta inaccettabile. Oltre tutto mortificherebbe la libertà di iniziativa, l'intraprendenza e finirebbe per favorire il dilagare della pigrizia, a danno della società tutta intera. Come possiamo giudicare, allora, le disuguaglianze? Vediamo se ci aiutano i passi di ragionamento tipici della strategia dell'equilibrio riflessivo. a) La prima cosa da fare è definire il problema di interesse. Qual è il problema? Potremmo riassumere in questo modo, ricordando quanto già detto.Le disuguaglianze sono molto aumentate negli ultimi decenni; da tempo si conosce il loro impatto negativo sul benessere dei più poveri. Oggi è stata pienamente riconosciuta anche l'influenza sfavorevole che esse esercitano sull'intera società. Per di più, si è scoperto che esse manifestano i loro effetti negativi fin dalle prime fasi dell'esistenza. In altre parole, la posizione sociale dei genitori predetermina, per tanta parte, le traiettorie di vita, il destino sociale e la salute dei figli. b) Quale posizione prendere? In relazione a quale principio rilevante e pertinente? Potrebbe venirci spontaneo manifestare la nostra avversione di fronte a disuguaglianze eccessive che ci sembrano inaccettabili. In nome di quale principio potremmo sostenere questa posizione? Ricordiamo, prima di tutto, che si definisce principio un enunciato che riflette la nostra costellazione di valori di riferimento. Potremmo cercare nella Storia qualche insegnamento. Le varie dichiarazioni internazionali sui diritti umani e le carte costituzionali che si sono succedute nel tempo rappresentano le espressioni più alte dei valori e dei principi condivisi nelle comunità umane. Esse, di volta in volta, hanno voluto tutelare i valori più calpestati, in relazione con le circostanze storiche che li mettevano a rischio. Da queste solenni enunciazioni dovrebbero discendere, con coerenza, le leggi e le politiche dei vari governi, anche in ambito sanitario e sociale.

In relazione al problema specifico delle disuguaglianze, potremmo riferirci inizialmente al seguente principio: “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti". E' quanto afferma l'articolo 1 della dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, sancita solennemente nell'assemblea dell'Onu del 10 dicembre del 1948. Circa un anno prima, la nostra Costituzione, all'articolo 3 stabiliva che "tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la liberta e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese". L'intenzione era di garantire a tutti la libertà dal bisogno, condizione indispensabile per l'effettivo godimento dei diritti civili, politici e sociali. Se l'eguaglianza, allora, si riferisce in particolare alla dignità e ai diritti che ne conseguono, dovremmo, prima di tutto, soffermarci a riflettere sui diritti e sulla loro natura. Non tutti i diritti hanno la stessa perentorietà ed esigibilità. Non comportano lo stesso grado di obbligazione da parte di chi li deve rispettare e, quindi, non possono essere invocati con la stessa forza da parte di chi ne è titolare. Ad esempio, si possono distinguere diritti civili, politici e sociali... I diritti civili si sono affermati per primi, in risposta alla necessità di essere tutelati dagli eccessi di un potere dispotico e assoluto come quello dei tiranni. Anche i re avevano potere di vita e di morte sui loro sudditi. Potevano privare di qualsiasi bene e della vita stessa ogni abitante del loro regno senza rendere conto ad alcuno di ciò che facevano. Il loro è stato, per molti secoli, un potere assoluto e completamente arbitrario. Diventava perciò prioritario, per i comuni mortali, difendersi da questi eccessi. Un passo fondamentale in questa direzione è stato ottenere che ci fossero delle leggi scritte, cui tutti potessero fare riferimento, così come è avvenuto tra gli antichi Romani, per evitare l'assoluto arbitrio delle autorità. Sulla stessa scia il re d'Inghilterra, nella Magna charta del 1215, proclamava il principio dell' "habeat corpus" promettendo a ogni uomo libero di non mettere mano su di lui, se non in virtù del giudizio legale dei suoi pari, secondo le leggi del Paese. Dopo i diritti civili, si sono affermati i diritti politici relativi all'elezione dei propri rappresentanti e alla facoltà di candidarsi per essere eletti (solo nel 1946 in Italia il diritto di voto fu esteso alle donne; in Svizzera, ad esempio, solo nel 1971 ) I diritti sociali si sono affermati in un'epoca ancora successiva. A differenza dei diritti civili, come quello di libertà (di pensiero, parola, religione, associazione, circolazione, stampa, proprietà), che richiedono, per essere rispettati, l'astensione da parte di un'autorità almeno potenzialmente crudele e vessatoria, i diritti sociali richiedono, invece, delle prestazioni. Non si limitano, quindi, al diritto più generale di non subire ingerenze arbitrarie, di veder rispettate le cosiddette libertà negative. Richiedono un impegno attivo da parte delle istituzioni. I diritti sociali si sono affermati e sono stati poi tradotti in norme giuridiche nel 900. Ad essi appartengono il diritto alla sicurezza, al lavoro, alla salute, all'istruzione, alla famiglia, all'alloggio...Sono condizionati da circostanze socio-economiche e politiche. Il loro rispetto è subordinato alle risorse che sono rese disponibili dalla società in una determinata epoca storica. Hanno quindi caratteri di discrezionalità e ineffettività che li rendono particolarmente problematici per la teoria del diritto. Dovrebbero essere le etiche pubbliche a suggerirci, secondo diverse prospettive, il modo in cui vanno distribuiti questi diritti nell'ambito delle società e quanto dovrebbe essere influenzata questa distribuzione dalle disuguaglianze sociali presenti.

A questo punto, per orientarci meglio ed esprimere dei giudizi di valore più consapevoli sulle disuguaglianze, passiamo brevemente in rassegna i 4 principali approcci filosofici di cui trattano Arnsperger e Van Parijs nel loro bel libro. 1) Partiamo dall'utilitarismo. E' un'etica consequenzialistica. Giudica un'azione in base alle conseguenze che provoca. Tra le diverse azioni possibili sono da preferire quelle che ottengono gli effetti migliori. Lo slogan dell’utilitarismo è: "Il maggior bene per il maggior numero". Cosa può dirci l'utilitarismo rispetto alle disuguaglianze nelle condizioni socio-economiche? Sono disfunzionali perché contrastano con la sua finalità principale di massimizzare il benessere nelle popolazioni cui è interessato. Se, infatti, teniamo conto della legge economica dei benefici marginali decrescenti, impariamo che una più equa distribuzione del reddito potrebbe migliorare il benessere di tutti. La legge insegna, infatti, che le utilità che possiamo ottenere in seguito all'acquisizione di unità aggiuntive di un qualsiasi bene tendono progressivamente a diminuire nella loro importanza. Riprendendo una figura già illustrata, se, ad esempio, si potessero spostare 5.000 euro di reddito annuo pro-capite dai Paesi della fascia attorno ai 40.000 euro ai Paesi della fascia attorno ai 2000 euro, il benessere complessivo della popolazione mondiale aumenterebbe notevolmente perché i benefici dei Paesi più affluenti, con quella perdita, diminuirebbero senz’altro molto meno di quel che guadagnerebbero i Paesi più poveri, grazie all’acquisto aggiuntivo degli stessi 5000 euro. L’utilitarismo, quindi, in nome della massimizzazione del benessere collettivo, potrebbe essere propenso a trasferimenti di questo tipo. Ciò potrebbe accadere o tramite politiche retributive più eque oppure tramite una redistribuzione in seguito a tassazione o tramite un welfare più selettivo e attento ai veri bisogni. L'attualità dell'utilitarismo risiede anche nel fatto che esso resta il riferimento teorico fondamentale per la riflessione etica degli economisti. Essi si sono a lungo preoccupati di migliorare le condizioni della popolazione. Ma spesso hanno equivocato la prosperità col benessere. Tra gli economisti, tuttavia, va menzionato un gruppo particolare, quello degli economisti sanitari che ci hanno offerto dei validi contributi. Quando è in gioco il diritto alla salute, ad esempio, gli economisti sanitari si avvalgono, per la scelta tra diverse opzioni alternative, dei risultati del calcolo dell'utilità attesa. L'utilità viene definita come "l'indicatore della soddisfazione che la persona si aspetta di trarre dal raggiungimento dei suoi obbiettivi". Ad esempio, nel caso del tutto ipotetico in cui i bilanci sanitari fossero fortemente ridotti, si potrebbe essere costretti a selezionare solo una tra 2 patologie su cui è possibile intervenire. Ma come fare a scegliere? Il criterio potrebbe consistere nel selezionare la patologia abbinata all'intervento per cui il rapporto costo/utilità è più favorevole, scartando l'altra. Nell’esempio seguente (fittizio) si confronta la terapia del diabete giovanile a base di insulina (che si deve protrarre per l’intera esistenza) con la terapia dello scompenso cardiaco, tramite il trapianto cardiaco. Si deve tener conto di diversi fattori. Nella tabella, subito dopo il costo dell'intervento, compare la sua efficacia. Nell'esempio abbiamo assunto un'efficacia massima per l'insulina (uguale a 1) e un'efficacia inferiore per il trapianto (uguale a 0,5). L'indicatore usato per l'utilità è solitamente il Qaly (quality adjusted life years), ossia gli anni di vita guadagnati in seguito all'intervento e aggiustati per la loro qualità di vita. L'aggiustamento del numero di anni guadagnati in base alla loro qualità di vita si impone poiché guadagnare, ad esempio, 30 anni con una grave disabilità potrebbe essere valutato equivalente a guadagnarne 20 anni in condizioni di piena salute. L'utilità attesa è data dal prodotto dell'utilità (in questo caso espressa in Qaly) per l'efficacia dell'intervento.

Se il budget a disposizione fosse estremamente limitato, gli interventi dovrebbero ridursi alla terapia del diabete giovanile perché questa recherebbe i maggiori benefici rispetto all'intervento sullo scompenso. Farebbe guadagnare, infatti, circa 70 anni di vita aggiustati per la qualità a un costo complessivo di 70000 euro. Un anno di vita guadagnato, attraverso questa terapia, costerebbe 1000 euro, a fronte dei 20000 euro che costerebbe, invece, se guadagnato attraverso il trapianto cardiaco in pazienti affetti da scompenso. Nel caso in cui non fosse così evidente l'opportunità della scelta della terapia del diabete giovanile, si potrebbe ricorrere alla cosiddetta analisi di sensitività, in cui si modifica il valore di variabili, sulla cui misura esiste qualche incertezza, per verificare se la scelta viene modificata o meno da questi cambiamenti. Quando la scelta non sia sensibile alle modifiche del valore delle variabili (entro gamme di valoro plausibili) possiamo ottenere una riconferma della sua opportunità. intervento costo efficacia Qaly

(Utilità) Utilità attesa

Rapporto costo/utilità

Diabete Scompenso

70.000 100.000

1 0,5

70 10

70 5

1.000 20.000

L'utilitarismo, però, in quanto teoria consequenzialista, non si interroga sull'accettabilità dei mezzi impiegati per ottenere i risultati voluti. Inoltre, l'ottenimento di una conseguenza voluta potrebbe entrare in conflitto coi diritti di qualcuno. Il rischio potrebbe essere, ad esempio, quello di ricorrere a mezzi che limitano troppo la libertà, sacrificando, quindi, un diritto fondamentale per massimizzare il benessere. Occorrerebbe, invece, conciliare sempre tra di loro valori che sono, in parte, conflittuali. Amartya Sen propone di superare questo limite proprio dell'utilitarismo includendo tra le conseguenze, nel calcolo delle utilità ottenute, anche i mezzi impiegati e il rispetto dei diritti. Sen supera anche un altro limite dell'utilitarismo perché tiene conto delle differenze nella distribuzione delle utilità, oltre che della loro massimizzazione. Un conto, infatti, è ottenere una utilità di dimensione 1000 a vantaggio di una sola persona, un conto diverso è ottenerla distribuendola su 100 persone. Anche se le utilità per le singole persone sono inferiori, il vantaggio, nel secondo caso, va considerato superiore perché più equamente distribuito. Concludendo, l'utilitarismo ha fornito molti contributi sul miglior uso possibile delle risorse. Esso tende al benessere aggregato e non esclude di avvalersi della legge dei benefici marginali decrescenti per contrastare le sperequazioni. In ambito sanitario ha tradizionalmente sottolineato l'importanza della definizione delle priorità per garantire l'universalità dell'accesso e la gratuità delle prestazioni essenziali, a favore dell'equità tra tutti i cittadini. Lo ha fatto fornendo opportuni criteri di scelta tra interventi alternativi quando le risorse sono limitate, attraverso il ricorso al rapporto costo/utilità più favorevole. Nonostante ciò, tuttavia, l'utilitarismo non gode di una buona reputazione, da un punto di vista della qualità delle sue scelte etiche. Si tratta, però, di una reputazione, almeno in parte, immeritata, poiché ha a che fare non tanto con la sua teoria, ma con l'uso che talora ne è stato fatto. Si è confusa, infatti, l'attenzione al calcolo razionale delle utilità, intese come indicatori di soddisfazione, con un atteggiamento di tipo edonistico che l'utilitarismo, appunto, promuoverebbe. La confusione poteva, per certi versi, essere generata dalla formulazione originaria dell'utilitarismo compiuta da Jeremy Bentham che legava le utilità al piacere ottenuto. Se, invece, ci riferiamo alla versione che dell'utilitarismo ha dato John Stuart Mill verso la metà dell'800, l'utilità non viene legata esclusivamente a un interesse egoistico. Essa può includere tutto ciò che dà senso alla vita umana (il piacere estetico o

intellettuale o la sofferenza psichica o spirituale). Può essere associata alla soddisfazione che deriva da qualsiasi atto: ad esempio, al piacere connesso con un gesto di generosità, con una relazione di amicizia, l'ascolto della musica, la lettura di un libro, la contemplazione di un paesaggio. La teoria dell'utilità attesa ha il merito di consentire delle misure quantitative per scegliere in condizioni di incertezza. Non dobbiamo, però, trascurre le difficoltà di assegnare i diversi valori alle variabili che entrano nella formula per il calcolo del rapporto costo/utilità: una difficoltà che limita le potenzialità delle sue applicazioni. 2) Che contributi può darci, a sua volta, il marxismo? Lo slogan del marxismo è diverso: "A ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue capacità". Si manifesta un'attenzione molto pronunciata nei confronti dell'equità. Il limite consiste nel capire quali sono i bisogni e le capacità di ciascuno. Il ruolo spetterebbe all'apparato di uno Stato totalitario. Ma le possibilità di prevedere e pianificare tutto si sono rivelate assolutamente illusorie. L'intenzione era quella di rimuovere le disuguaglianze esistenti, in reazione agli eccessi dell'economia capitalistica. Ma l'egualitarismo che non tiene conto dell'impegno, dei meriti, dello spirito di sacrificio e mortifica la libera iniziativa è a sua volta ingiusto. Il rimedio alla disuguaglianza può diventare peggiore del male. Per di più, nelle società comuniste, le disuguaglianze persistevano nelle caste privilegiate del partito unico e dell'apparato militare. Il marxismo, a proposito di disuguaglianze, ha avuto il grande merito di denunciare l'ingiustizia dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, la sofferenza di masse di lavoratori che vivevano in condizioni degradate e assolutamente prive di qualsiasi tutela. In conclusione, il marxismo considera inaccettabili le disuguaglianze socio-economiche, anche se non ha saputo indicare, nella concretezza della sua storia, una strategia valida per arrivare a società più giuste, in cui non fosse mortificata, per vie diverse, la dignità dell'essere umano. 3) Cosa dice, a questo punto, il libertarismo? Se per il marxismo il valore più importante coincide con l'eguaglianza, per il libertarismo esso corrisponde con la libertà. L'uomo ha il pieno diritto di proprietà di sé. Deve essere libero di agire senza, però, minacciare la libertà di altri. Va tutelato il principio di giusta circolazione dei diritti di proprietà: questi devono essere scambiati senza frodi e coercizioni. Nel caso in cui siano intervenute frodi e coercizioni, andrebbe applicato il principio di rettificazione. In base ad esso lo status attuale non può essere accettato perché è inestricabilmente ingiusto. Occorrerebbe un azzeramento, una ripartizione egualitaria di tutte le ricchezze disponibili prima di effettuare una nuova partenza. Ci si potrebbe chiedere di che natura è la libertà del libertarismo. Si tratta di un a libertà formale perché una libertà autentica presuppone la garanzia dei mezzi per esercitarla: livelli adeguati di istruzione, di salute, di disponibilità economica. Concludendo, non si può certo dire che il libertarismo sia particolarmente attento al problema delle disuguaglianze se derivano dal libero gioco delle forze di un mercato non truccato. Tuttavia, esso invoca il principio di rettificazione per un nuovo inizio tutte le volte che si siano verificate frodi o coercizioni. La teoria del libertarismo si rivela, così, molto meno libertaria rispetto al modo in cui la predicano e la praticano i suoi sostenitori. 4) Quali contributi può dare, infine, l'egualitarismo liberale di Rawls alla nostra discussione? Come dice il nome, si propone di conciliare il valore della libertà con quello dell'uguaglianza. Esso vuole garantire a tutti l’applicazione del principio di equa

eguaglianza delle opportunità. Non esige che si garantisca a tutti i cittadini la stessa probabilità di accesso alle diverse posizioni sociali. Richiede solo che le persone con gli stessi talenti naturali abbiano la stessa opportunità di accesso a quelle posizioni, in base alle loro diverse concezioni di vita buona. Vale, poi, il principio di differenza. Si possono fare delle differenze solo se vanno a vantaggio di chi sta peggio. Ad esempio, le persone non dotate di alcun particolare talento dovrebbero accedere alla posizione di lavoratore non qualificato ed essere remunerate in modo tale da aver garantita una vita decente, al di là di quanto imporrebbero, di per sé stesse, le leggi vigenti di mercato. L'organizzazione della società dovrebbe essere tale da proteggere tutti i suoi membri dall'arbitrio della cosiddetta roulette biologica e sociale cui è sottoposto ciascun essere umano. Dovremmo sempre metterci nei panni di chi sta peggio e, attraverso leggi adeguate, proteggere le persone che sono state colpite da menomazioni, disabilità, handicap (roulette biologica) così come coloro che hanno avuto la sfortuna di nascere in ambienti particolarmente degradati (roulette sociale). A questo proposito, Rawls parla di un "velo di ignoranza" che dovrebbe ricoprire il legislatore nel momento in cui legifera. Questo velo non dovrebbe certo riguardare i giudizi di fatto del legislatore che, anzi, dovrebbero essere il più possibile illuminati dalla conoscenza di tutti i saperi disponibili. Il velo di ignoranza richiama, invece, la necessità, da parte del legislatore, di astrarsi dalla sua posizione di privilegio e mettersi davvero nei panni di coloro che vivono nelle condizioni peggiori al fine di rendere la vita decente anche per loro. In conclusione, per Rawls le disuguaglianze di opportunità sono ingiuste. Vanno tutelate soprattutto le persone che hanno subito l'arbitrio degli esisti sfavorevoli della cosiddetta roulette biologica e sociale. Amartya Sen, a completamento della teoria di Rawls, sottolinea, accanto alla posizione sociale e al reddito ad essa legato, l'importanza di contesti socio-culturali adatti. A parità di reddito, infatti, non tutti hanno la stessa capacità di trasformare la propria ricchezza in "funzionamenti", ad esempio in un'adeguata nutrizione, in una vita affettivamente felice, in buone condizioni di salute. Un'adeguata qualità dei processi educativi e dell'istruzione sono un prerequisito essenziale per contrastare la disuguaglianza. Che cosa possiamo dire, a questo punto, delle disuguaglianze, dopo aver passato in rassegna, in termini molto succinti, le 4 teorie della giustizia? Tre approcci filosofici le considerano inique e motivano diversamente il loro giudizio negativo: - l'utilitarismo perché esse contrastano con la massimizzazione dell'utilità attesa; - il marxismo perché contrastano con il valore dell'eguaglianza tra gli uomini; . l'egualitarismo liberale perché contrastano con l'equa eguaglianza di opportunità nell'accesso alle diverse posizioni sociali. Lo stesso libertarismo, il quarto approccio esaminato, benché sensibile più che altro al valore della libertà che, in diverse circostanze, potrebbe confliggere con quello dell'equità, considera ingiusto lo stato attuale di disuguaglianza e, in virtù del principio di rettificazione, propone una nuova partenza dopo una ripartizione egualitaria della ricchezza. Continuando a seguire i passi della strategia dell'equilibrio riflessivo, l'applicazione del principio per cui gli esseri umani nascono liberi e eguali in dignità e diritti, oltre tutto, procurerebbe maggior benessere alla popolazione nel suo complesso, non solo ai gruppi più direttamente interessati in quanto svantaggiati rispetto agli altri. La politica, perciò, dovrebbe studiare la miglior combinazione possibile tra distribuzione, redistribuzione del reddito e assetto del welfare, tale da rendere effettiva una maggiore equità nelle nostre società così sperequate.

C'è da chiedersi, allora, come mai in questi ultimi decenni le disuguaglianze siano persistite, nonostante fossero note da tempo nella loro consistenza e nei loro impatti. Ad esempio, nel regno Unito si sono succeduti, tra il 1980 e il 2010, 4 rapporti importanti, commissionati dai vari governi, sulle disuguaglianze di salute: tutti sostanzialmente concordi nelle analisi e nelle raccomandazioni, ma con esiti fallimentari perché le differenze di mortalità nelle diverse classi sociali si sono nel tempo progressivamente acuite. Eppure, sempre restando all'esempio del Regno unito, si sono succeduti governi di vario colore politico. Nonostante questo, non ci sono state sostanziali differenze di approccio al problema. Perché? Perché la politica, in questi ultimi decenni ha abdicato dal suo ruolo. Ha subito una progressiva subordinazione nei confronti dei potentati economici cui si è inchinata, sia a destra che a sinistra degli schieramenti politici. La dimostrazione più evidente è stata, in tutti questi anni, la dittatura del Pil cui di fatto si sono prostrati tutti i governi. La misura del Pil per quantificare il benessere degli stati è l'analogo della misura del reddito di una persona per valutare il suo benessere. Si tratta di una semplificazione inaccettabile perché, al di là di una certa soglia di reddito, ciò che qualifica l'esistenza umana dipende dalle relazioni, dalla qualità dell'educazione ricevuta, dalla salute, dalla sicurezza, dalla salubrità dell'ambiente, dalla bellezza delle città in cui si abita. Ridurre una persona al suo reddito equivale ad assimilare la dignità umana alla capacità di acquistare e possedere. Un indicatore come il Pil potrebbe essere consono con le esigenze dell'apparato produttivo che ha come fine il suo auto-potenziamento, mediante la vendita dei suoi prodotti. Mal si adatta, invece, alle esigenze ben più variegate di uno Stato che ha a cuore il benessere di tutti i suoi cittadini. Bisognerebbe misurare anche l'andamento dell'istruzione, della salute, della ricerca, dell'inquinamento, della sicurezza... Si avvertono, tuttavia, dei segnali nuovi che potrebbero lasciar intravedere delle diverse attenzioni. L'Onu, fin dal 1990, ha elaborato un nuovo indice, quello dello "sviluppo umano" che rIassume in sé, oltre al reddito di cui riconosce l'importanza, anche la longevità e il grado di istruzione. Proprio nel 2010, a sottolineare l'attenzione sulle disuguaglianze, ha fatto la sua comparsa l'indice di sviluppo umano aggiustato per l'equità, che tiene conto della variabilità di ognuna delle 3 dimensioni dell'indice. Non basta la media a qualificare l'indice: tanto minori sono le disuguaglianze, infatti, tanto più allto esso diventa. Si tratta di un segnale ancora timido, perché non ha fatto ancora breccia nelle menti di chi governa il mondo, ma è già significativo per il suo valore simbolico. Su questa scia, infatti, anche il nostro Paese ha stabilito, nel 2011, di mettere a punto nuovi indicatori diversi dal Pil, che proprio in questi giorni hanno visto la luce e compongono il cosiddetto Bes (benessere equo e sostenibile). Lettura e commenti dell'articolo di Stglitz (allegato n 4) Conclusione La disuguaglianza non causa solo un'immensa mole di sofferenza umana, ma pregiudica, per larga parte, il destino delle persone, fin dalla loro nascita. Possiamo affermare che questo è un enunciato dichiarativo, proprio dei giudizi di fatto, validato da un punto di vista scientifico.

Ma possiamo anche aggiungere che la disuguaglianza va considerata inaccettabile e iniqua. E questo è un enunciato normativo, proprio dei giudizi di valore. Infatti, tutti gli uomini dovrebbero nascere liberi ed eguali in dignità e diritti, a differenza di quanto succede. Lo confermano anche le differenti teorie della giustizia, benché con modalità e accentuazioni diverse. La politica ha fatto poco per contrastare la disuguaglianza. Anzi, ha lasciato che negli anni aumentasse e accentuasse la sua nocività. Ha affidato ai sistemi di welfare il compito di soccorrere i casi più gravi. Si tratta di sistemi eminentemente riparativi perché cercano di rimediare agli impatti delle disuguaglianze dopo che questi si sono verificati. Dovremmo tendere, invece, alla prevenzione. E questo non sarebbe più un compito esclusivo del welfare, ma di tutta la politica. La politica, se mai dovesse riappropriarsi del suo ruolo, dovrebbe riprendere proprio di qui. Ma di questo parleremo la prossima volta. Lezione 8’ L'impatto delle disuguaglianze e dell'ingiustizia ad esse legata ci induce ad affrontare in modo nuovo la questione della prevenzione. Col termine prevenzione si sogliono intendere delle cose molto diverse tra loro. Alcune hanno un valore dubbio. Solo la prevenzione primaria è la prevenzione vera, su cui dobbiamo investire. E' poco praticata perché è estranea agli interessi della medicina e dell'industria della salute. Entrambe, infatti, prosperano sull'esistenza delle malattie. Purtroppo, poi, la prevenzione primaria sembra essere estranea anche agli interessi della politica. E' rimasta orfana, in attesa che qualcuno, cui stanno a cuore gli interessi della popolazione, la adotti e le permetta di crescere. Incominciamo a premettere qualche distinzione. Si parla di 3 diversi tipi di prevenzione: primaria, secondaria, terziaria. 1) Primaria: è l'unica prevenzione che merita questo nome, come si anticipava. Comporta la rimozione o attenuazione delle cause di malattia, disabilità e malessere. Appartiene alla prevenzione primaria la cosiddetta promozione della salute. Essa viene definita come processo di "knowledge development" (emancipazione) o " empowering", volto a rendere capace la popolazione di aumentare il controllo sulla sua salute e migliorarla. Ci sono fondamentalmente 2 approcci alla promozione della salute: uno di tipo più educativo, l'altro, invece, socio-strutturale. 1) Il primo, più esercitato negli USA negli ultimi 20 anni, concepisce la promozione della salute come un tentativo di ridurre i rischi connessi con stili di vita sfavorevoli, attraverso programmi diretti a individui e gruppi bersaglio appropriati: è l' approccio stili di vita. 2) Il secondo, più praticato in Canada e in alcuni Paesi Europei, sottolinea le influenze socio-strutturali sulla salute. Esso si basa sugli enunciati della carta di Ottawa del 1986, secondo la quale le condizioni e le risorse fondamentali per la salute sono la pace, l'abitazione, l'istruzione, il cibo, il reddito, un ecosistema stabile, le risorse sostenibili, la giustizia sociale e l'equità. Il miglioramento dei livelli di salute deve essere saldamente basato su questi pre-requisiti fondamentali che vanno ben al di là degli stili di vita sani. Tra gli interventi di promozione della salute con approccio socio-strutturale sono particolarmente importanti quelli volti a diminuire le disuguaglianze sociali. Questo approccio tiene anche conto degli enunciati della conferenza di Rio (1992, Agenda 21) e del progetto Città sane (1992) che testimoniano, da una parte, sensibilità ai problemi ambientali e di sostenibilità, dall'altra, impegno a costituire delle comunità in cui tutte le

organizzazioni, dai gruppi informali alle istituzioni di governo, lavorano efficacemente insieme per migliorare la qualità della vita di tutti. La base filosofica di questo secondo approccio consiste nel dirigere i suoi interventi a ridurre le iniquità nei confronti delle opportunità di una buona salute. Volendo fare un confronto tra le 2 diverse strategie, è dimostrato come quelle basate sulla partecipazione comunitaria e sul coinvolgimento dell'intera popolazione risultino molto più efficaci ed efficienti rispetto agli interventi settoriali sui gruppi identificati "a rischio" . Si possono prendere ad esempio 2 interventi finalizzati a contrastare i problemi legati alle malattie cardio-vascolari. Confrontando l'intervento in North Karelia (una regione della Finlandia), basato sulla partecipazione comunitaria, e il progetto Multiple Risk Intervention Trial (negli Usa), basato sulla selezione di gruppi a rischio, il rapporto costo efficacia, relativo all'abbassamento della mortalità, è stato stimato 80 volte più favorevole, nel primo caso. La valutazione di interventi complessi è sempre problematica. Eppure diventa sempre più necessario cercare di identificare quelle politiche capaci di avere maggiori impatti favorevoli sulla salute della popolazione, anche quando riguardano settori diversi da quello prettamente sanitario (come, ad esempio, in ambito di scuola, trasporti, urbanistica, alloggi, industria...). Questa attenzione, oggi assolutamente doverosa, viene testimoniata nella dichiarazione di Adelaide che parla di salute in tutte le politiche, per sottolineare l'importanza primaria del bene della salute. Infatti, gli obbiettivi dei governi sono raggiunti al meglio quando tutti i settori includono benessere e salute come componenti essenziali dello sviluppo politico complessivo. La prevenzione primaria, quindi, intesa secondo l'approccio socio-strutturale, non ha a che fare tanto con la medicina, ma con interventi politici e sociali volti a creare le condizioni più favorevoli per promuovere e mantenere la salute. Gli esempi più tradizionali di prevenzione primaria riguardano il risanamento degli alloggi degradati, l’approvvigionamento di acqua potabile, l'igiene degli alimenti, lo smaltimento dei rifiuti liquidi e solidi, l'obbligatorietà delle vaccinazioni. Solo più recentemente, in seguito ai guasti dell'industrializzazione selvaggia, la legislazione si è occupata delle industrie insalubri e dell'esposizione a composti chimici nocivi. Si è, poi, reagito all'epidemia di incidenti stradali e si è reso obbligatorio l'uso del casco, delle cinture di sicurezza e si è regolamentata l'esposizione all'alcol. Si è anche reagito di fronte all'epidemia di malattie cardio-vascolari e tumori polmonari limitando l'esposizione al fumo, incluso quello passivo. Vengono, invece, spesso trascurati, nell'ambito della prevenzione primaria, interventi meno specifici, ma di portata più ampia e profonda. Il più importante è l'impegno politico per assicurare condizioni di vita decenti per tutti. Gli esempi di riferimento potrebbero provenire dal caso della Svezia e del Giappone. Questi Paesi hanno adottato 2 strategie diverse per attenuare le sperequazioni. Nonostante le differenze, entrambi hanno raggiunto il loro scopo con successo. La Svezia agisce soprattutto con la tassazione, la conseguente redistribuzione e un welfare molto avanzato. Il Giappone agisce soprattutto con una distribuzione dei redditi meno sperequata fin dall'origine. Tramite questi provvedimenti non hanno solo diminuito la povertà assoluta, che oggi è fortunatamente limitata nei Paesi industrializzati. Hanno diminuito anche la frequenza della povertà relativa, identificata, ad esempio, da un reddito inferiore del 40%-60% rispetto al reddito medio nazionale. Si tratta di risultati importanti. Infatti, alla diffusione della povertà relativa e allo stress da essa generata, è dovuta tanta parte del malessere sanitario e sociale che affligge le nostre società. 2) Prevenzione secondaria: la sua finalità è diagnosticare precocemente una condizione di malattia, nell'assunto che un intervento medico più anticipato possa comportare un

vantaggio per il malato. Ci sono, però, 2 difficoltà. Non tutte le malattie si prestano a una diagnosi precoce attraverso interventi di screening che devono potersi avvalere di test poco costosi, accettabili, di rapida e semplice somministrazione. Secondariamente, non è scontato che la diagnosi precoce procuri un effettivo vantaggio. A volte il prolungamento della sopravvivenza che si è registrato nel caso di malattie ad alta letalità diagnosticate precocemente è stato solo fittizio: non è dovuto a un'effettiva posticipazione della morte, ma a un'anticipazione del momento di misurazione del tempo di sopravvivenza. Nel proporre interventi di screening occorre non solo tener conto dei loro costi, ma anche degli eventuali danni che derivano, ad esempio, dalle radiazioni ionizzanti impiegate in alcuni screening di massa o dal cosiddetto eccesso di diagnosi e di interventi. Si potrebbero diagnosticare anticipatamente, infatti, casi di tumore che lasciati al loro decorso naturale potrebbero, poi, regredire spontaneamente, in assenza di trattamenti più o meno aggressivi. E' ciò che può capitare, ad esempio, per i tumori del seno in fase iniziale. Per questo motivo da diversi anni, ormai, i ricercatori più avveduti hanno messo in dubbio l'utilità di questo screening eseguito secondo le attuali modalità. Bisognerebbe cambiare principalmente 2 cose, attraverso l'impegno della ricerca. Da una parte, occorrerebbe diventare capaci di selezionare meglio il gruppo "bersaglio" delle donne da sottoporre a screening, per evitare un inutile eccesso di diagnosi; dall'altra, si dovrebbe riuscire a capire meglio come intervenire sulle persone con carcinoma diagnosticato in fase precoce, per evitare un eccesso di trattamenti ingiustificati. Le pratiche più comuni di prevenzione secondaria riguardano gli screening oncologici, come quello del cancro del collo dell'utero, del seno e del colon-retto. 3) Prevenzione terziaria: mira a promuovere più corretti stili di vita, in persone che già si sono ammalate, e a favorire eventuali percorsi riabilitativi. Esempi frequenti della sua applicazione riguardano malati di cuore che vengono invitati a smettere di fumare, abbassare la pressione, aumentare l'attività fisica, perdere peso, alimentarsi meglio. Fatta questa premessa, ci rendiamo conto che la vera prevenzione, quella che riduce la frequenza delle malattie, è la prevenzione primaria. Essa intende, infatti, eliminare o attenuare le "cause", definite come quei fattori senza i quali un effetto non avrebbe potuto verificarsi, nelle specifiche circostanze in cui è accaduto. Cause uniche o multiple? Nell'ambito biologico e delle scienze umane abbiamo a che fare con cause particolari. Quasi mai, poi, si tratta di cause uniche, necessarie e sufficienti a provocare da sole un determinato effetto. Al contrario di ciò che avviene nell'ambito della fisica e della chimica, dove è più facile capire quale sia la causa di un fenomeno, nell'ambito delle scienze umane, è più difficile individuare ciò che causa, ad esempio, una malattia. Anche nei casi che sembrano più semplici, come quelli delle malattie infettive, si è scoperto che il microrganismo infettante non basta, da solo, a causare la malattia, Si è constatato, ad esempio, che le persone infettate dal micobatterio della tubercolosi erano molto più numerose di quelle che si ammalavano effettivamente. Perché si sviluppasse la malattia era sì necessaria l'infezione del micobatterio (ossia la sua penetrazione nell'organismo ospite), ma non era sufficiente da sola. Occorreva la concomitanza di particolari condizioni ambientali e dell'ospite: ad esempio, da una parte, alloggi malsani o sovraffollati, dall'altra, persone denutrite o con qualche deficit immunitario. A maggior ragione, se si esce dal campo delle malattie infettive per entrare in quello delle malattie cronico-degenerative, che oggi costituiscono di gran lunga i problemi prevalenti in

ambito sanitario e sociale, occorre tener presente che non esiste mai una singola causa necessaria e sufficiente insieme, ma una costellazione di fattori di rischio. Si parla di "complessi causali multifattoriali". Si usa dire, a proposito di molti tumori, che la loro genesi è provocata da un insieme sufficiente ma non necessario di fattori, ognuno dei quali, preso singolarmente, non è né necessario né sufficiente. E' solo l'interazione di una combinazione sufficiente di più fattori a provocare lo sviluppo di un tumore. Per rendere più chiaro il concetto di causalità necessaria o sufficiente faccio un altro esempio. La caduta di una tegola in testa può essere una causa sufficiente di un trauma cranico. Essa non è, però, una causa necessaria perché il trauma cranico potrebbe manifestarsi in seguito ad un incidente d'auto, una caduta o in tanti altri modi ancora. Le cause necessarie e sufficienti insieme sono più l’eccezione che la regola. Ad esempio, nel caso dell'emofilia, siamo in presenza di una causa necessaria e sufficiente: un particolare difetto genetico è la causa di questa malattia che ostacola la coagulazione del sangue. Cause deterministiche o probabilistiche? Se le malattie più frequenti fossero dovute a un'unica causa, il compito della prevenzione sarebbe molto facilitato. Basterebbe concentrare l’attenzione su un solo fattore. Invece è tutto più complicato. Anche perché i vari fattori di rischio che concorrono nella genesi delle malattie non le determinano con certezza. Si possono, ad esempio, citare casi di persone che hanno superato i 100 anni fumando e bevendo a più non posso. I fattori di rischio, quindi, in combinazione tra loro, non causano con certezza una data malattia, ma aumentano la probabilità della sua comparsa. Spesso accade che il gettito di malati provenienti dalla vasta parte della popolazione esposta a rischi di media entità sia superiore al gettito di malati proveniente dal gruppo molto più ristretto di popolazione esposto a rischi di alta entità. Probabilità anche piccole moltiplicate per grandi numeri danno, infatti, luogo a una massa superiore di malati rispetto a probabilità più alte moltiplicate per numeri molto inferiori. Proprio a causa di questa constatazione, la prevenzione deve basarsi su interventi estesi alla totalità della popolazione, non solo a individui particolarmente esposti rispetto ad altri. Altrimenti la prevenzione otterrebbe un impatto troppo limitato. Cause prossime o remote? Un altro problema della prevenzione, oltre a quello della multi-fattorialità dei complessi causali e del loro ruolo probabilistico (non deterministico) nel provocare gli effetti indesiderati, riguarda il grado di approfondimento nella ricerca dei fattori di rischio. In particolare, quanto bisogna spingersi indietro nel tempo per indagare le catene causali? Da un punto di vista teorico occorrerebbe spingersi fino a trovare una causa in grado di influenzare da sola diversi fattori di rischio e problemi di salute. Se si riuscisse, infatti, a intervenire su di essa eliminandola, si potrebbero disinnescare dei processi correlati con l'origine comune di diverse malattie. Si taglierebbe alla radice una vasta ramificazione di malattie che provengono dallo stesso tronco. Ma un approccio di questo tipo non è il più seguito. Si suole fermarsi alle cause prossime anche perché risulta molto più semplice risalirvi. I limiti della strategia preventiva individuale Prendiamo l'esempio delle malattie cardiovascolari che sono responsabili del maggior numero di morti nella nostra popolazione e di una cospicua parte della spesa sanitaria. Da diversi decenni, ormai, si sa che le malattie cardiovascolari sono associate con alcuni fattori di rischio tra cui i più importanti sono il fumo, l'ipertensione, l'ipercolesterolemia, il diabete, il sovrappeso, lo stress...

L'approccio preventivo tradizionale è consistito nella raccomandazione di smettere di fumare, di abbassare la pressione, migliorare l'alimentazione, muoversi maggiormente, diminuire di peso. Si tratta dell'approccio "stili di vita", come abbiamo prima anticipato. Si è soliti seguire una strategia preventiva individuale. A parte i provvedimenti legislativi che sono stati adottati da molti Stati per disincentivare il fumo di tabacco e diminuire i luoghi di esposizione passiva, gli interventi preventivi hanno riguardato, per lo più, le persone esposte a un rischio di sviluppare malattie cardiovascolari eccedente una determinata soglia. Oggi esistono diverse formule per calcolare la misura del rischio che interessa ogni singola persona. Vengono selezionate le persone esposte a uno o più fattori di rischio sopra specifiche soglie e si interviene su di loro con prestazioni di carattere medico. Viene, così, adottato l'approccio tipico dei medici che usano rivolgere il loro interesse alle singole persone che hanno bisogno del loro aiuto. Si ritiene che la prevenzione debba essere fondamentalmente una questione di assennatezza. Una volta informati e consapevoli dei danni relativi a certe esposizioni nocive, si crede che diventi consequenziale modificare in modo favorevole i propri stili di vita e adottare dei comportamenti più sani. Purtroppo, invece, non accade così. Nel caso in cui, poi, non basti la modifica dei comportamenti individuali per abbassare, ad esempio, il colesterolo o la pressione a livelli accettabili, si suole ricorrere a farmaci del tipo degli anti-ipertensivi e delle statine, che diminuiscono rispettivamente la pressione arteriosa e il livello del colesterolo nel sangue. Nonostante le buone intenzioni, però, la strategia preventiva individuale ha messo in evidenza diversi limiti: a) ci si ferma al primo stadio nella ricerca delle cause (quello delle cause prossime) e, così facendo, si medicalizzano dei problemi che sono spesso di origine sociale; b) è difficile modificare i comportamenti di una persona quando intorno a lei l'ambiente resta immodificato: bisognerebbe, piuttosto, modificare la cultura di tutti; c) resta alta l'inesattezza delle previsioni dello sviluppo di una malattia in un singolo individuo, benché etichettato "a rischio". Nella pratica può succedere che persone a basso rischio possano ammalarsi, mentre altre, ad alto rischio continuino a star bene; d) il beneficio complessivo per il controllo del problema nella popolazione è spesso deludentemente basso. Farmaci e abbassamento delle soglie Se poi si guarda, specificamente, alla pratica dell'uso dei farmaci per ridurre l'esposizione a fattori di rischio, la questione diventa ancora più problematica. Abbiamo citato prima, ad esempio, l'uso di anti-ipertensivi e di statine con l'intento di abbassare, rispettivamente, la quantità di esposizione all'ipertensione e al livello di colesterolo nel sangue. In questi casi, come in altri in cui i farmaci non vengono utilizzati a scopo curativo, ma a scopo preventivo, la cautela è, però, d'obbligo. Sappiamo, infatti, che ogni farmaco, oltre ad avere un costo che può diventare rilevante, soprattutto nel caso debba essere assunto quotidianamente e per tutta la vita, ha anche la possibilità di provocare degli effetti indesiderati. Questi ultimi possono essere noti, in quanto già individuati e studiati, o ancora ignoti, soprattutto quando si utilizzano farmaci relativamente nuovi. Se i farmaci vengono utilizzati con finalità curativa su malati di una certa malattia, possono essere confrontati tra loro, da una parte, costi e rischi della terapia e, dall'altra, i vantaggi ottenuti dalla cura. La cura va prescritta quando i vantaggi superano i rischi e i costi. Quando, però, i farmaci non vengono somministrati per curare ma per prevenire, si possono calcolare allo stesso modo i costi e i rischi connessi con la loro somministrazione, non i vantaggi. I vantaggi ottenuti dal loro impiego sono, infatti, del tutto aleatori. C'è la possibilità che vengano somministrati per tutta la vita farmaci a persone che, nella grande

maggioranza dei casi, non avrebbero comunque sviluppato la malattia che si intendeva prevenire. Esse si trovano, così, a sopportare i costi e gli eventuali effetti indesiderati di una somministrazione incapace di assicurare alcun beneficio consistente. Situazioni di questo tipo sono diventate più gravi e frequenti in questi ultimi decenni per via dell'affermazione di un fenomeno indotto, per tanta parte, dalle multinazionali farmaceutiche: il cosiddetto progressivo abbassamento delle soglie. Con questi termini ci si riferisce al fatto che, ad esempio, la soglia di rischio della colesterolemia oltre cui trattare farmacologicamente le persone per abbassarne il livello, è passata da valori superiori a 250 mg/100 ml negli anni 70 ai valori attuali di 190 mg/100 ml. Analoghe diminuzioni nelle soglie di riferimento sono intervenute per la glicemia a digiuno, l'ipertensione e l'osteoporosi. In seguito a questi abbassamenti di soglia si afferma che circa la metà della popolazione nelle nostre società dovrebbe assumere quotidianamente dei farmaci. Ci avviamo verso una medicalizzazione universale senza essere consapevoli del fatto che i rischi connessi con questi eccessi tendono sempre di più a superare gli eventuali benefici che possiamo trarne. Una diversa strategia preventiva I limiti e gli eccessi della strategia preventiva individuale basata sul rischio ci inducono a proporre una strada diversa. Già gli approcci di popolazione, come quelli seguiti in Finlandia (nella Carelia settentrionale) per contrastare le malattie cardiovascolari, sono più efficaci, efficienti ed equi: sono state emanate con successo delle leggi per abbassare il contenuto di grassi negli alimenti in commercio, ottenendo attraverso questa via una notevole diminuzione nelle malattie cardiovascolari. Meglio ancora sarebbe, però, non fermarsi ai fattori di rischio più immediatamente associati con le malattie cardiovascolari, ma risalire alle loro cause. Bisogna capire che cosa provoca, ad esempio, l'ipertensione, l'abitudine al fumo, l'ipercolesterolemia, una diminuita tolleranza al glucosio. La massima aspirazione consisterebbe nel riuscire a risalire a una causa da cui origina la maggior parte dei fattori di rischio. Se si riuscisse a eliminare questa causa, si eliminerebbero anche tutte le sue conseguenze. Non dovremmo rincorrere l'eliminazione di ogni singolo fattore di rischio, ma concentrare i nostri interventi su questo specifico precursore. A parte questo, poi, non ci troveremmo a medicalizzare dei problemi che sono eminentemente sociali. Abbiamo ricordato prima, a proposito delle strategie individuali, quanto sia difficile modificare i comportamenti di una persona quando resta circondata da un ambiente immutato che continua a condizionarla nello stesso modo di prima. Anche quando esistono problemi biologici associati alle malattie, essi sono oltre tutto, sempre fortemente intrecciati a problemi economici e sociali su cui è importante intervenire. Nella seguente figura viene ben esemplificata l'interazione tra fattori biologici e sociali nell'avvento di malattie respiratorie. La bassa posizione socio-economica condiziona negativamente tutti i percorsi di malattia. Anche il percorso contrassegnato con la lettera a) che sembrerebbe condizionato, al contrario degli altri, da fattori prevalentemente biologici (il percorso b è prevalentemente sociale, quello c) è sociale e biologico insieme, mentre quello d) è biologico e sociale.) , vede, in realtà, come precursore del basso peso alla nascita le condizioni socio-economiche della madre. Esiste, infatti, per il basso peso alla nascita, un netto gradiente sociale correlato con lo stress cui è stata sottoposta la madre nel corso della sua vita.

Schematic representation of biological and psychosocial exposures acting across the life course that may influence lung function and/or respiratory disease.

Ben-Shlomo Y , K uh D In t. J. Epidemiol. 2002;31:285-293

© International Epidemiologica l Association 20 02

Ritornando, ora, al problema della malattie cardiovascolari, non può sfuggire come anch'esse, al pari della malattie respiratorie, vedano come precursore le precarie condizioni socio-economiche della madre cui consegue il basso peso alla nascita. I più recenti studi dell'epidemiologia delle malattie croniche confermano, infatti, che una bassa crescita intra-uterina è accompagnata da alterazioni immunitarie, endocrine, vascolari e infiammatorie e, tramite queste, predispone a malattie cardio-vascolari, diabete, ipertensione oltre che a una vulnerabilità aumentata agli effetti di successive condizioni avverse. Quindi, migliorare le condizioni socio-economiche incominciando da chi sta peggio e diminuendo il divario rispetto a che è più avvantaggiato, non solo consente di abbassare la frequenza di malattie cardiovascolari, ma di prevenire altre malattie e disabilità e di vivere, tutti quanti, una vita più sana. Periodi critici Abbiamo così capito che, nell'ambito della prevenzione, occorre risalire, ogni volta che è possibile, alle cause precorritrici di diverse altre cause che, a loro volta, procurano problemi di salute. Le "cause" delle cause più importanti sono quelle che agiscono nei cosiddetti periodi "critici": ossia in quei momenti, come la gravidanza, in cui sono in grado di procurare effetti durevoli per tutta l'esistenza su strutture e funzioni di sistemi biologici, organi e tessuti. L'aver messo in luce l'esistenza di un periodo critico come la gravidanza non deve farci pensare esclusivamente alla necessità di migliorare il controllo delle donne e dello sviluppo embrio-fetale nel corso della gestazione o di organizzare corsi di preparazione al parto più adeguati e accessibili. Certo, un rinnovato interesse verso i consultori familiari e il loro rilancio sarebbe quanto mai opportuno. Non si tratta, però, di una questione esclusiva di igiene della gravidanza. L'attenzione principale va riservata alle condizioni socio-economiche avverse sopportate dai genitori fin dalla loro fanciullezza. Differenze di 2 o 3 volte nella frequenza di basso peso alla nascita, infatti, non sono spiegate da fattori di rischio presenti durante la gravidanza. Sono spiegate, viceversa, da condizioni stressanti sperimentate nelle prime fasi di vita della madre.

In altre parole, il basso peso alla nascita può essere considerato un esito intermedio tra le condizioni avverse della fanciullezza nella prima generazione (quella della madre) e la salute debilitata dell'adulto nella generazione successiva (quella del figlio). La strategia preventiva qui sopra delineata si rivela estremamente efficace. Riesce, infatti, a interrompere un circolo vizioso che si trasmette sia di generazione in generazione che all'interno di una generazione, acuendo progressivamente lo svantaggio col passare del tempo, dalla nascita alla vita adulta e fino alla vecchiaia. Gli interventi preventivi contro le eccessive sperequazioni socio-economiche diminuiscono, infatti, sia le esposizioni a fattori nocivi, sia la vulnerabilità e le malattie conseguenti a queste esposizioni, sia le disabilità connesse con le patologie intervenute (vedi Figura). Essi hanno bisogno di tempo per manifestare appieno i loro effetti benefici: occorre il passaggio di un'intera generazione per spezzare il circolo vizioso. Interessarsi della salute dei bambini, infatti, significa interessarsi di quella dei loro genitori e migliorare il modo in cui essi nascono, crescono, vivono, studiano e lavorano.

Conclusione In base alle conoscenze oggi disponibili, la prevenzione dovrebbe seguire un nuovo corso: quello della prevenzione primaria, delle strategie di popolazione e delle cause remote. La diminuzione delle sperequazioni socio-economiche migliorerebbe radicalmente le condizioni di salute della popolazione nel suo complesso e corrisponderebbe appieno al nuovo corso auspicato per la prevenzione. Adotterebbe, infatti, strategie di popolazione e mirerebbe a rimuovere cause remote, alla base di tanti esiti di malessere sanitario e sociale. Gli effetti sociali sarebbero immediatamente percepibili. Gli effetti sulla salute, viceversa, per manifestarsi nella loro completezza, avrebbero bisogno del passaggio di un'intera generazione.

C'è,comunque, un'urgenza morale per intervenire. La prevenzione diventa assolutamente prioritaria. Le eccessive disuguaglianze socio-economiche causano, infatti, una vasta mole di sofferenza e sono inique perché violano il principio secondo cui gli uomini devono nascere liberi e uguali in dignità e diritti Allo stato attuale, invece, le conoscenze scientifiche dimostrano che le condizioni dei genitori predeterminano il destino dei figli ancor prima che essi nascano, in un circolo che può diventare davvero infernale per i più sfortunati. E questo non dovrebbe essere più accettato dalle nostre coscienze.

Lezione 9' Dottor Antonio Censi. Le politiche a favore degli anziani. Accoglienza e integrazione nei servizi per gli anziani Vedi allegato 5 Inquadramento a) I vecchi aumentano. L' Italia, insieme con il Giappone, è uno dei Paesi con la popolazione più anziana del mondo: non solo per via della longevità dei suoi abitanti, ma anche per la bassa fecondità, quasi da primato mondiale. In Italia la popolazione anziana sopra i 64 anni conta il 20% della popolazione totale. Le persone sopra i 79 anni sono circa 1/3 del totale degli anziani. b) Di conseguenza aumentano i malati, rispetto al passato. Le malattie, infatti, sono più frequenti tra le persone anziane. Le disabilità crescono pure, ma di meno. Crescono perché sono legate alle malattie, a loro volta in aumento Ma crescono meno, rispetto alle malattie, perché vengono gestite meglio che nel passato, grazie ai progressi in campo bio-medico. Circa 1/3 sono gli anziani affetti da disabilità. c) Per posticipare l'inizio delle malattie e della disabilità nella vecchiaia bisognerebbe puntare di più sulla promozione della salute. Dall'inizio del ventesimo secolo ad oggi abbiamo guadagnato circa 40 anni nell'attesa di vita. Ma siamo arrivati anche a dover convivere per diversi anni con la malattia. Mai come in questa fase storica gli esseri umani sperimentano sulla propria pelle così a lungo la condizione di fragilità che è propria della loro natura. La malattia interviene quasi inesorabilmente nelle ultime fasi della vita. Ma un'adeguata promozione della salute potrebbe spostarla più in là nel tempo e permettere di vivere più a lungo in una condizione libera da malattia e disabilità. Un eccessivo aumento della morbosità nelle persone anziane potrebbe, quindi, essere considerato un insuccesso della prevenzione. Così come un aumento più contenuto della disabilità, analogo a quello che oggi constatiamo tra gli anziani, potrebbe essere considerato, invece, un successo della cura. Ancora una volta, quindi, dovremmo puntare sulla prevenzione che ci permetterebbe, grazie ai suoi effetti benefici, di concentrare gli sforzi della cura e della riabilitazione su un minor numero di persone. d) Per promuovere la salute negli anziani bisognerebbe anche puntare di più sulle componenti non fisiche della salute, ossia sul benessere psicologico e sociale. Perciò si dovrebbe incominciare almeno a contrastare pregiudizi e stereotipi che accompagnano la vecchiaia e le sottraggono quel tanto di potenzialità di cui resta ancora dotata, nonostante le sue limitazioni. I vecchi, infatti, sono qualcosa di più e di diverso rispetto a corpi mal funzionanti che hanno progressivamente perso le loro prerogative umane.

e) Esiste anche un problema di medicalizzazione della vecchiaia. Ha a che fare soprattutto con l'adozione di strategie tipiche della medicina specialistica ospedaliera per le malattie croniche che riguardano gli anziani. Per rispondere ai problemi legatti alla cronicità bisognerebbe, invece, ricorrere alle strategia dell'assistenza sanitaria primaria, molto meno intrusiva e basata sulle risorse territoriali. Lo stesso atteggiamento medicalizzante si riflette anche nell'assistenza delle Rsa (residenze sanitarie assistenziali). Il peso della componente medica prevale troppo sul peso della componente sociale. Vengono messe in evidenza le carenze di corpi malfunzionanti, non vengono a sufficienza valorizzate le funzioni che restano ad animare la vita dei vecchi. A proposito delle politiche sanitarie che riguardano la popolazione anziana, si potrebbe dire che l'individualismo tipico della nostra cultura si rispecchia nella politica. Le politiche, infatti, partono costantemente dai problemi che la vecchiaia provoca sulla parte "valida" della società. Per una politica più matura e consapevole, bisognerebbe, invece, invertire la prospettiva e affrontare anche i problemi che la società, con le sue azioni e/o omissioni, provoca sui vecchi (vedi schema).

Per una inversione di prospettiva nelle politiche relative agli anziani

Impatti della vecchiaia sulla società

COSTI SOCIALIaumento della longevità :

aumento dei costi sociali e delle pensioni

COSTI SANITARIaumento delle malattie

croniche, aumento dei costi dei servizi sanitari

Impatti della società sulla vecchiaia

PREGIUDIZI E STEREOTIPIaumento del malessere

psicologico e sociale negli anziani

MEDICALIZZAZIONE

DISUGUAGLIANZAL'aumento delle sperequazioni

nelle nostre società contribuisce all'aumento

dell'incidenza delle malattie croniche negli anziani

INTENSIFICAZIONE DEI SERVIZI SPECIALISTICI

aumento dei costi sanitari per gli anziani e le loro famiglie (si adottano strategie

dell'assistenza specialistica ospedaliera a scapito di quella dell'assistenza sanitaria

primaria)

INTENSIFICAZIONE DEI SERVIZI SANITARI NELLE RSA

si accentua la componente sanitaria a scapito di quella sociale

Lezione 10.

Commento sull’articolo relativo alle bibite zuccherate (allegato 6)

Inquadramento del problema

a) Frequenza dell’obesità I criteri per valutare il peso sono definiti dal body mass index (BMI= peso (Kg) / h2 (m)): < 18,5 sottopeso; 18,5-25 normopeso; 25 -30 sovrappeso; > 30 obeso. Negli Usa circa il 30% della popolazione è obeso. Nel Regno Unito più del 20% è obeso. L’obesità è associata all’aumento delle malattie cardio-vascolari, dell’ipertensione, del diabete tipo 2, calcoli biliari, tumori, disturbi del sonno. Nelle femmine l’obesità è ancora più pronunciata che nei maschi.

A parte la salute fisica, l'obesità danneggia anche quella psicologica e sociale. Una volta i ricchi erano grassi, e i poveri magri. Oggi questo andamento si è invertito. All'aumentare dei tassi di obesità nella popolazione i gradienti sociali sono diventati più ripidi. Crescono, infatti, le differenze nella frequenza di obesità delle diverse classi sociali. Ci sono anche differenze molto intense tra Stati diversi. Sono correlate con le sperequazioni. Negli Usa la prevalenza di obesità è 12 volte superiore a quella del Giappone (dove il tasso è circa 2,5%). Gli obesi tendono a mangiare di più e a fare meno attività fisica. Sembra che l'obesità si ripercuota sulla mobilità sociale in modo maggiore per le femmine che per i maschi. Per questo la correlazione tra status sociale e obesità è più evidente per le donne. I neonati di basso peso sono più portati all'obesità, alle malattie cardio-vascolari e al diabete tipo 2, rispetto ai neonati di peso normale. Le politiche sanitarie si concentrano prevalentemente sul singolo, non tengono conto del ruolo svolto , dalle disuguaglianze economiche e dallo stress. Il ricorso al cibo è, infatti, dettato da un meccanismo compensativo. Le politiche sanitarie non tengono nemmeno conto del ruolo che le multinazionali dell’alimentazione hanno giocato nell’epidemia di obesità. Esistono delle somiglianze con le multinazionali del tabacco. Analogamente a queste, infatti, per sviluppare dipendenza nei consumatori, l’industria ha aumentato il peso delle porzioni e il contenuto di zuccheri e grassi nelle sue confezioni. b) La regolazione dell’appetito e della sazietà Siamo dotati di meccanismi molto sofisticati per mantenere il nostro peso corporeo. Quando controlliamo per settimane o mesi la quantità di calorie assunte con l'alimentazione e quelle bruciate dal metabolismo riscontriamo un sorprendente equilibrio. Il centro della sazietà nell'ipotalamo ventromediale e quello dell'appetito nell'ipotalamo laterale, sono ben regolati da segnali di adiposità (a medio e lungo termine) e di sazietà (a breve termine). L'ipotalamo controlla anche la temperatura corporea, l'equilibrio idrico-salino, la sessualità, l'aggressività... Il controllo a lungo termine dipende dalla quantità degli adipociti che secernono leptina. I recettori della leptina sono nell'ipotalamo, nel centro della sazietà. Essi inducono anche un aumento della spesa energetica. Quando, viceversa, la leptina cala, viene stimolato il centro dell'appetito. La regolazione a breve termina dell'appetito non è spiegata dal sistema omeostatico basato sulla leptina. Negli ambienti come i nostri, caratterizzati da un'abbondanza di cibo, sono fattori di tipo socio-culturale a indurre l'inizio di un pasto. Nel breve termine l'apporto calorico viene regolato da segnali di sazietà. Ne fanno parte i segnali meccanici di distensione delle pareti dello stomaco, l'aumento della glicemia e delle proteine nel sangue, la secrezione della colecistochinina da parte delle cellule dell'intestino tenue. La colecistochinina agisce tramite le terminazioni del nervo vago che inviano i loro stimoli all'ipotalamo. Da un punto di vista bio-evolutivo, siamo fatti in modo da mantenere il peso corporeo che abbiamo acquisito. La minaccia che l'evoluzione ha dovuto affrontare nei millenni era il dimagramento e la morte per fame, non l'ingrassamento e la morte per malattie croniche degenerative. L'alimentazione, come le droghe, attiva il circuito del piacere. L'assunzione di cibo induce un aumento del rilascio di dopamina. Ma il piacere legato all'assunzione di cibo è inferiore per chi è incline all'obesità. Sui neuroni dopaminergici dell'Area tegmentale ventrale (Atv) sono presenti recettori per la leptina. Quando la leptina è alta si inibisce la loro attivazione. Le regioni bersaglio dell'Atv mostrano nei soggetti obesi una minore densità dei recettori dopaminergici rispetto ai soggetti più magri. Si potrebbe concludere che i soggetti obesi assumono eccessive quantità di cibo per compensare circuiti del piacere poco funzionanti. Hanno un desiderio maggiore, ma provano un piacere minore, come avviene per le droghe.

L'obesità è influenzata per l'80% dalle interazioni tra genoma e ambiente. Queste interazioni comportano sia una sovra-alimentazione sia, in misura minore, una ridotta spesa energetica. Per quanto riguarda le interazioni tra geni e ambiente, non si può trascurare il ruolo dell'industria alimentare. Dal 1960 ad oggi il peso medio di un adulto negli Usa è aumentato di circa 12 kg. Ovviamente questo non è dovuto a cambiamenti genetici nella popolazione, ma è il risultato del marketing delle corporazioni alimentari volte a produrre e servire in grandi porzioni cibi e bevande che attivano al massimo il circuito del piacere al punto di avere la meglio sui segnali di sazietà e adiposità. I cibi grassi e quelli dolci sono i più appetibili. Di fronte alle minacce di frequenti carestie, questi cibi a maggiore densità calorica dovevano essere mangiati in abbondanza per sviluppare una riserva di grasso corporeo in previsione di tempi più duri. A parte l’industria alimentare, lo stress cronico è in grado di stimolare l'appetito in un'ampia gamma di mammiferi, incluso l'uomo. Come avviene? I neuroni dell'ipotalamo secernono l'ormone della liberazione della corticotropina da parte dell'ipofisi. Questa agisce sul surrene che produce corticosterone. Esso, insieme ai suoi metaboliti, raggiunge il cervello e induce sovra-alimentazione. Lo stress cronico agisce anche diminuendo le gratificazioni connesse con l'assunzione di cibo Quali principi potrebbero essere invocati? In questo caso un principio rilevante e pertinente potrebbe derivare dall’imperativo kantiano di non considerare mai l’essere umano come strumento, ma sempre come fine…