l’occh-io e l’interruzione dell’umanesimo europeoocch-io-e-l'umanesimo.pdf ·...
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il Mediterraneo
Abu Qui
Napoli
la migrazione ‘illegale’ (wop)
New York
Haiti
Chioggia
Peshwar
le ‘prossimità’ del mondo postcoloniale
l’Atlantico nero
Il disfacimento della distinzione tra il documentario e la finzione, e con ciò della differenza netta tra il realismo e l'immaginario. In altre parole, i 'fatti' vengono costruiti tramite l'operato dei linguaggi.
Per questa ragione Friedrich Nietzsche, in polemica sia con il positivismo dell ‘800, diceva
che non esisteva dei fatti, solamente delle interpretazioni.
Ragionando con questo film possiamo capire come il linguaggio del film opera un 'taglio' non solamente sulle questione del realismo ma anche sulla maniera di concepire i linguaggi analitici delle scienze umane e sociali che si presentano come linguaggi ‘fattuali’ che offrono una visione ‘trasparente’ della realtà come se fosse una verità unica.
tempi profondi o ‘deep time’
New York
NapoliLos GatosLampedusa
Chioggia
Haiti Abu Qui
il mantello di Ruggero II
il Mediterraneo
l’arte del Quattrocento e la prospettiva
‘Europa che non la finisca più di parlare dell’uomo pur massacrandolo dovunque lo incontra, a tutti gli angoli delle sue stesse strade, a tutti gli angoli del mondo.’ Frantz Fanon, I dannati della terra (1961)
l’umanesimo e il colonialismo: lo sguardo sul mondo e il suo inquadramento
Ibn al-Haytham (965 -1039) e le premesse scientifiche della prospettiva
La presunta ‘neutralità’ del linguaggio che garantisce la distanza critica per produrre l’oggetto antropologico (o storico o sociologico o giornalistico).
L’antropologia occidentale e il suo intreccio nello sguardo coloniale sul mondo all’antropologia dell’Occidente.
In un’epoca in cui l’antropologia si trasforma sempre più in autobiografia, l’osservatore, cercando di catturare, inquadrare un altro luogo, viene ora imprigionato nella rete dell’osservazione critica. L’occh-io (organi fisico e stato soggettivo) raggiunge l’istanza critica di un linguaggio in esilio, spaesato, oggetto degli altri, delle altre.
L’antropologia è stata a lungo considerata come scienza oggettiva basata sul rapporto e distanza creata tra un soggetto e un oggetto. L’antropologo/ soggetto si documenta facendo un lavoro sul campo (il fieldwork come luogo di osservazione) raccogliendo i dati da essere poi interpretati ‘oggettivamente’ una volta a casa e narrati in una proposta antropologica. Questo significava cristallizzare le culture come entità fisse e immutabili, come oggetti rubati della loro soggettività e processi quotidiani e storici.
La crisi dell’antropologia avviene quando i ruoli tra soggetto e oggetto sballano, il soggetto
diventa oggetto e viceversa, quando l’oggetto/osservato ricambia il proprio sguardo.
In questi scontri l’antropologia si pone come una disciplina di frontiera che regista il
transito, e il passaggio tra qui e lì, dove le definizioni dell’altro e di se stessi sono rese
esposte, vulnerabili.
A questo punto la verità si svela come qualche cosa che accade nell’interpretazione. Si tratta sempre di un atto culturale, dunque di un’istanza performativa; un atto che si regge su linguaggi senza fondamenta, ora che la garanzia una volta fornita dalla teleologia del ‘progresso’ della storia stessa è messa in questione, esposta, interrogata, decostruita, messa in viaggio.
Forse l’atto interpretativo riesce ad essere tale solamente nell’istante in cui il linguaggio – ormai senza una garanzia fissa e stabile – raccoglie il proprio transito e, perciò, il proprio vulnerabilità e senso dello spaesamento.
‘ I met History once, but he ain’t recognise me’ ‘Ho incontrato la Storia una volta, ma non mi ha riconosciuto.’
Derek Walcott