l’istituto della patria potestas nella storia del...
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M. Ornella Attisano
La patria potestas nella storia del diritto
L’ISTITUTO DELLA PATRIA POTESTAS
NELLA STORIA DEL DIRITTO ROMANO PRIVATO,
MEDIEVALE E MODERNO, SINO ALLA RIFORMA DEL
DIRITTO DI FAMIGLIA DEL 1975
SOMMARIO: Premessa -. 1. Le persone sui iuris e lo status familiae nel diritto romano privato - 1.1. Acquisto e perdita della patria potestas – 1.2. Evoluzione storica dell’istituto della patria potestas, dal periodo postclassico fino all’età moderna - 1.3. Dal “code civil” napoleonico del 1804 al codice civile italiano del 1942 - 1.4. La riforma del diritto di famiglia del 1975: dalla patria potestà alla potestà dei genitori.
Premessa
Nell’individuare un tema seminariale di approfondimento per gli
studenti del nostro corso, ho pensato ad un istituto del diritto di
famiglia che ha subito sì considerevoli trasformazioni millenarie,
mantenendo al contempo quell’intima e forte radice originaria, fissata
sulla sapienza della civiltà antica. Nell’istituto della patria potestas
germogliarono le astrazioni del diritto romano classico, confluirono le
dottrine canonistiche dell’età postclassica e medievale, si innestarono
via via principi di derivazione germanica e feudale. Nel IV secolo d.C.,
Costantino annesse alla tradizione romanistica del diritto di famiglia
alcuni concetti provenienti dal mondo greco, rimodulando il diritto
privato e delle persone. L’istituto della patria potestas è stato il primo
settore del diritto romano privato a sottostare alla severa disciplina del
diritto di famiglia di origine ellenica. Medesimo indirizzo assunsero gli
imperatori successivi fino al tardo Impero Romano di Giustiniano, il
quale nel rimodulare taluni istituti del diritto di famiglia attinse sia al
cristianesimo sia all’ellenismo per la comune impostazione etica della
famiglia e della stessa patria potestas, nella quale il ius naturae
prevaleva sulla lex1. Sulla decretata concorrenza dell’elemento
cristiano e di quello ellenistico (quest’ultimo innestato sul tronco del
1 Biondo Biondi, Il diritto romano cristiano, III, Milano, Giuffrè, 1954, pp. 59-61 e 87.
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diritto romano privato), l’imperatore si assicurò l’approvazione della
Chiesa nella disciplina di alcune materie (privilegiando i rapporti morali
ed umani su quelli politici) pur preservandone l’impianto romanistico.
A meno di tre anni dalla morte dell’imperatore Giustiniano, il
sopraggiungere dell’invasione dei Longobardi determinò
l’allontanamento sempre più crescente dall’eredità dell’antica civiltà
romana, siccome dissolta a seguito del crollo dell’Impero Romano
d’Occidente, occorso nel 565 d.C.. La nuova capitale dell’Impero,
Bisanzio, quantunque imperiale e romana, si discostò dalla tradizione
e dalla civiltà giuridica accordatasi sugli elementi originari della
fondazione di Roma e sulle più recenti codificazioni Giustinianee.
L’ingresso dei Longobardi entro i confini italiani favorì lo sviluppo di
una prassi e di un costume d’Oltralpe che era rimasto alieno alla
raccolta giustinianea del Corpus Iuris Civilis, la cui aspirazione
universalistica era segnatamente protesa alla sintesi ed
all’armonizzazione delle discipline giuridiche di derivazione
romanistica con la riforma della normazione stessa di Giustiniano
(laddove sulla matrice della grandiosa tradizione romana restaurata si
era andata spiegando la missione (sacra) dell’impero cristianizzato).
Con il diffondersi del diritto germanico, la tradizione romanistica perse
il ruolo di capofila nella gerarchia delle fonti del diritto in Occidente e fu
considerata meramente ius commune. Possiamo così dire che il diritto
romano perdurò nella sua essenza e genuinità dalla fondazione di
Roma (753 a.C.), come diritto romano arcaico, fino alla fine
dell’Impero di Giustiniano (565 d.C.), attraversando l’epoca classica ed
approdando al diritto romano postclassico2. Pur tuttavia, sia
l’Occidente sia l’Oriente europeo erano rimasti energicamente
influenzati dal diritto romano e dal Corpus Iuris Civilis giustinianeo, nel
frattempo tradotto in greco ed adottato finanche dai tribunali della
Chiesa Ortodossa, nei suoi principi e nella prassi applicativa, anche
oltre la fine dell’Impero Bizantino e il sopraggiungere dell’occupazione
2 Pietro De Francisci, Sintesi Storica del diritto romano, Roma, Edizioni dell’Ateneo
s.d., 1948, p. 15.
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ad opera dei Turchi3. Formalmente si dovette attendere l’epoca
medievale affinché si sancisse il recupero definitivo del diritto romano
nelle università e nelle corti imperiali4. Primo fra tutti si adoperò
Federico II nel Regno di Sicilia. Dal 1500 in avanti il diritto romano si
diffuse in molti Paesi europei, stratificandosi con il diritto canonico, il
diritto feudale ed il diritto germanico per costituire quello che è stato
chiamato in seguito il “Civil Law”. E’ d’uopo sottolineare che sebbene
possa affermarsi che il diritto romano sia stato la fonte principale e
costitutiva della formazione del diritto moderno, esso non è rimasto
l’unica. Ad esso si andò allineando, per come osservato, il diritto
canonico ed in qualche misura anche il diritto bizantino e longobardo5.
Il diritto canonico, infatti, influì molto sull’istituto della patria potestas
così come sul tema della difesa del possesso e dell’actio spolii, un po’
dimostrando che nella rielaborazione del possesso, così come degli
altri istituti di derivazione civilistica, la Chiesa si sia adoperata
attraverso la sua indiscussa potestas indirecta in temporalibus6, che
3 Franco Cardini, Marina Montesano, Storia Medievale, Firenze, Le Monnier, 2006,
particolarmente p. 97, laddove gli AA avvertono sugli influssi del diritto
giustinianeo, in special modo del Corpus Iuris Civilis, nella costruzione politica e
giuridica dell’Europa moderna.
4 Franco Cardini, Marina Montesano, cit., p. 179. Il superamento della tradizione
giuridica germanica fu secondo gli AA agevolata dall’atteggiamento emulatore nei
confronti del Rex Maximus Romanorum assunto dai sovrani europei che fu uno dei
motivi che portarono al ritorno del diritto romano nell’Europa Occidentale.
5 Ennio Cortese, Le grandi linee della storia giuridica medievale, VIII ristampa,
2007, Roma, ed. Il Cigno, pp. 95-97.
6 Sulla potestas in temporalibus della Chiesa, cfr. in particolare, Piero Bellini,
Chiesa e realtà politiche. Questioni disputate circa i modi di presenza della Chiesa
nella società contemporanea, II ed. ampliata, Firenze, Tipografia “G. Capponi”,
1980, pp. 65-114; ID., La coscienza del Principe. Prospettazione ideologica e
realtà politica delle interposizioni prelatizie nel governo della cosa pubblica, Vol. I,
Torino Giappichelli, 2000; ID., Respubblica sub Deo. Il primato del sacro nella
esperienza giuridica dell’Europa pre umanistica, Firenze, Le Monnier, 1981; ID.,
Prospettazione ideologica e realtà politica della “potesta ecclesiae in temporali
bus”: note storico giuridiche ad uso degli studenti, Ferrara, Editrice Universitaria,
1975, pp. 3-245; Faustino de Gregorio, Storia e sistemi politici medievali e
istituzioni ecclesiastiche, Torino, Giappichelli, 2015, pp. 115-150, ; ID., Omnis
potestas a Deo. Tra romanità e cristianità, Vol. I, Torino, Giappichelli, 2010, pp.
335-370; ID., Omnis potestas a Deo. Tra romanità e cristianità, Vol. II, Parte
Speciale, Torino, Giappichelli, 2013, pp. 181-197.
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poté estendere l’applicazione di quella disciplina all’esercizio della
potestà dei vescovi sul godimento dei beni assegnati alla chiesa
particolare. Basti pensare che al fine di tutelare il possesso dei beni
entrati sotto la protezione della Chiesa, il diritto canonico elaborò e
fece introdurre nel diritto civile una formula rafforzata atta a proteggere
il possesso, sia del patrimonio ecclesiale sia familiare (sotto
l’auctoritas patriarcale) o personale. All’arricchimento normativo di
taluni istituti privatistici contribuirono apertamente i giuristi canonisti
del XII secolo, i quali, reintrodussero principi di derivazione
giusnaturalistica nel diritto privato romano saturando alcuni vuoti. Nella
materia possessoria del diritto romano, così come di quello germanico,
la canonistica ha concorso ad ampliare e rendere addirittura autonoma
la tutela processuale del possessore di fronte alla violenza dello
spoglio altrui. In fondo tutto un insieme di istituti di diritto privato della
tradizione romanistica fu attenzionato dalle egemonie politiche e dai
sistemi del tempo. E’ stato correttamente osservato che d’altra parte
tutto l’apparato giuridico, amministrativo e religioso statuale
dell’Impero romano è stato recepito dal mondo cristiano che dovette
sottostare alla intrinseca commistione tra ius (publicum) e ius sacrum7.
Da tale premessa avvierò una comparazione nell’ambito del tema che
maggiormente ci occupa, ovvero l’evoluzione dell’istituto della patria
potestas passata attraverso il diritto moderno, tra la compilazione
napoleonica e quella degli Stati italiani pre-unitari del XIX secolo8. Una
7 Faustino de Gregorio, Omnis potesta a Deo, ult. op. cit., pp. 28-29.
8 Cfr. per un maggiore approfondimento, Pio Caroni, Saggi sulla storia della
codificazione, in Quaderni fiorentini. Per la storia del pensiero giuridico moderno,
Vol. LI, Milano, Giuffrè, 1998, part. pp. 148 ss; Enrico Besta, La famiglia nella storia
del diritto italiano, Milano, Rist. Giuffrè, 1962, pp. VIII-270, I ed. Padova, 1933, pp.
VIII-239; Nino Tamassia, La famiglia italiana nei secoli decimoquinto e
decimosesto, Milano-Palermo-Napoli, Remo Sandron editore, 1910; Thomas
Kuehn, Low, Family & Women. Toward a legal anthropology of Renaissance Italy,
University of Chicago Press, 1994; Leonida Pandimiglio, Giovanni di Pagolo Morelli
e la ragion di famiglia, In Studi sul medioevo cristiano offerti a Raffaello Morghen,
per il 90° anniversario dell’Istituto storico italiano (1883-1973), vol. II, Roma, ed.
Istituto storico italiano per il Medio Evo, 1974, pp. 555-562 e 575; Giulio Vismara, Il
diritto di famiglia in Italia dalle riforme ai codici. Appunti, Milano, Giuffrè, 1978;
Manlio Bellomo, La condizione giuridica della donna in Italia: vicende antiche e
moderne, Roma, ed. il Cigno, 1996; Maria Rosa Di Simone, La condizione
femminile in Italia dal codice del 1865 al codice del 1942: spunti per una
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svolta al cammino europeo verso la modernità è stato impresso dal
Code civil des françaises del 1804, con il quale Napoleone Bonaparte
ebbe a contrassegnare l’esperienza giuridica dell’Europa continentale,
al punto che si andò identificando un sistema di civil law, a diritto
codificato, appunto, contrapposto al sistema di common law che
caratterizzava, invece, il diverso percorso seguito dal mondo
anglosassone. Scorgeremo, altresì, nei codici preunitari di matrice
italiana un orientamento maggioritario - diretto e lessicale - alla
codificazione napoleonica, mentre nella parte in cui l’indagine dovesse
rilevare uno scostamento significativo rispetto al codice francese,
specificheremo che in tali casi la disciplina giuridica adottata dalle
legislazioni si contraddistinse nel recupero di tradizioni tipiche dei vari
territori in materia familiare e delle successioni9. Vi furono istituti
riflessione, in I cinquant’anni del codice civile, in Atti del convegno di Milano del 4-6
giugno 1992, Milano, 1993, II, pp. 561-593; Monica Fioravanzo, Sull’autorizzazione
maritale. Ricerche intorno alla condizione giuridica delle donne nell’Italia unita, in
«Clio», XXX, n. 4, ottobre-dicembre 1994, particolarmente p. 643; Paolo Ungari, Il
diritto di famiglia in Italia. Dalle costituzioni «giacobine» al codice civile del 1942,
Bologna, Il Mulino, 1970; ID., Storia del diritto di famiglia in Italia: (1796-1942),
Bologna, Il Mulino, 1974; ID., Storia del diritto di famiglia in Italia: (1796-1975),
Bologna, Il Mulino, 2002; Chiara Saraceno, Le donne nella famiglia, una
complessa costruzione giuridica: 1750-1942, in Storia della famiglia italiana 1750-
1950, a cura di Marzio Barbagli, David I. Kertzer, Bologna, Il Mulino, 1992, pp. 103-
127. Francesco Bonini, La famiglia alla Costituente: strategie e modelli istituzionali,
in Percorsi e modelli familiari in Italia tra ‘700 e ‘900, a cura di Filippo Mazzonis,
Roma, Bulzoni, 1997, pp. 207-254; Pietro Rescigno, L’eguaglianza dei coniugi
nell’ordinamento dei paesi della comunità europea, in Eguaglianza morale e
giuridica dei coniugi, Napoli, Jovene, 1975; Guido Alpa, La cultura delle regole.
Storia del diritto civile italiano, Roma-Bari, Laterza, 2000; Raffaele Bifulco, Marta
Cartabia, Alfonso Celotto, L’Europa dei diritti. Commento alla Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea, Bologna, il Mulino, 2001; Mariano D’amelio, Sul
diritto delle persone e sul diritto di famiglia nel progetto di codice civile, in Bollettino
del Circolo giuridico di Milano, n. 2-3, Milano, 1939, pp. 2-21; Anna Maria
Galoppini, Il lungo viaggio verso la parità. I diritti civili e politici della donna
dall’Unità ad oggi, Bologna, il Mulino, 1980; Carlo Ghisalberti, La codificazione del
diritto in Italia, 1865-1942, Roma-Bari, Laterza, 1985; Salvatore Patti, Codificazioni
ed evoluzione del diritto privato, Roma-Bari, Laterza, 1999; Mario Rotondi, Una
legislazione di guerra (1915-1924), in ID., Profili di giuristi e saggi critici di
legislazione e di dottrina, Padova, Cedam, 1964.
9 Così ad esempio si ritornò al matrimonio canonico e si rafforzò la patria potestà,
resa vitalizia dal Codice Albertino del 1837, mentre le figlie si ritrovarono in una posizione successoria svantaggiata. Il ritorno al passato non va letto, però, come una tendenza assoluta di questi codici, i quali costituirono viepiù il tramite attraverso cui il modello codiciale organicamente strutturato giunse al futuro Stato unitario, trascinandosi seco i valori dell’uguaglianza civile di origine illuministica.
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nell’elaborazione dei singoli codici, disciplinati con una metodologia
autonoma in base ai diversi contesti, di poi approdati al codice civile
del 1942. Ciò valse, anzitutto, per una serie di istituti regolamentati dal
codice civile austriaco del 1811, l’ABGB, all’interno del quale si
strutturò una disciplina della patria potestà ben più ossequiosa del
principio di parità fra i coniugi e delle esigenze educative dei figli
rispetto al modello napoleonico10.
Il codice Pisanelli del 1865 sfiorò le opzioni napoleoniche in materia,
anche quelle lasciate da parte dai codici preunitari i quali avevano
preferito tornare al passato. Ciò valse anzitutto per il matrimonio civile
dove fu nettissima la scelta laica e separatista dello Stato. A fronte
delle notevoli trasformazioni, si avvertì l’intento di fare traghettare
prudentemente un’accurata combinazione di formule tra i testi
preesistenti, così come l’esigenza di avanzare nuove formulazioni
anche incorrendo in alcune omissioni11. Tra le disposizioni innovative,
quelle che riguardarono la famiglia furono il riconoscimento alla madre
di un ruolo specifico nel compito potestativo, sia pure in posizione di
subordine rispetto al coniuge, mentre la previsione dell’autorizzazione
maritale fu estesa anche alle parti di regno dove mancava, come in
Lombardia e Veneto. Anche il regime dotale ritornò a rappresentare
una regolamentazione ordinaria, secondo la tradizione culturale e
10
Si evidenzia che la stessa posizione della donna fu riqualificata, giacché in alcune codificazioni non si richiese più l’autorizzazione del marito per porre in essere negozi giuridici patrimoniali. Vedremo come anche altri codici preunitari furono contrassegnati da innovazioni rilevanti, come il Codice civile del Regno di Parma, datato 1820, che riguardo alla disciplina della dote, si pose su una linea comune ai codici italiani e di tendenza opposta alla linea napoleonica, prevedendo la comunione dei beni come regime patrimoniale di base e, per la prima volta, abolendo l’obbligo di dotare la figlia. Il Codice civile di Napoli del 1819, contemplava un regime matrimoniale misto, cioè canonico per forma e celebrazione, civile per pubblicità ed effetti.
11 Tra le omissioni rientrarono, in particolar modo, l’abolizione dell’obbligo di dotare
la figlia, e l’eliminazione degli atti reverenziali al fine di ottenere il consenso del padre alle nozze, che avevano rappresentato un’indiscutibile oggettivazione dell’auctoritas di quest’ultimo.
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sociale prevalente nella Penisola, così come si assistette al recupero
della figura dell’erede testamentario in luogo del mero legatario
universale.
Fortemente influenzato dalle relazioni tra Stato e Chiesa, siccome
storicamente ricomposte all’indomani dei Patti Lateranensi del 1929,
il diritto di famiglia è stato caratterizzato dall’abbandono del criterio
separatista del codice Pisanelli (che aveva adottato il regime del
doppio binario: civile e canonico) e fu regolamentato dalle
disposizioni attuative dell’art. 34 del Concordato dettate dalla L. N.
947 del 192912. Tra gli intenti del legislatore del 1942 vi era quello di
garantire l’unità della famiglia, dove col termine famiglia si
designavano due entità diverse: la famiglia patriarcale e la famiglia
mono-nucleare, come dimostra la differenziata disciplina giuridica
della successione legittima e della successione dei legittimari (c.d.
necessaria). Tale intento è stato perseguito con la conservazione di
forme tradizionali come il primato del padre, discriminando l’adulterio
del marito rispetto a quello della moglie, e conservando l’istituto
dotale ormai in decadenza, per come sopra esposto. Per altri aspetti
vi fu un timido sviluppo laddove si migliorò la posizione successoria
del coniuge o dove si contemplò una posizione successoria meno
12
Cfr. Cesare Magni, Gli effetti civili del matrimonio canonico, II edizione, Padova,
Cedam, 1958, pp. 54-55, il quale evidenziava gli effetti armonizzanti della disciplina
concordataria, che aveva equiparato lo status familiae dei nuclei fondati sul
matrimonio confessionale, trascritto agli effetti civili, al regime tradizionale delle
coppie che avevano celebrato nozze esclusivamente con il rito civile. V. anche
Antonio Vitale, Ordinamento giuridico ed interessi religiosi, Milano, Giuffrè, 1966, p.
440.
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svantaggiata rispetto al passato da parte dei figli naturali, o dove
ancora s’introdusse l’istituto dell’affiliazione.
Come potrà desumersi, a completamento di questo percorso, la
discendente del più che millenario processo evolutivo dell’istituto
privatistico della patria potestas è passata attraverso non poche
incisive trasformazioni, culture e prassi applicative, fino ad approdare
alle sponde del XX secolo, durante il quale si è a sua volta assistito a
radicali e molteplici mutamenti storici, politici e sociali che, soprattutto
nei lavori preparatori dell’assemblea costituente, hanno impresso in
maniera esponenziale l’affermazione indiscussa della tutela
dell’autonomia nei rapporti umani e nei diritti soggettivi all’interno del
nostro istituto così come per l’intero ambito del diritto di famiglia13.
1. Le persone sui iuris e lo status familiae nel diritto romano
privato
Il pater familias nel diritto romano privato era l’espressione della
cellula familiare. Il patriarca era una figura giuridica detentrice di un
potere di rappresentanza e di un’autorità illimitati, in grado di
ricomprendere finanche uno specifico ius vitae ac necis su tutti i suoi
sottoposti con l’imposizione di norme e sanzioni. Nel diritto romano
privato i diritti delle persone erano racchiusi in tre stati o condizioni
personali di rilevanza giuridica: stato di libero (status libertatis), stato
di cittadino (status civitatis) e stato di famiglia (status familiae)14.
13
Guido Alpa, Status e capacità. La costruzione giuridica delle differenze
individuali, Roma-Bari, Laterza,1993.
14
L’indicazione arcaica di status familiae veniva usata dai giuristi romani per definire i diritti delle persone appartenenti alla stessa unità familiare, meglio denominata da Ulpiano (Digestum, 50-16-195,2.) familia proprio iure, fondata da un capofamiglia vivente, detto pater familias. All’interno di questo gruppo familiare, Gaio (Institutiones, 48) distingue le persone sui iuris da quelle alieni iuris. Cfr.
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Oltre a ciò, nel diritto romano arcaico alle persone sui iuris (di diritto
proprio) erano contrapposte le persone alieni iuris o alieno iuri
subiectae (sottoposte al diritto altrui)15. Mentre in età moderna il
soggetto acquista la capacità giuridica con la nascita, nel diritto
romano antico solamente il civis romanus, libero e sui iuris era
considerato capace giuridicamente purché fosse in possesso delle
qualità richieste nonché autonomo, ovvero non subordinato alla
potestà del pater familias o di un dominus16. Poteva succedere
anche che una persona sui iuris (giuridicamente capace), qualora si
fosse venuta a trovare in una delle ipotesi limitative della capacità di
agire sopra contemplate, necessitasse l’assistenza di un tutore o di
un curatore, essendo prioritario favorire il compimento di determinati
negozi produttivi di effetti giuridici di natura economica sul patrimonio
Andrea Lovato, Salvatore Pugliatti, Laura Solidoro Maruotto, Diritto privato romano, Giappichelli, Torino, 2014, p. 169. 15
Tanto più rilevante si presenta il sistema dei tre status quanto più considerevole
era la funzione giuridica e sociale che esso era chiamato ad esercitare nel mondo romano, similmente alla funzione che occupa nei sistemi statutari moderni il concetto di capacità giuridica e capacità di agire. Cfr. Aldo Petrucci, Lezioni di diritto privato romano, Torino, Giappichelli, 2015, p. 2. 16
Secondo il diritto romano arcaico, potevano essere capaci di agire tutti quei soggetti, benché non giuridicamente capaci (quali gli alieni iuris, gli schiavi, gli stranieri), che non fossero pur tuttavia impuberi (minorenni), di sesso femminile, infermi, prodighi (ovvero non sufficientemente oculati nell’amministrazione dei propri beni). Più tardi, nei primi secoli dopo Cristo, con la Constitutio Antoniana, emanata nel 212 sotto il Principato di Caracalla, è stata raggiunta la parificazione giuridica e l’unificazione politica dei cives liberi. Cfr. Valentino Capocci, La Constitutio Antoniniana, in Memorie dell'Accademia dei Lincei, classe scienze morali e storiche, VI, I, i, 1925, pp. 93-133; Augusto Segré, Note sull'editto di Caracalla, in Rendiconti della Pontificia Accademia di Archeologia, XVI, Roma, 1940, pp.181-214; ID., La Costituzione Antoniniatla e il diritto dei "novi cives", in "Iura", XVII. 1966, pp. 1-26; Vincenzo Arangio-Ruiz, Sul problema della doppia cittadinanza nella repubblica e nell'impero romano, in Scritti giuridici in onore di Francesco Carnelutti, IV, Padova, 1950, pp. 55-77; Giuseppe Zecchini, La Constitutio Antoniniana e l'universalismo politico di Roma, in L'ecumenismo politico nella coscienza dell'Occidente, II, Roma, 1998, pp. 349-358; Giuseppe Ignazio Luzzatto, La cittadinanza dei provinciali dopo la Constitutio Antoniniana, in "Pubblicazioni dell'Istituto di Diritto romano, dei Diritti dell'Oriente mediterraneo e di Storia del Diritto", Milano, Giuffrè, 1949, pp. 218-249. Fu così superato dapprima il limite della cittadinanza e successivamente quello delle persone alieni iuris, purché libere, che consentì l’acquisto della capacità giuridica anche ai soggetti sottoposti alla potestà del pater familias. Ulpiano, nel Digesto, 1.5.17, scrive: «coloro che abitano nel mondo romano, in base alla costituzione dell’Imperatore Antonino sono stati resi cittadini romani». Il testo del provvedimento è conservato nel papiro della Biblioteca di Giessen nel quale è scritto: «Accordo a tutti gli abitanti dell’Impero la cittadinanza romana, e nessuno rimanga fuori da una civitas ad eccezione dei dediticii», ovvero dei non liberi, cfr. Papiro della Biblioteca di Giessen, N. 40, colonna 1, 7-9.
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personale17. In armonia con il sistema familiare, per cui la patria
potestas, come vedremo più avanti, si proiettava ancora post-
mortem, oltre la vita del pater familias, la scelta del tutore nel diritto
romano era attribuita in primo luogo al padre il quale poteva
designare nel suo testamento il tutore al proprio figlio impubere (c.d.
tutela testamentaria)18.
Può dirsi che il diritto di famiglia moderno ha fondato le sue origini
storiche sul peso specifico delle personae sui iuris, alle quali per
esclusione si contrapponevano - secondo la distinzione di Gaio - le
persone alieni iuris. Proprio al primo dei due status considerati
apparteneva il pater familias, portatore di un complesso apparato
potestativo19. V’è da osservare comunque che, a differenza di quanto
accade in età moderna, il pater familias del diritto romano antico non
era considerato colui che aveva generato uno o più figli, ovvero
l’uomo in un rapporto “biologico” e sentimentale con i figli che aveva
procreato. Il termine pater familias era esclusivamente attribuito ad
un soggetto di sesso maschile in ragione dei suoi diritti potestativi su
17
L’istituto della tutela, per come a noi giunto in età moderna, trova le sue origini nel diritto romano, la cui tradizione si rivolgeva sin da allora a temi di natura giuridica e sociale dell’officium tutorio, che di per sé era destinato alla cura ed all’appoggio dei soggetti in condizione di dichiarata minorazione, ancorché giuridicamente capaci, nel compimento di atti di rilevanza giuridica; cfr. Maria Ornella Attisano, Della tutela del minore, in AA.VV. Tutela ed amministrazione di sostegno, Biblioteca del diritto di famiglia, a cura di Bruno de Filippis, Vol. XIV, cap. III, Padova, Cedam, 2012, p. 33 e ss.; Bruno de Filippis, Il diritto di famiglia, Leggi prassi e giurisprudenza, Padova, Cedam, 2011, Cap. XIII, p. 1173-1174. Cfr., anche, Carla Fayer, La familia romana: aspetti giuridici ed antiquari. Sponsalia, matrimonio, dote, Parte II, Roma, «L’Erma» di Bretschneider, 2005, p. 75-76; Cesare Sanfilippo, Istituzioni di diritto romano, decima edizione, a cura di Alessandro Corbino e Antonino Metro, Soveria Mannelli, Rubbettino editore, 2002, p. 59-61; Cosimo Cascione, Manuale breve diritto romano, Milano, Giuffré, 2007, p. 258-260; Antonio Guarino, Diritto privato romano, Napoli, Jovene, 1997. 18 Di fatti, nella più antica fase tardo-romana, la tutela svolgeva una funzione ben
diversa da quella che può intendersi oggi; essa non era preordinata all’interesse dell’impubere, alla sua cura fisica e morale o alla protezione personale, bensì rispondeva all’esigenza di salvaguardare gli interessi patrimoniali del gruppo familiare agnatizio e, in particolare, della familia communi iure, mediante l’esercizio di un potere sul soggetto sui iuris il quale, però, a cagione dell’età impubere, non possedeva ancora la capacità di agire; cfr. Maria Ornella Attisano, Della tutela del minore, op. cit., pp. 32-33. 19
Gaio, Institutiones, 49-50, «Sequitur de iure personarum alia diviso. Nam quaedam personae sui iuris sunt, quaedam alieno iuri sunt subiectae. Sed cursus earum personarum, quae alieno iuri subiectae sunt, aliae in potestate, aliae in manu, aliae in mancipio sunt.videamus nunc de iis, quae alieno iuri subiectae sint: Nam si cognoverimus, quae istae personae sint, simul intellegemus, quae sui iuris sint…Ac prius dispiciamus de iis, qui in aliena potestate sunt».
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persone e cose ad egli assoggettati, mentre la donna, quantunque
sui iuris (libera e cittadina) e definita mater familias20, non avrebbe
mai potuto porre in essere autonomamente atti rilevanti per il diritto e
segnatamente possedere le attribuzioni che il diritto antico riservava
al pater familias nel reale esercizio dei diritti potestativi21. E’ bene
precisare che la familia proprio iure era una cellula di stampo
patriarcale, secondo la tradizione indoeuropea22, priva di una
soggettività giuridica, giacché le prerogative personali e le legittime
attribuzioni dei diritti dell’intero gruppo erano concentrate nella figura
del pater familias.
Venendo ai poteri del pater familias, la tradizione individua quattro
principali espressioni dell’autorità del padre23:
a) la manus, potere del marito sulla moglie;
b) il mancipium, che il pater familias esercitava sulle
persone che vivevano nell’ambiente della familias pur non avendo
vincoli di parentela con questi;
20
Il termine mater familias, raramente usato nelle fonti, viene utilizzato nel diritto romano antico per lo più in riferimento alla donna all’interno della familia proprio iure, per indicare la moglie legittima e madre dei figli. Cfr., Aldo Petrucci, op. cit., p. 10; Andrea Lovato, Salvatore Pugliatti, Laura Solidoro Maruotto, Diritto privato romano, cit., p. 170. 21
Ad eccezione di taluni casi limitativi della capacità di agire o in presenza di
un’incapacità fisica o mentale, al pater familias era consentito dal diritto compiere
all’interno della familia proprio iure ogni azione che non fosse impedita dal ius
civile.
22 Accanto alla famiglia mononucleare esisteva anche la familia communi iure o
famiglia agnatizia, fondata sui vincoli di parentela, laddove il pater familias esercitava la sua potestà anche sulle mogli ed i figli dei figli maschi. Il pater familias era anche il custode della memoria degli antenati, nonché del focolare domestico (domus, da cui la derivazione di dominus), attorno al quale venivano venerati gli dèi della famiglia o lares. Il patriarca, altresì, possedeva il patrimonio dell’intero clan e poteva discrezionalmente disporre di tutti gli uomini, delle donne e dei beni del gruppo: domus, servi, ancillae, pecus (bestiame), culta (campi).
23
Secondo la definizione di Gaio, infatti, le persone alieni iuris, assoggettate al potere di un altro o del pater familias, si distiungevano a sua volta in persone in potestate, in manu, in mancipio. Per di più, la famiglia proprio iure si caratterizzava in funzione della (illimitata) reggenza del pater familias, il quale possedeva il potere di conduzione familiare ed era unico responsabile sia dei figli naturali sia di quelli adottivi, nonché della moglie, degli schiavi e delle persone in mancipio o in causa mancipii.
M. Ornella Attisano
La patria potestas nella storia del diritto
c) la potestas dominica, che egli esercitava sullo schiavo di
cui era padrone;
d) la patria potestas che era esercitata dal pater familias sui
figli nati da iustae nuptiae e sui figli adottivi.
Le caratteristiche proprie della figura del pater familias, costruite sul
modello gerarchico-patriarcale del dominus familiare e della sua
indiscussa signoria sull’insieme dei famuli (dipendenti dall’autorità
privata del capo famiglia), per come si vedrà nel prosieguo,
escludono che lo schema parentale della tradizione romanistica
possa intendersi articolato, secondo una concezione moderna, se
non addirittura contemporanea, da relazioni affettive, da sentimenti
solidaristici o proscrizioni per violenze private ed abusi del ius
corrigendi: fino all’epoca imperiale le facoltà del pater familias
rimasero pressoché illimitate ed a volte impietose verso gli
assoggettati. Col tempo il controllo sociale contribuì a attenuare
alcune cruenti espressioni punitive, fino ai cambiamenti dei rapporti
endo-familiari, raggiunti grazie ad una visione sempre più umanista
delle relazioni, incentrate sulla piètas.
1.1. Acquisto e perdita della patria potestas
Posto che l’appartenenza alla famiglia romana era giuridicamente
orientata all’assoggettamento al pater familias, e con esso alla
costituzione di un vincolo potestativo che trascendeva i rapporti
biologici ed affettivi, nascenti dalla vita coniugale, la patria potestas si
acquistava attraverso le tre principali forme di ingresso nel gruppo24:
con la nascita, con la conventio in manum25, con l’adoptio.
24
Cfr. Giannetto Longo, Patria potestà, in Nuovissimo Digesto Italiano, V. XII, Torino, Utet, 1957, p. 575; Luigi Capogrossi Colognesi, Patria potestà, in Enciclopedia del Diritto, V. XXXII, Milano, Giuffré, 1982, p. 243. 25
La conventio in manum era quello che oggi definiremmo il matrimonio legittimo. In manu si consideravano le mogli, le quali fossero passate con le nozze civili sotto il potere del marito (potere che invece di potestas, si denominava manus) oppure sotto la potestas del pater familias, al quale il marito era anche sottoposto.
M. Ornella Attisano
La patria potestas nella storia del diritto
Abbiamo visto26 nel paragrafo precedente che la relazione
potestativa padre-figli era tendenzialmente perpetua27; essa si
originava con la nascita della prole legittima, concepita in costanza di
iustum matrimonium, o con l’ingresso di quella adottiva. Pertanto,
l’acquisto della patria potestà si raggiungeva per il solo fatto della
nascita del figlio e si estingueva (in via naturale) a seguito della
morte del pater familias o (in via sanzionatoria) come conseguenza
della vendita del filus familias protratta per tre volte consecutive,
secondo un inciso delle XII Tavole che sanciva la capitis deminutio
della patria potestà28. In epoca arcaica, inoltre, la patria potestas si
otteneva anche con la legittimazione dei figli naturali (i vulgo
concepti), così chiamati perché procreati fuori dal matrimonio, ed i
suoi effetti si producevano sino ad oltre il raggiungimento della
maggiore età del figlio. Inoltre, i figli naturali non riconosciuti erano fin
dalla loro nascita personae sui iuris. Il ius exponendi, che
inizialmente autorizzava il padre ad esercitare il diritto di
abbandonare volontariamente il neonato, escludeva l’acquisto della
patria potestà, così come il rifiuto di riconoscere il bambino appena
nato come proprio figlio29. Quanto all’acquisto della patria potestà
secondo adozione, il diritto romano contemplava due forme: quella
dell’adrogatio (effettuata al cospetto della più antica assemblea
popolare, i comitia curiata, nei confronti di un altro pater familias,
onde garantire la continuazione della famiglia, il culto degli antenati
ed il patrimonio comune)30 e dell’adoptio (attuata nei riguardi di un
26
Infra, p. 12, lett. d).
27 Cfr. Bruno de Filippis, Il diritto di famiglia, Padova, Cedam, 2011, p. 1021 ss.
28 Una norma contenuta nelle XII Tavole contemplava l’istituto dell’emancipatio che
era un atto giuridico volontario del padre e consentiva in via del tutto eccezionale al
filius familias di divenire soggetto sui iuris. Ciò solitamente avveniva, secondo un
orientamento del diritto tardo antico, al compimento del venticinquesimo anno di
età del filius.
29 Cfr. Mario Talamanca, Luigi Capogrossi Colognesi, Elementi di diritto privato
romano, Milano, Giuffrè, 2013, p. 65, ove è rilevato che durante il periodo postclassico l’istituto della legittimazione consentiva al pater familias di acquistare la potestas sui figli nati fuori del matrimonio.
30
Il pater familias arrogatore acquistava la potestas sull’arrogato divenendone successore a titolo universale. Poiché l’adrogatio presupponeva una capitis deminutio dell’arrogato, spesso ne estingueva i debiti, fatti salvi i casi di una restituito in integrum in favore dei creditori; cfr. Mario Talamanca, Luigi Capogrossi Colognesi, Elementi…, op. cit., p. 66.
M. Ornella Attisano
La patria potestas nella storia del diritto
filius familias)31. Giacché per i Romani, i quali non praticavano alcuna
distinzione tra diritto e morale, la patria potestà era un diritto32, in
senso soggettivo possiamo dire che il pater familias avesse la
facoltà di compiere tutti quegli atti consentiti dal ius civilis, che in re
ipsa erano improntati a giustizia ed equità33. La patria potestas
esercitata dal pater familias era l’unica manifestazione di
un’auctoritas privata prevista dalla legge romana, in forza della quale
il suo detentore agiva in visione di un “bene” subiettivo, in sé licitum,
a tutela del quale il ius civilis stabiliva l’indiscussa osservanza da
parte dei suoi destinatari34. La famiglia nel diritto romano antico
assurgeva a prodotto propriamente sociale piuttosto che giuridico,
nel quale trovavano la loro origine l’insieme dei diritti potestativi
riconosciuti al pater familias che rivestirono un ruolo primario nella
regolamentazione della vita sociale, e che rappresentarono anche il
fondamento dei diritti politici nonché la base dei più rilevanti diritti
civili (essendo il presupposto dell’eredità legittima e della tutela
legittima)35, così come andarono evolvendosi nella storia, sino a
costituire in tempi moderni la massa dei diritti e dei doveri connessi
allo status genitoriale e filiale.
Abbiamo già specificato che la patria potestas perdurava per tutta la
vita del pater familias e che i filii familias rimanevano alieni iuris fino
alla morte del primo, a meno che non fosse subentrata l’emancipatio
31
Con questo istituto, un filius familias passava dalla potestà di un pater a quella di un altro pater familias e poiché la patria potestà non poteva essere annullata e tanto meno trasmessa, una norma contenuta nelle XII Tavole (tab. 4.2: «si pater filium ter venum duuit, filius a patre liber esto», «se il padre avrà venduto tre volte il figlio, il figlio sia libero dal padre») sancì la perdita della patria potestà per abuso del ius vendendi, cfr. Mario Talamanca, Luigi Capogrossi Colognesi, Elementi…, op. cit., p. 67. 32
Secondo l’esplicitazione del celebre giureconsulto romano, Celso, risalente al II secolo d.C.: «ius est ars boni et aequi», per come riportato da Ulpiano, nel libro primo Delle istituzioni, D. 1, 1, 10 pr.-2, ammirato dall’eleganza della definizione adottata da Celso. Cfr. Carlo Augusto Cannata, Scritti scelti di diritto romano, Vol. II, a cura di Letizia Vacca, Torino, Giappichelli, 2012, p. 404. 33
Cfr. Anton Freiherr von Haimberger, Il diritto romano privato e puro, Napoli, Gabriele Rondinella Editore, 1863, p. 25. 34
Cfr. G. Ronga, Elementi di diritto romano, Torino, Unione Tip. Editrice Torinese, 1870, p. 8. 35
Filippo Serafini, Istituzioni di diritto romano, comparato al diritto civile patrio,
Parte Prima, II ed., Firenze, Giuseppe Pellas Editore, 1875, p. 56.
M. Ornella Attisano
La patria potestas nella storia del diritto
(una sorta di vendita fittizia del filius familias), con la quale si
determinava l’estinzione della patria potestas ed il figlio diveniva a
tutti gli effetti soggetto sui iuris, conseguendo così tutti i diritti (civili e
politici) che il ius civilis assegnava ai soggetti pienamente capaci di
agire36. Rileva in più il fatto che Il pater non necessariamente
coincideva con colui che aveva generato i figli; ciò perché la
condizione di filii dipendeva dalla potestà del più anziano fra gli
ascendenti maschi in linea retta37. Quanto agli aspetti patrimoniali,
era principio indiscusso del diritto romano (vigente almeno sino
all’epoca di Gaio)38 che le persone soggette alla patria potestas
fossero considerate la longa manus del pater familias39. Inoltre,
rispetto al pater familias, deceduto o capite deminutus, una legge
prevista ai tempi delle XII Tavole contemplava l’istituto della tutela
36
Secondo Gaio, Ist., I.132, nel periodo antico nei confronti delle figlie femmine e dei discendenti maschi, i quali però non fossero figli biologici del pater familias, la procedura di emancipazione filiale avrebbe previsto una sola operazione di vendita che, se così fosse, avrebbe attribuito maggiore rilevanza al processo di autonomizzazione del soggetto alieni iuris rispetto all’originario carattere sanzionatorio dell’istituto. Sulla base della citazione di Gaio, l’emancipazione si applicava in osservanza ad una disposizione delle XII Tavole che stabiliva tre emancipazioni o vendite con riferimento alla sola persona del figlio («se il padre abbia venduto il figlio tre volte, il figlio sia libero dal padre»). Quanto agli altri discendenti (diversi dal figlio), siano stati essi di sesso maschile sia di sesso femminile, era invece prevista una sola emancipatione. Sul finire della Repubblica, ragioni economiche legate per lo più al commercio incoraggiarono l’emancipazione del figlio prima ancora della morte del pater familias, onde consentire l’attribuzione della capacità al figlio che avrebbe dovuto porre in essere attività imprenditoriali in favore dell’economia familiare e concludere determinati negozi giuridici in territori lontani. Sul punto, cfr. Ennio Cortese, Le grandi linee della storia giuridica medievale, Roma, Ed. Il Cigno, 2001, p. 78; Gennaro Franciosi, Corso storico istituzionale di diritto romano, Torino, Giappichelli, 2014, p.335; Lucìa Monaco, Hereditas e mulieres, Napoli, Jovene, 2000, p. 178; Francesca Lamberti, La famiglia romana e i suoi volti, Torino, Giappichelli, 2014, pp. 9-10. 37
Solamente chi non avesse avuto un ascendente era persona sui iuris e come tale titolare a pieno titolo della capacità giuridica e di agire potendo porre in essere validi negozi giuridici.
38
Gaio, 2.87 «…quod liberi nostris quos in potestate habemus mancipio accipiunt vel ex tradizione nanciscuntur … vel ex alia qualibet causa adquiruntur; id nobis adquiritur; ipse enim, qui in potestate nostra habemus, nihil suum habere potest», «…tutto ciò che i figli che abbiamo in nostra potestas acquistano tramite mancipatio o traditio, o per alta qualsivoglia causa, è acquistato da noi; infatti chi è sotto la nostra potestas non può avere nulla di suo». 39
Il diritto romano privato distingueva tra acquisto e perdita del patrimonio per debiti, cosicché nel primo caso qualsiasi vantaggio patrimoniale (eredità, crediti, diritti reali) pervenuto ai suoi sottoposti (figli o schiavi, del tutto privi della capacità di gestione ed indirizzo economico dei beni personali) confluiva direttamente nel patrimonio del pater familias; nel secondo caso, in cui essi avessero contratto debiti, il pater non ne rispondeva verso i terzi creditori, ad eccezione delle condanne pecuniarie ex delicto. Cfr. Cesare Sanfilippo, Istituzioni di diritto romano, Soveria Mannella, Rubbettino, 2002, p. 156; Francesca Lamberti, La famiglia romana e i suoi volti, cit., p.10.
M. Ornella Attisano
La patria potestas nella storia del diritto
impuberis e della tutela mulierum, che produceva i suoi effetti nei
confronti di coloro, maschi e femmine, i quali (già sottoposti al
medesimo pater familias) fossero totalmente o parzialmente privati
della capacità di agire e di porre in essere negozi giuridici
patrimoniali40.
Si è detto che in età arcaica l’esercizio della patria potestà conferiva
sui figli il diritto del pater familias di accudirli ed allevarli oppure di
esporli, di venderli per motivi di estrema miseria o anche di ridurli in
schiavitù e di punirli corporalmente, finanche provocandone la
morte41. Questi arbitrii del pater familias, espressione di un esteso
potere discrezionale, sebbene moderatamente utilizzati grazie ai
limiti imposti dal sistema di convivenza sociale, si mantennero
pressoché immutati fino all’età classica augustea, allorquando
l’evoluzione sociale e giuridica della civiltà romana innovò
gradualmente l’istituto della potestà42.
Lo storico greco Dionigi scriveva (in Romane Antichità, libro II, §
15)43 che Romolo aveva stabilito numerose pene nei confronti del
pater familias, tra le quali la confisca di una metà delle sue sostanze,
40
Cfr., per una sintesi, Cristiana Rinolfi, Famiglia e persone, in «Studi Romani», Rivista trimestrale dell’Istituto Nazionale di Studi Romani, Anno XLVIII (NN. 1-2), Roma, 2000, p. 147 ss; cfr. M. Ornella Attisano, La tutela dei minori, op. cit., p. 37: «Sin dai primordi la donna fu sempre considerata soggetta al pater o al marito, per un principio di inferiorità naturale della medesima. In età tardo antica, la tutela mulierum era data alla donna propter laevitatem (Gaio, 1.144, pone la levitas animi = leggerezza a fondamento dell’incapacità di agire delle donne), ovvero in forza di una condizione sessuale che la rendeva inferiore ontologicamente al maschio. Alla donna era consentito compiere da sola, e senza l’autorizzazione del pater familias o del marito, tutti gli atti di ordinaria amministrazione, mentre quelli straordinari dovevano essere compiuti attraverso la potestà del pater familias o del marito e, in loro assenza, attraverso l’auctoritas interpositio del tutore. Mentre l’istituto della tutela mulierum si dissolse definitivamente nel IV secolo d.C. sotto Diocleziano, quello della tutela impuberis si trasformò in istituto assistenziale e, una volta ammessi gli impuberi alla capacità di agire come persone sui iuris, la tutela fu limitata ai soli infantes, i quali erano naturalmente incapaci di agire. In maniera analoga agli impuberes, la donna non poteva alienare le res mancipi, agire in giudizio, fare testamento, sebbene queste limitazioni, fondate sull’originaria struttura patriarcale della famiglia romana, andarono via via affievolendosi sino a scomparire e rimanere formali residui di un arcaico regime familiare e sociale patriarcale in radicale trasformazione». 41
Cfr. Antonio Freiherr von Haimberger, Il diritto romano privato e puro, cit., p. 88. 42
Giannetto Longo, Patria potestà, cit., p. 575-576. 43
Cfr. Dionigi di Alicarnasso, Le antichità romane, a cura di Francesco Donadi e Gabriele Pedullà, Milano, Einaudi, 2010, III; Marco Mastrofini, Le antichità romane di Dyonisius Halicarnasseus, Vol. 1, Ed. Fratelli Sonzogno, Milano, 1823, p. 156.
M. Ornella Attisano
La patria potestas nella storia del diritto
qualora avesse esposto la prole di sesso maschile ed inferiore ai tre
anni (fatta eccezione per i padri di infanti nati deformi), senza avere
preventivamente acquisito il consenso di almeno cinque uomini fra i
suoi vicini. Più tardi, sempre nei casi di abbandono volontario della
prole da parte del padre, Costantino intervenne con una legge
imperiale sancendo che chi avesse raccolto ed allevato un fanciullo o
una fanciulla, avrebbe conseguito il diritto di tenerli presso di sé
senza doverli ridare al padre originario che ne avesse fatta
successivamente richiesta con un’azione di spoglio. La sanzione
aveva lo scopo di favorire l’accoglienza dei minori abbandonati,
sottraendoli alla morte sicura44. Nel periodo postclassico si andò
sempre più praticando l’emancipatio legale del figlio, in coincidenza
all’introduzione della formula estintiva di carattere giudiziale della
patria potestas, che si lasciava così alle spalle la forma tradizionale
privata. L’azione si attivava dinanzi al magistrato competente con un
rituale meno complesso di quello volontario e maggiormente spedito.
Allorché in età giustinianea si attestò sempre più la concezione che i
vincoli di sangue fossero il fondamento dei rapporti parentali, l’istituto
dell’emancipatio apparve quale mera espressione della cessazione
della patria potestas e non anche dell’interruzione della relazione
parentale, come accadeva nel diritto romano arcaico e preclassico,
onde il figlio non venne più gravato dall’usufrutto legale e
dall’amministrazione dei beni in favore del padre mentre a
quest’ultimo fu riconosciuto il c.d. premium emancipatio consistente
in una quota di quei bona materna di cui in passato il pater era
proprietario e, successivamente, usufruttuario45. Parimenti fu
riconosciuta al filius dalla legge imperiale una maggiore capacità
giuridica.
Era già iniziato quel radicale processo di trasformazione della società
romana e di innovazione del diritto romano privato, che influenzerà il
nostro istituto, e di cui si tratterà più diffusamente nel prossimo
paragrafo.
44 Luigi Capogrossi Colognesi, Patria Potestà, op. cit., pp. 243.
45 Cfr. Mario Talamanca, Luigi Capogrossi Colognesi, Elementi…, op. cit., p. 68.
M. Ornella Attisano
La patria potestas nella storia del diritto
1.2. Evoluzione storica dell’istituto della patria potestas, dal
periodo postclassico fino all’età moderna
E’ stato sostenuto46 che la prima prerogativa della patria potestà, che
col passare del tempo subì una drastica attenuazione, fino a
dissolversi definitivamente, è stata l’esercizio del diritto di vita e di
morte sui figli, che finì per scomparire nel periodo postclassico, sotto
gli imperatori Valentiniano e Valente, nel 365 d.C..
Secondo alcuni AA47 sarebbe stato anche dimostrato che i poteri
privatistici della patria potestas iniziarono ad essere controllati e
sindacati dal potere giurisdizionale già verso la fine dell’età romana
classica, e ciò principalmente per effetto di un mutamento di indirizzo
socio-politico, degli influssi del diritto sacro, delle norme censorie e di
specifici interventi dell’autorità imperiale. In particolare, in epoca
imperiale, i sovrani avocarono allo Stato Romano ogni misura
repressiva privata e sotto Costantino fu stabilito che il ius vitae ac
necis, pratica ormai detestata, fosse equiparato al crimine di
parricidio e si previde la condanna a morte per chi avesse soppresso
i neonati, ad eccezione di quelli nati deformi. Più tardi, il Codex
Teodosiano nel 438 d.C. riportava l’incipit normativo afferente al
potere dei soggetti sui iuris verso gli alieni iuris e, in particolare
l’infanticidio, che veniva considerato un male capitale48. Il passo
46
Luigi Capogrossi, Patria Potestà, cit., p. 244. 47
Cfr. gli orientamenti conformi di Francesco Lucrezi, Senatusconsultum Macedonianum, in Bollettino di Studi latini, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1992, p. 307, dove l’A. sostiene che nella raccolta di costituzioni imperiali del Codex Theodosianus (ad opera di Teodosio II, a. 438 d.C.) è tracciata la decadenza dei poteri del paterfamilias; Danilo Dalla, Renzo Lambertini, Diritto privato romano, Torino, Giappichelli, 2006, p. 8. 48 La costituzione così recita: «Se qualcuno abbia commesso un sacrilegio
nell’uccidere un infante, questo male sarà capitale». Nei confronti dei figli, il Codex
Theodosianus indicava ai parenti prossimi di non impartire punizioni severe agli
adolescenti, limitando sostanzialmente gli eccessi del c.d. ius corrigendi. C.Th.
9.14.1: «Propinquis senioribus lege permittitur errorem vel culpas adolescentium propinquorum patria districtione corrigere, id est ut si verbis vel verecundia emendari non possint, privata districtione verberibus corrigantur. Quod si gravior culpa fuerit adolescentis, quae privatim emendari non possit, in notitiam iudicis deferatur» - «Ai parenti prossimi per legge è permesso correggere la mancanza o la colpa degli adolescenti con severità paterna, cioè se con le parole o con il timore non sia possibile punire, siano corretti con il rigore familiare e con sferzate, mentre se dall'adolescente è commessa una colpa più grave, che non sia possibile correggere privatamente, sia portato alla conoscenza del giudice», Mommsen-Meyer, Theodosiani libri XVI cum constitutionibus Sirmondianis et leges Novellae
M. Ornella Attisano
La patria potestas nella storia del diritto
merita una particolare attenzione poiché ivi è fatto riferimento non ai
figli minores, bensì a quelli adulescentes, con l’indicazione precisa di
una determinata fascia di età. Il contenimento normativo di queste
rigide manifestazioni correttive può dirsi dettato dall’intento
moralizzante di impronta cristiana dell’imperatore e
dall’accentramento del potere sovrano sulla comunità civile.
Segnatamente, di pari declinazione è l’idea che l’intervento pubblico
sulla disciplina di situazioni prima lasciate alla libera determinazione
privata del patriarca abbia spiegato una sorta di rilevanza
pubblicistica del diritto di famiglia e delle persone, attraverso il
«controllo del potere centrale sul comportamento dei privati verso i
sottoposti, schiavi e filii, e perciò sembra evidenziare, unitamente ad
altre disposizioni, come i poteri dei privati risultassero limitati in
favore di quelli pubblici»49.
Per di più, mentre in epoca preclassica50 si previde che il pretore
potesse concedere ai terzi, che avessero contratto negozi con gli
alieni iuris, di convenire nei relativi giudizi il pater familias, il quale
accompagnava l’operato del figlio essendogli sottoposto, in maniera
analoga a quanto era previsto per i debiti contratti dallo schiavo, nel
periodo postclassico, a partire da Costantino, il pater familias perse
l’originario diritto di proprietà nei confronti dei patrimonio del figlio, sia
esso proveniente da cariche pubbliche od ecclesiastiche, sia
dall’eredità materna o dal matrimonio, conservandone però
l’usufrutto. Più avanti, Sotto Giustiniano, il diritto imperiale fece
acquisire al filius familias una capacità patrimoniale sempre più piena
ed esclusiva, mentre in favore del padre poteva stabilirsi una sorta di
ad Theodosianum pertinentes, Berlino, Weidemann, 1905; cfr. Danilo Dalla, Patria potestà e rapporti tra genitori e figli nell’epoca postclassica, in «AARC», Napoli, Jovene, 1988, p. 93. 49
Lucia Di Cintio, Riflessioni sul libro IX della «Interpretatio» alariciana, in Rivista di diritto romano, XII , 2012, p. 10 (www.ledonline.it/rivistadirittoromano). L’articolo è poi confluito in ID., L’«Interpretatio Visigothorum» al «Codex Theodosianus». Il libro IX, Milano, Giuffrè, 2013, p. 111 ss.. 50
Cfr. Cesare Sanfilippo, Istituzioni di diritto romano, cit., p. 157. Allo stesso modo, il pretore concesse al figlio di potere amministrare ed utilizzare in proprio una somma di denaro che, però, rimaneva sempre di proprietà del pater familias, ed a quest’ultimo impose (con un’actio de peculio, risalente al II sec. a. C.) l’assunzione di responsabilità per i debiti contratti dal figlio.
M. Ornella Attisano
La patria potestas nella storia del diritto
usufrutto legale, in maniera analoga a quanto è previsto nelle odierne
disposizioni in materia. Rileva a questo punto quanto evidenziato in
premessa, ovvero che gli imperatori cristianizzati, a partire da
Costantino, mitigarono ed in alcuni casi abolirono talune applicazioni
cruente ed inumane dell’esercizio della patria potestà sui
discendenti. Dal codice Teodosiano alla compilazione di
Giustianiano51, il corpo delle costituzioni imperiali e delle legislazioni
disciplinanti norme di diritto privato e familiare giunsero ad una svolta
e furono giustappunto l’espressione dell’evidente radicamento della
dottrina cristiana in materia, tendente a riconoscere dignità propria ai
componenti sottoposti all’autorità del pater e ad improntare le
relazioni parentali su referenze umane ed affettive. In questo modo i
filii familias allorché, come nei casi espressamente contemplati dalle
leggi imperiali, furono sciolti dalla potestà del patriarca (poichè
ritenuti candidabili ad una carica pubblica ed onorifica o investiti
propriamente del godimento di una dignità sacerdotale, civile o
militare), continuarono a sottostare pur tuttavia ai iura familiae, senza
mai risultare sciolti dai sacri doveri di pietà e di reverenza verso il
pater, giacché ritenuti perpetui52. Rimane circostanza accertata che
51
Faustino de Gregorio, Omnis potesta a Deo. Tra romanità e cristianità, Vol. II,
Parte Speciale, Torino, Giappichelli, 2013, p. 35 ss; Georges Tate, Giustiniano. Il
tentativo di rifondazione dell’Impero, Roma, Salerno Editrice, 2006.
52 Un passo di Ulpiano, in riferimento al liberto manomesso, ed estendendo il
principio anche al filius, affermava «semper honesta, et sancta persona patris, ac
patroni videri debet», chiarendo che ancorché sciolto il potere civile dovesse
sempre sussistere «reverentia pietas sacris nominibus debita». Il brano di Ulpiano
dell’età severiana si trova nel Digesto di Giustiniano (D. 1.1.4). Anche il Codex
Theodosianus riportava una Costituzione di Costantino con la quale il Principe
stabiliva il carattere perpetuo del dovere di pietà e reverenza verso il patriarca.
Vale la pena soffermarsi sulle citazioni di Ulpiano, considerato che egli precisa che
per diritto naturale tutti gli uomini nascono liberi: «utpote cum iure naturali omnes
liberi nascerentur nec esset nota manumissio cum servitus esset incognita»
(D.1.4.1) ed anche che «libertas est naturalis facultas eius quod cuique facere
libet, nisi si quid vi aut iure prohibetur» (D.1.5.4), cosicché «La libertà è la naturale
facoltà di ciò che a ciascuno piace fare, a meno che non si vieta qualche cosa o
per forza o per legge». Giustiniano infine, con la Novella 81, cap. 2, nel sancire
l’annullamento della patria potestas nei confronti del figlio per motivi di dignità di
quest’ultimo, volle pur tuttavia mantenere la permanenza dei diritti di famiglia e
l’obbligo ancorchè morale, oltre che giuridico, di devozione, rispetto, piètas verso il
pater familias.
M. Ornella Attisano
La patria potestas nella storia del diritto
da una qualsiasi emancipazione dal pater familias derivasse al
contempo una esenzione dalla patria potestà ed una autonomia
patrimoniale ed economica in capo al filius dichiarato libero.
Particolarmente per impulso della Chiesa, desiderosa di lasciti
testamentari, così come di beneficiare dei beni personali dei propri
dignitari e sacerdoti, con la nascita del Sacro Romano Impero si
andò sempre più diffondendo la prassi del paterfamilias di rinunciare
alla propria potestà nei confronti di un filius familias per sopraggiunta
condizione di dignità affinché questi divenisse esso stesso sui
iuris ed eventualmente paterfamilias a sua volta. Questa forma di
emancipatio, che di norma veniva applicata soltanto per i figli maschi,
allorché per le figlie e per gli altri discendenti in linea retta si stabilì
che fosse sufficiente una sola emancipazione, fu ampliamente
adottata fino a tutto il sec. V dell'Impero, allorquando una
costituzione dell'imperatore Anastasio (Cod., VIII, 48 [49], de
emancip., 5) dell'anno 502 ammise, per i casi in cui la lontananza del
figlio impedisse l'uso dell'antica forma, un'emancipazione per
rescriptum principis. Giustiniano (Cod., ibid., 6) in seguito abolì
l'emancipazione classica prevista dalle XII Tavole e rese applicabile
ad ogni ipotesi la formula anastasiana, consentendo finanche di
emancipare i figli mediante semplice dichiarazione al magistrato.
Nel diritto germanico l’autorità del capo famiglia non si caratterizzò
per la sua perpetuità, come nel diritto romano; essa incontrò il suo
limite temporale nella raggiunta capacità militare del figlio53. L’istituto
della patria potestas, sebbene non abbia mantenuto immutate le
originarie connotazioni del diritto romano, fu in un certo qual senso
assimilato al potere familiare espresso attraverso il mundium, che nel
diritto germanico richiamava analogicamente la conventio in manum
del diritto romano. Tuttavia, il capo della sippe germanica, detentore
di un potere meno amplio, evocava la figura classica del pater
familias e con essa la visione patriarcale del gruppo agnatizio di
53
Cfr. Mario Viora, Patria potestà (diritto intermedio), in Novissimo Digesto It., Torino, Utet, 1957, XII, p. 577.
M. Ornella Attisano
La patria potestas nella storia del diritto
appartenenza54. Lo stesso mundium germanico, più che ordinato
all’esercizio di una potestà del capo famiglia, come avveniva nel
diritto romano, era un diritto-dovere di protezione dei figli, i quali
dovevano essere difesi, finanche col duello, e rappresentati in
giudizio55. I figli erano anche protetti nel diritto germanico contro gli
abusi del padre, e anche ove fosse stata espressa (nella forma più
rigorosa) l’autorità paterna, essa non avrebbe mai finito per offuscare
la personalità dei figli, giacché era la stessa Sippe, alla quale
appartenevano, tenuta ad attuare un’ampia tutela della figliolanza.
Viepiù che nel diritto germanico, a differenza di quanto era occorso
nel diritto romano, a fare nascere l’acquisto della patria potestà in
capo al pater familias non era la venuta al mondo dei figli o la loro
adozione bensì l’ufficio del mundio da parte del marito sulla moglie,
mentre a provocarne la cessazione era il raggiungimento dell’età
pubere da parte del discendente. Una volta raggiunta la maggiore
età, il figlio poteva reclamare una quota parte dei beni domestici. Ma
l’aspetto maggiormente innovativo del diritto di famiglia germanico,
che qui merita un breve richiamo per la grande forza ed
indipendenza che ivi la famiglia conservò rispetto al potere centrale,
fu l’istituzione del c.d. consiglio di famiglia che assumeva un ruolo
addizionale rispetto al iudicium domesticum (o tribunale di famiglia,
con compito di repressione nei delitti endofamiliari) del diritto
romano, poiché aveva competenza specifica nel prestare l’assenso
al compimento di determinati negozi giuridici, quali nozze e
compravendite56. Nel diritto italiano, la patria potestà si portò dietro
54 Cfr. in particolare, Ennio Cortese, Le grandi linee della storia giuridica
medievale, cit.; Luigi Brigida, La patria potestas dal Codice 1865 al diritto di famiglia, in Archivio storico e giuridico Sardo di Sassari, Vol. 8, Nuova serie, 2001, p. 9 ss. 55
Il padre «doveva educarli secondo la loro condizione sociale alla virtù e all’amor della patria, al quale intento era fornito della necessaria potestà punitiva: e se percepiva il guidrigildo e le multe in cui altri incorresse offendendoli, rispondeva delle loro azioni», Antonio Pertile, Storia del diritto italiano dalla caduta dell’Impero Romano alla codificazione, Torino, Utet, 1893, p. 686. 56
Cfr. Vincenzo Lomonaco, Studi storici sui principi della legislazione, Parte I, Napoli, Tipografia e stereotipia della regia università, 1874, p. 279 dove l’A. sostiene che «dippiù particolari circostanze diedero al consiglio di famiglia germanico una maggiore consistenza e svolgimento che non ebbe quello di Roma». Dello stesso orientamento, Luigi Brigida, La patria potestas, cit., p. 71.
M. Ornella Attisano
La patria potestas nella storia del diritto
le reminescenze del diritto germanico ed i contrassegni moderati
dell’età romana postclassica57. Era ormai lontana l’epoca in cui il
pater familias esercitava il ius vitae ac necis sui suoi sottoposti. A
questa interpretazione arbitraria dell’auctoritas si sostituì strada
facendo un più controllato diritto di correzione. Ciò non oscurò la
coscienza unitaria e duratura della civiltà romana che non solo
sopravvisse ma, come osservato, trovò nuova linfa e maggiore
vigore attraverso la Chiesa e l’unità religiosa58.
Con la formazione del diritto statutario, sotto gli influssi del
cristianesimo, furono previste ulteriori forme di emancipazione legale
dei figli dalla potestà genitoriale: la professione monastica, l’ordine
sacro, l’arruolamento militare, l’incarico pubblico o elettivo, il
battesimo dei figli di genitori non credenti. La patria potestà
pervenne al periodo in oggetto dopo essere rimasta pressoché
immune all’influenza del diritto germanico e longobardo. La potestà
del padre, così come nel diritto romano, particolarmente in alcuni
casi punitivi, poteva essere all’epoca sostituita dall’intervento della
pubblica autorità, mentre alcune forme coercitive private furono
completamente bandite dal diritto. Si pensi, per citarne alcune,
all’abolizione (sopraggiunta dopo le decretali di Gregorio IX)59
dell’obbligo del figlio di fare ingresso nella vita ecclesiastica o al
diritto del padre di imporre il consenso matrimoniale del figlio (diritto
57
Claudio Schwarzenberg, Patria potestà (Diritto intermedio), in Enciclopedia del diritto, XXXII, Milano, Giuffrè, 1962, pp. 249-251. 58
Nell’unità del magistero pontificio, la Chiesa costituiva la società universale, organizzata, dotata di una formazione propria e di una propria tradizione morale e culturale, cfr. Giulio Vismara, Impius foedus: la illiceità della alleanze con gli infedeli nella respublica christiana medioevale, Milano, Giuffrè, 1950, p. 113. 59
Il pontefice pubblicò le Decretali con la bolla Rex pacificus del 5 settembre 1234, trasmessa alle università di Bologna e di Parigi. In essa Gregorio IX rassegna le motivazioni della collezione, indicando l’esigenza di raccogliere le decretali dei suoi predecessori, rimaste fino allora disperse, accorpandole in un unico blocco normativo cogente della Chiesa Romana. Secondo l’autorevole parere dello Schulte e di Friedberg, il pontefice sarebbe stato anche accompagnato dall'intenzione di fare assurgere formalmente il diritto canonico all'elevata grandezza del diritto romano e di porre al riparo da ogni possibile contestazione il potere legislativo del pontefice, in un momento storico particolarmente difficile per il papato. Così facendo il papa aboliva testi di diritto vigente – come le Quinque compilationes – sostituendole con una definitiva ed autentica, affermando per l’avvenire il primato di Roma quale centro di produzione delle collezioni, che fino a quel momento era rappresentato dalla scuola di Bologna.
M. Ornella Attisano
La patria potestas nella storia del diritto
che, invece, rimase per le nozze del minorenne)60. La condizione del
filius rispetto alla potestà paterna era essenzialmente connessa ai
rapporti di natura patrimoniale nei quali prevalse la disciplina
romanistica del peculium61. Si previde anche una forma di pubblicità,
su appositi registri o presso i comuni, per rendere opponibile ai terzi
l’avvenuta emancipazione del figlio, che – come detto innanzi - si
stabilì dovesse conseguire in via ordinaria al raggiungimento di una
determinata età, prima della quale non sarebbe stato possibile
procurarsi l’emancipazione. Eccezionalmente fu contemplata anche
la domanda del solo figlio che poteva obbligare giudizialmente il
padre ad emanciparlo ogni qual volta fosse stato maltrattato -
parimenti a quanto prescritto nel diritto romano - o depauperato del
patrimonio personale, o, ancora, quando il padre avesse dissipato le
sostanze della famiglia62. Va precisato e chiarito che secondo la
tradizione romana, il legame naturale di sangue, fondato sulla
maternità, non produceva alcun effetto legale sui figli, i quali erano
esclusivamente soggetti all’autorità paterna. In ragione a quanto, la
filiazione legittima, ovvero quella alla quale il diritto attribuiva
espressamente conseguenze giuridiche, era fondamentalmente di
discendenza patriarcale, giacché idonea a trasmettere in linea
maschile la patria potestas. All’epoca dei iura propria civitatis (sec.
XIII), essendo state escluse le donne dai diritti di successione, con il
conseguente rafforzamento della dimensione patrilineare della
discendenza legittima, fu previsto un contenimento della patria
potestas nella parte in cui si sancì l’obbligo per il padre di assegnare
alle figlie una dote al momento delle loro nozze o della loro
monacazione. L’esclusione delle figlie dai diritti ereditari, avviata in
età tardo-medievale, segnatamente può essere interpretata
attraverso l’intento di consolidare il patrimonio familiare in linea
60
Luigi Brigida, La patria potestas dal Codice 1865 al diritto di famiglia, op. cit, p. 74 e ss. 61
Cfr. Antonio Pertile, Storia del diritto italiano dalla caduta dell’Impero alla codificazione, V, III, op. cit., p. 377-378; 62
Cfr. Antonio Pertile, op. cit., pp. 383-386, il quale osserva, però, che l’emancipazione del figlio che ridondasse in danno dei suoi creditori non era in quel periodo produttiva di alcun effetto giuridico sostanziale. V. anche Luigi Brigida, La patria potestas, cit., p. 74-75.
M. Ornella Attisano
La patria potestas nella storia del diritto
maschile. I vincoli giuridici dei padri nei confronti dei figli erano
confinati ai soli eredi legittimi. Sull’argomento va osservato che il
diritto canonico, a partire dal XII secolo assegnò ai padri l’obbligo di
provvedere al mantenimento di tutti i figli, abolendo la tradizionale
distinzione tra discendenti legittimi ed illegittimi63. A partire dal XVI
secolo questo obbligo solidaristico fu introdotto nel diritto civile dove
rimase in vigore fino al XIX secolo, epoca in cui i codici
ottocenteschi, sul modello del codice civile di Napoleone del 1804,
disposero un’inversione di tendenza delimitando sempre più netti
confini tra la famiglia legittima e quella illegittima64.
Prima di approdare all’epoca della costituzione degli stati preunitari65,
gioverà rammentare che il nostro istituto giunse al diritto moderno
attraverso la rappresentazione giuridica – tutta medievalistica - della
potestas del capo famiglia quale trattéggio di un’autorità privata
soggettiva sulla quale pesava l’impietoso controllo delle norme del
diritto e dell’etica66.
1.3. Dal “code civile” del 1804 al codice civile italiano del 1942
63
Georgia Arrivo, Legami di sangue, legami di diritto (Pisa secc. XVI-XVIII), in
Rivista di Ricerche Storiche, fasc. 2, Vol. 27, Napoli, 1997, pp. 231-261.
64 Avviato il processo di Riforma della Chiesa Cattolica, il Concilio di Trento
(cominciato nel 1545) riaffermò il primato della giurisdizione ecclesiastica sul
matrimonio, che i poteri secolari non misero in discussione. Nel XVIII secolo, alcuni
sovrani “illuminati” intervennero nel Regno di Napoli, nel Ducato di Modena, nel
Regno sabaudo, nel Ducato di Milano e nel Granducato di Toscana per imporre al
pater familias il consenso agli sponsali e ai matrimoni e, soprattutto nella
Lombardia austriaca di Giuseppe II, onde avocare a sé alcune competenze della
Chiesa in materia. La rottura tra le due giurisdizioni si ebbe con la Rivoluzione
francese, che introdusse il matrimonio civile, celebrato di fronte a un pubblico
ufficiale, ed il suo scioglimento con il divorzio, che soggiaceva all’esclusiva
competenza dello Stato.
65 E’ stato sostenuto che «paradossalmente l’intrusione dell’autorità istituzionale
nell’ambito delle famiglie e la repressione disciplinante delle loro conflittualità inter e infra parentali prima dell’affermazione dello Stato unitario provoca un ripiegamento dei rancori e delle tensioni nel chiuso delle mura domestiche che può frequentemente sfociare nel parricidio», Cesarina Casanova, Patria potestas. Due nuovi contributi alla storia del diritto di famiglia, in “Storicamente”, Laboratorio di storia dell’Università di Bologna, 3 (2007), n° 26. 66
Cfr. Pasquale Voci, Storia della ‘patria potestas’ da Costantino a Giustiniano, in SDHI, Vol. 51 (1985), pp.1-68, in particolare p.33, ora in ID., Studi di diritto romano, vol. 2, Padova 1985, pp.465-539; Cesarina Casanova, Patria potestas, cit.; Marco Cavina, Il padre spodestato. L’autorità paterna dall’antichità a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2007.
M. Ornella Attisano
La patria potestas nella storia del diritto
Col passare dei secoli, si assistette ad una discontinuità con il
passato: l’eguaglianza per nascita di tutti gli esseri umani
rappresentò il superamento della concezione romanistica della
sovranità del pater familias sui figli, i quali non furono più equiparati
agli schiavi, ma conquistarono man mano la piena capacità giuridica
e di agire67. Si dovette giungere all’età contemporanea affinché la
patria potestà fosse considerata come un munus publicum, un diritto-
dovere; una potestà rigorosamente funzionale all’interesse primario
del minore e quindi di valenza gius-pubblicistica68. In passato,
l’allontanamento definitivo del figlio dalla casa del padre segnava un
passaggio importante nel processo di autonomizzazione giuridica dei
figli, ancor di più se si considera che per molto tempo ancora la
potestà paterna costituì un fronte unico con la sovranità politica e
persino con la giurisdizione69. La consolidata influenza del diritto
canonico sul diritto civile e, in particolare sul costume sociale e
familiare, dopo essere passata attraverso il diritto giustinianeo e
seguitando sino a tutto il Medioevo ed il Rinascimento, cui si
aggiunse la contaminazione da parte del diritto barbarico, richiese
l’introduzione nel diritto di famiglia nell’epoca preunitaria di termini
prescrittivi della patria potestas più attenuati rispetto al passato. Di lì
a breve quel contesto si ribaltò: le campagne napoleoniche di
conquista diffusero il code civil francese del 1804 (denominato
Napoleonico a partire dal 1807 in seguito alla creazione dell’impero)
nei vari territori dell’Italia, imponendo un modello familiare autoritario
67
Nella concezione moderna, invece, non solo i due poteri si separarono, ma la patria potestà trovò un limite nella maggiore età del figlio e addirittura si configurò come un dovere del genitore nei confronti del figlio minore. «Sulla patria potestà, infatti, può intervenire l’autorità giudiziaria per sospenderla e sostituirla qualora non venga esercitata nell’interesse effettivo del minore. L’evoluzione dell’istituto della patria potestà è imponente e si carica di una serie di compiti assorbiti dall’arricchirsi del patrimonio dei diritti che progressivamente vengono riconosciuti. Si pensi all’istruzione, quale nuovo diritto e conquista dello Stato di diritto che tradizionalmente taluni considerano diritto esclusivo della potestà genitoriale anziché come un diritto garantito dall’ordinamento giuridico nell’interesse esclusivo del minore», cfr. Umberto Cerroni, Precocità e ritardo nell’identità italiana, Roma, ed. Meltemi, 2000, pp. 128-129. 68
Cfr. M. Ornella Attisano, Della tutela del minore, op. cit., p. 38; Bruno de Filippis, Il diritto di famiglia, op. cit., p. 1174, con richiamo di Bisegna, voce Tutela e curatela, in Novis. Dig. It., p. 926; Umberto Cerroni, Precocità e ritardo nell’identità italiana, op. cit., p. 129. 69
Cfr. Cesarina Casanova, Patria potestas, cit..
M. Ornella Attisano
La patria potestas nella storia del diritto
e patriarcale costellato di massicci attributi70. Il matrimonio civile,
disciplinato con l’affermazione delle idee illuministiche, fu introdotto
in gran parte dei Paesi europei; il diritto di famiglia della codificazione
napoleonica diffuse un modello (familiare) fortemente gerarchico che
lasciò alle spalle le pregresse conquiste egalitarie, come il diritto
riconosciuto alle figlie di succedere all’eredità paterna a guisa dei
discendenti maschi. Nella figura del capofamiglia fu nuovamente
accentrata un’autorità considerevole, esercitabile indistintamente su
moglie e figli. Dopo la Restaurazione, a questa impostazione si
ispirarono le legislazioni ottocentesche di molti Stati europei.
La gestione amministrativa del patrimonio della prole spettava in
primis al padre e, solo in sua assenza, alla madre; la patria potestà
cessava con il compimento della maggiore età dei figli, fissata a
ventuno anni, e al figlio, il quale non avesse ancora raggiunto la
maggiore età, era fatto divieto di sposarsi senza il consenso del
padre71. La stretta derivazione dal modello francese, che era ispirato
alle dottrine giusnaturalistiche, si individuò nella codificazione
rinnovatrice degli Stati italiani dell’epoca immediatamente
successiva. L’Italia restaurata si diede una normazione civilistica
propria dei singoli Stati, legati invero ad una differente situazione
politico-sociale, ma il retaggio della legislazione napoleonica, fedele
sostanzialmente alla tradizione storica del diritto romano comune,
continuò a farsi spazio nelle codificazioni dei governi restaurati, che
radicalizzarono l’opposizione ai principi laici e liberali espressa nel
codice francese del 1804, soprattutto in materia di diritto famiglia,
dove si accentuò l’insieme delle potestà esercitate dal padre
all’interno del nucleo familiare legittimo, sia nei confronti della donna
sia dei figli, i quali furono ridotti in uno stato di maggiore soggezione
70
«Dal punto di vista dei rapporti personali, a parte il diritto di prestare consenso al matrimonio del figlio, quello di emanciparlo e quello di consentirne l’adozione da parte di un terzo, penetranti prerogative paterne integravano il droit de qarde – diritto di sorveglianza sul figlio - e il droit de correction – diritto del padre di ricorrere alla pubblica autorità per fa punire il figlio - », sì da fare del code civil un apparato normativo strutturato sull’indirizzo di comando del padre famiglia, cfr. anche per un ampio tratteggio, Claudio Schwarzenberg, Patria potestas, cit., p. 251 e ss..
71
Cfr. Alessio Anceschi, Rapporti tra genitori e figli. Profili di responsabilità, Milano, Giuffrè, 2014, p. 230.
M. Ornella Attisano
La patria potestas nella storia del diritto
al primo72. Infatti, largamente influenzati dal codice napoleonico
(formalmente abrogato), quasi tutti i codici civili dell’Italia preunitaria,
oltre ad orientarsi univocamente a non riconoscere valenza giuridica
alle nozze civili, ad ammettere effetti civili al matrimonio canonico e
ad abolire il divorzio, presunsero che la patria potestà cessasse ad
una età dei figli non inferiore ai venticinque anni (come per il codice
borbonico e per il Regno delle due Sicilie, dove i figli potevano anche
essere diseredati dal capo famiglia), che diventò, invece, di trenta
anni per il granducato di Toscana e solamente alla morte del padre
nel Regno di Sardegna e nel codice Albertino del 1837 (che assieme
alla reintroduzione della perpetuità della patria potestà, conservò il
diritto del padre – in passato previsto dal codice napoleonico - di
rivolgersi alla forza pubblica per richiedere l’arresto del figlio di età
inferiore ai sedici anni e la carcerazione fino a un massimo di
venticinque anni, nei casi di sua disubbidienza)73.
Il codice Pisanelli del 1865 non ha apportato rilevanti differenze
rispetto al code civil del 1804. Più precisamente si evidenzia una
tendenziale spaccatura con le disposizioni napoleoniche e
preunitarie, volte ad affermare l’ampio potere discrezionale del padre
all’interno della famiglia. Una prima apertura qui si ottenne con
l’abolizione del diritto di far mettere in carcere il figlio minorenne che
72
Cfr., Claudio Schwarzenberg, Patria Potestà, op. cit., p. 253; Luigi Brigida, La patria potestas, cit., p. 76; Paolo Ungari, Storia del diritto di famiglia in Italia (1796-1975), Bologna, Il Mulino, rist. 2002, p. 134. Per una approfondita indagine, v. Francesco Santoro Passarelli, Dai codici preunitari al codice civile del 1865, in Studi in memoria di Andrea Torrente, Milano, Giuffrè, 1968, II, pp. 1031-1043; Guido Astuti, Il «Code Napoléon» in Italia e la sua influenza nei codici degli stati italiani successori, in Id., Tradizione romanistica e civiltà giuridica europea, Napoli, 1984, II, p. 735 e segg; Carlo Ghisalberti, Unità nazionale e unificazione giuridica in Italia, cit.; Roberto Bonini, Disegno storico del diritto privato italiano, Bologna, Il Mulino 1980; Antonio Padoa Schioppa, Dal Code Napoléon al codice civile del 1942, in Il codice civile, Atti del Convegno del cinquantennio, Roma, Acc. Naz. dei Lincei, 1994, p. 47 e segg.; Adriano Cavanna, Influenze francesi e continuità di aperture europee nella cultura giuridica dell'Italia dell'Ottocento, ed. ampliata in Studi di Storia del diritto, III, Milano, Giuffrè, 2001, p. 719 e segg..
73
La sanzione è contenuta negli artt. 375 e ss del codice napoleonico, cfr. Emanuela Giacobbe, Le persone e la famiglia, 3, in Trattato di diritto civile, Torino, Utet-Giuridica, 2011, p. 735; Alessio Anceschi, Rapporti …, op. cit, p. 230.
M. Ornella Attisano
La patria potestas nella storia del diritto
mitigò il droit de correction napoleonico74. L’abuso della patria
potestà fu sanzionato dallo Stato e si previde che anche la madre
potesse esercitare la potestà sui figli in caso di morte o impedimento
del padre, il quale (in via ordinaria) restò l’unico fruitore dell’esercizio
esclusivo della stessa. Edificata l’idea di uno Stato eticamente forte
all’interno del quale la stessa famiglia doveva essere forte, si
determinò una concezione che volle la condivisione reciproca dei
doveri tra i coniugi inversamente proporzionale alla eguaglianza dei
diritti e delle potestà75. Abbiamo osservato che i codici civili italiani
anteriori al 1865 mantennero fermi i principi etici ed ideologici di una
famiglia (forte) nella quale il padre esercitava una potestà esclusiva
sui figli, senza ancora renderne compartecipe la figura materna.
Orbene, ad attestare, invece, una tendenza del codice Pisanelli a
riconoscere l’onore e la capacità di indirizzo morale di entrambi i
genitori in seno alla famiglia, è stata la norma (v. art. 220 codice
civile del 1865)76 con la quale il Legislatore assegnò al figlio l’obbligo
etico di onorare e rispettare il padre e la madre ed anche di custodire
e vigilare sulla loro condotta nel caso in cui il genitore fosse malato di
74
Il diritto di correzione rimase ancora contemplato dal codice dello Stato unitario, ma con delle implicazioni meno severe, come l’allontanamento del figlio dalla casa paterna in vece della carcerazione. 75
Ereditato il complesso mosaico dei codici vigenti negli Stati preunitari, il codice dell’Italia unita del 1865 trasfuse nel suo impianto normativo le proprietà della società italiana dell’epoca, con l’affermazione del ceto borghese, del liberalismo e dell’autoritarismo statale, e con ripercussioni sui ruoli familiari e, in particolare, su quello del padre. In tale assetto non mancò una flebile spinta garantista che si colse ad esempio nel già detto superamento di taluni limitazioni alle figure del figlio e della madre (quest’ultima nel regime codiciale preunitario, era giunta appena a conquistare il diritto alla tutela legale della prole in caso di morte del marito), cfr. Emanuela Giacobbe, Le persone e la famiglia,3, op. cit., p. 10; Tommaso Auletta, Dal code civil del 1804 alla disciplina vigente: considerazioni sugli itinerari del diritto di famiglia, in Familia, 2005, n. 3, p. 405 e ss.; Giuseppe Dalla Torre, Per una storia del diritto di famiglia in Italia: modelli ideali e disciplina giuridica, in Giorgio Campanini (a cura di), Le stagioni della famiglia, Milano, Giuffrè, 1994, pp. 215 e ss; Diana Vincenzi Amato, La famiglia e il diritto, in P. Melograni (a cura di), La famiglia italiana dall’Ottocento a oggi, Bari, Laterza, 1988, p. 629 e ss.; Luigi Brigida, La patria potestas, cit., p. 80. 76
«Il figlio, qualunque sia la sua età, deve onorare e rispettare i genitori», art. 220, comma 1, cod. civ. 1865. Nonostante la matrice etica della norma, che non avvertì la necessità di inserire alcuna ipotesi sanzionatoria in capo al figlio per il suo mancato rispetto, si pronunciò la giurisprudenza dell’epoca con due sentenze, che stabilirono sia l’obbligo del figlio, ancorché abbia fatto espressa rinuncia all’eredità, di sopportare tutte le spese di tumulazione del padre (Cass. di Napoli dell’8 marzo 1881) sia il dovere del figlio adulto e sano di onorare e rispettare il genitore malato di mente o di corpo, con l’obbligo di vigilare sullo stesso e tutelarlo affinché non commettesse illeciti; cfr. Cass. di Roma del 03 aprile 1905, rispettivamente in Legge, 1881, II, 88 e in Il Foro It., 1905, I, 530 e Legge, 1905, 831.
M. Ornella Attisano
La patria potestas nella storia del diritto
corpo o di mente77. Nel dettato del codice del 1865 l’esercizio della
patria potestà fu riconosciuta anche alla madre, ogni qual volta in cui
il padre non fosse fattivamente nelle condizioni di darvi attuazione
per sua mera assenza, per abbandono del domicilio familiare,
emigrazione o lunga e lontana navigazione78. Sciolto il matrimonio,
inoltre, la patria potestà veniva esercitata dal genitore superstite79 e,
ipso facto, dalla madre. Si è trattato di una innovazione di notevole
spessore giuridico e morale che, assieme all’obbligo di educare la
prole (artt. 221-223 cod. civ. 1865) e di non eccedere con l’uso dei
mezzi di correzione (art. 233 cod. civ. 1865), ha fissato un corpo
normativo organico rivolto alla tutela dell’ordine pubblico80. Il codice
civile del 1865 prevedeva la possibilità di ricorrere al potere officioso
del giudice civile, da emanarsi con decreto non necessariamente
motivato, nei casi in cui – anche in via cautelativa e preventiva –
sussisteva il rischio che la condotta del genitore, eccessivamente
correttiva (v. art. 222, cod. civ. 1865, che ha eliminato
l’incarcerazione del figlio per volere del padre esercente la potestà
ed ha previsto l’autorizzazione del presidente del tribunale al
collocamento del figlio minore negli istituti di correzione), o la
coabitazione (nei casi di necessario allontanamento ai sensi dell’art.
77
Ibidem. 78
L’orientamento è dettato da alcune pronunce della Cassazione, rispettivamente Cassazione di Firenze (v. Cass. Firenze, 22 giugno 1882, che ha stabilito l’affidamento dei figli in favore della moglie quando il marito abbia abbandonato il domicilio familiare, anche in assenza di una separazione fra i coniugi, in Giur. It., 1882, I, 1, 600), e Cassazione di Roma (v. Cass. Roma, 26 aprile 1894, che ha stabilito l’esercizio della potestà in capo alla madre per il solo fatto dell’assenza del marito, in Foro It., 1894, I, 872; maggio 1896, che ha incluso all’assenza anche la circostanza in cui il padre sia emigrato, in Foro It., 1896, II, 504; e 7 dicembre 1905, che ha considerato sufficiente a riconoscere l’esercizio esclusivo della potestà alla moglie anche il fatto della lunga e lontana navigazione del marito, in Riv. Pen., LXIII, 156).
79
La disposizione era contemplata ai commi 2, 3 e 4 dell’art. 220 del codice civile del 1865. 80
Il carattere garantista dell’ordine pubblico rappresentato dalle norme in esame, che escludevano sostanzialmente ogni proposito di derogare ai citati precetti, si evince, in particolare, da una sentenza della Cassazione di Firenze del 12 giugno 1869 che ha statuito l’inefficacia dei patti afferenti l’ufficio educativo dei figli minori d’età, contratti dal padre con i precettori. Della sentenza si riporta il seguente brano: «quando anco il padre deleghi questo ufficio (della educazione) ad un maestro, ad un collegio, ad un conservatorio, ha sempre da intendersi, che la delegazione sia revocabile a suo piacimento e che egli sia libero di riprendersi ad ogni momento il figlio malgrado il suo o l’altrui dissenso», in Giur. It., 1869, I, 1, 393. Cfr. Luigi Brigida, La patria potestas, op. cit., p. 89.
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La patria potestas nella storia del diritto
221, comma 2, cod. civ. 1865) si trasformassero in pericolo materiale
e morale per i genitori e gli stessi figli81. In ogni caso, per il codice del
1865 (così come era stato previsto dal codice civile del 1942), il figlio
non poteva abbandonare la casa paterna o quella che il padre gli
avesse destinato senza il suo consenso. E solamente in condizioni di
estrema difficoltà a frenare le intemperanze del figlio, il padre –
previa autorizzazione del giudice – poteva farlo collocare in un
istituto di correzione. Il padre esercitava liberamente sui figli minori
anche la rappresentanza processuale e patrimoniale per tutti gli atti
di ordinaria amministrazione, sulla scia della più antica tradizione
romanistica che sanciva l’incapacità di agire degli impuberi e degli
infantes per il compimento di negozi giuridici di natura patrimoniale. Il
concetto fondamentale dell’incapacità legale consisteva, invero, nella
sostituzione della volontà del soggetto minore d’età82; orientamento
sancito dal codice civile del 1804, subito dopo ripreso dal codice
civile del 1865, che rinsaldò il modello espresso dalla tradizione, e
più tardi in parte anche dal codice civile del 1942. La valenza
giuspubblicistica dell’istituto della patria potestà fu un baluardo del
libro primo del nuovo codice civile del 1942, entrato in vigore sin dal
1939, con il quale lo Stato rivelò il disegno normativo garantista della
morale sociale e del sentimento nazionale83. La patria potestà rimase
81
Sull’argomento, v. le sentenze della Cassazione di Torino del 2 settembre 1886 (in Legge, 1886, II, 764 e Giur. It., 1886, I, 1, 581) e del 26 febbraio 1876 (in Giur. It., 1878, 582) nonché della Suprema Corte di Cassazione del 12 maggio 1936 (in Rep. Foro It., 1328, 5, 1936). Il successivo articolo 223 del codice civile del 1865 enunciava che: «nei casi indicati nei due articoli precedenti contro i decreti del presidente del tribunale è ammesso il ricorso al presidente della corte d’appello e sarà sempre sentito il pubblico ministero». 82
Nei casi di cui all’art. 224 del codice civile del 1865, la volontà del minore era sostituita dall’autorità dell’esercente la patria potestà nell’ambito della famiglia. In taluni casi la potestà era integrata dalla scuola. Segnatamente, secondo la norma in esame, il padre aveva la rappresentanza dei figli già nati e dei nascituri in tutti gli atti civili, amministrandone i beni. Ogni qual volta, invece, egli avesse dovuto compiere atti di straordinaria amministrazione, si rendeva necessaria l’autorizzazione giudiziaria. Cfr. Francesco Bocchini, Diritto di famiglia: le grandi questioni, Torino, Giappichelli, 2013, p. 230. L’elaborazione del codice civile del 1865 aveva risentito dei cambiamenti culturali, storici ed ideologici che portarono l’Italia alla sua unificazione geografica e legislativa e che impedirono al codice dell’epoca di proiettarsi adeguatamente nel futuro della società italiana, “con la conseguenza che quella che oggi viene definita società civile non corrispondeva all’assetto della realtà istituzionale”, in Giovanni Giacobbe, La famiglia dal codice civile alla legge di riforma, riv. Justitia, 1999, p. 242 ss.. 83
Cfr. Alessio Anceschi, Rapporti tra genitori e figli, op. cit., p. 230.
M. Ornella Attisano
La patria potestas nella storia del diritto
onere prevalente del padre, anche dopo la promulgazione della
Carta costituzionale italiana, che sancì in subiecta materia il
fondamentale principio dell’euguaglianza sostanziale tra i genitori,
confluito nella riforma del diritto di famiglia del 1975, di cui si tratterà
nel successivo paragrafo. Il Legislatore del 1942 ha delineato la
disciplina del diritto di famiglia84 sulla base civilistica della
codificazione napoleonica e delle sue applicazioni presso le
codificazioni degli Stati unitari della seconda metà dell’ottocento. Il
quadro normativo che disciplinava la potestà è approdato alla riforma
del diritto di famiglia attraverso i principi costituzionali e le numerose
pronunce della Corte Costituzionale in materia. L’esigenza di dare
autonomia ed ambiti di tutela maggiori rispetto a quelli previsti dal
Legislatore civile rappresentarono i limiti della disciplina
ordinamentale che per decenni ha intrecciato la trama di una riforma
di fatto mai concretamente attuata e - per dirla con il Jemolo – anche
mancata per l’incapacità del diritto di penetrare all’interno dell’isola
polimorfica della famiglia. Più segnatamente, con il codice del 1942
si è visto accrescere il controllo e la vigilanza dell’apparato giudiziario
statuale sull’istituto della patria potestà e si è dato maggiore risalto
agli aspetti economici della società italiana in un particolare periodo
della sua storia, privilegiando piuttosto i rapporti commerciali e
patrimoniali privatistici, secondo quelli che furono i preminenti
interessi della collettività, rispetto alla disciplina delle posizioni
soggettive e dei ruoli sorti in ambito familiare, che furono tralasciati
84
Il diritto di famiglia, così come codificato nell’apparato normativo dello Stato fascista del 1942, concepiva una famiglia in cui la moglie era subalterna al marito, sia nei rapporti personali sia in quelli patrimoniali, sia nelle relazioni di coppia sia nei riguardi dei figli. Il sistema, inoltre, propendeva per la discriminazione dei figli nati fuori dal matrimonio ai quali era riservato un trattamento giuridico discriminatorio rispetto ai figli nati nel matrimonio. Cfr, per l’evoluzione storica della famiglia, Giovanni Giacobbe, La famiglia nell’ordinamento giuridico italiano, Torino, 2006, p. 9. Nondimeno si è sostenuto che il clima storico in cui si forma la legislazione di un Ordinamento giuridico influenza il rapporto tra questo e l’espressioni della società civile, così da incidere sul “ruolo che lo Stato assegna alla famiglia per i propri fini istituzionali”, Sebastiano Ciccarello, Patria potestà (Diritto privato), in Enciclopedia del diritto, Vol. XXXII, Milano, Giuffè, 1982, p. 256. Per l’evoluzione del concetto di potestà genitoriale, cfr. anche Angelo Carlo Pelosi, La patria potestà, Milano, Giuffrè, 1965; Id., Potestà dei genitori sui figli, in Noviss. Dig. It., Appendice, Torino, Utet, 1984, 1127 ss..
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La patria potestas nella storia del diritto
dal Legislatore dell’epoca85. Si spiegherebbe, così, l’eliminazione
dello storico consiglio di famiglia, che dava in certo qual modo spazio
all’autonomia dei privati in ambito familiare, per lasciare il posto ai
richiamati interventi dell’autorità giudiziaria sull’esercizio e la
decadenza della patria potestà che divennero sempre più frequenti.
Si è osservato che l’impostazione gerarchica e patriarcale della
famiglia, disciplinata dal codice del 1942, sebbene possa apparire
incompatibile con la concezione ideologica liberale che stava alla
base della codificazione, aderì pienamente alla (rilevata) concezione
patrimonialistica della famiglia, con la superiorità dell’interesse
collettivo su quello dei singoli soggetti. La misura adottata nel
disciplinare l’istituto della patria potestà corrispose pienamente allo
spirito di unificazione degli assetti personali e, soprattutto,
patrimoniali del nucleo familiare, riconducibile al ruolo del marito,
quale figura gravata dell’obbligo morale di soddisfare il bisogno di
appagamento economico dei propri congiunti86.
Il codice civile del 1942 ha per di più incentrato in quest’ottica la
disciplina dell’istituto della dote, di cui la moglie era portatrice a titolo
di contribuzione indiretta all’economia della famiglia87. All’assetto
patrimoniale familiare attendeva il marito in forza della funzione
primaria da egli esercitata nella conduzione dell’economia
domestica. Il Legislatore civile del 1942 sebbene avesse stabilito
che la patria potestà appartenesse ad entrambi i coniugi – parimenti
al previgente codice civile del 1865 –, ha fissato quale prerogativa
esclusiva del marito l’esercizio della stessa nei rapporti con i figli. Il
Legislatore dell’epoca, infatti, ha voluto sottolineare la distinzione
formale e sostanziale tra titolarità ed esercizio della potestà88,
85
Cfr. Giovanni Giacobbe, La famiglia nell’ordinamento giuridico italiano, op. cit., p. 4. 86
Ibidem. 87
Differente sarebbe, secondo l’A. sopra citato (op. cit., p. 6), l’istituto dei beni parafernali, che autorizzava la moglie alla conservazione e gestione delle proprietà personali in maniera autonoma rispetto al marito, che di per sé non incideva sulle prerogative economiche e sulle potestà attribuite al coniuge di sesso maschile dalla codificazione de qua.
88
cfr. Gianni Ballarani, Famiglia, diritti dei figli e della famiglia. Antinomia o integrazione?, in Studi in onore di Giovanni Giacobbe, I, a cura di Giuseppe Dalla Torre, Milano, Giuffè, 2010, p. 475.
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La patria potestas nella storia del diritto
mantenendo contemporaneamente fermi gli interessi in gioco: da una
parte quelli pubblicistici della famiglia, intesa come comunità sociale
a rilevanza economica, e dall’altra quelli dello Stato, come apparato
in cui confluiscono il sentimento nazionale ed i principi della morale,
cui la prima deve uniformarsi. Nella rielaborazione della patria
potestà, infatti, si tralasciarono le autonomie private e si diede
particolare attenzione al dovere dei genitori di mantenere i figli, di
istruirli ed educarli conformemente «ai principi della morale e del
sentimento nazionale fascista»89. In questa prospettiva
giuspubblicistica della codificazione, si collocherebbe il valore “etico”
attribuito all’art 315 del codice civile del 1942, che pur inserito al di
fuori delle disposizioni afferenti la disciplina della patria potestà, col
fare precetto ai figli di qualsiasi età di onorare e rispettare i genitori,
si pose in linea di continuità con il previgente art. 220, comma 1, del
codice Pisanelli90. Fondamento del dettame di rispettare ed onorare i
genitori, rivolto ai figli di qualsiasi età, fu il riconoscimento del peso
specifico che assunse la potestà dei genitori (soprattutto del padre,
che ne aveva l’esercizio esclusivo) nella società civile di quegli anni,
rimasto pressoché invariato fino al 1975. Ma accanto al valore etico e
morale, secondo una rilevante corrente dottrinaria, la norma
rivelerebbe anche un contenuto giuridico (coercitivo e sanzionatorio),
in quanto correlato ai successivi articoli 318 (divieto di abbandono
della casa paterna) e 319 (collocazione in istituto di correzione nei
casi di cattiva condotta del figlio) del codice del 194291.
89 Art. 147 cod. civ. 1942 (Doveri verso i figli): «Il matrimonio impone ad ambedue
i coniugi l’obbligazione di mantenere, educare e istruire la prole. L’educazione e l’istruzione devono essere conformi ai principi della morale e del sentimento nazionale fascista». Cfr, Antonio Cicu, Lo spirito del diritto familiare nel nuovo codice civile, in Rivista di diritto civile, n. 1-2, 1939, p. 10; Codice civile – Commentario al libro I, Firenze, Barbera, 1940, pp. 616-617; Luigi Brigida, op. cit., p. 177.
90
V. infra, p. 29, nota n. 76, e p. 30, nota n. 75. 91
Sulla questione la dottrina si era divisa fra i sostenitori del valore puramente etico della norma, che si voleva far risalire alla corrispondente norma del codice civile del 1865, ed i sostenitori della funzione anche sanzionatoria e coercitiva della stessa. Cfr., per il primo orientamento, R. De Poggiero, Istituzioni di diritto civile, Messina-Milano, Casa Editrice Giuseppe Principato, 1934, p. 223, il quale sostiene: «vi sono doveri, come quelli del mutuo affetto, della riverenza, dell’assistenza, che prima d’esser giuridici sono morali, vengono imposti dalla coscienza e dall’intimo sentimento, e sono poi accolti non creati dalla legge; taluni
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La patria potestas nella storia del diritto
La tendenziale predisposizione della codificazione del 1942 ad
esaltare l’aspetto economico della famiglia, si espresse anche in
quella norma che riconobbe in capo al padre la facoltà esclusiva a
rappresentare giudizialmente i figli e ad amministrarne il patrimonio92.
E’ stato evidenziato che la struttura gerarchica della patria potestà ha
paralizzato l’autonomia dei singoli soggetti familiari, i quali furono
obbligati ad un modello relazionale di tipo sociale, che non
ammetteva intromissioni esterne destabilizzanti gli equilibri della
famiglia (che – in ogni caso - rimaneva gerarchicamente fondata sul
ruolo dominante del padre). E’ da precisare d’altronde che
autorevole93 dottrina ha evidenziato l’ostilità della giurisprudenza nel
anzi cosi intrinsecamente etici che la legge, pur traducendoli in precetti giuridici , non riesce a renderli coercibili. Tale ad es. quello che ha il figlio di onorare e rispettare i genitori, un precetto che la legge (art. 220/1) mutua dall’ordine etico e che in quante vincola il figlio qualunque sia la sua età e la sua condizione personale, è in tutto affidato per la sua osservanza alla coscienza dell’individuo ed alla forza che può avere su di lui la pubblica riprovazione». V. anche Francesco Ricci, Corso teorico pratico di diritto civile, Torino, U.T.E.T., 1877, p. 422, il quale radicalizza l’assunto etico e scrive: «È questo (l’art. 220/1) in precetto morale, che non può convertirsi in giuridico, perché la legge non vi appone alcuna sanzione. Se il figlio manchi di rispetto ai genitori, che può fare la legge? Se il suo fatto prenda l’aspetto di un reato, essa lo punisce, ma non in forza dell’art. 220 del Codice civile, bensì in forza della corrispondente disposizione del Codice penale». Per una posizione piuttosto giuridica che etica, cfr. Mario Stella Richter, Vittorio Sgroi, Delle persone e della famiglia,Torino, Utet,1967, p. 391: «… se si può dubitare della giuridicità del precetto, in quanto la concreta portata dei doveri di onorare e rispettare i genitori si determina mercé il ricorso alle singole prescrizioni dettate sulla materia della legge civile e penale, è pur vero che esso rappresenta, oltre che il fondamento dell’istituto della patria potestà, anche il criterio direttivo per interpretare quelle disposizioni che hanno specifico riferimento alle norme di condotta (cfr. artt. 318, 319) da osservarsi ad opera del figlio. In questo senso non sembra potersi annettere alla norma un valore programmatico od enunciativo, in quanto, a parte i possibili riflessi penalistici dell’inosservanza del precetto, la sanzione giuridica, e quindi il connotato della sua giuridicità, potrebbe essere ravvisata mediatamente nelle richiamate disposizioni del codice in tutto affidato per la sua osservanza alla coscienza dell’individuo ed alla forza che può avere su di lui la pubblica riprovazione». Contra, cfr. Ettore Protetti, C. A. Protetti, Patria potestà, Novara, Ed. PEM, 1974, p. 9: «Sembrerebbe a prima vista che la norma di cui all’art. 315 sia una platonica enunciazione di principio, con scarsa o nulla rilevanza giuridica. (…) La norma ha, invece, una sua fondamentale importanza sia come chiave di interpretazione delle altre leggi che seguono ed in genere di tutto l’istituto della patria potestà, sia come norma giuridica in se stessa ed in quanto tale sanzionata». Cfr., infine, in quanto contrario all’interpretazione giuridica, Luigi Ferri, Della potestà dei genitori, Bologna, Zanichelli, 1988, p. 24: «Il rispetto forma, a mio avviso il contenuto di un atteggiamento morale, che non può essere in alcun modo giuridicamente sanzionato»; conforme e per un approfondimento dottrinario, cfr. lo studio di Luigi Brigida, in La patria potestas, op. cit., pp. 122-124. 92
Art. 320, comma 1, codice civile del 1942 (Rappresentanza e amministrazione): «Il padre rappresenta i figli nati e nascituri in tutti gli atti civili e ne amministra i beni». 93
Cfr. Pietro Rescigno, Immunità e privilegio, in Rivista di diritto civile, 1961, I, p. 438 ss..
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La patria potestas nella storia del diritto
superare quel genere di immunità familiare attraverso l’esercizio
dell’azione civile di risarcimento dei danni, ciò probabilmente a
motivo della tesi secondo la quale il nucleo familiare all’epoca era
concepito come un «gruppo sociale chiuso»94, ancora presieduto
dalla figura paterna, laddove l’autonomia individuale del soggetto
minore di età non era presa in considerazione, «sì che appariva
ultroneo l’intervento del giudice a favore di questi»95.
1.4. La riforma del diritto di Famiglia del 1975: dalla patria
potestà alla potestà dei genitori
Dopo l’entrata in vigore della Carta costituzionale della Repubblica,
la dedotta finalità pubblicistica assegnata alla patria potestà dal
Legislatore del 1942, lasciò il passo ai moderni traguardi della
dottrina e della giurisprudenza, che focalizzarono l’attenzione
sull’uguaglianza giuridica e morale dei coniugi all’interno della
famiglia e sulla posizione soggettiva del minore, tracciando il solco
per l’impianto di un nuovo modello di potestà, nel quale lo
svolgimento della funzione di indirizzo e guida, con la somma di tutte
le decisioni incidenti sullo sviluppo e sulla educazione dei figli minori
fu assunta in modo paritetico da entrambi i genitori96, unitamente (per
94 La citazione riportata da Valeria Corriero, Privacy del minore e potestà dei
genitori, in Rass. dir. civ., 2004, p. 999, è espressa da Gianfranco Dosi e C. Bartolomeo, Abuso della potestà genitoriale e risarcimento del danno al minore, in Famiglia e Diritto, 1996, pp. 493-498. Gli AA. Si soffermano sui comportamenti illeciti dei genitori nei confronti della prole sostenendo il limite dell’ipotesi risarcitoria per il conseguente danno subito dal minore per un doppio ordine di motivi: un primo di carattere sociologico, che trova spiegazione nella concezione della famiglia come nucleo parentale chiuso e, pertanto, impenetrabile dai giudici e un secondo di natura giuridica consistente nella incapacità sia di agire sia di stare in giudizio del minore. 95
Cfr. Mario Bessone e Gilda Ferrando, Persona fisica (diritto privato), in Enc. dir., XXXIII, Milano, Giuffrè, 1983, p. 169, i quali rilevano come la fine della patria potestà abbia favorito in ambito familiare l’affermarsi di posizioni individuali, soprattutto della donna e del minore. 96
Il sistema aveva previsto che la famiglia avesse un “capo” (art. 144 codice civile del 1942 che attribuisce al padre l’appellativo di “capo famiglia”) e che il figlio minore, spersonalizzato delle sue qualità individuali, si trovasse in stato di totale sottomissione alla figura paterna (capo della famiglia). I motivi che portarono ad una svolta nell’impostazione delineata per quanto attiene i rapporti tra genitori e figli sono rinvenibili in primis nella Costituzione, che all’articolo 29 enuncia l’eguaglianza tra i coniugi, e poi nel superamento della concezione assolutista della potestà alla quale «se ne è sostituita un’altra, prevalentemente educativa, pur permanendo tutti i compiti di rappresentanza economica, di cui all’art. 320 cod. civ.. La patria potestà è divenuta potestà genitoriale; dall’art. 315 è scomparso il
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La patria potestas nella storia del diritto
gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione) e disgiuntamente (per
gli atti di ordinaria amministrazione) tra loro. La legge di riforma del
1975 ha segnato uno spartiacque tra la precedente interpretazione
pubblicistica dell’istituto della patria potestà, incentrata sulla finalità
economico-sociale della famiglia, e l’interpretazione contemporanea
alla riforma che, grazie anche alla spinta della Corte Costituzionale e
della dottrina, pose l’accento sulla centralità dei diritti fondamentali
della persona in età minore e dei suoi prevalenti interessi personali:
vettore principale della ricostruzione dommatica dell’istituto97. Da
questa premessa, la dottrina osservò che dal lato attivo, il tema del
passaggio dalla patria potestà alla potestà genitoriale non
ricomponeva un diritto soggettivo anzitempo rimasto inattuato, bensì
un potere dove il prius era il dovere di entrambi i genitori di occuparsi
dei figli minori (mantenendoli, educandoli, istruendoli). Affinché
ottenesse adeguata applicazione, il potere-dovere genitoriale
richiedeva la titolarità di determinate facoltà e competenze in capo ai
soggetti privati che dovevano materialmente e moralmente darvi
seguito nel perseguimento di un interesse altrui imposto dalla legge.
Dal lato passivo, invece, dando atto dell’attenzione attribuita dalla
riforma alla centralità del figlio minore ed alla tutela della sua
personalità ed individualità in ambito familiare, si sostenne che la
posizione subordinata del figlio minore nei confronti dei genitori non
riferimento al dovere di “onorare” i genitori; l’art. 319, relativo alla “cattiva condotta del figlio”, è stato abrogato senza sostituzioni, così come gli articoli 338-341 (…). La potestà genitoriale ha finito per esprimere un dovere, più che un diritto dei genitori (art. 30 Cost.), non delegabile, né trasferibile interamente a terzi», in De Filippis-Casaburi, Separazione e divorzio nella dottrina e nella Giurisprudenza, Padova, 2004, p. 275, riportato in Id., Affidamento condiviso dei figli nella separazione e nel divorzio, Padova, 2007, nota n. 172, p. 132-133; Francesco Ruscello, La potestà, op. cit., p. 140, che pone l’accento sugli effetti della piena parificazione dei coniugi in ordine all’esercizio della potestà, ora assunta di comune accordo fra i genitori. 97
Cfr., ex multis, Antonio Bucciante, La potestà dei genitori, in Trattato di diritto privato, diretto da Pietro Rescigno, IV, tomo II, Torino, Utet, 1985, p. 508; ID., Potestà dei genitori, voce in Enc. dir., XXXIV, Milano, Giuffè, 1985, pp. 777 e 778, dove l’A. sostiene che il minore è portatore di un interesse individuale di portata pubblicistica e che la potestà genitoriale essendo indirizzata alla tutela di un interesse altrui non può considerarsi un diritto soggettivo bensì un potere ed un dovere dei genitori.
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La patria potestas nella storia del diritto
si esaurisse nei doveri filiali98, dal momento che egli, visto come
persona, per nascita era titolare di superiori interessi individuali
essendogli riconosciuta una posizione di centralità nel dinamismo
familiare99. La Legge di riforma del diritto di famiglia, n. 151 del 1975,
nel rimodulare l’art. 147 del codice civile, che trova la sua ispirazione
nell’art. 30 della Costituzione, ha spiegato i suoi effetti muovendo
dall’interesse del minore (come soggetto titolare di diritti) a sviluppare
e crescere serenamente in ragione delle sue capacità, inclinazioni
naturali ed aspirazioni (art. 147 c.c.), in rapporto agli obblighi ed agli
oneri connaturali all’assunzione di responsabilità100 dei genitori. Il
ruolo dei genitori lo potremmo definire un atteggiamento attivo che
passa attraverso tutte quelle azioni virtuose orientate allo sviluppo
(interiore e psico-fisico) del minore101. Orbene, proprio sulla scorta di
una stretta relazione tra le due differenti posizioni soggettive (attiva e
passiva) dei soggetti familiari coinvolti, alcune teorie ritengono che la
nozione di potestà genitoriale – della quale è parte integrante il
richiamato articolo 147 c.c. - sia più o meno dilatata in ragione del
raggiungimento delle diverse fasi di vita dei figli, cosicché essa, per
come detto sopra, si adopera doverosamente ad accompagnare e
98
Cfr. Michele Giorgianni, Della potestà dei genitori, in Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di Cian, Oppo, Trabucchi, IV, Padova, Cedam, 1992, sotto artt- 315-318, p. 290 ss.. 99
Il concetto sulla centralità del minore nell’ambito della funzione potestativa dei genitori, germina dalla centralità del valore della persona all’interno dell’ordinamento giuridico. Questa condizione che esige un fondo di garanzia, promozione e tutela dei diritti fondamentali e inviolabili legati all’esistenza umana. Cfr. Pietro Perlingieri, La personalità umana nell’ordinamento giuridico, Napoli, Jovene, 1972, pp. 12, 44 e 154.
100
Sull’interpretazione della potestà quale espressione della responsabilità dei genitori, cfr. Bruno de Filippis, Affidamento condiviso dei figli nella separazione e nel divorzio, Seconda ed., Padova 2007, p. 132; per una interpretazione dell’art. 147 quale dovere dei genitori di educare (in via preventiva) i figli minori, ID., Separazione e divorzio nella dottrina e nella giurisprudenza, op. cit., p. 275.
101
Invero la finalità della potestà dei genitori di promuovere lo sviluppo spirituale e fisico del figlio minore, nel rispetto delle sue capacità, aspirazioni ed inclinazioni naturali, ha rappresentato per decenni il punto centrale dell’interpretazione della potestà dei genitori. La produzione dottrinaria sul punto è stata cospicua: cfr. Antonio Bucciante, La potestà dei genitori, la tutela e l’emancipazione, in Trattato di diritto privato, diretto da Pietro Rescigno, II ed., Torino, Utet, 1997, Vol. III, Tomo IV, p. 511; Gianroberto Villa, Potestà dei genitori e rapporti con i figli, in Trattato del diritto di famiglia, diretto da Giovanni Bonilini-Giovanni Cattaneo, Torino, Utet, 1997, Vol. III, p. 258 ss.; Francesco Ruscello, La potestà dei genitori, op. cit., p. 140 ss; AA.VV., in particolare v. Antonio Belvedere, “L’autonomia del minore nelle decisioni familiari”, in AA.VV., L’autonomia dei minori tra famiglia e società, a cura di Marcello De Cristofaro-Andrea Belvedere, Milano, Giuffrè, 1980, pp. 319-77.
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La patria potestas nella storia del diritto
favorire la crescita del figlio minore nel rispetto della sua personalità,
capacità, inclinazioni naturali, aspirazioni personali. Di conseguenza,
il fatto che il “grande minore” raggiunga un peso specifico di maturità
psico-fisica, passando attraverso le varie fasi naturali dello sviluppo
umano, esige che il margine di interferenza della potestà genitoriale
sulla volontà e sulla vita privata del figlio sia inversamente
proporzionale all’età dello stesso e si riduca con la sua crescita102.
Ed infatti, pare condivisibile l’impostazione che vuole la nuova
disposizione dell’art. 147 del codice civile (ridisegnata dalla riforma
del 1975) non mera «formula di stile o programmatica»103 bensì
strumento normativo fruibile dai genitori affinché entrambi si
impegnino ad accompagnare il figlio minore nel processo di
costruzione della propria struttura di personalità104. Con l’abolizione
102
Lamberto Sacchetti, Problemi e prospettive fra giurisdizione e amministrazione negli interventi giudiziari a protezione dei minori, in Paola Dusi (a cura di), Le procedure giudiziarie civili a tutela dell’interesse del minore (Atti del convegno «La tutela dell’interesse del minore e le procedure giudiziarie civili», Venezia 6-8 dicembre 1987), Milano, 1990, p. 101. Secondo l’A., il potere dei genitori sarebbe inversamente proporzionale all’età del figlio per cui con la crescita si riduce il potere di costrizione e di influenza sulla volontà del figlio. Dello stesso parere, cfr. De Filippis-Casaburi, Separazione e divorzio nella dottrina e nella giurisprudenza, op. cit., p. 275, dove è detto che le limitazioni degli interventi potestativi «divengono più evidenti man mano che i figli crescono e si avvicinano alla fine della minore età». Si sono registrati anche interventi significativi da parte del diritto minorile che ha affrontato questioni di rilevanza sostanziale oltre che processuale dei fenomeni legati alla tutela del minore (o del c.d. “giovane adulto”) nella fase prossima alla maggiore età. Cfr. AA. VV., Giustizia minorile? La tutela giurisdizionale dei minori e dei “giovani adulti”, in Nuova giurisprudenza civile commentata, 2004, 3, suppl.. Cfr. anche Valeria Corriero, Privacy…, op. cit., alla p. 999, laddove l’A. sostiene che la riduzione del contenuto della potestà genitoriale man mano che il figlio minore sviluppa e si avvicina all’età adulta, dovrebbe incontrare una barriera dinanzi alle espressioni maggiormente intime e profonde «della personalità del fanciullo, in particolar modo del “grande minore”, a meno che l’intervento del genitore sia finalizzato a prevenire o a risolvere situazioni nocive per la personalità del figlio». D’altronde è stato osservato (ibidem, p. 1001 ss) che la tutela della vita intima e familiare ed il diritto alla privacy come diritto fondamentale dell’uomo è stato per la prima volta introdotto dall’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti e delle libertà dell’uomo, che l’Italia ha ratificato con al L. N. 848 del 1955 e successivamente ribadito dalla Carta dell’Unione europea sui diritti fondamentali del 2000. 103
Cfr. Michele Sesta, Contenuto e caratteri della potestà, in Trattato di diritto privato, diretto da Mario Bessone, Vol. IV, Tomo III, sez. IV, cap. VIII, Torino, Giappichelli, 2004, pp. 198-199. 104
In dottrina si è anche parlato di processo di umanizzazione della famiglia dopo l’entrata in vigore della L. 151/75, ma esso era iniziato sin da qualche anno prima, con l’introduzione della legge sul divorzio nel 1970, che ha apportato nuovi stimoli allo studio ed all’interpretazione della potestà dei genitori e del suo esercizio all’interno delle dinamiche familiari. Con la scomparsa della patria potestà e l’ingresso della potestà dei genitori, intesa come dovere e non come diritto subiettivo, si è posto l’accento sul ruolo centrale dei figli quali soggetti di diritto ed
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La patria potestas nella storia del diritto
della patria potestà, il Legislatore della riforma ha conferito al minore
lo status che gli spetta pleno iure in quanto individuo, siccome
portatore sin dalla nascita di un bagaglio di diritti (fondamentali)
inviolabili e di libertà personali, che gli sono garantiti a livello
costituzionale105. Gli interventi legislativi successivi al 1975,
impegnati nella ridefinizione giuridica della disciplina del rapporto di
filiazione, hanno tracciato una metodologia in chiave di continuità col
percorso evolutivo intrapreso dalla Riforma, sino ad identificare la
potestà (responsabilità) genitoriale nella “funzione” propria di
educazione e cura dei figli106, scaturente sia dalla consapevolezza
della irripetibile personalità di questi ultimi sia dall’eguaglianza
formale e sostanziale dei coniugi, le cui figure la Riforma del diritto di
famiglia del 1975 ridisegnava in chiave di reciproca cooperazione al
comune progetto di vita, di condivisione, di scelte maturate
congiuntamente107.
attori del palcoscenico familiare, non più soggetti-oggetto della patria potestà, cfr. Lelio Barbiera, L’umanizzazione del diritto di famiglia, in Rassegna di diritto civile,
diretta da Pietro Perlingieri, Napoli, Edizioni Scientifiche italiane, 1992, p. 265. 105
In riferimento al c.d. status personae, in dottrina è pacifica l’attribuzione della qualità di “soggetto di diritto” a tutti gli individui (a prescindere dalla loro età) per il sol fatto della nascita, che permane sino a tutto il corso della loro vita; in tal senso v. Alessandro Pizzorusso, Persone fisiche, art. 1-10, in Comm. del cod. civ. Scialoja e Branca, a cura di Francesco Galgano, Bologna, Zanichelli, 1988, p. 6. 106
Cfr. Maria Elena Quadraro, Il ruolo dei genitori dalla “potestà” ai “compiti”, Bari, 1999, passim; Francesco Ruscello, La potestà dei genitori. Rapporti personali, artt. 315-319, in Il codice civile. Commentario, diretto da P. Schlesinger, Milano, Giuffrè, 1996, p. 10 ss.; Rosanna Pane, Favor veritatis e diritto dell’adottato di conoscere le proprie origini nella recente riforma delle adozioni, in Rassegna di diritto civile, 2003, p. 243 e ss.. 107
Il Legislatore ha riscritto la potestà genitoriale e, specialmente, la funzione di educare i figli minori, alla luce dell’unità della famiglia e della raggiunta parificazione fra i coniugi. La valenza riconosciuta alla interrelazione fra soggetti di pari dignità morale e giuridica è la conferma dell’avvenuto superamento dell’idea di potestà intesa come esercizio di un potere nei confronti di un soggetto sottomesso. Questo rapporto duale bilanciato ha comportato l’uso di un comune linguaggio fra i soggetti coinvolti, che è stato intercettato dalla riforma del 1975 e di seguito rimodulato nell’attuale contesto, in una costante tensione dove predomina l’animo rispettoso della personalità e della fragilità del figlio minore (da parte di entrambi i genitori nell’esercizio di una superiore funzione educativa). Scopo di questa funzione è la realizzazione di quello che altri hanno definito il «libero sviluppo delle persone componenti l’unità familiare», in Pietro Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1991, 2a ed., p. 497 e ss., particolarmente p. 501, dove è sostenuto anche che l’esercizio dei diritti fondamentali della persona è svincolato dalla capacità di agire e fondato sulla regola della capacità naturale. In dottrina si evidenzia che sebbene il minore è considerato dalla legge soggetto naturalmente incapace (v. art. 2 codice civile), e come tale soggetto al controllo dei genitori, egli possiede un personale diritto-
M. Ornella Attisano
La patria potestas nella storia del diritto
Al tal uopo giova ribadire che secondo il Legislatore civile del 1942,
al genitore esercente la (patria) potestà toccasse il compito di
omologare la personalità del figlio ad uno stereotipo preordinato
secondo la cultura comune dell’epoca, plasmandola su un modello
etico oggettivamente e socialmente condiviso, che non considerava
la personalità e la specificità della prole. Ne era conseguita la
tenutezza da parte del figlio all’osservanza delle indicazioni
genitoriali (per lo meno fino all’intervento della Riforma del diritto di
famiglia che ha attenuato la portata della sottomissione filiale e
previsto che la potestà dei genitori prendesse in considerazione la
capacità, le inclinazioni naturali e le aspirazioni dei figli) e la ulteriore
frenata alla sua autodeterminazione108. D'altronde i nostri costituenti,
impegnati nella preparazione della Carta dei valori della Repubblica,
col combinato disposto dell’art. 3, fondamento del principio
dell’uguaglianza dei cittadini «senza distinzione di sesso, di razza, di
lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e
sociali», con l’art. 29, piattaforma della garanzia costituzionale della
famiglia, in quanto «società naturale fondata sul matrimonio»,
annunciavano a chiare lettere che la famiglia era legittimata da un
principio di «uguaglianza morale e giuridica dei coniugi», e che la
legge dello Stato era posta a «garanzia dell'unità familiare». Una
siddetta ricostruzione, all’indomani dell’entrata in vigore del codice
civile del 1942, anteponeva l’uguaglianza ontologica fra i coniugi e
l’adesione solidaristica, morale ed affettiva dei componenti il nucleo
familiare, alle disposizioni francamente disparitarie dettate dal
Legislatore dell’epoca, dove l’elemento patrimoniale era
distintamente dominante rispetto a quello personale. A
completamento del percorso storico e giuridico fin qui compiuto,
dovendo concludere il tema della potestà dei genitori, rectius
potere di disposizione in ordine a quegli interessi intimamente collegati alla persona umana ed ai suoi diritti fondamentali. V. anche quanto evidenziato infra, p. 36, in nota 94; cfr. Valeria Corriero, Privacy, op. cit., p. 999 e ss.; Laura Tafaro, L’età per l’attività, op. cit. p. 222. 108
L’argomento è diffusamente approfondito da Enrico Al Mureden e Michele Sesta, Codice della famiglia, a cura di Michele Sesta, III ed., Milano, Giuffrè, 2015, sotto art. 315 bis, p. 1150 ss., particolarmente p. 1151.
M. Ornella Attisano
La patria potestas nella storia del diritto
“responsabilità genitoriale”, alla luce del decreto attuativo (D.lgs N.
154 del 2013), alla cui trattazione si rinvia a separata sede, si ritiene
di dovere aderire alla visione di quella parte della dottrina che rileva
come, nonostante i contributi della giurisprudenza (nazionale e
comunitaria) e del vasto settore multidisciplinare, sensibili
all’evoluzione del rapporto genitori-figli ed all’ufficio genitoriale, non
possono dirsi superate le antinomie di fondo del diritto delle relazioni
familiari, in perenne conflitto tra l’applicazione del diritto positivo in
materia ed il rispetto dei diritti e dei valori fondamentali della persona
umana garantiti a livello costituzionale e della CEDU109.
M. Ornella Attisano
109
Cfr., in particolare, Francesco Ruscello, Dal patriarcato al rapporto omosessuale: dove va la famiglia?, in Scritti in memoria di Ernesto Cantelmo, II, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2003, p. 664 ss.