lo specchio dell'anima

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Enrico Matteazzi, fantasy per ragazzi

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Enrico Matteazzi

LO SPECCHIO DELL’ANIMA

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www.ilclubdeilettori.com

LO SPECCHIO DELL’ANIMA Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2011 Enrico Matteazzi ISBN: 978-88-6307-374-4

In copertina: Immagine fornita dall’Autore

Finito di stampare nel mese di Luglio 2011 da Logo srl

Borgoricco - Padova

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Dedicato a coloro che accettano se stessi

per poter cambiare.

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Prologo Il ragazzo dai capelli corvini correva a perdifiato dribblando gli alberi del bosco. Nella semioscurità, il bracciale bianco che stringeva in mano brillava fluorescente, come una di quelle collane luminose che si comprano al luna-park. Sapeva di essere inseguito, anche se non osava voltarsi indietro. Do-veva assolutamente raggiungere il paese del bambino prima che fosse troppo tardi; ma l’alba tardava a mostrarsi e, come se non bastasse, quel dannato bosco sembrava non avere fine. Alberi, alberi e ancora alberi… Non aveva mai visto tanto verde in vita sua. All’improvviso qualcosa lo afferrò alla caviglia facendolo fi-nire per terra. Nella caduta il bracciale gli sfuggì di mano e, rotolando, andò a perdersi tra i cespugli. Il ragazzo si voltò, ma non riuscì a vedere cosa lo aveva bloc-cato. Sembrava che a scaraventarlo a terra fosse stata una for-za invisibile, e ora quella stessa forza lo stava trascinando dentro un cespuglio di rovi! Già si preparava all’impatto con i rami pungenti, quando di colpo quella strana forza si arrestò. Dalla penombra che av-volgeva il bosco comparve all’improvviso la sagoma di un uomo con un cappello in testa. Lentamente la figura divenne più chiara: si trattava in effetti di un uomo in carne e ossa, ve-stito con un completo nero e un curioso cappello di feltro. I

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suoi occhiali scuri riflettevano la debole luce del sole che sta-va sorgendo. L’uomo nero aveva seguito attentamente il movimento del bracciale e, noncurante della sua preda, stava per andare a raccoglierlo. Il sole, però, si stava alzando e se si fosse espo-sto troppo alla luce, di lui non sarebbe rimasto che un muc-chietto di cenere. Digrignando i denti, rivolse quindi un ulti-ma rabbiosa occhiata al ragazzo dai capelli corvini e senza pronunciare una parola, così com’era apparso, svanì nel nulla. Il ragazzo posò la testa sullo strato di aghi di pino e foglie morte che ricopriva il terreno, tirando un sospiro di sollievo. Quindi si alzò e si mise subito alla ricerca dell’oggetto perdu-to. Non gli ci volle molto per capire che il bracciale fluore-scente era ruzzolato giù da un dirupo e che questo sovrastava proprio il paese del bambino. Doveva recuperare quel bracciale prima degli uomini neri, o la sua avventura sarebbe finita prima ancora di cominciare.

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1 Dopo i fattacci dell’anno precedente, il dottor Curaro passava quasi tutto il giorno chiuso nella propria stanza. Cosa facesse là dentro nessuno lo sapeva, ma è anche vero che a nessuno importava più di tanto. A nessuno tranne che a Luigino. Andava spesso a fargli visita, dopo la scuola, e lo trovava sempre seduto davanti a delle vecchie carte ingiallite piene di strani simboli. E tutte le volte che tentava di sbirciare o di chiedergli spiegazioni, il dottore non lo guardava neanche in faccia: prendeva le sue scartoffie e, senza commentare, le fic-cava dentro un cassetto. Poi, cercando di mantenere un tono gentile, invitava il suo ospite ad andarsene. Altre volte, inve-ce, Ernesto Curaro chiudeva la porta a chiave rispondendo seccato che non voleva scocciatori. Un giorno, però, Luigino era riuscito a scorgere qualcosa di familiare, tra le carte ingiallite. Era sicurissimo di aver rico-nosciuto, tra una miriade di segni e annotazioni illeggibili, un simbolo a lui noto: un triangolino con un cerchio grande al centro e uno più piccolo, isolato, più in basso. Gli venne in mente il tatuaggio che Robinson Giramondo (un personaggio piuttosto ambiguo che il Frate Nero aveva etichettato come “alamediano”) aveva inciso sul braccio. A scuola, quando si annoiava, Luigino disegnava spesso quel simbolo.

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Il professor Andreij Lewinsky aveva detto che quei segni de-scrivevano una città, la mitica Alameda, ma non aveva speci-ficato molto altro. Ecco perché cresceva in Luigino il deside-rio di sapere.

Quella mattina Luigino si apprestava a prendere l’autobus numero 11 per andare a scuola. Uscito di casa sbattendo il portone, s’incamminò di passo svelto lungo il vialetto albera-to che conduceva alla fermata. Il primo giorno ed era già in ritardo! Vedendo l’autobus che scendeva la collina, si mise a correre per raggiungerlo. Se l’avesse perso avrebbe dovuto aspettare il prossimo, che non sarebbe passato prima di tre quarti d’ora. Per la fretta non guardava nemmeno dove metteva i piedi, e così inciampò, finendo lungo disteso con la faccia per terra. Voltandosi per capire che cosa lo aveva fatto cadere, vide uno strano braccialetto bianco. Il sole che lo illuminava disegnava sull’asfalto una curiosa ombra dai toni azzurrognoli. Incurio-sito, Luigino lo raccolse per poterlo osservare meglio, ma su-bito la strombazzata di Antonio, l’autista dell’autobus, che nel frattempo si era fermato per aspettarlo, lo indusse ad infi-lare il bracciale in tasca e riprendere velocemente la corsa. Con un certo affanno, Luigino raggiunse infine la fermata e riuscì a salire sulla vettura. Ringraziò il gentile autista e si di-resse in fondo, al primo posto libero che vide. Mentre camminava si guardò le mani: si era sbucciato un po’ i palmi, ma niente di grave. Si sedette e, dopo aver ripreso fiato, estrasse dalla tasca dei pantaloncini lo strano oggetto che aveva raccolto: una fascetta elastica, piatta, larga un cen-

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timetro, che si chiudeva con un velcro. Luigino notò che all’ombra il bracciale emanava una debole fluorescenza. Quel comportamento insolito non gli era nuovo… Ma certo! All’improvviso Luigino si ricordò che aveva già visto un bracciale come quello: lo indossava Robinson Gira-mondo l’anno prima, in quella avventura in Congo. Tutto eccitato, il bambino provò ad immaginare a cosa potes-se servire: forse si trattava di un nuovo di orologio da polso; già, però non si vedevano né numeri, né quadranti con lancet-te. C’era solo un piccolissimo display, ma era spento, e non c’erano pulsanti per accenderlo… oppure poteva essere un’altro strano oggetto magico… no, meglio di no, ne aveva abbastanza di magie! Decise che l’indomani avrebbe sottoposto il bracciale al dot-tor Curaro. Lui senz’altro avrebbe saputo come aiutarlo. Sempre che avesse voluto farlo…

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2 Il ragazzo dai capelli corvini aveva osservato la scena nasco-sto dietro uno dei pioppi di via della Collina. Non era andato proprio come aveva previsto, ma il suo piano aveva comun-que funzionato: il bambino aveva raccolto il bracciale e, cosa più importante, lui non aveva neanche dovuto mostrarsi. Si mosse allora verso la fermata dell’autobus. La t-shirt attil-lata che indossava non gli dava tregua: non riusciva a respira-re con tutto quel caldo. La temperatura in quella dimensione era davvero insopportabile. Ma come facevano a sopportare quell’afa? Pensare che nel posto da cui proveniva lui le tem-perature al massimo sfioravano i venti gradi centigradi. Certo, poi però d’inverno scendevano parecchio al di sotto dello ze-ro. Percorse tutta via della Collina ammirando i grandi pioppi. “Peccato non essere stato qui qualche mese fa”, si disse, “sa-rei rimasto volentieri ad osservare lo svolazzare dei semi”. Quando era piccolo, suo nonno gli raccontava sempre la leg-genda della Grande Via Bianca, la prima strada di Alameda, dove, tra aprile e maggio, immensi alberi di pioppo ricopriva-no la strada di un manto bianco che sembrava neve. Purtrop-po dalle sue parti non erano rimasti molti alberi, e quelli che c’erano davano pochissimi semi.

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Scese fino al fondo della via e là, all’ombra dell’ultimo piop-po, controllò un bastoncino simile a una penna legato al suo cinturino di cuoio. Non aveva sbagliato: qualcuno si stava avvicinando. Ogni volta che un essere umano si trovava nei paraggi, infatti, la “penna magica” si illuminava captandone i pensieri. Il ragazzo udì distintamente dei passi provenienti da una via secondaria. Forse era meglio nascondersi. Con due balzi si ri-portò dall’altra parte della stradina e si appostò oltre una sie-pe. Un vecchietto gli passò accanto senza accorgersi della sua presenza. Subito dopo, però, arrivò un enorme cane Sanber-nardo il quale, attratto dallo strano odore del cespuglio, iniziò ad annusare tutto intorno. Accortosi che qualcosa non andava, si mise subito ad abbaiare per attirare l’attenzione dell’anziano padrone. – Vattene via! Vattene via! – sussurrò il ragazzo agitando la mano. Per fortuna il cagnaccio sembrò ascoltarlo e se ne andò per la sua strada. L’aveva scampata bella, stavolta! Se qualcuno lo scopriva, quelli della Fondazione Tempo lo avrebbero tracciato e rag-giunto in men che non si dica…

Quella stessa sera, nel suo ristorante, Mario Spaghetti carpì di sfuggita un discorso tra due anziani avventori. Mentre uno sorseggiava un caffè, l’altro leggeva il giornale con evidente apprensione.

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– Senti qua! – esclamò il tipo col giornale. – Dicono che quel-lo di ieri è stato un normale calo di tensione. – Normale?! È colpa delle onde radio, secondo me. Tutti ‘sti cellulari... – Qui dice che potrebbe essere stato un sovraccarico: “Troppi elettrodomestici usati nello stesso momento”. – Mmpf… – sbuffò l’altro. Il lettore posò il giornale corrugando le sopracciglia. – Se-condo me c’entrano gli uomini neri – sussurrò dopo aver ruo-tato platealmente gli occhi a destra e a sinistra. – Ancora con ‘sta storia! – Ti dico che li ho visti! – Sì, come no! – Ieri sera, ti dico. Erano loro, gli uomini neri! Erano in tre… o forse quattro, non ricordo… Comunque mi sono spaventato quando mi hanno chiesto di quel bambino… com’è che si chiama? Quello che l’anno scorso si era perso… Gino, Gian-nino… – Luigino! – Ecco, sì, lui! Udendo quel nome, Mario si sentì mancare. – Ma sì, il figlio del Gianni, quello che sta in via della Colli-na! – Comunque sia, mi sono spaventato e gli ho risposto che non lo conoscevo. Poi sono corso via. – Secondo me sei solo un gran paranoico! Mario entrò di corsa in cucina. Asciugandosi il sudore dalla fronte, posò lo straccio che aveva in mano e si tolse il grem-biule con su scritto “Mario Spaghetti... e pizza”. Con un lento cigolio, la porta di servizio si aprì leggermente lasciando intravedere una scarpa nera.

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3 – Un oggetto piuttosto affascinante! – esclamò Ernesto Cura-ro esaminando la fluorescenza del bracciale di Luigino. – Che cos’è, un giocattolo? Per l’occasione, il dottore aveva indossato dei minuscoli oc-chialini acquistati nel negozio cinese sotto casa. – Oh, insomma doc! La smetta di fingere! – si arrabbiò il bambino. – Ho visto un oggetto simile a questo qui in Congo, un anno fa… e lei sa benissimo di che cosa si tratta… Passa tutto il tempo chiuso qui dentro a studiare strani simboli che… – Sssh...! – fece Ernesto Curaro coprendosi la bocca la bocca con il dito indice. Si tolse quindi gli occhialini e si passò una mano sulla fronte sudata. – Stupidaggini! – sbottò poi riconsegnando il bracciale al bambino. – Ah, davvero? – Non so esattamente cosa tu abbia visto, ragazzino, ma ti consiglio di non andare oltre con l’immaginazione. E in ogni caso… – lasciò la frase a metà e fece segno a Luigino di usci-re. Quindi, senza dire più nulla, tornò ad immergersi nelle sue carte. Luigino, però, non aveva alcuna intenzione di andarsene. Ri-mase ad osservare il dottore con occhi lucidi e imploranti.

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– Ma sei ancora qui? – chiese Curaro con fare scocciato. – Non me ne vado finché non mi spiega… – Oooh… e va bene, va bene! Ti dirò quel poco che so, ma bada: non deve uscire da questa casa. Capito? – Capito, capito! – Promettimelo! Luigino sollevò la mano come quando si fa un giuramento. – Sì, sì, lo prometto! – Mm… bene. Fammi… fammi chiudere tutto, non si sa mai. Dopo aver tirato tutte le tende ed essersi assicurato che la por-ta d’ingresso fosse ben chiusa, il dottor Curaro finalmente i-niziò a parlare. – Eravamo sull’aereo che ti riportava a casa, e tu avevi la febbre alta, ti ricordi? Iniziasti a parlare di profezie, di sette, di uomini neri… poi hai nominato Alameda, un nome che non sentivo da molto, molto tempo. Tanto che oramai era ar-rivato a credere fosse frutto della mia immaginazione. E in-vece, a quanto pare non lo era affatto. Sarei curioso di sapere come fai tu a conoscerlo… – È stato il professore a parlarmene – rispose sbrigativo Lui-gino. – Allora è vero! Cos’è Alameda? Me lo dica! – Be’… a quanto ne so, è una città. Sul volto di Luigino si stampò un largo sorriso. – Lo sapevo, lo sapevo! – ripeté saltellando dall’eccitazione. – Calmati, calmati, ragazzino! – lo frenò subito il dottore. – Alameda non esiste. Non è mai esistita. Per dirla tutta, non è che un nome inventato da una setta vissuta secoli fa. Erano convinti che fosse possibile costruire la “città perfetta”, ma era solo un gruppo di pazzi megalomani… – E come sarebbe fatta questa città, lei lo sa? – lo interruppe il bambino, ansioso di saperne di più.

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– Certo che lo so, è naturale! Ho fatto delle ricerche e ho sco-perto che Alameda avrebbe dovuto ispirarsi all’antica Ba-ghdad. Ne hai mai sentito parlare? La mitica città-mercato in cui furono ambientate le favolose storie di Le mille e una not-te… Sì, Luigino aveva letto qualcosa in merito. – In passato Baghdad era conosciuta come “la città circolare” – continuò il dottore. – Il califfo Al-Monsur fece infatti co-struire un muro, per l’appunto in cerchio, tutto attorno al suo palazzo. A proposito, dovrei avere… – si mise alla ricerca di qualcosa, tra le mille carte che aveva sparse per tutta la stan-za. Rovistò nei cassetti, guardò in tutte le mensole, finché non trovò quello che cercava: un foglietto ingiallito con disegnato un simbolo a mezzaluna. – Ecco. Questo qui è interessante! – inforcò gli occhialini. – Osservalo attentamente: sembra pro-prio la pianta di una città. Consegnò il foglietto al bambino.

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– Vedi: ci sono due vie principali che si incontrano nel mezzo e… le vie laterali formano un rombo che congiunge i quattro punti cardinali. Il tutto inscritto in un cerchio. Già, un simbo-lo dentro l’altro… Per un attimo il dottore si perse in fantasie tutte sue e Luigino ne approfittò per infilarsi il foglietto nella tasca dei pantalon-cini. – Non sono molto sicuro… – stava intanto dicendo Curaro. – Sto ancora cercando di capirci qualcosa. Il dottore si era messo ad armeggiare con un cassetto alla ri-cerca di una lente di ingrandimento. – Fammi rivedere il bracciale! Luigino glielo diede. Il dottore girò e rigirò l’oggetto alamediano attraverso due lenti: quella degli occhialini e quella d’ingrandimento. Era proprio buffo! – Vedi…? – offrì la lente al ragazzino. Sulla parte anteriore della strana fascetta elastica c’era im-presso lo stesso simbolo del foglietto. – Non capisco – commentò Luigino. – Che significa? – Non ne ho idea. Forse questo è davvero un oggetto alame-diano. Se così fosse, significa che… – … che Alameda esiste! – concluse eccitato Luigino. Il dottore non osò ribattere. Alla luce delle prove che quel ra-gazzino gli aveva portato, l’esistenza della leggendaria città era più che plausibile. – E degli altri simboli, che mi dice? Ha studiato anche quelli? – Ma certo, è ovvio! Il dottor Curaro stava per continuare, quando suonò il campa-nello d’ingresso.

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– È la donna delle pulizie! – esclamò concitato. – Continue-remo questa conversazione un’altra volta. Anzi, ora che ci penso, è meglio se non la continuiamo più. – Ma dottore… – Ecco, riprenditi il tuo souvenir! – gli consegnò il bracciale. – E se posso darti un consiglio: nascondilo bene. Anzi, me-glio: buttalo via! Il campanello suonò ancora, più volte. Il dottor Curaro am-mucchiò frettolosamente le sue carte e le infilò nel primo cas-setto a portata di mano; chiuse quest’ultimo con una chiave che ripose in tasca, poi si avviò giù per le scale. Luigino lo seguì fino alla porta d’ingresso e poi, dopo aver accennato un saluto alla domestica, uscì in strada.

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4 Il paese dormiva tranquillo, avvolto nel mantello oscuro di una notte senza luna. Tutto taceva. Nemmeno un soffio di vento a disturbare la quiete dei vicoli male illuminati. Due figure prive di volto raggiunsero rapidamente un lam-pione. Comparvero improvvisamente, da due direzioni oppo-ste. La prima iniziò ad arrampicarsi sul palo; l’altra la seguì a ruota. Tra orrendi mugugni e borbottii senza senso, ingaggia-rono una violenta battaglia per la conquista della lampada che si trovava sulla cima, ma per colpa del peso eccessivo il lam-pione iniziò ad oscillare pericolosamente; poi si inclinò, e in-fine si spezzò, rovinando a terra con un botto tremendo. Inuti-le dire che l’impatto mandò in frantumi la povera lampada. Nelle case intorno si accesero alcune luci. Spaventate, le due figure senza volto scapparono a gambe levate in due direzioni diverse.

Il mattino seguente, dall’autobus, Luigino notò un capannello di persone attorno a un lampione caduto. Era spezzato alla base. Qualcuno del comune stava cercando di rialzarlo a mani nude, ma era evidente che serviva una gru. Chi o cosa aveva

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fatto a pezzi quel pesantissimo palo doveva essere molto for-te. Luigino era così stanco che decise di non dare troppa impor-tanza alla cosa. Pensava invece alla scuola: all’idea di dover trascorrere cinque ore rinchiuso in classe ad ascoltare dei noiosissimi professori, si sentiva male. Era così assorto nei suoi pensieri che non si accorse del ra-gazzo con i capelli corvini che, in piedi di fronte a lui, lo fis-sava con occhi sgranati. Avrà avuto sì e no tredici anni. In-dossava un giubbino jeans fuori moda che copriva una ma-glietta bianca e un paio di pantaloncini corti molto attillati. Portava pure un obbrobrioso cappello multicolore. Vestito così, di sicuro non voleva passare inosservato! – Che vuoi? – chiese Luigino, accortosi delle insistenti oc-chiate che quel giovane gli stava dedicando. – Sei tu Luigino, non è vero? – chiese questi sorridendo. – Sì. E tu, chi sei? – Mi chiamo Aaron… – disse offrendogli la mano. – Aaron Duemondi. Piacere. Luigino corrugò le sopracciglia. Dove aveva già sentito quel nome? All’improvviso ricordò. – Quel Aaron Duemondi? L’altro fece cenno di sì col capo. Luigino, allora, iniziò ad a-gitarsi. – Non è possibile! – esclamò sorpreso. – Non aver paura – disse ancora Aaron – non sono qui per farti del male. Poi, avvicinando la bocca all’orecchio del suo interlocutore: – So che l’hai preso tu, non ti preoccupare. – Allora è tuo quel… – Sssh! – gli fece segno di abbassare i toni.

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– Allora è tuo quella specie di orologio! – ripeté il bambino a bassa voce. – Sì… e non è un orologio! È un… – si guardò intorno so-spettoso. Sembrava che nessuno stesse ascoltando, ma era meglio non fidarsi. – Senti, adesso non ho tempo per spiegar-ti. L’autobus si fermò di fronte alla biblioteca e Aaron Duemon-di fece per scendere, ma Luigino lo trattenne per un braccio. – Che cos’è? – Stanotte. – Stanotte cosa? – Ci vediamo stanotte a casa tua e ti spiegherò tutto. Ora ti devo salutare. Prima di scendere, con la mano destra Aaron fece un piccolo cerchio nell’aria. Di nuovo Luigino inarcò le sopracciglia pensieroso: dove aveva già visto quel gesto? Ma sì, certo, era il modo di salutare del grande Sciamano Bianco! Lo sapeva che Aaron Duemondi c’entrava con quel vecchio saggio! – Aspetta! – urlò disperato Luigino. L’autista però aveva già richiuso le porte dell’autobus, ripartendo quasi subito. Luigino vide il ragazzo dirigersi verso la biblioteca, dove, ap-poggiato allo stipite del portone, lo stava aspettando una per-sona dall’aria molto familiare.

Aveva già incontrato Aaron Duemondi. L’anno precedente, quando il Frate Nero aveva cercato di ucciderlo, il ragazzo dai capelli corvini era infatti intervenuto salvandogli la vita.

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Quella notte Luigino era deciso ad aspettarlo, ma era talmente insonnolito che finì con l’addormentarsi sopra il letto ancora vestito. Lo svegliò lo sbattere insistente delle imposte contro il muro; il vento si era alzato tutto d’un tratto agitando le tende. Sulla parete bianca apparve un’ombra. Luigino si mise di scatto a sedere sul letto e accese l’abat-jour. Il volto di Aaron Duemondi apparve all’improvviso sot-to quella luce giallognola: i suoi occhi vagavano qua e là in cerca di qualcosa. – Allora, dov’è? Dove l’hai messo? – chiese agitato. – È qui, è qui! – rispose Luigino alzandosi e andando verso la libreria. Spostò qualche libro: aveva nascosto il braccialetto lì dietro, dove sapeva che sua madre non avrebbe mai curiosato. Appena rivide quell’inconfondibile scintillio fluorescente, Aaron si sentì sollevato. Luigino vide i suoi occhi, di un az-zurro molto chiaro, un colore insolito per uno dai capelli neri. Forse portava le lenti a contatto. Aaron prese il bracciale e se lo infilò subito al polso; poi si girò e fece per andarsene da dove era entrato. Luigino, però, non aveva alcuna intenzione di lasciarlo scappare. – Ehi! Non puoi andartene così! – esclamò trattenendolo per un braccio. – Mi dispiace… – fece l’altro cercando di liberarsi. – Sei stato tu a fare in modo che trovassi il bracciale, non è vero? Perché? E perché adesso te lo riprendi e scappi via co-sì? – Non posso dirti niente – rispose Aaron liberandosi final-mente dalla stretta del bambino. – Ho generato già troppe di-storsioni! – Cosa? Distor… che?

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– Lascia perdere, è troppo lungo da spiegare, ma bisogna che gli eventi continuino a fare il loro corso fino a domattina. Ora lasciami andare! – Perché? Cosa succede domani mattina? Ma Aaron non volle rispondere e in modo elusivo chiese che ora era. Luigino fu così costretto a voltarsi per guardare la sveglia sul comodino, e quando si rigirò, Aaron non c’era più. Una folata di vento fece ondeggiare le tende. Corse alla finestra e guardò in basso. Udì distintamente uno scalpiccio frenetico e, sotto le luci dei lampioni, scorse un’ombra che fu veloce a sparire oltre il cancello della vicina, la signora Matilde. Desideroso più che mai di avere delle risposte alle sue mille domande, Luigino non perse tempo e decise di gettarsi all’inseguimento di Aaron. E dato che per l’eccitazione era andato a dormire addirittura con le scarpe da ginnastica, non dovette far altro che prendere la torcia elettrica e calarsi giù dalla finestra. L’impresa non fu affatto difficile, dato che la sua cameretta si trovava proprio sopra il portico dell’ingresso di casa. Prima di saltare giù, si fermò un attimo ad ascoltare… Niente. Mamma e papà dormivano, per fortuna. Piano piano scivolò giù dal portico e, con passo felpato, raggiunse il cancello. Non pote-va aprirlo, altrimenti avrebbero potuto udirne il cigolio. Deci-se allora di scavalcarlo. E così, in men che non si dica, Luigino fu in strada.

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5 La casa della signora Matilde gli era sempre parsa un po’ te-tra, ma ora, al buio, appariva addirittura terrificante. Lentamente Luigino si avvicinò al vecchio cancello arruggi-nito illuminandolo con la torcia elettrica. Appoggiò una mano alle sbarre e provò a spingere. Il cancello si aprì cigolando. Prima di decidere se percorrere o meno il breve vialetto in porfido che conduceva alla porta di casa, si domandò che co-sa stava facendo lì. In fondo non era sicuro che fosse proprio l’ombra di Aaron quella che aveva visto dalla finestra. E se invece si fosse trattato di un ladro, o peggio, di un uomo ne-ro? No, di sicuro era Aaron. Lo avrebbe raggiunto e lo avreb-be costretto a dargli delle spiegazioni. Con il cuore in gola e le mani sudate, Luigino proseguì fino al portone d’ingresso. Una volta raggiuntolo, provò a spingerlo piano piano e… era aperto! Lo aprì quel tanto che bastava ed entrò. Cacciò un urlo. Qualcosa di molle e peloso era saltato giù da chissà dove finendogli dritto dritto in braccio… Il gattaccio della signora Matilde! Quello che miagolava ogni notte. Quanto lo odiava! Per colpa sua probabilmente Aaron era scappato. Per lo spavento, la torcia gli era caduta e si era pure spenta; così adesso Luigino non vedeva nulla, dato che le luci intorno

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a quella vecchia casa erano sempre spente. Non si sentiva vo-lare una mosca. Solo il suo respiro affannato rompeva la mo-notonia di quel silenzio. Luigino non sapeva che fare. Forse l’unica soluzione era tor-narsene a casa. Sì, doveva andare a casa immediatamente e lasciar perdere tutta quella storia. Si mise a gattoni sul pavimento tastando il porfido, alla dispe-rata ricerca della torcia elettrica. Una volta trovatala, le diede qualche colpetto per vedere se si accendeva ancora, ma nien-te. “Non importa”, si disse Luigino cercando di farsi corag-gio, “la strada la conosco a memoria. Non sarà certo un po’ di buio a spaventarmi.” Anche se tentava di nasconderlo a se stesso, il bambino era molto spaventato. Con il cuore e le gambe traballanti, si incamminò verso il cancello. Una folata di vento fece sbattere il portone alle sue spalle e di fronte a lui il buio divenne all’improvviso ancora più buio. La sagoma di un uomo alto e robusto era comparsa dal nulla bloccandogli la strada. Clic! Il rumore del caricatore di una pistola anticipò la sensa-zione di freddo del metallo che veniva appoggiato sulla sua fronte. Se fino a quel momento il ragazzino non si era ancora fatto pipì addosso, quello era decisamente il momento più opportuno. Dopo un paio di scintille a vuoto, comparve la fiammella a-rancione di un accendino. Al lume rossastro di una sigaretta accesa, un cappello di feltro si sollevò piano, lasciando intra-vedere un paio di occhiali scuri. Per un attimo Luigino intravide la propria faccia spaventata riflessa in quelle lenti scure. Provò a deglutire, ma la bocca gli si era improvvisamente seccata. Si sentiva pietrificato. In

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quelle condizioni, nemmeno l’uomo più coraggioso del mon-do avrebbe saputo cosa fare. Mantenendo la canna della pistola ben premuta sulla fronte del bambino, il losco figuro aspirò dalla sigaretta senza dire nulla. – Chi… chi sei? – chiese con voce tremolante Luigino. – Finalmente, ragazzino! – bofonchiò l’uomo nero – credevo che il gatto ti avesse mangiato la lingua. L’uomo nero sorrise, o almeno a Luigino era parso di intra-vedere un sorriso. In realtà, con quel buio non capiva nem-meno se stava realmente parlando con qualcuno o era tutto frutto della sua immaginazione. Il volto del suo aggressore appariva pressoché irriconoscibile, eppure quella voce… – Dimmelo tu chi sono! – disse il figuro lasciando che la fio-ca luce rossastra della sigaretta accesa illuminasse bene il proprio volto: sembrava segnato da un’ustione piuttosto gra-ve, a giudicare dal fatto che mezza faccia era rimasta orribil-mente sfigurata. – Robinson…? – provò a indovinare Luigino. L’uomo nero, la mano ben salda sulla pistola, portò di nuovo la sigaretta alla bocca e aspirò lentamente. – Ti credevo… – … morto? Be’, come vedi ragazzino, non lo sono. Ho cer-cato di impedirti di distruggere l’Unica, ma non ci sono riu-scito. – Evidentemente doveva finire così – si sorprese a dire Luigi-no. – E tu che ne sai? Sei solo un moccioso! Mi bastava correg-gere una singola azione. Una sola… e avrei cambiato il futu-ro. – Facendo morire un sacco di persone innocenti?

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Stranamente queste parole parvero toccare Giramondo, che ritrasse la pistola gettando a terra la sigaretta. Ora Luigino non poteva più vederlo in faccia, ma udiva comunque quella sua fastidiosissima voce tagliente. – Per colpa tua sono rimasto gravemente ustionato, Luigino. Per di più il Frate Nero ha distrutto l’unico mezzo che avevo per tornare a casa. – Il bracciale! – Già. Aaron Duemondi ti avrà spiegato… – A dire il vero, no. Sentì che l’uomo nero si appoggiava al muro accanto a lui ri-ponendo la pistola nella fondina, sotto la giacca. Per un mo-mento a Luigino venne la tentazione di scappare, ma desistet-te. Quell’uomo era pericoloso: se veramente era diventato un membro della banda Manonerik, probabilmente ora poteva vedere anche al buio… Quanto ci avrebbe messo a decidere di estrarre nuovamente la pistola e sparargli? – Allora te lo spiego io – disse Robinson. – Questo è un ce-rebracciale, un simpatico giocattolino che viene dal futuro. – Allora è vero! Tu e Aaron venite dal futuro! Nell’ombra, Robinson scosse la testa divertito e seguitò a par-lare. – Il materiale con cui è fabbricato il cerebracciale si chiama xavia. Ancora non è stato scoperto in questa dimen-sione temporale ed è anche per questa ragione che sono bloc-cato qui. Il Frate Nero ha distrutto il mio unico lasciapassare per il futuro e ora sono incastrato, costretto a servirlo e rive-rirlo. In fondo, però, non mi dispiace. Stava per aggiungere qualcos’altro, quando un’empia voce ri-suonò cavernosa dall’interno della casa della signora Matilde. – Ora basta, Robinson! Una sagoma nera si avvicinò con passo lento e strascicato. – Me la vedo io col ragazzo!

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Robinson si ritirò con la coda tra le gambe, lasciando spazio al nuovo arrivato. – Ciao, Luigi! – disse il personaggio oscuro con voce roca e sommessa. – È già passato un anno. Ti sei fatto proprio gran-de… Non vieni ad abbracciare un vecchio amico? Luigino si sentì improvvisamente avvinghiato da una forza irresistibile. In un attimo aveva perduto il controllo delle pro-prie gambe e si era ritrovato a pochi centimetri da un cappuc-cio nero e maleodorante. L’essere oscuro lo abbracciò senza stringerlo. – L’ultima volta che ci siamo visti – sussurrò l’incappucciato all’orecchio del bambino – eravamo in una capanna e tu stavi distruggendo le mie pietre della vita. Distanziatosi di pochi centimetri, il Frate Nero afferrò di scat-to Luigino per il collo. Ricordava la consistenza di quelle dita ossute: così fredde da penetrare fin dentro il cuore. – Per un anno intero ho atteso nell’ombra… Luigino si vedeva già morto, ma il Frate non aveva alcuna in-tenzione di ucciderlo. Invece lo lasciò cadere per terra. Poi i-niziò a tossicchiare. Sembrava alquanto provato dallo sforzo che aveva fatto per attrarre a sé il bambino. – La pagherai, Luigino… ma prima devi fare una cosa per me. Il mostro tentò di ridere malignamente, ma un forte attacco di tosse glielo impedì. Luigino colse l’occasione e, con uno scatto che trovò Robin-son impreparato, tentò di fuggire. Riuscì a fare solo pochi passi, però, perché quella strana forza tornò a farsi sentire, più violenta di prima. Lo stava attirando di nuovo verso il Frate come un pezzo di ferro che viene attratto da una calamita. Cercò di resistere puntando i piedi per terra, ma presto dovet-te desistere e si lasciò cadere a terra. Voltando la testa si ac-

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corse della presenza di un bastone che emanava una luce ros-sa. Strano, lo notava solo ora. Per un attimo il Frate Nero lo aveva sollevato con la mano destra. Forse la forza misteriosa proveniva da quello. – Ora basta giocare! – gridò il mostro incappucciato. Poi fa-cendo un cenno a Robinson: – Presto, alle grotte! – Le g… grotte? – balbettò Luigino spaventato; ma prima che potesse aggiungere altro, un fazzoletto bagnato si posò sul suo naso: un odore forte e pungente gli invase le narici e all’improvviso tutto divenne confuso.

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6 Luigino si svegliò al buio con un forte mal di testa e un dolo-re diffuso in tutto il corpo. Era appoggiato contro una parete fredda, umida e spigolosa che ricordava le pareti di una ca-verna. Non sapeva ce ne fossero vicino al suo paese. – Luigino… Luigino, sei tu? – disse a un tratto qualcuno. Quella voce gli parve molto familiare. – Mario… ma tu che ci fai qui? E… dove siamo? Era proprio Mario Spaghetti, padrone del ristorante omonimo e grande amico di Luigino. – E così alla fine hanno preso anche te, quei maledetti! – dis-se il ristoratore cercando il contatto con il bambino, e quando finalmente le loro mani riuscirono a incontrarsi, si lasciarono andare entrambi ad un lungo abbraccio. – Non so dove siamo, ragazzo… non lo so proprio. Ricordo solo uno di quegli uomini neri che mi intimava di seguirlo, ma io mi sono rifiutato. Poi ho sentito un colpo alla nuca e… Un rumore fastidioso, come di sfregamento pietra su pietra, lo interruppe. Una delle pareti di roccia si aprì in due lasciando entrare un po’ di luce nel buco buio in cui erano stati rinchiu-si. Due uomini neri entrarono con passo deciso dall’apertura. Uno di loro era Robinson Giramondo. Dietro di loro apparve il Frate Nero che teneva stretta in mano un’asta di legno, la

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cui sommità emetteva una luce rossastra simile a quella di una torcia elettrica quasi scarica Raggiunti i due prigionieri, Robinson afferrò Luigino per un braccio e lo trascinò all’esterno. Mario si era mosso per im-pedirglielo, ma tutto quello che riuscì ad ottenere fu la rea-zione dell’altro uomo nero, che gli mollò un ceffone così vio-lento da farlo cadere. Gli occhi di Luigino si accesero di rab-bia. Avrebbe voluto intervenire, ma come? La porta della cella si richiuse davanti a un Mario Spaghetti ancora a terra agonizzante.

FINE ANTEPRIMA...CONTINUA.

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