libro bianco porto marghera

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IL LIBRO BIANCO DEI PROFESSIONISTI PORTO MARGHERA

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Page 1: Libro Bianco PORTO MARGHERA

IL LIBRO BIANCO DEI PROFESSIONISTI

Porto Marghera

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in collaborazione con

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Il gruppo di lavoro per la redazione di questo documento è composto da

Alessandro Grinfan Presidente Fondazione delle Professioni

Mauro Rossato Segretario Fondazione delle Professioni - Ordine Ingegneri

Giorgio Boccato Ordine dei Chimici

Benedetta Bortoluzzi Ordine Dottori Agronomi e Dottori Forestali

Michele CazzaroCollegio dei Geometri

Antonio Gatto Ordine degli Architetti

Ezio Oliboni Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri

Cesare-Augusto Rizzetto Ordine dei Geologi

Laura Scarso Collegio dei Ragionieri Commercialisti

Ordine dei Medici Veterinari

Coordinamento editorialeprogetto grafico e impaginazioneCharta Bureau

Foto di copertinaMatteo Lavazza

StampaNovagrafica - Camponogara

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ANALISI E STRATEGIE PER LO SVILUPPO

Su un tema strategico qual è il futuro di Porto Marghera tutti esprimono opinioni e punti di vista. Naturalmente il mondo delle professioni non intende esimersi dal proprio ruolo di osservatore attivo delle dinamiche socio-economiche e su un tema così delicato e im-portante ha scelto di approfondire attraverso la Fondazione delle Professioni, che in provincia di Venezia è il braccio operativo del Coordinamento Unitario delle Profes-sioni (CUP).Il punto di vista dei professionisti è, per sua natura, poliedrico in funzione delle dif-ferenti specificità e specializzazioni. E soprattutto è uno sguardo tecnico; mai neutro, ma sempre “laico” in quanto fondato su osservazioni che non hanno natura di opinio-ne, ma di conoscenza tecnica, appunto.Questo su Porto Marghera vuole essere il primo di una serie di interventi dei profes-sionisti mirati ad approfondire l’analisi di tematiche cruciali per lo sviluppo e la cresci-ta del territorio. Si tratta di un concentrato di studi complementari, rispetto ai quali si indicano soluzioni a problemi e proposte legate a visioni strategiche.Con questo lavoro il mondo delle professioni porta un contributo concreto e preciso, rimanendo a disposizione per un confronto con i decisori politici e istituzionali, che queste scelte inevitabilmente sono chiamati a farle.

Alessandro GrinfanPresidente Fondazione delle Professionidella provincia di Venezia

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PROGETTUALITà NEL TERRITORIO

La mission esplicitata nel bilancio sociale del Gruppo INTESA SANPAOLO, di cui Cassa di Risparmio di Venezia SpA rappresenta espressione territoriale per la Provin-cia di Venezia, è quella di “esercitare l’attività finanziaria e creditizia attraverso servizi di eccellenza rivolti alla gestione prudente delle risorse delle famiglie e all’impegno per lo sviluppo sostenibile del sistema imprenditoriale, anche ai fini di contribuire alla complessiva crescita economica del Paese. L’obiettivo di creazione di valore per gli azionisti viene perseguito nell’ottica della sua sostenibilità nel tempo e nel contesto di un’attenzione costante e responsabile alle esigenze di tutti i diversi interlocutori dell’azienda”.Il punto di riferimento perciò di imprenditori, professionisti e manager non sono più, semplicemente, gli azionisti e gli investitori ma, accanto a questi stanno progressiva-mente subentrando altre categorie di soggetti ai quali, nel terzo millennio, l’impresa deve rendere conto, ovvero: lavoratori, fornitori, risparmiatori, cittadini ed istituzioni sociali.Vi è una sempre maggior convinzione che il valore dell’impresa non sia solo quello espresso dagli indicatori economico/finanziari (il ROE in primis), ma sia anche quel-lo espresso dal capitale umano e dalla crescita del benessere attorno all’impresa.È quindi assolutamente importante che si diffonda la cultura della “responsabilità so-ciale dell’impresa”, non solo per impulso filantropico, ma soprattutto per lo sviluppo dell’economia.Imprenditori e professionisti operano infatti nell’ambiente e, pertanto, dovrebbe rea-lizzarsi un’osmosi per la quale non è solo l’ambiente ad influenzare le scelte impren-ditoriali, ma sono anche gli stessi imprenditori e professionisti che, con le loro scelte, condizionano l’ambiente e la crescita socio/economica del territorio in cui operano.Una migliore qualità della vita, una effettiva tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, una maggiore partecipazione nelle scelte economiche all’interno della comu-nità in cui si vive sono le aspettative del cittadino del XXI secolo, che l’impresa ed il mondo delle professioni non possono ignorare se vogliono continuare a crescere e competere con successo.L’apertura sociale è per questo non soltanto un bene, ma anche una vera e propria necessità, che può divenire un vantaggio competitivo in quanto l’attenzione rivolta dal consumatore all’impatto ambientale della gestione, della consulenza e dei prodotti possono determinare la scelta di un’impresa rispetto ad un’altra ed il successo di un territorio rispetto ad un altro.Decisiva è perciò nelle esperienze di successo, quale è certamente quella del Nord Est e della Provincia di Venezia in particolare, la capacità di costruire e rendere ricono-scibile la propria differenza su scala nazionale e internazionale, utilizzando anche il territorio come risorsa distintiva.

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UN THINK TANK PER PORTO MARGHERA

Professioni tecniche e dell’area sanitaria, competenze economico-giuridiche e pro-duttive, progettisti e analisti. Un think tank riunito intorno a un tavolo a discutere, confrontarsi, scambiare idee e opinioni. E poi a scrivere, per approfondire e identifi-care proposte concrete.Il risultato di questo lavoro, durato alcuni mesi, è in questa pubblicazione. Un “libro bianco” che raccoglie pareri tecnici e valutazioni approfondite sull’Intesa per Porto Marghera. L’invito a ragionare e portare un parere sul documento redatto dalla Provincia di Venezia è venuto dallo stesso assessore alle Attività produttive Giuseppe Scaboro. Poi ci siamo fatti prendere dalla volontà di affrontare in maniera articolata la questione-Marghera, senza approssimazioni pur con un taglio divulgativo e chiaro. In questa pubblicazione, l’analisi parte dal passato e dal presente per guardare al futuro, alle prospettive di sviluppo, cercando di capire quali realmente fossero le basi da cui par-tire. Ogni professione ha dato il proprio contributo, portando suggerimenti proposte e spesso, sì, critiche costruttive ai contenuti dell’Intesa. Ora affidiamo questo documento – che è analisi e sintesi progettuale - ai decisori politici e all’opinione pubblica. E lo facciamo nella convinzione di aver articolato un documento utile per stimolare un ripensamento del ruolo di Venezia e del suo polo industriale all’inizio del terzo millennio.La nostra città è chiamata infatti ad essere in posizione proattiva rispetto allo sviluppo, ricucendo la frattura che oggi la separa progressivamente dall’area competitiva del Nord-Est e che rischia di far perdere peso al ruolo di Porto Marghera.Se la città saprà attivare un processo di coordinamento tra le forze economiche e so-ciali potrà rilanciarsi in un ruolo economico trainante. E in questo quadro la “nuova” Porto Marghera potrà essere elemento costitutivo essenziale. Anzi, nodo qualificante per storia e vocazione, ma soprattutto per le caratteristiche geografico-strategiche.

Vito SaccarolaPresidente CUP di Venezia

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PORTO MARGHERA: OPPORTUNITà PER TUTTI

La sfida che d’altra parte oggi risulta più pressante ed impegnativa risulta quella di dare continuità al successo, attraverso la piena consapevolezza dei cambiamenti in atto (società, ambiente, mercato, concorrenza…) e dei fenomeni ad essi collegati, ma con la ferma convinzione che il territorio rappresenta e rappresenterà il vero motore della ripresa.Tornare al territorio quindi, ma per andare oltre, agendo all’interno di un nuovo tipo di grandezza, il “network”, quale sistema di competenze e professionalità che trovi adeguato coinvolgimento da parte di tutti gli operatori interessati; banche, ordini pro-fessionali, associazioni di categoria, consorzi fidi, con l’intento di creare una sorta di catena virtuosa a sostegno dello sviluppo e della crescita socio economica.La Cassa di Risparmio di Venezia crede fermamente in questa progettualità territo-riale, nella piena e convinta attuazione delle strategie del Gruppo, ma anche e so-prattutto quale “banca di territorio” per eccellenza, per continuare ad essere parte integrante e qualificata di questo sistema, con la forza delle proprie tradizioni e della propria cultura, oltre che con le opportunità e gli spunti operativi che derivano dal-l’appartenenza ad un grande gruppo internazionale.La collaborazione con la Fondazione delle Professioni ed il CUP su PORTO MAR-GHERA vuole essere un esempio concreto di tale progettualità, all’interno di un per-corso di partnership già ampiamente sperimentato e consolidato con il mondo delle professioni, che si vuole rendere ancora più forte, strutturato e sinergico nell’intento di presentarsi di fronte alle sfide che il mercato globale propone con la forza del ter-ritorio e l’eccellenza delle sue espressioni professionali e di competenze distintive per continuare a competere insieme con successo per il futuro.

Biagio RaponeDirettore Generale Cassa di Risparmio di Venezia SpA

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Tutti noi cittadini lavoriamo e viviamo quotidianamente affrontando e risolvendo al meglio piccoli problemi quotidiani, per cercare di garantire a noi stessi e alle nostre famiglie un presente dignitoso e un futuro più roseo. Purtroppo gli impegni e le prio-rità che ciascuno ha non consentono, molto spesso, di dedicarsi a questioni che non ci riguardano, almeno in apparenza, direttamente.Il futuro di Porto Marghera è tra queste. E questo documento rappresenta l’impegno dei professionisti della provincia di Venezia nel dare un apporto ai processi di cambia-mento che caratterizzano questo momento storico e questa complessa area del nostro territorio. È ovvio che la questione Porto Marghera va e andrà sempre più ad incidere sul futuro di tutti noi, proprio per le complicazioni socio-economiche che ogni deci-sione presa avrà sull’assetto locale.Si pensi ad esempio alla differenza tra una scelta di riconversione dell’area industriale di Porto Marghera, con l’insediamento di nuove attività rivolte a produzioni e servizi innovativi ad alto contenuto intellettuale, o una scelta opposta, di conferma della pro-duzione chimica. In funzione di questa direttrice di sviluppo – per guardare agli effetti concreti – nelle famiglie si determineranno condizioni differenti nell’indirizzare gli studi dei figli, che potranno aspirare a carriere professionali diverse in funzione del modello di sviluppo del loro territorio di riferimento.Ecco perché ciascuno di noi cittadini non dovrebbe esonerarsi dal partecipare, in qualsiasi modo e a qualsiasi titolo, alle scelte che quasi sempre rimettiamo in toto ai politici, salvo poi lamentarci con costanza. E allora, perché non dedicarci un po’ al futuro dei nostri figli anche su tematiche che sembrano al di fuori del nostro control-lo? Ecco allora il perché di questo documento. I professionisti della provincia di Venezia, riuniti nel Comitato Unitario delle Professioni e della Fondazione delle Professioni, hanno voluto elaborarlo per dare un contributo concreto alle scelte in atto sul futuro di Porto Marghera.Il sito industriale ha una storia relativamente recente. La realizzazione di una prima zona industriale inizia durante la prima guerra mondiale e nel 1925 si contano già 17 insediamenti industriali e commerciali con 1.200 dipendenti. A metà degli anni qua-ranta le aziende sono più di 100 con oltre 1.500 lavoratori. Il 1965 segna il momento di massima esplosione occupazionale: 33.000 addetti per 229 aziende distribuite su una superficie di 1.400 ha, rimasta sostanzialmente invariata sino ad oggi. Successivamen-te, a partire dalla metà degli anni ‘70, il numero di occupati subisce un decremento continuo sino ai nostri giorni. Attualmente gli addetti ammontano a circa 13.000 uni-tà, impiegati in meno di 300 aziende, delle quali il 20% circa di proprietà nazionale.Fortunatamente negli ultimi tempi la perdita degli occupati provocata dalla chimica è stata numericamente controbilanciata dallo sviluppo della logistica, della cantieristica e del commercio.

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L’Andamento dell’Economia in Provincia di VeneziaL’economia in provincia di Venezia si conferma in crescita, mantenendo un trend positivo che dura ininterrottamente da anni.Anche nel 2006, infatti, fa segnare un bilancio attivo uno degli indicatori chiave dello sviluppo, il movimento anagrafico delle imprese. Lo scorso anno le imprese venezia-ne hanno superato quota 90mila. Al 31 dicembre 2006 risultavano attivi nel Registro Imprese della Camera di Commercio 90.210 insediamenti produttivi (composti da 71.506 sedi d’impresa e 18.704 unità locali, cioè stabilimenti, filiali e sedi secondarie), che costituiscono il 16,6% delle imprese localizzate nella nostra regione: 1.063 in più rispetto al 2005, per un aumento dell’1,2%, in linea con la variazione riscontrata a livello nazionale ma superiore alla performance del Veneto (+1%). Si desume, dunque, un confortante ritorno ai ritmi di crescita del 2004, anche se il tasso di sviluppo, dato dal saldo tra iscrizioni e cessazioni di impresa, è minimo e pari allo 0,03%, per un saldo positivo di sole 27 unità: lo scorso anno la provincia di Vene-zia, con 5. 836 iscrizioni di nuove imprese, ha fatto segnare tra le province venete il più alto tasso di natalità (numero di nuove imprese iscritte per cento sedi d’impresa registrate all’inizio del periodo), il 7,2%, ma anche, con 5. 809 cessazioni, il più eleva-to tasso di mortalità, il 7,1%, segno comunque dell’estrema dinamicità dell’imprendi-toria provinciale.Essenzialmente sono tre i motori della crescita che sostengono l’aumento della base imprenditoriale: il buon andamento del settore delle costruzioni, del turismo e dei servizi alle imprese – una riconferma dato che l’economia provinciale è vocata soprat-tutto a questi ultimi due ambiti -, la forte dinamica delle società di capitali e l’estrema vivacità imprenditoriale dei cittadini extracomunitari.Scendendo nel dettaglio dei vari settori si può constatare che la crescita non appare del tutto omogenea, anche se i segni positivi sono predominanti e l’unica contrazione di un certo peso, al solito, si riscontra nel comparto agricolo, che accusa una flessione del 3,2% sul 2005 (370 unità in meno): calo fisiologico dovuto non tanto a una crisi, quanto piuttosto alla ristrutturazione in atto ormai da tempo tra le imprese agricole. In lieve diminuzione, dello 0,9% (solo 10 imprese in termini assoluti), comunque, sono anche il settore ittico (la cui espansione negli ultimi 5 anni, tuttavia, resta note-vole, il 21,7% di imprese in più), e quello dei trasporti (35 unità in meno, pari allo 0,8%), che sconta soprattutto il calo riscontrato nei trasporti terrestri: si può conside-rare, invece, pressoché costante il numero delle aziende manifatturiere (-0,1% rispet-to al 2005), che ammontano a 10. 872 e rappresentano il 12,1% degli insediamenti produttivi del Veneziano.Per il resto tutti segni “più”. Di assoluto rilievo la performance delle imprese di co-struzioni, che continuano ad aumentare a ritmi vertiginosi: al 31 dicembre 2006 era-no 12.552, +3% sul 2005 e +14,9% nell’ultimo quinquennio. Ancora meglio fanno il

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Nonostante l’indiscutibile necessità di riconvertire a livello occupazionale e quindi anche economico l’area di Porto Marghera, numerosi progetti imprenditoriali sono sfumati nel nulla, per cause diverse, ma con lo stesso effetto: il rallentamento dalla nostra crescita economica. Cito, solo ad esempio, il fallito progetto Venice Refitting e la delocalizzazione dell’ampliamento del cantiere Dalla Pietà che ha scelto il Lago d’Iseo, creando lì 70 posti di lavoro.In ogni caso è indiscutibile che stiamo assistendo ad una progressiva terziarizzazione dell’area di Porto Marghera.Lo sforzo sarà quello di sintetizzare tutte le problematiche e tutte le opportunità in una logica di sviluppo sostenibile, soprattutto sotto il profilo ambientale, dandoci tem-pi e modi ben definiti all’interno di un progetto che vede integrate le logiche pubbli-che e private.A tal proposito dovremo chiedere ai nostri politici di abbandonare le miopi strategie finalizzate al solo mantenimento dell’attuale stato occupazionale, avviando politiche di sviluppo economico territoriale che, automaticamente, porteranno comunque ad un incremento occupazionale. Naturalmente non vanno trascurati i diritti al lavoro delle persone attualmente occupate in lavorazioni da riconvertire o chiudere.I risultati che si otterranno non saranno frutto del caso o di combinazioni di eventi e circostanze fortuite, ma saranno frutto dell’impegno di tutti noi.

Mauro RossatoSegretario Fondazione delle Professionidella provincia di Venezia

VeNeZIa, UN QUaDro eCoNoMICo

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settore turistico, le cui imprese crescono del 3,6% e arrivano a quota 7.671, l’8,5% dello stock complessivo provinciale e il 26,2% delle aziende del comparto nella nostra regione, e quello dei servizi alle imprese, che aumenta del 5,4% sull’anno precedente (+27,6% dal 2002), raggiungendo le 10.568 unità, l’11,7% del totale veneziano. Uno sviluppo eccezionale che proviene soprattutto dalle attività immobiliari, che segnano un incremento dell’8,5%, ma a cui contribuiscono anche le società che si occupano di attività ausiliarie come quelle legali, contabilità e consulenza fiscale. Particolarmente confortante, in quest’ambito, anche il notevole ampliamento delle imprese dedite a ricerca e sviluppo, +10,4% nel periodo 2005-2006, contro il +7,1% a livello nazionale. E cresce anche il settore dei cosiddetti “altri servizi”, che comprende i servizi legati all’istruzione, alla sanità, alla persona e, in generale, al sociale: queste realtà impren-ditoriali del Veneziano nel 2006 erano 4.159, con un aumento dell’1,5% sul 2005. Di-screta, poi, anche la performance del settore del credito e assicurazioni (+1,2%) e del commercio, +0,6%: con le sue 24.856 imprese attive, quello commerciale si conferma il settore leader in provincia e dimostra un certa tenuta, suffragata dal +4,4% nell’ulti-mo quinquennio. Un accenno anche alla categoria delle imprese artigiane, distribuita nei settori manifatturiero, costruzioni e trasporti, che cresce dello 0,5% e che, con le sue 22.048 unità, costituisce il 30,8% delle sedi di’impresa della provincia.Quanto alla distribuzione territoriale, rispetto al 2005 risultano in crescita tutti i man-damenti: i maggiori incrementi nella Terraferma veneziana, che passa da 5.228 a 5.366 localizzazioni attive (+2,6%), nel Dolese (+2%) e a Venezia-Cavallino (+1,8%), che con le sue 29.176 imprese costituisce il comprensorio con la percentuale più alta di attività, il 32,9%.Venendo alle figure imprenditoriali, conforta la crescita delle donne imprenditrici (+1,4% sul 2005), che sono 30.420, il 26% dei 117.148 imprenditori veneziani (nel complesso, +0,9% rispetto all’anno precedente), ma il dato più eclatante riguarda gli imprenditori extra Unione Europea, 4.791; la loro incidenza sul totale è del 4,1%, in linea con quella nazionale e di poco inferiore alla media veneta, ma la loro crescita sul 2005 è stata ben del 15,1%, contro l’11,7% del Veneto e il 10,9% dell’Italia: risultato che conferma il ruolo di spinta all’allargamento della base imprenditoriale veneziana che viene dai cittadini di origine extracomunitaria residenti in provincia. Altro dato che fa riflettere è la distribuzione per età. I giovani imprenditori, cioè quelli al di sotto dei trent’anni, a fine 2006 risultavano 6.844, il 5,8% del totale: una percentuale in linea con le altre province venete, ma gli under 30 scontano una diminuzione rispetto al 2005 del 3,4%. Andamento opposto a quello segnato dagli imprenditori over 70, che nel Veneziano sono 7.811 (il 6,7% del totale) e che, rispetto all’anno precedente, sono aumentati del 2,2%.Per passare alle forme giuridiche, continua la sempre maggiore strutturazione orga-nizzativa delle imprese veneziane, se è vero che anche nel 2006 la forma societaria preferita dai neo imprenditori continua ad essere quella delle società di capitale, che crescono ancora sul 2005, questa volta del 6,7% (in valore assoluto, +618 unità), lad-dove invece diminuiscono (-0,6%) le ditte individuali, che pure restano sempre la maggioranza, il 61,6% del totale provinciale.Qualche cenno anche agli altri indicatori. In particolare l’export, che nei primi nove mesi del 2006 ha fatto segnare un timido segno positivo rispetto all’analogo periodo

del 2005 (+0,4%), anche se lontano dalle performance di quasi tutte le altre province venete; il turismo, che invece ha fatto registrare risultati record (+6,9% negli arrivi, +5,8% nelle presenze, oltre i 32 milioni); i trasporti, con i brillanti numeri dell’aero-porto Marco Polo (+8,9% negli arrivi e +9,1% nelle partenze sul 2005, con un traffico di 6,3 milioni di passeggeri) e del Porto di Venezia, che ha visto crescere il movimento merci in analoga misura a quello passeggeri (+6,3% e +6,5%); e il valore aggiunto, il cui dato è però ancora fermo al 2005: la provincia di Venezia ha chiuso il 2005 con un ammontare di valore aggiunto pari a 20 milioni 57mila euro, una crescita più conte-nuta del 2004 ma comunque dello 0,9%.Risultati incoraggianti, in quanto emerge che anche in provincia di Venezia nell’ulti-mo trimestre dello scorso anno il comparto ha evidenziato buoni risultati, sia a livello congiunturale sia tendenziale, e tra gli imprenditori emergono anche segnali di otti-mismo nelle previsioni per il primo semestre del 2007.

Occupazione a Porto MargheraLa salvaguardia dell’occupazione è uno dei maggiori interessi per coloro che lavorano a Porto Marghera o in qualche modo gravitano attorno a questa realtà. Solo un deciso intervento per governare una riconversione che privilegi le bonifiche, il disinquina-mento e la ricerca di una compatibilità ambientale di sostanza e non di forma può contribuire ad arrestare la continua emorragia di posti di lavoro di questi ultimi de-cenni e generare nuovi e sostenibili modelli di sviluppo per le imprese. Le produzioni di massa ad elevato impatto ambientale appartengono infatti ad un passato modello industriale, ormai palesemente inadatto alla localizzazione veneziana e sottoposto ad una forte competizione sui costi da parte dei mercati internazionali.

Il riferimento monotematico della grande produzione chimica nella quale si è preva-lentemente formata la cultura di base della città in questo senso non aiuta. Né aiuta al processo di riavvicinamento in corso tra amministrazione e cittadini sulle questioni prioritarie il controverso e contestabile “parere” del Ministero degli Interni sulla pre-sunta inammissibilità del referendum. Per quanto potrà essere difficile, è però dove-roso insistere sulla necessità di un netto cambiamento del modo in cui ci poniamo in relazione con l’ambiente che ci circonda e di conseguenza con noi stessi.Nonostante un insieme di ostacoli formali posti in diversa misura dalla politica nazio-nale e locale per impedire il referendum popolare, l’amministrazione è stata comun-que indotta a predisporre una modalità consultiva che ha dato modo a tutta la citta-dinanza di esprimersi. Inoltre le conclusioni dell’indagine conoscitiva sulla chimica svoltasi nella XIV Legislatura hanno fatto emergere sia la peculiarità delle piccole e medie imprese del settore chimico in termini di occupazione e di fatturato e la loro importanza per i settori industriali del made in Italy e per i distretti industriali cui forniscono un contributo estremamente significativo in termini di specializzazione, innovatività e capacità di adattamento alle esigenze del cliente, sia come la crescita del settore chimico sia legata alla competitività del sistema Paese. Un problema questo che interessa tutti i settori produttivi ma che ha una particolare incidenza nel com-parto chimico.

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Il programma per Porto Marghera prevede una serie di iniziative di carattere tradizio-nale ed altre innovative. Se un mix può senz’altro essere utile al presente elaborato, non si deve dimenticare che l’orientamento deve essere prevalente verso l’innovazio-ne. In realtà alcune iniziative (come si evidenzia dalle schede specifiche) si possono considerare in tutto o parzialmente nuove per il nostro Paese, ma non lo sono affatto per altri più avanzati di noi.

Porto Marghera – come molte altre aree industriali italiane - sconta una serie di errori che risalgono ancora agli anni ‘70 in occasione delle prime crisi energetiche e delle pesanti ristrutturazioni industriali conseguenti al presentarsi sui mercati mondiali dei Paesi ad economie emergenti che sfruttavano il basso costo del lavoro, l’ampia dispo-nibilità di siti per insediamenti industriali, la ridotta o nulla sensibilità ambientale. Allora si cercò di salvare la nostra industria pesante (come la chimica e la siderurgia, ma anche la cantieristica che ebbe poi una incredibile ripresa legata alla croceristica) con delle logiche che si rivelarono perverse e delle quali tutti portano le loro respon-sabilità:- gli imprenditori puntando alle riduzioni di personale per lo più dal punto di vista stretta-mente numerico, perdendo professionalità spesso preziose, azzerando gli inve-stimenti, riducendo all’osso la manutenzione;- i sindacati difendendo il “posto di lavoro”, laddove quella che doveva essere difesa era l’oc-cupazione;- il Governo con larga concessione di ammortizzatori sociali, ma senza spingere per una politica di sviluppo con iniziative sostitutive (e a quel tempo la mano pubblica era ancora molto presente in campo industriale). La nostra industria pesante fu in parte apparentemente salvata, ma si trovò in molti casi con insediamenti progressivamente sempre più obsoleti e sempre meno competi-tivi, destinati a scomparire, se non sul breve, sul medio periodo1.

Caso da manuale quello di Porto Marghera ove al declino della grande industria non si associò una reale riconversione verso produzioni nuove, di minor impatto ambien-tale, a contenuti tecnici e tecnologici elevati. Le cause furono diverse: - la grande imprenditoria e il grande capitale non erano più interessati ad investire in iniziative industriali, attirati dai guadagni sull’immediato delle operazioni finanziarie e dalla speculazione immobiliare2;

L’emblema di questa situazione è rappresentata dal polo petrolchimico di Porto Mar-ghera dove sono rimaste alcune produzioni strategiche per l’economia e i cui attuali sistemi di produzione sono alla base di tutta la filiera produttiva inserita nel territorio veneto e delle regioni circostanti.La chiusura da parte della Dow rappresenta la conseguenza e la prova della fragilità del sistema produttivo chimico italiano, causata dalle incertezze che continuano a gravare sul suo futuro e che impediscono alle aziende di programmare il futuro e di investire per consolidare il sistema di impianti dell’area di Porto Marghera. L’Accordo di Programma sulla chimica a Porto Marghera dell’ottobre del 1998 con-fermò l’importanza strategica del polo petrolchimico, cui seguirono altri incontri in cui sono stati affrontati i problemi relativi all’accelerazione degli iter sulla membraniz-zazione della produzione del clorosoda e sul bilanciamento del ciclo CVM-PVC.Entrambi i problemi costituiscono un passo in avanti per l’eliminazione totale del rischio di inquinamento da mercurio, la riduzione di movimentazione di sostanze tossiche e miglioramenti ulteriori sulla sicurezza degli impianti. La soluzione di questi problemi consentirebbe una maggiore qualificazione del polo chimico e ne potenzie-rebbe le possibilità di sviluppo in quanto offrirebbe una grande opportunità per even-tuali investitori che usufruirebbero di servizi qualificati in loco, utilities, laboratori di ricerca, risorse umane qualificate ed efficienti strutture distributive.I potenziali investitori andrebbero ad integrare l’attuale sistema di produzione di Por-to Marghera con produzioni di chimica fine, biotecnologie, nanotecnologie e nuovi materiali avviando, di fatto, una rindustrializzazione senza aggredire dal punto di vista ambientale nuovi territori, riducendo il traffico pesante e aumentando la competi-tività di sistema. Implicazioni delle scelte sul futuro di Porto Marghera sono fonda-mentali per il mantenimento e la crescita dell’occupazione, attualmente costituita da personale giovane e specializzato, non facilmente convertibile in attività diverse. Può sembrare contraddittorio, ma porre dei precisi vincoli agli insediamenti indu-striali di Porto Marghera è essenziale per garantire una rinascita anche occupazionale ad un territorio che continua inesorabilmente a perdere occupati da oltre trenta anni. La motivazione è evidente: fosgene, rischio chimico, cvm e inquinamento continuano a caratterizzare negativamente il contesto produttivo, che quindi si mantiene preva-lentemente orientato su produzioni ad elevato impatto ambientale a bassa intensità occupazionale, disincentivando nei fatti le produzioni a più elevato valore aggiunto che potrebbero dare concretezza al processo di riconversione. Insistere nella con-servazione ad ogni costo delle produzioni di masse chimiche, disconoscendo i rischi potenziali che comportano, non fa che ritardare il necessario processo di evoluzione produttiva e il correlato recupero del territorio.

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CoNSIDeraZIoNI PreLIMINarI

1 “Politici e manager senza visione del futuro hanno trasformato l’Italia in una colonia industriale: per recuperare terreno occorre una politica economica orientata verso uno sviluppo ad alta intensità di lavoro e di conoscenza”: Luciano Gallino “La scomparsa dell’Italia Industriale” – Einaudi, 2003. Lo si veda per un quadro generale della situazione italiana

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- i piccoli imprenditori, che in quegli anni avevano creato l’eccezionale sviluppo che aveva dato origine al “fenomeno nord-est” non si sentivano di “rischiare” a Porto Mar-ghera: riconoscevano la presenza di personale con professionalità valide, ma ne teme-vano la forte sindacalizzazione;- il declino della grande impresa con il pratico abbandono di iniziative di sviluppo impedì la formazione sia di un terziario in grado di fornire servizi avanzati (in campo scientifico, tecnico, organizzativo, gestionale, ecc.), così come iniziative di spin off ad essa legate.

A ciò va aggiunta la polemica sui problemi ambientali e sull’inquinamento: la grande industria, pur portando responsabilità talvolta consapevoli, ma spesso inconsapevoli3 fu demonizzata come portatrice di morte: a fronte di accanite polemiche, dimostra-zioni, occupazioni, referendum, il capitale non corse il rischio di investire a fronte di una situazione di totale incertezza4.

Né alcuna spinta al rinnovamento e ad una valida politica è venuta da Venezia, che in quegli anni ha iniziato la deriva verso quella monocultura turistica che - orientata solo all’interesse economico immediato senza una prospettiva volta al domani - rischio di distruggere la struttura socio economica della città, espellendone gli abitanti e tutte le attività che non siano legate al turismo. Spariscono sarti, calzolai, panettieri, artigiani di ogni tipo, mentre palazzi e case, sottratti alla residenzialità, diventano alberghi, pensioni, bed & breakfast. Scrive a questo proposito5 il sociologo Bonomi: “…Venezia fa oggi i conti con la sua identità ultima. Finita l’epoca della Dominante, la città mercantile, svanita nella crisi di Porto Marghera la città industriale, e non più in grado di essere città della rendita per un turismo di élite, Venezia deve prendere atto di essere null’altro che un parco a tema nel circuito globale delle città-mondo vere, false o inventate”. E, più oltre, la “… incapacità di Venezia di essere città-regione per il nord-est tumultuoso” il “delinearsi di una classe di mezzo composta da un mix di soggetti sociali che vedono il turismo come rendita e non come «capitale sociale fatto di utenti», destinato a morire declinando con Venezia”.

E questo turismo non crea certo figure professionali e attività ad alto contento di co-noscenza, se è vero che l’ultima indagine Excelsior di Unioncamere indica come posti

2 Gli anni ’70 e ’80 hanno fatto emergere la domanda se esisteva in Italia un vero capitalismo ed una vera classe imprenditoriale in grado di “intraprendere” senza il sostegno della mano pubblica. Negli Stati Uniti durante la crisi del 1929 fu chiesto a Henry Ford il vecchio cosa avrebbe fatto, la risposta fu “automobili”. All’obiezione “ma per chi, Mr. Ford, con una situazione economica come l’attuale?” “Per dopo, per quando la crisi sarà passata”. Così l’IBM fece tutto il possibile per non licenziare i suoi tecnici di maggior valore, convinta che le “risorse umane” erano essenziali per la ripresa (e allora nessuno le definiva in tal modo, né si era teorizzato sull’ “intangibile” come capitale d’impresa). 3 Probabilmente vi furono lentezze ed incertezze nell’applicare quello che oggi viene definito “principio di precauzione” nella prote-zione da determinati prodotti (ma allora ancora non applicato, anche perché non si disponeva dei mezzi odierni di indagine), ma è altrettanto vero che la pericolosità di determinate sostanze (si vedano ad esempio il cloruro di vinile monomero e l’amianto) furono evidenziate più tardi quando gli studi epidemiologici (che richiedono tempi lunghi) cominciarono ad evidenziare risultati significativi. E’ quello che oggi accade per i telefoni cellulari: non prima di 10-15 anni potremo avere dati sulla loro pericolosità con sufficiente certezza.4 Emblematico il caso della produzione di cloro-soda: si discute oggi sulla sostituzione delle celle a mercurio con quelle a membrana: nei primi anni ’80 la Oronzo De Nora ne effettuava già l’installazione “chiavi in mano”.5 Aldo Bonomi “Il distretto del piacere” – Bollati Boringhieri, 2000.

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di lavoro più richiesti quelli di camerieri e di addetti ai piani.Un paese può puntare sul turismo come principale (o unica) risorsa se vuole uscire dalla situazione di sottosviluppo nel terzo (o quarto mondo) e ha un assoluto bisogno di valuta pregiata. Ma ciò non può valere per la quinta potenza industriale nel mondo (posizione già insidiata dalla Cina e dall’India). Il turismo genera ricchezza e crea occasioni di crescita economica, ma quello che fa problema è un approccio monocul-turale.Concentrandosi solo sullo sviluppo turistico, si rischia di confermare la previsione di Rifkin6 secondo cui si va verso una società divisa tra “una élite cosmopolita di «analisti di simboli» che controllano le tecnologie e le forze di produzione e un crescente numero di lavoratori permanentemente in eccesso con poche speranze e ancor meno prospettive di trovare un’occupazio-ne significativa nella nuova economia globale ad alta tecnologia”, ma con la particolarità di essere spostati sempre più verso la seconda fascia.

6 Jeremy Rifkin “La fine del lavoro” – Baldini & Castoldi , 1995

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Qui si apre un discorso molto ampio che parte da quella mentalità antiscientifica e antiindustriale che sembra essersi sviluppata negli ultimi anni in Italia, con opposi-zione ad ogni iniziativa si voglia intraprendere, avversando scienza e tecnologia, salvo volerne poi sfruttare i vantaggi. Si dice no alle nuove centrali elettriche, siano ad olio combustibile o a carbone, ma si rifiutano anche quelle a biomasse, le idroelettriche, per non parlare del nucleare. Si accetta il metano, ma non si vogliono i rigassificatori, si polemizza anche sull’eolico per l’impatto sul territorio e sugli uccelli migratori, si accettano con difficoltà il solare e il fotovoltaico (per i costi elevati). Si accetta l’energia importata dall’estero (non im-porta come prodotta – nucleare in Francia, carbone nell’ex-Jugoslavia – purché fuori dall’Italia) senza pensare che pochi chilometri non ci salverebbero certo da un fall-out come non ci evitano le piogge acide sul Carso. Non si vuole il passaggio delle linee ad alta tensione per il timore dei campi magnetici prodotti, ma si chiede l’energia elettrica dappertutto (abbondante e possibilmente anche a buon mercato). In caso di black-out ci si scaglia contro produttori e distributori. Si fanno manifestazioni, sit-in, blocchi e altro contro l’installazione di antenne per la telefonia mobile, ma non si rinuncia all’uso del telefono portatile per colloqui di una perfetta inutilità: basta l’involontario ascolto in strada, in treno o altri mezzi pubblici e il disturbo conseguente (civilmente la Virgin che gestisce una serie di tratte ferroviarie in Gran Bretagna ha messo in servizio alcune carrozze schermate nelle quali non si possono ricevere o inviare comunicazioni dai telefoni cellulari). E molti (probabil-mente accaniti avversari delle antenne) rasentano la crisi isterica se si trovano in una zona dove manca il segnale. Ci si scaglia contro il traffico e l’inquinamento conseguente, ma non si rinuncia al-l’uso dissennato dell’auto per muoversi in città magari per qualche centinaio di metri: emissioni gassose, particolato, rumore, sono sempre quelli “degli altri”. Così si è pron-ti ad affermare l’inutilità dei blocchi o delle riduzioni del traffico e ad aspettare l’ora di fine blocco partendo tutti contemporaneamente, intasando le strade e inquinando a più non posso. Simile la situazione nei week-end: in coda per ore per andar a respi-rare l’aria “buona” del mare e della montagna facendo tutto il possibile per arrivare con la macchina fin sulla battigia o nel paesino o nel prato.Si chiedono treni puntuali e veloci ma non si accetta la realizzazione di nuove linee ad alta velocità che da un lato liberano quelle esistenti per il traffico sulle brevi distanze e per trasferire su rotaia il trasporto merci, dall’altro ridurrebbero il traffico aereo cosiddetto regionale: su tratte sino ai 600-700 km il treno è assolutamente competitivo con consumi e inquinamento enormemente minori. In Francia nessuno va in auto (e meno che meno in aereo) da Parigi a Lilla (205 km.) quando il TGV ti ci porta in 59 minuti o da Parigi a Marsiglia (oltre 600 km in tre ore, con previsione di una sensibile riduzione: sono in corso prove per portare la velocità di esercizio da 300 a 350-360

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SCIeNZa e teCNoLogIa VISte CoMe NeMIChe

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Venezia e la Rivoluzione IndustrialeLa posizione e la storia di Venezia legate alla sua specificità si sono riflesse sulla sua vocazione (e posizione) economica. Come fa notare il sociologo Bonomi:“Da sempre il ruolo economico di Venezia è collegato al suo essere una “porta” aperta sul mare; fin da quando, nel basso medioevo, divenne uno dei poli trainanti del processo di urbanizzazione europeo, capitalizzando la propria posizione di scambio sulla rotta delle merci che provenivano da oriente. A lungo questa vocazione relazionale si fondò sul ruolo del porto e dei suoi commerci; in questo senso Venezia è sempre stata “città degli scambi”, senza mai esercitare un vero ruolo di “città di potere” nei confronti del suo retroterra”. 9

Scomparsa la potenza politica della Serenissima con le occupazioni napoleoniche ed austriache tra la fine del XVII e il XIX secolo e poi con l’annessione al Regno d’Ita-lia nel 1866, Venezia fu confinata ai margini della rivoluzione industriale dell’800. Il dominio austriaco la trascurò, pur avendo realizzato il collegamento colla terraferma grazie al ponte translagunare e alla linea ferroviaria per Milano (la “Ferdinandea”, 1836-1857): “Già dal 1846 Venezia era raggiungibile col treno: l’11 gennaio di quell’anno, infatti, venne inaugurato il ponte ferroviario translagunare, lungo 3600 metri, che, su progetto originario di Tommaso Medusa, era stato iniziato cinque anni prima con il proposito di allacciare la città alla terraferma” 10.La dominazione asburgica non portò però all’insediamento di banche per finanziare uno sviluppo produttivo e privilegiò come porto quello di Trieste. Se Venezia rappre-sentava una meta ambita e gratificante per i funzionari dell’amministrazione o gli ufficiali della guarnigione austriaca (si pensi alla splendida descrizione che ne ha dato Visconti in Senso), per il popolo le condizioni di vita erano difficili: paghe misere, an-che per la concorrenza degli operai migrati dalla terraferma (la solita lotta tra poveri) e alloggi insalubri e fatiscenti (in particolare a Castello e Dorsoduro).Un certo sviluppo infrastrutturale prese forma nella seconda metà del secolo: dalla costruzione dell’Azienda del gas, a quella dell’acquedotto, alla prima centrale termoe-lettrica (vicino a San Marco!), al Macello, all’introduzione dei primi vaporetti in servi-zio pubblico (con una grossa contestazione dei gondolieri all’innovazione - il mondo non cambia mai! - duramente repressa dalla Guardia Regia), allo sviluppo del Porto. Se la produzione vetraria era stata trasferita a Murano per il pericolo di incendio e per allontanare i fumi grazie alla favorevole direzione dei venti, già dal 1292 (una sensibi-lità ambientale ante litteram), un certo numero di insediamenti industriali esistevano

9 Aldo Bonomie e al., La dominante e la città-regione del Nord-Est, Grande Re-Tour Venezia, 2006, pag. 4410 Maurizio Reberschack, L’economia , in E. Franzina (a cura di), Venezia, Roma-Bari 1996

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aSCeSa e DeCLINo DI Porto Margherakm/ora) o da Parigi a Strasburgo (301 km dove si corre già a 320 km/ora nella prima fase di esercizio in attesa di passare ai 350). In Svizzera entro il 2007 è stata terminata la seconda canna del traforo del Lotschberg, opera dal costo impressionante anche per le ricche casse della Federazione, ma approvata da un referendum popolare, che in esercizio regolare sarà in grado di fermare il traffico dei TIR (e di rovesciare 300 treni giorno sulla nostra linea del Sempione in grado di riceverne poco più della metà). Si rifiutano discariche, inceneritori e termovalorizzatori per lo smaltimento dei rifiuti urbani od industriali, ma si collabora con fatica e fastidio alla raccolta differenziata e al riciclaggio. Ci si oppone acriticamente a nuovi insediamenti produttivi, senza conoscerne la natura e le caratteristiche in base all’assioma che saranno certamente inquinanti. La lista potrebbe continuare a lungo e ciascuno può trovare esempi significativi: ma dove sta la causa di tutto ciò?Perchè non si è in grado di valutare obbiettivamente una iniziativa in termini di costi e benefici, tenendo conto che ogni beneficio ha un costo che deve essere ridotto al minimo, ma non può essere annullato?Fenomeno questo che deriva da una insufficiente (quando non nulla) preparazione in campo scientifico (matematica, fisica, tecnologia, ecc.), campo per il quale i nostri giovani sentono pochissimo (o nullo ) appeal, sia perché spesso insegnato male, falsato da preconcetti, da posizioni ideologiche aprioristicamente contrarie, quando non da autentici fanatismi.L’immagine negativa della scienza e della razionalità data anche da vari intellettuali, politici, giornalisti (non solo tra i conservatori, ma anche tra certi progressisti o de-finentisi tali), oltre che da esponenti della Chiesa cattolica7, ha generato una serie di timori (sino proprio al terrore) verso i supposti pericoli derivanti dallo sviluppo e dall’applicazione delle conoscenze scientifiche, coagulando su di essi la convinzio-ne popolare, sino a meritarci l’ormai lontana (ma purtroppo ancora reale, se non accentuata) definizione data da Toraldo di Francia nel 1973 di “Paese in via di sotto-sviluppo” 8.

7 Nell’ultima omelia da cardinale, l’attuale Papa Benedetto XVI si è pronunciato su “patologie distruttive della ragione” che vanno dal nucleare alla genetica. 8 Toraldo di Francia G. e al. “Scienza e potere”, Feltrinelli, Milano, 1975

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base” 11.

Singolare appare questa nascita in un periodo (l’immediato primo dopoguerra) di grave crisi economica internazionale, cosa però solo apparente in quanto appunto l’area scelta costituiva (e lo fu per decenni) :Una zona industriale costiera nella quale l’attracco della nave alla banchina di uno stabilimento e il successivo sbarco della materia prima in autonomia funzionale costituiscono le prime fasi distinguibili del processo produttivo che si svolge in quello stabilimento. Con questa caratteristica essa si è sempre proposta ovviamente come ubicazione ottimale per lavorazioni di base 12.La seconda guerra mondiale toccò duramente anche Porto Marghera nei suoi im-pianti produttivi sia con i bombardamenti alleati, sia con i danneggiamenti da parte dei tedeschi in ritirata, mentre furono in gran parte risparmiati gli insediamenti in-dustriali allora esistenti a Murano, alla Giudecca e nella stessa Venezia, che poterono continuare a lavorare. Il ripristino degli impianti di Porto Marghera fu molto rapido e dopo pochi mesi una significativa parte degli impianti esistenti fu messa in grado di ripartire, sia pure con sensibili difficoltà dovute alla disastrosa situazione dei sistemi stradale, ferroviario e portuale, alla mancanza di materie prime, alla carestia di com-bustibile e di energia elettrica, alla pratica impossibilità di scambi con l’estero. Forti furono anche le tensioni sociali per la difficoltà di mantenere i livelli occupazionali (che erano stati “gonfiati” dall’economia di guerra) e per la crisi della lira con una inflazione in rapidissimo aumento che faceva aumentare le richieste salariali. Pur es-sendosi cercato di bloccare i licenziamenti, la disoccupazione cresceva anche per il ritorno a casa dei soldati smobilitati. Il minimo di occupazione fu toccato nel biennio 1950-51, periodo in cui si può collocare la fine della fase postbellica con una ripresa dell’espansione produttiva. Sino allora la produzione ripristinata si limitava pratica-mente ad una chimica di base (acido solforico, nitrico, fertilizzati azotati) e ai settore petrolifero (raffinazione, cracking) e siderurgico (alluminio).

Il Secondo DopoguerraIl grande sviluppo di Porto Marghera si ebbe solo a partire dalla prima metà degli anni ’50: fu l’allora Edison che si trovò a dover investire la enorme liquidità derivatagli dal-la nazionalizzazione dell’industria elettrica: l’industria chimica si trovava in una fase di grande espansione, le nuove sostanze polimeriche conquistavano i mercati, nacque così l’attività petrolchimica in quella che fu chiamata la “seconda zona industriale”: le produzioni di Porto Marghera videro la netta prevalenza della chimica, in quanto alle originarie attività Montecatini si associarono quelle nuove della Edison.

L’iniziativa portò lavoro e benessere, ma, come osserva Kramer Badoni 13:

11 Gabriele Zanetto, Mariana Zago, Stefano Soriani, Dalle ciminiere all’high tech, Paper di ricerca12 Porto Marghera proposte per un futuro possibile : la ricerca e il convegno, a cura del Co.S.E.S. e del Comune di Venezia – Milano, 199013 Thomas Kramer Badoni: Vivere a Venezia – Canova editore, 2005

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alla Giudecca e nelle aree marginali come Castello e Santa Marta. Tra i più significativi della fine ‘800: la Fonderia e Costruzione Macchine E.G. Neville (400 dipendenti); la Manifattura Tabacchi oltre 1.700 di cui più di 1.500 donne); il Cotonificio Veneziano (più di 900 di cui quasi 700 donne ed oltre 50 bambini); la “SAFFA” fabbrica fiammi-feri (con 750 lavoratori); la Arturo Junghans fabbrica orologi; il Mulino e Fabbrica Pasta G. Stucky, la “Società Veneta per Imprese e Costruzioni Pubbliche” cantiere che costruiva, oltre alle imbarcazioni, anche ponti e vagoni; più vari cantieri di piccole e medie dimensioni.Tra fine ‘800 e inizio ‘900 la diffusione del processo di industrializzazione toccò anche l’Italia ed in particolare il nord (pur con un gap di almeno mezzo secolo rispetto ad Inghilterra, Francia e Germania) e il problema interessò anche Venezia.Il porto, la cui inaugurazione risaliva al 1880 e che a inizio ‘900 aveva toccato il massi-mo livello di traffico, mostrava ormai le sue deficienze strutturali a fronte del continuo incremento degli scambi sia su rotaia che su gomma e le attività produttive veneziane cominciavano ad evidenziare segnali di crisi per l’insufficienza dei collegamenti. Nac-quero così i primi progetti di ampliamento della città, che individuavano nell’isola della Giudecca il luogo ove far nascere il nuovo porto e la nuova zona industriale. Tale scelta, detta “neo-insulare” avrebbe però riproposto - se non sull’immediato, dopo un certo periodo - i problemi logistici dell’isolamento veneziano e gli abitanti ne avreb-bero avuto solo un limitato vantaggio. Si formarono due schieramenti contrapposti: modernizzatori e conservatori: i primi volevano industrializzare Venezia, i secondi mantenerla intatta, legata alla sua storia gloriosa. Se la nascita della prima Biennale d’Arte (1895) vide tutti d’accordo, sul resto le posizioni rimanevano tra loro inconciliabili. Ma la mancanza di aree suffi-cientemente estese e i problemi dei trasporti misero alla fine d’accordo le due fazioni sull’idea di costruire sulla terraferma un nuovo porto, una zona industriale ed un quartiere urbano.

La Nascita di Porto MargheraNel 1902 la Gazzetta di Venezia presentava - a nome di Luciano Petit, capitano maritti-mo - il progetto di un insediamento portuale nella gronda nord della laguna in locali-tà Bottenighi, su terreni di basso costo, che avrebbe consentito a Venezia di proiettarsi verso la terraferma offrendo possibilità di sviluppo e di lavoro: la prime approvazioni si ebbero in Consiglio Comunale nel 1904 e da parte del Consiglio Superiore dei La-vori Pubblici nel 1908. Nel 1913 venne terminato lo scavo del canale di grande navigazione che congiungeva il Canale della Giudecca con Marghera, ma l’effettiva nascita di Porto Marghera può collocarsi nel 1917, in piena guerra mondiale, con l’accorpamento nel Comune di Venezia di quelli di Mestre, Zelarino, Favaro Veneto, Malcontenta e successivamente anche di quelli insulari di Pellestrina, Murano e Burano. La materiale realizzazione del Porto e della Zona Industriale iniziò nel ’20 promossa dall’imprenditore Giuseppe Volpi e dal sindaco Filippo Grimani: nacque la prima Zona Industriale che 1928 vedeva già 58 industrie insediate venendo a rappresentare il “primo progetto di pianificazione statale di un’area destinata ad accogliere l’industria di

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a Milano, Torino e Roma, ma anche a Genova, Bologna e Firenze;- altrettanto debole è la presenza di attività finanziarie, della sanità e dei servizi sociali (anche se queste ultime due superiori a Milano);un terziario quindi, quello veneziano sbilanciato verso il turismo (alberghi e ristoran-ti), il settore immobiliare e le professioni tradizionali, fattore che ha accentuato il già citato scollamento di Porto Marghera da Venezia.

Le Aree Metropolitane del FuturoTutte le metropoli in questi ultimi decenni sono passate da un’economia basata sulla produzione industriale ad una serie di attività di servizi alla produzione ed al consu-mo, articolati in caratteristiche diverse ed a livelli più o meno accentuati secondo le situazioni specifiche. I differenti “terziari” si possono suddividere in:- “tradizionali”, ossia orientati ai servizi commerciali ed ai servizi pubblici;- legati alla finanza, alle assicurazioni ed al mercato immobiliare;- di servizi qualificati rivolti alla produzione (attività professionali, di comunicazione, di Information & Communication Technology–ICT, di design, di engineering, di for-mazione, ecc.);- di servizi di bassa qualificazione (pulizia, ristorazione collettiva, trasporto/facchinag-gio, sorveglianza, piccola logistica, ecc.);- di servizi culturali collegati all’entertainment e al tempo libero.

Pur non scomparendo, la manifattura si è qualificata, diventando “intelligente” ossia incorporando funzioni immateriali e decentrandosi in subforniture a vari livelli di qualificazione. I territori metropolitani si caratterizzano così per la loro capacità di produrre e accumulare conoscenza e di utilizzarla: ciò non sta avvenendo per Venezia ove le attività terziarie evidenziano per lo più livelli di bassa qualificazione. Si pensi sol-tanto ai servizi di ristorazione orientati per larga parte al turismo “mordi e fuggi” (ove non importa scontentare il cliente, tanto ci sono un miliardo e 250 milioni di cinesi ed un miliardo e 100 milioni di indiani il cui reddito aumenta velocemente e che si calcola verranno a Venezia almeno per una volta); ai trasporti (in particolare acquei) basati su un afflusso di beni di consumo spicciolo (e non di trasformazione) soprattut-to alimentari e sul va e vieni delle forniture alberghiere (in particolare da e verso le lavanderie del Mirese); ai servizi di pulizia (in alberghi, pensioni, bed & breakfast) e facchinaggio (valige, rifornimenti).Con la conseguenza – come indicano i dati della CCIAA veneziana – che nell’ultimo decennio l’incidenza delle attività terziarie indirizzate al sistema produttivo (attività professionali, ricerca e sviluppo, informatica, ecc.) in Venezia non ha rivelato alcun in-cremento rispetto al totale regionale non evidenziando alcuna leadership nel campo dei servizi immateriali. Siamo ben lontani da quella prospettiva di divenire “polo del-l’immateriale” al servizio della base produttiva del nord-est che avevano prospettato

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14 V. nota 1 pag. 15

“Porto Marghera non fu mai un’attività veneziana, né un mercato del lavoro veneziano…la mano d’opera si compose di persone provenienti dalle campagne circostanti e dalla migrazione interna italiana. La nascita e lo sviluppo di Porto Marghera aggirò Venezia ed una integrazione tra città e terraferma non riuscì mai. La società industriale non creò una Venezia industriale bensì un nuovo comprensorio industriale accanto a Venezia. Per quanto ciò abbia contribuito a conservare Venezia, ha avuto sullo sviluppo della città due conseguenze estreme: per la pericolosi-tà dei prodotti….è un luogo rischioso per chi vi opera, per la laguna e la stessa Venezia…inoltre col trasferimento della produzione industriale dalla Venezia insulare alla terraferma si è allon-tanato l’effetto dirompente dell’industria , ma si sono aperte le porte ad un fenomeno altrettanto pericoloso per la città e cioè la monocultura turistica”. Negli anni ’60 e ’70 Porto Marghera giunse a costituire uno dei maggiori esempi di concentrazione industriale in Italia (e non solo), su cui gravitò pressoché tutto il sistema economico del Nord-Est. Concentrazione cui mancava - diversamente dagli anni ’20 - la guida di una classe imprenditoriale autoctona: il capitale principale era o milanese o proveniva dalla partecipazioni statali: probabilmente una delle cause di quello scollamento osservato dal Badoni.

La Crisi e il DeclinoDai primi anni ’70 però il “modello” Porto Marghera comincia ad entrare in crisi: il costo crescente delle materie prime (petrolio in primis), il progressivo disimpegno del capitale pubblico, i problemi ambientali (sia dal punto di vista dell’inquinamento, sia della compromissione dell’ambiente naturale lagunare dovuto agli insediamenti produttivi (con il progetto, mai realizzato, di una terza zona industriale), avviano una fase di declino dell’area con chiusura di impianti e riduzione dell’occupazione. Nel contempo si evidenzia un fenomeno nuovo rappresentato dallo sviluppo della piccola impresa con la costituzione dei “distretti” produttivi e la nascita del cosiddetto “fenomeno Nord-Est”. La geografia industriale della Regione cambia completamente: scompare progressivamente l’attrazione del polo Porto Marghera, anzi la terraferma veneziana guarda sempre più verso il Veneto (e ne risente anche Venezia la cui in-fluenza perde sempre più di peso). Unico fattore positivo quello occupazionale: il calo di addetti di Marghera viene compensato dall’offerta di lavoro della piccola e media impresa per cui (diversamente dai casi drammatici di Milano e Torino ove gli addetti all’industria nel trentennio 1971-2001 si riducono del 40%) la provincia veneziana mantiene i suoi livelli occupazionali nel settore solo con un modesto calo (- 3,7%). Contribuiscono all’occupazione nel comparto industriale ancora la chimica (pur fortemente ridotta e con un futuro molto incerto); la cantieristica delle grandi navi (Fincantieri) ma anche della nautica minore; il ciclo e motociclo (l’Aprilia oggi nel gruppo Piaggio); i settori metalmeccanico ed elettrico-elettronico e la pesca-ac-quacoltura del chioggiotto.

Il settore dei servizi si è sviluppato a livello provinciale sino a valori globali non dissi-mili da quelli di Padova e Verona, ma con delle caratteristiche particolari: - le attività dei servizi alle imprese si sono spostate verso la terraferma e si sono inde-bolite in Venezia città e Comune con una presenza molto inferiore rispetto non solo

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L’area industriale di Porto Marghera si estende a circa 5 km a Nord Ovest del centro storico di Venezia ed è delimitata dalle aree urbane di Mestre a nord, Marghera ad ovest e Malcontenta a sud.Il polo industriale occupa un fronte di circa 6 km della gronda lagunare nella laguna centrale di Venezia, fra S. Giuliano e Fusina. E si estende mediamente per circa 4 km all’interno. Occupa un’area di circa 2.000 ha di territorio comprendente terre emerse e canali d’accesso.Dall’analisi della struttura del Polo industriale emergono, essenzialmente, quattro componenti: una corona periferica urbana che si estende da Nord-Est a Nord-Ovest apparentemente estranea alle vicende del polo; una fascia urbana più ristretta a ridos-so del polo stesso dove, al contrario della precedente, gli effetti ambientali e sociali hanno un notevole impatto negativo; la fascia degli insediamenti produttivi compresa tra via dell’Elettricità e via dell’Industria che rappresenta l’elemento di contatto fra Porto Marghera e la città di Mestre – Marghera; l’area centrale del polo industriale che non ha contatto diretto con la città.Il contesto ambientale, nel quale si colloca il polo industriale di Porto Marghera, è quello della Laguna di Venezia, ecosistema unico nel suo genere e una delle più pre-ziose ed estese aree umide d’acqua salata e salmastre d’Europa.Questa zona di transizione tra terra e mare ha subito, nel corso del tempo, notevoli trasformazioni per opera della natura e dell’uomo. Alle opere idrauliche realizzate dalla Serenissima per evitare l’interramento della laguna ad opera dei fiumi che vi sfociavano è seguita la realizzazione del polo industriale di Porto Marghera con con-seguente modificazione del paesaggio circostante.Marghera, infatti, è nata rubando spazio alla laguna, come testimoniano le origini del suo nome “mar ghe gera” (c’era il mare); laddove si estendevano velme e barene, sfogo dello scambio d’acqua tra mare e laguna, l’azione dell’uomo ha portato all’imboni-mento, con terra e rifiuti industriali, per la realizzazione delle banchine portuali e degli impianti chimici e siderurgici.Alla luce di queste considerazioni che ci mettono di fronte ad una situazione terri-toriale piuttosto difficile da gestire, in quanto già pesantemente compromessa, col-pisce il fatto che nelle linee strategiche della Provincia di Venezia non si faccia mai riferimento alle implicazioni ed alle conseguenze, dal punto di vista ambientale, dei progetti proposti. Le tipologie progettuali confliggono, in particolare, con la volontà di “porre le basi per uno sviluppo sostenibile”.Se sviluppo sostenibile deve esserci la sostenibilità andrà valutata prioritariamente dal punto di vista ambientale e, quindi, la definizione di nuovi progetti e nuove attività dovrà necessariamente prevedere un’attenta e approfondita analisi delle caratteristi-che ambientali e territoriali dell’area (o delle aree) dove tali attività andranno ad insediarsi.

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L’INDUStrIa.. DoVe C’era IL Mareper Venezia ormai alcuni anni fa Edward Luttwak e Giuseppe De Rita.

Le PossibilitàQuali le possibilità che possono ancora rimanere a Venezia per proporsi con successo ad una posizione leader nel Veneto, evitandone l’isolamento e “recuperando” una funzione a Porto Marghera altrimenti trascinata dal declino della città capoluogo?Queste possono comprendere:- il ri-proporsi quale crocevia delle grandi linee di comunicazione (che altro non è che la sua vocazione antica) sfruttando il vantaggio della multimodalità e ciò per i traffici sia nord-sud (Medio Oriente - Nord Africa - Europa), sia est-ovest (europa occidentale - orientale, in funzione dei recenti e dei previsti allargamenti dell’Unione Europea). Se il traffico di container del porto veneziano è un undicesimo di quello di Gioia Tau-ro, un nono di quello di Algeriras, un settimo di quello di Valencia e non molto più di un quinto di quello di Barcellona, di Genova e del Pireo, rappresenta comunque il valore più elevato fra i porti dell’Adriatico ed è superiore a Ravenna, Trieste e Capo-distria. Inoltre un moderno sistema portuale incorpora molte funzioni sia produttive (imballaggio ed assemblaggio di semilavorati e componenti), sia immateriali (broke-raggio, servizi assicurativi e legali, intermediazione); - lo sviluppare servizi ad alto valore aggiunto in una logica di “knowledge economy” a so-stegno della struttura industriale del nord-est grazie all’apporto del Parco Scientifico e Tecnologico Vega e delle Università (Cà Foscari e IUAV), in quella prospettiva reale di “polo dell’immateriale” (rimasta sinora a livello di dissertazione);- un utilizzo razionale del suo patrimonio storico-culturale “a patto di sottrarlo alle logiche di rendita che attualmente rappresentano l’espressione principale del settore turistico lagunare” 14 come base per lo sviluppo di una “creative economy” quale polo di riferimento di pro-duzioni culturali e creative (editoria, grafica, pubblicità, nuovi media) e non soltanto (come oggi) nella produzione di “eventi” senza che essi sviluppino la fase definibile come “industrial-produttiva” che porta alla loro realizzazione. Solo proponendosi in posizione attiva Venezia potrà ricucire la frattura che oggi la sta progressivamente separando dal territorio competitivo del nord-est e che rischia di coinvolgere in questa separazione anche Porto Marghera che guarderà per il suo futuro sempre più verso la terraferma. Se la città saprà attivare un processo di coordi-namento, uscendo dell’enclavement di “città vetrina” a cui un approccio monoculturale al turismo la sta condannando e investendo sulle potenzalità di nuovi orizzonti econo-mici, potrà rilanciarsi in un ruolo economico trainante di cui anche la “nuova” Porto Marghera potrà rappresentare un elemento costitutivo essenziale.

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Le linee strategiche in fase di definizione a livello provinciale restituiscono, senza dub-bio, un atto di buona volontà nell’ormai annoso tentativo di dare avvio alla rinascita di Porto Marghera. Tuttavia emerge qualche perplessità in ordine ad alcune carenze rilevate. Se in generale viene confermata in più punti la necessità che tutti gli inter-venti debbano rientrare in un progetto unitario, basato su di un’unica idea-guida, ciò non risulta nelle proposte operative, come pure non emerge un quadro complessivo relativo alla disponibilità delle aree.Anche la VPRG non ci lascia tranquilli. La conferma che essa prevede per Porto Mar-ghera una destinazione d’uso produttiva, a nostro avviso, non è sufficiente. Infatti non si tiene nel debito conto il problema della polverizzazione delle aree e del loro continuo cambio di proprietà. Questi fatti inducono a pensare che siano in atto atti-vità di tipo speculativo che potrebbero determinare la decadenza delle opportunità e dei vantaggi in termini di infrastrutture, di cultura industriale e di professionalità altrimenti presenti in fase di rilancio.

Rispetto al grande tema del disinquinamento, vorremmo iniziare con il chiarire che il termine “bonifica” non può adattarsi al caso di Porto Marghera, perché bonificare un sito significa riportarlo nella condizione in cui si trovava prima dell’inquinamento. E nel nostro caso, considerati i volumi in gioco, ciò è assolutamente improponibile. È più opportuno parlare di interventi di “messa in sicurezza” più o meno spinti, a secon-da del rischio che, comunque, si intende accettare.Diverso discorso riguarda le falde. Fortissimo e variegato è l’inquinamento che inte-ressa le acque che intridono i materiali di riporto e il primo livello di terreno in posto (mediamente i primi tre – cinque metri a partire dalla superficie di calpestio), mentre si riduce notevolmente nelle acque presenti nel primo vero acquifero confinato. Que-st’ultimo si rinviene al di sotto del “caranto” e si spinge fino ad una profondità di una ventina di metri. Il suo “aquiclude” basale, presentando caratteristiche di permeabili-tà, spessore e continuità areale migliori del “caranto”, ha preservato quasi totalmen-te dall’inquinamento i bacini acquiferi più profondi. Dunque la portata delle falde inquinate, il cui bacino di alimentazione ha un’ampiezza modesta, è molto piccola, per cui si riducono i problemi della loro intercettazione e del convogliamento verso opportuni impianti di depurazione. E poiché la direzione del flusso di tutte le acque di falda è, ovviamente, diretta verso la laguna, è stata quanto mai opportuna la scelta fatta di diaframmare la fronte lagunare di Porto Marghera piuttosto che isolare le singole fonti dell’inquinamento.

Per quanto concerne i canali di navigazione, se si vuole, almeno, mantenere la fun-zionalità della portualità veneziana preservandola dalla concorrenza dei porti dell’al-tra sponda adriatica, anche nella prospettiva delle costituende “autostrade del mare”,

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aCQUa e terra: aLLa rICerCaDI UN NUoVo eQUILIBrIo

Queste valutazioni prescindono la redazione di specifici documenti che, qualora si proceda effettivamente alla realizzazione dei progetti proposti, andranno redatti se-condo le normative vigenti (VIA, VAS, VINCA) ma dovrebbero costituire una fase di analisi preliminare che porti alla valutazione delle conseguenze, in campo ambienta-le, derivanti dalla realizzazione dei suddetti progetti.Si ritiene, pertanto, che un progetto di sviluppo per Porto Marghera debba essere pre-ceduto o, quantomeno, affiancato da un approfondito studio ambientale, realizzato da un pool di professionisti operanti in campo ambientale che, oltre ad inquadrare territorialmente gli interventi, dia garanzie di sicurezza e sostenibilità ambientale alla popolazione che, a diversi livelli, verrà, comunque, interessata e coinvolta dalla rea-lizzazione del programma; una strategia di questo tipo potrebbe anche facilitare la successiva realizzazione degli interventi proposti evitando delle opposizioni, da parte dei cittadini, dovute alla diffidenza generata da una carente o, come in questo caso, assente informazione dei rischi e delle implicazioni ambientali.

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Allo stato attuale risulta particolarmente difficile una lettura unitaria delle strategie indicate da istituzioni e decisori politici. Infatti non risulta leggibile l’inserimento di possibili interventi specifici in un Master Plan né sono state definite da un cronopro-gramma frutto dell’insieme degli interventi monitorati.Come si confà per la programmazione, in fase esecutiva, di un progetto e atto dovu-to è necessario ricavarne la sostenibilità attraverso un cronoprogramma che elenchi dismissioni e ampliamenti, organizzazione territoriale, cambi di destinazioni d’uso in atto e in divenire. Ma soprattutto una rete viaria che ne sostenga l’investimento in tempi di accesso e di uscita e che tenga conto dello stato dell’arte viaria contermine. Le criticità viarie che si possono trasmettere, dalla lettura degli atti, vengono dalla considerazione che a monte non sia stato previsto un adeguato rafforzamento e una adeguata razionalizzazione dei flussi in ingresso e in uscita. Tutto ciò con una pro-grammazione di interventi infrastrutturali e viari ad integrazione e miglioramento. Con ogni possibile attuazione della mutazione dello stato attuale.

Assistiamo quotidianamente alla preoccupante emergenza, specie nelle ore di punta, che produce chilometri di code: dalla Statale Romea alla Riviera del Brenta, dalla ca-mionabile proveniente da Borbiago alla viabilità interna di Fusina. Tutti questi flussi si riversano nella direzione di Marghera, aggravati dal tappo prodotto dalla rotonda di Villabona, anche per la provenienza dalla autostrada A4, nella direzione Tessera – Campalto. Tutto ciò in conseguenza all’ impraticabilità del passante nella direzione Mestre-Trieste.Si suppone che il passante possa migliorare tale situazione, liberando solamente il traffico di attraversamento della città, mentre permane quello quotidiano dei lavora-tori in ingresso a Mestre e in uscita dalla città. Problema che si interfaccia altresì con quello dei mezzi pesanti entranti e uscenti da Mestre.Intasare con altre destinazioni d’uso l’interno dell’area Industriale di Marghera – la cosiddetta “Autostrada del Mare” per esempio - con circa 1.200 mezzi pesanti in ac-cesso e uscita, creerebbe forte preoccupazione in aggiunta a quanto sopra descritto, e quotidianamente presente.Pertanto in una simile situazione, tragica e quotidiana, esaminare un progetto che non definisca in primis la risoluzione di questi percorsi con proposte alternative immediate e non certo solo programmate, ancorché in maniera empirica e non preventivamente anticipate da intese o da conferenze di servizio, è sicuramente non accettabile.

Se pensiamo poi ai tempi di realizzazione delle infrastrutture nel nostro hinterland e nelle competenze specificatamente in capo a Stato, Regione, Provincia, Comune e Porto, ognuna portatrice sana di competenze referenziate, una evidente preoccupa-zione si crea nel non vederne già da ora una partenza preliminare. Con un dialogo

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CrItICItÀ VIarIe e SoSteNIBILItÀ DI aCCeSSIe traSFerIMeNtI NeLLa ZoNa INDUStrIaLe

diviene fondamentale e urgente l’escavo dei fondali a quote che consentano quanto meno il passaggio di navi di medio tonnellaggio. Lasciano perplessi, invece, alcuni aspetti dei progetti già approvati per la collocazione dei fanghi di risulta delle escavazioni. La quantità dei fanghi è indicata pari a circa 3 milioni di metri cubi, classificati in tre categorie, “A”, “B” e “C” (dai meno inquinati ai più inquinati), sulla base dei limiti di concentrazione stabiliti dalla Legge 360/91. E poiché non è ammesso il loro stoccaggio al di fuori dell’area lagunare, si prevede la collocazione all’Isola delle Tresse, nel Vallone dei Moranzani e nella Cassa di Colmata A per quelli delle categorie “A” e “B” , mentre quelli di categoria “C” sono destinati ad un impianto di inertizzazione.Alcuni appunti. L’attuale dimensione dell’Isola delle Tresse non consente un ulterio-re accumulo di fanghi, per cui è previsto il suo raddoppio con un rialzo fino a quota +9,50 m sul livello del mare, in maniera tale da preludere ad una futura parziale ar-ginatura del Canale dei Petroli, con conseguente ulteriore alterazione dei flussi di marea.Del complesso progetto inerente il Vallone dei Moranzani, mentre sono ampiamente condivisibili lo spostamento della San Marco Petroli - per separare i flussi veicola-ri civili e industriali e togliere dall’isolamento Malcontenta – e l’interramento dei quattro grandi elettrodotti, non convince la sistemazione di una parte dei fanghi al di sopra del sarcofago di calcestruzzo destinato a ricoprire le vecchie discariche di rifiuti industriali. Oltre a ciò è prevista la creazione di un parco fino a raggiungere la ragguardevole quota di +11,50 m sul livello del mare. Fra le giustificazioni addotte per questi interventi, vi è quella di creare una barriera visiva fra il pregevole paesaggio del lungo Naviglio e quello meno poetico degli impianti industriali. Ma, a tale propo-sito, occorre ricordare che l’area occupata dalle vecchie discariche lungo il vallone si ferma circa all’altezza dell’ingresso dello stabilimento Alcoa e l’intervento lascerebbe pertanto inalterato il paesaggio per un tratto ben più lungo sino a Fusina, pur contri-buendo molto parzialmente alla soluzione del problema della collocazione dei fanghi dei canali industriali.Senz’altro più convincente è l’utilizzo della Cassa di Colmata A, dove è prevista la realizzazione di un impianto di fitodepurazione delle acque reflue del depuratore di Fusina e dove, previo escavo dei terreni superficiali fino ad una profondità di circa 3,5 m, è prevista la collocazione di una parte dei fanghi appartenenti alle classi “A” e “B”. Non si comprende allora perché quest’ultima soluzione non possa riguardare la totalità dei fanghi, vista la dimensione della cassa di colmata in grado di contenere tutti i tre milioni di metri cubi.Confidiamo nell’attenzione che gli organismi preposti alla programmazione di inter-venti così complessi vorranno porre a queste considerazioni.

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I progetti e le proposte avanzate ad oggi dal mondo istituzionale per il rilancio del-l’area portuale e industriale di Porto Marghera sono sostanzialmente condivisibili. Tuttavia crediamo che qualsiasi intervento debba prescindere dalla preventiva messa in sicurezza dei siti dall’inquinamento presente. In particolare si dovranno determinare in maniera univoca il quadro conoscitivo am-bientale dell’area, la tipologia di interventi e il risanamento con le migliori tecnologie disponibili. Il tutto con l’obiettivo di mantenere le produzioni industriali e avviarne di nuove, di favorire gli interventi per il riutilizzo del suolo, di utilizzare le intelligenze rese libere dalle produzioni dismesse. Saranno poi da determinare le modalità orga-nizzative e la soluzione per lo stoccaggio, il trattamento e lo smaltimento dei materiali che dovranno essere sottoposti a bonifica.Una volta avviata la “bonifica” si potranno prevedere nuovi insediamenti siano essi di carattere industriale, commerciale, logistico, residenziale, terziario avanzato e per il tempo libero. Per il rilancio del sito industriale, in modo particolare, pensiamo sia necessario indicare in via prioritaria il consolidamento e lo sviluppo delle attività esi-stenti che non determinano un impatto ambientale negativo con il territorio. Anche grazie agli opportuni investimenti che dotino gli impianti stessi delle tecnolo-gie più avanzate, prevedendo sistemi di sicurezza ridondanti e processi, come gli at-tuali, a circuito chiuso, in modo che nessuna sostanza possa contaminare o interagire con l’esterno. Fra le attività che riteniamo possano essere consolidate e sviluppate ne suggeriamo al-cune: la produzione di energia minimizzandone ulteriormente le emissioni; la cantie-ristica navale e quella diportistica; le fibre tessili, con sviluppo ad elevata tecnologia - le fibre ignifughe e le fibre di carbonio – l’alluminio, sviluppandone i semi lavorati e la produzione di leghe speciali; la chimica, attraverso l’applicazione dell’Accordo (sosti-tuzione celle a mercurio con quelle a membrana per il ciclo del cloro e bilanciamento della produzione CVM/PVC). E ancora l’attività petrolifera, con completamento del-la riconversione tecnologica della raffineria e quella portuale. Quest’ultima deve però prevedere la riorganizzazione e lo sviluppo del porto con adeguamento della logistica, un maggior ausilio delle vie telematiche e di supporti informatici che possano colle-gare Venezia con gli altri porti dell’Adriatico e del Mediterraneo. E un nuovo sistema di trasporto con traghetti veloci che siano fruibili attraverso le autostrade del mare. Necessario prevedere poi anche l’apertura di nuove linee marittime su rotte da e per paesi emergenti, come la Cina e il Brasile, verso i quali mettere a disposizione non solo un’ottima piattaforma logistica lanciata verso l’entroterra europeo, ma anche servizi pronti ad assemblare in loco prima dell’inoltro. Interessante risulterebbe pure svilup-pare le vie fluviali, attraverso la navigazione sulle stesse che tenga in considerazione l’entroterra utilizzabile quale naturale allargamento dell’area destinata alla logistica, e la produzione e i servizi ad elevata tecnologia, che si insedierebbero in un’area già

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Porto, LogIStICa e attIVItÀaD aLta teCNoLogIa

di intese rese note o quanto meno allegate alla programmazione sull’intesa per Porto Marghera.

Si determina uno scoramento che vale bene una risposta-proposta, maggiormente rassicurante e graficamente sostenibile su carta e non solo a parole pensata, conside-rando: - il problema (perché per ora solo annunciato) relativo ai nuovi insediamenti residen-ziali e direzionali che prevedono l’inserimento di parcheggi scambiatori nel nuovo centro residenziale e direzionale di Via Ulloa a Marghera, con accesso dallo svincolo della rotonda di Villabona e l’uscita per lo stesso; - il centro direzionale e residenziale del riconvertito complesso edilizio dell’Ospedale Umberto I, con traffico in ingresso dal Terraglio e in uscita dalla Via Piave; - il complesso edilizio residenziale Ex Enel; - il nuovo centro in raddoppio del Vega in ingresso e in uscita non si sa come (ponte S. Giuliano) da via Martiri della libertà, già impraticabile in certe ore della giornata.

La politica é quella di aggiungere volumi e destinazioni d’uso ancorché togliere volu-mi e destinazioni d’uso incompatibili con la viabilità esistente. Anche se sono residen-ziali poiché anche la residenza aggiunta aggrava la viabilità.Togliere volumi o perlomeno sviluppare in altezza gli stessi vuol dire creare spazi a dimensione d’uomo, con verde e parcheggi di quartiere inserito e spalmato, ma sosti-tuire volumi con altri che ne triplicano la capienza significa aggiungere problemi agli esistenti.Visto il rallentamento dei tempi di accesso per il caos viario esistente, bisogna ancora evitare di concentrare aree vaste dedicate ai parcheggi se gli stessi sono inaccessibili in tempi brevi e soprattutto se sono compromessi dai ritardi negli orari dei mezzi di trasferimento degli stessi verso il centro da una viabilità intasata e non gestibile con mezzi pubblici.

Non si capisce allo stato attuale il nuovo interesse a investire su nuove attività pro-duttive all’interno di Porto Marghera, poiché non basta diminuire i cambi di mezzo (terra-acqua-gomma) per evitare che il trasferimento della produzione si inceppi per inaccessibilità dei luoghi e per improduttività dei tempi morti di gestione.Non vorremmo che questi problemi meglio governabili in altri luoghi geografici - pensiamo ai porti già realizzati a Spalato, Sebenicco, Ragusa, attrezzati ancora prima della loro definizione dalle aste di collegamento stradale con il corridoio 5 - siano la mazzata definitiva ad un sogno con risveglio ritardato rappresentato dalla presente volontà di ristrutturazione di Porto Marghera. Per ultimo ripensiamo se oggi la città industriale di Mestre possa essere quotidiana-mente interessata da una viabilità mista tra mezzi leggeri residenziali, mezzi pesanti destinati al trasporto di materiali industriali e di raffineria e mezzi turistici verso Vene-zia. Senza diversificare, con Terminal dedicati, i singoli percorsi e soprattutto senza ul-teriormente aggravare con nuove valenze urbanistiche un territorio nato male, gestito male, e senza un progetto sostenibile visibile sulla carta.

Poniamo all’attenzione degli organi che dovranno gestire questa programmazione la viva preoccupazione del CUP di Venezia.

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Nel ripensare a Porto Marghera è importante rivedere nuove strategie per raggiunge-re gli obiettivi di un’utile riconversione e implementazione.Con la programmazione 2007-2013 del Quadro Strategico Nazionale (QSN) posso-no avviarsi nuove strategie che permettano di colmare il gap della competitività e le priorità sono reti (materiali e immateriali) e mobilità. Nel trasporto delle merci, per esempio, devono esserci centri distributivi che abbiano scelto un’ottimale program-mazione con integrazione dei vari vettori. La crescita del PIL, dipende anche dall’effi-cacia e dall’efficienza della logistica e le risorse pubbliche che vengono utilizzate con trasparenza e propulsione allo sviluppo economiche, anche con il coinvolgimento di capitali privati, può dare ulteriore impulso per un migliore sfruttamento della rete di infrastrutture, attraendo gli operatori economici in grado da creare sviluppo e nuova ricchezza. Lo sviluppo economico richiede di soddisfare l’esigenza di essere competitivi con le altre economie, ma non è sufficiente fare leva unicamente con l’abbassamento dei costi. Le esperienze degli ultimi anni hanno insegnato, anche in ambito europeo, che i bassi costi di manodopera giustificano solo nel breve periodo lo spostamento degli investimenti produttivi, mentre le imprese devono puntare ad un piano a medio o lungo periodo se intendono sopravvivere. Coltivare l’interesse economico oggigiorno è visto come condizione da raggiungere nel pieno rispetto del benessere e dello sviluppo sociale quale interesse al quale tutti i cittadini, le istituzioni e le realtà economiche devono compartecipare. Le realtà eco-nomiche riescono durevolmente ad essere allocate nel territorio e a progettare nuovi investimenti anche grazie alla professionalità e alle specializzazioni dei propri collabo-ratori che operano nelle aziende. Dare priorità allo sviluppo e alla tutela dell’ambien-te è diritto naturale della collettività e condizione essenziale per lo sviluppo.Per attrarre nuovi capitali nel piano di sviluppo per le aree di Porto Marghera può essere auspicata una fiscalizzazione o meglio ancora la delimitazione di zona franca. Le due alternative incentivazioni devono poter permettere buoni programmi e rapidi progetti di realizzazione, che rispondano alle esigenze di flessibilità, ma che ne limiti-no le possibilità di abbandono degli insediamenti produttivi. Attrarre le imprese con la sola fiscalità non crea nel lungo periodo la crescita e la competitività, e ciò potrebbe destabilizzare nel lungo periodo l’ambiente circostante.Le risorse impiegate sul sistema di ricerca dell’innovazione, sviluppa la capacità di fare impresa. Le collaborazioni fra imprese, Università ed istituzioni pubbliche, de-vono negoziare le scelte da assumersi e porsi come obiettivo il benessere collettivo, perseguito con creazione di valore, benefici all’intera collettività, anche a livello occu-pazionale e nel mercato del lavoro.La funzione degli enti pubblici va collocata quale promotore di sviluppo territoriale ed economico, la creazione di interessi individuali delle singole imprese deve portare

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SVILUPPo eCoNoMICo e terrItorIo:La CoNVerSIoNe DI Porto Marghera

fornita di servizi ovviamente da implementare e riorganizzare.Le attività da insediare nelle aree libere e bonificate potrebbero essere ad esempio la costruzione e manutenzione del materiale rotabile ferroviario, di componenti ae-ronautici per trasformazione e ammodernamento aeromobili, inclusa la costruzione di componenti aerospaziali. E attività legate allo sviluppo delle nanotecnologie, del-le energie rinnovabili, dei combustibili di derivazione vegetale e di pannelli solari e fotovoltaici. Oltre a prodotti biodegradabili per contenitori e imballaggi e attività manifatturiere ad elevato livello tecnologico nei settori della meccanica, elettronica e automazione.Un altro punto di interesse presente nel documento è il Porto di Venezia. Un porto che deve essere sviluppato in almeno due linee di interesse: una linea “commerciale”, con approdo naturale a Porto Marghera ed una linea “turistica” con approdo naturale in centro storico.Condizione essenziale affinché questo possa realizzarsi è che il porto attuale sia rior-ganizzato ed organicamente connesso con reti ferroviarie, stradali, metropolitane, telematiche e sia fornito di supporti informatici e di un nuovo sistema di trasporti con traghetti veloci che colleghi Venezia agli altri porti dell’Adriatico, attraverso “le autostrade del mare”, e ad altre città distanti dal mare attraverso una riattivata attività fluviale.Per l’area di Porto Marghera, che in un recente passato occupava oltre trentamila lavoratori ed era un punto avanzato dell’industria italiana ed europea, risulta indi-spensabile mettere in campo tutte le intelligenze e risorse economiche disponibili. Perché possa essere riconvertita alle produzioni di qualità e di alto valore aggiunto. Il mantenimento della chimica di base e l’insediamento della chimica fine, l’alluminio e le leghe speciali, la produzione di energia anche non tradizionale, la cantieristica e diportistica, lo sviluppo delle fibre tessili ad alta tecnologia; la componentistica sia aereo navale che aereo spaziale; le nanotecnologie e la ricerca.Tutte queste attività oltre a mantenere esperienze e professionalità avanzate esistenti nelle aziende tuttora presenti a Porto Marghera consentirebbero uno sviluppo dei livelli occupazionali di cui ne beneficerebbe l’intera area.Per quanto riguarda la logistica, la condizione indispensabile per lo sviluppo sia del porto sia di Porto Marghera risulta essere la “funzionalità” del sistema logistico com-plessivo.Pertanto, oltre che adeguare la logistica esistente, dovranno essere realizzate le opere di scavo dei canali, la sistemazione delle banchine, lo sviluppo delle reti ferroviarie e fluviali e l’ampliamento dell’aeroporto.

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Nel contesto veneto Porto Marghera costituisce una realtà a sé stante. Fino agli anni settanta infatti lo sviluppo della terraferma veneziana è legato alla grande industria chimica. Mentre un percorso totalmente diverso segue la nascita del cosiddetto “mo-dello veneto”che si instaura nelle altre province della regione.Nel ventennio successivo, mentre si assiste ad un progressivo ampliamento del “mo-dello veneto” con l’instaurarsi di quello che è stato definito il “capitalismo moleco-lare”, contemporaneamente, a livello planetario, si determina un mutamento delle convenienze localizzative della grande industria che avvia la crisi irreversibile di Porto Marghera con la progressiva chiusura degli impianti.Il fenomeno, fortunatamente, non ha avuto conseguenze nel campo occupazionale perché nello stesso periodo si è affermato il boom del turismo di massa. Settore che è stato in grado di assorbire il colpo del declino delle attività industriali e portuali di Porto Marghera.

Nel ripensamento di funzioni, interessi e opportunità dell’area di Porto Marghera è insito il pericolo che la sua destinazione segua l’esempio di ristrutturazione del wa-terfront di altre aree industriali dimesse, verso nuovi usi connessi esclusivamente al tempo libero e alla residenzialità.Tale percorso porterebbe, dal punto di vista sociale, alla decadenza di quel patrimo-nio tradizionale di competenze acquisite in campo industriale, a tutto vantaggio del turismo al quale, notoriamente, non si riconosce la capacità di formare figure profes-sionali di alto profilo. Non ci conforta completamente, a questo proposito, la variante al PRG che conferma per Porto Marghera la destinazione d’uso produttiva. Questo perché la polverizzazio-ne e il continuo cambio di mano della proprietà delle aree liberate dagli impianti, induce a pensare piuttosto ad attività di tipo speculativo. Attività che determinereb-bero la decadenza delle opportunità e dei vantaggi, in termini di infrastrutture, di cultura industriale e di professionalità che altrimenti sarebbero presenti nella fase di rilancio. Non va dimenticato, inoltre, che il patrimonio di aree a destinazione produttiva di Porto Marghera è il più grande di tutto il Nordest e nel processo verso una riqualifi-cazione produttiva di qualità di tale area, sarebbe colpevole miopia non approfittare dell’occasione e continuare a consumare territorio in un processo, ormai superato, di polverizzazione delle aziende.

In prospettiva sarà necessario continuare a pensare ad un rilancio produttivo della nuova Porto Marghera e ad uno sviluppo basato sulla qualità e sulla innovazione, e su questa strada:- per quanto riguarda la chimica occorre concludere al più presto il processo avviato

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QUaLItÀ e INNoVaZIoNe:La StraDa Per IL rILaNCIo

utilità all’ambiente circostante sia di quello naturale, per la tutela del diritto alla salu-te, che di quello rappresentato dall’ insieme degli stakeholder.

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IdrogenoLa campagna per lo sviluppo dell’idrogeno come combustibile fu avviata dal noto economista Jeremy Rifkin15 presidente della “Foundation on Economics Trends” di Washington, quale esempio di “energia pulita” alla base di una autentica “rivoluzione ecologica”. Effettivamente la combustione dell’idrogeno dà soltanto vapore acqueo: le emissioni di un motore o di un impianto di riscaldamento potrebbero essere respi-rate senza danno.Un motore a “combustione interna” utilizzerebbe l’idrogeno liquido come carburan-te, altra possibilità sarebbe data dalle “fuell cell” (celle a combustibile) in grado di alimentare un motore elettrico (ad esempio per un’automobile) o per la produzione di energia elettrica. Esse si basano sulla reazione tra idrogeno e ossigeno dando come prodotto acqua e sviluppando energia. Le principali criticità dell’idrogeno sono il fatto di essere gassoso e quindi di dovere (per immagazzinarne una certa quantità) o essere compresso a pressioni elevate o essere liquefatto a -253°C e la sua elevata infiammabilità che richiede standard di sicu-rezza ben superiori alla benzina o al gasolio.Altro problema è quello della sua produzione: non esistendo allo stato puro sulla terra deve essere ottenuto o da reforming catalitico di combustibili fossili (petrolio, meta-no) o da elettrolisi dell’acqua. Nel primo caso la formazione di anidride carbonica, non più emessa dai motori, si sposta a monte nel processo di produzione e il bilancio di gas serra resta praticamente inalterato, salvo che ne viene liberata l’atmosfera delle città, ma ne cresce l’emissione nelle aree industriali. Nel secondo vengono richieste ri-levanti quantità di energia elettrica che, se prodotta da metano, carbone od olio com-bustibile, sposta in maniera analoga la formazione di gas serra dalle aree urbane alle centrali elettriche. Ciò a meno che l’energia elettrica non sia prodotta dal nucleare o da fonti rinnovabili. Ciò ha indotto alcuni scienziati a parlare polemicamente della “grande truffa dell’idrogeno” in quanto l’energia consumata in un processo di refor-ming va suddivisa per circa il 75% in idrogeno e per il 25% in calore e questa perdita di resa pesa sul rendimento complessivo della combustione di idrocarburi sfavorendo quella indiretta (via idrogeno) rispetto a quella diretta (motore a idrocarburi).D’altro lato è vero che il motore a combustione interna ha ancora rese estremamente basse rispetto all’energia potenziale del combustibile introdotto (non oltre il 30%), mentre la stessa quantità di combustibile bruciata in una centrale elettrica raggiunge una resa che è quasi doppia, quindi la produzione di idrogeno per elettrolisi ha già un vantaggio dal punto di vista ambientale, ma certamente non risolutivo.

15 Jeremy Rifkin: Economia all’idrogeno – Mondadori, 2002

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NUoVe ProDUZIoNI PoSSIBILIcon “l’Accordo di Programma”, cioè “costituire e mantenere nel tempo condizioni ottimali di coesistenza fra tutela ambientale e sviluppo produttivo”;- circa la cantieristica navale, senza entrare nel merito di una eventuale privatizzazio-ne della Fincantieri, poiché non è pensabile che il portafoglio d’ordini delle navi da crociera continui ad arricchirsi sempre con il ritmo attuale, sarà necessario da subito prevedere una differenziazione della produzione. Anche se ciò non sarà facile, tenuto conto della concorrenza che in tale campo esercitano i paesi del Mare del Nord e l’Estremo Oriente;- per l’alluminio, un prodotto che presenta ampie prospettive di sviluppo, è auspicabi-le che le relazioni sindacali all’interno della multinazionale presente a Porto Marghe-ra assumano forme più collaborative;- è fondamentale rafforzare e qualificare la logistica che sta assumendo un ruolo trai-nante nello sviluppo dell’area. Occorre non dimenticare che il porto ha la necessità di attrezzarsi in maniera particolare, in vista del mutamento delle sue funzioni che vedono scendere sempre di più le tipologie relative alla parte tradizionale industriale, a favore dello stoccaggio e del trattamento di prodotti semilavorati provenienti dal Sudest asiatico e dall’Estremo Oriente. In questa prospettiva assumono particolare importanza sia lo sviluppo infrastrutturale delle ferrovie, che rappresentano la via obbligata per le relazioni economiche sulle grandi distanze terrestri, che gli altri pro-blemi di accesso all’area.

Infine, se per Porto Marghera si vuol parlare di innovazione qualitativa, è necessaria la ricerca e, purchè non si intendano perseguire ipotesi e prospettive irrealistiche, sem-bra che il Parco Scientifico e Tecnologico di Venezia, attraverso la duplice missione di realizzare infrastrutture per attrarre aziende ad elevato contenuto scientifico e tec-nologico e di facilitare il trasferimento di conoscenze dalle Università e dalle grandi aziende alle imprese venete, sia sulla strada giusta.

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diventare il primo Paese indipendente dal petrolio per l’autotrazione entro il 2020; mentre il Brasile (che già copre coll’etanolo circa il 20% del consumo di carburante nei suoi trasporti interni) per il 2010 vuole raggiungere i 5 miliardi di litri di bioeta-nolo esportato. La Commissione Europea supporta il progetto “BEST” (Bioethanol for Sustainable Transport) volto a dimostrare la fattibilità della sostituzione di benzina e gasolio col bioetanolo, che coinvolge sei Paesi Europei più Brasile e Cina. I suoi obiettivi sono l’introduzione di almeno 10.500 auto “flex” e 160 bus a bioetanolo e la costruzione di almeno 148 stazioni di rifornimento, di cui 135 per l’E85 (85% etanolo – 15% benzi-na) e 13 per l’E95 (95% etanolo – 5% benzina); le città che partecipano al progetto sono Stoccolma (Svezia), Rotterdam (Olanda), Somerset (Regno Unito), Dublino (Ir-landa), Madrid (Spagna) e La Spezia (Italia).Nel 6° Programma Quadro di Ricerca e Sviluppo Tecnologico della Commissione Eu-ropea (6PQ) è compreso il Progetto NILE , coordinato dall’IFP (Institut Français du Pétrole), che prende in esame l’intera catena di produzione del bioetanolo. Riunisce 21 imprese industriali di 11 Paesi Europei per coprire l’intero ciclo di produzione ed utilizzo del bioetanolo, con lo scopo di analizzare e valutare nuove tecnologie per la sua produzione tramite idrolisi e fermentazione della lignocellulosa. In un impianto pilota allocato in Svezia a Örnsköldvik i ricercatori potranno collaudare le varie tecno-logie proposte in termini di rese, costi ed impatto ambientale.

BiodieselIl Biodiesel è un prodotto di origine naturale utilizzabile come carburante sia in auto-trazione che in riscaldamento. È rinnovabile, in quanto ottenuto da piante oleaginose come colza, soia, girasole (anche se possono venire usate anche altre coltivazioni come la senape, le alghe e la palma, nonché altri olii vegetali di scarto e grassi animali).Olii e grassi non vengono usati come tali, ma dopo un processo di transesterificazione, ossia la trasformazione in esteri metilici per reazione con metanolo (o anche etilici per reazione con l’etanolo): l’olio o il grasso sono esteri composti di acidi grassi a lunga catena (mediamente tra 16 a 22 atomi di carbonio) e glicerina. La reazione conduce a estere metilico e come sottoprodotto a glicerina che ha svariati usi industriali.Purificato dalla glicerina, dall’eccesso di alcol (necessario per spostare l’equilibrio di reazione favore del prodotto), dal catalizzatore (idrato di sodio) e da residui di acidi grassi liberi, il biodiesel è un liquido trasparente, di colore ambrato, con viscosità si-mile al gasolio per autotrazione ottenuto dal petrolio greggio.Molto meno esplosivo del gasolio (con un flash point di 150° contro 64°) e quindi con pericolo quasi nullo di autocombustione, diversamente da esso è biodegradabile e non tossico. Inoltre:- produce emissioni di ossido di carbonio ridotte a circa metà,- riduce l’emissione di anidride carbonica di circa l’80%, in quanto il carbonio in esso contenuto è quello che le piante hanno fissato dall’atmosfera durante la loro crescita e non bloccato da millenni nella crosta terrestre (giacimenti petroliferi),- non contiene zolfo e quindi non dà emissioni di anidride solforosa,- ha una emissione di polveri sottili ridotta a circa il 65%,- non contiene idrocarburi aromatici: le emissioni di benzopireni si riducono di circa

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Unica soluzione “pulita” è - almeno allo stato attuale - come detto prima, la produ-zione di energia elettrica da fonti rinnovabili: oltre a solare, eolico e fotovoltaico, se vogliamo a priori escludere il nucleare (ma sarà possibile?) molte ricerche in tal senso sono in corso: dalle celle fotovoltaiche “flottanti” che con la corrente elettrica prodot-ta otterrebbero idrogeno direttamente dall’acqua di mare, alla scissione di acqua o altri liquidi idrogenati con batteri o catalizzatori particolari per dare idrogeno, all’uso di scariche elettriche con rese di scissione dell’acqua (pare) superiori all’elettrolisi tradizionale (anche se si tratta di soluzioni tutte purtroppo ancora lontane).

BioetanoloL’utilizzo di carburanti di origine vegetale risale all’inizio del secolo scorso: Henry Ford ne promosse l’uso, in particolare per l’etanolo, tanto che nel 1938 negli U.S.A. (Kansas) se ne produssero 18 milioni di galloni (54.000 tonnellate ca.); l’interesse scemò in particolare dopo la seconda guerra mondiale, stante la disponibilità di petro-lio a basso prezzo, ma dopo lo shock petrolifero degli anni ’70 la produzione riprese (anche grazie a sensibili agevolazioni fiscali) e a fine decennio era reperibile in com-mercio benzina col 10% di etanolo, detta “gashol”. Negli anni ’90 degli emendamenti al “Clean Air Act” imposero un contenuto di com-posti ossigenati nelle benzine destinate alle aree metropolitane a maggior tasso di in-quinamento, ma nello stesso periodo comparve il metil-ter-butil-etere (MTBE) (quale sostituto dei piombo tetralchili come antidetonanti) che, economico e di buone pre-stazioni, bloccò lo sviluppo del bioetanolo. Oggi però a fronte di fenomeni di inqui-namento delle falde acquifere da parte dell’MTBE, la candidatura del bioetanolo si sta riproponendo. Il “Bioetanolo” altro non è che l’alcol etilico (etanolo) che può essere ottenuto da pro-dotti vegetali (amidi, zuccheri, cellulosa, mais, barbabietola, canna da zucchero, ecc.). Particolarmente interessante l’uso di biomassa ligneocellulosica (LCB) che compren-de residui agricoli e silvicoli di scarto che non sono in competizione con l’utilizzo del suolo per la produzione alimentare e che presentano una elevata economicità (anche se vi sono tuttora ostacoli economici e tecnici per il suo sviluppo su ampia scala). Può essere utilizzato come addittivo al gasolio (dal 5 al 10%) nei motori diesel, in mi-scela alla benzina sino al 20% per motori a scoppio (senza modifiche) o in percentuali maggiori sino a sostituto completo della benzina nelle auto cosiddette “flessibili- Flex Fuel” con motori adattati. Queste sono usate in Brasile (primo Paese a sviluppare l’uso del bioetanolo: oggi la benzina standard ne contiene il 25%, ma è in vendita anche al 100%), negli U.S.A. (su ca. un milione e mezzo di taxi) ed in Svezia (ove circolano ca. 15.000 auto che utilizzano il cosiddetto E 85: 85% etanolo, 15% benzina). La miscela bioetanolo-benzina aumenta il numero di ottani e riduce le emissioni di ossidi di azoto, del particolato fine (il cosiddetto “smoke”), di ossido di carbonio, di ossidi di zolfo e di composti organici volatili (VOC), inoltre avendo origine vegetale riduce l’emissione di anidride carbonica in quanto la sua combustione reimmette nell’atmosfera la CO2 catturata dalle piante.L’Unione Europea spinge sull’uso dei biocombustibili (Direttiva 2003/30/EC) e pun-ta per il 2020 a raggiungere la sostituzione del 20% della benzina con bioetanolo e biodiesel; la Germania mira a raggiungere per la stessa data il 25%; la Svezia conta di

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tutte le sfide tra ricchi e poveri, non è difficile immaginare chi la stia vincendo”.Infatti sempre più terreni in tutto il mondo (nelle Americhe in particolare, ma anche in Occidente) vengono progressivamente adibite alla produzione di materie prime ve-getali per la produzione di “bioidrocarburi”, dagli USA ove nel solo Nebraska si punta alla produzione di un miliardo di galloni di etanolo incrementando la superficie colti-vata a mais di un milione di acri (4000 km quadrati), al Brasile ove l’incremento per il mais è previsto in 1,2 milioni di Km quadrati (300 milioni di acri); dall’Indonesia che vuole incrementare la sua produzione di olio di palma per il biodiesel di quattro volte dedicandovi dagli attuali 64.000 a 250.000 km quadrati entro il 2025, al Sudafrica che punta ad un ulteriore sviluppo pur essendo già oggi con 4 milioni di km quadrati dedicati alle colture per “biofuel” il massimo produttore mondiale.Malgrado questi sviluppi previsti (e le derivanti conseguenze) è da tenere ben pre-sente che un passaggio integrale ai biocarburanti, anche solo per alimentare il parco macchine, è da considerarsi irrealizzabile. È stato calcolato che negli USA l’intero territorio coltivabile non basterebbe per fornire i prodotti vegetali necessari per pro-durre biocarburante in quantità sufficiente per gli autoveicoli oggi in circolazione (ri-nunciando a quelli destinati all’alimentazione umana e animale!). E altrettanto vale per l’Italia: coltivando tutta la nostra superficie agricola utile (13 milioni di ettari) e ottenendo al massimo 850 kg di biodiesel per ettaro, disporremmo di poco più di 11 miliardi di kg di carburante per anno; avendo un parco veicoli superiore ai 34 milioni di mezzi e tenendo conto che il consumo annuale unitario medio è oltre i 1.000 kg, ci sarebbero necessari più di 34 miliardi di kg di carburante (il triplo di quanto ottenibi-le rinunciando a mangiare sia noi che le bestie!). Su scala mondiale, stimando ad 8oo milioni di unità i veicoli circolanti (e senza pen-sare che le proiezioni attuali ne prevedono il raddoppio nei prossimi 15-20 anni se la motorizzazione dei Paesi emergenti - Cina, India, Brasile - si svilupperà ai livelli euro-pei), si dovrebbe dedicare a colture destinate alla produzione “energetica” almeno un ettaro e mezzo per veicolo, ossia oggi 12 milioni di chilometri quadrati, 24 nel futuro, ben oltre la SAU di tutto il mondo. Vale quindi quanto fa notare Viale nel suo pamphlet che indica l’automobile quale principale fonte del malessere urbano: “L’agricoltura può fornire, con il biodiesel e l’etanolo, eccellenti sostituti o integratori dei combustibili tradizionali. E’ la grande illusione alimentata dal cattivo ambientalismo: Innanzitutto l’agricoltura intensiva va a petrolio (trattori, fertilizzanti, pesticidi, trasporto, impianti di trattamento e trasfor-mazione) e le calorie che si immettono in un ettaro coltivato a colza, sorgo o girasole sono quasi un terzo di quelle che si ricavano in termini di combustibile. Questo coltu-re funzionano bene come integrazione del reddito nell’agricoltura multifunzionale, mettendo a produzione terreni marginali, ma non potranno mai sostituire i combusti-bili fossili che usiamo oggi” 17.

16 La Repubblica 30 agosto 200717 Guido Viale: “Vita e morte dell’automobile - La mobilità che viene”, Bollati Boringhieri, 2007

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il 70%. Unico punto a sfavore rimane una maggiore emissione di ossidi di azoto che richiedo-no una dotazione degli scarichi con adatti catalizzatori.Il biodiesel puro ha maggior potere solvente del gasolio, può così danneggiare le raccorderie in gomma dei motori di vecchia concezione (ma non quelle oggi modifi-cate) formando depositi e conseguenti ostruzioni, mentre tale caratteristica mantiene il motore più pulito (proprio per l’azione solvente sui residui della combustione) e agisce da lubrificante.Molto limitato è l’impiego del biodiesel puro (al 100%); si utilizza in miscela col ga-solio a varie percentuali , dal 2% in su, per cui viene classificato con la sigla BD più la cifra indicante la percentuale (es. BD2, BD20, BD50, ecc.); negli U.S.A. la classificazio-ne è analoga, però con la sola B.

Rispetto allo sviluppo di nuove produzioni possibili per l’area di Porto Marghera emergono alcune criticità:- per l’idrogeno è già stato accennato alla sua esplosività e alle conseguenti difficoltà nel trasporto e nell’uso. Questo rappresenta un aspetto critico per la realizzazione di una adeguata rete distributiva (o per l’adattamento di quella attuale di benzina e gasolio) e per lo stoccaggio nella rete e nel serbatoio della singola auto. Una soluzione potrebbe venire dalla sviluppo di composti chimici “spugna” in grado di operare un ri-lascio progressivo dell’idrogeno al motore: studi dei Carbon Research Laboratories di Newcastle puntano a sfruttare le nanotecnologie per realizzare un materiale metallico poroso (micropori del diametro di un milionesimo di millimetro) in grado di assorbi-re sotto alte pressioni l’idrogeno in quantità rilevanti e di trattenerlo in maniera sicura e di facile trasporto, rilasciandolo al momento della combustione nel motore;- per il bioetanolo la produzione da materie prime come la canna da zucchero, la barba-bietola, il mais o l’amido da cereali entra inevitabilmente in conflitto con la produzio-ne per usi alimentari. Fattore che - stante la crescente richiesta di bioetanolo che da oggi al 2010 si calcola aumenterà del 170 per cento: solo negli USA dai 100 impianti di produzione del 2007 si è passati ai 150 del 2007 con stima di 450 entro il 2009 - viene oggi indicato tra le cause (oltre a quelle climatiche) di un sensibile aumento dei prezzi di vari prodotti alimentari previsto per la fine 2007. La produzione dovrà essere spinta verso l’utilizzo delle biomasse ligneocellulosiche; - per il biodiesel ottenuto dalla trasesterificazione con metanolo da oli vegetali (gira-sole, colza, senape, palma) si presenta una analoga situazione di conflitto con gli usi alimentari: la produzione dovrà essere spinta verso l’utilizzo di alghe (in particolare le microalghe), anche perché gli stessi oli vegetali di scarto trovano utilizzo nell’indu-stria dei saponi. Altrettanto si può dire dell’utilizzo di grassi animali: la produzione è limitata e non è certo possibile allevare animali per utilizzarne solo il grasso.

E tutto ciò con un aumento medio annuale della popolazione mondiale di 87 milioni di unità e con una stima di 850 milioni di persone denutrite oggi nel mondo. Scrive Lester Brown presidente del Think-Thank Worldwatch Institute: “Siamo di fronte ad un’epica competizione per le granaglie tra gli 800 milioni di automobilisti del pianeta e i due miliardi di poveri della terra”, come riporta Enrico Franceschini16 che aggiunge: “Come in

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Le strategie su Porto Marghera delineate a livello provinciale prevedono l’insedia-mento nell’area industriale di attività produttive di varia natura. I progetti presenta-ti riguardano infatti attività che vanno dalla chimica (tradizionale e innovativa) alla cantieristica, dalla logistica alla produzione di idrogeno, bioetanolo e biodiesel, dalle industrie aeronavali alle nanotecnologie, senza dimenticare le attività legate allo scavo di canali e allo smaltimento di fanghi.Queste così diverse attività, in parte caratterizzate da nuove tecnologie, impongono particolari attenzioni ai problemi di sicurezza, salute, e di possibili danni ambientali, che da esse possono derivare. Tanto più pressante è questa necessità in un territorio come il nostro in cui la storia recente è ricca di gravissimi episodi di danni alla salute e all’ambiente legati all’atti-vità industriale. Basti pensare all’insorgenza di tumori maligni da CVM e da amian-to e all’inquinamento della laguna. In un momento storico poi caratterizzato da un particolare allarme sociale, accentuato dal grande clamore dei media su un’elevata frequenza di morti sul lavoro, che ha indotto anche il Capo dello Stato ad intervenire sull’argomento. Da ricordare anche la segnalazione di nuovi rischi per la salute legati all’industria della chimica di sintesi, all’industria dell’alluminio (berillio e fluoruri) e alle nanotec-nologie (arsenico e altri metalli).Alla luce di ciò desta preoccupazione e meraviglia il fatto che i progetti di sviluppo presentati non contengano un esplicito riferimento ai problemi della salute e della sicurezza. Unica eccezione è rappresentata dal progetto dell’AGIP. Ma tutto ciò fa sospettare una scarsa sensibilità a questi temi.Riteniamo che l’attenzione a queste problematiche debba costituire parte integrante di qualsiasi progetto di sviluppo per Porto Marghera e che anzi sia necessario dare, in questa occasione, un forte segnale di grande impegno su argomenti che sono oggetto di particolare interesse da parte della pubblica opinione.In questa logica proponiamo, in aggiunta al sistema di sicurezza aziendale, l’istitu-zione di un osservatorio permanente, in collaborazione con il dipartimento di pre-venzione dell’Azienda Ulss 12, per il monitoraggio dei rischi per la salute umana e per l’ambiente, che consenta l’approfondimento tecnico-scientifico di tutti i problemi emergenti in modo da garantire una ragionevole sicurezza ai lavoratori e alla popo-lazione.L’attuazione pratica di questo progetto dovrà essere concordata tra le imprese attive nell’area di Porto Marghera e il Dipartimento di Prevenzione dell’Ulss 12, contri-buendo in questo modo ad evidenziare il cambiamento culturale degli imprenditori riguardo al rapporto tra Lavoro e Salute.

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UN oSSerVatorIo PerMaNeNtePer La PreVeNZIoNe

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L’area di porto Marghera è naturalmente associata nell’immaginario collettivo a idee che nulla hanno a che fare con il comune concetto della professionalità dei medici veterinari. Pensando a Marghera è naturale pensare al lavoro di migliaia di persone, alla chimica, all’industria metallurgica pesante. Ma a nulla che lasci immediatamente pensare agli animali.Tuttavia la medicina veterinaria ha tra le sue vocazioni anche quella di fornire indi-cazioni sulle malattie e le patologie che non appartengono solo agli animali ma che sono comuni a uomini e animali.Nelle più moderne concezioni del concetto di “medicina” questa non viene addirit-tura più divisa in umana, animale ed ambientale, ma le tre “anime” vanno a formare un’unica medicina che richiede conoscenze provenienti dalle tre specialità.Uno dei campi in cui maggiormente si vede l’importanza di questa visione della me-dicina “nuova” è quello delle malattie influenzate dall’inquinamento ambientale, tra cui incidenza rilevante hanno i tumori.I tumori, infatti, oltre a poter essere ad insorgenza naturale, sono influenzati da so-stanze dette “cancerogene”.Secondo numerosi studi già pubblicati, gli animali domestici possono essere delle efficienti sentinelle per il monitoraggio dell’incidenza di tumori nella popolazione umana.Questo perché, da un lato cani e gatti condividono con i loro padroni quasi tutta l’esi-stenza, rispecchiandone spesso abitudini di vita e costumi (anche in campo alimenta-re) e dall’altra hanno, rispetto agli uomini, un ciclo di vita più breve.Le aree cittadine industrializzate rappresentano un ottimo punto per poter monitora-re la diffusione di malattie croniche e tumorali negli animali domestici, considerando la frequenza maggiore con cui i proprietari hanno rapporto con i veterinari liberi professionisti di fiducia.I veterinari per primi, quindi, hanno la possibilità di vedere e segnalare eventuali aumenti nella frequenza di tali patologie. Infatti, nel corso di colloqui privati con molti colleghi che si occupano di piccoli animali all’interno dell’hinterland di porto Marghera, è stato evidenziato che negli ultimi dieci anni si è avuto un considerevole aumento nell’incidenza di tumori negli animali domestici.Nello specifico, quelli che hanno avuto l’incidenza maggiore, sono stati i tumori mam-mari, i linfomi, e i tumori cutanei sia in cani che in gatti.A fronte di queste osservazioni derivate dalla conoscenza ed esperienza diretta, appa-re indispensabile evidenziare come il servizio pubblico, che comprende i servizi veteri-nari delle aziende ULSS, si sia attivato per approfondire eventuali criticità ambientali, diventando sentinelle di possibili caratteristiche di pericolo per la salute pubblica.In questo senso appare esemplificativo lo studio avviato dalle aziende ULSS marine sin dal 2000 e condotto dai servizi veterinari su direttive della Regione del Veneto. Uno

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PatoLogIe DI aNIMaLI DoMeStICIe INQUINaMeNto aMBIeNtaLe

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studio volto a definire il livello di fondo di contaminanti ambientali, quali tra gli altri, diossine, IPA, PCB, Furani, HBC, etc., con l’obiettivo di intercettare eventuali produ-zioni non idonee (in Veneto viene prodotto circa il 60-70% delle produzioni italiane di molluschi bivalvi vivi) perché provenienti da aree attualmente vietate alla pesca e allevamento.La mappatura delle lagune venete, compresa quella di Venezia, ottenuta nel 2004, indica un livello di contaminanti mediamente inferiore ai livelli di sicurezza fissati dalla Comunità Europea (per esempio per diossina), con alcune deviazioni che ca-ratterizzano in modo inequivocabile la possibile provenienza da aree interdette da qualunque attività di tipo produttivo (vedi Area SIN- Sito d’Interesse Nazionale). Per-tanto appare evidente come il controllo su determinate tipologie produttive oltre ad assicurare un pieno presidio dei possibili rischi di derivazione alimentare, rappresenti comunque anche un efficiente sistema di controllo su possibili ed incontrollati eventi ambientali presenti e/o passati e/o futuri. In tal senso si ritiene che il progetto di riconversione delle attività produttive dell’Area di Porto Marghera preveda un’ade-guata attività di monitoraggio, garantita da strutture pubbliche, su indicatori biologici di possibile contaminazione.

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