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LIBERTÀ SENZA FRONTIERE

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Pietro Archiati

LIBERTÀ SENZA FRONTIERE

La filosofia della libertà

di Rudolf Steiner

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3a edizione 2006 © Archiati Verlag e. K., Bad Liebenzell, 2005

Disegno di copertina: Edizioni Archiati

ISBN 3-937078-92-4

Archiati Verlag e. K. Am Berg 6/1 · 75378 Bad Liebenzell · Germania

[email protected] · www.archiati.com

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INDICE

Prefazione pag. 7

I. GENESI Il cammino di Rudolf Steiner fino alla

Filosofia della libertà pag. 15

II. ANALISI Il contenuto della Filosofia della libertà

pag. 79

Prima parte: scienza della libertà pag. 80 Seconda parte: realtà della libertà pag. 133

III. SINTESI Le conseguenze della Filosofia della libertà

pag. 199

Tentativo di sintesi: individualità e comunione

pag. 301

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PREFAZIONE

Questo libro ha una sua storia, che qualche lettore avrà forse piacere di conoscere, almeno per sommi capi, per-ché lo aiuterà a farsi un’idea più chiara di che cosa in esso si tratti.

Io presentai queste pagine nel 1984 all’Università Gre-goriana per la laurea in Filosofia. Il mio vecchio profes-sore di metafisica, un gesuita irlandese, mi aveva incorag-giato fino all’ultimo momento, assicurandomi che nella Facoltà di filosofia (diversamente da quella di teologia) vige una certa libertà di pensiero, che non consente di condannare una persona per il fatto che la pensi in un certo modo.

Il motivo per cui io avevo bisogno di questa rassicu-razione, è presto detto. Rudolf Steiner, sulla cui Filosofia della libertà io scrivevo questa tesi, è ignorato dai molti e condannato dai pochi. Quei pochi nella chiesa cattolica che conoscono (o ritengono di conoscere) qualcosa di lui, lo hanno catalogato fra gli eretici in compagnia di molti altri signori.

I miei timori non si erano del tutto sopiti neppure do-po la presentazione ufficiale della tesi. Quando dal mio moderatore seppi chi il decano aveva designato come secondo lettore (un gesuita indiano), mi rimasero poche speranze. Né mi sbagliai, poiché poco tempo dopo deca-no e moderatore fecero di tutto per farmi ritirare la tesi.

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In una lettera, il moderatore mi scrisse che, in base al giudizio negativo del secondo lettore, anche lui si era visto indotto a condannare la mia tesi.

Nel testo ufficiale del suo giudizio mi cita, a conferma della sua tesi sulla libertà di pensiero nella facoltà filosofi-ca (diversamente da quella di teologia) i canoni del bravo Denzinger a prova dei miei errori dottrinali.

Le questioni controverse (nel mio lavoro, come pure nel libro di Steiner di cui esso tratta) si possono ricondur-re fondamentalmente a due: alla questione del monismo e del panteismo da una parte, e alla concezione della libertà umana dall’altra. In questa prefazione mi limito a qualche breve riflessione orientativa.

È mia convinzione (e non solo mia) che il cristianesi-mo occidentale abbia unilateralmente privilegiato l’aspetto trascendente di Dio, e ne abbia invece trascurato l’altro aspetto, non meno vero e importante, che è quello dell’im-manenza. Trascendenza e immanenza sono entrambe metafore in fondo spaziali, e perciò essenzialmente limi-tate ed antropomorfiche. Se prese insieme, esse si relati-vizzano e si correggono a vicenda, completandosi in ciò che ognuna ha di parziale. Invece, non appena in occi-dente si vuol prendere sul serio l’immanenza di Dio, sor-ge subito l’accusa di panteismo. Bisognerebbe chiedersi seriamente perché mai debba essere un’eresia il dire che l’uomo può, a certe condizioni, vivere «in Dio», e invece fior di verità il dire che, alle stesse condizioni, egli ne vive «fuori» (in quanto Dio è sempre «al di là» dell’uomo, «ol-tre», cioè «trascendente»).

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La seconda controversia verte sul concetto di libertà della persona umana. Il modo di concepire la libertà di-pende tutto dalla risposta data al primo problema. Se si ritiene l’uomo incapace di attingere direttamente al divino (che è sempre «oltre» di lui), allora egli dovrà ricevere le norme ultime del suo comportamento per via di comuni-cazione estrinseca al suo essere, per mezzo di una rivela-zione ab extra, e dall’autorità che se ne ritiene custode. Se invece si riconosce all’uomo la capacità di partecipare col suo pensare direttamente al divino, allora lo si considera in grado di fare sgorgare le motivazioni supreme dell’agire dal più intimo del proprio essere stesso. D’accordo con Steiner, io cerco di mostrare in questo lavoro che solo nella seconda ipotesi si può parlare veramente di libertà. Che questa libertà sorga nell’uomo solo a condizioni ben precise, e che essa, nel cammino previo al suo consegui-mento, non abolisca bensì esiga l’osservanza della legge, mi pare, per chi sappia leggere, più che chiaramente espresso nelle riflessioni di Steiner e nelle mie.

Nel capitolo finale, dove faccio un tentativo di sintesi, ho cercato di esporre le riflessioni filosofiche che mi paiono le più importanti per una trattazione seria e scien-tifica del quesito delle ripetute vite terrene. Un giorno dissi al moderatore, dopo che questi aveva finito di legge-re la stesura definitiva del testo: «Nella sintesi conclusiva ho cercato di raccogliere gli elementi più importanti per una riflessione filosofica sul quesito della reincarnazio-ne...». Mi guardò interdetto e mi rispose ridendo di buon gusto: «Spero proprio di no!». Dalle sue riflessioni suc-

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cessive mi parve di capire che aveva letto quest’ultimo capitolo senza avvertire di che cosa si trattasse.

La vita di Steiner è stata tutta dedicata alla descrizione del mondo spirituale nel quale noi viviamo ogni momento, e che è l’essenza vera di tutto ciò che vediamo attorno a noi. Tuttavia, egli ritenne essenziale non partire da un riferimento diretto all’invisibile, bensì da fondamenti scientifici e filosofici solidi, validi per chiunque voglia, libero da pregiudizi dogmatici, riflettere sulla facoltà spiri-tuale del pensare, propria dell’uomo, quale può venir interiormente vissuta e sperimentata da ognuno.

Alla sua Filosofia della libertà, Steiner si è riferito innu-merevoli volte, fino alla fine della sua vita, come alla pie-tra d’angolo su cui tutto il suo edificio spirituale si fonda. In quest’opera, la persona umana è invitata a scoprire e ad attivare dentro di sé ciò che nell’uomo è più umano: il pensare, che ci pone in comunione con l’essere intimo del mondo e che, rendendoci coscienti, ci rende liberi.

Steiner ha spesso messo in guardia dal pericolo di cer-care un accesso allo spirituale che ignori la porta stretta ma maestra del pensare: ciò facendo, si cadrebbe subito in balia di illusioni e di vuote fantasticherie. La prima real-tà spirituale, sostanziale e vivente, data all’uomo è l’essere vivente del pensare stesso, qualora l’uomo si adoperi, con esercizio interiore, a intensificare la propria attività spiri-tuale pensante, e l’attenzione introspettiva ad essa rivolta.

La Filosofia della libertà si fonda su un ampliamento del concetto di «metodo scientifico», comunemente e indebi-

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tamente ristretto all’ambito della percezione sensibile. Se con esso si intende la rigorosa interazione tra percezio-ne e pensare, non si vede per quale motivo esso non pos-sa venir applicato alle realtà interiori, esse pure conosciu-te mediante percezione introspettiva, unita al pensare. Non fa parte dell’essenza del metodo scientifico il fatto che la percezione sia sensibile, bensì il fatto che essa sia «percezione», cioè realtà «data» e già precostituita, che si offre al pensare, il quale supera questo primo momento passivo con la propria attività spirituale, che è esercizio attuale dell’essere.

Ho diviso il mio lavoro in tre parti: genesi, analisi, sin-tesi. Nella prima cerco di descrivere il cammino interiore di Steiner, che lo ha portato fino alla stesura della Filosofia della libertà, facendo riferimento soprattutto alle persone e agli autori che più hanno influito sul suo pensiero. La seconda parte è una sintesi, il più fedele possibile, del contenuto del libro stesso: qui lascio parlare unicamente Steiner, capitolo per capitolo, in ciò che lui ha descritto come essenza dell’uomo e della sua libertà. Nella terza parte, in sette capitoli, riprendo alcuni dei temi fonda-mentali, tenendo conto soprattutto del contesto aristote-lico e tomistico-scolastico della mia formazione filosofica e teologica, mettendolo a confronto con le intuizioni fon-damentali di Steiner. In questa parte, perciò, trovano mag-giore spazio le mie proprie riflessioni e convinzioni, che offro a chi le voglia confrontare con le proprie.

Pietro Archiati

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SPIEGAZIONE DELLE CITAZIONI

Le citazioni di questo lavoro sono tutte prese da opere di Ru-dolf Steiner, in parte opere scritte, in parte raccolte di confe-renze da lui tenute in varie città.

Nella prima e nella terza parte viene indicato, dopo il titolo del volume, il numero che esso porta nell’edizione dell’opera omnia (Gesamtausgabe = GA, Rudolf Steiner Verlag, Dor-nach, Svizzera) con l’anno di pubblicazione dell’edizione da me usata.

La seconda parte contiene esclusivamente citazioni prese dal-la Filosofia della libertà: Die Philosophie der Freiheit, GA 4 (1978). Ho ritenuto perciò sufficiente indicare di volta in volta la pagi-na della citazione.

Le traduzioni dal tedesco sono state fatte da me diret-tamente dall’originale.

Alla pubblicazione in italiano delle opere di Steiner lavora da diversi anni l’Editrice Antroposofica con sede a Milano, viale Sangallo 34. La filosofia della libertà è pubblicata anche nella serie degli Oscar Mondadori. Le Edizioni Archiati pubblicano testi fondamentali di Steiner con lo scopo di portare a cono-scenza la scienza dello spirito a un più vasto numero di perso-ne.

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I. GENESI

IL CAMMINO DI RUDOLF STEINER FINO ALLA FILOSOFIA DELLA LIBERTÀ

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1. La vita di R. Steiner fino alla stesura della Filosofia della libertà

Rudolf Steiner nasce in Austria nel 1861. Cresce in am-biente cattolico, benché il padre non abbia particolare simpatia per la religione e per la chiesa. Impiegato ferro-viario, ritira il figlioletto Rudolf dalla scuola elementare in seguito a un litigio con l’insegnante. Gli dà lezioni lui stesso alla stazione ferroviaria dove lavora. Più tardi, di nuovo per un dissapore personale, gli proibisce di conti-nuare il suo servizio nella chiesa come chierichetto.

Nella descrizione che Steiner stesso dà della propria infanzia, vengono sottolineate due realtà che lo hanno segnato profondamente: la geometria e le funzioni litur-giche:

«È per me chiaro che io ho conosciuto per la pri-ma volta la felicità mediante la geometria» (Mein Le-

bensgang, GA 28 (1982), p. 21) «La solennità del latino e del culto era un ele-

mento nel quale la mia anima di fanciullo amava vivere» (Idem, p. 27)

Viene mandato alla scuola tecnica, poiché il padre gli vuol dare una formazione prevalentemente scientifica. A 14-15 anni scopre Kant e divora la «Critica della ragion pura». Dall’amicizia con un medico nasce l’entusiasmo per la letteratura. Presto inizia a dar lezioni private a stu-

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denti delle classi inferiori, o anche coetanei. Tra di loro ci sono pure dei ginnasiali, e Steiner ha modo di imparare privatamente ciò che la scuola tecnica non può offrigli.

L’estate del 1879, appena prima di entrare al politec-nico a Vienna, la passa tutta immerso in studi filosofici. A Vienna segue lezioni, oltre che al politecnico, anche all’u-niversità. Continua a dare lezioni private. Col suo cresce-re, cresce in lui la consapevolezza spirituale. Né le scienze naturali, né la filosofia allora comune corrispondono alla sua esperienza interiore fondamentale: l’esperienza diretta dello spirito colta anzitutto nell’attività stessa del pensare.

«A quel tempo, non era facile per la mia vita inte-riore vedere che la filosofia che trovavo in altri, stando al loro pensiero, non poteva spingermi fino alla visione del mondo spirituale. Dalle difficoltà che andavo incontrando in questo campo, comin-ciò a formarsi in me una specie di ‹teoria della co-noscenza›. Il vivere nel pensare mi pareva sempre più come il riverbero, irradiante nell’uomo fisico, di ciò che l’anima vive nel mondo spirituale. Espe-rire i pensieri era per me vivere in una realtà così pienamente vissuta, che nessun dubbio poteva sfiorarla. Il mondo dei sensi non mi pareva lo si potesse vivere con la stessa intensità» (Mein Lebens-

gang, GA 28 (1982) p. 62)

Tra i professori del politecnico ce n’è uno che sarà deci-sivo per l’avvenire di Steiner: K.J. Schröer, che insegna letteratura tedesca. Tra il professore e lo studente nasce

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un’amicizia che sarà duratura e profonda. Schröer vive interamente nel mondo di Goethe, e comunica al giovane Rudolf la stessa passione. Dietro suo suggerimento il ven-tunenne Steiner viene invitato a collaborare all’edizione delle opere di Goethe nella Kürschner Deutsche National-literatur. A lui viene affidata la redazione, con introduzioni e commenti, delle opere scientifiche. Nonostante la filiale venerazione e la profonda amicizia con Schröer, Steiner scrive:

«Io accoglievo nel mio spirito con la più profonda simpatia tutto ciò che veniva da Schröer. Tuttavia, anche nei suoi confronti non potevo altro che ela-borare in modo del tutto indipendente nella mia anima ciò a cui aspiravo nel profondo del mio spi-rito. Schröer era idealista; e il mondo delle idee come tale costituiva per lui ciò che è all’opera co-me forza propulsiva nella creazione naturale e uma-na. Per me l’idea era l’ombra di un mondo spirituale pienamente vivente. Trovavo difficoltà nel tradurre in parole a me stesso la differenza tra il modo di pensare di Schröer e il mio. Lui parlava delle idee come di potenze promotrici della storia. Sentiva vi-ta nell’esistenza delle idee. Per me la vita dello spi-rito si trovava dietro le idee, e queste ne erano uni-camente la manifestazione nell’anima umana. A quel tempo, la sola espressione che riuscii a trovare per il mio modo di pensare fu quella di «idealismo oggettivo». Con esso intendevo dire che l’essenziale

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dell’idea non è nel fatto che essa si manifesta nel soggetto umano, ma che essa si presenta inerente all’oggetto spirituale analogamente al colore rispetto all’essere sensibile, e che l’anima umana – il sogget-to – la percepisce in esso, come l’occhio percepisce il colore in un essere vivente» (Mein Lebensgang, GA 28

(1982) p. 92)

Il rapporto di Steiner con Goethe è così fondamentale che merita di esser trattato a parte, dopo questa breve presentazione generale. Un’altra attività importante per il cammino interiore di Steiner, è quella di precettore pres-so una famiglia nella quale, tra gli altri figli affidati a lui, ce n’è uno che non ha frequentato la scuola pubblica, perché ritenuto mentalmente ritardato. Steiner riesce a farlo progredire a un punto tale che potrà poi seguire normalmente il ginnasio e frequentare l’università.

Gli anni della vita viennese sono pieni di un’intensa vita sociale. Ama le amicizie, le conversazioni, gli incontri in circoli vari. Di quest’ultimi, due in particolare sono per lui importanti. Il primo è il circolo che si riunisce a casa della giovane poetessa Maria Eugenia Delle Grazie. Ca-ratteristica comune del circolo è un certo pessimismo di fondo, che Steiner non condivide. Proprio nel contrasto tra le idee di questo circolo e ciò che lui sente in sé, na-scono le intuizioni che formeranno il nucleo della Filosofia della libertà. Delle Grazie considera l’uomo come un tra-stullo nelle mani inesorabili e cieche del meccanismo della natura. Per Steiner l’uomo, con le sue facoltà spiri-

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tuali, può ergersi sovrano al di sopra del ferreo de-terminismo del mondo infraumano:

«...Questa libertà, si potrebbe obiettare, non è altro che un sogno! Mentre ci illudiamo di essere liberi, obbediamo al ferreo determinismo della natura. I pensieri più sublimi che noi concepiamo non sono che un prodotto della natura che ciecamente regna in noi. Oh, dovremmo pur ammettere una buona volta che un essere che conosce se stesso non può non essere libero!... Vediamo la trama delle leggi governare le cose, e ciò comporta necessità. Ma noi possediamo nel nostro conoscere la facoltà di trarre dagli esseri naturali le loro leggi: dovremmo ugual-mente essere schiavi inermi di queste stesse leggi?» (Mein Lebensgang, GA 28 (1982), p. 131. – Da una circolare

scritta alla poetessa, dal titolo: «La natura e i nostri ideali»; cfr.

GA 30, p. 237-40)

L’altro circolo è frequentato da giovani poeti austriaci. Qui regna la più grande varietà di temperamenti e di vi-sioni della vita.

Durante gli ultimi anni passati a Vienna, fino al 1890, maturarono in Steiner le idee fondamentali che saranno espresse nella Filosofia della libertà. Nella sua autobiografia egli sottolinea a più riprese quale fosse il suo rapporto interiore con le varie correnti che veniva man mano in-contrando: un rapporto di parziale accordo. Di accordo, in quanto egli scorge in ogni visione almeno un grano di verità. Parziale, in quanto l’errore comune di quasi tutte

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le teorie che incontra, è l’unilateralità e la parzialità. Il mondo di Goethe costituisce la sola eccezione: qui egli vive in orizzonti sconfinati, in un atteggiamento conosci-tivo che proviene da una istintiva e profonda fiducia nel pensiero. Nel 1886 Steiner pubblica la sua prima opera su Goethe: «Fondamenti di una teoria della cono-scenza della visione goetheana del mondo». Ciò che Goe-the si gloriava di non aver mai fatto: pensare sul pensare, lo fa Steiner per lui, e mostra con entusiasmo la giustez-za, la fecondità e la profondità dell’atteggiamento cono-scitivo di Goethe di fronte al mondo.

Ma Goethe fu dimenticato. Nella seconda metà del secolo XIX Steiner si trova innanzitutto di fronte al rapi-do sviluppo e al trionfo della scienza naturale. La filosofia viene sempre più screditata e si limita quasi a ricamare sul quesito della propria validità. Il dogma kantiano dell’inco-noscibilità della cosa in sé regna sovrano. Buona parte della teologia sembra accettare volentieri che la ragione umana sia confinata al mondo visibile della scienza e della tecnica, e appella alla rivelazione e alla fede per ciò che riguarda il mondo dello spirito. Scienza e fede proce-dono così come due parallele che non s’incontrano mai. La corrente mistica, infine, vorrebbe risolvere questo dualismo della vita abbandonando il pensiero e rifugian-dosi nella sfera del sentimento.

Dalla scienza Steiner vuol prendere soprattutto il me-todo rigoroso dell’osservazione oggettiva dei fatti, ma non può accettare che il pensiero umano abbia unicamente questa funzione di registrare e descrivere fenomeni. Dalla

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tradizione filosofica egli si adopera appassionatamente a salvare la realtà autonoma e vivente del pensare, che non è puro riflesso speculare (e superfluo) del percepito sen-sibile. Dalla teologia accoglie la certezza delle realtà spiri-tuali e invisibili, ma vuole avvicinarsi ad esse non solo con la fede, ma sempre più con la conoscenza. La corren-te mistica è quella che meno lo attrae: da una parte rico-nosce il principio dell’esperienza interiore, e dall’altra non può accettare che ciò debba significare un allontanarsi dalla chiarezza del pensiero e della conoscenza, per dar luogo alla realtà informe del sentimento.

Vediamo ora nelle parole stesse di Steiner la lotta inte-riore di quegli anni attorno al 1890. Alternando le sue riflessioni su quel periodo scritte alla fine della vita (nell’autobiografia) con gli scritti di quel tempo stesso, possiamo farci un’idea della sua aspirazione a superare ogni unilateralità che veniva incontrando.

La scienza e la filosofia di stampo kantiano insisteva-no sui limiti della conoscenza umana:

«Nel presentare le mie proprie convinzioni, il mio primissimo intento era quello di confutare la con-cezione dei limiti della conoscenza. Intendevo re-spingere quel metodo di conoscenza che guarda al mondo sensibile e vuole poi spingersi oltre il mon-do sensibile, sempre verso l’esterno, per arrivare a una vera realtà. Volevo far capire che il reale vero non va cercato in un simile penetrare oltre il visibi-le verso l’esterno, ma nell’immergersi nell’interiorità

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dell’uomo. Chi vuole aprirsi un varco verso l’ester-no e vede poi che ciò è impossibile, parla di limiti della conoscenza. Ma questa impossibilità non pro-viene dal fatto che la facoltà conoscitiva umana è limitata, bensì dal fatto che si cerca qualcosa di cui una corretta introspezione non può nemmeno par-lare. Ciò che si cerca, nell’intento di penetrare più a fondo nel mondo sensibile, è come una continua-zione del sensibile dietro al percepibile. È come se una persona che vive di illusioni cercasse in ulte-riori illusioni le cause delle proprie illusioni» (Mein

Lebensgang, GA 28 (1982), p. 163)

A quasi cinquant’anni di distanza, Steiner cita ciò che lui stesso aveva scritto nel 1888 commentando le opere scientifiche di Goethe e ne sottolinea il significato:

«Colui che riconosce al pensare la sua capacità di percezione che va oltre la visione sensibile, deve necessariamente riconoscergli anche degli oggetti che si trovano al di sopra della semplice realtà sen-sibile. Ora, questi oggetti del pensare sono le idee. Riuscendo il pensare ad afferrare l’idea, esso si fonde col fondamento primigenio dell’essere uni-versale. Ciò che opera all’esterno, entra dentro allo spirito dell’uomo, e quindi diviene una cosa sola con la realtà oggettiva alla sua potenza somma. La per-cezione dell’idea nella realtà è la vera comunione dell’uomo.

Di fronte alle idee, il pensare ha lo stesso signi-ficato che ha l’occhio di fronte alla luce e l’orec-

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chio al suono. È organo di percezione» (Goethes natur-

wissenschaftliche Schriften, GA 1 (1973), p. 125-6). «Il mio intento era allora non tanto quello di

esporre il mondo dello spirituale quale esso si pre-senta quando il pensare libero dal sensibile progre-disce oltre lo sperimentare se stesso e diviene vi-sione spirituale, quanto piuttosto quello di mostra-re che l’essenza della natura che si offre all’osser-vazione sensibile è lo spirituale. Volevo sottolinea-re il fatto che la natura è in verità spirituale.

Ciò trovava ragione nel fatto che il mio destino mi aveva condotto a prender posizione nei con-fronti dei teorici della conoscenza miei contempo-ranei. Costoro partivano dal presupposto di una natura non spirituale, e si proponevano l’intento di mostrare in qual misura l’uomo sia autorizzato a crearsene un’immagine spirituale. A questa teoria della conoscenza io ne volevo contrapporre una del tutto diversa. Volevo mostrare che l’uomo quando pensa non forma delle immagini sulla natura come uno che ne rimane fuori, ma che conoscere è speri-mentare, per cui l’uomo nell’atto del conoscere è dentro l’essenza delle cose». (Mein Lebensgang, GA 28

(1982), p. 164-5)

L’idea della libertà dello spirito umano è l’elemento che sta alla base del suo rapporto con ogni corrente della cultura del suo tempo. Egli vede questa libertà in tanti modi misconosciuta o negata. Né la scienza né la teologia

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sembrano voler dare un posto centrale all’esercizio so-vrano del pensiero, nel quale unicamente si trova la vera libertà. Perfino la filosofia ha perso la fiducia nel pensie-ro, e cioè in se stessa.

In un articolo scritto nel 1888 egli parla con nostalgia del tempo classico dell’idealismo tedesco, dopo del quale egli vede solo oscuramento e declino:

«Si sentiva il bisogno di penetrare nei segreti più intimi dell’enigma universale, senza rivelazione, senza un’esperienza limitata alla casualità, ma uni-camente con la forza inerente al proprio pensare. Si aveva la convinzione che il pensiero umano è capace dello slancio che a ciò si richiede. E com’è diversa la situazione oggi! Si è persa ogni fiducia nel pensare. Si considera come unico strumento dell’indagine l’osservazione, l’esperienza. Ciò che non si tocca con mano è ritenuto incerto. Non si comprende affatto che il nostro pensare, fondato unicamente in sé, senza bisogno di seguire la falsa-riga dei sensi, ha la capacità di penetrare nello svolgersi dell’universo più profondamente di qual-siasi osservazione esteriore. ... Accantonare il pen-sare ed esaltare l’esperienza è, a una considerazione più profonda, proprio la stessa cosa della fede cie-ca nella rivelazione che si trova nelle religioni. In-fatti, su cosa si fonda quest’ultima? Appunto uni-camente sul fatto che ci vengono tramandate delle verità bell’e pronte che noi dobbiamo accettare

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senza poterne valutare i fondamenti col nostro proprio pensare. Percepiamo l’annuncio, ma ci viene negata l’intuizione delle sue motivazioni. Lo stesso vale per la fede cieca nell’esperienza. Si vuol fare una semplice raccolta di fatti per ordinarli e così via, senza penetrarne le ragioni intrinseche: così la pensano gli scienziati, così i filosofi rigorosi. Qui pure dobbiamo semplicemente prendere le ve-rità bell’e fatte senza penetrare fino alle forze che sono all’azione dietro i fenomeni. Credi in ciò che Dio ha rivelato e non indagarne le ragioni: così di-ce la teologia. Registra ciò che si svolge davanti ai tuoi occhi, ma non riflettere col pensiero sulle cau-se che vi stanno dietro, perché faticheresti invano: così dice la filosofia contemporanea». (Methodische

Grundlagen der Anthroposophie, .GA 30 (1961), p. 254-5)

L’atteggiamento qui espresso nei confronti della teologia va visto nella sua giusta luce. Il rapporto di Steiner con il cristianesimo tradizionale è stato, fino all’inizio del nuovo secolo, irto di difficoltà. Solo dopo il 1900 la figura del Cristo verrà da lui posta al centro di tutto il suo pensiero. Prima di quella data, Steiner si trova a reagire di fronte al cristianesimo che vede attorno a sé: una prassi religiosa per lo più abitudinaria, una teologia spesso troppo dog-matica e che guarda con sospetto alle aspirazioni conosci-tive del pensiero umano.

Nel 1890 comincia nella vita di Steiner il periodo di Weimar. È invitato dal Goethe-und-Schiller-Archiv a col-

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laborare all’edizione delle opere di Goethe, attingendo ai copiosi manoscritti inediti del suo lascito. Gli vengono affidate anche qui le opere scientifiche. Vivere nei luoghi della vita del grande poeta è per Steiner una profonda gioia. Le sue convinzioni circa il pensiero di Goethe tro-vano sorprendente conferma negli scritti inediti che va man mano scoprendo. La vita di Weimar gli fa incontrare personaggi vari nel mondo della letteratura.

In seno all’Archivio, tuttavia, fatta eccezione di Her-mann Grimm, prevale sempre più, nell’interpretazione delle opere di Goethe, il metodo scientifico-filologico. Steiner, che non condivide che si applichi alla letteratura il metodo freddo e morto delle scienze naturali, si sente interiormente sempre più solo.

«Io qui sono solo. Non c’è nessuno qui che abbia la pur minima comprensione per ciò che mi anima e che dà slancio al mio spirito». (Briefe I (1955), p. 115)

Dopo la Vienna a lui così congeniale, i sette anni di Weimar (1890-1897) sono una specie di esilio. In questi anni però, oltre all’edizione delle opere di Goethe, ven-gono create le opere filosofiche che rimarranno fonda-mentali per tutto il resto della sua vita. Ad esse si riferirà innumerevoli volte fino alla morte.

La prima di esse è la sua tesi di dottorato che portava come titolo «Il problema della teoria della conoscenza, con particolare riferimento alla teoria della scienza di Fichte. Prolegomeni per una chiarificazione della co-scienza filosofica con se stessa». Fu pubblicata l’anno

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successivo (1892) col titolo: Verità e Scienza. Preludio a una ‹Filosofia della libertà›. Data la sua importanza per la com-prensione della Filosofia della libertà ne esaminerò il conte-nuto in un capitolo a parte.

Nel 1893 egli termina la Filosofia della libertà, la cui edi-zione porterà anticipatamente la data del 1894.

Volgiamo ora il nostro sguardo alle figure che più profondamente hanno influito sul suo pensiero e che ci aiuteranno a comprendere meglio il contenuto della Filo-sofia della libertà. Esse sono: Goethe, Ernst Haeckel, Nietzsche e Eduard von Hartmann.

2. Steiner e Goethe: Scienza e realtà della libertà

L’idea centrale della Filosofia della libertà è che la persona umana è libera nella misura in cui partecipa, mediante l’esercizio intuitivo del pensare, al mondo dello spirito.

Goethe ha esercitato la facoltà intuitiva del pensiero in somma misura. Ma lo ha fatto istintivamente, perché era per lui come una seconda natura. Proprio qui sta l’affinità e al contempo la differenza tra i due: Steiner fa, di quella libertà che trova in Goethe come realtà vissuta spontanea-mente, una scienza riflessa e sistematica.

C’è un episodio nella vita di Goethe, al quale Steiner si è riferito innumerevoli volte. Esso fa comprendere con estrema chiarezza l’atteggiamento conoscitivo di Goethe. Si tratta dell’incontro con Schiller che segnò l’inizio della loro amicizia. Goethe si adopera a spiegare a Schiller, me-

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diante uno schizzo, la sua idea della pianta primigenia (Ur-pflanze), cioè della pianta quintessenziale che è la pianta in ogni pianta. Schiller, formato alla scuola di Kant, risponde che quella pianta non è oggetto di esperienza, ma solo un’idea. Goethe resta dapprima contrariato e perplesso, ma poi esclama con improvviso entusiasmo: allora io non solo ho delle idee senza neppure saperlo, ma mi riesce per giunta di vederle con i miei occhi!

Per Goethe è chiaro che le idee che lui percepisce con la mente non sono meno reali degli oggetti sensibili che percepisce con i sensi. Questi e quelle sono per lui inseparabili, sono una cosa sola. Per questo motivo egli non è mai stato capace di idee «astratte» (senza riferi-mento immediato al visibile) e nemmeno di percezioni che fossero una passiva registrazione di dati, senza con-tenuto ideale.

Lo stesso Goethe che aveva disegnato a Schiller l’«idea» della pianta ut sic, si trova qualche tempo più tardi a disagio con le idee morali che Schiller va espri-mendo nelle «Lettere sulla formazione estetica». Qui Schiller elabora, con concetti astratti, la sua teoria della libertà umana, che consiste nell’evitare la costrizione della natura da una parte, e quella della ragione dall’altra. Goe-the sente il bisogno di esprimere la stessa verità in modo del tutto diverso, e ne nasce la «Fiaba della serpe verde e della bella Gigliola». Gli impulsi morali compaiono qui come forze elementari e primigenie, che non si lasciano comprimere in concetti astratti. Di nuovo, Goethe attin-ge all’invisibile con esperienza diretta, e lo vive come tale,

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attribuendogli una realtà massima, plasmatrice del mondo visibile.

Ho voluto richiamare questi due episodi (quello della pianta originaria e quello della fiaba) perché corrispon-dono a ciò che Steiner ha espresso, in modo riflesso e sistematico, rispettivamente nella prima e nella seconda parte della Filosofia della libertà.

Molti anni più tardi, in una conferenza del 17 giugno 1923, Steiner richiama alla memoria le fondamenta del suo edificio spirituale, poste tanti anni prima:

«Se voi guardate un po’ alla quintessenza di ciò che compare nei miei scritti su Goethe e nella ‹Filoso-fia della libertà›, vedrete che si tratta di questo: l’uomo è, nel più intimo del suo essere, in comu-nione con un mondo spirituale, e se gli riesce di scrutare con sufficiente profondità questo suo es-sere, egli scopre nel proprio intimo qualcosa cui la scienza oggi in voga non ha accesso, e che può uni-camente considerarsi come membro diretto di un ordinamento spirituale del mondo». (Die Geschichte

und die Bedingungen der Anthroposophischen Bewegung...,

GA 258 (1959), p. 162)

Secondo Steiner, la cultura della seconda metà del sec. XIX aveva inaugurato un dualismo estremo, teorico e pratico, tra scienza e morale. Comune sia alla scienza, sia alla morale, è il dogma kantiano dell’irraggiungibilità della cosa in sé. La scienza si limita al visibile e lo svuota di ogni contenuto spirituale. L’ordinamento morale non

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viene intuito direttamente dallo spirito dell’uomo, ma gli viene comunicato in forma di dogmi e di norme, cui egli deve sottomettersi. Nella stessa conferenza, Steiner così prosegue:

«Perciò nei miei scritti goetheani ho lasciato per così dire trasparire la necessità, quando ascendia-mo dalla contemplazione del mondo a quella del divino-spirituale, di una modificazione del con-cetto dell’amore. Già in quegli scritti su Goethe ho indicato che la divinità va concepita come co-lei che con infinito amore si è effusa nella crea-zione (in das Dasein), e va ora ricercata in ogni essere particolare. Ciò è tutt’altra cosa che un con-fuso panteismo». (Die Geschichte und die Bedingungen

der Anthroposophischen Bewegung..., GA 258 (1959), p.

162-3)

Né poteva venire in suo soccorso la filosofia allora cor-rente, perché questa era al servizio da una parte della scienza naturale materialistica, e dall’altra della teologia fondata sulla fede e non sull’esperienza diretta dello spiri-tuale. È qui che Steiner scopre proprio in Goethe due porte aperte, una nel suo modo di vedere la natura con occhi spirituali, l’altra nel suo modo di concepire lo spiri-tuale stesso all’opera nel mondo. Seguendo Goethe

«si afferra il mondo sensibile in un modo spirituale. Applicando il metodo di Goethe, ci si muove difat-ti in un elemento spirituale. Pur applicando questo

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metodo al mondo sensibile delle piante e degli ani-mali, si coglie con esso ciò che di spirituale vive e opera nella pianta e nell’animale». (ldem, p. 164)

E la seconda porta è quella del simbolo e dell’immagine, che servono a mostrare che

«c’è lo spirituale, c’è l’invisibile all’azione nel mon-do; che le sfere singole del vero, del bello e del buono cooperano armoniosamente; che bisogna fare i conti con esseri spirituali reali quando si trat-ta della vera vita spirituale, e non ci si può limitare a concetti puramente astratti».

Goethe è dunque, agli occhi di Steiner, una prova vivente della libertà dello spirito umano, perché né le leggi natu-rali della scienza né i dogmi della rivelazione restano al di fuori di lui, come una duplice necessità, naturale e mora-le, cui l’uomo deve sottomettersi. No, leggi della natura e dogmi della religione si trasformano in intuizioni viventi e creatrici che sgorgano dal nucleo essenziale della perso-na umana.

«Goethe ha tracciato, vorrei dire, due inizi che si muovevano in modo convergente l’uno verso l’al-tro, senza però raggiungersi. Ciò di cui c’è bisogno, di cui c’era bisogno, è la ‹Filosofia della libertà›.

Bisognava mostrare dov’è che vive il divino dentro l’uomo stesso, quel divino nel quale egli trova fondamento sia per lo spirito della natura, sia anche per lo spirituale delle leggi morali. Ciò ha

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portato alla teoria dell’intuizione (Intuitismus) qua-le espressa nella ‹Filosofia della libertà›, a ciò che veniva chiamato individualismo etico. Individuali-smo etico, per il fatto che, per ogni singolo indivi-duo umano, gli impulsi morali devono procedere da quella sorgente divina alla quale l’uomo attinge nel più intimo del proprio essere». (Die Geschichte

und die Bedingungen der Anthroposophischen Bewegung... ,

GA 258 (1959), p. 169)

L’idea è per Goethe esperienza, anzi, con le sue parole, «un’esperienza superiore in seno all’esperienza». Ciò che la rende superiore è il fatto che essa non è passiva e ricet-tiva come l’esperienza dei sensi, ma attiva e creatrice. L’essere vero delle cose non viene dato dalle cose alla nostra mente, ma dalla nostra mente alle cose:

«Per comprendere questo essere, ci vuole produttività dello spirito. Si richiede di più che non l’osservazione della casualità di dati singoli. Le leggi appartengo-no alla realtà, ma noi non possiamo mutuarle da essa: le dobbiamo creare, sulla base dell’esperienza. Tutti i pionieri nel campo delle singole scienze possedevano questa capacità creatrice dello spiri-to. I fenomeni del moto pendolare e della caduta divennero comprensibili solo dopo che Galilei ne ebbe creato le leggi». (Die Geschichte und die Bedingun-

gen der Anthroposophischen Bewegung... , GA 258 (1959),

p. 169)

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È importante comprendere con chiarezza in che cosa Steiner pone la non libertà dell’uomo. Ciò che conta qui non è di stabilire se noi siamo d’accordo con la sua valu-tazione della scienza e della teologia di allora. Ciò che conta è di vedere se la sua concezione della libertà, quale egli la riscontra istintivamente all’opera in Goethe, sia giusta o no. Già nella sua opera su Goethe del 1888 («Fondamenti di una teoria della conoscenza della visione goetheana del mondo») parla di due «dogmi» che rendo-no l’uomo non libero: il dogma dell’inconoscibilità della «cosa in sé» del mondo sensibile; e il dogma dell’incono-scibilità della «cosa in sé» del mondo spirituale. Se «taglia-to fuori» dall’uno e dall’altro, l’uomo è in balia della natu-ra da una parte e dell’assoluto dall’altra.

«Esiste un duplice dogma. Il dogma della rivelazione e quello dell’esperienza. Il primo tramanda all’uomo, in un certo modo, verità su cose che esulano dal suo orizzonte. Egli non entra col suo intuito nel mondo da cui esse provengono. Deve credere alla loro verità, non potendo aver accesso ai loro fon-damenti. Del tutto simile è il dogma dell’esperienza. Se qualcuno ritiene che ci si debba attenere alla pura e semplice esperienza, osservandone unicamente le variazioni, senza poter penetrare fino alle forze ori-ginatrici, egli pure fa delle affermazioni su un mondo, i cui fondamenti gli restano inaccessibili». (Die Geschichte und die Bedingungen der Anthroposophi-

schen Bewegung... , GA 258 (1959), p. 169)

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Steiner vede in Goethe il grande superatore di questa duplice non libertà. Nella visione goetheana del mondo, non ci sono limiti essenziali posti alla conoscenza umana. Il pensare, che è per lui appunto un’esperienza superiore in seno all’esperienza, pone l’uomo in comunione con l’essenza ultima del visibile. E gli ideali morali sgorgano dal suo spirito stesso, nell’esercizio della libertà. Il «dove-re» viene trasformato nel proprio libero «volere»:

«Era questa la convinzione di Goethe stesso, là dove dice: ‹Lessing, ostile a certe restrizioni, fa dire a uno dei suoi personaggi: nessuno deve dovere. Una persona sagace e briosa ha detto: chi vuole, deve. Un terzo, di certo una persona colta, ha ag-giunto: chi sa capire, sa anche volere›». (Idem, p. 126)

La Filosofia della libertà è tutta fondata su questo «capire» che proviene dal pensare, e che rende capaci di intenti morali propri, cioè liberi. La scienza materialistica, lavo-rando con concetti puramente meccanici e quantitativi, poteva spiegare unicamente il mondo anorganico. Per comprendere il mondo organico ci vogliono pensieri viventi e spirituali. La vita nella pianta e l’anima nell’ani-male, non si possono spiegare con le pure leggi della fisi-ca e della meccanica. Steiner chiama Goethe il Copernico e il Keplero del mondo organico, cioè il primo che ha elaborato intuitivamente una scienza degli esseri viventi, creando i concetti che ad essi corrispondono.

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3. Haeckel e Nietzsche: l’aspirazione alla scienza e alla realtà della libertà

Steiner vede in Haeckel il materialismo che diviene scien-za, e in Nietzsche il materialismo che diviene morale. Egli conobbe entrambi personalmente, e il suo rapporto con loro può sembrare a prima vista contraddittorio. L’uno e l’altro hanno qualcosa di positivo che Steiner accetta con entusiasmo, a tal segno che venne accusato dello stesso materialismo. Da Haeckel accoglie il metodo scientifico e la teoria evoluzionistica come fondamento di una visione unitaria del mondo; in Nietzsche ammira l’onestà del pensiero che vuol andare fino alle ultime conseguenze, e soprattutto l’intento di esaltare la persona umana nella sua autonomia e libertà.

Nel novembre del 1892 così scrive Steiner a Haeckel: «Io lotto, fin dall’inizio della mia carriera di scritto-re, contro ogni dualismo, e considero missione della filosofia quella di giustificare scientificamente il monismo, mediante un’analisi rigorosamente posi-tivistica della nostra facoltà cognitiva, di provare cioè che i risultati conseguiti dalla scienza naturale sono verità reali. Per questo non ho potuto che op-pormi sia al kantianismo con la sua doppia verità, sia al moderno ‹ignorabimus›. I risultati della scien-za sono per me i soli elementi validi per una visio-ne del mondo». (Briefe, II, (1953), p. 127)

Queste parole possono lasciare perplessi. Lo stesso Stei-

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ner pone, pochi mesi dopo, come sottotitolo della sua Filosofia della libertà un’espressione non meno sorprenden-te: «Risultati di un esame introspettivo condotto con metodo scientifico». Qui si vede come Steiner non limiti la scienza al solo mondo visibile e materiale, ma come egli intenda con essa piuttosto un metodo della conoscen-za, un modo di procedere della mente umana. La caratte-ristica essenziale di questo metodo è nella sua precisione e chiarezza, provenienti dal fatto che la mente umana è in esso sovrana, capace di padroneggiarlo e controllarlo in ogni sua parte.

Ciò avviene mediante la stretta e necessaria interazio-ne tra la percezione e il pensare. Nessuna conoscenza si ha col solo pensare, nessuna con la sola percezione. Le realtà interiori sono per Steiner oggetto, oltre che di pen-siero, di percezione interiore che può essere non meno precisa e «scientifica» della percezione esteriore.

Il pensare stesso, quale inteso nella Filosofia della libertà, non può essere certo oggetto di osservazione scientifica sensibile, ma Steiner mira alla stessa scientificità nel de-scriverne la natura vivente e spirituale. Non accetta, in altre parole, che sia «scientificamente conoscibile» solo il visibile, e che il resto debba essere oggetto di pure ipotesi sulla cosa in sé inconoscibile, o di fede in un irraggiungi-bile trascendente. Egli riconosce allo spirito umano facol-tà di percezione dello spirituale non meno chiare e pene-tranti della percezione dei sensi nel mondo visibile. E nello sviluppo di questa facoltà egli ravvisa la libertà della persona umana.

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La filosofia del suo tempo, come ho detto, aveva per-so ogni fiducia nella conoscenza umana. La teoria evolu-zionistica invece, se intesa giustamente, è una conferma della possibilità di accesso, restando in seno al mondo stesso, ai principi che ne danno la spiegazione.

Non dobbiamo però pensare che Steiner e Haeckel diano la stessa interpretazione a questa teoria evoluzioni-stica. Per Haeckel il fatto che un organismo materiale è il perfezionamento di un altro precedente è un’esauriente spiegazione della sua natura. Egli non si pone ulteriori domande. Per lui tutto è spiegabile mediante processi materiali, compreso il pensiero stesso, come risultato di ulteriore complicazione delle cellule del cervello. Haeckel, si potrebbe dire, non ha mai visto altro che la materia. L’adesione entusiastica di Steiner alla teoria evoluzionisti-ca non è adesione all’interpretazione materialistica che di essa si può fare. Nella sua autobiografia Steiner così de-scrive il suo primo incontro con Haeckel:

«Fu così che venni a conoscere Haeckel perso-nalmente. Era un individuo avvincente. Due oc-chi che guardavano il mondo con ingenuità, così dolci da dar l’impressione che il loro sguardo avreb-be dovuto spezzarsi qualora fosse stato penetrato dall’acutezza del pensiero: uno sguardo in grado di sopportare unicamente impressioni sensibili, e non pensieri, quali si rivelano nelle cose e negli avvenimenti. Ogni movimento di Haeckel era vol-to a dar risalto a ciò che i sensi esprimono, e non

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a lasciar manifestare in esso il pensiero che lo muove.

Capii perché gli piaceva tanto dipingere: si dava tutto alla visione dei sensi. Là dove avrebbe dovu-to cominciare a pensare, là cessava la sua attività interiore, e preferiva fissare col pennello ciò che aveva veduto. Tale era l’indole propria di Haeckel». (Mein Lebensgang, GA 28 (1982), p. 221)

Parziale accordo: questo, come ho già detto, il rapporto di Steiner con innumerevoli correnti e personaggi del suo tempo. Qui si trova l’origine dei fraintendimenti del suo pensiero. Qui è anche l’origine della sua profonda solitu-dine spirituale.

In un articolo del 1899 dal titolo «Haeckel e i suoi av-versari» Steiner scrive:

«Una riflessione ragionevole deve convenire con

Haeckel là dove dice: ‹O è vero che gli organismi si sono sviluppati naturalmente, e allora devono tutti derivare da forme iniziali semplicissime e comuni; oppure ciò non è vero: le singole specie di organismi hanno avuto origine indipendentemente le une dalle altre, e allora possono solo esser state create in modo sovrannaturale mediante un miracolo. Evoluzio-ne naturale oppure creazione soprannaturale delle specie: tra queste due possibilità bisogna scegliere, una terza non c’è›». (Methodische Grundlagen der An-

throposophie, GA 30 (1961), p. 170-1)

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Se lo stesso Steiner non avesse scritto anni prima un libro come la Filosofia della libertà, potremmo pensare a un suo totale accordo col materialismo di Haeckel, che guarda unicamente al divenire della materia, e vede le facoltà spirituali come da esse prodotte. Ma Steiner, proprio nella Filosofia della libertà, fonda la sua visione dell’uomo sul pensare in quanto realtà puramente spiri-tuale. Se teniamo presente ciò, la conclusione a cui giun-giamo è la seguente: ciò che Steiner difende in Haeckel è il metodo scientifico in quanto tale, e non il fatto che que-sto metodo venga applicato unicamente all’evoluzione della materia, ritenuta la sola realtà. E per metodo scien-tifico Steiner intende quel modo di procedere che rico-nosce nel percepire e nel pensare le due fonti di cono-scenza che sono nell’uomo stesso, senza ricorrere a nes-sun elemento inconoscibile o cosa in sé «oltre» la materia, o «oltre» l’uomo. È questo che Steiner chiama «monismo», ed è così fondamentale alla Filosofia della libertà e a tutto il suo pensiero in genere, da richiedere di essere consi-derato più per esteso, e lo farò nella terza parte di questo lavoro.

Ciò che è essenziale alla sua «difesa» di Haeckel, negli anni in cui questa figura suscitava le più violente reazioni, è che Steiner vuol rivendicare anche per l’indagine spiri-tuale il metodo scientifico. Che si parli di Dio o della morale, o di teologia, o di qualunque altra cosa: nulla può esser detto che non provenga o da percezione o da pen-siero. L’una e l’altro sono nell’uomo, a misura di uomo, e dall’uomo adeguatamente conoscibili.

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Il metodo scientifico corrisponde alla struttura spiri-tuale specifica e nuova dell’uomo moderno in quanto tale. Esso presuppone non una astratta natura umana invariabile lungo i millenni, ma riconosce nella storia le profonde trasformazioni dello spirito umano. È dunque il concetto fondamentale di evoluzione, oltre al metodo scientifico, che Steiner ha in comune con Haeckel.

La posizione di Steiner di fronte a Haeckel nel campo della conoscenza, trova una corrispondenza coerente nel-la sua posizione di fronte a Nietzsche nel campo morale. Le due parti della Filosofia della libertà, quella conoscitiva e quella morale, sono l’espressione di questo duplice con-fronto, di questo cammino con gli uomini e con le realtà del suo tempo.

Nietzsche è stato il campione della libertà negativa: ha infranto ogni catena, sbalzato ogni giogo, rinnegato ogni norma, deriso ogni convenzione. Che cosa gli è rimasto? La «demenza», cioè il vuoto vero e proprio della mente. La libertà positiva dello spirito non l’ha mai trovata: il materialismo del suo tempo è divenuto per lui tragedia personale. I suoi scritti esprimono il sogno confuso e la convulsa brama di ciò che lo spirito del tempo gli ha negato.

È questo il significato del titolo dell’opera di Steiner su Nietzsche: Nietzsche: un lottatore contro il suo tempo. Quest’opera è stata pubblicata nel 1895, un anno dopo la Filosofia della libertà, e Steiner stesso dice che la sua lettura precedente delle opere di Nietzsche non ha avuto influs-

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so diretto sul contenuto del suo libro. Il rapporto di Stei-ner con Nietzsche è però fondamentale per comprendere in quale modo egli ha inteso soprattutto la seconda parte della Filosofia della libertà. C’è un passo dell’autobiografia che merita di esser citato per intero:

«Ciò che mi rimase dallo studio approfondito di Nietzsche fu la visione della sua personalità, il cui destino fu quello di vivere come una tragedia l’epo-ca scientifica della seconda metà del secolo dician-novesimo, e di spezzarsi in questa partecipazione. Egli cercava in questa epoca, senza potervi trovare nulla. La mia esperienza fatta in sua compagnia po-té solo confermarmi nella convinzione che ogni cercare nei risultati della scienza naturale non può trovare, in essi ciò che è essenziale, ma lo può tro-vare attraverso ad essi, nello Spirito.

Così fu proprio l’opera di Nietzsche a ripro-porre alla mia mente in forma nuova il problema della scienza. Guardavo a Goethe e a Nietzsche. Goethe, col suo penetrante intuito della realtà, ri-volto agli esseri e ai processi della natura, voleva restare nella natura. Si manteneva nella pura osser-vazione delle forme vegetali, animali e umane. Ma muovendosi con la sua anima in queste forme, giungeva dappertutto allo spirito. Lo spirito che è all’opera nella materia egli lo trovò, ma non volle spingersi fino alla contemplazione dello spirito che vive e opera in se stesso. Elaborò una conoscenza

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della natura «secondo lo spirito», ma si arrestò da-vanti a una pura conoscenza dello spirito, per pau-ra di perdere la realtà.

Nietzsche prese le mosse da una visione dello spirito in forma mitica. Apollo e Dioniso erano fi-gure spirituali che egli sperimentava interiormente. Il decorso della storia spirituale dell’umanità gli apparve come una cooperazione oppure anche come una lotta fra Apollo e Dioniso. Egli però giunse solo ad una rappresentazione mitica di que-ste figure: non penetrò fino alla visione della vera entità spirituale. Partendo dal mito spirituale si spinse verso la natura. Nella sua anima, Apollo do-veva rappresentare la realtà materiale secondo il modello della scienza, e Dioniso doveva agire co-me le forze della natura. Ma in questo modo la bel-lezza di Apollo si offuscò, e il vibrare cosmico di Dioniso fu paralizzato dall’ordine della legge natu-rale.

Goethe trovò lo spirito nella realtà della natura; Nietzsche perse il mito dello spirito nella natura fat-ta di sogno in cui viveva.

Io mi trovavo tra questi due poli opposti». (Mein

Lebensgang, GA 28 (1982), p. 257-9)

Nel fenomeno Nietzsche, Steiner trova importante il fatto, destinato a divenire caratteristica dell’uomo moder-no in genere, che le norme tradizionali e la religione tra-mandata vanno perdendo ogni forza orientativa.

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La persona umana è lasciata a se stessa: non è più gui-data da ciò che è fuori di lei. Proprio in questo sta l’av-vento epocale della libertà umana. Riuscirà l’uomo, dal di dentro, liberamente, a costruire i fondamenti della vera libertà? Nietzsche interpreta lo spezzarsi di ogni catena esterna come diritto dell’individuo ad una sfrenata e ma-niaca autoaffermazione (Wille zur Macht), che non vuol tener conto di nulla e di nessuno.

Nel suo libro su Nietzsche, Steiner proprio questo sottolinea: la mancata distinzione dei vari livelli degli istinti e delle brame umane. Gli istinti inferiori sono quel-li dell’animale nell’uomo, appartengono alla specie e non all’individuo, e di conseguenza possono solo rendere l’uomo schiavo, non libero.

«Un uomo che si affida semplicemente ai suoi istinti sensibili, agisce come un animale; un uomo che sog-gioga i suoi istinti sensibili con pensieri altrui agisce non liberamente; solo l’uomo che sa creare i suoi pro-pri scopi morali, agisce liberamente. L’immaginativa morale manca nella produzione di Nietzsche. Chi pensa i suoi pensieri fino in fondo, deve di necessità scoprire questo concetto. E d’altra parte è anche as-solutamente necessario che questo concetto venga inserito nella visione di Nietzsche. Altrimenti si può sempre obiettare contro di essa: d’accordo che l’uo-mo dionisiaco non è schiavo della ‹volontà dell’al di là›, ma egli è uno schiavo dei propri istinti». (Friedrich Nietz-

sche, ein Kämpfer gegen seine Zeit, GA 5 (1963), p. 91-2)

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Nietzsche: l’uomo lasciato a se stesso e che non ha anco-ra trovato se stesso. L’uomo a cui viene offerta per la prima volta la libertà, e che ne conosce solo l’abuso, pri-ma di impararne l’uso. Come si può non aver simpatia per questa tragedia, che è quella di ogni uomo del nostro tempo? Più importante di ciò che possiamo condannare in Nietzsche, è ciò che da lui possiamo imparare.

Di tutte le facoltà dell’uomo, quella che Nietzsche ha saputo meno apprezzare è proprio il pensare. Ma solo nella coscienza pensante ci può esser libertà: nella chiara consapevolezza che intuisce, attingendo a un mondo che è unico e comune a tutti gli uomini. La Filosofia della libertà è proprio tutta incentrata su questo misterioso interroga-tivo: come si conciliano l’individualità e la comunanza? Nietzsche non ha considerato, nella delirante ebbrezza dell’affermazione incondizionata dell’individuo, ciò che è comune a tutti gli uomini: la conoscenza. Questa non può essere arbitraria o individuale: sfida anzi l’uomo a coltivare senza tregua dentro di sé ciò che lo libera dal carcere dell’isolamento nel proprio io, e lo fa entrare nel tempio universale dello spirito, la cui soglia è il mondo delle idee afferrato intuitivamente dal pensare.

Volendo compendiare in una parola il rapporto di Steiner con Haeckel e Nietzsche, possiamo dire: la sua simpatia per Haeckel proviene da ciò che costui ha sapu-to togliere dalla scienza, cioè i dogmi e i limiti della cono-scenza stabiliti in base a una vaga cosa in sé inconoscibi-le, «oltre» le cose; la sua simpatia per Nietzsche proviene da ciò che costui ha saputo togliere dalla morale, cioè le

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norme provenienti da un assoluto, esso pure immaginato «oltre» l’uomo, cui questi deve sottomettersi senza poter-le far sue. In questo modo essi hanno espresso ciò che ho chiamato il lato negativo della scienza e della realtà della libertà. Andando oltre Haeckel, Steiner vuol trovare una scienza che non veda solo il materiale, ma anche lo spiri-tuale; andando oltre Nietzsche, egli vuol fondare una mora-le che non sia solo abolizione di norme esterne, ma cam-mino interiore di purificazione che si trasforma in norma interiore e in vera libertà. La lacuna di Haeckel viene col-mata nella prima parte della Filosofia della libertà; la tragedia di Nietzsche viene sciolta nella seconda.

4. Eduard von Hartmann: la prima e la seconda edizione della Filosofia della libertà

Hartmann era in Germania, a quel tempo, la figura più nota nel campo della filosofia. Steiner è stato con lui in corrispondenza epistolare per diversi anni, prima di po-terlo incontrare personalmente per la prima volta nel 1889. Fu un lungo dialogo che lasciò nel suo animo una traccia profonda. Il filosofo dell’inconscio e il giovane che vuole afferrare ogni cosa con la chiarezza conscia del pensiero si trovano l’uno di fronte all’altro.

«Per lui l’essenza delle cose risiedeva nell’inconscio e doveva rimanere in esso sempre celata alla co-scienza umana. Per me l’inconscio era qualcosa che

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può venir sempre più portato alla luce della co-scienza mediante un esercizio vigoroso della vita dell’anima. Nel corso della conversazione ebbi a dire che non si dovrebbe però vedere già in par-tenza nella rappresentazione qualcosa di staccato dal reale e che costituisce solo un elemento irreale nella coscienza. Una tale concezione non può esse-re il punto di partenza di una teoria della cono-scenza, perché con essa ci si preclude l’accesso a qualsiasi realtà: non si potrebbe credere altro che di vivere in rappresentazioni e di potersi avvicinare a qualcosa di reale solo mediante ipotesi rappresen-tative, cioè in modo irreale. Si dovrebbe invece pri-ma verificare se sia valida la concezione che vede nella rappresentazione qualcosa di irreale, oppure se essa provenga semplicemente da un pregiudizio. Eduard von Hartmann rispose: su questo punto non c’è assolutamente da discutere. È incluso nella spie-gazione stessa del termine ‹rappresentazione› che in essa non è contenuto nulla di reale. Nel ricevere questa risposta mi sentii raggelare nell’anima. Il serio punto di partenza per una visione della vita era dun-que una explicatio terminorum! Sentii dentro di me quanto lontano io fossi dalla filosofia del mio tem-po. Mentre proseguivo il viaggio, in treno, coi miei pensieri e ricordi tutti assorti in quella visita per me pur sempre preziosa, mi si rinnovò nell’anima quel brivido. E quell’impressione rimase viva a lungo dentro di me». (Mein Lebensgang, GA 28 (1982), p. 155-6)

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Hartmann è, secondo Steiner, l’erede del dualismo kan-tiano. A questo egli oppone decisamente ciò che chiama monismo, o visione unitaria del mondo.

Che Steiner, alla fine del XIX secolo, abbia voluto af-fermarsi come filosofo, non è una cosa da dare per scon-tata. Di tutte le discipline, come già ho sottolineato, la filosofia era quella meno in auge. La scienza empirica andava celebrando un trionfo dopo l’altro. La teologia, specie quella di stampo kantiano, contava ben poco sulla ragione o sul pensiero, rifugiandosi nel mondo della fede. Questa dicotomia Steiner l’ha vissuta dentro di sé in mo-do intensissimo: una scienza che vede solo la materia da una parte; una teologia che vuol considerare solo lo spiri-to dall’altra. Nessun ponte tra le due. La filosofia, il solo ponte possibile, ridotta in macerie.

Solo il pensare, pensa Steiner, può essere il punto d’incontro tra il materiale e lo spirituale. Un pensare che non è pedissequa registrazione dei dati dei sensi o dei dati della fede, ma attività creatrice ed essenziale.

In quegli anni era in voga in Germania un movimento culturale importato dall’America, dal nome «Associazione per una cultura morale». I suoi promotori si dicevano: le idee degli uomini sono tante e contrastanti. Mirare ad un’armonia sulla base di qualche teoria filosofica è un’im-presa illusoria. Lasciamo a ciascuno la sua propria verità. Ciò che conta è rinnovare il comportamento pratico degli uomini, di sanare i costumi. La reazione interiore di Stei-ner a questo modo di vedere è piena di sofferenza e di indignazione: come si può mai fondare la morale pre-

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scindendo dalla verità? La sua Filosofia della libertà, se te-niamo conto della temperie spirituale nella quale si col-loca, acquista le dimensioni di un vero evento epocale. Ma Steiner sapeva già che non poteva contare neppure sull’approvazione del grande filosofo di Berlino:

«Non appena la mia ‹Filosofia della libertà› fu stam-pata ne mandai una copia a Eduard von Hart-mann. Egli deve averla letta con grande attenzione, perché me la rimandò poco dopo, munita di ab-bondanti note marginali, dall’inizio alla fine. Ag-giunse anche, tra l’altro, che il libro avrebbe dovu-to intitolarsi: ‹Fenomenalismo gnoseologico e individuali-smo etico›. Aveva frainteso completamente le fonti delle mie idee e i miei intenti. Guardava al mondo dei sensi alla maniera di Kant, anche se modificata. Riteneva questo mondo come effetto prodotto sull’anima da un qualcosa di essenziale, attraverso i sensi. Questo essenziale non può mai, stando alla sua teoria, entrare nell’orizzonte visuale che l’ani-ma abbraccia con la coscienza. Deve restare al di là della coscienza. Solo mediante illazioni logiche è possibile farsene delle rappresentazioni ipotetiche. Il mondo dei sensi non rappresenta allora una real-tà oggettiva fondata su di sé, ma la manifestazione soggettiva che permane nell’anima solo nella misu-ra in cui questa la contiene nella sua coscienza.

Nel mio libro mi adoperavo a mostrare che non c’è dietro al mondo sensibile una realtà sconosciuta,

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ma in esso il mondo spirituale. Quanto al mondo delle idee dell’uomo volevo mostrare che esso ha la sua vita in questo stesso mondo spirituale. Alla co-scienza umana resta nascosto l’essenziale del mon-do sensibile solo finché l’anima percepisce unica-mente con i sensi. Non appena si aggiunge alle per-cezioni sensibili l’esperienza delle idee, la coscienza vive nella essenzialità oggettiva del mondo sensibi-le. Il conoscere non è un riflettere una realtà essen-ziale, ma un entrare con l’anima a vivere in quella realtà essenziale. Dentro alla coscienza avviene il passaggio dal mondo sensibile ancora non essen-ziale alla sua essenzialità. Perciò il mondo sensibile è apparenza (fenomeno) solo finché la coscienza non ne è ancora venuta in chiaro.

Il mondo sensibile è dunque in realtà mondo spirituale. L’anima si unisce nella sua vita conosci-tiva con questo mondo spirituale, quando lo ab-braccia con la sua coscienza. La meta del processo conoscitivo è di fare l’esperienza vivente e coscien-te del mondo spirituale, alla cui presenza tutto si trasforma in spirito.

Al fenomenalismo io contrapponevo il mondo della realtà spirituale. Eduard von Hartmann pen-sava che io volessi restare nell’ambito dei fenomeni e che mi proponessi unicamente di astenermi dal fare, in base ad esso, delle illazioni circa una qual-che realtà oggettiva. Ciò significava per lui che il mio modo di pensare condannava la conoscenza

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umana a non poter giungere a nessuna realtà, e a doversi muovere dentro a un mondo d’apparenza che trova sussistenza (come fenomeno) unicamen-te nella vita rappresentativa dell’anima.

Alla mia ricerca dello spirito mediante l’amplia-mento della coscienza veniva così opposta la con-cezione che ritiene che lo ‹spirito› vive dapprima soltanto nella rappresentazione umana, e che fuori di essa può solo venir pensato». (Mein Lebensgang, GA

28 (1982), p. 244-6)

La Filosofia della libertà, quale noi l’abbiamo ora sottoma-no, è nella sua seconda edizione, avvenuta nel 1918, 25 anni dopo la prima. È straordinario il fatto che Steiner abbia lasciato praticamente immutato il testo della prima edizione. La novità più notevole sono le aggiunte alla fine di vari capitoli. Le osservazioni scritte in margine da Hart-mann sulla copia a lui inviata in omaggio, hanno contri-buito notevolmente sia alle significative modificazioni apportate al testo, sia alle aggiunte alla fine dei capitoli.

Il motto sul frontespizio dell’edizione del 1894, dice-va: «Risultati di osservazione secondo il metodo scientifi-co». E nella nuova edizione, analogamente: «Realtà dell’a-nima quali risultano da osservazione condotta con meto-do scientifico». Ciò che egli vuol dire ci appare chiaro non appena conosciamo il sottotitolo dell’opera principa-le di Hartmann (La filosofia dell’inconscio, 1869) che dice: «Risultati metafisici secondo il metodo scientifico-indut-tivo». Ciò a cui Steiner vuole opporsi è proprio l’agget-

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tivo «metafisici», che indica realtà puramente escogitate per illazione speculativa che si allontana dall’osservazio-ne.

«Questa ‹Filosofia della libertà› porta sul frontespi-zio il motto:

‹Realtà interiori esaminate con metodo scientifi-co›. Questo motto intendeva anzitutto opporsi a una corrente filosofica per la quale io nutrivo, en-tro certi limiti, la più sincera venerazione. Mi riferi-sco alla visione di Eduard von Hartmann, la cui ‹Filosofia dell’inconscio› portava il seguente sottotitolo: ‹Risultati speculativi secondo il metodo scientifico induttivo›.

‹Risultati speculativi›: era questo che, secondo me, contraddiceva il nucleo centrale di una vera conoscenza dell’uomo e dello spirituale. Per risul-tati speculativi, cioè contenuti di pensiero teorici, si può solo intendere ciò che si ottiene con una logi-ca astratta, la quale, in base al percepito, fa illazioni su qualcosa che non è percepibile. Mediante indu-zioni essa ricorre ad una cosa sconosciuta, che può esser raggiunta appunto unicamente con costru-zioni logiche, e non mediante percezione.

Contro questa impostazione filosofica io dove-vo far valere il fatto che ciò che è destinato in qual-siasi modo ad esser conosciuto e vissuto dall’uomo, deve anche in ogni suo elemento, in qualche mo-do, presentarsi direttamente all’osservazione, alla

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percezione. Allo stesso modo in cui i fatti esterni della scienza naturale si presentano alla coscienza e possono venire osservati, devono i contenuti inte-riori e spirituali essi pure potersi presentare alla co-scienza ed essere così osservabili. Infatti, se non fosse possibile introdurre nella coscienza tutto ciò che riguarda proprio l’intimo più profondo dell’uo-mo, si dovrebbe concludere che l’uomo viene di-retto e condotto da fili mossi da mondi sconosciu-ti, mondi la cui esistenza si può al più dedurre con l’astrazione, ma di cui non si può mai fare l’espe-rienza. Colui invece che porta nella sua coscienza il fenomeno, l’esperienza immediata della libertà nel-la sua pienezza, costui non può che respingere, nel senso da me indicato, ogni risultato metafisico. Egli sente il bisogno di conseguire come oggetto di os-servazione, come possibile contenuto attuale della mente, ciò che deve guidarlo nel più profondo del suo essere. Una vera filosofia della libertà era per me inseparabile da ciò che è espresso nel mio mot-to: ‹Realtà dell’anima osservate con metodo scienti-fico›. Il metodo di indagine, vale a dire, al quale la scienza aveva imparato ad attenersi, andava esteso anche a ciò che deve divenire il contenuto della vi-ta spirituale dell’uomo». (Anthroposophie, ihre Erkennt-

niswurzeln und Lebensfrüchte, GA 78 (1968), p.46-7)

L’intento di questa prima parte del mio lavoro è di offrire quegli elementi che meglio aiutano a comprendere l’opera

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di Steiner nella sua genesi e nel suo contesto storico. Mi si perdoneranno perciò le lunghe citazioni di Steiner stes-so: le sue parole sono di gran lunga l’aiuto più valido per capire la Filosofia della libertà. Le idee mie proprie verranno espresse maggiormente nella terza parte.

Eduard von Hartmann, terminata la lettura del libro, scrisse sull’ultima pagina le sue impressioni generali.

«Eduard von Hartmann scrisse così: ‹Questo libro non riesce a riconciliare né il fenomenalismo in sé assoluto di Hume con quello fondato su Dio di Berkeley, né peraltro questo fenomenalismo imma-nente o soggettivo col panlogismo trascendentale di Hegel, e neppure il panlogismo hegeliano con l’in-dividualismo di Goethe. Ognuno di questi binomi è diviso da un abisso incolmabile. Soprattutto viene qui dimenticato che il fenomenalismo porta con coe-renza ineluttabile al solipsismo, all’illusionismo as-soluto e all’agnosticismo. Nulla vien fatto per evita-re lo scivolo nel baratro della non-filosofia, per il semplice motivo che non se ne è avvertito il perico-lo›. – Che cosa si propone la mia ‹Filosofia della li-bertà› nei confronti di ciò che Eduard von Hart-mann crede di caratterizzare col suo giudizio? Il fe-nomenalismo assoluto, quale espresso nella filosofia di Hume, risulta superato nel tentativo di definire il pensare come una realtà che toglie all’immagine sensibile del mondo il suo carattere fenomenale e diviene manifestazione di un mondo oggettivo. Il

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fenomenalismo soggettivo di Berkeley perde in que-sta concezione la sua validità, perché viene mostrato che nel pensare l’uomo si fa uno col mondo ogget-tivo, e non ha più senso dire che i fenomeni del mondo non sono più presenti al di fuori del loro venir percepiti. Diversamente dal panlogismo di Hegel, il pensare viene concepito come il primo membro delle facoltà conoscitive puramente spiri-tuali dell’uomo, e non come l’ultimo membro della coscienza comune, che si limita a riflettere concet-tualmente in pallide idee il contenuto sensibile del mondo. L’individualismo di Goethe viene ulterior-mente elaborato nell’intento di mostrare che si può comprendere la libertà umana unicamente in una vi-sione fondata sulla teoria della conoscenza propria della ‹Filosofia della libertà›. Solo quando si ricono-sce l’essenzialità oggettiva del mondo delle idee e di conseguenza si scopre l’unione animica dell’uomo con le motivazioni etiche quale esperienza metasog-gettiva, solo allora si può afferrare l’essenza della li-bertà. E proprio a questa comprensione conducono le riflessioni del mio libro come al loro culmine». (Philosophie und Anthroposophie, GA 35 (1965), p. 328-9)

Ci diviene ora chiaro quale influsso Hartmann abbia avu-to sia sulla prima sia sulla seconda edizione della Filosofia della libertà. Steiner non procede in modo isolato: si con-fronta col pensiero del suo tempo, ne vaglia le istanze, fa riferimento alle critiche e ai fraintendimenti.

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Tra i 35 autori menzionati nel testo, Hartmann è di gran lunga quello che ricorre più frequentemente. Merite-rebbe uno studio a parte il confronto tra le annotazioni marginali di Hartmann e le variazioni, spesso anche solo di una parola, apportate da Steiner alla seconda edizione rispetto alla prima. Un esame particolareggiato di queste modificazioni non è qui possibile: richiederebbe un altro volume. Può essere però giovevole, sulla base di pochi esempi tipici, cogliere le caratteristiche comuni di queste precisazioni.

Nel 3º capitolo (La conoscenza del mondo) leggiamo: «Non un Dio personale di stampo umano, non Ener-gia o Materia, non la Volontà cieca (di Schopen-hauer) possono venir accettati come fattore unita-rio universale. Queste entità provengono ciascuna da una singola sfera limitata della nostra osserva-zione. La personalità coi tratti della finitezza umana la possiamo percepire solo in noi stessi, energia e ma-teria nelle cose fuori di noi...». (Die Philosophie der

Freiheit, GA 4 (1978), p. 92)

Le parole da me lasciate non in corsivo sono state aggiunte nella 2a edizione. Siamo tentati di chiederci se, togliendole, il significato non cambi. Astrattamente parlando, potrebbe cambiare notevolmente. Ma nel contesto del pensiero di Steiner ciò non è il caso. Secondo lui, quando l’uomo parla di personalità ha sempre davanti a sé, in un modo o in un altro, la rappresentazione della personalità umana, che gli proviene dalla percezione sensibile.

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Prendiamo un altro esempio della 2a parte (cap. X.: «Filosofia della libertà e monismo»):

«...per lui l’ordinamento morale del mondo non è né la copia di un ordine naturale puramente mec-canico né quella di un ordinamento universale extrau-mano (di un governo del mondo da parte di Dio), bensì opera esclusiva della libertà umana. L’uomo non è chiamato a realizzare nel mondo la volontà di un essere che è fuori di lui (di Dio), ma la sua pro-pria...». (Die Philosophie der Freiheit, GA 4 (1978) p.179)

In questo caso è di estrema importanza tener conto di quanto ho già detto precedentemente: Steiner parla di Dio secondo il significato che lui ritiene (a torto o a ra-gione non è qui il punto importante) venga comunemen-te attribuito a questo termine, sia dalla filosofia, sia dalla teologia del suo tempo. E quel significato è di un Dio «al di là», inconoscibile, che si trova «oltre» e «al di fuori» dell’uomo. Se teniamo conto di questo, comprendiamo il rapporto fra le parole da me poste in tondo (che sono della 2a edizione) e quelle messe fra parentesi (che erano al loro posto nella prima). Questa problematica la ripren-derò più per esteso nella terza parte: qui si trattava di dare un’idea delle due edizioni della Filosofia della libertà, con le modificazioni suggerite in buona parte dalle reazioni di Hartmann, il cui «inconscio» è, esso pure, «oltre» l’uomo, e mai direttamente conoscibile.

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5. Verità e scienza: preludio alla Filosofia della libertà

Di particolare importanza per la comprensione della Filo-sofia della libertà è l’opera pubblicata da Steiner due anni prima: Verità e scienza. Preludio a una filosofia della libertà. Si tratta della sua tesi di laurea. In essa campeggiano due dei massimi filosofi, entrambi fondamentali nella formazione del pensiero di Steiner: Kant e Fichte. Le primissime parole della prefazione suonano così:

«La filosofia attuale soffre di una funesta fede in Kant. La presente opera vuol essere un contributo al suo superamento». (Wahrheit und Wissenschaft, GA 3

(1958), p. 9)

Egli vede in Kant colui che più di tutti ha contribuito al dualismo nella scienza, nella filosofia, nella teologia, im-ponendo il dogma della cosa in sé inconoscibile («oltre», «al di là» della conoscenza): ciò che noi conosciamo non è la vera realtà ma solo le nostre rappresentazioni di essa. L’origine del dogma kantiano sta nel fatto che egli ha posto come fondamento del suo sistema, nonostante l’apparenza «critica» di esso, dei presupposti che sono veri preconcetti e pregiudizi mai messi in questione.

Steiner si propone due intenti fondamentali: il primo è quello di partire da una teoria della conoscenza come scienza fondante tutte le altre scienze. Il secondo è che questa teoria non deve fondarsi su nessun presupposto o pregiudizio inconsapevole che ne pregiudichi già in par-

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tenza il corso e l’esito. A tale scopo, è importante che il modo stesso di formulare i quesiti fondamentali sia quel-lo giusto.

La domanda che Kant pone a fondamento della sua «Critica della ragion pura» è la seguente: come sono possibili giudizi sintetici a priori? Solo mediante questi egli vede possibile una scienza. Con questa domanda, però, egli sancisce già due presupposti impliciti, e cioè che i giudizi della conoscenza devono essere, primo: sintetici, secon-do: a priori.

Il primo presupposto, diversamente dal secondo, è di natura puramente formale. Dice solo che nessuna scienza si può avere procedendo per tautologie, cioè per giudizi (analitici) in cui il predicato non aggiunge nulla di nuovo al soggetto. Pur essendo un dato elemento già implicito nel soggetto, la sua esplicitazione deve costituire, per la conoscenza umana, qualcosa di nuovo.

Non così per il secondo presupposto, quello del carat-tere a priori che devono avere i giudizi sintetici. Questo presupposto è già il risultato di due affermazioni implici-te, che vanno esaminate criticamente (cosa che Kant non ha fatto). La prima affermazione dice: la vera conoscenza dev’essere indipendente dall’esperienza (= a priori); la seconda dice: l’esperienza non può offrire conoscenza oggettiva.

«In questo modo sono contenuti nella problematica kantiana due presupposti: in primo luogo, che noi dobbiamo avere, oltre all’esperienza, un’altra via

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d’accesso alla conoscenza; in secondo luogo, che ogni sapere tramite esperienza può avere solo una validità condizionata. Kant non si rende affatto con-to che questi asserti necessitano di un esame critico e che possono esser messi in dubbio. Egli non fa che recepirli come preconcetti dalla filosofia dogma-tica, e li pone a fondamento della sua indagine criti-ca». (Wahrheit und Wissenschaft, GA 3 (1958), p. 28)

Steiner prosegue con citazioni dalle opere di Kant, dalle quali risulta chiaramente che la metafisica (nonché la matematica e la scienza pura) non possono provenire dall’esperienza, non potendo questa offrire una cono-scenza certa e assoluta (Kant oppone «a priori» a «empi-rico», e usa empirico come sinonimo di esperienziale).

«Ma tutto ciò che viene inteso nella ‹Critica› si può riassumere in questo: poiché la matematica e la scienza pura sono delle scienze aprioristiche, ne se-gue che la forma di ogni esperienza deve fondarsi nel soggetto. Per via empirica viene dato dunque uni-camente il materiale delle sensazioni. Questo viene elaborato a sistema esperienziale mediante le forme presenti nell’animo. Le verità formali delle teorie aprioristiche hanno senso e importanza unicamente come principi che ordinano il materiale della sensa-zione: rendono possibile l’esperienza, ma non pos-sono estendersi oltre ad essa. Ma queste verità for-mali sono appunto i giudizi sintetici a priori e in qualità di prerequisiti di ogni possibile esperienza,

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non possono che essere ad essa coestensive. La Cri-tica della ragion pura non dimostra dunque affatto l’apriorità della matematica e della scienza pura, ma ne definisce unicamente la sfera di validità partendo dal presupposto che le loro verità debbano ottenersi indipendentemente dall’esperienza». (Wahrheit und

Wissenschaft, GA 3 (1958), p. 30)

Questo «presupposto» è dunque in realtà duplice: dice da un lato che la matematica e la scienza pura non possono andare oltre il campo delle percezioni empiriche (non aggiungono nulla ad esse), e dall’altro che i loro contenuti vengono prodotti a priori (indipendentemente dalle per-cezioni).

Qual è il risultato fondamentale di questo «apriori-smo» kantiano? Che tutti gli oggetti della conoscenza sono nostre rappresentazioni. Nella filosofia che ha fatto seguito a Kant questo è divenuto un dogma intoccabile: noi abbiamo conoscenza unicamente delle nostre rappre-sentazioni.

Questa affermazione, però, è già un atto di conoscen-za, e non può esser posta là dove la conoscenza ha inizio. Essa è il risultato di una serie di giudizi (Steiner segue qui la sintesi che Hartmann ne ha fatto nella sua opera Il problema fondamentale della teoria della conoscenza) condotti in campo fisico, psicofisico, fisiologico e filosofico.

Il fisico ci dice che alle nostre sensazioni di suono, di luce, di calore ecc. non corrisponde nulla fuori di noi che sia simile ad esse: fuori di noi ci sono solo vibrazioni dei

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corpi e dell’aria. La teoria psicofisica delle energie senso-rie specifiche sottolinea il fatto che, indipendentemente dal fenomeno esterno a noi, ogni senso può reagire uni-camente in base alla sua propria struttura particolare. Da qui si tira la conclusione che fuori di noi ci siano solo movimenti meccanici, e che la varietà sia operata dalla diversità dei nostri organi di senso.

La fisiologia, poi, segue ciò che avviene all’interno del nostro corpo, dallo stimolo esterno fino al cervello, e fino alla sensazione (suono, luce, calore, ecc.) vera e pro-pria. Anche qui si rileva che le sensazioni non hanno nes-suna affinità con i processi nel cervello o nei nervi, che ne sono alla base.

Le considerazioni filosofiche, infine, aggiungono che ogni immagine del mondo esterno viene costruita dall’a-nima sulla base del materiale offerto dalle sensazioni: queste sono per natura singole e incoerenti, ma l’anima le ordina e le raggruppa in oggetti. La conclusione di Hart-mann è: «Ciò che il soggetto percepisce sono dunque sem-pre e solo modificazioni del suo stato psichico, nient’al-tro». Steiner così prosegue:

«Chiediamo ora: come giungiamo noi a tale con-vinzione? Lo scheletro del ragionamento descritto è il seguente: se un mondo esterno esiste, esso non viene da noi percepito come tale, ma viene tra-sformato dalla nostra organizzazione in un mondo di rappresentazioni. Si tratta qui di un presupposto che, se seguito con coerenza, invalida se stesso.

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È allora in grado questo ragionamento di porsi a fondamento di qualsiasi convinzione? Siamo noi au-torizzati a considerare come contenuto soggettivo di rappresentazioni l’immagine del mondo che ci è da-ta, per il semplice motivo che la supposizione della coscienza ingenua, se rigorosamente applicata, porta a questa conclusione? Il nostro intento è proprio quello di mostrare che questa supposizione è infon-data. Resterebbe ancora l’eventualità che una teoria falsa porti a dei risultati giusti: ciò non è impossibile. Ma allora non si potrà affatto considerare quei risul-tati come dimostrati in base a quella teoria». (Wahrheit

und Wissenschaft), GA 3 (1958), p. 41)

La corrente kantiana può esser definita, secondo Steiner, un razionalismo ingenuo. Essa dà per scontato che il complesso processo conoscitivo che essa mette in opera porti automaticamente a risultati validi. Ma non ha opera-to un’indagine critica sulle leggi del conoscere stesso. Le considerazioni che conducono alla conclusione che ogni conoscenza è rappresentazione non appartengono alla teoria della conoscenza in quanto tale, ma presuppongo-no, ingenuamente, che il pensare, esercitato spontanea-mente, porti a risultati certi.

A questo punto Steiner si dedica ad un’elaborazione positiva della teoria della conoscenza (cap. IV.: «I punti di partenza della conoscenza»).

«Stando alle considerazioni precedenti, all’inizio del-le indagini sulla conoscenza bisogna escludere ciò

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che già appartiene al campo del conoscere. La cono-scenza è qualcosa cui è l’uomo a dar vita: sorge me-diante la sua attività. Se la teoria della conoscenza vuol estendersi all’intero campo del conoscere per chiarificarlo adeguatamente, deve prender l’avvio da qualcosa che non è affatto toccato da questa attività, e da cui essa riceve anzi la spinta iniziale. Ciò da cui bisogna partire sta fuori del conoscere: non può esso stesso esser già conoscenza. Va però ricercato imme-diatamente prima del conoscere, così che il primo pas-so successivo, a partire da esso, sia già attività conosci-tiva. Il modo di determinare questo primo assoluto dovrà allora essere tale che in esso non s’introduca nulla che provenga già dal conoscere». (Wahrheit und

Wissenschaft, GA 3 (1958), p. 45)

Questo punto di partenza non può essere che il dato immediato che abbiamo di fronte a noi, senza alcuna qualificazione, la quale proverrebbe già necessariamente dal pensare. Dobbiamo (artificialmente, in quanto ciò non avviene mai nella vita normale) tirare una linea di demarcazione tra il dato e il conosciuto, togliendo al dato tutte le caratteristiche che gli sono attribuite dal conoscere.

È importante comprendere che questo requisito e le riflessioni che lo esprimono hanno una funzione pura-mente negativa e metodica. Non esprimono contenuti conoscitivi, ma indicano dove si trovi il punto a partire dal quale la conoscenza ha inizio.

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Questo inizio esclude ogni possibilità di errore, la qua-le sorge non appena facciamo la pur minima affermazio-ne sulla realtà. Ma qui noi ci poniamo appunto prima di qualsiasi affermazione, cioè prima di qualsiasi atto di conoscenza. La stessa denominazione di «dato immediato», conferita a questo punto di partenza, non vuol esprimere un contenuto o una qualche definizione di esso, ma ha essa pure lo scopo negativo e funzionale di indicare dove si trovi l’inizio della conoscenza.

«Se la teoria della conoscenza parte dalla premessa che tutto ciò che abbiamo ora descritto sia nostro contenuto di coscienza, nasce subito la domanda: come possiamo noi uscire dalla coscienza verso la conoscenza dell’essere? Dov’è il trampolino che ci faccia balzare dal soggettivo al meta-soggettivo? Per noi la cosa si pone in modo del tutto diverso. Per noi, sia la coscienza, sia la rappresentazione dell’Io sono dapprima solo parti di ciò che è im-mediatamente dato, e il loro rapporto con esso si ricava solo dal conoscere stesso. Non vogliamo de-finire il conoscere partendo dalla coscienza, ma al contrario, vogliamo definire la coscienza e il rap-porto tra soggettività e oggettività partendo dal conoscere. Poiché lasciamo dapprima il dato senza alcun predicato, dobbiamo chiedere: in quale mo-do possiamo mai dargli una determinazione? Come è possibile cominciare col conoscere in un punto qualsiasi? Come possiamo designare, per esempio,

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una parte dell’immagine del mondo come perce-zione, un’altra come concetto, una come essere, l’altra come apparenza, questa come causa, quella come effetto? Come possiamo separare noi stessi da ciò che è oggettivo e definirci come ‹Io› di fron-te al ‹non-Io›?

Dobbiamo trovare il ponte tra l’immagine del mondo quale ci è data e quella che noi sviluppiamo col nostro conoscere. Ma incontriamo qui la se-guente difficoltà. Finché noi stiamo a fissare passi-vamente il dato, non troveremo in nessun luogo un punto d’aggancio a cui collegarci e da cui poter svolgere il filo del conoscere. Dovremmo trovare in qualche luogo del dato il punto dove poter in-tervenire, dove c’è qualcosa di omogeneo al cono-scere. Se tutto fosse davvero soltanto dato, do-vremmo contentarci del semplice fissare il mondo esterno e di fissare ugualmente il mondo della no-stra individualità. Potremmo al più descrivere le cose dal di fuori, ma mai capirle. l nostri concetti avreb-bero un rapporto puramente estrinseco, non in-trinseco, con ciò a cui si riferiscono. Per un vero conoscere tutto dipende dal fatto che noi troviamo in seno al dato un campo nel quale la nostra attivi-tà conoscitiva non si limita a presupporre a se stes-sa un dato, ma si colloca dentro al dato in modo attivo. In altre parole, proprio attenendoci rigoro-samente al puro dato deve risultare che non tutto è tale. Il nostro requisito dev’essere tale che, restan-

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dovi del tutto fedeli, esso stesso si sospende par-zialmente. L’abbiamo stabilito per evitarci di dare alla gnoseologia un inizio arbitrario, e per cercare invece quello vero. Nel significato da noi inteso, tutto può farsi ‹dato›, anche ciò che nella sua intima natura è non-dato. Questo ci si presenta allora come dato solo formalmente, ma ad un’indagine più pro-fonda si palesa da sé per ciò che è realmente.

Tutta la difficoltà nel comprendere il conoscere risiede nel fatto che noi non produciamo da noi stessi il contenuto del mondo. Se lo facessimo, il conoscere non esisterebbe affatto. Una cosa può far sorgere in me una domanda solo in quanto mi è ‹data›. A ciò che io produco, sono io stesso a confe-rire le determinazioni, e non ho da chiedermi se siano giustificate o no». (Wahrheit und Wissenschaft,

GA 3 (1958), p. 51-3)

Nessun dato può presentare un aspetto che non ha. Vi-ceversa, è possibile a un dato nascondere un aspetto che ha. E questo avviene al punto di partenza della cono-scenza: nel mondo del dato immediato ci dev’essere qual-cosa che è più che dato. Questo requisito indispensabile ha il carattere di un postulato: non esprime un contenuto conoscitivo vero e proprio, ma indica la condizione indi-spensabile perché la conoscenza sia possibile. Infatti, se tutto ciò che è dato fosse unicamente e puramente dato, la conoscenza non sarebbe possibile: avremmo, l’uno di fronte all’altro, due campi eterogenei, senza mediazione.

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Ciò che non è puramente dato non può essere che prodotto da noi. Ma questo produrre deve rivestire lo stesso carattere di immediatezza del dato. Volendoci esprimere paradossalmente: la sua qualità di non puro-dato dev’esserci «data» direttamente e immediatamente. Ciò non avviene per le percezioni sensibili: il loro essere dato è risultato di riflessione conoscitiva. Avviene invece per i concetti e per le idee: questi sono dati solo in quan-to sono «dati» da noi, cioè da noi prodotti. Sorgono in noi in forma di evidenza intellettuale o di contemplazione intuitiva. Essi non possono essere delle vuote forme che ricevono contenuto solo dalla percezione.

Se da un lato la possibilità della conoscenza richiede che il dato venga scisso in dato puro e dato prodotto, dall’altro lato l’esercizio della conoscenza sta proprio nel ricomporre in unità ciò che è stato scisso. Nel pensare creiamo la sin-tesi tra il dato e ciò che noi stessi produciamo.

Il pensare, in se stesso, è un’attività, e ne possiamo parlare solo per via descrittiva. Ogni giudizio sul pensare si riferisce non al pensare in quanto tale, ma al suo rap-porto con l’altro da sé, cioè al dato. Questo rapporto si svolge nel modo seguente:

«Col pensare si estraggono dapprima certi elementi singoli dall’insieme del mondo: nel dato non esiste infatti nessun elemento singolo, ma tutto è collega-to in un continuo unico. Il pensare mette ora que-sti elementi isolati in rapporto gli uni con gli altri, seguendo le forme da esso prodotte, e stabilisce in-

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fine che cosa risulti da quel rapporto. Il fatto che il pensare stabilisca un rapporto tra due elementi se-parati dal contenuto del mondo, non comporta af-fatto che esso decida sulla loro realtà in base alla propria. Non fa appunto che aspettare e vedere cosa risulti dal rapporto stesso una volta stabilito. Solo questo risultato è una conoscenza circa gli ele-menti del mondo in questione. Se fosse nella natu-ra del mondo di non dire nulla su di sé in base a quel rapporto, allora l’esperimento conoscitivo fal-lirebbe e se ne dovrebbe fare un altro. Tutte le co-gnizioni si fondano sul fatto che l’uomo pone due o più elementi della realtà in giusto rapporto fra lo-ro e comprende ciò che ne risulta». (Wahrheit und

Wissenschaft, GA 3 (1958), p. 60)

Kant, invece di vedere nell’attività pensante un processo che prepara o rende possibile il manifestarsi delle leggi naturali, vi ha visto un processo che le produce a priori. Il pensare sceglie e pone uno di fronte all’altro due elementi della realtà che hanno qualcosa da dire l’uno sull’altro. Ma non è esso a decidere che cosa essi diranno. Questo contenuto deve venire esso stesso dato: il pensare lo rice-ve dai due elementi nel loro rapporto reciproco. Il rappor-to come tale (il mettere a confronto) è dunque operato dal pensare. Il contenuto di tale rapporto è dato dalla natura degli elementi messi a confronto.

Nella conoscenza scientifica delle leggi naturali, il pensare svolge un’attività solo formale. Il concetto di

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«causalità», per esempio, può essere prodotto solo dal pensiero, ma si tratta appunto di una forma di pensiero. Che il dato A sia in rapporto di causa-effetto col dato B, questo non lo può decidere il pensiero, ma solo la natura di A e B. I giudizi a priori di Kant non esprimono dun-que alcun contenuto o qualità del reale. Possono solo definirsi postulati: prerequisiti e condizioni di possibilità della conoscenza, ma non contenuti dell’atto conoscitivo stes-so, perché questi provengono non dal pensare, ma dal suo incontro col dato. Non basta che io conosca le leggi del mio pensiero (i postulati kantiani) per conoscere ciò che è fuori di me.

«Il pensare non dice nulla a priori sul dato, ma provvede le forme in base alle quali le leggi dei fe-nomeni si manifestano a posteriori». (Wahrheit und

Wissenschaft, GA 3 (1958), p. 63)

Le leggi naturali provengono dunque dal dato: sono ciò che costituisce e definisce il rapporto tra fenomeni. Ci si potrebbe chiedere: perché mai c’è bisogno del pensiero affinché avvenga il confronto tra i fenomeni? Se i feno-meni, nel loro presentarsi, manifestassero tutto di sé, senza nascondere nulla, non ci sarebbe bisogno di cono-scenza. Questa avviene perché il fenomeno si presenta nascondendo un aspetto di sé che solo l’attività pensante fa venire alla luce. Il dato, nella sua immediatezza, con-tiene qualcosa che ancora non compare. In altre parole: ciò che il dato offre prima dell’attività pensante non è la sua totalità.

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Dato e concetto: essi vengono separati nell’atto della conoscenza (che corrisponde alla natura dell’uomo); ma si trovano uniti nella realtà. Il contenuto del concetto è dunque parte del dato stesso. L’uomo riceve da due fonti distinte due aspetti di una realtà unitaria. La separazione fra dato e concetto ha il suo fondamento in noi; la loro riunificazione ha il suo fondamento nella realtà.

«Se nel contenuto del mondo il contenuto di pen-siero fosse già in partenza unito al dato, non ci sa-rebbe il conoscere, perché non potrebbe sorgere in nessun luogo il bisogno di andare oltre il dato. Se d’altra parte noi producessimo col pensare e nel pensare stesso tutto il contenuto del mondo, nep-pure vi sarebbe il conoscere, perché ciò che pro-duciamo noi stessi non abbiamo bisogno di cono-scerlo. Il conoscere si fonda dunque sul fatto che il contenuto del mondo ci viene originariamente da-to in una forma che è incompleta e non lo contie-ne nella sua interezza, ma ha ancora un secondo la-to essenziale, oltre a quello che presenta immedia-tamente. Questo secondo lato, originariamente non dato, del contenuto del mondo, viene scoperto dal-la conoscenza. Ciò che a noi si presenta separato nel pensare non sono dunque forme vuote, bensì una somma di determinazioni (categorie) che però sono forma per il rimanente contenuto del mondo. Solo quell’aspetto del contenuto del mondo che si ottiene me-diante la conoscenza, nel quale entrambi i suoi lati descritti

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vengono unificati, può chiamarsi realtà». (Wahrheit und

Wissenschaft, GA 3 (1958), p. 65-7)

Nell’ultima parte di Verità e scienza (cap. VI-VIII) Steiner prende in esame la teoria della scienza di Fichte. Dall’idea della conoscenza in quanto tale, elaborata fin qui, egli volge ora lo sguardo al soggetto conoscente, cioè alla coscienza umana, all’Io.

È l’Io che sente il bisogno di andare oltre il dato im-mediato per scoprire il lato dapprima celato. È l’Io che con attività libera riunisce di nuovo ciò che ha avuto se-paratamente dai sensi e dal pensiero.

Riflettendo sulla natura della propria conoscenza, l’Io comprende che quei due momenti (la separazione e la riunificazione) sono funzioni della coscienza umana stessa. La separazione in dato e concetto si manifesta cioè come artificiale, destinata a venir di nuovo supera-ta.

«Qui c’è una differenza fondamentale tra il modo in cui, nell’oggetto della coscienza umana stessa, concetto e dato immediato si mostrano uniti a formare la realtà totale, e il modo che vale invece per tutto il resto del contenuto del mondo. Per ogni altro elemento del mondo dobbiamo pensare che l’unione è la realtà originaria, necessaria fin dal principio, e che solo all’inizio del conoscere e in vi-sta della conoscenza è subentrata una separazione arti-ficiale, che però viene infine di nuovo superata mediante il conoscere, in conformità con l’essenza

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originaria dell’essere oggettivo. Per la coscienza umana le cose stanno altrimenti. Qui l’unificazione avviene unicamente se è la coscienza ad effettuarla con la sua attività reale. Per ogni altro oggetto la separazione non ha alcun significato per l’oggetto stesso, ma lo ha solo per il conoscere: qui l’unione è la realtà prima, la separazione è derivata. Il cono-scere opera la separazione solo perché, nel suo modo di procedere, non può impadronirsi dell’u-nione che dopo aver prima separato. Diversamen-te, il concetto e la realtà data della coscienza sono originariamente separati, e la congiunzione è la real-tà derivata, e ciò fa sì che il conoscere sia come noi l’abbiamo descritto. Poiché nella coscienza idea e dato si presentano necessariamente separati, l’in-tera realtà si scinde per essa in questi due lati; e poiché la coscienza può operare l’unione dei due unicamente con la propria attività, può giungere al-la piena realtà solamente con l’attuazione dell’atto conoscitivo. Le altre categorie (idee) sarebbero necessariamente connesse con le forme corri-spondenti del dato anche nel caso in cui non ve-nissero assunte nella conoscenza. L’idea del cono-scere invece può venir congiunta col suo dato corrispondente solo mediante l’attività della co-scienza. Una coscienza reale esiste unicamente quan-do essa attua se stessa». (Wahrheit und Wissenschaft,

GA 3 (1958), p. 67-8)

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Fichte, invece di partire dall’idea del conoscere, è partito dall’idea dell’Io. Concepito come inizio assoluto, come libertà assoluta, l’Io non può porre che se stesso. Ma que-sto porre se stesso rimane senza contenuto. Bisogna chiedersi: che cosa pone l’Io ponendo se stesso? L’oggetto di questa attività assoluta del porre, Fichte non l’ha mai chiarito. Egli fa iniziare l’Io con una decisione libera, con un atto assoluto: ma quale atto?

Se Fichte fosse invece partito dall’idea del conoscere, gli sarebbe stato più facile comprendere che l’Io pone il conoscere. In quanto io conoscente egli attua appunto il processo del conoscere quale descritto sopra. Egli non ha tenuto conto che nella teoria della conoscenza (da lui chiamata «teoria della scienza»: Wissenschaftslehre) non si tratta specificamente dell’uomo in quanto attore libero, ma in quanto soggetto conoscente. Volendo rendere as-soluta la libertà dell’Io, Fichte gli ha tagliato ogni ponte verso l’altro da sé.

Ciò che Fichte dice dell’Io va allora detto del pensare. L’io è esso pure uno degli oggetti del conoscere, e l’attività conoscitiva può ricongiungere, come fa per ogni altro oggetto, anche per l’Io il dato col suo concetto. Qual è allora il concetto dell’Io? L’io è quell’elemento del mondo che produce il conoscere.

Ogni giudizio unisce due elementi, ma in modo condi-zionale: posto il primo, si ha anche il secondo. Ma questa condizionatezza, secondo Fichte, non deve valere per l’Io, perché è lui che pone il primo elemento di ogni giudizio. L’io non può dunque porre se stesso che in modo assoluto.

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Steiner rispose a Fichte in questo modo: «Insomma: il porre deve avere un contenuto. Ma questo contenuto non lo può prendere da se stes-so, perché allora non potrebbe far altro che porre eternamente il porre. Ci dev’essere perciò per il porre, per l’attività assoluta dell’Io, qualcosa che mediante essa viene realizzato. Senza che l’Io affer-ri un certo dato, che egli pone, non può porre «nul-la» del tutto, e perciò non può porre. Ciò risulta an-che dalla proposizione di Fichte: l’Io pone il pro-prio essere. Questo essere è una categoria. E ciò ci riporta alla nostra affermazione: l’attività dell’Io consiste nel fatto che esso pone, con propria libera decisione, i concetti e le idee del dato. Fichte giun-ge alla sua conclusione solo perché si propone in-consciamente di dimostrare che l’Io è ‹essente›. Se avesse sviluppato il concetto del conoscere, sareb-be giunto al vero punto di partenza della teoria del-la conoscenza: l’Io pone il conoscere». (Wahrheit und Wis-

senschaft, GA 3 (1958), p. 74-5)

Conseguenza inevitabile dell’assolutizzazione dell’Io è che Fichte fa dell’Io il creatore di tutti gli esseri, anzi, ne fa la sola vera realtà perché, in assenza di una teoria del conoscere, l’Io non può mai esser fatto uscire da se stes-so.

Steiner così annuncia la Filosofia della libertà, di cui Veri-tà e scienza è concepita come un preludio:

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«Il fatto che l’Io possa mettersi in attività mediante la libertà, gli dà la possibilità di attuare dal proprio essere, per autodeterminazione, la categoria del conoscere, mentre nel resto del mondo le categorie si mostrano connesse secondo necessità oggettiva col dato a loro corrispondente. L’investigazione dell’essenza dell’autodeterminazione libera sarà il compito di una metafisica e di un’etica fondate sul-la nostra teoria della conoscenza. Queste ultime dovranno anche trattare la questione se l’Io sia o no in grado di attuare anche altre idee oltre a quella del conoscere. Che l’attuazione del conoscere av-venga attraverso la libertà, risulta chiaramente dalle osservazioni gia fatte sopra. Infatti, se il dato im-mediato e la corrispondente forma del pensare vengono congiunti dall’Io nel processo cognitivo, l’unificazione dei due elementi della realtà, che al-trimenti rimangono sempre separati nella coscien-za, può avvenire unicamente mediante un atto della libertà». (Wahrheit und Wissenschaft, GA 3 (1958),

p. 79-80)

La teoria della conoscenza dev’essere dunque un’indagine sul conoscere stesso, sull’atto della conoscenza. Se parte dall’Io (idealismo) presuppone già il pensare in ciò che dice sull’Io. Se parte dalla «cosa in sé» (dogmatismo) presuppone già ugualmente il conoscere. Se parte dal dubbio (scettici-smo) presuppone già l’esercizio della conoscenza (si può dubitare solo pensando). Partendo dall’atto cognitivo,

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invece, si giunge ad una sintesi armoniosa dell’empirismo (il contenuto del dato deve venire dal dato stesso) e del razionalismo (il pensare è il solo e necessario mediatore della conoscenza).

Il nostro io in quanto originatore di attività è uno de-gli oggetti della conoscenza e viene esso pure conosciuto col processo conoscitivo quale descritto. Il dato dell’Io lo percepiamo con i sensi; il concetto dell’Io deve venire dal pensare. Se il concetto dell’Io è quello dell’essere che pone il conoscere, la realtà dell’Io è quella dell’essere che può agire in base a conoscenza, cioè liberamente, in quanto fa sua, mediante il pensare, la legge del proprio agire.

Questi ultimi due paragrafi (che riassumono i due ul-timi brevi capitoli di Verità e scienza) anticipano già rispet-tivamente la prima e la seconda parte della Filosofia della libertà. È giunto ora il momento di dedicarci esclusiva-mente al contenuto di quest’opera fondamentale di Stei-ner. Nella seconda parte del mio lavoro, che ora segue, intendo offrirne un’esposizione il più fedele e oggettiva possibile. Le rare osservazioni che provengono da me sono messe in nota, e riguardano per lo più la traduzione italiana di alcuni termini importanti.

Trattandosi di una «sintesi» del contenuto del libro, bisogna tener presente che sarà inevitabile, in molti punti, l’impressione di uno scorrere piuttosto veloce, che può sembrar giungere troppo presto a conclusioni non prova-te. Queste difficoltà invitano a rivolgersi al testo stesso di Steiner nella sua interezza (e possibilmente nell’origina-

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le!). Inoltre, la sintesi che io qui propongo, rappresenta la mia comprensione del testo, che si manifesta necessaria-mente nel modo di esporre, di sottolineare o di omettere. Si tratta di un incontro di due orizzonti. Ciò avviene in ogni studio fatto sul pensiero di un’altra persona.

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II. ANALISI

IL CONTENUTO DELLA FILOSOFIA DELLA LIBERTÀ

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PRIMA PARTE:

SCIENZA DELLA LIBERTÀ

1. L’agente umano cosciente

È l’uomo, nel suo pensare e agire, un essere spiritualmen-te libero, oppure soggiace a un ferreo determinismo di leggi naturali? Questa domanda, così fondamentale nella vita di ogni uomo, ha trovato risposte contrastanti. Gli uni non capiscono come si faccia a negare la libertà, gli altri come si faccia ad affermarla.

Buona parte della filosofia, fondandosi sulla scienza, nega la libertà dell’uomo in quanto non può comprende-re come il determinismo, che vige in tutta la natura, possa venir sospeso nel caso dell’uomo. Concepisce la libertà come la capacità di scegliere arbitrariamente tra due azio-ni, e mostra come vi sia sempre un motivo che ci spinge verso l’una o verso l’altra, per dedurne che il libero arbi-trio non esiste.

Eppure, quasi tutti i negatori della libertà si riferiscono proprio a questa libertà di scelta. Spencer la definisce: il poter a piacere desiderare o non desiderare, e trova facile concludere che questa «libertà» non esiste.

Spinoza ha espresso più chiaramente di tutti questa confutazione della libertà. Egli chiama libero l’essere che segue la necessità della propria natura, e costretto quello

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che è determinato da esseri fuori di lui. Da questa defini-zione deduce che libero può essere solo Dio, mentre tutte le altre creature sono costrette, poiché dipendono da cause ad esse esterne. Gli uomini si illudono di essere liberi in quanto hanno conoscenza di ciò che li determi-na. Poiché il desiderio di una cosa è più forte di quello di un’altra, pensano di essere loro stessi a volere l’una più dell’altra, e non capiscono che è invece il desiderio stesso a determinarli.

Lo sbaglio di Spinoza sta nel fatto di non aver visto che l’uomo non solo ha coscienza del proprio agire, ma anche delle cause da cui è guidato. Ciò che fa il bambino, o l’ubriaco, non può mettersi sullo stesso piano di ciò che fa un uomo in piena coscienza, sapendo non solo che cosa fa ma anche perché lo fa. C’è una differenza fonda-mentale tra un’azione che io compio senza sapere perché, e un’altra che faccio a ragion veduta. La domanda da porre è allora questa: un motivo dell’agire, di cui io sono conscio, esercita su di me lo stesso tipo di costrizione di un processo organico, quale quello che spinge il bambino a volere il latte?

Eduard von Hartmann fa dipendere il volere umano dai motivi e dal carattere. I primi determinano l’uomo dal di fuori, il secondo dal di dentro. Uno stesso motivo suscita un’eco diversa in diversi caratteri, ma ciò non vuol dire che gli uomini sono liberi: caratteri diversi necessitano in modi diversi, e ognuno, nella sua particolare risposta agli stimoli esterni, è determinato dal proprio carattere. Anche qui, dunque, non si distingue tra motivi che sono

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stati compenetrati dalla coscienza, e quelli che io seguo senza averne una chiara conoscenza.

La domanda sulla libertà non può separarsi da quella sulla coscienza.

«Se c’è una differenza tra un motivo cosciente del mio agire e un impulso inconscio, allora il primo comporterà anche un’azione che va giudicata di-versamente da una che deriva da una spinta cieca. La questione di questa differenza è dunque la pri-ma da affrontare. Dal suo esito dipenderà il nostro modo di porci di fronte al problema vero e proprio della libertà.

Cosa vuol dire avere conoscenza dei motivi del proprio agire? Questa domanda è stata troppo tra-scurata, per il fatto che si è purtroppo sempre scis-so in due parti ciò che è un tutto indivisibile: l’uomo. Si è distinto l’uomo agente dall’uomo co-noscente, e non si è badato a ciò che è più impor-tante di tutto: l’uomo che agisce in base a cono-scenza». (p. 21)

Non basta dire che la libertà consiste nel seguire la signoria della propria ragione, oppure nell’agire secondo scopi. Bisogna vedere se la ragione e gli scopi esercitano o no lo stesso tipo di costrizione degli istinti animali. Se una deci-sione ragionevole sorge in me allo stesso modo della fame e della sete, non posso che esser costretto a seguirla.

Hamerling dice: la libertà non consiste nel poter vole-re ciò che si vuole, ma nel poterlo fare. Il volere, secondo

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lui, è determinato dai motivi. Volere senza motivo vor-rebbe dire volere senza volere. E se il motivo c’è di vole-re una cosa piuttosto che un’altra, allora è il motivo a decidere, non il volere: quest’ultimo è determinato dal più forte dei motivi. Qui di nuovo si parla di motivi in gene-re, senza distinguere tra motivi consci e inconsci. Se il più forte dei motivi esercita su di me una coercizione, cosa può importarmi se io posso o no fare ciò che sono co-stretto a volere? Se anzi la mia mente non approva ciò che sono necessitato a volere, sarò più contento se non mi è possibile farlo.

«Ciò che importa non è se io possa eseguire una decisione presa, ma in quale modo sorge in me la deci-sione». (p. 23)

L’agire l’uomo ce l’ha in comune con l’animale. Se cer-chiamo ciò che è specifico dell’azione umana non dob-biamo rivolgerci alle analogie col comportamento anima-le. Ciò che è specifico dell’uomo è il pensare: egli solo può aver coscienza delle ragioni del proprio agire.

«È del tutto evidente che non può essere libera un’azione che il suo autore compie senza sapere perché. Cosa dire invece di un’azione di cui si co-noscono i motivi? Ciò ci porta alla domanda: qual è l’origine e il significato del pensare? Infatti, senza la conoscenza dell’attività pensante dell’anima non è possibile avere un concetto di cosa sia conoscere qualcosa, perciò anche conoscere un’azione. Ve-

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nendo a sapere cosa significa in generale il pensare, sarà anche facile vedere chiaramente quale sia la funzione del pensare nell’agire umano». (p. 24-5).

Non tutte le azioni umane sono illuminate dal conscio pensare, né sono veramente umane solo queste. Il fattore del pensiero è però presente in vari gradi in tutte le azioni umane. Anche là dove diciamo che è il cuore a guidarci, si tratta in effetti di realtà che il pensare ha afferrato, e solo per questo il cuore si muove. L’amore si fonda sulla rappresentazione che ci formiamo dell’essere amato. Quando si dice che l’amore è cieco per i difetti dell’ama-to, si tratta in realtà del contrario: esso rende percettivi delle sue qualità, e perciò si accende dentro di noi.

«Possiamo considerare la cosa come ci pare: ci de-ve risultare sempre più chiaro che la questione cir-ca l’essenza dell’agire umano presuppone l’altra circa l’origine del pensare. Mi dedico perciò innan-zitutto a questo problema» (p. 26).

2. La sete innata di conoscenza

L’uomo pensa. La presenza del pensare è la prima cosa che deve attirare la nostra attenzione. Le cose che osser-viamo fanno sorgere in noi delle domande. Ciò che i sensi ci offrono non ci basta. Vogliamo capire, chiediamo una spiegazione, cerchiamo il perché.

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Il pensiero ci pone di fronte al mondo, ci rende con-sapevoli della nostra «diversità» rispetto ad esso. Diven-tiamo consci di noi stessi come distinti dalla natura. E d’altro canto, sappiamo di non essere fuori dal mondo, ma di esserne parte.

«Erigiamo questa parete divisoria tra noi e il mondo non appena si accende in noi la coscienza. Ma non ci viene mai meno la viva sensazione della nostra appartenenza al mondo. Avvertiamo che c’è un le-game che ci tiene uniti ad esso, e che non siamo un essere fuori, bensì dentro l’universo». (p. 28)

Nasce così in noi la domanda sul rapporto tra noi e il mondo. Perché ripetiamo nel nostro pensiero ciò che si svolge fuori di noi? Perché solo conoscendo e compren-dendo siamo paghi, e ci sentiamo in unità col mondo esterno?

Il problema del rapporto io-mondo ha occupato da sempre la mente umana. Le soluzioni proposte oscillano ora dalla parte dell’Io, ora dalla parte del mondo. L’uomo vuole da una parte imprimere al mondo il proprio conte-nuto di pensiero (mediante la scienza, l’arte, la religione) e dall’altra vuol fare del contenuto del mondo la ricchez-za del proprio io. Questa perenne tensione tra l’Io e il mondo ha portato al sorgere di due concezioni del reale tra loro opposte: il monismo e il dualismo. Il dualismo, nelle sue varie forme, dà per oggettiva la distinzione tra io e mondo, vedendovi un’opposizione reale. Ricerca al-lora in vari modi la ricomposizione, l’unità perduta, senza

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giungere a soluzioni soddisfacenti. Opponendo in modo radicale spirito e materia, non si vede come l’uno possa «entrare» nell’altro.

Il monismo crede di trovare una soluzione o riducen-do tutto a materia (materialismo) oppure ritenendo reale solo lo spirito (spiritualismo), oppure ancora vedendo spirito e materia congiunti già fin nell’essere del mine-rale.

Il materialismo considera reale solo la materia, e vede nel pensare un prodotto della materia stessa. Tra i tanti processi della materia c’è anche il suo produrre pensieri, ma questo processo non è qualitativamente diverso dalle altre sue manifestazioni. Questo ragionamento, però, invece di risolvere il nostro problema, non fa che spo-starlo altrove. Attribuendo il pensare alla materia, anzi-ché allo spirito, non ci dice come mai la materia si pon-ga (pensando) quesiti sul mondo (cioè su se stessa, se il mondo è materia), operando così in sé una certa «scis-sione».

Lo spiritualismo unilaterale, al contrario, tende a nega-re la realtà autonoma della natura, e a considerare come reale solo l’Io pensante, da cui tutto procede. Reale, in questa visuale, è solo ciò che è spirituale.

«Quando l’uomo rivolge la conoscenza all’ ‹Io›, co-glie dapprima l’attività di questo Io nell’elaborazio-ne pensante del mondo delle idee. Per questo mo-tivo, una visione di tendenza spiritualistica può sentirsi tentata, nel considerare la propria entità

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umana, di riconoscere dello spirituale unicamente questo mondo delle idee. È così che lo spirituali-smo si riduce a idealismo unilaterale. Non gli riesce di esplorare, attraverso il mondo delle idee, un mon-do spirituale: identifica il mondo stesso delle idee con il mondo spirituale. Ciò lo costringe, con la sua concezione del mondo, a rimanere come trasogna-to nell’ambito dell’attività stessa dell’Io». (p. 32)

Ma anche qui è chiaro il disagio, perché il mondo mate-riale non si lascia negare arbitrariamente: si impone alla nostra esperienza quotidiana nella sua realtà e autonomia. Nessun pensiero ha mai direttamente «prodotto» un og-getto materiale.

La terza ipotesi, che vede già congiunti in ogni atomo spirito e materia, non ci dice perché l’essere più elemen-tare, invece di esprimersi unitariamente (essendo unità indivisa) si esprima in modo duplice, cioè come materia e come spirito.

Dobbiamo ora riflettere: se da una parte noi col pen-siero distinguiamo noi stessi dalla natura, non è d’altra parte vero che noi apparteniamo ad essa? Noi non pos-siamo «toglierci» dal mondo. Siamo in esso e parte di esso. Il modo migliore per comprendere il rapporto fra io e natura, sarà allora di capire se e in che modo c’è in noi qualcosa che non è semplicemente «Io» (in quanto distinto dalla natura) e che precede questa distinzione. Se la natu-ra è solo fuori di noi («di fronte» all’Io che pensa) come potremo comprenderla, come potremo farla entrare den-

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tro di noi? Solo se essa è già dentro di noi (se c’è in noi qualcosa che appartiene alla natura) potremo adegua-tamente conoscerla.

«Per quanto sia vero che noi ci siamo estraniati dal-la natura, resta altrettanto vero il nostro sentimen-to di essere in lei e di appartenerle. Ciò che vive in noi non può essere che il suo stesso operare.

Dobbiamo ritrovare il sentiero che conduce a lei. Una semplice riflessione ce lo può indicare: se noi ci siamo staccati dalla natura, dobbiamo pur averne assunto qualcosa nel nostro essere. Dob-biamo allora ricercare questo essere naturale in noi, e ritroveremo così la reciproca appartenenza. È proprio questo che il dualismo non fa. Considera l’interiorità dell’uomo come un essere spirituale del tutto estraneo alla natura, e cerca una qualche giun-tura con essa. Né fa meraviglia che non trovi il le-game che cerca. Possiamo trovare la natura fuori di noi solo a condizione di saperla prima conoscere dentro di noi. Ciò che, nel nostro essere, le è affine deve farci da guida. ...

La soluzione dell’enigma ce la deve dare l’inda-gine del nostro essere. Dobbiamo giungere ad un punto in cui potremo dire: qui non siamo più esclu-sivamente ‹Io›, qui c’è qualcosa che è più che ‹Io›». (p. 33-4)

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3. Il pensare quale strumento della conoscenza

Io accompagno ogni processo che osservo con un pro-cesso interno di pensiero, fatto di concetti e di rapporti fra concetti. Non mi accontento di vedere una palla da biliardo muoversi verso un’altra, urtarla, così che la se-conda pure si metta in moto. Dentro di me sorgono con-cetti come «movimento», «velocità», «traiettoria», «durez-za», «distanza», «urto»... e solo quando stabilisco il giusto rapporto tra questi concetti sono soddisfatto, perché so di aver «capito» ciò che i miei occhi hanno osservato. La differenza che c’è tra prima di aver capito e dopo è gran-dissima.

«L’osservazione e il pensare sono i due punti di par-tenza di ogni intento spirituale dell’uomo, nella mi-sura in cui egli ne è cosciente. Tanto le attività del comune intelletto umano quanto le indagini scien-tifiche più ingarbugliate riposano su questi due pi-lastri del nostro spirito. I filosofi hanno preso l’avvio da svariate antitesi originarie: idea e realtà, soggetto e oggetto, fenomeno e cosa in sé, Io e non-Io, idea e volontà, concetto e materia, energia e materia, conscio e inconscio. È facile invece mo-strare che tutte queste antitesi devono esser prece-dute da quella di osservazione e pensare, come quella che è per l’uomo la più importante». (p. 38)

Osservazione e pensiero sono, per noi, i due soli modi di rapporto con la realtà. Tutto ciò che viene in contatto

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con noi, deve essere oggetto o di osservazione o di pen-siero. L’atto di volontà, si dirà, non è né osservazione, né pensiero. Eppure, noi non possiamo saperne nulla, all’in-fuori di ciò che, di esso, ci giunge tramite l’osservazione e il pensare. Lo stesso vale per il digerire e per ogni altra cosa (i processi della digestione che noi «immaginiamo» senza poterli osservare, devono essere o osservabili con strumenti adatti, oppure pensabili: una terza possibilità non esiste)1.

Ciò che osservo lo trovo già fatto, già precostituito. Il pensare invece viene prodotto da me. Nel pensiero non osservo nuovi processi o oggetti, ma stabilisco rapporti tra processi e oggetti osservati. Non posso mai «trovare» il pensare attuale, posso solo esercitarlo, cioè produrlo io stesso.

Anche il pensare può diventare oggetto di osservazio-ne, ma non allo stesso modo di tutti gli altri oggetti osser-vati. Questi sono già presenti prima che io li osservi e vi pensi sopra. Per il pensare non è così: perché sia accessibi-le all’osservazione (in questo caso interna) lo devo prima produrre, cioè lo devo prima pensare, e solo in un secondo momento, osservandolo, posso pensarci sopra.

Questo fatto distingue essenzialmente il pensare da ogni altra cosa: esso è l’elemento inosservato che accom-pagna ogni mia osservazione. Passa inosservato, proprio perché è prodotto da me stesso. Solo il pensare si fonda 1 Ciò presuppone un concetto ampliato di osservazione, o percezione, che Steiner preciserà in seguito, intendendo per osservazione tutto ciò che non è pensare.

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sulla mia propria attività: tutto il resto lo posso osservare o percepire in quanto esiste senza di me.

Anche il sentimento, si obietterà, dev’essere prima prodotto in me, perché io lo possa far oggetto di osser-vazione e di pensiero. Sì, prodotto in me, ma non da me. Infatti, il sentimento viene suscitato in me da qualche processo o oggetto osservato e pensato. Il pensare, inve-ce, e il concetto da esso prodotto, non viene «suscitato» in me dall’oggetto osservato, poiché non è un effetto ma un esercizio, un’attività originaria, e cioè appunto la mia propria. Ciò spiega che il concetto di un oggetto osserva-to non dice niente riguardo a me: il pensare è un’attività rivolta unicamente all’oggetto, e non al soggetto pensan-te. Certo, si può pensare anche sul soggetto pensante, ma unicamente rendendolo «oggetto» del pensiero come ogni altra cosa.2

«Quando vedo un oggetto nel quale riconosco un tavolo, non dico di solito: ‹io penso circa un tavo-lo›, ma dico: ‹questo è un tavolo›. Al contrario dirò: ‹questo tavolo mi piace›. Nel primo caso non in-tendo affatto indicare un rapporto tra me e il tavo-lo; nel secondo caso si tratta invece proprio di que-sto rapporto. Dicendo: ‹io penso a un tavolo› mi pongo già in quello stato d’eccezione descritto prima che rende oggetto dell’osservazione qualcosa

2 Più avanti Steiner fa osservare come i concetti di «soggetto» e «og-getto» provengano entrambi dal pensare stesso il quale, come tale, è oltre il soggetto e l’oggetto.

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che è sempre contenuto nella nostra attività spiri-tuale, benché non come oggetto osservato.

Proprio questa è la natura specifica del pensa-re: che il pensante disattende il pensare mentre lo esercita. Non è il pensare ad attirare la sua atten-zione, bensì l’oggetto del pensare che egli sta os-servando.

La prima osservazione che facciamo circa il pensare è perciò questa: esso costituisce l’elemento inosservato della nostra ordinaria attività spirituale» (p. 42)

Io non posso mai fare oggetto di osservazione il mio pensare nel mentre lo creo, cioè mentre lo esercito e lo produco. Queste due cose infatti si escludono a vicenda per loro natura: il produrre attivo e l’osservare contem-plativo.

Essendo noi stessi a produrre il pensare, esso ci è più intimo di ogni altra realtà. Ne conosciamo per intuizione diretta il modo di svolgimento. Il rapporto tra il lampo e il tuono lo ottengo solo mediante l’osservazione; il rap-porto tra il concetto del lampo e quello del tuono lo cono-sco immediatamente dal loro stesso contenuto. Questa chiarezza trasparente del pensare risulta dall’osservazione della nostra attività spirituale. Ciò che ci guida nel con-nettere i pensieri è il contenuto stesso dei pensieri.

Ciò che avviene nel cervello fisico mentre io penso non ha nulla a che fare con tutto questo. Ogni modifica-zione del cervello infatti ricade nel campo dell’osservabile

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e si trova, rispetto al pensare, sull’altra sponda, insieme con ogni altra realtà che è oggetto di osservazione.

Nel pensare, dunque, e solo nel pensare, sono dentro alla mia propria originalissima attività. Ogni altra cosa al mondo non è prodotta da me. «Penso dunque sono»: questo detto di Cartesio è giustificato in quanto l’esisten-za pensante è una realtà che poggia su se stessa. Gli attri-buti di tale esistenza dipenderanno dal suo rapporto con altri esseri. Ma l’esistenza umana in quanto tale riposa sull’esercizio stesso del pensare. Nel contesto del mondo, io afferro me stesso nel pensare quale mia più intima e originaria attività. Ho in me stesso il senso del mio pro-prio esistere: sono colui che pensa, sono attività pensan-te.

Il pensare e il pensare sul pensare non sono qualitati-vamente diversi. Per avere un pensare diverso dal mio dovrei diventare altro da me. Ecco un’altra prerogativa esclusiva del pensare: che per pensarci sopra non dob-biamo ricorrere a qualcosa di altro da esso, ad esso estra-neo, come avviene per ogni altra cosa.

Pensiamo sul pensiero restando nel pensiero stesso. L’oggetto della riflessione (il pensare) è qualitativamente della stessa natura della riflessione su di esso (il pensare). Con ogni altra cosa che non sia il pensare, per riflettervi sopra dobbiamo ricorrere a qualcosa (il pensare) che è qualitativamente diverso da essa. Ma in questo sta appun-to il problema: come possono essere compatibili, o com-mensurabili, o comunque rapportabili, due elementi qua-litativamente tra loro diversi!? Questa difficoltà cade nel

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caso unico del pensare stesso: è pensando che pensiamo sul pensare. Restando in se stesso, il pensare sul pensare non ha il problema del rapporto con l’altro da sé.

«Quando inserisco nella trama del mio pensare un oggetto che non ho contribuito a creare, io vado oltre ciò che osservo, e sorge la domanda: chi mi autorizza a tale trasgressione? Perché non mi ac-contento di lasciar agire l’oggetto su di me? Com’è possibile al mio pensare mettersi in relazione con l’oggetto? Tutte domande che non può evitare co-lui che riflette sullo svolgimento dei propri pensie-ri. Domande che scompaiono quando pensiamo circa il pensare stesso. Poiché non aggiungiamo nulla al pensare che gli sia estraneo, non c’è biso-gno di giustificare una tale aggiunta.» (p. 48)

Ciò ci mostra che non abbiamo altra scelta circa il punto di partenza: possiamo solo partire dal pensare. È la sola realtà che può essere compresa senza uscire da essa. Non posso digerire la digestione, non posso leggere il mio leggere, ma posso pensare il pensare. Posso pensare anche la digestione e la lettura, ma lo faccio appunto uscendo dalla digestione e dalla lettura e entrando nel pensare. Solo il pensare può essere compreso mediante se stesso.

«Questo dunque è certo: nel pensare noi teniamo per un lembo il divenire del mondo, là dove si ri-chiede la nostra partecipazione perché qualcosa

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avvenga. Ed è proprio questo il punto fondamen-tale. Il motivo per cui le cose mi si presentano co-sì enigmatiche è che io non partecipo al loro for-marsi: le trovo già fatte. Nel caso del pensare in-vece so come esso viene prodotto. Ne segue che nessun altro punto di partenza per una riflessione sul mondo è più fondamentale e originario del pensare.» (p. 49-50)

Tutte le altre cose mi sono enigmatiche in quanto io non partecipo alla loro formazione. Quanto al pensare, io so come lo si effettua: esso dev’essere il mio punto di par-tenza per una riflessione sul mondo. È come la leva di Archimede: una realtà fondata su se stessa perché la pos-so comprendere tramite se stessa. Il pensare attivo e il pensare sul pensare restano entrambi nello stesso ele-mento. Pensando sul mio pensare non posso uscire dal mio stesso pensare.

A prima vista, poiché il pensare presuppone una co-scienza umana pensante, sembrerebbe più giusto partire dalla coscienza, anziché dal pensare. Ma ciò non è vero. Per chi deve creare l’uomo, la coscienza viene prima del pensare che in essa si manifesta. Per la comprensione del mondo, invece, bisogna seguire l’ordine opposto, parten-do dalla realtà ultima e a noi più immediata, che è il pen-sare. Infatti, come posso fare qualsiasi affermazione (cioè formulare pensieri) sulla coscienza, se non mi sono prima interrogato sulla natura del pensare che esercito in quella stessa indagine?

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«Dobbiamo prima considerare il pensare in modo del tutto neutrale, senza riferimento a un soggetto pensante o ad un oggetto pensato. Soggetto e og-getto sono infatti già dei concetti elaborati dal pensare. Nessuno può smentire il fatto che prima di poter comprendere altra cosa va compreso il pensare. Chi volesse negarlo non si rende conto che, in quanto uomo, egli non è l’elemento iniziale della creazione, ma quello finale. Per una spiegazione concettuale della realtà non possiamo perciò par-tire dagli elementi del mondo che sono primi nel tempo, ma da ciò che ci è più immediato e inti-mo.» (p. 52-3)

Partiamo dunque dal pensare. Ma, e se il pensare ci in-gannasse? Se fosse errato? Chi ci garantisce che il pensare dà affidamento? Questa domanda è un pensiero sbaglia-to. Il pensare è semplice attività, è una realtà, un fatto, e come tale si trova oltre ciò che è giusto o sbagliato. La sua «applicazione», cioè il suo rapporto all’altro da sé, può essere giusto o sbagliato, non il suo essere. E il pen-sare è essere, poiché è atto costituente, è autoproduzione. L’uso del pensiero non va confuso col pensare stesso, così come l’uso che faccio di un tipo di legno è altra cosa del legno stesso. Non chiedo se il legno sia giusto o sba-gliato, ma se lo sia l’uso che ne faccio.

Ogni tentativo di riportare la dualità nel campo del pensare indica l’incapacità di afferrarne la natura unica e inconfondibile. Unicamente nel pensare l’uomo è total-

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mente attivo: non c’è residuo alcuno, offerto all’osserva-zione, tale da renderlo spettatore.

L’assoluta non dualità del pensare implica che esso è sostanziato di volontà. Sarà questo più avanti il punto di partenza per la comprensione della libertà nella sua realtà. Ciò che conta qui è che, se attività volitiva, il pensare sia voluto in tutto dall’Io, come propria attività cosciente.

Chi volesse obiettare che ciò che noi osserviamo non è la vera realtà del pensare, ma solo la sua proiezione nella coscienza (mentre la realtà stessa del pensare reste-rebbe a noi sconosciuta, o inconscia) non comprende che è l’Io stesso che, stando dentro al pensare, osserva la propria attività. L’inganno potrebbe sorgere unicamente se fosse possibile all’Io uscire fuori dal pensare.

«No: chi vuol vedere nel pensare qualcosa d’altro che non sia ciò che viene prodotto nell’ ‹Io› stesso quale attività del tutto conscia, deve prima rendersi cieco di fronte ai fatti palesi, semplici e osservabili, per poi supporre alla base del pensare un’attività ipotetica. Chi non si benda così gli occhi dovrà ri-conoscere che tutto ciò che egli ‹aggiunge› in que-sto modo al pensare lo porta fuori dall’essenza del pensare. L’osservazione imparziale mostra che all’essenza del pensare non si può attribuire nulla che non si trovi nel pensare stesso. Non si potrà mai trovare qualcosa che causa il pensare, se si esce dall’ambito del pensare.» (p. 56)

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4. Il mondo come percezione

Il nostro punto di partenza è il pensare e non (come per Hegel) i concetti e le idee che da esso provengono. Ciò che è detto del pensare, infatti, non può dirsi ugualmente dei concetti e delle idee che esso produce. Una volta pro-dotti, i concetti e le idee si offrono al pensare come og-getto su cui pensare, cioè come dato di osservazione in-terna. In questo loro offrirsi al pensare non si distinguo-no dagli altri oggetti di percezione.

D’altro canto, i concetti non sono prodotti dall’osser-vazione, ma dal pensare. L’esempio citato da Spencer è il più adatto per far comprendere il rapporto tra il pensare, l’osservazione, e i concetti. Spencer dice: io odo un fru-scio nell’erba e ne osservo l’agitarsi. Mi avvicino per ve-dere di che si tratta, e vedo una pernice alzarsi in volo. Ecco trovata la spiegazione del fenomeno del fruscio. Già tante volte infatti ho osservato come il movimento di piccoli corpi (i fili d’erba) sia concomitante al moto di altri corpi intromessi. Così considero il nuovo caso come un ulteriore esempio di un’osservazione ripetuta infinite volte, e perciò generalizzata.

Questa descrizione ignora proprio ciò che è essen-ziale. Spencer non ha riflettuto sul fatto che la percezio-ne del fruscio e del moto dell’erba mi si presenta come enigmatica. Il carattere di enigma non può essere nell’oggetto percepito, cioè non può essere una perce-zione. Nessuna percezione può causare, o produrre, il carattere enigmatico del proprio contenuto: solo l’attivi-

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tà del pensare ne può cogliere il carattere di incomple-tezza.

«Grazie alla mia riflessione mi appare chiaro che io devo considerare un fruscio come effetto. Ed è per-ciò solo quando io congiungo con la percezione del fruscio il concetto di effetto che mi sento spinto ad andare oltre l’osservazione e a ricercare la causa. Il concetto di effetto richiama quello di causa, ed io vado in cerca dell’oggetto causante, che mi si mostra sotto forma di pernice. Questi concetti di causa ed effetto non li potrò mai ottenere dalla mera osser-vazione, per quanto numerosi siano i casi a cui si estende. L’osservazione provoca il pensare, ma solo quest’ultimo mi fa da guida nel congiungere una esperienza singola con un’altra.» (p. 59)

È col pensare che io creo i rapporti tra le singole perce-zioni, e definisco una percezione come richiedente la presenza di un’altra. Il carattere di isolamento, di separa-tezza, di inesplicabilità di una percezione lo chiamo effetto; il carattere di spiegazione, di armonizzazione, di reinte-grazione lo chiamo causa. Causa ed effetto sono concetti, e come tali non sono oggetto di osservazione, bensì pro-vengono dal pensare3. 3 Se si dice che anche l’animale può restare «perplesso» di fronte a una percezione (per es. che, udendo un rumore, si rizza e resta im-mobile in attesa) ciò è perché confondiamo cose del tutto diverse. Dire che l’animale è perplesso, è usare il linguaggio in senso metafo-rico, non proprio. Ogni reazione dell’animale proviene dal suo istinto, non dal pensare, che fa cogliere il rumore come effetto, e ne ricerca la

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Possiamo ora passare dalla riflessione sul pensare all’essere pensante che è l’uomo stesso. La coscienza umana è il luogo d’incontro di osservazione e pensare. L’uomo chiama se stesso «soggetto» perché nel pensare è attivo, e chiama «oggetto» ogni contenuto di percezione, poiché di fronte ad esso egli è ricettivo. L’uomo è neces-sariamente dotato di «autocoscienza» poiché è capace di pensare sul proprio pensare e di distinguersi, nella pro-pria attività di pensiero, da tutto il resto del mondo in quanto oggetto di percezione.

La distinzione tra soggetto e oggetto proviene dunque dal pensare. Non ha allora senso dire che il pensare sia soggettivo: esso è oltre il soggettivo e l’oggettivo, poiché è esso a definire come «soggetto» l’autocoscienza, e «og-getto» il mondo esterno ad essa.

«Non va però perso di vista il fatto che solo grazie al pensare possiamo definire noi stessi come sog-getto e contrapporci agli oggetti. Perciò non si de-ve mai concepire il pensare come un’attività pura-mente soggettiva. Il pensare è al di là di soggetto e oggetto. Forma questi due concetti come forma tutti gli altri. Quando noi dunque, come soggetto pensante, rapportiamo un concetto al suo oggetto, non dobbiamo considerare questo rapporto come

causa. Infatti, dopo che l’animale è rimasto immobile per un po’ di tempo, e nulla avviene, riprende il suo comportamento come se nulla fosse successo. Non così l’uomo: egli si allarma ancora di più, perché sa che quell’effetto non può essere senza causa, e non si dà pace finché non la trova.

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qualcosa di unicamente soggettivo. Non è il sog-getto a stabilire il rapporto, bensì il pensare. Che il soggetto pensi, non lo deve al fatto di essere sog-getto: al contrario, si esperisce come soggetto in quanto è capace di pensare. L’attività che l’uomo esercita quale essere pensante non è dunque me-ramente soggettiva. Essa non è né soggettiva né oggettiva poiché va oltre questi due concetti. Non devo mai dire che il mio soggetto individuale pen-sa, poiché esso ha il suo essere grazie al pensare. Il pensare si rivela così come un elemento che mi porta oltre me stesso e mi congiunge con gli ogget-ti. Nello stesso tempo però mi separa da essi, in quanto mi pone di fronte ad essi come soggetto.

Su ciò riposa la doppia natura dell’uomo: egli pensa ed abbraccia così se stesso e il resto del mondo; ma allo stesso tempo egli deve, tramite il pensare, definire se stesso come un individuo che si contrappone alle cose.» (p. 60-1)

Viene ora spontanea la domanda: come entra l’oggetto dell’osservazione nella coscienza a unirsi al pensare? Se togliamo dall’osservazione ogni elemento che proviene dal pensare ci resta una farragine di oggetti della sensa-zione tutti «scon-nessi», perché ogni «nesso» tra loro pro-viene dal pensare (essendo il nesso un concetto, non una nuova percezione). Per definire il rapporto tra il contenu-to della percezione e il nostro soggetto cosciente è fon-damentale anzitutto questo: renderci conto che ogni nes-

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so tra una percezione e un’altra non è soggettivo, perché proviene dal pensare. In altre parole: i rapporti tra le varie percezioni non possono venir percepiti, ma solo pensati. Esprimono contenuti ideali, concettuali, non «visibili» o «tangibili» (cioè percepibili). Dicendo che i nessi tra le per-cezioni provengono dal pensare, non si intende un’attività arbitraria del soggetto pensante. Il pensare è attività intui-tiva che si esprime nel soggetto umano, ma non è soggetti-va.

Il secondo passo importante è quello di precisare, o rettificare, il concetto stesso di percezione, chiamando «percezione» ogni altra cosa, fuorché il pensare.

«Data l’oscillazione nell’uso dei termini, mi pare necessario intendermi col lettore riguardo all’uso di una parola di cui mi devo servire in seguito. Chia-merò percezioni gli oggetti immediati di sensazio-ne, di cui ho parlato prima, quali sono conosciuti dal soggetto conoscente mediante osservazione. Non il processo dell’osservazione, ma l’oggetto di tale osservazione intendo designare con questo termine.

Non scelgo il termine ‹sensazione› perché esso ha in fisiologia un significato determinato che è più ristretto di quello del mio concetto di percezione. Un sentimento in me posso senz’altro chiamarlo una percezione, ma non una sensazione in senso fisiologico. Anche del mio sentimento posso avere conoscenza in quanto diviene per me percezione.

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E il modo in cui veniamo a conoscenza del nostro pensare mediante osservazione, è tale che possia-mo chiamare percezione anche il pensare nel suo iniziale presentarsi alla nostra coscienza.» (p. 62)

Tutto ciò che non sia l’attività stessa del pensare viene offerto ad essa come oggetto di percezione. In questo non fa eccezione il pensiero pensato stesso, e con esso ogni altro oggetto di percezione introspettiva.

Tutto ciò su cui il pensare può pensare è, rispetto all’azione stessa del pensare, percezione. Proprio da questo mancato ampliamento del concetto di «percezione» pro-vengono le più grandi difficoltà della filosofia moderna.

L’uomo della strada considera reali le cose che perce-pisce. Rettifica le sue percezioni errate quando una per-cezione successiva viene ad essere in contrasto con una precedente. Che la percezione possa essere errata provie-ne dal fatto che essa dipende dai nostri organi di perce-zione e dal nostro luogo di osservazione.

La scoperta della dipendenza delle percezioni dall’orga-nismo percipiente ha portato progressivamente a negare l’oggettività delle percezioni. Sempre di più ci si è interro-gati sulla funzione del nostro apparato percettivo nell’ef-fettuarsi della percezione. Berkeley, riflettendo sulla dipen-denza delle percezioni dal nostro essere, è giunto alla con-clusione che nulla esiste all’infuori dello spirito umano e divino. Noi invece dobbiamo chiederci: è possibile deter-minare qual è la funzione del percepire stesso nel formarsi della percezione? In altre parole: cosa avviene alla perce-

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zione durante la percezione, e che cosa deve essa avere già prima di venir percepita? Ciò sposta la nostra riflessione dall’oggetto della percezione al soggetto percipiente.

Tra le cose che io posso percepire c’è anche il mio io. Non solo posso percepire l’albero davanti a me, ma so anche che sono io a vederlo. Osservando me stesso, mi accorgo che la percezione dell’albero, congiungendosi col concetto, opera qualcosa in me mentre avviene. Quando distolgo il mio sguardo dall’albero, ne rimane in me un’immagine che chiamo «rappresentazione». La rappre-sentazione è dunque una modificazione del mio io avve-nuta grazie alla percezione esterna. Essa entra nella mia coscienza per mezzo della percezione (in questo caso interna) allo stesso modo di ogni altra percezione.

«La rappresentazione io la percepisco su me stesso, allo stesso modo in cui percepisco colore, suono, ecc. su altri oggetti. Posso ora anche stabilire una distinzione, e chiamare mondo esterno questi altri og-getti che ho di fronte, e mondo interno il contenuto della mia autopercezione. Il travisamento del rap-porto tra rappresentazione e oggetto ha causato i più grossi equivoci nella filosofia moderna. La per-cezione di una variazione in noi, il mutamento av-vertito nel proprio io, è stato messo in primo pia-no, e si è perso completamente di vista l’oggetto che suscita tale mutamento. Si è concluso: noi non percepiamo gli oggetti, ma solo le nostre rappre-sentazioni.» (p. 68)

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La filosofia moderna, cioè, invece di porre sullo stesso piano la percezione introspettiva delle modificazioni del proprio io (le rappresentazioni) e le percezioni di oggetti esterni – in quanto si pongono entrambe, e ugualmente, sulla sponda del percepire che si offre all’esercizio attivo del pensare –, ha subordinato questi due ordini di perce-zione, operando tra loro una distinzione che è valida solo tra pensare e percezione. Ha visto nella rappresentazione la sola realtà accessibile alla conoscenza e ha concluso che noi possiamo percepire unicamente le nostre modifi-cazioni interne, e non gli oggetti esterni. Kant è divenuto il punto di riferimento costante di questo radicale pessi-mismo della conoscenza.

Una volta scisso il mondo della percezione in cose in sé (inconoscibili) da una parte, e rappresentazioni soggettive dall’altra, le difficoltà non fanno che moltiplicarsi. Infatti, che cosa è la rappresentazione, che viene definita come la sola conoscibile? La serie delle modificazioni provocate in noi dalla percezione della «cosa in sé» è molto complessa e tutt’altro che omogenea. Le trasformazioni della nostra realtà fisiologica, partendo dall’organo di senso, prose-guendo lungo il nervo, fino al cervello... sono molteplici. Ciò che finalmente il cervello comunica all’ «anima» non sono più processi esterni, né modificazioni dell’organo di senso, e neppure processi fisiologici all’interno del cervello stesso. La sensazione «rosso» non ha nulla in comune con ciò che avviene nelle cellule del cervello mentre io percepi-sco «rosso». Il processo nel cervello sarebbe allora la causa, e la sensazione sarebbe l’effetto prodotto nell’anima, un

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effetto di natura totalmente diversa dalla sua causa. L’ani-ma poi, per completare il ciclo, riunifica sensazioni del tutto diverse e separate proiettandole sull’oggetto esterno: il cervello le comunica separate e disperse, l’anima le rag-gruppa in oggetti, cioè in rappresentazioni.

Il grande tentativo storico dell’idealismo critico, quello cioè di dimostrare che le percezioni sono rappresentazioni, si basa su una fondamentale contraddizione. Esso afferma da una parte che le percezioni sono rappresentazioni, e dall’altra attribuisce loro un influsso reale su organi di sen-so reali, su un cervello reale, su un’anima reale. Se fosse coerente, non dovrebbe parlare di un occhio reale, di un cervello reale, di un’anima reale, ma solo delle rappresen-tazioni «occhio», «cervello», «anima». Si avrebbe unicamen-te una complessa trama di rappresentazioni, che come tali non possono avere un influsso reale le une sulle altre, non essendo esse stesse reali. Se da un lato è vero che non ci può essere percezione senza organo di senso corrispon-dente, dall’altra è anche vero che gli organi non possono essere senza le percezioni. In tutto il processo descritto, io non faccio che passare da una percezione all’altra.

Oltre a questa contraddizione, c’è nell’idealismo criti-co un salto ingiustificato da ciò che può essere verificato con l’osservazione esteriore a ciò che non può esserlo. Passando dal cervello all’anima, in cui si trova la sensa-zione, si lascia il campo di ciò che può essere osservato o verificato. Non è giustificato trattare come omogenei due campi che non lo sono, senza fornire una mediazione tra l’uno e l’altro.

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«La concezione descritta, che si definisce come idea-lismo critico in opposizione a quella della coscien-za ingenua, che essa chiama realismo ingenuo, commette l’errore di considerare una percezione come rappresentazione, e di prendere l’altra pro-prio nel senso del realismo ingenuo che si illude di confutare. Si propone di dimostrare il carattere di rappresentazione delle percezioni considerando in-genuamente come dati oggettivi le percezioni fatte sul proprio organismo, senza per di più accorgersi di confondere due campi di osservazione, tra i qua-li non sa trovare alcuna mediazione.

L’idealismo critico può confutare il realismo in-genuo unicamente in quanto considera il proprio organismo in modo ugualmente realistico e inge-nuo, come oggettivamente esistente.» (p. 77)

L’idealismo critico, per queste due ragioni, non è in grado di provare che il contenuto del mondo percepito viene operato dalla nostra costituzione: questa dovrebbe essere una rappresentazione come ogni altra. Procedendo in questo modo, esso si propone di confutare il realismo ingenuo facendolo valere a un altro livello, cioè conside-rando ingenuamente reale il proprio organismo.

Tutto ciò ci porta a concludere anzitutto che non è possibile spogliare la percezione del suo carattere ogget-tivo; che inoltre l’idealismo critico non è in grado di sta-bilire il rapporto tra percezione e rappresentazione; che infine dobbiamo seguire un’altra via per rispondere alla

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nostra domanda che chiede: che cosa deve già esser pre-sente nella percezione prima della percezione e cosa av-viene ad essa durante la percezione?

5. L’esercizio del conoscere

Se le percezioni, come vuole l’idealismo critico, sono rappresentazioni, cessa ogni interesse in esse: si vuole raggiungere la «cosa in sé» che sta dietro le rappresenta-zioni. L’indagine si sposta sulle cause (sconosciute) delle nostre percezioni-rappresentazioni.

Volendo essere coerente fino in fondo, l’idealista criti-co dovrebbe concludere che anche le «cose in sé» non possono essere che sue rappresentazioni, se nulla può essere oggettivamente fuori di lui. L’illusionismo assoluto è il risultato finale di questa via di pensiero.

«L’idealista critico può però anche arrivare a dire: io sono rinchiuso nel mio mondo di rappresenta-zioni e non posso uscirne fuori. Se concepisco qualcosa dietro le mie rappresentazioni, questo mio pensiero non può essere di nuovo che una mia rappresentazione. Questo idealista dovrà allora o negare del tutto la cosa in sé, oppure riconoscere che essa non può avere nessuna importanza per noi poiché, non potendone sapere nulla, è proprio come se non ci fosse.» (p. 82)

Il realismo trascendentale (per es. di E. von Hartmann)

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sostiene invece che, partendo dalle rappresentazioni, si possono indirettamente fare delle illazioni valide sulla cosa in sé, per via deduttiva.

Comune a queste teorie è l’errore fondamentale che consiste nell’identificare l’essere con l’essere che viene percepito (esteriormente o interiormente), attribuendo al pensare una pura funzione di strumento per tale indagi-ne. Il pensare serve allora solo a «scoprire» l’essere che gli è già precostituito, a identificare ciò che già è.

Bisogna invece chiedersi: come produce l’Io, traendolo da sé, il mondo delle rappresentazioni? Se queste vengo-no e vanno come le immagini in uno specchio, hanno valore solo in quanto ci aiutano a conoscere l’Io reale. Così dal sogno, svegliandoci, passiamo al processo reale che l’ha causato e dall’immagine speculare ci rivolgiamo all’essere reale che la produce.

In realtà, il pensare sta alle rappresentazioni proprio come il risveglio alle immagini del sogno. Una volta sve-glio, mi interesso non più del fuoco visto in sogno, ma del mal di testa che l’ha provocato. Così avviene col pen-sare: in esso ritrovo la realtà che nella percezione avevo perduto.

«Più difficile ancora si fa la faccenda quando l’illusionismo nega del tutto la realtà dell’Io-in-sé dietro le rappresentazioni, o per lo meno lo ritiene inconoscibile. A una tale convinzione può facil-mente condurre l’osservazione del fatto che il so-gno trova il suo corrispondente nella veglia (la qua-

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le consente di vagliare i sogni e di ricondurli a pro-cessi reali), mentre la coscienza di veglia non trova uno stato che le stia in un rapporto analogo. Chi la pensa in questo modo non si rende conto che esi-ste qualcosa che ha effettivamente con la percezio-ne lo stesso rapporto che l’esperienza nello stato di veglia ha col sogno. Questo qualcosa è il pensare.» (p. 85)

Il primo passo da compiere oltre il realismo ingenuo è quello di chiederci: qual è il rapporto fra pensare e perce-zione? Qualsiasi affermazione circa la percezione, infatti, la posso fare solo mediante il pensare. Se dico: le perce-zioni sono rappresentazioni, ho già formulato un proces-so di pensiero. Abbiamo visto il motivo per cui il nostro pensare normalmente ci sfugge: perchè la nostra attenzio-ne è rivolta all’oggetto. È questo che ci fa apparire la realtà percepita come compiuta in sé, alla quale il pensare non aggiunge nulla (sono «solo» pensieri dell’uomo...).

Il mondo percepito, invece, non è affatto completo senza il pensare. Il pensare fa parte della realtà stessa: è un processo reale come è reale la crescita di una pianta. Il concetto della pianta appartiene alla pianta non meno delle radici e dei rami.

È importante rendersi conto che il pensare non è qualcosa di vuoto e senza contenuto concreto, una pura astrazione senza sostanza che non aggiunge alcunchè di reale alle cose esterne, le quali invece avrebbero l’essere nel senso pieno. La ragione per cui consideriamo il pen-

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sare come non sostanziale, è che difficilmente riusciamo a farci un’idea di cosa sia la percezione senza il concetto. Nella pura percezione avremmo unicamente una farragi-ne di elementi dispersi senza alcun contenuto. Col sorge-re dei concetti accanto alle percezioni, queste acquistano contenuto, trovano significato. Nella percezione non percepiamo la «tal» cosa (cioè la sua identificazione, fatta per via di distinzione e paragone), bensì un elemento che è enigmatico per la sua singolarità, e che chiede spiega-zione («che cos’è?»). Il carattere enigmatico delle cose proviene dunque dal loro isolamento, dallo stato di sepa-ratezza proprio della percezione. Spiegare, rendere com-prensibile, «dar ragione» di una cosa vuol dire aggiungere alla percezione il concetto che la ricolloca di nuovo nell’insieme, attribuendole il suo posto. Noi ricompo-niamo dunque col pensare ciò che separiamo con la per-cezione.

Da due parti opposte vengono a noi le cose: nella loro separatezza attraverso la percezione, nella loro apparte-nenza reciproca attraverso il pensare. Il pensare ci rende capaci di intuizioni, così come la percezione ci rende capaci di osservazione.

«Non è dovuto agli oggetti che essi ci siano dati in un primo tempo senza i concetti corrispondenti, bensì alla nostra configurazione spirituale. Il nostro essere complessivo funziona in modo tale che, per ogni oggetto della realtà, i relativi elementi gli giun-gono da due lati distinti: quello del percepire e quello

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del pensare. Non ha nulla a che fare con la natura delle cose il modo in cui io sono costituito onde afferrarle. La scissione tra percezione e pensare compare solo nel momento in cui io, quale osser-vatore, mi pongo di fronte alle cose. Quali elemen-ti appartengono alle cose e quali no, non può però in alcun modo dipendere dal modo in cui io ne ot-tengo conoscenza.» (p. 88-9)

L’oggetto dell’osservazione non è la cosa, ma la cosa da noi «decosificata», in quanto la percezione la strappa dal suo contesto che, solo, può darle contenuto d’essere. Ogni percezione mi dà solo un’istantanea casuale, colta in un processo di continua trasformazione. Il fiore che per-cepisco oggi è diverso da quello percepito ieri. Come posso dire, di ciò che percepisco in un dato momento, questa è la cosa? Neppure la somma delle successive percezioni può essere considerata la cosa, perché il fiore che percepisco in tanti momenti successivi alla fine non c’è più. Resta la specie, per es. il «giglio», che è un concetto.

L’uomo è un essere limitato nello spazio e nel tempo. È un essere tra esseri. Può percepire solo una parte limi-tata dell’universo. Ma ogni parte è unita con il resto: non esistono cose separate o isolate. È dovuto proprio alla nostra limitatezza che ci appaia come isolato e singolo ciò che non lo è. Per noi è necessario trar fuori dal mondo certi elementi e considerarli in se stessi, isolatamente. L’occhio può solo percepire un colore dopo l’altro. Que-sto isolare è dunque un atto soggettivo, dovuto al fatto

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che noi non ci identifichiamo con il tutto, ma siamo un essere tra esseri.

È col pensare che noi definiamo il rapporto tra il no-stro stesso io e gli altri esseri: congiungiamo la percezione di noi stessi col concetto del nostro io. L’autopercezione mi mostra limitato, ma il pensare in me non ha nulla a che vedere con questi limiti. Sono dunque un essere a due dimensioni: limitato nella mia personalità (nella per-cezione, nel sentimento) e portatore di un’attività univer-sale che definisce il mio essere stesso.

«Il nostro pensare non è individuale come la sensa-zione e il sentimento: è universale. Riceve un’im-pronta individuale in ogni singolo uomo solo per il fatto che è in relazione col suo sentimento e con le sue impressioni individuali. Sono queste sfumature particolari del pensare universale che distinguono fra loro i singoli uomini. Un triangolo ha un unico concetto. Per il contenuto di tale concetto è indif-ferente che lo concepisca il portatore di coscienza umana A oppure B. Viene però afferrato da cia-scuno dei due in un modo individuale.» (p. 90)

Il pensare ricongiunge anche la nostra personalità limitata (in quanto individualità particolare) con il cosmo, in un tutto unitario. Qui è il fondamento della doppia natura dell’uomo: in lui si esprime una forza assoluta e universale, ma lui si trova non al centro dell’universo, ma a un punto della periferia, e deve conquistarsi tutto il resto tramite quella realtà universale. Da qui la sete di conoscenza.

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La percezione non è allora qualcosa di completo in sé, ma è solo un lato della realtà: l’altro lato è il concetto. Il conoscere è la sintesi di percezione e concetto.

Non ci può essere altro che sia comune agli esseri sin-goli oltre al contenuto ideale ottenuto col pensare. Non esiste alcuna «unità» del mondo percepibile.

«Le considerazioni precedenti dimostrano che è as-surdo cercare qualcosa di comune tra gli esseri sin-goli del mondo che non sia il contenuto ideale of-fertoci dal pensare. Ogni tentativo di trovare qual-che altra unità del mondo oltre a questo contenuto ideale in sé armonioso, raggiunto col pensare ap-plicato alle nostre percezioni, è destinato a fallire. Non un dio personale al modo umano, non l’ener-gia o la materia, non la cieca volontà (di Schopen-hauer) possono valere come unità universale del mondo. Queste realtà appartengono tutte a una da-ta sfera circoscritta della nostra osservazione. La personalità umanamente limitata la percepiamo so-lo in noi stessi, energia e materia nelle cose fuori di noi. Quanto alla volontà, essa può unicamente considerarsi come la manifestazione dell’attività della nostra personalità limitata.» (p. 92)

Un pregiudizio difficile a vincersi è quello che il pensare sia astratto, senza contenuto concreto, in grado di dare una pura immagine ideale del mondo, ma non il mondo stesso. Ciò perché non si comprende cosa sia la perce-zione senza il concetto: una realtà senza alcun contenuto!

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Nessun elemento della percezione, come tale è più o meno importante di un altro. È il pensare che conferisce il contenuto, che assegna ad ogni cosa il suo posto e la sua funzione.

«È il pensare che porta questo contenuto incontro alla percezione, traendolo dal mondo di concetti e idee dell’uomo. Contrariamente al contenuto di percezione, che ci vien dato dall’esterno, il conte-nuto di pensieri sorge all’interno. La forma in cui a tutta prima si presenta, possiamo chiamarla intui-zione. Essa è per il pensare ciò che l’osservazione è per la percezione. Intuizione e osservazione sono le fonti del nostro conoscere. Di fronte ad una co-sa che osserviamo nel mondo ci sentiamo estranei, finché non sgorga dentro di noi l’intuizione corri-spondente che ci restituisce quella parte della realtà che manca alla percezione.» (p. 95)

Spiegare, rendere comprensibile una cosa vuol dire ricol-locarla nel contesto dal quale è stata strappata dalla per-cezione. La percezione isola (e in questo modo «mente»); il pensare ricongiunge (e in questo modo «dice la verità»).

Dopo aver riconosciuto la natura assoluta del pensare, possiamo ritornare alla nostra domanda: qual è il signifi-cato della percezione? Cosa avviene quando percepisco, per esempio, il colore rosso? Quel colore si trova su un dato oggetto che ha altre qualità percepibili, e che è circon-dato da altri oggetti percepibili. Posso seguire poi ciò che avviene nell’occhio che percepisce il rosso, ciò che avviene

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nel cervello... Non faccio che passare da una percezione all’altra. Ciò che collega tutte queste percezioni è il pensa-re: i rapporti sono ideali, sono cioè concetti. Non li pos-siamo percepire: li possiamo solo pensare. Tra percezione e percezione non «passa» nulla di percepibile: ci sono solo rapporti concettuali. Posso percepire una percezione che segue immediatamente un’altra, ma non posso percepire come una percezione proceda dal non percepibile.

«Non possiamo dire che, oltre a ciò che percepia-mo direttamente, ci sia altro che non sia ciò che viene conosciuto mediante le corrispondenze ideali fra le percezioni (che vanno colte col pensare). Il rapporto tra gli oggetti della percezione e il sogget-to percipiente è dunque, in quanto va oltre il sem-plice percepito, puramente ideale, cioè esprimibile solo in concetti. Solo nel caso in cui io potessi per-cepire il modo in cui il percepito agisce sul perci-piente, o se potessi viceversa osservare in che mo-do il soggetto forma l’immagine percettiva, solo al-lora potrei parlare come fanno la fisiologia moder-na e l’idealismo critico fondato su di essa. Tale concezione confonde un rapporto ideale (tra l’og-getto e il soggetto) con un processo di cui si po-trebbe parlare solo se fosse percepibile. L’affer-mazione: ‹niente colore senza occhio che percepis-ca colori› non può dunque voler dire che l’occhio produce il colore, ma unicamente che c’è un rap-porto ideale, conoscibile tramite il pensare, tra la

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percezione ‹colore› e la percezione ‹occhio›. Tocche-rà alla scienza empirica stabilire in che modo le ca-ratteristiche dell’occhio e quelle dei colori si corri-spondono, con quali dispositivi l’organo della vista trasmette le percezioni dei colori, e così via. Io pos-so osservare come una percezione segue a un’altra, come sia spazialmente in rapporto con altre, e for-mulare tutto ciò con un’espressione concettuale. Ma non posso percepire come una percezione proceda dall’impercepibile. Devono necessariamente fallire tutti i tentativi di trovare tra le percezioni dei rap-porti che non siano pensieri.» (p. 97-8)

Che cos’è allora la percezione? Questa domanda, così posta, non ha senso. La percezione non può essere qual-cosa in sé, ma può essere qualcosa solo fuori e oltre se stessa, cioè appunto per il pensare. Ciò vuol dire che non si può parlare di soggettività della percezione (la soggetti-vità è un concetto, e viene non dalla percezione, ma dal pensare). «Soggettive» si possono dire unicamente le per-cezioni fatte sul soggetto. Una di queste è la rappresenta-zione.

«L’osservazione del tavolo ha prodotto in me un’alterazione, essa pure permanente. Io conservo la capacità di riprodurre in seguito un’immagine del tavolo. Questa facoltà di rievocare l’immagine rima-ne congiunta con me. La psicologia chiama questa immagine ‹rappresentazione mnemonica›. Essa è invece la sola cosa che rettamente può chiamarsi

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rappresentazione del tavolo. Corrisponde infatti alla modificazione percepibile del mio proprio stato dovuta alla presenza del tavolo nel mio campo vi-sivo. Non indica affatto la modificazione di un cer-to ‹io in sé› che si trovi dietro il soggetto percipien-te, ma la modificazione del soggetto percepibile stesso. La rappresentazione è dunque una perce-zione soggettiva, contrapposta alla percezione og-gettiva che avviene in presenza dell’oggetto nel campo percettivo. La confusione fra la percezione soggettiva e quella oggettiva conduce all’errore dell’idealismo che dice: il mondo è una mia rappre-sentazione.» (p. 99-100)

Avendo precisato dove va ricercata la rappresentazione, ci resta da stabilirne il concetto. Solo con questo potremo comprendere il rapporto fra rappresentazione e oggetto, cioè fra il soggetto umano e il mondo.

L’analisi del conoscere fin qui descritta non ha lo sco-po di confutare errori altrui, ma quello di confutare se stessi, in quanto ciascuno di noi, riflettendo sul proprio pensare, si irretisce inizialmente in un gomitolo, tutto ingarbugliato. Solo in un secondo momento ci si rende conto che la «cosa in sé» è un puro doppione del realismo ingenuo: con essa si inventa un secondo mondo, «dietro» il primo, che è però essenzialmente «pensato» come il primo.

«Si può sfuggire alla confusione in cui ci si caccia con la riflessione critica condotta in questa dire-zione, unicamente rendendosi conto che, entro ciò

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che si può sperimentare e percepire in sé e fuori di sé, esiste qualcosa che non può sottostare alla fata-lità che tra il dato e l’uomo contemplante si frap-ponga la percezione. E questo è il pensare. Rispetto al pensare l’uomo può fermarsi al punto di vista del realismo ingenuo.» (p. 103)

6. L’individualità umana

La distinzione, operata dal pensare, tra il soggetto cono-scente e le cose conosciute, deve dal pensare stesso venir di nuovo risolta. Se ciò non avviene, quella distinzione viene radicalizzata al punto da divenire separazione (im-maginata alla stregua di una discontinuità percepibile, o di un vuoto fisico frapposto fra due cose visibili). In questa prospettiva la conoscenza è allora concepita come una specie di actio in distans esercitata sul conoscente dalla cosa conosciuta.

Il problema della corrispondenza tra le rappresenta-zioni e le cose rappresentate si risolve comprendendo che il soggetto, pur non essendo le cose, appartiene però, insieme con esse, allo stesso unico mondo. In quanto oggetto di (auto)percezione, il soggetto è sottoposto alle stesse leggi che vigono fuori di esso. La possibilità di rapporto, o di compatibilità, tra i due non consiste dun-que in un supposto reciproco «influsso» che «passi» dall’u-no all’altro, ma si fonda sulla comune appartenenza allo

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stesso mondo e alle sue leggi. Il soggetto percepibile è un frammento del globale e unitario evento cosmico: le leggi che vigono dentro la sua pelle sono le stesse che vigono fuori di essa.

Il fatto che un processo elettrico sia percepito dal mio occhio come luce, non mi autorizza a concludere che, se non ci fosse il mio occhio, quel processo consterebbe di soli moti meccanici. Perché mai la percezione di un mo-vimento dovrebbe essere di altra natura della percezione della luce? Sono entrambe ugualmente percezioni, e non è affatto giustificato chiamare oggettiva la percezione del movimento e soggettiva quella luminosa.

Siamo qui ricondotti alla verità fondamentale: il rap-porto tra percezione e rappresentazione non si potrà mai stabilire per via di analisi del campo della percezione stes-sa, cioè passando da una percezione a un’altra. Questo rapporto infatti, giova ripeterlo, non è percepibile, ma solo pensabile. In altre parole, non si può comprendere il rapporto tra percezione e rappresentazione tenendo con-to solo di esse: bisogna rivolgersi al pensare.

Non appena sorge in me una percezione, ad essa si congiunge subito un concetto elaborato dal pensare. La rappresentazione è un concetto che è stato congiunto con una particolare percezione. Il concetto non è prodot-to dalla percezione, ma dal pensare che si congiunge con la percezione. La rappresentazione è allora un concetto che ha acquistato un carattere individuale in quanto riferi-to a una determinata percezione.

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«La rappresentazione non è altro che un’intuizione riferita a una determinata percezione, un concet-to che è stato congiunto nel passato con una per-cezione e che conserva il riferimento a quella per-cezione. Il mio concetto di un leone non lo for-mo traendolo dalle mie percezioni fatte sui leoni. La mia rappresentazione del leone invece si for-ma secondo la percezione. Posso comunicare il concetto di un leone a qualcuno che non ne ha mai visti. Ma non riuscirò mai a comunicargliene una viva rappresentazione senza la sua diretta percezione.

La rappresentazione è dunque un concetto in-dividualizzato.» (p.107)

Il rapporto all’oggetto concreto della percezione fa ora parte del concetto divenuto rappresentazione, ed è que-sto che ci consente di «riconoscere» lo stesso oggetto quando lo percepiamo di nuovo.

«La rappresentazione si pone dunque tra percezio-ne e concetto. È il concetto determinato, con rife-rimento alla percezione.» (p. 107)

La ricchezza dell’esperienza di una persona dipende dalla sua capacità di formare rappresentazioni. Ciò suppone un percepire che sia vasto, suppone poi un pensare che sia fecondo di intuizioni, e suppone in terzo luogo la capacità di unificare percezioni e concetti in rappresen-tazioni viventi. Senza questa unificazione le percezioni

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resterebbero un mondo fuggevole senza significato, le intuizioni sarebbero vuota speculazione senza rapporto con la vita.

Se in noi si svolgesse unicamente un processo cono-scitivo, avremmo solo delle percezioni, dei concetti e delle rappresentazioni. Ma noi rapportiamo la percezione, oltre che al concetto, anche a noi stessi: perciò c’è in noi, oltre che il pensare, anche il sentire.

«Come percezione e concetto ci si presenta la real-tà; come rappresentazione, la riproduzione sogget-tiva di tale realtà. Se la nostra persona si esprimesse unicamente nel conoscere, l’intero mondo oggetti-vo si esaurirebbe nella percezione, nel concetto e nella rappresentazione.

Noi però non ci accontentiamo di collegare, mediante il pensare, la percezione con il concetto, ma la colleghiamo anche con la nostra soggettività particolare, col nostro io individuale. L’espressione di questo rapporto è il sentimento, che si esprime in piacere e dispiacere.» (p. 108)

Col solo processo conoscitivo saremmo inseriti in un continuo senza interruzione, saremmo indifferenti a noi stessi. Ma così non è: le percezioni suscitano in noi gioia o dolore, simpatia o antipatia. Esse trovano cioè in noi un’eco personale e individuale: ciò fa di ciascuno di noi un individuo che si distingue nel suo essere interiore dal mondo esteriore. Il sentimento fa di noi perciò un essere individuale.

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Il fatto che il sentimento ci dia la possibilità di vivere la nostra realtà soggettiva, non lo rende più reale o più importante del pensare. È solo e di nuovo col pensare che congiungo quella percezione di me (che chiamo sen-timento) col suo concetto, il quale la inserisce nell’in-sieme unitario del mondo. Ogni «valore» (anche del sen-timento) è stabilito dal pensare, non dal sentimento.

Si delineano in questo modo due sponde opposte per il nostro essere nel mondo: da una parte il processo uni-versale del pensare (che, se diviene esclusivo, ci fa perde-re quasi del tutto il sentimento di sé), e dall’altra la pro-pria vita personale e individuale (che, portata all’estremo, ci fa perdere ogni contatto con l’essere e col divenire del mondo). La crescita della nostra personalità sta proprio nel risolvere questa antinomia, secondo la quale il cresce-re di una dimensione porta il decrescere dell’altra. Più noi congiungiamo la nostra vita e il nostro sentimento indi-viduale con le sfere più universali e più alte del pensiero, più operiamo la sintesi tra universalità e individualità.

Il nostro modo di essere individuali nel pensare è di-verso dal nostro essere individuali nel sentimento. Ciò che dà alla vita dei concetti un carattere individuale sono le rappresentazioni, in quanto formate da percezioni che variano da persona a persona: ognuno percepisce il mon-do da un punto di osservazione diverso. Nel sentimento invece siamo individuali grazie alla costituzione unica e particolare del nostro proprio organismo. Possiamo allo-ra dire che è solo grazie al sentimento che i concetti ac-quistano vita concreta.

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«Una vita di sentimento del tutto vuota di pensiero è destinata a perdere a poco a poco ogni connes-sione con il mondo. Colui che mira ad essere uni-versale nel suo essere, accompagnerà la formazione e l’evoluzione della vita affettiva con una penetra-zione conoscitiva delle cose.

Il sentimento è la realtà che consente ai concetti di acquistare vita concreta.» (p. 110-1)

7. Il nostro conoscere ha dei limiti?

Ogni dualismo si fonda sulla distinzione reale tra sogget-to conoscente e oggetto conosciuto. Esso non vede che questa distinzione è solo un momento provvisorio del nostro conoscere, corrispondente alla percezione, la qua-le, invece di inserirci nella realtà, ci porta fuori di essa.

La visione unitaria del mondo risolve tramite il cono-scere stesso ogni scissione causata dal soggetto conoscen-te. Il dualismo si rivela un’ illusione non appena com-prendiamo che tanto la «cosa in sé», quanto il soggetto conoscente, sono dapprima e ugualmente percezioni.

«Stando alla nostra esposizione, è dovuto alla natu-ra della nostra costituzione spirituale che una cosa particolare ci possa venir data unicamente come percezione. Il pensare supera poi la separazione as-segnando ad ogni percezione il suo giusto posto

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nell’universo. Mentre le parti disgiunte del mondo vengono designate come percezioni, noi seguiamo semplicemente, in questo dissociare, una legge del nostro essere soggettivo. Se consideriamo invece la somma totale delle percezioni come una delle parti, a cui aggiungiamo l’altra delle «cose in sé», allora fi-losofiamo per aria. Ci troviamo in un puro gioco di concetti. Costruiamo un dualismo artificiale, ma non riusciamo a trovare alcun contenuto per la se-conda metà, poiché per ogni singola cosa esso può venir ricavato unicamente dalla percezione.» (p. 113)

La «cosa in sé», che la tradizione kantiana vuole incono-scibile, è concepita essenzialmente come un oggetto di percezione. La sua dichiarata inconoscibilità proviene dal fatto che ad essa vengono arbitrariamente attribuite alcu-ne (e solo alcune!) delle caratteristiche più generali del mondo percepibile (per es. il movimento, l’occupazione di luogo fisico, ecc.). Ciò avviene perché si concepisce il pensare al modo della percezione, cioè come un «guarda-re davanti a sé», un osservare che identifica, separandolo dal resto, l’oggetto della propria osservazione.

Ogni dualismo, stabilendo il principio dell’inconosci-bilità della cosa in sé, pone alla conoscenza umana dei limiti invalicabili e finisce in una forma o in un’altra di rassegnato agnosticismo. Ma dobbiamo ora chiederci: quali possono mai essere i limiti della conoscenza umana? Il conoscere non è un affare che riguarda il mondo in generale: è una realtà che l’uomo vive con se stesso. Le

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cose non richiedono spiegazione. È l’uomo che chiede una spiegazione delle cose, in quanto nel primo momen-to dell’atto conoscitivo, nella percezione, egli isola dei frammenti del mondo dal loro contesto unitario, renden-doli così enigmatici.

I quesiti del conoscere provengono dunque non dalle cose, ma dall’uomo stesso, in quanto dotato di pensiero. Sono tutti a sua misura, e da lui risolvibili. Se si fa una domanda a cui non è possibile rispondere, vuol dire che la domanda stessa non è chiara.

«Il seguace di una concezione monistica sa che tut-to ciò che gli occorre per spiegare un dato feno-meno del mondo deve trovarsi nel mondo stesso. A impedirgliene l’accesso possono essere unica-mente delle limitazioni o dei difetti accidentali, di natura spaziale o temporale, propri della sua orga-nizzazione: non dell’organizzazione umana in ge-nerale, dunque, ma della sua individuale in partico-lare...

I presupposti per l’attuazione del conoscere so-no perciò mediante l’Io e per l’Io. È l’Io che pone a se stesso le domande del conoscere. Le trae dall’elemento del pensare, che è in sé del tutto chiaro e trasparente. Se ci poniamo delle domande a cui non possiamo rispondere, vuol dire che il contenuto della domanda non è chiaro e distinto in tutte le sue parti. Non è il mondo che ci pone le domande: le poniamo noi stessi.» (p. 115-6)

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L’opposizione tra soggetto e oggetto, che ha senso solo nel campo della percezione, viene dal dualismo resa asso-luta. Di due realtà (soggetto e oggetto) egli ne fa quattro: l’oggetto in sé, la percezione che il soggetto ne ha; il sog-getto, e il concetto che riferisce la percezione all’oggetto in sé. Il rapporto tra soggetto e oggetto è concepito come reale in quanto deve constare di un influsso dinamico (inconoscibile, ma essenzialmente uguale a ogni fenome-no percepibile). Noi veniamo a conoscere unicamente la reazione interna a quel rapporto, e cioè la percezione.

Il dualista, in altre parole, è convinto che, qualora egli non ponga dei rapporti reali (percepibili) tra le cose, oltre a quelli «puramente» concettuali, il tutto sfumi in una trama di concetti che non ha sostanza, che non è «reale».

«Il dualista crede che il mondo intero gli si volati-lizzi in una ragnatela astratta di concetti, se non stabilisce dei rapporti reali tra le cose, oltre a quelli concettuali. In altre parole: i principi ideali intuiti col pensare appaiono al dualista troppo evanescen-ti, e ricerca in aggiunta dei principi reali, che diano fondamento ai primi.» (p. 118)

Quali sono questi «principi reali» che il dualista si vede costretto a stabilire?

Il realista ingenuo parte dal presupposto che il perce-pibile è reale, e viceversa che ogni reale è tale in quanto è percepibile. I concetti e le idee non sono reali per lui: non aggiungono nulla alla «vera» realtà. Come conseguenza, dovunque il realista ingenuo pensa di aver a che fare con

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realtà non percepibili, le immagina come percepibili, sia nel campo dell’essere, sia in quello del divenire, e sia an-che in quello della causalità. Consideriamo gli esempi più importanti. L’anima dell’uomo, gli spiriti (angeli, demo-ni), «Dio» stesso, sono concepiti come sostanze finissime (che noi non percepiamo a causa della rozzezza dei nostri sensi, ma che sono per natura percepibili). Ogni tipo di influsso si può avere solo se c’è qualche «forza» cha passa da un essere all’altro: la vista si ha grazie alla materia fi-nissima che dall’oggetto entra nell’occhio; la rivelazione non può che avvenire in modo percepibile ai sensi (un Dio solo «pensato» non è un Dio reale); nel processo del conoscere, le cose producono nell’anima un’impronta, oppure emettono immagini che entrano nell’anima; l’ere-ditarietà consiste in qualcosa di «reale» che si «trasmette», che passa dal genitore al figlio.

Il realista ingenuo immagina dunque dappertutto delle forze invisibili che si trasmettono da un essere all’altro. Sono forze ipotetiche, in quanto non vengono percepite, ma sono immaginate con caratteristiche che sono proprie del percepibile.

La scienza, in questa visuale, non è altro che descri-zione del contenuto della percezione. I concetti sono dei puri strumenti per questa descrizione, senza significato per la realtà delle cose.

La contraddizione in cui si trova il realismo ingenuo è che il tulipano percepibile, che lui chiama la cosa reale, oggi c’è e domani non c’è più. Al contrario permane la specie, che per lui è solo un concetto astratto, privo di

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realtà. Per questo ricorre alle forze invisibili che da un essere si trasmettono al seguente o successivo.

Il realismo metafisico prosegue nella stessa direzione, costruendo accanto alla realtà percepibile un’altra in teo-ria non percepibile, ma di natura identica. Non compren-de che per i rapporti tra le cose la sola forma di esistenza è il concetto (questo per lui non è reale).

Tutte queste «forze», come si vede, sono un puro e gra-tuito postulato. Percepibili non sono, e per chi ammette come vero solo il percepibile dovrebbero considerarsi come invenzioni che non corrispondono a nulla di reale.

I rapporti tra le percezioni sono solo pensabili, non a loro volta di nuovo percepibili: in questo caso sarebbero di nuovo percezioni, e non rapporti fra percezioni. Ciò vale anche per il rapporto tra conoscere e oggetto cono-sciuto: un rapporto fatto di forze percepibili che si co-municano dall’oggetto al soggetto spiegherebbe (suppo-nendo che esse esistano) la loro percepibilità, non la loro conoscibilità.

Al dualismo del realismo ingenuo e del realismo meta-fisico si contrappone la visione unitaria del mondo (mo-nismo). Essa armonizza il realismo unilaterale (ancorato al mondo della percezione) e l’idealismo (ancorato alla «cosa in sé») in una sintesi superiore.

«Per il realismo ingenuo il mondo reale è una som-ma di oggetti di percezione. Per il realismo metafi-sico, oltre alle percezioni, sono reali anche le forze impercepibili. Il monismo pone al posto delle forze

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i nessi ideali che intuisce col pensare. Questi nessi sono appunto leggi naturali. Una legge naturale in-fatti non è nient’altro che l’espressione concettuale del rapporto che vige tra date percezioni.

Il monismo non si vede mai indotto a ricercare ulteriori principi esplicativi della realtà al di fuori di percezione e concetto. Sa che in tutto l’ambito del-la realtà non se ne trova motivo alcuno. Ravvisa nel mondo percepito, quale offerto all’immediata per-cezione, una realtà monca: solo ricongiungendola col mondo dei concetti trova la realtà integrale.» (p.

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Il realismo metafisico dirà: a te la tua conoscenza pare completa in se stessa. Ma come vede il mondo un altro essere diverso da te, con altri organi più perfetti dei tuoi? La risposta è: qualsiasi cosa io possa sapere di questo essere deve avvenire tramite percezione e concetto, e non ho perciò mai bisogno di andare oltre queste due facoltà. Esseri diversi da noi possono operare la scissione tra percepito e pensato in altri punti, e perciò rifare la sintesi in punti diversi.

«Solo per il realismo ingenuo e metafisico, che ve-dono entrambi nel contenuto della mente una pura rappresentazione ideale del mondo, sorge il pro-blema dei limiti della conoscenza. Per essi, ciò che si trova fuori del soggetto è una realtà assoluta fondata su di sé: il contenuto del soggetto ne è un’immagine, ad essa del tutto esterna. La perfe-

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zione della conoscenza dipende dalla più o meno perfetta somiglianza dell’immagine con l’oggetto assoluto. Un essere con sensi meno numerosi di quelli dell’uomo percepirà meno del mondo, uno invece che ne ha di più percepisce di più. Il primo avrà quindi una conoscenza meno perfetta che non il secondo.

Per il monismo la cosa sta in altro modo. È la costituzione dell’essere percipiente a determinare dove e in quale forma il continuo universale appare scisso in soggetto e oggetto. L’oggetto non è assolu-to, bensì relativo: relativo a questo soggetto partico-lare. La risoluzione dell’antitesi può dunque avveni-re essa pure unicamente nel modo specifico e pro-prio del soggetto umano stesso. Non appena l’Io, che nel percepire è separato dal mondo, si reinseri-sce nel contesto unitario per mezzo della riflessione pensante, cessa ogni ulteriore interrogativo, che era una pura conseguenza della separazione.» (p. 125-6)

Un altro problema che incontra il realismo metafisico è quello di spiegare la somiglianza tra i contenuti delle varie coscienze umane. Esso ricorre all’induzione: osservando che difatti gli uomini si capiscono a vicenda, e che ciò avviene in infiniti casi, giunge alla conclusione dell’affini-tà tra i contenuti delle coscienze. Ora, il metodo indutti-vo si fonda sulla percezione, ed è per natura soggetto a correzione in base a nuove percezioni che si scostino dalle precedenti. Ciò che il realismo metafisico compie, in

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questa prospettiva, è di fare illazioni sulla cosa in sé fon-dandosi su un numero sufficiente di percezioni. Le sue conclusioni possono avere un valore solo condizionato, in quanto dipendono essenzialmente dalla percezione. Col modificarsi di questa, o per un essere la cui percezio-ne è del tutto diversa dalla nostra, esse perdono la loro validità.

Il numero dei sensi dell’uomo è limitato. Oltre il rosso e il violetto ci sono colori che egli non percepisce. Non sarebbe diverso il mondo da lui conosciuto se avesse altri sensi? La risposta a questa domanda è che nuovi sensi ci darebbero nuove percezioni, non nuova realtà. Non ci darebbero più cose conosciute, ma più cose da conosce-re. Non aumenterebbero il nostro entrare nella realtà, bensì il nostro uscire da essa, rendendo necessario il pen-sare che ci riconduce in essa.

La fisica, proprio perché la percezione dell’uomo è limi-tata, si vede indotta a dedurre degli elementi che non sono ancora percepiti dai nostri sensi, ma che sono per natura percepibili. Ciò è giustificato, ed è tutt’altra cosa che stabilire degli esseri ipotetici che sono immaginati come esseri percepibili, ma che per natura non lo sono.

Da queste riflessioni si comprende che il concetto di percezione, se compreso nella sua natura, deve venire am-pliato, così da abbracciare non solo le percezioni esterne e sensibili, ma anche quelle interiori e spirituali, cioè tutto ciò che si offre al pensare. Solo nel caso del pensare ciò che percepiamo interiormente è la sua realtà stessa viven-te e spirituale.

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SECONDA PARTE:

LA REALTÀ DELLA LIBERTÀ

8. I fattori della vita

Il mondo si presenta all’uomo come una somma di esseri singoli: uno di questi è egli stesso. In quanto «dato», ogni cosa è oggetto di percezione. Nel mondo della percezio-ne percepiamo anche noi stessi.

La percezione di noi stessi sarebbe come tutte le altre, se noi non scoprissimo, in seno ad essa, qualcosa che ordina tutte le percezioni (compresa quella del proprio io) affidando a ciascuna il suo posto nella realtà. Questo qualcosa non è pura percezione, né, come le altre perce-zioni, è puramente dato: viene prodotto attivamente. Nep-pure è solo soggettivo: va oltre il soggetto, stabilisce i concetti di soggetto e oggetto, e definisce la funzione del soggetto nell’ordinamento del mondo! Questo qualcosa è il pensare.

In questo modo noi percepiamo noi stessi come esse-re pensante. Se avessimo solo, di noi stessi, questo con-cetto ideale, saremmo del tutto indifferenti a noi stessi. Il contenuto del nostro soggetto si esaurirebbe nell’attività conoscitiva.

«Ma questa ipotesi non corrisponde ai fatti. Noi non riferiamo le percezioni a noi stessi solo in

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modo ideale mediante il concetto, ma anche me-diante il sentimento, come abbiamo visto. Non siamo quindi degli esseri con contenuto vitale uni-camente concettuale. Il realista ingenuo vede anzi nella vita del sentimento una vita della personalità più reale che non l’elemento puramente ideale del sapere. E dal suo punto di vista ha pienamente ragione di vedere la cosa in questo modo. Dal lato soggettivo il sentimento è proprio ciò che la per-cezione è dal lato oggettivo. Secondo il principio fondamentale del realismo ingenuo, che tutto ciò che si può percepire è reale, il sentimento è per-ciò la garanzia della realtà della propria persona.» (p. 138)

In una concezione monistica, invece, il sentimento è una percezione come ogni altra: il suo contenuto o significato deve riceverlo dal pensare. È il pensare che ci dà il con-cetto dell’Io. Poiché, nella crescita della persona, il senti-mento precede il pensare, il realista ingenuo crede di scorgervi qualcosa di più reale, una realtà immediata. Vuole allora servirsi del sentimento stesso come stru-mento della conoscenza: conoscere vuol dire per lui «sen-tire». Nel sentimento egli vede il modo di comunione più profonda con le cose.

Ma il sentimento è un fattore del tutto soggettivo e personale: ha valore sommo solo riguardo alla persona singola. Il filosofo del sentimento (il mistico) vuole penetrare in tutto il reale con la propria personalità.

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Vuol vivere, sperimentare ciò che invece va conosciu-to.

«L’errore di una concezione mistica fondata uni-camente sul sentimento risiede nel fatto che essa vuole sperimentare ciò che deve sapere, che vuol fare di una realtà individuale, il sentimento, un princi-pio universale.

Il sentire è un atto del tutto individuale, è la re-lazione fra il mondo esterno e il nostro soggetto, in quanto tale relazione trova la sua espressione in un’esperienza puramente soggettiva.» (p. 139-40)

C’è ancora un’altra espressione della persona, oltre al pensare e al sentimento. Nel pensare, l’Io vive nella realtà universale. Nel sentimento si ritira in sé, vivendo l’eco che la realtà suscita in lui. Nel volere, inversamente, perce-pisce il modo in cui egli agisce sulla realtà fuori di lui. Anche il volere, come il sentimento, appartiene alla sfera della percezione, nella misura in cui esso non è un fattore puramente ideale.

Il realismo ingenuo vede anche nella volontà qualcosa di più reale del pensare, e questo proprio perché anche il volere, come il sentimento, è una realtà percepibile. Nel volere gli pare di toccare con mano un processo immedia-to, poiché vissuto direttamente, senza la via indiretta del concetto che il pensare deve percorrere.

«Il seguace di questa filosofia crede di aver vera-mente afferrato, nel volere, il divenire del mondo

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per un lembo. Mentre può seguire gli altri avveni-menti soltanto dal di fuori per mezzo della perce-zione, nella sua volontà egli crede di sperimentare un evento reale in modo del tutto immediato. La forma d’esistenza in cui gli si presenta la volontà dentro l’Io diviene per lui criterio della realtà. La propria volontà gli appare come caso particolare del divenire universale: quest’ultimo è perciò una volontà universale. La volontà assurge a principio generale, così come nella mistica del sentimento è il sentimento ad assurgere a criterio della cono-scenza. Questa teoria è filosofia della volontà (teli-smo). Ciò che si può sperimentare solo indivi-dualmente viene reso da essa un elemento costitu-tivo del mondo.» (p. 140-1)

Né la filosofia del sentimento né quella della volontà possono essere vera scienza: entrambe ritengono insuffi-ciente il pensare e perciò lo trascurano. Stabiliscono due fonti della conoscenza: quella del pensare e quella del percepire (sentimento e volontà), e antepongono la se-conda alla prima. Chiamano, in altre parole, la percezione vera conoscenza: conoscere è percepire.

«Accanto al principio ideale raggiungibile me-diante il sapere, ci dev’essere inoltre un principio reale del mondo che va sperimentato e che non è afferrabile dal pensare. In altre parole, la mistica del sentimento e la filosofia della volontà sono un realismo ingenuo poiché seguono la massima

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che dice: ciò che è direttamente percepito è reale. Rispetto all’originario realismo ingenuo aggiun-gono in più l’incongruenza di fare di una deter-minata forma di percezione (il sentimento, oppu-re la volontà) il solo strumento di conoscenza, il che però è loro possibile solo accettando nel suo significato generale la massima che il percepito è reale. Dovrebbero perciò attribuire anche alla percezione esterna un uguale valore conoscitivo.» (p. 141-2)

Il realismo metafisico va oltre quello ingenuo quando ipostatizza anche fuori di sé la volontà che percepisce nel proprio essere. Ponendo alla base del mondo una «volontà universale», escogita qualcosa che non può affatto percepire, e che deve però immaginare come percepibile, perché solo il percepibile è da lui fatto vale-re come reale.

La difficoltà nel riconoscere la realtà vivente del pen-sare sta nel fatto che, quando lo osserviamo in un secon-do momento, ci appare freddo e astratto.

«Ma colui al quale veramente riesce di sperimen-tare il vivere nel pensare, giunge alla convinzione che il muoversi in puri sentimenti o l’osservare l’ele-mento volitivo non possono neppure venir para-gonati (e men che meno anteposti) alla ricchezza interiore e all’esperienza riposante su di sé e pur piena di vibrazione di questa vita nel pensare. Pro-prio a questa ricchezza, a questa pienezza dell’e-

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sperienza interiore, è dovuto il fatto che il suo ri-flesso nello stato d’animo abituale si presenta morto e astratto. Nessun’altra attività dell’anima si presta così facilmente a essere fraintesa, come il pensare. Il volere e il sentire continuano a riscal-dare l’anima umana anche durante il riverbero del loro manifestarsi diretto. Il pensare invece ci la-scia troppo facilmente freddi nella sua rievoca-zione, sembra inaridire la vita dell’anima. Eppure questa è proprio l’ombra particolarmente marcata della sua realtà che è intessuta di luce e che si immerge con ardore nelle manifestazioni del mondo.» (p. 142-3)

Che il pensare vivente abbia in sé anche la realtà dell’a-more (che è anche sentimento) non deve stupire. È uscendo dal pensare che si perde anche il vero essere dell’amore e della volontà, in esso contenuti.

9. L’idea della libertà

Per ogni cosa che osservo, il concetto che le corrisponde dipende dalla percezione stessa: alla tale percezione posso congiungere unicamente il tale concetto corrispondente. La corrispondenza è stabilita dal pensare in base alla per-cezione stessa.

A questa legge generale c’è una sola eccezione, e cioè l’osservazione del pensare. Il pensare può venire osserva-

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to direttamente per introspezione: osservazione e realtà osservata diventano qui una cosa sola.

«Chi osserva il pensare vive direttamente, durante la sua osservazione, in un’attività sostanziale che è spirituale e si regge da sé. Sì, possiamo dir così: co-lui che vuol afferrare l’essenza di ciò che è spiritua-le nella forma in cui esso si presenta all’uomo ini-zialmente, può farlo nel pensare che poggia su se stesso.» (p. 145)

Quando osserviamo il pensare, concetto e percezione vengono a coincidere. Solo colui che fa questa esperienza diretta e vivente del pensare comprende che tutte le altre percezioni, che sorgono dapprima necessariamente sepa-rate dai loro concetti, non sono la realtà piena, ma solo una parte di essa: l’altra parte viene vissuta nell’attività pensante che compenetra le percezioni.

«In ciò che sorge nella coscienza come pensare, egli non vedrà il riflesso scialbo di una realtà, bensì un essere sostanziale spirituale fondato su di sé. Di questo egli può dire che gli si rende presente alla coscienza mediante intuizione. Intuizione è l’espe-rienza cosciente, svolgentesi nel puro spirituale, di un contenuto puramente spirituale. Solo mediante un’intuizione si può cogliere l’essere del pensare.» (p. 146)

Unicamente in base a questa esperienza vissuta del pen-sare si può comprendere la realtà e la funzione dell’or-

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ganismo corporeo. Questo non ha nulla a che fare con l’essenza del pensare. Il pensare si serve del cervello in duplice modo: facendo cessare l’attività fisiologica pro-pria del cervello, e sostituendosi ad essa. Se vedo sul sen-tiero i solchi di un carro, non dirò che essi sono stati prodotti dal sentiero. Lo stesso vale per i «solchi» che il pensare lascia dietro a sé nel cervello.

Qual è allora lo scopo della realtà corporea, se non tocca in nulla l’essenza del pensare? È quella di far sorge-re in noi la coscienza dell’Io, l’autocoscienza.

«Dentro l’essere proprio del pensare vive senz’altro il vero ‹Io›, ma non la coscienza dell’Io. Ciò è chia-ro per colui che osserva obiettivamente il pensare. L’ ‹Io› si trova dentro al pensare; la ‹coscienza del-l’Io› sorge per il fatto che nella coscienza generale vengono impresse le orme dell’attività pensante, nel senso sopra indicato. (È dunque grazie all’or-ganismo corporeo che sorge la coscienza dell’Io. Ciò non va confuso con l’affermazione che l’auto-coscienza, una volta desta, resti dipendente dall’or-ganizzazione corporea. Una volta formata, essa viene assunta nel pensare e ne condivide in seguito l’essere spirituale).» (p. 148)

L’autocoscienza sorge dunque sulla base della costituzio-ne corporea. Da questa fluiscono le azioni della volontà. Dobbiamo studiare più da vicino come ciò avviene, per comprendere bene il rapporto tra pensare, autocoscienza, e volontà.

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In ogni atto volitivo giocano due fattori fondamentali: il motivo e il movente4.

«Il motivo è un elemento concettuale o rappresen-tativo. Il movente è l’elemento della volontà diret-tamente condizionato dall’organizzazione umana. L’elemento concettuale, il motivo, è l’orientamento istantaneo della volontà; il movente è l’orientamen-to costante dell’individuo. Motivo della volontà può essere un puro concetto, oppure un concetto con un determinato rapporto alla percezione, cioè una rappresentazione.» (p. 149)

Lo stesso motivo suscita reazioni diverse in individui diversi a seconda della loro predisposizione caratterologi-ca. L’idea di fare una passeggiata può tradursi in impulso volitivo unicamente se incontra, nel carattere dell’indivi-duo, delle predisposizioni, delle convinzioni corrispon-denti (per esempio, il concetto dell’importanza della pas-seggiata per la salute fisica), e quindi la voglia (sentimento del piacere) di compiere quella specifica azione.

Possiamo dire allora che i moventi (la predisposizione caratterologica) influiscono sul volere dal passato; i moti-

4 I due termini usati da Steiner sono Triebfeder (movente) e Motiv (motivo). In italiano ci sono naturalmente diversi termini che si po-trebbero usare. Io ho scelto questi due perché mi sembrano corri-spondere bene alle due dimensioni della persona qui in questione: l’una (il movente) maggiormente automatica, l’altra (il motivo) a carattere concettuale. Va da sé che, in questo modo, il termine «mo-vente», in particolare, acquista un carattere leggermente tecnico, che intendo rispettare.

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vi sono invece i fini, gli scopi, che ci proponiamo nel pre-sente e per l’avvenire.

Esaminiamo ora anzitutto i moventi della volontà, cioè gli impulsi provenienti dalla disposizione caratterologica. Essi sgorgano dalle varie sfere che costituiscono la realtà dell’individuo singolo. In esso troviamo anzitutto la per-cezione: un atto della volontà che scaturisce direttamen-te dalla percezione, senza alcuna mediazione del senti-mento o del pensiero, è quello più istintuale e automati-co. Anche i comportamenti sociali che sono divenuti del tutto meccanici (di fronte a tale situazione, scatta il tale comportamento) rientrano in questa categoria. Il cosid-detto galateo, le buone creanze, il tratto sociale, l’osse-quio alle usanze e tradizioni... tutto questo «comportarsi come si deve» può diventare una seconda natura al pun-to che la volontà è mossa direttamente dalla percezione stessa.

Ci sono poi moventi che provengono dalla sfera del sentimento. Questi impulsi sono già meno istintivi, per-ché scaturiscono dall’eco interiore dell’animo di fronte alle percezioni esterne. La percezione suscita un senti-mento, ed è il sentimento a muovere all’azione.

Un terzo e quarto tipo di moventi provengono dalla rappresentazione e dal concetto. Non si tratta qui di rap-presentazioni e concetti che sorgono ex novo, cioè me-diante rinnovato intuito attuale: questi fanno parte dei motivi, non dei moventi. Si tratta di rappresentazioni e concetti già entrati a far parte del patrimonio mentale dell’individuo.

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La somma delle rappresentazioni di azioni da cui l’in-dividuo attinge per le sue decisioni, si può chiamare espe-rienza pratica; la somma di concetti, scaturiti nel passato del suo puro pensare, si può chiamare ragione pratica. Quest’ultima sfera è la sfera delle aspirazioni e degli idea-li: essa oscilla fra la tendenza a diventare fissa e ripetitiva (alla stregua degli altri moventi) e la tendenza a essere sempre nuova e creatrice (entrando nell’ambito dei moti-vi).

Passiamo ora all’esame dei motivi: questi sono concetti e rappresentazioni. I sentimenti non possono essere mo-tivi: se agisco per ottenere un piacere, non è il piacere (che ancora non c’è) a fare da motivo, ma la rappresenta-zione che io me ne faccio. La rappresentazione del mio o altrui benessere è il motivo fondamentale dell’egoismo. Posso volere il mio benessere indipendentemente da quello altrui (egoismo puro), o posso includere la felicità altrui come elemento necessario alla mia.

Un altro tipo di motivo può essere il contenuto pura-mente concettuale di un’azione; questo non guarda solo alla singola azione, ma la colloca in un sistema di norme morali che reggono il comportamento dell’uomo. L’indivi-duo le segue come comandamenti, come una specie di necessità etica. La loro fondatezza egli la riconduce all’au-torità esterna che le ha stabilite, oppure l’attribuisce alla realtà interna della coscienza, che interpreta come un esse-re non identico col proprio, e a cui lui deve ubbidire.

Un grande passo nel comportamento morale si compie quando non si seguono più semplicemente i precetti

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dell’autorità (esterna o interna), ma si vuol comprendere il motivo per cui una data norma va accolta. A questo stadio l’individuo passa dalla morale autoritativa al comporta-mento in base a ragion veduta: ricerca una conoscenza personale e diretta delle istanze morali. Queste istanze sono: 1. il benessere di tutti gli uomini; 2. il progresso della cultura o il perfezionamento dell’umanità; 3. l’attuazione di intenti morali individuali tramite intuizione diretta.

Le prime due di queste istanze si fondano sulla rap-presentazione, cioè sul rapporto che il singolo stabilisce tra l’idea morale e determinate esperienze o situazioni. Il principio morale più alto che si possa concepire non con-tiene questo riferimento obbligato alla percezione: sorge nella pura intuizione e solo in un secondo momento cer-ca il proprio collocamento nel mondo della percezione. Ogni altro principio morale convoglia l’individuo in una data direzione già stabilita (dal principio morale stesso). Nell’attuazione di intenti intuitivi, invece, l’individuo si pone al di sopra di ogni principio morale e ne determina lui stesso il valore in ogni circostanza concreta: in un caso darà più importanza all’uno, in un altro all’altro. Questa decisione viene fatta in base a intuizione concettuale di-retta: unico motivo è qui il contenuto ideale dell’azione.

Possiamo ora tirare la somma del nostro esame dei moventi e dei motivi:

«Fra i gradi della disposizione caratterologica ab-biamo designato come il più alto quello che agisce come pensare puro, come ragione pratica. Tra i motivi

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abbiamo ora indicato come sommo quello dell’in-tuizione concettuale. Una più precisa riflessione si avvede subito che a questo livello della moralità movente e motivo coincidono, che cioè non influi-scono sul nostro agire né una disposizione caratte-rologica predeterminata, né un principio morale estrinseco assunto normativamente. In questo mo-do l’azione non è ripetitiva, eseguita secondo regole qualsiasi, né è compiuta dall’uomo automaticamen-te per una spinta esterna, ma determinata esclusi-vamente dal suo contenuto ideale.

Una simile azione ha come presupposto la fa-coltà delle intuizioni. Chi non ha la capacità di concepire nel caso singolo la massima morale par-ticolare, non potrà mai neanche conseguire una vo-lontà veramente individuale.» (p. 158)

L’opposto di questo principio morale è quello kantiano che dice: agisci secondo norme valide per tutti. Ciò sa-rebbe la fine di ogni intuizione morale individuale.

Ci si potrebbe chiedere: come può il nostro agire sca-turire da un lato dall’intuizione puramente ideale, e dall’al-tro adattarsi alla condizione concreta? Bisogna distin-guere il motivo morale e il contenuto di percezione di un’azione: quando si agisce per intuizione morale quest’ul-timo non è il motivo, perché non è esso a determinare l’individuo. Dal contenuto dell’azione se ne ricava sem-plicemente il concetto conoscitivo. Il concetto morale viene intui-to dal pensare. Quando il concetto conoscitivo, cioè il

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contenuto percepibile di un’azione, è allo stesso tempo concetto morale, io non sono libero. L’ordine sul da farsi mi viene dalla situazione.

I singoli uomini variano nel loro patrimonio di intui-zioni. Varie sono anche le situazioni in cui vengono a trovarsi. L’interazione di questi due fattori determina il comportamento di ciascuno.

«La somma delle idee operanti in noi, il contenuto reale delle nostre intuizioni, è costituito da ciò che, della pura universalità del mondo ideale, si confi-gura in modo individuale in ogni uomo. Nella mi-sura in cui questo contenuto intuitivo si comunica all’azione, esso forma il contenuto morale dell’indi-viduo. La libera esplicazione di questo contenuto è ad un tempo il movente morale sommo e il più ec-celso motivo per colui che comprende che tutti gli altri principi morali, in ultima istanza, si riunificano in questo contenuto. Questa posizione la possiamo chiamare individualismo etico5.

Ciò che è determinante in un’azione concepita intuitivamente è di trovare l’intuizione corrispon-dente del tutto individuale. A questo livello della

5 Nel linguaggio comune di oggi, questa espressione suona facilmente come una contraddizione in termini: «individualismo» designa spesso, più che la forma somma di moralità, di cui qui si parla, una forma di egoismo. Non essendo facile per tutti tener distinti il senso tecnico qui dato a individualismo, e quello comune, userò anche, fuori delle citazioni, il termine di «personalismo etico», benché, strettamente parlando, sia meno preciso.

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moralità si può parlare di concetti morali generali (norme, leggi) solo quando queste si ricavano da una generalizzazione che parte dagli impulsi indi-viduali. Norme generali presuppongono sempre dei fatti concreti, da cui vengono dedotte. Ma l’agire umano è proprio questo previo produrre dei fatti.

Quando noi consideriamo l’aspetto normativo (il concettuale nell’agire di individui, popoli e epo-che), otteniamo un’etica, ma non come scienza di norme morali, bensì come scienza naturale del comportamento morale. Solo le leggi così ottenute hanno con l’agire umano lo stesso rapporto che le leggi naturali hanno con un dato fenomeno. Non si identificano però affatto con gli impulsi che noi poniamo alla base del nostro operare.» (p. 160-1)

La moralità vera e propria di un’azione consiste allora nel rapporto attuale della volontà con l’azione stessa, non nella sua maggiore o minore corrispondenza con un co-dice morale. Quando agisco per intuizione morale, ciò che mi determina non è una massima da seguire, ma è direttamente l’amore per l’oggetto stesso dell’azione. Solo quando seguo il mio amore verso l’oggetto sono vera-mente io stesso ad agire, e non una norma in me.

«Non riconosco alcun principio estrinseco al mio agire, in quanto ho trovato in me stesso la motiva-zione dell’azione: l’amore per l’azione stessa. Non esamino razionalmente se la mia azione sia buona o cattiva: la compio perché la amo. Essa si rivela

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‹buona› se la mia intuizione imbevuta d’amore è in-serita nel modo giusto nell’armonia universale, che va vissuta intuitivamente; sarà invece ‹cattiva› quan-do ciò non avviene. Neppure mi chiedo come un altro agirebbe nel mio caso, ma agisco come io, che sono questo individuo particolare, mi vedo in-dotto a volere. Non l’uso comune, non il costume generale, non una massima umana generale e nem-meno una norma morale mi fa da guida in modo immediato, bensì il mio amore per l’azione. Non sento in me alcuna costrizione: non quella della na-tura che mi dirige nei miei istinti, non quella dei comandamenti morali. Voglio semplicemente attua-re quel che vi è in me» (p. 162).

Si dirà: come può l’uomo agire moralmente, se fa ciò che vuole? Qual è allora la differenza tra un’azione morale e un delitto? Non viene qui abolita la distinzione oggettiva tra bene e male?

Se vogliamo comprendere l’essenza della volontà uma-na, dobbiamo distinguere tra i vari stadi in cui questa è lontana dalla sua perfezione, e la forma che assume quando le si avvicina. Negli stadi intermedi le norme sono necessarie, ma non nello stadio finale:

«Le norme hanno il loro legittimo compito mentre si è per strada verso quella meta. La meta consiste nella realizzazione di obiettivi morali concepiti con pura intuizione. L’uomo li consegue nella misura in cui ha in sé la capacità di elevarsi alla sfera intuitiva

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del contenuto ideale del mondo. Nel volere singolo si frammischia in genere dell’altro a tali obiettivi, a far da movente o da motivo. Tuttavia, l’istanza in-tuitiva può, nel volere umano, essere determinante o codeterminante. Ciò che si deve, lo si compie: si offre il campo sul quale il dovere diventa azione; azione propria è quella che facciamo scaturire co-me tale da noi stessi.» (p. 163)

È errato considerare l’azione dell’assassino, o il male, come espressione dell’individualità. Le passioni infe-riori sono, al contrario, ciò che di meno individuale c’è nell’uomo: appartengono alla specie in lui, e non possono quindi provenire dal suo patrimonio ideale, nel quale uni-camente è individuo unico.

«Un’azione viene sentita come libera nella misura in cui la sua motivazione proviene dal lato ideale del mio essere individuale; ogni altra parte di un’a-zione viene sentita come non libera, sia che proce-da dalla costrizione della natura, sia ugualmente che proceda dall’obbligo di una norma morale.

L’uomo è libero unicamente nella misura in cui, in ogni momento della sua vita, è in grado di segui-re se stesso. Un’azione morale è la mia solo se può dirsi libera in questo senso. Qui si considera per ora a quali condizioni un’azione voluta viene vissu-ta come libera; più avanti si vedrà come questa idea della libertà, enucleata qui nel suo puro contenuto etico, si realizzi nell’essere umano.» (p. 164-5)

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L’azione libera non esclude le norme morali, ma le inclu-de. È solo un’istanza superiore ad esse, non ad esse con-traria.

Com’è allora possibile la convivenza umana, se non vi sono norme generali valide per tutti? L’unità degli uomini non è qualcosa che si possa effettuare in base a leggi. Se essi non sono uno per essenza, non lo diverranno in base a una legge. Il fatto è invece che essi sono uno: il mondo ideale a cui tutti gli individui umani attingono è uno solo. L’esistenza di questa unità, però, deve provenirci dall’e-sperienza e dall’osservazione, altrimenti sarebbe oggetto di norma, e non risultato della libera automanifestazione degli individui. Dallo stesso e unico mondo ideale ogni individuo trae intuizioni diverse, ma non c’è da aspettarsi contraddizione o conflitto tra esse.

«Un malinteso morale, un conflitto, è escluso tra uomini moralmente liberi. Solo colui che è moral-mente non libero, colui che segue l’istinto naturale o l’obbligo del dovere imposto, respinge il suo prossimo, se non segue lui pure lo stesso istinto o lo stesso comandamento.

Vivere nell’amore per l’azione e lasciar vivere nella comprensione della volontà estranea è la massima fondamentale degli uomini liberi. Essi non cono-scono altro dovere se non quello con cui il loro vole-re si mette in intuitivo accordo; in che modo essi, in un caso particolare, vorranno, ciò glielo dirà il lo-ro patrimonio di idee.» (p. 166)

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Due persone veramente libere vivono insieme avendo fiducia nella propria comune appartenenza allo stesso unico mondo spirituale. Sanno che le loro intenzioni, lungi dal collidere, sono destinate a incontrarsi.

Molti diranno che questo concetto dell’uomo libero è campato in aria, che non esistono tali uomini, e che gli uomini reali hanno bisogno di norme da seguire. Allora bisognerebbe onestamente mettere da parte ogni discor-so sulla libertà dell’uomo: si dovrebbe dire che l’uomo dev’essere costretto, in quanto non è libero. Che la coer-cizione sia fisica, o proveniente dagli istinti inferiori, op-pure esercitata per mezzo delle leggi morali, da un certo punto di vista non fa differenza. Un uomo che agisce così non può dire che le sue azioni provengono da lui. Dobbiamo invece riconoscere che vi sono spiriti liberi, che ascendono al di sopra di tutte queste istanze che ren-dono l’uomo non libero. Il germe di questo spirito uma-no libero è dentro a ciascuno di noi. Il concetto dell’uo-mo è pensato nella sua perfezione solo quando ricono-sciamo la sua reale chiamata alla libertà.

Certo, si tratta di un ideale, ma di un ideale che è real-mente all’opera nell’uomo, e non semplicemente inven-tato. Se l’uomo fosse un essere puramente naturale, non avrebbe senso parlare di ideali: il suo concetto sarebbe dettato dalla percezione. Ciò che un uomo è in quanto essere morale non è deciso da ciò che in lui è nella perce-zione: egli è una realtà aperta. Concetto e percezione sono qui separati non dal processo conoscitivo umano, ma nella realtà stessa. Solo l’individuo, con la sua azione,

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può congiungere il concetto di sé con la percezione. E solo in quanto spirito libero può intuire quel concetto e congiungerlo realmente con la percezione. Ciò che il conoscere fa per il mondo fuori di noi (unire percezione e concetto), l’agire morale lo deve compiere per il nostro essere: attuare (rendere percepibile) il proprio concetto:

«Nel mondo oggettivo è la nostra organizzazione a segnarci una linea di confine tra percezione e con-cetto; il conoscere supera quel confine. Nella natu-ra soggettiva tale confine esiste ugualmente; l’uo-mo lo supera nel corso del suo sviluppo, manife-stando nell’espressione esteriore il concetto di se stesso. Così, sia la vita intellettuale, sia quella mora-le dell’uomo ci portano alla sua duplice natura: la percezione (esperienza immediata) e il pensare. La vita intellettuale supera la doppia natura mediante la conoscenza, quella morale mediante l’attuazione reale dello spirito libero. Ogni essere ha il suo con-cetto innato (la legge del suo essere e del suo ope-rare); ma nelle cose esterne esso è inseparabilmente connesso con la percezione, e ne viene separato unicamente all’interno del nostro organismo spiri-tuale. Nell’uomo stesso invece, concetto e perce-zione sono dapprima realmente separati, allo scopo di venir da lui altrettanto realmente uniti.» (p. 168-9)

Si potrebbe pensare che in questo modo per una stessa percezione si vengono ad avere due concetti diversi: quel-lo dell’uomo ordinario, e quello dell’uomo libero. Ma

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ogni uomo, in quanto realtà percepibile, è in continua trasformazione: il corso della propria evoluzione dipende da lui. La natura gli dà una base, la società lo forma ulte-riormente, ma il coronamento dell’opera può venire solo da lui stesso.

Non si vuol perciò dire che lo stadio della moralità li-bera sia il solo in cui l’uomo può vivere, ma che esso è quello finale. Finché non si giunge ad esso, le norme e le leggi sono necessarie.

Quando Kant parla del dovere come imperativo cate-gorico a cui l’individuo deve totalmente sottomettersi mettendo da parte la propria inclinazione individuale, esprime proprio l’opposto di una vera morale della libertà. Questa vede non nel dovere lo stadio ultimo, ma proprio nella manifestazione di ciò che è individuale in ognuno, e che dunque non può esser codificato normativamente: qui il movente-motivo non è più il dovere come tale, ma l’amore all’azione.

Né dobbiamo vedere nell’uomo davvero libero un elemento pericoloso. Egli non sentirà il bisogno di an-dar contro le leggi legittime della società. Sa che pro-vengono da intuizioni di uomini liberi, e se le trova giu-stificate le fa sue.

Se riconosciamo che l’individuo umano è il valore morale supremo, non diremo che egli ha lo scopo di con-formarsi alla legge morale: in questo caso egli sarebbe strumento per uno scopo superiore. L’uomo non agisce allo scopo di essere morale; al contrario, l’ordine morale viene creato quando lui è libero. L’ordine morale non è lo

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scopo dell’uomo, ma la sua automanifestazione, qualora egli agisca liberamente. Anche la società e lo Stato non sono realtà cui l’individuo si può subordinare come stru-mento: sono essi per lui, non lui per essi.

10. Filosofia della libertà e monismo

L’uomo ingenuo che considera reale solo ciò che vede, cerca anche per l’agire morale dei fondamenti tangibili. Il modo più semplice è quello di affidarsi a un’autorità uma-na, sia essa passata o presente. Se ricorre a un essere di-vino, lo immaginerà in qualche modo percepibile: in que-sto modo, anche la comunicazione della sua volontà agli uomini avviene in modo tangibile.

Lo stadio più sviluppato di questo realismo ingenuo si ha quando esso lascia l’autorità esteriore e si rivolge alla propria coscienza, concepita come forza assoluta e auto-noma dentro di sé, e a cui egli deve sottomettersi. In questo modo viene ad assolutizzare, ipostatizzandole co-me esseri indipendenti, le leggi morali stesse. Queste sono allora simili alle forze visibili-invisibili del realismo metafisico.

Quando si ricerca così l’origine della moralità fuori del contenuto intuitivo dell’uomo, si presentano varie possi-bilità. Se l’essere assoluto è concepito come operante secondo leggi meccaniche, non ha senso parlare di liber-tà: il tutto, anche dentro l’uomo, non è che cieco deter-minismo. Se l’assoluto è un essere spirituale, i principi

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morali vengono immaginati come esistenti nella sua men-te e emananti dal suo essere: all’uomo tocca conoscere (percepire) gli intenti di quell’essere ed eseguirli.

«L’ordinamento morale del mondo appare al duali-sta come riflesso percepibile di uno superiore che sta dietro di esso. La moralità terrestre è la manife-stazione dell’ordinamento universale extraumano. Non è l’uomo che conta in tale ordinamento mora-le, ma l’essere in sé, l’essere extraumano. L’uomo deve ciò che questo essere vuole.» (p. 176)

Un chiaro esempio di questo dualismo è quello di E. von Hartmann. Secondo questo filosofo la divinità vuol rag-giungere, tramite l’uomo, uno scopo ben preciso, quello di liberarsi dal proprio infinito dolore. L’ordine morale consi-ste allora nella collaborazione di ogni singolo uomo a que-sto intento divino. In questa visuale, l’uomo non segue la propria volontà, ma quella di Dio, in quanto le due per natura non coincidono. Neppure qui si può parlare di li-bertà.

«Come il dualista del materialismo fa dell’uomo un automa, il cui agire è unicamente il risultato di leggi puramente meccaniche, così il dualista dello spiri-tualismo (cioè colui che vede l’assoluto, l’essere in sé, in una realtà spirituale cui l’uomo non partecipa affatto con la sua esperienza cosciente) ne fa lo schiavo della volontà di quell’assoluto. La libertà è esclusa dall’ambito del materialismo e dello spiri-

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tualismo unilaterale, e comunque da ogni realismo metafisico che fa illazioni su una realtà extraumana e non sperimentabile, ritenuta quella vera.» (p. 177)

Il realismo ingenuo e quello metafisico negano entrambi la libertà: l’uomo è l’esecutore di principi che di necessità gli vengono imposti.

La concezione unitaria del mondo invece riconosce il parziale merito del realismo ingenuo, nella stessa misura in cui riconosce la percezione. Chi non sa trarre gli inten-ti morali dal proprio pensiero deve trarli da qualche ele-mento del mondo percepibile (ed è allora non libero). Ma accanto alla percezione, la concezione unitaria riconosce parimenti la realtà del pensare: l’uomo può trarre i motivi dell’agire dalla propria intuizione morale (e allora è libe-ro). Ogni altro essere assoluto, non percepibile ma im-maginato come tale, è pura invenzione dell’uomo. Nulla esiste per l’uomo oltre a percezione e concetto: il motivo dell’agire dev’essere o l’uno o l’altro. Quando l’uomo non è libero, dev’essere possibile indicare la realtà percepibile a cui si sottomette.

«In una visione unitaria del mondo l’uomo agisce in parte non liberamente, in parte liberamente. Si trova non libero nel mondo delle percezioni, e at-tua in sé lo spirito libero.

I comandamenti morali, che il metafisico che segue delle pure illazioni non può che considerare come emanazioni di una potenza superiore, sono, per chi adotta una concezione unitaria, pensieri degli

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uomini; l’ordinamento morale non è per lui né il ri-calco di un ordinamento naturale puramente mec-canico, né quello di un ordine universale extrauma-no, ma del tutto opera umana libera.» (p. 179)

Gli scopi che gli uomini perseguono non sono scopi di-vini, ma umani, e non umani in genere: ognuno ha i pro-pri scopi individuali, poiché il mondo delle idee si espri-me non in genere, ma singolarmente in ciascuno. Quan-do parliamo di scopi comuni agli uomini o all’umanità, intendiamo sempre degli intenti sorti in individui, che gli altri hanno poi seguito come propria autorità.

Ogni uomo è chiamato ad essere libero: ne ha in sé la capacità, come ogni seme di rosa può diventare rosa. La concezione unitaria è così una filosofia della libertà. Essa non si chiede se l’uomo è libero o no: si chiede se lo può diventare. E risponde che l’uomo è un essere aperto: la natura non lo «finisce», ma gli dà il sostrato su cui egli deve costruire oltre.

«Il monismo non ha dubbi che un essere il quale agisca per coercizione fisica o morale non può essere veramente morale. Considera il passaggio attraverso l’agire automatico (che segue impulsi e istinti naturali) e attraverso l’agire sottomesso (che segue norme morali) come una necessaria prope-deutica della moralità. Riconosce però anche la possibilità di superare, grazie allo spirito libero, en-trambi gli stadi preparatori. Il monismo libera così complessivamente la vera concezione morale dalle

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catene intramondane delle massime morali ingenue e da quelle extramondane del metafisico speculato-re.» (p.180)

Così come i principi della conoscenza vanno ricercati nell’uomo, così anche quelli della moralità: questa pure è determinata dalla natura umana.

«La moralità umana è, come l’umano conoscere, condizionata dalla natura umana. E così come altri esseri possono intendere per conoscenza qualcosa del tutto diverso da ciò che intendiamo noi, così esseri diversi possono avere anche una moralità di-versa. Per il seguace del monismo la moralità è una caratteristica specifica dell’uomo, e la libertà è il modo umano di essere morali.» (p. 181)

Una difficoltà che può sorgere è quella dell’apparente contraddizione tra la natura universale delle idee conosci-tive e quella individuale delle intuizioni morali. Questo paradosso è in realtà proprio costitutivo della persona umana e ne esprime profondamente la natura. Nel conosce-re l’uomo attinge ad una realtà unitaria; nell’atto volitivo egli individualizza, con la stessa attività spirituale, un membro particolare di quella unità. Il suo essere umano è proprio in questo continuo oscillare tra le idee conosciti-ve e quelle morali. I due lati di questo movimento pendo-lare sono il pensare da una parte e la libertà dall’altra.

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11. Scopo del mondo e della vita (destinazione dell’uomo)

Una delle correnti della vita spirituale dell’umanità risiede nel superamento del concetto di scopo là dove è fuori posto. La finalità è un dato modo di successione di feno-meni: essa si ha unicamente quando il successivo ha un influsso reale sul precedente (contrariamente al rapporto normale di causa ed effetto, dove il precedente influisce sul seguente). Ciò noi lo riscontriamo solo nell’uomo: egli compie un’azione che si è prima rappresentata, e questa rappresentazione determina il suo agire. Ciò che viene dopo (l’azione) influisce su ciò che viene prima (l’uomo che agisce) mediante la rappresentazione. Senza rappre-sentazione non vi può essere finalità.

Nel campo della percezione, l’effetto non può mai pre-cedere la causa, la percezione dell’effetto può solo venire dopo la percezione della causa. Perché l’effetto abbia un in-flusso reale sulla causa, si richiede il fattore del concetto (in quanto l’effetto, come percezione, non è ancora presente).

«Chi sostiene che il fiore sia lo scopo della radice, che abbia cioè un influsso su di essa, lo può affer-mare unicamente di quell’elemento del fiore che egli vi coglie col pensare. L’elemento percepibile del fiore, al formarsi della radice, ancora non esiste. Perché vi sia un rapporto di finalità non si richiede unicamente il puro nesso ideale, conforme a leggi, tra ciò che precede e ciò che segue, ma bisogna che

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il concetto (la legge) dell’effetto abbia un influsso reale sulla causa mediante un processo percepibile. Ora, un influsso percepibile esercitato da un con-cetto su qualcosa d’altro noi lo possiamo osservare unicamente nelle azioni umane. Solo qui può allora applicarsi il concetto di fine.» (p. 185)

Il realismo ingenuo escogita anche in questo campo delle realtà che non può percepire ma che immagina come tali. Poiché egli agisce secondo scopi, fa agire la natura allo stesso modo: invece di vedere nelle leggi naturali dei con-cetti afferrabili solo col pensiero, vi vede non solo delle forze reali invisibili, ma anche degli invisibili scopi. E fa agire anche il creatore secondo il modo di agire umano.

«Il monismo respinge il concetto di finalità per tutti i campi, con la sola eccezione dell’agire umano. Ri-cerca leggi naturali, non scopi naturali. Scopi della na-tura sono invenzioni non meno arbitrarie delle forze non percepibili. Ma anche degli scopi della vita che non sia l’Uomo stesso a prefiggersi sono per il mo-nismo delle ipotesi ingiustificate. Finalizzato è uni-camente ciò che l’uomo rende tale, poiché la finalità può sorgere solo nell’attuazione di un’idea. Operante in senso realistico l’idea lo è solo nell’uomo.» (p. 186)

La vita dell’uomo può dunque unicamente avere lo scopo che lui stesso gli dà. Se chiediamo: qual è il compito dell’uomo? Possiamo solo rispondere: quello che lui stes-so si prefigge.

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Ugualmente, non è giustificato parlare di incarnazione di scopi o di idee lungo il corso della storia. Se diciamo: la storia è l’attuazione di un ordinamento morale, oppure è lo sviluppo dell’uomo verso la libertà, stiamo ancora in-ventando delle realtà metafisiche che non esistono.

Rimuovere il concetto di scopo da dove non si applica è tutt’altro che concepire un mondo caotico e senza coe-renza. L’armonia che noi cogliamo nel mondo col pensare non è un insieme di fini percepibili che influiscano sulle pro-prie cause, bensì l’accordo ideale delle varie parti di un in-sieme. In altre parole, l’idea che determina l’operare di ogni essere non è fuori di esso, ma ne costituisce l’essenza, ed è accessibile non alla percezione, ma al pensare.

La difficoltà sorge qui dal fatto che si confonde l’agire secondo leggi (Gesetzmässigkeit) con l’agire secondo fini o finalità (Zweckmässigkeit): il primo è proprio degli es-seri naturali, il secondo è proprio dell’uomo. Nell’operare secondo leggi, la caratteristica essenziale è che queste leggi non sono fuori degli esseri (nella mente di un altro essere) ma ne sono proprio l’essenza. Chiamare questo «finalità» vuol dire esprimersi impropriamente. Appunto in quanto gli esseri della natura non sono determinati dal di fuori, ma secondo un’idea che è il loro stesso essere, si deve parlare di leggi naturali, non di fini.

«Chi dice una cosa fatta secondo uno scopo in quanto è fatta secondo una legge, può pure desi-gnare gli esseri naturali stessi in questo modo. Solo che questo esser secondo una legge non va confu-

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so con quello dell’agire umano soggettivo. Perché vi sia scopo è assolutamente necessario che la cau-sa agente sia un concetto, e cioè il concetto dell’effetto. Nella natura però non si trovano in nessun luogo concetti che siano cause; il concetto si mostra sempre e solo come il rapporto ideale fra causa ed effetto. Nella natura si trovano cause uni-camente in forma di percezioni.» (p. 188-9)

Se l’operare secondo leggi (proprio della natura) può con-siderarsi come un gradino dell’essere inferiore all’agire se-condo fini (proprio dell’uomo), c’è però un livello superiore a quello umano della finalità: l’agire che crea gli esseri stessi, imprimendo in loro la norma del loro operare. Questo li-vello superiore alla finalità è il modo di operare di «Dio».

12. L’immaginativa morale (darwinismo e moralità)

Lo spirito libero agisce secondo intuizioni tratte dal mondo delle idee; l’uomo non libero trae i moventi del suo agire dal mondo delle percezioni. L’uomo libero è capace di decisioni mai prima esistite: non si chiede cosa altri hanno fatto o comandato di fare nella data circo-stanza.

Il concetto che lui pone alla base della sua azione deve però venire a contatto con la realtà: deve inserirsi nel mondo con un determinato contenuto di percezio-

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ne. Ora, ciò che fa da mediazione tra il concetto e la percezione è la rappresentazione.

La persona non libera agisce secondo rappresentazio-ni già preformate, sia prese da altri, sia stabilite dall’abi-tudine. Egli agisce cioè seguendo esempi, imitando mo-delli. Le leggi generali concettuali che lo guidano sono a carattere negativo (non uccidere, non rubare): quelle po-sitive sono particolari, riferite direttamente alla singola azione da compiere (pulisci la strada davanti alla tua por-ta, paga tanto di tassa al tal posto).

Quando l’impulso all’agire si esprime in forma concet-tuale universale (ama il tuo prossimo) bisogna trovare in ogni singolo caso la rappresentazione, cioè il rapporto tra il concetto e un particolare contenuto percettivo.

«L’uomo produce rappresentazioni concrete traen-dole dalla somma delle sue idee anzitutto mediante la facoltà immaginativa. Ciò che occorre allo spiri-to libero, al fine di realizzare le sue idee e di affer-marsi, è dunque l’immaginativa morale 6. Essa è la fon-te per le azioni dello spirito libero. Questo fa sì che solo coloro che hanno immaginativa morale siano davvero moralmente produttivi.» (p. 193)

Colui che sa escogitare leggi morali, ma manca di immagi-nativa morale per tradurle in pratica, è come il critico d’arte

6 Steiner usa il termine «moralische Phantasie». La parola italiana «fantasia» mi sembra implicare il carattere di arbitrarietà in una misura che non vale per la stessa parola in tedesco. «Immaginativa» mi pare rendere alla perfezione il significato inteso da Steiner.

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che sa tutto sul dipingere un quadro, ma non lo sa dipingere. L’immaginativa morale, per attuare la propria rappre-

sentazione, deve inserirsi nel campo della percezione, alterando la realtà già esistente. Per fare ciò è necessario conoscere le leggi del funzionamento del mondo sensibi-le e le sue possibilità di variazione: si tratta qui di scienza positiva, di una conoscenza scientifica del reale che pos-siamo chiamare ingegno morale7. Questa abilità la si può acquisire – allo stesso modo di ogni altra scienza –, e per questo è più facile trovare persone con ingegno morale, che persone con immaginativa morale.

«Nella misura in cui, per l’agire morale, si richiede la conoscenza degli oggetti del nostro campo d’a-zione, il nostro agire si basa su tale conoscenza. Si tratta qui di leggi naturali. Abbiamo a che fare con la scienza naturale, non con l’etica.

L’immaginativa morale e il patrimonio di idee morali possono divenire oggetto del sapere solo dopo che sono state prodotte dall’individuo. Ma al-lora non servono più a dirigere la vita, poiché l’hanno già diretta. Vanno considerate come cause agenti al pari di tutte le altre (sono scopi solo per il soggetto). Ce ne occupiamo come di una scienza na-turale delle rappresentazioni morali.

7 Steiner usa qui il termine «moralische Technik». La parola «tecnica» indica in italiano, più che in tedesco, troppo esclusivamente la tecnica industriale moderna. In tedesco essa conserva, più conformemente alla sua origine greca, un significato più vasto, che mi pare espresso meglio con «ingegno»

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Oltre ad essa, non può esserci un’etica quale scienza normativa.» (p. 194-5)

C’è chi ha voluto ritenere il carattere normativo delle leggi morali nel senso di una dietetica spirituale. Questo para-gone però non regge, perché la dietetica ha a che fare con il corpo che non segue leggi individuali diverse in ognuno, ma le leggi della specie. Inoltre, queste leggi sono già stabi-lite, mentre le leggi morali vengono create dall’uomo, e dall’uomo in quanto individuo unico. La realtà spirituale di un individuo non è mai quella di un altro.

Ciò non è in contraddizione con la teoria evoluzioni-stica, ma ne è al contrario una conferma. L’evoluzione si riferisce al fatto che a un essere precedente ne segue uno successivo, e che il pensare può afferrare il nesso e la corrispondenza tra il primo e il secondo. Ma l’evoluzio-nista non sarebbe mai capace di produrre, normativa-mente, il concetto del secondo dalla sola percezione del primo, cioè in assenza della percezione del secondo. Ciò che egli ci vuol dire invece è che egli, confrontato con entrambe le percezioni, ne intuisce col pensare la corri-spondenza, che è la corrispondenza tra i due concetti.

Il filosofo morale procede allo stesso modo: se con-frontato coi concetti morali di un uomo precedente e con quelli di uno venuto dopo, ne può comprendere la corri-spondenza. Ma dai primi non può determinare normati-vamente i secondi: quest’ultimi li deve percepire al modo dei primi, e ciò lo può fare solo osservando la realtà morale del secondo uomo. La confusione nasce dal fatto che i dati

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naturali non vengono creati da noi, mentre le norme etiche dobbiamo crearle noi prima che possano venir conosciute.

«Non possiamo allora misurare sul passato ciò che è nuovo? Non sarà ognuno tenuto a valutare ciò che ha prodotto con la sua immaginativa morale in base agli insegnamenti etici tramandati? Per quel che deve rivelarsi moralmente produttivo ciò è al-trettanto assurdo quanto il voler valutare una for-ma naturale nuova in base a una precedente, di-cendo: visto che i rettili non concordano con i pro-toamniotici, essi rappresentano una forma ingiusti-ficata (patologica).» (p. 198)

Seguendo la teoria evoluzionistica percorriamo la scala degli esseri fino a trovare al suo vertice l’uomo come individuo morale. C’è sempre corrispondenza tra un dato gradino e quello successivo, ma nessun gradino mi può dire, dalla sola sua realtà, quale e come sarà quello succes-sivo. Partendo dalla natura intuitiva del pensare siamo giunti alla realtà dell’individuo umano pensante come realtà suprema; partendo dall’osservazione dell’evoluzio-ne del mondo giungiamo alla stessa conclusione. Il sorge-re di idee morali del tutto nuove non stupisce più del sorgere di una specie animale nuova.

È importante non restringere il concetto di naturale, co-sì da escludere la persona umana libera: da una parte, lo spirituale va visto all’azione in tutti gli esseri, e non solo nell’uomo; e dall’altra, l’individuo umano libero non è oltre ciò che è naturale, ma ne è l’ultimo stadio. Lo scienziato

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evoluzionista non ha alcuna ragione di considerare l’uomo in altro modo che ogni altro essere, e cioè per mezzo dell’osservazione. È dall’osservazione di ciò che avviene nell’uomo che noi abbiamo scoperto la sua natura spiritua-le e individuale: lo stesso deve fare l’evoluzionista.

«Da una scienza naturale che capisce se stessa, l’in-dividualismo etico non ha nulla da temere. L’osser-vazione mostra che la libertà è l’elemento caratteri-stico della forma perfetta dell’agire umano.

Questa libertà deve venir attribuita al volere umano nella misura in cui esso attua delle intuizio-ni puramente ideali. Queste non sono infatti risul-tati di una necessità che agisce su di esse dal di fuo-ri, ma una realtà fondata su se stessa. Se l’uomo trova che un’azione è il riflesso di una simile intui-zione ideale, la sente come libera. È in questo tratto distintivo di un’azione che risiede la libertà.» (p. 201)

Da queste riflessioni si fa più chiaro il problema sollevato nel primo capitolo, in merito alle due opinioni che dico-no, l’una: esser libero vuol dire poter fare ciò che si vuole, l’altra: esser libero vuol dire desiderare o non desiderare a piacere. Hamerling sostiene la prima, poiché ritiene as-surda la seconda.

Io sono libero quando sono io stesso a produrre, con l’immaginativa, le rappresentazioni che voglio porre alla base della mia azione. Non nel fare qualcosa è la libertà, ma nel modo di volere: libero è colui che può volere lui stesso ciò che ritiene giusto. Poter volere a piacere ciò

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che si ritiene giusto vorrebbe dire: esser libero o non libero a piacere, il che è assurdo.

L’autorità fuori di me può impedirmi di fare ciò che io voglio. Essa mira direttamente a togliermi la libertà non quando mi impedisce o mi comanda il fare, ma quando vuol deliberare nel campo delle mie intenzioni, cioè dei pensieri e delle intuizioni che io pongo alla base dell’a-zione. Un’istituzione o un’autorità che sostituisce i suoi intenti ai miei mi rende non libero.

«È di particolare importanza che l’autorizzazione a designare un volere come libero la si riceve dall’e-sperienza che ci fa dire: nel volere si realizza un’ in-tuizione ideale. Ciò non può che essere risultato di osservazione, e lo è nel senso che il volere umano è visto in una corrente evolutiva, la cui meta sta nel raggiungere la possibilità di un volere sorretto da pura intuizione ideale. Questa meta può venir rag-giunta, poiché nell’intuizione ideale non agisce al-tro che la propria essenza fondata su di sé. Se una simile intuizione è presente nella coscienza umana, essa non si è allora sviluppata dai processi dell’or-ganismo, ma l’attività organica si è ritratta per ce-dere il posto a quella ideale. Se osservo un volere che è riflesso dell’intuizione, ho anche il ritirarsi della necessaria attività organica da un tale volere. Esso è libero.» (p. 203-4)

Come descritto anche nel capitolo sull’idea della libertà, il volere libero svolge dapprima la funzione negativa di

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sospendere l’attività organica, per poi sostituirsi ad essa. Soltanto se siamo capaci di osservare quel primo momen-to (ed è possibile osservarlo) potremo ammettere la realtà della libertà. In caso contrario riterremo ogni atto volitivo come determinato dall’organismo.

13. Il valore della vita (pessimismo e ottimismo)

Il problema dello scopo della vita richiama quello del suo valore. Troviamo qui due posizioni opposte: l’ottimismo e il pessimismo, con tante sfumature in mezzo.

L’ottimista dice che il mondo in cui ci troviamo è il migliore che vi possa essere, congegnato con un’armonia che desta la nostra ammirazione. Il male e il dolore sono solo in vista di maggior bene e di una gioia più piena. Il male non è qualcosa di reale, ma solo assenza di un bene più grande.

Il pessimista, al contrario, vede solo disarmonia, dolo-re, sofferenza. Il dispiacere, per lui, sorpassa infinitamente il piacere. La vita è un peso, e il non essere è di gran lunga preferibile all’esistenza.

Leibniz è il classico ottimista: secondo lui l’uomo non ha che da partecipare all’armonia sapiente del mondo. Schopenhauer è dell’opinione opposta: egli vede l’assolu-to come cieca brama o volontà. Questa brama, che è insaziabile, la porta in sé anche l’uomo. Ogni appagamen-to è una passeggera illusione. La nostra vita è piena di noia, il valore morale supremo è l’universale far niente.

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E. von Hartmann, pur condividendo il pessimismo, lo interpreta però in tutt’altro modo. Partendo dall’espe-rienza e dall’osservazione egli vuole stabilire se sia il pia-cere o il dolore a prevalere nel mondo. Giunge alla con-clusione che ogni tipo di soddisfazione è in realtà un’illusione: alla base di ogni godimento c’è una quantità maggiore di sofferenza e di dispiacere. Il fastidio della sbornia la vince sulla sensazione piacevole dell’ebbrezza. Nel mondo, il dolore sopravanza sempre di gran lunga il piacere.

Pur essendo dolore, la vita non è per Hartmann senza valore: egli vede anzi proprio in questo dolore il valore dell’esistenza, perché l’essere assoluto, che è saggio, ha creato proprio il dolore per i suoi saggi fini. È Dio stesso che vuole liberarsi del suo dolore, e ha creato gli uomini come strumenti di questa liberazione. La moralità consi-ste allora nel partecipare alla liberazione di Dio: l’uomo deve convincersi che la rincorsa del piacere è stoltezza, che non conduce a nulla, e deve perciò dedicarsi al suo vero dovere: la liberazione di Dio.

Ma la teoria di Hartmann è proprio fondata sull’espe-rienza? Ogni aspirazione a un appagamento è un andare oltre il contenuto vitale già presente: la fame vuole rista-bilire la vita corporea; l’aspirazione all’onore vuole ag-giungere all’azione il riconoscimento altrui; la sete di co-noscenza va oltre la percezione aggiungendovi i concetti del pensare. Ogni appagamento di desiderio procura pia-cere; ogni mancato appagamento dispiacere.

Il desiderio come tale non procura dolore: se così fos-

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se, l’assenza di desideri dovrebbe essere accompagnata da piacere. Il contrario è invece vero: se non ci sono aspira-zioni subentra la noia, cioè il dispiacere.

Ogni aspirazione procura gioia: e più intensa è la bra-ma, più intenso il piacere che si sente nel tendere verso l’appagamento, il quale, quando subentra, è un piacere in più, che si aggiunge a quello del desiderio. E quando non viene raggiunto, resta pur sempre la consolazione di aver fatto di tutto per conseguirlo: il godimento dell’anelito non viene diminuito.

Piacere e dispiacere non sono unicamente connessi con l’avvenuto o mancato appagamento: possono anche sorgere entrambi inaspettati, cioè senza previo desiderio. Un’improvvisa malattia non è un mancato appagamento del desiderio di salute: un «desiderio implicito», cioè non reso intenzionale, non è affatto un desiderio, perché l’in-tenzionalità conscia è essenziale al desiderio.

«Chi vuole perciò esaminare se vi sia un’eccedenza dalla parte del piacere o del dispiacere, deve mettere in conto: il piacere che viene dal desiderare, quello che viene dall’appagamento del desiderio e quello che vien dato senza esser desiderato. Sull’altra pa-gina del registro si avrà: il dispiacere che proviene dalla noia, quello che viene dai desideri non appa-gati e infine quello che ci vien dato senza nostri desideri. A quest’ultima specie appartiene anche il dispiacere che ci procura un lavoro che non ab-biamo scelto, ma che ci è stato imposto.» (p. 211)

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Dobbiamo ora chiederci: con quale strumento tiriamo i conti tra il piacere e il dispiacere? Hartmann dice che dev’essere la ragione, ma contraddice se stesso, perché sostiene d’altra parte che i sentimenti (e piacere e dispia-cere sono sentimenti) esistono e valgono nella misura in cui sono vissuti, direttamente sperimentati. Se così è, non posso «giudicare» razionalmente se in me prevale il piace-re o il dispiacere: lo devo «sentire».

Il «giudizio» che la ragione è tentata di dare sui senti-menti, onde correggerne gli «errori», è duplice. Il primo riguarda la natura del desiderio, il secondo quella del sen-timento stesso. Quanto al desiderio la ragione vorrebbe convincerci che, al momento di vagliare piacere e dispia-cere, esso c’inganna, facendoci apparire il piacere come più grande di quello che è. La ragione di ciò è che la nostra brama dell’oggetto desiderato è così forte da farci consi-derare il dispiacere come minore di quello che è in realtà. L’orgoglioso considera il piacere che gli viene dalla lode altrui come più forte del dispiacere per le umiliazioni che riceve: ma s’inganna. È l’intensità della sua brama di adu-lazione a fargli credere che il piacere sorpassi il dispiace-re: egli ingrandisce il primo e rimpicciolisce il secondo, e non sa d’ingannarsi.

L’altro giudizio che la ragione dà sul sentimento è che questo, oltre a essere ingannevole, è illusorio, si fonda cioè su qualcosa che non ha valore. Restiamo allo stesso esem-pio del vanaglorioso: il suo orgoglio non gli consente di vedere che il plauso altrui non ha alcun valore, perché può essere infondato, o comunque la storia insegna che l’opi-

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nione dei molti è per lo più quella sbagliata. L’orgoglioso invece fonda la sua vita proprio su questa. La ragione do-vrebbe mostrargli che i suoi sentimenti sono illusori.

In altre parole, per valutare oggettivamente la somma di piacere e dispiacere, l’orgoglioso dovrebbe spogliarsi del suo amor proprio e servirsi del criterio sobrio e im-parziale della ragione, la quale lo convincerebbe sia dell’inganno, sia dell’illusione. Solo allora conoscerebbe la vera somma di piacere e di dispiacere.

In questa concezione l’errore sta nel fatto di misura-re la realtà dei sentimenti in base al loro presunto valo-re. Ma il piacere è un sentimento, e per conoscerne la quantità devo prendere in considerazione tutti i piaceri così come sono. La soddisfazione che il vanaglorioso prova dalla lode è un sentimento reale. Se più tardi si convince del suo carattere illusorio, passerà a godere di altre cose. Il valore del piacere dev’essere dunque lascia-to da parte.

Se ora poniamo la quantità reale del piacere e del di-spiacere sui due piatti della bilancia, da quale parte si avrà il tracollo? È la ragione in grado di decidere? È lei a deci-dere?

La ragione non può dirimere la questione, per la sem-plice ragione che non può «decidere» che cosa sia reale: deve osservarlo. È dalla percezione che veniamo a sapere se nella vita degli uomini il dispiacere sopravanza il piace-re. Se il contabile dice al commerciante che la ditta è vici-na al fallimento, il secondo non si contenta dei calcoli del primo: vuole che siano confermati dai fatti. Se il filosofo

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mi vuol convincere che il negozio della vita è fallimenta-re, non mi basta la sua speculazione: voglio vederla con-fermata dai fatti.

Ora, il numero dei suicidi è molto esiguo: la stra-grande maggioranza degli uomini prosegue decisa nell’a-zienda della vita. Ne segue o che non è vero che la quan-tità di dispiacere è maggiore, oppure che gli uomini non dipendono, nelle loro aspirazioni, dalla pura quantità del piacere o del dispiacere.

Hartmann vede nella brama del piacere l’impulso ori-ginario e fondamentale. L’uomo però, vedendo che il di-spiacere oltrepassa di gran lunga il piacere (e che non può perciò conseguire quest’ultimo) dovrebbe ragionevolmen-te mettere da parte il suo egoismo (la sete di piacere) e dedicarsi allo scopo morale vero della vita (quello di coo-perare ad alleviare il dolore di Dio).

«Della concezione morale che si aspetta la dedizio-ne a scopi non egoistici in base al riconoscimento del pessimismo non si può dire che superi l’egoi-smo nel vero senso della parola. Gli ideali morali dovrebbero divenire forti abbastanza da impadro-nirsi della volontà solo in seguito al fatto che l’uomo si è accorto che la ricerca egoistica del pia-cere non può essere appagata. L’uomo, il cui egoi-smo brama l’uva del piacere, la trova acerba perché non riesce a coglierla: perciò se ne allontana e si dedica ad una vita altruistica. Gli ideali morali, se-condo il pessimismo, non sono abbastanza forti

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per superare l’egoismo, ma instaurano il loro do-minio sul territorio sgombrato dal riconoscimento della futilità dell’egoismo.» (p. 218-9)

Se l’impulso fondamentale fosse la brama del piacere, e se questo fosse irraggiungibile, ne seguirebbe il desiderio di annientare l’esistenza. La sola cosa che potrebbe dis-suaderne, sarebbe il comprendere che la propria vita e il proprio operare sono necessari alla autoliberazione di «Dio». Dobbiamo però esaminare bene l’assunto fonda-mentale di questa teoria, che cioè la quantità di piacere sia il criterio e la meta ultima dell’agire umano.

La domanda che ci poniamo è: i desideri, cioè le aspi-razioni umane, sono proprio governate dalla sete di pia-cere come tale? Prendiamo un esempio basilare: la fame. L’affamato desidera la sazietà, che è accompagnata da piacere dovuto alla rimozione del dolore della fame. Ma l’uomo può non accontentarsi della sazietà: può divenire un buongustaio e sviluppare desideri che vanno oltre la semplice sazietà. Si serve allora della fame per procurarsi altri piaceri, oltre a quello della sazietà. In questo modo la fame diviene occasione di piacere.

La scienza sostiene che la natura crea più vita e più desideri di quanti ne possa mantenere e soddisfare. In ogni momento le aspirazioni sorpassano gli appagamenti. In questa lotta per avere i mezzi, troppo scarsi, di soddi-sfare i bisogni, molti esseri periscono miseramente.

Se da una parte ciò è vero, non è meno vero che gli appagamenti e i piaceri esistenti non vengono affatto

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diminuiti nella loro intensità, per quanto poco numerosi siano. Ne viene diminuito piuttosto il valore, che dipende dal rapporto tra il numero dei desideri e il numero dei soddisfacimenti. Questo valore può rappresentarsi me-diante una divisione: al numeratore si pone la quantità del piacere, il numero cioè dei desideri appagati; al denomi-natore, i bisogni, i desideri. Il valore è uno quando il nu-mero dei desideri è pari a quello degli appagamenti. È inferiore a uno quando i desideri superano gli appaga-menti. Sarebbe nullo se il numeratore fosse zero, se cioè non fosse presente nessun appagamento, nessuna quantità di piacere. E ciò non è mai il caso.

L’errore del pessimismo è nell’aver interpretato que-sto rapporto qualitativo e proporzionale di divisione, come un rapporto puramente quantitativo di sottrazione: secondo questa, l’uomo sottrarrebbe la somma minore da quella maggiore, cioè paragonerebbe in assoluto la quan-tità di piacere con quella di dispiacere, senza badare al rapporto coi desideri.

È importante perciò comprendere che noi non rap-portiamo il piacere alla somma di dispiacere, bensì al nu-mero e all’intensità dei nostri desideri e delle nostre aspi-razioni: sono questi a costituire il valore del piacere.

«Se ho fame per due panini e ne posso mangiare solo uno, il piacere che ricevo da quell’uno ha sol-tanto metà del valore che avrebbe se io, dopo aver-lo mangiato, fossi sazio. Questo è il modo in cui nella vita viene determinato il valore di un piacere:

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lo misuriamo sui bisogni della vita. I nostri desideri sono la misura, il piacere è ciò che viene misurato. Il piacere della sazietà acquista un valore solo per il fatto che c’è la fame, e acquista un valore di una determinata grandezza in base al rapporto in cui esso si trova con la grandezza della fame che c’è.» (p. 223)

Che il valore di un piacere sia sempre misurato sul desi-derio, lo vediamo particolarmente quando avviene che il piacere comincia a superare l’intensità del desiderio stes-so: in quel momento il piacere si tramuta in dispiacere (a meno che non riusciamo a intensificare il desiderio di pari passo col piacere). Qui appare chiaro che il piacere ha per noi un valore unicamente in rapporto al desiderio. Per chi non sente più il desiderio del mangiare, quest’ul-timo può tramutarsi in nausea.

«Non c’è dubbio che si possano confrontare fra lo-ro il piacere e il dispiacere per determinare l’eccedenza dell’uno e dell’altro, come lo si fa per il guadagno e la perdita. Quando però il pessimismo è dell’avviso che l’eccedenza sia dalla parte del dispiacere e si crede perciò autorizzato a concludere che la vita non ha valore, si sbaglia già in partenza in quanto fa un calcolo che nella vita reale non viene esegui-to.» (p. 224)

Il desiderio si rivolge, nel caso singolo, a un oggetto ben definito. Il valore del piacere nell’appagamento, abbiamo

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visto, dipende dal rapporto tra l’intensità del desiderio e la quantità del piacere. Dall’intensità del desiderio dipen-de però anche la quantità di dispiacere che siamo disposti a subire per conseguirne l’appagamento: anche il dispia-cere non viene dunque misurato sul piacere, ma sull’in-tensità del desiderio. La donna che vuol avere un bambi-no non paragona quantitativamente la sua gioia con il dolore coinvolto: paragona quest’ultimo con l’intensità della brama.

L’uomo, dunque, non cerca mai il piacere in genere, o astrattamente. Ha sempre in mente degli intenti concreti, dei desideri singoli e specifici. Se uno ha fame, non è contento di una passeggiata che procuri la stessa quantità di piacere: il suo desiderio non è quantitativo, è qualitati-vo. È questo il motivo per cui egli è disposto ad accettare il dispiacere e la sofferenza che il conseguimento dei suoi desideri comporta. Ciò vuol dire che il dispiacere non ha per lui lo stesso valore del piacere: il desiderio non para-gona il dispiacere col piacere, ma con se stesso.

La prova di ciò è il fatto che il valore del piacere è tan-to più alto, quanto maggiore la sofferenza necessaria a conseguirlo. Gli esseri non rinunciano ai loro bisogni finché non abbiano superato tutte le difficoltà che si frappongono. La cosiddetta «lotta per l’esistenza» consi-ste proprio in questo; e solo quando le difficoltà si fanno insormontabili cessa la forza degli impulsi e delle brame, in quanto la vita stessa viene meno e l’essere muore. Fino a quel momento, esso non cessa di combattere.

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«La filosofia dovrebbe prima convincere l’uomo che il volere ha senso solo quando il piacere è maggiore del dispiacere; se invece segue la sua na-tura, egli vuol conseguire gli oggetti del suo deside-rio, qualora sia in grado di sopportare il dispiacere che a ciò è necessario, per quanto grande esso sia. Una tale filosofia sarebbe però errata perché fa di-pendere il volere umano da un fattore (eccedenza del piacere sul dispiacere) originariamente estraneo all’uomo. La misura originaria del volere è il desi-derio, e questo si fa valere fin tanto che vi riesce.» (p. 228)

Si può paragonare il rapporto tra piacere e dispiacere co-me segue: un venditore di mele me ne offre una certa quantità a prezzo conveniente, a condizione che gli porti via anche quelle marce, che sono doppiamente numerose. La mia decisione non si basa sulla quantità dei due tipi di mele. Se credo di fare un buon affare, porterò via senz’al-tro anche quelle marce, pur se sono il doppio delle altre.

Se dunque il pessimismo avesse anche ragione nel dire che il dispiacere supera quantitativamente il piacere, que-sto fatto non è determinante per la volontà umana. Que-sta non chiede una somma generale di piacere quantitati-vamente superiore al dispiacere, ma segue delle mire sin-gole, specifiche, e bada alla quantità di dispiacere solo quando questa fa affievolire il desiderio.

Ci si può chiedere se sia poi veramente possibile stabi-lire la quantità di piacere e di dispiacere, e farne il bilan-

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cio. Non c’è ragione per cui ciò non si possa fare, almeno approssimativamente. L’errore è nel credere che l’uomo si lasci determinare da questo risultato. L’unico caso in cui agiamo direttamente in base alla quantità di piacere o dispiacere, è quando siamo indifferenti. Se interrompo il lavoro per un momento di sollievo, scelgo l’occupazione che mi procura più piacere, e non appena prevale il di-spiacere la lascio, perché non è quell’occupazione che io voglio, ma il sollievo.

Il pessimismo vorrebbe distogliere l’uomo dall’egoi-smo (aspirazione al piacere) mostrandogli che il dispiace-re prevale. In questo modo vorrebbe convincerlo a la-sciare la caccia al piacere, e a dedicarsi al dovere morale.

«L’etica del pessimismo crede di dover presentare all’uomo come impossibile la caccia alla felicità, af-finché egli si dedichi ai suoi veri compiti morali. Ma questi compiti morali non sono altro che gli impulsi naturali e spirituali concreti: al loro appagamento si aspira nonostante il dispiacere che s’ incontra per via. La caccia alla felicità che il pessimismo vuole estirpare, non esiste dunque affatto. I compiti che l’uomo deve svolgere, li adempie perché ciò vuole lui stesso in virtù del proprio essere, qualora abbia dav-vero conosciuto la loro essenza.» (p. 230-1)

Ciò a cui l’uomo mira non è fuori del suo essere (che sa-rebbe allora uno scopo per il quale lui è strumento) ma è parte di lui: egli vuole realizzare il proprio essere, in tutte le sue dimensioni. È lui stesso lo scopo della propria vita.

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Non si propone di conseguire «il piacere», ma di esprimere ciò che porta dentro di sé. Non ha bisogno di farsi dire da una morale normativa ciò che deve volere, e che vorrebbe perciò senza che il suo essere veramente lo voglia.

L’uomo che sviluppa in sé l’immaginativa morale ve-de sorgere in sé gli ideali morali non meno di qualsiasi altro desiderio: essi sono voluti da lui intensamente, e il loro conseguimento dà profondissima gioia da una parte e consente dall’altra di sopportare prove e dispiaceri, per quanto grandi essi siano. Questi ideali divengono allora il contenuto del suo essere: non sono più ciò che egli deve, ma ciò che egli è. Sono ciò che egli vuole con fortissima passione: il bene diviene in questo modo ciò che l’uomo profondamente ed essenzialmente vuole, non più solo ciò che egli deve. Voler fondare la morale sull’estirpazione del piacere procurato dall’appagamento dei desideri vuol dire non prendere in considerazione proprio le aspirazioni più profonde ed essenziali dell’es-sere umano.

Il pessimismo non prende in considerazione l’immagi-nativa morale, propria dell’uomo: ritiene l’individuo non in grado di darsi da sé gli obiettivi morali. Che l’uomo abbia istinti e brame inferiori: a ciò pensa la natura. Per diventare uomo compiuto, egli deve sviluppare le brame spirituali, che però sorgono in lui come «brame» del suo essere, non come leggi dal di fuori. Solo chi pensa che l’uomo non ha queste brame, dirà che gli devono venir date dalla legge. E allora dovrebbe fare ciò che in effetti non vuole. Per l’agire morale non basta il soggiogamento

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della natura inferiore: ci vuole l’esplicazione totale delle facoltà spirituali.

Va da sé che tutto ciò può venir facilmente frainteso. L’uomo istintuale tende a vedere gli impulsi della sua natura inferiore come la realtà totale dell’uomo. Nega gli impulsi spirituali, così da poter tranquillamente lasciarsi andare. Chi non ha ancora fatto suoi i desideri dello spirito, deve prima essere condotto per mano dalla nor-ma che lo educhi e lo faccia crescere. Ciò che qui si vuol descrivere non è ciò che c’è e che vale per l’uomo non libero, ma ciò che è possibile quando l’uomo diventa sem-pre più libero: qui lo scopo è quello di mostrare la pos-sibilità della libertà.

«L’uomo che diventa maturo conferisce a se stes-so il proprio valore. Egli non tende al piacere, che gli viene offerto come dono gratuito dalla natura o dal creatore; e neppure compie il dovere astrat-to riconosciuto come tale dopo essersi sbarazzato dalla brama del piacere. Agisce secondo la propria volontà, cioè in conformità con le proprie intui-zioni etiche, e sente come vero godimento della sua vita il conseguimento di ciò che vuole. Il valo-re della vita egli lo determina in base al rapporto fra ciò che ha raggiunto e ciò a cui ha aspirato.» (p. 235)

L’uomo è in questo modo un essere fondato su se stesso. Dalla sua libertà fluisce non solo lo scopo, ma anche il valore della vita: dalla sua volontà libera che tende a rea-

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lizzare il proprio contenuto. E trova in ciò la vera gioia. Egli rende il valore morale a tal punto parte essenziale del proprio volere, che l’agire non morale sarebbe per lui una deformazione, una mutilazione del proprio essere.

14. Individualità e specie

Contro il fatto che l’uomo sia chiamato a essere indivi-dualità libera e autonoma sembra porsi l’altro fatto che egli nasce e cresce come membro di una realtà sociale e culturale. Porta in sé necessariamente i tratti comuni alla sua razza, al suo popolo e al suo ambiente.

Essere membro di un organismo vuol dire esser de-terminati in qualche modo dall’insieme dell’organismo stesso. Per capire il comportamento del singolo membro devo rivolgermi alla natura dell’organismo.

L’uomo però è capace di liberarsi gradualmente da ciò che è la specie in lui, non nel senso di eliminarlo da sé, ma di farne lo strumento del suo ulteriore sviluppo per-sonale e individuale. È capace di dare a ciò che è della specie una forma del tutto individuale, che sia espressio-ne del suo essere proprio. Quando ciò avviene, le caratte-ristiche della specie non bastano più a spiegare l’indivi-duo: per capire quest’ultimo dobbiamo rivolgerci a ciò che è unico in lui.

Il campo in cui più ci si ostina a spiegare l’individuo mediante la specie è quello della realtà dei sessi. Troppo si attribuisce alla natura maschile o femminile come tale,

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e troppo poco all’individuo. Ciò è a scapito soprattutto della donna, che viene giudicata quasi esclusivamente in base alla «natura dell’essere femminile», e non in base a ciò che è proprio della singola donna come individuo. Invece di dibattere nella società che cosa si confaccia alla «donna» e che cosa no, sarebbe meglio lasciare alle donne stesse di decidere, individualmente, ciò che vogliono e non vogliono. Più importante della comune «indole femmini-le» sono le qualità e i talenti di ogni persona singola.

Se nella considerazione dell’individuo ci fermiamo alla specie in lui, non vediamo tutto quello che in lui è appunto individuale. Tra ciò che è della specie e ciò che è dell’in-dividuo c’è come una linea di demarcazione: ciò che è al di sotto di questa linea (la specie) può essere oggetto di scienza positiva, che studia i caratteri delle razze, delle culture, dei sessi, ecc. Non appena si oltrepassa questa linea e si entra in ciò che è proprio dell’individuo, non valgono più le leggi della scienza specifica. Là dove co-mincia la libertà dell’individuo (nel pensare e nell’agire) termina il suo venir determinato dalle caratteristiche della specie. Le intuizioni di un individuo non possono essere le stesse che ha un altro. Nessuna scienza può stabilire come un dato individuo debba pensare.

«L’individuo deve acquisire i suoi concetti median-te intuizione propria. Non è possibile dedurre da nessun concetto di specie in qual modo il singolo debba pensare: a questo riguardo è determinante solo e unicamente l’individuo. Né si può determi-

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nare in base a caratteri umani generali quali intenti concreti l’individuo vorrà prefiggere al suo volere. Chi vuol comprendere l’ individuo singolo deve penetrare fin nella sua entità particolare, e non fermarsi a caratteri tipici. In questo senso ogni sin-golo uomo è un problema. E ogni scienza che si occupa di pensieri astratti e di concetti specifici è solo una preparazione alla conoscenza che ci viene data quando una individualità umana ci comunica il suo modo di vedere il mondo, e all’altra conoscen-za che ci deriva dal contenuto del suo volere. Quando ci accorgiamo di aver a che fare con ciò che in un uomo è libero dal modo di pensare tipico e dal volere specifico, là dobbiamo cessare di ser-virci di qualsiasi concetto preso dal nostro spirito, se vogliamo capire il suo essere.» (p. 240-1)

Ogni realtà viene conosciuta congiungendo la percezione con il concetto corrispondente. E come conosciamo noi l’individuo umano? La percezione di lui ci viene data dai sensi. Il suo concetto non lo possiamo trarre dal nostro patrimonio concettuale, ma lo possiamo unicamente ri-cevere da lui, che ne è il libero creatore. Ciò vale però unicamente per ciò che in lui è davvero individuale, e non tipico.

«Solo nella misura in cui l’uomo si è, nel modo in-dicato, reso libero da ciò che è della specie, va con-siderato come spirito libero in seno a una colletti-vità umana. Nessun uomo è del tutto specie, nes-

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suno è tutto individualità. Ma un po’ alla volta ogni uomo libera una sfera più o meno ampia del pro-prio essere sia da ciò che è specifico della vita ani-male, sia dal dominio che hanno su di lui le norme di autorità umane.» (p. 241)

Valore morale in senso vero e proprio ha solo quella parte del proprio agire nella quale l’individuo segue la propria immaginativa morale: questa intuisce intenti morali nuovi e individuali, oppure fa proprie le intuizioni altrui, qualora le trova valide. La vita morale dell’umanità è la somma delle intuizioni immaginative degli individui umani liberi.

Le questioni ultime: le conseguenze del monismo

La spiegazione unitaria del mondo consiste nel fatto che essa è presa da ciò che l’uomo sperimenta, e non da qual-cosa che è «oltre» ciò che è a lui accessibile sia esterior-mente sia interiormente. Ciò vale anche per le fonti del suo agire morale: anch’esse sono poste nel suo essere, e non «al di là» di esso.

Il fondamento ultimo del mondo è accessibile alle fa-coltà umane della percezione e del pensare, in quanto esso non si pone fuori del mondo. L’unità del mondo non risiede in qualche specie di essere assoluto ipostatiz-zato (che è necessariamente concepito alla maniera del percepibile), ma è quella che il pensare stesso conferisce

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alle percezioni quando ne trova i concetti corrispondenti. È solo nella percezione che noi ci separiamo dal fonda-mento del mondo: col pensare diventiamo di nuovo uno con esso. Esseri singoli e separati non ci sono: appaiono tali solo alla percezione, la quale, invece di presentarci la realtà, ci fa uscire da essa.

«Il monismo, come qui è inteso, mostra che si può credere a tale indipendenza solo fino a quan-do il percepito non viene intessuto mediante il pensare nella trama del mondo dei concetti. Quando ciò avviene, l’esistenza parziale si palesa come pura parvenza della percezione. La propria esi-stenza in sé conchiusa e totale nell’universo, l’uo-mo la può trovare solo mediante l’esperienza in-tuitiva del pensare. Il pensare infrange l’apparenza della percezione e inserisce la nostra esistenza in-dividuale nella vita del cosmo. L’unità del mondo dei concetti, che contiene le percezioni oggettive, assume in sé anche il contenuto della nostra per-sonalità soggettiva. Il pensare ci dà, della realtà, il vero aspetto, come di una unità in sé compiuta, mentre la molteplicità delle percezioni è solo un’apparenza proveniente dalla nostra costituzio-ne.» (p. 246)

Qualora si ritenga che l’unità del mondo, quale raggiunta col pensare, abbia un significato puramente soggettivo, ci si vede costretti a cercarne un’altra «oggettiva». Questo fondamento «oggettivo» non può che esser preso dagli

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«oggetti» della nostra esperienza, i quali vengono assolu-tizzati e ipostatizzati: ciò avviene togliendo ad essi alcune delle loro qualità percepibili e lasciandone altre. In questo modo si vuol andare oltre ciò che fa parte dell’esperienza per porre il fondamento del mondo in qualcosa che non è sperimentabile.

«In questa prospettiva, la ragione per cui noi com-prendiamo con un pensare disciplinato il nesso uni-versale si credeva risiedere nel fatto che un essere primordiale ha costruito il mondo secondo leggi logiche, e il fondamento del nostro agire lo si rav-visava nella volontà dell’essere primordiale. Non ci si rendeva però conto che il pensare abbraccia ad un tempo il soggettivo e l’oggettivo e che nel con-giungere la percezione col concetto troviamo la real-tà totale.» (p. 247)

Per evitare questo dualismo bisogna comprendere che i concetti che il pensare ricongiunge con le percezioni non sono soggettivi, ma sono presi dalla realtà stessa: sono anch’essi esperienza, anche se non proveniente dalla per-cezione esteriore. I concetti quali considerati in sé astrat-tamente, senza riferimento alla loro percezione, non sono più reali della percezione senza il suo concetto: anche questa separazione proviene dalla nostra struttura cogniti-va, e non dalla realtà.

«Solamente il rapporto fra i due, la percezione che si inserisce nell’universo secondo leggi, è piena real-

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tà. Se consideriamo la pura percezione in sé, non abbiamo una realtà, ma un caos sconnesso; se con-sideriamo in sé le leggi che reggono le percezioni, abbiamo a che fare unicamente con concetti astratti. Non è il concetto astratto che contiene la realtà, ma l’osservazione pensante, che non considera unilate-ralmente né il solo concetto, né la percezione per se stessa, ma il rapporto fra i due.» (p. 248)

Il pensare non è né soggettivo né oggettivo, ma una real-tà che abbraccia l’uno e l’altro aspetto. Quando congiun-giamo percezione e concetto facciamo qualcosa che ap-partiene alla realtà stessa nel suo svolgersi. Non possiamo «escogitare» l’essenza del reale mediante astratta specula-zione: al contrario, quando percepiamo pensando viviamo nel reale. Non c’è bisogno di porre al di là della nostra esperienza qualcosa di non sperimentabile che ne sia il fondamento. Il concetto in sé, da solo, è esso pure non reale: deve congiungersi alla percezione per esser piena realtà.

«Il monismo mostra che noi col nostro conoscere afferriamo la realtà nella sua vera forma, e non in un’immagine soggettiva che venga a frapporsi tra l’uomo e la realtà» (p.249).

Il mondo dei concetti è uno solo, e tutti gli individui umani vi attingono. Non ci sono molti concetti del leone, ma ce n’è uno solo, che è lo stesso sia che lo pensi un indi-viduo, sia che lo pensi un altro.

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«Il contenuto ideale di un altro uomo è pure il mio, e io lo vedo come altro solo finché percepisco, ma non più appena io penso. Ogni uomo abbraccia col suo pensare solo una parte del mondo complessivo delle idee, e in questo senso gli individui si distin-guono anche per il contenuto effettivo del loro pen-sare. Ma questi contenuti si trovano in un tutto in sé conchiuso, che abbraccia i contenuti di pensiero di tutti gli uomini. Il comune essere originario, che compenetra tutti gli uomini, l’uomo lo afferra così col suo pensare. Vivere nella realtà con la pienezza di contenuto del pensare è ad un tempo vivere in Dio. L’ ‹al di là› puramente dedotto e non sperimen-tabile si fonda su un malinteso di coloro che credo-no che l’ ‹al di qua› non abbia in sé il fondamento della propria esistenza. Non si rendono conto di trovare col pensare ciò che richiedono per spiegare la percezione. E difatti non c’è stata mai speculazio-ne che abbia prodotto un contenuto che non sia sta-to preso dalla realtà a noi data.» (p. 250)

Come può l’uomo infatti «uscire» dal mondo in cui si trova? Se crede di entrare in un «altro» mondo, come potrebbe questo essere diverso dal primo, se lui è ancora lo stesso? Come può parlare di qualcosa che ritiene «ol-tre» la propria esperienza, se non sperimentandolo? Un fon-damento del mondo posto oltre l’esperienza, quali van-taggi potrebbe avere su uno lasciato dentro? Ogni con-cetto per il quale non si può indicare la percezione corri-

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spondente è un’astrazione vuota e ingiustificata. Possia-mo escogitare i concetti della realtà; per trovare la realtà stessa dobbiamo aggiungervi la percezione. Un essere assoluto il cui contenuto viene puramente «escogitato» è del tutto irreale.

«Il monismo non nega ciò che è ideale, considera anzi come realtà non piena un contenuto di perce-zione cui manca l’aspetto ideale corrispondente. D’altra parte, esso non trova, in tutto l’ambito del pensare, nulla che ci induca a uscire dalla sfera di esperienza del pensare, venendo a negare la realtà oggettivamente spirituale del pensare.» (p. 251-2)

Come è realtà incompleta la percezione senza il concetto, così lo è il concetto cui non corrisponde nessuna perce-zione: idee che si riferiscono a qualcosa che è oltre la nostra esperienza sono ipotesi ingiustificate. Esse sono difatti astrazioni fatte dall’esperienza, la cui provenienza non viene riconosciuta.

Lo stesso vale per gli intenti del nostro agire. Essi non provengono da un essere assoluto che è oltre l’uomo e che comunica a questo i suoi scopi, ma provengono dall’espe-rienza intuitiva dell’immaginativa morale dell’uomo stes-so. Non si tratta di comandamenti che vengono «comuni-cati» da un al di là a un al di qua, ma di intuizioni umane. L’uomo è fuori di «Dio» solo quando manca di imma-ginativa morale: con questa egli vive in lui, e ciò facendo è nel cuore del proprio essere stesso, non «oltre» se stes-so. Solo nell’uomo può un intento divenire volere reale.

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«Idealmente, questo impulso è senz’altro determi-nato nel mondo unico delle idee; praticamente pe-rò solo l’uomo lo può trarre da quel mondo e tra-durre in realtà. Per la trasformazione attuale di un’idea in realtà mediante l’uomo, il monismo può trovare la ragione solo nell’uomo stesso. L’uomo deve volere che un’idea diventi azione, prima che ciò possa accadere. Un tale volere ha quindi il suo fondamento unicamente nell’uomo stesso. L’uomo è allora il fattore determinante ultimo della propria azione. Egli è libero.» (p. 253)

Ci sono tante azioni umane che non sono libere nel sen-so qui indicato. Qui si voleva mostrare da una parte le condizioni della libertà, e dall’altra la sua possibilità reale. Poiché la seconda parte di questo libro trova il suo fon-damento nella prima, l’uomo si sperimenta come essere libero in quanto il pensare intuitivo è la sua propria attivi-tà spirituale ed essenziale, un’attuazione di sé libera per-ché fondata su se stessa.

Il pensare è una realtà spirituale che, oltre a essere da noi attivamente prodotta, viene anche da noi percepita con osservazione introspettiva, è cioè una percezione che non si serve di un organo sensorio fisico. Nel pensare l’uomo si trova dunque in una realtà spirituale anche come essere percipiente. Ci chiediamo ora: è l’uomo capace di percepi-re unicamente la realtà sensibile, oppure possiamo suppor-re che gli sia possibile anche percepire delle realtà spirituali? La risposta a questa domanda ci viene dalla percezione

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interiore dell’attività puramente spirituale del pensare: avendo qui una prima percezione dello spirituale che non è straordinaria o intermittente, ma costantemente possibile per ogni uomo, siamo autorizzati a supporre che l’uomo sia capace, se ne sviluppa in sé le facoltà, di ulteriori perce-zioni nello spirituale. Quest’ultime avrebbero bisogno di ricevere il loro complemento dai concetti del pensare non meno delle percezioni sensibili.

Appendice (aggiunta alla nuova edizione del 1918)

Questa breve aggiunta ha lo scopo di chiarificare alcuni problemi che sorgono unicamente in campo filosofico, e che provengono dai pensatori che si irretiscono nel labi-rinto dei loro stessi pensieri senza poterne venire a capo.

La difficoltà fondamentale sta nel capire come gli in-dividui umani possano comunicare tra di loro. Ognuno di loro, si dice, è chiuso nella sua propria coscienza e non può vedere in quella dell’altro. Come possono sapere di appartenere allo stesso mondo?

Chi, partendo da ciò che è conscio, pensa di poter fare illazioni su ciò che non lo è, si dice: il mondo della mia coscienza è la rappresentazione del mondo reale che io non posso raggiungere con la coscienza stessa, e che ne è la causa. In quel mondo reale si trova sia la mia persona, sia quella dell’altro che mi sta davanti. Queste due perso-ne reali (che non entrano nella nostra coscienza) esercita-

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no l’una sull’altra un influsso reale, che come tale resta esso pure fuori della coscienza. In quest’ultima si ha la rappresentazione soggettiva di quel processo reale che è l’interazione delle due persone.

Ciò che qui avviene, è che al mondo reale se ne ag-giunge un secondo inventato, per la paura che, essendo quello vero realmente dentro alla coscienza, si giunga poi all’affermazione che la realtà dell’altro esiste solo dentro di me.

Quando incontro un’altra persona, ho anzitutto da-vanti a me la percezione sensibile: ciò che vedo, ciò che sento ecc. Mediante il pensare però comprendo che ciò che si presenta ai miei sensi è la manifestazione di una realtà animica invisibile. Il visibile si presenta e si cancella allo stesso tempo: mentre questo avviene, mi vedo indot-to a sospendere il mio proprio pensare e a sostituirlo con quello dell’altro.

«Il suo pormisi davanti è allo stesso tempo il suo dissolversi in quanto puro fenomeno sensorio. Ma ciò che mi presenta in questo dissolversi mi costrin-ge, finché dura la sua azione, a spegnere, in quanto essere pensante, il pensare mio proprio, per sosti-tuirvi il suo. Questo suo pensare io l’afferro però col mio pensare quale esperienza come il mio pensare stesso. Ho realmente percepito il pensare dell’altro. La percezione immediata che si dissolve nella sua qualità di apparenza sensibile viene infatti afferrata dal mio pensare, ed ho un processo che si svolge in-

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teramente dentro alla mia coscienza, che consiste nel fatto che al posto del mio pensare si pone il pensare dell’altro. Coll’estinguersi della manifestazione sen-sibile viene effettivamente sospesa la separazione fra le due sfere di coscienza». (p. 260-1)

Mentre io vivo in me il contenuto della coscienza altrui, quello della mia viene sospeso come avviene nel sonno. La differenza è nel fatto che nel sonno subentra l’assenza di coscienza, qui invece il contenuto di quella dell’altro; e poi nel fatto che il passaggio da un contenuto all’altro di coscienza è così veloce da passare per lo più inosservato. Come si vede, anche l’incontro di due coscienze va spie-gato ricorrendo alla percezione e al pensare, che sono le sole due realtà che l’uomo sperimenta. Oltre ad esse non c’è mai bisogno di andare.

Eduard von Hartmann ha definito il pensiero della Filo-sofia della libertà un monismo gnoseologico, da lui ritenuto impossibile. Egli vede solo tre posizioni possibili nella teoria della conoscenza: il realismo ingenuo (che vede nel percepito il reale); l’idealismo trascendentale (la cosa in sé è del tutto inconoscibile); il realismo trascendentale (la co-scienza non sperimenta direttamente la cosa in sé, ma solo tramite illazioni a partire da ciò che è nella coscienza).

Per mostrare che non vi possono essere altri punti di vista, Hartmann pone tre domande, alle quali, secondo lui, ci sono per ognuna solo tre risposte possibili, corri-spondenti ai tre punti di vista indicati. La prima domanda è: sono le cose a carattere continuo o intermittente? Il

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realismo ingenuo dirà: continuo; l’idealista trascendentale dirà: intermittente; il realista trascendentale dirà: continuo come contenuto della coscienza assoluta, intermittente come contenuto della coscienza limitata.

La seconda domanda: se tre persone sono sedute a un tavolo, quante copie del tavolo vi sono? Il realismo inge-nuo dice: una; l’idealista trascendentale dice: tre; il reali-smo trascendentale dice: quattro (il tavolo come cosa in sé, e le tre nelle coscienze).

La terza domanda: se due persone sono sole in una stanza, quante copie ci sono di queste persone? il realista ingenuo risponderà: due; l’idealista trascendentale rispon-derà: quattro; il realista trascendentale risponderà: sei (due persone in sé e quattro rappresentazioni, in ognuno quel-la di sé e dell’altro). Hartmann non vede altre risposte possibili.

La Filosofia della libertà non solo trova altre risposte, ma le ritiene le sole giuste. Alla prima domanda risponde: alla percezione le cose si presentano come intermittenti, e proprio per questo essa non dà la realtà ma porta fuori dal reale. Al pensare invece il contenuto del mondo si presenta come continuativo. Quanto alle tre persone sedute ad un tavolo: il tavolo è uno solo; le tre immagini percettive non sono realtà, e lo diventano quando, grazie al pensare, si uniscono nell’unica realtà del tavolo. Per le due persone in una stanza: anche qui, le due immagini percettive sussistono in ciascuno finché non subentri il pensare che abbatte il muro divisorio tra le due coscien-ze. Si dirà che questo è un realismo ingenuo riguardo al

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pensare, ma quest’opera ha voluto proprio mostrare che, riguardo al pensare, il punto di vista del realismo ingenuo è il solo giusto. Né si tratta di un monismo gnoseologico, ma, se proprio si vuole un nome, di un «monismo dei pensieri» (Gedanken-Monismus).

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III. SINTESI

LE CONSEGUENZE DELLA FILOSOFIA DELLA LIBERTÀ

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1. La visione unitaria del mondo

Il concetto di visione unitaria del mondo è fondamentale per una comprensione della Filosofia della libertà di Steiner. È il punto di vista dal quale tutto deve venire compreso, l’orizzonte conoscitivo che ispira e rischiara ogni scelta e ogni decisione.

Steiner usa di solito il termine «monismo» (Monismus) a indicare il proprio pensare, ma questo termine può dar adito a confusione. Infatti, nel secondo capitolo del suo libro egli stesso chiama monismo quella teoria errata, che vuol ridurre il reale o alla sola materia (negando lo spiri-to) o al solo spirito (negando la materia)8. Sarebbe stato meglio, secondo me, se Steiner avesse distinto chiara-mente la terminologia: o riservando il termine «moni-smo» per l’uso fattone nel secondo capitolo (e trovando allora un altro termine per la propria visione); oppure riservando il termine di monismo a sé, senza usarlo per teorie diverse dalla sua, o addirittura opposte. Si tratta qui però di una pura questione di terminologia, che non toc-ca il contenuto dell’opera. In base a queste considerazio-ni, io userò continuamente l’espressione «visione unitaria del mondo», che è presa essa pure dal nostro testo (ein-heitliche Welterklärung)9.

8 Die Philosophie der Freiheit, GA 4 (1978), p. 29-35 9 Idem, p. 245

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Si tratta ora di comprendere il significato centrale di questo cardine della Filosofia della libertà.

Steiner ha sviluppato ed espresso il suo pensiero, co-me ho mostrato nella prima parte, non nell’isolamento, ma inserendosi appassionatamente e vivacemente nel contesto culturale dei suoi giorni. Si è trovato in mezzo a due correnti fondamentali in lotta fra loro, e ha visto chiaramente sia la parte di verità sia la parzialità di en-trambe. Da una parte c’era la scienza naturale, capeggiata da Haeckel; dall’altra la religione tradizionale, rappresen-tata soprattutto dalla teologia. La filosofia, che avrebbe dovuto fare da ponte tra le due, era caduta, alla fine del secolo scorso, in discredito sia presso gli uni che presso gli altri.

La scienza era tutta rivolta al mondo della materia. Fu come un’ipnosi del fenomeno sensibile ad afferrare le generazioni della seconda metà del sec. XIX. Si creò una mentalità che voleva spiegare l’intero universo con le leggi dei processi fisici e meccanici. Lo spirito stesso, il pensiero umano, doveva spiegarsi mediante i movimenti delle cellule del cervello. La «cosa in sé», oltre le perce-zioni, era stata dichiarata da Kant inconoscibile. Fu per-ciò lasciata da parte e ci si rivolse alla sola cosa ritenuta reale e conoscibile: il mondo materiale.

La teologia voleva difendere il mondo dello spirito, ma ne parlava essa pure come di una «cosa in sé» incono-scibile, da accostare con la fede più che con il pensiero. L’insistenza unilaterale sulla trascendenza, faceva pensare a Dio quasi in termini spaziali: un Dio che è «al di là», che

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è oltre, che non è raggiungibile dalla creatura, la quale si trova «al di qua».

Questa scienza e questa teologia hanno in comune una cosa: la tendenza a svalutare l’uomo. Una materia che non ha spirito, e uno spirito che è «oltre» la materia non hanno posto per quell’essere che armonizza in sé la mate-ria e lo spirito: la persona umana. La scienza gli parla del suo corpo; la teologia della sua anima. L’una parla di as-soluto determinismo, l’altra di libertà. Ma dove si trova l’unione dei due? L’ordine naturale e l’ordine morale so-no forse due binari che non s’incontrano mai?

«Si tratta appunto del fatto che questo mondo, per quanto profondamente ci si spinga nei mondi spiri-tuali, va concepito come unitario, di modo che tutto ciò che è spirito deve allo stesso tempo venir cerca-to nell’esistenza materiale. Si è recato allo sviluppo recente della nostra concezione del mondo il danno più incalcolabile per il fatto che gli uomini hanno voluto sempre di nuovo riferirsi a qualcosa di inde-finito, a un vago ‹al di là›, uscendo fuori da ciò che è esperienza immediata. Questo ‹al di là› deve diventa-re, proprio mediante la contemplazione spirituale, un ‹al di qua›, una realtà che è veramente qui presen-te. Per questo motivo io dovetti nella mia teoria del-la conoscenza combattere tutte le vaghe rappresen-tazioni di un ‹al di là› e dovetti appunto respingere ben lontano da me tutto ciò che nelle attuali confes-sioni religiose vuol sempre di nuovo coltivare queste

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vaghe rappresentazioni dell’al di là. E dovetti, pro-prio al fine di salire gradualmente a una vera com-prensione del Cristo, presentare come da scartarsi per l’umanità del futuro tutto ciò che rende difatti nebuloso il vero impulso del Cristo. Dev’essere chiaro infatti che il modo moderno di distinguere tra rivelazione e scienza esteriore, instaurato proprio sotto la protezione delle correnti teologiche, reca grave danno alla nostra crescita spirituale. Perciò non dovrebbe sorprendere nessuno il fatto che io abbia respinto nel mio periodo filosofico il cristia-nesimo comune, poiché è proprio a motivo del Cri-sto che esso va respinto». (Die geistigen Hintergründe der

sozialen Frage, IV Band (1951), p. 59)

Alla scienza Steiner vuol indicare la realtà dello spirito. Alla religione ne vuole indicare la conoscibilità.

«Queste due cose: la prima, che c’è un regno spiri-tuale, la seconda: che l’uomo è inserito in questo regno dello spirito con l’Io più intimo del proprio essere. Ecco i punti fondamentali della Filosofia del-la libertà. (Die Geschichte und die Bedingungen der anthro-

posophischen Bewegung..., GA 258 (1959), p. 44)

Questo è l’atteggiamento spirituale che guida il pensiero di Steiner. È da questo duplice intento che possiamo comprendere più specificamente il significato filosofico e teologico della sua visione unitaria del mondo. Egli vuol mostrare che l’uomo, nell’esercizio delle sue facoltà co-

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gnitive spirituali, vive dentro al reale, è in comunione con l’essere, partecipa al divenire del mondo.

In un articolo del 1893, commentando la storia della filosofia pubblicata da V. Knauer (Vienna 1892), Steiner distingue due specie di monismo:

«Knauer non riconosce la differenza tra monismo astratto e monismo concreto. Il primo cerca un’uni-tà accanto e al di sopra delle cose singole del co-smo. Questo monismo si trova sempre a disagio nel dover rendere comprensibile e dedurre la plu-ralità delle cose dall’unità assolutizzata. Ne segue di solito che esso dichiara la molteplicità come appa-renza, e ciò comporta una totale volatilizzazione della realtà data. Il sistema iniziale di Schopenhauer e quello di Schelling sono due esempi di questo monismo astratto. Il monismo concreto ricerca il principio universale unitario dentro alla realtà vi-vente. Non cerca una unità metafisica accanto al mondo dato, ma è convinto che questo mondo da-to contiene in sé le fasi evolutive nelle quali il prin-cipio universale articola ed esplica se stesso.

Questo monismo concreto non cerca l’unità nella molteplicità, ma vuole concepire la moltepli-cità come unità. Il concetto di unità che sta alla ba-se del monismo concreto la concepisce come so-stanziale, cioè tale da porre in se stessa la differen-ziazione. Ad essa si contrappone quell’unità che è in sé del tutto indifferenziata, cioè assolutamente

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semplice (come i reali di Herbart), e quell’altra che assomma in una unità formale i caratteri di ugua-glianza che trova nelle cose, un po’ come si as-sommano dieci anni in un decennio. Knauer cono-sce solo questi ultimi due concetti di unità. Il pri-mo, che riesce a spiegare le cose differenziate della realtà unicamente in base all’interazione di molti reali semplici, può condurre al pluralismo; il secon-do porta al monismo astratto, perché la sua unità non è immanente alle cose, ma esiste accanto e al di sopra di esse. Egli ignora gli elementi monistico-concreti della filosofia recente. Per questa ragione mi pare carente questa parte delle sue lezioni.

Io aderisco al monismo concreto. Grazie ad esso mi è possibile comprendere i risultati della scienza recente, e cioè della scienza degli organismi di Goe-the, Darwin e Haeckel. Se Knauer avesse preso in considerazione la scienza del mondo organico, nel-la sua esposizione, come lo ha fatto più che giu-stamente per quello inorganico (equivalenza termi-ca, costanza dell’energia, seconda legge generale della teoria del calore), allora si sarebbe reso conto della difficoltà che comporta l’applicazione del plu-ralismo. È impossibile spiegare senza contraddi-zioni la teoria evoluzionistica (e le sue conseguen-ze: teoria dell’ereditarietà e dell’adattamento, legge biogenetica fondamentale) servendosi dell’intera-zione di reali semplici distinti». (Methodische Grundla-

gen der Anthroposophie, GA 30 (1961), p. 330-1)

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Steiner vede così nel monismo astratto o formale, tipico di molta filosofia e teologia del suo tempo, un pluralismo di stampo monadistico. L’unità viene difatti affermata parallelamente alla pluralità, non come sua essenza.

Il quesito più importante che sorge di fronte a ogni ti-po di monismo è quello del rapporto tra trascendenza e immanenza di Dio, e del pericolo di panteismo.

Si può applicare ai concetti di immanenza e trascen-denza la stessa riflessione che Steiner applica ai concetti di soggetto e oggetto, mostrando come essi siano en-trambi prodotti dal pensare10. Il pensare come tale non può essere definito né in termini di trascendenza, né in termini di immanenza, perché è lui a fare scaturire da sé l’uno e l’altro concetto. La mentalità dogmatica nella filo-sofia tende a ipostatizzare i concetti facendone degli esse-ri «metafisici»: è in questo modo che il «trascendente» viene immaginato come un essere assoluto. Si dimentica che anche la trascendenza è un concetto prodotto dal pensare, e rimanda al pensare come realtà fondata su se stessa.

Con l’avvento progressivo del materialismo, il concet-to di essere si è spostato dall’attività spirituale verso l’og-getto da essa prodotto o contemplato. L’attività è stata sempre più considerata come irreale, e l’oggetto come unica realtà. La trascendenza astratta e formale di molta filosofia e teologia è, paradossalmente, frutto diretto di questa mentalità materialistica. Vede l’essere non nell’e-

10 Die Philosophie der Freiheit, GA 4 (1978), p. 60

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sercizio vivente del pensare, ma nell’oggetto (visibile o invisibile) che il pensare produce (idealismo) o osserva (empirismo). L’analogia della percezione sensibile (il guardare l’essere che è fuori di me) è divenuta più che analogia; è stata presa a modello della conoscenza spiri-tuale stessa.

L’ «immanenza» che è propria dell’esperienza vissuta del pensare non è negazione di trascendenza: è al contra-rio il solo vero modo di trascendere. Tutti gli «oggetti» della conoscenza (materiali e spirituali) si pongono sulla sponda di ciò che è dato; il pensare è la loro trascenden-za: li strappa dal loro isolamento e li porta «oltre se stessi» in quel regno unitario che il pensare stesso è.

Ma non vuol dire questo ipostatizzare il pensare, dan-dogli una funzione assoluta al posto di Dio? Non è questo ciò che Hegel ha fatto? No: Hegel ha reso assoluti i pro-dotti del pensare (le idee e i concetti), non l’attività vivente del pensare in quanto essere spirituale. Nel pensare abbia-mo lo spirituale stesso a nostra portata, perché lo possia-mo esperire interiormente e direttamente. Il pensare non è un concetto: è una realtà vivente fondata su se stessa: uni-camente del pensare possiamo dire questo. Tutto il resto è oggetto offerto al pensare, o concetto da esso prodotto.

Associare il concetto di «trascendenza» col concetto di «oltre» (o «fuori») vuol dire prendere il mondo inorganico a norma dell’essere. Nei processi meccanici la causa è, similmente all’effetto, un oggetto materiale, e deve essere perciò distinta e «fuori» dal suo effetto. Nel mondo orga-nico ciò non vale più. La vita della pianta non è un’idea

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astratta, fuori di essa, presente in qualche altro essere. È inerente alla pianta stessa: la si conosce conoscendo la pianta, non andando oltre la pianta.

Potremmo dire allora che il pensare è l’esercizio del trascendere, e questo trascendere è immanente all’uomo, perché ne è l’essenza. Ogni dato (materiale o mentale) viene «dato» al pensare affinché trovi, tramite esso, la propria trascendenza: il passaggio dall’isolamento (che è illusione) all’inserimento nell’essere unitario.

La differenza fra «Dio» e il pensare e allora che «Dio» (in quanto contenuto della nostra coscienza) è un concetto prodotto dal pensare; il pensare è, invece, una realtà spiri-tuale, una attualità fondata su se stessa, e direttamente vissuta in quanto prodotta nell’uomo e dall’uomo. Quan-do Steiner scrive: «Vivere nella realtà con la pienezza di contenuto del pensare è ad un tempo vivere in Dio»11, intende dire che il nostro accesso allo spirituale (a Dio) non è nei concetti che ci formiamo su Dio, quanto nello spirituale stesso, cioè nell’attività del pensare.

Per intendere correttamente il rapporto con il «tra-scendente» dobbiamo dunque concepire la realtà dell’Io da una parte e la realtà di Dio dall’altra come corrispon-dentisi, e non antitetiche. Facilmente, noi concepiamo l’Io unicamente in termini di limitatezza, e Dio lo imma-giniamo con attributi presi dal sensibile ma isolati dal loro contesto (cioè spogliati di altri attributi) e quindi non sperimentabili.

11 Die Philosophie der Freiheit, GA 4 (1978), p. 250

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Il pensare, che si manifesta nell’Io umano, è una realtà spirituale che trascende l’Io ordinario. Nella sua relazione al Quarto Congresso Internazionale di Filosofia, tenutosi a Bologna nel 1911, Steiner così distingue tra l’essere dell’Io e la coscienza concettuale che di esso noi abbiamo normalmente:

«Se si presuppone già in partenza che l’ ‹Io›, col contenuto delle leggi del mondo espresse in idee e concetti, si trovi fuori dal trascendente, appare ov-vio che questo ‹Io› non possa oltrepassare se stesso, che debba cioè restare permanentemente fuori dal trascendente. Questo presupposto però non reg-ge di fronte a un’osservazione non prevenuta dei fatti della coscienza. Per semplificare voglio qui ri-ferirmi dapprima al contenuto delle leggi del mon-do, in quanto esprimibile in concetti e formule ma-tematiche. La struttura interna delle leggi delle formule matematiche viene colta dentro alla co-scienza e poi applicata al dato di fatto empirico. Ora, non si può trovare differenza alcuna tra ciò che vive nella coscienza come concetto matemati-co, quando essa riferisce il proprio contenuto a un dato di fatto empirico, e ciò che vive in essa quan-do si rappresenta questo concetto matematico in un pensare matematico puro e astratto. Ma ciò può solo voler dire che l’‹Io› non si trova, con le sue rappresentazioni matematiche, fuori della realtà trascendente delle leggi matematiche delle cose, ma

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dentro ad essa. E la teoria della conoscenza giunge a una migliore rappresentazione dell’ ‹Io› se non lo concepisce come localizzato all’interno dell’organi-smo corporeo, così che le impressioni gli verrebbe-ro date ‹dal di fuori›, ma se lo colloca nella realtà stessa delle leggi delle cose, considerando l’organi-smo corporeo semplicemente come uno specchio che riflette all’Io, mediante l’attività organica del corpo, l’opera che l’Io svolge nel trascendente fuo-ri del corpo. Una volta abituati, riguardo al pensare matematico, al pensiero che l’ ‹Io› non è nel corpo, ma fuori di esso, e che l’attività corporea rappre-senta unicamente lo specchio vivente che riflette la vita dell’ ‹Io› situata nel trascendente, allora si può trovare questo pensiero gnoseologicamente com-prensibile anche per tutto ciò che sorge nell’oriz-zonte della coscienza.

In questo modo non si potrebbe più dire che l’ ‹Io› debba oltrepassare se stesso per giungere nel trascendente. Si dovrebbe invece rendersi conto che il normale contenuto di coscienza empirico sta a quello interiormente in realtà vissuto dall’essere essenziale dell’uomo come il riflesso speculare sta all’essere di colui che si guarda nello specchio». (Philosophie und Anthroposophie, GA 35 (1965), p. 139-40)

Da queste riflessioni si comprende come la «trascenden-za» propria dell’Io (in quanto pensante) non può venir concepita in termini spaziali. Questa «correzione» del

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concetto dell’Io porta con sé, analogamente, una rettifica-zione del concetto di Dio. La maggior parte delle varia-zioni fatte da Steiner al testo per la seconda edizione della sua opera, si riferiscono proprio all’essere assoluto in quanto spesso inteso come irraggiungibile, del tutto «ol-tre» e «fuori» dell’uomo. È questa la visione che Steiner chiama dualismo, la cui essenza è nel concepire l’Io come «dentro» all’uomo, e Dio come «fuori» di esso. Ciò si può fare unicamente trasponendo nello spirituale le categorie spaziali proprie della percezione. Il «dentro» e il «fuori», l’al di là e l’al di qua, sono tutti concetti creati dal pensare: il pensare stesso non può definirsi con nessuno di essi, poiché li «trascende» tutti.

In uno scritto del 1900 dal titolo Haeckel e i suoi av-versari Steiner parla di questo dualismo come di una vi-sione che necessariamente contraddice se stessa.

«Così è il pensare che in ogni divenire del mondo ci conduce oltre la mera osservazione, non però ol-tre se stesso…

Questo fatto non può conciliarsi con la conce-zione dualistica del mondo. I fautori di questa con-cezione spesso sottolineano che le manifestazioni della coscienza pensante ci sono accessibili me-diante il senso interiore dell’introspezione, mentre l’evento fisico e chimico lo comprendiamo solo se poniamo nel giusto rapporto i fatti dell’osservazio-ne mediante combinazione logica, matematica e via dicendo, cioè mediante i dati della sfera delle

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scienze spirituali. Ma proprio ciò essi non hanno il diritto di ammettere. Basta infatti trarre la logica conseguen-za dalla conoscenza del fatto che l’osservazione si svolge in auto-osservazione quando passiamo dal campo delle scienze naturali a quello delle scienze spirituali. Se alla base dei fenomeni naturali ci fosse una ragione cosmica generale o un altro essere primordiale spirituale (per esempio la volontà di Schopenhauer o lo spirito inconscio di Hartmann), anche lo spirito umano pensante dovrebbe allora esser creato da questo essere universale. Un accor-do tra i concetti e le idee che questo spirito si for-ma sui fenomeni e le leggi insite in questi fenomeni stessi sarebbe possibile solo a condizione che quell’ideale artista cosmico suscitasse nell’anima umana le leggi secondo le quali egli ha in prece-denza creato il mondo. Ma allora l’uomo conosce-rebbe la propria attività spirituale non mediante au-to-osservazione, ma mediante osservazione dell’es-sere primordiale, da cui è stato formato. Non vi sa-rebbe perciò introspezione, ma solo osservazione degli intenti e degli scopi dell’essere primordiale. La matematica e la logica, per esempio, non po-trebbero elaborarsi nella ricerca da parte dell’uomo della natura intrinseca e propria dei nessi spirituali, ma deducendo queste verità delle scienze spirituali dagli intenti e dagli scopi della ragione universale eterna. Se la ragione umana fosse solo riflesso di una eterna, non potrebbe mai cogliere le proprie

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leggi tramite introspezione, ma dovrebbe spiegarle a partire dalla ragione eterna. Ma ogni volta che si è tentata una tale spiegazione, non si è fatto che ri-cercare nel mondo la ragione umana. Quando il mistico pensa di elevarsi alla visione di Dio immer-gendosi nel proprio intimo, egli vede in realtà uni-camente il proprio spirito, da lui deificato; e quan-do Eduard von Hartmann parla di idee che si ser-vono delle leggi naturali come di manovali per la costruzione del mondo, quelle idee non sono che le sue, tramite le quali egli si spiega il mondo. Pro-prio per il fatto che l’osservazione delle manifesta-zioni dello spirito è auto-osservazione, ne segue che nello spirito si esprime il proprio io, e non una ra-gione estrinseca». (Methodische Grundlagen der Anthro-

posophie, GA 30 (1961), p. 177-8)

Ci si può chiedere a questo punto quale sia la differenza tra l’Io e Dio. Bisogna chiaramente distinguere tra l’Io umano nel quale il pensare si manifesta (che, seguendo la riflessione di sopra, costituisce la coscienza dell’Io o au-tocoscienza) e il pensare stesso. La coscienza dell’Io è ottenuta essa pure grazie al pensare (congiunto con la percezione corporea di sé), ma non si identifica col pen-sare. L’ultimo brano citato non vuol dire che Dio non esi-ste: vuole piuttosto dire che nell’attività del pensare noi non siamo «fuori» di lui, così da necessitare un ulteriore e distinto rinvio o riferimento a lui per aver conferma della validità del pensare. Dicendo che vivere nel pensare è

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vivere in Dio non si vuol identificare il pensare con Dio. Ciò per il fatto che ogni pensare umano ha bisogno del riferimento alla percezione. I concetti astratti, senza alcun contenuto di percezione, sono fuori del reale non meno della percezione senza il suo concetto. È questo il signifi-cato centrale del capitoletto finale della Filosofia della liber-tà dal titolo: «Le conseguenze del monismo».

«Un concetto che debba riempirsi di un contenuto che si trova al di fuori del mondo a noi dato, è un’astrazione a cui non corrisponde alcuna realtà. Noi possiamo escogitare solo i concetti della realtà; per trovare la realtà stessa occorre in più anche il percepire. Un essere primordiale del mondo, il cui contenuto viene escogitato, è per un pensare che comprenda se stesso un assunto insostenibile. Il monismo non nega ciò che è ideale, considera anzi come realtà non piena un contenuto di percezione cui manca l’aspetto ideale corrispondente. D’altra parte, esso non trova, in tutto l’ambito del pensare, nulla che ci induca ad uscire dalla sfera di esperien-za del pensare, venendo a negare la realtà oggetti-vamente spirituale del pensiero. In una scienza che si limiti a descrivere le percezioni, senza entrare fi-no al loro complemento ideale, il monismo vede una realtà monca. Ma considera ugualmente par-ziali tutti i concetti astratti che non trovano il loro complemento nella percezione, né il loro punto di inserimento nella trama di concetti che abbraccia il

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mondo osservabile. Esso non conosce perciò idee che rimandino a qualcosa di oggettivo situato al di là della nostra esperienza e che debbano formare il contenuto di una metafisica puramente ipotetica. Tutto ciò che l’umanità ha escogitato con idee di questo tipo, sono per il monismo astrazioni tratte dall’esperienza, la cui provenienza da essa è sem-plicemente ignorata dai loro artefici». (Die Philoso-

phie der Freiheit, GA 4 (1978), p. 250-1)

Qui vediamo chiaramente come la concezione della tra-scendenza dipenda fondamentalmente dalla teoria della conoscenza. Da questa scaturiscono i concetti di inten-zionalità dello spirito umano, di partecipazione, ecc. Tut-ta la prima parte della Filosofia della libertà non è che una teoria della conoscenza. Vale perciò la pena esaminarne più specificamente le linee portanti, per vedere se ci aiu-tano a comprendere meglio i quesiti fin qui sollevati.

2. Il conoscere come sintesi di percezione e pensare

La Filosofia della libertà è concepita essenzialmente come metodo: un metodo del conoscere nella prima parte, metodo dell’agire morale nella seconda. Contrariamente a quanto potrebbe sembrare, non contiene in modo diretto alcuna affermazione positiva circa i possibili contenuti o risultati ai quali il pensare, rettamente inteso, può giunge-

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re. Piuttosto, si rivolge a certe affermazioni comunemen-te prese per valide, per mostrare che esse sono il frutto di «pregiudizi» circa la conoscenza, cioè di una mancata comprensione del conoscere umano.

Una di queste affermazioni è che le nostre percezioni siano rappresentazioni.

Per comprendere il rapporto dell’uomo col trascen-dente (con Dio) è di fondamentale importanza rendersi conto del cammino storico degli ultimi secoli, che ha portato l’uomo da un lato a dedicarsi sempre più appas-sionatamente allo studio della natura, dall’altro a sentirsi sempre più isolato e «chiuso» nella propria individualità. La consapevolezza di sé non poteva avvenire che pren-dendo le distanze dall’altro da sé, per via di contrapposi-zione. Il mondo visibile, proprio perché materiale, è quel-lo che più profondamente esprime il carattere di alterità dei singoli esseri.

Il rivolgersi progressivo dell’uomo verso il mondo sensibile che lo circonda, corrisponde a un suo graduale alienarsi dal mondo spirituale nel quale in epoche prece-denti si sentiva direttamente inserito. La conoscenza dei sensi diviene a poco a poco la sola ritenuta valida, e la conoscenza intellettuale sempre più come superflua, co-me vuota speculazione che non aggiunge nulla alle cose. Ma questo non è solo un atteggiamento conoscitivo: al suo fondamento si pone la convinzione, più o meno esplicita o confessa, che il visibile sia la sola vera realtà, e che ciò che non è visibile non sia veramente reale. In questo risiede il palese o nascosto materialismo della

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scienza e di gran parte della filosofia moderna. La scienza, a partire soprattutto da Newton, tende a

considerare reali solo i processi meccanici e inorganici, e a spiegare ogni fenomeno in termini di atomi e dei loro movimenti in attrazione o repulsione reciproca. Il concet-to tradizionale di essere viene qui identificato con corpi materiali (gli atomi); il concetto tradizionale di divenire viene ristretto ai movimenti spaziali degli atomi; il con-cetto tradizionale di causalità viene ridotto a forze mec-caniche, o a quanti di energia, intesi sempre come realtà materiali. Già Locke aveva distinto tra qualità primarie e secondarie: primarie quelle meccaniche (e perciò oggetti-ve e reali), e secondarie quelle prodotte dal nostro organi-smo (e perciò soggettive). Alla mia percezione di un suo-no, o di un colore, corrispondono fuori di me, nella real-tà, solo movimenti o vibrazioni della materia; il resto, la sensazione vera e propria, è prodotta soggettivamente dal mio organismo.

Anche gran parte della filosofia, soprattutto a partire da Kant, si fonda sul dogma che dice che noi conosciamo unicamente le nostre rappresentazioni interiori, mentre la realtà vera è la «cosa in sé» che sta oltre e dietro a ciò che noi conosciamo. Ma cosa è questa «cosa in sé»? Non è altro che un doppione della realtà visibile o materiale. La sua contraddizione intrinseca sta nel fatto che da un lato essa è concepita come non conoscibile (in quanto non percepibile), e dall’altro è descritta con attributi presi dal mondo della percezione. Anche per la teologia, il pericolo più grande è quello di concepire Dio in termini della «co-

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sa in sé» kantiana, immaginandolo come «qualcosa» che è «oltre» e «fuori» l’uomo, al di là della sua conoscenza, trascendente ma in modo spaziale, ipostatizzato come entità cui vengono attribuite solo alcune delle caratteristi-che più generali prese dal mondo della percezione (per-sonalità, volontà, ecc.).

Il materialismo implicito comune a questa scienza e a questa filosofia (e teologia), risiede nel fatto che esse concordano nel ridurre l’uomo a puro spettatore: la realtà è già costituita e compiuta fuori di lui e senza di lui. Egli la può osservare, la può percepire, forse la può conosce-re, forse non la può conoscere, ma non partecipa al suo formarsi come realtà. Ora, questo assunto fondamentale, implicito al fondo della mentalità dell’uomo moderno, può applicarsi alla realtà solo in quanto materiale. In essa la distinzione tra oggetto e soggetto diviene vera e pro-pria «separazione», e fa sorgere il problema di come av-venga il passaggio «reale» dell’uno nell’altro. E poiché questo passaggio non è possibile, la conclusione logica è appunto l’agnosticismo kantiano.

«Finché si presuppone di avere davanti a sé nelle percezioni una realtà piena, non si può mai riuscire a trovare una risposta alla domanda che dice: che cosa possono aggiungere a questa realtà le creazio-ni conoscitive autonome dell’anima? Ci si dovrà at-tenere all’opinione di Kant: l’uomo deve conside-rare le sue conoscenze come prodotti particolari della sua costituzione mentale, non qualcosa che

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gli si rivela come una vera realtà. Se la realtà è co-stituita nella sua natura fuori dell’anima, allora l’anima non può produrre ciò che corrisponde a questa realtà, ma solo qualcosa che proviene dalla sua propria costituzione.

La cosa cambia del tutto, non appena ci si ren-de conto che la costituzione dell’anima non si al-lontana dalla realtà con ciò che produce creativa-mente nel conoscere, ma che piuttosto nella vita che svolge prima del conoscere, essa si costruisce un mondo che non è quello reale. L’anima umana è inserita nel mondo in modo tale che, a causa della sua propria natura, essa rende le cose diverse da quelle che sono in realtà. ...Come il mondo sensibile appare, quando l’uomo vi si pone immediatamente di fronte, dipende senza dubbio dalla natura dell’a-nima. Non ne segue allora che è lui con la sua anima a causare questa apparenza del mondo? Un’osser-vazione oggettiva mostra che il carattere irreale del mondo sensibile esterno proviene dal fatto che l’uomo, nel suo immediato esporsi alle cose, sop-prime in sé ciò che in realtà appartiene ad esse. Se poi svolge creativamente la propria vita interiore, se fa riaffiorare dal profondo della propria anima ciò che vi è sopito, allora aggiunge a ciò che ha guardato con i sensi qualcosa di nuovo che tra-sforma, nel conoscere, la mezza realtà in una realtà compiuta. È nella natura dell’anima di estinguere nel suo primo sguardo alle cose un elemento che ap-

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partiene alla loro realtà. Per questo esse si mostra-no ai sensi non quali sono in realtà, ma come le forma l’anima. Ma la loro apparenza (cioè il loro semplice apparire) consiste nel fatto che l’anima le ha prima derubate di ciò che a loro appartiene. E poiché l’uomo non si ferma al primo sguardo sulle cose, aggiunge loro col suo conoscere ciò che rive-la la loro piena realtà. Non è dunque che nel cono-scere l’anima aggiunga alle cose un elemento irreale nei loro confronti: piuttosto, avviene che prima del conoscere essa ha tolto alle cose ciò che appartiene alla loro vera realtà. Sarà il compito della filosofia di comprendere che il mondo visibile all’uomo è una ‹illusione› prima che egli l’affronti con la cono-scenza, e che questo cammino della conoscenza è la via che conduce alla piena realtà. Ciò che l’uomo produce creativamente nel conoscere sembra esse-re una manifestazione della realtà interiore dell’ani-ma per il fatto che l’uomo, prima di far l’esperienza del conoscere, deve escludersi da ciò che proviene dall’essenza delle cose. Nel suo primo porsi di fronte ad esse, non può subito coglierlo da loro stesse. Nel conoscere si apre di propria iniziativa la via a ciò che era rimasto nascosto. Se l’uomo con-sidera come realtà ciò che ha dapprima percepito, ciò che produce nel conoscere gli sembrerà aggiun-to a quella realtà. Se invece egli capisce di dover cercare nelle cose ciò che solo apparentemente è stato prodotto da lui, e che egli ha dapprima ri-

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mosso dal suo sguardo alle cose, allora si convince-rà che il conoscere è un processo della realtà stessa, mediante il quale l’anima nel suo progredire si uni-fica con l’essere del mondo, mediante il quale essa estende la propria esperienza interiore isolata all’e-sperienza del mondo». (Die Rätsel der Philosophie, GA

18 (1968), p. 597-9)

Ciò che qui viene descritto, e che Steiner ha compiuto nella Filosofia della libertà, è un’applicazione del metodo scientifico all’atto della conoscenza, cioè una conoscenza scientifica del conoscere. Prendendo l’atto del conoscere come percezione interiore e osservandone oggettivamen-te lo svolgimento, ci rendiamo conto di un elemento che di solito passa inosservato: il pensare stesso, in quanto prodotto da noi attivamente. Non avendo compreso ciò, la filosofia kantiana e la scienza da essa derivata si fonda-no su un pregiudizio circa la conoscenza, proveniente dal non averne indagato la natura con metodo scientifico.

La descrizione che Kant fa della conoscenza si ferma a metà strada. Egli rileva la contrapposizione tra uomo e mondo quale si presenta nella percezione. Il mondo agi-sce sull’uomo e questo ne riceve le impressioni, dalle quali si forma poi un’immagine del mondo. Ha in sé dunque solo i prodotti della coscienza: le cose stesse ri-mangono oltre la coscienza. Fin qui tutto va bene. La prima forma in cui il mondo si presenta alla coscienza è determinata dalla costituzione dell’uomo. Ma Kant non si è reso conto che questa è solo la prima parte dell’atto

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conoscitivo, anzi la parte preparatoria della conoscenza vera e propria. Provocato infatti dal carattere enigmatico della percezione, proprio in quanto dall’uomo strappata alla sua realtà oggettiva e resa soggettiva, il pensare le restituisce, tramite il concetto, il suo carattere oggettivo, ricollocandola nel contesto unitario del mondo.

La percezione, dunque, conduce l’uomo fuori del rea-le; ma il pensare ve lo riconduce di nuovo dentro.

È importante comprendere che il pensare non è un’at-tività soggettiva. È infatti il pensare stesso che elabora i concetti di soggettivo e oggettivo, poiché esso è al di sopra di entrambi. Il soggetto umano non pensa in quan-to è soggetto, ma è soggetto in quanto in lui si esprime il pensare.

Ciò che contrappone il pensare a ogni percezione, è il fatto che esso non è dato all’uomo, ma è da lui prodotto con attività propria. Solo nel pensare noi siamo totalmen-te attivi. Essendo noi stessi a produrlo, ne conosciamo per evidenza intuitiva diretta l’intima natura. Il rapporto tra due concetti (per es. il concetto lampo e il concetto tuono) mi è direttamente evidente in base al loro conte-nuto oggettivo. Ciò non vale per il rapporto tra la perce-zione lampo e la percezione tuono: questo rapporto lo ottengo solo mediatamente, tramite la percezione. Il pen-sare si rivela dunque come una realtà vivente e spirituale fondata su se stessa. La percezione mi è enigmatica pro-prio in quanto io non partecipo alla sua formazione: mi si offre già costituita. Nel pensare, l’Io osserva la sua pro-pria attività vivendo dentro ad essa. Non è con percezio-

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ne esterna che coglie il pensare: lo svolge lui stesso con attività spirituale. Non c’è allora il problema che sorge ove c’è la mediazione della percezione. Il suo contenuto il pensare lo porta in se stesso.

Questa visione del pensare richiede una revisione del concetto di percezione, che va ampliato a comprendere tutto, fuorché il solo pensare. Tutto ciò che non è pensare è percezione, nel senso che viene offerto al pensare come elemento già dato. Osservazioni esterne, sensazioni in-terne, rappresentazioni, pensieri già pensati, visioni, allu-cinazioni... tutto questo è percezione. Solo in questo mo-do può risaltare la realtà unica del pensare che è esercizio attivo, cioè attività spirituale, essere spirituale vivente.

Oltre a percezione e pensare non vi sono altre sorgen-ti per il conoscere umano. Tutto ciò che conosciamo dev’essere o una percezione o un concetto elaborato at-tivamente dal pensare. Da quanto detto sopra, la perce-zione non si restringe alla percezione sensibile: ci sono anche percezioni spirituali, ma queste pure necessitano del pensare per trovare il loro concetto corrispondente.

Il conoscere è l’atto di congiungere i due elementi che dapprima si offrono separati: la percezione e il concetto. La coscienza umana è il luogo in cui percezione e concet-to si compenetrano. Nel pensare attivo, da essere pura-mente autocosciente (autocoscienza suscitata dal «distan-ziamento» dal mondo che avviene mediante la percezio-ne) l’uomo diviene restauratore dell’essere, conferendo l’essere alla percezione mediante il concetto.

L’immagine che Steiner usa per il passaggio dalla per-

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cezione al pensare è quella del passaggio dallo stato di sogno a quello di veglia. Nel sogno io sono fuori dalla realtà: me ne formo un’immagine soggettiva.

Ma non appena mi sveglio cessa l’interesse per le im-magini del sogno, e mi rivolgo ai processi reali che le hanno suscitate. Nella percezione noi siamo come in un mondo di sogno, che ci porta fuori dal reale. Nel pensare ci svegliamo e ritorniamo nella realtà.

La realtà non è dunque compiuta senza il pensare. I concetti sulla pianta appartengono alla realtà della pianta non meno delle radici o le foglie o i frutti. Il fatto che la realtà totale provenga a noi da due lati distinti (percezione e concetto) non dipende dalla realtà, ma da noi. Proprio perché l’uomo, in quanto essere percepibile, è limitato, egli non può percepire che limitatamente, isolando quindi un dato contenuto di percezione dal suo contesto. Non può percepire cioè il tutto simultaneamente. Anche i concetti, non li possiamo pensare tutti in una volta, ma li dobbiamo congiungere progressivamente. Allo stesso tempo, il pen-sare che si manifesta in noi va oltre il soggetto, e inserisce anche il soggetto stesso (in quanto percezione particolare fra tante) nel contesto unitario del mondo, assegnandogli il suo posto e la sua funzione.

Steiner insiste sul fatto che il punto di partenza per una comprensione del mondo dev’essere il pensare (non l’Io, o la coscienza o altro), perché, qualunque altro pun-to di partenza si volesse prendere, ogni affermazione su esso sarebbe un esercizio del pensare, presupporrebbe cioè il retto uso del pensare.

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Se la percezione toglie gli elementi del mondo dal lo-ro contesto rendendoli enigmatici, illusori, irreali, il pen-sare al contrario conferisce loro la realtà. Ciò vuol dire che l’unità del mondo non va cercata nella percezione. Non ci può essere un’unità percepibile perché percepire vuol dire isolare. L’uomo religioso immagina talvolta Dio, o l’essere assoluto, come unità percepibile. Il mate-rialista immagina tale realtà come energia, o materia, oppure si parla, come fa Schopenhauer, di una volontà universale. Tutte queste realtà sono oggetto di perce-zione. Ciò che è «comune» agli esseri, invece, ciò che ne fa l’unità, può unicamente esser oggetto di pensiero, non di percezione. Tra una percezione e l’altra non può «passare» nulla di percepibile: il rapporto è un concetto. Io posso percepire due percezioni che si susseguono immediatamente e intuirne il rapporto e la corrispon-denza tramite il pensare. Ma non posso percepire come una percezione sia prodotta dal non percepibile (imma-ginato «dietro» ad essa).

Per far comprendere che il rapporto tra soggetto co-noscente e cosa conosciuta è essenzialmente spirituale, e che, anche se non percepibile, è però reale, Steiner si serve del paragone del rapporto tra la ceralacca e il sigillo che vi imprime un nome. Nulla del sigillo passa nella ceralacca: la realtà materiale del sigillo resta tutta nel sigil-lo stesso. Però le lettere del nome sono ora impresse nella ceralacca: dall’uno (il sigillo) si è comunicato all’altro (la ceralacca) qualcosa che non è materiale (il nome).

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«La premessa è giusta, che noi non possiamo anda-re oltre le nostre rappresentazioni, ma ciò che del reale entra in noi va definito come realtà spirituale: a ciò non si richiede che degli atomi materiali si trasmettano. Nulla che sia materiale entra nel sog-getto, eppure lo spirituale passa nel soggetto, non meno che il nome ‹Müller› nella ceralacca. Da qui deve saper partire una sana indagine gnoseologica. Ci si renderà allora conto quanto profondamente il materialismo moderno si sia inosservatamente ra-dicato persino nei concetti della teoria della cono-scenza. Da una spassionata considerazione del da-to di fatto si deve concludere che Kant ha potuto concepire una ‹cosa in sé› solo materialmente, per quanto astrusa una tale affermazione appaia a pri-ma vista». (Philosophie und Anthroposophie, GA 35

(1965), p. 97-8)

Solo intendendo rettamente l’atto del conoscere si può comprendere il rapporto dell’uomo con la trascendenza, perché proprio nel conoscere l’uomo trascende l’Io limi-tato quale offerto alla percezione, e nel pensare partecipa alla realtà unitaria vivente e metasoggettiva.

Potremmo chiederci: a quale scopo è stato introdotto nella prima metà dell’atto conoscitivo l’inganno della percezione e l’illusione di una reale separazione e inco-municabilità tra soggetto e oggetto? Perché si è scisso in due fonti separate l’atto conoscitivo (la percezione e il concetto), che dobbiamo poi di nuovo congiungere? La

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risposta è che solo questa «frattura» poteva dare all’uomo la coscienza di sé come essere distinto dal mondo. Poiché nel mondo della percezione la distinzione e l’unione si escludono a vicenda, solo qui poteva operarsi la coscien-za della singolarità. Una volta acquisita, essa può venir ritenuta anche nel mondo dello spirito, dove però indivi-dualità singola e comunione partecipativa non si escludo-no ma si richiamano vicendevolmente. È questo che l’Io compie nel pensare, risolvendo il dualismo della perce-zione.

Il processo conoscitivo è in questo modo inseparabi-le dalla costituzione ontologica dell’uomo e dalle meta-morfosi storiche di questa costituzione. Steiner vuol mo-strare

«...che si tratta davvero del tentativo di inserire gli elementi realistici dell’alta scolastica nella nostra epoca scientifica mediante una scienza dello spiri-to; che si è presa sul serio la trasformazione dell’a-nima umana e il suo reale riempirsi dell’impulso del Cristo anche nella vita del pensiero. La vita della conoscenza viene resa un fattore reale nel divenire del mondo, solo che esso si attua, come ho mostra-to nel mio libro ‹Concezione goetheana del mondo›, nel campo della conoscenza umana. Ma ciò che si compie là sulla scena della coscienza umana è allo stesso tempo un processo cosmico, è un evento in seno al mondo; ed è quell’evento che fa progredire il mondo e noi stessi dentro ad esso.

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Il problema della conoscenza assume allora una forma del tutto diversa. Ciò che noi sperimentiamo in noi diviene in questo modo un fattore che ci tra-sforma nello spirito e nell’anima. Siamo noi stessi il risultato di ciò che chiamiamo conoscenza. Come il magnetismo opera nel configurare la limatura di ferro producendo quelle forme che noi conoscia-mo come gli effetti del magnetismo, così opera in noi ciò che si riflette in noi come conoscenza. Essa agisce come nostro principio formatore e noi co-nosciamo contemporaneamente ciò che è immor-tale ed eterno in noi. Non poniamo più allora il problema della conoscenza in maniera puramente formale.

In quale modo è stato sempre formulato il pro-blema della conoscenza? Poggiandosi sul kantiani-smo, ci si è sempre chiesti: come può l’uomo vede-re in questo mondo interiore una replica del mondo esteriore? Ma il conoscere non ha primariamente la funzione di formare riflessi del mondo esterno, bensì quella di fare sviluppare noi. Il fatto che noi creiamo un riflesso del mondo esteriore è un pro-cesso solo accessorio. Facciamo confluire nel mon-do esterno, in un processo collaterale, ciò che ab-biamo separato a partire dalla nostra nascita. Col problema della conoscenza avviene ciò che avviene quando si prende del frumento o un altro prodotto e si vuole indagare l’essenza del principio della cre-scita ricorrendo ad un esame dell’effetto nutritivo.

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È certo possibile fare un’analisi chimica dei generi alimentari, ma ciò che è all’opera nel frumento dal-la radice fino alla spiga e oltre non può venir cono-sciuto con un esame chimico del valore nutritivo.

Questo ci fornisce dei dati che si aggiungono dal di fuori alla corrente evolutiva che è nella pian-ta e che si svolge in linea diretta...

Dev’essere chiaro che ciò che noi nella vita este-riore chiamiamo conoscenza è un effetto laterale del lavoro che ciò che è ideale compie nel nostro essere umano. Solo così ciò che è ideale viene ri-conosciuto come qualcosa di reale: lo vediamo al lavoro in noi. Il falso nominalismo, il kantianismo sono potuti sorgere solo per il fatto che si è impo-stato il problema della conoscenza come farebbe colui che volesse conoscere l’essenza del frumento partendo da una chimica degli alimenti». (Die Philo-

sophie des Thomas von Aquino, GA 74 (1967), p. 101-2)

L’essere dell’Io è dunque ontologicamente connesso con l’esercizio del pensare e del conoscere. Solo in quanto io pensante l’uomo diviene veramente ciò che egli è: il pun-to d’incontro del visibile con l’invisibile. Nel pensare riporta il visibile, decaduto a pura «apparenza», a quella realtà piena di contenuto che si esprime nei concetti.

Dalla riflessione sul pensare e sul conoscere, veniamo così condotti a una comprensione più profonda del sog-getto conoscente stesso, sul quale ora vogliamo più speci-ficamente soffermarci.

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3. Dove sono i limiti dell’uomo?

La «frattura» tra l’uomo e il mondo doveva essere vissuta più intensamente dall’uomo moderno che ha spostato sempre più la sua attenzione dal mondo del pensiero al mondo della percezione. Caratteristica della percezione è appunto il presentarsi degli esseri come singoli e distinti, gli uni accanto agli altri. A tal punto l’uomo ha sentito il suo isolamento in se stesso, da dubitare del tutto della possibilità di aver accesso a qualsiasi realtà fuori di lui.

Affermando che noi percepiamo unicamente le nostre rappresentazioni interiori, viene tagliato ogni ponte tra l’uomo e la realtà oggettiva. La coscienza sognante viene presa a modello di ogni tipo di conoscenza: in essa, infat-ti, viene sospesa la distinzione tra il mondo interiore e quello esteriore. Le immagini del sogno riproducono realtà e avvenimenti esterni a noi, ma sono allo stesso tempo pura produzione del nostro essere.

Al fondamento di questo modo di pensare, che è più connaturale all’uomo moderno di quanto si possa crede-re, sta una errata interpretazione della rappresentazione. È per questo che uno degli elementi più fondamentali della Filosofia della libertà risiede nel concetto di rap-presentazione che essa contiene12.

Anzitutto va compreso che la rappresentazione è essa pure una percezione. Come ho detto sopra, tutto ciò che non è esercizio attuale del pensare stesso, viene «dato» al

12 Die Philosophie der Freiheit, GA 4 (1978), cap. VI

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pensare, e si pone perciò sulla sponda della percezione. Ora ciò che è specifico della rappresentazione è che essa è una percezione fatta sul soggetto, o se vogliamo una percezione introspettiva. Ma che cos’è che noi percepia-mo quando riscontriamo in noi stessi una rappresenta-zione? Percepiamo la modificazione avvenuta in noi in seguito all’atto conoscitivo. Ogni atto conoscitivo lascia in noi come una traccia di sé, che noi percepiamo quale arricchimento del nostro contenuto interiore.

Essendo la traccia lasciata in noi dall’atto conoscitivo, la rappresentazione non può avere a che fare solo con la percezione, ma è in rapporto anche col concetto che nell’atto conoscitivo con essa si congiunge. Nell’uomo e mediante l’uomo vengono riunificati i due elementi della realtà che l’uomo stesso in un primo momento separa: nell’uomo dobbiamo dunque trovare il segno di questa riunificazione. Questo segno è appunto la rappresenta-zione. Essendo la realtà unione di percezione e concetto, avremo nel soggetto una «rappresentazione» della realtà, e questa è appunto la «rappresentazione».

Si dirà: anche la realtà del pensare la cogliamo median-te osservazione interiore. Nel capitolo precedente ho mostrato come solo nel pensare noi siamo totalmente attivi: solo riguardo ad esso percezione e concetto si identificano. La rappresentazione, in quanto riferentesi alla percezione, «sorge» in noi in modo non del tutto attivo: l’elemento passivo fa sì che essa sia «data» al pen-sare come ogni altra percezione. Solo il pensare è pura attività attuale.

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Steiner definisce la rappresentazione come «concetto individualizzato»13, cioè un concetto che è stato riferito a una particolare percezione, e che conserva in sé tale rife-rimento. Abbiamo qui il duplice aspetto della rappresen-tazione, che corrisponde alla duplice natura dell’uomo. In quanto oggetto di percezione, egli è un essere particolare e limitato; in quanto portatore dell’attività del pensare, egli appartiene all’essere universale e unitario. Anche la rappresentazione è soggettiva in quanto il mondo della percezione è unico in ogni soggetto umano; è metasog-gettiva nel suo rapporto col concetto. Possiamo dire che è il nostro patrimonio di rappresentazioni a renderci in-dividuo, poiché l’individuo umano, esso pure, non è uni-camente «soggettivo», ma è la sintesi del particolare e dell’universale.

Ciò ci pone in grado di comprendere e di distinguere chiaramente ciò che ci dà la percezione, ciò che ci dà il pensare, e ciò che ci dà la rappresentazione. La percezio-ne ci offre il lato oggettivo della realtà; il pensare ce ne offre l’aspetto universale; la rappresentazione ce ne offre il lato soggettivo. L’uomo si costituisce come soggetto umano proprio mediante il conoscere, divenendo il luogo d’incontro e d’interazione tra il particolare (la percezione) e l’universale (il pensare). Essendo il pareggio tra perce-zione e concetto il contenuto dell’individuo umano, la rappresentazione è ciò che egli conserva in sé come risul-tato dell’atto cognitivo.

13 Die Philosophie der Freiheit, GA 4 (1978) p. 107 e 133

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La rappresentazione, dunque, viene condotta dall’indi-viduo umano sempre più vicino alla sua perfezione nella misura in cui essa esprime il suo giusto equilibrio tra per-cezione e concetto. Da una parte c’è il pericolo della vuo-ta speculazione, che perde ogni riferimento al mondo della percezione. Dall’altra sorge la tentazione di una pura osservazione dei dati della percezione, limitandosi a descriverli e a catalogarli. Sono queste le tentazioni della filosofia da una parte, e della scienza dall’altra. La filoso-fia tende a servirsi di concetti via via più generalizzati e sempre meno numerosi. La scienza, perdendosi nell’ana-lisi del particolare, rischia di rinunciare alla conoscenza vera e propria, che viene solo dal pensare.

La sintesi di queste due istanze risiede in una cono-scenza secondo il metodo scientifico: questa non lavora solo con concetti generali, abbandonando l’osservazione, né solo con percezioni singole, rinunciando ai concetti. La conoscenza secondo il metodo scientifico è l’arte di individualizzare i concetti, e ciò avviene appunto tramite le rappresentazioni. Queste devono essere fedeli e aderenti alla realtà quale sintesi di percezione e concetto. È in questo senso che Steiner definisce la rappresentazione come «concetto individualizzato».

Un esempio molto importante di concetto indebita-mente generalizzato (cioè esteso a campi ai quali non si può applicare) è quello dei processi meccanici e inorgani-ci presi a spiegazione anche degli organismi viventi, se non addirittura di tutta la realtà. Buona parte della scienza moderna ha voluto spiegare col concetto di causalità

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meccanica ogni fenomeno del mondo. La filosofia, d’altro canto, tende a «generalizzare» il

concetto stesso di conoscenza. Ma ogni individuo umano ha un modo unico e personale di creare la sintesi tra per-cezioni e concetti. Non solo le percezioni variano infini-tamente da soggetto a soggetto, ma anche le intuizioni hanno una svariata ricchezza. Ne segue che il mondo delle rappresentazioni costituisce il contenuto personale di ogni individuo umano. La conoscenza diviene l’arte originale e creatrice di trovare per ogni cosa quelle rap-presentazioni che ne esprimano l’intimo essere.

Quanto detto finora ha lo scopo di mostrare che l’individuo umano (il suo patrimonio di rappresentazioni) non è puramente soggettivo, e che quando parliamo di limiti della conoscenza possiamo solo riferirci all’uomo in quanto realtà percepibile (organismo corporeo), non in quanto essere pensante. In altre parole, ci sono limiti alla percezione dell’uomo, ma non alla sua conoscenza. La conoscenza consiste nel trovare, per ogni percezione che sorge, il concetto corrispondente.

Abbiamo visto come le percezioni non sono delle real-tà, bensì il modo umano di uscire dal reale. Da questo segue che non vi può essere nessuna percezione per la quale l’uomo non possa per principio trovare il concetto corrispondente. Se ciò non avviene, è dovuto a fattori accidentali e perciò prima o poi superabili. Una cosa che fosse per noi per essenza incomprensibile, dovrebbe essere ipso facto non percepibile, e come tale per noi non esistente: non potrebbe costituire un limite al conoscere.

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Non vi potrebbe essere mancata risposta in quanto non vi sarebbe alcuna domanda. Limite al conoscere non è la domanda non posta, ma la domanda senza risposta: quest’ultima può essere tale solo accidentalmente e tem-poraneamente, mai per essenza.

Dire che l’uomo è un essere limitato in quanto la sua percezione è limitata è usare un linguaggio poco chiaro. Né la coscienza, né l’uomo si limitano alla percezione. Anzi, la percezione esprime proprio quel primo momento dell’atto del conoscere caratterizzato dall’enigmaticità, dalla non comprensione, che provoca il sopravvenire del pensare, nel quale si compie la vera conoscenza. Ogni percezione è dunque un limite del conoscere, in quanto ci fa uscire dal reale isolando i singoli dati (si possono avere «limiti» solo isolando): ma non c’è nessuna percezione reale (sensibile o spirituale) per la quale il pensare non possa trovare il concetto corrispondente, che è per es-senza il superamento di quel limite che la percezione è.

Avere altri organi di senso oltre a quelli che posse-diamo non vorrebbe dire conoscere più cose: vorrebbe dire avere un maggior numero di cose «sconosciute», che solo trovando i concetti corrispondenti verremmo a co-noscere. Aumentando il numero delle nostre percezioni non aumentiamo la realtà conosciuta: aumentiamo le cose da conoscere. Nella percezione seguiamo un’esigen-za del nostro essere: quella di diventare conscio di se mediante l’apparenza di separazione tra il soggetto e l’oggetto. Nel pensare seguiamo invece la realtà stessa, ritrovando l’unione tra soggetto e oggetto.

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Ogni supposto «limite» del conoscere proviene dal considerare le percezioni come un mondo reale in sé, cui viene contrapposto l’altro mondo della «cosa in sé» inco-noscibile. L’uno sarebbe «dentro» il soggetto, l’altro «fuo-ri» di lui. Nel pensare, al contrario, non vi è nulla che sia «oltre» l’uomo, perché in esso è lui ad andare «oltre» se stesso in quanto individuo singolo e limitato. Ogni «cosa in sé» non conoscibile è un’estrapolazione di qualche elemento del mondo sensibile, ed esprime il materialismo implicito di chi riesce a considerare reale solo ciò che è percepibile, perché la sostanza spirituale del pensare e delle idee gli sembra troppo «tenue», troppo «sottile» per essere reale. «Oltre» le cose percepibili non ci possono essere altre «cose» non percepibili (concepite in tutto uguali alle prime) che ne siano la causa: oltre le cose ci sono solo i concetti che ne esprimono i rapporti e i nessi, i quali non possono venir percepiti, ma solo pensati. Le leggi naturali non esprimono degli «influssi» che passino da un corpo in un altro, ma sono «l’espressione concet-tuale del rapporto tra certe percezioni»14.

Nel saggio già citato (Filosofia e antroposofia) Steiner porta l’esempio di Keplero il quale produce, in base a un lavorio interiore di concetti, le leggi delle traiettorie ellitti-che dei pianeti, e trova poi confermate dalla realtà le sue intuizioni:

«Uno scienziato come Kepler illustra col suo modo di procedere ciò che l’aristotelismo ha fondato in

14 Die Philosophie der Freiheit, GA 4 (1978) p. 124

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campo gnoseologico. Egli afferra ciò che appartiene agli universali post rem e scopre, indagando le cose, che questi universali post rem sono precedentemente stati posti in esse quali universali ante rem. Qualora una errata teoria della conoscenza non faccia degli universali delle pure rappresentazioni soggettive, ma si veda che essi vengono oggettivamente riscontrati nelle cose, allora va da sé che essi devono esservi precedentemente immessi (dalla divinità) nella forma che Aristotele suppone stia alla base del mondo.

Si scopre così che ciò che è dapprima l’elemento più soggettivo, accertato indipendentemente dall’e-sperienza, è proprio quello che conduce dentro alla realtà nel modo più oggettivo». (Philosophie und An-

throposophie, GA 35 (1965), p. 99-100)

I concetti prodotti dal pensare corrispondono alla «for-ma» (nel senso aristotelico) delle cose percepibili. Pos-siamo ora chiederci: troviamo nell’uomo solo le forme delle cose, o c’è qualcosa in lui che pone la propria stessa «materia» (intesa da Aristotele come sostanza, come esse-re fondato in se stesso)?

«Ora, per Aristotele il concetto di Dio è una attua-lità pura, un atto puro, un atto cioè nel quale l’attualità, vale a dire il conferimento della forma, ha ad un tempo la forza di produrre la propria real-tà, senza essere qualcosa cui si contrappone la ma-teria, ma come qualcosa che nella propria pura at-tività è allo stesso tempo la vera e piena realtà.

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Il riflesso di questa attualità pura si trova nell’uo-mo stesso quando egli partendo dal suo pensare perviene al concetto dell’Io. Nell’Io egli si trova in qualcosa, che Fichte designa come attività costituen-te (Tathandlung). Nella sua interiorità, l’Io giunge a qualcosa che, poiché vive nell’attualità, produce in-sieme a questa attualità anche la propria materia. Quando afferriamo l’Io nel pensiero puro, ci tro-viamo in un centro dove il pensare puro produce essenzialmente allo stesso tempo la propria essenza materiale. Quando afferriamo l’Io nel pensare, ab-biamo un triplice Io: un Io puro, che appartiene agli universali ante rem; un Io nel quale siamo, e che ap-partiene agli universali in re; e un Io che compren-diamo, e che appartiene agli universali post rem.

Ma qui c’è ancora qualcosa del tutto particolare: riguardo all’Io le cose stanno in un modo tale che, quando si arrivi ad afferrarlo davvero, questi tre ‹Io› vengono a coincidere. L’io vive in sé producendo il proprio puro concetto e vivendo nel concetto quale realtà. Per l’Io non è indifferente ciò che il pensare puro compie, poiché il pensare puro è il creatore dell’Io. Il concetto dell’elemento creatore viene qui a coincidere con l’elemento materiale, e basta ren-dersi conto che in tutti gli altri processi conoscitivi noi tocchiamo dapprima un limite che solo nel ca-so dell’Io non c’è: l’Io lo abbracciamo nel suo esse-re più intimo, in quanto lo afferriamo nel pensare puro.

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In questo modo è possibile dare un fondamen-to gnoseologico all’affermazione che dice: anche nel pensare puro si può giungere a un punto in cui realtà e soggettività coincidono totalmente, e nel quale l’uomo sperimenta la realtà. Se egli parte da quel punto e feconda il suo pensiero in modo da farlo da lì uscire di nuovo da se stesso, allora affer-ra le cose dal di dentro. Nell’Io che viene afferrato con un puro atto di pensiero e con esso ad un tempo creato, abbiamo dunque qualcosa con cui superiamo la linea divisoria che per tutte le altre cose va posta tra forma e materia». (Philosophie und

Anthroposophie, GA 35 (1978), p. 101-3)

Nella realtà vivente del pensare noi siamo dunque allo stesso tempo in «Dio», nel più intimo di noi stessi, e nella realtà vera delle cose. Ogni «limite» che sorge nella perce-zione, ogni separazione che pone un «di qua» e un «di là», viene abolito dal pensare. Ogni limite può venire superato, perché per ogni percezione (che è prodotta dall’uomo e a misura d’uomo) possiamo intuire il concetto corrispon-dente.

«I pensieri che io mi formo sulle cose, li produco da dentro di me. E tuttavia essi appartengono, co-me ho mostrato, alle cose. L’essenza delle cose non mi viene dunque da esse, ma da me. Il mio contenuto è la loro essenza. Non sarei mai capace di chiedere quale sia l’essenza delle cose, se non trovassi già in me qualcosa che io designo come

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quell’essenza stessa, come ciò che appartiene ad esse, senza però che me lo offrano da sé, potendo-lo io trarre unicamente da me stesso.

Nel processo conoscitivo traggo da me stesso l’essenza delle cose. Io ho dunque in me l’essenza del mondo. Di conseguenza ho in me anche la mia propria essenza. Le altre cose mi presentano due elementi: un processo senza l’essenza, e l’essenza tramite me. Nel caso del mio essere, processo e es-senza sono identici. L’essenza di tutto il resto del mondo la attingo da me, e attingo da me non me-no il mio proprio essere.

Il mio agire fa parte del processo cosmico uni-versale. Ha perciò la sua essenza in me come ogni altro processo. Cercare le leggi dell’agire umano vuol dire allora attingerle dal contenuto dell’Io». (Die Geschichte und die Bedingungen der anthroposophi-

schen Bewegung..., GA 258 (1959), p. 149-150)

È chiaro che ciò che vale per il pensare dell’uomo non vale per la sua percezione: questa è per natura limitata. Il dato della percezione non può però porre limiti: offre se stesso onde venire conosciuto. Non resta dunque nasco-sto, oltre il nostro orizzonte, ma al contrario si «presenta» come domanda che cerca una risposta.

«Se consideriamo che l’oggetto, riguardo al quale nasce in noi un bisogno di spiegazione, dev’essere dato, ci appare chiaro che il dato stesso non può porci un limite. Per esigere di venir comunque spie-

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gato o compreso, deve presentarsi a noi nell’am-bito della realtà data. Ciò che non entra nell’oriz-zonte del dato non ha bisogno di venire spiegato.

Il limite potrebbe allora consistere unicamente nel fatto che, posti di fronte a un reale dato, man-chiamo degli strumenti per spiegarlo. Ma il nostro bisogno di spiegazione proviene proprio dal fatto che ciò che noi vogliamo pensare del dato, e che ne deve essere la spiegazione, si spinge dentro l’orizzonte di ciò che ci è dato nel pensare. Lungi dall’essere sconosciuta, è proprio l’essenza esplica-trice di una cosa a renderne necessaria la spiega-zione col suo sorgere nel nostro spirito. La cosa da spiegarsi, e ciò tramite cui deve essere spiegata, so-no entrambi presenti. Si tratta solo di congiungerli. Spiegare non è andare alla ricerca di qualcosa di sconosciuto ma una chiarificazione del rapporto re-ciproco di due elementi conosciuti. Non dovrebbe mai venirci in mente di spiegare in qualsiasi modo un dato del quale non abbiamo nessuna conoscen-za. Non è dunque possibile parlare di limiti costitu-tivi posti alla nostra capacità di spiegazione». (Goe-

thes naturwissenschaftliche Schriften, GA 1 (1973), p. 193-4)

Quando la scienza formula delle «ipotesi» per progredire nella sua ricerca, queste ipotesi non devono riferirsi al mondo dei concetti, ma al mondo della percezione. Da elementi percepiti si fa un’illazione su elementi non anco-ra percepiti, ma essenzialmente percepibili. Nel passo or

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ora citato Steiner così prosegue, distinguendo nettamente tra percezione e principio o concetto:

«C’è però qualcosa che potrebbe dare una parven-za di ragione alla teoria dei limiti della conoscenza. Può succedere che noi intuiamo, di una cosa reale, che essa c’è, benché si sottragga per ora alla nostra percezione. Possiamo percepire tracce ed effetti di una cosa, e supporre di conseguenza che la cosa esista. È qui che si potrebbe forse parlare di un limite del sapere. Ma ciò che presupponiamo qui come irraggiungibile, non è qualcosa che dovrebbe darci per principio la spiegazione di un dato qual-siasi, ma è un dato percepibile, anche se non per-cepito. Gli impedimenti che mi vietano di perce-pirlo non sono dei limiti costitutivi della cono-scenza, ma puramente accidentali, estrinseci. E possono senz’altro venir superati. Quel che oggi posso solo supporre, domani lo posso sperimenta-re. Ciò non vale riguardo a un principio. Per esso non ci sono impedimenti esteriori, che dipendono per lo più dal luogo e dal tempo: il principio mi è dato interiormente. Se non sono io stesso a scor-gerlo, non me lo può far supporre ciò che è altro da me.

Con ciò è connessa la teoria dell’ipotesi. Un’i-potesi è una supposizione che noi facciamo e della cui verità ci convinciamo non direttamente, ma so-lo tramite i suoi effetti. Vediamo una serie di fe-

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nomeni che è spiegabile solo se si fonda su qualco-sa che non percepiamo direttamente. È lecito esten-dere una tale ipotesi anche a un principio? Chiara-mente no: una realtà interiore, infatti, che io pre-suppongo senza scorgerla è una totale contraddi-zione. L’ipotesi può supporre soltanto qualcosa che io non percepisco, ma che percepirei immedia-tamente, non appena rimossi gli impedimenti este-riori. L’ipotesi può senz’altro presupporre qualcosa di non percepito, però deve sempre presupporre qualcosa di percepi-bile. Ogni ipotesi è perciò nella condizione che il suo contenuto può venir direttamente confermato da esperienza successiva. Sono giustificate unica-mente quelle ipotesi che possono cessare di essere tali. Delle ipotesi su principi centrali della scienza non hanno valore alcuno. Ciò che non si spiega con un principio positivamente dato e a noi noto, non può essere spiegato affatto, né ha bisogno di es-serlo». (Goethes naturwissenschaftliche Schriften, GA 1

(1973), p. 194-5)

Potremmo chiedere: il pensare umano non è esso stesso limitato? Parlare di limiti riferendosi al pensare in quanto tale non ha senso: il limite appare là dove, nell’uomo, sorge la percezione. Il principio della limitazione è nella percezione: il pensare è proprio l’opposto, è l’esercizio dell’abolizione della limitazione, in quanto toglie ogni cosa singola dal suo isolamento e la colloca nel contesto unitario dell’essere.

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Il malinteso circa i limiti della conoscenza proviene in-teramente dalle ipotesi ingiustificate che «inventano» realtà per principio (essenzialmente) non conoscibili in quanto per natura non percepibili. Qui si ricorre a delle «cause» del mondo visibile che sono poste fuori di esso. Per fare un esempio:

«Non giustificata è … l’ipotesi che dice che tutte le qualità della sensazione sono prodotte da processi puramente quantitativi, poiché processi privi di qualità non possono venir percepiti». (Methodische

Grundlagen der Anthroposophie, GA 30 (1961), p. 64)

In altre parole, invece di ricercare la spiegazione di un fenomeno percepito nel concetto intuito dal pensare, la si ricerca in un altro fenomeno della stessa natura del primo e posto «dietro» ad esso così da essere da una parte in tutto come un oggetto della percezione e dall’al-tra per principio impercepibile. Qualora ci si renda con-to della contraddizione intrinseca di questo modo di procedere, non si ha più ragione di parlare di alcuna «cosa in sé» inconoscibile che sia «dietro» al mondo conosciuto. Il «Dio» di buona parte della teologia è con-cepito, anche se spesso in buona fede, essenzialmente come la «cosa in sé» kantiana, e solo in questo modo egli può esser reso «irraggiungibile» dall’uomo. Com-prendendo che ogni limite della percezione viene aboli-to dal pensare, non si ha più alcuna ragione di parlare di limiti della conoscenza.

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4. La libertà della persona umana

La libertà dell’uomo può procedere solo dal pensare, poiché solo nell’esercizio del pensare egli si esperisce come del tutto attivo. Le percezioni hanno bisogno di spiegazione proprio in quanto non è l’uomo a costituirle, ma gli sono «date»: con la propria attività egli deve tro-varne i concetti corrispondenti. Nel pensare, invece, egli si sente nella propria originaria attività, e allo stesso tem-po in una realtà vivente e universale che ha in se stessa la propria ragion d’essere. Vivere dentro al pensare vuol dire fare l’esperienza più profonda e più centrale del proprio io, che si immerge nella realtà con una forza primigenia che è ad un tempo intuizione e amore. Questa intensità del pensare attivo vissuto, che contiene in sé anche l’essere più vero del sentimento e della volontà, fa-cilmente ci fa fraintendere il pensare: quando lo guardia-mo dal di fuori, in un secondo momento, ci appare fred-do e astratto. Perciò Steiner dice:

«Nessun’altra attività dell’anima umana si presta così facilmente a essere fraintesa come il pensare». (Die Philosophie der Freiheit, GA 4 (1978), p. 143)

L’io umano si costituisce come attività che fa scaturire il pensare, ma in questa attività non segue delle leggi sog-gettive, bensì le leggi del pensare stesso. Riguardo al pen-sare, l’Io non ha bisogno, come per ogni altra percezione, di andare oltre la percezione per trovarne l’essere: ciò che percepisce ha in sé il proprio essere. Percezione e concet-

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to vengono qui a coincidere. Ogni altra percezione l’ab-biamo di fronte a noi (e chiediamo: che cos’è?); nella percezione del pensare siamo noi stessi dentro l’espe-rienza della nostra propria attività.

Nell’atto del conoscere, l’attività specifica del soggetto umano è quella di congiungere, nella rappresentazione, il concetto con la percezione. È dunque nel campo della rappresentazione che può sorgere l’errore o l’illusione. La percezione, che costituisce il lato oggettivo della realtà (ob-jectum: ciò che si pone di fronte), non può essere fonte di errore. Neppure lo può essere il pensare, che esprime il lato universale della realtà. Nell’incontro dei due, invece, il soggetto umano può mischiare altri ele-menti, provenienti dal sentimento, che conducono a una erronea rappresentazione.

Se da una parte dunque l’Io umano sperimenta la sua massima libertà nell’attività del pensare in quanto essa scaturisce attivamente dal centro del suo essere, questa libertà non è d’altra parte automatica, ma suscettibile di oscuramento in due direzioni opposte. Nella direzione della percezione, può essere la realtà corporea, con il mondo delle passioni e dei sentimenti, a prevalere e a introdurre l’egoismo nel pensare stesso. Nella direzione dei concetti, ci possono essere norme e leggi che l’in-dividuo segue senza farle proprie, sottomettendosi all’in-tuito altrui (del legislatore).

La libertà umana si pone al centro, nel punto di equi-librio tra l’esclusiva ed egoistica affermazione di sé a danno degli altri da una parte, e la negazione di sé nella

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sottomissione passiva senza partecipazione responsabile dall’altra.

Si potrebbe obiettare che la libertà deve risiedere nella volontà, più che nel pensare. Ma questo è un errore. L’agire, l’uomo l’ha in comune con l’animale. Ciò che rende umana l’attività è l’intuizione che si pone alla base dell’agire. Non in quanto agisco sono libero, ma in quan-to so ciò che faccio e perché lo faccio, in quanto è voluto da me. Solo con un atto di pensiero si può «volere» qual-cosa, ed è in un secondo momento che si passa all’attua-zione concreta. Se spostiamo la domanda circa la libertà dell’uomo verso il polo dell’attività, entriamo in quella sfera del suo essere che è la meno conscia, perciò meno libera. Solo indirettamente, tramite il pensare, noi diven-tiamo padroni (liberi) anche nella sfera del volere: i pen-sieri liberi trasportano con sé la volontà.

È fondamentale perciò comprendere che quando l’uomo segue i suoi istinti e le sue passioni inferiori, non solo non è libero, ma è massimamente determinato. In questo caso, egli non segue «se stesso» in quanto indivi-duo, ma segue ciò che è meno individuale in lui: gli im-pulsi animali che sono comuni a tutta la specie umana. Non è «lui» ad agire, bensì la natura in lui. Ciò che è in-conscio nell’uomo, domina l’uomo. Ciò invece che è reso conscio mediante il pensare, viene dominato dall’uomo stesso. Questa è la prima importante conclusione da trar-re dal fatto che l’uomo non è libero direttamente nella volontà, ma nel pensiero, e solo tramite il pensiero anche nella volontà. Questo aspetto è sottolineato vigorosa-

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mente da Steiner nella Filosofia della libertà, benché lui stesso si sia trovato ripetutamente di fronte a lettori su-perficiali che gli rimproveravano di aver sostenuto che esser libero vuol dire fare ciò che pare e piace.

«Che l’azione del delinquente, che il male venga chiamato espressione dell’individualità nello stesso senso in cui si incarna una pura intuizione, è possi-bile unicamente se gli impulsi ciechi vengono ascrit-ti all’individualità umana. Ma l’impulso cieco, che spinge a delinquere, non proviene dall’elemento in-tuitivo e non appartiene a ciò che è individuale nell’uomo, bensì a ciò che è più generico in lui, a ciò che vale in misura uguale per tutti gli individui, e da cui l’uomo si affranca col proprio elemento individuale. Ciò che è individuale in me non è il mio organismo con i suoi impulsi e sentimenti, ma il mondo unico delle idee che risplende in questo organismo. I miei impulsi, gli istinti, le passioni non sono in me altro che la prova che io apparten-go alla specie generale ‹uomo›. Il fatto che in questi impulsi, passioni e sentimenti si esprima una realtà ideale in modo particolare, costituisce la mia indi-vidualità. I miei istinti e impulsi fanno di me un uomo come se ne hanno dodici per dozzina. Indi-viduo lo sono grazie alla forma particolare dell’idea mediante la quale, entro la dozzina, mi designo come io. Per la differenza della mia natura animale potrebbe distinguermi da altri solo un essere a me

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estraneo; mediante il mio pensare, cioè afferrando attivamente ciò che di ideale si esprime nel mio or-ganismo, sono io stesso a distinguermi da altri.

Dell’azione del malvagio non si può dunque af-fatto dire che essa sgorghi dall’idea. Anzi, ciò che è caratteristico delle azioni malvagie è proprio il fatto che esse derivano dagli elementi non ideali dell’uo-mo.» (Die Philosophie der Freiheit, GA 4 (1978), p. 163-4)

L’uomo può dunque esser reso non libero da ciò che, dentro di lui, non è «lui» in quanto individuo, ma è natura in lui. Analogamente, può esser reso non libero da ciò che, fuori di lui, non è lui: le leggi e le norme esterne, nella misura in cui egli non le fa sue tramite il pensare. Questi due aspetti, quello interno e quello esterno, sono espressi nella Filosofia della libertà coi termini di «moventi» (provenienti dalla disposizione caratterologica del singo-lo) e di «motivi» (gli intenti, gli ideali, gli scopi dell’agire). L’uomo diviene libero nella misura in cui queste due sfe-re si avvicinano fino al punto da coincidere, e in questo coincidere ciascuna raggiunge la sua massima purificazio-ne da ciò che non è individuale, ma determinante l’indivi-duo. Il movente viene a identificarsi con il motivo quando non c’è più nulla dal di dentro che determini l’individuo all’azione, fuorché il pensare stesso in forma di una pura intuizione morale. Il motivo viene a identificarsi col mo-vente quando il contenuto stesso dell’intuito diviene di-rettamente oggetto della volontà e del desiderio. A questo vertice della moralità il motivo «muove» (diviene «mo-

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vente») con la forza stessa dell’amore. Quando ciò avvie-ne, l’uomo è libero. Segue il suo proprio e profondissimo essere, e non è costretto né dall’Io inferiore in lui, né dalla norma fuori di lui.

La domanda se l’uomo sia libero o no è una domanda ambigua. Ci sono uomini più liberi e uomini meno liberi. Totalmente non libero non è possibile esserlo: in nessuna persona la componente intuitiva del pensare è del tutto assente. E neppure ci sono persone totalmente libere: nessuno è diretto nel suo agire sempre e unicamente da un intuito individuale diretto. Siamo tutti in cammino verso una libertà sempre più piena, e proprio per questo è importante capire bene quando e perché siamo liberi, quando e perché non lo siamo.

Se da un lato è del tutto errata la nozione di libertà che vuol ridurre l’uomo a un animale (cioè un essere che agisce seguendo l’istinto), è errata dall’altro la nozione di libertà che vuol ridurre l’uomo ad un automa (cioè un fedele esecutore di leggi). Di fronte all’immoralismo della società attuale, molti vorrebbero tornare al Vecchio Te-stamento, al tempo cioè della legge cui l’uomo deve sot-tomettersi. Questo dilemma, che viviamo oggi più che mai, ci porta nel cuore del rapporto tra moralità e libertà che stiamo qui trattando, e cioè al rapporto tra il dovere (das Sollen) e il volere (das Wollen).

Dire che l’uomo è una creatura finita è fare un’af-fermazione ambigua. In quanto soggetto e oggetto di percezione, l’uomo è finito e limitato, ma non in quanto essere pensante. Nel pensare egli vive in una realtà che

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non è né finita né limitata. È il pensare stesso infatti che elabora entrambi i concetti di finito e infinito, mostran-dosi al di sopra di essi.

Lo stesso vale per l’affermazione che dice che l’uomo è per natura imperfetto. Nella realtà del pensiero egli partecipa direttamente alla perfezione che non è unica-mente un ideale per il futuro, ma è accessibile in ogni momento presente. L’imperfezione si riferisce essa pure al campo della percezione.

Ciò che è proprio del carattere attivo e intuitivo del pensare, è che in esso il dovere e il volere vengono a coincidere. Essendo pura attualità, il pensare è allo stesso tempo puro volere. Nel suo carattere di intuizione evi-denziale, è un volitivo unirsi (intus-ire) con l’essere. Di-cendo che nel pensare il dovere e il volere vengono a coincidere non si vuol dire che il dovere cessa: al contra-rio, esso trova nel volere la sua perfezione, che consiste appunto nel diventare una cosa sola con esso.

Detto nel linguaggio tradizionale: se è volontà di Dio riguardo all’uomo che questi non agisca perché deve, ma che faccia del dovere il proprio reale (non solo inteso) volere, allora l’uomo, paradossalmente, ubbidisce solo quando non agisce più per sola «ubbidienza», ma seguen-do la propria volontà. E d’altra parte, se l’uomo si ostina a voler agire per pura «ubbidienza» ai comandamenti di Dio senza fare di essi il suo proprio volere reale ed es-senziale, proprio allora disubbidisce al comandamento di Dio più fondamentale, che è quello di amare, cioè di agire non per ubbidienza, ma per amore.

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Ciò vorrebbe dire che la legge di Dio non è in alcun modo estrinseca all’uomo, ma è ciò che l’uomo vuole liberamente come essenza del proprio essere, a condizio-ne però che egli porti a fioritura dentro di sé questo esse-re umano vero e pieno. Non dobbiamo ritenere perciò come assoluta e finale l’affermazione che ciò che Dio vuole e ciò che l’uomo vuole sono sempre, cioè per natu-ra, due cose distinte. Ciò equivarrebbe a dire che l’uomo deve sempre ubbidire, perché non è mai veramente libe-ro. Neppure giova dire che si può anche scegliere libera-mente di ubbidire. Questa libertà non è ancora perfetta, perché in questo caso la norma da seguire non sgorga totalmente dall’essere stesso dell’uomo, ma resta a lui in qualche modo estrinseca: non è una norma che lui si dà, ma che gli viene data, o, per esprimerci meglio, le due norme ancora non coincidono, non divengono una realtà sola.

La perfezione dell’uomo non è qualcosa a lui irrag-giungibile. Se lo fosse, avremmo l’affermazione assurda che l’uomo non può mai essere ciò che egli è. Quando l’uomo, nell’esperienza intuitiva del pensare, vive nella pienezza del proprio essere, ciò che egli vuole è ciò che Dio vuole. E d’altra parte, la volontà di Dio su di lui è proprio che questo avvenga: che il dovere venga total-mente assorbito nel volere. Solo in questo modo l’uomo compie compiutamente la volontà di Dio.

Il dovere può divenire nostro volere nella misura in cui noi lo comprendiamo adeguatamente. Se non com-prendiamo il contenuto o il perché di un ordine, potremo

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eseguirlo, ma non far nostro l’intento che vi sta alla base. Ora si potrebbe pensare che la volontà di Dio non è mai adeguatamente comprensibile alla mente umana. Ma ciò significherebbe di nuovo misconoscere la natura univer-sale e incondizionata del pensare. Non bisogna confon-dere la volontà di Dio sull’uomo, con la volontà di Dio in genere. Ciò che Dio vuole riguardo all’uomo egli l’ha posto nell’essere dell’uomo stesso, non in un modo ap-prossimativo o limitato (il che sarebbe una imperfezione in Dio) ma in modo adeguato e completo. Ciò vuol dire che se l’uomo sviluppa la totalità del proprio essere, ciò che questo essere chiede e vuole corrisponde adeguata-mente alla volontà di Dio su di lui, anzi è una cosa sola con essa. In quanto essere capace di pensare, l’uomo non ha bisogno di uscire da sé per trovare il comandamento di Dio, perché nel pensare egli vive in Dio stesso, oltre che nel centro più profondo del proprio essere.

Non solo dunque è realmente possibile unificare in sé adeguatamente il dovere col volere, ma possiamo dire che se l’uomo considera il dovere come istanza ultima, egli viene meno al suo fondamentale dovere, e in nome di una malintesa ubbidienza o sottomissione filiale egli di-subbidisce a quel Dio che non lo vuole esecutore di ordi-ni, ma forgiatore di intuizioni morali sgorganti dal centro divino in lui, che lo fa agire con la libertà e con l’amore che Dio stesso gli partecipa. L’esercizio di questa libertà è la sola vera ubbidienza a Dio, è la vera umiltà di fronte a ciò che Dio ha posto nell’uomo affinché l’uomo lo faccia suo.

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Che cosa è più perfetto e più umano, volere qualcosa perché lo si deve volere, o volerlo perché lo si vuole? Se fac-cio qualcosa perché lo devo volere, ciò vuol dire da una parte che io non comprendo perché va voluto (se così fosse, lo vorrei io stesso) e dall’altra che io veramente non lo voglio (se così fosse, non sarebbe più ciò che de-vo, ma ciò che voglio).

Ma dobbiamo ora chiederci ulteriormente: come fa l’uomo a comprendere ciò che deve volere, se non sgorga dal suo essere stesso? Le fonti della sua conoscenza sono esclusivamente la percezione e il pensare. Anche la rive-lazione divina che ci è stata tramandata è per noi oggetto di percezione, a cui applichiamo la riflessione del pensare. Ci possono essere dunque altre norme del comportamen-to umano fuorché quelle che intuiamo col nostro pensa-re? E se le intuiamo col pensare, non sgorgano forse dal centro più autentico del nostro essere? Non corrispondo-no dunque in questo modo a ciò che il nostro essere vuole? Solo dal mio stesso essere (non dalla natura inferiore in me!) posso cogliere la volontà di Dio: da ciò che il mio essere individuale è nella sua vera essenza, e che perciò profondamente vuole. Come posso sapere cosa Dio vuole da me, se non sapendo chi io sono? Ciò che io sono (nel mio vero essere) e ciò che Dio vuole, sono una cosa sola. E ciò che io sono e ciò che io voglio (quando sono davve-ro me stesso) sono ugualmente una cosa sola.

Per l’uomo che non ha ancora trovato se stesso, le norme sono necessarie. Ma non norme tali da mantener-lo perpetuamente nella dipendenza dalla norma, bensì

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norme tali che lo aiutino a divenire lui stesso la norma di sé. Se lo stadio ultimo della moralità fosse una norma generale valida per tutti («ciò che ogni uomo deve vole-re»), ne seguirebbe che l’individuo è un puro esemplare della specie. Ma questa è appunto la definizione dell’ani-male, non dell’uomo. Se abbiamo paura della libertà che Dio dà all’uomo, e nella quale ogni individuo è chiamato ad attuare la propria realtà unica, allora ci restano come sola alternativa le varie forme di totalitarismo, di fanati-smo e di intolleranza di cui la storia è piena.

Se Dio volesse che il motivo ultimo del nostro agire sia di fare o volere ciò che egli (Dio) vuole, in quanto non può identificarsi adeguatamente con ciò che il nostro essere vuole, ne seguirebbero due cose: che egli non ci vuole liberi (perché la norma ultima del nostro agire sa-rebbe fuori di noi), e che lui stesso è fuori del nostro essere. Ciò si può supporre unicamente immaginando un Dio che, come la cosa in sé kantiana, è «oltre» l’uomo. Avendoci invece concesso la facoltà intuitiva del pensare, tramite la quale noi partecipiamo realmente al suo essere, Dio ha voluto che i motivi ultimi del nostro agire sgor-ghino dall’essere che lui stesso ci ha dato, e che è lui in noi. In questo modo, non solo egli ci vuole liberi (se-guendo ciò che il nostro essere, immerso nel suo, vuole), ma questa libertà è per giunta, come ho detto, la sola vera ubbidienza alla sua volontà.

Quando, nella libertà del pensare intuitivo, attingo alla volontà di Dio traendola dal mio essere stesso, mi rendo conto non solo che ciò che lui vuole è ciò che io voglio,

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ma che è inoltre ciò che io voglio essere. La sua volontà è il mio essere nella sua pienezza, e come posso io, quando sono me stesso, volere altra cosa che non sia la mia pro-pria perfezione? Volendo la volontà di Dio voglio me stesso pienamente, e viceversa volendo la pienezza vera del mio essere, voglio la volontà di Dio. Essa non mi è irraggiungibile, proprio perché nel pensare può venire intuita, non in modo imperfetto, ma in un modo umana-mente perfetto. Si dirà: ciò che io voglio essere (la mia propria pienezza e perfezione) non lo sono ancora. Ma questa affermazione è ambigua: ciò che faccio mio nell’in-tuizione del pensare è già parte di me, anche se non an-cora tradotto in realtà esteriormente percepibile. Gli ideali non ancora realizzati non sono solo il segno dell’im-perfezione o della limitatezza umana: sono anche il segno della realtà opposta, del fatto cioè che, nelle sue facoltà spirituali, l’uomo si estende verso l’infinito e vi partecipa realmente.

Se Dio volesse per me qualcosa d’altro oltre ciò che il mio essere vuole come propria perfezione, ciò Dio lo vorrebbe senza volerlo, poiché non avendolo fatto parte del mio essere, egli non l’avrebbe voluto per me. E d’altra parte, la volontà di Dio che non trovo in me, non può mai essere da me conosciuta, non potendo io uscire da me stesso o essere altro che io stesso. La natura intenzio-nale e intuitiva del pensare, infatti, non consiste in un andare oltre se stesso da parte dell’uomo ma nell’espli-cazione compiuta di ciò che costituisce la vera essenza del suo essere.

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Il pessimismo circa la natura umana, oppure la sete di potere che vuol imporre su altri il proprio ordine e la propria legge, ci fanno pensare che l’egoismo sia ciò che l’uomo vuole, mentre il comportamento morale o il proprio perfezionamento sia ciò che egli deve (perché non lo vuole veramente)15. E chi decide per lui che cosa è morale e che cosa egli deve? Altri uomini come lui, con le sue stesse facoltà di percezione e di pensiero, i quali hanno tratto dal proprio essere quelle norme che, secondo loro, l’uomo non è capace di trarre dal proprio essere.

Questi stessi uomini diranno infatti che le norme che essi propugnano non vengono dall’uomo ma da Dio. In questo caso ci sono due possibilità: o che certi uomini sono andati oltre la natura umana per entrare in quella divina (e allora non sarebbero più degli esseri umani, ma divini); oppure che l’uomo proprio restando uomo, in quanto uomo può attingere, col suo pensare, ai pensieri di Dio (e allora la comunione con Dio si rivela come l’essenza stessa della natura umana). La prima ipotesi è quella del vero e proprio panteismo; la seconda invece vede nell’uomo come una piccola spugna che si riempie dell’acqua del mare: la spugna è piena, l’acqua della spu-gna e quella del mare sono della stessa natura, ma la pic-cola spugna non può mai esaurire il mare.

15 Questo aspetto della libertà, che qui voglio solo accennare, viene ripreso più ampiamente nell’ultimo capitolo.

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5. Finalità, moralità e libertà

Le riflessioni precedenti hanno inteso mostrare che Dio non vuole me per qualcosa d’altro (che sarebbe il mio «dovere»), ma vuole me. La mia ragion d’essere è il mio essere stesso: in esso trovo la norma del mio agire. La mia realtà umana nella sua pienezza e individualità è la volontà di Dio. Posso ubbidire a lui solo conoscendo me stesso e volendo ciò che il mio vero essere vuole. I suoi intenti su di me non li trovo oltre me stesso o fuori di me (in lui), ma dentro di me: essi sono ciò che io sono.

Lo stesso vale per la conoscenza della natura. Anche qui, l’uomo è facilmente tentato di immaginare gli scopi di Dio come delle realtà metafisiche ipostatizzate, che dovrebbero dare la spiegazione degli esseri naturali, ma che sono intese come da loro realmente distinte, esistenti oltre e al di sopra di loro.

Questo modo di guardare alla natura si è reso tanto più inevitabile quanto più l’uomo andava sviluppando, negli ultimi secoli, concetti che si possono applicare uni-camente al mondo inorganico. Da una parte si voleva spiegare ogni fenomeno in termini puramente meccanici e matematici, e dall’altra ci si rendeva conto che la vita della pianta o dell’animale richiede ben altro per venire compresa. La soluzione fu allora dapprima quella di ri-correre ad un intervento divino ab extra: è Dio che «diri-ge» la materia della pianta e la dispone secondo i suoi intenti e i suoi scopi. Quando l’uomo prende dei pezzi di metallo e ne fa una macchina secondo l’idea della sua

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mente, egli imprime a quei pezzi una realtà nuova che non fa parte della loro essenza o natura: io non posso comprendere la natura della macchina dalla natura dei pezzi, ma devo ricorrere all’idea dell’uomo che è fuori di essi. Si immagina allora il rapporto fra Dio e la natura come analogo a quello che con essa ha l’uomo, e ci si dice: io non posso comprendere l’essenza di una creatura dalla sua natura stessa, ma devo rivolgermi allo scopo divino cui essa corrisponde. Nei suoi «Lineamenti di una gnoseologia della visione goetheana del mondo», pubbli-cata nel 1886, Steiner così scrive:

«Per lungo tempo la scienza si è arrestata sulla so-glia del mondo organico. Riteneva i propri metodi inadeguati a comprendere la vita e le sue manifesta-zioni. Anzi, pensava semplicemente che a quel punto cessassero le leggi che sono all’opera nella natura inorganica. Negava senz’altro il fatto, am-messo per il mondo anorganico, che un fenomeno ci diviene comprensibile una volta che ne cono-sciamo i requisiti naturali. Si concepiva l’organismo come costruito teleologicamente secondo un dato pia-no del creatore. Ogni organo doveva avere la sua funzione prestabilita. Restava solo da chiedere: qual è lo scopo di questo o quell’organo, a cosa serve questo o quello. Se per il mondo inorganico ci si rivolgeva alle precondizioni di una cosa, per il mondo organico ciò era ritenuto superfluo, e si da-va invece importanza alla finalità di una cosa. Di

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fronte ai processi che accompagnano la vita non si ricercavano, come per i fenomeni fisici, le cause naturali, ma si riteneva di doverli attribuire a una forza vitale particolare. Ciò che si forma nell’or-ganismo lo si riteneva un prodotto di questa forza, che semplicemente oltrepassa tutte le altre leggi na-turali. La scienza è rimasta, fino all’inizio del no-stro secolo, del tutto inerme di fronte agli organi-smi. Si limitava unicamente alla sfera della natura inorganica.

Ricercando in questo modo le leggi dell’orga-nico non nella natura stessa degli oggetti, ma nel pensiero che il loro creatore segue nel formarli, ci si precludeva pure la via a ogni spiegazione... Co-me posso io infatti aver conoscenza di quel pensie-ro? Sono chiaramente limitato a ciò che ho davanti a me: se non è esso stesso a rivelarmi le sue leggi den-tro al mio pensare, la mia scienza termina. Non è scientificamente ammesso che si voglia indovinare i piani concepiti da un essere che sta fuori.» (Grund-

linien einer Erkenntnistheorie der goetheschen Weltanschau-

ung, GA 2 (1960), p. 95-6)

Prosegue poi parlando di Kant (il quale ha dichiarato la mente umana incapace di comprendere i fenomeni della vita) e della reazione di Goethe a questo modo di vedere le cose:

«Alla fine del secolo scorso era ancora comune l’o-pinione che non c’è una scienza che spieghi i fe-

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nomeni della vita allo stesso modo in cui dà spie-gazioni, per esempio, la fisica. Kant ha perfino ten-tato di dare un fondamento filosofico a quell’opi-nione. Riteneva che il nostro intelletto è capace uni-camente di risalire dal particolare al generale. Le cose singole, particolari, gli sono date, e da esse egli astrae le leggi generali. Questa forma di pensie-ro Kant la chiama discorsiva, e la ritiene la sola che conviene all’uomo. Secondo lui c’è allora scienza solo per quelle cose, dove il particolare è in sé e per sé del tutto privo di concetto e viene solo assunto in un concetto astratto. Per gli organismi questa condizione secondo Kant non si adempie. Qui il fenomeno singolo palesa una composizione teleolo-gica, cioè concettuale. II particolare porta in sé delle tracce del concetto. Ma per comprendere tali esse-ri, secondo la concezione del filosofo di Königs-berg, a noi manca ogni disposizione. Possiamo comprendere unicamente là dove concetto e cosa singola sono separati: quello rappresenta un ele-mento generale, questa uno particolare. Non ci re-sta altro che porre alla base delle nostre indagini sugli organismi l’idea della finalità, trattando gli esseri viventi come se alla base dei loro fenomeni vi fosse un sistema di intenzioni. Kant ha così nientemeno che fondato scientificamente la non-scientificità.

Ma Goethe ha protestato decisamente contro questo procedere non scientifico. Non ha potuto mai capacitarsi perché mai il nostro pensare non

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debba essere in grado, anche di fronte a un organo di un essere vivente, di chiedere: ‹da che cosa pro-viene›, anziché chiedere: ‹a che cosa serve›. Ciò era insito nella sua natura, che lo spingeva a vedere ogni essere nella sua perfezione intrinseca. Un modo di osservare che si occupi unicamente della finalità estrinseca di un organo, cioè della sua utilità per un altro, gli pareva non scientifico. Cosa può avere questo a che fare con la natura intrinseca di una cosa? Per lui non ha mai importanza ciò a cui una cosa serve, ma sempre e solo come si sviluppa. Egli non vuol considerare un oggetto come un es-sere conchiuso, ma nel suo divenire, onde cono-scerne l’origine. Di Spinoza lo attirava particolar-mente il fatto che questi respingeva la finalità estrin-seca degli organi e degli organismi. Goethe esigeva, per la conoscenza del mondo organico, un metodo che fosse scientifico proprio allo stesso modo in cui lo è quello applicato al mondo anorganico.» (Grundlinien einer Erkenntnistheorie der goetheschen Wel-

tanschauung, GA 2 (1960), p. 97-8)

Nei tempi successivi, la scienza ha abbandonato quell’ «u-miltà» iniziale, e ha creduto di potere spiegare tutti i fe-nomeni della natura, ma non nel rispetto dei vari ordini degli esseri, bensì applicando anche ai fenomeni organici le leggi della fisica e della meccanica, ritenute le sole vali-de per una conoscenza scientifica. Invece di prendere dalla matematica, dalla fisica, dalla meccanica il metodo

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scientifico, cioè il modo di conoscenza che esse richiedo-no, se ne è preso il contenuto, i risultati, si sono cioè estese agli altri campi del reale le leggi valide per il mondo inorganico.

Il capitolo XI della Filosofia della libertà, dedicato alla finalità o visione teleologica del mondo, può sembrare a prima vista sorprendente, se non sconcertante. Molti sono abituati a pensare al mondo e alla natura in termini di un grande organismo che si evolve in base ad un dise-gno divino, seguendo una onnisciente provvidenza che guida l’evoluzione e la storia, la cui sapienza resta per noi in massima parte imperscrutabile. In questo senso si parla di limiti della conoscenza umana.

Questo modo di vedere è giustificato nella misura in cui si riferisce alla nostra percezione, che è per natura limitata. Ma il pensare non conosce questi limiti. Quando a una percezione noi uniamo il concetto corrispondente abbiamo una conoscenza piena e adeguata dell’essere in questione. Si tratta di comprendere che ciò che noi chia-miamo gli scopi o intenti di Dio non sono «dietro» o «oltre» le cose corrispondenti, ma sono in esse, sono anzi la loro essenza e natura, e sono perciò da noi adeguata-mente conoscibili.

Se un essere è creato in vista di un altro (come stru-mento verso un fine) esso non ha in sé la propria ragion d’essere. Ora, questo modo finalizzato di procedere è proprio dell’uomo, non di Dio. Attribuirlo a Dio vuol dire costruire un dio a immagine dell’uomo. Perché mai dovrebbe Dio aver bisogno di un essere per ottenerne un

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altro? Dio non agisce, come l’uomo, secondo scopi. Egli manifesta se stesso in ogni essere: ciascuno è voluto non in vista di un altro, ma in vista di se stesso. Nella sua realtà stessa porta la sua ragion d’essere. Per conoscerlo devo restare dentro l’essere stesso, e non rivolgermi a scopi o a fini, rimasti nella mente di Dio, che mi spieghi-no la natura di questo essere. Gli esseri che Dio crea non sono dunque strumenti, sono tutte teofanie. Le intenzio-ni di Dio non sono «mediante» le creature: sono le crea-ture stesse. Le leggi naturali sono i pensieri di Dio, sono le sue proprie intenzioni. Ciò che lui intuisce, viene diret-tamente all’essere: solo per l’uomo c’è l’intervallo del tempo tra il concepimento (lo scopo da raggiungere) e l’attuazione. Dio non vive nel tempo: le sue intenzioni sono esseri. Così come egli non crea me in vista di qual-cosa d’altro fuori di me, ma in vista di me stesso, così crea tutte le creature: ognuna è una sua intuizione morale ed è voluta per se stessa, per la sua bellezza e bontà in-trinseche ed essenziali. Dio crea ciò che intuisce perché lo ama nel suo proprio contenuto, non come strumento per giungere a qualcosa d’altro. L’essere più profondo delle creature sono perciò le creature stesse, non i pre-sunti fini per i quali Dio le ha create. Per conoscere le cose non ho allora mai motivo di «uscire» da esse.

La perfezione di un essere non risiede esclusivamente nel suo stadio finale, cioè nello stato che esso, in quanto svolgentesi nel tempo, raggiunge alla fine. Se così fosse, dovremmo dire che la pianta appena sbocciata è un esse-re imperfetto, perché non è ancora giunta a fioritura. An-

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che la pianta in fiore sarebbe allora imperfetta, perché ancora non ha dato i frutti. Ma neppure la pianta col frutto dovrebbe essere perfetta, perché non è questo lo stadio finale: segue quello del seme, e siamo di nuovo all’inizio. Qui si vede chiaramente come ogni stadio ha in sé la sua perfezione: è in vista di se stesso, non dello sta-dio successivo. Così ogni essere è perfetto nella sua tota-lità che è tutta e direttamente presente in ogni sua parte e in ogni stadio del suo sviluppo. Non è lo stesso dire che l’uomo è lo scopo della natura, e dire che egli ne è il co-ronamento e la sintesi.

La tentazione dell’uomo è da una parte quella di vede-re in ogni prima e dopo un rapporto di causa ed effetto (ed estende a tutta la realtà un concetto valido solo per il mondo inorganico), e dall’altra quella di vedervi un rap-porto di strumento e fine (e generalizza antropomorfi-camente ciò che è specifico del suo agire umano).

Se Dio non opera, come l’uomo, servendosi degli es-seri per i suoi scopi (quali?), ma creando gli esseri, ne segue che per conoscere questi esseri non devo rivolger-mi agli scopi di Dio oltre gli esseri, ma agli esseri stessi. Quando ci chiediamo: per quale fine Dio ha creato que-sto o quell’essere, siamo del tutto fuori della realtà. Dob-biamo chiederci invece: quale essere ho qui davanti a me, nella sua realtà che è fine a se stessa. Quando, col pensa-re, intuisco l’ «essere» di questo essere, sono in comunio-ne con Dio, perché faccio mia la sua intuizione.

Sorge qui allora la domanda circa la libertà di Dio: è Dio libero? Poteva egli non creare il mondo? Era libero di

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creare un mondo diverso da quello che abbiamo davanti a noi? Questa domanda è una domanda sbagliata, perché può sorgere unicamente come conseguenza di presuppo-sti errati, anche se non consapevoli. Essa suppone, infat-ti, che Dio abbia creato il mondo per qualche scopo (che non ne è l’essenza, altrimenti non avrebbe creato il mon-do «in vista di...» ma semplicemente creato il mondo), e che per raggiungere tale scopo poteva servirsi anche di un mondo diverso. Oppure suppone che Dio non ha bisogno del mondo (cioè può fare a meno di «servirse-ne») e quindi poteva anche non crearlo. Entrambi questi taciti presupposti non hanno senso. Il mondo è l’auto-manifestazione di Dio, e la nostra domanda chiede, da una parte, se fosse stato possibile a Dio non manifestarsi nel suo essere (non creando il mondo), e dall’altra, se gli fosse stato possibile manifestarsi per ciò che egli non è (creando un mondo diverso). In altre parole essa chiede: era libero Dio di essere un Dio diverso da quello che è, cioè un altro Dio?

Il fatto che la domanda sulla libertà di Dio, in quanto posta dal punto di vista umano, si riduce all’assurdo, non vuol dire che Dio non è libero: sia ben chiaro che non è questo che io sto dicendo. Quello che intendo dire è che il concetto di libertà quale vissuta dall’uomo non si può applicare a Dio, perché lui è al di sopra del livello della libertà, poiché questo è specificamente umano e consiste essenzialmente nel poter fare una cosa in vista di un’altra, cioè nel poter scegliere gli scopi e gli strumenti in vista di un fine. Dio non ha scopi (cioè fini da lui non ancora

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conseguiti) e non si serve di strumenti (cioè esseri da lui non voluti per se stessi).

Se da una parte gli esseri del mondo non sono gli uni in vista degli altri, è però giusto dire che essi sono gli uni per gli altri: ciò lo comprendiamo non andando oltre gli esseri, ma restando nella loro natura, osservandone il funzionamento e comprendendone le leggi. Se vedo l’ani-male brucare l’erba, non dirò che l’erba è stata creata in vista dell’animale, ma dirò che c’è una corrispondenza essenziale tra i due esseri. È questa la differenza tra dire che il mondo è costruito armonicamente e secondo leggi (gesetzmässig) che ne sono l’essenza, e dire che è costrui-to secondo scopi (zweckmässig). Questi ultimi possono essere unicamente delle astrazioni inventate e concepite come realtà invisibili ma ipostatizzate, mentalmente pen-sate come esseri tenuissimi dentro alla mente di Dio, essa pure immaginata con caratteri di un «recipiente» sensibile: solo così gli «scopi» di Dio possono essere posti «oltre» gli esseri, e definiti come non conoscibili indagando la natura stessa degli esseri.

Per poter agire secondo scopi è necessario che il con-cetto dell’effetto abbia un influsso reale e percepibile sulla causa: ciò lo possiamo osservare (nella percezione ordina-ria) unicamente nell’agire umano. Quando l’uomo conce-pisce uno scopo, il concetto dell’effetto è reale in lui, ed è esterno all’effetto stesso (che appunto ancora non c’è): perciò c’è bisogno dell’intervento umano, dal di fuori, per condurre la causa al suo effetto. Per le leggi che vigono nel mondo, invece, le cose stanno altrimenti: le leggi sono

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l’essenza delle cose stesse, sono i concetti che noi affer-riamo col pensare, in quanto corrispondono alle percezio-ni. Senza quei concetti, nella pura percezione, non abbia-mo gli esseri, ma ci allontaniamo dalla loro realtà.

È questo che intendeva Goethe volendo sostituire la spiegazione finalistica (teleologica) dei fenomeni, con quella causale: di fronte agli esseri egli non si chiedeva «a quale scopo», ma «come». Ricercando la spiegazione nel «come» io resto dentro al reale. Si dirà che il «come» con-siste in una pura «descrizione», che non dà «ragione» di una cosa. Al contrario, i concetti e le leggi che il pensare intuisce non sono percezioni: queste possono unicamen-te venire descritte. I rapporti fra le percezioni sono leggi espresse in forma di concetti: questi non si possono per-cepire. I supposti «scopi» o intenti di Dio sono delle real-tà impercepibili immaginate con caratteri percepibili (si-mili alle «leggi» divine immaginate fuori dell’uomo come realtà percepibili-impercepibili).

Una domanda sorge spontanea al termine di queste considerazioni: ma allora la vita non ha scopo? L’uomo è senza scopo? Il mondo è senza scopo? Si vuol forse tutto ridurre a cieco determinismo della materia senza alcuna destinazione?

Dicendo che le intenzioni (gli scopi), in quanto devo-no essere percepibili, le riscontriamo solo nell’uomo, e che nella natura troviamo leggi (le quali possono solo venir pensate), intendiamo dire che nel mondo spirituale extraumano (nel modo di operare di Dio), vige un ordi-namento superiore a quello della finalità, quale si manifesta

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nell’uomo. Per la finalità è essenziale l’elemento del tem-po nel quale l’uomo si trova, e che comporta il susseguir-si del prima e del poi. Oltre il tempo c’è una sfera dell’essere di ordine diverso.

Ciò che io qui ho voluto mostrare è che moralità, fina-lità e libertà sono in ultima istanza sinonimi fra loro, e che tutte e tre sono specifiche del livello dell’essere pro-priamente umano. Per la moralità è necessaria la possibi-lità reale del male, e questa non può essere attribuita a Dio. Per la finalità è essenziale la presenza reale di un in-tento non ancora attuato nel tempo, e ciò, pur essendo la perfezione dell’essere umano, sarebbe in Dio imperfezio-ne. La libertà è l’esercizio congiunto della finalità (che si può chiamare la libertà del pensare) e della moralità (che si può chiamare la libertà del volere): questo pensare e questo volere, che sono specificamente umani, nella li-bertà trovano entrambi la propria perfezione, divenendo una cosa sola e trasformandosi in amore. Ciò che noi chiamiamo comunemente libertà non è allora la perfe-zione dell’essere, ma la perfezione dell’essere umano.

La «via negativa» nel linguaggio su Dio va strettamen-te rispettata non solo per gli attributi che a noi sembrano negativi (l’uomo è finito, Dio è in-finito: ma la «finitudi-ne» umana non è un’imperfezione dell’uomo, bensì pro-prio la sua perfezione specifica), ma anche a quelli che sono positivi (l’uomo è libero, Dio è «altro che» libero: il suo essere è a un livello superiore a quello della libertà umana). La sola realtà che ci fa vivere in Dio (e nella quale la «via negativa» viene sospesa) è la realtà vivente

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del pensare come tale. Ma la libertà umana (fatta di mora-lità e finalità) risiede proprio nel necessario rapporto del pensare umano alla percezione, che per Dio non esiste.

Noi possiamo senz’altro scegliere di usare la parola «li-bertà» anche parlando di Dio. Useremmo allora la stessa parola per due realtà essenzialmente diverse. La difficoltà di questo uso appare però chiara non appena ci rendiamo conto che in realtà essa viene comunemente attribuita a Dio nello stesso modo in cui viene attribuita all’uomo. Cre-dendo di affermare la libertà di Dio, ci si costruisce difatti un Dio a immagine dell’uomo, e lo si fa appunto agire al modo umano: secondo scopi e intenti. Ciò è talmente radicato nell’antropomorfismo umano, che non si riesce a concepire un Dio senza scopi (ai quali, come ho mostrato, l’elemento della percezione è essenziale, essendo lo scopo un concetto percepibilmente reale in colui che agisce).

Che la mente umana, d’altro canto, abbia ragione di riempirsi di scopi, di intenti, di ideali, e di farne il conte-nuto della propria esistenza, lo vedremo nelle riflessioni che ora seguono.

6. L’immaginativa morale come libertà dell’amore

La visione morale di Steiner è tutta fondata sulla facoltà del pensare, che è specifica dell’uomo. In quanto essere pensante, egli non è determinato, ma è capace di deter-minare se stesso: è libero.

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La libertà dell’uomo risulta nella sua chiarezza e pie-nezza non tanto nell’esercizio del conoscere stesso, quan-to nel pensare che si pone alla base dell’agire, nella volon-tà attiva che, seguendo i propri intenti, interviene a tra-sformare la realtà. Nel pensare che conosce il mondo, infatti, noi entriamo nella realtà stessa del mondo: con-giungendo le percezioni con i concetti corrispondenti seguiamo le leggi oggettive del pensare, e dimentichiamo noi stessi. Nei pensieri invece che noi poniamo alla base delle nostre azioni, siamo noi stessi a separare realmente il concetto (l’intento) dalla percezione (l’azione), per poi ricongiungerli mediante la nostra attività.

La scienza naturale tende a considerare tutti i fenomeni in termini di causalità meccanica, cioè deterministica: ogni fenomeno ha la sua causa, ogni fenomeno è un effetto. In questa mentalità non c’è affatto posto per la libertà umana, che esula dal determinismo causale. Questa libertà non si può strettamente dimostrare (se così fosse, non sarebbe più libertà, ma una realtà «necessaria»), ma la si può solo vivere ed esperire come realtà interiore vivente. Essa si può percepire e quindi osservare interiormente con la stessa chiarezza e certezza con cui percepiamo e osserviamo real-tà fuori di noi. Lo stesso metodo scientifico, che consiste nella fedeltà pensante alla percezione e all’osservazione, va applicato anche all’esperienza introspettiva della libertà. Il dogma del determinismo causale di ogni fenomeno non proviene dalla percezione o dall’osservazione: è un pregiu-dizio che impedisce di osservare con oggettività tutti i dati percepibili, compresi quelli interiori.

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Nell’osservazione della realtà interiore della libertà, noi applichiamo il nostro pensare non più agli oggetti dei sensi, ma a una realtà puramente spirituale. In essa il pen-sare si libera dai sensi e dal corpo. In questo senso, per-cepire la realtà interiore della libertà è esso stesso un pro-cesso di liberazione: il pensare si rivolge al centro interio-re dell’Io, si riempie cioè di ciò che egli stesso produce e che è allo stesso tempo realtà oggettiva. L’oggetto dell’os-servazione non è qui fornito da ciò che i sensi corporei percepiscono nel mondo esterno, ma è una realtà pura-mente spirituale, resa conscia tramite percezione e osser-vazione introspettiva.

La sfera dell’agire morale inverte il processo che av-viene nella conoscenza. Per conoscere un oggetto par-tiamo dalla percezione, per poi congiungerla col concetto che traiamo dal pensare. Nell’attività volitiva invece par-tiamo dall’intuizione morale (il motivo, l’intento dell’a-zione) e la poniamo alla base dell’attuazione concreta, che avviene nel mondo della percezione sensibile. Qui è la libertà intuitiva e creatrice propria del pensare a essere il punto di partenza: una realtà puramente spirituale, del tutto indipendente dai sensi e dalla realtà visibile. La vera natura della libertà si manifesta perciò pienamente nell’a-gire morale. La volontà che trae le proprie intuizioni e i propri intenti dalla natura libera del puro pensare è essa stessa pienamente libera.

Ne segue che ciò che fa dell’essere umano un soggetto morale creativo e responsabile è la sua capacità di intui-zioni morali. Senza di queste, egli sarebbe un essere in

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tutto determinato. Le intuizioni morali presuppongono dunque una facoltà creatrice, di natura individuale e intui-tiva. Steiner chiama questa facoltà «immaginativa morale» (moralische Phantasie): essa può esser conosciuta e vissu-ta unicamente tramite percezione interiore, osservando e intensificando in sé la realtà vivente del pensiero. Quan-do il pensare, rivolto alla propria attività e vivendo in essa, si intensifica, liberandosi dalla passività inerente al riferimento alla percezione esteriore, allora comincia a sperimentarsi direttamente come volere, come libera creatività, come realtà sostanziale che ha in sé la propria ragion d’essere. È qui che l’uomo non solo scopre in sé l’immaginativa morale, ma sa per esperienza interiore diretta di essere una cosa sola con essa: comprende che il suo Io più intimo e vero è quella stessa attività creatrice e intenzionale, pensante e volitiva ad un tempo. Sperimen-ta se stesso come essere spirituale che intuisce e ama non in due atti distinti, ma in un atto solo.

Nell’immaginativa morale convergono così, fino a uni-ficarsi, le due dimensioni fondamentali della persona umana: il pensare e il volere. Il pensare che diviene attivi-tà volitiva è l’esercizio diretto della libertà; il volere che diviene trasparenza intuitiva è l’esercizio diretto dell’amo-re. Libertà e amore, nella loro unificazione, sono l’essen-za morale della persona umana.

«C’è ora una possibilità di divenire del tutto liberi, di divenire liberi nella propria vita interiore, se si esclude il più possibile il contenuto di pensiero in

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quanto proveniente dal di fuori, ed escludendolo sempre di più si giunge ad attivare in modo parti-colare l’elemento della volontà, che illumina i no-stri pensieri nei giudizi e nelle argomentazioni. In questo modo però il nostro pensare entra in quello stato che io nella mia ‹Filosofia della libertà› ho chiamato il pensare puro: pensiamo, ma nel pensa-re vive unicamente il volere. L’ho sottolineato in modo particolarmente marcato nella nuova edizio-ne della ‹Filosofia della libertà› del 1918. Ciò che in quello stato vive in noi, vive nella sfera del pensare. Ma una volta divenuto pensare puro, lo si può di-fatti a ugual ragione chiamare volontà. Per cui noi, quando diveniamo interiormente liberi, ci eleviamo dal pensare al volere, rendiamo per così dire il pen-sare maturo a tal segno, che esso viene completa-mente illuminato dal volere, senza più ricevere dal di fuori, ma vivendo appunto nel volere. Ma pro-prio in quanto noi rafforziamo sempre di più il vo-lere in seno al pensare, ci prepariamo per ciò che io nella ‹Filosofia della libertà› ho chiamato immagi-nativa morale, la quale assurge a intuizioni morali che vengono a illuminare e a compenetrare la no-stra volontà divenuta pensiero, ossia il nostro pen-siero divenuto volontà. In questo modo ci affran-chiamo dal determinismo fisico-sensibile, ci illumi-niamo con ciò che ci è proprio e ci rendiamo capaci di intuizione morale. Ed è appunto in siffatte intui-zioni morali che consiste dapprima tutto ciò che

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dal mondo spirituale può riempire l’uomo. Ciò che è libertà nasce dunque quando noi proprio in seno al pensare rendiamo sempre più forte e vigoroso il volere.» (Die Brücke zwischen der Weltgeistigkeit und dem

Physischen des Menschen, GA 202 (1970), p. 202)

Questo puro pensare, che rivela la propria natura spiri-tuale vivente e volitiva, è tutt’altra cosa che il pensiero astratto concepito come mera riflessione speculare della realtà visibile. Steiner prosegue, nel passo or ora citato, volgendosi all’altro polo, quello del volere, per mostrare come la vera natura del volere divenga trasparente nella misura in cui l’atto volitivo viene del tutto rischiarato dall’intuizione del pensare. Quando starnutisco, non pos-so parlare di un vero e proprio impulso volitivo. Quando parlo, la volontà conscia è già molto più attiva, benché, per il fatto stesso che io abbia «imparato» a parlare, l’ele-mento automatico (extra-volitivo) abbia pure la sua parte.

«Ma più noi usciamo da ciò che è organico in noi e passiamo all’attività che è in qualche modo eman-cipata dalla realtà organica, più inseriamo i pensieri nel nostro agire. Lo starnutire è ancora del tutto inserito nell’organismo, il parlare lo è ancora in gran parte, il camminare già molto poco, ciò che eseguiamo con le mani pure molto poco. ...Noi in-seriamo i pensieri nel nostro agire: più il nostro agire si perfeziona, e più noi immettiamo in esso i nostri pensieri.» (lbidem, p. 203)

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Nel pensare che vive nella propria attività e diviene voli-tivo, noi ci liberiamo dal determinismo del mondo della percezione esterna, e troviamo la libertà. Nel volere che è illuminato dal pensare e diviene intuitivo, noi ci libe-riamo dal determinismo degli impulsi interni del nostro organismo, e ci apriamo all’amore. Il pensare che ci dà la libertà, e il volere che ci dà l’amore divengono una realtà sola.

«Voi vedete che andiamo sempre di più verso l’in-terno, a mano a mano che immettiamo la nostra propria energia come volontà nel pensare, e la-sciamo che la volontà illumini per così dire il pen-sare. Portiamo la volontà dentro al pensare e nel perfezionare sempre di più il nostro agire riuscia-mo a inserire in questo agire i pensieri. Illuminia-mo il nostro agire, che procede appunto dalla no-stra volontà, coi nostri pensieri. Da un lato, verso l’interno, viviamo una vita di pensieri: la illuminia-mo con la volontà e troviamo così la libertà. Dall’altra parte, verso l’esterno, le nostre azioni sgorgano in noi dalla volontà, e le compenetriamo con i nostri pensieri.

Ma cos’è dunque che rende le nostre azioni sempre più compiute? In che modo conseguiamo un agire sempre più perfetto? Giungiamo ad un agire sempre più perfetto proprio per il fatto che formiamo in noi quella forza che non si chiama al-tro che dedizione al mondo esterno. Più cresce la nostra

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dedizione al mondo esteriore, e più questo stesso mondo ci stimola all’agire. Ma proprio trovando il modo di esser dediti al mondo esterno ci diviene possibile di compenetrare di pensieri ciò che è contenuto nel nostro operare. Che cos’è la dedi-zione al mondo esteriore? La dedizione al mondo esteriore che ci compenetra e che compenetra di pensieri il nostro agire, non è altro che amore. Co-me noi giungiamo alla libertà illuminando con la volontà la vita dei pensieri, proprio così giungiamo all’amore illuminando coi pensieri la vita della vo-lontà.» (Die Brücke zwischen der Weltgeistigkeit und dem

Physischen des Menschen, GA 202 (1970), p. 203-5)

L’immaginativa morale è dunque l’unione inscindibile di libertà e amore: la facoltà di intuire amando e di amare intuendo. In essa il puro pensare e il puro volere si identi-ficano. La persona umana è, nella sua essenza più pro-fonda, amore inventivo, intuizione creatrice. La libertà dell’amore è la sorgente di ogni conoscenza e di ogni volere. Ritroviamo qui, al suo livello più profondo, ciò che ho detto nel quarto capitolo circa l’unificarsi, nell’a-zione libera, del movente e del motivo, il primo in quanto esprime la dimensione della volontà, il secondo in quanto esprime quella del pensare. E così come in quel contesto abbiamo approfondito il rapporto tra il dovere (Sollen) e il volere (Wollen), così dobbiamo ora, per comprendere l’uomo in quanto individuo, approfondire il rapporto fra legge naturale e norma morale.

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Infatti, ciò che ho detto finora circa la natura essen-zialmente individuale e intuitiva dell’immaginativa morale fa sorgere, come risposta spontanea, la domanda: non ci sono dunque altre norme morali per l’individuo oltre a quelle che lui stesso si dà? Non esiste nessuna legge mo-rale oggettiva valida per tutti?

Dobbiamo sempre ritornare alla realtà fondamentale: che ci sono unicamente due sorgenti per la nostra cono-scenza (la percezione e il pensare) e che ogni cosa che troviamo in noi o fuori di noi dev’essere o una percezio-ne (che dobbiamo perciò poter indicare), o esercizio atti-vo del pensare.

Se ora ci chiediamo se le norme morali generali vada-no poste dalla parte del pensare oppure da quella della percezione, la risposta è chiara: per me esse sono tutte percezioni. Sono offerte al mio pensare attivo come ogni altro dato, che appunto viene «dato» al pensare. Non le produco io creativamente, le trovo già elaborate. Sono state intuizioni morali nella mente dell’individuo che le ha concepite, non nella mia. I pensieri pensati dagli altri sono per me percezioni.

È dunque del tutto errato porre una differenza essen-ziale tra la scienza naturale (come scienza dell’essere) e la scienza morale (come norma dell’agire). Ciò che chia-miamo norme morali sono intuizioni sorte nel passato nelle menti di individui umani liberi: sono l’esercizio tra-scorso della libertà umana. Anche riguardo al mondo natu-rale che funziona secondo leggi, possiamo dire che quelle leggi sono l’esercizio «trascorso» della libertà di Dio. La

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differenza è nel fatto che la creatività divina lascia dietro a sé degli esseri (e i suoi pensieri ne sono le leggi natura-li), l’uomo invece lascia dietro a sé semplicemente dei pensieri (che sono le sue intuizioni cognitive o morali). Chi viene dopo trova sia gli uni (gli esseri) sia gli altri (i pensieri, le «norme») come percezione.

La norma morale vera e propria non va cercata nella percezione (che appartiene all’essere, non al dovere), ma nel pensare, cioè unicamente in forma di intuizione attua-le e individuale. Il «tu devi» può essere intuito unicamente in forma di un «io devo» (che, come abbiamo visto, quando è perfetto si identifica con «io voglio»).

Ogni legge naturale e ogni norma morale altrui ha già la sua percezione corrispondente: è un concetto il cui rapporto col dato non dipende da me, ma è dettato dalla corrispondenza oggettiva tra i due. Non così per l’intui-zione morale che sorge nella mia immaginativa: essa non ha ancora la sua percezione corrispondente, ma la devo creare io stesso (traducendo in atto, nel percepibile, la mia intenzione). Proprio in quanto trasforma il mondo della percezione, l’intuizione morale è per natura sua individuale e creatrice, e non «normativa». Si riferisce a ciò che non è ancora, non a ciò che è.

Il passato (la natura in quanto «passato di Dio», e la storia in quanto «passato dell’uomo») non può mai con-siderarsi norma dell’avvenire. Ne è il sostrato, non la norma. Io non considero ciò che ho fatto ieri come «norma» di ciò che voglio fare oggi: ciò sarebbe togliermi ogni libertà e ogni possibilità di innovamento. L’evolu-

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zione degli esseri naturali è proprio fondata sulla conti-nua novità nel comparire degli esseri e delle specie. Il rettile non è «norma» per ciò che dev’essere il mammife-ro. La scimmia non è «norma» per ciò che dev’essere l’uomo. Come nella natura sorgono esseri sempre nuovi, così negli uomini sorgono intuizioni morali sempre nuo-ve. Non posso dedurre normativamente le intuizioni di un uomo da quelle di un altro, allo stesso modo in cui non posso, dalla scimmia, dedurre normativamente l’es-sere dell’uomo. Se il presente dovesse misurarsi sul passa-to, l’uomo non ci sarebbe affatto, perché nell’ordine degli esseri egli è una novità assoluta. E poiché, nel caso dell’uomo, ogni individuo è come una specie, non posso stabilire l’essere e il comportamento dell’uno in base a quello dell’altro, come non posso stabilire l’essere e il comportamento dell’uomo in base a quello della scimmia. La «natura umana» si riferisce, in ogni uomo, a ciò che non è individuale, quindi a ciò che non è «specificamen-te» umano. Specificamente umano è l’individuo in quanto dotato delle facoltà spirituali e volitive del pensare. Non c’è «natura umana» nell’immaginativa morale: questa è del tutto individuale (anche se non soggettiva). Tutto ciò che è stato fatto (nella natura e nella storia) non mi dice chi sono io: mi dice piuttosto chi io non sono. Normativo per me è ciò che io sono, perché questo io devo e voglio es-sere. Solo il mio essere lo può intuire, quando, nell’im-maginativa morale, è intensamente e liberamente se stes-so. Da nessun altro posso sapere ciò che io sono come distinto da tutti gli altri.

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Analogamente, la mia conoscenza di ciò che un altro individuo è, in quanto individuo, non mi può venire da leggi o da norme (che mi indicherebbero appunto ciò che non è individuale) ma dalla percezione: non dal solo pen-sare, ma dall’osservazione del suo comportamento (in quanto scaturisce dalle intuizioni della sua immaginativa morale) e dalla percezione della sua autocomunicazione mediante la parola (con la quale mi esprime i suoi intuiti individuali e unici).

Quando ci appelliamo alla necessità di una norma oggettiva, che cosa intendiamo veramente? Se intendia-mo «oggettiva» nel senso di uguale per tutti, siamo del tutto fuori dall’oggettività della realtà, perché gli indivi-dui umani, oggettivamente, non sono uguali. Se inten-diamo «oggettiva» in quanto opposta a «individuale» dimentichiamo che l’individuo umano è la realtà più og-gettiva che vi sia. Il problema sorge dal fatto che noi confondiamo «soggettivo» con «individuale» da una par-te, e «oggettivo» con «generale» dall’altra. Le intuizioni dell’immaginativa morale sono individuali, ma non sog-gettive, poiché il pensare è oltre i concetti di soggettivo e oggettivo, entrambi da esso prodotti. Similmente, le intuizioni morali dell’individuo sono oggettive (in quan-to attinte dalla realtà unitaria e universale) ma non gene-rali (altri individui attingono, dalla stessa unica sorgente, altre intuizioni).

Il motivo per cui tutto ciò può ancora lasciarci per-plessi è che noi notiamo che, nel comportamento quoti-diano, c’è una certa armonia, (benché, in tempi recenti,

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sempre meno «scontata») nell’agire dei vari individui. Da qui ci viene spontaneo parlare di norme morali valide per tutti.

Dicendo che la sfera morale in quanto tale è indivi-duale, non si vuol dire che gli individui non hanno nulla in comune: hanno in comune appunto tutto ciò che non è individuale. Se vogliamo parlare di «norma morale» ri-spetto a ciò che non è individuale, quale dovrebbe essere questa norma? La norma che ne chiede il superamento (cioè che ne fa cessare la «normatività»). Potremmo chia-marla norma morale negativa. Essa dice all’uomo: liberati da ciò che ti impedisce di trovare ed esprimere il tuo vero essere individuale. Divieni sovrano su tutto ciò che non è «tu», perché tu possa essere te stesso. Affrancati dal de-terminismo del passato (la natura e la storia in te) per aprirti alla libertà del presente e del futuro che tu sei.

Le norme morali «generali» si esprimono, proprio per questo, in forma negativa. «Non uccidere», perché quando uccidi non sei tu ad agire, ma la natura inferiore in te. «Non rubare»: quando rubi non sei libero, ma è la brama che comanda in te. Proprio in quanto l’uomo deve liberarsi dal suo passato, questa liberazione è «pa-ragonabile» (= generalizzabile) con la liberazione di altri uomini che portano in sé, almeno in parte, lo stesso passato e la stessa storia. È questo che noi chiamiamo «natura umana»: non ciò che costituisce l’individuo, bensì ciò che l’individuo deve usare come suo strumen-to; non ciò che è sua «norma», bensì ciò che deve cessa-re di esserlo.

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Una norma morale che da negativa voglia farsi positi-va, non può più essere generale, ma solo universale. «Vi do un comandamento nuovo: il comandamento dell’amo-re» (Il Cristo non ne ha dati altri). Ama il prossimo tuo come te stesso, vuol dire: ama le individualità umane come valore supremo, e non porre nessuna «norma» al di sopra di esse, perché questa verrebbe a negarle nella loro sovra-nità. Ama il Signore Dio tuo, vuol dire: ama quella sorgen-te unitaria e inesauribile dalla quale tutti gli uomini attin-gono le intuizioni della loro libertà e del loro amore.

Vediamo dunque che quelle che noi chiamiamo nor-me morali valide per tutti non fanno parte della moralità vera e propria, ma ne sono la preparazione, cioè la condi-zione di possibilità. La vera moralità comincia là dove l’uomo è libero, cioè dove egli è veramente se stesso, divenendo creativo, perciò unico e irripetibile.

Vuol questo dire che l’altro uomo non può essermi d’esempio? Certo non nel sostituire le sue intenzioni alle mie! Lo può essere in duplice modo: liberandosi da tutto ciò che rende l’uomo non libero e esponendomi alla ric-chezza delle sue intuizioni morali. Il mio desiderio di imitarlo sarà allora il desiderio di diventare io pure crea-tore, cioè come lui in quanto non come lui: me stesso, in quanto individuo unico e non «copiabile».

Queste riflessioni non possono andare a genio a colo-ro che sono ben sistemati in una data istituzione (sia essa sociale, politica o religiosa) e ne hanno a cuore, al di so-pra di ogni cosa, la stabilità e la forza. Essi non possono aver simpatia per l’individuo (possiamo pensare al caso

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successo duemila anni fa). Ogni istituzione, infatti, porta in sé la tendenza a porre se stessa al di sopra dell’indi-viduo, cioè a rendere l’uomo per il sabato anziché il saba-to per l’uomo. Da ciò segue la sua simpatia per norme generali, valide per tutti: queste non sono che intenti di singoli, i quali mirano essenzialmente al potere. Se ciò non fosse, cesserebbero di imporre su altri il proprio volere, e rispetterebbero le intuizioni altrui non meno delle proprie.

Da un punto di vista morale, ogni istituzione ha dun-que la tendenza a trascurare il valore morale fondamenta-le: quello di formare gli individui a quella autonomia e responsabilità, che li rende capaci di intuire ed esprimere ciò che è unico in ciascuno di loro. Al contrario, in nome della legge e dell’ordine, l’individualità viene definita co-me egoistico individualismo, come ribellione, come pre-varicazione. Si afferma che l’individuo è irresponsabile, e non ci si rende conto di contribuire non poco a tale irre-sponsabilità. Infatti, quando l’istituzione fa di tutto per-ché l’individuo non diventi individuo, cosa avviene? Essa ne fa (o vorrebbe farne) un esecutore di leggi e di norme, un automa superiore. E poiché l’uomo è individuo, è proprio l’istituzione che così facendo ne rende inevitabile la «ribellione», e lo accusa poi di far valere ciò che essa ha voluto sopprimere (ma non potuto togliere).

Ci sono istituzioni e persone (e non solo religiose) che si appellano a leggi non umane, ma divine. Possono esse-re i comandamenti ricevuti sul Sinai, o gli ordini di Allah, o può essere la legge di Cristo, o ancora il mandato divi-

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no che un popolo ritiene di avere. Da una parte, quando esse sentono parlare di una comunione reale dell’uomo con Dio (quale io ho descritta dalla natura intuitiva del pensare e della immaginativa morale) accusano di pantei-smo: l’uomo non può attingere direttamente al divino, dicono, perché il divino è «oltre» l’uomo. D’altra parte, poi, le stesse persone affermano di essere custodi di leggi divine. E la loro mente umana, io chiedo, come vi è arri-vata, se non è in comunione con Dio? Oppure, che è lo stesso, come ha potuto Dio comunicarle a degli uomini che non possono capirle, cioè farle proprie? La verità è che non esistono leggi divine quali fantasmi metafisici vaganti nell’aria: queste leggi sono intuiti e intenti d’uomi-ni. Questi uomini (come Mosé sul Sinai) possono certa-mente aver percepito esseri spirituali che noi normalmen-te non percepiamo. Ma non possono aver percepito delle «leggi»! Queste sono pensieri, sono concetti, sono intui-zioni, e non si possono percepire, ma si possono unica-mente pensare. E si possono pensare solo nella mente dell’uomo, perché nessun uomo ha mai pensato con la mente di Dio, quasi che la mente di Dio dovesse funzio-nare a somiglianza della nostra.

E concediamo pure, si dirà, che il valore morale su-premo sia l’individuo umano nell’esplicazione della sua libertà: ma cosa fare di tutti coloro, innumerevoli, che non appartengono a questa élite di liberati e illuminati, e che sono invece in balia delle passioni e dell’egoismo? Costoro non potranno altro che seguire le intuizioni mo-rali altrui (le cosiddette «norme morali generali»). Ma non

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dobbiamo dimenticare che c’è un’altra domanda, ancora più importante, che dobbiamo porci: perché questi uomini sono in preda a ciò che è «natura» in loro, e perché sono così numerosi? Se le nostre istituzioni insistono nel pro-porre e nell’imporre, come valore morale ultimo, le pro-prie norme, quali leggi della natura umana, non dovreb-bero stupirsi che tanti uomini seguano, non il mondo luminoso dello spirito dentro di sé, ma la legge della na-tura.

7. I desideri, la felicità e la libertà

Dopo aver detto che l’individuo umano è il vertice della creazione poiché nella sua immaginativa morale sorge nel mondo la libertà e la moralità, dobbiamo vedere più con-cretamente che cosa succede quando ciò che Steiner chia-ma «individualismo etico» viene davvero riconosciuto. La domanda che qui ci poniamo è questa: che cosa succede concretamente se lasciamo l’uomo al suo volere? Che cosa vuole veramente l’individuo in quanto individuo?

L’ordine naturale, abbiamo detto, non dipende da me: mi si offre come percezione. L’ordine morale invece di-pende proprio da me: lo creo io stesso, poiché esso è fatto di intuizioni morali che devono essere pensate da me. Non c’è senza di me, gli do io l’esistenza che io stes-so decido, e questo «Io» non è la natura in me (il non-Io) ma la mia immaginativa morale. La norma morale è nor-ma solo in quanto è atto presente intuitivo, cioè dentro

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l’esercizio stesso dell’intuizione che concepisce, ispira e dirige la mia azione. Dopo aver ispirato e diretto, essa diviene una percezione, pensiero già pensato e non più esercizio attivo del pensare stesso.

La comunione degli individui umani non risiede nell’u-guaglianza dei loro intuiti morali e dei loro intenti (in questo caso non sarebbero individui) ma nella sorgente comune e unitaria di tutte le loro intuizioni. In quanto tutti gli uomini attingono, nel pensare, a quella comune sorgente, essi sono uno: in quanto ciascuno ne trae intuiti diversi e, nel volere, li pone alla base del proprio agire, essi sono individui.

Coloro che hanno paura del soggettivismo, del relati-vismo, dell’anarchia, vorrebbero stabilire una legge posi-tiva uguale per tutti. Non comprendono che volendo rendere gli uomini uniti, essi implicitamente confessano di ritenere che non lo sono. E se non lo sono per essenza, come si potrà mai renderli tali per «decreto»? Possiamo paragonare il mondo spirituale, al quale gli uomini attin-gono, alla sabbia sulla spiaggia del mare. Immaginiamo un gran numero di bambini tutti intenti alle costruzioni della loro fantasia: uno fa una casa, un altro un castello, un altro una chiesa, un altro ancora una macchina... ed è pur sempre la stessa sabbia. In modo analogo (nessun paragone è perfetto!) gli uomini traggono dalla sorgente spirituale comune quelle costruzioni originali e diverse che noi chiamiamo individui. Ognuno plasma il mondo delle idee secondo il proprio essere, anzi, egli è proprio quella particolare configurazione di pensieri e di intenti.

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Il rapporto tra individualità e partecipazione è fonda-mentale in ogni visione morale dell’uomo. L’abbiamo incontrato, nelle sue varie dimensioni, ad ogni livello del cammino fin qui percorso. La natura della comunione spirituale resta sempre il mistero più profondo. Nella conclusione di questo lavoro mi riservo di offrire alcune riflessioni generali e riassuntive, in una specie di sintesi che raccolga e intrecci i fili dispersi.

In questo ultimo capitolo, volendo guardare più a fon-do dentro l’individuo umano, siamo confrontati con una scelta che è decisiva: possiamo fidarci o no di ciò che si muove nel fondo dell’uomo? Deve l’uomo soggiogare se stesso, oppure può fare affidamento su di sé? È egli chia-mato a esprimere o a reprimere ciò che porta dentro di sé?

Naturalmente, siamo subito tentati di rispondere di-stinguendo: c’è nell’uomo l’istinto dell’egoismo, e c’è in lui anche il desiderio dell’amore. Egli deve vincere il primo onde far trionfare il secondo. Questo è giusto, ma non ci dice ancora quale sia l’impulso primigenio che l’essere umano porta in sé. Molti di noi danno per scontato, spes-so senza accorgersene, che l’uomo tende per natura all’egoismo, e solo «vincendo se stesso» diviene capace di amore. Questa convinzione si pone alla base della morale intesa fondamentalmente come «dovere», e non come volere. Con essa, l’individuo «tiene a bada» la sua natura egoistica, e la comunità tiene a bada l’individuo.

Mio compito è ora di mostrare che questo assunto implicito (più comune di quanto si pensi) è errato, e che

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l’uomo non tende per natura all’egoismo, perché non è questo l’impulso primigenio ed essenziale del suo essere. A questo scopo userò due argomenti distinti: il primo di natura piuttosto teorico-filosofica, il secondo invece pre-so più direttamente dall’osservazione concreta del com-portamento umano (in altre parole, il primo si fonda sul pensare, il secondo sulla percezione).

Posto in forma di sillogismo, il primo argomento suona così: nessun uomo vuol essere non libero; ora, esser egoi-sta rende l’uomo non libero; dunque, nessun uomo vuole essere egoista. La maggiore non dovrebbe aver bisogno di elaborate spiegazioni: ogni uomo sente in sé l’aspirazione alla libertà, desidera cioè trarre dal proprio essere l’orienta-mento da dare all’esistenza. Vuol essere lui a decidere ciò che fa, e vuol comprendere perché lo fa. Ciò che richiede una riflessione più approfondita è invece la minore: l’egoi-smo rende l’uomo non libero. La difficoltà principale sta qui nell’accordarsi sul significato da dare al termine egoi-smo. Se lo prendiamo come opposto dell’amore, esso risiede nel mio compiere qualcosa non per amore verso l’oggetto per sé (amato direttamente per la sua verità, bel-lezza e bontà intrinseche) ma in vista di qualcosa d’altro, cioè per me. Non amo allora l’oggetto della mia azione, o l’azione, per se stessi, ma li amo in vista di me. L’azione o l’oggetto dell’azione, non sono il fine del mio agire: sono meri strumenti, e solo io sono il fine.

Potrebbe sembrare che chi, per esempio, si mette a bere, intende direttamente il bere stesso, non altra cosa, e che dovrebbe dunque essere libero. Ma ciò non corri-

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sponde ai fatti: il bevitore non vuole il bere, bensì la sen-sazione piacevole che è effetto del bere. Se la potesse con-seguire evitando il bere, lo farebbe volentieri, perché ciò gli eviterebbe di spendere soldi, nonché il mal di testa della sbornia. Chi volesse insistere che il bere e la sensa-zione da esso provocata sono una cosa sola, confonde tra loro due realtà opposte: un’azione e un’affezione (la pri-ma attiva, la seconda passiva). L’essenza delle azioni non libere consiste proprio nel non coincidere di queste due sfere.

In questo è infatti la natura della non libertà: nel fare qualcosa che non si vuole in vista di ciò che si vuole. L’egoismo si vede costretto a fare una cosa perché ne vuole un’altra, ma ne farebbe volentieri a meno, se potes-se giungere direttamente alla seconda.

«L’oggetto del suo agire, non appena egli se ne forma un concetto, lo riempie talmente che ne ri-cerca l’attuazione. Nel bisogno della realizzazione di un’idea, nell’impulso a eseguire un intento deve pure trovarsi il solo stimolo del nostro operare. Nell’idea dev’essere espresso tutto ciò che ci spin-ge all’azione. Non agiamo allora per dovere, e neppure seguendo un impulso, ma per amore verso l’oggetto al quale deve estendersi la nostra azione. Nel rappresentarcelo, l’oggetto fa sorgere in noi il desiderio di un’azione ad esso adeguata. Unica-mente un simile agire è libero. Se all’interesse che ci prende per l’oggetto dovesse aggiungersi un se-

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condo incentivo di altro genere, noi non vorrem-mo allora questo oggetto per se stesso, ma ne vor-remmo un altro, e realizzeremmo questo, che non vogliamo. Compiremmo un’azione contro il nostro volere. Così avviene quando agiamo per egoismo. Con esso non abbiamo alcun interesse all’azione stessa: non di essa abbiamo bisogno, ma dell’utile che ci reca. Ma allora sentiamo come una costri-zione il fatto di dover compiere quell’altra azione unicamente in vista di questo scopo. Essa stessa non costituisce per noi un bisogno, perché la trala-sceremmo qualora non avesse per conseguenza il vantaggio. Ora, un’azione che non compiamo in vista di se stessa è un’azione non libera. L’egoismo agisce non liberamente. E non liberamente agisce sen-za eccezione ogni uomo che compie un’azione die-tro un movente che non scaturisca dal contenuto oggettivo dell’azione stessa. Compiere un’azione per amore di quell’azione stessa vuol dire agire per amore. Solo chi nel suo agire è guidato dall’amore all’a-zione, dalla dedizione all’obiettività, agisce davvero libera-mente. Chi non è capace di questa dedizione senza egoismo, non potrà mai considerare libera la pro-pria attività.» (Goethes naturwissenschaftliche Schriften,

GA 1 (1973), p. 202-3)

Questi pensieri Steiner li scrisse già nel 1887, nelle sue introduzioni alle opere scientifiche di Goethe. Da essi egli procede a mostrare, con chiarezza che fa pensare a quella

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di un teorema geometrico, che gli intenti che l’uomo per-segue nel suo agire non devono venirgli dati dal di fuori, ma devono venir prodotti da lui stesso intuitivamente, e non in forma vaga e indistinta, ma in forma di intenzioni individuali, particolari, concrete. E proprio questo io vorrei mostrare col secondo argomento, partendo non dal ragio-namento logico, ma dall’osservazione.

Se osserviamo bene il comportamento concreto degli uomini, ci accorgiamo che non è vero ciò che dice una convinzione molto diffusa, che l’uomo cioè ricerchi al di sopra di ogni cosa (o in ogni cosa) il «piacere» o la «felici-tà». Il motivo per cui pongo queste due parole tra virgolet-te è per sottolinearne la natura del tutto astratta e irreale. Che cos’è infatti il piacere, che cos’è la felicità? Sono idee astratte, senza alcun contenuto di percezione, in tutto simi-li alle entità fisico-metafisiche (percepibili ma non percepi-bili) della cosa in sé kantiana. Sono dei fantasmi metafisici della stessa natura delle leggi divine immaginate come es-seri ipostatizzati vaganti per l’aria, intenti a dirigere il corso della storia. Rappresentano l’ultimo tentativo di chi non ha fiducia nell’individuo umano, allo scopo di dimostrare che volere e dovere non possono coincidere, in quanto ciò che l’uomo vuole (il piacere) non è ciò che egli deve (l’altrui-smo), e ciò che egli deve non è ciò che vuole.

È di fondamentale importanza comprendere che l’uo-mo, nel suo agire, si propone degli intenti concreti, singo-li, specifici, e non intende mai un vago, generale «piacere». Il suo scopo non è quello di «godere», ma di raggiungere questo o quell’obiettivo particolare, e il conseguirlo è per

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lui godimento. Ciò che l’uomo vuole non è il piacere, ma l’esplicazione dei desideri e degli impulsi concreti che sorgono nel suo essere.

Parlando della finalità (nel cap. V di questa terza par-te) ho mostrato come essa sia specifica dell’agire umano, in quanto in essa il concetto dell’effetto deve influire realmente (percepibilmente) sulla causa. Ciò potrebbe sembrare in contrasto con quello che sto dicendo qui, mentre ne è in realtà la conferma. Ciò che qui voglio dire non è che l’uomo non agisce secondo fini, ma che non ha doppi o secondi fini, «dietro» a quelli reali. Egli agisce se-condo desideri e bisogni concreti, che sono i fini che vuol raggiungere: sono desideri e impulsi ben precisi e che sono voluti per sé, non per un ulteriore scopo. Il bevi-tore vuol raggiungere la sensazione specifica che il bere provoca: non ha in mente di raggiungere la felicità o il piacere in genere. Solo se l’uomo mirasse a un generico piacere, a una vaga felicità, potremmo dire che agisce senza fini, i quali sono per natura concreti e specifici.

Anche per una vera conoscenza dell’uomo, dunque, non dobbiamo chiederci «per che cosa è stato fatto», ma «che cosa è in lui». È ciò che è in lui che vuol esprimersi, manifestarsi, trovare pienezza. Esprimendo se stesso egli prova godimento, ma non agisce al fine di provare godi-mento. Se così fosse, i suoi intenti concreti e immediati gli sarebbero del tutto indifferenti in quanto tali: li valute-rebbe unicamente in base alla quantità di piacere generale che procurano. Ma ciò contraddice l’osservazione del reale comportamento umano.

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«Noi non miriamo mai a un piacere astratto di una certa grandezza, ma a un appagamento concreto in modo ben definito. Se aspiriamo ad un piacere che deve venir soddisfatto mediante un determinato oggetto o mediante una data sensazione, non pos-siamo sentirci paghi se ci viene offerto un altro og-getto o una sensazione diversa, in grado di procu-rare la stessa quantità di piacere. Per chi ha brama di sazietà, il piacere del mangiare non può venir sostituito da un altro di stessa grandezza, procura-to da una passeggiata. Solo se il nostro desiderio aspirasse del tutto genericamente a una certa quan-tità di piacere esso dovrebbe sparire non appena si rivelasse irraggiungibile senza una quantità di di-spiacere ad esso superiore. Ma poiché il soddisfa-cimento ricercato è sempre ben definito, il piacere dell’appagamento si trova anche se porta necessa-riamente con sé una quantità maggiore di dispiace-re. Per il fatto che gli impulsi degli esseri viventi si orientano in una direzione determinata e aspirano ad uno scopo concreto, non è più possibile consi-derare come elemento di uguale importanza la quantità di dispiacere che s’incontra sul cammino verso quello scopo.» (Die Philosophie der Freiheit, GA 4

(1978), p. 225-6)

L’impulso fondamentale dell’essere umano, in quanto aspira a essere libero, non è dunque l’egoismo (il compie-re un’azione per un’altra, non per se stessa ma per me, in

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vista del piacere che mi procura) ma l’amore all’azione stessa. La gioia più profonda dell’essere è nell’attuazione di sé, nell’automanifestazione, che è realizzazione del proprio essere offerto all’altro, cioè nel donarsi, non nel «prendere» per sé. In ogni intuito, in ogni azione, una parte di me si esprime, viene all’essere. Si sprigiona dalla mia individualità come una poesia dal poeta, come un quadro dal pittore. Io non vivo per ottenere qualcosa: voglio ottenere me stesso, far vivere tutto ciò che fa parte del mio spirito in quanto individuale e creatore. La caccia al piacere non esiste nell’uomo: è stata inventata dal moralismo che vuol disto-gliere l’uomo da ciò che vuole, perché faccia ciò che deve, cioè ciò che altri vogliono da lui.

E questo moralismo ha pronte, proprio qui, le obie-zioni che paiono essere le più solide e le più valide. La prima dice: quante volte avviene che l’uomo si trova a fare ciò che non vuole da una parte, e a non fare ciò che vuole dall’altra! Quante volte egli si pente di ciò che ha fatto, o di ciò che non ha fatto! Non è questo un segno chiaro della debolezza umana, che deve venire soccorsa dalla norma morale? Il suo spirito può veder chiaramente il bene da compiere, ma la volontà è debole, e lui compie il male che non vuole. Le passioni inferiori sono più forti di lui: per questo non si può contare sul suo agire libero, ma bisogna dargli delle norme a cui deve ubbidire.

Questo «rimedio» alla debolezza umana sembra essere il più ovvio e ragionevole, eppure si fonda su un errore, anzi su una contraddizione. Le passioni inferiori sono qualcosa di reale nell’uomo, e il motivo per cui esse risul-

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tano più forti delle norme morali può essere solo il fatto che quest’ultime non sono ancora divenute parte reale del suo essere (se così fosse, non c’è motivo per cui dovrebbe-ro essere meno «forti» delle passioni inferiori: vedremo anzi che il contrario è il caso). Ora il rimedio consisterebbe in questo: nel far fare all’uomo ciò che deve e non ciò che vuole, in quanto, si dice, egli non ha la forza di fare ciò che deve, ma finisce per fare ciò che vuole (non «vorrebbe» fare ciò che vuole, vorrebbe fare ciò che deve, ma gli im-pulsi reali in lui, cioè ciò che veramente «vuole», poiché più forti, hanno il sopravvento, e lui fa ciò che vuole, non ciò che vorrebbe). Questo pensiero, se pensato fino in fondo, è chiaramente una contraddizione in termini: invece che una medicina, è una replica della malattia.

In altre parole: si possono «vincere» le passioni infe-riori unicamente coltivando e rafforzando in sé quelle passioni superiori che sgorgano dall’essere stesso non meno delle prime: esse divengono allora, nell’uomo, più forti delle prime proprio perché, contrariamente alle pri-me, sono individuali e perciò maggiormente definite e concrete nel loro contenuto. Le passioni che provengono dalla natura umana vengono «subite» dall’individuo, pre-suppongono perciò la sua passività; le «passioni» invece che provengono dall’individuo come tale possono uni-camente venir «volute» direttamente e singolarmente da lui: in questo senso esse hanno una forza che oltrepassa quella delle prime, e consentono, per il loro consegui-mento, una maggiore capacità di superare le difficoltà e una più lunga perseveranza nel tempo.

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L’uomo può giungere a volere il bene non come dove-re, ma con una passione che supera in intensità gli impul-si dell’egoismo (che non provengono da lui, ma dalla natura in lui). Certo, ci sono tante persone che, mediante l’ascesi, giungono a «dominare» e a soggiogare le passioni inferiori e che, senza sviluppare altre passioni che le sor-passino in intensità, si sottomettono alla legge morale. Ma costoro sono lontani dall’essere liberi, e scoprono prima o poi che ciò che è stato «dominato» non è stato «domato» (scemando in intensità), ma semplicemente represso, e perciò rafforzato: prima o poi trova la sua rivalsa, e si mostra per ciò che è.

La sola vera soluzione è quella di ravvisare non nella legge, ma nella libertà lo stadio ultimo della moralità e della crescita della persona: libertà che consiste nel fatto che i moventi all’azione divengono le intuizioni morali stesse, le quali, acquistando in chiarezza e forza, si sosti-tuiscono sia alle passioni inferiori, sia alle norme esteriori.

«Gli ideali morali scaturiscono dall’immaginativa morale dell’uomo. La loro attuazione dipende dal fatto che siano desiderati con intensità sufficiente a superare sofferenze e prove. Sono le sue intuizioni, i trampolini che lo spirito si crea. Egli le vuole, per-ché la loro realizzazione è il suo sommo piacere. Non ha bisogno che la morale gli proibisca prima di aspirare al piacere, per comandargli poi ciò a cui deve aspirare. Egli tenderà verso ideali morali se la sua immaginativa morale sarà sufficientemente at-

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tiva da ispirargli intuizioni che diano al suo volere la forza di superare gli ostacoli del suo organismo, di cui fa parte anche un necessario dispiacere.

Chi aspira ad ideali di altezza sublime, lo fa per-ché essi sono il contenuto del suo essere, e la loro attuazione sarà per lui un godimento al cui con-fronto il piacere che la mediocrità ricava dall’appa-gamento degli impulsi quotidiani è una cosa da nulla. Gli idealisti si beano spiritualmente nel tra-sformare in realtà i loro ideali.

Chi vuole estirpare il piacere dell’appagamento del desiderio deve prima far dell’uomo uno schiavo che non agisce perché vuole ma solo perché deve. Infatti, il conseguimento di ciò che si vuole procu-ra piacere. Ciò che si chiama il bene, non è ciò che l’uomo deve, ma ciò che egli vuole quando esplica in sé la natura umana vera e compiuta. Chi non rico-nosce questo, deve prima espellere dall’uomo ciò che egli vuole, per fargli poi prescrivere dal di fuori il contenuto che deve dare al suo volere.» (Die Philo-

sophie der Freiheit, GA 4 (1978), p. 232-3)

Si può infine obiettare che lo scopo delle norme non è quello di venir puramente osservate con sottomissione passiva: l’individuo deve farle sue, devono diventare parte del suo essere. Ora, trattandosi di norme per natura gene-rali e valide per tutti (altrimenti non sarebbero «normati-ve»), ciò equivarrebbe a dire che il mio essere (invitato a farsi uno con esse) deve divenire l’essere di tutti. L’io

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individuale verrebbe così cancellato, e si lascerebbe solo la «natura umana comune» in lui. Ciò è proprio l’essenza dell’immoralità. Essendo l’individuo umano come tale il valore morale supremo della creazione, nulla è più immo-rale che la sua soppressione.

Qual è allora, e dov’è, il valore morale? La risposta a questa domanda è molto chiara: il valore morale supremo è l’individuo umano. Se il valore sommo fosse qualcosa d’altro, l’individuo umano dovrebbe essere «in vista di» quell’altro valore, contribuendo al suo avvento e alla sua realizzazione. Possiamo scervellarci fin che vogliamo: non lo troveremo, perché non esiste. E se volessimo dire che «Dio» è il valore supremo, allora ci resta da chiederci dove Dio sia e dove si manifesti: nell’uomo, appunto, e non nell’uomo in genere, ma concretamente e creativamente in ogni individuo umano, quando questo porta a espres-sione tutto ciò che vive dentro il suo spirito, che nel pen-sare attinge intuitivamente alla realtà stessa di «Dio».

Se abbiamo il coraggio di riconoscere che quelle che chiamiamo norme morali sono intuizioni morali sorte nell’immaginativa di individui singoli, in quanto corri-spondenti a ciò che il loro essere individuale porta dentro di sé, allora liberiamo la via perché ogni uomo diventi pienamente se stesso. Lo incoraggiamo a non restare sot-to il regime della «legge», nella sua duplice forma di «ine-sorabilità» dell’obbligo e di «irresistibilità» dell’istinto: queste due forme di non libertà hanno in comune l’alie-nazione dell’uomo da sé, e tendono, paradossalmente, a rinforzarsi a vicenda, a causa della loro affinità.

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Se comprendiamo questo, concentreremo tutte le no-stre energie nell’aiutare ogni individuo umano a portare a piena maturazione tutte le dimensioni del proprio essere, sviluppando delle «passioni» spirituali individuali che fanno impallidire le passioni inferiori. Il mistero più profondo dell’uomo sta proprio in questo: che i desideri e le brame inferiori, essendo generali e comuni, sono massimamente indistinti e vaghi: possono procurare un piacere solo pas-seggero e molto limitato. La gioia aumenta in intensità nella misura in cui l’oggetto del proprio desiderio è ben definito e specifico, e questo è possibile proprio nella mi-sura in cui i desideri divengono più spirituali e perciò indi-viduali. Il piacere di una solenne bevuta è un piacere molto generico. Cento ubriachi non sono ubriachi in cento modi del tutto diversi e individuali. Il gusto di conoscere l’astro-nomia per seguire tutti i moti celesti, è un gusto più indivi-duale e definito, fatto di mille pensieri diversi in ogni per-sona, e perciò più intenso. Da ciò si vede anche che i desi-deri spirituali, proprio perché più essenziali all’individuo come tale e non parte dalla natura comune, consentono, per il loro conseguimento, una lunga perseveranza anche attraverso le più dure e interminabili prove. Ciò non è vero delle passioni inferiori, che perciò non potranno mai pro-curare, neppure lontanamente, la stessa gioia.

Paolo di Tarso ebbe il coraggio di dire che con l’av-vento del Cristo il tempo della legge è finito. I duemila anni che sono seguiti sono serviti spesso a dire e a fare il contrario. Noi, come Paolo, vogliamo parlare non della «legge» di Cristo, ma del Cristo vivente, presente in ogni

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individuo umano. Vogliamo dire all’uomo non ciò che egli «deve», ma di far vivere dentro di sé ciò che il Cristo, in modo unico e diverso in ognuno, vuole. Renderemo così gli uomini davvero liberi, come il Cristo li ha voluti, e davvero se stessi. E ci stupiremo nello scoprire che l’impulso primigenio nell’uomo davvero libero non è l’egoismo, non sono le passioni inferiori, ma è l’amore.

* * *

Tentativo di sintesi: individualità e comunione

Due, e a prima vista contrastanti, sono le aspirazioni più profonde della persona umana: quella di essere individuo libero, e di essere in comunione d’amore. Il miracolo della libertà e dell’amore si compie nella misura in cui noi comprendiamo che quell’apparente contrasto è un ingan-no, e che individualità e comunione, ben lungi dall’esclu-dersi a vicenda, sono chiamate a diventare sempre più l’una la pienezza dell’altra, ciascuna l’altra faccia di un’u-nica medaglia. Non cresce l’individualità col diminuire della partecipazione (quando ciò avviene si ha egoismo, non individualità), né la comunione col diminuire della libertà individuale (quando ciò avviene si ha collettivi-smo, non comunione). Libertà e amore: tutte le riflessioni fatte fin qui volevano mostrare che queste due realtà trovano ciascuna la propria pienezza nel divenire a mano

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a mano l’essenza dell’altra: si è liberi solo nella misura in cui si ama, e si può amare unicamente essendo liberi.

L’aprirsi amorevole verso l’essere universale e il con-centrarsi nella roccaforte del proprio io, se da una parte non sono alternativi l’uno rispetto all’altro, sono però, allo stadio attuale del cammino umano, in un rapporto di continua tensione e alternanza nel senso che l’uomo oscilla costantemente tra questi due poli complementari, come un pendolo che ogni lato rimanda di nuovo verso l’altro. Così è l’alternanza, per esempio, tra sonno e veglia: l’oscillare tra l’ «essere in sé» della coscienza desta, e l’essere «fuori di sé» della coscienza del sonno, con quel misterioso passaggio tra i due che chiamiamo sogno. Così è pure l’alternanza tra la vita e la morte: tra l’essere con-centrato nel proprio corpo e l’uscirne fuori incontro ai mondi spirituali. Questo respiro ritmico della vita nelle sue varie manifestazioni, che è come una costante respi-razione che fa entrare e uscire da noi l’aria che ci circon-da, si esprime anche nelle due realtà che sono state alla base di tutte le nostre riflessioni: la percezione e il pensa-re. La percezione è come una imitazione conoscitiva dell’amore nel quale usciamo da noi stessi e per un mo-mento ci «perdiamo» nell’altro; il pensare è come il risve-glio che ci riporta alla nostra coscienza e ci fa ritrovare noi stessi nella «comprensione» di ciò che i sensi hanno percepito.

Questo respiro vitale costituisce pure la diastole e la sistole della Filosofia della libertà: la sua prima parte viene definita da Steiner un monismo dei pensieri (Gedanken-

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Monismus) e la seconda un individualismo etico (ethi-scher Individualismus): col nostro pensare noi attingiamo tutti all’essere unitario e comunitario; nell’agire morale ogni individuo trae da quel mondo, con l’immaginativa morale, quelle intuizioni che solo lui può porre alla base delle proprie azioni. Oscillando costantemente tra il pen-sare e il volere, noi siamo universali ed individuali ad un tempo, esseri liberi e capaci di amare.

È importante però comprendere che questa «oscilla-zione» del nostro essere non va intesa come un ripetuto uscire da una realtà per entrare in un’altra del tutto diver-sa. Si tratta invece proprio di fare sempre più di due un’unica realtà, che si esprime su due versanti diversi, acquistando sfumature diverse. Più il pensare si riempie del volere e più si fa «puro» pensare, pur restando pensare. Più il volere si rischiara con l’intuizione del pensare, e più diviene «puro» amore, pur rimanendo volere. E se questo vale per il pensare e il volere, dovremmo trovar giustifica-ta l’ipotesi che, nei tempi lunghi dell’evoluzione umana, sia previsto lo stesso «ravvicinamento» (cioè quella mutua compenetrazione che porta ciascun polo di una dualità a trovare nell’altro il proprio perfezionamento) per lo stato della veglia e quello del sonno, e anche per la vita nel corpo e quella oltre la morte.

Dobbiamo ora vedere più da vicino in quale modo l’essere individuale e l’essere universale si richiamino ne-cessariamente a vicenda, e perché vi sia una mutua appar-tenenza tra individualità e partecipazione. Ciò che questo lavoro ha voluto mostrare è che individualità vera e piena

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si ha solo nell’elemento spirituale dell’uomo, e che questo elemento è proprio ad un tempo il più universalmente umano. Ne segue che ciò che non è spirituale, e che pure è necessario all’essere umano attuale, non è né individua-le né universale, ma specifico o generico, cioè comune o proprio di un gruppo di persone, e come tale non indivi-duale e neppure universale. Vediamo ora in che modo ciò avviene.

Partiamo dalla realtà corporea dell’uomo. Questa non si può dire individuale se non in senso improprio. Appar-tiene nei suoi tratti fondamentali alla specie umana come tale. Altri tratti li ottiene da una particolare razza. Ciò che viene impresso nel corpo come configurazione individua-le e unica non proviene dalla realtà corporea in quanto ereditata, ma dall’individuo in quanto essere spirituale, cioè dal suo carattere o temperamento.

C’è poi una sfera intermedia tra il corpo e lo spirito, e che è media tra ciò che è più generico e ciò che è più individuale nell’uomo. Potremmo chiamarla la sfera dell’a-nima, o anche la sfera della cultura. Ciò che la razza è al livello del corpo, la cultura lo è a quello dell’anima: anche qui abbiamo una realtà comune a un gruppo di persone (appartenenti alla stessa cultura), e che perciò come tale non è direttamente né individuale né universale.

La realtà spirituale del pensare è invece proprio diret-tamente e contemporaneamente sia individuale sia uni-versale. È chiaro che queste tre dimensioni (del corpo, dell’anima, dello spirito) si compenetrano a vicenda nell’uomo, e non si possono adeguatamente «separare».

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È però fondamentale «distinguerle» fra loro con chiarez-za. Il pensare è massimamente individuale in quanto è l’attività spirituale autocostitutrice dell’individuo umano come tale. Esso non mi può mai venir «dato» né da ere-dità comune di razza o di cultura, né dalla passività della percezione sensibile: solo il mio personalissimo «Io» lo può esercitare intuitivamente e volitivamente, nell’espe-rienza primigenia della propria libertà e autonomia. Solo nel pensare sono pienamente e totalmente «Io». E d’altro canto, il pensare è la realtà più universalmente ed essen-zialmente «umana» che c’è nell’uomo e in ogni uomo. Ciò non vale per la realtà corporea, che egli ha in comu-ne con l’animale e che fa di lui un essere «animale», e neppure per la realtà animica, che egli ha in comune solo con chi è partecipe della stessa cultura o parla la stessa lingua. Nel pensare ogni individuo umano attinge all’es-sere universale e unitario del mondo. Qui la partecipa-zione e la comunione tra individui è piena, nella recipro-ca comunicazione di ciò che è spirituale in ognuno. Nel-lo spirito gli individui umani «si appartengono» piena-mente, perché nel proprio contenuto spirituale ciascuno è un membro di un mondo spirituale che è unitario e si esprime compiutamente in tutti, e parzialmente in cia-scuno. La realtà corporea viene data tutta ad ognuno: in essa io non sono membro, ma un essere completo e perciò separato. Col mio contenuto spirituale, invece, at-tuo nel mio essere solo «un membro» del mondo spiri-tuale, e posso trovare la mia identità individuale unicamen-te nel contesto di quel «corpo», di quell’organismo spiri-

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tuale completo che è costituito dalla comunione di tutti gli spiriti umani.

Il dualismo che la Filosofia della libertà si propone di superare rappresenta allora l’incapacità di ravvisare nel pensare quell’essere spirituale che ci pone nella realtà, dalla quale la percezione ci fa uscire: sia la realtà indivi-duale dell’Io, sia quella universale dell’essere. La prima realtà che mi è data nel pensare è la mia propria: solo nell’esercizio intuitivo del pensare io vengo pienamente all’essere nel mio contenuto spirituale individuale e nella volontà piena di amore che il pensare attivo stesso evoca. Ma anche la comunione con l’altro mi è data nel pensare, perché solo esso mi fa intuire il contenuto spirituale di un altro uomo (ciò che lo costituisce lui pure come indivi-duo unico) allo stesso modo in cui intuisco il mio pro-prio, e con lo stesso moto volitivo d’amore che mi pone in comunione con ogni essere. Il dualismo concepisce la percezione come essere completo, e il pensare come una pura replica soggettiva di esso. In questa concezione, i «pensieri», gli «scopi», gli intenti di Dio vengono ricercati come entità da «percepirsi» (anche se mentalmente) al di là del mondo fisicamente percepibile. Ma questo pensare che imita la percezione non è il vero pensare. Io trovo la volontà di Dio non nello «scoprire» (come dato da per-cepire con astrazione) i pensieri di Dio, immaginati come «presenti in» lui fuori di me e oltre il mondo: a queste entità metafisiche astratte (non percepibili ma concepite come tali) manca sia la percezione reale sia il vero pensa-re. Le leggi di Dio le trovo osservando gli esseri reali e

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compenetrando la mia percezione col pensare attivo. Le intenzioni di Dio non sono dei metafisici e impalpabili concetti: sono gli esseri che ho davanti a me. Il pensare da solo non può «escogitare» nessun essere reale; la per-cezione da sola non mi dà l’essere, ma solo un dato che è privo di ogni contenuto reale. Il dualismo, nella sua du-plice forma, vuol da una parte trovare l’essere nella per-cezione senza il pensare (e giunge alla cosa in sé incono-scibile della scienza), e dall’altra nel pensare senza la per-cezione (e giunge al trascendente inconoscibile della teo-logia). Queste due forme del dualismo si richiamano a vicenda: il dualismo mondo-Dio ha come diretta conse-guenza il dualismo scienza-morale. Al loro superamento sono dedicate rispettivamente la prima e la seconda parte della Filosofia della libertà.

Ogni forma di dualismo, in quanto cerca il reale in una replica del mondo della percezione, non attribuisce realtà sostanziale proprio a ciò che fa dell’uomo un indi-viduo capace di comunione: il pensare. Il processo cono-scitivo viene lasciato fuori del reale divenire del mondo: si pensa serva solo a darci di esso delle rappresentazioni puramente soggettive. All’uomo viene così negata sia la partecipazione sia l’individualità: la partecipazione, in quanto la cosa in sé del mondo e del trascendente rimane fuori di lui e a lui inconoscibile; l’individualità, in quanto il suo mondo interiore è un puro riflesso rappresentativo di quello esteriore.

In una visione unitaria del mondo, invece, il pensare umano è la realtà verso cui tutto il divenire tende, e dalla

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quale il cammino stesso dell’uomo trae il suo significato unificatore. Ciò che chiamiamo evoluzione è il cammino dell’uomo verso l’individuazione da una parte, e verso la comunione dall’altra, entrambe possibili solo nel pensare, e in esso unificate. L’una e l’altra si possono avere solo nella coscienza pensante che fa essere l’Io individuale, dan-dogli ad un tempo la possibilità di trovare il proprio «po-sto» nella comunione umana e divina.

Individualità e comunione si mostrano in questo mo-do come l’essenza del divenire cosmico tutt’ora in corso. Il divenire cosmico è ad un tempo il divenire della co-scienza e della conoscenza umana. Possiamo descrivere l’inizio di questa evoluzione come quell’unione primige-nia dell’uomo col mondo spirituale nella quale egli non era ancora illuminato dall’autocoscienza, e perciò non ancora capace di libera comunione d’amore. Solo me-diante l’acquisizione della libertà, cioè passando per la porta stretta e tragica della separazione che rende indi-pendenti (come espresso nella «cacciata dal paradiso» o nella parabola del figliol prodigo), si può conseguire l’individuazione e con essa la possibilità di un amore libe-ro e personale, che altrimenti non è amore.

Il fondamento dell’edificio di Rudolf Steiner è l’espe-rienza del pensare come realtà spirituale vivente, come primo essere puramente spirituale offerto all’uomo che lo coglie, esercitandolo, con percezione interiore che è per-cezione del pensare stesso. Il pensare attivo è ad un tem-po sostanziato di volontà, è fatto d’intuizione amante e di amore intuitivo, ed è perciò l’unificazione dei due movi-

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menti dell’essere nel suo divenire: dell’individuazione e della comunanza; della libertà dell’individuo che agisce per intuito proprio, e dell’appartenenza di tutti gli uomini allo stesso e unico mondo spirituale. La «scissione» evo-lutiva dell’essere e della conoscenza in percezione e pen-sare non è una pura categoria gnoseologica, ma lo stadio centrale del divenire dell’uomo che «separa» le sue di-mensioni di materia e di spirito affinché l’uomo, che ne è la sintesi, possa giungere all’autocoscienza: solo mediante la percezione divenuta «vuota» di contenuto spirituale l’uomo può dal di dentro esercitare la restituzione di quel contenuto che è stato tolto. Nel pensare egli si inserisce di nuovo nella sostanza spirituale del mondo, è un vivere dell’acquisita individualità.

L’evoluzione degli esseri naturali acquista in questa prospettiva il suo significato unificatore: quello della for-mazione di un organismo umano in cui possono svolgersi quella percezione e quel pensare che rendono possibile sia l’individuazione, sia la partecipazione, nel loro reciproco richiamarsi a vicenda. Noi sogliamo considerare lo spirito umano come fase «finale» del divenire del mondo creato, come realtà cioè sorta in esso da ultimo. Ma più essenziale è la prospettiva inversa: quella di un essere umano spiritua-le che fin dal principio partecipa alla creazione del mondo plasmandosi gradualmente nella materia lo strumento man mano corrispondente alla propria progressiva incarnazione e individuazione. È per l’uomo che tutto viene creato, non come realtà puramente finale (gli esseri intermedi sarebbe-ro allora puri strumenti con rapporto estrinseco alla realtà

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dell’uomo), ma come essenza e totalità dell’evoluzione intera, di cui ogni essere e ogni stadio è membro vivente. Se consideriamo l’evoluzione in questo modo, scorgiamo in essa un passaggio graduale, nel divenire dell’uomo, da ciò che è più generale e specifico (la corporeità) a ciò che è individuale e universale (l’individuo pensante e libero). Lo spirito umano si è prima costruito la realtà corporea, per poi inserirvi la propria realtà animica, e infine quella spiri-tuale. La razza ha determinato l’uomo nel remoto passato, poi sempre di più la cultura; ed ora egli è chiamato a dive-nire sempre più «umano» nel suo spirito creativamente individuale e universalmente partecipativo.

La partecipazione di ogni persona umana alla totalità di questo cammino evolutivo si rivela così ad essa del tutto essenziale. La cultura occidentale si trova qui di fronte a realtà ancora tutte da esplorare. Facendo venire all’essere l’anima umana direttamente al momento di questa sua singola nascita, non si comprende quale sia la sua parte-cipazione al divenire dell’essere. Proprio perché l’uomo ci si presenta come essenzialmente in divenire, è essenziale alla comprensione della sua realtà il cammino lungo il quale egli è divenuto ciò che è. Possiamo senz’altro accetta-re che, fino ad un certo punto dell’evoluzione degli esseri inferiori, ancora non ci fosse l’uomo dentro al corpo, ma non che ancora non ci fosse l’uomo. Se l’uomo venisse inizialmente creato all’inizio di questa vita già pienamente individuale, non si troverebbe in mezzo al processo di divenire tale. E poiché si trova difatti e essenzialmente in quel processo, bisogna mostrare in quale modo l’evolu-

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zione sia proprio il graduale cammino verso l’individuali-tà, percorso tutto intero da ogni individuo.

Quando parliamo dell’uomo come essere aperto è proprio questo che vogliamo dire: che egli non è statico, ma in divenire, e che questo divenire dell’uomo riguarda il cammino dell’essere stesso, poiché tutto l’essere non è altro che il processo dell’autopartecipazione amorosa da parte di esseri spirituali creatori dell’uomo. Se il creatore è amore e autocomunicazione, non può che moltiplicare centri di coscienza in grado di accogliere il suo amore e di rispondere a lui essi pure con quell’amore che si ha uni-camente nell’essere individuale cosciente e libero. E se questo è il significato del divenire universale, bisogna mostrare in quale modo l’evoluzione del mondo materia-le, in ogni suo essere e in ogni suo stadio, sia parte essen-ziale della formazione dello spirito umano, e non ad essa estranea, o da essa indipendente.

Tutto ciò non vuol forse dire che c’è finalità nel mon-do e che l’uomo è il fine di tutta la creazione e di tutto il suo divenire? È qui proprio essenziale comprendere che due esseri che sono l’uno in vista dell’altro restano esterni l’uno all’altro. Se il primo è strumento e il secondo è fine, essi non si appartengono per essenza: lo strumento cessa di essere come tale quando subentra il fine, o può sempre venir sostituito da un altro strumento che conduce allo stesso fine. Il suo rapporto con il fine resta ad esso estrin-seco. Per questo ho detto precedentemente che c’è una grande differenza tra dire che gli esseri del mondo sono gli uni in vista degli altri (con rapporto di strumento a fine)

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e dire che sono gli uni per gli altri (con rapporto di mem-bro a organismo). Nel corpo, gli occhi sono per le mani (fanno da guida al loro operare) ma non sono in vista delle mani: una volta che ci sono le mani non cessa la funzione degli occhi (ciò avverrebbe se essi fossero lo strumento e le mani il fine). Ogni membro di un organismo globale è per gli altri membri, non in vista di essi come proprio fine. È l’interazione delle parti (espressa in leggi naturali che sono dei concetti) che costituisce l’essenza di ogni parte e del tutto.

Ciò che vale al presente per un organismo singolo ri-spetto alle sue membra, vale anche per quell’organismo unitario che chiamiamo l’evoluzione del mondo e dell’uo-mo: ogni suo membro è essenziale al tutto ed è in diretto rapporto con il tutto: non è puro strumento per il membro seguente inteso come suo fine (e che segnerebbe «la fine» della sua indispensabilità essenziale). In un tutto organico nessun membro è strumento, perché ciascuno è parte es-senziale del tutto. Ogni membro va riferito non solo al «seguente», e neppure solo a quello «finale», ma diretta-mente al tutto. Questo «tutto» del divenire del mondo visibile è l’uomo, e non c’è nulla nel mondo che sia puramente acci-dentale al suo essere. Solo quando comprendiamo la fun-zione essenziale che un essere svolge nell’avvento dell’indi-viduo umano libero e amante, solo allora comprendiamo l’essenza di quell’essere. L’uomo non è il fine dell’evolu-zione: ne è la totalità, e ogni stadio evolutivo, ogni essere è un «membro» essenziale dell’essere umano, poiché nessun membro vivente di un organismo può essere ad esso acci-

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dentale. Neppure un membro che ha cessato di svolgere direttamente la sua funzione può dirsi accidentale. Il «risul-tato» di quella funzione resta costitutivo dell’organismo. Un organismo che si svolge nel tempo porta in sé tutti i suoi «membri» temporali, anche quelli «passati», così come gli esercizi per imparare a scrivere cessano, ma resta in noi la capacità di scrivere. Così come la memoria può rendere presente il passato. Il processo di conoscenza che si svolge nell’uomo non è dunque il fine dell’evoluzione naturale degli esseri, ma ne è l’essenza. La percezione del mondo sensibile (la «percepibilità» degli esseri visibili) ha la sua essenza, la sua ragione d’essere nell’autocoscienza umana: solo avendo di fronte l’altro da sé l’uomo può far sorgere la coscienza di sé.

Il considerare un essere come strumento e l’altro co-me fine è perciò un altro modo di ritenere reale solo il percepibile: è infatti solo la realtà percepibile di un essere che cessa lasciando il posto alla realtà percepibile del «se-guente». Ma la realtà percepibile di un essere non ne è l’essenza: questa si può unicamente cogliere nel pensare ed esprimere in un concetto. Questa essenza non può mai «cessare» perché non è legata al tempo allo stesso modo della percezione. L’essenza di ogni essere si manifesta nel pensare, perché il pensare «unifica» in un unico organi-smo spirituale tutto ciò che è (percepibilmente) disperso e frammentato nel tempo.

Questo «ampliamento» dell’essere umano nell’assunzio-ne in sé di tutto il divenire cosmico svoltosi nel passato, porta con sé un analogo ampliamento verso il futuro. Con-

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siderando le profonde metamorfosi dell’uomo nel corso della storia, non si vedrà più la «natura umana» come es-senzialmente immutata e immutabile nei secoli. Divenendo consapevoli del balzo gigantesco che si compie epocal-mente nel presente da una coscienza ancora sognante al pensare vivente che rende libero l’uomo, anzi proprio nel compiere questo «salto» qualitativo, si viene a comprende-re che le «possibilità» evolutive dell’uomo sono lungi dall’essere esaurite. I gradini successivi all’acquisizione presente della libertà si caratterizzano per il fatto che pos-sono attuarsi solo liberamente, cioè per iniziativa cosciente dell’individuo. D’ora in poi, perciò, non c’è più una «natu-ra umana» già predeterminata che gli ponga dei limiti e che gli imponga una direzione da seguire: la natura si fa, da guida che era, strumento dell’uomo. La natura umana co-mune fa parte del passato: a partire dalla libertà, il futuro è dell’individuo, spirito pensante e libero, non della natura in lui. E così come nel passato la natura ha accolto gradual-mente in sé l’essere umano in un lungo processo di «incar-nazione», così nel futuro l’uomo l’assumerà nel proprio essere di spirito libero, trasformandola, in un lungo cam-mino di «risurrezione». La risurrezione della carne, il ritor-no del Figlio dell’uomo sulle nubi, la Gerusalemme celeste, i cieli nuovi e la Terra nuova... sono tutte immagini che esprimono l’avvenire del mondo e allo stesso tempo stadi e stati della coscienza dell’uomo. Ogni uomo è chiamato fin d’ora a prepararli, anzi a viverli in sé. La vita e l’opera di Rudolf Steiner è la testimonianza più straordinaria di questo «anti-cipare» le tappe del divenire della coscienza umana.

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Qual è allora il senso della «visione beatifica» di cui par-lano le Scritture? Vogliamo forse instaurarla già qui in que-sta vita? E come si concilia ciò con l’infinita piccolezza dell’uomo? Se noi dilatiamo l’uomo così da fargli abbrac-ciare tutto il passato dell’essere, dobbiamo ugualmente at-tribuire ad ogni uomo, che nel presente diviene nel pensa-re individuo libero, una partecipazione individuale e diretta a tutto il divenire futuro dell’umanità e della Terra. Il no-stro pensiero tradizionale ha anche qui urgente bisogno di «ripensamento». La vaga realtà «provvisoria» attribuita a tutti coloro che si sono «addormentati» nella morte e sono in attesa della conclusione finale del divenire del mondo, è tutt’altro che chiara: fa pensare a un’area di parcheggio che non partecipa direttamente né al tempo né all’eternità.

Uno degli aspetti dell’errata opposizione tra individua-lità e comunione, è la falsa antinomia tra lo stadio finale come sintesi di tutto il divenire, e gli stadi intermedi co-me realtà provvisorie destinate a venir superate. L’errore può anche qui esser duplice: o di rendere assoluto lo sta-dio finale, svuotando quelli intermedi della propria realtà essenziale e rendendoli dei puri strumenti verso il fine; oppure di perdere di vista il senso del divenire, prenden-do per definitivo e assoluto uno stadio che non lo è. Questi due modi di procedere, che sembrerebbero esclu-dersi a vicenda, sono invece l’uno la conseguenza dell’al-tro: lo stadio presente viene assolutizzato (reso «immobi-le») proprio quando lo si svuota del dinamismo che gli proviene dal suo inserimento vivente nell’organismo tota-le del divenire universale.

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Ogni stadio del divenire ha una sua «perfezione» in quanto è necessario non meno di ogni altro (bisognereb-be anche chiedersi se lo stadio che chiamiamo visione beatifica sia «finale» nel senso di arresto, e se la «perfe-zione» che esso indica significhi un’assenza di successiva evoluzione...).

Come la pianta coi frutti non è più «perfetta» di quella coi fiori, come l’adulto non è «migliore» del bambino, così anche per l’uomo c’è una perfezione specifica e propria di ogni fase da percorrere: la sua vita sulla Terra ha un valore suo proprio, e non la si può unicamente misurare e valuta-re (finalisticamente) in vista della vita dopo la morte. Se il sonno fosse solo in vista della veglia, si dovrebbe arrivare al punto da vegliare sempre e non dormire più; invece noi torniamo sempre di nuovo a dormire perché il sonno, non meno della veglia, costituisce una dimensione e una realtà che è essenziale all’uomo, e non può venire abolita finché l’uomo è allo stadio attuale. Un ragionamento analogo bisognerebbe fare, allo stadio attuale, per il rapporto tra la vita prima e la vita dopo la morte. Il nostro concetto co-mune della morte è quello di un salto che dal bel mezzo di un lunghissimo divenire trascorso ci catapulta istantanea-mente al suo stadio finale. È proprio questo «subitaneo» avvento della fine che ci fa svuotare il divenire, il contenu-to reale in ogni suo stadio. Se il fine da raggiungere, lungi dall’essere «la fine» degli stadi precedenti, ne è proprio l’armoniosa interazione, esso è presente in ogni passo del cammino e si compie unicamente nel «percorrere» con la coscienza pensante tutte le dimensioni di cui si compone.

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Il falso concetto di finalità svuota ogni stadio inter-medio del suo valore intrinseco per attribuire il valore solo allo stadio finale. In questo modo si viene a negare il divenire nella sua realtà. L’uomo nel suo stadio attuale non è un essere imperfetto: persino ciò che noi chiamia-mo la «caduta» (la perdita dell’innocenza iniziale) è parte essenziale della sua «perfezione» specificamente umana. L’individuazione che rende possibile la libertà e l’amore, non poteva avvenire senza la caduta originaria, senza la «cacciata dal paradiso», dalla matrice primigenia e indiffe-renziata. Non poteva, non può, né potrà avvenire!

Solo se prendiamo davvero sul serio lo stadio attuale della condizione umana nella sua perfezione intrinseca (non solo in vista di uno stadio «finale»), saremo in grado di capirne il significato nel contesto totale del divenire umano. L’individuazione che ora è in corso, l’aspirazione viscerale degli uomini del nostro tempo alla libertà, ci si rivelerà allora come la sola e perenne via alla comunione. Solo allora saremo in grado di affermare incondizionata-mente l’una e l’altra, nella loro necessaria distinzione e reciproca implicazione ad un tempo. Non possiamo av-verare la comunione senza volere l’individualità; non possiamo ottenere vera individualità senza partecipazio-ne. Solo in quanto distinte si affermano a vicenda; solo in quanto inseparabili, ciascuna richiede l’alterità dell’altra.

L’individuazione non può dunque più considerarsi semplicemente «in vista della» comunione, poiché ne è l’essenza vera. Non esiste uno stadio finale del divenire (la comunione di tutti gli esseri) che si raggiunga supe-

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rando, cioè lasciando indietro, gli stadi intermedi: ciò che noi chiamiamo lo stadio finale non è difatti uno stadio, ma è il tutto, è l’organismo globale del divenire che non ha nulla di «cessato» o di «perduto» (lasciato indietro nel tempo, perché puro strumento per il fine) ma che ha in sé il tutto armonicamente, e ogni elemento nella sua vera essenza come membro dell’organismo totale.

Il concetto di intenzionalità dello spirito umano ac-quista in questo contesto un significato più profondo e più vasto. In essa l’uomo non va, come vorrebbe il duali-smo, «oltre» se stesso in cerca della cosa in sé della scien-za o del trascendente della teologia. Nessun essere può mai andare oltre se stesso: se lo facesse, quell’ «oltre» di-verrebbe ipso facto parte di lui. L’uomo diviene invece sempre più di ciò che è stato finora, è cioè in divenire. Se vogliamo chiamare ciò un trascendere se stessi, dovrem-mo dire che si tratta di una trascendenza immanente all’uomo, o di una immanenza trascendente. Ogni nuovo stadio, ogni nuova realtà, non è mai oltre l’uomo, ma proprio perché egli la fa sua è da sempre parte di lui. La pura trascendenza sarebbe l’uscire «fuori di sé»: se ciò avvenisse l’uomo non andrebbe «oltre» se stesso, ma non sarebbe più se stesso, essendo uscito dalla coscienza pen-sante che è la sua essenza. Ogni presunto andare oltre è dunque sempre un restare nell’uomo: non possiamo «chiudere» la sua natura identificandola con un dato sta-dio, e porre lo stadio seguente «oltre» quella natura.

L’uno e l’altro fanno parte del suo essere. Se compre-sa nella sua verità reale, l’intenzionalità dell’uomo è allora

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una cosa sola con la realtà dell’evoluzione nella sua totali-tà integrale: riferita non solo alla natura infraumana o alla realtà corporea dell’uomo, ma anche alle sue facoltà spiri-tuali. L’essenza dell’uomo è il pensare, e l’evoluzione è la totalità del pensabile.

La «caduta» dell’uomo, il suo progressivo inserirsi nel-la materia fino al punto da perdere di vista lo spirito (fino a considerare come vero solo il percepibile, e la cono-scenza come fatta di «soli» pensieri che non sono nulla di reale), non è allora unicamente un fatto morale, ma anche intellettuale. La storia dell’uomo è una cosa sola con la storia della conoscenza. E c’è una redenzione della cono-scenza non meno che una morale, anzi, esse pure sono le due facce di un’unica medaglia. Il pensare, che in un pri-mo momento si sperimenta come pura registrazione pas-siva dei dati della percezione, è esso stesso passibile di redenzione, è esso stesso posto nella corrente dell’evolu-zione: è chiamato a divenire pensare attivo, intessendosi di quella creatività volitiva che è la sostanza stessa dell’a-more. Il divenire dell’uomo è la storia stessa delle meta-morfosi del pensare, fino al sorgere, nel pensare libero, dell’individuo umano. Nell’intuizione creatrice il pensare si riempie di nuovo di contenuto spirituale reale. E se da una parte questo pensare attivo fa venire all’essere l’in-dividuo umano, esso è d’altra parte il sorgere della vera comunione degli uomini tra loro. Solo nel pensare e col pensare io posso «entrare» in un altro, perché il suo pen-sare è la sola realtà che posso totalmente assumere in me. Ciò non posso fare per la realtà del suo corpo, e neppure

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per quella della sua anima: le sue passioni, i suoi senti-menti non possono diventare i miei. Solo i suoi pensieri posso fare totalmente miei. La vera comunione degli uomini si può avere unicamente nella realtà spirituale del pensare. E questa comunione ci fa ripetere, sul versante dell’amore, l’esperienza fondamentale del nostro proprio pensare. Come nell’esercizio vivente e volitivo del nostro pensare noi viviamo dentro ad una realtà spirituale in cui percezione e concetto vengono a coincidere (ciò che percepiamo è l’essere stesso, anzi è il nostro essere), così nell’ascolto amorevole dei pensieri altrui la percezione sensibile dell’altro si trasforma in percezione del suo esse-re spirituale reale. Il pensare trasformato in amore è, per un momento, una sospensione del nostro proprio pensa-re, del nostro io come separato dal tu, per farci vivere e sperimentare direttamente, come nostra propria realtà e contenuto interiore, il pensare dell’altro, divenuto esso pure, dentro di noi, unione inscindibile di percezione che accoglie e di attività che crea.

Se il divenire dell’uomo è una cosa sola col divenire della conoscenza, entrambi sono una cosa sola col dive-nire universale. Il concetto tradizionale di «natura umana» è troppo statico e ristretto, per poter abbracciare tutta la gamma delle sue stesse metamorfosi: dalla matrice iniziale ove non c’era né individuo né conoscenza cosciente, alla progressiva individuazione nella coscienza pensante, alla graduale compenetrazione reciproca di quelle due dimen-sioni (la comunione e l’individualità) che si sono dappri-ma attuate separatamente l’una dopo l’altra e perciò in

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modo profondamente diverso. La «redenzione» è proprio il progressivo assumere in sé le due grandi parzialità del proprio passato per unificarle, dando vita a quell’essere completo e armonioso chiamato corpo spirituale del Cri-sto risorto, dove la comunione è perfetta perché perfetta è l’individualità di ogni suo membro.

La scolastica medioevale ha cercato il rapporto dell’uo-mo con l’essere nella controversia degli universali. Per il realismo, questi «concetti» umani erano ancora qualcosa di reale, si riferivano a una realtà spirituale sostanziale. Nella teoria delle tre forme di universali (ante res, in re-bus, post res) troviamo un ultimo vestigio dei tre grandi stadi del divenire del mondo, dell’uomo e della cono-scenza: quello iniziale dell’unione senza individuazione; quello successivo dell’individualità che ha perso la comu-nione; quello finale dove l’una diviene l’essenza dell’altra. Gli universali ante res sono nella mente di Esseri spirituali creatori: qui gli uomini non sono ancora entrati nella vicenda della materia che isola e separa; la conoscenza è ancora visione e esperienza diretta dello spirituale, da cui l’uomo non ha ancora «preso le distanze». Gli universali in rebus sono nelle cose singole: qui ora gli esseri si pre-sentano molteplici alla percezione; la conoscenza umana si «smarrisce» in questo mondo della molteplicità. Gli universali post res sono nella mente dell’uomo: ora gli es-seri vengono afferrati nella loro essenza dal pensare umano; la conoscenza si desta nella comunione, libera e amante, con l’essere spirituale del mondo. L’uomo era inizialmente «immerso» nello spirituale, poi si è «smarri-

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to» nel mondo, e infine «trova» se stesso e diviene capace di libera «comunione» con tutti gli Esseri.

Se dal medioevo volgiamo lo sguardo all’umanità dei nostri tempi, all’alba del 3° millennio, scorgiamo in essa impresse a caratteri indelebili le tracce del passato e del presente del cammino umano. L’oriente, che è nell’uma-nità la memoria del passato, ci parla dell’appartenenza iniziale dell’uomo al divino, tragicamente deformata nel comunismo che spesso non conosce l’individuo umano libero. L’occidente, che è nell’umanità la coscienza del presente, ci parla di libertà dell’individuo umano, spesso pure crudelmente deformata nel capitalismo che ancora non conosce l’amore. Unione e individualità: queste due aspirazioni eterne del cuore umano attendono di trovare in avvenire il proprio splendore, divenendo ciascuna la vita dell’altra. Coltivando sempre di più il proprio spirito che nella realtà vivente e vibrante del pensare s’immerge nel cuore dell’essere e vive nella realtà dello spirito, l’uo-mo diviene pienamente individuo proprio perché vive nella più intima e universale comunione, divinamente li-bero, proprio perché ardente d’amore.

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Pietro Archiati è nato nel 1944 a Capriano del Colle (Brescia). Ha studiato teologia e filosofia alla Gregoriana di Roma e più tardi all’Università statale di Monaco di Baviera. È stato insegnante nel Laos durante gli anni più duri della guerra del Vietnam (1968-70). Dal 1974 al 1976 ha vissuto a New York nell’ambito dell’ordine missiona-rio nel quale era entrato all’età di dieci anni. Nel 1977, durante un periodo di eremitaggio sul lago di Como, ha scoperto gli scritti di Rudolf Steiner la cui scienza dello spirito ― destinata a diventare la grande passione della sua vita ― indaga non solo il mondo sensibile ma anche quello invisibile, e permette così sia alla scienza sia alla religione di fare un bel passo in avanti. Dal 1981 al 1985 ha insegnato in un se-minario in Sudafrica durante gli ultimi anni della segregazione razziale. Dal 1987 vive in Germania come libero profes-sionista, indipendente da qualsiasi tipo di istituzione, e tiene conferenze, seminari e convegni in vari Paesi. I suoi libri sono dedicati allo spirito libero di ogni essere umano, alle sue inesauribili risorse intellettive e morali.

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