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Istituzioni di diritto pubblico AO a.a. 2014-2015 Prof.ssa Silvia Niccolai 249 LO “SPIRITO DEI TEMPI”: LE COSTITUZIONI DEL PLURALISMO ALLA PROVA DELLA GLOBALIZZAZIONE L’intonazione antimaggioritaria della democrazia costituzionale Avendo assegnato superiorità e rigidità alla Costituzione, a protezione dei valori comuni della convivenza) le costituzioni novecentesche sono state spesso descritte come portatrici di un atteggiamento antiautoritario e antimaggioritario. Esse infatti, nate in paesi che avevano visto dittatori come Mussolini e Hitler salire al potere in forza di libere elezioni, sono il frutto di una duplice esperienza e di una duplice riflessione: quella sui mali dell’autoritarismo, da un lato, e quella sui rischi della democrazia, dall’altro. Le democrazie costituzionali accolgono in pieno il principio democratico sotto il profilo del fondamento della sovranità, in quanto essi si fondano sulla sovranità popolare e su meccanismi elettorali universali (tutti i cittadini, indipendentemente dal sesso, dalle condizioni economiche o di istruzione, acquistano il diritto di votare e di essere eletti al raggiungimento di una certa età). Tuttavia, le democrazie costituzionali non accettano completamente il corollario del principio democratico, che è il criterio di maggioranza. Questo informa quasi tutte le manifestazioni della vita istituzionale (le leggi si votano a maggioranza), ma con alcuni limiti. Intanto, la Costituzione non può essere modificata con decisione della sola maggioranza (per votare revisioni della costituzione sono richieste maggioranze più ampie, e, come sappiamo, non tutta la Costituzione è modificabile). Inoltre, un ruolo molto importante è affidato a istituzioni non elettive e non rappresentative di maggioranze politiche, a cominciare dalla Corte costituzionale, ma compresa la magistratura, e, secondo concetto, il Capo dello Stato, che dovrebbero operare come garanti del rispetto e dell’equilibrato svolgimento delle regole. La dimensione ‘pluralista’ (politica e istituzionale) delle democrazie costituzionali L’intonazione antimaggioritaria delle democrazie costituzionali del dopoguerra ci conduce al tema del pluralismo, scelta cardinale al loro interno, ciò che è vero in particolare per la nostra Costituzione. Pluralismo politico sociale Intanto, nelle democrazie costituzionali è accolto, come discende dalla scelta in favore della sovranità popolare fondata sulla rappresentanza politico-partitica, il pluralismo politico e sociale: la democrazia costituzionale accetta e favorisce l’esistenza nella società e nell’opinione pubblica di visioni e di aggregazioni di interesse e di valore diverse. Essa si oppone, di conseguenza, ai modelli totalitari ‘a partito unico’. Nella democrazia costituzionale “i partiti politici diventano capaci di controllare e dirigere l’azione del parlamento e del governo” 1 , ma, appunto, i partiti, non uno, e per effetto dei cangianti orientamenti dell’elettorato, che possono premiare ora questo ora quel partito. Il pluralismo politico partico è peraltro solo una specie di un genere più ampio di pluralismo, il pluralismo sociale o delle formazioni sociali, che risale 1 R. Bin e G. Pitruzzella, Diritto pubblico, Giappichelli, Torino, 2010, p. 37.

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Istituzioni di diritto pubblico AO a.a. 2014-2015 Prof.ssa Silvia Niccolai

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LO “SPIRITO DEI TEMPI”: LE COSTITUZIONI DEL PLURALISMO

ALLA PROVA DELLA GLOBALIZZAZIONE

L’intonazione antimaggioritaria della democrazia costituzionale

Avendo assegnato superiorità e rigidità alla Costituzione, a protezione dei valori comuni della

convivenza) le costituzioni novecentesche sono state spesso descritte come portatrici di un

atteggiamento antiautoritario e antimaggioritario. Esse infatti, nate in paesi che avevano

visto dittatori come Mussolini e Hitler salire al potere in forza di libere elezioni, sono il frutto

di una duplice esperienza e di una duplice riflessione: quella sui mali dell’autoritarismo, da un

lato, e quella sui rischi della democrazia, dall’altro. Le democrazie costituzionali accolgono in

pieno il principio democratico sotto il profilo del fondamento della sovranità, in quanto essi si

fondano sulla sovranità popolare e su meccanismi elettorali universali (tutti i cittadini,

indipendentemente dal sesso, dalle condizioni economiche o di istruzione, acquistano il diritto

di votare e di essere eletti al raggiungimento di una certa età). Tuttavia, le democrazie

costituzionali non accettano completamente il corollario del principio democratico, che è il

criterio di maggioranza. Questo informa quasi tutte le manifestazioni della vita istituzionale (le

leggi si votano a maggioranza), ma con alcuni limiti. Intanto, la Costituzione non può essere

modificata con decisione della sola maggioranza (per votare revisioni della costituzione sono

richieste maggioranze più ampie, e, come sappiamo, non tutta la Costituzione è modificabile).

Inoltre, un ruolo molto importante è affidato a istituzioni non elettive e non rappresentative di

maggioranze politiche, a cominciare dalla Corte costituzionale, ma compresa la magistratura, e,

secondo concetto, il Capo dello Stato, che dovrebbero operare come garanti del rispetto e

dell’equilibrato svolgimento delle regole.

La dimensione ‘pluralista’ (politica e istituzionale) delle democrazie costituzionali

L’intonazione antimaggioritaria delle democrazie costituzionali del dopoguerra ci conduce al

tema del pluralismo, scelta cardinale al loro interno, ciò che è vero in particolare per la nostra

Costituzione.

Pluralismo politico sociale

Intanto, nelle democrazie costituzionali è accolto, come discende dalla scelta in favore della

sovranità popolare fondata sulla rappresentanza politico-partitica, il pluralismo politico e

sociale: la democrazia costituzionale accetta e favorisce l’esistenza nella società e nell’opinione

pubblica di visioni e di aggregazioni di interesse e di valore diverse. Essa si oppone, di

conseguenza, ai modelli totalitari ‘a partito unico’. Nella democrazia costituzionale “i partiti

politici diventano capaci di controllare e dirigere l’azione del parlamento e del governo”1, ma,

appunto, i partiti, non uno, e per effetto dei cangianti orientamenti dell’elettorato, che possono

premiare ora questo ora quel partito. Il pluralismo politico partico è peraltro solo una specie di

un genere più ampio di pluralismo, il pluralismo sociale o delle formazioni sociali, che risale

1 R. Bin e G. Pitruzzella, Diritto pubblico, Giappichelli, Torino, 2010, p. 37.

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alla visione della persona umana promossa dall’art. 2 della nostra Costituzione, il quale, come

già ricordato, recita:

“La Repubblica riconosce i diritti inviolabili dell’uomo come singolo e nelle formazioni sociali

in cui svolge la sua personalità”.

Questa disposizione costituzionale esprime, insieme al principio di centralità e rispetto della

persona umana, o principio personalista, anche una certa visione della persona: la democrazia

costituzionale non immagina gli individui soli nella società e individualmente in rapporto col

potere pubblico; essa promuove, invece, l’idea che le persone vivano la loro vita insieme ad

altri, creando legami, associazioni, forme di collaborazione e solidarietà e promuovano in tal

modo visioni del mondo molteplici. In tal modo, le democrazie costituzionali assumono come

propria missione quella di contrastare ogni tendenza al totalitarismo, alla chiusura del discorso

pubblico intorno ai soli valori che i poteri vogliano accettare o abbiano interesse a promuovere.

Esse contestano l’individualismo che era stato proprio dello stato liberale. Non potendo

ripristinare i ceti, sperano nella dimensione associativa come collante della società, fattore di

aggregazione, di coesione, di solidarietà.

Il principio di pluralismo politico-sociale, cui sempre si annoda la concezione personalista che informa

la Costituzione, è talmente basilare nel nostro ordinamento (ma analoghe considerazioni potremmo fare

per le altre democrazie costituzionali europee) che lo ritroviamo, come già abbiamo ricordato, in

moltissime disposizioni costituzionali. Per esempio, il riconoscimento della famiglia (art. 29 Cost.: “La

repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”) significa

anche che ogni famiglia può avere un proprio progetto educativo, proporsi di trasmettere valori e

mentalità diverse da quelle dominanti (perciò è riconosciuta anche, accanto alla scuola pubblica, la

scuola privata: art. 33 Cost.2); il riconoscimento dei sindacati (art. 39: “L’organizzazione sindacale è

libera”) promuove l’aggregazione degli interessi dei lavoratori e dei datori di lavoro. Il riconoscimento

della libertà religiosa, delle confessioni religiose diverse dalla cattolica (art. 8 Cost.), e delle minoranze

linguistiche (art. 6) il riconoscimento della scuola (art. 34: “ La scuola è aperta a tutti”) e

dell’università, dell’arte e della cultura sono altrettanti principi che aspirano a promuovere una vita

pubblica articolata e discorsiva (art. 33: “L’arte e la scienza sono libere, e libero ne è l’insegnamento”)

intorno a una pluralità di corpi sociali. Anche i partiti politici sono formazioni sociali, e pertanto il

pluralismo politico partitico è espressione della più ampia scelta a favore del pluralismo sociale.

Pluralismo istituzionale

Inoltre, il pluralismo può essere accolto, e, nella nostra Costituzione è accolto, come

pluralismo istituzionale.

Il pluralismo istituzionale significa che la vita della cittadinanza non è organizzata e

convogliata solo sullo stato e le sue strutture, ma anche su organismi territoriali di autogoverno.

In questa accezione, il pluralismo corrisponde al riconoscimento delle autonomie locali e risale

all’art. 5 della Costituzione (il quale stabilisce che “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce

e promuove le autonomie locali, attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio

decentramento amministrativo, adegua i principi e metodi della sua legislazione alle esigenze

dell’autonomia e del decentramento”). Le disposizioni poste dall’art. 5 stabiliscono il

superamento di una forma accentrata di stato e la scelta per la distribuzione del potere politico e

amministrativo sul territorio.

2 principio che fu dettato essenzialmente per proteggere la scuola cattolica, che costituisce da sempre la principale forma di scuola

privata in Italia, e circa il quale si discute se la precisazione posta dalla Costituzione, per cui il diritto di enti e di privati di istituire

scuole e istituti di educazione deve essere esercitato “senza oneri per lo stato”, sia sempre rispettato.

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Può lo stato essere ‘pluralista’? Molteplici valenze del concetto di ‘pluralismo’

La scelta pluralista dà senso al fatto che la nostra Costituzione utilizza in molti casi, a

preferenza del termine ‘Stato’ quello di Repubblica, il quale vale a indicare che la comunità

nazionale è formata da molte componenti, oltre all’apparato burocratico statale, e che l’unità

della nazione è il prodotto dinamico delle relazioni tra queste componenti. E’ una scelta

intimamente legata alla concezione non autoritaria dello Stato e dei pubblici poteri che le

democrazie costituzionali incorporano allorché scelgono che le istituzioni siano guidate dalla

volontà popolare e pongono la persona umana alla base della organizzazione pubblica. Anche

la scelta pluralista, dunque, ripropone, come è tipico delle democrazie costituzionali, una

visione del diritto che lo emancipa dalla equivalenza tra ‘legge” e “volontà dello stato’ cui

lo avevano ridotto le concezioni ‘positivistiche’ e ‘statualistiche’ liberali. Il pluralismo si

accompagna infatti al riconoscimento dell’autonomia, cioè della capacità di ispirare la propria

vita e attività a norme prodotte da sé: le formazioni sociali, come gli enti locali, sono altrettante

istituzioni in cui si organizza la vita delle persone, e che hanno una, diversamente estesa, ma

sempre presente, capacità di darsi proprie norme, come accade perfino con gli statuti di una

associazione, o le regole di un club. Hanno autonomia gli enti locali, le Regioni; ma ce l’hanno

anche le associazioni private, le formazioni sociali: sono norme che si coordinano variamente a

quelle statali, dovendo armonizzarsi con esse, ma che esprimono una cosa molto importante:

che il diritto nasce non solo dallo stato ma dalla socialità della natura umana.

Va detto però che il pluralismo reca, d’altro canto, insita in sé una certa difficoltà a

convivere col concetto di Stato come lo ha elaborato l’età moderna e contemporanea, cioè

come una sintesi della società che si pone al di sopra del conflitto tra interessi. E’ vero che

lo stato liberale dava il potere solo a certe classi; ma le teorie che lo sorreggevano era che

queste classi, attraverso l’apparato spersonalizzato dello stato, dovevano perseguire il bene

comune. Non è certamente un caso che la ‘teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici’, sia

stata sviluppata negli anni ’20 nel Novecento (contemporaneamente al francese Duguit) da noi

dall’eminentissimo e fascistissimo giurista siciliano Santi Romano. Facendo notare che lo stato

è un ordinamento tra altri, o è il contenitore in cui coesistono più ordinamenti, che c’è diritto

ogni qual volta c’è un ‘ordinamento’, cioè un insieme di persone legate da interessi comuni,

sottolineando che questi minori ordinamenti sono portatori ciascuno di una propria giuridicità,

Santi Romano, contestando il positivismo statualista che aveva dominato nel periodo liberale,

tornò a insegnare che il diritto non è una cosa che nasce dall’alto, che viene riversata sulla

società dalle autorità statali, che appartiene solo a queste che pertanto possono dettarlo e

modificarlo come vogliono. Il diritto, ricordò Santi Romano, è, al contrario, un criterio di

impostazione delle relazioni umane e trova in esse la sua ragione d’essere e la sua funzione. La

teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici era consapevole che la convinzione, veicolata

dal positivismo statualista, per cui il diritto è solo l’insieme dei comandi che l’autorità

pubblica esprime, e pertanto non c’è diritto fuori, davanti, o contro quei comandi, è pericolosa

e dannosa perché spoglia gli individui e la società, nelle sue varie articolazioni, del senso della

propria competenza e responsabilità in ordine alla qualità delle relazioni che essi

intrattengono con altri, così come della consapevolezza di essere titolari di diritti non del tutto

disponibili dal potere statale, il quale del diritto non ha il monopolio. La teoria della pluralità

degli ordinamenti giuridici, però, era anche un modo per contestare lo stato liberale e per

legittimare la conquista dello stato da parte di gruppi nuovi, di interessi che volevano

conquistare il comando, di un partito che voleva farsi stato. I fascisti, dopotutto, odiarono lo

stato liberale non meno, e probabilmente di più, dei socialisti o dei comunisti, in quanto vi

vedevano un apparato che precludeva a forze nuove e vitali, quali essi ritenevano di essere, di

assumere il comando e decidere, riformare, innovare, fare dell’Italietta un Grande Paese. E’

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vero che il fascismo, divenuto regime, ha portato a compimento, protetto e rafforzato le

componenti autoritarie e di classe che avevano già rappresentato l’essenza dello stato liberale in

Italia, ma, mettendo il partito al cuore dello stato esso, come tutti i totalitarismi, ha negato la

pensabilità stessa della differenza tra essere un gruppo sociale di potere e guidare una Nazione,

uno Stato (che è per definizione un ‘tutto’ non solo l’espressione di una parte), e, proprio così

facendo, ha annientato la pur fragile legalità cui lo stato liberale affidava la propria essenza

distintiva.

La scelta pluralista aveva caratterizzato, in particolare, la Costituzione di Weimar, il fragile e

contraddittorio ordinamento costituzionale democratico che la Germania si è data dopo la

sconfitta nella Prima Guerra Mondiale, e che ha sortito l’esito di consegnare il Paese al

nazionalsocialismo. In una pagina degna di moltissima riflessione Franz Neumann ha scritto:

“Il compromesso tra tutti i gruppi politici e sociali era l’essenza della Costituzione. Gli interessi

antagonistici dovevano essere armonizzati attraverso una struttura politica pluralistica, nascosta sotto la

forma della democrazia parlamentare.

La dottrina pluralista era una protesta contro la teoria e la pratica della sovranità dello Stato.

[Proclamava che] la teoria dello stato sovrano è caduta e deve essere abbandonata. Il pluralismo

concepisce lo stato non come un’unità sovrana separata e al di sopra della società, ma come una tra le

molte istituzioni sociali, con un’autorità non superiore a quella delle chiese, dei sindacati, dei partiti

politici o dei gruppi economici e professionali.

Alla base del principio pluralista vi era il disagio dell’individuo, inerme di fronte a una macchina

statale strapotente. Man mano che la vita diviene più complessa e le funzioni dello Stato si

moltiplicano, l’individuo isolato accresce la sua protesta contro il suo abbandono a forze che non può né

comprendere né controllare. Affidando funzioni amministrative decisive a questi organismi privati, i

pluralisti speravano di raggiungere due scopi: colmare il divario tra lo stato e l’individuo, e dare una

base concreta all’identità tra governanti e governati. Nonchè di raggiungere il massimo di efficienza

assegnando funzioni amministrative a organizzazioni competenti3.

Purtroppo, però, il pluralismo non adempie alle funzioni che esso si autoassegna. Una volta che lo

stato è ridotto a una istituzione sociale tra le tante e privato del suo potere coercitivo supremo, solo un

patto tra i singoli organismi sociali predominanti all’interno della comunità può offrire concreta

soddisfazione agli interessi comuni. Ma affinché tali accordi siano stipulati e rispettati, deve esservi

una base comune di intesa tra i vari gruppi sociali: la società, insomma, deve essere fondamentalmente

armoniosa. Ma poiché, di fatto, la società è antagonistica, la dottrina pluralista prima o poi viene a

cadere. O un gruppo sociale si arroga il potere sovrano, oppure, se i vari gruppi si paralizzano e

neutralizzano a vicenda, la burocrazia statale diventerà una forza strapotente, e questo in misura

superiore al passato in quanto occorrerà usare strumenti coercitivi più forti contro i gruppi sociali

rispetto a quelli precedentemente necessari per controllare individui isolati e disorganizzati”4.

3 In Germania ha sempre avuto grande risalto, nell’organizzazione amministrativa, il principio di sussidiarietà, per cui le funzioni di

cura di certi beni o interessi pubblici devono preferibilmente essere esercitate dai soggetti più vicini all’ambito territoriale, materiale,

personale in cui quegli interessi si dislocano. Questo significa coinvolgere nell’attività amministrativa statale anche una serie

innumerevole di soggetti di natura privata. Nonostante il nostro ordinamento abbia ufficialmente accolto il principio di sussidiarietà

nell’azione amministrativa solo negli anni 1990, come il principio secondo cui l’ente territoriale minore, il Comune, è in linea di

principio titolare di tutte le funzioni amministrative concernenti il suo territorio, espressione di sussidiarietà è sempre stata, per

esempio, l’attività dei sindacati nella stipula dei contratti collettivi di lavoro per le diverse categorie produttive, contratti che

venivano utilizzati come punto di riferimento per definire la retribuzione anche dei non appartenenti al sindacato. Due soggetti

privati, i datori di lavoro e i sindacati dei lavoratori, stipulando accordi, sostituiscono lo stato e i suoi organismi e procedimenti

amministrativi. L’associazionismo, come quello cattolico, che ha un grande ruolo nell’erogazione di servizi di assistenza sociale e

nell’educazione, è a sua volta una forma di sussidiarietà nel senso in cui la intende Neumann nel passo citato. La rinuncia dello stato

ad assumere e svolgere in proprio compiti amministrativi (compresi quelli giudiziali) rimettendoli a organizzazioni private è molto

accentuata nell’epoca attuale.

4 F. Neumann, Behemoth, Struttura e pratica del nazionalsocialismo, 1942, prima trad. it. 1977, Milano 1999, p. 14-15.

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La natura pluralistica dello stato democratico costituzionale va tenuta presente con tutti i suoi

chiaroscuri quando si considera che, come meglio vedremo tra poco, l’epoca delle democrazie

costituzionali è epoca di ‘crisi’ della statualità: il suo scenario, infatti, è quello della

integrazione sovranazionale, giuridica, politica, economica. Ogni studioso del diritto pubblico

contemporaneo sa infatti di dover usare categorie (lo stato come ente, l’amministrazione come

insieme di organi ben strutturati e distinti dalla ‘società’, i pubblici poteri che si esprimono con

atti tipici, la legge la sentenza il provvedimento; ma prima ancora: la sovranità come

supremazia all’interno e indipendenza verso l’esterno) che erano già travolte quando lo stato

democratico costituzionale ha iniziato la sua traiettoria, erano travolte dagli strumenti

concettuali – come appunto la teoria pluralista – emersi nel corso del Novecento, ed erano

travolte dalla nuova dimensione internazionalizzata e interconnessa della politica e

dell’economia. Si può dire dunque che nel pluralismo c’è la promessa e la minaccia che

l’epoca delle democrazie costituzionali porta con sé: la promessa di uno stato non

autoritario che è espressione della armoniosa dialettica tra più gruppi, soggetti, visione

del mondo, la minaccia di una salita al potere di un gruppo che sovrasta gli altri e asserve

a sé lo stato e i suoi enormi poteri.

Eccesso di pluralismo?

L’idea che le democrazie costituzionali nascono anche per porre limiti alla possibile ‘dittatura

della maggioranza’ era una specie di dogma in qualunque corso di diritto costituzionale sino a

pochi anni fa. Oggi però non si può riferire quella idea, senza tener conto che la riflessione

intorno ai limiti della democrazia ha preso, nel periodo più recente, una piegatura particolare. A

preoccupare molti osservatori, studiosi, intellettuali ed esponenti politici non è più il rischio che

la maggioranza diventi tiranna, ma il proliferare di gruppi, di interessi, di soggetti diversi che,

proprio grazie alla democrazia, prendono voce e reclamano considerazione, vogliono influire

sulle direzioni della cosa pubblica, ma con ciò stesso rendono difficile il formarsi di una coesa,

dunque forte, maggioranza politica. Oggi, come ai tempi di Weimar, la democrazia è spesso

tratteggiata come un sistema paralizzato e inefficiente in cui le decisioni si prendono con

lentezza e difficoltà a causa dei molti soggetti con cui le decisioni devono essere negoziate,

e a causa delle procedure pubbliche e partecipative imposte dalla democrazia medesima.

La stessa dialettica parlamentare, che di necessità richiede il confronto tra posizioni

politiche diverse, è, specialmente nel nostro paese, dichiaratamente guardata come una

‘zavorra’.

Non sono novità. Torniamo a Neumann:

“Il declino dei parlamenti ha rappresentato in Europa una tendenza generale dopo la prima guerra

mondiale. (… Già) Max Weber aveva rivelato che il sabotaggio del potere del Parlamento comincia

quando tale organismo cessa di essere un ‘club sociale’. Quando i deputati sono eletti da un partito

progressista di massa, e minacciano di trasformare la legislatura in un agente di profondi mutamenti

sociali, sorgono invariabilmente, in una forma o nell’altra, tendenze antiparlamentari. La formazione di

un gabinetto diviene un problema enormemente complesso e delicato, in quanto ciascun partito

rappresenta ora una classe, con interessi e concezioni della vita distinti da nette differenze rispetto alle

altre classi. Prima di poter formare l’ultimo governo pienamente costituzionale, il Gabinetto Müller, nel

maggio 1928, si ebbero, per esempio, negoziati che si protrassero per quattro settimane tra

socialdemocratici, centro cattolico, democratici e partito del popolo tedesco. Le differenze tra

quest’ultimo, che rappresentava gli industriali, e quello socialdemocratico, che rappresentava gli operai,

erano talmente profonde che solo un compromesso attentamente elaborato avrebbe potuto unirli, mentre

il partito cattolico di centro era sempre in disaccordo con gli altri perché insoddisfatto del suo

insufficiente ruolo di mediazione.

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Una struttura così precaria non poteva sopportare tanto facilmente uno sconvolgimento dei suoi delicati

equilibri, per cui divenne necessario modificare qualunque principio parlamentare potesse alterarli. Le

critiche ai partiti di governo dovettero essere attenuate, e si ricorse al voto di sfiducia in due sole

occasioni. Quando non era raggiungibile alcun accordo tra i partiti, venivano formati governi di ‘esperti’

che si dichiaravano al di sopra delle fazioni e delle loro lotte. Questa parodia della democrazia

parlamentare fece buon gioco ai reazionari, giacché permise loro di nascondere politiche

sostanzialmente antidemocratiche sotto il manto della competenza tecnica. La conseguente impossibilità

di applicare controlli parlamentari al funzionamento del Governo fu il primo segno della diminuzione

del potere del parlamento”.5

Per chi assume una visione ‘giurisdizionalistica’, l’accusa rivolta al pluralismo di provocare

paralisi decisionale non suona nuova, e rivela soltanto la tipica difficoltà della ‘razionalità

orientata allo scopo’ propria dello stato-amministrazione, del potere esecutivo, della nozione

del comando come perseguimento della ragion di stato, a convivere con la dimensione

naturalmente conflittuale, articolata e plurale della esperienza umana. Per chi esalta la

Costituzione come compromesso, il pluralismo non è che il terreno di elezione per l’esercizio

delle risorse della razionalità pratica e possibilista in cui il diritto si esprime. La ragione che

privilegia la sola efficienza decisionale, invece, non vede che nei conflitti delle perdite di

tempo, e, soprattutto, non ha le risorse per affrontarli (risorse che consistono in un approccio

dialettico, problematico, alla rinuncia all’idea che esista una sola verità, una sola visione del

giusto, una sola visione dell’utile ma che a tutte queste nozioni non ci si possa accostare che in

modo parziale, raggiungendo conclusioni opinabili e rivedibili), e siccome non ha le risorse per

affrontarli li considera solo negativi e nemici. Nella attuale “crisi del pluralismo” può darsi che

si annunci il ritorno di questa seconda forma di razionalità, alleata di soluzioni semplificatrici

che vogliono ripensare i principi della convivenza in modi convenienti a più ristretti gruppi di

interesse.

LA GLOBALIZZAZIONE

Si affaccia a questo punto il tema della globalizzazione e dei suoi effetti sulle democrazia

costituzionali. Abbiamo iniziato il nostro discorso dicendo che molte sono le differenze che

intercorrono tra il modo in cui effettivamente funziona il nostro ordinamento, rispetto al

disegno formale tracciato in Costituzione. Uno dei motivi di questa discrepanza, di cui

andremo nel prosieguo a raccogliere elementi più dettagliati, risiede nella profonda

trasformazione economica, politica, giuridica e culturale segnata dall’avvento della cd

globalizzazione.

“Una confortevole, levigata,

ragionevole, democratica non libertà

prevale nella società industriale

avanzata, segno di progresso tecnico.”

(H. Marcuse, L’uomo a una

dimensione, p. 21)

5 F. Neumann, Behemoth, cit., p. 30.31.

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Nei manuali odierni di diritto pubblico, la globalizzazione viene descritta così6:

“un mercato mondiale in cui i fattori produttivi si spostano con estrema facilità da un paese all’altro, e

che indebolisce il controllo dello Stato sul suo territorio. Le sue cause sono: progresso tecnologico (che

rende sempre più facile ed economico lo spostamento dei beni da un luogo a un altro), la

‘smaterializzazione’ delle ricchezze tradizionali, attraverso la cd finanziarizzazione dell’economia,

che sempre più si basa sulla proprietà e lo scambio di risorse finanziarie piuttosto che sul possesso di

beni materiali; l’accresciuta importanza strategica ed economica di altri beni immateriali come la

conoscenza e l’informazione, lo sviluppo dell’informatica e la creazione di reti telematiche, che

rendono possibile il rapidissimo spostamento di informazioni e di capitali da una parte all’altra del

paese, lo sviluppo di sistemi produttivi flessibili, che consentono alle imprese di spostarsi rapidamente

da un luogo all’altro o di allocare le diverse fasi del ciclo produttivo in aree territoriali diverse (si pensi

ad alcune imprese leader nel campo dell’abbigliamento, che insediano i centri di disegno dei capi e le

strutture di marketing nel cuore d’Europa, in modo da sfruttare le migliori risorse umane in questi

campi, mentre la lavorazione degli indumenti avviene in Paesi extraeuropei dove il costo della

manodopera è più basso)”.

Sono numerose le conseguenze che discendono dalla globalizzazione dell’economia sullo

Stato:

“Anzitutto, le risorse più importanti, e cioè il capitale finanziario e le informazioni e le conoscenze,

che per loro natura non sono legate al territorio (si dice però che l’economia si è

deterritorializzata), si spostano da un luogo a un altro, e perciò anche da uno Stato a un altro, alla

ricerca del luogo più conveniente in cui posizionarsi, sfuggendo pressoché integralmente al controllo

dei poteri pubblici. In secondo luogo, gli Stati sono sempre più influenzati da decisioni che

vengono prese fuori dai loro confini, ma che hanno effetti considerevoli all’interno del

territorio dello Stato (si pensi alla decisione dei grandi investitori di realizzare vendite massicce dei

titoli del debito pubblico di un determinato Stato, mettendone in crisi la liquidità, determinando un

rialzo dei tassi di interesse e il conseguente aumento del debito dello Stato; oppure si pensi alle

conseguenze, sul livello dei prezzi e perciò del tasso di inflazione, delle decisioni prese dai paesi

produttori di petrolio o da grandi gruppi multinazionali).” Attraverso questa pressione, i mercati

sono in grado di convincere gli stati ad adottare, in materia fiscale, previdenziale, di gestione

della spesa pubblica, organizzazione del lavoro, organizzazione degli studi e della ricerca, in

modo ad essi conveniente, e perciò “non è più vero che lo Stato abbia la piena sovranità sul suo

territorio, tanti essendo i condizionamenti provenienti dai mercati internazionali”.

L’inizio di quella trasformazione su scala mondiale dei rapporti economici che ha visto il

capitalismo finanziario diventare il primo e più potente soggetto condizionante le scelte

politiche nazionali, e che chiamiamo globalizzazione, risale ai primi anni 1970, all’abbandono

degli accordi di Bretton Woods, nel 1971, che segnò, come sappiamo, la fine della

convertibilità del dollaro in oro, su cui si erano retti i rapporti economici internazionali dalla

fine della seconda guerra mondiale e che rischiava di portare gli Stati Uniti, oppressi da un

enorme debito pubblico e dipendenti dalle forniture di petrolio dai paesi arabi, al fallimento. Da

questo fatto sconvolgente (concausa, nell’immediato, della crisi economica spaventosa degli

anni 1971-73, che pose per sempre fine al trend di crescita impresso all’Europa dalle politiche

keynesiane adottate a livello internazionale e fino a quel momento favorite dal FMI e dalla

Banca Mondiale), derivò quella che oggi chiamiamo ‘finanziarizzazione’ dell’economia, a cui

abbiamo fatto riferimento quando ci siamo occupati delle conseguenze dell’integrazione

sovranazionale sulle politiche nazionali di bilancio. Nel luglio del 1973, su iniziativa del

capitalista americano David Rockefeller, nacque la Commissione trilaterale, riunione periodica

e privata di personalità di spicco della élite politica, finanziaria e intellettuale del mondo

6 I due brani che seguono sono presi da R. Bin e G. Pitruzzella, Diritto pubblico, Giappichelli, Torino, 2010, p. 14-15.

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occidentale, che assumeva come esplicito obiettivo quello di individuare le linee di sviluppo

convenienti per l’occidente, per dettarle ai governi. Era la formalizzazione del ruolo di

condizionamento sulle politiche nazionali esercitato caratteristicamente, nell’era della

globalizzazione, da élite transnazionali economico-politico-finanziarie ossia da soggetti non

politicamente legittimati7. Nel 1975 la Commissione Trilaterale pubblicò il libro "La crisi della

democrazia", con la prefazione di Gianni Agnelli, il quale in un'intervista di quell’anno così si

espresse:

"Probabilmente dovremo avere dei governi molto forti, che siano in grado di far rispettare i piani cui

avranno contribuito altre forze oltre a quelle rappresentate in parlamento; probabilmente il potere si

sposterà dalle forze politiche tradizionali a quelle che gestiranno la macchina economica;

probabilmente i regimi tecnocratici di domani ridurranno lo spazio delle libertà personali. Ma non

sempre tutto ciò sarà un male. La tecnologia metterà a nostra disposizione un maggior numero di

beni e più a buon mercato".

Il poeta e scrittore Pierpaolo Pasolini, in quegli anni, avvertiva che si era formato un ‘nuovo

potere’, che avrebbe distrutto, o meglio irrimediabilmente trasformato, la funzione dei partiti

politici. Il nuovo connubio tra economia globale e governi nazionali, orientato a guidare la

vita sociale secondo indirizzi alla prima convenienti, non ha bisogno del canale

rappresentativo per organizzare il consenso. Dispone infatti di un altro mezzo: la produzione

di massa di beni di consumo. Tanto meno esso è interessato nel pluralismo politico con cui le

società guidano le istituzioni in funzione dei propri interessi, valori, preferenze e concezioni del

giusto, del bene, della felicità; a esso è infatti consustanziale una progressiva e inarrestabile

omologazione delle persone e degli stili di vita e di pensiero, che porta i più, semplicemente, a

preferire l’accesso ai beni di consumo alla libertà politica, e fatalmente la spenge.

Oggi molti avanzano l’ipotesi che i partiti politici, perno delle costituzioni democratiche

post-belliche, hanno visto, per effetto della globalizzazione, modificarsi la loro funzione.

Essi diventano inutili o controproducenti se visti come modi per trasmettere alle istituzioni gli

indirizzi nascenti dalla società; ma possono conservare un ruolo nell’esercitare la funzione

opposta, cioè quella di convogliare verso la società le istanze compatibili e anzi desiderate

dai mercati globali.

Per avere un’idea di quali questi desiderata possano essere basta scorrere il Rapporto del

maggio 2013 della J.P.Morgan (una società finanziaria con sede a New York, leader dei

mercati finanziari, e, tra parentesi, denunciata per frode della città di New York per la truffa dei

mutui ‘spazzatura’ (subprime) che ha provocato 7 milioni di disoccupati che da anni

imperversa nel mondo occidentale: una denuncia per la quale J.P.Morgan ha patteggiato 13

7 “Un organo privato di concertazione e orientamento della politica internazionale dei paesi della triade (Stati uniti, Europa,

Giappone). L’atto costitutivo spiega: «Basata sull’analisi delle più rilevanti questioni con cui si confrontano l’America e il

Giappone, la Commissione si sforza di sviluppare proposte pratiche per un’azione congiunta. I membri della Commissione

comprendono più di 200 insigni cittadini impegnati in settori diversi e provenienti dalle tre regioni». La creazione di questa

organizzazione opaca in cui a porte chiuse e al riparo da qualsiasi intromissione mediatica si ritrovano fianco a fianco dirigenti di

multinazionali, banchieri, uomini politici, esperti di politica internazionale e universitari, coincideva all’epoca con un periodo di

incertezza e turbolenza della politica mondiale. La direzione dell’economia internazionale sembrava sfuggire alle élite dei paesi

ricchi, le forze di sinistra apparivano potenti, soprattutto in Europa, e la crescente interdipendenza delle questioni economiche

chiamava le grandi potenze a una cooperazione più stretta. Rapidamente, la Commissione trilaterale si impone come uno dei

principali strumenti di questa concertazione, attenta al tempo stesso a proteggere gli interessi delle multinazionali e a «chiarire»

attraverso le proprie analisi le decisioni dei dirigenti politici.” Così “Gli opachi poteri della Trilaterale”, di Olivier Boiral, da «Le Monde Diplomatique» novembre 2003.

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miliardi di dollari di risarcimento). Secondo questo rapporto, occorre ‘correggere’ con le

opportune riforme gli ordinamenti europei che ancora contemplano:

sistemi politici che prevedono esecutivi troppo deboli;

governi regionali troppo autonomi;

protezione costituzionale dei diritti del lavoro;

diritto di protestare se sono apportati cambiamenti indesiderati allo status quo.”

(Sul rapporto Morgan, v. R. Calvano, La decretazione d’urgenza nella stagione delle grandi intese, in Rivista Aic,

2/2014).

Il tempo dell’”uomo a una dimensione”

La globalizzazione si lega a una grande mutazione ‘antropologica’, cioè una mutazione

dell’idea della persona umana e della società, che è stata messa a fuoco già nell’opera del

filosofo Herbert Marcuse, intitolata L’uomo a una dimensione. Questo studio, apparso nel 1964

negli Stati Uniti e tradotto per la prima volta in Italia nel 1967, aveva già messo completamente

a fuoco la genesi e i meccanismi di funzionamento del ‘nuovo potere’, incentrandosi sul ruolo

che il consumismo aveva al loro interno, e sui processi di uniformazione in cui si esprimeva.

Marcuse notava che il modello di capitalismo ‘fordista’ che aveva dominato nel secondo

dopoguerra, il capitalismo che produce ‘merci’ utilizzando la forza lavoro operaia in luoghi

fisici chiamati ‘fabbriche’, e che aveva portato con sé una visibile differenziazione di interessi

e di soggettività (di classe) nella società, era ormai sopravanzato da un nuovo modo di

produzione, che implicava importantissimi cambiamenti. Sempre più automatizzato e

tecnologico, il lavoro diventava una attività in cui è sempre meno importante la forza fisica e

dove si richiedono, invece, sempre più skills intellettuali, capacità tecniche e mentali8. Era

l’annuncio di quello che noi oggi chiamiamo il ‘proletariato intellettuale’, cioè di tutta quella

forza lavoro che, di fatto, occupa nella scala sociale un ruolo subordinato, ma non identifica se

stessa come una ‘classe’ opposta a altra classe, quella dei datori di lavoro, dei proprietari dei

mezzi di produzione, perché indotta al contrario, dalla possibilità di consumare gli stessi beni, a

identificarsi coi suoi padroni. Perciò la possibilità di consumare è, nell’analisi di Marcuse, in

realtà una necessità, imposta (anche se presentata come ‘libertà di scelta’) in quanto funzionale

agli interessi del capitalismo industriale, e imposta dolcemente attraverso i mezzi di

comunicazione.

“Le persone si riconoscono nelle loro merci; trovano la loro anima nella loro automobile, nei

giradischi ad alta fedeltà, nella casa a due livelli, nell’attrezzatura della cucina. Lo stesso

meccanismo che lega l’individuo alla società è mutato, e il controllo sociale è radicato nei nuovi

bisogni che esso ha prodotto”9.

La globalizzazione si è annunciata, dunque, come omologazione dei gusti, uniformazione degli

stili di vita, resa possibile da quella società dei consumi, o ‘stato del benessere’ che il mondo

occidentale ha conosciuto tra la fine degli anni 1960 e gli anni 1970. Il consumismo inaugurò,

secondo l’analisi di Marcuse, una nuova, più pervasiva, mai esistita prima forma di dominio.

Mentre il primo capitalismo industriale si prendeva, dal lavoratore, ‘solo’ la forza lavoro, il

nuovo prende l’anima. Non ci si sottomette al capitale solo quando si lavora, ma quando si

8 H. Marcuse, One-Dimensional Man. Studies on the Ideology of Advanced Industrial Society, 1964, trad. it. L’uomo a una

dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, Einaudi, Torino, 1967, trad. Luciano Gallino e Tilde Giani Gallino, p. 45.

9 H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, p. 29.

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acquista qualcosa, si guarda la tv, si desiderano le cose che ci sono presentate come

desiderabili, tutte azioni con le quali confermiamo che il nostro è il migliore dei mondi ed è

l’unico mondo possibile.

“La produzione e la distribuzione di massa reclamano l’individuo intero, e la psicologia industriale

ha smesso da tempo di essere confinata alla fabbrica. (…) I prodotti indottrinano e manipolano;

promuovono una falsa coscienza che è immune dalla propria falsità. E a mano a mano che questi

prodotti benefici sono messi alla portata di un numero crescente di individui in un maggior numero

di classi sociali, l’indottrinamento di cui essi sono veicolo cessa di essere pubblicità: diventa un

modo di vivere. E’ un buon modo di vivere – assai migliore di un tempo – e come tale milita contro

un mutamento qualitativo. Per tal via emergono forme di pensiero e di comportamento a una

dimensione in cui idee, aspirazioni e obiettivi che trascendono come contenuto l’universo costituito

del discorso e dell’azione vengono o respinti, o ridotti ai termini di detto universo10

.”

Ispirate formalmente ai principi democratici della competizione politica libera e pluralista,

quelle governate dal capitalismo industriale avanzato sono le ‘società della mobilitazione

totale’, in cui ogni persona, nelle scelte più piccole della sua vita, è chiamata a convalidare

l’ordine dato.

“La società della mobilitazione totale, che va prendendo forma nelle aree più avanzate della società

industriale, combina in unione produttiva i tratti dello stato del benessere e dello stato belligerante. A

paragone delle società che l’hanno preceduta, si tratta invero di una ‘nuova società’. Le zone

tradizionali di disturbo vengono ripulite o isolate, gli elementi di rottura sono posti sotto controllo.

Le tendenze principali sono note: sottomissione dell’economia nazionale ai bisogni delle grandi

società con il governo che serve come forza che stimola, sorregge, e talvolta esercita anche un

controllo; inserimento dell’economia stessa in un sistema mondiale di alleanze militari, di accordi

monetari, di assistenza tecnica, e di piani di sviluppo; graduale elisione delle differenze tra la

popolazione in tuta e quella col colletto bianco, tra il tipo di direzione proprio del mondo degli affari

e quello dei sindacati, tra attività del tempo libero e aspirazioni di differenti classi sociali;

promozione di una armonia prestabilita tra la cultura accademica e i fini della nazione; invasione del

domicilio privato da parte di una compatta opinione pubblica; apertura della camera da letto ai mezzi

di comunicazione di massa11

.”

L’avvento di questa forma di dominazione è stato realizzato, nell’analisi di Herbert Marcuse,

mediante una trasformazione dei linguaggi, dei modi di pensare e rappresentare la realtà, in cui

hanno preso il sopravvento le forme piatte, operazionali di un linguaggio puramente

empirico, cioè descrittivo di fatti, di operazioni ‘oggettive’, e che esclude tutte le idee vaghe e

indeterminate, come quelle coagulate da parole come Giustizia, Libertà, Verità, Pace, e dove

hanno spazio solo le formule brevi, definitorie, elementari, immediatamente comprensibili,

‘esatte’. Un linguaggio che insegna alle persone che tutte le cose che non possono essere

‘esattamente descritte e in breve’ semplicemente non esistono e non servono a niente.

“Il discorso ‘alla mano’12

è essenziale [alla società a una dimensione ] proprio perché esclude sin

dall’inizio il vocabolario intellettualistico della ‘metafisica’: esso milita contro il non conformismo

intelligente e mette in ridicolo le teste d’uovo. Purtroppo, questo linguaggio è anche il segno di una

falsa concretezza, è un linguaggio purgato dei mezzi per esprimere un qualsiasi contenuto diverso da

quello già fornito agli individui dalla società in cui vivono13

”.

10 H. Marcuse, op. cit., p. 30 e 33.

11 H. Marcuse, op. cit., p. 39. 12 Quanti uomini politici si gloriano oggi di esprimersi così? (N.d’A.)

13 H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 187.

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Dal linguaggio pratico e concreto prediletto dalla società alla dimensione sono escluse le idee

coagulate da parole come Giustizia, Libertà, Pace, Verità “poiché l’universo stabilito del

discorso porta da cima a fondo i segni dei modi specifici di dominio, organizzazione e

manipolazione, ai quali sono soggetti i membri di una società”14

e si oppone pertanto a che

circolino le idee attraverso le quali prendono forma concezioni diverse della vita, della società,

dei valori, del bene e della felicità (Marcuse 205).

La società dei consumi è così individuata come lo scenario di un nuovo totalitarismo:

“In questa società l’apparato produttivo tende a diventare totalitario nella misura in cui determina

non soltanto le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e

le aspirazioni individuali. (…) Il termine ‘totalitario’, infatti, non si applica soltanto ad una

organizzazione politica terroristica della società, ma anche ad una organizzazione economico-

tecnica, non terroristica, che opera mediante la manipolazione dei bisogni da parte di interessi

costituiti. Essa preclude per tal via l’emergere di una opposizione efficace contro l’insieme del

sistema. Non soltanto una forma specifica di governo o di dominio partitico producono il

totalitarismo, ma pure un sistema specifico di produzione e di distribuzione, sistema che può essere

benissimo compatibile con un ‘pluralismo’ di partiti, di giornali, di poteri controbilanciantisi, ecc.15

Pier Paolo Pasolini, in alcuni importanti scritti degli anni 1975 e 1976, ha riferito l’analisi di

Marcuse all’Italia. Il nuovo benessere del consumismo, secondo Pasolini, travolgeva realtà

quali ‘la classe operaia’, il ‘ceto medio’, la ‘famiglia in senso tradizionale’, la ‘fabbrica’, il

‘sindacato’ e tutte le relative forme di aggregazione, di mediazione dei conflitti, di governo

della società grazie alla forza omologante della pubblicità, dall’appiattimento dei linguaggi,

dalla uniformazione dei gusti. Pasolini mise ‘sotto accusa’ i partiti che continuavano a fare

come se esistesse ancora la tradizionale società italiana, per dar voce alla quale erano nati,

una società fortemente cattolica ma anche divisa in classi. Le sue domande erano, dette in

soldoni: che cosa ci sta a fare, in realtà, un partito cattolico (il riferimento andava alla

Democrazia Cristiana, il maggiore partito del tempo) se la società è talmente laicizzata che,

chiamata nel 1974 a pronunciarsi con un referendum abrogativo sul divorzio, lo ha accettato

ampiamente? Che ci sta a fare un Partito comunista (l’altro principale partito), se il sistema

economico, in nome del consumismo, e dei nuovi modi di produzione ha ormai travolto la

‘classe operaia’ come soggetto portatore di valori ‘alternativi’ rispetto al capitale? Ci stanno,

diceva Pasolini, a mentire, cioè, anziché aiutare la società a elaborare i suoi bisogni nelle

circostanze presenti, essi perpetuano, della società, una immagine fittizia. Non sono più

dunque, i partiti, soggetti che danno voce alla società, ma soggetti che la governano limitandosi

a vederla come fonte di quel consenso elettorale che li mantiene al potere. Anziché esprimere

gli indirizzi del corpo elettorale i partiti cercano solo la conservazione del proprio potere anche

facendosi agenti di interessi non trasparenti e non dichiarati16

.

14 “Il pensiero a una dimensione è promosso sistematicamente dai potenti della politica e da coloro che li riforniscono di

informazioni per la massa. Il loro universo di discorso è popolato da ipotesi autovalidantisi le quali, ripetute incessantemente da fonti

monopolizzate, diventano definizioni o dettati ipnotici. Per esempio, libere sono le istituzioni del mondo libero, ogni altra forma

trascendente di libertà equivale per definizione all’anarchia, o al comunismo, o è propaganda (…) Questa logica totalitaria del fatto

compiuto ha la sua contropartita a Oriente. Laggiù, la libertà è il modo di vita istituito dal regime comunista, e ogni altra forma

trascendente di libertà è detta capitalista, o revisionista, o appartiene al settarismo di sinistra. In ambedue i campi, le idee non

operative non sono riconosciute come forme di comportamento, sono sovversive. Il movimento del pensiero viene arrestato dinanzi

a barriere che appaiono come i limiti stessi della Ragione” (H. Marcuse, op. cit., p. 34).

15 H. Marcuse, op. cit., p. 23.

16 P.P. Pasolini, Nelle Lettere luterane, e negli Scritti Corsari.

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Del resto, la politica come arte del vivere insieme non ha più senso né funzione nella società

dell’uomo a una dimensione:

“Nella misura in cui la libertà dal bisogno, sostanza concreta di ogni possibilità, sta diventando una

possibilità reale, le libertà correlate a uno stato di minore produttività vanno perdendo il contenuto

di un tempo. L’indipendenza di pensiero, l’autonomia e il diritto alla opposizione politica sono

private della loro fondamentale funzione critica in una società che pare sempre meglio capace di

soddisfare i bisogni degli individui grazie al modo in cui è organizzata. Una simile società può

richiedere a buon diritto che i suoi principi e le sue istituzioni siano accettate come sono, e ridurre

l’opposizione al compito di discutere e promuovere condotte alternative entro lo status quo.”17

Gli scenari rappresentati da Pasolini e da Marcuse possono a tutta prima apparire lontani

dall’oggi, perché tengono presente la ‘società del benessere’, mentre noi fronteggiamo una

terribile crisi economica. Ma, al riguardo, potrebbe interessare questa conclusione di Pier

Pasolini:

“L’ottica del mondo è completamente cambiata; la realtà ha, come dire, ruotato. La povertà non è più

la povertà di prima del consumismo. Anche se dovesse tornare una certa povertà – tipica dei regimi

dittatoriali – tale povertà non sarebbe altro che benessere rientrato, frustrato. Questo almeno in

Europa, in Italia. La povertà cilena è forse ancora quella classica. Ma un eventuale Pinochet italiano

non si sognerebbe nemmeno, attraverso un regime neo-repressivo, di ristabilizzare la povertà di un

tempo: egli altro non si prefiggerebbe che proteggere ‘lo sviluppo’ così come i padroni lo vogliono

(ed è ancora possibile). Edonismo e falsa tolleranza sarebbero sicuramente in gran parte preservati.

Lo spirito laico che è legato al consumo anche”18

.

La costituzione materiale nell’era della globalizzazione

Proviamo a tirare le somme. Le democrazie costituzionali post-belliche si sono basate sul

pluralismo politico e sulla sovranità popolare; hanno posto a base del funzionamento delle

istituzioni i valori della persona, cui hanno attribuito una vasta gamma di diritti e di libertà

civili, politiche ed economico-sociali nel quadro di un progetto di società orientato alla

promozione delle capacità individuali e al libero sviluppo della personalità umana. Hanno

sancito che l’attività delle istituzioni deve essere guidata dalla volontà popolare, hanno

valorizzato i partiti politici e, come ha fatto segnatamente la nostra, hanno attribuito un ruolo

politico fondamentale al Parlamento, in quanto unico organi espressivo della volontà popolare,

e guardato invece con timore agli esecutivi, contenendone perciò i poteri, in particolare

normativi. Hanno istituito meccanismi di controllo contro possibili manomissioni dei valori

costituzionali, identificando nella legge, cioè nel prodotto della rappresentanza politica, e in

generale negli atti formali con cui si produce ‘il diritto’ le fonti di possibili attentati a quei

valori, a meno che quegli atti non si subordinino al diritto, e stabilendo inoltre che la

Costituzione possa essere cambiata solo attraverso procedimenti la cui pubblicità e complessità

sta a garanzia della loro conoscibilità e condivisione.

Questo, a livello formale. Se si vuole tener conto, invece, dell’assetto ‘materiale’, cioè che

riguarda il concreto assetto delle forze e degli interessi in gioco e il tipo di organizzazione dei

poteri che esso costruisce, il percorso che, intorno alla traiettoria dei partiti e all’avvento della

globalizzazione abbiamo fatto sin qui ci porta a disegnare un quadro differente. Proveremo di

seguito a tracciare il quadro delle istituzioni del diritto pubblico attuali quale si delinea tenendo

conto di quell’assetto materiale.

17 H. Marcuse, op. cit., p. 22.

18 P.P. Pasolini, Lettere luterane, cit., p. 126.

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Il primo elemento che emerge, e che è da quasi tutti gli autori ormai pianamente accettato, è

che tutto ciò che le categorie del diritto pubblico continuano a descrivere come ‘indirizzo

politico’ o ‘rappresentanza politica’ probabilmente oggi corrisponde a una unica estesa

funzione amministrativa di gestione della società in funzione di un interesse, un ‘bene’, un

insieme di fini, che, contrariamente alle premesse basilari ed elementari della democrazia

rappresentativa, non viene individuato nella ‘libera’ competizione di partiti espressivi della

società e dei suoi orientamenti, ma tramite un più complesso, esteso, qualche volta opaco

insieme di soggetti, che vanno dalle istituzioni sovranazionali ai poteri finanziari alle grandi

imprese mediatiche sino alle strategie di marketing e di comunicazione.

Della ‘crisi’ della politica, e delle istituzioni rappresentative, oltre che dei soggetti che della

politica avrebbero dovuto essere gli attori, ossia i partiti, sono pieni d’altronde i libri e i

manuali e ogni trattazione che affronti i temi del diritto pubblico contemporaneo. Si tende,

peraltro, ad attribuire quella crisi a fenomeni come il ‘venir meno delle ideologie’ , il

‘superamento della divisione della società in classi’ o disfunzioni di ordine morale

(insufficiente etica pubblica) o una generica disaffezione delle persone dalla politica. Le

riflessioni di Pasolini, e quelle di Marcuse, secondo le quali l’egemonia del potere capitalistico

si è realizzata attraverso l’omologazione della società intorno al consumismo, e mediante la

repressione del pensiero critico e trascendente, la crisi della politica appare, anziché un

deprecabile ma contingente epifenomeno, un esito inevitabile e una componente strutturale

della globalizzazione, che con le sue tendenze e necessità di omologazione dei gusti, delle

identità e dei bisogni, ha individuato il suo primo naturale obiettivo nei partiti politici e nella

loro funzione di dare voce al pluralismo sociale, e cioè a desideri, bisogni, aspirazioni,

immaginazione delle persone umane a partire dalla loro condizione, dalle loro idee di giustizia,

libertà, pace, felicità.

La politica come arte del disegnare i contenuti della convivenza si trasforma in una sorta di

generalizzata funzione amministrativa, che consiste nell’organizzare e gestire la società in vista

dello sviluppo dell’economia di mercato.

La rinascita, a parti invertite, delle classi sociali

In particolare, è molto contestabile il ricorrente refrain secondo cui il deperimento della politica

partitica è dovuto al venir meno delle classi sociali e del conflitto tra esse. Piuttosto, può essere

formulata l’ipotesi che le classi lavoratrici, l’insieme cioè dei soggetti subordinati e

svantaggiati, punto di riferimento e scaturigine materiale e ideale della esperienza dei partiti

politici di massa, siano state, per dir così, ‘disabituate’ a riconoscersi come tali, per effetto di

numerosi fattori.

Uno, è quello che abbiamo imparato da Marcuse, ed è rappresentato da modi di produzione che

rendono meno visibili (spesso perché li scaricano, possiamo aggiungere oggi, su uomini e

donne assenti, cancellati e rimossi dalla percezione collettiva, ossia gli immigrati) gli aspetti

fisici del lavoro, e su cui un tempo correvano differenze identitarie molto forti, a favore di modi

di produzione che apparentemente, assimilano il lavoratore del call center al brooker di borsa

perché, dopotutto, entrambi hanno una laurea e desideri analoghi, quello di diventare ricchi.

Ciò ciò li assimila sul piano dei valori in cui essi si riconoscono quasi cancellando il fatto che,

dei due, uno ricco non è e non sarà mai anche per colpa del tipo di ambiente in cui lavora

l’altro. L’altro, è che le modalità di funzionamento della globalizzazione economica sono tali,

da legare gli interessi e le aspettative degli svantaggiati a quelli dei potenti, ponendo

l’andamento dei mercati finanziari come interesse generale per tutti: infatti i capitali che

vengono investiti sui mercati finanziari “sono formati dai risparmi di lavoratori che per la

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maggior parte sono dipendenti – impiegati, tecnici, insegnanti, operai, funzionari, che

costituiscono capitali immensi, di un ordine di grandezza che supera il Pil mondiale. Questa

somma smisurata è concentrata in alcune migliaia di fondi pensione e di fondi di investimento:

fra questi, quelli che veramente contano sono poche centinaia, ma gestiscono capitali

dell’ordine di centinaia di miliardi di dollari o di euro ciascuno. In tal modo gli interessi di

questi lavoratori risparmiatori sono coinvolti negli interessi dei capitalisti, della classe

dominante, perché i gestori dei fondi investono soprattutto per massimizzare il rendimento del

capitale investito – che è ciò che si attendono i sottoscrittori – prescindendo però dal fatto che

l’impresa in cui investono produca alimenti, costruisca scuole oppure mine antiuomo.

L’obiettivo primario è quello del rendimento del capitale. E qui si intravede il cointeressamento

tra il mondo del lavoro e il sistema finanziario. Perché chi versa una cospicua quota del

proprio salario o stipendio per ricevere una pensione decente a distanza di venti o trent’anni,

ha ovviamente interesse a che il capitale investito renda bene.”19

.

Anziché di fine, superamento, delle classi sociali e della lotta di classe, si dovrebbe riconoscere

l’esistenza, propone il sociologo Luciano Gallino anche sulla scorta di analisi sociologiche

ormai risalenti all’inizio degli anni 2000, di una unica classe dominante globale, o classe

capitalistica transnazionale, composta da “proprietari di grandi patrimoni, top manager,

ossia gli alti dirigenti dell’industria e del sistema finanziario, politici di primo piano che

spesso hanno rapporti stretti con la classe economicamente dominante, grandi proprietari

terrieri che in molti paesi emergenti, dall’India al Brasile, hanno un potere e una

consistenza numerica ancor oggi rilevanti, come anche in Italia, dove se non esistono più i

latifondi, la proprietà immobiliare è una componente di peso della classe dominante”

(Gallino, 12).

Nell’identificare questa nuova classe, e il tipo di lotta che essa conduce, Luciano Gallino e gli

altri studiosi che hanno ragionato come lui, hanno ragionato in modo dialettico e transitivo, e

non operazionale e descrittivo, come avrebbe detto Marcuse: hanno preso un concetto ‘del

passato’ (quello di ‘classe’ e di ‘lotta di classe’) e rifiutandosi di credere alla vulgata che lo ha

condannato come vecchio e inservibile, morto siccome del passato, sono andati a vedere che

cosa quel concetto significa nel presente, e hanno scoperto che le classi sociali esistono sempre,

esiste sempre la lotta di classe, solo che la classe consapevole e che conduce la lotta è quella

dei ricchi. E’ una lotta che viene condotta influenzando le politiche nazionali in senso

favorevole agli interessi di chi dispone di ricchezze. Secondo Luciano Gallino, eminente

sociologo italiano:

“[La lotta di classe nel mondo] viene condotta anzitutto per mezzo di leggi, confezionate da governi

e parlamenti, che sono intese, al di là delle apparenze, a rafforzare la posizione e difendere gli

interessi della classe dominante, e a contrastare la possibilità che la classe operaia e la classe media

affermino i propri. Un modo tipico per condurre la lotta di classe mediante la legge è la normativa

fiscale. Negli ultimi decenni essa ha seguito due strade: elevati sgravi fiscali a favore dei ricchi e

forti riduzioni delle imposte sulle società. L’effetto è stato quello di essiccare i bilanci pubblici dal

lato delle entrate, il che ha reso necessario – questo il singolare ragionamento dei governi Ue –

tagliare le spese di maggior utilità per i lavoratori.”20

Domandandosi come mai quello che oggi è venuto in uso chiamare “il 99%” cioè coloro che

non compongono la classe dominante transnazionale abbiano reso possibile la estromissione

dei loro interessi e punti di vista dalle sedi decisionali e assistito al dilagare di scelte politiche e

19 L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Intervista a cura di Laura Borgna, Laterza, Bari, 2012, p. 51.

20 L. Gallino, La lotta di classe, cit., p. 22.

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di indirizzo loro sfavorevoli, non si può che tornare al punto che Pasolini e Marcuse ci hanno

additato: perché a partire da un certo momento, per effetto dell’accesso ai beni di consumo, si

sono identificate con la classe dominante. Alla classe dominante si oppone allora una classe

che non sapendo di esserlo, non è in grado di mettersi in relazione con la prima in nome di

propri distinti interessi. Ma il fatto che le classi sociali siano diventate meno visibili perché non

ci sono più partiti che fanno loro riferimento, meno o per nulla coscienti di sé per effetto della

omogeneizzazione dei consumi e dello stile di vita, o siano state intenzionalmente negate dal

ritorno di ideologie per cui tutti, operai, impiegati dirigenti e proprietari hanno interesse a che

un’impresa funzioni e faccia buoni utili (ideologia in cui, sia detto tra parentesi, risuonano le

concezioni del lavoro adottate dal fascismo e poste a base della nozione ‘collaborativa’ di

impresa adottata dal codice civile italiano del 1942) non toglie, secondo Gallino, che esse

esistano

“Far parte di una classe sociale significa appartenere, volenti o nolenti, a una comunità di destino, e

subire tutte le conseguenze di tale appartenenza. Significa avere maggiori o minori possibilità di

passare, nella piramide sociale, da una classe più bassa a una più alta; avere maggiori o minori

possibilità di fruire di una quantità di risorse, di beni materiali e immateriali; disporre, oppure no, del

potere di decidere il proprio destino, di sceglierlo”.

Gallino nota subito dopo che “rientra nelle definizione di classe sociale anche la possibilità, di

chi vi appartiene, di influire sul proprio destino, di poterlo in qualche misura cambiare”. Vien

da dire che è proprio la possibilità di concepire idee di questo genere, di immaginare le vie per

realizzarle, l’effetto più deprivante che deriva dalle tesi che negano la esistenza delle classi

sociali, e la additano come causa della crisi dei partiti e della politica.

La ridefinizione del circuito rappresentativo: intorno a un ‘sistema virtuale a partito unico’

L’immagine della lotta di classe condotta dalla classe dominante transnazionale con

l’acquiescenza, se non il supporto, delle classi deboli e per il mezzo della legge e dei governi,

suggerisce una suggestiva possibilità di ridefinizione di quel ‘circuito democratico’ col quale si

spiegano tradizionalmenle democrazie costituzionali (il popolo elegge i suoi rappresentanti, che

deliberano le leggi: è un circuito nel quale le leggi, le regole e gli obiettivi a cui la vita di

ciascuno è conformata, vengono in realtà dalle stesse persone, il popolo, a cui si applicano).

Nel contesto della globalizzazione, l’itinerario della decisione sembra seguire un diverso

circolo: il capitale, la classe economica transnazionale, prima cointeressa la classe

lavoratrice a se stessa, poi influenza le decisioni normative e di governo.

Oppure prende direttamente decisioni di altissimo rilievo, quasi disponesse di una

‘delega’ quale quella conferita ai rappresentanti eletti, quando gestisce i fondi di investimento.

“Se il rendimento economico [dei fondi di investimento] proviene anche da fabbriche di bombe a

grappolo, o da società che hanno tagliato con le delocalizzazioni migliaia di posti di lavoro,

l’interessato quasi mai viene a saperlo. Il paradosso del capitale del lavoro, rivolto soprattutto a

investimenti in merito ai quali non c’è alcuna verifica, nasce e si mantiene precisamente in questo

modo. Anche nei casi, come accade con i fondi pensione negoziali (detti così in quanto derivano da

contratti o accordi collettivi, anche aziendali) istituiti da noi nel 2005, in cui gli organi di

amministrazione e controllo sono costituiti per metà dai rappresentanti dei lavoratori iscritti, in

realtà non c’è nessun controllo sulle modalità con cui i capitali vengono investiti. Chi investe, sia

come risparmiatore sia come futuro pensionato, tiene anzitutto a che il rendimento sia elevato,

perché questo comporterà un vitalizio, un piccolo capitale o una pensione più elevata; e non gli

interessa, anzi si può dire che in generale non vuole nemmeno sapere, come il suo denaro venga

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effettivamente investito. E i depositari, che per la maggior parte sono le grandi banche, non hanno

alcun interesse a farglielo sapere”.

E’ una strana ‘delega al rovescio’ che finisce per autorizzare la classe dominante a fare scelte

che vanno a danno dell’altra classe:

“Si suole obiettare che anche se i ricchi diventano più ricchi, i mediamente ricchi o i mediamente

poveri non ricevono alcun danno dal fatto che i primi si super-arricchiscono. Ma non è affatto vero.

Anzitutto le minori entrate fiscali [dovute a scelte impositive che favoriscono i ricchi] comportano

una contrazione dei servizi pubblici e dei sistemi di protezione sociale, che colpisce soprattutto le

classi meno abbienti. Accade poi che dalle politiche fiscali pro ricchi le classi economicamente

inferiori traggano anche danni diretti, da diversi punti di vista. Per intanto i patrimoni che si

accrescono unicamente con altro denaro, non direttamente guadagnato, in grandissima parte

non vengono trasformati affatto in investimenti produttivi che creano posti di lavoro,

ricchezza, infrastrutture; vengono impiegati piuttosto in ulteriori investimenti finanziari. Il

denaro accresciuto dagli sgravi fiscali preferisce andare in cerca di altro denaro investendo in

se stesso, anziché investire in ricerca o sviluppo o che so, nella scuola. E così, alle casse dello

stato dopo un po’ di anni vengono a mancare centinaia di miliardi, con la conseguenza che i

governi aumentano le tasse universitarie, riducono il numero degli insegnanti nella scuola,

trascurano gli investimenti infrastrutturali.

Ma gli effetti negativi a danno delle classi meno abbienti non finiscono qui. Succede che, data

l’enorme possibilità di spesa del 5 o 10% della popolazione di un paese, possibilità via via cresciuta

negli anni grazie ad attività speculative e alla benevolenza del fisco, molti beni e servizi aumentano

a tal punto di prezzo che le classi lavoratrici e anche buona parte delle classi medie non possono

più accedervi, o possono accedervi con molta maggiore fatica. Si pensi a quella sorta di tassa sulla

vita quotidiana che è la pendolarità abitazione-lavoro. In molte città dell’Unione europea e degli

Stati Uniti, le colossali rendite finanziarie tassate con aliquote di favore hanno fatto sì che il prezzo

degli immobili o gli affitti nel centro delle grandi città siano diventati così elevati da espellere quasi

tutta la popolazione che tradizionalmente vi risiedeva. Si tratta di figure professionali preziose per

la vita di una città, che però in città non hanno più la possibilità di abitare. Per cui sulle loro

esistenze vanno a gravare parecchie ore di pendolarità quotidiana. Non si tratta, quindi, solo di

accettare serenamente che i ricchi diventino sempre più ricchi. Il punto della questione cui badare è

un altro: il vantaggio fiscale produce direttamente un peggioramento generale della qualità della

vita delle classi lavoratrici e delle classi medie.

La classe dominante transnazionale sa anche sostituirsi direttamente al corpo elettorale nella

scelta del personale di governo, col fenomeno delle c.d. porte girevoli:

“Vi sono poi i passaggi di personale da un campo all’altro. A parte la deferenza che molti politici

hanno sempre dimostrato, specialmente negli ultimi decenni, verso la ricchezza e il potere

economico – un caso eminente è Nicolas Sarkozy – non bisogna dimenticare che esistono delle porte

girevoli le quali vedono continuamente alcuni politici entrare a far parte della classe politica globale

e viceversa. Molti ministri e consiglieri economici dei presidenti americani e dei capi di governo, nel

Regno Unito come in Francia, in Italia, in Germania, sono stati manager di grandi società finanziarie

e hanno portato in politica l’abilità di trasferire direttamente in leggi e decreti gli interessi del

mondo industriale e finanziario, con un forte accrescimento del secondo negli ultimi

trent’anni.”21

21 L. Gallino, La lotta di classe, cit., p. 17. Il sociologo Paolo Barrucci, in un paper ancora non pubblicato, stila questo

esemplificativa lista: “Romano Prodi, da consulente Goldman Sachs a Presidente del Consiglio in Italia, Mario Draghi, da

Vicepresidente Goldman Sachs a Governatore della Banca d'Italia, Mario Monti, dalla Commissione Europea sulla concorrenza alla

Goldman Sachs, ora alla Presidenza del Consiglio, voluto da Napolitano, Massimo Tononi, dalla Goldman Sachs di Londra a

sottosegretario all'Economia nel governo Prodi del 2006, Gianni Letta, membro dell'Advisory Board di GS è poi nominato

sottosegretario alla presidenza del Consiglio del governo Berlusconi (2008)”.

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La rinnovata centralità degli esecutivi

Oggi è divenuto estremamente ricorrente nella manualistica del diritto pubblico osservare che

gli stati sono condizionati nelle loro scelte politiche dai mercati, e perdono perciò parte della

loro sovranità sui loro territori. Affermazioni così costruite, e delle quali abbiamo preso un

esempio, qualche pagina avanti, dal diffuso manuale di diritto pubblico dei professori Bin e

Pitruzzella, trasmettono inevitabilmente due idee: una, che lo stato è diventato debole, ha perso

forza, l’altra, che la sovranità dei mercati è ineluttabile. Questo avviene perché proposizioni di

questo genere, e Marcuse ci ha insegnato a capirlo, sono tutte interne alla realtà che descrivono,

non si chiedono da chi sono fatti i mercati e i loro interessi, di chi è il denaro che si muove,

come avviene l’influenza dei mercati sulle politiche nazionali. L’analisi di Luciano Gallino,

che mette invece in gioco un modo transitivo e dialettico di ragionare, e cioè che storicizza,

permette di leggere in quei fenomeni qualche cosa di molto diverso. Secondo Gallino:

“La politica sopraffatta dall’economia e dalla finanza è una favola costruita in tacito accordo

dalla prima e dalle seconde. In realtà è stata soprattutto la politica, attraverso le leggi che ha

emanato nei parlamenti europei e nel Congresso degli Stati Uniti, grazie a normative concepite a ben

guardare dalla organizzazioni internazionali – le cui azioni sono di fatto ispirate dai maggiori gruppi

di pressione economica – a spalancare le porte al dominio delle corporations industriali e finanziarie.

E’ avvenuto in mille modi: liberalizzando i movimenti di capitale; imponendo la libertà di

commercio anche dove danneggiava gravemente i produttori locali22

; esigendo dai paesi emergenti la

totale apertura dei confini (compreso l’import di beni alimentari simili a quelli prodotti in loco), oltre

che di beni industriali e di servizi. Pena ritorsioni economiche assai dure, come quelle previste dalle

cosiddette politiche di aggiustamento strutturale, imposte dal Fondo monetario internazionale ai

paesi fortemente indebitati per concedere loro l’accesso ai propri finanziamenti.23

In sostanza, anche rispetto alla globalizzazione e alla finanziarizzazione dell’economia gli

Stati hanno compiuto il primo movimento, approvando le leggi e i provvedimenti che le

hanno rese possibili. Non a caso si parla di liberalizzazioni per descrivere il fenomeno che in

Italia è iniziato a partire dagli anni ’90 dello scorso secolo e che ha visto lo smantellamento

delle società in mano pubblica che gestivano settori come i trasporti e le telecomunicazioni e

la loro cessione a operatori privati, dunque al mercato.

Che quello della globalizzazione sia un tempo di governi forti viene comprovato dalle

vicende della nostra forma di governo, che esamineremo prossimamente, le quali hanno visto, a

partire dai primi anni 1980, una crescita enorme dei poteri dell’esecutivo, una inarrestabile

riduzione di quelli del parlamento, e dove, l’attività del Governo tende a svolgersi tutta per

decreti sulla cui conversione in legge il governo pone regolarmente la questione di fiducia, e

rispetto ai quali, cioè, le Camere – sede naturale della discussione e del confronto politico –

possono solo ‘prendere o lasciare’.

La ricorrente osservazione circa il fatto che, nella globalizzazione, gli stati hanno perduto

sovranità, non deve dunque far pensare che i governi siano divenuti più deboli; semmai a

indebolirsi è stata la dimensione rappresentativo-parlamentare, in cui si esprime la

sovranità popolare, mentre la dimensione esecutiva, in cui si esprime l’essenza dello Stato

apparato, si è rafforzata. E che la globalizzazione sia nemica della forza dello stato appare

assai poco credibile, quando si pensi quanto sono importanti, nel suo contesto e per le sue

finalità, le politiche fiscali, essenza stessa (e qui le letture che abbiamo preso da Tocqueville ci

22 Un esempio: grazie ai rilevanti sussidi Ue all’agricoltura il burro bavarese o il formaggio francese si possono vendere in Mongolia

o nel Sudan a prezzi inferiori rispetto alla produzione locale. Ne deriva un conflitto sui mercati interni che finisce per estromettere i

coltivatori e gli allevatori locali dalla produzione (L. Gallino, op. cit., p. 35).

23 L. Gallino, op. cit., p. 43.

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sono d’aiuto) dell’attività statale. Anche sotto il profilo dei rapporti con gli ordinamenti

sovranazionali, e in specie con l’Unione europea, dai quali il parlamento, almeno quello

italiano, è sostanzialmente escluso, viene purtroppo da pensare che il senso che l’espressione

‘L’Italia accetta le limitazioni di sovranità necessarie a dare vita a un ordinamento che assicuri

la pace e la giustizia tra i popoli” ha col tempo acquisito, sia stato più che altro quello di

accettare le limitazioni della sovranità popolare, più che di quella dello Stato come tale e del

potere esecutivo che ne è il nerbo operativo.

A titolo di trasformazioni della forma di governo imposte o giustificate dalla globalizzazione economica

deve essere ricordato anche, per l’Italia, l’attivismo del Presidente della Repubblica negli ultimi anni.

Come vedremo, questo organo ha adottato una sorta di ruolo di guida della politica del paese,

orientandola, con comunicati, raccomandazioni, e con la scelta dell’attuale compagine governativa,

verso il massimo rispetto delle indicazioni provenienti dai mercati finanziari e dalle istituzioni

sovranazionali, e venendo così ad assumere un ruolo del tutto inusitato, almeno a tener conto del fatto

che secondo la nostra Costituzione il presidente della repubblica non ha poteri di indirizzo politico, e

dunque non è politicamente responsabile, cioè che significa che del contenuto degli atti che adotta, che

suggerisce o che influenza, non può essere chiamato a rispondere. Pertanto, quanti più poteri politici di

fatto il presidente acquisisce e adotta, tanto più si restringe lo spazio della dialettica politica, della critica

e del confronto. Non a caso è stato ricorrente almeno per un certo periodo, sui giornali, per descrivere il

nuovo ruolo del Capo dello Stato, il richiamo alla figura del Monarca.

Le trasformazioni della produzione normativa

La globalizzazione si ripercuote sulla produzione del diritto in almeno due modi:

a) perdita di importanza della legge a favore invece degli atti normativi del Governo (come

riflesso della ridotta importanza dei parlamenti e della cresciuta importanza degli

esecutivi).

b) La ‘deformalizzazione’ o ‘detipizzazione’ delle fonti del diritto.

Sul primo fenomeno ci siamo già soffermati, ora prendiamo in considerazione il secondo.

Lo stato di diritto costituzionale, approfondendo il principio di legalità che proveniva dallo

stato liberale, si è basato sull’idea la produzione di norme, cioè di comandi, prescrizioni, regole

d’azione rivolte ai singoli o agli apparati pubblici fosse riservata a atti specifici (leggi, decreti,

regolamenti) il cui procedimento di formazione è definito nella costituzione o nelle leggi e per

la cui eventuale illegittimità l’ordinamento predispone forme di controllo (il sindacato di

costituzionalità, il sindacato del giudice amministrativo). C’era, insomma, un principio di

tipicità degli atti dei pubblici poteri: una legge è una legge e vale come tale perché è stata

approvata secondo quelle certe forme che contraddistinguono la legge e la differenziano da

ogni altro atto. E’ chiaro perché la tipicità è importante: essa si oppone a che possano valere

come ‘leggi’ le pure e semplici manifestazioni di volontà del più forte.

Nell’era della globalizzazione, viceversa, si deve registrare che la produzione normativa

passa frequentemente, e tipicamente, attraverso strumenti che la dogmatica tradizionale

non annovera tra gli atti normativi, e non ne segue i procedimenti. Per quanto riguarda

questi ultimi, si può pensare a come, nell’estate del 2011 una ‘lettera’ inviata dalla Banca

centrale europea e dalla Commissione Europea al governo italiano enunciava punto per punto

una serie di provvedimenti fiscali, di diritto del lavoro e previdenziali, che poi sono stati

recepiti in atti del governo, e in leggi, quasi che quella ‘lettera’ fosse stata un atto di iniziativa

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legislativa, quale è possibile adottarne, secondo la nostra Costituzione, solo da parte dei

parlamentari, del governo, di cinque consigli regionali o di cinquecentomila elettori.

Per quanto riguarda lo spostamento della produzione delle norme che toccano la vita delle

persone fuori dai canali formali della rappresentanza politica si può ricordare come una

disposizione introdotta dalla manovra finanziaria nel 2011 permette ai contratti di lavoro

stipulati a livello di singola azienda di derogare a norme di legge inerenti il trattamento dei

lavoratori. Il fatto che ‘qualsiasi disposizione legislativa possa venire derogata se il sindacato

più rappresentativo su base territoriale si accorda con l’azienda” rimette l’effettività della legge

‘eguale per tutti’ ad accordi che possono essere stipulati anche da ”un qualsiasi sindacato di

comodo, o maggioritario anche in un ristretto ambito territoriale”, vale a dire, per essere

espliciti, dall’azienda con se stessa (attraverso i cd sindacati gialli)24

.

Ma il fenomeno più rilevante è quello che vede norme di portata altamente condizionante

scaturire da produzioni autocefale, cioè non disciplinate dalla legge, della stessa

amministrazione, che dispiega nel periodo corrente una discrezionalità dall’intensità senza

precedenti, generalmente in nome della razionalità organizzativa e finanziaria.

Per esempio, attraverso elementi quantitativi apparentemente neutri come l’imposizione di un certo

rapporto, fisso e uguale in tutto il paese e in tutte le classi di laurea, del rapporto tra il numero di

studenti e quello di professori per corso di laurea, si impongono ai dipartimenti universitari il taglio di

classi di laurea e di insegnamenti, cioè si conduce una politica universitaria, e cioè una politica

dell’educazione e della formazione, con esiti e intenzioni precise, che consistono nell’impoverimento

dell’offerta formativa specialmente nelle università medio-piccole e decentrate, ciò che va a tutto danno

di coloro che non sono in grado di pagarsi gli studi in altra sede, ma a vantaggio delle sedi più grandi,

oltre che di quelle private, non destinatarie delle regole ministeriali ancorché in grado di offrire i

medesimi titoli di quelle ‘pubbliche’, che chi potrà permetterselo preferirà.

La contrazione dei diritti

Fino all’inizio degli anni 1980, un tema amato dalla dottrina giuspubblicistica e

costituzionalistica era quello dei ‘nuovi diritti’. Si era, allora, sull’onda lunga di una stagione

che aveva visto soltanto accrescersi la lista dei diritti e delle libertà considerate patrimonio di

una vita dignitosa. Se l’Ottocento liberale aveva riconosciuto i diritti civili, lo stato democratico

costituzionale aveva accolto quelli politici, e quelli economico sociali, che proteggono i

lavoratori, le persone svantaggiate per la loro condizione sociale, o di salute psico-fisica,

interessi e necessità universali come quello alla salute. L’era della globalizzazione è in effetti la

prima, da quando la forma politica stato ha intrapreso il suo cammino, e fatte salve le

esperienze dittatoriali, ad accorciare la lista dei diritti.

a) Riduzione dei diritti della sfera economico-sociale

Oggi è unanime il giudizio secondo cui i diritti economico sociali, e in specie quelli dei

lavoratori, quelli a prestazioni da parte dello stato e degli enti pubblici territoriali (prestazioni

di assistenza sanitaria; servizi come l’istruzione o i trasporti pubblici) subiscono una revisione

che ne assottiglia profondamente il contenuto e l’estensione: i diritti dei lavoratori, si sostiene,

interferiscono con la necessità dell’impresa di organizzarsi in modo flessibile, ne ostacolano la

capacità di produrre profitti. I diritti a prestazione, come quello alla salute,dal canto loro, hanno

24 L. Gallino, op. cit., p. 36. Nello stesso senso va il ‘Patto sulla produttività’, approvato dal Governo e i sindacati, esclusa la CGIL,

nel novembre 2012.

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‘costi’ che le finanze dello stato non possono permettersi (nonostante il capitale finanziario

circolante sia pari, come Gallino ricorda, a diverse volte il Pil mondiale e, questo, grazie

specialmente alle politiche fiscali degli Stati). Le esigenze finanziarie e della produttività

economica agiscono come prepotente principio taglia-diritti anche nel senso che sottraggono

alle persone diritti già maturati (è il caso di coloro che, accettato di dare le dimissioni dal

proprio impiego in anticipo rispetto all’età pensionabile, e accettato perciò di pagare di tasca

propria i contributi sino al compimento di quella età, la hanno vista aumentare per legge,

trovandosi così senza stipendio e senza pensione anziché per il paio d’anni che avevano

previsto, per sei o sette anni: i cd. ‘esodati’) e attentano a principi costituzionali come quello

della corrispondenza tra lavoro e retribuzione (come è stato il caso della proposta, finora

rientrata, di far lavorare gli insegnanti della scuola elementare 6 ore in più alla settimana senza

un corrispondente aumento di stipendio), ma gli esempi potrebbero essere molteplici.

Nell’opera “La condizione operaia” Simone Weil racconta la sua esperienza diretta di operaia nelle

manifatture francesi degli anni ’20: descrive la disumanizzazione degli operai legata non solo al lavoro

spersonalizzante, o agli orari faticosissimi, ma soprattutto alla perdita di dignità che deriva dal sapere di

poter perdere il lavoro da un momento all’altro, ciò che incita a comportamenti servili, e fa vivere con la

paura. Emblematica di questa condizione è la frase che il datore di lavoro rivolge a Simone, licenziata,

che chiede: perché? “Non ne devo rendere conto a te”, risponde il datore di lavoro. E’ il principio

(libertà di licenziamento) che dichiaratamente aspira a reintrodurre nel nostro ordinamento il cd. Jobs

Act che dovrebbe essere approvato entro il 2014.

b) Riduzione dei diritti civili

Non sono solo i diritti economico sociali e del lavoro a subire una contrazione o una mutazione.

Innumerevoli volte è stata sottolineata la sofferenza imposta al diritto alla riservatezza in

nome delle necessità commerciali e di circolazione del denaro, o da esigenze di sicurezza:

l’invasione nella privacy delle comunicazioni pubblicitarie telefoniche ne è un esempio; il body

scanner negli aeroporti ne è un altro; la conoscenza dei nostri gusti preferenze e orientamenti

acquistata dai motori di ricerca attraverso i nostri acquisti, e dei quali i server conservano

memoria, fornisce un terzo esempio. L’abitudine ormai invalsa di circoscrivere il perimetro dei

cortei a zone delle città interessate chiuse dalle camionette di polizia e generalmente molto

lontane da dove si trovano le sedi degli organi costituzionali contro cui si dirigono le proteste,

rappresenta una nuova conformazione della ‘libertà di riunione’ che mostra il prevalere, nella

considerazione di questa espressione della libertà di associazione e di manifestazione del

pensiero dei cittadini, normale e benvenuta in una democrazia, di un atteggiamento

prevalentemente governato da preoccupazioni di ordine pubblico. A subire una forte

contrazione sono dunque anche i più tradizionali tra i diritti civili, i quali vengono negati, del

resto, sistematicamente ai non cittadini.

c) Riduzione dei diritti politici

Quanto ai diritti politici, la sofferenza in cui si trova il circuito della democrazia

rappresentativa, non può che tradursi in una notevole contrazione della loro effettività; ad

accentuare questa situazione va, nel nostro paese, la legge elettorale del 2005 che impediva agli

elettori di esprimere una preferenza all’interno della lista di candidati predisposta dai partiti.

Dichiarata incostituzionale nel dicembre 2013, la legge non è ancora stata sostituita da una

nuova nel novembre 2014. Tendenze recenti mostrano una decisa propensione a restringere gli

spazi di decisione riservati al corpo elettorale. Una riforma legislativa del 2013 ha trasformato

le Province da organismi eletti dalla popolazione provinciale in organismi eletti dai sindaci e

dai rappresentanti della Regione. Una riforma all’esame delle Camere prevede l’abolizione del

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senato elettivo e la sua sostituzione con un organismo composto dai Presidenti delle Regioni e

altri organi.

La globalizzazione, infine, ha importanti e complessi riflessi sul ruolo della giurisdizione.

Il nuovo ruolo della giurisdizione: ultimo spazio del pluralismo e della ragione dialettica, o

nuova amministrazione dell’ordine globale?

a) La crescita del ruolo delle giurisdizioni.

Accanto alla constatazione delle “difficoltà che oggi incontrano un po’ dovunque i meccanismi

della rappresentanza politica”, ricorre nella giuspubblicistica attuale l’osservazione che, invece,

crescente è il ruolo della giurisdizione. Mentre tutti i legislatori nazionali, cioè gli organi

elettivi, hanno perduto potere, influenza, libertà d’azione per effetto della integrazione

sovranazionale e della globalizzazione, i giudici nazionali, dal momento che possono investire

la Corte di giustizia europea o la Corte di Strasburgo, le due Corti sovranazionali, di questioni

inerenti l’applicazione del diritto interno, meno hanno perduto nell’era del ‘nuovo potere’, sono

anzi inseriti nel circuito di una nascente giustizia sovranazionale o ‘comune’, ricca di

orientamenti anche diversi al suo interno, ma tutt’altro che priva di influenza e di rilievo su

questioni spesso molto urgenti, attuali, vicine per la vita delle persone e della collettività. Gli

omosessuali italiani, che hanno visto frustrata dalla Corte costituzionale italiana la loro

aspirazione al matrimonio, seguono con speranza orientamenti delle due corti europee sempre

più favorevoli alla doverosità di questa istituzione. Quando, pochi anni or sono, la Fiat ha

giustificato la volontà di non riassumere alcuni lavoratori, perché, ha sostenuto, siccome

aderenti a un sindacato, sono portatori di visioni ritenute incompatibili con la ‘filosofia’ della

fabbrica, e rivendicando con ciò per Fiat quella libertà di scelta dei propri collaboratori

garantita alle imprese ideologiche come le Chiese o le testate giornalistiche, il giudice del

lavoro di Roma ha replicato con calma e senso della misura che lavorare in Fiat non è una fede.

Molti si domandano se questa nuova centralità della giurisdizione sia dovuta appunto alla crisi

della politica, cui la giustizia ‘supplisce’, o a che cosa altro sia dovuto questo fenomeno; nel

capitolo sulla giustizia in Italia abbiamo imparato che qualche volta quando la giurisdizione

‘cresce’, essa ‘cresce’ per effetto delle disfunzioni e delle carenze della legislazione, e, in questi

casi, la giurisdizione cresce quasi imitando il legislatore, assumendo la posizione volontaristica

di chi crea liberamente il diritto.

b) La giurisdizione come ultimo spazio della ragione dialettica?

Dunque, sarebbe quanto meno ingenuo pensare che se ‘cresce’ la giurisdizione si tratta di

necessità di un fenomeno positivo e che corrisponde a un complessivo stato di buona salute

delle istituzioni. D’altro canto, peso deve essere dato al fatto che i giudici hanno, per ragionare,

per impostare i problemi, la possibilità e il dovere di riferirsi a un linguaggio e a un orizzonte

ideativo quale la politica non sa più permettersi, confinata, o autoconfinatasi, come è, nella

empiria di ricette pronte ed efficaci per… non cambiar nulla. Rispetto alla politica, che può

abbandonarsi agli slogan e alle frasi ad effetto, la giurisdizione resta per forza del suo ruolo

ancorata a forme di ragionamento più rigorose ed accurate. Se nelle campagne politiche può

bastare ridicolizzare l’avversario, nel processo occorre riconoscere parità alle parti e ascoltare

seriamente i punti di vista di tutti, e replicare con altrettanta serietà.

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Inoltre, il linguaggio e l’orizzonte ideativo a cui la giurisdizione può, e invero deve, ancora fare uso,

e che essa riattiva ogni volta che si pronuncia, è quello rimasto incastonato nei principi

costituzionali, che parlano di libertà, di giustizia, di dignità, di ‘utilità sociale’, di uguaglianza, e

spesso risalente agli antichi principi generali del diritto favorevoli ai principi di isonomia, cioè

eguaglianza, e orientati al contenimento degli abusi. Così, l’importanza assunta dalla giurisdizione

nel mentre i meccanismi della democrazia rappresentativa che mettevano al centro i partiti e la

rappresentanza politica venivano travolti da una concezione non pluralistica del potere e delle sue

espressioni, si può forse in parte spiegare col fatto che nei suoi metodi di ragionamento e

argomentazione, e nel suo linguaggio e nei suoi principi, si è rifugiata oggi a lavorare quel poco di

trascendenza, e cioè di immaginazione, di pensiero critico, di cui la persona umana ha bisogno per

vivere con gli altri in una convivenza libera, che le istituzioni contemporanee sono in grado di

esprimere. La giurisdizione è aiutata a non ‘chiudersi’ nell’orizzonte dato anche dal fatto che

dialoga con i principi generali del diritto, che sono antichissimi; e fa ostacolo a un suo appiattirsi sul

vuoto linguaggio puramente descrittivo, operazionale, ‘alla mano’ e ingannevole, dei media e della

politica, il suo essere tenuta a una argomentazione logica coerente e rigorosa che esclude le cose

irrilevanti, gli argomenti che non provano nulla, le tautologie e le frasi a effetto care ad altri settori

anche della vita istituzionale.

Non si deve però sottacere il fatto, che nulla, tanto meno la giustizia, è un fiore che spunta nel

deserto. La capacità della giurisdizione di mantenere un punto di vista, uno stile argomentativo,

di ragionamento e di impostazione dei problemi, che la renda in grado di decidere le

controversie assegnando parità ali interessi confliggenti, e decidendo nel senso della prevalenza

dell’uno o dell’altro per effetto di valutazioni aperte che tengono conto di come quegli interessi

si dispongono, di volta in volta, nei singoli casi, alla luce dei principi dell’ordinamento, e non

di assegnare la prevalenza sempre a un certo tipo di interessi, come tendeva a fare, come

vedemmo, la non indipendente magistratura dello stato liberale, è anche frutto dell’educazione

che il giudice riceve, del clima culturale che ha intorno a sé, e dei materiali normativi che

maneggia.

c) Tendenze alla ri-burocratizzazione della giurisdizione

Da questo punto di vista, si deve registrare in Italia una fortissima concentrazione di attenzione,

negli ultimi dieci anni, verso l’esigenza di accrescere la produttività dei giudici, e di

sottolineare il carattere tecnico della loro prestazione. L’obiettivo di rendere i giudici più

produttivi è reso accattivante all’opinione pubblica in quanto individuato come modo per

ottenere processi più celeri (laddove a questo scopo altri sarebbero le leve su cui agire, a partire

dalla dotazione di personale delle cancellierie dei tribunali, e dalla organizzazioni di sedi

adeguate con moderne postazioni di lavoro, o dalla introduzione di norme che prevedano che la

prescrizione dei reati non decorre durante i processi, mentre l’opposta regola, da noi applicata,

incentiva gli avvocati a fare appelli su appelli e incidenti processuali su incidenti processuali,

onde rallentare l’andamento del processo e rendere possibile che la prescrizione si compia

prima che il processo arrivi a sentenza). Rendere i giudici più produttivi, e far dipendere la loro

carriera anche dalla loro produttività, in verità significa spesso incoraggiarli a leggere

rapidamente gli atti di causa, metterli in condizione di non avere tempo di studiare

approfonditamente la dottrina e i precedenti, dunque incoraggiarli al ‘copia incolla’ di sentenze

già date su casi analoghi, ossia al conformismo e alla superficialità.

Nessun dubbio, poi, che il giudice debba essere un buon ‘tecnico’, altrimenti che giudice

sarebbe? Tuttavia, restringere l’educazione dei giudici alla sola conoscenza delle norme e delle

procedure finisce per incoraggiare una interpretazione burocratica del loro ruolo, resa

inconsapevole, cioè, del senso che i problemi giuridici rivestono sul piano sostanziale. Anche la

scelta, effettuata nel 2007, di affidare la formazione dei giudici a una scuola speciale, cui

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accedono dopo la vittoria del concorso e prima di prendere servizio, al posto dell’antico

uditorato compiuto a fianco di un magistrato più anziano, da una parte è foriera di una

formazione del giudice separata dalla cultura e dalle mentalità, dalle preoccupazioni e dai

valori, più ampiamente circolanti nella società e dall’altro annuncia un crescente distacco delle

nuove generazioni di giudici dal patrimonio di esperienza accumulato dalle precedenti; un

patrimonio di esperienza che, lo vedremo a suo tempo, si è caratterizzato per la valorizzazione

delle componenti progressiste e solidariste della Costituzione.

d) Tendenze a ridurre lo spazio della giurisdizione

L’ordinamento, inoltre, è in grado di ridurre gli spazi di intervento della giurisdizione, e in

questo senso è dichiaratamente orientato il legislatore italiano. Facendosi scudo della ‘lentezza’

della giustizia, il legislatore ha intrapreso negli anni recenti quella che ormai viene chiamata

una opera di de-giurisdizionalizzazione, che consiste nel sottrarre una serie di materie alla

competenza del giudice, rimettendole a arbitri e mediatori privati e costringendo i privati a

ricorrere a questi ‘tentativi di conciliazione’ prima di rivolgersi al giudice. Benché il diritto di

accesso alla giurisdizione sia stato più volte qualificato dalla Corte costituzionale come un

diritto fondamentale dei cittadini, esso viene di giorno in giorno reso più difficile, sconsigliato

e sfavorito.

In materia di rapporti di lavoro, il principio secondo cui il licenziamento poteva essere intimato

solo per giusta causa o giustificato motivo, e in questo senso sindacabile dal giudice, è stato

fortemente ridotto da una riforma del 2012 e tende a essere eliminato con il Jobs Act del 2014

(il datore di lavoro non deve render conto di nulla al lavoratore, quindi non c’è bisogno del

giudice, come ai tempi di Simone Weil).

Infine, i giudici sono ovviamente condizionati dal materiale normativo che applicano. E’ vero

che possono sollevare questione di costituzionalità; ma se sono abituati a de-sensibilizzarsi dai

valori costituzionali, è facilmente prevedibile che tenderanno ad applicare come bravi soldatini

norme di dubbia costituzionalità senza porsi problemi. Le leggi che i giudici devono applicare

comunicano loro anche il quadro di valori dominanti in un certo periodo; al quale

inevitabilmente (sono del resto funzionari dello Stato) si abituano.

e) La giurisdizione come nuova amministrazione dell’ordine globale?

Sul ruolo in trasformazione della giurisdizione incide anche la crescente integrazione

sovranazionale delle giurisdizioni, che, oggi, sono studiati da prospettive opposte.

Da una parte, il processo di integrazione può essere visto come una occasione di

approfondimento della visione pluralistica propria delle democrazie costituzionali. Nel

relazionarsi, nel coordinarsi con altri ordinamenti ogni stato e ogni comunità nazionale è

sollecitata a rivedere i propri valori, ciò che può favorirne l’evoluzione, l’approfondimento,

come può favorire il cedimento di visioni unilaterali. In questa chiave, in cui non si fa fatica a

riconoscere una risorgenza delle concezioni giurisdizionalistiche di ordine antico, molti autori

hanno esplorato, ed auspicato, la possibilità di interpretare il rapporto tra Ue e Cedu, da un lato,

e ordinamento nazionale, dall’altro, nella chiave del dialogo, una clausola che è stata applicata

soprattutto ai rapporti tra le grandi corti sovranazionali, la Corte di Giustizi della Ue e la Corte

Europea dei diritti dell’uomo, e le Corti costituzionali nazionali. Questo dialogo, mettendo, in

relazione tra loro tradizioni e culture diverse può favorire una visione più ricca dei problemi

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della convivenza. Come abbiamo più volte ricordato, specialmente alcune minoranze, come i

laici e le minoranze religiose o gli omosessuali guardano alle due Corti sovranazionali come

sedi che più facilmente della nostra Corte potrebbero riconoscere i loro diritti, per esempio il

diritto degli omosessuali al matrimonio e alla genitorialità, e che, grazie alla loro autorevole

influenza, potrebbero spingere anche la nostra Corte a riconoscerli. Altri autori rilevano il

rischio di essere davanti, anziché a un dialogo, a una uniformazione dall’alto che può

contribuire a stravolgere e svuotare la dinamica democratica a livello nazionale. La

giurisprudenza della Corte di giustizia della Ue adotta, per esempio, in modo dichiarato il

criterio teleologico: quando risolve i conflitti tra diritto interno e diritto europeo lo fa in modo

che ‘i fini perseguiti dai trattati’ abbiano la prevalenza. Ora, un fine perseguito dai trattati è la

libertà di concorrenza, che protegge anche il diritto delle imprese a circolare e operare

liberamente e a parità di condizioni nei diversi ordinamenti nazionali. Questi ultimi però

proteggono, in modo diverso, anche diritti come lo sciopero, e in generale i diritti dei

lavoratori, considerandoli pari ordinati a quelli delle imprese. Avvalendosi del diritto europeo

alla libera circolazione delle imprese e dei servizi, oggi è frequente che imprese per esempio

inglesi, francesi o tedesche installino le loro aziende in altri paesi europei; se nel paese in cui

vanno a insediarsi (per esempio perché esso ha norme fiscali più convenienti) esistono però

regolamentazioni dei diritti dei lavoratori troppo onerose per l’impresa, esse vogliono applicare

ai propri rapporti di lavoro la propria legge nazionale, più favorevole. In casi come questi sono

sorte controversie in cui i sindacati nazionali hanno impugnato il contratto di lavoro

‘delocalizzato’ in cui l’impresa X, proveniente dal paese Y, applica ai propri lavoratori non il

contratto di lavoro del paese Z, in cui opera, ma del paese Y, perché più conveniente. Vi sono

anche stati scioperi a favore del principio per cui quando una impresa si insedia in un certo

paese deve applicare il contratto di lavoro di quel paese, specie se più favorevole ai lavoratori.

Con le sentenze Viking e Laval, però, nei primi anni 2000, la Corte di Giustizia ha difeso il

diritto delle imprese a scegliere la regolamentazione del lavoro a sé più favorevole, e ha

sancito che il diritto di sciopero non può ostacolare la libera circolazione delle imprese,

cui esso viene perciò subordinato.

Ecco che un diritto costituzionalmente riconosciuto a livello nazionale, come lo sciopero, può

divenire un diritto ‘di seconda categoria’ perché non si adatta alle esigenze della integrazione

sovranazionale, la quale molto raramente rivede i propri fini in nome dei valori nazionali, ma fa

molto spesso il contrario, incide sui valori nazionali per uniformarli a quelli dell’integrazione.

Alcuni autori, specialmente quelli di ispirazione cattolica, temono che qualcosa di analogo stia

avvenendo anche con riferimento alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Quest’ultima non ha

come riferimento un trattato, un ordinamento, come quello della Ue, di cui proteggere i ‘fini’,

ma nel complesso della sua giurisprudenza sembra ad alcuni stare delineando un ‘ordine

pubblico europeo dei diritti’ dal quale ‘dettare’ agli stati una politica dei diritti uniforme

che, alcuni temono, finisce per prevaricare le culture nazionali e il pluralismo interno. Chi

intende proteggere la ‘famiglia tradizionale’ vede con timore le simpatie crescenti dimostrate

dalla Corte Edu per il matrimonio omosessuale e la genitorialità omosessuale perché ‘teme’ che

presto o tardi queste formule saranno ‘imposte’ al nostro paese anche se a livello parlamentare

e politico non sono state discusse e la loro accettabilità da parte del corpo elettorale italiano non

è stata verificata.

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LA GLOBALIZZAZIONE E IL GOVERNO DEI TERRITORI: Le autonomie locali al

tempo dello ‘stato globale’25

Abbiamo messo in connessione pluralismo e globalizzazione perché senza dubbio, sotto certi

profili, la globalizzazione è una forma di pluralismo: si pensi ai tanti poteri che hanno voce in

capitolo nelle decisioni che riguardano una nazione: le Banche, il Fondo Monetario, l’Europa, e si

pensi agli innumerevoli interessi che sono interrelati con questa pluralità di soggetti. Sotto altri

profili, non è una forma di pluralismo, per lo meno secondo coloro che legano la globalizzazione

alla affermazione di un unico interesse, bene o valore, quello dello sviluppo concorrenziale dei

mercati, cui ridurre tutte le sfere sociali e le attività umane. Si può dire che la globalizzazione si

manifesta come pluralizzazione dei soggetti e delle fasi connesse alle decisioni di governo, perché

vi coinvolge molti più soggetti che quelli selezionati dalla ‘rappresentanza politica’ e dà a tutti una

importanza molto maggiore che a questi ultimi. O che la globalizzazione è una forma di

pluralizzazione istituzionale o dei poteri, non di pluralismo ideologico e degli interessi.

Un importante snodo che ci fa cogliere le complesse sfaccettature della connessione tra

‘pluralismo’ e ‘globalizzazione’ è rappresentato dall’autonomia locale. Quale posto e quale ruolo

aveva questa nella democrazia costituzionale? Quale posto e quale ruolo nel contesto della

globalizzazione? Che cosa diventa, nel contesto della globalizzazione, la scelta della nostra

costituzione per il pluralismo istituzionale?

Ci avvicineremo un poco a queste domande dopo esserci forniti di alcune informazioni, di base e

molto generali, relative all’ordinamento regionale italiano.

Motivi dell’istituzione delle Regioni

La Regione è in Italia il maggiore ente locale, e un ente locale recente e ‘artificiale’ rispetto alle

articolazioni amministrative e politiche che si sono delineate nel territorio del nostro Paese nel

corso della sua storia. La Regione nasce con l’ordinamento repubblicano, a differenza del Comune

e della Provincia che appartengono storicamente alla tradizione italiana. Né d’altra parte la Regione

ha alcuna corrispondenza con le aree territoriali degli antichi Regni pre-unitari.

Come sappiamo, l’unificazione avvenne secondo un modello rigidamente accentratore, che ridusse

anche le tradizionali autonomie locali ad appendici della amministrazione statale centrale, e che fu

accentuato durante l’esperienza fascista.

Scegliendo di creare le Regioni, l’Assemblea costituente intese dunque valorizzare aspetti, quelli

dell’autonomia locale e del decentramento amministrativo, che erano stati fortemente trascurati

nella nostra esperienza precedente. L’ autonomia locale significa dotare gli enti locali della

capacità di governarsi da sé in un certo ambito di competenze, e sia pure in coordinamento tra loro

con l’ordinamento statale. In essa può essere vista una formula di irrobustimento della

democrazia, e di pluralismo politico (posto che presso gli enti locali possono affermarsi

orientamenti politici diversi da quelli maggioritari a livello nazionale). Il decentramento

amministrativo significa che gli enti locali esercitano, oltre che funzioni proprie, anche funzioni

25

Questo capitolo è stato scritto in collaborazione da Silvia Niccolai e Sara Carta.

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delegate dallo Stato. In essa si ravvisa uno strumento di snellimento della organizzazione

amministrativa pubblica e di avvicinamento dei servizi, e delle connesse responsabilità e scelte, ai

cittadini.

Regioni ordinarie e speciali nel modello originario della Costituzione del 1948

Tra gli enti locali, tutti dotati di autonomia e tutti concepiti anche nella direzione del decentramento

amministrativo, la Regione era nella Costituzione del 1948 il maggiore e più importante: essa

veniva dotata del potere di dettare leggi, in una serie di materie elencate nell’art. 117 della

Costituzione. Su queste materie le Regioni potevano dettare leggi nel rispetto delle norme

fondamentali dettate, per ciascuna materia, con legge dello Stato. La loro potestà legislativa era cioè

concorrente, ovvero, sulle materie su cui veniva istituita una competenza legislativa regionale,

erano destinate a coesistere (concorrere), sia la legge statale (che dettava le norme fondamentali

della materia, di modo che fossero uniformi sul territorio nazionale) e la legge regionale (che

‘dettagliava’ quei principi con riguardo alla realtà regionale). La Costituzione prevedeva inoltre

che le Regioni avrebbero avuto competenze amministrative nelle stesse materie in cui avevano

competenze legislative (lo si definì “principio del parallelismo”: come esempi di materie su cui la

Costituzione affidava alle Regioni competenze legislative e amministrative ricordiamo: caccia e

pesca, cave e torbiere, istruzione professionale). Dal punto di vista organizzativo, la Costituzione

prevedeva che la Regione avrebbe avuto un organo legislativo e di indirizzo politico (Consiglio

regionale) e un organo esecutivo (la Giunta), vertice dell’amministrazione regionale. La politica

regionale, era la previsione, che poi si sarebbe realizzata, si sarebbe dovuta svolgere nel Consiglio,

vero organo di indirizzo, e non nella Giunta, concepita più come esecutrice degli indirizzi consiliari

con riferimento alle attività amministrative regionali. La Costituzione prevedeva anche che ogni

Regione avrebbe avuto uno statuto contenente per ciascuna le relative norme di organizzazione e

funzionamento. Lo statuto aveva, peraltro, natura di legge ordinaria dello Stato (ciascuno Statuto

veniva deliberato dal Consiglio regionale e doveva essere approvato con legge statale).

Contestualmente all’istituzione delle Regioni cosiddette ordinarie, si sentì l’esigenza di introdurre

degli elementi di specialità per alcune Regioni, in considerazione delle loro situazioni peculiari,

legate a fattori storici, geografici, economici e culturali (es: tendenze separatiste; tutela delle

minoranze linguistiche).

Alle Regioni ad autonomia speciale (inizialmente solo quattro: Sardegna, Sicilia, Valle d’Aosta e

Trentino Alto Adige, solo dal 1963 anche Friuli Venezia Giulia) si stabilì sia di dare attribuzioni più

estese che di prevedere che la loro disciplina sarebbe stata basata su uno Statuto adottato con legge

costituzionale (cioè di grado analogo alla Costituzione). I primi quattro Statuti regionali speciali

vennero approvati già dall’Assemblea costituente in forma di altrettante leggi costituzionali. Così le

Regioni speciali cominciarono a operare con l’entrata in vigore dell’ordinamento repubblicano.

Anche negli statuti speciali era presente un elenco di materie su cui le Regioni potevano legiferare,

ma l’ambito di autonomia di cui il legislatore regionale speciale poteva disporre rispetto a quello

statale era molto più ampio: se su alcune delle materie loro attribuite le Regioni speciali avevano

una potestà concorrente analoga a quella delle Regioni ordinarie, su altre esse disponevano di una

potestà, così detta ‘esclusiva’, in cui potevano legiferare senza bisogno che prima intervenisse una

legge statale che dettasse le norme fondamentale della materia, ma semplicemente ricavando

dall’ordinamento i relativi ‘principi fondamentali’ e ponendosi ‘in armonia’ con essi.

L’ inattuazione del regionalismo

Mentre le Regioni speciali iniziarono subito a funzionare, le Regioni ordinarie rimasero a lungo

inattuate dopo l’entrata in vigore della Costituzione. Per dare vita alle Regioni ordinarie era, infatti,

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necessario adottare una serie di leggi statali, con le quali individuare in modo preciso i poteri e le

funzioni dei vari organi regionali (Consiglio, Giunta e Presidente della Regione), disciplinare il

sistema elettorale, e, soprattutto, comporre l’insieme delle competenze amministrative regionali.

Fino a quando non fosse provveduto al riordinamento e alla distribuzione delle funzioni

amministrative fra gli enti locali era previsto che rimanessero alle Province ed ai Comuni le

funzioni che esercitavano in precedenza, e così accadde sino alla metà degli anni 1970.

Il rinvio nell’attuazione delle Regioni si spiega con il fatto che mentre, in Assemblea Costituente, la

Democrazia Cristiana ne promosse l’introduzione sperando di trovare nella politica regionale un

contrappeso a un eventuale prevalere delle sinistre a livello nazionale (cosa che, pur improbabile, in

quella fase non si poteva escludere), in seguito, apparso chiaro che quel partito avrebbe avuto

invece una solida centralità a livello nazionale, prevalsero i timori opposti, e cioè che le Regioni

potessero diventare un bacino di voti e, quindi, di forza politica per l’opposizione.

L’attuazione dell’ordinamento regionale alla metà degli anni 1970.

La effettiva messa in opera del sistema regionale risale agli anni tra il 1972 e il 1977, quando, con

una serie di decreti delegati fu costruito l’ente regione, individuando, all’interno del corpo

amministrativo statale, funzioni corrispondenti a quelle legislative regionali (e che dunque

dovevano diventare funzioni amministrative regionali), che vennero trasferite dallo Stato alle

Regioni. La tecnica utilizzata fu quella del “ritaglio” di spezzoni di competenze nell’ambito di

materie generali che, in nome dell’ “interesse nazionale” rimasero in capo allo Stato. Una seconda

fase del trasferimento di funzioni dallo Stato alle Regioni ordinarie venne compiuta con il D.P.R. n.

616/1977: tale decreto fece cadere molte delle limitazioni alle competenze regionali che avevano

caratterizzato i precedenti trasferimenti, attribuendo, almeno formalmente, alcune funzioni

amministrative in via esclusiva alla Regione dalla Costituzione, anche se il loro esercizio rimaneva,

in realtà, frutto di una sorta di negoziato tra Stato e Regioni.

Sulla base dei trasferimenti del 1972 e 1977 le Regioni iniziarono a funzionare: a emanare leggi, a

svolgere attività amministrative.

Il principio di leale collaborazione e il ruolo della Corte costituzionale nella configurazione

dell’ordinamento regionale e delle relazioni Stato/Regione.

Proprio sulla base di questa situazione di interconnessione tra i due Enti che si creò per effetto del

modo in cui le competenze regionali erano concepite e attuate (quelle legislative, impostate sulla

‘concorrenza’ di funzioni; quelle amministrative, costruite come interconnesse con quelle statali), la

Corte Costituzionale elaborò alla fine degli anni ’70 il principio di leale collaborazione, che

sarebbe divenuto l’asse portante del sistema di relazioni Stato/Regione ed è stato introdotto in

Costituzione nel 2001, all’atto di una fondamentale riforma dell’assetto regionale.

La Corte ha sviluppato questo principio nelle sue due competenze in cui si trova a giudicare il rispetto, da

parte dello stato e della regione, delle loro rispettive sfere di competenze: il giudizio in via principale, in cui,

come ricordiamo, la Corte giudica se una legge, statale o regionale, ha o meno violato i limiti della

competenza di un ente, invadendo la competenza dell’altro; il giudizio sul conflitto tra Stato e Regione in cui

la Corte compie una valutazione inerente al rispetto delle competenze statali e regionali con riferimento alla

materia amministrativa.

Il modello di regionalismo che si è disegnato in Italia funziona secondo una logica di

interconnessione, non di separazione di competenze. Non avviene che da una parte sta la Regione

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con le sue leggi e la sua amministrazione, dall’altra lo Stato, come due sistemi non comunicanti.

Invece, le competenze stateli e regionali si intrecciano a più livelli: la Regione deve rispettare le

norme legislative fondamentali delle materie, la Regione che esercita le sue competenze in materia

scolastica deve tener conto di come lo Stato esercita le competenze che anch’esso ha in quella

materia; e viceversa.

Il processo di riforma del regionalismo italiano.

Sul finire degli anni ’90 iniziò un nuovo processo generale di trasferimento di funzioni dallo Stato

alla Regione, improntato a una concezione più ampia del ruolo delle amministrazioni regionali (e

locali) nel nostro ordinamento. Un processo che, nel 2001 avrebbe portato alla revisione dell’intero

titolo V della Costituzione, che è la parte dedicata alle Regioni, e a una riconfigurazione

complessiva dello spazio delle autonomie locali nel nostro ordinamento.

Si è trattato di un percorso articolato in tre atti.

Il primo atto furono due leggi di delega (la n. 59/1997 e la n. 127/1997; cd Leggi Bassanini dal

nome del ministro proponente) e un complesso di decreti delegati che operarono un nuovo

massiccio trasferimento di funzioni amministrative alle Regioni e agli enti locali. La grande

novità del trasferimento operato con le leggi Bassanini è il fatto che esso si configurava, finalmente,

come completo, senza cioè che si ricorresse a quella tecnica del ritaglio di parte delle competenze a

favore dello Stato, che era stata utilizzata sino a quel momento a scapito della concreta

realizzazione dell’autonomia regionale. Allo Stato venivano riservate una serie di competenze

amministrative specificamente enumerate e di chiaro rilievo centrale (esteri, emigrazione, ordine

pubblico, difesa, cittadinanza, moneta).

Di grandissimo rilievo, inoltre, è stata l’introduzione del principio di sussidiarietà verticale e

orizzontale, in base al quale i conferimenti delle funzioni devono avvenire in modo che la generalità

dei compiti e delle funzioni amministrative sia attribuita “ai comuni, alle province e alle comunità

montane, secondo le rispettive dimensioni territoriali, associative e organizzative, con l'esclusione

delle sole funzioni incompatibili con le dimensioni medesime, attribuendo le responsabilità

pubbliche anche al fine di favorire l'assolvimento di funzioni e di compiti di rilevanza sociale da

parte delle famiglie, associazioni e comunità, alla autorità territorialmente e funzionalmente più

vicina ai cittadini interessati”. Il principio è oggi consacrato in Costituzione: secondo l’art. 118 “Le

funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario,

siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di

sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza”.

Si tratta di un principio di fondamentale importanza che, oltre a muoversi dal basso verso l’alto,

mira a regolare sia i rapporti tra Stato e Regioni, che tra Regioni ed Enti locali.

Il secondo atto di questo processo di riforma fu la legge costituzionale 1/1999 sullo Statuto e la

forma di governo regionale. Lo Statuto regionale non era più una delibera regionale approvata da

legge statale, ma una vera e propria legge regionale caratterizzata da un particolare procedimento

d’adozione, e questo intendeva sottolineare il conferimento alla Regione di una autonomia più

decisa rispetto allo Stato (in qualche modo, il fatto che gli statuti fossero approvati con legge

statale sembrava quasi porre la Regione sotto la ‘tutela’ dello Stato).

Venne inoltre stabilito, e questo fu il più grande elemento di novità, che ogni statuto avrebbe dettato

la forma di governo regionale (mentre in precedenza le norme sugli organi regionali erano fissate

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in costituzione, e di una vera e propria ‘forma di governo regionale’ neppure si parlava: che si

iniziasse a farlo, era un sintomo che ormai la Regione era concepita come un vero e proprio ente

politico). Lo statuto divenne così la fonte deputata a stabilire gli equilibri tra gli organi verticistici

della Regione, ossia Consiglio, Giunta e Presidente della Regione.

Tuttavia, in attesa dell’adozione di tutti gli statuti, la riforma introdusse una forma di governo

transitoria. Essa prevede che:

- il Presidente della Giunta regionale è eletto direttamente dal corpo elettorale regionale,

- il Presidente della Giunta ha il potere di nominare e revocare gli altri membri della Giunta,

- il voto di sfiducia del Consiglio regionale nei confronti del Presidente della Giunta comporta

automaticamente lo scioglimento del Consiglio e l’indizione di nuove elezioni.

Questa forma di governo transitoria è in realtà rimasta il modello di tutte le forme di governo

adottate dalle singole Regioni.

Fondamentale è stata anche la modifica dell’art. 122 Cost: mentre in passato la legge elettorale e le

cause di ineleggibilità e incompatibilità dei membri del Consiglio, del Presidente della Giunta e

degli altri componenti della Giunta era una fonte statale, la legge costituzionale 1/1999 ha stabilito

che rientri tra le materie di potestà concorrente delle regioni, nelle quali spetta alle Regioni la

potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla

legislazione dello Stato.

La riforma del 1999, ampliando notevolmente l’autonomia delle Regioni ordinarie e, in particolare,

prevedendo quella statutaria creò una notevole disparità tra le prime e le Regioni a Statuto speciale,

vincolate ai loro Statuti, che sono leggi costituzionali. Pertanto, al fine di superare la contraddizione

legata alla conseguente minore autonomia delle Regioni a Statuto Speciale rispetto a quelle a

Statuto ordinario, è stata approvata la legge costituzionale n. 2/2001, che prevede che anche le

regioni a Statuto Speciale possano adottare una propria legge, la legge statutaria, con contenuto e

procedimento analoghi, ma non coincidenti, allo Statuto delle regioni ordinarie.

Finalmente si giunse alla terza tappa, la riforma dell’intero titolo V della Costituzione, operata con

la legge cost. n. 3/2001.

Il punto saliente di questa riforma è stata una vera e propria rivoluzione copernicana che essa ha

introdotto nel criterio di attribuzione della funzione legislativa alla Regioni, e di riparto di

competenze tra Stato e Regioni.

Il nuovo art. 117 Cost. ha infatti invertito il criterio di ripartizione della potestà legislativa tra Stato

e Regioni. Mentre un tempo le Regioni avevano potestà legislativa solo in una serie di materie

elencate in Costituzione, e ogni altra spettava allo Stato, ora si prevede che

a) lo Stato ha competenza esclusiva in una serie di materie, enumerate al comma 2 dell’art.

117, per es: politica estera e rapporti internazionali dello Stato, immigrazione, rapporti tra la

Repubblica e le confessioni religiose, moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari;

tutela della concorrenza; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello Stato;

perequazione delle risorse finanziarie. In queste materie solo lo Stato può legiferare.

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b) la Regione ha competenza concorrente nelle materie enumerate al comma 3 dell’art. 117.

In queste materie la legge statale detta i principi fondamentali, e per il resto è competente la

legge regionale (ad es: rapporti internazionali e con l'Unione europea delle Regioni;

commercio con l'estero; tutela e sicurezza del lavoro; ricerca scientifica e tecnologica;

valorizzazione dei beni culturali e ambientali);

c) In tutte le materie non enumerate come esclusive dello stato o come concorrenti, la

competenza legislativa spetta alle Regioni (cd. competenza residuale).

Il nuovo articolo 117 Cost. stabilisce inoltre che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle

Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e

dagli obblighi internazionali mettendo del tutto sullo stesso piano la legge statale e quella regionale,

come due fonti sottoposte agli stessi limiti (cui peraltro si aggiunge il rispetto dei principi

fondamentali posti con legge statale per le leggi regionali nelle materie a competenza concorrente).

Anche la potestà regolamentare dello Stato e della Regione è stata nel senso che il potere di

adottare regolamenti spetta:

allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni;

alle Regioni in ogni altra materia e in quelle delegate dallo Stato;

a Comuni, le Province e Città metropolitane in ordine alla disciplina dell'organizzazione e

dello svolgimento delle funzioni loro attribuite.

Le Regioni hanno poi disciplinato nei propri statuti i tipi di regolamento che ciascuna di esse può

adottare, e hanno fatto proprio una tipologia che ricalca quella dei regolamenti del Governo stabilita

dalla legge n. 400/1988 art. 17: vi sono così nel nostro ordinamento regolamenti regionali esecutivi,

integrativo-attuativi; indipendenti; di delegificazione.

Importantissime novità sono infine state introdotte dalla riforma del 2011 nel campo della finanza

regionale, col principio c.d. del “federalismo fiscale”. L’art. 119 Cost. prevede, infatti, che I

Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni abbiano autonomia finanziaria di entrata e

di spesa".

Gli enti locali possono, dunque, stabilire e applicare tributi propri e sono chiamati a

compartecipare al gettito di tributi erariali riferibili al loro territorio (mentre un tempo il loro

bilancio era interamente costituito da fondi trasferiti dal bilancio dello Stato, spesso vincolati anche

con riferimento ai campi in cui potevano essere impiegati). E' tuttavia introdotto un fondo

perequativo, finalizzato a riequilibrare le differenze tra regioni, per le zone più svantaggiate. Allo

Stato e' comunque attribuito il compito di rimuovere gli squilibri sociali ed economici, destinando

risorse aggiuntive in favore di determinati enti locali.

Gli organi della Regione

Ai sensi dell’art. 121 della Costituzione, sono organi della Regione: il Consiglio regionale, la

Giunta e il Presidente della Giunta.

Il Consiglio regionale è l’organo monocamerale (diversamente dal Parlamento) che esercita le

potestà legislative attribuite alla Regione e le altre funzioni conferitegli dalla Costituzione e dalle

leggi, come, per esempio, approvare e modificare lo Statuto. Il Consiglio ha una funzione di

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indirizzo politico della Regione e di controllo sull’operato della Giunta. Secondo l’art. 126,6 Cost.,

il Consiglio Regionale può esprimere la sfiducia nei confronti del Presidente della Giunta mediante

mozione motivata, sottoscritta da almeno un quinto dei suoi componenti e approvata per appello

nominale a maggioranza assoluta dei componenti.

Secondo il dettato dell’art. 126 Cost., il Consiglio regionale nelle Regioni a Statuto ordinario si

scioglie anticipatamente in 2 ipotesi:

a)Scioglimento cd sanzionatorio: con DPR, su proposta del Presidente del Consiglio e previa

deliberazione del Consiglio stesso,sentita una Commissione di deputati e senatori costituita, per le

questioni regionali (parere obbligatorio, ma non giuridicamente vincolante), nei modi stabiliti con

legge, nell’ipotesi in cui Consiglio regionale e il Presidente della Giunta – che viene rimosso -

abbiano compiuto atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge o per ragioni di

sicurezza nazionale. Il decreto viene pubblicato in G.U. e nel Bollettino della Regione. Contro tale

disposizione la Regione ha a disposizione lo strumento del conflitto d’attribuzioni davanti alla Corte

Costituzionale;

b)Scioglimento cd funzionale: nel caso in cui venga approvata dal Consiglio regionale una

mozione di sfiducia nei confronti del Presidente della Giunta eletto a suffragio universale

diretto o nel caso di sua rimozione, di impedimento permanente, di morte o di dimissioni

volontarie o, indipendentemente dal tipo di elezione prevista dallo Statuto, nel caso di

dimissioni contestuali della maggioranza dei componenti il Consiglio.

La Giunta regionale è l'organo esecutivo delle Regioni. Prima della riforma costituzionale del

1999, l’art. 122 nella sua formulazione originaria prevedeva che la Giunta regionale venisse eletta

direttamente dal Consiglio e che i suoi membri venissero scelti in seno al Consiglio medesimo. La

riforma del 1999 ha attribuito al Presidente della Giunta il potere di nomina e di revoca degli

assessori, “salvo che lo statuto regionale disponga diversamente”(art. 122,u.c.). Tutti gli statuti

approvati hanno adottato come definitivo questo regime transitorio. La Giunta:

Ha l’iniziativa legislativa;

Predispone il bilancio preventivo e il conto consuntivo della Regioni;

A seguito della riforma, la maggior parte degli Statuti hanno attribuito alla Giunta il

potere regolamentare.

Il Presidente della Giunta “rappresenta la Regione; dirige la politica della Giunta e ne è

responsabile; promulga le leggi ed emana i regolamenti regionali; dirige le funzioni

amministrative delegate dallo Stato alla Regione, conformandosi alle istruzioni del Governo

della Repubblica.”(art. 121 Cost.).

Il Presidente della Giunta:

- ha la funzione dei rappresentanza esterna della Regione;

- promulga le leggi regionali ed emana i regolamenti;

- indice i referendum previsti dagli Statuti e dalle leggi regionali;

- è organo monocratico, ma anche Presidente dell’organo collegiale Giunta

- presenta i ricorsi contro le leggi dello Stato di fronte alla Corte Costituzionale.

Come la Giunta regionale, anche il Presidente - prima della riforma del 1999 – veniva eletto dal

Consiglio regionale. La legge n. 43/1995, dettando le nuove norme per l’elezione del Consiglio

regionale, introdusse un primo fondamentale cambiamento. Essa delineò una sorta di designazione

diretta del Presidente della Giunta da parte del corpo elettorale prevedendo che colui che poi

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sarebbe stato eletto dal Consiglio Regionale Presidente della Regione dovesse essere il capolista

della lista regionale uscita vincitrice dalle elezioni. Una concezione analoga è alla base della

previsione costituzionale orierna, dell’art. 122 Cost., secondo cui il Presidente della Giunta

regionale, salvo che lo statuto regionale disponga diversamente, è eletto a suffragio universale

e diretto.

La forma di governo regionale

a) La forma di governo nelle Regioni a Statuto ordinario prima e dopo la legge cost. 1/1999.

Nel modello originario delineato in Costituzione era il Consiglio l’organo politicamente più

importante della Regione; con le riforme degli anni 1990, coronate nella riforma complessiva del

sistema regionale del 2001,

si è verificata una inversione di tendenza che ha portato al rafforzamento del ruolo della Giunta e,

soprattutto, del Presidente, con conseguente riconoscimento in capo a tale organo di poteri assai più

incisivi che in passato. In primo luogo, l’attuale art. 122 Cost. prevede che il Presidente della

Giunta regionale, salvo che lo statuto regionale disponga diversamente, è, come abbiamo poco

sopra ricordato, eletto a suffragio universale e diretto. Il Presidente eletto nomina e revoca i

componenti della Giunta.

La forma di governo regionale si impernia su questi due pilastri:

la previsione del rapporto di fiducia tra Consiglio e Giunta: “Il Consiglio regionale può

esprimere la sfiducia nei confronti del Presidente della Giunta mediante mozione motivata,

sottoscritta da almeno un quinto dei suoi componenti e approvata per appello nominale a

maggioranza assoluta dei componenti.” (art. 126 Cost.);

la previsione secondo cui l’approvazione della mozione di sfiducia, la rimozione,

l'impedimento permanente, la morte o le dimissioni volontarie dello stesso Presidente

comportano le dimissioni della Giunta e lo scioglimento del Consiglio; i medesimi effetti

conseguono alle dimissioni contestuali della maggioranza dei componenti il Consiglio in

ogni caso, ossia anche nell’ipotesi in cui il Presidente della Giunta sia eletto dal Consiglio.

La forma di governo con l’elezione a suffragio universale diretto del Presidente della Giunta è

dunque basata su un meccanismo di stabilizzazione “aut simul stabunt, aut simul cadent” (è un

vincolo dal quale le Regioni potrebbero liberarsi solo optando per un sistema di elezione del

Presidente della Giunta regionale diverso dal suffragio diretto).

L’espressione “aut simul stabunt, aut simul cadent” significa che ogni ipotesi di perdita della carica

da parte del Presidente della Giunta (sfiducia consiliare, rimozione con DPR, impedimento

permanente, morte o dimissioni volontarie) comporta automaticamente le dimissioni dell’intera

Giunta e lo scioglimento del Consiglio regionale. Questo meccanismo di stabilizzazione

dell’esecutivo ha lo scopo di evitare le crisi extraconsiliari, dovute a dimissioni del Presidente e

volte a trovare nuovi equilibri nella maggioranza di governo, e di limitare le crisi di origine

consiliare, dovute a ‘smottamenti’ nelle maggioranze, crisi sono fortemente disincentivate, dato che

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comportano l’obbligo giuridico per il Presidente di dimettersi e il conseguente scioglimento del

Consiglio regionale.

Dall’autonomia locale alla governance multilivello nello ‘stato globale’

Le nozioni che abbiamo sin qui raccolto ci permettono di fare qualche considerazione di insieme

sulla problematica, irta di complessità, dello ‘stato regionale’ italiano.

Una caratteristica permanente del regionalismo italiano è il suo rappresentare una

dimensione della pubblica amministrazione. Questo è vero, in primo luogo, dal punto di vista

delle funzioni. Come detto, le regioni nascono da un ‘trasferimento’ di competenze dalla

amministrazione statale ministeriale. In un secondo momento, cioè con le riforme della fine degli

anni ’90 e dei primi anni 2000, il complesso delle funzioni amministrative viene assegnato alle

Regioni e agli enti locali (anzi, in linea di principio ai Comuni quindi a Province e Regioni secondo

la dimensione degli interessi trattati e la natura dell’attività amministrativa considerata, rimanendo

di solito agli enti più piccoli le funzioni di concreta gestione e a quelli maggiori le funzioni di

coordinamento e indirizzo). Le regioni sono una dimensione della pubblica amministrazione

anche sotto il profilo del vincolo che le loro attività ricevono dallo stato, in primo luogo sotto il

profilo delle risorse. Non solamente le Regioni sono condizionate nelle loro possibilità di spesa

dalle risorse che lo stato trasferisce loro. Esse sono anche condizionate nelle loro politiche

impositive: se lo stato riduce certe risorse trasferite alle Regioni, queste ultime, per far fronte ai loro

compiti istituzionali, non possono che aumentare le imposte. Esiste cioè tra lo stato e le regioni un

sistema di vasi comunicanti: negli anni ’90 la filosofia di snellimento e riduzione degli apparati

amministrativi statali fu realizzata trasferendo l’insieme delle funzioni amministrative non

espressamente riservate allo Stato alle Regioni; negli anni 2000 le politiche di contenimento della

spesa pubblica si realizzano riducendo i fondi a disposizione delle Regioni, o si assiste a una

riduzione di tasse ‘statali’ che per l’appunto servirebbero a finanziare le Regioni, sicché la

riduzione delle tasse statali è compensata da un aumento delle tasse regionali.

E’ difficile sottrarsi alla sensazione che l’autonomia regionale sia stata in Italia una variabile

dipendente dalle esigenze di governo della pubblica amministrazione statale e della spesa

pubblica, cui ha corrisposto un limitatissimo investimento su una nozione più ricca di

autonomia, una cioè che vedesse le Regioni farsi espressione delle esigenze e dei progetti radicati

nel territorio e nella sua popolazione. Dalla funzione di indirizzo e coordinamento in poi, lo stato ha

indirizzato, appunto, e coordinato, nella direzione dell’uniformità, lo svolgimento delle funzioni

amministrative regionali, così come ha ampiamente influenzato l’esercizio della potestà legislativa

regionale. Nonostante le Regioni siano ‘autonome’ e non possano essere considerate

‘amministrazioni indirette dello Stato’ come lo erano gli enti autarchici dell’epoca liberale, non si

può negare che quell’antico stampo ha mantenuto un importante ruolo nella configurazione del

regionalismo italiano.

Dall’altro lato, le Regioni e gli enti locali sono stati il terreno o il laboratorio di importanti

trasformazioni dell’organizzazione politica. La loro ‘forma di governo’, che, come abbiamo

visto, assicura una assoluta preminenza agli organi esecutivi e funziona secondo meccanismi

rigidamente maggioritari, ha preparato il terreno per la svolta della politica nazionale verso passaggi

analoghi, cioè sistemi elettorali maggioritari, centralità dell’esecutivo, personalizzazione della

politica.

Questo tipo di strutturazione della forma di governo nasce dunque, in Italia, per enti dalla limitata

autonomia, nei quali è importante assicurare l’efficace e rapido coordinamento con altri enti, in

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particolare con lo stato, e la presa di accordi, di decisioni (come quelle che lo stato prende in

materia di spesa) e la loro trasmissione e attuazione rapida. E quello stesso tipo di governo si

espande a livello nazionale. Con quali implicazioni?

Il Governo regionale è il modello di un esecutivo ha abbastanza poteri per non dover

negoziare ‘troppo’ con le minoranze politiche ma tutta l’elasticità d’azione per mettersi in

relazione con lo Stato, con gli altri enti locali, con gli interessi economici. E’, in altri termini, il

modello di un governo ‘concertativo’ e che sta in mezzo alle cose: ci si aspetta dalla Regione,

come dall’ente locale, che intervenga, risponda a bisogni, trovi fondi, sia un tramite tra imprese e

investitori e il territorio, sul quale dovrebbe convogliare risorse. L’esperienza del governo locale e

regionale ha familiarizzato tutti noi con un’idea dell’azione delle istituzioni che non ha il suo

centro nelle procedure rappresentative, ma che consiste in una serie di attività e di relazioni in

cui intervengono numerosi soggetti che istituiscono tra di loro una serie di contatti formali ed

informali che certamente non hanno il loro momento focale nelle discussioni tra i rappresentanti

eletti. Molto più di una riunione consiliare ‘conta’ se il Governatore raggiunge un accordo con una

certa impresa, se la Regione mette insieme un progetto che avrà un finanziamento europeo, e così

via. Questa stessa idea ha reso molte persone indifferenti a chi governa, di quale ‘colore’ politico,

perché l’importante è il risultato.

E’ ciò che prende il nome di multilevel governance e che, secondo molti studiosi, ha ormai preso il

posto del concetto statualistico di sovranità e delle concezioni democratiche della politica

rappresentativa: la ‘governance’ è una combinazione di istituzioni, politiche, pratiche

(deliberative e partecipative) e iniziative congiunte, che consente di gestire dinamicamente le

azioni pubbliche e private, una combinazione che è diversa ma si ripropone con identica

funzione nei diversi livelli territoriali e con modalità di funzionamento simili.

Alcuni aggiungono che la governance tipicamente utilizza, per rapportarsi alle collettività, il metodo della

‘consultazione’ (al posto di quello della ‘elezione’). (L. Patruno, 2014) Le comunità territoriali vengono

‘consultate’ per esempio, quando la Banca centrale concede un prestito per un’opera pubblica, come una

diga, per sapere dove ri-localizzare chi vive nei terreni espropriandi o le altre misure di protezione sociale

da adottare: gli studiosi parlano ormai, per descrivere le forme di stato della globalizzazione, dove lo stato

non meno della regione o del comune è un livello territoriale del governo ‘globale’ , di ‘autocrazia

monocratica consultiva’ (Algostino, 2014).

Se, dunque, per molto tempo la parziale e insoddisfacente attuazione dell’autonomia regionale in

Italia è stata attribuita a responsabilità dello stato e della classe politica nazionale, che, restia a

rapportarsi a reali articolazioni di pluralismo, ha contenuto il più possibile l’autonomia regionale, da

alcuni anni ormai si affacciano spiegazioni diverse, che legano le vicende del regionalismo

italiano alle complessive trasformazioni dello stato nel tempo della globalizzazione.

Secondo queste interpretazioni, mosse come sono dall’idea che democrazia e ordine mondiale dei

mercati non possano coesistere, le autonomie locali sono, nella loro dimensione di forme di

pluralismo democratico, viste come realtà inutili o controproducenti nel tempo della

globalizzazione. Come momenti di governo della risorsa economica ‘territorio’ sono però

assolutamente utili e centrali. Alcuni studiosi trovano significativo, per esempio, che già nella legge

Bassanini n. 59/1999 che istituì il cd federalismo amministrativo, non comparisse in alcun

passaggio il principio democratico. “Vi compaiono, però, i principi di sussidiarietà, efficienza,

economicità, adeguatezza e differenziazione, di copertura finanziaria e autonomia

organizzativa, principi, questi, finalizzati, tra l’altro, alla ‘promozione della

internazionalizzazione e della competitività delle imprese nel mercato globale (art. 4 comma 4

l. n. 59/1999).”

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Con osservazioni che le riflessioni di Neumann sull’ambiguità del pluralismo, che abbiamo letto

all’inizio di questo capitolo, ci aiutano a capire, l’autore da cui ora stiamo citando osserva che

“ Per molto tempo si è dato per scontato che necessario complemento del principio democratico fosse il

principio pluralistico. Tuttavia la declinazione del pluralismo secondo i principi testé citati non conduce,

necessariamente, alla democrazia. Il principio di autonomia infatti collegato all’efficienza, all’economicità,

sussidiarietà e competitività nel mercato globale, costituisce un principio di legittimità politica del tutto

autosufficiente e non necessariamente democratico: l’essere cittadini formalmente ‘liberi’ e ‘uguali’ nel

determinare le condizioni della propria vita può dar luogo, soprattutto se l’obiettivo è l’efficienza,

l’economicità e l’efficacia e la competitività, cioè la concorrenza, a forme di autodeterminazione privata

antidemocratiche: in queste condizioni, l’espansione dell’autonomia è espansione di potere“ (Patruno,

2014).

Nella legge 24 marzo 2012 n. 27 di conversione del d. legge 24 gennaio 2012, è stato stabilito che

Comune, Province, Regioni e Stato adeguano i loro ordinamenti al principio secondo cui l’iniziativa

economica privata e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è

vietato dalla legge”. In questa previsione, che come abbiamo visto è stata non solo ritenuta legittima

dalla Corte costituzionale ma anche elevata a parametro di giudizio dell’estensione delle

competenze regionali, alcuni autori vedono il diventare i principi dell’economia liberista di mercato

i nuovi principi del nostro ordinamento, che risponderebbe alla nozione di ‘stato globale’: ogni

stato e ogni livello di governo è tenuto alla implementazione del principio di libera

concorrenza e di apertura incondizionata dei mercati, il che significa che ogni stato e ogni

livello di governo è collegato ad ogni altro stato e ogni livello di governo in quanto è attraverso

questa rete di connessioni che fluisce la concorrenza e l’iniziativa economica.

Si comprende come mai, nel progetto di riforma costituzionale attualmente in discussione (e noto

come progetto di riforma dei Senato, mentre è anche una complessiva riscrittura del Titolo V della

Costituzione) venga sottolineato che la legislazione statale e quella regionale sono soggette ai

vincoli, specialmente finanziari e di bilancio, derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea e

dagli obblighi internazionali, e venga stabilito che la potestà legislativa regionale si esercita, in via

esclusiva, con riferimento alla pianificazione e alla dotazione infrastrutturale del territorio

regionale, “laddove il territorio assurge perciò essenzialmente a fattore di produzione e a filtro

di spesa dei servizi sanitari e sociali”. Riemerge infine uno stato forte e unitario che, su proposta

del Governo, può intervenire nelle materie e nelle funzioni riservate alle Regioni ‘quando lo

richiede la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica della Repubblica”. (Patruno, 2014).

Nel contesto della globalizzazione, dunque, “gli enti autonomi non possono più svolgere una

funzione di ‘contropotere’ finalizzata all’estensione deli ‘spazi democratici’ ma una funzione

analoga a quella esercitata dagli enti locali nell’epoca fascista, ossia quella di ‘ausilio’ alle strategie

politiche nazionali e sovranazionali oggi improntate al principio supremo della competizione sul

mercato globale” (Bucci, 2014).