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UNIVERSITA’ DI PISA Dipartimento di Patologia chirurgica, Medica, Molecolare e dell’Area Critica Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia Lo studio della risposta neurobiologica ai trattamenti con rTMS e tDCS, revisione della letteratura, presentazione di un progetto sperimentale e dati preliminari. Relatore: Chiar.mo Prof. Pietro Pietrini Correlatore: Chiar.mo Prof. Emiliano Ricciardi Candidato: Martina Novi Anno Accademico 2014-2015

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UNIVERSITA’ DI PISA

Dipartimento di Patologia chirurgica, Medica, Molecolare e dell’Area Critica

Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia

Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia

Lo studio della risposta neurobiologica ai trattamenti con rTMS e tDCS, revisione della letteratura, presentazione

di un progetto sperimentale e dati preliminari.

Relatore:

Chiar.mo Prof. Pietro Pietrini

Correlatore:

Chiar.mo Prof. Emiliano Ricciardi

Candidato:

Martina Novi

Anno Accademico 2014-2015

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Introduzione

Fu nel 1621 che lo scrittore inglese Richard Burton, accademico di

Oxford, in un celebre e voluminoso saggio dal titolo Anatomia della Malinconia,

descrisse, tra i primi a farlo, ciò che oggi definiamo come depressione,

descrivendola al pari di un morbo che “colpisce sia il corpo che l’anima” e

considerando il malinconico come un ammalato. Il testo, ulteriormente

arricchito negli anni successivi, trattava un fenomeno umano, al tempo

considerato alla stregua di un sentimento di profonda tristezza, con lo

sguardo del clinico, con il dichiarato intento di poterlo combattere e la

profonda convinzione che lo scriverne potesse essere un possibile rimedio.

Lui stesso, infatti, dichiarava di esserne stato vittima, di essere stato

“sospinto sullo scoglio della malinconia”. Una condizione di cui già a quei

tempi egli riconosceva un’ampia diffusione e di cui riferiva il dolore come

suo “compagno inseparabile”. Con uno stile lucido, ma tormentato,

certamente influenzato dalla stessa patologia di cui scriveva, Burton aveva

appena piantato il seme di un cambiamento di paradigma nella concezione

dei fenomeni psichici (Burton, 1994).

Oggi la depressione è accettata in ambiente medico come una

patologia a tutti gli effetti. È definita un disturbo dell’umore che porta ad

una riduzione della qualità della vita dell’individuo, associata ad un

aumento della morbilità e mortalità.

Le statistiche più recenti della WHO posizionano la depressione

maggiore al terzo posto tra le principali cause di disabilità e pronosticano

una sua temibile crescita come prima causa del peso delle malattie a livello

globale (Zhang et al., 2015). Si tratta di un disturbo che influisce sulle

capacità funzionali dell’individuo riducendone la performance lavorativa, la

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qualità della vita matrimoniale, la capacità di adattamento e

contemporaneamente si associa ad un elevato numero di malattie croniche e

ad un aumento del tasso di mortalità precoce, da non far risalire solamente

ad un alto rischio suicidario, ma anche al dato ormai accertato che la

depressione maggiore aumenti la persistenza e severità di un ampio numero

di disturbi fisici (Kessler & Bromet, 2013).

Ad oggi la diagnosi di depressione si muove sul principio di

identificazione di un prestabilito numero di sintomi, così come previsto dal

DSM nelle sue diverse versioni. Considera poco, però, l’impatto

totalizzante, e disabilitante, che tale disturbo provoca sulla vita del soggetto,

fatto che avvalora la necessità di un’interpretazione diagnostica più

complessiva rispetto a una semplice collezione di sintomi (Goodwin, 2015).

La diagnosi, infatti, spesso non indaga la diversa espressione della malattia

nel singolo paziente, ma guarda ad esso come a una fedele riproduzione di

uno stesso fenomeno; in quest’ottica dovrebbe invece essere strutturato un

piano terapeutico ponderato, non frutto esclusivamente di un’etichetta

diagnostica.

I criteri diagnostici previsti dal DSM non hanno più subito modifiche

dal 1980 (DSM-III) e sono così approssimativi che, nella pratica clinica,

un’ordinaria tristezza può essere erroneamente diagnosticata come

depressione. La medicalizzazione del lutto e di altri stress e la loro inclusione

tra i possibili disordini mentali rappresenta un’intrusione medica nello

spettro delle emozioni umane e conduce il soggetto a sentirsi stigmatizzato e

a comportarsi come un paziente psichiatrico compromettendone il libero

arbitrio. Inoltre, l’evidenza che forme lievi di depressione o di lutto non

complicato non necessitino di alcuna terapia farmacologica, mette in luce

l’uso ingiustificato di antidepressivi con inevitabili interazioni con farmaci

prescritti per altre patologie coesistenti (Dowrick & Frances, 2013).

Il DSM-5 ha fallito nell’obiettivo di descrivere la complessità della

malattia e ridurne il sovra-trattamento. Da ciò si evince l’importanza

dell’apertura della pratica psichiatrica a nuovi strumenti diagnostici che

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permettano di stabilire delle soglie critiche, evitando di convertire la

normalità in una specie in via di estinzione.

Un nuovo dibattito ha quindi preso vita riguardo la sproporzionata

medicalizzazione della società e la promozione di cure spesso non

necessarie. Una voce autorevole è quella di Allen Frances, uno dei principali

redattori del DSM-4, che nel suo ultimo libro dal titolo “Primo, non curare

chi è normale” muove un’aspra critica nei confronti della quinta versione

del manuale, ricordando come nel suo precedente lavoro si fosse tentato di

stabilire dei confini netti tra normalità e malattia evitando criteri troppo

inclusivi. Secondo la sua acuta analisi il nuovo manuale amplierebbe a tal

punto lo spettro delle patologie psichiche da non lasciare più alcuna

dimensione di normalità. Se da una parte parla di “inflazione diagnostica” e

di continue nuove possibili diagnosi, dall’altra Frances afferma che quasi

due terzi di pazienti affetti da depressione maggiore non ricevono alcun tipo

di terapia. L’evidente antitesi tra un cerchio sempre più ampio, che include

anche coloro che non farebbero parte di alcuna categoria diagnostica e

l’abbandono di coloro che realmente avrebbero bisogno di supporto spinge

l’autore a parlare della necessità della “deflazione diagnostica“, di un

controllo sull’espansione incontrollata di diagnosi e terapie unitamente ad

una maggiore attenzione sui pazienti reali. Il principale autore del DSM-IV

suggerisce l’importanza di un cambiamento che si fondi su nuovi percorsi

diagnostici guidati da evidenze scientifiche e non più dall’arbitrarietà, e

riconosce il valore delle nuove metodologie di neuroimaging, sottolineando

quanto poco queste nuove scoperte siano state sfruttate per nuove procedure

diagnostiche o terapeutiche (Frances).

Uno degli psichiatri più influenti del ventesimo secolo, Robert

Spitzer, principale ideatore della nuova classificazione dei disturbi mentali in

categorie discrete sulla base di obiettivi criteri diagnostici e capo gruppo

della task force che ha dato vita al DSM-III, ha criticato le versioni

successive, ritenendo comunque il DSM l’unico mezzo idoneo per la pratica

clinica, non altrimenti sostituibile. Spitzer, in risposta ad un articolo di

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critica - “Dump the dsm” (Paul Genova, 2003, Psychiatric Times) -

riconosce i limiti del manuale nell’adeguarsi alle nuove scoperte scientifiche,

così come non si esime dal criticarne la frequente scarsa attinenza alla realtà

clinica, motivo per cui sottolinea la necessità di confini marcati non solo tra

disordine psichiatrico e normalità, ma anche tra i vari disordini.

Il NIMH statunitense ha bocciato il DSM-5, abbracciando un nuovo

paradigma per lo studio delle malattie mentali che parte dal presupposto che

la patologia neuropsichiatrica preceda lo sviluppo dei sintomi, e possa essere

trattata ancor prima di una diagnosi conforme ai criteri del DSM.

Nonostante l’approccio farmacologico e psicodinamico rimangano due

pilastri terapeutici, le nuove conoscenze ottenute grazie alle tecniche di

neuroimaging hanno determinato, sulla base del riconoscimento di

potenziali aree target di stimolazione cerebrale, una netta divergenza

rispetto alla comune pratica psichiatrica. Allo stesso tempo anche questo

nuovo orientamento potrebbe non essere esente dal rischio di inflazione

diagnostica considerata la non specificità e la moderata difficoltà a

distinguere profili normali dalla patologia. Studi recenti hanno però

enfatizzato l’utilizzo del neuroimaging per la ricerca di marcatori predittivi

di risposta alla terapia farmacologica, dimostrando la potenzialità

dell’applicazione delle neuroscienze nella riduzione dell’accanimento

terapeutico, grazie, soprattutto, all’identificazione di pazienti che

difficilmente potrebbero trarre beneficio dall’intervento medico (Nucifora,

2015).

Infine, Eric Kandel, neuroscienziato, professore alla Columbia

University e già vincitore di un premio Nobel per la Medicina, nel suo

“Psichiatria, psicoanalisi e nuova biologia della mente” afferma che “ogni

processo mentale è anche un processo neurale” e sostiene quindi

l’importanza del neuroimaging funzionale come potente strumento di

valutazione della modifica delle attività cerebrali indotta da percorsi

psicoterapeutici o farmacologici (Kandel, 2005). Con il suo testo lancia un

appello a considerare le neuroscienze come un autorevole alleato della

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psichiatria, ovvero come fondamento scientifico sul quale costruire una

nuova pratica clinica, non rilegandola ad esclusivo strumento di ricerca.

Kandel racconta poi lo scenario della psichiatria del dopoguerra: una

disciplina medica sradicata dalla biologia e dalla medicina sperimentale sulla

quale si era eretta e che aveva rimosso il “cervello come organo dell’attività

mentale” dalle sue speculazioni.

L’introduzione della psicofarmacologia come pratica terapeutica

avrebbe, negli anni successivi, obbligato al confronto con le neuroscienze,

allo scopo di comprendere il meccanismo di azione dei nuovi specifici

strumenti di cura. Oggi, il celebre neuroscienziato vede, infatti, una nuova

irripetibile opportunità di riavvicinamento tra la psichiatria e le

neuroscienze nel momento in cui la pratica clinica si pone delle domande a

cui soltanto la profonda conoscenza della biologia della mente, generata

dalle nuove metodiche di esplorazione funzionale del cervello, può dare

risposta. È infatti unanime, oggi, il consenso alla tesi, dalle solide basi

empiriche, per cui “specifiche lesioni del cervello producono specifiche

alterazioni dl comportamento, e specifiche alterazioni del comportamento si

riflettono in tipici cambiamenti nel funzionamento del cervello”. Perciò da

una parte i progressi delle neuroscienze trarrebbero nuova linfa dai continui

interrogativi che lo studio del paziente pone al clinico, dall’altra la

psichiatria potrebbe costituire e promuovere un nuovo percorso di

conoscenza scientifica. Sebbene la relazione tra cervello e processi mentali

sia ormai un principio da tutti accettato, Kandel riconosce ancora

l’incertezza nella definizione biologica delle sindromi cliniche e auspica una

sempre maggiore presa di coscienza in ambito neurobiologico.

La mia tesi muove dalle premesse teoriche abbracciate dall’opera

citata di Kandel, concentrandosi sulla duplice possibilità di convalidare due

trattamenti fisici non invasivi per la cura della depressione farmacoresistente

e definire, sperimentalmente, i correlati funzionali dei loro esiti. I

trattamenti adottati sono la stimolazione magnetica transcranica (TMS) e la

stimolazione transcranica a corrente continua (tDCS). La TMS sfrutta

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l’induzione di un campo magnetico attraverso l’applicazione di una bobina

a livello dello scalpo in corrispondenza della corteccia prefrontale

dorsolaterale (DLPFC) che si è dimostrata area target nella terapia della

depressione resistente; la tDCS modula invece l’attività neuronale mediante

l’applicazione di una corrente continua attraverso due elettrodi posti sullo

scalpo a livello delle due cortecce prefrontali dorsolaterali. Si tratta di due

metodiche sicure, che hanno dimostrato efficacia nella cura di pazienti

depressi farmacoresistenti e che possono quindi disegnare una valida

prospettiva terapeutica per un disturbo così invalidante.

Nel capitolo 1 tratterò il fenomeno depressivo nel suo complesso:

dall’eziologia all’indagine sui suoi correlati neurobiologici, tema che

rappresenta oggi un crescente campo di ricerca.

Nel capitolo 2 presenterò i risultati di uno studio di connettività

funzionale condotto su pazienti depressi che evidenzia un’interessante

correlazione tra patologia e connettività funzionale a seguito dell’esecuzione

di uno specifico task. Questo esperimento ha poi posto le basi per lo sviluppo

del paradigma sperimentale di un protocollo di ricerca, da poco avviato,

oggetto del capitolo 5.

Nel capitolo 3 descriverò, invece, i tratti essenziali della depressione

farmacoresistente: la sua definizione, l’epidemiologia che la caratterizza, i

suoi correlati neurali funzionali e i trattamenti alternativi alla

psicofarmacologia attualmente impiegati nell’ambito del suo trattamento

clinico.

Nel capitolo 4 approfondirò quindi le metodologie impiegate nel

protocollo di ricerca, la cui ambizione è determinare quali modifiche

intervengono a livello funzionale in pazienti affetti da depressione

farmacoresistente trattati con TMS e tDCS. Tratterò qui il funzionamento,

la strumentazione necessaria, le basi fisiche, i rischi, i vantaggi e limiti di

applicazione di questi due metodiche.

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Nel capitolo 5 esporrò, infine, il paradigma sperimentale: le premesse

del lavoro, il campionamento, i metodi di raccolta dati e tratteggerò quindi i

possibili sviluppi di ricerca futuri.

In Appendice A, invece, analizzerò brevemente il funzionamento della

risonanza magnetica funzionale (fMRI), scelta come strumento di studio in

vivo delle modifiche di attività cerebrale indotte dalle due tecniche di

stimolazione. La scelta di un’esplorazione funzionale del cervello muove

dall’evidenza di una scarsità di studi riguardanti i correlati neurobiologici

delle due procedure e si pone l’obiettivo di valutare i risultati a carico delle

singole dimensioni del disturbo depressivo.

Infine, nell’Appendice B riporterò i questionari somministrati nello

studio di connettività e nel protocollo di ricerca.

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Indice

Introduzione ....................................................................................... 2  

1. La depressione e i suoi correlati neurobiologici ........................... 11  

1.1. Epidemiologia ........................................................................ 11  

1.2. Eziopatogenesi ....................................................................... 12  

1.3. Comorbidità .......................................................................... 17  

1.4. Criteri diagnostici .................................................................. 19  

1.5. Rischio suicidario .................................................................. 21  

1.6. Diagnosi e terapia .................................................................. 23  

1.8. Correlati strutturali ................................................................ 25  

1.9. Indagine funzionale dei correlati neurobiologici ................... 27  

2. Connettività nei pazienti depressi: dati da uno studio fMRI ....... 37  

2.1. Background e scopo dello studio ........................................... 37  

2.2. Materiali e metodi ................................................................. 37  

2.3. Risultati ................................................................................. 40  

2.4. Discussione ............................................................................ 43  

2.5. Conclusioni ............................................................................ 51  

3. La depressione farmacoresistente ................................................. 53  

3.1. Epidemiologia e definizione .................................................. 53  

3.2. Fattori di rischio .................................................................... 56  

3.3. Opzioni terapeutiche ............................................................. 57  

4. Nuove prospettive terapeutiche: rTMS e tDCS ........................... 62  

4.1. La TMS: sviluppo e utilizzo .................................................. 62  

4.2. Principi della TMS ................................................................ 66  

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4.3. Predittori di risposta, sicurezza della metodica e durata degli

effetti terapeutici ....................................................................................... 69  

4.4. Confronto tra TMS e TEC ................................................... 72  

4.5. Correlati neurobiologici della TMS ...................................... 73  

4.6. tDCS: principi e studio dell’efficacia ..................................... 74  

4.7. Eventi avversi della tDCS ...................................................... 77  

5. Sviluppo di un protocollo sperimentale ........................................ 79  

5.1. Endpoint ................................................................................ 79  

5.2. Attività sperimentali .............................................................. 80  

5.3. Disegno dello studio .............................................................. 83  

5.4. Trattamenti oggetto dello studio ........................................... 84  

5.5. Follow-up ............................................................................... 86  

5.6. Sicurezza ................................................................................ 86  

5.7. Conclusioni ............................................................................ 87  

Appendice A: fMRI .......................................................................... 88  

Principi del segnale BOLD ........................................................... 88  

Analisi dati e disegno sperimentale .............................................. 90  

Appendice B: Scale utilizzate ........................................................... 93  

BDI- II: Beck Depression Inventory II ......................................... 93  

Scala di Hamilton ......................................................................... 98  

Scl-90 .......................................................................................... 104  

Scale for suicide ideation ............................................................ 108  

Bibliografia ..................................................................................... 110  

Ringraziamenti ............................................................................... 132  

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1. La depressione e i suoi correlati

neurobiologici

1.1. Epidemiologia

La depressione maggiore o unipolare è un disturbo dell’umore che

affligge ogni ambito della sfera individuale: colpisce il pensiero, la

percezione, il comportamento. Rappresenta una minaccia non solo per la

vita dell’individuo, provocando un aumento dei tassi di suicidio, ma anche

per il suo impatto sulla società. La World Health Organization ha stimato in

almeno 298 milioni (4,3% della popolazione globale) il numero di persone

affette da depressione, la quale si annovera tra le principali cause di

morbilità mondiali e una delle cause principali di anni di vita vissuti con

disabilità1 (Vos et al., 2012). Si tratta di un disturbo dell’umore che non

influisce solamente sulle capacità funzionali del paziente, ma ha importanti

ripercussioni in ambito familiare e sociale. Da qui si evince l’importanza di

una ricerca attiva nello scoprire nuove strategie terapeutiche a supporto di

un così invalidante disturbo.

È una patologia ad alta prevalenza, in cui l’episodio depressivo si

configura come un’evidente e netta modifica dell’umore, delle capacità

1 Traduzione di years lived with disability (YLD): parametro che

quantifica l’impatto della disabilità provocata dalla malattia.

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cognitive e delle funzioni neurovegetative del paziente. La prevalenza è

compresa tra l’8% e il 12% nella maggior parte dei Paesi e cambia nelle

varie fasce di età, con tassi tre volte superiori nel gruppo tra 18 e 29 anni

rispetto a quello di età più avanzata (dai 60 anni). L’età mediana di

insorgenza è tra i 20 e i 25 anni nella maggior parte dei Paesi (Andrade et

al., 2003). La prevalenza nelle donne risulta fino a due volte superiore in

alcune casistiche (Kessler, 2003). La probabilità d’insorgenza del disturbo

trova nell’adolescenza un periodo dal notevole incremento del rischio

(DSM-5, 2013), mentre mostra un declino con l’età (Andrade et al., 2003;

Byers, Yaffe, Covinsky, Friedman, & Bruce, 2010)

1.2. Eziopatogenesi

La comprensione dei meccanismi eziopatogenetici della depressione

si è intensificata nel corso degli anni ma ancora oggi molti aspetti non sono

precisati, stimolando nuove prospettive di ricerca. Sono stati annoverati tra

le potenziali cause: fattori genetici, biologici, ormonali, psicologici e sociali.

La depressione maggiore occorre con maggiore frequenza se siano

presenti specifici fattori di rischio le cui interrelazioni all’interno di una

potenziale via di sviluppo risultano ancora poco chiarite. Alcuni autori

hanno proposto un modello di sviluppo secondo il quale la patologia

deriverebbe dall’interazione di tre vie: “sintomi interiorizzati” (ad esempio

genetica e bassa autostima), “sintomi espressi” (ad esempio abuso di

sostanze) e “ avversità “ (traumi recenti, scarso supporto sociale).

La perdita di un genitore nell’infanzia e la bassa autostima sono

risultate le variabili maggiormente incidenti nel modello maschile, così come

i rischi genetici hanno mostrato nel sesso maschile un maggiore spettro di

azione (Kendler, Gardner, & Prescott, 2006).

Si tratta di un disturbo complesso, dall’eziopatogenesi multifattoriale,

in cui la predisposizione genetica determina una vulnerabilità sulla quale

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devono agire fattori ambientali aggiuntivi, affinché se ne verifichi lo

sviluppo. Le evidenze empiriche indicano che lo sviluppo di un disturbo

affettivo è una caratteristica ereditaria. Non solo, ma per definire l’influenza

dei geni in un fenotipo di una certa malattia si può misurare l’aumento del

rischio derivante dalla parentela con il paziente, espresso come ‘rapporto di

ricorrenza del rischio’. Nel caso della depressione maggiore, questo rapporto

dimostra un ruolo genetico nella patogenesi, anche se meno importante

rispetto a quello svolto nei disturbi bipolari.

I rapporti di concordanza fra gemelli monozigoti dal valore inferiore

al 100% testimoniano, però, il ruolo di fattori di sviluppo o ambientali

(Kandel, 2013). Numerosi studi evidenziano, infatti, il suo carattere

familiare, basato su influenze genetiche, ma un ruolo fondamentale è

comunque ascritto a stimoli ambientali individuali. Sempre indagini

condotte su gemelli monozigoti e dizigoti ne suggeriscono un’ereditarietà

poligenica (Sullivan, Neale, & Kendler, 2000).

Vari indirizzi di ricerca hanno cercato di identificare i geni di rischio

mediante studi di associazione genome-wide, ma molti riscontri non sono

risultati statisticamente significativi o riproducibili, probabilmente a causa

della sua eterogeneità (Sullivan, 2015). Ricerche di linkage suggeriscono, poi,

vie di rischio genetico molteplici e, soprattutto, non rilevano alcun singolo

gene reputabile sufficiente o necessario (Kandel, 2013). L’evidenza

dell’interazione geni-ambiente nell’insorgere della depressione maggiore si

evince anche da un importante studio pubblicato sulla rivista Science in cui il

polimorfismo del promotore del gene del trasportatore della serotonina (5-

HTT), si è visto, modifica la risposta individuale a eventi di vita stressanti;

questa scoperta rende esplicito, quindi, che eventi stressanti possono essere

causa di episodi depressivi solo in alcune tipologie di individuo. Tale studio

ha quindi individuato in questi due fattori la base biologica dell’interazione

eziopatogenetica tra geni e ambiente (Caspi et al., 2003). Al contrario, due

studi successivi, non hanno confermato tale scoperta, non rilevando alcun

collegamento tra eventi sociali avversi, polimorfismo genico e sviluppo di

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depressione maggiore (Gillespie, Whitfield, Williams, Heath, & Martin,

2005; Surtees et al., 2006).

Perciò, recentemente, il consorzio Converge ha condotto uno studio

di associazione genome-wide genotipizzando più di 5000 donne cinesi

affette da disturbo depressivo maggiore ricorrente, insieme ad altrettanti

controlli. Sono stati identificati due loci sul cromosoma 10 implicati nel

rischio depressivo: una variante è stata riscontrata in prossimità del gene

SIRT1 e l’altra nella regione intronica di LHPP. In un secondo campione

indipendente di 4000 pazienti con depressione severa melanconica è stato

nuovamente individuato un aumento di segnale nella regione del SERT1.

Questo consorzio ha quindi scoperto, per la prima volta, due regioni

genetiche di rischio partendo dal presupposto che uno stesso fenotipo possa

in realtà subire una diversa influenza del substrato genetico. Ha cercato

quindi di ottenere un segnale genetico più marcato, selezionando una

popolazione di studio più omogenea possibile -e con una forma depressiva

severa- che faceva presupporre un maggior coinvolgimento genetico. La

scoperta di questa associazione apre la strada ad un potenziale target

farmacologico e ad un protocollo terapeutico finalmente basato su solide

fondamenta biologiche. Infine, data la prossimità di una variante al gene

SIRT1, e il suo coinvolgimento nel metabolismo mitocondriale, è stato

suggerito un possibile ruolo dell’alterato funzionamento mitocondriale nella

patogenesi della malattia. Questa ipotesi aprirebbe la strada ad un nuovo

fronte di ricerca su altre possibili vie genetiche implicate nel metabolismo

mitocondriale che si avvicinino ad un livello di significatività in tale disturbo

dell’umore (Sullivan, 2015).

Oltre alle convincenti prove di un concorso di fattori genetici nella

eziopatogenesi dei disturbi dell’umore, sempre nuove scoperte testimoniano

un ruolo preminente di fattori psicosociali e biochimici di stress. In alcuni

casi la patologia si manifesta dopo un’esperienza stressante, è stato

d’altronde dimostrato che la depressione e lo stress cronico condividono

modificazioni biochimiche a livello dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene,

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risultanti in una sua maggiore attivazione. Inoltre, se l’aumento di cortisolo

ha un ruolo protettivo nello stress acuto, un suo incremento cronico può

determinare la comparsa di sintomi depressivi, reperto convalidato dal

riscontro dell’alterazione dell’asse HPA in circa la metà dei pazienti

depressi.

Data la scarsa sensibilità e specificità nel riscontro di alterazioni

misurabili dell’asse, tale scoperta non ha permesso la sua convalida come

test diagnostico della depressione (Kandel, 2013). La stessa riduzione

volumetrica ippocampale, reperto frequente in questi pazienti, è stata

collegata all’alterazione dell’asse in conformità a due teorie: la prima

sostiene che alti livelli di glucocorticoidi rendano i neuroni maturi più

suscettibili all’eccitotossicità da glutammato; l’altra trova nello stress cronico

un agente inibitorio della neurogenesi. Sulla base di questa seconda teoria

troverebbe spiegazione l’efficacia degli antidepressivi: dato il loro effetto

stimolante sul ritmo neurogenico, sarebbero, infatti, capaci di inficiare il

circuito di danno ippocampale da ridotta neurogenesi (Kandel, 2013). Da

notare, infine, come l’asse HPA venga inibito da vie ippocampali e l’atrofia

di tale struttura cerebrale contribuisca alla creazione di un circuito di danno

(Kandel, 2013).

Nell’ottica di ricercare fattori ambientali incidenti su un substrato di

predisposizione genetica al disturbo depressivo maggiore, risulta interessante

uno studio che dimostra una correlazione tra la perdita precoce di un

genitore (early parental loss; EPL) e lo sviluppo del disturbo. Elemento che,

oltretutto, si trova in accordo con il dato ormai acquisito di un’associazione

tra episodio di vita stressante e susseguente sviluppo di un episodio

depressivo.

Si tratta di uno studio caso-controllo in cui sono stati inseriti soggetti

con separazione o perdita precoce entro i diciassette anni, nei quali la

probabilità di sviluppare la depressione in età adulta è risultata

significativamente maggiore; il dato relativo alla separazione precoce dal

genitore, e in particolare un’età inferiore ai 9 anni al momento dell’evento,

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sono risultati molto più rilevanti rispetto al dato riguardante la morte

precoce del genitore. Inoltre, l’interazione tra il bambino piccolo e la madre

si ritiene rappresenti un importante fattore di rischio per la futura risposta

allo stress. Tanto che, in studi condotti su modelli animali, i cuccioli

allontanati dalle madri per periodi prolungati mostravano da adulti livelli

superiori di ACTH e cortisolo in risposta allo stress (Viau, Sharma, Plotsky,

& Meaney, 1993).

La predisposizione genetica influenza il grado di suscettibilità

individuale a fattori ambientali stressanti e, dunque, la condizione

psicopatologica che ne deriva come conseguenza di una vulnerabilità allo

stress (Agid et al., 1999). Eventi di vita stressanti in età precoce modificano

la soglia biologica di risposta allo stress e facilitano l’evoluzione verso un

disturbo depressivo. Una maggiore sensibilità è testimoniata da un

incremento dell’espressione genica del corticotropin releasing-factor (CRF)

ipotalamico; il marcato e durevole aumento dell’espressione dell’m-rna

legato al CRF è stato documentato anche nelle aree limbiche (Nemeroff,

1996).

La scoperta d’iperattività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, e la

costante ipercortisolemia dopo test di soppressione al desametasone, sono in

accordo con l’ipotesi di un aumentato rilascio di CRF nella depressione

maggiore (Heim, Owens, Plotsky, & Nemeroff, 1997).

Molteplici teorie sono state sviluppate riguardo la base biologica del

disturbo depressivo. Tra queste si ha l’ipotesi monoaminergica, secondo la

quale la depressione seguirebbe a un basso livello di attività delle sinapsi

monoaminergiche. Le monoamine comprendono la dopamina, l’adrenalina,

la noradrenalina e la serotonina; la riduzione della serotonina sembra,

inoltre, inficiare il funzionamento degli altri sistemi neuromodulatori. La

rilevazione dell’efficacia degli antidepressivi, in grado di aumentare i livelli

sinaptici dei neurotrasmettitori, ha determinato la postulazione di questa

ipotesi. Quindi, seguendo tale supposizione, la scelta dell’antidepressivo

viene fatta sulla base dei sintomi preminenti, e quindi con farmaci attivi nei

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confronti del trasmettitore che sembra maggiormente coinvolto, come, ad

esempio l’utilizzo degli SSRI o degli inibitori del reuptake della

norepinefrina nella forme con maggiore componente ansiosa.

Uno studio PET sul cervello di pazienti depressi confermerebbe tale

ipotesi evidenziando un’elevata attività dell’enzima mono-amino-ossidasi di

tipo A (MAO-A) responsabile del metabolismo dei neurotrasmettitori.

Infatti, la sua densità enzimatica era aumentata in molteplici aree cerebrali

(Meyer et al., 2006).

L’ipotesi monoaminergica originale è stata però a lungo dibattuta ed

è tutt’ora considerata non esemplificativa della reale fisiopatologia

depressiva e del meccanismo di azione dei farmaci. A testimonianza di ciò, i

farmaci attivi sul sistema monoaminergico non sono sempre efficaci sui

sintomi depressivi, ma, dall’altra parte, risultano adatti anche al trattamento

di diversi altri disturbi psichiatrici. Altra prova a carico di una questione

ancora aperta è che volontari sani con deplezione delle monoamine indotta

da farmaci non sviluppino il disturbo. Oltre al fatto che gli effetti sull’umore

si manifestino a distanza di settimane, nonostante le monoamine disponibili

incrementino in poche ore.

Nonostante gli evidenti limiti questa prima ipotesi ha comunque

permesso lo sviluppo di farmaci sicuri per la terapia del disturbo e ha

contribuito a una migliore comprensione della depressione maggiore

(Delgado, 2000; Hirschfeld, 2000).

1.3. Comorbidità

Il rischio di essere colpiti da disturbo depressivo è maggiore in

pazienti affetti da malattie neurologiche, come il morbo di Parkinson e la

sclerosi multipla, e nel primo anno dopo il parto. La malattia si associa

frequentemente ad altri disturbi psichiatrici e in particolar modo a disturbo

di ansia generalizzato, disturbo di panico, diversi disturbi della personalità e

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dipendenza da sostanze (Hasin, Goodwin, Stinson, & Grant, 2005). La

maggior parte degli adulti affetti da una forma clinicamente significativa si

rivolge al medico di medicina generale, e una metanalisi del 2009 stima nel

50% la percentuale di diagnosi misconosciute. Fatto che può trovare la sua

radice in un maggior accesso da parte di pazienti con forme più lievi e nella

difficoltà di identificare il disturbo se inserito in un contesto di patologie

croniche internistiche (Mitchell, Vaze, & Rao, 2009). La comorbidità

rappresenta un segno distintivo della depressione geriatrica e in uno studio

condotto su 546 pazienti anziani sotto cura primaria è stato descritto come il

carico totale delle malattie coesistenti, più della singola patologia, sia

associato alla depressione; tale riscontro ha suggerito l’ipotesi di una via

patogenetica comune, comprensiva di elementi patologici condivisi (ad

esempio un ruolo potenziale delle citochine infiammatorie) o l’ipotesi di

elementi psicosociali comuni, come un alterato funzionamento del ruolo

sociale. La disabilità funzionale indotta dalla malattia potrebbe svolgere un

ruolo principale nelle vie patogenetiche comuni fatto che deve essere però

supportato da successive indagini (Lyness, Niculescu, Tu, Reynolds, &

Caine, 2006). Nello studio PROSPECT2 si è ugualmente evidenziato come

la coesistenza di malattie croniche influenzi l’outcome del disturbo depressivo

in pazienti anziani, ma anche come la comorbidità possa essere

efficacemente affrontata e superata tramite specifici protocolli terapeutici

volti a migliorare la qualità delle cure nella depressione in tarda età.

L’identificazione dei pazienti affetti da patologie croniche, che quindi più

beneficerebbero di interventi integrati, rappresenta il primo passo verso un

2 PROSPECT: ‘Prevention of Suicide in Primary care Elderly Collaborative

Trial’. L’’intervento dello studio prevedeva una figura professionale atta alla

gestione di pazienti anziani depressi con terapie basate su algoritmi.

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miglioramento dell’outcome in anziani gestiti sul territorio da medici di

medicina generale (Bogner et al., 2005).

1.4. Criteri diagnostici

I criteri più utilizzati per la diagnosi di depressione sono contenuti

nel “Diagnostical and Statistical Manual of Mental Disorders” (DSM)

dell’American Psychiataric Association o nel “International Statistical

Classification of Diseases and Related Health Problems” della WHO,

maggiormente utilizzato in ambito europeo. Secondo il DSM-5 si

diagnostica una depressione unipolare qualora il paziente abbia presentato

almeno un episodio depressivo maggiore e non presenti una storia di mania

o ipomania. È definito episodio depressivo maggiore un periodo di almeno

due settimane, anche se solitamente di durata sensibilmente superiore, in cui

siano presenti cinque o più dei seguenti criteri: umore depresso, anedonia,

insonnia o ipersonnia, variazioni di peso o dell’appetito, agitazione o

rallentamento psicomotorio, faticabilità, sentimenti di colpa o di

autosvalutazione eccessivi o inappropriati, ridotta capacità di concentrarsi o

pensare, pensieri ricorrenti di morte o suicidio; un criterio deve essere

necessariamente rappresentato da perdita di piacere o umore depresso

(criterio A). I sintomi devono causare un distress clinico significativo nelle

aree di funzionamento sociale e occupazionale dell’individuo (criterio B) e

l’episodio non deve essere attribuibile agli effetti di sostanze assunte (droghe

d’abuso o farmaci) o ad altre condizioni mediche. Nel caso di forme più lievi

le capacità funzionali di alcuni soggetti possono risultare inalterate, ma a

costo di un significativo incremento di sforzo ( DSM-5, 2013).

Secondo l’ICD-10 si distingue un episodio depressivo (di lieve,

moderata, grave entità) da una sindrome depressiva ricorrente. Non si

utilizza il termine di sindrome depressiva maggiore, ma è stilata una lista di

criteri, comunque molto simili a quelli del DSM, nella quale i sintomi tipici

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20

sono rappresentati da: tono dell’umore depresso, perdita della capacità di

provare piacere e di interessi, affaticabilità. La diagnosi di certezza è posta in

presenza di almeno due dei tre sintomi tipici insieme perlomeno ad altri due

sintomi comuni e per la durata di minimo due settimane. Si parla di

sindrome depressiva ricorrente se caratterizzata da ripetuti episodi, senza

alcuna storia di episodi indipendenti di esaltazione del tono dell’umore o di

iperattività che soddisfino i criteri per la diagnosi di mania.

Se nell’ICD-10 sono considerati tipici sintomi depressivi l’anedonia,

la ridotta energia e l’umore depresso, di cui almeno due devono essere

rilevati per poter porre diagnosi, nel caso del DSM l’affaticabilità non viene

compresa tra i tipici, ed è necessario solo un sintomo tipico per parlare di

episodio depressivo maggiore.

La depressione maggiore è un disturbo ricorrente, e l’indebolimento

della funzionalità psicosociale dopo la guarigione da un primo evento

aumenta il rischio di ricorrenza del disturbo; da qui l’evidenza che

l’afflizione del funzionamento sociale del paziente possa contribuire a

identificare coloro a maggior rischio di ricorrenza sei o dodici mesi più tardi

dal primo episodio (Solomon et al., 2004). Il rischio di ricorrenza aumenta

progressivamente all’aumentare del numero di episodi depressivi mentre

sembra essere inversamente correlato all’incremento del periodo di

guarigione (Solomon et al., 2004).

Il disturbo depressivo maggiore influisce nel peso delle malattie

cardiovascolari ischemiche e del suicidio a livello di salute della popolazione

mondiale. Questo testimonia ancora di più la necessità di includere i disturbi

depressivi tra le priorità degli interventi di salute pubblica, in modo da

ridurne il peso a livello globale (Ferrari et al., 2013). Infatti, fino al 15% dei

pazienti depressi unipolari commette suicidio (Cipriani, Barbui, & Geddes,

2005).

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21

1.5. Rischio suicidario

Le motivazioni che spingono l’individuo al suicidio possono

comprendere: la necessità di arrendersi di fronte ad ostacoli ritenuti

insormontabili, un desiderio di porre fine a una condizione ritenuta

insopportabile, l’incapacità di immaginarsi un futuro migliore oltre al

tentativo di liberare i familiari dal proprio peso.

Una review del 2013 ha evidenziato come una terapia adeguata a

lungo termine a base di litio possa ridurre il rischio di suicidio se comparata

al placebo; mentre il farmaco non sembra offrire alcun beneficio ulteriore

nella prevenzione del suicidio rispetto ad altri agenti psicotropi, e non si

mostra efficace nella prevenzione dell’autolesionismo (Young, 2013).

Uno studio del 2014, in netto contrasto con studi antecedenti,

evidenzia invece come l’uso degli antidepressivi non sembri né incrementare

né ridurre il comportamento suicidario in pazienti unipolari durante il

periodo di esposizione, mentre un effetto di riduzione del rischio è stato

rilevato in pazienti bipolari sia di tipo I che di tipo I (Leon et al., 2014).

Meta-analisi condotte dalla FDA americana sugli antidepressivi

hanno evidenziato, a tal proposito, che mentre nel caso di soggetti anziani si

può rilevare un chiaro effetto protettivo nei confronti dell’ideazione

suicidaria, nei soggetti di età intermedia non è rilevabile alcun tipo di

risultato. Discorso a parte sembra invece essere rappresentato dagli

adolescenti in cui la prescrizione di tale agenti psicotropi pare aumentare

significativamente il rischio di ideazione e tentativo suicidario (Leon et al.,

2014). Si stima, infine, che la depressione colpisca il 4-6% dei bambini e

degli adolescenti e gli inibitori selettivi del reuptake della serotonina ne

rappresentano la terapia di prima linea.

A seguito della rilevazione di una maggiore predisposizione

all’ideazione suicidaria in adolescenti sotto trattamento, sono state condotte

numerose ricerche. Tra queste una su modelli animali è stata sviluppata

partendo dal modello murino di attivazione del locus coeruleus (LC) come

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mediatore biologico di sintomi depressivi e quindi di rischio suicidario. I dati

ottenuti mostravano come non sempre ratti giovani avessero una

disattivazione del LC, e quindi il ripristino di una normale via

noradrenergica, a seguito della somministrazione di paroxetina, mentre in

ratti adulti si rilevava sempre una risposta attesa, dato importante dal punto

di vista terapeutico (Liberzon & George, 2010).

Una review di studi osservazionali del 2010, volta a verificare la

relazione tra adolescenti morti suicidi e assunzione di SSRI afferma, però,

che, data la scarsa prevalenza di assunzione del farmaco prima dell’atto, non

sia supportata l’affermazione che i farmaci siano associati a un incremento

del tasso di suicidio giovanile; considerata però la prevalenza di depressione

associata a suicidio nei giovani, sono infine giunti alla conclusione che molti

non fossero sotto l’effetto protettivo del serotoninergico al momento della

loro morte. Questa review sembra quindi esortare i clinici ad introdurre tali

farmaci all’interno di una gestione controllata e consapevole di forme

moderate e severe di depressione giovanile (Dudley, Goldney, & Hadzi-

Pavlovic, 2010).

Il suicidio è un comportamento umano complesso e dalle molteplici

componenti biologiche e psicosociali, che trova nella depressione

misconosciuta, non riferita o sotto trattata, la sua causa maggiore; da qui

l’evidenza che un’adeguata terapia farmacologica possa non solo ridurre

l’impatto sintomatologico del disturbo, ma se sufficientemente prolungata e

adeguata, sia uno dei principali componenti a contributo di una discesa dei

tassi di suicidio. Elemento confermato anche dalla bassa incidenza di

comportamento suicidario in pazienti eutimici sotto terapia (Isacsson,

Bergman, & Rich, 1996; Rihmer, 2001).

È stato dimostrato, poi, che in pazienti depressi si abbia una

maggiore frequenza di incubi durante il sonno e che questo fattore si associ

ad un più alto score relativo nella Hamilton Rating Scale for Depression

(HRSD); secondo quanto riportato in questo studio recente, i pazienti

depressi con disturbo ricorrente si sono dimostrati maggiormente inclini ad

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un sonno disturbato dagli incubi rispetto a soggetti bipolari e questo

parametro, associandosi alla depressione, potrebbe incrementarne il ruolo di

fattore di rischio suicidario (Marinova et al., 2014).

Nella ricerca di fattori predittivi in grado di quantificare il rischio

suicidario si è dimostrato valido il risultato di iperattività dell’asse ipotalamo-

ipofisi-surrene al test di soppressione al desametasone (DST): i pazienti non

soppressori avevano un rischio superiore e che non era stato quantificato dai

comuni predittori clinici evidenziando come l’iperattività dell’asse sia un

parametro caratteristico dei pazienti con depressione maggiore che

commettono suicidio (Coryell & Schlesser, 2001).

1.6. Diagnosi e terapia

La diagnosi di depressione maggiore non si avvale dell’utilizzo di

nessun test di screening specifico, ma si basa sull’intervista del paziente per

valutare la presenza di sintomi depressivi, di un’eventuale ricorrenza del

disturbo, di comorbidità, oltre che per ricercare possibili episodi maniacali

nella storia clinica in modo da escludere un disturbo bipolare. La

valutazione diagnostica ricorre inoltre all’esame dello stato mentale che

analizza, soprattutto, il tono dell’umore e il contenuto del pensiero, con

particolare attenzione all’ideazione suicidaria. Tale valutazione può

avvalersi anche di scale psicologiche come la Hamilton (HDRS) o la Beck

Depression Inventory (BDI).3 Queste possono essere utili anche nel follow-

up per rilevare una remissione o una risposta attraverso una modifica dello

score di riferimento.

3 Sulla BDI si veda il capitolo 2; per la HDRS il capitolo 5.

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Purtroppo non esistono, ad oggi, test di laboratorio per la diagnosi di

depressione. Tuttavia possono essere richiesti esami allo scopo di escludere

una depressione secondaria a sostanze di abuso o per compiere una diagnosi

differenziale; alcune patologie possono infatti essere scambiate per

depressione, condividendone dei sintomi.

La terapia può avvalersi di differenti modalità, tra cui: i farmaci

antidepressivi, la psicoterapia, la terapia elettroconvulsiva o l’utilizzo della

TMS, ovvero la stimolazione magnetica trans-cranica, che è stata approvata

dalla FDA nel 2008 per il trattamento della depressione farmacoresistente e

che sarà oggetto di questa tesi.

Numerose meta-analisi hanno mostrato come la psicoterapia

associata alla terapia farmacologica possa fornire risultati migliori rispetto

all’utilizzo isolato del farmaco (Cuijpers, Dekker, Hollon, & Andersson,

2009). Tuttavia, una review di recente pubblicazione, ha evidenziato che la

terapia combinata garantirebbe solo un debole vantaggio e che, sia la

psicoterapia che gli antidepressivi isolati, non sarebbero più efficaci di

terapie alternative. Questi dati suggeriscono come la gestione attiva del

paziente fornisca maggiori evidenze rispetto alla scelta della modalità

terapeutica (Khan, Faucett, Lichtenberg, Kirsch, & Brown, 2012). Una

terapia inadeguata rappresenta un problema che esorta non solo a una

maggiore diffusione di una corretta pratica terapeutica, ma anche al

miglioramento della sua qualità (Kessler et al., 2003). Lo scopo degli

indirizzi di ricerca attuali è quello di identificare profili che possano predire

la risposta a uno specifico trattamento nell’intento di sviluppare terapie

personalizzate. Il nostro stesso protocollo di ricerca, sviluppato nel capitolo 5,

pone la ricerca di fattori neurobiologici predittivi di risposta tra i suoi

principali endpoint.

La severità dell’episodio depressivo è uno dei parametri più

importanti nella definizione dell’evoluzione clinica. Quadri clinici più severi

si associano più frequentemente a minori probabilità di remissione, maggior

numero di visite e di mesi sotto terapia antidepressiva, ma soprattutto a una

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peggiore prognosi nonostante la maggiore intensità di cure (Katon, Unutzer,

& Russo, 2010).

Uno studio afferma che dal 30 al 50% della popolazione rispecchi,

almeno una volta nella vita, i criteri di un episodio depressivo; di questi

episodi circa la metà risultano di breve durata e non ricorrenti. Circa un

terzo mostra miglioramenti a lungo-termine sotto placebo rispetto a molti

altri che non rispondono a diversi trattamenti. Queste rilevazioni

testimoniano come una stessa diagnosi di depressione possa essere applicata

a soggetti che facciano esperienza di una tristezza reattiva e di breve durata

che risponde al placebo così come ad episodi severi, ricorrenti e non sensibili

alla terapia. Mentre la ricerca si è focalizzata sul comprendere le forme

croniche e ricorrenti, oggi si esorta anche una migliore comprensione delle

forme lievi che appaiono sensibili al placebo, in modo da analizzare i fattori

che garantiscono un decorso più benigno del disturbo.

Data l’estrema eterogeneità clinica e prognostica, i criteri diagnostici

ora utilizzati sono stati oggetto di aspra critica e sempre più si dibatte sulla

necessità di classificazioni basate su riscontri empirici. Il crescente dibattito

ha aperto la strada ad un nuovo fronte di ricerca sulla caratterizzazione

delle basi neurali del disturbo depressivo, soprattutto di quelle coinvolte

nella differenziazione di una semplice tristezza transitoria da una

depressione maggiore (Lorenzo-Luaces, 2015). In ogni caso, non esiste a

oggi nessun test di laboratorio che permetta di segnalare se una tristezza

reattiva diventi una depressione maggiore (Sullivan, 2015).

1.8. Correlati strutturali

Uno studio con risonanza magnetica (MRI) avviato nel 1993

nell’intento di definire i correlati anatomici della depressione maggiore ha

rilevato una differenza statisticamente significativa solamente nel volume

cerebrale medio del lobo frontale con una riduzione del 7% nei pazienti

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depressi gravi rispetto ai controlli sani. I soggetti, indipendentemente dalla

loro età, hanno inoltre mostrato un’iperintensità in T2 della sostanza bianca

sottocorticale nella regione peri-ventricolare (OR 5.32), dato

precedentemente evidenziato solo in pazienti depressi anziani.

L’iperintensità potrebbe trovare la sua base in foci di alterazioni istologiche

per ipoperfusione da farmaci antidepressivi, anche se non vi sono sufficienti

evidenze; mentre altre cause sono state ipotizzate nell’ipercortisolismo

persistente o in altre sequele derivanti dal disturbo. Questi dati sono stati

però ottenuti su pazienti indirizzati alla terapia elettroconvulsiva, spesso con

comorbidità e forme depressive refrattarie ad altri approcci terapeutici, fatto

che ha suggerito la necessità di ulteriori evidenze in altri gruppi di pazienti

(Coffey et al., 1993).

Sempre con MRI è stata rilevata un’atrofia ippocampale destra in

donne anziane con depressione a precoce insorgenza, ma non in tutti i casi

era correlata con lesioni della sostanza bianca sottocorticale, dato che ha

suggerito un ruolo ippocampale, ma un’indipendenza della sostanza bianca

nella genesi neuropatologica della depressione precoce (Janssen et al., 2004).

Nel caso di un primo episodio depressivo, numerose ricerche hanno

mostrato una disfunzione dei circuiti limbico-talamo-corticali, che si

ipotizzano essere implicati nella modulazione dell’umore e nei quali

l’ippocampo svolge un ruolo centrale; la risonanza magnetica ad alta

risoluzione di trenta pazienti, confrontata con i controlli, ha evidenziato

asimmetria destra-sinistra, riduzione delle fibre bianche ippocampali e

volumi ridotti di sostanza grigia ippocampale soprattutto in soggetti

maschili.

La rilevazione di anomalie strutturali nell’ippocampo ha confermato

un suo ruolo preminente, e delle sue connessioni, nella patogenesi

neurobiologica depressiva. Nonostante la maggiore prevalenza del disturbo

nella popolazione femminile, i dati di atrofia ippocampale sono risultati

significativamente più marcati tra gli uomini e questo è stato ipotizzato

derivare da un effetto neuroprotettivo estrogenico riscontrato in studi su

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pazienti con stroke e da un’incrementata vulnerabilità ad agenti neurotossici

dovuta al testosterone (Alkayed et al., 1998; Frodl et al., 2002). Uno studio

più recente con MRI ha identificato una riduzione del volume di sostanza

grigia in regioni implicate nel circuito corto-limbico e in particolare a livello

dell’amigdala; questo ultimo dato risulta concorde con le evidenze

nell’analisi post-mortem del cervello di pazienti affetti da depressione

unipolare (Sacher et al., 2012).

1.9. Indagine funzionale dei correlati neurobiologici

La nascita dell’esplorazione funzionale in vivo del cervello mediante

PET e fMRI, utilizzata sia in caso di soggetti normali che affetti da diverse

patologie, ha permesso di indagare le basi biochimiche dell’attività

cerebrale. Si tratta di uno strumento non invasivo di studio delle attivazioni

cerebrali e della connettività tra reti neuronali che sfrutta le differenze tra

pazienti psichiatrici e controlli sani in modo da evidenziare le modifiche

strutturali e funzionali indotte dall’episodio depressivo. La scelta delle

regioni di interesse potenzialmente implicate nello sviluppo del disturbo è

stata fatta sulla base di un loro ruolo nella regolazione dello stato emotivo o

nella ricerca di gratificazione (Kupfer, Frank, & Phillips, 2012;

Sundermann, Olde Lutke Beverborg, & Pfleiderer, 2014).

La complessità nello studio delle funzioni cerebrali, accompagnata

dall’estrema variabilità di presentazione del disturbo depressivo, ha reso

spinosa la ricerca delle basi neuropatologiche della malattia, la cui

conoscenza è uno strumento cruciale per arrivare ad un progresso nella sua

diagnosi e terapia. Le conoscenze attuali della fisiopatologia del disturbo ne

indicano una base diffusa su diverse regioni e circuiti cerebrali (Pandya,

Altinay, Malone, & Anand, 2012).

La stimolazione di diverse aree cerebrali si è dimostrata efficace e il

riscontro di un ridotto metabolismo della corteccia prefrontale dorso-laterale

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sinistra, che sembra connessa ad un giudizio emozionale negativo (Grimm et

al., 2008), è un reperto ricorrente in pazienti depressi tanto che questa area

è stata scelta come target della stimolazione magnetica transcranica, nuova

strategia terapeutica nel trattamento della depressione farmacoresistente di

cui tratterà più approfonditamente il capitolo 4.

Le aree cerebrali che si ipotizza siano implicate nella neurobiologia

della depressione maggiore sono: la corteccia prefrontale dorsolaterale e

mediale, il sistema limbico, la corteccia cingolata anteriore dorsale e

ventrale, la corteccia orbito-frontale, l’insula, il tronco encefalico, il

cervelletto e il giro temporale superiore. La rilevazione di così numerose

aree potrebbe trovare spiegazione in un’alterazione molecolare neuronale

condivisa, in una disfunzione di un centro di controllo delle regioni

implicate nella regolazione umorale, come ad esempio le proiezioni

monoaminergiche tronco-encefaliche, oppure nel fatto che differenti sintomi

implichino il coinvolgimento di diverse aree con varia intensità.

Quest’ultima teoria spiegherebbe finalmente la polimorfa presentazione

neurobiologica del disturbo, anche se, ad oggi, il collegamento tra un

sintomo e la disfunzione di una specifica area cerebrale è ancora lontano

dall’essere dimostrato.

Diverse aree corticali, sotto-corticali e tronco-encefaliche hanno

presentato un’alterata attivazione funzionale del cervello depresso. Una

meta-analisi ha rilevato una scarsa sovrapposizione di paradigmi

sperimentali tra le diverse metodiche di indagine, e come spesso vi siano

differenze significative nel modo in cui varie regioni risultano disfunzionanti.

Ad esempio in letteratura, la lateralità sinistra di ipo-attivazione in studi

resting-state non è stata sempre confermata, come anche la ridotta attivazione

bilaterale delle cortecce prefrontali (Fitzgerald, Laird, Maller, & Daskalakis,

2008).

L’eterogeneità dei dati acquisiti dalle rilevazioni funzionali e la

difficoltà nell’identificare singole modifiche neurochimiche o strutturali in

un primo momento è stata fatta risalire a fattori differenti: la variabile

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gravità del quadro, l’effetto delle terapie, le diverse metodologie di

acquisizione e di analisi. Ma, questa eterogeneità ha infine portato i

ricercatori a supporre che la neuro-patogenesi sia collegata a squilibri nelle

connessioni funzionali, più che all’anomala attività di singole regioni

(Pandya et al., 2012). Secondo questa tesi, anomalie regionali potrebbero

essere addirittura assenti così come assente sarebbe una specifica area

disfunzionante, ma la causa risalirebbe nel modo in cui una regione

influenza il funzionamento dell’altra aprendo la strada a nuove ricerche su

aree primarie e secondarie d’interesse.

A tal proposito, dato che anche lo studio presentato al capitolo

successivo tratta questo fenomeno, è opportuno definire puntualmente la

connettività funzionale tra regioni cerebrali, intesa come “correlazione

temporale tra eventi neurofisiologici spazialmente distanti” (Friston, Frith, Liddle, &

Frackowiak, 1993). È infatti interessante notare che i disturbi dell’umore si

sono dimostrati maggiormente associati ad anomalie della connettività

piuttosto che a irregolarità all’interno di singole aree cerebrali.

La misurazione della connettività funzionale è eseguita attraverso la

valutazione della correlazione tra le attività di diverse aree cerebrali in studi

di risonanza magnetica funzionale, durante l’esecuzione di un compito

sperimentale o in stato di riposo (resting-state). L’analisi del resting-state è la

più utilizzata per indagini funzionali a scopo clinico: in questo caso si

esaminano le fluttuazioni a bassa frequenza pesate sul segnale BOLD, dette

low-frequency BOLD weighted temporal fluctuations (LFBF), espressione di

un diverso livello di flusso ematico e di ossigenazione: le aree connesse

funzionalmente mostrano un analogo andamento temporale delle

fluttuazioni a bassa frequenza. Lo studio delle correlazioni tra segnali LFBF

ha permesso di indagare la connettività funzionale di aree cerebrali

conosciute per essere coinvolte nella neurobiologia dei disturbi affettivi.

Molti studi fMRI utilizzano dei compiti specifici (task) da far

compiere al paziente durante l’acquisizione per evidenziare le aree attivate

nell’esecuzione e nella preparazione delle risposte; gli studi resting-state

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permettono di individuare le anomalie di ‘comunicazione’ all’interno di

network cerebrali, evidenziando le modifiche indotte dalle patologie. Inoltre,

i parametri del segnale fMRI resting-state e della connettività possono

permettere la comparazione tra differenti gruppi di soggetti o lo studio

specifico delle modifiche indotte dalle patologie, mediante la correlazione

con scale o indicatori diagnostici dei disturbi psichiatrici (Wang, Hermens,

Hickie, & Lagopoulos, 2012).

L’utilizzo negli studi di imaging funzionale di campioni

numericamente piccoli di pazienti depressi, dal relativo potere statistico, ha

sottolineato la necessità di meta-analisi, al fine di identificare aree cerebrali

che si attivano in maniera consistente tra i diversi studi, in risposta ad un

determinato intervento. Diversi modelli sono stati proposti, ma ciascun

candidato presenta dei limiti, potendo spiegare solo parzialmente i sintomi

tipici del paziente depresso (Graham et al., 2013).

Meta-analisi recenti hanno confermato diverse regioni di interesse

nella neurobiologia depressiva, mentre sono citati come alterati network di

connettività funzionale nel cervello depresso il Default-mode network

(DMN)4 e il circuito di regolazione dell’umore (MRC)5, con un’importante

coinvolgimento dell’amigdala tra le regioni limbiche (Anand et al., 2005a).

4 Default mode network: rete di aree cerebrali che comprendono la

corteccia cingolata posteriore, il precuneo, la ACC ventrale, la mPFC, la

dlPFC, la corteccia parietale inferiore, il giro temporale superiore, la

corteccia orbitofrontale e il giro para-ippocampale (Raichle et al., 2001). I

segnali BOLD di queste aree spazialmente distanti sono risultati

temporalmente correlati configurando un network di connettività

maggiormente attivato durante il resting-state e che riduce la sua attivazione

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31

Uno studio PET del 1999 fu il primo a dimostrare, in soggetti con

tono dell’umore depresso, un’associazione tra un’incrementata attività

limbica e una ridotta attività prefrontale. Il decremento della connettività

cortico-limbica fu confermato al momento della remissione, quando

entrambe le aree mostravano attività opposte rispetto a prima e, quindi, una

loro interazione funzionale permanente, indipendente dalle modifiche

umorali in entrambe le direzioni (Mayberg et al., 1999).

Tra le aree interessate dalla patologia c’è anche la corteccia cingolata

anteriore (ACC). Questa è suddivisa in due regioni, ventrale (o subgenuale) e

dorsale; la regione dorsale è coinvolta in aspetti cognitivi dell’emozione

mentre la ventrale ospita i collegamenti con le aree limbiche, con le aree

corticali implicate nella regolazione del tono umorale e anche con

l’ipotalamo. Elemento che, dato il ruolo dell’ipotalamo di controllo sugli assi

durante compiti finalizzati ad uno scopo. Rappresenta un’attività neurale di

base che si ‘accende’ quando il soggetto riflette su se stesso ed è ‘sganciato’

dagli stimoli ambientali, tanto che una sua attivazione persistente durante

un task è stata associata alla ruminazione tipica del paziente depresso. Uno

studio ne indica un coinvolgimento nella fobia sociale, avendo identificato

una minore disattivazione in aree dedicate all’elaborazione interiore anche

in questo disturbo (Gentili et al., 2009; Sliz & Hayley, 2012).

5 MRC o Mood Regulating circuit: circuito che risulta costituito da

amigdala, globo pallido e talamo mediale tra le regioni limbiche a maggiore

attivazione e corteccia prefrontale dorsolaterale e anteromediale, insieme

alla corteccia cingolata anteriore, tra le aree corticali.

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di risposta allo stress, è di particolare interesse nello studio di questa

patologia.

Uno studio condotto su soggetti depressi ha rilevato una ridotta

coerenza di fase tra i segnali LFBF delle aree limbiche e della corteccia

cingolata anteriore. L’ipotesi dell’alterata connettività tra queste regioni

nella neurobiologia depressiva è stata confermata dall’osservazione di

riduzione nella correlazione tra segnali LFBF, non solo in acquisizioni

resting-state, ma anche durante task di visione di immagini con diverso

significato (neutrali, positive e negative) in confronto ai controlli sani (Anand

et al., 2005a). Nei soggetti sani, l’aumentata attività delle aree corticali di

controllo è stata rilevata solo a seguito dell’esposizione a immagini negative

e potrebbe essere espressione di una necessità di regolare l’attività limbica in

risposta a stimoli negativi. Da qui l’ipotesi che il mancato incremento di

attività della corteccia cingolata anteriore, in risposta ad una maggiore

attivazione limbica – e quindi una minore connettività cortico-limbica -

rappresenti un marker caratteristico della depressione (Anand et al., 2005a).

Determinati task hanno, dunque, fatto supporre un minore controllo della

corteccia cingolata anteriore sulle aree limbiche determinanti il tono

umorale (Anand et al., 2005a). Da notare, inoltre, che è stata identificata

un’aumentata correlazione dei segnali LFBF di queste regioni a seguito di

terapia antidepressiva (Anand et al., 2005b). Si ritiene, infatti, che gli

antidepressivi esercitino un’azione combinata sia sulla connettività

funzionale cortico-limbica, che sull’attivazione limbica in risposta a stimoli

negativi. Studi fMRI condotti prima e dopo sei settimane di terapia con

sertralina hanno identificato un incremento di connettività resting-state tra

la ACC e regioni limbiche, le quali sono risultate meno attivate in risposta a

stimoli negativi rispetto ad immagini neutre. L’aumento di coerenza di fase

nel LFBF tra ACC e regioni limbiche (amigdala, pallido striato e talamo

mediale) potrebbe, quindi, associarsi a una migliore regolazione delle regioni

limbiche responsabili del processo emozionale da parte delle regioni corticali

di controllo (Anand, Li, Wang, Gardner, & Lowe, 2007).

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33

Inoltre, è stato ipotizzato anche un ruolo dell’area subgenuale della

corteccia cingolata anteriore a seguito di studi fMRI su soggetti adolescenti,

nei quali si è vista una ridotta connettività all’interno di una rete neurale

estesa, appunto, dalla subgenuale dell’ACC a numerose aree cerebrali, tra

cui l’insula. Proprio la ridotta connettività con la corteccia insulare, dato il

suo coinvolgimento nel processo emotivo, sarebbe coinvolta nella

disfunzione affettiva del paziente (Cullen et al., 2009).

Uno studio del 2007 ha descritto un’anomala connettività resting-

state a livello del default-mode network (DMN), ovvero una rete composta

da un insieme di regioni corticali e sottocorticali, tra cui la corteccia

cingolata anteriore, che si attiva quando i soggetti non compiono nessun

task specifico: restano svegli e in condizione di riposo. Questo studio fu il

primo a evidenziare un ruolo esclusivo della corteccia cingolata subgenuale

nel network dei soggetti depressi rispetto ai controlli sani. Inoltre,

l’osservazione di un’associazione tra l’aumento di durata dell’episodio

depressivo e la connettività funzionale subgenuale nel network, ha fatto

supporre un potenziale utilizzo di studi resting-state come elemento

predittivo di refrattarietà (Greicius et al., 2007). Va rilevato, però, come

spesso reperti discordanti sullo stato di connettività della DMN siano stati

evidenziati persino all’interno dello stesso gruppo d’interesse. In ogni caso,

l’aumentata attivazione a riposo di aree comprese nel DMN, con relatività

inabilità alla down-regulation, potrebbe rappresentare la base neurale della

ruminazione negativa (Dutta, McKie, & Deakin, 2014) .6

6 Le ruminazioni mentali o idee coatte sono pensieri ciclici dal

contenuto fisso su una visione negativa di sé stessi e di eventi passati

(Cassano & Tundo, 2006). Nel paziente depresso potrebbe essere

espressione di un’incapacità nel rendersi emotivamente distaccati al

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Tra le aree limbiche, invece, l’amigdala pare essere rilevante, dato il

suo ruolo nelle risposte neurali a stimoli negativi (Anand et al., 2005a). Si è

infatti riscontrata, in diversi studi, un’iperattività limbica che causerebbe

un’intensificata elaborazione di stimoli, con preferenza verso quelli negativi

(Sliz & Hayley, 2012). E di recente, il rilievo di anormalità cerebellari ha

portato a supporre un suo potenziale ruolo nell’elaborazione cognitiva di

stimoli negativi (Wang et al., 2012).

Una meta-analisi di studi fMRI caratterizzati dall’uso di stimoli

negativi ha infatti evidenziato nei soggetti depressi, rispetto ai controlli, una

maggiore risposta nella corteccia cingolata anteriore dorsale, nell’insula, nel

giro temporale superiore e nell’amigdala (Hamilton et al., 2012). Dunque, i

tre modelli ritenuti importanti nella neurobiologia depressiva possiamo

elencare: il modello cortico-limbico, il cortico-striatale e il default-mode

network (DMN). Le regioni sensibili alla terapia sono state trovate a livello

delle aree prefrontali laterali, facendo supporre l’intervento di un marker

biologico di risposta nella disregolazione. Una disfunzione a livello di aree

sotto-corticali non ha invece mostrato alcuna sensibilità alla terapia, ma ha

anzi fatto ipotizzare che questo parametro sia un possibile fattore di

vulnerabilità (Graham et al., 2013).

Molte discipline mediche prevedono l’utilizzo routinario di test

diagnostici basati su immagini e quindi su misurazioni oggettive dell’organo

di interesse. Allo stato attuale, nessun procedimento basato su una

dettagliata conoscenza biologica del fenomeno è oggi utilizzabile per una

scelta terapeutica decisa a far fronte a un episodio depressivo. Lo scopo di

creare nuove procedure per la gestione di un episodio depressivo rende

necessaria la misurazione diretta del funzionamento cerebrale, con l’intento

momento del richiamo di memorie autobiografiche negative (Lener &

Iosifescu, 2015).

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di identificare dei pattern pre-trattamento che siano utilizzabili come

predittori di remissione. Uno stesso approccio a lungo-termine potrebbe

identificare chi è più esposto verso una ricaduta durante la terapia, e quindi

endofenotipi predittori di vulnerabilità. In questo contesto si inserisce,

quindi, il nostro protocollo che prevede proprio la caratterizzazione di

endofenotipi tra i suoi endpoint primari (v. capitolo 5).

Lo sviluppo di futuri indirizzi di ricerca potrebbe rendere uno

psichiatra in grado di decidere un strategia somatica, farmacologica o

psicoterapeutica sulla base di misure oggettive del funzionamento cerebrale

del paziente (Mayberg, 2007). Il miglioramento della definizione fenotipica

grazie al neuroimaging, attraverso misure di attivazione o connettività,

potrebbe non solo migliorare la valutazione di nuove strategie terapeutiche

individualizzate, ma permettere persino una nuova classificazione dei

disturbi dell’umore (Hasler & Northoff, 2011).

In conclusione, la possibilità di un utilizzo dei correlati

neurobiologici rsfMRI7 come strumenti clinici di diagnosi ha accresciuto

l’interesse nei confronti dell’imaging funzionale. Studi con fMRI, che si

avvale del segnale BOLD come misura indiretta dell’attività neurale (v.

Appendice A), possono essere inseriti in paradigmi di ricerca innovativi, allo

scopo di testare le attivazioni anomale durante compiti salienti dal punto di

7 Sigla che identifica gli studi fMRI in resting-state. Per resting-state si

indica un’attività neurale regionale in cui il soggetto è sveglio, ma senza

essere attivamente coinvolto in nessun compito che preveda attenzione o

un’azione finalizzata. Studi resting-state permettono di identificare aree con

attività neurali spontanee e a bassa frequenza correlate tra di loro (Dutta et

al., 2014).

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vista emotivo o cognitivo, oppure in studi resting-state atti a valutare

modifiche nella connettività funzionale associate all’episodio depressivo.

Dato il ruolo centrale della disregolazione emotiva nel paziente depresso, la

maggior parte degli studi fMRI studiano l’attivazione di network deputati

all’elaborazione emotiva durante risposte comportamentali a stimoli

affettivamente connotati. Il disturbo dell’umore, potrebbe quindi essere

spiegato dal deficit di controllo cognitivo sull’elaborazione emotiva -

esemplificato da un’ipoattivazione corticale e da una contemporanea

iperattivazione limbica - così come da un’alterazione nella decodifica e

percezione degli stimoli esterni- associata al deficit di un circuito tra aree

prefrontali e sottocorticali. Nonostante la depressione non sembri trovare la

sua base neuroanatomica in nessuna specifica regione cerebrale e le sempre

maggiori conferme sul coinvolgimento di un’alterata connettività funzionale

nella sua neuropatogenesi, la stimolazione di specifiche aree si è dimostrata

efficace e ha aperto nuove strade nel trattamento della depressione farmaco-

resistente. Lo studio dei meccanismi di azione delle nuove terapie stimolanti

potrebbe, quindi, offrire nuovi indizi sulla localizzazione cerebrale del

disturbo depressivo.

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37

2. Connettività nei pazienti depressi: dati da

uno studio fMRI

2.1. Background e scopo dello studio

Come evidenziato nel capitolo precedente, la depressione sembra

correlare maggiormente con anomalie della connettività piuttosto che con

differenze a livello di singole aree cerebrali. Per questo motivo in questo

capitolo mostrerò i dati di un esperimento, con controllo, di connettività

funzionale su pazienti depressi, coordinato dal prof. Claudio Gentili. Questo

è stato realizzato come studio pilota allo scopo di identificare le aree in cui

sono presenti correlazioni tra fenomeni funzionali e depressione. Queste

regioni possono essere in seguito utilizzate per la valutazione neurobiologica

dei pazienti depressi – in particolare farmacoresistenti (v. capitolo 3) – e per lo

studio delle eventuali modificazioni indotte dai trattamenti che esporrò nei

capitoli successivi.

2.2. Materiali e metodi

I pazienti depressi e i soggetti sani utilizzati per questo studio pilota

sono stati reclutati presso l’Università di Babes-Bolyai di Cluj-Napoca,

Romania. I soggetti sono stati acquisiti con uno scanner MR a 3 Tesla

(Siemens Skyra) ed una bobina da 20 canali. Tutti i partecipanti sono stati

valutati e hanno firmato un consenso informato approvato dal comitato

etico locale. Abbiamo reclutato 43 soggetti (13M, 30F) con età media di 28

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anni (SD = 5). I software utilizzati sono stati AFNI

(http://afni.nimh.nih.gov/afni) SUMA

(http://afni.nimh.nih.gov/afni/suma) entrambi sviluppati dal National

Institute of Health (NIH) e R-Studio (https://www.rstudio.com/).

I soggetti hanno svolto un task che prevedeva la somministrazione

passiva di stimoli visivi appartenenti a due categorie: facce e immagini

scrambled. Le facce erano di sei tipologie suddivisibili in tre categorie:

neutrali, positive (ad esempio felici) e negative (ad esempio tristi, arrabbiate,

disgustate e spaventose). Questo task aveva come obiettivo raccogliere una

misura implicita del processo di elaborazione emotiva. Gli stimoli scrambled

di controllo sono stati ottenuti utilizzando le stesse facce impiegate nel task e

dopo randomizzazione della posizione di ogni pixel.

Lo studio è stato suddiviso in 4 run, ciascuno dei quali prevedeva la

presentazione di 40 stimoli (36 facce e 4 immagini scrambled) per 1.5

secondi, seguita da un intervallo di 5.5 secondi. Le sequenze funzionali

(Gradient Echo Echo Planar Images) da 130 time-point sono state acquisite

con un TR di 3 secondi (TE = 40ms) e una matrice di 94 per 94. Il volume è

costituito da 18 fette assiali, con uno spessore di 2.5 millimetri. La durata di

ogni run è stata di 6 minuti e 30 secondi. In aggiunta, sono state acquisite

immagini anatomiche (T1 3D) con un voxel isotropico da 1 millimetro, per

una visualizzazione dettagliata delle strutture anatomiche cerebrali dei

soggetti.

I soggetti sono stati tutti valutati con la scala Beck Depression

Inventory (BDI-II) utilizzata anche per il protocollo sperimentale oggetto del

capitolo 5. La scala di Beck costituisce uno dei test psicometrici più utilizzati

per la valutazione dei sintomi depressivi: è un questionario di

autovalutazione in cui sono compresi 21 gruppi di frasi; il paziente deve

quindi segnare quale frase all’interno di ogni gruppo meglio definisce la sua

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condizione delle ultime due settimane.8 Le voci del questionario indagano i

sintomi depressivi più comuni come la tristezza o la perdita di interesse e

piacere. La somma dei punteggi ottenuti permette di calcolare uno scoring

che suddivide in depressione lieve, moderata, grave o assenza di contenuti

depressivi.

I dati fMRI sono stati sottoposti alle comuni procedure di

preprocessing per ridurre gli artefatti di acquisizione e derivanti dal

movimento del soggetto; in seguito, i pattern di risposta ad ogni classe di

stimoli (facce e immagini scrambled) sono state stimate mediante analisi di

regressione multipla. Per queste fasi dell’analisi sono stati utilizzati i

programmi del pacchetto software AFNI (Cox, 1996). I dati dei singoli

soggetti sono stati trasformati nello spazio standard secondo l’atlante di

Talairach (Talairach & Tournoux, 1988).

Abbiamo quindi selezionato i 10 soggetti con il punteggio BDI più

basso (Media = 0.8., SD = 0.67) e i 10 con punteggio BDI più alto (Media =

24, SD = 8.40) e abbiamo valutato le differenze tra le attivazioni durante la

visione dei volti rispetto alle immagini scrambled in questi due gruppi di

soggetti.

In seguito abbiamo deciso di utilizzare le aree significative a questo

contrasto come regione di interesse (ROI) per uno studio di connettività

funzionale. Scopo di questa analisi è valutare se il livello di sintomi

depressivi misurato con la BDI modifica la connettività tra la regione di

interesse e il resto del cervello.

Le ROI sono state selezionate utilizzando una soglia statistica (p <

0.01) per la comparazione del gruppo depressi vs. sani nel contrasto facce vs.

scrambled. Per l’analisi di connettività il segnale BOLD è stato filtrato per

8 Le domande somministrate sono riportate integralmente

nell’Appendice B.

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eliminare il rumore dovuto all’effetto del compito di percezione dei volti, del

movimento e del cosiddetto rumore fisiologico (battito cardiaco e respiro).

La serie temporale così ottenuta in ogni soggetto è stata quindi utilizzata in

una analisi di correlazione per ottenere mappe di connettività funzionale tra

la ROI e tutto il cervello (analisi brainwise) di ciascun individuo. Le mappe di

ciascun individuo sono state poi inserite in un’analisi di regressione lineare

per valutare se il punteggio individuale della BDI avesse un effetto sull’indice

di connettività funzionale brainwise.

La connettività funzionale è l’associazione indiretta tra due o più

serie temporali. Lo scopo dell’analisi di connettività è quello di valutare la

struttura delle relazioni tra regioni cerebrali deducendo quali regioni si co-

attivino. L’interazione tra aree cerebrali dipende da condizioni sperimentali

e misure di comportamento. Il metodo di analisi della connettività utilizzato

nella nostra ricerca è l’analisi seed-based ovvero la cross-correlazione è

calcolata tra la serie temporale di una regione predeterminata (regione seed)

e tutti gli altri voxel.

2.3. Risultati

L’unica ROI significativa (p < 0.01, 34 voxel sopravvissuti al

clustering) per il contrasto indicato è stata riscontrata a livello dell’insula

destra (Fig.1). Nel nostro studio la regione seed è quindi rappresentata

dall’insula destra, mentre l’analisi della connettività (269 voxel sopravvissuti

al clustering) ha permesso di trovare un’altra area la cui attività si correla

con quella nella seed che è risultata essere il giro fusiforme sinistro (Fig.2).

L’analisi di connettività dimostra come la connettività tra insula e

giro fusiforme dipenda dal livello di depressione misurato con la BDI. In

particolare, all’aumentare del punteggio BDI la connettività tra insula e giro

fusiforme si riduce (Fig.3), presentando una correlazione negativa con un

effect size consistente (r = - 0.30).

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Tabella 1: risultati dello studio.

Fig.1: rappresentazione inflated dell’encefalo; in rosso la ROI significativa (p < 0.01) nel

confronto depressi vs. sani, identificata a livello dell’insula destra.

Oggetto delle analisi

Dimensione del cluster

Area anatomica

Coordinate x

Talairach y

z

Significatività statistica

ROI

34 voxel

Insula dx.

-36.2

-18.8

-11.2

p < 0.01

Connettività

269 voxel

Fusiforme sx.

-48.8

52.2

18.8

p < 0.01

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Fig.2: imaging di connettività che evidenzia il cluster correlato al seed, indentificato a

livello del giro fusiforme; a) rappresentazione sagittale b) rappresentazione assiale c)

rappresentazione coronale.

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Fig.3: grafico che rappresenta la correlazione tra score BDI e z-score della connettività

funzionale tra insula destra e giro fusiforme sinistro.

2.4. Discussione

Al fine di discutere i nostri risultati, descriverò di seguito lo stato

dell’arte sul ruolo di insula e giro fusiforme, traccerò quindi un’ipotesi sulle

possibili spiegazioni alla base delle evidenze appena riportate.

L’insula, o lobo dell’insula, è un’area della corteccia cerebrale situata

profondamente alla scissura laterale di Silvio tra il lobo frontale e il lobo

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temporale. Presenta una suddivisone in tre diverse regioni: anteriore

ventrale, anteriore dorsale e posteriore; ciascuna suddivisone sembra

cooperare con aree funzionalmente differenti e studi recenti identificano

nella regione anteriore dorsale uno snodo centrale nel funzionamento

cerebrale umano. Un recente studio condotto su modelli animali ha

dimostrato un’estrema variabilità morfologica dell’insula tra i mammiferi;

tale riscontro suggerisce una possibile pressione selettiva su questa struttura

corticale durante l’evoluzione (Butti & Hof, 2010).

Si tratta di una zona funzionalmente composita, in passato

caratterizzata per il suo ruolo nella regolazione autonomica e nella

consapevolezza enterocettiva9, oggi considerata alla stregua di una ‘regione

limbica’ e indagata per il coinvolgimento nell’esperienza emozionale

soggettiva, soprattutto per quanto riguarda la regione anteriore (Uddin,

Kinnison, Pessoa, & Anderson, 2014). Recenti linee di ricerca si sono

concentrate sul ruolo di questa area nell’esperienza emozionale generata

dall’elaborato di informazioni interiori. A questo proposito, studi di

neuroimaging funzionale hanno testimoniato un’attivazione della regione

anteriore destra durante compiti riguardanti l’interocezione e l’elaborazione

consapevole di sentimenti negativi e positivi (Craig, 2002). L’aumento di

segnale fMRI a livello dell’ insula anteriore destra, durante compiti di

interocezione, correla non solo con la consapevolezza dei processi corporei,

ma anche con l’intensità delle misure di esperienza emozionale soggettiva.

Queste correlazioni hanno portato a proporre, quindi, che l’emozione sia il

9 Il termine interocezione si riferisce alla percezione di sensazioni del

corpo che ci danno il senso della nostra condizione fisica e costituiscono la

base degli stati d’animo e delle emozioni.

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modo in cui la rappresentazione insulare delle funzioni corporee giunge alla

consapevolezza dell’individuo. La relazione tra attività dell’insula anteriore

destra, consapevolezza enterocettiva ed esperienza emozionale potrebbe,

quindi, essere la base neuroanatomica della rappresentazione consapevole

del sé. L’ipotesi di un ruolo insulare destro nel mediare l’attenzione viscerale

e somatica è rafforzata dall’evidenza di correlazione tra volume di sostanza

grigia locale e i punteggi ai questionari analitici della consapevolezza

somatica (Critchley, Wiens, Rotshtein, Ohman, & Dolan, 2004).

L’insula rappresenta la prima stazione cerebrale recettiva delle

informazioni che riflettono modifiche di attività del sistema autonomo e una

sua lesione determina deficit multipli di varia natura che ne hanno, dunque,

fatto supporre un’attività di coordinamento tra informazioni interne ed

esterne, mediata dalla consapevolezza emotiva (Ibanez, Gleichgerrcht, &

Manes, 2010).

Studi fMRI resting-state hanno confermato la suddivisione

dell’insula in due aree funzionali implicate in due differenti network neurali.

La prima rete collega l’insula anteriore con la corteccia frontale media e

inferiore, la cingolata anteriore rostrale e la temporo-parietale ed è implicata

in funzioni limbiche; la seconda connessione comprende l’insula posteriore

assieme ad aree tempo-occipitali, motorie e corteccia cingolata posteriore:

risulta coinvolta nell’integrazione sensitivo-motoria. L’analisi dell’alterata

connettività di questi network può quindi rappresentare un elemento

predittivo o un segno specifico di disturbi psichiatrici (Cauda et al., 2011).

Una maggiore ruminazione disadattativa è stata associata a una

ridotta attivazione del network fronto-insulare destro durante il dominio

DMN in pazienti depressi in resting-state. Questa rilevazione potrebbe

essere alla base del significativo self-focus in questi pazienti resi incapaci di

sganciarsi dal loro ambiente interno e portati a processarne negativamente

le informazioni tratte (Hamilton et al., 2011). Anche uno studio recente su

pazienti depressi non trattati sembra confermare un ruolo della ridotta

connettività tra insula e circuito fronto-limbico nell’alterata elaborazione

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emozionale: la ridotta comunicazione tra queste aree sarebbe alla base

dell’incapacità di analizzare emozioni negative conducendo ad una

persistente attenzione verso pensieri dai connotati negativi (Guo et al.,

2015).

Uno studio condotto su pazienti depressi non medicalizzati ha poi

evidenziato poi una ridotta connettività tra insula sinistra e amigdala in un

circuito di controllo dello stato affettivo; anche questa disfunzione cortico-

limbica sarebbe collegata alla persistenza del pensiero su aspetti dalla

valenza negativa oltre che ad un’alterata regolazione del tono umorale (Veer

et al., 2010).

Riguardo agli esiti neurobiologici indotti da terapia, nella

valutazione di pazienti sottoposti a LF-TMS, si è evidenziata una riduzione

del rCBF10 insulare a seguito di stimolazione della corteccia prefrontale

dorso-laterale destra. Il dato di riduzione del flusso regionale nell’insula

anteriore correlava con l’efficacia terapeutica della metodica (Kito,

Hasegawa, & Koga, 2011). Nei pazienti non sensibili alla TMS si sono

notati livelli più bassi di reuptake del glucosio anche a livello dell’insula

bilateralmente, oltre al ridotto metabolismo delle aree prefrontali e cingolate

sinistre riscontrato anche nei pazienti sensibili al trattamento. Questo dato

di ipometabolismo, in associazione ad una riduzione del volume di sostanza

grigia rilevato a livello delle zone corticali prefrontali e del cingolo anteriore,

sembra suggerire come differenti anomalie del circuito fronto-limbico-

temporale discriminino i pazienti nella loro risposta alla terapia (Paillere

Martinot et al., 2011).

La tendenza dei pazienti depressi a un bias verso stimoli di valenza

negativa porta ad un disturbo nel processo di elaborazione emotiva,

considerata la loro inabilità nel distogliere l’attenzione da questi stessi

10 rCBF: regional cerebral blood flow.

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stimoli. A conferma di ciò, pazienti depressi hanno mostrato lo stesso

pattern di attivazione neurale sia in attesa di immagini dalla valenza

emotiva non nota, sia nel caso sia stata anticipata loro la prossima visione di

immagini dai connotati negativi. Differenze significative tra pazienti depressi

e controlli, sono state riscontrate a livello dello schema di attivazione delle

regioni prefrontali e insulari con una correlazione tra livello di attivazione e

score diagnostico del paziente. Questo tipo di risultato ha portato a

desumere una caratteristica “tendenza pessimistica” nei pazienti depressi, in

altre parole, una loro attitudine negativa nei confronti di stimoli dalla

valenza emotiva non conosciuta (Herwig et al., 2010).

L’attivazione insulare è stata dimostrata sia quando un soggetto

prova disgusto sia quando osservi espressioni facciali che lo esprimono

(Wicker et al., 2003). L’individuazione, in pazienti depressi, di una

compromissione nel riconoscimento di facce esprimenti disgusto ha, quindi,

portato a supporre un suo ruolo come correlato neurobiologico chiave del

disturbo depressivo. A conferma di ciò, la ridotta accuratezza discriminativa

nel riconoscimento è stata dimostrata correlare con il diminuito volume di

sostanza grigia insulare anteriore, reperto riscontrato in numerosi altri studi

sulla depressione. Dato interessante è stato l’evidenza di una significativa

correlazione negativa tra lo scoring della BDI-II11 e il ridotto volume della

sostanza grigia insulare bilaterale e della corteccia cingolata anteriore. La

correlazione tra la gravità dei sintomi depressivi e il volume corticale

insulare rappresenta un fattore dall’importante significato clinico e permette

di includere l’insula tra i futuri target terapeutici. (Sprengelmeyer et al.,

2011). In ogni caso, un successivo studio, sempre su pazienti con depressione

11 Beck Depressory Inventory II: versione del questionario di

autovalutazione a 21 item (v. capitolo 2 e Appendice B).

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48

maggiore, ha confermato l’incrementata attivazione insulare durante la

visione di espressioni di disgusto (Surguladze et al., 2010).

La percezione delle espressioni facciali è cruciale nella

comunicazione visiva dell’uomo: ne condiziona, infatti, il comportamento e

lo stato affettivo. Modelli cognitivi della depressione suggeriscono che questo

disturbo sia caratterizzato da una elaborazione condizionata dell’

espressione facciale dell’emozione primaria, tanto che espressioni neutre,

positive o ambigue vengono spesso percepite come tristi se confrontate alle

risposte dei controlli sani (Bourke, Douglas, & Porter, 2010). Questi bias

cognitivi risultano particolarmente evidenti nella valutazione delle emozioni

facciali, al punto che l’utilizzo di task con osservazione di facce risulta oggi

prezioso nella ricerca sulla neurobiologia depressiva.

Una review di studi di neuroimaging, volta a sintetizzare le evidenze

empiriche sui correlati neurali nella visione di espressioni facciali, ha

tracciato un modello di alterata attivazione in pazienti depressi. L’analisi di

attivazione ha indicato una disfunzione, all’interno di una rete implicata

nello studio delle facce, congruente al tono umorale; si è evidenziata

un’iperattivazione in risposta a stimoli negativi ed una ipoattivazione di

fronte a stimoli positivi, soprattutto a livello di insula, area delle facce del

fusiforme, amigdala, giro para-ippocampale e putamen.

La visione di espressioni facciali porta a un’attivazione di uno stesso

network, sia nei soggetti sani sia nei depressi, che include aree visive e aree

maggiormente implicate nell’elaborazione emotiva dello stimolo. Nel

confronto tra pazienti depressi e soggetti sani, l’insula, in particolare, ha

mostrato un’iperattivazione in caso di visione di facce tristi e, al contrario,

una ridotta attivazione alla vista di facce dall’espressione felice.

Risultati analoghi sono stati riscontrati in relazione al giro fusiforme

che in ricerche recenti ha mostrato una capacità elaborativa congruente

all’umore (Stuhrmann, Suslow, & Dannlowski, 2011).

La circonvoluzione fusiforme o giro fusiforme è una parte mediale

del lobo temporale in cui è stata riscontrata un’area, definita ‘area fusiforme

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delle facce’ (Face Fusiform Area, FFA), implicata nella percezione e

categorizzazione dei visi. Successive ricerche hanno però visto come

quest’area sia in realtà implicata anche nella percezione delle emozioni negli

stimoli facciali. Quindi, l’area fusiforme per le facce (FFA) non si limiterebbe alla

codifica dei tratti e dell’identità faciale, ma sarebbe anche sensibile alle

espressioni facciali dell’emozione primaria (Stuhrmann et al., 2011).

Questo modulo della corteccia extrastriata, localizzato grazie a un

esperimento di fMRI condotto nel 1997, ha mostrato una significativa

attivazione durante la visione passiva delle facce rispetto a quella di oggetti

comuni. Questo risultato è stato confermato, una volta identificata l’area

come ROI, mediante una serie di test successivi basati sulla specificità

facciale che hanno testimoniato la selettività di quest’area del fusiforme nella

percezione delle facce.

Il pattern di attivazione in risposta ad un’ampia gamma di stimoli

facciali ha confermato come l’area sia sensibile alla conformazione generale

della faccia piuttosto che ad una caratteristica particolare del viso

(Kanwisher, McDermott, & Chun, 1997).

Ulteriori ricerche hanno poi dimostrato come la percezione delle

facce sia mediata da un sistema neurale dotato di un nucleo centrale e di un

sistema esteso; il nucleo è rappresentato dalle regioni temporo-occipitali

della corteccia visiva extra-striata e tra queste l’area delle facce del fusiforme

risulta coinvolta nella rappresentazione dei caratteri fissi, mentre il giro

temporale superiore in quella dei caratteri variabili. Le regioni appartenenti

al sistema esteso, individuate soprattutto in regioni prefrontali e limbiche,

possono essere reclutate per estrarre il significato dell’espressione facciale

(Haxby, Hoffman, & Gobbini, 2000). Studi ulteriori condotti con l’utilizzo di

risonanza magnetica funzionale hanno dimostrato che la sola percezione di

una faccia, indipendentemente dal tipo di stimolo e di task, attiva sempre un

network esteso di regioni corticali; ma anche che, nel caso di facce dalla

valenza emotiva, si ha un segnale di attivazione non solo più ampio, ma

anche di maggiore intensità (Ishai, Schmidt, & Boesiger, 2005). Lo studio

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della connettività effettiva - in altre parole: l’influenza direzionale che

un’area esercita sull’altra - ha poi predetto una connessione ventrale tra il

nucleo centrale e il sistema esteso durante la visione delle facce e mostrato

che il giro fusiforme esercita un’influenza dominante sul sistema esteso.

Uno studio ha rilevato un’aumentata connettività tra fusiforme e

amigdala in risposta a facce che manifestavano emozioni; l’utilizzo di questo

task ha quindi sottolineato come si possano verificare alterazioni dinamiche

nella connettività visivo-limbica in risposta a stimoli specifici (Fairhall &

Ishai, 2007).

Come detto più volte, i modelli più recenti di neuropatogenesi

assumono che i sintomi depressivi possano derivare da un’anomala

comunicazione tra diverse aree cerebrali più che da anomalie in singole

regioni. Una riduzione della ‘comunicazione’ tra l’amigdala e diverse aree

limbiche (tra cui l’insula), aree temporali, corteccia dorsolaterale prefrontale

e corteccia cingolata anteriore sopragenuale è stata evidenziata nei pochi

studi di connettività condotti fino ad oggi in pazienti depressi, durante la

visione di espressioni facciali. Una ridotta connettività con la corteccia

cingolata sopragenuale sembrerebbe correlare con la gravità della

sintomatologia. Altri studi hanno invece evidenziato un aumento di

connettività tra l’amigdala e la corteccia cingolata anteriore subgenuale

(Stuhrmann et al., 2011).

Uno studio recente si è proposto di analizzare l’attivazione e la

connettività dell’insula, durante la visione di facce tristi contro facce felici, in

pazienti depressi adolescenti confrontati con soggetti sani; contrariamente a

quanto da noi trovato, il gruppo dei pazienti mostrava un’attivazione

significativamente minore nella visione delle facce tristi contro facce felici.

Inoltre, la corteccia insulare sinistra scelta come regione seed, presentava una

maggiore connettività funzionale con il giro fusiforme destro, il giro frontale

medio sinistro, amigdala destra e giro para-ippocampale destro nei ragazzi

depressi rispetto ai soggetti sani. I ragazzi che presentavano una minore

attivazione nel cluster a livello dell’insula anteriore e media nel confronto

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facce tristi/felici avevano livelli più elevati di BDI-II score. Considerato il

ruolo dell’insula nell’integrazione tra stimoli corporei ed elaborazioni

emotive, i risultati di questo studio ne comprovano un’alterazione nella

depressione maggiore e suggeriscono l’uso di questa regione come

potenziale futuro target delle nuove modalità terapeutiche (Henje Blom et

al., 2015). Questa divergenza di risultati con il nostro studio, che potrebbe

forse trovare spiegazione nella differente età del campione, apre comunque

interessanti interrogativi.

2.5. Conclusioni

Ricapitolando, nello studio di connettività funzionale tra depressi e

sani, abbiamo trovato una correlazione tra insula destra e giro fusiforme

sinistro che indica un loro coinvolgimento nel task utilizzato. La rassegna

della letteratura riportata sopra, evidenzia una maggiore attivazione

dell’insula durante la visione di immagini negative, o dalla valenza emotiva

non nota, in soggetti depressi rispetto ai controlli sani. Il giro fusiforme si

attiva invece in risposta alla codifica dei tratti facciali, anche se ricerche

recenti hanno evidenziato un suo possibile ruolo anche nell’elaborazione

delle espressioni. La visione di facce comporta, quindi, l’attivazione di un

network che comprende sia l’insula sia il giro fusiforme (“area delle facce”).

E nei soggetti depressi è stata dimostrata un’alterata attivazione di questo

network.

I risultati del nostro studio di connettività funzionale tra queste due

aree sembrano confermare queste ipotesi e potrebbero trovare spiegazione

nella ridotta comunicazione tra aree appartenenti a uno stesso network.

Tanto più il paziente risulta compromesso sul piano cognitivo, elemento

riportato da un aumento dello score BDI, quanto più la ‘comunicazione’ tra

queste aree cerebrali si riduce.

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In ogni caso, i nostri dati evidenziano una forte relazione tra

connettività funzionale e livelli di depressione. Utilizzeremo quanto

osservato, insieme ad altri protocolli per valutare se le variazioni indotte

dalle terapie fisiche del nostro studio inducono modificazioni della

connettività funzionale. La nostra ipotesi è che il processo di riduzione della

sintomatologia depressiva conseguente alle terapie con TMS e tDCS si

accompagni ad un ripristino della normale ‘comunicazione’ tra queste

regioni cerebrali, negativamente correlata con la patologia.

Page 53: Lo studio della risposta neurobiologica ai trattamenti con ... · Lo studio della risposta neurobiologica ai trattamenti con rTMS e tDCS, revisione della letteratura, presentazione

53

3. La depressione farmacoresistente

3.1. Epidemiologia e definizione

La depressione farmacoresistente è un fenomeno clinico comune nei

pazienti trattati per un disturbo depressivo maggiore, e rappresenta una vera

e propria sfida per la pratica psichiatrica. Nonostante le numerose scelte per

la terapia della depressione maggiore, si stima che fino a due terzi dei

pazienti non vada incontro a remissione dopo una terapia di prima linea e

fino a un terzo possa fallire nel raggiungere una completa remissione della

sintomatologia clinica dopo numerosi tentativi. I dati ottenuti con il

programma STAR*D12 hanno dimostrato come i tassi di remissione si

riducano significativamente dopo il fallimento di due terapie (Dunner et al.,

2006; Shelton, Osuntokun, Heinloth, & Corya, 2010). La prevalenza

stimata della farmacoresistenza, tra tutti i pazienti con depressione

maggiore, può variare dal 10% al 30% e fino ad un terzo di questi sembra

non rispondere ad alcun trattamento (Al-Harbi, 2012). Alcuni studi

riportano percentuali nettamente superiori, con valori possibili di

12 Sequenced Treatment Alternatives to Relieve Depression: programma

condotto dal NIMH per esaminare i trattamenti disponibili nella

depressione e stimare se qualche terapia fosse migliore di altre, in caso di

una o più terapie precedenti fallimentari (Sinyor, Schaffer, & Levitt, 2010).

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farmacoresistenza fino al 60%; questa variabilità nella prevalenza sembra

essere dovuta al tipo di definizione scelta. Un episodio di depressione

resistente presenta dei costi elevati non solo in termini economici, data la

maggiore possibilità di ospedalizzazione o di prescrizioni, ma anche sociali,

provocando una ridotta produttività lavorativa e un maggiore assenteismo

(Berlim, Tovar-Perdomo, & Fleck, 2015).

In particolare, la depressione è definita resistente o refrattaria

qualora almeno due cicli con antidepressivi di differenti classi

farmacologiche (adeguati in termini di durata, dosaggio e compliance del

paziente) falliscano nel determinare un significativo miglioramento clinico

(Berlim & Turecki, 2007a). Questa risulta essere, ad oggi, la definizione

maggiormente condivisa. Altri studi prospettici mostrano che la depressione

dovrebbe essere considerata farmacoresistente dopo almeno sei settimane di

terapia ("Treatment-resistant depression: No panacea, many uncertainties.

Adverse effects are a major factor in treatment choice," 2011).

Ad oggi non c’è tuttavia consenso nello stabilire i parametri per

classificare una depressione come refrattaria al trattamento, e si nota una

mancanza non solo di criteri operativi consensuali, ma anche di studi

prospettici che valutino l’affidabilità e la validità predittiva delle molteplici

definizioni presenti (Berlim & Turecki, 2007b). L’adeguatezza della terapia

in termini di dosaggio, durata e aderenza del paziente alla stessa dovrebbe,

perciò, essere definita in maniera condivisa, allo scopo di tracciare delle

linee guida; è stato infatti dimostrato che molti dei casi di resistenza sono in

realtà da far risalire ad un trattamento precedente inadeguato che comporta

episodi protratti e una parvenza di ‘pseudoresistenza’ (Sackeim, 2001).

In una review volta a definirne l’andamento clinico è stato visto

come fino all’80% dei pazienti sottoposti a multiple terapie presenti una

ricaduta entro un anno dalla remissione e solo il 40% vada incontro a

guarigione entro dieci anni se affetto da una forma più protratta (Fekadu et

al., 2009). Questi dati suggeriscono quindi la necessità di strategie migliori

sia per trattare, che per prevenire, gli episodi depressivi.

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55

Il primo passo di fronte ad un paziente che presenti

farmacoresistenza consiste nel confermare la diagnosi primitiva, valutare la

presenza di eventuali comorbidità psichiatriche o mediche e verificare

l’adeguatezza dei trattamenti somministrati sia attraverso un attento esame

della cartella clinica che attraverso l’intervista del paziente e la sua

valutazione. Più del 10% dei pazienti diagnosticati come depressi

soddisfano, in realtà, i criteri per un disturbo bipolare e necessitano di un

differente piano terapeutico. Va considerata, inoltre, la possibilità di una

pseudo-resistenza e, quindi, di una gestione che preveda un aumento del

dosaggio o della durata della terapia attuale o precedente (Holtzheimer,

2010).

La valutazione della qualità della vita, in uno studio condotto su

un’ampia popolazione di pazienti farmacoresistenti, ha dimostrato come la

maggior parte con gradi di resistenza severi continui ad avere un ridotto

funzionamento sociale e una sintomatologia residua significativa durante la

terapia (Dunner et al., 2006).

Una volta valutati i sintomi residui e il loro impatto sulla qualità di vita del

paziente sarebbe necessario un attento esame clinico per definire eventuali

fattori responsabili della persistenza del disturbo.

Diversi sistemi di stadiazione sulla base del grado di resistenza sono

stati proposti e tra questi, il modello europeo (“European staging method”,

1999), definisce come farmacoresistente una depressione che fallisca nel

rispondere a due trattamenti antidepressivi, a dosaggio adeguato,

somministrati per un periodo dalle sei alle otto settimane. La definizione di

un range minimo di terapia, per quanto possa rendere più rigorosa la

definizione clinica, è stata scelta in maniera arbitraria. Questo modello

differenzia però i ‘non reattivi’, ovvero coloro che presentano mancata

risposta ad un singolo trial con farmaco di qualunque classe o a terapia

elettroconvulsivante, dai soggetti ‘resistenti ad almeno due trattamenti’,

classificati sulla base del numero di prove tentate (TRD 1-5). La definizione

di ‘terapia resistente cronica’ è riservata a un episodio prolungatosi per di

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più di un anno nonostante interventi terapeutici adeguati. L’applicazione

clinica di un sistema di stadiazione, inserito all’interno di un’accurata

anamnesi, potrebbe aiutare a identificare i soggetti pseudo-resistenti, ovvero

coloro che ad una più attenta analisi dimostrano aver ricevuto una terapia

inadeguata in termini di dosaggio, durata e/o compliance. Si parla di

terapia inadeguata anche nel momento in cui, a causa di anomalie

farmacocinetiche o interazioni farmaceutiche, il farmaco non raggiunga

livelli sierici adeguati durante il trattamento (Berlim et al., 2015).

3.2. Fattori di rischio

L’individuazione dei principali fattori di rischio per lo sviluppo di

resistenza rappresenta un obiettivo chiave non solo per un miglioramento

nella selezione terapeutica, ma anche per la possibilità di una diagnosi più

precoce. A questo proposito, una review del 2015 li ha suddivisi in clinici e

biologici (Bennabi et al., 2015). Tra i fattori di rischio clinici sono stati

identificati: la comorbidità con disturbi d’ansia, un attuale rischio suicidario,

un’insorgenza precoce del primo episodio, una mancata risposta al primo

antidepressivo ricevuto, la bipolarità, la presenza di caratteri melanconici,

l’alto tasso di ricorrenza e una mancata remissione completa a seguito

dell’episodio precedente. La comorbidità con disturbo di panico, disturbo

ossessivo-compulsivo e fobia sociale rappresenta uno dei fattori

maggiormente implicati nell’aumento di resistenza (Berlim et al., 2015). La

stessa mancata caratterizzazione del disturbo depressivo, ovvero la

definizione del sottotipo specifico - ad esempio una forma psicotica o atipica

- rappresenta una potenziale causa di resistenza laddove si fallisca nella

selezione di farmaci più specifici o nella scelta di farmacoterapia concorrente

(Al-Harbi, 2012).

Tra i fattori biologici si annoverano i ridotti livelli di

neurotrasmissione gabaergica a livello della corteccia cingolata anteriore e

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della corteccia occipitale oltre a polimorfismi a carico del gene del BDNF.

La predisposizione genetica a un rapido metabolismo farmacologico

potrebbe spiegare il mancato raggiungimento di livelli terapeutici efficaci

dell’antidepressivo e supporre un futuro ruolo di test genetici nello screening

della farmacoresistenza. Allo stato attuale, questi fattori di rischio

potrebbero essere ricercati nella comune pratica clinica con lo scopo di

ridurre il peso che la depressione esercita a livello di salute pubblica (Al-

Harbi, 2012; Bennabi et al., 2015; Berlim et al., 2015).

Pazienti con depressione refrattaria hanno mostrato una connettività

‘interrotta’ in aree differenti da quelle dei pazienti responsivi. In una ricerca

volta ad analizzare le differenze tra i due gruppi, sono state scelte, come

regioni seed, aree riscontrate in letteratura come coinvolte nella patogenesi

dei disturbi dell’umore. In particolare, nei pazienti sensibili al trattamento, si

è vista una ridotta connettività in diffuse aree cerebrali mentre, nei pazienti

refrattari, risultava un’alterata ‘comunicazione’ soprattutto a livello di

circuiti talamo-corticali (Lui et al., 2011).

3.3. Opzioni terapeutiche

La depressione farmacoresistente rappresenta un disturbo

disabilitante e una vera sfida sia per i pazienti sia per i clinici. Diverse

opzioni terapeutiche, farmacologiche e non, possono essere considerate

quando una terapia adeguata in termini di durata e dosaggi non ha prodotto

i risultati attesi e il paziente sia stato classificato come resistente. I progressi

nelle conoscenze neurobiologiche della depressione hanno permesso lo

sviluppo di nuovi approcci nella gestione del ‘fenomeno di resistenza’, tra

cui tecniche di stimolazione cerebrale focale e farmaci con nuovi

meccanismi di azione.

Ad oggi non è stata sviluppata una strategia standard nella gestione

dei pazienti farmacoresistenti e alcuni principi necessitano di essere valutati

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per un approccio corretto: fornire una diagnosi accurata, considerare il

sottotipo depressivo, verificare possibili comorbidità mediche o

psichiatriche, monitorare eventuali eventi avversi (Al-Harbi, 2012).

Le possibili strategie, a seguito di una prima risposta terapeutica

parziale o assente, possono essere: incrementare il dosaggio o la durata del

primo farmaco, passare a un secondo antidepressivo (terapia di switch),

associare in combinazione un antidepressivo di un’altra classe o un secondo

agente come un antipsicotico atipico o il litio o una terapia cognitivo-

comportamentale (terapia di aggiunta) o, infine, passare ad un’altra

modalità terapeutica. Svariati trial comparativi mostrano che il litio

potrebbe avere effetto a livello di questi quadri, ma non c’è ancora evidenza

che introdurre questo farmaco nello schema terapeutico migliori i tassi di

remissione (Preston & Shelton, 2013; "Treatment-resistant depression: No

panacea, many uncertainties. Adverse effects are a major factor in treatment

choice," 2011).

La terapia farmacologica della depressione farmacoresistente può

essere suddivisa in due categorie principali: una terapia combinata o una

terapia di switch.

Il cambio con un farmaco di un’altra classe, o con un diverso

farmaco della stessa, garantisce minori effetti collaterali e minori costi, ma

allo stesso tempo la discontinuità potrebbe comportare la perdita delle

parziali risposte ottenute con il primo trial. Inoltre, è stato visto come le

monoterapie di switch abbiano scarsa efficacia nel garantire la remissione.

La terapia combinata rappresenta una scelta comune e tra i farmaci

accettati, oltre all’associazione di due farmaci antidepressivi, si hanno: il

litio, gli ormoni tiroidei, il buspirone e gli antipsicotici atipici come

l’aripripazolo o l’olanzapina. La combinazione tra due antidepressivi più

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frequentemente utilizzata consiste nell’aggiunta del bupropione13 ad un

SSRI o SNRI. La scelta di una terapia combinata permette di innestare un

secondo farmaco su dei miglioramenti eventualmente già ottenuti, ma

aumenta il rischio di eventi avversi da poli-farmacoterapia. La ricerca di

nuovi antidepressivi si è spostata dal campo dei farmaci attivi a livello del

sistema monoaminergico verso farmaci con target sui sistemi

glutamatergico, oppioide e colinergico (Papakostas & Ionescu, 2015)

Tra le strategie terapeutiche non farmacologiche nel trattamento

della depressione farmacoresistente si hanno, tra le altre: la psicoterapia, la

terapia elettroconvulsivante, la stimolazione magnetica transcranica (rTMS)

e la stimolazione a corrente continua (tDCS). Le ultime due saranno oggetto

del capitolo seguente e rappresentano due tecniche il cui obiettivo è

modulare l’attività cerebrale sia localmente che attraverso un network esteso

di connessioni.

La psicoterapia risulta essere efficace, e uno studio ha dimostrato

come l’utilizzo di una terapia cognitivo-comportamentale in associazione al

farmaco antidepressivo, o da sola, presenti tassi di remissione sovrapponibili

a quelli osservati con l’aggiunta di un secondo antidepressivo o con lo switch

ad un’altra classe. L’aggiunta di un secondo farmaco è risultata più rapida

dell’associazione con la terapia cognitiva, ma quest’ultima si è dimostrata

maggiormente tollerata (Thase et al., 2007). Tuttavia, i suoi limiti sono legati

alle capacità e all’esperienza del terapeuta (Holtzheimer, 2010).

La terapia elettroconvulsivante è stata introdotta nel 1934 ed è

tutt’ora utilizzata nella pratica psichiatrica come la terapia più efficace nelle

forme farmacoresistenti, con tasso di risposta del 50-70% (Al-Harbi, 2012).

Le sue indicazioni nei disturbi dell’umore includono: pazienti non responsivi

13 Antidepressivo di seconda generazione, modulatore adrenergico,

inibitore del reuptake della noradrenalina e della dopamina.

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o intolleranti a farmaci, necessità di una risposta rapida e alto rischio

suicidario. Il suo meccanismo di azione, però, è solo in parte compreso.

Studi osservazionali hanno identificato modifiche nell’espressione dei

recettori serotoninergici che potrebbero indicare un’aumentata

sensibilizzazione, mentre studi PET dimostrano una ridistribuzione nel

flusso cerebrale a seguito della terapia. La stimolazione sembra, inoltre,

ridurre l’inibizione a livello dei neuroni dopaminergici e noradrenergici

aumentando di conseguenza la secrezione di questi trasmettitori da parte

della substantia nigra e del locus coeruleus.

Questa metodica prevede l’induzione elettrica di una crisi epilettica

generalizzata mediante elettrodi posti sullo scalpo e la somministrazione di

anestetici generali (De Raedt, Vanderhasselt, & Baeken, 2014). Gli effetti

collaterali più comuni comprendono l’amnesia, soprattutto retrograda, e

altre disfunzioni cognitive che possono essere persistenti. Soprattutto una

scarica bitemporale si è associata a perdite di memoria e deficit di

apprendimento. La gravità degli effetti collaterali cognitivi sembra essere

connessa ad aspetti tecnici di frequenza e numero degli stimoli, al tipo di

anestesia utilizzata oltre alle caratteristiche specifiche del paziente. Inoltre,

nonostante la sua dimostrata efficacia in acuto, i tassi di recidiva sono molto

elevati, soprattutto nel primo mese, anche se la terapia è continuata a

intervalli di tempo più ampi o è inserita in un corretto management (Cretaz,

Duarte Gigante, & Lafer, 2015; Holtzheimer, 2010; Shelton et al., 2010).

Nonostante i progressi nella caratterizzazione neurobiologica della

depressione, la forma farmacoresistente rimane un problema clinico

rilevante che manca ancora oggi di una definizione condivisa. Le linee di

ricerca futura saranno chiamate a validare empiricamente i criteri utilizzati

nella sua stadiazione, oltre a valutare il ruolo della comorbidità come

potenziale fattore predittivo di risposta al trattamento. L’evidenza che

quanto più a lungo il paziente è trattato senza risultati, quanto peggiore

tenda a esserne la prognosi a lungo termine, pone l’accento sulla necessità

degli psichiatri di elementi scientificamente basati, che indirizzino una

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corretta scelta terapeutica (Berlim et al., 2015; Shelton et al., 2010). La

conoscenza delle basi neurobiologiche della farmacoresistenza nella

depressione è, ad oggi, un interessante campo di ricerca ed è in questo

ambito che si inserisce il protocollo presentato nel capitolo 5.

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4. Nuove prospettive terapeutiche: rTMS e

tDCS

4.1. La TMS: sviluppo e utilizzo

La stimolazione magnetica transcranica rappresenta una metodica di

stimolazione cerebrale focale. Ha sollevato l’interesse sull’utilizzo di nuove

tecniche di neuromodulazione non invasive nel trattamento della

depressione maggiore, specialmente in caso di farmacoresistenza.

Rappresenta la più popolare tra le nuove tecniche di stimolazione dato il suo

effetto antidepressivo, prodotto senza necessità di craniotomia e senza

induzione di scariche epilettiche, oltre ad un profilo favorevole in termini di

effetti avversi e di mancata interazione con farmaci (Berlim, Van den Eynde,

& Daskalakis, 2013c; George, Taylor, & Short, 2013). La ricerca in questo

campo risulta oggi molto attiva, nell’ottica di trovare risposte alle sfide

attuali che la gestione della depressione presenta: un alto tasso di farmaco-

resistenza e una scarsa aderenza alle terapie (Russowsky Brunoni, Shiozawa,

& Fregni, 2015). Il management di un paziente depresso risulta complesso,

non solo per gli approcci terapeutici spesso inadeguati nel mantenere i

benefici iniziali, ma anche per la possibile scarsa tollerabilità e successivo

abbondono dello schema terapeutico. La TMS appare quindi come una

risposta atta a colmare le carenze terapeutiche in questo campo della

psichiatria (Janicak & Dokucu, 2015).

Uno dei primi studi sull’utilizzo della rTMS come modalità

terapeutica ha previsto una stimolazione a livello della corteccia prefrontale

dorsolaterale sinistra, essendo noto il coinvolgimento di quest’area nella

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fisiopatologia depressiva, e ha dimostrato un significativo miglioramento

degli score HDRS e BQ14 nei soggetti stimolati rispetto ai controlli sham o

alle stimolazioni di altre aree. I risultati ottenuti, uniti all’assenza di evidenti

effetti indesiderati, hanno portato a pensare a questa tecnica indolore come

a una futura e sicura alternativa da inserire nella pratica clinica di pazienti

refrattari, rispetto alla scelta di tecniche maggiormente invasive come la

terapia elettroconvulsivante (Padberg & Moller, 2003; Pascual-Leone,

Rubio, Pallardo, & Catala, 1996). Elemento che evidenzia la necessità che

gli psichiatri ne comprendano le ragioni utilizzo, il meccanismo di

funzionamento e il modo in cui è possibile inserirla nella comune pratica

clinica.

Negli anni, infatti, sempre più trial controllati hanno dimostrato

l’efficacia di questa terapia fisica, se comparata alla condizione sham,

nell’indurre effetti antidepressivi. A questo proposito, uno studio del 2010,

che prevedeva una stimolazione della corteccia prefrontale dorso-laterale

sinistra (stimolo al 120% della soglia motoria, 10HZ di frequenza, 3000

stimoli/sessione) in pazienti senza concomitante terapia antidepressiva, ha

dimostrato una significativa risposta clinica con tasso di remissione del

14,1% tra i pazienti sottoposti a rTMS attiva rispetto al 5% dei pazienti

sham (George et al., 2010). Allo stesso modo, una meta-analisi condotta

sull’utilizzo della TMS come monoterapia in pazienti farmaco-resistenti ha

confermato una superiorità della stimolazione rispetto alla procedura sham

sui tre parametri di outcome considerati: scoring HDRS, tasso di risposta,

tasso di remissione. I pazienti sottoposti alla rTMS attiva mostravano una

riduzione di quattro punti superiore dello score HDRS, una risposta tre

volte più probabile insieme ad una probabilità di remissione cinque volte

14 HDRS: Hamilton Depression Rating Scale (v. capitolo 2 e Appendice

B); BQ: Beck Questionnaire.

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superiore in confronto ai soggetti sham. La rTMS ha quindi dimostrato

efficacia sia nella depressione che nella forma farmacoresistente, ma la

rilevanza clinica di questo fenomeno deve ancora essere definita con

certezza (Lepping et al., 2014).

Inoltre, questa tecnica, potrebbe rappresentare un’opzione nella

terapia di associazione, in caso di mancata remissione dopo uno schema di

prima linea con antidepressivi. La ricerca di terapie alternative deriva

dall’evidenza di una guarigione molto meno probabile in caso di soggetti

farmacoresistenti con sola terapia farmacologica in atto, e dall’idea che la

stimolazione possa potenziare l’efficacia del farmaco (Gaynes et al., 2014).

Su questo, una meta-analisi ha selezionato tutti i trial condotti con terapia

combinata farmacologica e HF-rTMS verificando un tasso di risposta

significativamente più alto rispetto ai pazienti sham al termine della fase di

associazione, ritrovando così nella stimolazione una promettente strategia

per accelerare la risposta clinica agli antidepressivi. Nessuna differenza

significativa, in questo caso, è stata ritrovata in termini di remissione

(Berlim, Van den Eynde, & Daskalakis, 2013b).

Ad ulteriore conferma di ciò, anche una meta-analisi più recente ha

verificato che i tassi di risposta e remissione in caso di terapia di associazione

sono significativamente più elevati della sola terapia farmacologica (46,6 %

contro il 22,1% dei soggetti sham), in caso di pazienti già farmaco-resistenti

(Liu, Zhang, Zhang, & Li, 2014). Studi recenti sostengono che circa 35-40%

di soggetti sotto terapia di associazione con antidepressivi mostra remissione

a seguito di stimolazione (George et al., 2013).

Se nelle prime meta-analisi vi era, però, ancora incertezza riguardo

l’utilizzo nella depressione maggiore, le meta-analisi più recenti hanno

confermato che una stimolazione ripetitiva a bassa frequenza è

significativamente efficace sui sintomi depressivi. Particolare attenzione deve

però essere posta alla durata del trattamento che risulta uno dei principali

fattori predittivi di risposta (Dell'osso et al., 2011).

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L’importanza del numero di sessioni è stata confermata laddove si è

visto che l’aggiunta di due settimane ulteriori di terapie ad un protocollo di

quattro settimane comportava un tasso di risposta due volte superiore, con

ulteriore significativa riduzione degli score in tre scale differenti, in pazienti

sottoposti a terapia attiva rispetto ai controlli (O'Reardon et al., 2007).

Nuovi studi si sono poi occupati di valutare la persistenza dell’effetto

antidepressivo a seguito di stimolazione, verificando che il 58% dei pazienti

in remissione rimanes tale a tre mesi di follow-up; tali risultati suggeriscono

che l’efficacia della TMS è comparabile a quella di altre terapie

farmacologiche e non (George et al., 2013).

Nel 2008, verificata l’efficacia della TMS su episodi depressivi acuti

in più di 35 trial clinici randomizzati controllati con sham, una stimolazione

giornaliera a livello della corteccia prefrontale sinistra, prolungata per

diverse settimane, è stata approvata dalla FDA come terapia

somministrabile in caso di depressione farmacoresistente più lieve. Ad oggi,

non vi è tuttavia certezza su quali siano i parametri più indicati di

stimolazione (Janicak & Dokucu, 2015) .

Anche il crescente numero di meta-analisi testimonia il crescente

utilizzo della metodica, e così anche la necessità di linee guida che ne

standardizzino la stimolazione (Zhang et al., 2015).

Le meta-analisi maturate nel corso degli anni hanno evidenziato,

inoltre, che sia nella depressione sia nella forma farmaco-resistente, la rTMS

presenta un effetto dalle dimensioni comparabili, sebbene meno solide, a

quello osservabile con la terapia elettroconvulsivante, e del tutto simile a

quello indotto dagli antidepressivi (Lee, Blumberger, Fitzgerald, Daskalakis,

& Levinson, 2012).

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66

4.2. Principi della TMS

La TMS come strumento clinico moderno si è sviluppata nel 1985.

In quell’anno Barker e colleghi, dopo lo sviluppo di un device focale

elettromagnetico in grado di indurre una corrente a livello midollare, ne

compresero la potenzialità come stimolazione cerebrale non invasiva in

grado di modulare le funzioni corticali e subcorticali. La TMS si avvale

dell’utilizzo di una bobina elettromagnetica che viene posizionata sullo

scalpo e genera un potente, ma breve, campo elettromagnetico che

attraversa la superficie cerebrale senza trovare ostacoli nella pelle, nei

muscoli o nelle ossa. Una volta a livello cerebrale il campo incontra i

neuroni, a livello dei quali genera una corrente elettrica. Perciò, lo stesso

campo magnetico generato da una corrente a livello della bobina è

nuovamente convertito in energia elettrica una volta attraversato lo scalpo.

Questo meccanismo spiega il perché la TMS possa essere definita

‘stimolazione elettrica senza elettrodi’. Infatti, secondo il principio

dell’induzione elettromagnetica, questa tecnica modifica l’ambiente elettrico

focale tramite lo sviluppo di campi magnetici generati nel passaggio rapido

di correnti alternate attraverso la bobina (Berlim, Van den Eynde, et al.,

2013c; George et al., 2013).

La stimolazione genera, dunque, delle correnti che depolarizzano i

neuroni. La forza del campo magnetico varia tra 1,5 e 3 Tesla limitandosi a

un’area focale e la stimolazione può avvenire attraverso singoli impulsi o in

brevi sequenze che in clinica raggiungono in genere qualche centinaia,

somministrati in un periodo che va da minuti a ore; in quest’ultimo caso si

parla di repetitive transcranial magnetic stimulation o rTMS. La corrente elettrica

applicata ripetutamente è in grado di modificare l’eccitabilità cerebrale e

può potenziarla o inibirla a seconda che la somministrazione degli stimoli

avvenga in maniera rapida (HF-rTMS) o lenta (LF-rTMS). La scelta di

stimolare a livello della corteccia prefrontale dorso-laterale (DLPFC) deriva

dall’evidenza, fornita da alcuni studi di imaging, riguardo un’ipoattivazione

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sinistra e un’iperattivazione destra nei soggetti depressi. Sulla base di questi

reperti neurobiologici di sbilanciamento destro-sinistro prefrontale, una

stimolazione eccitatoria sinistra ad alte frequenze (5-20 Hz, HF-rTMS), così

come una modulazione inibitoria destra a basse frequenze (minore o uguale

ad 1Hz, LF-rTMS), hanno mostrato una significativa efficacia

antidepressiva in diverse meta-analisi (Berlim, Van den Eynde, et al., 2013c;

Russowsky Brunoni et al., 2015; Zhang et al., 2015). Una stimolazione

giornaliera della corteccia prefrontale sinistra ha indotto tassi di remissione

fino a quattro volte superiori, se confrontata alla metodica sham (George et

al., 2010). Risultati comparabili sono stati ottenuti attraverso una

stimolazione destra a bassa frequenza che non si è dimostrata inferiore né

agli antidepressivi né alla stimolazione sinistra ad alta frequenza e sembra,

inoltre, essere maggiormente tollerata e avere proprietà anti-epilettiche

(Berlim, Van den Eynde, & Jeff Daskalakis, 2013). Le stimolazioni a diversa

frequenza hanno, dunque, dimostrato effetti modulari opposti in grado di

intervenire sul disequilibrio presente a livello prefrontale.

L’evidenza neurobiologica di disfunzioni prefrontali destro-sinistre

così come di un’eccitabilità corticale asimmetrica in soggetti depressi, ha

portato a suppore che un nuovo protocollo di stimolazione bilaterale possa

rappresentare un migliore strumento di neuromodulazione rispetto a un

approccio unilaterale. La stimolazione bilaterale, simultanea o sequenziale,

con target posti a livello delle prefrontali di sinistra e destra, utilizzando sia

alte sia basse frequenze rispettivamente, potrebbe generare un effetto

terapeutico sinergico mediante meccanismi complementari. Inoltre, alcuni

soggetti potrebbero avere una depressione responsiva a destra o a sinistra e

l’applicazione bilaterale potrebbe aumentarne le probabilità di remissione.

Due meta-analisi condotte recentemente non hanno, però, osservato alcuna

differenza significativa in termini di efficacia e accettabilità tra stimolazione

unilaterale e bilaterale, ma le due si sono dimostrate comparabili. La

stimolazione bilaterale non si è, ad oggi, dimostrata superiore.

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68

Da notare come la stimolazione TMS sia risultata un potenziale

aiuto nelle terapie di seconda o terza linea di depressi farmacoresistenti

mostrando gli stessi tassi di remissione delle terapie ‘add-on’ farmacologiche

(Berlim, Van den Eynde, et al., 2013c; Zhang et al., 2015).

Ricapitolando, i parametri che devono essere stabiliti al momento

della stimolazione riguardano il posizionamento della bobina, la valutazione

della soglia motoria15 per garantire un’intensità di stimolo che sia tra il 90%

e il 120% della soglia stessa, la durata del train di stimoli, la frequenza degli

stessi all’interno di questo periodo di tempo e quindi il numero di impulsi

per sessione. Dato che la sicurezza dei diversi parametri è stata compresa nel

tempo, i ricercatori hanno aumentato l’intensità e il numero degli stimoli

per sessione oltre alla durata della terapia (Janicak & Dokucu, 2015).

Un maggior impegno nella ricerca risulta necessario per stabilire

quali siano i parametri ottimali di stimolazione; una terapia condotta in un

breve lasso di tempo, un maggior numero di pulsazioni per seduta o una

stimolazione bilaterale sequenziale rappresentano potenziali metodi per

incrementare l’efficacia di un protocollo di stimolazione unilaterale (Lee et

al., 2012). I parametri dovrebbero comunque essere stabiliti sulla base del

paziente trattato. In particolare, il numero delle sessioni e l’intensità

15 La soglia motoria rappresenta l’intensità di campo magnetico più

bassa necessaria per produrre la contrazione del muscolo abduttore breve

del pollice o del primo interosseo dorsale a seguito di stimolazione a livello

della corteccia motoria primaria. La contrazione può essere valutata

visivamente o con elettromiografia. La determinazione della soglia permette

una personalizzazione dell’intensità dello stimolo con l’intento di

aumentarne l’efficacia (Janicak & Dokucu, 2015)

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dovrebbero essere calibrati sul grado di atrofia cerebrale; pazienti più

anziani con atrofia necessitano di un’intensità di stimolazione maggiore

(Dumas, Padovani, Richieri, & Lancon, 2012). Ad oggi, i parametri di

stimolazione associati con l’efficacia della terapia sembrano essere:

un’intensità superiore al 100% della soglia motoria, un numero di stimoli

per sessione superiore a 1000 e una durata superiore a 10 giorni (Dumas et

al., 2012).

4.3. Predittori di risposta, sicurezza della metodica e durata

degli effetti terapeutici

Data la continua crescita della prevalenza di farmacoresistenza

risulta di fondamentale importanza stabilire quali fattori neurobiologici,

relativi al paziente o alla terapia possano potenzialmente predire la risposta

al trattamento. Tra i fattori clinici predittori negativi di risposta sono stati

compresi: un’età più avanzata, un maggior grado di farmaco-resistenza, la

presenza di disturbi d’ansia e sintomi psicotici in comorbidità, una maggiore

durata dell’episodio depressivo corrente. L’utilizzo della rTMS potrebbe

essere di valido aiuto in soggetti anziani, in caso di possibile intolleranza alle

più alte dosi farmacologiche necessarie nella farmacoresistenza, o in

previsione di un rischio di interazione farmacologica, considerata la

frequente comorbidità con malattie croniche. L’età sembra, però, correlare

inversamente con la risposta terapeutica: soggetti di età superiore ai 60 anni

hanno mostrato riduzioni dello score di Hamilton inversamente

proporzionali all’età dopo un trial di breve durata con LF-rTMS (Pallanti et

al., 2012). Uno studio si è proposto di investigare l’influenza dei livelli

ormonali sulla risposta alla rTMS e ha constatato che i livelli di steroidi

ovarici e lo stato menopausale sono i principali determinati della risposta,

piuttosto che l’età. Se, infatti, la risposta tra maschi e femmine in

premenopausa era la stessa, nel caso di una condizione di menopausa questa

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si riduceva al minimo (Huang, Wei, Chou, & Su, 2008). Tra i fattori relativi

alla terapia, una mancata risposta alla terapia elettroconvulsivante o

l’utilizzo della TMS come terapia di associazione con essa o le

benzodiazepine hanno mostrato una minore risposta (Lee et al., 2012). Nella

ricerca di possibili fattori predittivi negativi neurobiologici, una review ha

identificato che sia un ridotto metabolismo a livello dell’insula anteriore

bilateralmente e della corteccia orbitofrontale sinistra, sia un ridotto volume

ippocampale e dell’amigdala correlano negativamente con la risposta alla

terapia (Silverstein et al., 2015) .

Tra i fattori predittivi positivi di risposta si elencano: una risposta

precedente alla stimolazione TMS; una terapia di associazione con

antidepressivi; un ridotto metabolismo basale a livello di regioni occipitali,

cerebellari, temporali e della corteccia cingolata anteriore; il flusso basale a

livello frontale oltre ad una breve durata dell’episodio. Uno studio ha

identificato nei disturbi del sonno, laddove spiccati, un significativo fattore

clinico predittivo di risposta alla TMS (Brakemeier, Luborzewski, Danker-

Hopfe, Kathmann, & Bajbouj, 2007). Un altro studio ha segnalato invece il

volume ippocampale sinistro come potenziale predittore neurologico

genere-specifico. Il volume pre-trattamento minore e il genere maschile si

sono, infatti, dimostrati correlati positivamente con il miglioramento dello

score BDI-II (Furtado et al., 2012). Anche la severità della sintomatologia

depressiva sembra influenzare l’outcome del paziente sotto trattamento,

tanto che forme lievi e moderate di depressione hanno mostrato dei tassi di

remissione significativamente più alti rispetto a pazienti con forme

clinicamente severe (Grammer et al., 2015).

Se gli studi futuri avranno successo nel determinare e validare

predittori individuali affidabili, questi potrebbero avere un importante

applicazione clinica nell’identificazione dei pazienti che beneficerebbero

dell’uso della rTMS. Alcuni marcatori potrebbero inoltre permettere una

personalizzazione del sito di stimolazione sulla base della disfunzione

sottostante (Silverstein et al., 2015).

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71

La TMS risulta essere una modalità terapeutica relativamente sicura

e solitamente ben tollerata. I principali effetti collaterali occorrono a livello

della sede di posizionamento del coil, possibile dolore o fastidio, ma tendono

comunque a risolversi rapidamente. Data la ricca innervazione dell’area,

l’interessamento di alcune branche può portare a lacrimazione o

contrazione dei muscoli orbicolari durante lo stimolo, ma anche in questo

caso gli effetti raramente persistono al termine del trattamento.

Fino al un 50% dei pazienti, può soffrire di cefalee tensive causate

dalla contrazione dei muscoli. Queste tendono, comunque, a calare di

numero e intensità con l’aumentare delle sessioni. L’unico serio potenziale

effetto collaterale risulta quindi essere il rischio epilettico, la cui incidenza si

stima intorno allo 0,1% durante un intero corso terapeutico. I pochi casi

riportati si sono verificati durante la stimolazione, sono andati incontro a

remissione con i comuni antiepilettici e non hanno lasciato alcun tipo di

complicanza neurologica a lungo termine. Per quanto detto, una storia di

epilessia risulta una controindicazione relativa, così come l’assunzione

contemporanea di farmaci che possono abbassare la soglia epilettogena

(Janicak & Dokucu, 2015).

La HF-rTMS, condotta per un breve periodo (5-15 sessioni), mostra

un effetto antidepressivo a breve termine, se non seguita da una terapia di

mantenimento. Tra i predittori di una maggiore durata dell’effetto

antidepressivo ci sono: una minore gravità del quadro, l’assenza di psicosi,

una condizione di farmacoresistenza e una terapia contemporanea con

antidepressivi (Kedzior, Reitz, Azorina, & Loo, 2015) - iniziata assieme o

portata avanti durante la stimolazione a pieno dosaggio. Dimostrata

l’efficacia come terapia in acuto, è stato visto che la persistenza dei benefici e

dei tassi di remissione avviene laddove nel follow-up il paziente assuma

antidepressivi in monoterapia. La TMS si è dimostrata efficace anche come

strategia intermittente di salvataggio per impedire un’imminente ricaduta

(Janicak et al., 2010).

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72

La TMS ha dimostrato un’efficace persistenza dei benefici acuti nel

follow-up a 6 e 12 mesi se inserita in un regime di terapia antidepressiva

continua e se utilizzata nuovamente in caso di ricorrenza dei sintomi

(Concerto et al., 2015; Dunner et al., 2014). Questo dato conferma il ruolo

della TMS come potenziale strumento all’interno di una terapia combinata.

4.4. Confronto tra TMS e TEC

L’utilizzo della terapia elettroconvulsiva (TEC), considerata la

terapia più efficace negli episodi più severi e nella depressione

farmacoresistente, è limitato da una serie di svantaggi tra cui: la scarsa

diffusione della tecnica in molte aree, gli effetti avversi sul piano cognitivo, i

tassi di ricaduta sostanziali dopo il successo in acuto, i rischi anestesiologici,

lo stigma sociale e gli alti costi. In questo contesto, la TMS può

rappresentare una soluzione per quei pazienti che non hanno risposto alle

prime due linee terapeutiche e non sono candidabili o si rifiutano di

sottoporsi a terapia elettroconvulsiva. La neuromodulazione potrebbe,

dunque, avere un ruolo sia in sostituzione che come terapia complementare

(Janicak & Dokucu, 2015). Una meta-analisi ha dimostrato che la terapia

elettroconvulsiva è superiore alla HF-rTMS solo in caso siano inclusi

depressi con caratteri psicotici (Ren et al., 2014). Uno studio pilota, invece,

ha riscontrato come la sostituzione con TMS della TEC, durante il corso del

trattamento, determini un minor impatto degli eventi avversi cognitivi, un

minor numero di sessioni necessarie e nessuna riduzione nell’efficacia

antidepressiva (Pridmore, 2000) In conclusione, dati preliminari ipotizzano

un ruolo della TMS come terapia sostitutiva di mantenimento dopo un trial

acuto di successo e un iniziale mantenimento con TEC. Pazienti che hanno

interrotto la TEC durante il follow-up e sono passati alla TMS hanno

mantenuto o migliorato il quadro clinico di risposta o remissione raggiunto

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con la terapia elettroconvulsiva (Cristancho, Helmer, Connolly, Cristancho,

& O'Reardon, 2013).

4.5. Correlati neurobiologici della TMS

Effetti biologici simili sono stati verificati in risposta alla

psicofarmacologia, alla ECT o alla TMS, come a voler sottolineare un

possibile comune meccanismo di azione nella depressione. L’ipotesi di un

disequilibrio tra aree prefrontali e limbiche ha portato alla scelta della

DLPFC come target di stimolazione mediante HF-rTMS. La

depolarizzazione dei neuroni corticali, indotta dalla HF-rtMS, provoca un

temporaneo aumento del flusso e del metabolismo nelle aree corticali poste

sotto al coil, e le connessioni inter-sinaptiche permettono, poi, un’estensione

ad altre aree corticali e subcorticali. Un esempio di questo fenomeno è una

modulazione del circuito mesolimbico a seguito di stimolazione della

DLPFC sinistra. Al contrario, la stimolazione degli interneuroni inibitori e la

conseguente iperpolarizzazione che ne deriva, per l’applicazione di una LF-

rTMS destra, può portare ad una ridotta attività neuronale, ma avere

comunque un’efficacia antidepressiva. L’efficacia nell’inibizione di alcuni

network sembra trovare spiegazione nella riduzione di flusso a livello

dell’amigdala. L’associazione tra ridotta attività prefrontale e iperattività

della ACC sembra rappresentare un’importante fattore predittivo di risposta

alla TMS, suggerendo una possibile e futura terapia personalizzata

“imaging-based” (Janicak & Dokucu, 2015). Uno studio sugli aspetti neurali

dell’efficacia della LFr-TMS ha dimostrato che questa correla con la

riduzione del flusso a livello della corteccia cingolata anteriore subgenuale e

della corteccia orbitofrontale. Questo risultato può trovar ragione

nell’induzione di un controllo su aree iperattivate in soggetti depressi (Kito

et al., 2011). Una serie di risultati concordi suggeriscono che l’effetto

terapeutico della metodica si eserciti attraverso la modifica dell’attivazione e

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del flusso a livello cerebrale in maniera dipendente alla frequenza della

stimolazione. Ancora molta ricerca è però necessaria per la definizione dei

meccanismi neurobiologici dell’efficacia antidepressiva (Noda et al., 2015).

4.6. tDCS: principi e studio dell’efficacia

La tDCS è una tecnica neuromodulatoria non convulsiva e non

invasiva che prevede il passaggio di una debole corrente elettrica attraverso

il cervello mediante il posizionamento di elettrodi sullo scalpo. Diversi studi

clinici suggeriscono un’efficacia clinica significativa di questa nuova strategia

terapeutica nella depressione maggiore farmacoresistente definendola come

una promettente, e non invasiva, terapia somatica (Russowsky Brunoni et

al., 2015). Il suo ruolo rispetto ad altre modalità deve ancora essere

determinato, prima che possa essere inserita nella routinaria pratica clinica,

ma potrebbe rappresentare un’alternativa ugualmente efficace e più

tollerata della TEC (Allan, Kalu, Sexton, & Ebmeier, 2012; Mondino et al.,

2014). La dimostrata efficacia della rTMS, unitamente al miglioramento

della metodologia, ha risollevato l’interesse verso la tDCS e una

stimolazione prefrontale dorsolaterale con questa tecnica è risultata

addirittura più promettente della rTMS stessa (Allan et al., 2012; Kalu,

Sexton, Loo, & Ebmeier, 2012; Nitsche, 2002).

Tramite questa tecnica i neuroni corticali non vengono sollecitati in

maniera eccessiva per cui non viene provocata una scarica parossistica (Zyss,

2010). La polarità dell’elettrodo determina il tipo di modulazione

dell’attività neuronale spontanea. La debole corrente utilizzata modifica il

potenziale di membrana a riposo e, mentre una stimolazione a livello

dell’anodo depolarizza e comporta un aumento della scarica neuronale, a

livello del catodo è indotta un’iperpolarizzazione di membrana e quindi una

riduzione dell’eccitabilità con inibizione dei neuroni sottostanti. Nei trial

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condotti su pazienti depressi, basandosi sull’ipotesi di una ridotta attività

prefrontale sinistra, l’anodo viene in genere posizionato a questo livello

mentre il catodo sulla prefrontale o sull’area sopraorbitaria controlaterale;

con questo schema ci si pone l’obiettivo di ristabilire l’equilibrio

nell’attivazione destro-sinistra a livello prefrontale. Il ruolo primario di una

modulazione sotto-soglia del potenziale di membrana neuronale è

confermato da un’inibizione dell’effetto depolarizzante a livello dell’anodo

nel caso si somministrino farmaci inibitori dei canali ionici voltaggio-

dipendenti, mentre nessun impatto è stato dimostrato sull’iperpolarizzazione

a livello del catodo (Nitsche, Boggio, Fregni, & Pascual-Leone, 2009).

Altri studi hanno dimostrato che anche l’applicazione transcranica

della corrente, mediante elettrodi sullo scalpo, è adatta nell’indurre

un’intensità sufficiente di corrente, così come testimoniato dal suo beneficio

clinico nella depressione. I progressi nella ricerca di parametri ottimali di

stimolazione hanno appurato che la sua efficacia deriva da un corretto

posizionamento degli elettrodi e che prolungando lo stimolo si può ottenere

una dilazione nelle modifiche di eccitabilità per almeno un’ora dal temine

della somministrazione. Gli effetti prolungati oltre lo stimolo sono stati

dimostrati dipendere da una modifica dell’efficacia a livello dei recettori

NMDA del glutammato.

I risultati funzionali focali sembrano invece limitarsi all’area

sottostante l’elettrodo, tanto che dislocarlo anche solo di qualche centimetro

ne altera significativamente l’efficacia; infatti, la forza del campo elettrico,

omogenea subito al di sotto dell’elettrodo, si riduce con la distanza da esso.

Nuovi trial saranno necessari per stabilire quali caratteristiche cliniche del

paziente possano influenzare la risposta a questa modulazione (Nitsche et

al., 2009).

Le conferme dal neuroimaging di una ridotta attività prefrontale

nella patogenesi depressiva hanno suscitato nuovamente interesse nel

possibile utilizzo di questa stimolazione focale come promettente terapia di

modifica neuroplastica e prolungata dell’eccitabilità. Gli stessi risultati

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ottenuti con la rTMS confermano, infatti, un’alterata funzionalità

prefrontale. Se i primi studi sulla tecnica sono stati condotti con target sulla

corteccia motoria, data la possibilità di verificarne l’eccitabilità indotta

tramite i potenziali evocati motori alla TMS, il suo impatto a livello

prefrontale è testimoniato da un’influenza sull’impulsività e sulle emozioni

scatenate dalla visione di immagini nei soggetti sani.

Il primo trial a doppio-cieco condotto nel 2006 ha verificato una

significativa riduzione degli score HDRS e BDI in pazienti depressi senza

terapia se confrontati ai controlli sham in cui la corrente era stata inattivata

dopo pochi secondi. Tale risultato si è ottenuto a seguito di una stimolazione

giornaliera prolungata per 5 sessioni di 20 minuti giornalieri ad 1mA. Il

catodo era stato posizionato in F3 e l’anodo a livello dell’area sopraorbitaria

controlaterale. Si è quindi ipotizzato come la depolarizzazione neuronale e

la conseguente potenziata eccitabilità della corteccia prefrontale dorso-

laterale sinistra avessero effetti antidepressivi. Il posizionamento del catodo a

livello della corteccia prefrontale destra può far ipotizzare come anche

l’induzione di una ridotta eccitabilità di quest’area contribuisca nel risultato

terapeutico finale (Fregni et al., 2006).

Una meta-analisi del 2012 ha identificato in un 20% la percentuale

media dei pazienti responsivi alla tDCS attiva, in un 8,5% la media dei

pazienti in remissione e in un 29% la percentuale di riduzione della severità.

La variabilità nei tassi riscontrati tra i vari studi potrebbe risalire a un

diverso grado di farmaco-resistenza, all’utilizzo o meno di terapia

antidepressiva contemporanea o alla diversità nei parametri di stimolazione.

Anche un’altra meta-analisi ha concluso che la tDCS attiva è superiore alla

stimolazione sham nel trattamento della depressione maggiore, ma ha

suggerito anche che lo scarso potere statistico dei trial e i variabili risultati

delle meta-analisi non hanno fornito un’evidenza sufficiente a proporne

l’inserimento nella pratica clinica giornaliera (Shiozawa et al., 2014). In

disaccordo con altre meta-analisi precedenti, una rassegna più recente ha

affermato che l’utilità clinica della tDCS è oggi incerta e non ci sono le basi

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sufficienti per affermare una sua superiorità rispetto al placebo. Questo

studio ne ha però identificato tassi di risposta superiore in caso di utilizzo in

monoterapia (Berlim, Van den Eynde, & Daskalakis, 2013a).

Nel caso della farmaco-resistenza, uno studio condotto con tDCS su

pazienti ospedalizzati e indirizzati alla ECT ha mostrato un miglioramento

sia della HDRS che della BDI con una persistenza dei benefici sull’umore a

quattro settimane dal termine della terapia. Il protocollo prevedeva l’anodo

posizionato a livello della prefrontale sinistra e una sessione di 20 minuti a

2mA, due volte al giorno per cinque giorni. I pazienti si sono detti soddisfatti

riportando un miglioramento del sonno e una maggiore attivazione, e non

hanno riferito di alcun effetto collaterale, mentre solo un paziente è stato

sottoposto successivamente a terapia elettroconvulsiva. Questo risultato ha

allargato le prospettive di utilizzo e di efficacia da forme lievi-moderate ad

episodi severi farmaco-resistenti, ipotizzando che due sessioni giornaliere

possono garantire un ulteriore vantaggio rispetto ad una singola (Ferrucci et

al., 2009).

Contrariamente a quanto appena esposto, però, in un successivo

studio la tDCS non ha dimostrato alcuna efficacia clinica significativa,

rispetto al placebo, se somministrata per sole due settimane. Si è quindi

notata una riduzione di emozioni negative e promozione di positive che

fanno supporre una possibile regolazione umorale della metodica. In ogni

caso, la discrepanza rispetto ad altri studi potrebbe essere collegata ad una

maggiore farmacoresistenza dei pazienti selezionati o ad altri fattori di

variabilità del campione (Palm et al., 2012).

4.7. Eventi avversi della tDCS

Gli effetti avversi sono lievi e comprendono cefalee, irritazione e

prurito della cute sotto gli elettrodi (riscontrata soprattutto in studi con

intensità di corrente 2mA). Lesioni della cute non si sono verificate nel caso

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in cui di utilizzo di una soluzione fisiologica per la preparazione

dell’elettrodo. Non sono stati riportati né episodi di epilessia né eventi

avversi cognitivi, ma si sono anzi verificati casi di miglioramento della

memoria procedurale a seguito della stimolazione attiva. La metodica non

determina alcun tipo di dolore rispetto alla TMS e, come per quest’ultima,

sono stati segnalati casi di ipomania transitoria indotta. Le controindicazioni

alla tDCS sono l’epilessia, impianti metallici o un eczema severo in

prossimità della sede dell’elettrodo. I protocolli attuali (1-2 mA, 20 minuti a

sessione e 25-35mm2 di superficie dell’elettrodo) devono essere considerati

sicuri dal momento che nessun effetto collaterale maggiore è stato segnalato

tra migliaia di pazienti in più laboratori nel mondo (Allan et al., 2012; Kalu

et al., 2012; Nitsche et al., 2009).

In conclusione, la tDCS rappresenta una modalità terapeutica ben

tollerata, non dolorosa, non invasiva, facile da somministrare e che

determina un aumento dell’eccitabilità neuronale prolungato.

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79

5. Sviluppo di un protocollo sperimentale

5.1. Endpoint

Come esposto già nel capitolo 3, la depressione resistente rappresenta un

problema clinico molto diffuso. Nuove terapie sono state studiate e proposte

tra cui la rTMS e la tDCS. Se l’efficacia e la sicurezza di queste terapie

fisiche sono ormai state accertate da numerosi trial clinici, ancora poco è

noto riguardo agli effetti neurobiologici conseguenti alla stimolazione e a

base del miglioramento clinico da queste indotto. Solo pochi studi fMRI –

ad esempio (Fitzgerald et al., 2007; Kito et al., 2011) - hanno indagato i

correlati neurobiologici della remissione clinica indotta da rTMS, mentre

nessuno studio in questo campo d’indagine è oggi disponibile per la tDCS.

Il nostro protocollo sperimentale si pone, quindi, l’obiettivo di studiare i

meccanismi di azione neurobiologici delle due nuove terapie di

neuromodulazione. Gli endpoint del nostro studio sono:

• Valutare ulteriormente, sia dal punto di vista clinico che

neurobiologico, l’efficacia in add-on delle due stimolazioni in pazienti

depressi farmacoresistenti, già dimostrata in letteratura da parte di

numerosi trial clinici – si vedano ad esempio (Ferrucci et al., 2009;

Lepping et al., 2014);

• Identificare mediante fMRI i marcatori di attività cerebrale

espressione di farmacoresistenza nel singolo soggetto e la modifica

indotta dal successo terapeutico;

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• Ricercare possibili predittori biologici di risposta nel singolo paziente

nell’ottica di una futura personalizzazione della terapia;

• Valutare i correlati neurobiologici della remissione;

• Studiare l’effetto sulle singole dimensioni psicopatologiche e sul

funzionamento del paziente, con stima delle alterazioni

neurobiologiche collegate alle specifiche dimensioni;

• Incrementare la letteratura sulla sicurezza delle TMS e tDCS e

definirne i possibile eventi avversi (vedi paragrafi 4.3. e 4.7.) in modo

da caratterizzarne meglio l’impiego clinico.

5.2. Attività sperimentali

I criteri di inclusione di un paziente nello studio saranno:

• Un’età compresa tra i 18 e 65 anni;

• Una diagnosi di depressione maggiore secondo i criteri del DSM-IV

TR e di farmacoresistenza, definita come la mancata risposta ad

almeno due terapie condotte in maniera adeguata in termini di

durata, dosaggio e compliance (vedi paragrafo 3.1);

• Utilizzo di contraccettivi in donne in età fertile - anche se studi sulla

TMS non hanno mostrano controindicazioni all’uso in gravidanza o

effetti negativi sul prodotto del concepimento, vedi (Eryilmaz et al.,

2015; Hizli Sayar et al., 2014).

I criteri di esclusione saranno invece:

• Sintomi psicotici valutabili attraverso l’intervista diagnostica;

• Rischio suicidario quantificabile attraverso la ‘Scale for Suicide

Ideation’ (v. sotto);

• Gravidanza in atto o allattamento

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• Comorbidità con patologie neurodegenerative o neurologiche,

come ad esempio l’epilessia che rappresenta una

controindicazione sia alla TMS che tDCS;

• Controindicazioni assolute o relative alla MRI (protesi ossee, clip

aneurismatiche, elettrodi, claustrofobia, gravidanza, ecc.)

valutabili nell’intervista preliminare;

• Rilevanti anomalie alla MRI;

• Controindicazioni assolute o relative alla tDCS o alla TMS,

come pacemaker, defibrillatori impiantabili o storia di epilessia.

Il paziente potrà uscire dallo studio se non soddisfa più i criteri di inclusione,

se ritira il proprio consenso informato o si riscontri un peggioramento

clinico o effetti collaterali riconducibili alle metodiche utilizzate.

Il paziente sarà sottoposto a delle procedure routinarie che

comprendono: anamnesi, esame obiettivo, screening medico con eventuali

esami ematochimici o strumentali, valutazione psicologica, valutazione

elettroencefalografica e MRI.

La valutazione psicologica prevede:

• Diagnosi di episodio depressivo in atto e valutazione di

eventuali comorbidità psichiatriche attraverso un’intervista

condotta secondo la Mini-Psichiatry Interview;

• Stima delle dimensioni del disturbo depressivo attraverso la

Hamilton Depression Rating Scale e la Beck Depression Inventory – si

vedano anche il capitolo 1 e l’Appendice B.

• Il rischio suicidario verrà stimato attraverso la ‘Scale for suicide

ideation’ ovvero una scala di autovalutazione che fornisce

informazioni riguardo il desiderio di morte, la frequenza

dell’ideazione e la capacità progettuale nell’autolesione. Lo

score è compreso tra 0 e 38 e nel nostro studio verranno

esclusi pazienti con uno score superiore a 24 (per un’analisi

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della letteratura sul rischio suicidario nella depressione

maggiore si veda al paragrafo 1.5).

• Valutazione della gravità complessiva dello stato

psicopatologico mediante l’autovalutazione SCL 90R che

verrò utilizzata anche nella stima delle modifiche indotte dai

trattamenti;

• Studio delle dimensioni del comportamento adattivo

mediante le Vineland Adaptive Behavior scales II, il cui punteggio

predice la qualità di vita del paziente.

Durante le fasi preliminari e successivamente al termine della terapia

verrà effettuata un’analisi EEG mediante cuffia con 128 elettrodi. Il paziente

verrà inoltre sottoposto a registrazione poligrafica con ECG e una fascia

piezoresistiva addominale per il respirogramma. Dopo il reclutamento ogni

paziente verrà sottoposto ad un’indagine con MRI sia morfologica che

funzionale. Le sequenze strutturali utilizzate saranno T1, T2 e flair ed è

prevista esclusione nel caso si rilevino alterazioni cerebrali significative.

Durante l’acquisizione verranno eseguite le scansioni necessarie per la

neuro-navigazione al fine di identificare il target della nostra stimolazione.

Lo studio fMRI in condizione di resting-state valuterà le ROI correlate alla

malattia localizzate nello studio descritto nel capitolo 2. Sarà quindi valutata

la connettività funzionale, ovvero l’interdipendenza statistica

dell’andamento temporale dell’attività di diverse aree cerebrali (v. paragrafo

2.2).

Lo studio fMRI verrà ripetuto al termine della terapia per

analizzare i correlati biologici associati alla eventuale remissione o alla sua

efficacia nella riduzione dei principali score. Inoltre, valuteremo se i dati

riguardo la connettività tra insula destra e fusiforme sinistro abbiano subito

una modifica indotta dall’applicazione delle due stimolazioni, in altre parole

se i pazienti con BDI più alto e z-score più basso presentino un

miglioramento nella ‘comunicazione’ tra queste due aree (v. capitolo 2).

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La principale difficoltà per i soggetti potrebbe essere lo stare fermi

all’interno dello scanner, elemento che potrebbe compromettere la qualità

delle scansioni.

5.3. Disegno dello studio

Il nostro studio prevede la suddivisione del campione in 4 gruppi di

trattamento:

• 1. Trattamento farmacologico e TMS;

• 2. Trattamento farmacologico e tDCS;

• 3. Trattamento farmacologico e sham TMS;

• 4. Trattamento farmacologico e sham tDCS.

La randomizzazione avverrà mediante la generazione casuale di una

serie numerica ad inizio studio, in cui ad ogni numero verrà casualmente

associato uno dei 4 gruppi sopra citati.

Lo studio è in doppio cieco, e solo gli sperimentatori responsabili del

trattamento sapranno se dover somministrare trattamento attivo o sham

(ovvero senza reale applicazione dello stimolo) senza comunicare tale

informazione né al paziente né allo sperimentatore occupato nell’analisi dei

dati fMRI o nella valutazione clinica e psicometrica.

Dato che lo scopo di questo studio consiste nel valutare i correlati

neurobiologici specifici dell’efficacia di TMS e tDCS , l’utilizzo di controlli

sham è necessario sia per individuare eventuali modifiche neurobiologiche

aspecifiche sia per indagare la possibilità di endofenotipi di attività cerebrale

predittivi di risposta. I pazienti dovranno comunque continuare la terapia

antidepressiva precedente all’ingresso nello studio. Il disegno (Fig.4). prevede

una durata massima di un mese dopo il quale i pazienti nel gruppo placebo

potranno essere inseriti nel gruppo di trattamento attivo tenendo però conto

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di questo cambiamento di disegno sperimentale al momento dell’analisi dei

dati. Nell’informativa fornita al paziente verrà specificata l’esistenza dei

gruppi placebo e la possibilità di ricevere comunque un trattamento attivo.

In ogni gruppo verranno inseriti 15-20 soggetti ritenendo tale numerosità

del campione sufficiente nel garantire la potenza statistica dei risultati.

5.4. Trattamenti oggetto dello studio

Per quanto riguarda la TMS, i pazienti verranno sottoposti a 15

sedute nel corso di quattro settimane. Tenuto conto dei dati in letteratura i

parametri di stimolazione saranno i seguenti: 300 impulsi a seduta, 1Hz di

frequenza e intensità 110% della soglia motoria. La sede di stimolazione,

identificata come target grazie alla neuro-navigazione, è rappresentata dalla

corteccia dorso-laterale prefrontale sinistra in accordo con l’ipotesi di una

sua ipoattivazione come base neurobiologica del disturbo depressivo - si

veda ad esempio (Grimm et al., 2008). Nel gruppo sham il bordo della

bobina sarà ruotato di 90° in modo da non applicare alcun impulso.

Nel protocollo tDCS applicheremo una corrente di 2mA per 20

minuti mediante un anodo posizionato sulla DLPFC sinistra e un catodo

sulla sinistra. Le applicazioni verranno ripetute due volte al giorno per 5

giorni. Per la scelta della sede di posizionamento del catodo e anodo vedi

analisi della letteratura nel capito 4 paragrafo 2.1. Nel gruppo sham tDCS

l’applicazione sarà la medesima, ma gli elettrodi non saranno attivi.

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Fig.4: flow-chart dello studio.

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5.5. Follow-up

Dopo la terapia, i pazienti verranno nuovamente valutati sia

mediante il medesimo protocollo psicologico sia con registrazione EEG,

poligrafica basale e fMRI. Il tutto dovrà avvenire entro una settimana dalla

conclusione della terapia. Verranno definiti responders coloro con

dimezzamento degli score BDI rispetto al punteggio iniziale e remitters se alla

rivalutazione non rispecchieranno più i criteri per diagnosi di episodio

depressivo maggiore secondo il DSM-IV. Ai pazienti sham sarà proposto di

entrare in un gruppo attivo senza necessità di ulteriori valutazioni.

5.6. Sicurezza

La TMS si ritiene una metodica sicura anche in caso di esposizioni

continuative o giornaliere tanto che la FDA ne ha approvato l’uso clinico

nella depressione farmacoresistente. I minimi effetti collaterali segnalati in

20 pazienti ogni 100 studiati sono: cefalea di origine muscolare e dolore

cervicale, entrambi risolvibili con comuni analgesici. La somministrazione

degli impulsi elettromagnetici con la bobina può generare dei suoni ad alta

intensità, non tali da creare il rischio di danni uditivi, ma l’utilizzo di tappi

auricolari o cuffie fonoassorbenti può comunque limitare il disagio. Non

sono stati riportati in letteratura casi di epilessia indotta. Quindi la TMS

risulta estremamente sicura quando utilizzata nei limiti previsti dalle schede

tecniche ed escludendo popolazioni a maggior rischio (v. tra i criteri di

esclusione).

Il picco di campo magnetico degli strumenti TMS di questo studio

risulta inferiore a 2 Tesla e nessun effetto avverso è stato riportato per tale

intensità. L’induzione elettromagnetica potrebbe comunque interferire con

strumenti elettromedicali magnetici, per questa ragione i portatori di

dispositivi di questo tipo saranno preventivamente esclusi. La massima

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corrente elettrica indotta da un impulso magnetico TMS è ampiamente al di

sotto della soglia per l’induzione di danni neuropatici tanto che diversi studi

istopatologici su modelli animali non hanno rilevato alcuna lesione indotta a

livello cerebrale anche dopo stimolazioni ripetute (Sgro, Ghatak, Stanton,

Emerson, & Blair, 1991). Non è stato rilevato alcun effetto cumulativo, né

aumento di effetti avversi dopo stimolazioni ad alta intensità (Anderson et

al., 2006).

Anche la tDCS è stata considerata sicura e gli effetti collaterali lievi

più frequenti riguardano prurito e formicolio sotto gli elettrodi, entrambi

riducibili attraverso l’applicazione di soluzione salina sotto l’elettrodo stesso.

Ancora meno frequenti sono: lampi luminosi nel campo visivo o

annebbiamento al momento di accensione o spegnimento. Il rischio di

eccitotossicità in neuroni ipereccitati non si applica alla tDCS dato il

probabile effetto sulla eccitabilità mediante modifiche dei canali ionici.

Studi con esposizione maggiore rispetto ai normali parametri

utilizzati nei protocolli sperimentali non hanno documentato effetti

collaterali più gravi come alterazioni di barriera emato-encefalica o edemi

(Nitsche et al., 2004). Per analisi della letteratura sui possibili effetti

collaterali della tDCS si veda paragrafo 4.2.2.

5.7. Conclusioni

Lo studio ha ricevuto l’approvazione del Comitato Etico ed è quindi

iniziata la fase di reclutamento dei primi pazienti. Allo stato attuale abbiamo

avviato le procedure su un singolo paziente, cui abbiamo somministrato le

scale psicologiche e su cui abbiamo eseguito l’analisi fMRI preliminare. Il

soggetto è stato però escluso dallo studio per la mancata soddisfazione dei

criteri neuropsicologici richiesti per l’inclusione nello studio.

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Appendice A: fMRI

Principi del segnale BOLD

La risonanza magnetica funzionale è uno strumento di analisi

dell’attività cerebrale in vivo, largamente utilizzata nell’ambito della ricerca

neuroscientifica. L’attivazione dei neuroni, in una particolare area

cerebrale, scatena un immediato aumento del tasso di estrazione

dell’ossigeno, aumentando così la concentrazione relativa di emoglobina

deossigenata. La reazione rapida d’incremento dell’attività neuronale,

descritta come initial dip, viene seguita a distanza di circa 3-5 secondi da un

aumento del flusso sanguigno, detto risposta emodinamica, che è in

relazione con la richiesta energetica locale.

Non è ancora noto come i neuroni riescano a comunicare al sistema

vascolare le loro necessità metaboliche, anche se è stato recentemente

ipotizzato un ruolo mediatore degli astrociti . La risposta emodinamica

descritta corrisponde a un aumento del flusso locale di sangue (CBF: Cerebral

Blood Flow), con un aumento concomitante dell’emoglobina ossigenata. In

seguito il flusso locale diminuisce rapidamente.

Le proprietà magnetiche dell’emoglobina deossigenata permettono

la misurazione del flusso cerebrale come parametro di attività cerebrale. Fu

Pauling a scoprire nel 1936 come, modificando l’ossigenazione del sangue,

cambi la suscettibilità magnetica (Pauling & Coryell, 1936). L’emoglobina

deossigenata, avendo elettroni liberi, rende il sangue paramagnetico, ovvero

determina delle ‘piccole distorsioni’ del campo magnetico. La risposta

emodinamica conseguente all’attività neuronale, provoca un maggior tasso

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di emoglobina deossigenata ed ossigenata, generando un campo magnetico

più disomogeneo da cui deriva un segnale MRI più intenso. Thulborn, poi,

nel 1981, dimostrò come il segnale T2, ovvero la costante di ‘rilassamento

trasversale’ dei protoni, cambi principalmente in funzione del livello di

ossigenazione del sangue (Thulborn, Waterton, Matthews, & Radda, 1982).

Ogawa osservò, quindi, che il campo magnetico locale indotto dalla

suscettibilità magnetica del sangue subisce una distorsione per la presenza

della deossiemoglobina paramagnetica, che causa un rilassamento più

rapido dei protoni nel sangue. Ogawa parlò quindi di un contrasto ossigeno-

dipendente suggerendo un suo possibile utilizzo come indicatore del

consumo di ossigeno nelle diverse aree cerebrali (Ogawa, Lee, Nayak, &

Glynn, 1990).

Il segnale BOLD (Blood Oxigenation Level Dependent) rappresenta la base

delle variazioni del segnale RM. L’aumento della deossiemoglobina, dalle

proprietà paramagnetiche, provoca una caduta del segnale RM e ne

permette quindi l’utilizzo come mezzo di contrasto endogeno nello studio

delle aree coinvolte nella funzione studiata. Il segnale BOLD deriva appunto

dalla modifica del rapporto HbO2/Hb, indotta dall’attività neuronale, che

rende il campo magnetico più disomogeneo e quindi identificabile il

cambiamento locale dalla MR. I cambiamenti nel tasso di HbO2/Hb, si

configurano quindi come un indice indiretto dell’attività neuronale. Tale

prospettiva, che vede una relazione tra attività cerebrale e variazioni del

flusso sanguigno è definita teoria del coupling neuro-vascolare. Subito dopo,

l’attivazione neuronale si ha una maggiore estrazione di ossigeno a livello

dei capillari arteriosi delle aree coinvolte e ciò provoca una temporanea

caduta del segnale per l’aumento della deossiemoglobina (‘initial dip’). Con

l’aumento del flusso regionale si ha poi una commistione e una caduta della

concentrazione della forma deossigenata con aumento del segnale che

tenderà, dopo una fase di plateau, a ritornare a livelli precedenti la fase di

attivazione. Il segnale BOLD segue quindi nel suo andamento il profilo

specifico della risposta emodinamica, grazie, però, a un’interessante scoperta

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sul disaccoppiamento fisiologico tra CBF e metabolismo ossidativo, la cui

causa ancora oggi non ha una spiegazione sotto il profilo evolutivo:

l’ossigeno fornito eccede, infatti, le necessità metaboliche. Senza questo

scarto non saremmo in grado di registrare il segnale BOLD (Fox & Raichle,

1986).

Concludendo, il segnale fMRI cattura un’espressione indiretta

dell’attività neuronale in risposta ad uno specifico compito chiesto al

soggetto, che avviene in tempi molto rapidi (circa 100ms), basandosi su un

fenomeno, il cambiamento del livello di ossigenazione locale (Fig.5), di più

lunga latenza (fino a 20s).

Fig.5: andamento temporale del segnale BOLD

Analisi dati e disegno sperimentale

Prima di procedere all’analisi dei dati, è necessaria una fase di pre-

processing delle immagini funzionali. Si devono unire le sezioni registrate in

un unico volume, correggere per il movimento, co-registrare per ogni

soggetto immagini strutturali e funzionali, normalizzare tutti i volumi in un

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unico spazio anatomico e quindi effettuare uno smooth del segnale, al fine di

aumentare il rapporto tra segnale e noise in favore del primo.

In particolare per la normalizzazione, si utilizza un modello

anatomico standardizzato in modo da poter comparare l’attivazione tra

soggetti differenti. Una dei modelli più frequenti, utilizzato anche nel nostro

studio (v. capitolo 2), è quello di Talairach (Talairach & Tournoux, 1988),

ottenuto negli anni 60’ dallo studio post-mortem di un unico cervello. La

trasformazione avviene per punti convenzionali.

Per ottenere un’immagine di risonanza magnetica funzionale si

utilizza una registrazione del segnale ad alta velocità e a bassa risoluzione

spaziale che risulta molto sensibile al contrasto BOLD. Una sequenza molto

utilizzata è quella detta Gre-Epi (Gradient-Recall Echo Echo-planar

Imaging), che mediamente consente una risoluzione spaziale di 3mm2 per

voxel con un intervallo di campionamento del segnale di 2,5 secondi.

Questa sequenza riesce a cogliere la variazione del segnale BOLD indotta

dallo specifico task, che molto ridotta: dell’ordine di 1-5%. Durante la

registrazione è inoltre prevista anche un’acquisizione anatomica del cervello.

Nello studio della relazione tra segnale BOLD e uno specifico task si

può scegliere tra due diversi paradigmi sperimentali: il disegno a blocchi e il

disegno event-related. Il disegno a blocchi prevede la presentazione di stimoli

all’interno di blocchi in modo da dedurne l’attivazione media indotta da

ciascun blocco. Questo tipo di paradigma era già utilizzato nella PET, che

aveva bisogno di tempi di acquisizione maggiori, mentre la migliore

risoluzione temporale della fMRI permette l’utilizzo anche di un altro tipo

di paradigma. Il disegno event-related prevede, infatti, la somministrazione

di stimoli in modo più casuale, con il vantaggio di eliminare o ridurre la

prevedibilità del compito e la conseguente distrazione o sensibilizzazione al

task da parte del paziente.

Negli ultimi dieci anni si è diffuso, soprattutto in ambito clinico,

anche un paradigma detto resting-state che non necessità di alcun compito

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cognitivo. Rappresentato, infatti, da modalità di acquisizione in cui il

soggetto riposa e non deve compiere nessun compito particolare.

Fig.6: schema dei due principali paradigmi sperimentali in uso.

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Appendice B: Scale utilizzate

BDI- II: Beck Depression Inventory II

Si veda al capitolo 2 per la descrizione.

Tabella 2: scala BDI-II

1. Tristezza

0. Non mi sento triste.�

1. Mi sento triste per la maggior parte del tempo

2. Mi sento sempre triste �

3. Mi sento così triste o infelice da non poterlo sopportare.

2. Pessimismo

0. Non sono scoraggiato riguardo al mio futuro.�

1. Mi sento più scoraggiato riguardo al mio. futuro rispetto al solito.

2. �Non mi aspetto nulla di buono per me.�

3. Sento che il mio futuro è senza speranza e che continuerà a peggiorare.

3. Fallimento

0. Non mi sento un fallito.�

1. Ho fallito più di quanto avrei dovuto.

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2. Se ripenso alla mia vita riesco a vedere solo una serie di fallimenti.�

3. Ho la sensazione di essere un fallimento totale come persona.

4. Perdita di piacere

0. Traggo lo stesso piacere di sempre dalle cose che faccio.�

1. Non traggo più piacere dalle cose come un. tempo.

2. Traggo molto poco piacere dalle cose che di solito mi divertivano.�

3. Non riesco a trarre alcun piacere dalle cose che una volta mi piacevano.

5. Senso di colpa

0. Non mi sento particolarmente in colpa.�

1. Mi sento in colpa per molte cose che ho fatto o che avrei dovuto fare.�

2. Mi sento molto spesso in colpa.�

3. Mi sento sempre in colpa.

6. Sentimenti di punizione

0. Non mi sento come se stessi subendo una punizione.�

1. Sento che potrei essere punito.

2. Mi aspetto di essere punito.�

3. Mi sento come se stessi subendo una punizione.

7. Autostima

0. Considero me stesso come ho sempre fatto

1. Credo meno in me stesso�

2. Sono deluso di me stesso.�

3. Mi detesto.

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8. Autocritica

0. Non mi critico né mi biasimo più del solito.

1. Mi critico più spesso del solito.�

2. Mi critico per tutte le mie colpe.�

3. Mi biasimo per ogni cosa brutta che mi accade.

9. Suicidio

0. Non ho alcun pensiero suicida�

1. Ho pensieri suicidi ma non li realizzerei

2. �Sento che starei meglio se morissi.

3. �Se mi si presentasse l’occasione, non esiterei ad uccidermi

10. Pianto

0. Non piango più del solito.�

1. Piango più del solito.

2. �Piango per ogni minima cosa.�

3. Ho spesso voglia di piangere ma non ci riesco.

11. Agitazione

0. Non mi sento più agitato o teso del solito.

1. Mi sento più agitato o teso del solito.�

2. Sono così nervoso o agitato al punto che mi è difficile rimanere fermo.

3. Sono così nervoso o agitato che devo continuare a muovermi o fare qualcosa.

12. Perdita di interessi

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0. Non ho perso interesse verso le altre persone o verso le attività.�

1. Sono meno interessato agli altri o alle cose rispetto a prima.

2. Ho perso la maggior parte dell’interesse verso le altre persone o cose.

3. �Mi risulta difficile interessarmi a qualsiasi cosa.

13. Indecisione

0. Prendo decisioni come sempre.

1. �Trovo più difficoltà del solito nel prendere decisioni.

2. Ho molte più difficoltà nel prendere decisioni rispetto al solito.�

3. Non riesco a prendere nessuna decisione.

14. Senso di inutilità

0. Non mi sento inutile.�

1. Non mi sento valido e utile come un tempo.

2. Mi sento più inutile delle altre persone.�

3. Mi sento completamente inutile su qualsiasi cosa.

15. Perdita di energia

0. Ho la stessa energia di sempre.�

1. Ho meno energia del solito.�

2. Non ho energia sufficiente per fare la maggior parte delle cose.�

3. Ho così poca energia che non riesco a fare nulla.

16. Sonno

0. Non ho notato alcun cambiamento nel mio modo di dormire.�

1a. Dormo un po’ più del solito.�

1b. Dormo un po’ meno del solito.

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97

2a. Dormo molto più del solito.�

2b. Dormo molto meno del solito.�

3a. Dormo quasi tutto il giorno.�

3b. Mi sveglio 1-2 ore prima e non riesco a riaddormentarmi.

17. Irritabilità

0. Non sono più irritabile del solito.

1. Sono più irritabile del solito.�

2. Sono molto più irritabile del solito.

3. Sono sempre irritabile.

18. Appetito

0. Non ho notato alcun cambiamento nel mio appetito.�

1a. Il mio appetito è un po’ diminuito rispetto al solito.

1b. Il mio appetito è un po’ aumentato rispetto al solito�

2a. Il mi appetito è molto diminuito rispetto al solito

2b. Il mio appetito è molto aumentato rispetto al solito.

�3a. Non ho per niente appetito.�

3b. Mangerei in qualsiasi momento

19. Concentrazione

0. Riesco a concentrarmi come sempre.�

1. Non riesco a concentrarmi come al solito.�

2. Trovo difficile concentrarmi per molto tempo

3. Non riesco a concentrarmi su nulla.

20. Fatica

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0. Non sono più stanco o affaticato del solito.�

1. Mi stanco e mi affatico più facilmente del solito.

2. Sono così stanco e affaticato che non riesco a fare molte delle cose che facevo prima.�

3. Sono talmente stanco e affaticato che non riesco più a fare nessuna delle cose che facevo prima.

21. Sesso

0. Non ho notato alcun cambiamento recente nel mio interesse verso il sesso.�

1. Sono meno interessato al sesso rispetto a prima.

2. Ora sono molto meno interessante al sesso.

3. Ho completamente perso l’interesse verso il sesso.

Scala di Hamilton

Una delle scale più utilizzate sia in ambito clinico che di ricerca per

la valutazione, mediante intervista, della gravità dell’episodio o per

identificare un’eventuale remissione dei pazienti inseriti all’interno di un

trial. È composta da 21 item (nella versione originale del 1960 erano

inizialmente 17) che valutano gli aspetti più importanti dello spettro

depressivo tra cui l’umore depresso, il senso di colpa, l’insonnia. Ogni item

prevede un punteggio su una scala da 3 o 5 punti e la somma totale dei

punteggi permette di ottenere uno score espressione della gravità del

disturbo.

Tabella 3: scala di Hamilton

1. Umore depresso (sentimento di tristezza, mancanza di speranza, sentimento di incapacità e

di inutilità)

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0. Per niente

1. Manifesto questi sentimenti solo se mi viene chiesto

2. Ne parlo spontaneamente

3. Comunico questi sentimenti con attraverso l’espressione del volto, la posizione del corpo, la voce e la

tendenza al pianto

4 . Manifesto questi sentimenti mediante messaggi sia verbali che non verbali

2. Sentimenti di colpa

0. Per niente

1. Auto accusa, penso di aver deluso la gente

2. Idee di colpa o ripensamenti su errori passati o su azioni peccaminose

3. Penso che l’attuale malattia sia una punizione. Deliri di colpa

4. Odo voci di accusa o di denigrazione e/o ho esperienze allucinatorie visive a contenuto minaccioso

3. Suicidio

0. Per niente

1. Penso che la vita non valga la pena di essere vissuta

2. Vorrei essere morto o penso alla possibilità di suicidarmi

3. Ho idee di suicidio

4. Ho tentato il suicidio (ogni serio tentativo di suicidio deve essere valutato ‘4’)

4. Insonnia iniziale

0. Non ho difficoltà ad addormentarmi

1. Talvolta ho difficoltà ad addormentarmi (p.e. mi occorre più di mezz’ora) 2 = Ho sempre difficoltà ad

addormentarmi

5. Insonnia centrale

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100

0. Non mi sveglio durante la notte

1. Sono diventato irrequieto durante la notte

2. Mi sveglio durante la notte – segnare ‘2’ se ti alzi dal letto (a meno che non sia per urinare)

6. Insonnia ritardata

0. Nessuna difficoltà

1. Mi sveglio prestissimo (nelle prime ore del mattino), ma mi riaddormento 2 = Non riesco a

riaddormentarmi se mi alzo dal letto

7. Lavoro e interessi

0. Nessuna difficoltà

1. Mi sento incapace, mi affatico facilmente o mi sento debole durante le attività (lavoro o hobby)

2. Ho perso interesse per le attività – lavoro o hobby . Devo sforzarmi per lavorare

3. Dedico un minor tempo alle attività o sono meno efficiente

4. Ha cessato di lavorare a causa della malattia

8. Rallentamento (Ideazione e linguaggio rallentati; ridotta capacità a concentrarsi; diminuita

attività motoria)

0. Nessun cambiamento nel pensiero e linguaggio

1. Mi sento lievemente rallentato mentre parlo 2 = Mi sento molto rallentato mentre parlo

3. Ho difficoltà a parlare

4. Stato di arresto psicomotorio

9. Agitazione

0. Per niente

1. Sono irrequieto

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2. Gioco con le mani, con i capelli, ecc.

3. Mi muovo continuamente, non riesco a stare seduto

4. Mi torco le mani, mi mordo le unghie, mi tiro i capelli, mi mordo le labbra

10. Ansia psichica

0. Per niente

1. Sono teso ed irritabile

2. Mi preoccupo per questioni di poco conto

3. Sono apprensivo ed è evidente da come mi muovo e da come parlo 4 = Manifesto spontaneamente le mie

paure

11. Ansia somatica (Aspetti somatici dell’ansia. Gastrointestinali: secchezza delle fauci,

meteorismo, indigestione, diarrea, crampi, eruttazione. Cardiovascolari: palpitazioni, cefalea.

Respirazione: iperventilazione, sospiri. Genito-urinari: pollachiuria. Sudorazione)

0. Per niente

1. Lieve

2. Moderata

3. Notevole

4. Invalidante

12. Sintomi somatici gastrointestinali

0. Per niente

1. Ho perso l’appetito, ma mi alimenta senza essere stimolato o aiutato dal personale. Senso di peso

all’addome

2. Ho difficoltà ad alimentarmi senza lo stimolo o l’aiuto di qualcuno. Prendo dei lassativi o dei farmaci

per i disturbi gastrointestinali

13. Sintomi somatici generali

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0. Per niente

1. Ho pesantezza agli arti, alla schiena o alla testa. Ho mal di testa, mal di schiena, dolori muscolari. Mi

sento privo di energie e mi affatico facilmente

2. Se i sintomi sono molto evidenti segnare ‘2’

14. Sintomi genitali

0. Per niente

1. Lievi

2. Gravi

15. Ipocondria

0. Per niente

1. Iper-attenzione nei confronti del mio corpo

2. Sono preoccupato per la mia salute

3. Mi lamento spesso e chiedo aiuto

4. Sono convinto di avere una malattia somatica, senza che ve ne siano i motivi

16. Perdita di peso

0. Nessuna perdita di peso

1. Probabile perdita di peso a causa della presente malattia

2. Evidente perdita di peso

3. Non valutata

17. Insight

0. Penso di essere depresso ed ammalato

1. Penso di essere ammalato e ritengo che ciò sia dovuto alla cattiva alimentazione, al clima, al

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103

superlavoro, a malattie infettive, al bisogno di riposo

2. Non penso di essere ammalato

18. Variazioni diurne

A - Indicare se i sintomi sono più gravi al mattino o alla sera

0. Nessuna variazione

1. Sto peggio al mattino

2. Sto peggio alla sera

B – Se presenti, valutare l’entità delle variazioni

0. Assenti

1. Lievi

2. Gravi

19. Depersonalizzazione e derealizzazione (Per es. idee di irrealtà, idee di negazione)

0. Per niente

1. Lieve

2. Moderata

3. Grave

4. Invalidante

20. Sintomi paranoidei

0. Per niente

1. Sono sospettoso

2. Idee di riferimento

3. Mi sento perseguitato

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21. Sintomi ossessivi e compulsivi

0. Assenti

1. Lievi

2. Gravi

Scl-90

Questionario autosomministrato a 90 item che il paziente deve

compilare tenendo conto della sua condizione nell’ultima settimana e di

quali affermazioni quantifichino meglio l’intensità del disturbo laddove ne

abbia sofferto. I risultati individuano dieci dimensioni sintomatologiche di

diverso significato (somatizzazione, ossessione-compulsione, sensibilità

interpersonale, depressione, ansia , ostilità, ansi fobica, ideazione paranoide,

psicoticismo e disturbi del sonno). Per ogni dimensione si calcola la media

delle risposte agli item appartenenti a quella scala. È inoltre calcolato un

indice globale (global score index) come punteggio medio di tutte le domande

con risposta del test.

Tabella 3: Scl-90.

Per niente Un poco Moderatamente Molto Moltissimo

1. Mal di testa �

2. Nervosismo

o agitazione interna �

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105

3. Incapacità a scacciare

pensieri, parole �o

idee indesiderate �

4. Sensazione di

svenimenti o di

vertigini �

5. Perdita dell’interesse o

del piacere �sessuale �

6. Tendenza a criticare

gli altri �

7. Convinzione che gli

altri possano

con �trollare i tuoi

pensieri �

8. Convinzione che gli

altri siano

responsabili dei tuoi

disturbi �

9. Difficoltà a ricordare le

cose �

10. Preoccupazioni per

la tua negligenza �o

trascuratezza �

11. Sentirti facilmente

infastidito/a o

irritato/a �

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106

12. Dolori al cuore o al

petto �

13. Paura degli spazi

aperti o delle strade �

14. Sentirti debole o

fiacco/a �

15. Idee di toglierti la

vita �

16. Udire le voci che le

altre persone

non �odono �

17. Tremori �

18. Mancanza di fiducia

negli altri �

19. Scarso appetito �

20. Facili crisi di pianto �

21. Sentirti intimidito/a

nei confronti

del�l’altro sesso �

22. Sensazione di essere

preso/a in trappola �

23. Paure improvvise

senza ragione �

24. Scatti d’ira

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107

incontrollabili �

25. Paura di uscire da

solo/a �

26. Rimproverarti per

qualsiasi cosa �

27. Dolori alla schiena �

28. Senso di incapacità

a portare a termi �ne

le cose �

29. Sentirti solo/a �

30. Sentirti giù di

morale �

31. Preoccuparti

eccessivamente

per �qualsiasi cosa �

32. Mancanza di

interesse �

33. Senso di paura �

Page 108: Lo studio della risposta neurobiologica ai trattamenti con ... · Lo studio della risposta neurobiologica ai trattamenti con rTMS e tDCS, revisione della letteratura, presentazione

108

Scale for suicide ideation

Strumento clinico a 19 item disegnato per quantificare l’intento

corrente e conscio al suicidio attraverso la valutazione dell’intensità di

pensieri o desideri autodistruttivi e di eventuali comportamenti o

affermazioni. È strutturata come un’intervista in cui ogni item prevede una

scala a 3 punti. Si è

dimostrata essere

sensibile ai

cambiamenti nel

tempo della gravità

dell’episodio

depressivo.

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109

Fig.7: SSI in italiano

Page 110: Lo studio della risposta neurobiologica ai trattamenti con ... · Lo studio della risposta neurobiologica ai trattamenti con rTMS e tDCS, revisione della letteratura, presentazione

110

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Ringraziamenti

Nel realizzare questa tesi mi è stato fondamentale l’aiuto, il consiglio

e l’incoraggiamento di alcune persone senza le quali questo lavoro non

sarebbe stato possibile.

Al professor Pietro Pietrini va la mia riconoscenza per avermi

concesso di frequentare i suoi reparti per più di un anno, sotto la guida del

professor Claudio Gentili. Al professor Gentili devo la mia totale gratitudine

per avermi introdotto ad aspetti così appassionanti della disciplina che spero

diventi un giorno la mia professione.

Al professor Emiliano Ricciardi va la mia stima e il mio

ringraziamento per il sincero interesse e supporto dimostratomi in questi

anni.

E così ringrazio di tutto cuore anche il dott. Andrea Leo, del

Laboratorio di Biochimica Clinica e Biologia Molecolare, per il suo aiuto

disinteressato e la smisurata pazienza.

Al suo collega, il dott. Dario Menicagli per il sostegno e l’amicizia

mostratami in questi ultimi mesi.

A Francesco Varricchio, della Biblioteca di Medicina e Farmacia,

per la cordialità con cui mi ha introdotto agli strumenti di ricerca e

produzione bibliografica.

E a Paolo, per l’incoraggiamento, le discussioni, i frequenti confronti

e i consigli letterari.

Infine, per l’esempio, la fiducia e la paziente sopportazione dedico

questo lavoro ai miei genitori e ai miei amici, senza i quali questo giorno

non sarebbe mai arrivato.