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Lorenzo de’ Medici Poemetti in ottava rima Op. Grande biblioteca della letteratura italiana ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

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Page 1: Lorenzo de' Medici - Poemetti in Ottava Rima

Lorenzo de’ Medici

Poemetti in ottava rima

Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

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Edizioni di riferimento

elettronicheLiz, Letteratura Italiana Zanichelli

a stampaLorenzo de’ Medici, Opere in versi, a cura di A. Simioni, Bari, Laterza, 1913

DesignGraphiti, Firenze

ImpaginazioneThèsis, Firenze-Milano

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3Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima

Sommario

Uccellagione ................................................................................................................................ 5Uccellagione di starne ............................................................................................................. 5

Nencia ...................................................................................................................................... 16Nencia da Barberino ............................................................................................................. 16

Ambra ....................................................................................................................................... 28Ambra .................................................................................................................................. 28

Selve 1 ...................................................................................................................................... 40Selve ..................................................................................................................................... 40

Selve 1,142 ............................................................................................................................... 74

Selve 2 ...................................................................................................................................... 75

Selva 2,31 ................................................................................................................................. 82

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Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Uccellagione

Uccellagione

Uccellagione di starne

Era già rosso tutto l’orientee le cime de’ monti parean d’oro;la passeretta schiamazzar si sentee ‘l contadin tornava al suo lavoro;

5 le stelle eran fuggite, e già presentesi vedea quasi quel ch’amò l’alloro;ritornavansi al bosco molto in frettal’allocco e ‘l barbagianni e la civetta.

La volpe ritornava alla sua tana10 e ‘l lupo ritornava al suo deserto:

era venuta e sparita Diana,però forse saria suto scoperto;avea già la sollecita villanaalle pecore e porci l’uscio aperto;

15 netta era l’aia, fresca e cristallina,e da sperar buon dì per la mattina.

Quando io fu’ desto da certi romoridi buon’ sonagli e allettar’ di cani:“Orsù, andianne presto, uccellatori,

20 perché gli è tardi e’ luoghi son lontani;el canettier sia el primo ch’esce fuoriacciò che i piè de’ cavalli stamaninon ci guastassin di can’ qualche paio.Deh, vanne avanti presto, Cappellaio!”.

25 Adunque el Cappellaio ‘nanzi cammina;chiama Tamburo e Pezzuolo e Martello,la Foglia, la Castagna e la Guercina,Fagiano, Fagianin, Rocca e Cappello,e Frizza e Biondo e Balocco e Rossina,

30 Ghiotto, la Corta, Viuola e Pestello,Zambracco e Sacco e ‘l mio Buontempo vecchioe Staccio, Burattel, Fuso e Pennecchio.

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Uccellagione

Quando i cani han di campo preso un pezzo,quattro seguiron con quattro sparvieri:

35 Guglielmo, che per suo antico vezzosempre quest’arte ha fatta volentieri,Giovan Francesco, e Dionigi è ‘l sezzo,ch’innanzi a lui cavalca il Foglia Amieri.Ma, perch’egli era a buon’or la mattina,

40 per riverenza Dionigi inchina.

E la Fortuna, che ha sempre piaceredi far diventar brun quel ch’è più bianco,dormendo Dionigi fa cadereappunto per disgrazia al lato manco,

45 sicché, cadendo addosso allo sparviere,ruppegli un’alia e macerogli ‘l fianco;questo gli piacque assai, benché nol dica,ché la sua dama è la poca fatica.

Non cadde Dionigi, anzi rovina,50 e, come debbi creder, toccò fondo,

ché, come un tratto egli ha preso la china,presto lo truova come un sasso tondo.Disse fra sé: “Meglio era stamattinarestar nel letto come fe’ Gismondo,

55 scalzo e ‘n camicia in su le pocce al fresco:ma non c’incappo più, se di questa esco.

Io ebbi pure un poco del cucciottoa uscire staman per tempo fuori,ché, s’io mi stavo, come il Birria, sotto,

60 facea per me e per gli uccellatori,ché si saria meglio ordinato e cottoe la tovaglia coperta di fiori:meglio è straccar la coltrice e ‘l piumaccioche ‘l cavallo e guastar l’uccello in braccio”.

65 Intanto lo sparvier vuol rimpugnare,ma egli è sì rotto che non può far l’erta,

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perché i frascon’ cominciano a cascaree da l’un lato pendea la coverta;pur Dionigi il voleva aiutare,

70 ma, rassettando la manica aperta,la man ghermìgli, onde sotto sel caccia,saltògli addosso e fanne una cofaccia.

Restano adunque tre da uccellare;e drieto a questi andava molta gente,

75 chi per piacere e chi pur per guardare:Bartolo e Ulivier, Braccio e ‘l Parente,che mai non vide più starne volare;e io mi messi con lor; similmentePiero Alamanni e ‘l Portinar Giovanni,

80 che pare in su la nona un barbagianni.

Strozzo drieto a costor, come maestrodi questa gente, andava scosto un poco,come colui ch’all’arte è molto destroe molte volte ha fatto simil giuoco.

85 E tanto va, chi a caval, chi pedestro,che finalmente ei son venuti al loco,il qual per uccellar fe’ sol natura,con tutta l’arte e ordine e misura.

E’ si vedea una gentil valletta,90 un fossatel con certe macchie in mezzo,

da ogni parte rimunita e netta:sol nel fossato star posson al rezzo;era da ogni lato una piaggetta,che d’uccellar faria venir riprezzo

95 a un gottoso e cieco, tanto è bella:el mondo non ha una pari a quella.

Scaldava il sole al monte già le spallee ‘l resto della valle è ancora ombrosa,quando giugnea la gente in su quel calle;

100 prima a vedere e disegnar si posa

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e poi si spargon tutti per la valle;e, perché a punto riesca ogni cosa,chi va co’ can’, chi alla guardia o a getto,sì come Strozzo ha ordinato e detto.

105 Era da ogni lato uno sparviere,alto, in buon luogo da poter gittare;l’altro a capo ne va del canattiere,ch’a la brigata la vorrà scagliare;era Bartolo al fondo; ed Uliviere

110 ed alcuni altri, per poter guardare,a mezza piaggia, in una bella stoppia.El canattiere a’ can’ leva la coppia.

Non altrimenti, quando la trombettasente alle mosse il lieve barberesco,

115 parte correndo o, vuoi dir, vola in fretta;così quei can’, che sciolti son di fresco;e, se non pur che ‘l canattier gli alletta,chiamando alcuno e a chi scuote il pesco,sarebbe il seguitargli troppa pena;

120 ma la pertica e ‘l fischio gli raffrena.

“Tira, buon can! Su, tira, su cammina!”,“andianne! andianne!”, “torna qui, te’, torna!”,“ah, sciagurato, Tamburo e Guercina!”,“abbiate cura a Sacco, che soggiorna:

125 ah, bugiardo, ah poltron!”, “volgi, Rossina!”,“guata buon can, guata brigata adorna!”,“te’, Fagianino...”, “oh, che volta fu quella!”,“vedila qui, quella starnina, vella!”.

“State avveduti a Staccio...!”, “frulla, frulla!”,130 “ecco e’ leva cacciando, l’amor mio”,

“ma io non veggo però levar nulla,e n’ha pur voglia, e n’ha pur gran disio!”,“guarda la Corta là che si trastulla!”.Oh, che romor faranno, già ‘l sent’io:

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135 chi salta e balla, e chi la leveràdi questi cani il miglior can sarà!

Io veggo che Buontempo è in sulla traccia;“Ve’ che le corre: e’ le farà levare;abbi cura a Buontempo, che le caccia;

140 parmi vederle e sentirle frullare;benché sia vecchio, ancor non ti dispiaccia,ch’io l’ho veduto e so qual ch’ei sa fare:i’ so che ‘l mio Buontempo mai non erra.Ecco a te, Ulivier, guardale a terra!

145 Guarda quell’altra all’erta, una al fossato:non ti dissi io che mi parea sentille?Guardane una alla vigna, all’altro latoguardane due e tre, guardane mille!”.Alla brigata prima avea gittato

150 Giovan Francesco, e riempiea le villedi grida e di conforti: “Ah, buono uccello!”,ma, per la fretta, gittò col cappello.

“Ecco, Guglielmo, a te una ne viene:cava il cappello, ed alzerai la mano;

155 non istar più, Guglielmo! Ecco, a te, bene!”.Guglielmo getta e grida: “Ahi, villano!”.Fugge la starna, e drieto ben li tienequello sparvier, che mai non esce invano:dettegli in aria forse cento braccia,

160 poi cadde in terra, e già la pela e straccia.

“Garri a quel can!” Guglielmo grida forte,che corre per cavargliele di piè.E, perch’a ciò le pertiche eran corte,un sasso prese e a Guercina diè,

165 per riscampar sì buon uccel da morte;e, quando presso allo sparvier più è,non lo veggendo, cheto usava stare,per veder se sentissi sonagliare.

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E, così stando, gliel venne veduto:170 “Presto” grida “a cavallo, e’ l’ha pur presa!”.

E poi s’accosta, destro e avveduto,come colui che l’arte ha bene intesa;presegli il geto e per quel l’ha tenuto;dagli il capo e ‘l cervel, ché non gli pesa;

175 sghermito, e l’ugne e ‘l becco gli avea netto;poi rimisse il cappello e torna al getto.

Giovan Francesco intanto avea ripresoil suo sparviere e preso miglior loco:pargli veder ch’a lui ne venga teso

180 uno starnone; e, com’è presso un poco,aperta la man presto, il braccio steso,gittò come maestro di tal giuoco;giunse la starna, e, perché ella è la vecchia,si fe’ lasciare e tutto lo spennecchia.

185 Invero egli era un certo sparverugio,che somigliava un gheppio, e in un calappionon credo che pigliassi un calderugio,legato bene stretto con un cappio;non avere’ speranza nello indugio,

190 ch’a giuoco ne va poi come un fatappio;e la cagion ch’a qual tratto non presefu che non v’avea il capo e non v’attese.

Intanto egli era uno starnone all’erta;videlo il Foglia e fegli un gentil getto:

195 lo sparvier vola per la piaggia apertae presegnene innanzi al dirimpetto.Corre giù il Foglia e pargnene aver certa,però che lo sparvier molto è perfetto:preselo al netto, ove non era stecco

200 in terra, e insanguinògli i piedi e ‘l becco;

e questo fe’, ché lo sparviere è soro.E intanto Ulivier forte chiamava:

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Uccellagione

“Chiama giù il Cappellaio, chiama costoro!e’ n’è qui una” (e col dito mostrava);

205 “rilega i can’, però che basta lorola Rocca, che di sotterra le cava;vien giù, Guglielmo, non istare al rezzo,e tu e ‘l Foglia le mettete in mezzo”.

Così fu fatto; e come e’ sono in punto,210 el canattier diceva: “Sotto, Rocca!

Qui cadde, ve’. Ah, se tu l’arai giunto,siesi tuo; torna qui, te’ pogli bocca!”.Poi dice: “Avetel voi guardato a punto?”.E in quel lo starnon del fondo scocca.

215 “Ecco, a te, Foglia!”. Il Foglia grida e getta,e simil fe’ Guglielmo molto in fretta.

Lasciò la starna andarne lo sparvierie attende a fuggir quel ch’egli ha drieto.Disse Guglielmo: “Tu l’hai, Foglia Amieri!”,

220 e benché nol dimostri, ei n’è pur lieto.“Corri tu, che vi se’ presso, Ulivieri!”,diceva il Foglia, e Guglielmo sta cheto.Corse Ulivieri, e com’egli è giù sceso,vide che l’uno sparvier l’altro ha preso.

225 Quel del Foglia avea preso per la gorgaquel di Guglielmo e crede che ‘l suo sia;par che a Guglielmo ta’ parole porga:“La tua è stata troppa villania!Credo che ‘l tuo sparvier massiccio scorga

230 a sparvier certo; e, per la fede mia,tu pigli assai villani e stran’ trastulli;ma io pazzo a ‘mpacciarmi con fanciulli!

Questa è stata, per Dio, piacevol cosa,che per la gorga è preso il mio sparviere!”.

235 Disse Guglielmo: “E’ fanno alla franciosa!”,e non poteva le risa tenere,

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ché così fa l’allegrezza nascosa.Intanto più s’accosta il Foglia Amiere;e, come agli sparvier’ n’andò, di botto

240 vide che quel di Guglielmo è di sotto.

E getta presto il suo logoro in terra,e lo sparvier di sùbito v’andava,e come vincitor di quella guerra,gli fece vezzi, ché lo meritava.

245 Guglielmo intanto s’avvede ch’egli erra,e lo sparvier suo guasto; onde gridava:“Tu se’ pur, Foglia, stato tu il villano!”,e mancò poco e’ nol disse con mano.

Ma ‘l Foglia innanzi alla furia si leva,250 e stassi cheto, ed ha pur pazienza:

altro viso e parole non avevaquel ch’aspettava in favor la sentenza,e poi subitamente la perdeva.Disse Guglielmo: “Io voglio usar prudenza:

255 ritroverrenci in luogo forse un tratto,ch’io ti farò ben savio stu se’ matto!”.

Già il sole in verso mezzogiorno calae vien l’ombre stremando e le raccorcia;dà lor proporzione e brutta e mala,

260 come a figura dipinta in iscorcia;rinforzava il suo canto la cicalae ‘l mondo ardea, come fussi una torcia;l’aria sta cheta e ogni fronde saldanella stagion più dispettosa e calda.

265 Quando il mio Dionigi tutto rosso,sudando come fussi un uovo fresco,disse: “Star più con voi certo non posso.Deh, vientene ancor tu, Giovan Francesco!”.Pietro Alamanni ancor disse: “Io son mosso,

270 ché star qui più a me stesso rincresco,

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ché pazzia è, ché par la terra accesa,aspettar più per pascer poi di presa”.

Diceva Dionigi: “Scalzo e scintoa uno infrescatoio vo’ starmi un’ora”.

275 E finalmente il partito fu vintodi partir tutti, ché ‘l sol gli divora.El Cappellaio ne va che par sospintoco’ bracchi ansando con la lingua fuora;quanto più vanno, il caldo più raddoppia:

280 parea appiccato il fuoco in ogni stoppia.

Tornossi a casa, chi tristo e chi lietoe chi ha pieno il carnaiuol di starne;alcun si sta sanza esse molto cheto,e bisogna procacci d’altra carne.

285 Guglielmo viene dispettoso a drieto,né può di tanta ingiuria pace farne;Gioan Francesco già non se ne cura,ch’uccella per piacer, non per natura:

“Ov’è ‘l Corona? Ov’è Giovan Simone?290 - domanda - Braccio, ov’è quel del gran naso?”.

Braccio rispose: “A me consolazioneè che ciascun di costor sia rimaso.Non prese mai il Corona uno starnone,se per disgrazia non l’ha preso o a caso;

295 e più sparvier’ ha morti già meschinich’Orlando non uccise Saracini.

Egli arà forse preso qualche grillo:lascialo andar, ché questa è poca ingiuria,ché me’ sarebbe perder, che smarrillo:

300 menarlo meco i’ m’ho recato a ingiuria.Gioan Simone, gli tocca un certo grillo,sella il cavallo o, se gli ha, mula, a furiael sacco toglie, e questo è suo mal vecchio:per mio consiglio e’ non verrà a Fucecchio;

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Uccellagione

305 ché ‘l ciambellotto ha già presa la piegad’andarne sanza dire agli altri addio,il cappelluccio, e vassene a bottega,a un grembiule, ch’è ‘l cucco e ‘l suo desio;lui già, quando il fiero naso spiega

310 cani e cavalli aombra e fa restio;né de’ sentir della rosa l’odore,se non conficca la punta nel fiore.

Luigi Pulci anco rimaso fia:e’ se n’andò là oggi in un boschetto,

315 ch’aveva il capo pien di fantasia:vorrà fantasticar qualche sonetto;guarti, Corona, per la fede mia,che borbottòe staman molto nel letto,e’ ricordava ogni volta il Corona,

320 e l’ha a cacciar in frottola o in canzona”.

Giungono a casa, e chi ripone il cuoio,chi i can’governa e mette nella stalla;poi, fatto cerchio a uno infrescatoio,truovansi tutti co’ bicchieri a galla.

325 Quivi si fa un altro uccellatoio,quivi si dice un gru d’ogni farfalla;e par trebbiano el vin, sendo cercone:sì fa la voglia le vivande buone.

Il primo assalto fu sanza romore:330 ognuno attende a menar le mascella;

ma poi, passato quel primo furore,chi d’una cosa e chi d’altra favella;ciascuno al suo sparvier dava l’onorecercando d’una scusa pronta e bella;

335 e chi molto non fe’ col suo sparviere,si sfoga or qui col ragionare e ‘l bere.

Ogni cosa guastava la quistionedel Foglia e di Guglielmo finalmente;

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Uccellagione

ma Dionigi con parole buone340 dicea: “Guglielmo, e’ non si tiene a mente

a caccia nulla e a l’uccellagione:basta che ‘l Foglia del caso si pente;fa’ che tu sia, come fu’ io, discreto,ch’uccisi il mio e stommi in pace cheto”.

345 Ora ecco il sol ne l’oceàn n’è ito,e Luigi, e Luigi è già tornato;e ‘l Corona anche a desco è comparito;Giovan Simone ha fatto al modo usato:per arte di maiolica è sparito.

350 E, poi che molto si fu cicalato,a letto tutti, e prima un centellino,ché d’ogni cosa porta pena il vino.

Or quel che poi si sognassi la notte,questo sarebbe bello a poter dire,

355 ch’io so ch’ognun rimetterà le dottee insino a terza vorranno dormire;poi ce n’andreno in Sieve, a quelle grotte,e qualche lasca farem fuori uscire.E così passa, o compar, lieto il tempo,e con mille rime a zucchero e a tempo.

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Nencia

Nencia

Nencia da Barberino

Ardo d’amore et conviemmi cantareper una dama che mi strugge il core,c’ogn’otta ch’i’ la sento ricordareel cor mi brilla et par che gli esca fore.

5 Ella non truova di bellezze pare,cogli occhi gitta fiaccole d’amore;io sono stato in ciptà et castellaet mai non vidi gnuna tanto bella.

Io sono stato a Empoli al mercato,10 a Prato, a Monticelli, a San Casciano,

a Colle, a Poggibonzi, a San Donato,et quindamonte insino a Decomano;Feghine, Castelfranco ho ricercato,San Piero, e ‘l Borgo, Mangona et Gagliano:

15 più bel mercato che nel mondo siaè Barberino, dov’è la Nencia mia.

Non vidi mai fanciulla tanto honesta,né tanto saviamente rilevata;non vidi mai la più pulita testa,

20 né sì lucente, né sì ben quadrata;et ha du’ occhi che pare una festa,quand’ella gli alza ched ella ti guata;et in mezzo ha el naso tanto bello,che par proprio bucato col succhiello.

25 Le labra rosse paion di corallo,et havi drento duo filar’ di dentiche son più bianchi che que’ del cavallo,et d’ogni·llato ella n’ha più di venti;le gote bianche paion di cristallo,

30 sanz’altri lisci o <i>scorticamenti,et in quel mezzo ell’è com’una rosa:nel mondo non fu mai sì bella cosa.

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Nencia

Ben si potrà tenere aventurato,chi fia marito di sì bella moglie;

35 ben si potrà tenere im buon dì nato,chi arà quel fioraliso sanza foglie;ben si potrà tener sancto et beato,et fien contente tutte <le> suo voglie,d’haver la Nencia, et tenersela im braccio,

40 morbida et bianca che pare un sugnaccio.

I’ t’ho aguagliata alla fata Morgana,che mena seco tanta baronia;i’ t’asomiglio alla stella diana,quando apparisce alla capanna mia;

45 più chiara se’ che acqua di fontana,et se’ più dolce che la malvagìa,quando ti sguardo da sera o mattina,più bianca se’ che ‘l fior della farina.

Ell’ha du’ occhi tanto rubacuori,50 che·lla trafiggere’ con essi un muro;

chiunche la vede convien che ‘nnamori,e·ll’ha il suo cor <e> più c’un ciottol duro,et sempre ha seco un migliaio d’amadoriche da quegli occhi tutti presi furo;

55 ma ella guarda sempre questo et quello,per modo tal che mi strugge il cervello.

La Nencia mia, che pare um perlino,ella ne va la mattina alla chiesa:e·ll’ha la cotta pur di dommaschino,

60 et la gamurra di colore accesa,et lo scheggiale ha tutto d’oro fino;et poi si pone in terra, alla distesa,per esser lei veduta, et, bene adorna,quando ha udito messa, a casa torna.

65 La Nencia a·ffar covelle non ha pari:d’andare al campo per durar fatica,

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Nencia

guadagna a filatoio di buon’ danari,di tesser panni lini, Dio te ‘l dica!Ciò che·lla vede convien che·lla impari,

70 et di brigare in casa ella è amica;ed è più tenerella che un ghiaccio,morbida et bianca, che pare un migliaccio.

La m’ha sì concio et in modo governato,che più non posso maneggiar marrone;

75 et hammi drento sì aviluppato,ch’i’ non posso inghio <t>tir già più bo <c>cone,et son com’un graticcio diventato,tanta pena mi dà, et passione;et ho fatica un mondo, e pur soportole,

80 ché m’ha legato con cento ritortole.

I’ son sì pazzo della sua persona,che tutta nocte i’ vo traendo guai;pel parentado molto si ragiona,ognun dice: “Vallera, tu l’harai!”;

85 pel vicinato molto si stanzonach’i’ vo la nocte intorno a’ tuo pagliaiet, s’i’ mi caccio a cantar a ricisa,tu se’ nel lecto, et scoppi delle risa.

Non ho potuto stanocte dormire,90 mill’anni mi parea che fussi giorno,

sol per poter colle bestie venirecon esso teco, et col tuo viso adorno;et pur del lecto mi convien uscire,posa’mi sotto il portico del forno,

95 et livi stetti più d’una hora et mezzo,finché·lla luna si ripose, al rezzo.

La Nencia mia non ha gnun mancamento,è lunga et grossa et di bella misura,e·ll’ha un buco nel mezzo del mento

100 che rimbellisce tutta suo figura;

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Nencia

e·ll’è ripiena d’ogni sentimento,credo che la formasse la natura,morbida et bianca, et tanto appariscente,che·lla trafigge il cuor a molta gente.

105 I’ t’ho arecato u·mazzo di spruneggicon co <c>ole, ch’i’ colsi avale avale;i’ te gli donerei, ma tu grandeggi,et non rispondi mai né ben né male;stato m’è detto che tu mi dileggi,

110 et io ne vo pur oltre alla reale;quando ci passo, che sempre ti veggio,ognun mi dice come io ti vagheggio.

Tutto dì, hieri, t’aspettai al mulino,sol per veder se passavi indiritta;

115 le bestie son passate el poggiolino:vientene su, che tu mi par confitta!Noi ci staremo um pezzo a un caldino,hor ch’i’ mi sento la ventura ritta;noi ce n’andreno suso alle Poggiuole,

120 e ‘nsieme tocchereno le bestiuole.

Quando ti vidi uscir della capannacol cane in mano et colle pecorelle,el cor mi cre<b>be allor più d’una spanna,le lagrime ne vennon pelle pelle;

125 i’ m’aviai <in> giù con una canna,toccando e mie giovenchi e·lle vitelle;i’ me n’andai in un burron quindentro:i’ t’aspectavo, et tu tornasti dentro.

Quando tu vai per l’acqua coll’orcetto,130 un tracto venis’tu al pozzo mio!

Noi ci daremo un pezzo di diletto,ché so che noi farem buon lavorìo,et cento volte i’ sare’ benedettoquando fussimo insieme al pozzo mio;

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Nencia

135 et se tu de’ venir, ché non ti spacci,aval che viene il mosto e’ castagnacci?

E’ fu d’april quando m’innamorasti,quando ti vidi coglier la ‘nsalata;io te ne chiesi, et tu mi rimbro<t>tasti,

140 tanto che se n’adette la brigata;i’ dissi bene allhora: “Ove n’andasti?”,ch’io ti perdetti a manco d’un’occhiata;d’allora inanzi i’ non fu’ mai più desso,per modo tale che m’hai messo nel cesso.

145 Nenciozza mia, ch’io me ne voglio andare,hor che·lle pecorelle voglion bere,a quella pozza, ch’io ti vo’ aspectare;et livi in terra mi porrò a·ssedere,tanto che te vi veggia valicare;

150 voltolerommi um pezzo per piacere,aspecterotti tanto che tu venga,ma fa’ che a disagio non mi tenga.

Nenciozza mia, ch’i’ vo’ sabato andarefino a Firenze, a vender duo somelle

155 di schegge, ch’i’ mi puosi hieri a tagliare<in> mentre che pascevon le vitelle;procura ben s’i’ ti posso arecare,o se tu vuoi ch’i’ t’arrechi cavelle:o liscio o biacca dentro un cartoccino,

160 o di spiletti o d’àgora un quattrino.

Ell’è dirittamente ballerina,che·lla si lancia com’una capretta,et gira più che ruota di mulina,et dassi della mano nella scarpetta;

165 quand’ella compie il ballo, ella s’inchina,poi torna indrieto e duo tratti scambie<t>tae·lla fa le più belle riverenzeche gnuna ciptadina da Firenze.

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Nencia

Ché non mi chiedi qualche zaccherella,170 che so n’adopri di cento ragioni?

O uno intaglio per la tuo gonnella,o uncinegli, o magliette, o bottoni,o pel tuo camici<o>tto una scarsella,o cintolin’, per legar gli scuffioni,

175 o vuoi, per amagliar la gamurrina,una cordella a seta cilestrina.

Se tu volessi per portare al colloun collarin di que’ bottoncin’ rossi,con un dondol nel mezzo, arecherollo:

180 ma dimi se gli vuoi piccoli o grossi;et s’io dovessi trargli del midollodel fusol della gamba o degli altr’ossi,et s’io dovessi impegnar la gonnella,i’ te gli arrecherò, Nencia mia bella.

185 Se mi dicessi, quando Sieve è grossa:“Gèttati dentro!”, i’ mi vi gitteria;et s’io dovessi morir di percossa,el capo al muro per te batteria;comandami, se vuoi, cosa ch’i’ possa,

190 et non ti peritar de’ facti mia;io so che molta gente t’impromette:fanne la pruova d’un paio di scarpette.

Non ci passa nessun per la contradache non dican: “Va’ giù, che·lla t’aspecta”;

195 allor mi caccio giù per questa strada,mettendo e bisantin’ nella berretta,perch’io so che·ll’è vaga ch’i’ vi vada;sempre la truovo che·lla si rasettae dove ell’è, che pure ella mi senta,

200 duo fanfaluche da’ balcon’ m’aventa.

Io mi sono aveduto, Nencia bella,ch’un altro ti vagheggia a mie dispe<t>to,

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Nencia

et s’i’ dovessi trargli le budellaet poi gittarle in su ‘n un tetto,

205 tu sai ch’i’ porto allato la coltella,che taglia e pugne che pare un dilecto,che s’io il trovassi nella mia capanna,io gliele caccerei più d’una spanna.

Più bella roba che·lla Nencia mia,210 né più dolciata non si troverrebbe:

ell’è grossecchia, tarchiata et giulìa,frescozza, grassa, che·ssi fenderebbe,se non che·ll’ha in un occhio ricadìa(chi non la mira bene, non se l’adrebbe);

215 ma col suo canto rifà ogni festa,et di menar la danza ell’è maestra.

Ogni cosa so fare, o Nencia bella,pur che me ‘l cacci nel buco del cuore:io mi so mettere et trarre la gonnella,

220 et di porci son buon comperatore;sommi cignere allato la scarsella,et sopra tutto buon lavoratore;so maneggiar<e> la marra e ‘l marrone,et suono la staffetta et lo sveglione.

225 Tu se’ più bella che non è um papa,et se’ più bianca ch’una madia vecchia;piacimi più c’alle mosche la sapa,et più che’ fichi fiori alla forfecchia;tu se’ più bella che ‘l fior della rapa,

230 et se’ più dolce che ‘l mel della pecchia;vorre’ti dare in una gota um bacio,che·ll’è più saporita che un cacio.

Io mi posi a·ssedere lungo la gora,baciando in su quella herba voltoloni,

235 et ivi stetti più d’una mezz’ora,tanto che valicorono e castroni.

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Nencia

Che·ffa’ tu, Nencia, che tu non vien’ fora?Vientene su per questi saliconi,ch’i’ metta le mie bestie fra le tua,

240 che parremo uno, et pur saremo dua.

Nenciozza mia, ch’i’ me ne voglio andareet rimenar le mie vitelle a casa;fatti con Dio, ch’io non posso più stare,ch’io mi sento chiamare a mona Masa;

245 lascioti il cor, deh, no·mme lo tribbiare,fa’ pur buona misura et non sia rasa;fatti con Dio et con la buona sera,sieti raccomandato il tuo Vallera.

“Nenciozza mia, vuo’ tu un poco fare250 meco alle neve per quel salicale?”.

“Sì, volentieri, ma non me la sodaretroppo, che tu non mi facessi male!”.“Nenciozza mia, deh, non ti dubitare,ché l’amor ch’io ti porto sì è tale,

255 che quando avessi mal, Nenciozza mia,colla mia lingua te lo leveria”.

“Andiam più qua, ché qui n’è molta poca,dove non tocca il sol nel valloncello;rispondi tu, ché i’ ho la voce fioca,

260 se fussimo chiamati dal castello”.“Lievati il vel di capo, et meco gioca,ch’i’ vegga il tuo bel viso, tanto bello,al qual rispondon tutti li tui membri,sì che a un’angiolecta tu m’assembri”.

265 “Cara Nenciozza mia, i’ aggio intesoun carpettin che bela molto forte;vientene giù, che·lupo sì l’ha preso,et cogli denti gli darà la morte;fa’ che tu sia giù nel vallone sceso,

270 dagli d’un fuso nel cuor per tal sorte

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Nencia

che tu l’uccida, che si dica scorto:“la Nencia el lupo col <suo> fuso ha morto””.

I’ t’ho trovato al bosco una nidiata,in un certo cispuglio, d’uccellini;

275 i’ te gli serbo, e’ son una brigata,et mai vedesti e più be’ guascherini;doman t’arecherò una schiacciata,ma per che non s’adìen questi vicini,i’ farò vista, per pigliare scusa,

280 venir sonando la mie cornamusa.

Nenciozza mia, i’ non ti parre’ sgherro,se di seta io havessi un farsettino,et colle calze chiuse, s’i’ non erro,i’ ti parrei un grosso ciptadino;

285 et non mi fo far sazzera col ferro,perch’al barbier non do più d’un soldino,ma se ne viene quest’altra ricolta,io me la farò far più d’una volta.

A Dio, gigliozzo mio del viso adorno,290 io ve<g>go e buoi c’andre<b>bono a far danno;

arecherotti un mazzo, quando torno,di fragole, s’al bosco ne saranno;quando tu sentirai sonare el corno,vientene dove suoi venir quest’anno,

295 appiè dell’orto, in quella macchierella:arrecherocti un po’ di frassinella.

I’ t’ho facta richiedere a tuo padre,Beco n’ha strascicato le parole,et è rimaso sol dalla tua madre,

300 che mi par dica pur che·lla non vuole;ma io vi vo’ venir con tante squadre,che meco ti merrò, sia che <sì> vuole;io l’ho più volte decto a·llei et Beco:diliberato ho acompagnarmi teco.

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Nencia

305 Quando ti veggio fra una brigata,sempre convien che ‘ntorno mi t’agiri;<et> com’io veggio ch’un altro ti guata,par proprio che del pecto il cor mi spiri;tu mi se’ sì nel cuore intraversata,

310 ch’i’ rovescio ogni dì mille sospiri,et con sospiri tutti luci<o>lando,et tutti ritti a te, Nencia, gli mando.

Nenciozza mia, deh, vien meco a merenda,ch’i’ vo’ che·nnoi facciamo una ‘nsalata,

315 mi fa’ che·lla promessa tu m’attenda,et che non se n’avegga la brigata;non ho tolto arme con che ti difendada quella trista Beca sciagurata,et so che·ll’è cagion di questo male,

320 che ‘l diavol sì la possa scorticare.

La Nencia mia, quand’ella va alla festa,ella s’adorna che pare una perla,e·lla si liscia, imbiacca et rasetta,et porta bene in dito sette anella;

325 e·ll’ha dimolte gioie in una cassetta,sempre le porta sua persona bella;di perle di valuta porta assai,più belle, Nencia, non vidi già mai.

Se tu sapessi, Nencia, il grande amore,330 ch’i’ porto a’ tuo begli occhi stralucenti,

le lagrime ch’i’ sento, e ‘l gran doloreche par<e> che mi svèglin tutti e denti,se tu il sapessi, e’ ti crepere’ il cuore,et lasceresti gli altri tuo serventi,

335 et ameresti solo il tuo Vallera,che se’ colei che ‘l mio cuor sì dispera.

I’ ti vidi tornar, Nencia, dal sancto:eri sì bella che tu m’abagliasti;

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Nencia

tu volesti saltare entro quel campo,340 et un tal micolino sdrucciolasti;

io mi nascosi di presso, a un canto,e tu così pian piano ne soghignasti,et poi venni oltre, et non parve mie fa<c>to,tu mi guastati, et volgesti<ti> a un tracto.

345 Nenciozza <mia>, tu mi fai strabigliare,quando ti veggio così colorita;stare’ un anno sanza manicare,sol per vederti sempre sì pulita;s’io ti potessi allotta favellare,

350 sarei contento sempre alla mie vita;se io ti toccassi um miccino la mano,mi parre<b>be esser papa a mano a mano.

Ché non ti svegli et vienne allo balcone,Nencia? che non ti pos’tu mai levare!

355 Tu senti bene ch’i’ suono lo sveglione,tu te ne ridi et fa’mi trabiliare;tu non se’ usa a star tanto in prigione,tu suo’ pur esser pazza del cantare;e ‘n tutto dì non t’ho dato di cozzo,

360 ch’i’ ti vorrei donare um berlingozzo!

Or chi sarebbe quella sì crudele,che havendo un damerino sì d’assainon diventassi dolce come un mèle?Et tu mi mandi pur trahendo guai!

365 Tu sai ch’io ti son suto sì fedele,meriterei portar corona et mai;deh, èssi um poco piacevole almeno,ch’i’ sono a·tte come la forca al fieno!

Non è miglior maestra in questo mondo,370 che è la Nencia mia di far cappegli;

e·lla gli fa con que’ bricioli intorno,ch’io non vidi già mai e più begli;et le vicine le stanno d’intorno,

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Nencia

et dì di feste vengon per vedegli;375 e·lla fa molti graticci et canestre,

la Nencia mia è el fior delle maestre.

I’ son di te più, Nencia, innamorato,che non è il farfallin della lucerna;et più ti vo cercando in ogni lato,

380 più che non fa il moscione alla taverna;più tosto ti vorrei havere allato,che mai di nocte una accesa lucerna;hor, se tu mi vuo’ ben, horsù, fa’ tosto,hor che ne viene e castagnacci e ‘l mosto.

385 O povero Vallera sventurato,ben t’hai perduto il tempo et la fatica!Solevo dalla Nencia essere amato,et hor m’è diventata gran nimica;et vo urlando come un disperato,

390 et lo mio gran dolor convien ch’i’ dica:la Nencia m’ha condotto a·ttale stremo,quando la ve<g>go, tutto quanto triemo.

Nenciozza mia, tu mi fai consumare,et di stratiarmi ne pigli piacere;

395 se sanza duolo mi potessi sparare,mi spareria per darti a divederes’i’ t’ho nel cuore, et pur t’ho a soportare;te ‘l porrei in mano, et far e ‘telo vedere;se·llo toccassi con tuo mano snella,

400 e’ griderebbe: “Nencia, Nencia bella!”.

Nenciozza mia, tu·tti fara’ con Dio,ch’io veggo le bestiuole presso a casa;io non vorrei per lo baloccar mionessuna fusse im pastura rimasa;io veggo ben che·ll’han passato el rio,et sentomi chiamar da mona Masa;fatti con Dio, c’andar me ne vo’ tosto,ch’i’ sento Nanni che vuol far del mosto.

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Ambra

Ambra

Ambra

Fuggita è la stagione che havea conversie fiori in pomi già maturi et còlti;in ramo non può più foglia tenersi,ma sparte per li boschi assai men folti

5 si fan sentire, se adviene che gli atraversiel cacciatore, et i pochi paion molti;la fera, se ben l’orme vaghe absconde,non va segreta per le secche fronde.

Tra li àlbori secchi stassi il laur lieto,10 et di Cyprigna l’odorato arbusto;

verdeggia nelle bianche alpe l’abeto,et piega e rami già di neve honusto;tiene il cipresso qualche uccel secreto,et co’ venti combatte il pin robusto;

15 l’humil ginepro con le acute fogliela man non porge altrui, chi ben lo coglie;

la uliva in qualche dolce piaggia apricasecondo il vento par hor verde hor bianca:Natura in questi tali serba et nutrica

20 quel verde che nell’altre fronde manca.Già e peregrini uccei con gran faticahanno condocto la famiglia stancadi là dal mare, et pel camin lor mostriNereide, Tritoni et altri mostri.

25 Ha combattuto dello imperio et vinctola Nocte, et prigion mena el breve giorno:nel cielo sereno d’ecterne fiamme cinctolieta el carro stellato mena intornoné prima surge, che in Occeano tinto

30 si vede l’altro aurato carro adorno;Orion freddo col coltello minacciaPhebo, se mostra a·nnoi la bella faccia.

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Ambra

Seguon questo nocturno carro ardenteVigilie, Excubie et sollecite Cure,

35 el Somno (et bench’e’ sia molto potente,queste importune il vincon talhor pure),e’ dolci Sogni, che ingannon la mente,quando è oppressa da fortune dure:di sanità, d’assai thesoro fa festa

40 alcun che infermo et povero si desta.

Oh miser quello che in nocte così lunganon dorme, et il disiato giorno aspecta,se advien che molto et dolce disio il punga,quale il futuro giorno li promecta!

45 Et, benché ambo le ciglia insieme adgiunga,e’ pensieri tristi excluda e’ dolci ametta,dormendo o desto, acciò che il tempo inganni,gli pare la nocte un secol di cento anni.

Oh miser chi tra l’onde truova fuora50 sì lunga nocte, assai lontano dal lito,

e ‘l cammin rompe della cieca prorael vento, et freme il mare un fero mugito!Con molti prieghi et voti Aurorachiamata, sta col suo vecchio marito.

55 Numera tristo et disioso guardae passi lenti della Nocte tarda.

Quanto è diversa, anzi contraria sortede’ lieti amanti nella algente bruma,a cui le nocte sono chiare et corte,

60 il giorno obscuro et tardo si consuma!Nella stagione così gelida et forte,già rivestiti di novella piuma,hanno deposto gli ugelletti alquantonon so s’io dica o e lieti versi o ‘l pianto.

65 Stridendo in cielo e gru vegonsi a·llungel’aer stampare di varie et belle forme;

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Ambra

et l’ultima col collo steso agiungeove è quella dinanzi, alle vane orme;et, poi che nelli aprichi lochi giunge,

70 vigile un guarda, et l’altra schiera dorme:cuoprono e prati et van leggieri pe’ laghimille spetie d’uccei dipinti et vaghi.

L’aquila spesso col volato lentominaccia tutti, et sopra il stagno vola:

75 levonsi insieme et caccionla col ventodelle penne stridente; et, se pur solauna fuor resta del pennuto armento,l’uccel di Giove subito la invola:resta ingannata, misera, se crede

80 andarne a Giove come Ganimede.

Zephiro s’è fuggito in Cipri, et ballacon Flora, otiosi per la herbetta lieta;l’aria non più serena, bella et giallaBorrea et Aquilone rompe e inquieta;

85 l’acqua corrente et querula incristallael ghiaccio, et stracca hor si riposa cheta:preso il pesce nell’onda dura et chiararesta come in ambra aurea zanzara.

Quel monte che se oppone a Cauro fero,90 che non molesti il gentil fior, cresciuto

nel suo grembo d’honor, ricchezze et impero,cigne di nebbie el capo già canuto;gli omeri candenti, giù dal capo altero,cuoprono e bianchi crini, e ‘l pecto irsuto

95 la horribil barba, che è pel ghiaccio rigida;fan gli occhi e ‘l naso un fonte, e ‘l gel lo infrigida.

La nebulosa ghirlanda che cignel’alte tempie gli mette Noto in testa;Borrea da l’alpe poi la caccia et spigne,

100 et nudo et bianco el vecchio capo resta;

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Ambra

Noto sopra l’ale humide et malignela nebbia porta, et par di nuovo il vesta:così Morello irato, hor carco hor lieve,minaccia al piano subiecto hor acqua hor neve.

105 Partesi de Ethyopia caldo et tintoAustro, et satia l’assetate spugnenell’onde salse di Tirreno intinto;appena a’ destinati luoghi giugne,gravido d’acqua et da’ nugoli cinto

110 et stanco, stringe poi ambo le pugne:e fiumi lieti contro all’acque amicheescono allhor delle caverne antiche.

Rendon gratie ad Occean padre, adornid’ulva et di fronde fluviali le tempie;

115 suonan per festa e rochi et torti corni;tumido il ventre, già superbo, s’empie;lo sdegno, conceputo molti giornicontro alle ripe timide, s’adempie:spumoso ha rotto già lo inimico argine,

120 né serva il corso dello antico margine.

Non per vie lunghe o per cammino oblicoa guisa di serpenti, a gran volumi,sollecitan la via al padre antico:congiungon l’onde insieme e lontan’ fiumi

125 et dice l’uno all’altro, come amico,nuove del suo paese et de’ costumi:così insieme, in una strana voce,cercon, né truovon, la smarrita foce.

Quando gonfiato et largo si ristrigne130 tra li alti monti d’una chiusa valle,

stridon frenate, turbide et malignel’onde, et miste con terra paion gialle;et grave petre sopra petre pigne,irato a’ sassi dello angusto calle;

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Ambra

135 l’onde spumose gira, horribil freme:vede il pastor da alto, et, secur, teme.

Tal fremito piangendo rende tristala terra dentro al cavo ventre adusta:caccia col fumo fuor fiamma âcqua mista

140 gridando, ch’esce per la bocca angusta,terribile alli orecchi et alla vista:teme, vicina, il suon alta et robustaVolterra, et e lagon’ torbidi che spumano,et piove aspecta se più alto fumano.

145 Così cruciato il fer torrente frendesuperbo, et le contrarie ripe rode;ma, poi che nel piano largo si distende,quasi contento alhora appena se ode:incerto se in su torna o se pur scende,

150 ha de’ monti distanti facto prode:già vincitore al cheto lago incede,di rami et tronchi pien, montane prede.

A pena è suta a tempo la villanapavida âprire alle bestie la stalla;

155 porta il figlio, che piange, nella zana;segue la figlia grande, et ha la spallagrave di panni vili, lini et lana;va l’altra vecchia masseritia a gallanuotono e porci et, spaventati, e buoi,

160 le pecorelle, et non si toson poi.

Alcun della famiglia s’è ridoctoin cima della casa, et su dal tectola povera ricchezza vede ir socto,la fatica, la speme; et, per sospecto

165 di se stesso, non duolsi et non fa mocto:teme alla vita el cuor nel tristo pecto,né delle cose car’ par conto faccia:così la magior cura ogn’altra caccia.

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Ambra

La nota et verde ripa alhor non frena170 e pesci lieti, che han più ampli spatii;

l’antica et giusta voglia alquanto è pienadi vedere nuovi liti; et, non ben satii,questo nuovo piacere vaghi gli menaa vedere le ruine et’ grandi stratii

175 delli edificii, et sopto l’acqua e muriveggon lieti et anchor non ben sicuri.

In guisa alhora di piccola isolettaOmbrone amante superbo Ambra cigne;Ambra, non meno da Laur dilecta,

180 geloso se ‘l rivale la tocca et strigne;Ambra driàde, a Delia sua acceptaquanto alcuna che stral fuor d’arco pigne;tanto bella et gentile che alfine li nuoce,leggieri di piedi et più ch’altra veloce.

185 Fu da’ primi anni questa nympha amatadal suo Laur gentile, pastore alpino,d’un casto amore, né era penetratalasciva fiamma al pecto peregrino.Fuggendo il caldo un dì nuda era entrata

190 nell’onde fredde de Ombrone, d’Appenninofiglio, superbo in vista et ne’ costumipel padre antico et’ cento frati fiumi.

Come le membra virginali entrornonella acqua bruna et gelida sentìo,

195 et, mosso da·leggiadro corpo adorno,della spilonca uscì l’altero iddio;dalla sinistra prese il torto corno,et nudo el resto, acceso di disio,difende il capo inculto a’ phebei raggi

200 coronato d’abeti et montàn’ faggi.

Et verso il loco ove la nympha stassigiva pian piano, coperto dalle fronde;

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Ambra

né era visto, né sentire e passilasciava il mormorio delle chiare onde.

205 Così vicino tanto alla nympha fassiche giugner crede le suo trecce bionde,et quella bella nympha in braccio havere,et, nudo, el nudo et bel corpo tenere.

Sì come pesce, alhora, che incauto cuopra210 el pescator con rara et soptil maglia,

fugge la rete, qual sente di sopra,lasciando, per fuggire, alcuna scaglia;così la nympha, quando par si scuopra,fugge lo dio, che addosso si li scaglia,

215 né fu sì presta, anzi fu sì presto elli,che in man lasciolli alcun de’ sua capelli.

Et, saltando dell’onde, strigne il passo;di timor piena fugge nuda et scalza;lascia e panni et li strali, l’arco e ‘l turcasso;

220 non cura e pruni acuti o l’aspra balza;resta lo dio dolente aflicto et lapso;pel dolore le man’ strigne, al cielo li occhi alza;maladisce la mano crudele et tarda,quando e biondi capelli svelti guarda.

225 Et seguendola, alhora, diceva: “O mano,a vellere e be’ crini presta et feroce,ma a·ttener quel corpo più che humanoet farmi lieto, ohimè, poco veloce!”.Così piangendo il primo errore invano,

230 credendo almeno agiugner con la bocedove arrivar non puote il passo tardo,gridava: “O nympha, un fiume sono, et ardo!

Tu m’accendesti in mezzo alle fredde acqueel pecto d’uno ardente disir cieco:

235 perché, come nell’onda el corpo giacque,non giace, ché staria meglio assai, con meco?

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Ambra

Se l’ombra et l’acqua mia chiara ti piacque,più bella ombra, più bella acqua ha el mio speco.Piaccionti le mia cose, et non piaccio io:

240 et son pur d’Appennino figliuolo, et dio”.

La nympha fugge, et sorda a’ prieghi fassi;a’ bianchi piè agiugne ale il timore.Sollecita lo dio, correndo, e passi,facti a seguir veloci dallo amore;

245 vede da’ pruni et da’ taglienti sassie bianchi piè ferire con gran dolore;cresce el disio, pel quale et ghiaccia et suda,vedendola fugire sì bella et nuda.

Timida et vergognosa Ambra pur corre;250 nel corso a’ venti rapidi non cede;

le leggier’ piante sulle spighe porrepotria, et sosterrieno il gentil piede;vedesi Ombrone ognor più campo tôrre,la nympha ad ogni passo manco vede:

255 già nel piano largo tanto il corso avanza,che di giugnerla perde ogni speranza.

Già pria per li alti monti aspri et repentivenìa tra’ sassi con rapido corso;e passi a·llei manco expediti, et lenti,

260 faceano a·llui sperare qualche soccorso;ma giunto, lapso, giù ne’ pian’ patenti,fu messo quasi al fiume stanco un morso:poi che non può col piè, per la campagnacol disio et cogli occhi l’acompagna.

265 Che debbe fare lo innamorato iddio,poi che la bella nympha più non giugne?Quanto gli è più negata, più disiolo ‘nnamorato core accende et pugne.La nympha era già presso ove Arno mio

270 riceve Ombrone, et l’onde si congiugne:

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Ambra

Ombrone, Arno veggendo, si conforta,et surge alquanto la speranza morta.

Grida da·llungi: “O Arno, a cui refuggela magior parte di noi fiumi thoschi,

275 la bella nympha, che come uccel fugge,da me seguìta in tanti monti et boschi,sanza alcuna piatate el cor mi strugge,né par che amor el duro cor conoschi:rendimi lei, et la speranza persa,

280 et el legier corso suo rompi e ‘ntraversa.

Io sono Ombrone che·lle mia cerule ondeper te raccoglio: a·tte tutte le serbo,et facte tue diventon sì prophonde,che sprezzi et ripe et ponti, alto et superbo;

285 questa è mia preda, et queste trecce bionde,qual’ in man porto con dolore acerbo,ne fan chiar segno; in te mie speme è sola:soccorri presto, ché la nympha vola!”.

Arno vedendo Ombrone, da pietà mosso,290 per che el tempo non basta a far risposta,

ritenne l’acqua, et già gonfiato et grossoda·llungi al corso della bella Ambra osta.Fu da nuovo timore freddo et percossoel vergin pecto, quanto più s’acosta:

295 drieto Ombron sente, et innanzi vede un lago,né sa che farsi, il cor gelato et vago.

Come fera cacciata et già difesada’ can’, fuggendo la bocca bramosa,fuor del periglio già, la rete tesa

300 veggendo innanzi agli occhi, paurosa,quasi già certa dovere essere presa,né fugge innanzi o indrieto tornar osa,teme e cani, alla rete non si fida,non sa che farsi, et spaventata grida;

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Ambra

305 tal della bella nympha era la sorte:da ogni parte da paura oppressa,non sa che farsi, se non disiar morte;vede l’un fiume et l’altro che s’apressa,et disperata alhor gridava forte:

310 “O casta dea, a cui io fui concessadal caro padre et dalla madre antica,unica aiuta all’ultima fatica!

Diana bella, questo pecto castonon maculò giammai folle disio:

315 guardalo hor tu, perch’io, nympha, non bastoa dua nimici; et l’uno et l’altro è dio.Col desio del morire m’è sol rimastoal core el casto amore di Laur mio;portate, o venti, questa voce extrema

320 a·lLaur mio, che la mia morte gema!”.

Né eron quasi della bocca forequeste parole, che i candidi piedifurno occupati da novel rigore;crescerli poi et farsi un saxo vedi,

325 mutar le membra e ‘l bel corpo colorema pur, che donna fussi anchor tu credi:le membra mostron come suol figurabozzata et non finita in pietra dura.

Ombrone pel corso faticato et lapso,330 per la speranza della cara preda

prende nuovo vigore et strigne il passo,et par che quasi in braccio havere la creda:crescer veggendo innanzi agli occhi il sasso,ignaro anchora, non sa donde proceda;

335 ma poi, veggendo vana ogni suo voglia,si ferma pieno di maraviglia et doglia.

Come in un parco cerva o altra fera,ch’è di materia o picciol muro chiuso,

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Ambra

soprafacta da’ cani campar non spera340 vicina al muro, et per timor là suso

salta, et si lieva innanzi al can legiera,resta el can dentro misero et deluso;non potendo seguire dove è salita,fermasi, et guarda el loco onde è fuggita;

345 così lo dio ferma la veloce orma,guarda piatoso il bel saxo crescente,el saxo, che anchor serba qualche formadi bella donna, et qualche poco sente;et come amore et la pietà lo ‘nforma,

350 di pianto bagna il sasso amaramente,dicendo: “O Ambra mia, queste son l’acque,ove bagnar già el bel corpo ti piacque!

Io non haria creduto in dolor tantoche la propia piatà, vinta da quella

355 della mia nympha, si fugissi alquanto:per la maggior pietà d’Ambra mia bella,questa, non già la mia, muove in me il pianto.Et pur la vita trista et meschinella,anchor che ecterna, quando meco penso,

360 è peggio in me, che in lei non haver senso.

Lapso, ne’ monti miei paterni excelsison tante nymphe, et sicura è ciascuna;tra mille belle la più bella scelsi,non so come; et amando sol questa una,

365 primo segno di amore e crini svelsi,et caccia’la della acqua fresca et bruna;tenera et nuda poi, fuggendo exanguetinse le spine e’ sassi el sacro sangue.

Et finalmente in un sasso conversa,370 per colpa solo del mio crudele disio,

non so, non sendo mia, come l’ho persa,né posso perder questo viver mio:

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Ambra

in questo è troppo la mia sorte adversa,misero essendo et inmortale dio;

375 ché, s’io potessi pure almen morire,potria il giusto inmortale dolor finire.

Io ho imparato come si compiaccia donna amata et il suo amor guadagni,che a quella che più ami più dispiacci!

380 O Borea algente, che gelato stagni,l’acque correnti fa s’induri et ghiacci,che, petra facto, la nympha acompagni:né sol già mai co’ raggi chiari et giallirisolva in acqua e rigidi cristalli”.

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 1

Selve 1

Selve

Dopo tanti sospiri e tanti omei,ancor non veggo quel bel viso adorno;dopo tanti dolori e pianti reinon fanno, omè, quei belli occhi ritorno.

5 O fallace Speranza, o pensier’ mieitenuti tanto già di giorno in giorno!Quando sarà che quei belli occhi guardi?Non so: sia quando vuol, che sarà tardi.

Occhi miei belli, o parolette accorte,10 più non vi veggo, lasso, e non vi sento!

O ore or lunghe, e fusti già sì corte,nimiche alora ed ora al mio contento!O mio destino, o maladetta sorte,abbiate omai pietà del mio tormento:

15 rendete quei belli occhi agli occhi miei,ché senza lor più viver non potrei.

Lasso, io non vivo e morir non potreilontano, omè, da quei bei lumi santi:non vivo, ché la mia vita è con lei;

20 qui resta il corpo sol, sospiri e pianti;una cieca Speranza i dolor’ mieinutrisce, e non permette il fil si schianti.Amore, a cui per sempre mi son dato,mi tien mirabilmente in questo stato.

25 Perché son più felici, occhi miei lassi,che voi le fere e’ boschi e’ monti e’ fiumi?Perché son più di voi felici e sassi,che veggon pur talor e vaghi lumi?La vita mia, che senza loro stassi,

30 convien che lacrimando si consumi.Almen sia presto, s’io debbo star moltosanza veder quello amoroso volto.

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 1

Almen m’avessi, sopra quel bel monte,ove or lei senza me soletta stassi,

35 le belle luci con lor forze pronteconverso in un di quei più duri sassi!Forse m’arebbe con pietosa frontetalor guardato, or tocco i leggier’ passi;s’io lo sentissi, arei ogni mia voglia,

40 se non, io sarei fuor di tanta doglia.

Almen m’avessi quella luce santaconverso nelle fronde ond’io mi chiamo!Forse, passando poi da quella pianta,pietosa n’avria còlto qualche ramo;

45 e, mentre con Amore or parla or canta,forse n’avria la man, quale io tanto amo,fattone una ghirlanda e messa in testa!Almen fussi erba da quel bel piè pesta!

Almen m’avessi col suo mirar fiso50 converso in fonte quello sguardo umano,

sopra al bel monte ov’è il mio paradiso!Forse talor la candida sua manosaria bagnata, e specchiato il bel visonell’acque, da cui son tanto lontano.

55 Se almen m’avessi in fera convertito,veggendo lei, so non sarei fuggito.

Io pur sospiro, e i sospir’ vanno in vento;io chiamo il tuo bel nome, e non risponde;io piango indarno, dolgomi e lamento;

60 l’umide luci mie più non ascondeun dolce sonno, e sento un foco drentoche m’arde sempre e i miei pensier’ confonde.Non posso più, o mia Speme fallace:altro che lei o morte non mi piace.

65 O dolcissime notte, o giorni lieti,amorosi sospiri, o dolci pianti!

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 1

O Amor testimon de’ bei secreti,lunghe vigilie, o parolette, o canti!O reo destin, perché questo or mi vieti,

70 e rompi il bel disio a’ tristi amanti?Dato m’hai tanto bel, poi me n’hai privo,per far maggior la doglia in la qual vivo.

S’io non debbo veder più gli occhi belliserrinsi e miei, né veghin mai più luce,

75 però che ogni altra cosa in fuor che quelliche io vegga, maggior doglia al cor conduce.Amor, che del mio mal meco favellie in queste pene se’ mia scorta e duce,rendimi con quelli occhi la mia pace,

80 o tronca il viver mio, se pur ti piace.

Io so ben, caro e dolce signor mio,la pena che tu hai de’ miei tormenti,e veggo insin di qua quel viso piobagnar di pianti, e odo i tuoi lamenti;

85 le tue parole, la pietà e ‘l disio,li amorosi pensier mi son presenti,mille altri segni della ardente voglia;e questo cresce più tanta mia doglia.

Amore e mia usanza pur mi mena90 nel loco dove fûr gli ultimi sguardi,

fine al mio ben, principio a tanta pena;né veggo quei belli occhi ovunque io guardi;onde dolente e tristo e vivo a penami parto, e muovo e passi lenti e tardi

95 in qualche parte, per vedere allorada lungi almeno ove il mio ben dimora.

Quivi con Amor parlo e con me stesso,e dico mille volte: “Oimè lasso!Là è il mio bel signore, e stassi appresso

100 all’ombra forse d’arbori o d’un sasso;

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 1

qualche rozzo villan parla con essoo altri, e non sen cura o sconcia un passo.E io, che vivo sol della sua vista,son sì di lungi: or piangi, anima trista!”.

105 Io non so, non che dir, se pensar deggiasenza uno stuol d’infiniti sospiri:ché forse alcun quei belli occhi vagheggia,e par che fiso e da presso li miri,e quella bella man tocca e maneggia;

110 e, per crescere in tutto e miei martìri,Amore in preda d’altri alfin mi mostrala sua bellezza e la dolcezza nostra.

Lasso, che pena ho io, se mi rimembrachi gode in pace tanta sua bellezza,

115 e vede e tocca le pulite membraad ogni or, quando vuole, e non le prezza!Me divide Fortuna, alunga e smembradal suo bel viso e da tanta dolcezza:né bramo al mondo o prezzo se non quelle

120 membra, e non posso udirne pur novelle.

E, se qualche novella sento pure,sol questo è, che ‘l pensier mi rapresentatra tanti mie martìr’, mille paure;e voglia e gelosia pur mi tormenta,

125 disio, dispetto, invidia e triste cure;e Fortuna, al mio mal pronta e attenta,mi perseguita sempre; Amor mi uccide,poi di tanto mio mal si allegra e ride.

Mentre che ‘l cor così s’affligge e geme130 e di tanto mio mal meco si duole,

alor che più disia e che più teme,il pianto in preda l’ha, e Morte il vuole,surge una dolce e disiata speme,che mi conforta con le sue parole,

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 1

135 e dice: “Ancor quel bel viso vedrailieto, dolce, amoroso più che mai.

Quelli occhi belli, lieti ed amorosi,poche accorte e dolcissime parolequeteranno e pensier’ tuoi disiosi

140 e l’alma afflitta, che a ragion si duole.Faran quelli occhi, che or ti sono ascosi,come fa tra le folte nebbie il sole:fuggirà il pianto e’ tuoi sospir’ dolentidinanzi alle amorose luci ardenti.

145 Tosto che appare al tuo cieco orizzontela luce che nel cor sempre ti splende,e dalla cima di quel sacro montequello amoroso raggio agli occhi scende,non convien por la man sopra la fronte,

150 ché questo dolce lume non offende.O che bella alba! O Titon vecchio, alloraabbiti sanza invidia la Aurora.

Vedrai le piagge di color’ diversicoprirsi, come a primavera suole;

155 né più la terra del tempo dolersi,ma vestirsi di rose e di viole.E segni in cielo, al dolce tempo avversi,farà dolci e benigni il novo Sole;e la dura stagion frigida e tarda

160 non si conoscerà, s’ella si guarda”.

Lieta e maravigliosa e rami secchivedrà di nuove fronde rivestire,e farsi vaghi fior’ gli acuti stecchie Progne e Filomena a noi redire;

165 lasciar le pecchie e casamenti vecchi,liete di fiore in fior ronzando gire;e rinovar le lassate fatichecon picciol passo le sagge formiche.

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 1

El dolce tempo il buon pastore informa170 lasciar le mandrie, ove nel verno giacque

el lieto gregge, che, belando, in tormatorna alle alte montagne, alle fresche acque.L’agnel, trottando, pur la materna ormasegue, ed alcun che pur ora ora nacque,

175 l’amorevol pastore in braccio porta;il fido cane a tutti fa la scorta.

Un altro pastor porta in su la spallauna pecora ch’è nel cammin zoppa;l’altro, sopra una gravida cavalla,

180 le rete e ‘l maglio e l’altre cose ha in groppa,per serrarvele alor che ‘l sole avalla,così nel lupo alcuna non intoppa,torte di latte e candide ricottemangion poi lieti, e russan tutta notte.

185 Romperanno e silenzi assai men lunghi,cantando per le fronde, allor gli uccelli;alcuno al vecchio nido par che agiunghicerte festuche e piccoli fuscelli.Campeggeran ne’ verdi prati e funghi,

190 liete donne corranno or questi or quelli;lascerà il ghiro il sonno e ‘loco ove era,e l’assiuol si sentirà la sera.

Vedrai ne’ regni suoi non più vedutagir Flora errando con le ninfe sue;

195 il caro amante in braccio l’ha tenuta,Zefiro, e insieme scherzan tutti due.Coronerà la sua chioma canutadi fronde il verno alla nova virtùe;tigri aspri, orsi, leon’ diverran mansi;

200 di dure, l’acque liquide faransi.

Lascerà Clizia il suo antico amante,volgendo lassa il palidetto volto;

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 1

a questo nuovo amoroso levantelo stuol degli altri fior’ tutto fia vòlto,

205 attenti a mirar fiso il radiantelume degli occhi e venerarlo molto.La rugiada per l’erba e in ogni frascanon creder più ch’e febei raggi pasca.

Sentira’ per l’ombrose e verdi valli210 corni e zampogne fatte d’una scorza

di salcio o di castagno; e vedrai ballidelli olmi all’ombra, quando il sol più sforza;E pesci sotto e liquidi cristallidi quei belli occhi sentiran la forza.

215 Nereo e le figlie in mare aràn bonaccia;mosterrà il mondo lieto un’altra faccia.

Come arbuscel inserto gentilmentesi maraviglia, quando vede poinuovi fior, nuove frondi in sé virente

220 nutrire e maturar pomi non suoi:tal maraviglia arà la bruma algente,quando sì bella mosterrassi a noila terra del novo abito vestita,fra sé dicendo: “Or sono io rimbambita?”.

225 Durerà questa nuova maravigliainfin che ‘l lume de’ belli occhi apparee si presenti alle gelate ciglia;quando vedrà le dolci luci e chiare,o si convertirà nella sua figlia

230 o gli conviene agli antipodi andare:chi mira fiso questa gentil faccia,convien gentil diventi o si disfaccia.

Se questa gentil forza a lei s’appressa,se quel bel viso si vedrà d’intorno,

235 presto la prima maraviglia cessache porta il disiato e nuovo giorno.

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 1

Tacita allor dirà pur fra se stessa:“Maggior maraviglia ho che ‘l viso adorno,come toglie ogni forza a’ febei rai,

240 ancor non facci maggior’ cose assai”.

Lascerà poi la bruma innamoratapartendosi la luce de’ belli occhi;la via è già da molti fior’ segnata,lieti aspettando che ‘l bel piè li tocchi;

245 l’aria che fende è lucida e beata;uno amoroso nembo par che fiocchisopra lei fior’ fragranti, un dolce odore;splendon per tutto spiriti d’Amore.

Vengon per onorare il mio bel Sole250 satir’ saltando coronati e destri;

Pan vien sonando e in sua compagnia vuolefauni, e in mano hanno verdi mai alpestri;candide rose e pallide violeporton le ninfe in grembo e ne’ canestri;

255 vengono i fiumi di molle ulva adorni,di fiori e fronde empiendo i torti corni.

Lascia la vecchia madre Falteronae le caverne dello antico monteArno mio lieto, e di verde corona

260 di popul cuopre la cerulea fronte;nel suo mormoreggiar seco ragionae duolsi Arno d’aver troppo bel ponte;Arno che, quanto può, si sforza e bramaaver, come il fratello, eterna fama.

265 Ecco apparire alle vedove muraveggiamo il dolce lume de’ belli occhi;triemono i cor’ villani ed han paurache questo gentil foco non li tocchi;nelli altri, d’alta e di gentil natura,

270 Amore e Gentilezza par trabocchi;

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 1

corron già per veder donne e donzelle,non hanno invidia, anzi si fan più belle.

Poi che sarà drento al bel cerchio entrata,quanta dolcezza sentiran coloro

275 che con tanto disio l’hanno aspettata,veggendo alor la dolce pace loro!O cara patria, or non sia più invidiatada te già mai la prima età dell’oro,l’isole Fortunate in occidente,

280 o dove già peccò il primo parente.

Ciascun l’applaude, ciascun la saluta,a dito l’uno all’altro costei mostra.Dicono i cor’ gentil’: “Ben sia venutala dolcezza, la pace e vita nostra!”.

285 La vil gente starà dolente e mutae fuggirà de’ belli occhi la giostra.Ecco già in casa questa mia gentile,felice casa, benché alquanto umìle.

Non colonne marmoree in altezza290 reggon le picciolette e basse mura

dello edificio: non li dà bellezzapetra di gran saldezza, chiara e dura;non opra di scultor che ‘l vulgo prezza,non musaico alcun, non v’è pittura,

295 non gemme orientali, argento o oro,ma molto più gentile e bel lavoro.

Nella porta Bellezza e Leggiadria,dolci Sguardi amorosi e bei Sembianti;Pietà drento si mostra e in compagnia

300 Speme e Merzé par dolcemente canti(oh che dolce e divina melodia!);Costumi ornati, e Modi onesti e santi,dolci Parlar, Motti arguti in la scala;Fede, Amor, Gentilezza con lei in sala.

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 1

305 Solo una vecchia in uno oscuro canto,pallida, il sol fuggendo, si sedea,tacita sospirando, ed uno amantod’uno incerto color cangiante avea;cento occhi ha in testa, e tutti versan pianto,

310 e cento orecchi la maligna dea;quel che è, quel che non è, trista ode e vede;mai dorme, e ostinata a sé sol crede.

Nel primo tempo che Caòs anticopartorì il figlio suo diletto Amore,

315 nacque questa maligna dea ch’io dico:nel medesimo parto venne fore.Giove, padre benigno, al mondo amico,la relegò tra l’ombre inferiorecon Pluton, con le Furie; e stiè con loro,

320 mentre regnò Saturno e l’età d’oro.

Poi, sendo spesso e gravemente offesidal fer Cupido gl’immortali dèiora a un laccio, ora a un altro presi,feron tornar dalli inferi costei

325 per decreto divin, di sdegno accesi,e che dove Amor è, fussi ancor lei.Così questa inimica il mondo ingombra:segue Amor sempre come il corpo l’ombra.

Temeva forte il sommo padre Giove330 che di Caòs il bello e dolce filio

non si facessi con le forze nuoverettore in luogo suo del gran concilio,il scettro e ‘l regno transferissi altrove;però rivocò questa dallo esilio,

335 giurando alor per la palude Stigiache segua di Amor sempre le vestigia.

Pensò con questa molta forza tôrreel sommo Padre alli amorosi strali,

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 1

e’ duri nodi e tutti i lacci sciôrre:340 perché, veggendo gli dèi immortali

in quante pene qualunche ama incorre,in che pianti e sospiri e in quanti mali,leverebbon d’amore ogni pensiero,fuggendo il grave giogo e duro impero.

345 Così fatta la legge e ‘l giuramentoe consentita dal divin senato,poco passò che ne fu mal contento,e invan pentissi allora aver giurato,provando in sé questo mortal tormento:

350 prima era amor sicur, lieto e beato;e, se non fussi la già data fede,l’arìa rimessa alla tartarea sede.

Di Caòs nata e da Pluton, nutritadel latte delle Furie (o tristo nume!),

355 fa sentire a’ mortali ancora in vitale pene del gran regno senza lume;non sana mai la sua immortal ferita;porta una spada tinta nelle schiumedi Cerbero laggiù nel basso seggio;

360 del ben fa male e sempre crede il peggio.

D’ombre vane e pensier’ tristi si pasce:rode un cor sempre la infelice boccae come è consumato, alor rinasce(o miser quello a cui tal sorte tocca!)

365 nelle prime sue cune e nelle fasce:nel petto tristo invidia, odio trabocca;fugge sempre ove il mio bel Sole arriva,né si parte però la morte viva.

Oh quante volte ha tentato il mio Sole370 cacciar da sé questo terribil mostro

or con minacce, or con buone parole!L’Amor, la Fé: “Questo è il nimico nostro”,

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 1

dicon piangendo; e invan ciascun sen duole,invan s’oppone il basso voler nostro

375 al decreto che è in ciel già fermo e santo.Lei fugge d’uno, e va in uno altro canto.

O venenoso mostro al ciel dispettoo vivo fonte d’ogni uman tormento,d’Amor mortal nimico e di diletto,

380 di Speranza, di Fé, d’ogni contento:tu incendi di furore il tristo petto.Rompi, o Giove, lo ingiusto giuramento,rimetti la infelice al foco eterno:ma non l’accetterà forse l’inferno.

385 Gli uomin’, gli dèi pregano a giunte maniche la estermini al tutto e che la spenga:de’ lamenti del ciel, de’ pianti umaninel generoso petto pietà venga.Deh, tanti e giusti prieghi non sien vani,

390 E ‘l giuramento più non si mantengafatto a danno comun, come chiar veggio:error fu farlo, e mantenerlo è peggio.

Come già giustamente persuasosciogliesti di Iapeto il saggio filio,

395 legato eternalmente in Caucàso,per render qualche merto al buon consilio,perché fai ora, o sommo padre, casorimetter questa trista al primo esilio?Al primo esilio, e non son cose nuove:

400 puoi tutto: e giusto è quel che piace a Giove.

Come una antica quercia in alto posta,quando è percossa dal furor de’ venti,ora assalita d’una, or d’altra costa,cascon le foglie, e’ suoi rami pendenti

405 si piegan sì che a terra alcun s’accosta;sta fermo il tronco e par che non paventi,

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 1

poco prezzando di Eolo la guerra,tenendo ferme le radici in terra;

così, padre benigno e giusto, alquanto410 ti muove, se perviene a’ santi orecchi

il nostro duro e quasi eterno pianto.Vorresti usar pietà, purché non pecchi;ma, quando pensi al giuramento santo,convien che ‘l fonte di pietà si secchi,

415 perché il divin voler mai si corregge:così sta ferma questa dura legge.

O mia cieca Speranza, ove hai conduttie dolcemente lusingando scòrtidi pensiero in pensier e disir’ tutti!

420 Mentre che falsamente li confortidi vaghi fiori e belle fronde, e fruttiacerbi, duri, acri e amari or porti:mostrando invano a me la donna mia,veggo in suo luogo Amore e Gelosia.

425 Lasso a me, quando entrasti nel pensiero,io vidi così veri e vaghi lumi,coprir di fior’ l’amoroso sentiero,correr le ninfe, Pan, satiri e fiumi,come vede ciascun che vede il vero.

430 O fallace Speranza, or mi consumi;or fugge il vero e ‘l dolce inganno invola,e resta con Amor Gelosia sola.

Amor, che prende ogni mio male in gioco,senza pietà si ride dello inganno;

435 Speranza se si mostra ancora un poco,drieto a·llei tutti e van’ pensier’ ne vanno;né però manca l’amoroso foco,ma questi inganni assai maggior lo fanno;con feroci occhi Gelosia mi mira,

440 e ‘l cor n’ha doglia e nel dolor s’adira.

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 1

Madonna stassi in quelle parti eccelseove il mio bel disio da prima nacque,ché Amore ogni pensier del core svelsee piantò quel che sempre verde giacque,

445 e la mia donna tra le donne scelsee me la die’; né poi altro mi piacque.Questo amoroso loco or me la invola:lì si sta, senza me, pensosa e sola.

In questo loco ove madonna gira,450 lasso, le luci belle e lacrimose,

amorosi mister’ dolente mirae rimembra le prime dolci cose:ad ogni passo mi chiama e sospira(e chi chiama ode, e di lontan rispose),

455 piange, e piangendo cresce più il tormento,e fra se stessa così dir la sento:

“Qui l’aspettai, e quinci pur lo scorsi;quinci sentii l’andar de’ leggier’ piedi,e quivi la man timida li porsi;

460 qui con tremante voce dissi: “Or siedi”;qui volle allato a me soletto porsi,e quivi interamente me li diedi;quivi legò Amore ambo duo noid’un nodo che già mai si sciolse poi.

465 Quando il sentii tra l’ombre e vidi apresso,el cor tremava pavido nel petto:era il disio e dubbioso e perplesso;da timor lieto e timido dilettoin un tempo era il vago core opresso,

470 né so in quel punto quel che avessi eletto.Mentre Amor spinge i passi e ‘l timor frena,mi giunse di letizia incerta piena.

“Quivi - li dissi - ormai contento giaci:sia lieto il cor, poi che ha quel che disia”.

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 1

475 O parolette, o dolci amplessi, o baci!O sospirar che d’ambo i petti uscia!O mobil tempo, o brievi ore fugaci,che tanto ben ve ne portasti via!Quivi lasciommi piena di disio,

480 quando già presso al giorno disse: “Adio”.

Era già, lassa a me, vicino il giorno,quasi era Febo all’orizzonte giunto,che la dolcezza di quel bel soggiornofacea parer che fussi un brieve punto.

485 Lui disse: “O vivo o morto a te ritorno”.Così partissi, e da me fu disiunto.Scorgendo questa mano il cammin cieco,strinse e baciolla, e ‘l cor mio portò seco.

Drieto, quanto io pote’, da questo loco,490 li tenni gli occhi lacrimosi e ‘l volto;

soletto andava acceso in dolce fococo’ passi avversi e ‘l viso ver’ me vòlto.La notte ombrosa fece durar pocoquesta ultima dolcezza, e mi fu tolto.

495 Agli occhi più virtù non è concessa,ma restò drento al cor la forma impressa”.

Questo dice madonna, e chi gli è pressonol sente; ed io, che son sì lontan, l’odo.Questa memoria nel pensiero ha messo

500 quel primo tempo che strinse il bel nodo,e mi ribella tanto da me stessoch’i’ veggo quasi quel bel tempo e ‘l modocome alor mi legò la bianca mano;ma poco dura il breve piacer vano.

505 O inimica memoria tenace,che innanzi agli occhi quel bel tempo mette!O più cruda Speranza mia fallace,che questo e meglio ancora al cor promette!

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 1

Né però veggo quel che sol mi piace,510 né tornan quelle luce benedette;

l’uno occhio indrieto e l’altro innanzi mirae ‘l cor irato e stanco ognor sospira.

Perché seguite, o pensier’ vani e folli,tante volte ingannati, ancor costei?

515 Ed io più stolto, a che seguir voi volli?Deh, fermatevi, o stanchi pensier’ miei!Più presto eleggo star con gli occhi molli,e gridar l’ora mille volte “omei”in doglia, in foco il tempo che m’avanza,

520 e morir poi, che vivere in speranza.

Almen, se la memoria il disio punge,dinanzi al core il ver mi rapresenta;ma questa vana finge un bene a lunge,che, se t’apressi, più lontan diventa.

525 Fugge di tempo in tempo e mai non giunge,sperando e disiando il cor tormenta.Amor, che sempre in compagnia la mena,così dipigne questa dolce pena.

È una donna di statura immensa,530 la cima de’ capelli al ciel par monti,

formata e vestita è di nebbia densa,abita il sommo de’ più alti monti.Se, e nugoli guardando, un forma e pensanuove forme veder d’animal’ pronti

535 che ‘l vento muta e poi di nuovo figne,così Amor questa vana dipigne.

Par molto bella e grande dalla lunga,con l’ombra quasi tutto il mondo piglia;se avvien che apresso disioso giunga,

540 a poco a poco manca e s’assottiglia;e, come suol quando par Borea punga,vedi sparire il nugol dalle ciglia,

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 1

così mai giugni ove trovar la credi,ma sempre innanzi agli occhi te la vedi;

545 sì come un can che la bramosa boccacrede bagnar nel sangue d’una ferache fugge innanzi, e già quasi la tocca,pur non la giugne e pur giugnerla spera:così la voglia disiosa e sciocca

550 non sazia, e digiun resta come s’era;lei più veloce innanzi a·llui si fugge,lui pien di rabbia e di disio si strugge.

O come, se la schiena scalda il sole,chi vuol giugner quella ombra che ha dinanzi,

555 s’almen co’ passi pareggiar la vuole,convien di spazio equal pur l’ombra avanzi:se corre come cervio correr suole,li resta drieto alfin quanto era dianzi;or par la priema, or par l’avanzi un prezzo,

560 al fine del corso poi pur resta il sezzo.

Giugner non posson le volubil’ rotebue o caval, che innanzi il carro tira,così costei già mai toccar si puote:la vana fronte occhio mortal non mira.

565 Uno occhio ha in testa e cose alte e remoteinnanzi guarda e drieto mai nol gira,Minerva sol con l’egida già videla fronte, e di noi miseri si ride.

Sopra a’ nebulosi omeri li nascono570 due pennute ali oltra misura grande;

vola per li alti lochi, onde poi casconoquei che credon che lei alto gli mande;vento e vane ombre questa fera pascono,e rade volte gusta altre vivande;

575 vola la notte, e sempre fuggir suole,come aurora, la luce del sole.

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 1

Il ciel da sé, Pluton da sé l’arretra;vola per questa mezza regione,ove il liquido umor adiaccia e ‘mpetra

580 e solve in acqua e nugoli Iunone;lì fabbrica Vulcan la sua fulgetra,indi Eolo Austro muove ed Aquilone,fuochi, comete e cadenti vapori,e la bella Iris di mille colori.

585 Seguon questa infelice in ogni parteil Sogno, lo Augurio e la Bugia,e chiromanti ed ogni fallace arte,sorte, indovini e falsa profezia,la vocale e la scritta in sciocche carte,

590 che dicon, quando è stato, quel che fia,l’archimia e chi di terra il ciel misura,e fatta a volontà la coniettura.

Alla cieca ombra delle sue grande aliil mondo vano alfin tutto ricovera.

595 Oh cecità de’ miseri mortali!Oh ignoranzia troppo vana e povera!E chi potessi contar tutti e mali,le stelle in cielo e’ pesci in mare annovera,li uccelli in autunno che ‘l mar passano,

600 o le foglie ch’e rami nudi lassano.

Ma che male è che l’uom mortal patisca,che da te maladetta non proceda?O che grave dolor che non nutrisca?Quanti tristi hai ad Amor dato in preda?

605 Che forte periglio è che non ardiscail cor, s’avvien che ‘l misero ti creda?Tu fusti dal ciel data a noi mortalivita e conservazion di tutti i mali.

O figlio di Iapeto al tutto stolto,610 non valse il saggio frate t’ammonisse

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 1

a non mirar Pandora bella in voltoo âccettar dono che da lei venisse.Rendi il furto, Prometeo, che, tolto,nel miser mondo tanti morbi misse.

615 Qual fu più stolto puoi discerner poco,chi prese il dono o chi furò già il foco.

Stolta prudenzia e cieco accorgimentofu il tuo, e del fratel folle stultizia.Deh rendi il furto, se Giove è contento

620 ritrar del mondo e morbi e la malizia.Tu non sapevi ancor che ‘l pentimentova drieto sempre a quel che mal s’inizia:credesti ingannar Giove, o error’ gravi!Così maggiori error’ fanno e più savi.

625 Se tu non eri, non dava l’offizioGiove a Vulcan di fabricar Pandora;Pallade l’arte belle e lo esercizionon vi agiugnea per farla più decora:nel volto ogni bellezza, in bocca il vizio;

630 la grazia Vener non li dava ancorae’ dolci sguardi e ‘l bel sembiante umano;né Giove poi la nostra morte in mano.

Così leggiadra e bella non avriaofferto il vaso al folle, come offerse.

635 Lui, come sai, benché ammonito pria,il vaso prese e subito l’aperse.Sùbito uscîr del vaso e fuggîr viapel mondo e morbi e passion’ diverse;del vaso fatto dal celeste fabro

640 Speranza sola si restò nel labro.

E così fu troppo dannoso e caroil foco che furasti nella ferula:da poi fu il mondo crudele ed avaro,la mente sempre disiosa e querula,

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 1

645 le guerre, incendi, e torti e ‘l pianto amaro;da poi sulcorno e legni l’onda cerula;la menzogna, l’inganno e ‘l romper fede,da questa vana ciascun mal procede.

Tu ti restasti in sull’orlo soletta,650 perché la Speme a terra mai non casca;

se ‘l disio nasce, ed ella tel prometta,dell’un vago pensier par l’altro nasca:del male il bene e del ben meglio aspetta,sì come augello va di ramo in frasca,

655 certa non mai: però né drento o fòrarestò nel vaso che donò Pandora.

Troppo sforza e mortal’, troppo presumequesta inimica della umana mente;ancor nel cieco regno senza lume

660 estender vuol la sua forza latente:parse ad alcun degno e gentil costumela dolce vita abbandonar presente:la dolce vita sprezza e morte bramaalcun, sperando poi viver per fama.

665 Pria che venissi al figlio di Iapetodel tristo furto il dannoso pensiero,reggeva nel tempo aureo quietoSaturno il mondo sotto il giusto impero.Era il viver uman più lungo e lieto;

670 era e pareva un medesimo vero;frenato e contento era ogni disio,né conosceva il mondo “tuo” o “mio”.

La terra liberal dava la vitacomunemente in quel bel tempo a tutti;

675 non da vomere o marra ancor ferita,produceva e frumenti e vari frutti,di odorifere erbette e fior’ vestita,non mai dal sol, non mai dal gel destrutti;

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 1

l’acque correnti dolce, chiare e liete680 spegnìeno alor la moderata sete.

Per l’erbose campagne lieti e scioltigivan gli armenti senza alcun timore,senza sospetto che gli fusser toltida orso o lupo il timido pastore.

685 Erano i tori indomiti alor molti,non privi ancor del genital calore,né per fatica di lungo intervallo,del giogo avendo al collo il duro callo.

E’ si potea vedere in una stoppia690 col lupo lieta star la pecorella,

sanza sospetto l’un dell’altro, in coppia;non fero il lupo alor, non timida ella.Né la volpe era maliziosa o doppia;e non bisogna che la villanella

695 pe’ polli tenga il botol che la cacci,ma par, se pur vi vien, festa li facci.

La lepre e ‘l bracco in un cespuglio giace:l’un non abbaia e l’altra ancor non geme;tra ‘l veltro e ‘l cavriolo e cervio è pace,

700 né alcun ne’ piè veloci spera o teme;scherzan tra loro e provocar lor piacetalor l’un l’altro; e, se corrono insieme,non corron per fuggire il fero morso,ma sol per superar l’un l’altro in corso.

705 Semplice, bianca e senza una magagna,ove li piace la colomba annidialieta, senza temer che la compagnao il maschio guasti l’uova per invidia;non teme del falcon per la campagna,

710 né tra le fronde dello astore insidia.Sora stridendo lieto lo aghirone,né teme il colpo e l’unghia del falcone.

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 1

Non teme la pernice che ‘l terzuolola stringa, come il ferro suol tanaglia,

715 né restar presa in sul levar del volodallo sparvier, quando è grassa, la quaglia;gode lo smerlo che dal basso solol’allodola cantando al ciel su saglia;né alla serpe dubitar bisogna

720 d’esser esca a’ pulcin’ della cicogna.

Tu puoi pel prato scalzo ir senza rischiodi far crucciar, calcando, il frigido angue,e’ serpenti non han veleno o fischio,onde dal volto al cor si fugge il sangue:

725 sicuro è mirar fiso il bavalischio,né pel guardo mortal tristo alcun langue.Né gli animali al fonte han pazienziache l’unicorno facci la credenzia.

El tigre e ‘l fer leone e la pantera730 come conigli, mansueti e pigri,

ed ogni vile e mansueta feraferoce par come leoni e tigri.Non fugge l’animal l’umana cera;gli augei bianchi, vermigli, gialli e nigri

735 già per le folte macchie non si ascosono:in mano, in testa, in spalla all’uom si posono.

Non era ancor nel petto de’ mortalidi carne saziar la fera voglia.Pel nutrimento diventiam bestiali,

740 che ‘l sangue uman di sua natura spoglia;quinci guerra è tra l’uomo e gli animali,quinci fugge l’uccel di foglia in foglia,e si lamenta con pietoso stridoquando non truova e cari figli al nido.

745 Non si sentiva il doloroso belodella madre che perde il caro agnello,

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 1

la vacca non empiea di mughi il cielotornando senza il figlio dal macello,né per difender le membra dal gelo

750 muoion le fere, per averne il vello.Secura agli animali era la traccia,né per nutrirsi o per piacer si caccia.

Gli augei cantando van di ramo in ramosenza sospetto di rete o di lacci;

755 truova la starna e figli al suo richiamose avvien che gli rassegni o il conto facci;né sotto l’esca avien trovato l’amoe pesci ancora, o rezze o altri impacci.La porpora sicura è dalli inganni,

760 né tigne il sangue e preziosi panni.

Sicuro già non teme, anzi s’accostacon cento code il polpo alla murena,né serra ambo le bocche alla aligostané la aligosta morde in su la schiena

765 la murena a difendersi indisposta,né fa vendetta l’una all’altr’apena;oggi l’un altro vince, e par che ceda,e ‘l vinto ‘l primo vincitore ha in preda.

Così, pien di fatica e luce, il giorno770 pallida e rossa l’aurora caccia,

lei poi la notte, qual fuggendo intornoconvien che ‘l giorno infin sua preda faccia;e, mentre suona il cacciatore il corno,vinto rimane in questa eterna caccia:

775 così tra queste fere in mare occorre,se si dée queste cose a quelle opporre.

Teneva occulte nel ventre la terrale triste vene in sé d’ogni metallo,né il fer disio i cor’ mortali afferra

780 d’oro, e non era per paura giallo;

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 1

né ferro si trovava atto alla guerra,né col freno o col piè suona il cavallo,né il bronzo propagava la memoria,né sete alcuna era di mortal gloria.

785 Nereo quieto e ciascuna sua figliad’Argo ancor la prima ombra ne’ lor regninon avìen visto pien’ di maraviglia,o dal remo o dal vento muover legni,né misurare il mare e’ liti a miglia,

790 con mille altri dannosi e nuovi ingegni.D’isole ancor non s’era il nome udito,parea finissi il mondo ove era il lito.

Nelle piante era il fior, la foglia e ‘l pome,né tempo o sito l’ordine confonde;

795 in ogni loco la natura promeogni animale in terra, in aria, in onde;ogni cosa chiamata pel suo nomesecondo il natural valor risponde.Non era alcuna cosa vecchia o nuova,

800 né maraviglia a quel tempo si truova.

El corpo uman sì bene era disposto,sì bilanciati e partiti gli umori,che ‘l disio era frenato e composto:non speme, non invidia, ira o dolori;

805 né la natura appetito ha propostoche per le vie comune o pe·li porisuperfluo venga alcuno: e nulla avanzaper dolcezza di cibi o abondanza.

Così belli, robusti, sani e nettinon senton, ché non era, caldo o gelo,né fuggon brina o acqua sotto e tetti,né fa tremar il cor di Giove il telo.Il dolce sonno per gli erbosi lettiè quando senza sole è il nostro cielo;

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quando e razzi del sol le nebbie purgono,cogli animal’, co’ fiori insieme surgono.

D’amore accesi senza passione,Speranza o Gelosia non li accompagna:un amor sempre, qual il ciel disponee la natura, che è senza magagna.Con questa simil di complessionesoletti e lieti van per la campagna;l’età non mai o puerile o grande;e panni son le fronde, e’ fior’ ghirlande.

Qual porpora non perde a que’ colori,qual grana o chermisì in lana o in seta?quale argento o qual oro agguaglia e fiori?Così menan la vita sempre lieta.Oh dolce tempo, oh dolcissimi amori!Oh vita sempre disiosa e queta,ché l’acceso disio mai non tormenta,né, spento, il corpo languido diventa.

Tanto è il disio quanto natura vuole,e vuol quel che ha, e quel che ha non l’offende,né mai d’averlo o non aver si duole,né manca mai o maggior forza prende.Quel che oggi piace piacer sempre suole,

810 non sazia o penitenzia indrieto rende:da se stesso se adempie e da sé frena,né per l’uno o per l’altro sente pena.

Ogni appetito, che altri offenda, dorme:ambizion non occupava e regni.

815 Era natura alora assai conformetra l’uom beato e li celesti segni:queste proprietà, quelle alte formevedevan gli occhi, vedevan gl’ingegni;non dubbio alcun, non fatica ha il pensiero,

820 senza confusione intende il vero.

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L’ingegno era aguagliato col disio,la voglia con la forza dello intendere:stavan contenti a conoscer di Diola parte che ne puote l’uom comprendere;

825 né la presunzion del vano e rionostro intelletto dee più alto ascendere,né ricercar con tanta inutil curale cause che nasconde a noi natura.

Oggi il mortal ingegno pur presume830 essere un bene occulto, al quale aspira;

muove l’uman disio il basso acume,né truova ove fermarlo; onde s’adirae duolsi che la mente ha troppo lume,quel ben presupponendo; e, se nol mira,

835 si duol del poco e vede che non vede:esser cieco o il veder perfetto chiede.

Al troppo manca, e par che avanzi al poco:men vegga il troppo, e ‘l poco assai presuma;e, come in verde legno debil foco,

840 non splende chiar, ma gli occhi umidi affuma.Gli uccei notturni son degli altri gioco,cercando il sole; e l’insolita piumaIcaro perde se troppo alto sale,e resta in mezzo al ciel uccel senza ale.

845 Come uccel peregrin che il lito amatopel freddo lassa e il mar volando varca,stanco già a mezzo l’onde d’ogni latol’acqua sol vede e di dolor si carca:non ramo o scoglio ferma il suo volato;

850 se pur l’onde solcar vede una barca,de l’uom le mani e del mar la tempestateme, e dubbioso in mezzo l’onde resta;

così se lassa il suo nativo sitola mente, da se stessa si confonde;

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 1

855 se vuol cercar uno incognito lito,dubbiosa e stanca alfin resta tra l’onde.Alor vedeva lo ingegno espeditoquel ver che alle sue forze corresponde,né la presunzion questo ben guasta:

860 voglion quanto hanno, e quel che intendon basta.

Quel che ‘l ciel da sé mostra e la natura,intendon senza aver dubbio o fatica,né la troppa sottile e vana curamuove la bile o adusti umor’ nutrica.

865 La nuda verità gentile e puralunghe vigilie o studio non mendica:questa vera dolcezza e bella vedela mente, e, qui contenta, altro non chiede.

Questo felice tempo al mondo tolse,870 a l’uom la vera sua beatitudine

Prometeo, che troppo saper volse:dal saper troppo nasce inquietudine.Per saper poco il van fratello sciolsela morte poi, e’ morbi in moltitudine.

875 Troppo e poco saper la vita attrista,ché ‘l troppo e ‘l poco equal dal mezzo dista.

El folle antiveder, la stolta curae la presunzion del vano ingegnoil foco trasse della sua natura:

880 le forze estese alor fuor del suo regno.Quinci la guerra nacque, che ancor dura,tra li elementi, che n’ebbono sdegno;triema la terra, il ciel lampeggia e piove:ogni distemperanza di qui muove.

885 Questo mal foco il fer disio accesedi superar l’un l’altro gli elementi;la trista voglia poi più basso scesene’ mortal’ corpi e nelle umane menti;

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 1

dalla Speranza ogni sua forza prese,890 che soffia nel mal foco co’ suoi venti.

Così sta il mondo ed ogni mortal vitaper guerra, che non è ancor finita,

sì come nave in alto mar, percossada rapidi e tra lor contrari venti,

895 travaglia, ma del luogo non è mossase avvien che sieno equalmente potenti,ma, se l’un sforza e più che l’altro possa,stanca alfin vinta va drieto a’ perdenti.Oh miser mondo, anzi stolto a chi piace

900 o crede in tanta guerra trovar pace!

Arda almeno, arda questo foco tantoche gli altri tristi umor’ tutti consumi,poi si ritorni al primo loco santo,né altri più di furarlo presumi.

905 Torni il dolce ozio senza Speme o pianto,sudin le querce il mèl, corrano e fiuminettare e latte, e dolor’ sien cacciati,ardin di dolce amor e cor’ beati.

In questi dolci luoghi, in questi tempi910 pommi, Amor, con la bella donna mia,

nell’età verde, ne’ primi anni scempi,senza Speranza, senza Gelosia;né ‘l tempo mai l’età matura adempi,ma il nostro dolce amore eterno sia:

915 non più bellezza in lei, non altro focoin noi, ma sol quel dolce tempo e loco.

Quel dolce loco e basso paradiso,quel bel tempo, non ha altro difettoche di veder Madonna bella in viso;

920 questo lo fa dolcissimo e perfetto,se sente le parole o il suave riso,sopra quel ch’è vero amore e diletto.

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L’oro di quella età quasi divinanel dolce foco di mia donna affina.

925 E, se pur questo l’alta legge vieta,Amor, tanta Speranza caccia almeno,inimica, domestica e secreta,che uccide il cor col suo dolce veleno.Rendimi l’amorosa luce e lieta

930 e ‘l dolce sguardo angelico e sereno;fa’ il dolce sguardo a questa cruda e tristasì come il bavalischio a mortal vista.

Se tu mi rendi bella ed amorosala mia donna gentil, com’io lasciai,

935 quella età d’oro, o vera o fabulosa,io non ti chiederò, Amor, già mai,né altro paradiso o altra cosa.Ove è donna mia, come tu sai,concorre ogni virtù, ogni dolcezza:

940 e ciò che è bello, è nella sua bellezza.

Lasso a me, or nel loco alto e silvestre,ove dolente e trista lei si truova,d’oro è l’età, paradiso terrestre,e quivi il primo secol si rinuova.

945 Se, trista e lassa, in quelle parti alpestreavvien che ogni dolcezza e grazia muova,se, dolorosa, tanti beni ha seco,or che farà quando fia lieta meco?

Quel che farà, se ‘l tristo cor vi pensa,950 tanto disio, il misero, l’accende,

che offeso poi da crudel doglia immensaa fatica da morte si difende.Se pur Amor gli promette, o ‘l dispensache pensi ad altro, questo più l’offende.

955 Viver non può senza pensier’ d’amore,e, pensando anche alla sua donna, muore.

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Amor, che vedi il suo misero stato,pietoso, come io credo, del suo male,vola velocemente in quel bel lato,

960 portami la mia donna, o le tue alemetti agli omeri, e dammi il tuo volato,ch’io per lei vada: se mi se’ rivale,com’io penso, ed acceso de’ belli occhi,ho gelosia se nel portar la tocchi.

965 Se mi farai uno amoroso uccello,io arderò, come fenice suole,ne’ febei raggi, e mi farò più bello,regenerato dal mio chiaro Sole.Se le tue ale abruceranno in quello

970 foco gentile, il torto hai se ten duole,e non è giusto te ne chiami offeso,perché tu hai quel gentil foco acceso.

Questo foco furò da te lo sguardodella mia donna, e ‘l cor con esso accese:

975 tu ne sdegnasti, io ne patisco ed ardod’un diverso disio, che forza prese.Tra ‘l cor veloce e ‘l corpo grave e tardotira il foco e ‘l pensier al bel paese:qui resta il corpo, ed e’ segue il pensiero;

980 né vo, né sto, né son diviso o intero.

Questo foco è d’una gentil natura:stassi nel cor nella più alta cimae la materia, che era rozza e dura,con qualche suo dolor consumò prima;

985 alfin l’incendio si fe’ luce pura,che par nel cor diafano si esprima:così nel cor, non che in sé luce abbi elli,luce la luce de’ due occhi belli.

Con gran fatica drento al petto lasso990 lo tengo, che non fugga con la vita:

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 1

questo gentil così puote star basso,se per forza la via non gli è impedita,come in mezzo del ciel fermarsi un sasso,ché l’uno il centro e l’altro il ciel invita:

995 natura ogni riposo gli disdicese non torna alla bella furatrice.

Così son io una rete distesa,la qual il legno van tien sopra l’onda,e ‘l grave piombo che da basso pesa

1000 la tira nella parte più profonda;alfin ciascun di lor perde la ‘mpresa,bagnasi il legno e ‘l piombo non si affonda,né l’un disio, né l’altro par si faccia;la rete intanto si consuma e straccia.

1005 L’imagin bella, che nel core stampala bianca man sì come fusse viva,inganna in modo l’amorosa vampache si sta seco ed è cagion che io viva.Quel dolce inganno la mia vita scampa,

1010 e, se non fusse, via con lei sen giva:vede nel cor la sua ladra sì bella,che si quieta e crede esser con quella.

Sì come il cacciator, che e cari figliastutamente al fero tigre fura,

1015 e, benché innanzi assai campo li pigli,la fera, più veloce di natura,quasi già il giugne e insanguina gli artigli;ma, veggendo la sua propria figuranello specchio ch’e’ truova su la rena,

1020 crede sia il figlio e ‘l corso suo raffrena;

così drento allo specchio del mio coresi queta questo bel foco amoroso;ma, poi che riconosce il vano errore,questo fer tigre surge furioso;

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 1

1025 e, se non giugne il ladro cacciatore,non truova irato alcun breve riposo.Amor, che vedi e la pena e il periglio,o tu m’aiuta o tu mi da’ consiglio.

Se pur la bella donna non mi rendi,1030 serri un placido sonno gli occhi molli:

se dormendo la veggo, tu difendila vita coi pensieri erranti e folli.O sonno, che col pianto ognor contendidi prender gli occhi, spiana li alti colli,

1035 l’aspra via leva e sassi e boschi e fiumi,e mostrami d’appresso i vagli lumi.

Io veggo non so che nell’ombra oscura:un foco è che di cielo in terra casca,quasi un vapore, e la sua luce pura

1040 arriva in terra, e par che lì rinasca:torna la fiamma in verso il cielo e dura,senza che nuovo nutrimento il pasca.Qualche propizio nume agli occhi mostrache presto rivedrem la donna nostra.

1045 I’ sento un suave venticel, che spiradalla aurora rutilante e rossa,ogni animal, che accieca quando mirala febea luce, credo fuggir possa.Raddoppia e baci l’amante, e sospira

1050 che sia già della notte ogni ombra scossa;pien di maggior disio, con gran faticaesce di braccio alla sua dolce amica.

Già alcun de’ più solleciti augellichiamono il sol con certi dolci versi,

1055 e impongon la canzona; e segue quelliil coro poi di mille augei diversi.E fior’, che senza sol si fan men belli,non posson più nella boccia tenersi:

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 1

pria d’un color e poi, dal sol dipinti,1060 si fan di mille, da niuna arte vinti.

Cacciata fugge innanzi l’aurora:l’aer già spoglia la cangiante vestae vestesi di luce che lo indora,di negro quel che senza Febo resta.

1065 Ecco il mio Sol che vien del monte fora,e lascia quella parte ombrosa e mesta:veggo la luce e sento già il calore,la luce è la bellezza e il caldo amore.

Questa luce conforta e non offende1070 gli occhi, ma leva loro ogni disio

di veder altro, e ‘l foco non incende,ma scalda d’un calor suave e pio.Madonna questi dua per la man prende:dalla sinistra mena il cieco dio,

1075 e la Bellezza dalla destra tiene,e lei più bella in mezzo a questi viene.

Amor, che mira e due belli occhi fiso,raddoppia il foco onde se stesso incende:la Biltà, che si specchia nel bel viso,

1080 più bella e più sé a se stessa rende.Madonna muove in quello un suave riso,dal quale ogni bellezza il mondo prende:questa sola bellezza lo innamora,in varie cose il bel principio ignora.

Cantando vengon lietamente insieme,ne sente ognun la dolce melodia:el cor la intende, e di ridirla temeagli altri. Avvien della bella armoniacome della celeste in queste estremeparti del mondo, che par muta sia,ché ‘l basso orecchio a quel tuon non s’accorda:così la gente a quel bel canto è sorda.

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 1

Dicemi pure il cor secretamenteche le parole di questa canzonacomposte ha la Bellezza, e dipoi senteche Amore il canto gentilmente intuona;e, benché l’abbi in secreto la mente,pur non si esclude ogni gentil persona;ridirlo a questi al cor non è molesto,e, per quel ch’e’ ritrae, il canto è questo:

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 1, 142

Selve 1,142

“O vaghi occhi amorosi,che in questo e in quel bel viso,quando mirate fiso,vedete mille bellezze diverse;

5 mentre vi sono ascosiquesti due vaghi lumi,stolto alcun non presumiaver veduto la bellezza intera.Qui è la biltà vera

10 tutta accolta in un volto;quinci lo esemplo han toltol’altre, che in varie cose son disperse.Chi questa biltà mira,di eterno e dolce amor sempre sospira”.

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 2

Selve 2

O dolce servitù che liberastiel cor d’ogni servizio basso e vile,quando a sì bel servizio me obbligastisciogliesti il cor da cento cure umìle.

5 O bella man, quando oggi mi legasti,tu mi facesti libero e gentile.Che benedetti sieno e primi nodi,Amor, che mi legasti in tanti modi.

O dolce e bel signore, in cui s’aduna10 beltade e gentilezza tal, che eccede

ogni altra in altri, e poi tra lor ciascunail primo grado in la mia donna chiede,quanto è dolce e beata la fortuna,che servo a sì gentil signor mi diede

15 e servo più che alcun libero e degno,servendo a tale, il cui servire è regno!

Così, se l’una e l’altra ripa frena,el fiume lieto il lento corso serva,suave agli occhi l’onda chiara mena

20 e’ pesci nel queto alveo conserva;di vaghi fior’ la verde ripa pienabagna, e così par lietamente serva;sta nel cieco antro, indi preme e distillacon dolce mormorio l’onda tranquilla.

25 Ma, se leva del sol la luce a noi,piovendo, un nimbo tempestoso e spesso,a poco a poco il vedi gonfiar poi,tanto che alfin non cape più se stesso,e le fatiche de’ già stanchi buoi

30 e selve trarre e pinger sassi in esso:l’erbosa ripa in mezzo e ‘l curvo ponteresta, e torbido lago è ‘l chiaro fonte.

Allor che un venticel suave spiracon dolce legge, e’ fiori a terra piega,

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 2

35 e scherzando con essi intorno gira,talor gli annoda, or scioglie, or gli rilega;le biade impregna, ondeggia alta e s’adiral’erba vicina alla futura sega;suave suon la giovinetta frasca

40 rende, né pure un fiore a terra casca.

Ma se dà libertà dalla speluncaEolo a’ venti tempestosi e feri,non solamente e verdi rami trunca,ma vanno a terra e vecchi pini interi,

45 e’ miser’ legni con la prora aduncaminaccia il mare irato e par disperi;l’aria di folte nebbie prende un velo;così si duol la terra, il mare e ‘l cielo.

Poca favilla, dalla pietra scossa,50 nutrita in foglie e in picciol’ rami secchi,

scalda, e, dal vento rapido percossa,arde gli sterpi pria, virgulti e stecchi;poi, vicina alla selva folta e grossa,le querce incende e’ roveri alti e vecchi;

55 cruda inimica al bosco l’ira adempie,fumo e faville e stran’ stridor’ l’aria empie.

L’ombrose case in fiamme e i dolci nidivanno e l’antiche alte silvestre stalle,né fera alcuna al bosco par si fidi,

60 ma spaventata al foco dà le spalle;émpieno il ciel diversi mughi e stridi,percossa rende il suon l’opaca valle;l’incauto pastor, cui s’è fuggitoil foco, piange attonito e invilito.

65 Benigna legge all’acqua ha il termin postoche non lo passi e la terra ricuopra;in mezzo del gran corpo è ‘l centro ascosto,grave e contrario al foco, che è di sopra;

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 2

diverse cose un tutto hanno composto,70 tra lor contrarie fan conforme l’opra.

Ordina e muove il ciel benigna legge;dolce catena il tutto lega e regge.

Dolce e bella catena al collo missequel lieto dì la dilicata mano,

75 che aperse il petto e drento al core scrissequel nome, e sculse il bel sembiante umano.Da poi sempre mirâr le luci fissesì begli occhi, ch’ogni altro obietto è vano.Quest’unica bellezza or sol contenta

80 la vista, pria in mille cose intenta:

non ornate di fronde apriche valli,non chiaro rivo che l’erbetta bagnidi color’ pitta bianchi, rossi e gialli,non città grande o edifizi magni,

85 ludi feri, stran’ giuochi, o molli balli,non legni in mar che Zefiro acompagni,non vaghi uccei, nuovi animali o mostri,non sculta pietra, òr, gemme agli occhi nostri.

In queste cose senza legge alcuna90 givan gli occhi cercando la lor pace

ascosa, e non sapevano in questa unache, conosciuta, poi tanto a lor piace.Occultamente mia lieta fortunaconduceva il disio che nel cor giace:

95 condotto era il mio core, e non sapeva,a riveder chi già veduto aveva.

Quel giorno adunque che nel cor dipinsequella amorosa man l’imagin bella,con volontario fren gli occhi costrinse

100 lei sol mirar, non questa cosa o quella;mille vari pensieri in un ristrinse,né poi la lingua mia d’altro favella,

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 2

né cercon altro gli amorosi passi:con lei sempre il mio cor legato stassi.

105 Legato sta nel gran tempio di Ianocon mille e mille nodi il fer Furore;cerca disciôrsi l’una e l’altra mano,freme di sangue tinto e pien d’orrore.Cerber nel basso regno cieco e vano

110 latrando all’ombre triste dà terrore;stretto da tre catene, par che ira aggia,rabbia, schiuma, venen da’ denti caggia.

Non già così la mia bella catena:stringe il mio cor gentil pien di dolcezza;

115 di tre nodi composta, lieto il mena:con le sue mani el primo fe’ Bellezza,la Pietà l’altro per sì dolce pena,e l’altro Amor, né tempo alcun gli spezza;la bella mano insieme poi gli strinse

120 e di sì dolce laccio il core avinse.

Mostrommi Amor quel benedetto giornopiù che mai belle le luci serene,le Grazie tutte alla mia donna intorno;né usò per rilegarmi altre catene.

125 Qual maraviglia è se a me non torno?o qual disio si fugge dal suo bene?Somma Bellezza, Amor, dolce Clemenzia,al cor fan volontaria violenzia.

Quando tessuta fu questa catena,130 l’aria, la terra e ‘l ciel lieto concorse;

l’aria non fu già mai tanto serena,né il sol già mai sì bella luce porse;di fronde giovinette e di fior’ pienala terra lieta, ove un chiar rivo corse;

135 Ciprigna in grembo al padre il dì si mise,lieta mirò dal ciel quel loco, e rise.

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 2

Dal divin capo ed amoroso senoprese con ambo man’ rose diverse,e le sparse nel ciel queto e sereno:

140 di questi fior’ la mia donna coperse.Giove benigno, di letizia pieno,gli umani orecchi quel bel giorno apersea sentir la celeste melodia,che in canti, ritmi e suon’ dal ciel venìa.

145 Movevan belle donne al suono e piediballando, d’uno amor gentile accese;l’amante apresso la sua donna vedi,le disiate mani insieme prese,sguardi, cenni, sospir’, d’amor rimedi,

150 breve parole e sol tra loro intense,dalla donna cascati e fior’ ricôrre,baciati pria, in testa e in sen riporre.

In mezzo a tante cose grate e bellela mia donna bellissima e gentile,

155 vincendo l’altre, ornava tutte quellein una vesta candida e sottile;parlando in nuove e tacite favellecon li occhi al cor, quando la bocca sile,“Vientene - disse - a me, caro cor mio:

160 qui è la pace d’ogni tuo disio”.

Questa suave voce el petto apersee a partirse il cor lieto costrinse;la bella mano incontro se li offersea mezza via, e dolcemente el strinse;

165 pria rozzo, in gentilezza lo converse,poi quel bel nome e ‘l volto vi dipinse:così ornato e di sì belle cose,nel petto alla mia donna lo nascose.

Quivi si sta, indi non può partire;non può partir, perché poter non vuole:

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 2

più dolce obietto el suo alto disirené ha né puote aver, però non vuole;lui a sé stesso è legge, lui servireaquesta gentil legge elegge e vuole;con le sue man’ lui stesso ha fatto e lacci,né vuol poter voler che altri li piacci.

Miri chi vuol, diverse cose miri170 e vari obietti agli occhi ognor rinuovi,

se avvien che ora uno e poi un altro il tiri,non par vera bellezza in alcun truovi,ma, come avida pecchia e vaga,giricercando per nutrirsi ognor fior’ nuovi;né muteria sì spesso il lento volose quel ch’è in molti fior’ fussi in un solo.

175 Nel primo tempo che Amor gli occhi aperse,questa beltade innanzi al disio pose,e poi che, come è bella, me la offerse,ridendo, lasso, agli occhi la nascose.Con quanti pianti bellezze diverse

180 poi cercâr, quanto tempo, in quante cose!Talor vedevan pur l’afflitte cigliacosa la qual questa beltà simiglia.

Allor, sì come can bramoso in cacciatra le fronde trovar l’occulta fera,

185 se vede terra impressa dalla traccia,conosce al segno che indi passata era,perché la simiglianza par che facciacerto argumento alla bellezza vera,così, cercando questa cosa e quella,

190 Amor mostrommi alfin mia donna bella.

Disson gli occhi allor lieti al cor mio: “Questa è quella che mostròè quella che mostrò la prima voltaAmor, da noi sol desiata e chiesta,mostra e renduta poi che ci fu tolta.

195 La sua vera dolcezza manifesta

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 2

quanta grazia e virtute abbi raccolta.In molte non trovammo mai questa unache sola in sé ogni bellezza aduna”.

Anzi sempre si truova in ogni parte200 che ciò che agli occhi è bel da questa viene.

Varie bellezze in varie cose spartedà al mondo el fonte vivo d’ogni bene,e quel che mostron l’altre cose in parte,in lui tutto e perfetto si contiene;

205 e se la simiglianza agli occhi piace,quanto è qui più perfetta ogni lor pace!

Contrarie voce fanno un suon suave,e diversi color’ bellezza nuova;piace la voce acuta per la grave;

210 nel negro el bianco la sua grazia truova.Mirabilmente l’alta bellezza havefatto che l’un nimico all’altro giova,l’alta bellezza, che ogni cor disiaed io sol veggo nella donna mia.

215 Questa sol bramo, e le mie luci ardentinon fanno in altra cosa alcun soggiorno;e come gli beati spirti intentistanno alla santa faccia sempre intorno,né posson le celesti pure menti

220 altro mirar, ché ogni altro è manco adorno,così quel primo tempo e quel bel luogoal collo misse un simil dolce giogo.

Sento il mio cor, nell’amoroso pettodi mia donna gentil, che cantar vuole

225 e, nel laudar quel tempo benedetto,usar la bella bocca (come suole)della mia donna a così grato effetto,dolce istrumento al canto, alle parole.Non può tenersi il cor lieto e felice:così cantando in la sua bocca dice:

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Lorenzo de’ Medici Poemi in ottava rima – Selve 2, 31

Selva 2,31

“O benedetto giorno,giorno che fusti el primo agli occhi nostri,che con la luce veraogni ombra cacci, e che fussi ombra mostri!

5 Ombra invisibile erache agli occhi nostri sempre era d’intorno;e pur questa vedièno,e il lume alto e serenonon potevan vedere, o occhi tristi!

10 O per me fortunatotempo, che gli occhi a sì bel sol m’apristi!Forse ch’io parrò ingrato,tempo dolce, se vieneda te ogni mio bene,

15 se il cor per te felice or sol disiache senza tempo alcun questo ben sia”.