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L’UNIVERSO DI GIACOMO LEOPARDI

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Con la presente unità d’apprendimento si vuole illustrare alla classe un ritratto a trecentosessanta gradi di Giacomo Leopardi. L’idea è nata in seguito ad una attenta osservazione dei libri di testo della scuola media i quali hanno un difetto. Essi si presentano superficiali e lacunosi nell’ipotesi in cui si voglia lavorare per campi tematici poichè hanno la pretesa di offrire un panorama della letteratura italiana che si dispiega lungo un arco di tempo che va dalle origini del nostro patrimonio letterario fino ai nostri giorni. In questo modo la proposta antologica assume i connotati di una “piccola storia della letteratura”. Tutto ciò è discutibile da un lato poiché non consente ad un pubblico, ancora acerbo, di cogliere il significato di un’operazione storicistica che sta alla base della tradizione letteraria italiana. D’altro canto però, una tale impostazione può consentire ad un docente che ha compreso il significato della “scuola dell’autonomia” di operare una selezione, partendo proprio da uno sguardo panoramico, per favorire degli approfondimenti, che naturalmente richiedono nella programmazione un monte ore potenziato e che quindi determinano dei tagli in merito ad altri argomenti.

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Page 1: L'Universo Di Giacomo Leopardi

L’UNIVERSO DI

GIACOMO LEOPARDI

Page 2: L'Universo Di Giacomo Leopardi

Prima sotto-unità

La lezione verrà avviata con la presentazione di Giacomo Leopardi. L’attenzione dell’insegnante dovrà es-sere rivolta non tanto alle lodi e alla grandezza dei suoi componimenti, quanto al suo profilo biografico, neces-sario alla comprensione di un’esistenza tanto tormentata e dibattuta.

In questa fase del lavoro la classe deve prendere confidenza con il bambino Leopardi, con i suoi affetti, i suoi luoghi di gioco, le sue tenere passioni. Successivamente si cercherà di lavorare con un apparato iconografi-co che aiuti la classe a fissare nella memoria i volti degli affetti dell’autore.

Al termine di questa sotto unità deve emergere il ritratto di un fanciullo che si racconta da solo, che per il suo fascino e carisma diventa quasi uno di loro: un nuovo compagno intento nel racconto della propria storia.

IDENTIKIT DI UN FANCIULLO E DELLA SUA FAMIGLIA

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Page 3: L'Universo Di Giacomo Leopardi

NOTIZIE SULLA SUA VITA tratte dalla lettera all’amico Carlo Pepoli scritta da Bo-logna nel 1826, in Giacomo Leopardi. Storia di un’anima. Scelta dall’Epistolario, a cura di Ugo Dotti, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1982.

Caro Amico. Ti mando le notizie poco notabili della mia vita [...]“Nato dal conte Monaldo Leopardi di Recanati, città della Marca di Ancona, e dalla marchesa Adelaide An-

tici della stessa città, al 29 giugno del 1798, in Recanati.“Vissuto sempre nella patria fino all’età di 24 anni.“Precettori non ebbe se non per li primi rudimenti che apprese da pedagoghi, mantenuti espressamente in

casa da suo padre. Bensì ebbe l’uso di una ricca biblioteca raccolta dal padre, uomo molto amante delle lettere.“In questa biblioteca passò la maggior parte della sua vita, finché e quanto gli fu permesso dalla salute, di-

strutta da’ suoi studi; i quali incominciò indipendentemente dai precettori in età di 10 anni, e continuò poi sempre senza riposo, facendone la sua unica occupazione.

“Appresa, senza maestro, la lingua greca, si diede seriamente agli studi filologici, e vi perseverò per sette an-ni; finché, rovinatasi la vista, e obbligato a passare un anno intero (1819) senza leggere, si volse a pensare, e si affe-zionò naturalmente alla filosofia; alla quale, ed alla bella letteratura che le è congiunta, ha poi quasi esclusivamente atteso fino al presente.

“Di 24 anni passò in Roma, dove rifiutò la prelatura e le speranze di un rapido avanzamento offertogli dal cardinal Consalvi, per le vive istanze fatte in suo favore dal consiglier Niebuhr, allora Inviato straordinario della corte di Prussia in Roma.

“Tornato in patria, di là passò a Bologna, ec.“Pubblicò, nel corso del 1816 e 1817, varie traduzioni ed articoli originali nello Spettatore, giornale di Mila-

no, ed alcuni articoli filologici nelle Effemeridi Romane del 1822 […]

La paura era stata grande. Le doglie che duravano da molte ore, erano diventate insopportabili. Qualcuno aveva temuto il peggio, voleva chiamare il sacerdote. Ma, mentre le prime ombre di una sera estiva e ventosa calavano sul piccolo borgo rannicchiato sopra la collina, davanti all’infinita distesa del-l’Adriatico, alle paranze da pesca colorate, quel vagito si era fatto prepotentemente sentire.

Era il 29 giugno 1798. Venerdì. Giorno di magra, di penitenza per la Chiesa riservato al ricordo del-la passione e della morte di Cristo. La gioia esplose. E fu incontenibile. Raccolto intorno alla giovanissi-ma partoriente, tutto il parentado potè trarre un respiro di sollievo. Adelaide aveva sofferto l’indicibile, “quarantotto ore di pena per le lunghe doglie”. Alla fine duramente segnato dal “dramma” della nascita, Giacomo Leopardi era venuto al mondo e piangeva sonoramente, in una bella culla color crema e oro. […]

[…] La nascita del primogenito, momentaneamente, lo alleviava di tante amarezze e di tanti affan-ni. Lo caricava di una responsabilità che in fondo aveva oscuramente cercato.

S’era sposato giovanissimo con sua cugina, Adelaide Antici, contro il parere di tutto il parentado e, soprattutto, della madre che s’era infuriata, ma poi aveva perdonato. […]

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[…] Appena compiuti i diciott’anni Monaldo ave-va deciso di vivere la sua gioventù scialacquando in frivolezze varie. Gli piaceva fare bella figura in società, concedendosi qualche costosa villeggiatu-ra, vivere di forme eleganti e futili, degne del no-me della casata che, essendo la più in vista di Re-canati, aveva bisogno di mantenersi all’altezza del suo nome. Amava anche un certo lusso fine a se stesso. Si muoveva come quei nobili con l’oc-chialino tutti moine e galanterie salottiere.[…][…]La prudenza gli sarebbe stata opportuna. Inve-ce dopo pochissimo tempo, era arrivato l’incontro con Adelaide.

Un matrimonio deciso nello spazio di appena sei giorni, dal 15 giugno 1797, data del colpo di fulmine, al 21 dello stesso mese, quando Monaldo aveva già chiesta la mano. Tutto, come sempre, s’era svolto precipitosamente. L’innamoramento durante la messa solenne in cattedrale, per la festa di San Vito, protettore di Recanati; la prova del fuoco tre giorni dopo, durante una processione, quando Monaldo non tolse mai gli occhi di dosso alla cugina; la rivelazione dell’amore e del proposito di matrimonio al fratello della donna, Carlo, suo amico d’infanzia. […]

[…] Giacomo intanto faceva le sue prime fondamentali esperienze.Visse sicuramente in modo traumatico l’allontanamento dall’oggetto amato: per decisione di Mo-

naldo, non fu allattato dalla madre, ma da una balia, Maria Patrizi Rovello, che ricevette come ricompen-sa un fazzoletto di terra. E il rapporto con Adelaide non fu, fin dai primi mesi, dei più intensi ed effusivi. Lei era piuttosto fredda, senza grandi chance emotive. Si realizzava soprattutto nel tenere ogni cosa sot-to controllo, nell’essere superattiva come il vero centro motore di tutta la casa.

Nelle sue prestazioni materne la muoveva un sen-so molto cupo e fatalistico del proprio dovere, interiorizzato come una inflessibile regola inter-na. Ciò le toglieva ogni slancio, ogni partecipazio-ne affettiva. In più ci furono di mezzo le altre gra-vidanze, a getto continuo: un anno più tardi nac-que Carlo, poi fu la volta di Paolina. Si creava un terzetto di figli pressoché coetanei, molto solidali tra loro, uniti nell’educazione, con rapporti mol-to intensi, senza particolari tensioni o conflitti.Giacomo visse la sua primissima infanzia con la sensazione che, accanto a lui, c’erano Carlo e Paoli-

na. Poteva confrontarsi con loro in ogni momento, ma in posizione di forza derivatagli dalla maggiore età. Si pose come una guida naturale nei giochi. Ciò che apprendeva doveva farlo al più presto conosce-re agli altri due. Da questo scambio continuo usciva più forte, più appagato, meno solo.[…]

[…] Carlo e Paolina furono anche tra i primi naturali testimoni della sua sensibilità che, dalla più tenera età, fu tanto eccessiva. I piaceri e i dolori connessi all’epoca del primo apprendimento […] lo se-

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Monaldo Leopardi e Adelaide Antici

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gnarono profondamente. Gli restarono per sempre nella memoria come qualcosa di fortemente radicato e di indelebile da cui l’intera sua persona era stata impressa a fuoco. Né “l’uso del mondo”, né “l’eserci-zio de’ patimenti” riuscirono mai a cancellare in lui quel “primo uomo”, i sentimenti da cui era alimenta-to, gli spaventi, le gioie, gli affetti e, soprattutto, i loro incontenibili, smisurati effetti.[…]

[…] E Giacomo aveva soprattutto una idea fissa che cercava di realizzare. Correva dietro la prima persona che incontrava e chiedeva di raccontargli una favola, con l’insistenza disarmante che i bambini usano nel perseguire uno scopo1. […]

AMORE DELLE FAVOLE tratto da Storia di un'anima di Giacomo Leopar-di, a cura di Plinio Perilli, collezione "Lo scrigno", 13, Carlo Mancosu Editore, Roma 1993

Mi dicono che io da fanciullino di tre o quattro anni, stava sempre dietro a questa o quella persona perché mi raccontasse delle favole. E mi ricordo ancor io che in poco maggior età, era innamorato dei racconti, e del maravi-glioso che si percepisce coll’udito, o colla lettura (giacché seppi leggere, ed amai di leggere assai presto). Questi, se-condo me, sono indizi notabili d’ingegno non ordinario e prematuro. Il bambino quando nasce, non è disposto ad altri piaceri che di succhiare il latte, dormire, e simili. Appoco appoco, mediante la sola assuefazione, si rende capa-ce di altri piaceri sensibili, e finalmente va per gradi avvezzandosi, fino a provar piaceri meno dipendenti dai sensi. Il piacere dei racconti, sebbene questi vertano sopra cose sensibili e materiali, è però tutto intellettuale, o apparte-nente alla immaginazione, e per nulla corporale né spettante ai sensi. L’esser divenuto capace di questi piaceri assai di buon’ora, indica manifestamente una felicissima disposizione, pieghevolezza ec. degli organi intellettuali, o men-tali, una gran facoltà e vivezza d’immaginazione, una gran facilità di assuefazione, e pronto sviluppo delle facoltà dell’ingegno ec.

[…] Tutte quelle storie lo accendevano, lo facevano vibrare. Lo riempivano di una tenerezza inspie-gabile, di una disposizione alle cose e agli affetti iscritta in un eccezionale registro di sensibilità e di pas-sionalità. Il loro regime era diurno, ma anche notturno. Tutte le creature fantastiche del giorno alimenta-vano anche i sui diffici sonni. Potevano diventare veri e propri incubi, con effetti devastanti.

L’OROLOGIO DELLA TORRE tratto da Storia di un'anima di Giacomo Leopardi, a cura di Plinio Perilli, collezione "Lo scrigno", 13, Carlo Mancosu Editore, Roma 1993

Sento dal mio letto suonare (battere) l’orologio della torre. Rimembranze di quelle notti estive nelle quali essendo fanciullo e lasciato in letto in camera oscura, chiuse le sole persiane, tra la paura e il coraggio sentiva battere un tale orologio. O pure situazione trasportata alla profondità della notte o al mattino ancora silenzio-so e all’età consistente.

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La torre dell’Orologio di Recanati1Minore R., Leopardi. L’infanzia, le città, gli amori, Bompiani, Milano 1997, pp. 9-27.

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Dalle profondità più impensate della fantasia, dai recessi della mente così plastica e immaginati-va, uscivano mille apparizioni mostruose, streghe, fauni, satiri, spettri, ombre, fantasmi che lo rendeva-no “attonito e timoroso”, lo costringevano a stare con angoscia nel letto, a sudar freddo, a gridare aiuto rivolto a Carlo che gli dormiva accanto. E spesso doveva confortarlo, lui che durante il giorno, era confor-tato e protetto dal flusso costante di invenzioni fantastiche in cui Giacomo lo proiettava2.[…]

DEI TERRORI NOTTURNI tratto da Saggio sugli errori popolari degli antichi, cap. VIII, in “Gia-como Leopardi. Poesie e Prose”, a cura di Rolando Damiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1988

Ombre, larve, spettri, fantasmi, visioni, ecco gli oggetti terribili che faceano tremare i poveri antichi, e che, convien pur dirlo, ispirano ancora a noi spavento. Se i pregiudizi sogliono cedere al tempo, questo, pochissimo ha perduto del suo vigore: esso può dirsi il pregiudizio dei secoli. Come è d’uopo ripetere dalla educazione la maggior parte degli errori popolari universali, quella dei fanciulli su questo punto è veramente malvagia, e ben lontana dal corrispondere al presente stato di civilizzazione. Muove la bile del filosofo il vedere con quanta cura s’istruisca un fanciullo intorno alle favole più terribili, e alle chimere più atte a fare impressione sulla sua mente. Egli sa appena balbettare e segnarsi la fronte ed il petto per mostrare di essere nato nella vera religione, che la storia dei folletti e delle apparizioni ha già occupato il suo luogo nel di lui intelletto pauroso e stupefatto. Alquanto inquieto, perché vivace, egli era forse molesto ad una allevatrice impaziente, solita a confondere il brio colla insolenza e a chiamar bontà la dabbenaggine. La novella degli spiriti fu lo specifico sicuro per liberarla dalla importunità del fanciullo. Eccolo infatti divenuto attonito e timoroso; riguardare l’avvicinarsi della notte come un supplizio, i luoghi tenebro-si come caverne spaventevoli; palpitare nel petto angosciosamente; sudar freddo; raccogliersi pauroso sotto alle len-zuola; cercar di parlare, e nel trovarsi solo inorridire da capo a piedi. L’allevatrice ha perfettamente ottenuto il suo intento. Il fanciullo durante il giorno non dimentica i suoi terrori notturni: basta minacciarlo di porlo in fondo ad un luogo oscuro, o di darlo in preda a qualche mostro per renderlo ubbidiente e sottomesso a qualunque comando. Qual barbarie! Le nutrici, o balie, che si servono di questi infami mezzi per tenere in freno i loro allievi, cospirano contro il bene della società, e si fanno ree di una specie di omicidio presso il genere umano. Esse tolgono ai fanciulli il coraggio, che è una delle doti più proprie a render meno infelice che sia possibile la vita dell’uomo. Quanti mali immaginari che il coraggio fa scomparire! Quanti mali reali, ma piccioli, che il coraggio disprezza alleggerisce mera-vigliosamente, e che senza questo valido ostacolo farebbono soccombere lo sventurato sotto il loro peso! La sola espe-rienza può far conoscere pienamente di qual vantaggio sia questa inistimabile qualità, e di qual danno sia l’esserne privo. L’uomo timoroso è veramente infelice: ogni piccolo rischio lo pone in agitazione; ogni sventura lo abbatte; ogni pericolo reale lo rende incapace di riflessione. Coloro perciò che in luogo d’ispirar coraggio ai loro allievi, han-no cercato di toglierlo, sono colpevoli di aver contribuito grandemente a render miserabile la loro vita. […]

[…] Fortemente fantasioso, molto dotato intellettualmente, in grado di acquisizioni in anticipo ri-spetto ai suoi anni, pronto all’effusione ma sovente inibito a dimostrarla, il piccolo Giacomo aveva retico-li sensitivi molto acuiti.[…]

[…] Adelaide non assecondava nessuno slancio, non incoraggiava nessuna confessione, non favori-va nessuna vera intimità. Se Giacomo correva verso di lei e cercava protezione tra le sue braccia, subito lo raggelava, troncava sul nascere ogni effusione con la sua alta, imponente figura, con il suo sguardo az-zurro e quasi gelido. Se la minestra scottava e faceva piangere il figlio, lei gli raccomandava di offrire

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2 Minore R., Ibidem, pp. 28-31.

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quel dolore per la salvezza eterna. Era tutta dedita alle sue pratiche religiose che imponeva con severità ai figli3.

RITRATTO MATERNO tratto da Zibaldone. Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, di Giacomo Leopardi, Le Monnier, Firenze 1921-1924.

Io ho conosciuto intimamente una madre di famiglia che non era punto superstiziosa, ma saldissima ed esat-tissima nella credenza cristiana, e negli esercizi della religione. Questa non solamente non compiangeva quei geni-tori che perdevano i loro figli bambini, ma gl'invidiava intimamente e sinceramente, perché questi eran volati al pa-radiso senza pericoli, e avean liberato i genitori dall'incomodo di mantenerli. Trovandosi più volte in pericolo di per-dere i suoi figli nella stessa [354]età, non pregava Dio che li facesse morire, perché la religione non lo permette, ma gioiva cordialmente; e vedendo piangere o affliggersi il marito, si rannicchiava in se stessa, e provava un vero e sen-sibile dispetto. Era esattissima negli uffizi che rendeva a quei poveri malati, ma nel fondo dell'anima desiderava che fossero inutili, ed arrivò a confessare che il solo timore che provava nell'interrogare o consultare i medici, era di sen-tirne opinioni o ragguagli di miglioramento. Vedendo ne' malati qualche segno di morte vicina, sentiva una gioia profonda (che si sforzava di dissimulare solamente con quelli che la condannavano); e il giorno della loro morte, se accadeva, era per lei un giorno allegro ed ameno, né sapeva comprendere come il marito fosse sì poco savio da attri-starsene. Considerava la bellezza come una vera disgrazia, e vedendo i suoi figli brutti o deformi, ne ringraziava Dio, non per eroismo, ma di tutta voglia. Non proccurava in nessun modo di aiutarli a nascondere i loro difetti, an-zi pretendeva che in vista di essi, rinunziassero intieramente alla vita nella loro prima gioventù: se resistevano, se cercavano il contrario, se vi riuscivano in qualche minima parte, n'era indispettita, scemava quanto poteva colle parole e coll'opinione sua i loro successi (tanto de' brutti quanto de' belli, perché n'ebbe molti), e non lasciava [355]passare anzi cercava studiosamente l'occasione di rinfacciar loro, e far loro ben conoscere i loro difetti, e le con-seguenze che ne dovevano aspettare, e persuaderli della loro inevitabile miseria, con una veracità spietata e feroce. Sentiva i cattivi successi de' suoi figli in questo o simili particolari, con vera consolazione, e si tratteneva di prefe-renza con loro sopra ciò che aveva sentito in loro disfavore. Tutto questo per liberarli dai pericoli dell'anima, e nello stesso modo si regolava in tutto quello che spetta all'educazione dei figli, al produrli nel mondo, al collocarli, ai mez-zi tutti di felicità temporale. Sentiva infinita compassione per li peccatori, ma pochissima per le sventure corporali o temporali, eccetto se la natura talvolta la vinceva. Le malattie, le morti le più compassionevoli de' giovanetti estin-ti nel fior dell'età, fra le più belle speranze, col maggior danno delle famiglie o del pubblico ec. non la toccavano in verun modo. Perché diceva che non importa l'età della morte, ma il modo: e perciò soleva sempre informarsi curiosa-mente se erano morti bene secondo la religione, o quando erano malati, se mostravano rassegnazione ec. E parlava di queste disgrazie con una freddezza marmorea. Questa donna aveva sortito dalla natura un carattere sensibilissi-mo, ed era stata così ridotta dalla sola religione.

Nei primi anni di matrimonio apparve chiaro che gli errori commessi da Monaldo erano stati trop-pi. Non c’era possibilità d’uscita: i creditori incalzavano, mancava la liquidità. Il 3 Luglio 1803 gli fu inter-detta l’amministrazione dell’intero patrimonio che, per sua stessa volontà, fu assunto dalla moglie. Ade-laide stessa richiamò l’attenzione del papa sulle difficili condizioni della famiglia, ottenendo molte facili-tazioni per estinguere i debiti in un lungo arco di tempo. E così prese gradualmente le redini della situa-zione, impose (e si impose) rinunzie molto grandi. […]

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3 Minore R., Ibidem, p. 28.

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Subiva umiliazioni incredibili. Al caffè poteva andare, poteva vedere gli amici, ma il conto lo paga-va a fine anno Adelaide, spesso con derrate alimentari. Di fronte a necessità urgenti, era costretto a ven-dere qualche prodotto della campagna, con complicità di domestici e fattori. Una sera fu rimproverato aspramente da Adelaide perché aveva comprato una maglia di lana. Ed era inverno. Lui ne aveva biso-gno! […]

[…] Adelaide assicurava che il disordine sarebbe passato, le cose sarebbero tornate al giusto posto. Ma garantiva anche il mantenimento formale di tutti quei simboli di casta necessari per continuare a vivere a Recanati. Nel continuo confronto con le altre famiglie nobili si prendeva distanza dalle classi emergenti, dai neoricchi che non avevano né lo stemma familiare né il conforto dell’eruzione e della cultura.[…]

[…]Monaldo alzava le barricate. Elaborava un si-stema di difesa. Cominciò con la biblioteca. Il suo vanto prediletto. Qualcosa che aveva ostinatamente voluto, una mescolanza impressionante di libri utili e inutili: “grammatiche e dizionari e glosse e commenti e storie e orazioni e dissertazioni e infinito materiale di erudizione greca, ebraica, latina, sacra e profana, civiltà e barbarie, secoli aurei e ferrei, cose originali e imitazioni, sommi e mediocri, tutto commisti”.

L’aveva voluta gradualmente, scaffale dopo scaffale. […][…] L’estensione della biblioteca riusciva a rasserenarlo, a placare la sua insoddisfazione. I libri di-

vennero il suo elemento naturale. Studiava e scriveva nel tempo libero che, poi, occupava gran parte del-la sua giornata. Lo stimolavano, soprattutto, le ricerche su Recanati, sulla sua tradizione, sulle sue origi-ni. Si occupò delle zecche e delle monete recanatesi, della santa casa di Loreto, degli usi e dei costumi dei suoi concittadini illustri. Ma aveva anche interessi letterari4 […]

Esercizi

Rispondi sul quaderno alle seguenti domande:

1. Rileggendo la lettera all’amico Carlo Pepoli scrivi quali elementi hanno caratterizzato l’educa-

zione di Giacomo.

2. Qual è stata la passione di Giacomo da bambino? Pensi che le sue inclinazioni fantastiche ab-

biano influito nello sviluppo della sua genialità?

3. Riassumi, semplificando rispetto al linguaggio ottocentesco, i concetti relativi ai “Terrori not-

turni” espressi nel Saggio sugli errori popolari degli antichi.

4. Traccia a modo tuo, un ritratto di Adelaide, madre di Giacomo.

5. Osservando le notizie relative al conte Monaldo, padre di Giacomo, fai un confronto con il

tuo papà e metti in evidenza le differenze tra i due stili di vita.

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Biblioteca di Casa Leopardi

4 Minore R., Ibidem, pp. 31-35

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Seconda sotto-unità

In questa sotto unità l’insegnante comincia a svelare il cuore di un adolescente che, mosso da un fervido desi-derio di gloria e da una profonda passione, sceglie una strada di studio “matto e disperatissimo”. Non mancheran-no gli spunti di riflessione. Perché una scelta di questo tipo? Era forse presente un’alternativa che potesse appagare ugualmente le aspirazioni del poeta? Quali possono essere le motivazioni che lo hanno spinto verso questa scelta estrema?

Nel corso di questo segmento didattico l’insegnante cercherà di sottolineare attraverso i testi i nodi tematici e le riflessioni di carattere esistenziale che preludono alla formazione del suo pensiero.

L’ADOLESCENZA E IL PRIMO AMORE

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C’era solo un modo per muoversi sulla via della gloria, per ottenerla al più presto e duraturamen-

te. Per non essere come le moltissime persone che vedeva morire in giovanissima età, senza avere il tem-

po di farsi conoscere al mondo (e da costoro la curiosità era attratta fino alla commozione). Giacomo di-

venne uno studente precocissimo, Un vero e proprio modello di virtù scolastica.

Si applicava con passione, rigore, determinazione. Apprendeva tutto con la massima facilità e più

apprendeva più quella capacità si accresceva e si moltiplicava. Aveva tante curiosità e tanti interessi inso-

liti per la sua età. Era in grado – così piccolo e così indifeso verso di se – di guidare i fratelli anche nello

studio guadagnandosi sempre l’elogio di Monaldo che lo spronava additandolo come esempio tra paren-

ti e amici. […]

[…] Monaldo pomposamente faceva discorsi aulici, il figlio per emularlo, iniziò a provare un parti-

colare interesse per il latino.

In pochissimo tempo fu in grado di leggere, tradurre, parafrasare i più importanti classici. Ebbe an-

che, in quel tempo, solide basi di retorica, teologia, fisica. […]

[…] Monaldo controllava l’apprendimento. Dava consigli. Indicava e comprava libri per ulteriori

approfondimenti. E ogni anno organizzava a casa dei veri e propri spettacolini didattici: (per lo più eru-

diti e sacerdoti) i tre Leopardi dovevano dimostrare i progressi compiuti nei vari campi dello scibile uma-

no. Nulla veniva trascurato per l’ottima riuscita di quegli spettacoli domestici di cui veniva stampato per-

fino il programma. […]

[…]La mobilitazione in famiglia era sempre grande. L’inge-

nuo teatrino serviva a Monaldo per darsi un tono, per dimostrare

quanto i suoi metodi fossero validi, per sfogare un certo suo innato

istinto alla scena e all’esibizione. Fortemente motivati da lui, i figli

stavano al gioco. Affrontavano quel cimento molto caricati, molto

emozionati. […]

[…] Giacomo studiava tanto, troppo. I suoi interessi s’allarga-

vano sempre più. Ciò che detestava più sorpresa e ammirazione era-

no la tenacia, la capacità di applicarsi. Con perizia da orafo, rifiniva

i suoi quadernetti, contaminava brani tradotti e brani di sua creazio-

ne, li abbelliva con disegnini nitidi, dalla sicura grazia espressiva.

Pomposamente già li chiamava “le sue opere”. Erano versioni dal latino, esercitazioni, i primi versi. Scri-

veva a getto continuo, avendo il gusto del prodotto finito, operando ad incastro nel mettere insieme più

fonti.

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Testo autografo dell’Infinito

Page 11: L'Universo Di Giacomo Leopardi

Lavorava accanto alla finestra che dava sulla piazza, co-

me Monaldo impegnato nella stanza accanto. Soltanto in

questo modo placava completamente le sue preoccupa-

zioni, le sue ansie, i terrori.

Gli procuravano grande piacere le lodi del padre che va-

lorizzava al massimo il suo precoce talento. Se ne senti-

va lusingato. Il suo destino era già delineato rispetto ai

suoi coetanei5. […]

Quando nel Febbraio del 1817 fu stampata la traduzione del secondo libro dell’Eneide, ne fece pre-

sentare tre copie, una al Monti, una ad Angelo Mai, una a Pietro Giordani, che allora stavano tutti e tre a

Milano; e scrisse a tutti e tre. […] Ma quando ebbe parlato con l’editore […] e seppe che il dotto conte era

poco più che un fanciullo, mingherlino e sparuto, il Giordani, che faceva nobile professione d’aiutare gl’i-

nizii dei giovani, fu pieno di stupore e del più vivo affetto per quel miracoloso fanciullo; e cominciò a

scrivergli delle lettere piene d’ammirazione, di premura, di paterni consigli. Questo fu un merito grandis-

simo del Giordani […]: fu il primo letterato di gran fama che gli venne incontro francamente incoraggian-

do e consolando la sua dolorosa solitudine. Ne aveva un gran bisogno il Leopardi in quel tempo. Con la

vita che aveva fatto per tanti anni nella tenera adolescenza, studi e chiesa nient’altro, la sua salute era già

rovinata. […] Le amorose parole del Giordani gli furono luce e ristoro dolcissimo; cominciò a sfogarsi di

tutto quello che aveva nel cuore; poté parlare di poesia e di gloria con uno che poteva intenderlo. Si può

dire che il merito del Giordani fu tutto qui. Non gli insegnò, propriamente, nulla: cominciò, è vero a dar-

gli molti consigli e di prudenza nell’applicarsi e di metodo negli studi; ma il Leopardi era già troppo in-

nanzi per servirsene. Cercò inutilmente di riconciliarlo col borgo nativo: il giovinetto aveva già sofferto

troppo. Lo consigliava d’impratichirsi della prosa prima di far versi, e il Leopardi si sentiva portato con

tutte le forze dell’anima alla poesia6. […]

L’AMICO PIETRO GIORDANI tratto dalla lettera a Pietro Giordani scritta da

Recanati il 30 Aprile 1917, in Giacomo Leopardi. Storia di un’anima. Scelta dal-

l’Epistolario, a cura di Ugo Dotti, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1982.

Oh quante volte, carissimo e desideratissimo Signor Giordani mio, ho supplicato il cielo che mi facesse trova-

re un uomo di cuore d’ingegno e di dottrina straordinario, il quale trovato potessi pregare che si degnasse di conce-

dermi l’amicizia sua. E in verità credeva che non sarei stato esaudito, perché queste tre cose, tanto rare a trovarsi

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Finestra dello studiolo di Giacomo da cui scorgeva Silvia

5 Minore R., ibidem, pp. 36-696 Levi G. A., Leopardi. Una biografia per immagini, Centro Nazionale di Studi Leopardiani, Il Lavoro Editoriale, Ancona 1997, pp. 39-43.

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ciascuna da sé, appena stimava possibile che fossero tutte insieme. O sia benedetto

Iddio (e con pieno spargimento di cuore lo dico) che mi ha conceduto quello che do-

mandava, e fatto conoscere l’error mio. E però sia stretta, la prego, fin da ora tra

noi interissima confidenza, rispettosa per altro in me come si conviene a minore, e

liberissima in Lei. Ella mi raccomanda la temperanza nello studio con tanto calore

e come cosa che le prema tanto, che io vorrei poterle mostrare il cuor mio perché

vedesse gli affetti che v’ha destati la lettura delle sue parole, i quali se ‘l cuore non

muta forma e materia, non periranno mai, certo non mai. E per rispondere come

posso a tanta amorevolezza, dirolle che veramente la mia complessione non è debo-

le ma debolissima, e non istarò a negarle che ella si sia un po’ risentita delle fatiche che le ho fatto portare per sei an-

ni. Ora però le ho moderate assaissimo; non istudio più di sei ore il giorno, spessissimo meno, non iscrivo quasi

niente, fo la mia lettura regolata dei Classici delle tre lingue in volumi di piccola forma, che si portano in mano age-

volmente, sì che studio quasi sempre all’uso de’ Peripatetici, e, quod maximum dictu est, sopporto spesso per molte

e molte ore l’orribile supplizio di stare colle mani alla cintola. O chi avrebbe mai pensato che il Giordani dovesse pi-

gliar le difese di Recanati? O carissimo Sig. Giordani mio, questo mi fa ricordare il si Pergama dextrâ. La causa è

tanto disperata che non le basta il buon avvocato né le ne basterebbero cento. È un bel dire: Plutarco, l’Alfieri ama-

vano Cheronea ed Asti. Le amavano e non vi stavano. A questo modo amerò ancor io la mia patria quando ne sarò

lontano; or dico di odiarla perché vi son dentro, ché finalmente questa povera città non è rea d’altro che di non aver-

mi fatto un bene al mondo, dalla mia famiglia in fuori. Del luogo dove s’è passata l’infanzia è bellissima e dolcissi-

ma cosa il ricordarsi. […]

[…] La prima cosa, a me non va di dar la vita per questi pochissimi, né di rinunziare a tutto per vivere e mo-

rire a pro loro in una tana. Non credo che la natura m’abbia fatto per questo, né che la virtù voglia da me un sacrifi-

zio tanto spaventoso. In secondo luogo, ma che crede Ella mai? Che la Marca e ‘l mezzogiorno dello Stato Romano

sia come la Romagna e ‘l settentrione d’Italia? Costì il nome di letteratura si sente spessissimo: costì giornali acca-

demie conversazioni librai in grandissimo numero. I Signori leggono un poco. L’ignoranza è nel volgo, il quale se

no, non sarebbe più volgo: ma moltissimi s’ingegnano di studiare, moltissimi si credono poeti filosofi che so io. So-

no tutt’altro, ma pure vorrebbero esserlo. Quasi tutti si tengono buoni a dar giudizio sopra le cose di letteratura. Le

matte sentenze che profferiscono svegliano l’emulazione, fanno disputare parlare ridere sopra gli studi. […] Qui,

amabilissimo Signore mio, tutto è morte, tutto è insensataggine e stupidità. Si meravigliano i forestieri di questo

silenzio, di questo sonno universale. Letteratura è vocabolo inudito. I nomi del Parini dell’Alfieri del Monti, e del

Tasso, e dell`Ariosto e di tutti gli altri han bisogno di commento. Non c’è uno che si curi d’essere qualche cosa, non

c’è uno a cui il nome d’ignorante paia strano. Se lo danno da loro sinceramente e sanno di dire il vero. Crede Ella

che un grande ingegno qui sarebbe apprezzato ? Come la gemma nel letamaio. Ella ha detto benissimo (e saprà ben

dove) che gli studi come più sono rari meno si stimano, perché meno se ne conosce il valore. Così appuntino accade

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Page 13: L'Universo Di Giacomo Leopardi

in Recanati e in queste provincie dove l’ingegno non si conta fra i doni della natura. Io non sono certo una gran co-

sa: ma tuttavia ho qualche amico in Milano, fo venire i Giornali, ordino libri, fo stampare qualche mia cosa: tutto

questo non ha fatto mai altro recanatese […] Per appunto. I Giornali come sono stati letti nella mia famiglia, vanno

a dormire nelle scansie. Delle mie cose nessuno si cura e questo va bene; degli altri libri molto meno: anzi le dirò

senza superbia che la libreria nostra non ha eguale nella provincia, e due sole inferiori. Sulla porta ci sta scritto

ch’ella è fatta anche per li cittadini e sarebbe aperta a tutti. Ora quanti pensa Ella che la frequentino? Nessuno mai.

Oh veda Ella se questo è terreno da seminarci. Ma e gli studi, le pare che qui si possano far bene? Non dirò che con

tutta la libreria io manco spessissimo di libri, non pure che mi piacerebbe di leggere, ma che mi sarebbero necessari;

e però Ella non si meravigli se talvolta si accorgerà che io sia senza

qualche Classico. […]

[…] Che cosa è in Recanati di bello? che l’uomo si curi di vedere o

d’imparare? niente. Ora Iddio ha fatto tanto bello questo nostro

mondo, tante cose belle ci hanno fatto gli uomini, tanti uomini ci

sono che chi non è insensato arde di vedere e di conoscere, la terra è

piena di meraviglie, ed io di dieciott’anni potrò dire, in questa caver-

na vivrò e morrò dove sono nato? Le pare che questi desideri si pos-

sano frenare? che siano ingiusti soverchi sterminati? che sia pazzia

il non contentarsi di non veder nulla, il non contentarsi di Recanati? L’aria di questa città l’è stato mal detto che

sia salubre. È mutabilissima, umida, salmastra, crudele ai nervi e per la sua sottigliezza niente buona a certe com-

plessioni. A tutto questo aggiunga l’ostinata nera orrenda barbara malinconia che mi lima e mi divora, e collo stu-

dio s’alimenta e senza studio s’accresce. So ben io qual è, e l’ho provata, ma ora non la provo più, quella dolce malin-

conia che partorisce le belle cose, più dolce dell’allegria, la quale, se m’è permesso di dir così, è come il crepuscolo,

dove questa è notte fittissima e orribile, è veleno, come Ella dice, che distrugge le forze del corpo e dello spirito. Ora

come andarne libero non facendo altro che pensare e vivendo di pensieri senza una distrazione al mondo? e come

far che cessi l’effetto se dura la causa ? Che parla Ella di divertimenti? Unico divertimento in Recanati è lo studio:

unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia. So che la noia può farmi manco male che la fati-

ca, e però spesso mi piglio la noia, ma questa mi cresce com’è naturale, la malinconia, e quando io ho avuto la di-

sgrazia di conversare con questa gente, che succede di raro, torno pieno di tristissimi pensieri agli studi miei, o mi

vo covando in mente e ruminando quella nerissima materia. Non m’è possibile rimediare a questo né fare che la mia

salute debolissima non si rovini, senza uscire di un luogo che ha dato origine al male e lo fomenta e l’accresce ogni

dì più, e a chi pensa non concede nessun ricreamento. […]

[…] Vedo con esultazione che Ella nella soavissima sua dei 15 Aprile discende a parlarmi degli studi. Ri-

sponderò a quanto Ella mi scrive, dicendole sinceramente quando le sue opinioni si siano scontrate nella mia mente

con opinioni diverse, acciocché Ella veda quanto io abbia bisogno ch’Ella mi faccia veramente da maestro, e compa-

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Page 14: L'Universo Di Giacomo Leopardi

tendo alla debolezza e piccolezza de’ pensieri miei si voglia impacciare di provvederci. Che la proprietà de’concetti e

delle espressioni sia appunto quella cosa che discerne lo scrittor Classico dal dozzinale […] è verità tanto evidente

che fu la prima di cui io m’accorsi quando cominciai a riflettere seriamente sulla letteratura: e dopo questo facilmen-

te vidi che il mezzo più spedito e sicuro di ottenere questa proprietà era il trasportare d’una in altra lingua i buoni

scrittori. Ma che quando l’intelletto è giunto a certa sodezza e maturità e a poter conoscere con qualche sicurezza a

qual parte la natura lo chiami, si debba di necessità comporre prima in prosa che in verso, questo le dirò schietta-

mente che a me non parea. Parlando di me posso ingannarmi, ma io le racconterò, come a me sembra che sia, quello

che m’è avvenuto e m’avviene. Da che ho cominciato a conoscere un poco il bello, a me quel calore e quel desiderio

ardentissimo di tradurre e far mio quello che leggo, non han dato altri che i poeti, e quella smania violentissima di

comporre, non altri che la natura e le passioni ma in modo forte ed elevato, facendomi quasi ingigantire l’anima in

tutte le sue parti, e dire, fra me: questa è poesia, e per esprimere quello che io sento ci voglion versi e non prosa, e

darmi a far versi. Non mi concede Ella di leggere ora Omero Virgilio Dante e gli altri sommi? Io non so se potrei

astenermene perché leggendoli provo un diletto da non esprimere con parole, e spessissimo mi succede di starmene

tranquillo e pensando a tutt’altro, sentire qualche verso di autor classico che qualcuno della mia famiglia mi recita

a caso, palpitare immantinente e vedermi forzato di tener dietro a quella poesia. E m’è pure avvenuto di trovarmi

solo nel mio gabinetto colla mente placida e libera, in ora amicissima alle muse, pigliare in mano Cicerone, e leggen-

dolo sentire la mia mente far tali sforzi per sollevarsi, ed esser tormentato dalla lentezza e gravità di quella prosa

per modo che volendo seguitare, non potei, e diedi di mano a Orazio. E se Ella mi concede quella lettura, come vuole

che io conosca quei grandi e ne assaggi e ne assapori e ne consideri a parte a parte le bellezze, e poi mi tenga di non

lanciarmi dietro a loro? Quando io vedo la natura in questi luoghi che veramente sono ameni (unica cosa buona che

abbia la mia patria) e in questi tempi spezialmente, mi sento così trasportare fuor di me stesso, che mi parrebbe di

far peccato mortale a non curarmene, e a lasciar passare questo ardore di gioventù, e a voler divenire buon prosato-

re, e aspettare una ventina d’anni per darmi alla poesia, dopo i quali, primo, non vivrò, secondo, questi pensieri sa-

ranno iti; e la mente sarà più fredda o certo meno calda che non è ora. Non voglio già dire che secondo me, se la na-

tura ti chiama alla poesia, tu abbi a seguitarla senza curarti d’altro, anzi ho per certissimo ed evidentissimo che la

poesia vuole infinito studio e fatica, e che l’arte poetica è tanto profonda che come più vi si va innanzi più si conosce

che la perfezione sta in un luogo al quale da principio né pure si pensava. Solo mi pare che l’arte non debba affogare

la natura e quell’andare per gradi e voler prima essere buon prosatore e poi poeta, mi par che sia contro la natura la

quale anzi prima ti fa poeta e poi col raffreddarsi dell’età ti concede la maturità e posatezza necessaria alla prosa.

[…] Però io avea conchiuso tra me che per tradur poesia vi vuole un’anima grande e poetica e mille e mille altre co-

se, ma per tradurre in prosa un più lungo esercizio ed assai più lettura, e forse anche (che a me pare necessarissimo)

qualche anno di dimora in paese dove si parli la buona lingua, qualche anno di dimora in Firenze. […] Per carità,

Sig. Giordani mio, non mi voglia credere un temerario, perché le ho detto sì francamente e con tanto poco riguardo

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Page 15: L'Universo Di Giacomo Leopardi

alla piccolezza mia, quello che sentiva. Non isdegni di persuadermi. Questa sarà opera piccola per sé, ma sarà opera

di misericordia. e degna del suo bel cuore. […]

[…]Come farò, signor Giordani mio, a domandarle perdono dell’averle scritto un tomo in vece di una lette-

ra? Veramente ne arrossisco e non so che mi dire, e contuttociò gliene domando perdono. La sua terza lettera m’a-

vea destato in mente un tumulto di pensieri, la quarta me lo ha raddoppiato. Mi sono indugiato di rispondere per

non infastidirla tanto spesso, ma pigliata in mano la penna non ho potuto tenermi più. Ho risposto a un foglietto

de’ suoi con un foglione de’ miei. Questa è la prima volta che le apro il mio cuore: come reprimere la piena de’ pen-

sieri? Un’altra volta sarò più breve, ma più breve assaissimo. Non vorrei ch’Ella s’irritasse per tanta mia indiscre-

tezza: certo l’ira sarebbe giustissima, ma confido nella bontà del suo cuore. Mi perdoni di nuovo, caro Signor mio, e

sappia che sempre pensa di Lei il suo desiderantissimo servo Giacomo Leopardi.

Esercizi

Rispondi sul quaderno alle seguenti domande1. Qual è lo stato d’animo di Giacomo quando risponde alla lettera di Pietro Giordani? Spiega le ragioni

che lo determinano.

2. Quali sono gli argomenti trattati dal giovane poeta nella sua lunga lettera?

3. Giacomo, per quanto giovane, dimostra di avere le idee molto chiare in relazione alla sua indole. Ti

sembra che voglia assecondare i consigli di Pietro Giordani? Argomenta la risposta.

Ben presto anche per Giacomo giunse il primo amore. Questi arrivò inaspettato e bussò alle porte

di casa Leopardi sotto il nome di Gertrude Cassi Lazzari, una lontana cugina di Pesaro, sette anni più

grande di lui e già sposata con un uomo più anziano di lei, grosso e pacifico. La donna si trovava a Reca-

nati per mettere la figlioletta in convento.

Il cuore del giovane poeta, ardente dal desiderio di confrontarsi con delle belle donne, desiderio

represso e ostacolato dai rigidi costumi della famiglia ed in particolare della madre Adelaide, cominciò a

palpitare. Questa passione amorosa, come tutti i sussulti adolescenziali, non durò molto, tuttavia è im-

portante ricordarla per il fatto che da questo momento in poi Giacomo si rende conto che gli interessi di

un uomo non possono essere rivolti solo allo studio, ed in particolare che l’amore nobilita l’animo il qua-

le non può perseguire solo la gloria.

Questa esperienza che in un giovane della stessa rappresenterebbe la “primavera delle passioni” in

lui significò, tuttavia, un’amara constatazione: l’essere depositario di un’anima appasionata, stretta in un

corpo che precocemente aveva perso il “fior della gioventù”.

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Page 16: L'Universo Di Giacomo Leopardi

MEMORIE DEL PRIMO AMORE tratto da Storia di un'anima di Giacomo Leo-

pardi, a cura di Plinio Perilli, collezione "Lo scrigno", 13, Carlo Mancosu Edito-

re, Roma 1993

Io cominciando a sentire l’impero della bellezza, da più d’un anno desiderava di parlare e conversare, come

tutti fanno, con donne avvenenti, delle quali un sorriso solo, per rarissimo caso gittato sopra di me, mi pareva cosa

stranissima e maravigliosamente dolce e lusinghiera: e questo desiderio nella mia forzata solitudine era stato vanis-

simo fin qui.

Ma la sera dell’ultimo Giovedì, arrivò in casa nostra, aspettata con

piacere da me, né conosciuta mai, ma creduta capace di dare qualche sfogo

al mio antico desiderio, una Signora Pesarese nostra parente più tosto lonta-

na, di ventisei anni, col marito di oltre a cinquanta, grosso e pacifico, alta e

membruta quanto nessuna donna ch’io m’abbia veduta mai, di volto però

tutt’altro che grossolano, lineamenti tra il forte e il delicato, bel colore, occhi

nerissimi, capelli castagni, maniere benigne, e, secondo me, graziose, lonta-

nissime dalle affettate, molto meno lontane dalle primitive, tutte proprie del-

le Signore di Romagna e particolarmente delle Pesaresi, diversissime, ma

per una certa qualità inesprimibile, dalle nostre Marchegiane.

Quella sera la vidi, e non mi dispiacque; ma le ebbi a dire pochissime

parole, e non mi ci fermai col pensiero. Il Venerdì le dissi freddamente due

parole prima del pranzo: pranzammo insieme, io taciturno al mio solito, te-

nendole sempre gli occhi sopra, ma con un freddo e curioso diletto di mirare un volto più tosto bello, alquanto mag-

giore che se avessi contemplato una bella pittura. Così avea fatto la sera precedente, alla cena. La sera del Venerdì, i

miei fratelli giuocarono alle carte con lei: io invidiandoli molto, fui costretto di giuocare agli scacchi con un altro:

mi ci misi per vincere, a fine di ottenere le lodi della Signora (e della Signora sola, quantunque avessi dintorno mol-

ti altri) la quale senza conoscerlo, facea stima di quel giuoco. Riportammo vittorie uguali, ma la Signora intenta ad

altro non ci badò, poi lasciate le carte, volle ch’io l’insegnassi i movimenti degli scacchi: lo feci ma insieme cogli al-

tri, e però con poco diletto, ma m’accorsi ch’Ella con molta facilità imparava, e non se le confondevano in mente

quei precetti dati in furia (come a me si sarebbero senza dubbio confusi), e ne argomentai quello che ho poi inteso da

altri, che fosse Signora d’ingegno. Intanto l’aver veduto e osservato il suo giuocare coi fratelli, m’avea suscitato

gran voglia di giuocare io stesso con lei, e così ottenere quel desiderato parlare e conversare con donna avvenente:

per la qual cosa con vivo piacere sentii che sarebbe rimasta fino alla sera dopo. Alla cena, la solita fredda contempla-

zione.

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Gertrude Cassi Lazzari e suo fratello

Page 17: L'Universo Di Giacomo Leopardi

L’indomani nella mia votissima giornata aspettai il giuoco con piacere ma senza affanno né ansietà nessuna:

o credeva che ci avrei trovato soddisfazione intera, o certo non mi passò per la mente ch’io ne potessi uscire malcon-

tento. Venuta l’ora, giuocai. N’uscii scontentissimo e inquieto. Avea giuocato senza molto piacere, ma lasciai anche

con dispiacere, pressato da mia madre. La Signora m’avea trattato benignamente, ed io per la prima volta avea fatto

ridere colle mie burlette una dama di bello aspetto, e parlatole, e ottenutone per me molte parole e sorrisi. Laonde

cercando fra me perché fossi scontento, non lo sapea trovare. Non sentia quel rimorso che spesso, passato qualche

diletto, ci avvelena il cuore, di non esserci ben serviti dell’occasione. Mi parea di aver fatto e ottenuto quanto si pote-

va e quanto io m’era potuto aspettare. Conosceva però benissimo che quel piacere era stato più torbido e incerto,

ch’io non me l’era immaginato, ma non vedeva di poterne incolpare nessuna cosa. E ad ogni modo io mi sentiva il

cuore molto molle e tenero, e alla cena osservando gli atti e i discorsi della Signora, mi piacquero assai, e mi ammol-

lirono sempre più; e insomma la Signora mi premeva molto: la quale nell’uscire capii che sarebbe partita l’indoma-

ni, né io l’avrei riveduta.

Mi posi in letto considerando i sentimenti del mio cuore, che in sostanza erano inquietudine indistinta, scon-

tento, malinconia, qualche dolcezza, molto affetto, e desiderio non sapeva né so di che, né anche fra le cose possibili

vedo niente che mi possa appagare. Mi pasceva della memoria continua e vivissima della sera e dei giorni avanti, e

così vegliai sino al tardissimo, e addormentatomi, sognai sempre come un febbricitante, le carte il giuoco la Signo-

ra; contuttoché vegliando avea pensato di sognarne, e mi parea di aver potuto notare che io non avea mai sognato di

cosa della quale avessi pensato che ne sognerei: ma quegli affetti erano in guisa padroni di tutto me e incorporati

colla mia mente, che in nessun modo né anche durante il sonno mi poteano lasciare.

Svegliatomi prima del giorno (né più ho ridormito), mi sono ricominciati, com’è naturale, o più veramente

continuati gli stessi pensieri, e dirò pure che io avea prima di addormentarmi considerato che il sonno mi suole

grandemente infievolire e quasi ammorzare le idee del giorno innanzi specialmente delle forme e degli atti di perso-

ne nuove, temendo che questa volta non mi avvenisse così. Ma quelle per lo contrario essendosi continuate anche

nel sonno mi si sono riaffacciate alla mente freschissime e quasi rinvigorite. E perché la finestra della mia stanza

risponde in un cortile che dà lume all’androne di casa, io sentendo passar gente così per tempo, subito mi sono ac-

corto che i forestieri si preparavano al partire, e con grandissima pazienza e impazienza, sentendo prima passare i

cavalli, poi arrivar la carrozza, poi andar gente su e giù, ho aspettato un buon pezzo coll’orecchio avidissimamente

teso, credendo a ogni momento che discendesse la Signora, per sentirne la voce l’ultima volta; e l’ho sentita.

Non m’ha saputo dispiacere questa partenza, perché io prevedeva che avrei dovuto passare una trista giorna-

ta se i forestieri si fossero trattenuti. Ed ora la passo con quei moti specificati di sopra, e aggiugnici un doloretto

acerbo che mi prende ogni volta che mi ricordo dei dì passati, ricordanza malinconica oltre a quanto io potrei dire, e

quando il ritorno delle stesse ore e circostanze della vita, mi richiama alla memoria quelle di que’ giorni, vedendomi

dintorno un gran voto, e stringendomisi amaramente il cuore. Il quale tenerissimo, teneramente e subitamente si

apre, ma solo solissimo per quel suo oggetto, ché per qualunque altro questi pensieri m’hanno fatto e della mente e

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Page 18: L'Universo Di Giacomo Leopardi

degli occhi oltremodo schivo e modestissimo, tanto ch’io non soffro di fissare lo sguardo nel viso sia deforme (che se

più o manco m’annoi, non lo so ben discernere) o sia bello a chicchessia, né in figure o cose tali; parendomi che quel-

la vista contamini la purità di quei pensieri e di quella idea ed immagine spirante e visibilissima che ho nella mente.

E così il sentir parlare di quella persona, mi scuote e tormenta come a chi si tastasse o palpeggiasse una parte del

corpo addoloratissima, e spesso mi fa rabbia e nausea; come veramente mi mette a soqquadro lo stomaco e mi fa di-

sperare il sentir discorsi allegri, e in genere tacendo sempre, sfuggo quanto più posso il sentir parlare, massime ne-

gli accessi di quei pensieri. A petto ai quali ogni cosa mi par feccia, e molte ne disprezzo che prima non disprezzava,

anche lo studio, al quale ho l’intelletto chiusissimo, e quasi anche, benché forse non del tutto, la gloria. E sono svo-

gliatissimo al cibo, la qual cosa noto come non ordinaria in me né anche nelle maggiori angosce, e però indizio di

vero turbamento.

Se questo è amore, che io non so, questa è la prima volta che io lo provo in età da farci sopra qualche conside-

razione; ed eccomi di diciannove anni e mezzo, innamorato.

E veggo bene che l’amore dev’esser cosa amarissima, e che io purtroppo (dico dell’amor tenero e sentimentale)

ne sarò sempre schiavo. Benché questo presente (il quale, come ieri sera quasi subito dopo il giuocare, pensai, proba-

bilmente è nato dall’inesperienza e dalla novità del diletto) son certo che il tempo fra pochissimo lo guarirà: e questo

non so bene se mi piaccia o mi dispiaccia, salvo che la saviezza mi fa dire a me stesso di sì.

Volendo pur dare qualche alleggiamento al mio cuore, e non sapendo né volendo farlo altrimenti che collo

scrivere, né potendo oggi scrivere altro, tentato il verso, e trovatolo restio, ho scritto queste righe, anche ad oggetto

di speculare minutamente le viscere dell’amore, e di poter sempre riandare appuntino la prima vera entrata nel mio

cuore di questa sovrana passione.

La Domenica 14 di Decembre 1817

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Esercizi

1. Quanti anni aveva Giacomo all’epoca del primo amore?

2. Rileggendo la pagina del diario e soffermandoti sui moti dell’animo del giovane Leopadi noterai uno

strano contrasto di umori. Riportali nella griglia.

GIOIA TRISTEZZA

3. Riscrivi la pagina del diario di Giacomo come se egli fosse un educato ragazzo del XXI secolo.

4. Cosa si intende con l’espressione “doloretto acerbo” sottolinea sul testo le parole con cui l’autore cer-

ca di spiegare questo stato d’animo.

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Terza sotto-unità

In questa terza terza sotto unità si vuole lavorare sulla testimonianza viva e quindi solo sui documenti, sen-

za ricorrere ad alcun cenno biografico. Cominciando con la lettera di commiato che Giacomo scrive al fratello Carlo

in seguito alla sua fuga, seguirà la lettura della missiva diretta al padre nella stessa occasione. A questo punto l’in-

segnante raccoglierà le idee della classe, evidenziando alla lavagna i motivi che hanno spinto il poeta a scappare. La

prima parte di questa sezione si concluderà poi con una amara lettera che Giacomo invierà al suo amico Pietro Gior-

LA FUGA FALLITA

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dani dopo il fallimento della sua fuga. Gli alunni, dunque, memori delle due letture precenti dovranno ricavare il

perché di un tale stato d’animo, partendo dalle domande: Perché l’autore scrive ancora da Recanati? Giacomo è feli-

ce? Perché non fa riferimento alla nuova vita intrapresa dopo la fuga? A questo punto, si lavorerà sopra alcune

espressioni e parole chiave che porteranno ad una migliore comprensione dei pensieri del poeta come condizione de-

gli uomini/vanità di tutte le cose, vita/ morte, noia, disperazione, dolore, malinconia.

A CARLO LEOPARDI tratto da Storia di un'anima di Giacomo Leopardi, a cura

di Plinio Perilli, collezione "Lo scrigno", 13, Carlo Mancosu Editore, Roma 1993

Recanati: senza data, ma fine di Luglio 1819.

Mio caro. Parto di qua senz’avertene detto niente, prima perché tu non sia responsabile della mia partenza

presso veruno; poi perché il consiglio giova all’uomo irresoluto, ma al risoluto non può altro che nuocere: ed io sape-

va che tu avresti disapprovata la mia risoluzione, e postomi in nuove angustie col cercare di distormene. Sono stan-

co della prudenza, che non ci poteva condurre se non a perdere la nostra gioventù, ch’è un bene che più non si rac-

quista. Mi rivolgo all’ardire, e vedrò se da lui potrò cavare maggior vantaggio. Tuttavia questa deliberazione non è

repentina; benché fatta nel calore, ho lasciato passare molti giorni per maturarla; e non ho avuto mai motivo di pen-

tirmene. […] Ora che la legge mi fa padrone di me stesso, non ho voluto più differire quello ch’era indispensabile

secondo i nostri principii. Due cagioni m’hanno determinato immediatamente, la noia orribile derivata dall’impossi-

bilità della studio, sola occupazione che mi potesse trattenere in questo paese; ed un altro motivo che non voglio

esprimere, ma tu potrai facilmente indovinare. E questo secondo, che per le mie qualità sì mentali come fisiche, era

capace di condurmi alle ultime disperazioni, e mi facea compiacere sovranamente nell’idea del suicidio, pensa tu se

non dovea potermi portare ad abbandonarmi a occhi chiusi nelle mani della fortuna. Sta bene, mio caro, e a riguar-

do mio sta’ lieto, ch’io fo quello che doveva fare da molto tempo, e che solo mi può condurre ad una vita se non con-

tenta, almeno più riposata. Laonde se m’ami, ti devi rallegrare: e quando io non guadagnassi altro che d’esser piena-

mente infelice, sarei soddisfatto, perché sai che la mediocrità non è per noi. Porto con me le mie carte, ma potendo

avvenire che fossero esaminate, non voglio comprometter me, e molto meno le persone che mi hanno scritto col por-

tarne qualcuna che sia sospetta. Ho separate tutte quelle di questo genere, sì mie, che altrui (cioè lettere scrittemi) e

postele tutte insieme sul comò della nostra stanza. Ve ne sono anche di quelle che non ho voluto portare perché non

mi servivano. Te le raccomando: abbine cura e difendile: sai che non ho cosa più preziosa che i parti della mia mente

e del mio cuore, unico bene che la natura m’abbia concesso. Se verranno lettere del mio Giordani per me, aprile e

rispondi, e salutalo per mio nome, e informalo della mia risoluzione. Al Brighenti si debbono paoli 8 per la Cronica

del Compagni, paoli 3 per le Prose del Giordani, e baiocchi 16 di errore nella spedizione del danaro per l’Eusebio. In

tutto 1 e 36. Proccura che sia soddisfatto e, domanda perdono a Paolina se i 3 paoli che mi diede pel Giordani, e i

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baiocchi 16 per l’uso detto di sopra, gli ho portati con me, sperando ch’Ella non avrebbe negato quest’ultimo dono

al suo fratello se glielo avesse chiesto. Oh quanto avrei caro che il mio esempio servisse a illuminare nostri genitori

intorno a te ed agli altri nostri fratelli! Certissimamente ho speranza che tu sarai meno infelice di me. Addio, saluta-

mi Paolina e gli altri. Poco mi curo dell’opinione degli uomini, ma se ti si darà occasione, discolpami. Voglimi eter-

namente bene, che di me puoi esser sicuro sino alla morte mia. Quando mi trovi in luogo adattato a darti mie nuo-

ve, ti scriverò. Addio. Abbraccia questo sventurato. Non dubitare, non sarai tu così. Oh quanto meriti più di me!

Che sono io? Un uomo proprio da nulla. Lo vedo e sento vivissimamente, e questo pure m’ha determinato a far qucl-

lo che son per fare, affine di fuggire la considerazione di me stesso, che mi fa nausea. Finattantoché mi sono stima-

to, sono stato più cauto; ora che mi disprezzo, non trovo altro conforto che di gittarmi alla ventura e cercar pericoli,

come cosa di niun valore. Consegna l’inclusa a mio padre. Domanda perdono a lui, domanda perdono a mia madre

in mio nome. Fallo di cuore, che te ne prego, e così fo io collo spirito. Era meglio (umanamente parlando) per loro e

per me, ch’io non fossi nato, o fossi morto assai prima d’ora. Così ha voluto la nostra disgrazia. Addio, caro, addio.

A MONALDO LEOPARDI tratto da Storia di un'anima di Giacomo Leopardi, a

cura di Plinio Perilli, collezione "Lo scrigno", 13, Carlo Mancosu Editore, Roma

1993

Recanati senza data, ma fine di Luglio 1819

Mio Signor Padre. Sebbene dopo aver saputo quello ch’io

avrò fatto, questo foglio le possa parere indegno di esser letto, a

ogni modo spero nella sua benignità che non vorrà ricusare di sen-

tir le prime e ultime voci di un figlio che l’ha sempre amata e l’ama,

e si duole infinitamente di doverle dispiacere. Ella conosce me, e co-

nosce la condotta ch’io ho tenuta fino ad ora, e forse, quando voglia

spogliarsi d’ogni considerazione locale, vedrà che in tutta l’Italia, e

sto per dire in tutta l’Europa, non si troverà altro giovane, che nel-

la mia condizione, in età anche molto minore, forse anche con doni intellettuali competentemente inferiori ai miei,

abbia usato la metà di quella prudenza, astinenza da ogni piacer giovanile, ubbidienza e sommessione ai suoi genito-

ri, ch’ho usata io. Per quanto Ella possa aver cattiva opinione di quei pochi talenti che il cielo mi ha conceduti, Ella

non potrà negar fede intieramente a quanti uomini stimabili e famosi mi hanno conosciuto ed hanno portato di me

quel giudizio ch’Ella sa, e ch’io non debbo ripetere. Ella non ignora che quanti hanno avuto notizia di me, ancor

quelli che combinano perfettamente colle sue massime, hanno giudicato ch’io dovessi riuscir qualche cosa non affat-

to ordinaria, se mi si fossero dati quei mezzi che nella presente costituzione del mondo e in tutti gli altri tempi, so-

no stati indispensabili per fare riuscire un giovane che desse anche mediocri speranze di se. Era cosa mirabile come

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ognuno che avesse avuto anche momentanea cognizione di me, immancabilmente si maravigliasse ch’io vivessi tut-

tavia in questa città, e com’Ella sola fra tutti, fosse di contraria opinione, e persistesse in quella irremovibilmente.

[…] Molto dopo l’età consueta, cominciai a manifestare il mio desiderio che Ella provvedesse al mio destino,

e al bene della mia vita futura nel modo che le indicava la voce di tutti. Io vedeva parecchie famiglie di questa mede-

sima città molto, anzi senza paragone meno agiate della nostra, e sapeva poi d’infinite altre straniere, che per qual-

che leggero barlume d’ingegno veduto in qualche giovane loro individuo, non esitavano a far gravissimi sacrifici

affine di collocarlo in maniera atta a farlo profittare de suoi talenti. Contuttoché si credesse da molti che il mio intel-

letto spargesse alquanto più che un barlume, Ella tuttavia mi giudicò indegno che un padre dovesse far sacrifizi per

me, né le parve che il bene della mia vita presente e futura valesse qualche alterazione al suo piano di famiglia. Io

vedeva i miei parenti scherzare cogl’impieghi che ottenevano dal sovrano, e sperando che avrebbero potuto impe-

gnarsi con effetto anche per me, domandai che per lo meno mi si procacciasse qualche mezzo di vivere in maniera

adattata alle mie circostanze, senza che perciò fossi a carico della mia famiglia. Fui accolto colle risa […]. Io sapeva

bene i progetti ch’Ella formava su di noi, e come per assicurare la felicità di una cosa ch’io non conosco, ma sento

chiamar casa e famiglia, Ella esigeva da noi due il sacrificio, non di roba ne di cure, ma delle nostre inclinazioni,

della gioventù, e di tutta la nostra vita. […] Ella conosceva ancora la miserabilissima vita ch’io menava per le orri-

bili malinconie, ed i tormenti di nuovo genere che mi proccurava la mia strana immaginazione, e non poteva ignora-

re quello ch’era più ch’evidente, cioè che a questo, ed alla mia salute che ne soffriva visibilissimamente, e ne sofferse

sino da quando mi si formò questa misera complessione, non v’era assolutamente altro rimedio che distrazioni po-

tenti, e tutto quello che in Recanati non si poteva mai ritrovare. Contuttociò Ella lasciava per tanti anni un uomo

del mio carattere, o a consumarsi affatto in istudi micidiali, o a seppellirsi nella più terribile noia, e per conseguen-

za, malinconia, derivata dalla necessaria solitudine, e dalla vita affatto disoccupata, come massimamente negli ulti-

mi mesi. Non tardai molto ad avvedermi che qualunque possibile e immaginabile ragione era inutilissima a rimuo-

verla dal suo proposito, e che la fermezza straordinaria del suo carattere, coperta da una costantissima dissimulazio-

ne, e apparenza di cedere, era tale da non lasciar la minima ombra di speranza. Tutto questo, e le riflessioni fatte

sulla natura degli uomini, mi persuasero, ch’io benché sprovveduto di tutto, non dovea confidare se non in me stes-

so. Ed ora che la legge mi ha già fatto padrone di me, non ho voluto più tardare a incaricarmi della mia sorte. […]

Avendole reso quelle ragioni che ho saputo della mia risoluzione, resta ch’io le domandi perdono del disturbo

che le vengo a recare con questa medesima e con quello ch’io porto meco. […] Me ne duole sovra-namente, e questa

è la sola cosa che mi turba nella mia deliberazione, pensando di far dispiacere a Lei, di cui conosco la somma bontà

di cuore, e le premure datesi per farci viver soddisfatti nella nostra situazione. Alle quali io sono grato sino all’estre-

mo dell’anima, e mi pesa infinitamente di parere infetto di quel vizio che abborro quasi sopra tutti, cioè l’ingratitu-

dine. […] Quello che mi consola è il pensare che questa è l’ultima molestia ch’io le reco, e che serve a liberarla dal

continuo fastidio della mia presenza, e dai tanti altri disturbi che la mia persona le ha recati, e molto più le rechereb-

be per l’avvenire. Mio caro Signor Padre, se mi permette di chiamarla con questo nome, io m’inginocchio per pre-

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garla di perdonare a questo infelice per natura e per circostanze. Vorrei che la mia infelicità fosse stata tutta mia, e

nessuno avesse dovuto risentirsene, e così spero che sarà d’ora innanzi. Se la fortuna mi farà mai padrone di nulla,

il mio primo pensiero sarà di rendere quello di cui ora la necessità mi costringe a servirmi. L’ultimo favore ch’io le

domando, è che se mai le si desterà la ricordanza di questo figlio che l’ha sempre venerata ed amata, non la rigetti

come odiosa, né la maledica; e se la sorte non ha voluto ch’Ella si possa lodare di lui, non ricusi di concedergli quel-

la compassione che non si nega neanche ai malfattori.

A PIETRO GIORDANI tratto da Giacomo Leopardi. Storia di un’anima. Scelta

dall’Epistolario, a cura di Ugo Dotti, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano

1982.

Recanati il 19 Novembre 1919

Sono così stordito del niente che mi circonda, che non so come abbia forza di prender la penna per rispondere

alla tua del primo. Se in questo momento impazzissi, io credo che la mia pazzia sarebbe di seder sempre con gli oc-

chi attoniti, colla bocca aperta, colle mani tra le ginocchia, senza né ridere né piangere, né muovermi altro che per

forza dal luogo dove mi trovassi. Non ho più lena di concepir più nessun desiderio, neanche della morte, non per-

ch’io la tema in nessun conto, ma non vedo più divario tra la morte e questa mia vita, dove non viene più a conso-

larmi neppure il dolore. Questa è la prima volta che la noia non solamente mi opprime e stanca, ma mi affanna e

lacera come un dolor gravissimo; e sono così spaventato della vanità di tutte le cose, e della condizione degli uomi-

ni, morte tutte le passioni, come sono spente nell’animo mio, che ne vo fuori di me, considerando ch’è un niente an-

che la mia disperazione.

Gli studi che tu mi solleciti amorosamente a continuare, non so da otto mesi in poi che cosa sieno, trovando-

mi i nervi degli occhi e della testa indeboliti in maniera, che non posso non solamente leggere né prestare attenzione

a chi mi legga checchè si voglia, ma fissar la mente in nessun pensiero di molto o poco rilievo.

Mio caro, bench’io non intenda più i nomi d’amicizia e d’amore, pur ti prego a volermi bene come fai, ed a

ricordarti di me, e credere ch’io, come posso, ti amo, e ti amerò sempre, e desidero che tu mi scriva. Addio

Esercizi

1. Rispondi sul quaderno alle seguenti domande− Per quale ragione sono state scritte le prime due lettere?− Quando Giacomo progetta la fuga quanti anni ha?− Perché l’autore scrive ancora da Recanati?− Giacomo è felice?

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− Qual è il suo stato di salute?− Perché non fa riferimento alla nuova vita intrapresa dopo la fuga?

2. Raccogli le idee che hai ricavato dall’esercizio 1 e scrivi in un massimo di 20 righe un segmento del-

la biografia dell’autore.

3. Dopo aver riletto attentamente le lettere scritte da Giacomo al fratello, al padre e a Pie-tro Giordani, isola nella griglia sottostante il tema: morte, vita, malinconia, dolore, con-dizione umana. Successivamente collegali alla lettera cui si riferiscono e spiega a modo tuo il significato che l’autore ha attribuito a queste parole.

TEMI LETTERA SIGNIFICATOmortevita

malinconiainfelicità

dolorecondizione umana

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Quarta sotto-unità

In questo particolare momento della lezione l’obiettivo non vuole essere quello di entrare esaustivamente nel mondo di Leopardi, ma solo di avvicinarsi al testo per riflettere sulle modalità con cui esso è stato costruito e per trovarvi la manifestazione dei sentimenti dell'autore. Elemento indispensabile è la lettura di un passo dello Zibaldo-ne (165/166) col quale si introducono i concetti di infinito, felicità e piacere. Per chiarire i concetti più complessi si distribuirà una mappa concettuale. Successivamente attraverso la lettura dei sonetti l’Infinito e alla Luna, l’inse-gnante esegue la parafrasi e il commento.

I PRIMI IDILLI

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IL CONCETTO DI INFINITO tratto da Storia di un'anima di Giacomo Leopardi, a cura di Pli-nio Perilli, collezione "Lo scrigno", 13, Carlo Mancosu Editore, Roma 1993

[165]Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempierci l'animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più materiale che spirituale. L'anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benchè sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt'uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch'è ingenita o congenita coll'esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita. […]Quan-do giungi a possedere il cavallo, [166]trovi un piacere necessariamente circoscritto, e senti un vuoto nell'anima, perchè quel desiderio che tu avevi effettivamente, non resta pago. Se anche fosse possibile che restasse pago per estensione, non potrebbe per durata, perchè la natura delle cose porta ancora che niente sia eterno. […]Il piacere infinito che non si può trovare nella realtà, si trova così nella immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni ec. Perciò non è maraviglia 1. che la speranza sia sempre maggior del bene, 2. che la felicità umana non possa consistere se non se nella immaginazione e nelle illusioni.

L’uomo tende al piacere che L. iden-tifica con la felicità

L’uomo riprende la ricerca di un nuovo piacere

Questo desiderio e questa tendenza non hanno limi-ti

Il piacere infinito che non si può trovare nella realtà, si trova così nella immagina-zione, dalla quale derivano la speranza e

le illusioni

L’uomo tende verso un infi-nito che non riesce a com-

prendere e che non riesce a possedere concretamente

La felicità è circoscritta perché nel momento in cui il piacere viene soddisfatto subentra il vuoto, sinto-

mo di una nuova insoddisfazione

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L'INFINITO

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,E questa siepe, che da tanta parte

Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.Ma sedendo e mirando, interminatiSpazi di là da quella, e sovrumani

Silenzi, e profondissima quieteIo nel pensier mi fingo; ove per pocoIl cor non si spaura. E come il vento

Odo stormir tra queste piante, io quelloInfinito silenzio a questa voce

Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,E le morte stagioni, e la presente

E viva, e il suon di lei. Così tra questaImmensità s'annega il pensier mio:

E il naufragar m'è dolce in questo mare.

Esercizi

1. Dove si trova il poeta e che cosa sta facendo?− Da quale elemento prende avvio la riflessione del poeta?− Quale emozione suscita su di lui l’immagine “spazi infiniti”?− A che cosa viene paragonato il rumore del vento? Questo paragone quali pensieri suscita nell’autore?

2. Qual è il tema principale della poesia?

o La descrizione della natura

o Un’esperienza d’amore

o Un ricordo

o Un’avventura della mente

3. Dividi la poesia in quattro parti e assegna a ogni sezione un numero, indica poi per ciascuna di es-

se il tema fondamentale fra quelli posti

o rappresentazione dello spazio infinito

o descrizione di un luogo reale

o descrizione del sentimento che l’Infinito suscita nel poeta

o contrapposizione tra infinito e finito

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4. Il poeta nell’ultimo verso sceglie il mare come metafora dell’infinito: spiega quale significato, se-

condo te, ha questa associazione, questo rapporto tra i due elementi.

5. Nella poesia c’è una continua opposizione tra finito/infinito, reale/immaginario, vici-no/lontano. Questo contrasto si riflette nell’uso delle parole concrete che rimandano al-la realtà finita, e di parole astratte che danno l’idea dell’infinito lontano e immaginato. Raccogli nella griglia le parole concrete e quelle astratte.

PAROLE CONCRETE(finito, reale, vicino)

PAROLE ASTRATTE(infinito, immaginario, lontano)

colle silenzisiepe quiete

6. Scrivi la parafrasi e il commento

ALLA LUNA

O graziosa luna, io mi rammentoChe, or volge l'anno, sovra questo colle

Io venia pien d'angoscia a rimirarti:E tu pendevi allor su quella selva

Siccome or fai, che tutta la rischiari.Ma nebuloso e tremulo dal pianto

Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luciIl tuo volto apparia, che travagliosaEra mia vita: ed è, né cangia stile,O mia diletta luna. E pur mi giovaLa ricordanza, e il noverar l'etate

Del mio dolore. Oh come grato occorreNel tempo giovanil, quando ancor lungoLa speme e breve ha la memoria il corso,

Il rimembrar delle passate cose,Ancor che triste, e che l'affanno duri!

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Esercizi

1. Il testo parla di due situazioni molto simili ma non identiche: quella che il poeta vive al presente e

quella di un anno prima. Nella tabella inserisci le differenze.

L’ANNO PRIMA OGGI

Io venia pien d’angoscia a rimirarti Il poeta non prova più angoscia

Nebuloso e tremulo dal pianto il tuo volto apparia Il volto della luna non appare più nebuloso e tremulo

Il ricordo non giovava al suo dolore E pur mi giova la ricordanza

2. Adesso trova gli elementi comuni alle due situazioni:

o il luogo

o l’ora serale

o la presenza di un amico al quale il poeta scrive

o la luna che illumina il paesaggio, in particolare un bosco sul quale sta come sospesa

o una fitta oscurità che rende cupo e misterioso il paesaggio

3. Il componimento poetico che hai letto è in endecasillabi sciolti. Che cosa significa? Scegli tra le

spiegazioni seguenti:

o è formato da versi di undici sillabe che non rimano tra loro

o è formato da versi di undici sillabe con rime disposte in modo irregolare

o è formato da versi di dodici sillabe pochi dei qual sono in rima

4. Volgi in prosa il componimento

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Quinta sotto-unità

In quest’ultima sotto-unita l’insegnate presenta alla classe il volto dell’autore al di fuori di Recanati. Stru-mento indispensabile per conoscere a fondo il suo pensiero sono gli scambi epistolari.

Poiché a questa fase appartengono anche A Silvia e il Sabato del villaggio, si ritiene opportuno presentarli alla classe per completare il percorso conoscitivo del pensiero del poeta.

L’unità si conclude con una riflessione generale, che partirà proprio da Leopardi, dal suo desiderio di gloria e dal mancato riconoscimento tributatogli dai contemporanei. La classe dovrà produrre delle considerazioni che fa-

LONTANO DA RECANATI

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ranno riferimento alle esperienze personali. In questo modo si cercherà di incoraggiare i ragazzi ad avere fiducia nel-le loro possibilità, riflettendo sul fatto che non sempre il giudizio della società è valido.

Finalmente… Il gran giorno era arrivato. Quel 17 novembre 1822 non fu proprio un giorno qualsia-si per Giacomo. Una data che si sarebbe impressa indelebilmente nella sua memoria, come un anniversa-rio. […]

[…] In quella mattina chiara e luminosa […] Per la prima volta, nella sua vita, il ventiquattrenne Giacomo lasciava il borgo tanto odiato, dove si era sentito misconosciuto, deriso, imprigionato senza spe-ranza di venirne mai fuori. Dove lo aveva relegato la volontà dolcemente tirannica di suo padre Monal-do, che, mille volte, gli aveva prospettato i pericoli del mondo e gli aveva elogiato la serenità che deriva dal vivere sempre nello stesso posto, circondato dalle stesse persone, nel regime familiare con le sue rego-le e i suoi piaceri. […]

[…] Ora il permesso tanto invocato era stato accordato. Giacomo poteva partire per Roma. Con tanto ritardo rispetto all’età intraprendeva il viaggio di educazione sentimentale e intellettuale che i nobi-li di provincia concedevano ai propri figli.

A Roma lo avrebbe protetto una seconda famiglia, quella dello zio Carlo Antici […].[…] La partenza provocò un gran trambusto familiare, tutti erano commossi. E ognuno aveva il

suo modo di dimostrarlo, secondo il suo temperamento. Adelaide fu di poche parole, brusca, vera madre incapace di slanci. Forse ripetè al figlio la raccomandazione che gli aveva già fatto, che non le scrivesse. Per una donna come lei, dispotica, le lettere erano una forma di spreco sentimentale, un di più che non poteva concedere all’intimità dei rapporti familiari.

[…] Paolina era agitata, in preda a un gran dolore per il distacco dal fratello, un avvenimento dav-vero eccezionale per la monotonia della vita comunitaria. […]

[…] Soltanto Carlo visse tragicamente l’evento, con quell’enfasi emotiva che era un suo dato carat-teriale. Abbracciò convulsamente il fratello, gli disse addio, cercò di distrarsi, di pensare ad altro7. […]

A CARLO LEOPARDI tratto dalla lettera scritta da Roma il 25 Novembre 1822, in Giacomo Leo-pardi. Storia di un’anima. Scelta dall’Epistolario, a cura di Ugo Dotti, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1982.

Carlo mio. Se tu credi che quegli che ti scrive sia Giacomo tuo fratello, t’inganni assai, perché questi è morti-to, e in sua vece resta una persona che a stento si ricorda il suo nome. Credi, Carlo mio caro, che io son fuori di me, non già per la maraviglia […] e delle gran cose che io vedo, non provo il menomo piacere, perché conosco che sono maravigliose, ma non lo sento, e t’accerto che la moltitudine e la grandezza loro m’è venuta a noia dopo il primo giorno. […]

[…] Ma giunto ch’io sono, e veduto questo orrendo disordine, confusione, nullità, minutezza insopportabile

e trascuratezza indicibile, e le altre spaventevoli qualità che regnano in questa casa; e trovatomi intieramente solo e

nudo in mezzo ai miei parenti (benchè nulla mi manchi), ti giuro, Carlo mio, che la pazienza e la fiducia in me stes-

so, le quali per lunghissima esperienza mi eran sembrate insuperabili e inesauribili, non solamente sono state vinte,

ma distrutte. Come inespertissimo delle strade, io non posso uscir di casa, né recarmi in alcun luogo, né restarvi,

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7 Minore R., ibidem, Milano 1997, pp. 71-73.

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senza la compagnia di qualcuno della famiglia; e conseguentemente, per quanta forza io voglia fare in contrario, so-

no affatto obbligato a far la vita di casa antici. […]

[…] Insomma io sono in braccio di tale malinconia, che di nuovo non ho altro piacere che il sonno: e questa

malinconia, e l’essere sempre esposto al di fuori, tutto al contrario della mia antichissima abitudine, m’abbatte ed

estingue tutte le mie facoltà […]

[…] Senti, Carlo mio, se potessi esser con te, crederei di poter anche vivere, riprenderei un poco di lena e di

coraggio, spererei qualche cosa, e avrei qualche ora di consolazione. In verità io non ho compagnia nessuna: ho per-

duto me stesso; e gli altri che mi circondano non potranno farmi compagnia in eterno. Scrivimi distesamente erag-

guagliami a parte a parte dello stato dell’animo tuo, intorno al quale ho molti dubbi che mi straziano. Amami, per

Dio. Ho bisogno d’amore, amore, amore, fuoco, entusiasmo, vita: il mondo non mi par fatto per me: ho trovato il

diavolo più brutto assai di quello che si dipinge. Le donne romane, alte o basse, fanno propriamente stomaco: gli uo-

mini fanno rabbia e misericordia. […].

CITTÀ GRANDI E CITTÀ PICCOLE tratto dalla lettera a Paolina Leopadi scritta da Roma il 6 Dicem-

bre 1822, in Giacomo Leopardi. Storia di un’anima. Scelta dall’Epistolario, a cura di Ugo Dotti, Biblio-

teca Universale Rizzoli, Milano 1982.

L’uomo non piò assolutamente vivere in una grande sfera, perché la sua forza o facoltà di rapporto è limitata.

In una piccola città ci possiamo annoiare, ma alla fine i rapporti dell’uomo all’uomo e alle cose, esistono, perchèla

sfera de’ medesimi rapporti è ristretta e proporzionata alla natura umana. In una grande città l’uomo vive senza

nessunissimo rapporto a quello che lo circonda, perché la sfera è così grande, che l’individuo non la può riempi-

re,non la può sentire intorno a sé, e quindi non v’ha nessun punto di contatto tra essa e lui. Da questo potere con-

getturare quanto maggiore e più terribile sia la noia che si prova in una grande città, di quella che si prova nelle cit-

tà piccole: giacchè l’indifferenza, quell’orribile passione, anzi spassione, dell’uomo, ha veramente e necessariamente

la sua principal sede nelle grandi città, cioè nelle società molto estese. La facoltà sensitiva dell’uomo, in questi luo-

ghi si limita al solo vedere. Questa è l’unica sensazione degli individui, che non si riflette in nessun modo nell’inter-

no. L’unica maniera di poter vivere in una città grande, e che tutti, presto o tardi, sono obbligati a tenere, è quella

di farsi una piccola sfera di rapporti, rimanendo in piena indifferenza verso tutto il resto della società. Vale a dire,

fabbricarsi d’intorno come una piccola città, dentro la grande […]

LA TOMBA DEL TASSO tratto dalla lettera a Carlo Leopardi scritta da Roma il 20 Febbraio 1823, in

Giacomo Leopardi. Storia di un’anima. Scelta dall’Epistolario, a cura di Ugo Dotti, Biblioteca Univer-

sale Rizzoli, Milano 1982.

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Venerdì 15 febbraio 1823 fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi. Questo è il primo e l’unico piacere che

ho provato in Roma. La strada per andarvi è lunga, e non si va a quel luogo se non per vedere questo sepolcro; ma

non si potrebbe anche venire dall’America per gustare il piacere delle lagrime lo spazio di due minuti? È pur certis-

simo che le immense spese che qui vedo fare non per altro che per proccurarsi uno o un altro piacere, sono tutte

quante gettate all’aria, perché in luogo del piacere non s’ottiene altro che noia. Molti provano un sentimento d’indi-

gnazione vedendo il cenere del Tasso, coperto e indicato non da altro che da una pietra larga e lunga circa un palmo

e mezzo, e posta in un cantoncino d’una chiesuccia. Io non vorrei in nessun modo trovar questo cenere sotto un

mausoleo. Tu comprendi la gran folla di affetti che nasce dal considerare il contrasto fra la grandezza del Tasso e

l’umiltà della sua sepoltura. Ma tu non puoi avere idea d’un altro contrasto, cioè di quello che prova un occhio av-

vezzo all’infinita magnificenza e vastità de’ monumenti romani, paragonandoli alla piccolezza e nudità di questo

sepolcro. Si sente una trista e fremebonda consolazione pensando che questa povertà è pur sufficiente ad interessare

e animar la posterità laddove i superbissimi mausolei, che Roma racchiude, si osservano con perfetta indifferenza

per la persona a cui furono innalzati, della quale o non si domanda neppur il nome, o si domanda non come nome

della persona ma del monumento. Vicino al sepolcro del Tasso è quello del poeta Guidi, che volle giacere prope ma-

gnos Torquati cineres, come dice l’iscrizione. Fece molto male. Non mi restò per lui nemmeno un sospiro. Appena

soffrii di guardare il suo monumento, temendo di soffocare le sensazioni che avevo provate alla tomba del Tasso. An-

che la strada che conduce a quel lungo prepara lo spirito alle impressioni del sentimento. È tutta costeggiata di case

destinate alle manifatture, e risuona dello strepito de’ telai e d’altri tali istrumenti, e del canto delle donne e degli

operai occupati al lavoro.

Esercizi

1. Cosa pensa Giacomo di Roma? La città eterna è come se la aspettava?

2. Come si trova l’autore nella casa dello zio Carlo Antici?

3. Ritrova nella lettera inviata al fratello Carlo, la parola precisa con cui l’autore esprime la sua tristezza

e il disagio della lontananza.

4. Qual è il rimedio che l’autore ipotizza per non essere alienato dalla vita nella grande città? Fai un con-

fronto con la tua epoca. Pensi che questo sistema sia applicabile ancora oggi?

5. Qual è il “primo e l’unico piacere” provato dall’autore durante la sua permanenza a Roma?

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PISA tratto dalla lettera a Paolina Leopardi scritta da Pisa il 12 Novembre 1827, in Giacomo Leopardi.

Storia di un’anima. Scelta dall’Epistolario, a cura di Ugo Dotti, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano

1982.

Sono rimasto incantato di Pisa per il clima: se dura così, sarà una

beatitudine. […] L’aspetto di Pisa mi piace assai più di quel di Firenze:

questo lung’Arno e uno spettacolo così bello, così ampio, così magnifico,

così gaio, così ridente, che innamora: non ho veduto niente di simile né a

Firenze né a Milano né a Roma; e veramente non so se in tutta l’Europa

si trovino molte vedute di questa sorta. Vi si passeggia poi nell’inverno

con gran piacere, perché v’è quasi un’aria di primavera: sicchè in certe

ore del giorno quella contrada è piena di mondo, pienna di carrozze, di

pedoni:vi si sentono parlare dieci o venti lingue:vi brilla un sole bellissi-

mo tra le dorature dei caffè, delle botteghe piene di galanterie, e nelle inve-

triate dei palazzi e delle case, tutte di bella architettura. Nel resto, poi,

Pisa è un misto di città grande e di città piccola, di cittadino e di villerec-

cio, un misto così romantico, che non ho veduto altrettanto. A tutte le altre bellezze, si aggiunge la bella lingua. E

poi vi si aggiunga che io, grazie a Dio, sto bene; che mangio con appetito; che ho una camera a ponente, che guarda

sopra un grand’orto, con una grande apertura, tanto che si arriva a veder l’orizzonte, cosa di cui bisogna dimenti-

carsi a Firenze.

A SILVIA

Silvia, rimembri ancoraQuel tempo della tua vita mortale,

Quando beltà splendeaNegli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,

E tu, lieta e pensosa, il limitareDi gioventù salivi?Sonavan le quiete

Stanze, e le vie dintorno,Al tuo perpetuo canto,

Allor che all'opre femminili intentaSedevi, assai contenta

Di quel vago avvenir che in mente avevi.Era il maggio odoroso: e tu solevi

Così menare il giorno.Io gli studi leggiadri

Talor lasciando e le sudate carte,Ove il tempo mio primo

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Page 36: L'Universo Di Giacomo Leopardi

E di me si spendea la miglior parte,D'in su i veroni del paterno ostello

Porgea gli orecchi al suon della tua voce,Ed alla man veloce

Che percorrea la faticosa tela.Mirava il ciel sereno,

Le vie dorate e gli orti,E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.

Lingua mortal non diceQuel ch'io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,Che speranze, che cori, o Silvia mia!

Quale allor ci appariaLa vita umana e il fato!

Quando sovviemmi di cotanta speme,Un affetto mi premeAcerbo e sconsolato,

E tornami a doler di mia sventura.O natura, o natura,

Perché non rendi poiQuel che prometti allor? perché di tanto

Inganni i figli tuoi?Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,Da chiuso morbo combattuta e vinta,

Perivi, o tenerella. E non vedeviIl fior degli anni tuoi;Non ti molceva il core

La dolce lode or delle negre chiome,Or degli sguardi innamorati e schivi;

Né teco le compagne ai dì festiviRagionavan d'amore.Anche peria fra poco

La speranza mia dolce: agli anni mieiAnche negaro i fati

La giovanezza. Ahi come,Come passata sei,

Cara compagna dell'età mia nova,Mia lacrimata speme!

Questo è quel mondo? questiI diletti, l'amor, l'opre, gli eventi

Onde cotanto ragionammo insieme?Questa la sorte dell'umane genti?

All'apparir del veroTu, misera, cadesti: e con la mano

La fredda morte ed una tomba ignudaMostravi di lontano.

INTORNO A TERESA FATTORINI

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Page 37: L'Universo Di Giacomo Leopardi

Ma veramente una giovane dai 16 ai 18 anni ha

nel suo viso, ne' suoi moti, nelle sue voci, salti ec. un

non so che di divino, che niente può agguagliare. Qua-

lunque sia il suo carattere, il suo gusto; allegra o malin-

conica, capricciosa o grave, vivace o modesta; quel fiore

purissimo, intatto, freschissimo di gioventù, quella spe-

ranza vergine, incolume che gli si legge nel viso e negli

atti, o che voi nel guardarla concepite in lei e per lei;

quell'aria d'innocenza, d'ignoranza completa del male,

delle sventure, de' patimenti; quel fiore insomma, quel primissimo fior della vita; tutte queste cose, anche senza in-

namorarvi, anche senza interessarvi, fanno in voi un'impressione così viva, così profonda, così ineffabile, che voi

non vi saziate di guardar quel viso, ed io non conosco cosa che più di questa sia capace di elevarci l'anima, di tra-

sportarci in un altro mondo, di darci un'idea d'angeli, di paradiso, di divinità, di felicità. Tutto [4311]questo, ripe-

to, senza innamorarci, cioè senza muoverci desiderio di posseder quell'oggetto. […] Del resto se a quel che ho detto,

nel vedere e contemplare una giovane di 16 o 18 anni, si aggiunga il pensiero dei patimenti che l'aspettano, delle

sventure che vanno ad oscurare e a

spegner ben tosto quella pura gioia,

della vanità di quelle care speranze,

della indicibile fugacità di quel fiore,

di quello stato, di quelle bellezze; si

aggiunga il ritorno sopra noi medesi-

mi; e quindi un sentimento di compassione per quell'angelo di

felicità, per noi medesimi, per la sorte umana, per la vita, (tutte

cose che non possono mancar di venire alla mente), ne segue un

affetto il più vago e il più sublime che possa immaginarsi.

Esercizi

1. Rispondi alle seguenti domande:− Nella seconda e nella terza strofa Leopardi descrive un momento della sua giovinezza e di quella di

Silvia. Come trascorrevano le giornate Silvia e il poeta?− Il ricordo del poeta si colloca in una precisa stagione dell’anno. Quale?− Quale sentimento lo coglie quando ricorda la speranza che lo animava da giovane?− Che cosa accade a Silvia e che corrispondenza c’è tra il destino della ragazza e quello del poeta?

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2. La figura di Silvia acquista nella poesia un valore simbolico, rappresenta cioè una realtà astratta.

Secondo te Silvia simboleggia:

o La speranza nel futuro o Il dolore o L’amore

o L’illusione destinata a morire o La morte o Il destino umano

3. Nei versi 36-39 (O natura, o natura…figli tuoi?) è espresso il senso profondo del pensiero di Leo-

pardi. Scegli la frase che lo esprime meglio:− L’uomo non riesce nemmeno a immaginare la sua felicità− La natura promette all’uomo la felicità e poi lo delude non concedendogliela− L’uomo è un essere profondamente infelice

4. Nella poesia ci sono molti termini di derivazione latina (latinismi), o comunque di uso non corren-

te. Sai tradurli nel linguaggio attuale?

Rimebri________________ Tornami_______________ Splendea______________

Doler__________________ Limitare________________ Pria__________________

Opre__________________ Verno__________________ Splendea______________

Morbo_________________ Veroni_________________ Ostello________________

Porgea_________________ Molceva________________ Quinci_______________

Negre__________________ Fato___________________ Teco_________________

Sovviemmi______________ Peria__________________ Speme_______________

5. Volgi in prosa il testo e sucessivamente scrivi il commento

IL SABATO DEL VILLAGGIO

La donzelletta vien dalla campagna,In sul calar del sole,

Col suo fascio dell'erba; e reca in manoUn mazzolin di rose e di viole,

Onde, siccome suole,Ornare ella si appresta

Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.Siede con le vicine

Su la scala a filar la vecchierella,

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Page 39: L'Universo Di Giacomo Leopardi

Incontro là dove si perde il giorno;E novellando vien del suo buon tempo,Quando ai dì della festa ella si ornava,

Ed ancor sana e snellaSolea danzar la sera intra di quei

Ch'ebbe compagni dell'età più bella.Già tutta l'aria imbruna,

Torna azzurro il sereno, e tornan l'ombreGiù da' colli e da' tetti,

Al biancheggiar della recente luna.Or la squilla dà segnoDella festa che viene;Ed a quel suon direstiChe il cor si riconforta.

I fanciulli gridandoSu la piazzuola in frotta,

E qua e là saltando,Fanno un lieto romore:

E intanto riede alla sua parca mensa,Fischiando, il zappatore,

E seco pensa al dì del suo riposo.Poi quando intorno è spenta ogni altra face,

E tutto l'altro tace,Odi il martel picchiare, odi la sega

Del legnaiuol, che vegliaNella chiusa bottega alla lucerna,

E s'affretta, e s'adopraDi fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.Questo di sette è il più gradito giorno,

Pien di speme e di gioia:Diman tristezza e noia

Recheran l'ore, ed al travaglio usatoCiascuno in suo pensier farà ritorno.

Garzoncello scherzoso,Cotesta età fiorita

È come un giorno d'allegrezza pieno,Giorno chiaro, sereno,

Che precorre alla festa di tua vita.Godi, fanciullo mio; stato soave,

Stagion lieta è cotesta.Altro dirti non vo'; ma la tua festa

Ch'anco tardi a venir non ti sia grave.

Esercizi

1. Rispondi alle seguenti domande− La poesia si apre con la descrizione di alcuni abitanti del villaggio colti in un momento particolare

della loro giornata. Di quali personaggi si tratta e che cosa stanno facendo?

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Page 40: L'Universo Di Giacomo Leopardi

− In quale momento della giornata si svolgono gli avvenimenti descritti dal poeta? Sottolinea i versi

da cui hai tratto la risposta.− Che cosa annuncia il giorno di festa che sta per arrivare? Quale sentimento suscita questo segnale?− Perché il poeta afferma che il sabato è il giorno più lieto? Da che cosa viene rattristata la domenica?− A chi si rivolge il poeta nell’ultima strofa?− La poesia si divide in una parte descrittiva e in una riflessiva. Quali versi sono dedicati alla descrizio-

ne e quali alla riflessione?

2. Con quale sentimento il poeta osserva e descrive gli abitanti del villaggio?

o disincanto o antipatia o malinconiao simpatia o affetto o pena

3. Prova ad esprimere con parole tue il messaggio fondamentale della poesia e indica i versi in cui è

racchiuso.

4. Nella poesia puoi riscontrare molte forme diminutivo-vezzeggiative: elencale e spiega perché, a tuo

parere, il poeta ne fa uso.

5. Scrivi la parafrasi e il commento

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Page 41: L'Universo Di Giacomo Leopardi

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ti M., Stern D.N.), Laterza, Roma-Bari 1991PERILLI PLINIO (a cura di), Storia di un’anima di Giacomo Leopardi, Carlo Mancosu Editore, Roma

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