libera universita’ “maria ss. assunta” (lumsa) –...
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LIBERA UNIVERSITA’ “MARIA SS. ASSUNTA” (LUMSA) – ROMA
“S. SILVIA” – PALERMO
CORSO DI LAUREA IN SCIENZE DEL SERVIZIO SOCIALE E DEL NO-PROFIT
PERCORSO SERVIZIO SOCIALE – CLASSE 6
L’ASSISTENTE SOCIALE LIBERO PROFESSIONISTA: UNA POSSIBILE VIA
D’USCITA ALLA CRISI DEL WELFARE?
RELATORE: Prof.
Paolo Marchetti
CO-RELATORE: Prof.
Rita Pillitteri
ELABORATO di
Marta Grisanti
ANNO ACCADEMICO
2015\2016
Sommario
Introduzione ............................................................................................................................................ 3
CAPITOLO I ........................................................................................................................................... 5
1. La libera professione dell’assistente sociale in un welfare che cambia .......................................... 5
1.1 Nascita ed evoluzione della libera professione in Italia dagli anni ottanta ad oggi. .................. 5
1.1.1 Riferimenti normativi e deontologici e welfare mix ............................................................ 13
1.1.2. Il concetto di” professione” e “semiprofessione”. ............................................................... 16
1.1.3. Differenza tra” lavoratore autonomo” e” imprenditore” . ................................................... 18
1.1.4. Con la Legge 23 Marzo n° 84\93 Ordinamento della professione e istituzione dell’albo
professionale. ................................................................................................................................ 21
1.1.5. Riferimento Legislativo: la Legge Quadro 8 Novembre del 2000 n° 328. ......................... 24
CAPITOLO II ....................................................................................................................................... 32
2. Alcuni modelli teorici utilizzati nell’operatività professionale dell’assistente sociale ................. 32
2.1. Il modello Sistemico relazionale ............................................................................................ 32
2.1.1 Il colloquio in ottica sistemica.............................................................................................. 34
2.1.2 Il modello di rete e la prospettiva relazionale di P. Donati .................................................. 35
Capitolo III ............................................................................................................................................ 44
3. Il progetto di autoimprenditoria: apertura della Partita Iva e regime fiscale forfettario “ Start up “
2016. ...................................................................................................................................................... 44
3.1 Il bilancio delle competenze ........................................................................................................ 46
3.2 Comunicare se stessi ................................................................................................................... 48
CAPITOLO IV ...................................................................................................................................... 52
4. Le attività di uno studio professionale di servizio sociale ................................................................. 52
4.1 La progettazione .......................................................................................................................... 52
4.2. La mediazione familiare ............................................................................................................. 52
4.3 La Formazione e la docenza ........................................................................................................ 54
Conclusioni ........................................................................................................................................... 55
Riferimenti bibliografici ........................................................................................................................ 57
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Introduzione
La crisi economica in Italia, la trasformazione dell’attuale sistema di welfare, costringe i
cittadini a scegliere sempre più spesso servizi a pagamento.
Ciò fa sì, che gli assistenti sociali ridefiniscano la propria identità professionale che adesso,
non è più legata soltanto alla pubblica amministrazione ma lentamente si sta ritagliando uno
spazio crescente nell’ambito della libera professione.
Della libera professione se ne parla da anni ma in realtà si assiste ad una presenza ancora
irrilevante, perché occorre “saper essere” e “saper fare” la libera professione, occorre che vi
sia soprattutto un cambiamento culturale nel modo di sentire e vedere l’assistente sociale, sia
da parte dell’utente\cliente, sia da parte delle istituzioni chiamate a collaborare nella rete che
tesserà il professionista dell’aiuto per rispondere ai nuovi bisogni individuali e collettivi
emergenti.
A tal fine risulta fondamentale che gli assistenti sociali, disimparino la professione
“dipendente” e acquisiscano le metodologie, i modelli teorici tipici della libera professione;
occorre che anche le università non insistano nel proporre soltanto modelli operativi legati alla
burocrazia pubblica ma forniscano agli studenti modelli di lavoro sociale spendibili
concretamente nel mercato del lavoro ormai improntato verso la precarietà.
Per la stesura di questo elaborato tesi sono state consultate diverse fonti.
Nella prima parte, si affronta il tema della libera professione come una nuova dimensione del
servizio sociale in un welfare che cambia; si analizza la nascita e l’evoluzione della libera
professione dell’assistente sociale in Italia dagli anni 80’ ad oggi.
Successivamente, ho evidenziato la normativa vigente in materia di libera professione, la
Legge 23 Marzo 1993 n° 84 articolo 1 riguardante l’ordinamento della professione
dell’assistente sociale e l’istituzione dell’albo professionale; mi sono poi collegata con il
Codice deontologico professionale per avvalorare la presenza di questa nuova identità in
“divenire” dell’assistente sociale e ho spiegato la differenza secondo il codice civile tra libera
professione e imprenditoria e ho ricostruito in breve il passaggio dal welfare state al welfare
mix; ho spiegato brevemente la differenza tra il concetto di “professione e semiprofessione”.
Infine mi sono ricollegata alla Legge Quadro 8 Novembre del 2000 n° 328.
Nel secondo capitolo non potevo non far riferimento ai modelli teorici che vengono utilizzati
nell’operatività dell’assistente sociale nella libera professione, in particolare mi sono
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soffermata sul modello di rete nella prospettiva relazionale di P. Donati ma ho analizzato anche
il modello sistemico relazionale collegandomi così al colloquio in ottica sistemica.
Nel terzo capitolo ho affrontato un tema più tecnico ovvero quello del progetto di
autoimprenditoria, dell’apertura della Partita Iva, del regime fiscale forfettario “start up” 2016
secondo il Decreto di Stabilità 2016. Ho affrontato il tema del bilancio delle competenze, e del
come comunicare se stessi.
Nel quarto capitolo ho ritenuto opportuno parlare del delle attività di uno studio professionale
di servizio sociale, quali la progettazione, in fine della mediazione familiare e della formazione
e docenza.
In fine per concludere il mio lavoro, ho inserito le mie considerazioni personali in base a tutto
ciò che ho analizzato sulla libera professione dell’assistente sociale, soffermandomi sulle
competenze che il professionista dell’aiuto può mettere in campo concretamente per rispondere
ai bisogni dell’utente\cliente nell’attuale sistema di welfare.
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CAPITOLO I
1. La libera professione dell’assistente sociale in un welfare che cambia
1.1 Nascita ed evoluzione della libera professione in Italia dagli anni ottanta ad oggi.
Durante gli anni ottanta e novanta si è incominciato a parlare di libera professione dell’assistente
sociale, tuttavia la presenza degli assistenti sociali liberi professionisti, oggi risulta essere ancora
irrilevante (Albano, 2008); anche se qualcosa lentamente sta cambiando nello scenario italiano,
in quanto negli ultimi anni sempre più spesso si sono organizzati corsi accreditati dall’ordine
sulla libera professione, si sono costituiti gruppi studio, e sono stati organizzati seminari sulla
libera professione.
Tra i seminari più importanti annoveriamo quelli del Croas Liguria “Libera la professione”
ideAzioni sulla libera professione degli assistenti sociali avvenuto a Genova il venti Giugno
2014 (Commissione Formazione CROAS, 2014) e il 29 Aprile 2016, a Roma vi è stato l’ultimo
seminario organizzato dal Croas Lazio in cui hanno partecipato molti assistenti sociali liberi
professionisti provenienti da molte regioni d’Italia.
Questi gruppi di studio sulla libera professione organizzati dal Croas Lazio, hanno così ideato
un quaderno sulla libera professione dell’assistente sociale, frutto delle loro esperienze che è
stato redatto dal Professore Luigi Colombini direttore della rivista di servizio sociale Istisss. (La
libera professione, 2016, pp. 1-146).
Da ciò si evince quindi che qualcosa inizia a cambiare nel contesto Italiano attuale; ma quando
inizia ad evolversi questa nuova dimensione del servizio sociale? e cosa è cambiato ad oggi?. La
scelta di intraprendere la libera professione risale all’anno mille e novecento ottanta sei, circa
ventotto anni fa, tale scelta riguardava assistenti sociali che avevano maturato una buona
esperienza come dipendenti nelle amministrazioni pubbliche; questi stanchi di sentirsi vincolati
da logiche burocratiche hanno coraggiosamente rinunciato al “posto fisso” per iniziare il lavoro
sociale in forma autonoma o quasi; si trattava comunque di una scelta abbastanza coraggiosa e
rara, in quanto in quel periodo il lavoro sociale era incardinato, concepito, pensato in forma di
dipendenza e appartenenza ai servizi di pubblico impiego che ne delineavano interventi, confini
e risorse, si trattava quindi di assistenti sociali che avevano già maturato abbastanza esperienza
nella pubblica amministrazione (Okely, 2013, pp. 361-376).
In questo contesto l’ideazione e la progettazione di un’attività libera professionale mai
realizzata in Italia ma ben presente in altre realtà professionali come U.S.A. e Inghilterra,
rappresentava di certo una novità ma anche una divergenza, un uscire fuori dagli schemi
precostituiti e concezioni di base che erano parte di un impriming teorico ed operativo.
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Il progetto professionale fino ad allora, era strettamente legato all’appartenenza organizzativa
e istituzionale pubblica che garantiva lavoro e stipendio, utenza e spazi operativi, mentre la
libera professione appariva un progetto impossibile, una modalità di lavoro priva di riferimenti
e di metodologia.
Oggi il contesto è profondamente mutato, ci troviamo di fronte a una nuova dimensione del
servizio sociale che piano piano si stà ritagliando spazi sempre maggiori a causa della crisi
economico\fiscale e ai conseguenti mutamenti del nostro welfare; in pratica lo Stato non riesce
più a rispondere ai bisogni dei cittadini, così si ricorre sempre più spesso a interventi privati in
una logica di welfare mix (Okely, 2013).
Il lavoro sociale si presenta in forme differenti rispetto al passato, come anche la stessa
professione.
I modi e le forme del lavoro, così come l’inserimento nel mondo del lavoro per i nuovi assistenti
sociali, sono compresi in un ampio spazio tra lavoro dipendente, autonomo o quasi autonomo,
flessibile con contratti a progetto, a tempo determinato tramite cooperativa o associazione,
come libero professionista con ore spezzettate tra diversi enti e partita iva.
E’ cambiata profondamente in Italia e non solo, l’esperienza e la cultura del lavoro; il mondo
della professione sociale in pratica rispecchia la complessità ed eterogeneità del lavoro, che
non è più solo dipendente e non è ancora davvero libero professionale.
Le esperienze professionali di oggi sono in parte legate alle tradizioni e contemporaneamente,
offrono spazi, molto diversificati con gradi diversi di dipendenza e autonomia connessi al
contesto, al territorio, alle dimensioni soggettive che aprono ad opportunità legate alla
competenza specifica della persona.
Se negli anni ottanta e novanta, il lavoro degli assistenti sociali è stato orientato e diretto
prevalentemente all’area di lavoro con l’utenza, oggi il lavoro dipendente e libero professionale
è anche altro; esso investe l’area della comunicazione e dell’organizzazione, la gestione di reti,
il coordinamento operativo, la progettazione, e la gestione dei servizi.
Gli assistenti sociali stanno sperimentando e scoprendo strade nuove, e possibili itinerari
diversi dal passato, che legittimano e valorizzano competenze di base e specializzazioni.
Le domande sulla libera professione da parte di colleghi in questi anni, hanno rappresentato
degli indizi significativi per avviare la ricerca o l’indagine sulla libera professione (Okely,
2013).
All’inizio ma ancora oggi le domande e le interviste sulla libera professione, lasciano trasparire
sul versante soggettivo una possibilità nuova di lavoro, altre volte si è trattato di comparazioni
tra lavoro dipendente come esperienza storica conosciuta e lavoro libero professionale
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autonomo come” altra modalità” di lavoro nuovo e inconsueto in cui individuare limiti e
potenzialità (Okely, 2013).
Soprattutto negli anni novanta, la domanda di informazioni sulla libera professione, era
determinata da conto circuiti, da fasi di crisi nel legame di appartenenza e dipendenza connesse
alle vicende organizzative; si immaginava così un mercato aperto anche a domande private
riguardanti informazioni, consulenze sociali di sostegno in vicende di difficoltà familiare.
Con meno evidenza invece si evidenziava la ricerca, basata su motivazioni, interessi, attitudini,
studi e contesto, di un “proprio” progetto imprenditoriale, costruito a partire da valutazioni
soggettive e oggettive realistiche ed ancorate a potenzialità e limiti, sogni e realtà, della libera
professione in area sociale.
Il passaggio allora come oggi, è tra un’idea tradizionale e conosciuta di lavoro sociale e un
progetto d’impresa, che richiede creatività e capacità di rischiare, come analisi di mercato e di
ricerca di prodotto e offerta possibile, insieme a competenze gestionali, dentro ad una forte
identità professionale.
La difficoltà del lavoro consiste nella fatica di immaginare, prevedere la propria organizzazione
del lavoro, nell’individuare e definire i possibili interlocutori della propria offerta di beni e
servizi, nell’affrontare tutti i rischi connessi ai concetti di reddittività e profitto, di libero
mercato e di offerta in area professionale (Okely,2013).
Oggi a differenza di ieri, in cui il lavoro era appunto incardinato e pensato nelle istituzioni
pubbliche, si assiste ad una grande incertezza, vi è un lavoro che cambia in strutture ed enti che
si trasformano, dunque il lavoro va ricercato, costruito, immaginato, perseguito, con esperienze
che possono confondere il precariato con la simil\dipendenza, lo stage con la dipendenza a
tempo determinato; in pratica il lavoro dipendente e garantito non esiste più.
Le grandi difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro che molti giovani colleghi devono
affrontare fanno spesso pensare alla libera professione come ad una possibilità che facilita la
ricerca di lavoro.
Spesso le domande di informazioni e riflessioni anche in forum professionali, riguardano i
primi passi in quest’area di lavoro autonomo o libero professionale che riguardano
l’individuazione di tipologie e caratteristiche della possibile utenza.
Emerge invece meno, la ricerca delle caratteristiche di professionalità e competenza necessarie
per proporre interventi libero professionali o per iniziare un’attività con fini imprenditoriali ed
economici basata su variabili soggettive e oggettive praticabili in un contesto dato (Okely,
2013).
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Il lavoro libero professionale può essere effettuato con utenti\clienti che richiedono
informazioni, consulenze, può essere volto ad offrire servizi di segretariato sociale, può essere
un servizio orientato al sociale e dal sociale, proposto ed offerto ad altri enti e committenti che
lo richiedono per le sue specificità; può essere uno spazio orientato alla comunicazione sociale
o ad aree specifiche di formazione in ambito sociale.
Il progetto libero professionale va sempre calibrato su elementi e variabili che sono base di
partenza, su una raccolta dati relativa al proprio possibile contesto, ad aree o problemi nuovi e
vecchi ma poco presenti nel sistema dei servizi, per leggere individuare fenomeni sociali
emergenti o privi di risposta specifica o adeguata in area sociale.
Il punto di partenza è orientarsi nel contesto reale, raccogliendo idee dalla propria esperienza
e da una nuova attenzione alle risorse esistenti, a ciò che c’è nello spazio sociale e a ciò che
invece manca o è poco reperibile (Okely, 2013).
La domanda di intervento professionale nasce o può nascere in situazioni in cui emerge una
difficoltà a cui altri non possono o non vogliono o non sanno rispondere.
Si può costruire un’ipotesi di lavoro e un’offerta professionale in relazione a ciò che in quel
momento e luogo manca, o su aree e servizi che si individuano in base ad un’accurata analisi
della domanda sociale e ad una ricerca sulle possibili nicchie di mercato e sulle proprie
possibilità organizzative e gestionali.
L’area territoriale, le risorse e i vincoli, i servizi già esistenti e i finanziamenti possibili, sono
tutte variabili di cui tener conto nel progetto d’impresa e da pensare prima di avviarlo.
Va valutata la domanda sociale potenziale, uno scenario ampio o di nicchia per l’offerta
professionale, che può essere “al posto di” servizi o professioni assenti o insieme con altri
professionisti, a integrazione o in concorrenza.
In linea di principio il lavoro dell’assistente sociale libero professionista autonomo è lo stesso
del lavoro svolto all’interno delle amministrazioni pubbliche anche se la responsabilità
professionale è diversa se il contratto stipulato con il cliente\ utente è in una relazione diretta
faccia a faccia, tra professionista e cliente piuttosto che in una relazione professionale istituita
e definita da un ente pubblico in un servizio; (certamente vi è una maggiore autonomia di
azione da parte dell’operatore e anche da parte dell’utente\cliente).
Gli accordi, la fase del contatto si modificano profondamente quando l’organizzazione che
istituisce l’incontro è professionale privata è basata su quadri di riferimento ed intervento di
tipo fiduciario e personalizzato; cambia il contesto, il set, la motivazione iniziale alla tipologia
di consulenza e azione professionale (Okely, 2013).
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In un welfare ormai sempre più privato, a sussidiarietà, di mercato, in cui il cittadino con
sempre maggiore frequenza viene spinto a scegliersi servizi a pagamento, parlare di libera
professione diventa naturale ed essenziale per ogni assistente sociale che voglia definirsi
appieno come professionista (Albano, Bucci, & Esposito, 2008, pp.7-8).
Se ne parla da anni tra assistenti sociali, lo stesso tariffario è uno strumento conseguente,
eppure si assiste ancora oggi a un’irrilevante presenza della libera professione nel servizio
sociale. Non basta insomma, “volere” la libera professione, occorre anche “imparare” a farla e
questa operazione richiede non solo un addestramento puramente tecnico, ma anche una
rivoluzione identitaria per nulla facile per l’assistente sociale italiano, da sempre dipendente
(Albano, Bucci, & Esposito, 2008).
Gli autori in entrambi i testi, offrono uno spunto di riflessione per quanto riguarda il lavoro
sociale; entrambi affermano che questo sta cambiando in quanto il lavoro degli assistenti sociali
cambia e” deve cambiare” in base ai cambiamenti del nostro sistema di welfare.
Nonostante ciò ancora non si evidenzia un cambiamento radicale in quanto il lavoro degli
assistenti sociali viene concepito ancora come incardinato in istituzioni pubbliche, e ciò porta
a concepire la libera professione come un lavoro, in cui manca il riferimento metodologico.
Ma nell’attuale welfare mix si evidenzia con sempre più frequenza l’aumento di prestazioni a
pagamento a carico dei cittadini; di fatto le istituzioni pubbliche non riescono più a rispondere
ai bisogni dei cittadini utenti\clienti e neanche gli operatori riescono a farlo in quanto sono
oberati di lavoro, perché non vi abbastanza disponibilità per nuove assunzioni (provocando
così burnout in questi ultimi).
Ciò significa che il cambiamento culturale è ancora molto lento ma in atto vi è un’evoluzione
del servizio sociale che piano piano si sta ritagliando degli spazi sempre maggiori nella libera
professione, seguendo così la logica di mercato (Albano, Bucci, & Esposito, 2008).
Tale contraddizione può essere dovuta a mio parere, ad una sorta di resistenza al cambiamento
culturale e ad una visione errata dell’operatività dell’assistente sociale libero professionista
autonomo, in quando tale professione viene vista come una “scappatoia” dalla situazione di
precariato e di disoccupazione ma non viene ancora approfondito il tema delle competenze,
della professionalità che deve essere caratterizzante, per quelle persone che decidono di
intraprendere tale professione in quanto occorre imparare a “saper essere” e” saper fare “,la
libera professione autonoma.
La libera professione a mio avviso non è per tutti ma solo per determinati professionisti che
posseggono delle qualità\capacità di base, come una grande determinazione, una grande fiducia
in se stessi, voglia concreta di mettersi in gioco, oltre che capacità manageriali e di marketing,
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una spiccata creatività, flessibilità di orari e non ultimo un buon baget economico di base (Nesi,
2014).
In fine a mio parere, altro elemento importante è quello di aver acquisito negli anni molta
esperienza in diversi settori del sociale, anche lavorando precariamente nel privato sociale, solo
successivamente secondo me, si può pensare di poter intraprendere un percorso professionale
“altro”, acquisendo capacità di analisi del territorio in cui si vuole operare e la conseguente
capacità di lettura dei bisogni, per scoprire ciò che nel territorio manca o è carente e rispondere,
attraverso la progettazione di interventi volti a rispondere a tali mancanze o carenze.
Tale professione dunque non può essere esercitata senza l’acquisizione di quelle caratteristiche
professionali che caratterizzano la professione di assistente sociale libero professionista
autonomo ovvero il “sapere essere” e il” saper fare” libera professione, frequentando anche
corsi di formazione adeguati e senza perdere il riferimento al Codice deontologico
professionale.
Ciò che si auspica che si verifichi è dunque un cambiamento di” pelle”, di “identità”.
Non si tratta di eliminare una precedente identità per crearne una nuova ma si tratta di far
coesistere insieme diverse entità (servizio sociale pubblico, terzo settore, servizio sociale
privato) nella rete dei servizi a sostegno dell’utente\cliente in una logica di rete e di community
care.
L’idea è quindi di creare una rete di servizio sociale privato che possa collaborare, effettuare
operazioni di linking con la rete dei servizi formali, informali, di mercato nel territorio,
favorendo anche la creazione lo sviluppo, il sostegno di gruppi di mutuo aiuto nel territorio
Palermitano, e in generale ciò può essere realizzato in qualsiasi regione in cui le istituzioni
pubbliche non riescono a rispondere ai bisogni sociali (vecchi e nuovi) emergenti.
A questo punto occorre chiedersi perché si auspica la creazione di una rete di servizio sociale
privato a partire proprio dalla città di Palermo, dalla Sicilia che risente maggiormente della
crisi istituzionale, e dove l’Assistente sociale viene percepito come un funzionario pubblico,
come burocrate e in una regione in cui vi è il maggior numero di assistenti sociali e disoccupati.
Sembrerebbe paradossale ma in realtà si può sviluppare impresa più facilmente in un welfare
“a minor copertura” dove vi sono tanti bisogni ma non c’è risposta pubblica (Albano, 2016a).
Se da un certo punto di vista tutto il mondo è paese (Albano, 2016a) per quanto riguarda le
politiche sociali e le prassi operative, è pur vero che per i cittadini siciliani la maggioranza dei
servizi sociali erogati è scarsa e inefficiente.
Nel settore pubblico infatti afferiscono solo una parte di situazioni, spesso le più difficili ed
estreme, legate a mandati istituzionali; dunque cosa si fa per tutti gli altri casi? .
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E’ giusto che il cittadino sia messo in condizione di poter scegliere se rivolgersi ad un pubblico
o ad un privato anche per quanto riguarda la professione di assistente sociale così come, già
avviene per altre professioni, per quanto possibile perché molte situazioni possono essere
seguite solamente dal servizio pubblico.
In realtà nelle città, vi sono famiglie disposte a rivolgersi al privato per poter fruire di un
servizio più accurato e celere, la mole di lavoro è corposa e il sotto numero degli operatori
sociali si fa sentire.
In realtà vi è un mare da scoprire ancora, quindi occorre saper guardare ciò che manca o è
carente, bisogna saper fare analisi del territorio per comprendere quali sono i bisogni che non
trovano risposta nel pubblico ( perché non trovano risposta dallo Stato e dalla politica locale)
e occorre individuare “la nicchia” o meno a cui offrire i nostri prodotti che non devono essere
sganciati dalle caratteristiche del luogo e del mercato per non correre il rischio che nessuno poi
li acquisti (Albano, 2016a).
In pratica l’assistente sociale libero professionista autonomo è un lavoro complesso, specie in
Sicilia in quanto a livello di Ordine professionale non è stata aperta alcuna strada, non vi sono
collaborazioni con altre corporazioni professionali complementari a quella dell’ assistente
sociale, con enti o aziende, ciò significa che le strade da battere sono potenzialmente infinite
ma sono tutte da costruire e proporsi da soli non è facile; per questo gli assistenti sociali liberi
professionisti autonomi possono considerarsi dei pionieri del servizio sociale privato! (Albano,
2016a).
Bisogna muoversi né più né meno come farebbe qualsiasi altro imprenditore, analizzando il
territorio, studiando marketing, concorrenza e clientela, compilando il business planning,
facendo un bilancio delle competenze (Albano, 2016a).
Occorre a mio parere che anche le Università incomincino a favorire la promozione di questa
nuova identità dell’assistente sociale “in divenire” organizzando lezioni di imprenditoria
sociale, di progettazione sociale,(regionale, nazionale, comunitaria) di marketing, aprendo il
proprio sguardo anche a ciò che accade fuori nelle altre città, organizzando anche nelle diverse
facoltà di Servizio Sociale in Sicilia, seminari riguardo la libera professione; si dovrebbe poi
attivare l’Ordine professionale degli Assistenti Sociali della regione Sicilia; si potrebbero
organizzare gruppi studio sulla libera professione anche in Sicilia come già è avvenuto nella
regione Lazio nel Novembre 2014 ad opera del Consiglio dell’Ordine Assistenti sociali
Regione Lazio che ha dato il via al gruppo studio sulla libera professione e Servizio sociale,
nato all’interno della Commissione Politiche Sociali, di cui è coordinatrice la Consigliera
Daniela Cirulli di cui è Consigliere l’assistente sociale formatore Furio Panizzi. (Panizzi, 2016,
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10-12). Inserire il gruppo nel contesto della Commissione Politiche sociali ha significato, in
primo luogo, approfondire se la libera professione può essere positivamente inserita nelle
politiche di Welfare e allo stesso tempo offrire una risposta in termini di occupazione ai tanti
assistenti sociali disoccupati che bussano alle porte dell’Ordine professionale per chiedere
orientamento sul mercato del lavoro.
Hanno aderito al gruppo di lavoro una ventina di assistenti sociali provenienti per lo più da
Roma, ma anche da altre città delle provincie del Lazio.
Sono stati invitati a fare parte il Prof. Enrico Capo, e il Prof. Luigi Colombini, in qualità di
docenti esperti in materie professionali.
Il gruppo ha seguito per lo più una metodologia empirica e sperimentale, raccogliendo le
testimonianze di assistenti sociali liberi professionisti e imprenditori sociali, anche provenienti
da altre regioni.
I partecipanti hanno aderito agli incontri anche al fine di sperimentare essi stessi eventuali
progetti di libera professione.
Gli obiettivi che il gruppo si è dato: mappare la situazione dei liberi professionisti nel Lazio
attraverso un questionario specifico; creare un gruppo di riferimento per chi volesse studiare e
approfondire l’argomento; pubblicare un quaderno con indicazioni pratiche e testimonianze
sulla libera professione; organizzare un ciclo di seminari sulla libera professione a Roma e
nelle provincie del Lazio (Panizzi, 2016, 10-12).
I partecipanti hanno sentito l’esigenza di suddividersi in due sotto gruppi incontrandosi
mensilmente presso la sede dell’Ordine o presso la Biblioteca dell’Istituto per gli Studi sui
Servizi Sociali ISTISSS.
Un gruppo ha approfondito il tema di come avviare uno studio privato di servizio sociale;
l’altro ha approfondito le tematiche inerenti la creazione di un’impresa sociale.
Il Consigliere CROAS Furio Panizzi in qualità di coordinatore del gruppo, ha proposto, ai
partecipanti di seguire come traccia metaforica di riflessione il “metro” denominato “il metro
della libera professione dell’assistente sociale” che misura le possibili aree di intervento
dell’assistente sociale libero professionista.
Ogni partecipante del gruppo, tramite sessioni di brainstorming, ha cercato di individuare spazi
di intervento innovativi, partendo dall’autovalutazione delle competenze scaturite dal proprio
percorso di studi, tirocini, esperienze lavorative, ambiti di intervento.
Ognuno ha quindi iniziato a interrogarsi sulla possibilità di posizionarsi sulle varie aree del
metro proposto, aggiungendone anche di nuove.
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Si tratta di un “metro” che non serve solo a misurare le potenzialità della libera professione,
ma anche per comprendere che ogni assistente sociale in ciascuna area è come un pioniere e al
contempo un ‘esploratore che può aiutare la comunità professionale a conquistare nuovi
“centimetri” ovvero spazi di lavoro (Panizzi, 2016, 10-12).
Così come oggi i cittadini si rivolgono a servizi ospedalieri privati convenzionati, per saltare
lunghi tempi di attesa, per avere referti in tempi più rapidi, allo stesso modo ci si può rivolgere
ad un assistente sociale privato come già accade anche per avvocati e psicologi.
Si evidenzia quindi che è giunto il tempo anche per l’assistente sociale di lavorare come
professionista in nuove dimensioni e spazi lavorativi, dati i mutati contesti delle nostre
metropoli, le complesse problematiche dei cittadini, i nuovi bisogni emergenti.
Durante gli incontri sono stati affrontati temi concreti come quello della apertura della partita
IVA, del rapporto con gli utenti visti come clienti privati, del lavoro di rete con i servizi
pubblici e tematiche deontologiche derivanti dal fatto che nella libera professione il mandato
professionale non è dettato dall’Ente per cui si lavora, ma quasi esclusivamente dalle richieste
dei richiedenti il servizio (Panizzi, 2016).
1.1.1 Riferimenti normativi e deontologici e welfare mix
Per poter comprendere l’evoluzione in “divenire” della libera professione dell’assistente
sociale e giungere alle norme che regolamentano la libera professione, occorre prima cercare
di comprendere il passaggio che vi è stato in Italia dal welfare state al welfare mix, dalla
sussidiarietà verticale alla sussidiarietà orizzontale.
La rappresentazione del povero nella storia dei sistemi di assistenza e di welfare è generalmente
connotata da un significato negativo che ha inciso sulle scelte di politica socioassistenziale
(Gregori & Gui, 2012, pp. 113-130).
La prima legge che tentò di dare una risposta al problema sociale della povertà fu la Poor Law,
emanata in Inghilterra dal 1640 al 1834 (p.113) questa legge segnò anche la nascita di uno Stato
assistenziale, quindi il passaggio dall’assistenza da oggetto di intervento di istituzioni private
religiose a compito dello Stato, per coloro che si trovavano in situazione di indigenza.
L’assistenza agli indigenti si è però di fatto, affermata come sistema soprattutto dopo la
rivoluzione industriale, a seguito di grandi masse di popolazioni nei centri urbani (p. 114).
La povertà veniva considerata come una “malattia vergognosa” e per arginarla venivano messi
in atto interventi di tipo restrittivo; lo scopo era combattere il fenomeno del vagabondaggio che
rappresentava un pericolo per l’ordine pubblico.
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In Italia l’assistenza ha continuato a lungo a essere gestita da istituzioni religiose, sia perché
l’affermazione di uno Stato nazionale è stato tardivo rispetto agli altri paesi, sia perché la
presenza della Chiesa ha avuto un’influenza più incisiva. (Gregori & Gui, 2012, p. 115).
In Italia è soprattutto con la legge Crispi che venne assunta dallo Stato la materia assistenziale
e alcune istituzioni quali le IPAB vennero trasformate da soggetti a gestione privata in soggetti
pubblici.
Lo Stato italiano in realtà, cominciò ad assumere alcune competenze in materia di assistenza
dopo la Prima guerra mondiale.
Successivamente alcuni enti nazionali come ad esempio l’Enaoli, intervenivano in relazione
alla specifica situazione\bisogno della persona. Di fatto, con l’affermazione della Repubblica,
si fece strada il concetto di assistenza pubblica che fu riconosciuto nella Costituzione all’art.
38, anche se non vi furono cambiamenti sostanziali nella gestione del settore che continuò a
essere offerto da istituti a carattere religioso.
Una forte influenza nei paesi occidentali ha avuto poi, la riforma promossa nel secondo
dopoguerra da Beverige, in pratica lo Stato operava essenzialmente come “riduttore dei
rischi”(p. 16) ma si formò così nel tempo un sistema che proteggeva esclusivamente coloro che
avevano un rapporto di lavoro.
Durante la fine degli anni sessanta e gli anni settanta, vi è stata poi una prima importante fase
di trasformazione delle politiche sociali (Gregori & Gui, 2012) si afferma una linea di tendenza
che va dalla discrezionalità vs il diritto, dalla categorialità vs l’universalità, dalla sussistenza vs
il benessere psicofisico, dall’emarginazione vs l’inclusione (p. 116) in Italia, si assiste in
particolare al processo di forte critica agli interventi volti a relegare in istituti le persone
portatrici di particolari difficoltà (ciechi, ragazze madri, matti) in quanto ciò determinava uno
spreco di risorse e sovrapposizione degli interventi.
Con la legge 22 luglio 1975, n° 382 si trasferiscono alle Regioni diverse competenze, tra cui
quelle in materia di assistenza e beneficenza pubblica, (nonché personale, beni e risorse
finanziarie) il sistema assistenziale italiano viene così smantellato; le Regioni e gli enti locali
vengono individuati come soggetti privilegiati nell’ambito dell’assistenza. (p. 117).
Tali interventi normativi provocarono una profonda trasformazione nel sistema assistenziale e
avvicinando il soggetto istituzionale al cittadino introducendo un nuovo orientamento: quello
che vede la comunità locale il luogo di ricomposizione delle problematiche sociali; viene però
ancora a mancare una riforma che fissi i requisiti minimi di assistenza. (Gregori & Gui, 2012).
Con la trasformazione del mercato del lavoro avvenuta in particolare negli anni ottanta,
l’apparato pubblico non è riuscito a sostenere il sistema di protezione sociale e svolgere il ruolo
15
di tutela per garantire una protezione sociale egualitaria non solo agli assicurati ma a tutti i
cittadini (p. 117). Di fatto, la politica sociale in Italia si è sviluppata in modo faticoso e solo con
la Legge quadro 8 Novembre del 2000 n° 328; si è cercato di creare un sistema integrato di
interventi e servizi sociali che coinvolgesse una pluralità di soggetti pubblici e del privato
sociale, riconoscendo un’organizzazione dei servizi sociali territoriali rivolti a tutti i cittadini.
Il sistema di welfare subisce così sostanziali cambiamenti e da un welfare state “puro” si passa
a un sistema “misto” al welfare mix, mediante una responsabilizzazione maggiore degli enti
locali e del terzo settore (Gregori & Gui, 2012, p. 118) si passa così da una sussidiarietà verticale
ad una sussidiarietà orizzontale; la normativa riconosce e valorizza il principio della
sussidiarietà verticale e orizzontale, il privato sociale assume un ruolo strategico.
Con la riforma al Titolo V della Costituzione, si attribuisce alle Regioni un’ampia autonomia
legislativa in molteplici aree come l’area sanitaria, quella sociale e scolastica; muta
radicalmente lo scenario statuario, con altri attori quali enti locali, altri soggetti pubblici, privato
sociale, e settore profit.
L’intervento dello Stato nel campo delle politiche sociali diventa residuale, mentre il sistema di
welfare si amplia.
Si afferma il principio della concorrenza, che può estrinsecarsi in concorrenza per il mercato e
concorrenza nel mercato; il welfare diventa pluralistico, co-costruito da attori con caratteristiche
e funzioni differenti (p. 119).
In tale scenario un ruolo particolare viene dato nella costruzione del sistema alla famiglia e alla
comunità; cambia inoltre la posizione dell’utente che viene considerato “cliente del sistema”.
Si evidenzia, tuttavia, la problematica del ruolo del cliente nel contesto del “mercato dei servizi”
(Gregori & Gui, 2010).
La concorrenza in ambito sociale non è del tutto reale, poiché i clienti fruitori sono persone in
stato di bisogno, spesso prive delle informazioni e\o degli strumenti utili a valutare la qualità
del servizio offerto.
Inoltre si assiste anche ad un’erosione del sistema di welfare che appare impotente
nell’affrontare i complessi bisogni emergenti: instabilità lavorativa, debolezza delle reti
familiari e territoriali, incertezze sulle garanzie sociali, problemi di carattere abitativo e
relazionali (p. 119) gli interventi di contrasto alla povertà permangono nella sfera riparativo-
assistenziale, anche se non connotati a livello categoriale come in passato; in linea generale il
rapporto tra sistema assistenziale e persona continua ad essere caratterizzato da dipendenza e il
cittadino resta un semplice fruitore passivo; tale situazione viene accentuata dalla mancata
definizione dei LIVEAS (livelli essenziali di assistenza fissati dallo Stato), mancano indicazioni
16
dello Stato che possano fornire alle Regioni un comune e coerente filo conduttore nelle politiche
assistenziali (p. 120).
Il Servizio sociale è una disciplina che attraverso il lavoro professionale dell’assistente sociale
rivolto ad individui, famiglie, gruppi in situazioni problematiche, concorre alla rimozione delle
cause del bisogno, ne ricerca la soluzione attraverso l’interrelazione e l’uso delle risorse
personali e sociali per promuovere la piena autodeterminazione realizzazione delle persone,
facilitando il rapporto cittadino – istituzioni; contribuisce altresì ai processi di modifica delle
istituzioni (Albano, 2016a).
Ne consegue che il servizio sociale è una disciplina teorica e pratica, posta in essere
dall’assistente sociale mediante il processo d’aiuto che passa attraverso la relazione.
Di fatto però viviamo nella concorrenza del mercato del lavoro e le competenze tipiche del
servizio sociale vengono attuate da altri operatori scelti perché più a buon mercato e di fatto
l’assistente sociale viene relegato a gestioni burocratiche di erogazione prestazionale, perché la
rete voluta dalla Legge –quadro sta causando un’impostazione burocratica del pubblico (Albano,
2016a).
La professione di assistente sociale inoltre risulta essere relativamente giovane, la sua identità è
in “divenire” , e ciò può essere considerato sia un elemento su cui investire in prospettiva ma
anche un elemento a sfavore, se si considera il confronto-concorrenza con altre professioni
storicamente più forti dal punto di vista delle competenze; nel libero mercato sembrerebbe quindi
che non vi sia più spazio per l’assistente sociale a meno che questo non preferisca esercitare una
semi professione a livello prestazionale con interventi precodificati, standardizzati e con contratti
a termine in regime di subordinazione o con contratti a progetto, o con ore spezzettate e partita
iva in un lavoro quasi autonomo, rinunciando però al mandato professionale.
Occorre quindi per meglio comprendere spiegare cosa si intende per “semi professione” e per
“professione” (Albano, 2016a).
1.1.2. Il concetto di” professione” e “semiprofessione”.
La semiprofessione viene detta anche “quasi professione”, questa si basa più sul fare che sul
sapere, tanto che quest’ultimo non ha un suo corpus specifico di conoscenze ma è mutuato da
saperi tipici di altre professioni; la semiprofessione non è scientifica quindi soggetta alla
definizione di altri saperi (Albano et al., 2008, pp.18-23).
La semiprofessione quindi può avere vita breve perché è più collegata al fare piuttosto che al
sapere; questa ha dunque bassa legittimazione sociale, quindi il potere esercitato risulta essere
basso e diventa bassa anche la capacità di incidere sulle strutture sociali; di conseguenza
l’immagine del semiprofessionista è debole legata a steriotipi; l’identità degli aderenti è debole
17
poco corporativa non autoritativa in quanto non sanno fare gruppo e risulta così essere manovrata
da altri professionisti; inoltre il lavoro del semiprofessionista coincide con il cartellino-
marcatempo; il tempo libero viene così utilizzato per compensare la frustrazione del lavoro; il
semiprofessionista non ama il suo lavoro, si ammala più spesso di depressione, di burnout (pp.18-
23).
La professione, (dunque il professionista) secondo la sociologia definisce invece un fare
fortemente connesso ad un sapere in una interdipendenza reciproca.
Se socialmente legittimata produce potere, cioè la capacità di rafforzarsi influenzando le strutture
sociali.
Il potere del professionista in quanto legittimato, produce immagine, autorevolezza, al cospetto
di altre professioni, produce lobbing per la tutela dei propri interessi.
La professione tutela, protegge i propri aderenti, dà loro una identità e la rafforza; la professione
è una scelta di vita, una missione; il professionista ama quindi il suo lavoro.
Essere professionisti costa perché bisogna studiare, aggiornarsi, fare ricerca scientifica,
insegnare (pp. 18-23).
Il professionista non si accontenta del posto fisso, adattandosi alla routine, adattandosi alle sole
esigenze funzionali dell’Ente in cui lavora; essere professionista quindi non è per tutti ma solo
per chi ha la predisposizione caratteriale all’autorealizzazione, in quanto il lavoro non deve
soddisfare solo bisogni primari ma anche bisogni immateriali secondari; se poi si considera il
motivo che vi è dietro la scelta di intraprendere questa professione dell’aiuto, vediamo che il
guadagno non è il fine ma vi sono dietro, ideali di giustizia sociale e tutto ciò è indice di vera
professionalità (pp. 18-23).
L’autoimprenditoria è dunque la scelta e lo stile del professionista; con il termine auto-
imprenditoria, si fa riferimento ad “auto” che riguarda noi stessi e non l’esterno, e si fa
riferimento ad “imprenditoria”, con ciò s’intende l’esercizio di una attività economica finalizzata
ad un fine, il guadagno; non vi è dunque un capo ufficio o l’Ordine, che non protegge o il
sindacato che non tutela ma tutto dipende da noi dalla nostra volontà di realizzare il proprio
progetto professionale.
L’autoimprenditoria è il miglior modo di concepire il futuro lavorativo nell’epoca postmoderna,
fatta di incertezze e precarietà ma anche di nuove prospettive ancora da scoprire;
l’autoimprenditoria infine si rifà al concetto metodologico di autodeterminazione nel servizio
sociale.
18
La libera professione poi, non è il precariato, sebbene a volte le forme giuridiche degli istituti
contrattuali si somiglino: la libera professione è sia” libera” (cioè scelta senza condizionamenti),
sia “professione” (cioè competenza reale) (Albano, 2016b, 31-35)
Una partita iva che surroga un’assunzione non è libera professione, né lo è una convenzione di
cooperativa con un ente pubblico in cui si copre un “posto ordinario”.
Inoltre nella libera professione non può essere assente o carente la “competenza specifica”.
Il libero professionista è un “maestro”, sa il fatto suo, sa di essere riconosciuto e conosce il suo
valore, anche economico, fino al punto di poter dire un secco” no “di fronte a richieste
antieconomiche.
Egli è “libero”, appunto, anche di dire di no.
Per quanto riguarda le Leggi che regolamentano la libera professione dell’assistente sociale,
occorre prima precisare che con il termine “libero professionista”, si indica un lavoratore che,
avendo una professionalità acquisita tramite percorsi di formazione specifica, fornisce la propria
competenza a vari clienti e committenti senza avere datori di lavoro, senza legami vincoli di
subordinazione e dipendenza (Okely, 2013, pp. 361-376).
1.1.3. Differenza tra” lavoratore autonomo” e” imprenditore” .
Non è sempre chiaro il significato di espressioni quali “mettersi in proprio”, “avviare un’attività
autonoma” o “diventare imprenditore” (Mettersi in proprio, 2012).
“Mettersi in proprio” è un’espressione generica che si riferisce a tutte le attività di lavoro non
dipendente: si può dire quindi, che chiunque avvia un’attività lavorativa in forma non
subordinata “si metta in proprio”.
Più difficile è distinguere “l’attività di lavoro autonomo” “dall’attività imprenditoriale”: in
genere tuttavia, si attribuiscono al lavoro autonomo delle caratteristiche diverse da quelle
d’impresa (Mettersi in proprio, 2012).
Tutte le attività di lavoro indipendente si possono perciò classificare secondo le norme
civilistiche e fiscali in due categorie principali:
- Attività d’impresa
- Attività di lavoro autonomo.
Secondo il Codice di procedura civile per quanto riguarda il lavoro autonomo, questo viene
regolamentato dall’art. 222 c.c “Contratto d’Opera”, questo comprende l’esercizio di arti o
professioni “prestatore d’Opera intellettuale” fino all’art. 2229 C.C..
Mentre l’attività d’Impresa fa riferimento all’art. 2082 c.c. art. 55 TUIR.
Vi sono varie tipologie d’Impresa il c.c. non fornisce la definizione di “Impresa” ma quella di
“Imprenditore” (Mettersi in proprio, 2012).
19
E’ Imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della
produzione o dello scambio di beni e di servizi.
E’ evidente che l’attività citata dal codice non è altro che “Impresa”.
Quest’ultima può essere perciò definita come “l’attività dell’Imprenditore”.
In base a questa definizione risulta chiaro che, affinché vi sia impresa, devono ricorrere le
seguenti condizioni:
- L’esercizio di un’attività economica diretta alla produzione o allo scambio di beni e di servizi;
- L’organizzazione dell’attività.
- La professionalità.
Quindi l’Impresa è l’esercizio di una attività economica diretta alla produzione e alla scambio
di beni e di servizi; l’attività economica è attività diretta alla creazione di una nuova ricchezza,
non solo attraverso la produzione di nuovi beni, ma anche aumentando il valore di quelli
esistenti (ad esempio trasformandoli o mettendoli in commercio).
Non rientrano in questa definizione le attività culturali, intellettuali o sportive: ad esempio lo
scrittore, lo scienziato, il calciatore non sono considerati imprenditori.
L’attività economica si considera “organizzata” e può assumere caratteristiche d’impresa
quando è svolta attraverso “un’azienda” (Mettersi in proprio, 2012).
In proposito il C.C Art. 2555 definisce l’azienda come il complesso dei beni organizzati
dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa quali: macchinari, impianti, attrezzature, locali,
arredi o più genericamente capitali.
Tuttavia oltre che di capitali l’azienda è fatta anche di lavoro, cioè di risorse umane, ognuna
con una propria funzione coordinate e dirette dall’imprenditore.
L’organizzazione deve avere un’importanza apprezzabile nell’esercizio dell’attività: se questa
è esercitata con strumenti modesti e senza ricorrere al lavoro altrui, non è attività organizzata
(e non può quindi in questo senso, considerarsi impresa).
Per professionalità si intende la “sistematicità, la non sporadicità dell’attività esercitata
(Mettersi in proprio, 2012).
In generale il requisito della professionalità implica lo “scopo di lucro”, che in senso stretto è
l’intento di ottenere dei ricavi superiori ai costi e consentire quindi un utile.
Tuttavia le imprese pubbliche e alcuni tipi di imprese private (ad esempio le cooperative) non
hanno scopo di lucro, in questo senso per essere tale concetto, è inteso in senso più ampio
come “scopo genericamente egoistico” o quantomeno come “criterio di economicità di
gestione” (in modo da coprire i costi).
Non è impresa quando:
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- Non vi è un fine economico
- Quando non è organizzata tramite un’azienda
- Esercitata in forma professionale
- Gli Enti che non hanno un obiettivo non economico ma morale, ricreativo, culturale, sportivo
scientifico.
L’imprenditore inoltre al fine di distinguere la propria attività ed i propri prodotti dai
concorrenti, utilizza alcuni “segni distintivi”, tutelati dalla Legge:
- La ditta
- L’insegna
- Il marchio.
Inoltre l’Impresa ha la possibilità di chiedere fallimento.
Vi sono diverse tipologie d’Impresa:
Impresa individuale
Società in nome collettivo
Società in accomandita semplice
Società a responsabilità limitata
Cooperativa
Consorzio.
Cosa si intende invece per lavoro autonomo:
Con tale espressione si intende art.222 C.C. “Contratto d’Opera “ogni attività lavorativa
prevede:
- L’esecuzione contro corrispettivo
- Con lavoro prevalentemente proprio
- Senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente (Mettersi in proprio, 2012).
Come accennato all’inizio, il lavoro autonomo si differenzia dall’impresa principalmente per
l’assenza di una significativa organizzazione, cioè di un’ azienda.
Secondo la normativa fiscale ( art. 49 e 81 TUIR) e secondo le ultime disposizioni legislative
in materia di lavoro (d.l.g.s. 276\ 03) le attività autonome possono essere svolte nei modi
seguenti:
- Esercizio di arti e professioni
- Collaborazione a progetto
- Lavoro autonomo occasionale.
Esercizio di arti o professioni
21
Si considera tale lo svolgimento di attività di lavoro autonomo per professione abituale (anche
se non esclusiva).
Rientrano in questa categoria:
- Gli artisti, professionisti dello sport e dello spettacolo
- I professionisti intellettuali (avvocati, medici, commercialisti )
Questi ultimi sono considerati prestatori d’Opera intellettuale (art. 2229) e segg.c.c. in cui
elementi distintivi sono:
Carattere intellettuale della professione cioè l’uso di intelligenza e cultura in modo prevalente
rispetto all’eventuale impiego di lavoro manuale (Mettersi in proprio, 2012).
La discrezionalità nell’esecuzione del lavoro: il medico o l’avvocato ad esempio possono
eseguire il lavoro che gli è stato affidato come meglio credono;
Il semplice compimento della prestazione indipendentemente dal risultato.
Il professionista intellettuale, cioè ha diritto al compenso per il solo fatto di aver prestato la
propria opera: si è tenuti ad esempio a pagare l’onorario all’avvocato anche se si perde la causa.
A volte per esercitare una professione è richiesta l’iscrizione preventiva in appositi albi o
elenchi: si parla in tal caso di professioni protette; In caso contrario, si parla di professioni
libere.
1.1.4. Con la Legge 23 Marzo n° 84\93 Ordinamento della professione e istituzione dell’albo
professionale.
Si è venuto a determinare un sistema di riferimento operativo e funzionale che ha superato con
estrema chiarezza i vincoli determinati dal persistere del solo rapporto di pubblico impiego quale
condizione per svolgere la professione ( a cui si è accompagnata anche la prospettiva di un
rapporto di un rapporto con gli Enti ed organismi privati, quali le cooperative sociali, le
organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, le imprese sociali, le
fondazioni, gli enti di patronato (Colombini, 2016, 13-24).
Secondo l’art. 1 della legge istitutiva della professione, l’assistente sociale:
- Opera con autonomia tecnico professionale e di giudizio in tutte le fasi dell’intervento
per la prevenzione, il sostegno e il recupero di persone, famiglie e gruppi e comunità in situazioni
di bisogno e di disagio e può svolgere attività didattico- formative;
- Svolgere compiti di gestione;
- Concorre all’organizzazione ed alla programmazione;
- Può esercitare attività di coordinamento e direzione dei servizi sociali.
22
L’aspetto più qualificante della legge è stato, comunque, quello di aver introdotto il principio
della autonomia della professione, che può essere esercitata sia in forma autonoma che in
rapporto di lavoro subordinato, sia pubblico che privato.
La condizione per l’esercizio della professione, come è noto, è l’iscrizione all’ Albo
professionale (Colombini, 2016).
Da quanto succintamente esposto si rileva quindi la doppia funzione dell’assistente sociale sia
sul versante pubblico e quindi collegato al pubblico impiego, sia sul versante privato, collegato
all’esercizio della libera professione.
Tale disposizione ha determinato l’equiparazione dello svolgimento della professione al
complesso pianeta delle professioni certificate dallo Stato, secondo quanto disposto, tra gli altri,
dal DPR n. 328\2001: dottore agronomo e dottore forestale, agrotecnico, architetto, assistente
sociale, attuario, biologo, chimico, geologo, geometra, ingegnere, perito agrario, perito
industriale, psicologo, oltre avvocati, architetti, ragionieri commercialisti, veterinari (Colombini,
2016).
Tale prospettiva professionale richiede la preliminare illustrazione dei due principi fondamentali
che costituiscono il presupposto fondamentale per l’esercizio della professione privata: la
competenza e la responsabilità, in base a quanto disposto dalla normativa vigente.
Secondo una norma fondamentale del diritto il principio della competenza è alla base della
professione: la competenza quindi deve essere certificata attraverso un iter procedurale molto
articolato che porta a riconoscere ed autorizzare la professione stessa (Colombini, 2016).
Come è noto, la stessa legge dispone che per esercitare la professione di assistente sociale è
necessario:
- Essere in possesso dello specifico diploma universitario;
- Avere conseguito l’abilitazione mediante esame di Stato;
- Essere iscritti all’albo professionale.
Per tale specifica indicazione si richiama l’art. 2229 del codice civile (Esercizio delle
professioni intellettuali): la legge determina le professioni intellettuali per l’esercizio delle
quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi o elenchi (Colombini, 2016).
L’accertamento dei requisiti per l’scrizione negli albi o negli elenchi, la tenuta dei medesimi e
il potere disciplinare sugli iscritti sono demandati alle associazioni professionali, sotto la
vigilanza dello Stato (salvo che la legge non disponga diversamente) (Colombini, 2016).
Per gli aspetti penali dell’esercizio abusivo della professione si richiama l’art. 348 del c.p.
(chiunque abusivamente esercita una professione, per la quale è richiesta una speciale
abilitazione, è punito con la reclusione fino a sei mesi e con la multa da euro 103 a 516).
23
Si specifica che l’oggetto della tutela predisposta dalla norma suddetta è costituito
dall’interesse generale, riferito alla Pubblica Amministrazione, per cui determinate professioni
richiedenti particolari requisiti di probità e competenza tecnica debbono essere esercitate
soltanto da chi, avendo conseguito una speciale abilitazione amministrativa, risulti in possesso
delle qualità morali e culturali richieste dalla legge (Colombini, 2016, 13-24).
Pertanto è lo Stato stesso che, attraverso specifiche procedure non solo attesta e certifica la
competenza del professionista, ma esso stesso se ne fa garante verso i terzi interessati, ossia
tutti coloro che ricorrono alla prestazione professionale.
Avuto riguardo al modo con cui si assiste all’espropriazione delle competenze proprie
dell’assistente sociale per affidarle ad altri operatori (vigili urbani, assistenti domiciliari,
educatori professionali, psicologi, sociologi, infermieri, ecc.) è assolutamente necessaria
l’azione di tutela giuridica che deve essere esercitata dall’Ordine degli Assistenti sociali e dal
Sindacato (Colombini, 2016).
In via preliminare si ritiene opportuno determinare in linee generali lo stesso concetto di
responsabilità, da cui scaturiscono le conseguenze sull’azione e sulla attività che viene posta
in essere dai professionisti.
Tale termine fa riferimento al latino “responsum”, ossia di colui che è chiamato a rispondere
dei suoi atti.
La responsabilità quindi attiene sia a livello etico e morale, che afferisce quindi alla sfera
interna della persona, che, in relazione alle proprie credenze e valori, assume un determinato
atteggiamento coerente, sia alla sfera esterna, che costituisce attraverso il comportamento, la
risultante del complesso dei valori, che la persona stessa ha assunto (Colombini, 2016).
Tale considerazione spinge a considerare il rapporto che esiste fra diritto e morale: la morale è
una forza interiore che spinge la persona ad assumere comportamenti coerenti con la norma
scelta; il diritto costituisce una forza esterna, che, a prescindere dalla convinzione o dalla
condivisione dei valori da parte del soggetto, impone un determinato comportamento che, se
non viene attuato, fa scattare la sanzione e la punizione.
In particolare per ciò che concerne le professioni, il faro che guida l’esercizio della professione
è il codice deontologico, che costituisce un riferimento sostanzialmente di carattere etico e che
impone, con riferimento alla “missione” del professionista, un comportamento adeguato.
Si ricorda a tal proposito che è proprio con riferimento ai servizi rivolti alla persona che sono
stati specificati i codici deontologici, ed il codice deontologico dell’assistente sociale ne
costituisce il riferimento primario per l’esercizio della professione (Colombini, 2016, 13-24).
24
In relazione a quanto indicato nella legge istitutiva della professione e dell’ordine degli
assistenti sociali è opportuno mettere in evidenza che al concetto di responsabilità si associa
quello della presa in carico”: una volta accettata l’assunzione del caso, il professionista è tenuto
a condurre a buon fine l’incarico, definirlo, trattarlo e concluderlo con piena condivisione e
soddisfazione del cliente (Colombini, 2016).
1.1.5. Riferimento Legislativo: la Legge Quadro 8 Novembre del 2000 n° 328.
Definiti i due principi fondamentali che sono a monte della professione dell’assistente sociale,
è opportuno individuare quali sono le ricadute specifiche in ordine allo svolgimento della
attività libero- professionale (Colombini, 2016, 17-18).
In via preliminare si ritiene necessario evidenziare che la professione dell’assistente sociale,
nella sua esclusività e competenza, si connette a quanto già previsto per ciò che concerne la
sanità, nel cui ambito sono stati definiti i LEA, e fra questi, il livello di assistenza primario
garantito dal Medico di Medicina Generale, che opera nell’ambito del distretto sanitario
secondo un rapporto ottimale di un MNG ogni 1500. Abitanti.
Per ciò che concerne il versante sociale, il solo professionista di riferimento, a livello di
distretto sociale è l’assistente sociale, a garanzia della utenza che è nel pieno diritto di fruire
delle prestazioni di segretariato sociale e di servizio sociale, secondo un parametro di
riferimento che deve essere individuato nel rapporto di un professionista assistente sociale ogni
5.000 abitanti (Colombini, 2016).
Tale parametro è riferito quindi al primo livello assistenziale di competenza esclusiva dei
Comuni, singoli o associati nell’ambito del sociale (Colombini, 2016, 17-18).
A tale riguardo si sottolinea che secondo la legge 328\2000 il primo livello assistenziale è il
seguente: servizio sociale professionale e segretariato sociale per informazione e consulenza al
singolo e ai nuclei familiari.
E’ evidente l’assoluta interconnessione professionale, operativa, ed esclusiva, propria
dell’assistente sociale, a svolgere sia l’attività di segretariato sociale che il servizio sociale
professionale, come confermata dal DPR 3 Maggio 2001 recante “Piano nazionale degli
interventi e dei servizi sociali 2001-2003, che costituisce a tutt’oggi, dopo ben quattordici anni,
l’unico riferimento normativo adeguato ed efficace per individuare sia la funzione di
Segretariato sociale e del Servizio sociale professionale (Colombini, 2016).
Tale funzione deve essere pienamente riconosciuta ed attribuita in via esclusiva all’assistente
sociale, individuato quale professionista titolato e qualificato a svolgerla; tale funzione
costituisce quindi il primo livello di interventi proprio ed esclusivo dell’assistente sociale, ed
è a tale riguardo necessaria l’iscrizione alla sezione B dell’Ordine degli assistenti sociali.
25
Nello stesso DPR sono altresì individuate funzioni del servizio sociale professionale che sono
finalizzate alla lettura e decodificazione della domanda, alla presa in carico della persona, della
famiglia, e\o del gruppo sociale, all’attivazione ed integrazione dei servizi e delle risorse in
rete, all’accompagnamento e all’aiuto nel processo di promozione ed emancipazione, in
riferimento al dettato dell’articolo 22 della legge 328\2000 (Colombini, 2016, 18).
L’ulteriore provvedimento normativo che ha portato alla piena definizione della collocazione
professionale ed operativa dell’assistente sociale, susseguente alla legge n. 84\93 ed alla legge
328\2000, è stato il DPR n. 328\2001, recante “Modifiche ed integrazioni della disciplina dei
requisiti per l’ammissione all’esame di Stato e delle relative prove per l’esercizio di talune
professioni, nonché della disciplina dei relativi ordinamenti” che all’art. 21 ne ha delineato un
quadro completo.
Il DECRETO 2 agosto 2013, n. 106 (GU Serie Generale n. 223 del 23- 9-2013) (Colombini,
2016).
Il regolamento recante integrazioni e modificazioni al decreto del Ministro della Giustizia 20
luglio 2012, n. 140 (concernente la “determinazione dei parametri per la liquidazione da parte
di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni regolamentate vigilate dal
Ministero della Giustizia, ai sensi dell’art. 9 del decreto-legge 29 del decreto-legge 24 gennaio
2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27”) è la risultante di
un complesso provvedimento che concerne alcuni ordini professionali per il riconoscimento
delle prestazioni professionali ai fini della liquidazione dei compensi da parte un organo
giurisdizionale (Colombini, 2016).
Fra le professioni interessate è stata individuata quella svolta dall’assistente sociale.
La puntualità e l’accurata individuazione delle prestazioni assumono pertanto un valore di
notevole rilievo, anche in considerazione del fatto che viene sancito il principio della
competenza dell’assistente sociale a svolgere funzioni esclusive e proprie della professione,
anche ai fini dell’esercizio privato della stessa.
In tale contesto sono state individuate cinque aree di intervento: Area Relazionale; Area Gruppi
e Comunità; Area Didattico- formativa; Area studio e Ricerca; Area Progettuale-
Programmatoria e di amministrazione dei servizi (Colombini, 2016).
Il provvedimento suddetto delinea con assoluta chiarezza tutto il ventaglio delle prestazioni
professionali dell’assistente sociale, alla luce dell’accurata individuazione delle competenze
che afferiscono all’esercizio della professione.
Si ritiene che quanto indicato nel decreto deve essere considerato quale complesso di linee
guida tali da consentire lo svolgimento dell’attività propria dell’assistente sociale.
26
Le prospettive attuali per l’esercizio della libera professione (Colombini, 2016, 19).
In relazione a quanto sopra illustrato in ordine ai presupposti normativi che definiscono
l’esercizio della libera professione dell’assistente sociale, sul piano della reale committenza
che è interessata a fruire delle prestazioni professionali dell’assistente sociale, una prima
articolazione va fatta fra la committenza pubblica e la committenza privata (Colombini, 2016,
19-21).
Sul piano pubblico, a fronte di una realtà istituzionale locale che non è in grado di assicurare
la diffusa e certa presenza degli operatori pubblici(inquadrati nella pianta organica) per
l’esercizio di funzioni propriamente riconosciute, quali la gestione e l’organizzazione del
servizio sociale locale, come previsto dalla legge 328\2000, si assiste , in molti casi, ad un
corrente utilizzo da parte degli enti locali delle prestazioni libero- professionali degli assistenti
sociali, con condizioni che, al di fuori di un sistema tariffario (che pure può essere previsto e
collegato all’intervenuto Decreto n. 106\2013), pongono gli stessi operatori nelle condizioni di
assoluta precarietà lavorativa, e di disorientamento e difficoltà negli stessi utenti, che non sono
garantiti nell’elementare diritto di poter fruire delle prestazioni di servizio sociale professionale
e segretariato sociale in termini di continuità di rapporto e di continuità assistenziale
(Colombini, 2016).
Si tratta quindi di una situazione ibrida, che non consente la presenza capillare e certa del
servizio sociale professionale e del segretariato sociale quale funzione obbligatoria dei Comuni
per la quale deve essere garantita l’esigibilità del diritto di fruire, come prevede la legge n.
328\2000, e per la quale si accede con pubblico concorso (art. 97 della Costituzione), con
l’esclusione alla esternalizzazione del servizio.
A tale riguardo si sottolinea che, in sede di protocollo di intesa concertato fra le OO.SS CGIL,
CISL e UIL con le Regioni Toscana e Marche per il consolidamento del sistema di welfare
regionale, è stata concordata, per i livelli essenziali, il rifiuto del ricorso alla esternalizzazione
dei servizi riferibili ai livelli essenziali assistenziali.
Il ricorso a prestazioni libero-professionali in tale quadro costituisce quindi un riepilogo,
piuttosto che una reale risposta alle necessità connesse alla obbligatorietà che fa capo agli enti
locali, (singoli o associati) di assicurare il primo livello essenziale (servizio sociale
professionale e segretariato sociale) (Colombini, 2016).
Pur in tali condizioni, il richiamo al Decreto n. 106\2013 è d’obbligo, in quanto delinea il
ventaglio delle prestazioni libero –professionali che possono essere prese in considerazione per
la stipula di apposite convenzioni per lo svolgimento di specifiche attività proprie
dell’assistente sociale fra il committente pubblico e gli operatori privati.
27
La dimensione operativa dell’esercizio della libera professione, oltre a riferirsi al primo livello
operativo, va connessa allo svolgimento delle prestazioni relative alle azioni si supporto al
lavoro dell’assistente sociale di “frontiera” nell’area didattico- formativa ( analisi di fabbisogni
formativi\ programmazione di corsi di formazione, Docenza\formazione, Supervisione), che
non possono essere svolte in via autonoma dall’Ente locale, singolo o associato nell’ambito
sociale, ma devono essere garantite all’assistente sociale stesso, nell’interesse primario del
buon andamento del servizio.
L’altro riferimento operativo è connesso all’attività propria dell’Ente locale singolo o associato
nell’ambito sociale e nell’area di studio e ricerca, all’area progettuale, programmatoria e di
amministrazione dei servizi (Colombini, 2016).
Anche in tale situazione il conferimento di competenze specifiche dell’assistente sociale a tali
aree pone in evidenza le prospettive di lavoro in considerazione delle difficoltà che incontrano
gli Enti locali nello svolgimento di dette attività che sono propedeutiche allo svolgimento e
alla realizzazione dei servizi sociali, secondo i canoni classici dell’intervento e dell’azione
sociale, e quindi inquadrabili nelle competenze dell’Ufficio di Piano e della elaborazione e
formulazione del Piano di zona (Colombini, 2016).
Per far fronte a tale complessa azione e agli impegni conseguenti, è a tale riguardo possibile
prevedere la costituzione di studi professionali associati formati da assistenti sociali esperti e
con adeguati titoli professionali ed accademici, che sono in grado di proporsi quale team di
lavoro integrato in grado di corrispondere ai bisogni formativi e operativi degli Enti locali, e
quindi di offrire un servizio complementare allo svolgimento delle funzioni istituzionali che
fanno capo agli stessi (Colombini, 2016).
A tale riguardo è chiaramente individuata la professione dell’assistente sociale in ordine a
consulenze periziali, attività in qualità di esperti nei collegi giudicanti presso il Tribunale dei
Minorenni, Tribunale Ordinario, Giudice di Sorveglianza (Colombini, 2016).
Il livello della committenza privata, per il modo con cui si esprime, da una parte è connesso ai
rapporti libero- professionali con il terzo settore, e dall’altra alla possibilità di rapporti diretti
con privati cittadini, gruppi, famiglie (Colombini, 2016, 20).
Secondo quanto evidenziato da studi ed analisi di settore, emerge con assoluta evidenza la
criticità e la mancanza di una adeguata intercettazione del bisogno nella complessa situazione
relativa ad altre aree di bisogno, quale l’area della famiglia e dei minori e l’area delle persone
diversamente abili, della non autosufficienza, delle persone in condizioni di disagio
economico, psichico o sociale (Colombini, 2016, 21).
28
La letteratura e la cronaca sono piene di notizie sulla condizione di abbandono e di isolamento
di tante persone che, non essendo state intercettate nella loro situazione in tempo utile e con
adeguatezza, hanno affrontato molto spesso tragicamente problemi che avrebbero potuto essere
risolti se fossero state raggiunte da una informazione adeguata e capillare (Colombini, 2016).
Gli aspetti critici messi in evidenza sono comunque riferibili alla constatazione che in ogni
caso la rete pubblica di accesso all’informazione è di per sé stessa carente e assolutamente non
in grado di raccogliere ed intercettare il bisogno in termini tale da incidere realmente sul
bisogno “nascosto”.
Si tratta di allargare al massimo livello la capillarizzazione dell’informazione sociale, facendo
riferimento sia alla rete formale che alla rete informale dell’offerta dei servizi sociali, sanitari
e socio- sanitari, in una logica di comunicazione di “routine” e definita in adeguati protocolli
operativi (Colombini, 2016).
In tale contesto la costruzione del sistema coordinato di intercettazione del bisogno è di
fondamentale importanza, ed evidenzia la necessità di prefigurare un sistema di rete che si basa
sulla individuazione dei soggetti e delle istituzioni in grado di dare un’adeguata risposta, nella
prospettiva di costruire la “comunità competente” e quindi di individuare apporti
complementari sia pubblici che privati per raggiungere gli obiettivi di benessere fisico,
psichico e sociale delle persone, dei gruppi e della comunità, nonché di inclusione sociale e di
empowerment inteso sul piano individuale quale “processo dell’azione sociale attraverso il
quale le persone, le organizzazioni e le comunità acquisiscono competenza sulle proprie vite,
al fine di cambiare il proprio ambiente sociale e politico per migliorare l’equità e la qualità di
vita (Colombini, 2016, 21), e sul piano comunitario quale “azione collettiva finalizzata a
migliorare la qualità di vita e alle connessioni tra le organizzazioni e le agenzie presenti nelle
comunità.
Attraverso l’empowerment di comunità si realizza la “comunità competente” (Iscoe, 1974), in
cui i cittadini hanno le “competenze, la motivazione e le risorse per intraprendere attività volte
al miglioramento della vita” (Colombini, 2016, 21).
A tale riguardo un primo livello è costituito dalla rete del MMG, così come previsto dal DPR
n. 207\2000 (confermato dall’accordo del marzo 2005), che all’art.41: - Interventi socio-
assistenziali- prevede che:
Il medico di famiglia sulla base della conoscenza del quadro anamnestico complessivo
dell’assistito derivante dall’osservazione prolungata dello stesso anche in rapporto al contesto
familiare, riferito oltreché alle condizioni sanitarie, anche a quelle sociali ed economiche, ove
29
lo ritenga necessario, segnala ai servizi sociali individuati dell’Azienda l’esigenza di intervento
dei servizi socio- assistenziali (Colombini, 2016, 22).
La natura e la tipologia degli interventi conseguenti alla segnalazione di cui al comma
precedente sono assunti, se necessario, secondo un programma specifico e in accordo col
medico di famiglia dell’assistito.
Pertanto un riferimento operativo assolutamente importante è quello di vedere l’attività
dell’assistente sociale che opera in regime libero professionale in collegamento con gli studi
medici e quindi inserito nel contesto di rete quale sede di ricezione della domanda sociale
inespressa oppure occasionale e la immediata attivazione degli interventi a favore dell’utente
(Colombini, 2016, 22).
L’ulteriore livello di intercettazione del bisogno è costituito dalla rete dei Centri di Assistenza
fiscale e dalla rete degli Enti di Patronato, che svolgono attività anche di assistenza sociale
(Colombini, 2016).
La libera professione dell’assistente sociale in tale contesto si esprime quindi in un complesso
di opportunità che partono dal suo collocarsi e proporsi quale professionista esperto e
qualificato a” stare presso”, e quindi da una parte rappresentare il collegamento fra i bisogni
espressi dall’utente e la rete dell’offerta dei servizi e degli interventi presenti nella realtà
sociale, dall’altra fornire una prestazione professionale esaustiva, sulla base dell’osservanza
del principio della competenza e della responsabilità.
Analogamente a quanto si dispone per tutti gli altri liberi professionisti, il livello successivo
della prestazione professionale è relativo alla piena assunzione del “caso”, secondo i principi,
i metodi e le tecniche del servizio sociale professionale (Colombini, 2016).
In tale contesto, anche in relazione a quanto già indicato dal decreto n. 106\2013, sono evidenti
i campi di azione dell’assistente sociale, che in estrema sintesi possono, anche alla luce delle
norme vigenti, dipanarsi nei seguenti principali settori operativi:
- Counseling;
- Mediazione familiare;
- Mediazione penale;
- Amministrazione di sostegno
- Affidamento
- Progettazione per bandi;
- Attività di formazione ed aggiornamento del personale;
- Attività di supervisione e di consulenza sociale e professionale agli assistenti sociali
(Colombini, 2016, 22-23).
30
Analogamente a quanto si verifica anche per le altre professioni private, si ritiene valida
l’ipotesi di costituire la rete privata dell’offerta attraverso la costituzione “dell’agenzia
sociale” o” studio sociale” ( analogamente a quanto avviene per gli avvocati, con il loro studio
legale) che possono sfociare nella costituzione di studi associati privati formati da assistenti
sociali che fanno capo sia a Cooperative che a Cooperative sociali, che ad Associazioni di
promozione sociale costituite dagli stessi soci assistenti sociali (Colombini, 2016, 23).
Ulteriore prospettiva è individuare nell’ impresa sociale, che così come attualmente regolata,
può costituire una notevole opportunità per la realizzazione di servizi sociali che in particolare
sono rivolti a fasce specifiche di cittadini: minori, anziani, persone con disabilità, persone non
autosufficienti, persone con disagio mentale o sociale (Colombini, 2016).
Un aspetto particolarmente interessante può altresì essere costituito dal singolo assistente
sociale con proprio studio sociale professionale; in tal caso le prospettive sono connesse al
proprio modo di porsi nel contesto sociale in cui opera, e alla capacità di costruire e collegarsi
ad una adeguata rete sociale di riferimento e ad una adeguata conoscenza e competenza
amministrativa.
In ogni caso si ritiene che la prospettiva dell’associazionismo professionale (a parte il rapporto
con l’autorità giudiziaria) rappresenta una condizione importante perché gli stessi assistenti
sociali possano costruirsi e proporsi in un sistema privato di offerta (Colombini, 2016, 23).
L’analisi della normativa vigente in ordine alle prospettive dell’esercizio della libera
professione degli assistenti sociali, a distanza di oltre venti anni dalla legge 23 Marzo 1993 n.
84, pone in evidenza quanto percorso rimane ancora da fare per giungere alla definizione di un
quadro esaustivo (Colombini, 2016, 23).
In tale contesto si ritiene che la normativa sopra illustrata possa costituire un riferimento
fondamentale per lo svolgimento della professione.
Accanto a questa importante prospettiva di lavoro, occorre valorizzare le esperienze già in atto
portate avanti da vari assistenti sociali, e che costituiscono un primo bagaglio di conoscenza di
notevole rilievo.
Si ritiene ribadire che la formula associativa per la libera professione è la più idonea a garantire
il buon successo della stessa, perché può consentire agli assistenti sociali di organizzare un
sistema di rete privata idonea a contribuire alla costruzione di un sistema locale di welfare
(Colombini, 2016, 24).
In tale contesto l’Ordine Nazionale degli Assistenti Sociali svolge una funzione strategica
fondamentale, a livello di assistenza, consulenza, di sperimentazione e di preparazione ed
31
aggiornamento del personale, anche in collaborazione con le sedi universitarie (Colombini,
2016).
In fine si fa riferimento al Codice deontologico professionale al titolo VII “Responsabilità
dell’assistente sociale nei confronti della professione al capo I, “Promozione e tutela della
professione” art 52 afferma che “l’assistente sociale può esercitare l’attività professionale in
rapporto di dipendenza con enti pubblici e privati o in forma autonoma o libero-professionale,
legittima la professione come una delle forme operative in cui si svolge la professione; con
obbligo però dell’iscrizione all’albo secondo quanto previsto dalla normativa vigente (Codice
deontologico, 2009).
E’ sulla base di tale premessa che risulta necessario rivendicare la dignità di una modalità
professionale in grado di promuovere un “volto” nuovo dell’assistente sociale, una dimensione
evolutiva e innovativa che merita di essere affermata per scardinare l’immaginario generalista
e qualunquista che descrive l’assistente sociale come classico dipendente della pubblica
Amministrazione (Petrillo, 2016, 49- 56).
Nel nostro Paese non si diventa liberi professionisti per caso, ma fondamentalmente per due
ordini di ragioni: diventare imprenditori di sé stessi offrendo le proprie competenze
professionali sul mercato, dando una risposta positiva all’effettiva impossibilità di accedere
tramite concorsi pubblici, per creare servizi alternativi al sistema pubblico, sempre più oberato
di lavoro ed essenzialmente bloccato da una morsa di carenze di risorse umane e materiali e di
innovazione (Petrillo, 2016).
L’errore diffuso che molti commettono è quello di vedere il libero professionista come un
soggetto concorrente o addirittura screditante la Pubblica Amministrazione, in realtà ciò non
corrisponde al vero: la libera professione va valorizzata ed implementata per la qualità delle
competenze e le innovazioni che mette in campo, capaci di integrare il sistema dei servizi
pubblici, interagendo con lo stesso, e alleggerendo gli enormi carichi di lavoro che i colleghi
del pubblico non sempre riescono a fronteggiare con la dovuta flessibilità (Petrillo, 2016).
Operiamo nel libero mercato, e nel sociale i vari soggetti che concorrono alla costruzione del
benessere complessivo, hanno il dovere di cooperare secondo una filosofia concertativa e
condivisa che mette al centro della mission la persona, a prescindere dalle modalità
professionali entro le quali ci si trova ad operare (Petrillo, 2016).
32
CAPITOLO II
2. Alcuni modelli teorici utilizzati nell’operatività professionale dell’assistente sociale
I modelli teorico-operativi servono ad aiutare l’operatore, attraverso l’utilizzo di una serie di
conoscenze, ad avanzare ipotesi esplorative durante l’analisi di una situazione\ problema per
comprendere più a fondo la realtà che sta analizzando e che viene filtrata dalle rappresentazioni
che essa vuol comunicare il racconto, la narrazione, che ne stà facendo l’interlocutore, anche
al fine di avanzare ipotesi su come poterla modificare (Dal Pra Ponticelli, 2010, pp. 63- 65).
Nel servizio sociale l’obiettivo è quello di descrivere e comprendere, insieme con i propri
interlocutori, il significato, il senso da attribuire a specifici eventi o situazioni complesse e
dinamiche che si evolvono e si modificano nel tempo; comprendere per modificare.
La realtà individuale e sociale nel servizio sociale viene studiata mentre si cambia e
controllando gli effetti del cambiamento; verifica delle ipotesi e intervento sono un processo
circolare.
Il servizio sociale è quindi una disciplina operativa che ha bisogno di una base teorica che
sostenga le ipotesi operative dell’operatore (Dal Pra Ponticelli, 2010).
L’analisi dei vari modelli messi a punto nella disciplina del servizio sociale ci fa capire come
l’elaborazione dei fondamenti teorici ai quali il servizio sociale si rifà venga profondamente
influenzata dallo sviluppo teorico delle scienze sociali, oltre che dalle continue modifiche delle
situazioni sociali ed esistenziali dei soggetti dei quali si occupa e degli orientamenti politico-
economici delle istituzioni nelle quali lavora.
La disciplina del servizio sociale quindi è in continua evoluzione ed è essenzialmente e
ontologicamente postmoderna (Dal Pra Ponticelli, 2010).
2.1. Il modello Sistemico relazionale
La teoria generale dei sistemi fa capo a von Bertalaffi, questa possiede una matrice di tipo
biologico; all’interno di questa si è sviluppata una corrente di tipo matematico chiamata
“cibernetica”, questa ha offerto utili spunti agli studiosi dei sistemi umani, soprattutto per
quanto riguarda la riflessione sull’interazione tra gli individui (Campanini, 2002, pp. 37-59).
Von Bertalaffy introdusse oltre al concetto di relazione quello di interazione, definendo il
sistema come un insieme di elementi che interagiscono tra di loro, presupponendo l’esistenza
di un’interdipendenza tra le parti e la possibilità di un cambiamento, attraverso la reversibilità
della relazione (Campanini, 2002).
33
I sistemi possono a loro volta essere di tipo diverso: si definisce chiuso quel sistema che non
ha relazioni con l’ambiente né in entrata né in uscita, aperto quel sistema che scambia con
l’ambiente materiale, energia, informazione e che si modifica sulla base di questi scambi
(Campanini, 2012).
Il concetto di sistema aperto si adatta allo studio degli organismi viventi, per i quali
l’interscambio con l’ambiente è un elemento essenziale che ne determina la vitalità, sia nella
possibilità di riproduzione e di continuità che in quella di mutamento.
Gli organismi viventi possono essere pertanto considerati come sistemi, il cui principio
organizzatore è costituito dall’informazione (p. 38).
Viene definita input un’informazione che entra nel sistema, mentre viene definita outpunt
quella in uscita.
Per totalità di un sistema si intende che ogni sua parte è in rapporto tale con le altre parti che
lo costituiscono che qualsiasi cambiamento di una provoca cambiamento in tutte le altre e nel
sistema stesso.
Questo equivale a dire che il sistema si comporta come un tutto inscindibile e coerente, quindi
i fattori non possono variare singolarmente senza poi condizionare il tutto (Campanini, 2002).
Il concetto di retroazione è alla base della circolarità, caratteristica dei processi interattivi tipici
dei sistemi aperti (Campanini, 2002).
Un’informazione che vada dall’emittente al ricevente comporta una successiva informazione
di ritorno (feed-back) da quest’ultimo all’emittente (p. 38).
Ogni informazione di ritorno può avere due effetti: o fa raggiungere e mantenere la stabilità
(omeostasi) del sistema, ed è quindi negativa (dice no al cambiamento), oppure è positiva,
provoca una perdita di stabilità e di equilibrio nel sistema, favorendo un cambiamento;
trasformazione e omeostasi costituiscono due processi complementari alla vita del sistema
(Campanini, 2002, p. 39).
Quando l’autoregolazione non funziona, si ha come conseguenza: il prevalere di processi
trasformativi che possono portare alla scomparsa del sistema; un irrigidimento, una
sclerotizzazione del sistema che perde così flessibilità, fornendo risposte ripetitive.
L’equifinalità indica che in un sistema aperto, autoregolantesi, i risultati intesi come
modificazioni dopo un certo tempo, non sono determinati tanto dalle condizioni iniziali,
quanto dalla natura del processo; in altre parole, gli stessi risultati possono avere origini
diverse, contrariamente a quanto accade per i sistemi chiusi in cui sono le condizioni iniziali,
a determinare i risultati; così come viceversa, risultati simili possono derivare da premesse
differenti.
34
2.1.1 Il colloquio in ottica sistemica
Nella conduzione del colloquio in ottica sistemica, l’assistente sociale dovrà assumere un
atteggiamento mentale nuovo più volto a trovare una risposta alla domanda “a quale scopo” che
alla domanda “perché” (Campanini, 2002).
Non si cercherà quindi la causa profonda del problema e la valutazione della situazione non
potrà riguardare un singolo componente o il nucleo familiare che si ha di fronte ma riguarderà
il sistema nel quale la famiglia o l’individuo vive o nel quale quel comportamento\disagio si
manifesta (p.176).
Affinché quindi la conduzione del colloquio si realizzi con tale atteggiamento mentale occorre
fare riferimento ai concetti di :
- Ipotizzazione
- Circolarità
- Neutralità.
Ipotizzazione: occorre una procedura che consenta all’utente di guardare al suo problema in
modo nuovo che si differenzi quindi dalla versione causale.
Nel condurre l’indagine l’assistente sociale è supportato da un’ipotesi che ha formulato
collegando le informazioni in suo possesso fino a quel momento.
“L’ipotesi è una supposizione posta alla base di un ragionamento, senza riferimento alla sua
verità, come punto di partenza per un’investigazione” (Campanini, 2002, p. 177).
L’ipotesi consente all’operatore di dirigere la sua ricerca durante il colloquio, seguendo un filo
logico.
Occorre però non dimenticare la sua” provvisorietà”, essa non corrisponde necessariamente alla
verità, consente all’operatore di comprendere il funzionamento l’organizzazione del sistema e
tracciare una mappa delle relazioni degli individui all’interno del sistema famiglia e di questo
all’interno di altri sistemi (Campanini, 2002).
Sia che l’ipotesi venga confermata o confutata o modificata, essa produce informazione e
poiché l’informazione è relazione produrrà un apporto di conoscenza non solo all’operatore ma
apporterà complessità, novità in tutto il sistema (Campanini, 2002).
L’operatore inoltre attraverso le sue domande permetterà alla famiglia di collegare gli eventi in
modo nuovo, attivando un cambiamento della punteggiatura.
Affinché ciò si realizzi l’ipotesi deve quindi essere sistemica deve cioè includere tutti i
componenti della famiglia per fornire una supposizione concernente il funzionamento della
famiglia (Campanini, 2002)
35
La prima ipotesi può scaturire già dal primo contatto con il richiedente, una segnalazione, un
invio; si tratterà di un’ipotesi rudimentale ma che può individuare una serie di ambiti rilevanti
da indagare nel colloquio.
Successivamente si potrà esplorare i rapporti le relazioni interne ed esterne al nucleo per
comprendere per quale “scopo” la famiglia si stia comportando in quel modo.
E’ importante quindi che l’operatore ponga delle domande che consentano di ricevere delle
informazioni e non semplicemente notizie (Campanini, 2002).
Le domande devono quindi essere poste in modo “circolare”, devono essere triadiche, devono
invitare un membro a descrivere la relazione tra altri due; si deve invitare quindi formalmente
un membro della famiglia a metacomunicare sul rapporto di altri due, in loro presenza.
Ciò non può non provocare le rispettive retroazioni, facilitando in questo modo l’individuazione
dei modelli di interazione in quella famiglia (p. 179)
Non ci si deve dimenticare di interpellare anche i bambini quando siano presenti, in quanto
vivono la situazione e hanno una loro visione del problema e delle relazioni.
E’ possibile fare domande che permettano di cogliere delle differenze rispetto a condizioni
ipotetiche, proiettate nel futuro per evocare le potenzialità di cambiamento; in questo modo i
membri della famiglia possono acquisire il senso della propria capacità di immaginare soluzioni
nuove ai probabili problemi, e sbloccare i circuiti ripetitivi in cui sono costretti.
L’assistente sociale deve poi essere “neutrale”, ciò non vuol dire mantenere un comportamento
freddo asettico, ma deve offrire alla famiglia l’impressione di non essersi schierato con nessuno,
di non aver privilegiato nessuna punteggiatura (Campanini, 2002, pp. 180-181.)
2.1.2 Il modello di rete e la prospettiva relazionale di P. Donati
Altro modello che si è andato diffondendo in Italia a partire dalla fine degli anni ottanta è stato
il modello di Rete nato da riflessioni antropologiche, successivamente ampliato attraverso
riflessioni di tipo psicologico con finalità terapeutiche, ma soprattutto attraverso riflessioni di
tipo sociologico relative a orientamenti struttural funzionalisti, più recentemente e
approfonditamente attraverso riflessioni relative al paradigma della sociologia relazionale di
Donati (Gui, 2004, pp. 57- 66).
E’ questo un approccio che trova riscontri positivi nei nuovi orientamenti di politica sociale
locale tendenti alla valorizzazione dell’integrazione tra reti informali primarie, e secondarie e
servizi istituzionali o reti formali, a livello di progetti individualizzati, a livello di sviluppo di
una maggiore autonomia e responsabilità della società civile, anche nell’ottica della
costruzione di un sistema integrato di prestazioni e servizi in ogni ambito territoriale come
previsto dalla Legge Quadro 8 Novembre 2000 n° 328.
36
E’ stata messa a punto anche una metodologia del servizio sociale nell’ottica di rete
(Folgheraither, 1998) che, rifacendosi alla sociologia relazionale e partendo dal concetto di
persona come “unità bio-psico-sociale”, mette l’inevitabile relazione in termini ecologici,
relazionali e interattivi tra l’aspetto bio-psicologico e quello sociale- relazionale, nella genesi
dei problemi dei quali si occupa il servizio sociale e sui quali, con la stessa prospettiva deve
intervenire, puntando sullo sviluppo dell’empowerment, ovvero sulla capacità di ogni uno degli
attori della rete di fronteggiare e risolvere i compiti relativi allo sviluppo, modifica,
ampliamento delle relazioni esistenti tra loro nella rete.
In quest’ottica l’operatore sociale deve assumere il ruolo di “guida relazionale”, di esperto non
delle soluzioni ma dei “possibili” percorsi e dei segnali che li possono indicare, in modo da
individuare in maniera relazionale, costruttivistica, insieme all’utente e alle sue reti, i compiti
da perseguire e le modalità per farlo (Folgheraiter, 1998, pp. 427- 501).
Ma cosa si intende per rete sociale? e quale ruolo e funzioni esplica in questo modello
l’assistente sociale ?
Il termine rete viene utilizzato per rappresentare il tessuto dei contatti e rapporti che la persona
costruisce intorno a sé nella quotidianità (Ferrario, 1992, pp. 17-19).
Quando la persona incontra nel proprio ciclo vitale dei problemi, diventa fondamentale per
l’assistente sociale conoscere le reti della persona portatrice del disagio per intervenire
rinforzandole, facendo sì che queste agiscano da supporto da “cuscinetto”, cercando di creare
nuovi legami, nuove reti, attivando altre interazioni.
Esaminando l’etimologia della parola rete, il concetto di rete viene indicato da C. Besson come
“Tessuto a maglie molto larghe, filet, insieme stabile o accidentale di linee, strisce intrecciate,
intercrociate” (Ferrario, 1992, pp. 18-19).
E ancora: “Fondo di merletto a maglia geometrica, insieme di vasi, nervi, che si ramificano o
si incrociano” (Bertotti).
E ancora Barnes definisce la rete come: “Un insieme di punti congiunti da linee, i primi
rappresentano le persone o anche i gruppi, le seconde le interazioni” (Folgheraiter, 1998, pp.
199-264).
E ancora Walker (Bertotti) definisce la rete come: “Un insieme dei contatti interpersonali per
effetto dei quali l’individuo mantiene la propria identità sociale, riceve sostegno emotivo, aiuti
materiali, servizi, informazioni, oltre a rendere possibile lo sviluppo di ulteriori relazioni
sociali”.
37
Ancora C. Besson (Bertotti) definisce la rete come: “Un insieme di persone che si conoscono
e sono unite le une alle altre da legami di parentela, amicizia, vicinato, lavoro.. i membri di una
rete condividono un certo numero di valori e di norme o se si vuole, una cultura comune.
Serries ( Bertotti) definisce anch’egli la rete come: “Una rete è formata per un istante dato
(rappresenta uno stato qualunque di una situazione mobile) da una pluralità di punti (nodi)
legati tra loro da una pluralità di ramificazioni (percorsi); per definizione, nessun punto è
privilegiato rispetto ad un altro, nessuno è subordinato in maniera univoca a quello o a
quell’altro”.
Mitchell (Bertotti) definisce invece la rete come: “Un insieme specifico di legami che si
stabiliscono tra un insieme ben definito di persone; le caratteristiche di questo legame, pensato
come unità, permettono di comprendere e di dar senso ai comportamenti sociali delle persone
in esso coinvolte.
Quindi la rete secondo Barness (Bertotti) ;rappresenta persone e le interazioni fra essere
E mobile ed equa secondo Serres
E’secondo Mitchell: (Bertotti) rappresenta un insieme di legami che danno il senso dei
comportamenti;
Secondo Wolcker (Bertotti): Interazioni necessarie per mantenere identità sociale.
Infine per Besson (Bertotti) la rete è Condivisione di cultura comune.
Due immagini sono particolarmente utili in campo sociale, anzitutto l’immagine del tessuto:
l’operatore sociale, alla maniera di un tessitore, non tesse forse dei legami? L’immagine del
filet, quella della ragnatela, della trappola, della rete da pesca, fonte d’abbondanza, o come
quella del trapezista, che attutisce le cadute.
La rete si associa allora, in rapporto agli stress e ai colpi duri della vita, all’idea di effetto
tampone, che Paola Di Nicola chiama “effetto cuscinetto”.
E’ sottesa al concetto di rete una concezione dell’uomo come soggetto in interazione con gli
altri, capace di influenzarli oltre che di essere influenzato (Ferrario, 1992, pp. 19-20).
Nella rete di un utente \cliente si esploreranno:
Le reti Primarie : famiglia, parenti, amici, vicinato, colleghi di lavoro. Esse costituiscono
l’ambito dove lo spirito del dono si istaura e si sviluppa in modo privilegiato, dando forma al
mondo affettivo e simbolico dei singoli e dei collettivi (Sanicola, 1995, pp. 119-114).
Le reti Secondarie informali: sono quelle che si costituiscono a partire dalle reti primarie, in
presenza di un bisogno condiviso, in relazione al quale esse organizzano un aiuto o un servizio.
Possono costituire un collettivo di genitori o di donne, un gruppo di auto- o mutuo-aiuto non
formalizzato.
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Hanno come mezzo di scambio la solidarietà, cioè la dimensione della reciprocità che emerge
in termini di responsabilità collettiva.
Le reti Secondarie formali: si caratterizzano per gli scambi fondati sul diritto, primo tra tutti
quello di cittadinanza.
Esse erogano prestazioni o servizi ed intervengono sulla base di una esigibilità da parte degli
utenti\clienti.
Le reti di Terzo settore: sono quelle che si costituiscono come organizzazioni di servizi non-
profit, utilizzando come medium non solo il diritto ma anche la solidarietà.
Sono queste le cooperative sociali, le associazioni di volontariato, le fondazioni.
Le reti di Mercato: sono quelle la cui esistenza è strettamente legata al medium del denaro e
del profitto, come le aziende, le imprese, le unità commerciali, i negozi, le attività di libera
professione.
Le reti Miste: infine sono quelle reti che utilizzano un mix di mezzi di scambio, come ad
esempio le cliniche private che, agendo nella sfera di prestazioni di diritto, erogano le proprie
prestazioni sulla base di un corrispettivo in denaro.
Si analizzano anche le caratteristiche strutturali e interazionali nelle reti; gli operatori sociali
utilizzano mappe di rete e genogrammi per comprendere ad esempio la storia di un utente\
cliente a partire dalla sua rete e dalle interazioni che egli ha intessuto negli anni con altre reti.
Per studiare le caratteristiche dei rapporti che uniscono un vertice, che rappresenta un soggetto,
agli altri, sono stati coniati i concetti di Ferrario (1992, pp. 28-34):
Centralità, cioè la distanza di ciascun vertice dagli altri (è più elevata quando la densità è più
bassa e rappresenta un indicatore del grado di accessibilità di un vertice);
- Densità, cioè la probabilità che tra due vertici esista un collegamento;
- Connettività, cioè il numero di connessioni che ogni vertice ha in media con altri e quindi la
probabilità che sia connesso con un altro;
- Incidenza, numero di archi, cioè di collegamenti, che congiungono un vertice agli altri;
- Distanza, cioè il percorso più breve tra due vertici, che si può tradurre in campo sociale nella
distanza geografica tra il soggetto e un membro del gruppo;
- Compattezza del reticolo, che si traduce sia nel concetto di raggiungibilità (quanti vertici sono
collegati ad un punto) sia nel numero di intermediari necessari per collegare un altro punto del
reticolo.
Le variabili strutturali riguardano la forma della rete e si possono tradurre nella
rappresentazione grafica, mentre le variabili interazionali caratterizzano il processo derivato
dai comportamenti dei soggetti e riguardano l’aspetto contenutistico delle relazioni.
39
- L’Ancoraggio, cioè l’individuazione del centro della rete, denominato Ego nel caso della
rappresentazione della rete del soggetto;
- L’ampiezza, che è la variabile più importante, in quanto le altre sono valutate in relazione a
essa, e consiste nel numero di punti di contatto esistenti in una rete;
- La Densità, cioè l’estensione reale dei legami tra i diversi nodi rispetto ai legami possibili
all’interno della rete considerata (Ferrario, 1992).
- L’Omogeneità, cioè la distribuzione delle caratteristiche demografiche tra i membri,
importante per valutare i tipi di scambi di risorse se tra uguali (molti anziani) o tra generazioni
e l’eventuale presenza concorrenziale di altre fasce deboli (bambini piccoli);
- L’Accessibilità dei membri.
Vi è un’ovvia relazione tra ampiezza e densità nel senso che quando una rete è ampia, ha in
genere un livello più basso di densità rispetto a una rete più ristretta.
A una stessa densità poi possono corrispondere diverse configurazioni su un piano di
rappresentazione grafica.
Incrociando densità ed estensione si ricavano quattro situazioni cardinali assai interessanti sul
piano sociale:
- A bassa densità e bassa estensione una situazione di chiusura con alto controllo sociale e alto
coinvolgimento affettivo;
- A bassa densità e alta estensione una situazione di anonimato con scarso controllo e
preservazione dell’indipendenza e dell’autonomia;
- Ad alta densità e alta estensione corrisponde un quadro di inclusione e inglobamento.
La direzione, è il grado in cui le relazioni sono reciproche, bilaterali o unilaterali;
La frequenza è il numero delle interazioni tra i membri e tra Ego e gli altri membri in un dato
periodo (Ferrario, 1992).
La durata è la persistenza nel tempo di una relazione (grado in cui le relazioni sono basate su
obblighi)
L’ intensità, fa riferimento alla profondità, la chiusura percepita della relazione.
Mentre l’ancoraggio, la densità, la direzione, la frequenza, l’ampiezza e il contenuto
descrivono la morfologia di una rete sociale, la durate e l’intensità ne qualificano le
caratteristiche interazionali.
Attraverso poi l’uso del genogramma oltre che delle mappe di rete, l’operatore può ottenere
una visuale più completa sia del ciclo di vita familiare dell’utente\cliente sia delle sue relazioni
e interazioni con le altre reti nel territorio (Cortigiani & Marchetti, 2016, pp. 181-184).
40
La rete offre poi delle opportunità per uscire dalla visione struttural funzionalista della società
(Donati, 1994, pp. 83-149).
Nel sistema, l’uomo infatti è determinato nei suoi comportamenti dal sistema di appartenenza,
mentre nella rete il soggetto fin dalla nascita elabora una propria strategia relazionale per
rispondere ai suoi bisogni.
Se si dovesse seguire la logica sistemico-funzionalista dovremmo ammettere che i problemi
sociali possono essere affrontati soltanto con organizzazioni di welfare sempre più
differenziate funzionalmente e professionalizzate in base a fattori tecnici, ma così non è.
E, non solo perché le organizzazioni hanno dei limiti enormi, ma perché tutto ciò che cade fuori
da esse verrebbe rimosso, negato, rifiutato, e messo in latenza.
Di qui parte la prospettiva dell’intervento di rete, che rivendica il carattere umano prima che
funzionale della società: essa vede per forza di cose basarsi su una teoria delle relazioni sociali
che la vede come intrinsecamente costituite come un intreccio di formale e informale, di
funzionale e non funzionale.
L’approccio relazionale non assume come primario il concetto di sistema, bensì quello di
relazione sociale; osserva, pensa e agisce la relazione sociale non come espressione o portato
del sistema ma come realtà umana sui generis, dunque mantiene al proprio interno la rilevanza
del punto di vista dell’umano (Donati, 1994, p. 86).
Dire che la relazione sociale ha una realtà di genere proprio non solo consente di prendere le
distanze dalle teorie sistemiche e da quelle azionistiche ma abilita a vedere nelle relazioni
sociali una realtà che per quanto invisibile, costituisce il substratum su cui la società viene
costruita e modificata, tanto nella genesi come nella ricerca di soluzioni umane ai problemi
sociali (Donati, 1994, pp. 83-149).
L’intervento di rete, non è una particolare” tecnica” di costruzione delle relazioni sociali, ma
un modo di saperle osservare nel loro proprio essere e farsi, al punto da poter intervenire per
una loro modificazione, nel senso di una auto- regolazione delle relazioni osservate e agite
dagli stessi soggetti sociali.
Dire che la relazione sociale ha una realtà sui generis significa dire che essa non è il semplice
derivato di qualcos’ altro, ma rispecchia un ordine proprio di realtà (Donati, 1994, pp. 87-90).
Così come nel sistema di riferimento organico, l’uomo non può esistere senza aria né senza
cibo, nel sistema sociale l’essere umano non può esistere senza relazioni con gli altri.
Sospendere la relazione con l’altro significa sospendere la relazione con il sé; di questo e non
di altro trattano le scienze sociali.
41
Certo noi non vediamo le relazioni sociali andare a spasso ma sappiamo che esistono, non solo
perché si concretizzano in forme, e istituzioni sociali ma perché di esse ne facciamo esperienza
(Donati, 1994, pp. 89-90).
Si tratta infatti di una realtà tra noi e gli altri che non è un rapporto logico o puramente psichico
(Donati, 2013, pp. 87- 92).
La relazione sociale si distingue dalla relazione in senso logico e\o psichico in quanto è:
- Refero, cioè referenza simbolica (patto)
- Religo, cioè connessione o vincolo strutturale (contratto)
- Relazione, cioè fenomeno emergente di un agire reciproco.
Per essere osservata, la relazione richiede un’appropriata metodologia e una teoria
dell’osservatore che si auto-osserva tramite una terza parte.
Sociale è una proprietà relazionale del rapporto tra l’osservatore e ciò che viene osservato.
A differenza del campo fisico, in cui il rapporto tra entità materiali è un meccanismo, nel campo
sociale il rapporto è comunicativo e interpretativo: ed è per questo che, anziché di rapporto,
parliamo di relazione.
Ogni oggetto sociale dovrebbe essere definito in termini relazionali, non è infatti esatto dire
che la sociologia studia relazioni tra fatti sociali, ma si dovrebbe invece affermare che la
sociologia studia i fatti sociali come relazioni e per far questo essa deve ridefinire i suoi oggetti
e i suoi concetti come relazioni.
All’inizio di una ricerca, non si dovrebbe mai dimenticare che il fenomeno oggetto
d’indagine nasce da un contesto relazionale, è immerso in un contesto relazionale, dà origine
ad un contesto o sistema relazionale.
Nel comprendere la realtà sociale e poi intervenire su di essa è importante chiarire la specificità
del codice simbolico che si sta usando (Donati, 1994, pp. 91-93).
Occorre un codice simbolico che guardi alle relazioni in sé stesse; la relazione è fatta da diverse
componenti e queste sono distinguibili.
Ad esempio vi è l’effetto di ego su alter ovvero la consistenza del comportamento di ego verso
gli altri, vi è poi anche l’effetto di alter su ego, ovvero la consistenza nelle risposte di una
persona verso differenti ego, e vi è l’effetto di interazione, ovvero il comportamento che
nessuno degli agenti “porta” nella relazione, ma che risulta dal particolare condizionamento
reciproco fra i particolari attori; questi effetti possono essere selezionati, osservati e misurati
(Donati, 1994, pp. 91-93).
I primi due possono essere analizzati a livello individuale, il terzo può essere osservato solo
prendendo la relazione come unità di analisi.
42
Ogni livello di analisi può essere concepito come sistema, e poiché ogni sistema è parte di un
sistema più ampio, il livello di analisi che viene scelto è sempre incompleto.
Ogni sistema deve essere definito nel contesto del sistema di ordine più elevato, e non esiste
un sistema finale di tutti al quale fare riferimento.
La società quindi, nel paradigma relazionale non viene intesa né come tutto\parte né come
sistema\ ambiente né secondo l’autopoiesi ma come una rete di relazioni (Donati, 1994, pp.
104-107).
L’idea base è che:
- Non esistono soggetti ed oggetti isolati, ma complesse trame di relazioni in cui soggetti e
oggetti si definiscono relazionarmente.
- Quando si interviene su un oggetto od oggetto si deve operare sulla trama relazionale in cui ciò
che si osserva è inserito, cioè considerando gli altri soggetti e oggetti intorno e gli” effetti di
rete” che le azioni possono implicare.
- Tutto ciò nella consapevolezza che esiste una relazionalità tra chi osserva e chi è osservato, tra
chi agisce e chi è agito, la quale ha una connotazione di circolo ermeneutico ma non
indeterminato ad infinitum.
- Le relazioni sociali non possiedono poi, un carattere lineare ma possiedono interazioni avente
carattere di circolarità tra reti formali e informali; non si enfatizza in questo approccio
l’importanza delle reti informali in sé e per sé, ma nelle loro connessioni co-relazioni con le
reti formali; sempre più anzi il mix tra formale (istituzioni) e informale (famiglia, amici,
vicinato, colleghi di lavoro) appare vitale per il funzionamento di una normalità delle relazioni
sociali.
Sul piano operativo- organizzativo vi sono tre principali linee di sviluppo (Donati, 1994, pp.
121-123):
- La promozione di forme associative di tipo solidaristico, dai gruppi di self-help ai gruppi di
mutuo aiuto e cooperazione, e in generale lo sviluppo di solidarietà intermedie tra individui e
Stato e tra individui e ente locale.
- L’organizzazione di meccanismi di raccordo (linking) fra agenzie informali e formali, varie
forme di associazioni.
- L’utilizzo di strategie di rete basate sull’idea dello sviluppo dei “potenziali naturali” delle reti
primarie e secondarie , al fine di risolvere una situazione- problema nel suo proprio contesto
di vita attraverso la massima attivazione delle risorse disponibili o latenti nella rete stessa.
La lezione che può essere tratta dal funzionalismo vecchio e nuovo (Durkheim \ Parsons\
Lummhan) consiste nel mostrare come una insufficiente comprensione della relazionalità
43
sociale finisca per pregiudicare non solo la teoria sociale, ma anche la pratica dell’intervento
(Donati, 1994, pp. 142-144).
Bisogna affermare: né pura azione (puro individuo), né puro ordine sociale (pura struttura o
coercizione); la realtà sociale è relazionale, si deve guardare alla logica della relazione in
quanto tale.
Le reti sociali sono fatte di libertà e condizionamenti strutturali: sono anzi, proprio
l’espressione della relazione sempre problematica fra libertà e determinismo (Donati, 1994,
pp. 142-145; Donati, 2013, pp. 99- 108).
La sociologia relazionale rivendica il fatto che la società è anche “non funzionale” e
“funzionale” e le loro relazioni, in quanto, questo alla fine è il senso dell’approccio relazionale
e dell’intervento di rete, “l’includere e non l’escludere” attraverso operazioni di linking.
Ad esempio per il funzionalismo, l’alcolista e il tossicodipendente sono semplicemente dei
devianti: essi vengono concepiti, interpretati come ruoli (Parsons) o come sistemi
comportamentali (Lummhan) non funzionali.
Nell’approccio relazionale questo etichettamento o ascrizione ad un ruolo o posizione
disfunzionale non è legittima; secondo l’approccio relazionale, non si può e non si deve
ricondurre tutto alla dicotomia funzionale\ non funzionale, ciò che importa è sia, nell’analisi
sociologica che nell’intervento sociale, è la distinzione tra umano e non umano, la comunity
care nell’intervento di rete ne è un esempio (Donati, 1994, pp. 59-61).
44
Capitolo III
3. Il progetto di autoimprenditoria: apertura della Partita Iva e regime fiscale forfettario “ Start
up “ 2016.
Passiamo a considerare alcuni strumenti e linee di attività che caratterizzano la libera
professione (Petrillo, 2016, 49-56).
La maggior parte degli assistenti sociali che svolgono oggi la libera professione sono giovani,
i quali possono avvalersi di varie agevolazioni, per cui ci concentreremo sulle varie possibilità
offerte dalla normativa fiscale nazionale.
L’assistente sociale è un professionista iscritto ad un albo.
Qualora si voglia svolgere la libera professione sarà necessario aprire la partita IVA rivolgersi
ad un commercialista oppure recandosi presso un ufficio locale dell’Agenzia delle Entrate.
E’ doveroso sottolineare che l’apertura della partita IVA non ha nessun costo.
A titolo informativo per coloro interessati ad aprire partita IVA è giusto sapere che a decorrere
dal 1 gennaio 2016 il regime forfettario è l’unico regime agevolato previsto con aliquota
sostitutiva (Petrillo, 2016).
Focalizzando la nostra attenzione su questo regime di favore.
La legge di Stabilità per il 2015 (Legge 190\14) ha introdotto questo regime agevolato, rivolto
alle persone fisiche che esercitano attività d’impressa, arte o professioni, in forma individuale.
In sintesi, il regime (naturale per chi possiede i requisiti di ingresso) si sostanzia nella
determinazione forfettaria del reddito, che viene poi tassato con un’imposta del 15%, sostitutiva
all’irpef, delle addizionali comunali e dell’irap.
Ai fini previdenziali invece per gli iscritti alla gestione separata come nel caso degli Assistenti
Sociali l’aliquota contributiva è confermata al 27, 72% anche per il 2016.
Il nuovo regime è quello naturale per i contribuenti in possesso dei relativi requisiti.
Tuttavia, è possibile optare per l’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto e delle imposte
sul reddito nei modi ordinari (Petrillo, 2016).
L’opzione è valida per almeno un triennio, è comunicata con la prima dichiarazione annuale da
presentare successivamente alla scelta operata.
Trascorso il periodo minimo di permanenza nel regimo ordinario, l’opzione resta valida per
ciascun anno successivo, fino a quando permane la concreta applicazione della scelta operata.
All’avvio dell’attività è comunque possibile avvalersi del regime forfettario comunicando, nella
dichiarazione di inizio attività, di presumere la sussistenza dei requisiti prescritti.
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L’attuale regime IVA agevolato c.d. regime forfettario è stato oggetto di modifica con la Legge
di Stabilità 2016 (legge n. 208\2015, pubblicata in GU n. 302 del 30 Dicembre 2015).
In particolare il legislatore ha innalzato le soglie dei ricavi rispetto a quelle fissate per il 2015
passando da euro 15.000 ad euro 30.000 per i professionisti come la categoria degli Assistenti
Sociali e questo rappresenta un vantaggio (Petrillo, 2016).
Le persone fisiche esercenti attività d’impresa, arti o professioni applicano il nuovo regime
forfettario se, contemporaneamente, nell’anno precedente:
- Hanno conseguito ricavi ovvero hanno percepito compensi, ragguagliati ad anno, non
superiori a determinati limiti, differenziati a seconda del codice ATECO (codice attività
della partita iva) che contraddistingue l’attività esercitata;
- Hanno sostenuto spese per un ammontare complessivamente non superiore a 5.000 euro
lordi, per lavoro accessorio, dipendente e per collaboratori (comprese le somme erogate
sotto forma di utili da partecipazione agli associati);
- Il costo complessivo, al lordo degli ammortamenti, dei beni strumentali alla chiusura
dell’esercizio non superava i 20.000 euro;
- Non hanno superato un reddito da lavoro dipendente (o da pensione) di 30.000. Il tetto
non si applica se il rapporto di lavoro è cessato.
Reddito e tassazione
Il reddito imponibile è determinato applicando all’ammontare dei ricavi o dei compensi
percepiti un coefficiente di reddittività, diversificato a seconda del codice ATECO che
contraddistingue l’attività esercitata.
Tale coefficiente per i professionisti è fissato nella misura del 78%. Sul reddito
imponibile si applica un’imposta sostitutiva dell’Irpef, delle addizionali regionali e
comunali e dell’Irap, pari al 15%. La legge di Stabilità 2016 ha previsto l’abbattimento
dell’aliquota d’imposta sostitutiva al 5 per cento per 5 anni per chi inizia una nuova
attività dal 2016 (a prescindere dall’età anagrafica) mentre per chi ha iniziato l’attività
nel 2015, a partire dal 2016 potrà applicare la nuova aliquota del 5% per i 4 anni residui,
quindi fino al 2019 (Petrillo, 2016).
Senza entrare troppo nel dettaglio si precisa che per fruire di tale ulteriore agevolazione
è necessario rispettare precisi requisiti:
- Nei tre anni precedenti l’inizio dell’attività oggetto di agevolazione, non deve essere
stata esercitata un’attività artistica, professionale o d’impresa, anche in forma associata
o familiare;
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- L’attività non deve rappresentare. In alcun modo, una mera prosecuzione di un’attività
precedente svolta sotto forma di lavoro dipendente o autonomo, con l’esclusione
dell’ipotesi del tirocinio professionale obbligatorio;
- In caso di prosecuzione di un’attività svolta in precedenza da un altro soggetto,
l’ammontare dei ricavi, realizzati nel periodo d’imposta precedente a quello di
riconoscimento del beneficiario, non può essere superiore a quello fissato per categoria
economica (Petrillo, 2016).
3.1 Il bilancio delle competenze
Il mondo del lavoro è ormai cambiato rispetto al passato non tanto remoto: a dire il vero lo era
già da tempo, noi assistenti sociali ci siamo arrivati un po’ in ritardo, blindati in burocrazie
tendenzialmente avulse dalla realtà (Albano, 2016a; Albano et al., 2008, pp. 34- 55).
Una volta c’erano i concorsi, i titoli ed il curriculum. Oggi invece c’è un libero mercato del
lavoro in cui ci si misura non solo sul titolo di studio, ma specialmente su quel che serve al
mercato: la competenza professionale. Il trend del mercato sociale ci vede quindi in
concorrenza con altre professioni d’aiuto, in cui vince chi “sa” e “sa fare” meglio degli altri.
Nel presentarsi ad un possibile datore di lavoro è quindi importante certificare attitudini (su cui
l’organizzazione selezionante potrebbe ipotizzare un investimento), qualificazioni (necessarie
sul piano formale) e capacità (di cui l’organizzazione ricercante ha bisogno). Tale
certificazione, che è poi una autocertificazione, si chiama bilancio di competenze. Essa è una
sorta di carta d’identità del candidato, una fotografia, delle capacità, delle attitudini e delle
qualificazioni di una persona.
L’idea è nata in Francia negli anni 80’ come servizio strettamente correlato alla formazione
continua, ma successivamente è stato utilizzato anche come supporto ai giovani in cerca di
occupazione.
In Italia il bilancio delle competenze è stato introdotto con la Legge Biagi di riforma del mercato
del lavoro. Esso può essere effettuato presso gli Uffici del lavoro ma può essere anche compilato
in proprio. Una bella definizione la dava qualche anno fa il sito internet del Ministero del
Welfare, il quale definiva il bilancio di competenze come “quell’insieme di azioni che hanno
l’obiettivo di consentire ai lavoratori di analizzare le proprie competenze professionali e
personali, così come le proprie attitudini e motivazioni, allo scopo di definire un progetto
professionale e, ove necessario, un progetto di formazione”. L’obiettivo principale del bilancio
di competenze consiste quindi nel favorire la ricostruzione, il riconoscimento e la validazione
delle competenze sviluppate nel corso dell’esperienza professionale e personale, al fine di farne
47
una risorsa per l’accesso al lavoro o per un suo sviluppo in termini di carriera (Albano a; Albano
et al., 2008, pp.34-55).
Il bilancio delle competenze può quindi essere uno strumento di aiuto per le persone per
conquistare consapevolezza circa le proprie capacità, attitudini, aspirazioni professionali, il
tutto in rapporto ai bisogni dell’organizzazione presso cui ci si candida. Il bilancio si rivolge a
persone che hanno maturato esperienze lavorative e che intendono svilupparne di nuove o
proporsi altrove, sia ai giovani che si preparano a entrare nel mondo del lavoro, come pure a
chi desidera progettare un reinserimento lavorativo dopo un periodo d’assenza. Personalmente
credo che il bilancio delle competenze sia anche un’opportunità per le organizzazioni, perché
può garantire risorse umane motivate e idonee alla stessa mission. Credo insomma che ogni
processo selettivo (concorso pubblico o colloquio in azienda) debba in futuro sempre di più
mirare a” scegliere la persona giusta per il posto giusto” e quindi a valutare sia le competenze
del candidato che il bisogno dell’organizzazione. Come nel matrimonio quindi: ci si sceglie
liberamente e con chiarezza circa le caratteristiche che ognuno, sempre di più l’assunzione
“causuale” sarà un’eccezione, se non un incidente (che costerà sul medio termine).
Non più quindi curricula cronologici o chili di attestati, ma un ‘autoattestazione di quel che si
sa fare. La stessa Unione Europea raccomanda, non a caso, un modello di curriculum
comprensivo di bilancio di competenze, il quale non è certificato da nessun altro se non da noi
stessi. Questo curriculum europeo lo si trova ormai in tutte le lingue ed in tutti i formati su
internet. Esso si differenzia dal classico in quanto, oltre alla solita lista di informazioni ed
esperienze, riporta dei campi in cui autoattestare le proprie capacità\competenze. Le aree entro
cui dichiarare tutto ciò le conosciamo: l’area relazionale, l’area organizzativa, l’area tecnica,
l’area artistica, l’area delle “altre competenze”, l’area linguistica ed il possesso di patenti o
abilitazioni (Albanoa; Albano et al ., 2008, pp. 34-55).
Se non mi stanco mai di raccontare una buona redazione del curriculum come strumento-
principe dell’autonarrazione, ancor più non mi stanco di ribadire di avere cura in maniera
maniacale del proprio bilancio di competenze. Il motivo è semplice: il bilancio di competenze
è il frutto del curriculum, è l’indicatore di un buon percorso professionale, è solo a quello che i
selezionatori guarderanno: a loro non importa quanti anni sei stato seduto su quella sedia, a loro
importa cosa hai imparato stando seduto e quindi semplicemente detto “cosa sai fare”.
Addirittura nelle nuove forme di supporti di autopresentazione informatica penso ai video
promozionali o agli audiocurriculum -, dovendo presentare se stessi in un tempo stretto,
generalmente pochi minuti, è davvero il caso di partire dal bilancio delle competenze. E’ infatti
deleterio riempire il web di video e audio in cui si annoia il prossimo elencando una “lista della
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spesa” (lavori e formazioni) che non interessa a nessuno, col risultato controproducente di
rendersi noiosi, non interessanti. Se invece video o l’audio conterrà una presentazione di noi
stessi “qui ed ora”, mettendo in evidenza cosa sappiamo fare (qui ed ora, appunto), daremo di
noi un’ottima immagine e daremo la possibilità a chi cerca le nostre competenze di capire subito
se noi siamo fatti per le loro esigenze. E’ un po’ come vendere un’auto: il colore, la tradizione
o l’affetto per una casa automobilistica sono aspetti ininfluenti a fronte dei dati prestazionali
scritti e certificati sul libretto di circolazione. Certo noi non siamo una macchina, ma siamo
comunque in grado di giustificare competenze professionali di qualità, dobbiamo però prima
dircelo e poi dirlo: il bilancio delle competenze serve a questo (Albanoa; Albano et al., 2008,
pp. 34-55).
3.2 Comunicare se stessi
A mio modo di vedere gli Assistenti Sociali italiani hanno un difetto che devono assolutamente
recuperare: la comunicazione di se stessi. Ciò è stato disimparato sia per la carenza di
formazione da parte dell’università, sia per l’erronea identificazione di questo professionista
per decenni con l’organizzazione di appartenenza, quasi sempre una burocrazia pubblica
(Albano, 2016a; Albano et al., 2008, pp. 57- 98).
Tale disinvestimento dipende non solo dal rapporto di dipendenza in sé, ma anche dalla natura
stessa del pubblico impiego: essendo il dipendente un numero, un semplice strumento
dell’apparato che lo assume, non richiedendo questo gioco individualità o creatività, ma solo
adeguamento e standardizzazione, è forte la confluenza della singola identità verso
l’organizzazione, un po’ come lentamente si affoga in un pantano. Non dimentico mai anni fa,
in una ricerca svolta su assistenti sociali, come una buona parte dei colleghi alla domanda “cos’è
il servizio sociale”? rispondesse indicando l’edificio di lavoro, in cui si entra ed esce col badge
segnatempo, in cui si scambia tempo contro stipendio. Anche l’estetica personale la dice lunga
sulla comunicazione dell’immagine collettiva: è come se l’oggetto di lavoro la povertà, la
depressione, la tristezza, la crisi, la cronicità ci spingesse a curare poco la nostra bellezza, il
nostro stile, il nostro “sembrare”. Eppure ben conosciamo la valenza dell’estetica a livello di
comunicazione non verbale, ma restiamo fermi lì: un esempio è la bassa cura sulle foto con cui
corrediamo i curriculum.
L’immagine dell’assistente sociale italiano è un problema serio che la categoria riconosce, ma
non sa risolvere in maniera proattiva. Si è soliti ogni volta, per esempio a seguito di una
campagna di denigrazione massmediatica, delegare la difesa all’Ordine o al Sindacato, con
l’effetto, in fin dei conti, di conferma dello stereotipo appioppatoci. Se per l’opinione pubblica
noi “rubiamo i bambini”, tutti protestiamo, ma poi nessuno cura una comunicazione efficace
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per incidere in maniera diversa sull’immagine: resta quindi ogni volta, dopo i maldestri tentativi
legali contro i giornalisti, la conferma dello stereotipo del ruba bambini. Il vero problema è che
l’immagine non è un compito delegabile, è invece l’effetto di un comportamento di un gruppo
la cui responsabilità sta ad ognuno e non altri, tipo l’Ordine professionale. Se per esempio
assurdo si dice che gli zingari rubano i bambini e questo gruppo vuole davvero scrollarsi di
dosso questo stereotipo, non è con il finanziamento di una campagna pubblicitaria che questi ci
riusciranno, bensì col comportamento, coerente, costante e continuo di tutti i membri: anzi sarà
il gruppo stesso a vigilare al suo interno perché nessuno trasgredisca al diktat. Se per esempio
assurdo si dice che gli assistenti sociali allontanano i bambini dai genitori e questo gruppo vuole
scrollarsi di dosso questo stereotipo, non è con il finanziamento di una campagna pubblicitaria
che questi ci riusciranno, bensì col comportamento, coerente, condiviso, costante e continuo di
ognuno: dovrà essere tutto il gruppo professionale a vigilare al suo interno perché nessuno
trasgredisca alla norma (il codice deontologico serve appunto a questo).
Comunicare noi stessi in maniera coerente, per quello che noi siamo e non per quello che il
gruppo ci rimanda o lo stereotipo impone, è una scelta personale. Sta ad ognuno di noi decidere
di investire sull’autocomunicazione, cominciando dalla nostra estetica, passando per le scelte
metodologiche sul lavoro, non dimenticando mai i nostri setting di aiuto e pure gli strumenti di
autopromozione. C’è stile e stile: c’è chi va al lavoro vestendosi a modo e con gusto e chi ci
va senza neanche guardarsi allo specchio, c’è chi agisce secondo un pensiero metodologico
preciso e chi invece si rifà al buon cuore, c’è chi sprofonda tra le carte su una scrivania anonima
e chi invece cura l’aspetto della stanza con quadri e colori, c’è chi si sforza di comunicare il
servizio sociale con volantini e carte dei servizi e chi invece preferisce al massimo sfogliare i
depliant dei supermercati, c’è chi investe in formazioni e legge libri, e chi invece limita
l’investimento culturale alle parole crociate o alle ricette di cucina. C’è stile e stile: ognuno
sceglie il suo ed ognuno decide se e come comunicare se stesso.
A dire il vero l’essere dipendenti non abitua a comunicare: nelle organizzazioni questo aspetto
è una funzione del sistema, al dipendente, è infatti richiesta solo la prestazione, non
l’appartenenza. D’altra parte se si pensa alle istituzioni, è l’Ente che ha in sé la competenza
comunicativa, questa viene esclusa al dipendente, che deve solo eseguire fedelmente la volontà
dell’organizzazione. Ciò fa parte delle regole d’ingaggio del dipendente, precisamente
codificato nei Contratti collettivi: tempo contro stipendio, se al dipendente non viene richiesta
comunicazione, questa semplicemente non viene assunta come compito. L’esigenza di “dover
comunicare” si esplicita invece quando questo gioco triangolare (nel senso della doppia
relazione del dipendente con l’utente e con l’ente) salta, per cui è solo il professionista ad essere
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l’unica interfaccia col cliente: è il caso della libera professione. Siccome il cliente non è
assegnato al primo assistente sociale che capita, bensì pagando egli sceglie l’assistente sociale,
è strategico che ben prima si sia riusciti a comunicare se stessi in maniera adeguata.
Un po’ come il supermercato che pubblica sul depliant i propri prodotti, il libero professionista
non può non comunicare i propri prodotti, corredati da prezzi, e contenuti, al potenziale cliente.
E’ una questione di marketing: non è importante possedere buone competenze, è invece
strategico comunicarle, in modo da indurre la clientela all’acquisto. Imparare a fare un
volantino, a gestire un sito internet, a fabbricare una newsletter pubblicitaria, sono tutte
competenze imprescindibili per un professionista degno di questo nome. Certo, esistono le
agenzie di marketing, ma pure queste richiedono al committente indicazioni precise che,
comunque, vanno date e, prima ancora, concepite, pensate, preparate. Questa è la
comunicazione sul prodotto, necessaria per il mercato, ritorniamo però alla comunicazione
d’immagine, che riguarda tutti, dipendenti e autonomi.
Se l’obiettivo è comunicare la nostra professionalità, occorre prima di tutto possederla e poi
imparare a diffonderla. In ciò le nuove tecnologie ci aiutano non poco. Se del curriculum
abbiamo già parlato, anche nelle forme nuove (audio e videocurriculum), un ottimo strumento
di autopromozione potrebbe essere il book professionale. Si tratta di una pubblicazione (book,
appunto) in cui presentare noi stessi in chiave personale, non solo professionale. Possiamo
metterci la storia della nostra vita, le citazioni a noi più care, ma anche tanta iconografia: le
nostre foto più belle, le immagini dei luoghi in cui abbiamo lavorato, i report o i paper dei nostri
lavori di gruppo, le immagini delle nostre formazioni, gli estratti delle nostre pubblicazioni. Si
tratta di una forma comunicativa che fa pensare ad un “curriculum esploso”, cioè in direzione
della creatività, con un deciso intento di colpire l’interlocutore sul piano emozionale. Un book
deve infatti contenere non meno di sedici pagine, tutte colorate, essenzialmente simpatiche,
che devono colpire al cuore chi lo legge e fidelizzarlo. Candidarsi allegando, oltre al curriculum,
un book, significa coinvolgere emozionalmente il selezionatore nel gustare le emozioni che
derivano dalla nostra autopresentazione. Attenzione però all’interlocutore e ai suoi bisogni: ad
un funzionario burocrate ministeriale non interesserà per nulla l’esperienza emozionale (egli
cerca infatti freddi esecutori di direttive asettiche), mentre ad un coordinatore di cooperativa
con servizi a forte rilievo relazionale si: la differenza sta proprio nelle competenze che si devono
comunicare a seconda del contesto in cui queste vengono richieste.
Internet offre diverse possibilità gratuite di aderire a un format, comunicativo, in modo da
caricarci per la successiva diffusione, tutti gli aspetti del book. Consiglio di lavorare bene
attorno ad un proprio profilo in internet prima di creare ex novo un book: in questo modo si
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avrà una vera e propria banca dati da cui estrarre (dal profilo al book) tutto il materiale, scritto
o multimediale. Normalmente si crea un profilo entrando in una community, tramite portali
generalisti che, tramite account, danno profilo, e mai, blog ed anche un discreto spazio per un
sito internet. Il profilo generalmente prevede una serie di dati personali e la citazione degli
interessi, il tutto per facilitare una presa di contatto tra gli aderenti. Il problema, però è che
spesso si tratta di sistemi generalisti, i cui membri in buona parte comunicano “a tempo perso”,
dagli adolescenti agli anziani, passando per i cyberdipendenti, dai quali è sempre buona norma
astenersi. Consiglio invece di investire su community di tipo professionale specifico per gli
assistenti sociali, tipo assistenti sociali.org o serviziosociale.com Se di profili si tratta, col
bisogno di giocare in un contesto ampiamente professionale, consiglio vivamente LinkedIn,
un portale gratuito. il profilo in quell’ambito prevede l’implementazione di tutte le aree del
normale curriculum europeo, quindi, oltre a esperienze e formazioni, anche le competenze, gli
interessi, i premi, le pubblicazioni e molto altro. Non dimenticate comunque a profilo ultimato,
che questo avrà un URL vero e proprio: riportarlo nel curriculum cartaceo è un’operazione che
consiglio vivamente a ognuno.
Per ultimo il proprio sito internet. Ci sono diversi programmi per creare siti, anche a costo zero
se ne trovano diversi, anche se a costo di strutture grafiche standard. Basta infatti cercare tramite
i diversi motori di ricerca con la frase “sito internet gratuito” per avere tante possibilità di
esistere sulla rete. Basta scegliere, ma prim’ancora è importante decidere cosa si vuole
pubblicare di sé: il nostro sito può essere di presentazione, ma anche di offerta di servizi,
dipende da che scopo noi abbiamo nella testa. Anche solo nel primo caso, quindi per puro scopo
di autopresentazione, ci possono andare tutti gli aspetti della nostra persona, dal curriculum alle
nostre foto, dalla tesi di laurea alle nostre pubblicazioni. Più semplice, ma anche più limitativo
è il blog: quasi sempre gratuito, esso ha una struttura più rigida del sito, pensato generalmente
come “diario”, ovvero come sequenza continua di “pezzi” (testi e\o immagini). Logicamente
sta all’autore dare un senso al blog: può essere una raccolta ragionata di testi professionali, o
un’antologia delle buone pratiche o una palestra di scrittura attorno ad un argomento. Da non
dimenticare: sia siti che blog hanno un URL, trascriverlo sul curriculum cartaceo è operazione
opportuna, nonché possibilità per tutti selezionatori, colleghi, clienti) di conoscerci meglio.
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CAPITOLO IV
4. Le attività di uno studio professionale di servizio sociale
L’assistente sociale, com’è noto, possiede un bagaglio specifico di conoscenze teoriche e
pratiche, un mix particolare che spazia dalle scienze sociali, a quelle psicologiche, giuridiche e
sanitarie (Petrillo, 2016, 49-56).
Il percorso formativo mette il singolo professionista in grado di integrarsi nel lavoro di équipe
con altre figure professionali dell’aiuto, in un setting specifico quale ad esempio lo studio
associato.
Nell’ambito della libera professione, l’assistente sociale investe il suo know-how e svolge il
suo lavoro in tre principali macro aree di intervento:
4.1 La progettazione
Come progettare? Con chi progettare? Un assistente sociale che voglia investire in un settore
tanto delicato, deve innanzitutto avere una formazione ed un curriculum tali da renderlo
competente e competitivo in quello che riguarda lo studio e la presentazione di progetti per
bandi europei (Petrillo, 2016, 52). Un libero professionista può produrre progetti per la
comunità locale e presentarli alle scuole, agli Enti Pubblici, alle cliniche private, agli studi
legali, ai centri di psicoterapia, alle associazioni, alle cooperative o altro. Spesso quando
proponiamo un progetto ci sentiamo rispondere “non ci sono soldi”, “non si può fare”, ma un
bravo progettista sociale deve conoscere tutte le modalità esterne di reperimento dei fondi,
prima fra tutte le fondazioni bancarie, le quali emanano ogni anno bandi di finanziamento a
fondo perduto per sostenere economicamente progetti innovativi rivolti alla comunità e
caratterizzati da valenza sociale. Per fare questo è necessario affiliarsi ad una associazione
oppure costituirsi in tale forma per accedere alle agevolazioni previste. Ogni singolo progetto
deve possedere una struttura precisa e dei contenuti qualitativi che permettano un
proseguimento dello stesso in relazione ai fini che si intendono attuare, dando modo all’ente
finanziatore di valorizzare il prodotto presentato (Petrillo, 2016).
4.2. La mediazione familiare
Quasi sempre le famiglie e i loro componenti si trovano ad affrontare l’evento della separazione
da soli e senza il sostegno dei servizi, a cui spesso ricorrono, troppo tardi, solo quando le
conseguenze delle sofferenze e dei conflitti sfociano in problemi gravi ed ingestibili che oltre
ai genitori coinvolgono sempre i bambini con rischi per il loro sviluppo psicologico, emozionale
ed intellettuale (Cortigiani & Marchetti, 2016). Per questi motivi vanno sviluppati i servizi che
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sul campo si occupano delle problematiche familiari e dove il ruolo dell’assistente sociale può
favorire interventi precoci.
La mediazione familiare può essere attuata, pur in assenza di una normativa vincolante, da
operatori specializzati in mediazione familiare in uno dei centri formativi esistenti che, in buona
parte, fanno riferimento alla Società italiana di mediazione familiare (SIMEF).
Le figure professionali che per affinità di preparazione si sono specializzate in mediazione
familiare sono state prevalentemente, gli assistenti sociali e gli psicologi; più recentemente
anche gli avvocati, in particolare quelli specializzati nel diritto di famigli e dei minori, hanno
iniziato a frequentare i corsi di mediazione familiare (Cortigiani & Marchetti, 2016).
Non è casuale che molti assistenti sociali si siano specializzati in mediazione familiare, perché
molte famiglie in crisi sono già utenti dei servizi e perché gli obiettivi e le tecniche della
mediazione sono affini alla metodologia professionale di servizio sociale come ad esempio:
l’importanza dell’autodeterminazione delle persone, il loro rapporto con i diversi sistemi, le
crisi e i problemi, i processi evolutivi, le capacità di negoziazione, la capacità di individuare e
di utilizzare le risorse proprie e dell’ambiente, gli accordi tramite lo strumento del contatto e il
ruolo educativo promozionale dell’ assistente sociale a conferma di quanto interesse possiamo
vedere come anche in altri Paesi, e ben prima che in Italia, tra i promotori della mediazione
familiare ci siano stati assistenti sociali come ad esempio Linda Parkinson, uno dei massimi
esperti europei di mediazione familiare, con una vasta esperienza di servizio sociale con
famiglie in conflitto acuto, separate, divorziate e con famiglie ricostruite (Cortigiani &
Marchetti).
Come definire dunque la mediazione familiare? Si può iniziare affermando che non è
considerata, dalla maggioranza degli esperti, come una terapia, e neppure come una consulenza
psico-sociale o giuridico-legale, ma riguarda, come definito dalla SIMEF (Cortigiani &
Marchetti, 2016, pp. 189-190) “un percorso per la riorganizzazione delle relazioni familiari in
vista o in seguito alla separazione familiare o al divorzio: in un contesto strutturato il mediatore,
come terzo neutrale e con una formazione specifica, sollecitato dalle parti, nella garanzia del
segreto professionale e in autonomia dall’ambito giudiziario, si adopera affinché i genitori
elaborino in prima persona un programma di separazione soddisfacente per sé e per i figli, in
cui possano esercitare la comune responsabilità genitoriale” (Cortigini & Marchetti, 2016).
La mediazione familiare che, presuppone da parte dei due genitori, la sospensione volontaria
delle vertenze giudiziarie, può essere uno strumento preventivo di aiuto alla coppia genitoriale
per riattivare la comunicazione, iniziare a distinguere tra i conflitti di coppia ed il ruolo di
genitori ed uscire dalla spirale del disagio e della disorganizzazione, per lavorare alla
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costruzione di nuovi equilibri, nuovi rapporti e nuovi ruoli, attraverso il confronto e la pratica
di negoziazioni, per arrivare ad accordi per la gestione delle proprie responsabilità di genitori
nei confronti dello sviluppo e dei diritti dei figli.
Fare accordi sulle scelte educative, sulla scelta della scuola, su come affrontare un problema di
salute del proprio figlio, su quale attività sportiva, sulle modalità di visita con il genitore non
affidatario, sui contributi economici di spettanza e la divisione delle spese, sulla assegnazione
della casa coniugale, abilita i due genitori a trovare un nuovo assestamento nei processi
evolutivi del ciclo vitale della famiglia, non più rivolto al passato, ma intenzionalmente e
progettualmente orientato al futuro (Cortigiani & Marchetti, 2016).
4.3 La Formazione e la docenza
Il regolamento sulla formazione continua risulta essere molto rigido sui criteri che il buon
formatore deve possedere per essere accreditato (Petrillo, 2016, 53).
Chi vuole investire nel campo della docenza e dell’insegnamento, è tenuto ad arricchire il
proprio background di competenze e di saperi al fine di trasmettere esperienza e qualità a quanti
affrontano un percorso formativo. Avere competenze ed esperienze qualificate da offrire in aula
ai discenti e capacità metodologiche e relazionali per saperlo fare, risultano essere fattori
determinanti nell’ambito della formazione. Pubblicare articoli su riviste scientifiche, scrivere
libri, effettuare docenze per agenzie accreditate, sono tutti presupposti fondamentali per
effettuare un degno investimento nella formazione come attività libero professionale (Petrillo,
2016). Saper trasmettere ciò su cui siamo competenti, è la premessa per poter organizzare eventi
formativi richiesti e ripetibili in diversi contesti, da cui trarre anche un risultato economico; i
corsi di preparazione agli esami di Stato, i corsi per formare i tutor per alunni con bisogni
educativi speciali (BES), gli eventi organizzati prova con altri colleghi in co-docenza per
aspiranti formatori, sono strategie di mercato per dar modo al libero professionista di
incrementare le proprie occasioni di lavoro come docente (Petrillo, 2016). La docenza
universitaria di assistenti sociali è, ancora oggi, un grande miraggio, considerando la bassissima
percentuale della loro presenza negli atenei italiani. Per migliorare la situazione si auspica
l’approvazione del disegno di legge 660 (riforma della professione di assistente sociale) che
giace da anni presso la XII Commissione del Senato e contempla la docenza universitaria per
l’assistente sociale di comprovata esperienza con contratto di diritto privato, quindi al di fuori
del dottorato di ricerca (Petrillo, 2016, 53-54).
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Conclusioni
Da questa breve analisi emerge che: la professione di assistente sociale nell’odierno mercato
libero può essere esercitata in rapporto di dipendenza con enti pubblici e privati o in forma
autonoma o libero professionale.
Occorre pertanto rivendicare la dignità di una modalità professionale in grado di promuovere
un “volto nuovo” dell’assistente sociale, per scardinare l’immaginario generalista e
qualunquista che descrive l’assistente sociale come il classico dipendente della Pubblica
Amministrazione, sepolto da una voluminosa montagna di carte dietro la propria scrivania.
Nel nostro paese oggi non si diventa liberi professionisti per caso ma per diventare imprenditori
di se stessi, offrendo le proprie competenze professionali sul mercato, dando una risposta
positiva all’effettiva impossibilità di accedere all’impiego tramite concorsi pubblici e per creare
servizi alternativi al sistema pubblico.
Nel libero mercato vari soggetti devono concorrere alla costruzione del benessere complessivo,
cooperando secondo la filosofia concertativa mettendo al centro la persona, a prescindere dalle
modalità professionali entro le quali ci si trova ad operare; nello stesso tempo però occorre tener
presente che non ci si può illudere di poter esercitare la libera professione senza una adeguata
esperienza e formazione.
Occorre prima maturare molta esperienza di lavoro nel privato sociale, “formarsi alla libera
professione”, frequentando corsi accreditati dall’Ordine per apprendere una “modalità altra” di
lavoro sociale, che richiede competenze professionali e caratteriali di base, come una forte
determinazione al raggiungimento di obiettivi nel lungo termine, investimento di tempo e di
denaro.
Occorre che le università e l’ordine professionale promuovano questa dimensione nuova del
servizio sociale mediante la creazione di gruppi di studio sulla libera professione e mediante
nuovi piani di studio improntati verso l’acquisizione di nuove competenze libero professionali.
Attualmente la formula più idonea per esercitare la libera professione con successo, risulta
essere la formula associativa, perché può consentire agli assistenti sociali di organizzare un
sistema di rete privata idonea a contribuire alla costruzione di un sistema locale di welfare, al
contrario del singolo assistente sociale che decide di aprire un proprio studio professionale da
solo in quanto potrebbe sperimentare sensazioni di solitudine se non agganciato al proprio
contesto sociale, ad una rete.
Tuttavia in questa direzione, sembrano essere state avviate esperienze in varie zone d’Italia, e
potrebbe rivelarsi strategico promuovere occasioni di confronto e studio tra quanti hanno
avviato un’attività libero professionale.
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Per quanto riguarda gli ambiti lavorativi emerge dalla mia analisi che gli ambiti più interessanti
e innovativi riguardano: la progettazione, la formazione e la docenza, la mediazione familiare
e infine un ambito lavorativo innovativo potrebbe essere quello della costituzione di istituti di
patronato e di assistenza sociale come esplicato dalla legge 30 Marzo 2001, n.152 (Albano,
2008, pp. 169-171).
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