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a cura di ALESSANDRO CAMPI ERMINIA IRACE FRANCESCO FEDERICO MANCINI MAURIZIO TARANTINO aguaplano

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Machiavellie il Mestiere

delle arMi

Guerra, arti e poterenell’uMbriadel rinasciMento

a cura di alessandro campi, erminia irace,Francesco Federico Mancini, Maurizio tarantino

aguaplano

Machiavelli e il Mestiere delle arMiGuerra, arti e potere nell’Umbria del rinascimento

Perugia, Palazzo Baldeschi al corso31 ottobre 2014-25 gennaio 2015

A cura dialessandro campierminia iraceFrancesco Federico ManciniMaurizio tarantino

Comitato scientificosergio Bertelli, Università degli Studi di FirenzeFloriana calitti, Università per Stranieri di Perugiaalessandro campi, Università degli Studi di Perugiaemanuele cutinelli-rèndina, Université de Strasbourgalberto Grohmann, Università degli Studi di PerugiaGiorgio inglese, La Sapienza – Università di Romaerminia irace, Università degli Studi di PerugiaFrancesco Federico Mancini, Università degli Studi di PerugiaFranco Moriconi, Magnifico Rettore dell’Università degli Studi

di PerugiaMarco Pizzo, Direttore dell’Istituto per la storia del Risorgimento

italiano Gennaro sasso, La Sapienza – Università di RomaMaria letizia sebastiani, Direttore della Biblioteca Nazionale

Centrale di FirenzeMaurizio tarantino, Biblioteca Augusta di Perugia

Presidentecarlo colaiacovo

Vice PresidenteGiuseppe depretis

Comitato di IndirizzoGiuseppe abbrittiandrea arcellianna Maria BaldoniGiampiero BianconiPio BriziarelliGianfranco Buiniruggero celaniGianlorenzo Fioreantonio lanutichiara lungarottiFrancesco Mannocchiluigi QuagliaMario rampiniFausto santeusaniostefano sfrappadaniele spinellielena stanghelliniGiuseppe tonelli

Soprintendenza ai Beni Librari, Regione UmbriaBaldissera di Mauro (dirigente), Maria vittoria rogari, sergio Fatti

Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici dell’UmbriaFabio de chirico

Servizio Prestitiroberta Porfiri, Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici dell’Umbria

Movimentazione e controllo conservativo delle operedomenico Garreffa, Paola Passalacqua, Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici dell’Umbria

Controlli climatici e ambientali della sede espositivateresa Bellezza, rosaldo ceccarelli, rosa Maria la  scala, Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici dell’Umbria

Restauri2Gr di Guerri Giuliano, città di castelloarianova 999, Narnicoo.Be.c., spoletoloredana Ferranti, GubbioGiovanni Manuali, Perugiaanna Morena, Gubbioelda Nozzoli, Firenzeclaudia Gisela reichold, Firenzestudio crisostomi, roma

Prestatoriarchivio di stato, PerugiaBertelli sergio

Consiglio di AmministrazioneMario Belluccialcide casiniernesto cesarettiBiagino dell’Omoluciano GhirgaFranco ManganelliFiammetta Marchionni

Collegio dei Revisori dei ContiGianfranco cavazzoni (Presidente)roberto rosignoliGiuseppina torrioli

Segretario GeneraleGiuliano Masciarri

Vice Segretario GeneraleFabrizio stazi

Direzione della mostraGiuliano Masciarri

con la collaborazione di Francesca Brunelli, chiara chicarella, Barbara costantini starnini, cesare Mancini, sergio Pieroni, Fabrizio stazi

Servizi di mostra e comunicazione

Consiglio di AmministrazioneGiuseppe depretis (Presidente)Biagino dell’OmoGiuseppe tonelli

Sindacoalfonso Ugo chiavacci

DirettoreMaria cristina de angelis

Ufficio Stampalara Partenzi

con la collaborazione di Francesco simonetti

AssicurazioniGrifo insurance Broker’s s.p.a.

Trasportide Marinis s.r.l. – Fine art services & transports

Progetto espositivo e direzione dei lavoricarlo salucci

Responsabile per la sicurezzacarlo salucci

Allestimenti e realizzazione grafica in mostra totem s.r.l.

Impianti elettricichiocci impianti s.r.l.

Apparati MultimedialiFP service s.r.l., Perugia

Impianti di sicurezzaUmbra control

Vigilanzavigilanza Umbra

Campagna fotograficathomas clocchiatti

Crediti fotograficisandro Bellu, Mauro Bifani, GaP s.r.l., raffaele Marciano, Marco santarelli, adriano scognamillo.

Gabinetto fotografico della soprintendenza speciale per il Patrimonio storico, artistico ed etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze. su concessione del Ministero per i Beni e le attività culturali.

Per le riproduzioni dei documenti dell’Archivio di Stato di Peru-gia: concessione del Ministero dei Beni e delle attività cultu-rali e del turismo, n. 25/2014. Ogni ulteriore riproduzione è vietata.

Si ringraziano: augusto ancillotti, Fabio andriola, claudio carini, i comuni di assisi, castiglione del lago, Monto-ne, Perugia e todi, Paolo crisostomi, Giancarla de Mar-chi, Giovanni luca delogu, andreina draghi, alba Ghelli, daniele lupattelli, Francesca Mariani, anna Maria Meni-chelli, lucia Migliorini, Francesca Montanaro, antonio Na-tali, alessandro Nicosia, silvia Palazzi, Marco Pizzo, carla ravaioli, Graziano raveggi, sergio rizzo, claudio strinati, leonardo varasano, Mauro Zampini.

Un ringraziamento particolare a comunicare Organiz-zando, roma, danae Film Production, istituto di Politi-ca, Perugia, istituto luce cinecittà, roma, Medio evo, Gubbio, rai cinema, rivista di Politica, sartoria Men-ghini, storia in rete, studio crisostomi, Umbria Mobilità.

Un ringraziamento speciale per la sua partecipazione a Pier-francesco Favino.

Gli organizzatori della mostra rivolgono un caloroso ringrazia-mento per la preziosa collaborazione all’Ufficio Scolastico Regio-nale per l’Umbria.

Biblioteca capitolare dominicini, PerugiaBiblioteca comunale augusta, PerugiaBiblioteca comunale di città di castelloBiblioteca comunale di FolignoBiblioteca comunale sperelliana, GubbioBiblioteca degli Oscuri, torrita di siena, Fondo tiezzi

MaestriBiblioteca del Monte, PerugiaBiblioteca del sacro convento di san Francesco, assisiBiblioteca diocesana di NarniBiblioteca Nazionale centrale, FirenzeBiblioteca Nazionale centrale, romacapitolo della cattedrale di san lorenzo, Perugiacasse di risparmio dell’Umbria s.p.a.collezione campi-de angelis, Perugiacomune di Bettonacomune di cerreto di spoletocomune di città di castellocomune di derutacomune di Folignocomune di Gubbiocomune di Narnicomune di Panicalecomune di PerugiaFondazione accademia di Belle arti, PerugiaFondazione Marini clarelli santi, PerugiaFondazione per l’istruzione agraria, PerugiaFondazione ranieri di sorbello, PerugiaFondazione vittoria Baglioni, torgianoGalleria degli Uffizi, Firenzela consolazione – ente tuderte di assistenza e Beneficenza

(e.t.a.B.), todiMonastero della Beata colombaMuseo Nazionale di Palazzo veneziaregione Umbriasambuco Giampierosocietà Bibliografica toscanasodalizio Braccio Fortebracci, Perugia

doc

Università degli Studidi Perugia

Comune di Perugia

con il patrocinio di

Catalogo

Realizzazione editorialeAguaplano—Officina del libro, Passignano s.T.

A cura diAlessandro CampiErminia IraceFrancesco Federico ManciniMaurizio Tarantino

AutoriMargherita AlfiFloriana CalittiAlessandro CampiChiara ColettiPaolo CrisostomiClaudio FinziFrancesca GrausoAlberto GrohmannErminia IraceFrancesco Federico ManciniFabio MarcelliSonia MerliAlessandra Oddi BaglioniMaria Alessandra Panzanelli FratoniFrancesco PiagnaniPaolo RenziFabrizia RossiMarco RufiniChiara SciontiClaudio StrinatiMaurizio Tarantino

Progetto grafico del libroRaffaele Marciano

RedazioneRaffaele Marciano, Maria Vanessa Semeraro, Davide Walter Pairone

Ufficio stampa AguaplanoDavide Walter Pairone

StampaTipolitografia Graphicmasters, Perugia

ConfezioneLegatoria Umbra, Bastia Umbra

isbn/ean9788897738473 [Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia]9788897738480 [edizione in commercio]

© 2014 by Aguaplano—Officina del librovia Nazionale 41, 06065 Passignano s.T. (Perugia)www.aguaplano.eu / [email protected]

Tutti i diritti riservati—All rights reserved.

Indice

carlo colaiacovo, Giuseppe depretis, Fabio de chiricoPresentazioni

il’Umbria e Machiavelli

alessandro campiMachiavelli in Umbria, Machiavelli e l’Umbria: un itinerario 19

erminia iracePolitica e istituzioni in Umbria al tempo di Machiavelli 37

Francesco Federico Mancini«Né si troverrà mai alcuno buono scultore che creda fare

una bella statua d’un pezzo di marmo male abbozzato»:Machiavelli, l’arte e i suoi rapporti con l’Umbria 45

alberto GrohmannEconomia, società e spazio urbano in Umbria al tempo di Machiavelli 55

Floriana calittiLa congiura di Magione 79

Francesco PiagnaniPerugia, febbraio 1503.

Una statua equestre per Cesare Borgia liberatore dalla tiranniae una congettura leonardesca 91

Maurizio tarantinoGiampaolo Baglioni, Giulio II e i Ghiribizzi al soderini 107

Fabio MarcelliIl fiore in pietra di Todi fra Roma e Loreto.

Bramante e la “fabbrica del potere” di Giulio II nell’Umbria 113

sonia MerliI discendenti di Niccolò e Perugia:

Bernardo Machiavelli e Giuliano de’ Ricci 171

Francesca GrausoRaccontare il ms. Perugia, Biblioteca comunale Augusta, G 14 179

claudio FinziGiovanni Pontano e Machiavelli 185

Floriana calittiSilvestro Tegli 191

claudio FinziDue antimachiavellisti umbri: Tommaso Bozio e Antonio Ciccarelli 193

iiil mestiere delle armi e le vie della pace.

condottieri ed esempi di spiritualità tra Xv e Xvi secolo

alessandro campiMachiavelli e l’arte della guerra:

dai capitani di ventura alle “armi proprie” 199

claudio FinziL’arte della guerra tra Quattrocento e Cinquecento:

l’epopea dei capitani di ventura 209

Francesco Federico ManciniUomini d’arme e messaggeri di pace. Volti dipinti fra realtà e fantasia 217

Boldrino da Panicale 221Biordo Michelotti 225Andrea Fortebracci, detto Braccio da Montone 229Miccia degli Oddi 235Erasmo da Narni, detto il Gattamelata 237Niccolò, Francesco e Iacopo Piccinino 241Oddo, Niccolò e Carlo Fortebracci 244Niccolò Vitelli 249Bernardino Fortebracci 252Bartolomeo d’Alviano 255Vitellozzo Vitelli 259

Paolo Vitelli 263Giampaolo Baglioni 267Malatesta Baglioni 273Bernardino da Siena 275Girolamo Savonarola 279Colomba da Rieti 283

iiicatalogo

1. Arti in Umbria al tempo di Machiavelli 289

2. Il volto sconosciuto di Niccolò 341

3. Libri manoscritti e a stampa 349Maurizio tarantino, La “fortuna” di Machiavelli in Umbria e nelle sue biblioteche, p. 351; erminia irace, Libri e identità nelle città dell’Umbria, p. 357; Libri manoscritti, p.  363; Libri a stampa: Machiavelliana, p 405; Libri a stampa: dell’Umbria al tempo di Machiavelli, p. 477.

4. Documenti dell’Archivio di Stato di Perugia 509

5. In mostra 527

ivtra storia e romanzo

alessandra Oddi BaglioniI Baglioni: da Astorre I ad Astorre II 575

Marco rufiniPrìncipi e princìpi 583

Alessandro Campi

Machiavelli in Umbria, Machiavelli e l’Umbria: un itinerario

1.

Sono molteplici (e spesso assai suggestive) le tracce – biografiche, politiche, letterarie – che riconducono Machiavelli all’Umbria: alla sua storia nel corso soprattutto dei secoli XV e XVI, alle sue città e contrade per come compaiono nella particolare grafia machiavelliana (da Asciesi-Assisi ad

Agobio-Gubbio, da Torsiano-Torgiano a Castello della Pieve-Città della Pieve), alle personalità eminenti di condottieri e tiranni che ne hanno segnato il destino e la memoria. Tracce che si trovano sparse nei suoi scritti, in quelli celebri, dal Principe alle Istorie fiorentine, come in quelli di natura cancelleresca e letteraria, che rimandano ai suoi frequenti viaggi in questa zona d’Italia (dai confini ovviamente assai diversi da quelli odierni), ma che hanno a che vedere, oltre che con la figura storica di Machiavelli, con le vicende della sua famiglia e con la storia della sua fortuna. Come a dire che anche post mortem il Fiorentino s’è involontariamente incrociato con l’Umbria lasciandovi tracce consistenti. Talmente numerose e si-gnificative da aver offerto il pretesto per una mostra la cui ambizione è quella di inserirsi nel panorama delle celebrazioni per i cinquecento anni del Principe da una prospettiva territorialmente definita, ma per molti versi originale.

Contatti frequenti e costanti con l’Umbria – che all’epoca, va ricordato, veni-va percepita come un’appendice del territorio toscano – Machiavelli li ebbe, come è normale, soprattutto quand’era in vita. Ne seguì, in veste di cancelliere, le com-plicate vicende politiche per l’impatto che esse avevano sugli equilibri, sempre precari, della sua Repubblica e per le relazioni – va da sé altalenanti, considerata l’epoca – che Firenze manteneva con le potenze umbre dell’epoca, da Perugia a Città di Castello. Ne conosceva tutti i luoghi più importanti, per avervi soggior-nato o per esservi transitato. Aveva contatti diretti con personalità nate in questa parte d’Italia, per averle magari incontrate e conosciute a Firenze o nel corso dei suoi viaggi al servizio della Signoria. Ma soprattutto ne conosceva, per l’impor-tanza da lui sempre attribuita alle questioni militari, le vicende storiche e il passa-to, con particolare riferimento alle figure di capitani di ventura e condottieri che dall’Umbria s’erano poi affermati nel resto d’Italia come maestri nell’arte della guerra, alcuni dei quali più volte al servizio di Firenze. Ed è proprio su queste

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figure, fautrici di una vera e propria epopea storica, considerate da Machiavelli in modo critico e negativo, favorevole com’egli era alla costituzione di milizie comunali e di eserciti stanziali, che la mostra si è concentrata in modo particolare.

2.

Il rapporto di Machiavelli con l’Umbria – sebbene in un senso davvero lato e indiretto, meramente nominale e simbolico – inizia assai presto. Rimanda ad-dirittura a una delle primissime testimonianze scritte che di lui ci sia rimasta. È una missiva vergata dal futuro Segretario a nome della «Maclavellorum fami-lia», il 2 dicembre 1497 (era dunque poco meno che trentenne). Tratta di alcuni possedimenti nella zona di Pieve di Fagna che i Machiavelli rivendicavano come di loro proprietà ed è indirizzata al cardinal Giovanni Lopez, uomo di fiducia di Alessandro VI, che all’epoca reggeva la diocesi vescovile di Perugia.

Ed è proprio dall’interesse machiavelliano per la storia di quest’ultima (la città, non la diocesi) che si può partire per questa breve ricognizione alla scoperta degli elementi – i più importanti e quelli, se si vuole, più eccentrici e curiosi, perché indicarli tutti analiticamente sarebbe impossibile – che riconducono, nei secoli, il nome del Segretario fiorentino alla storia umbra.

I riferimenti più importanti a Perugia sono probabilmente quelli che si tro-vano nelle pagine delle Istorie fiorentine. Il primo in assoluto riguarda la decisio-ne di Urbano IV (1261-1264) di promuovere una spedizione militare contro re Manfredi, il figlio dello scomunicato Federico II, e di ritirarsi nella città umbra, già all’epoca fedele dominio ecclesiastico, in attesa di capire quali e quante forze avrebbero aderito alla sua crociata (XXII, 8). Ma, ormai malato, il papa morì lungo il cammino che lo portava a Perugia, dove fu poi sepolto.

Questo primo richiamo basta a evidenziare il fattore che più di altri ha segnato la storia politica perugina a partire dal XII secolo: il suo profondo – ma proble-matico e spesso conflittuale – rapporto con il potere pontificio. La dedizione del governo cittadino (quello municipale-repubblicano, come quello tirannico- signorile dei Bracceschi e dei Baglioni) all’autorità papale fu infatti accompa-gnata, come lo stesso Machiavelli registra a più riprese nei suoi scritti, da fasi di scontro e di contrapposizione, anche violente, dalla ricerca di un difficile equi-librio tra lealtà alla Chiesa e autonomia cittadina. Solo nel 1540, come è noto, il rapporto tra le due entità trovò una soluzione a suo modo stabile: al culmine della Guerra del Sale Perugia fu assediata dalle milizie di Pierluigi Farnese (il figlio di Paolo III), costretta alla capitolazione e definitivamente privata delle sue libertà civiche: il potere passò interamente nelle mani del legato pontificio, anche se fu-rono mantenute in vita alcune delle antiche magistrature, a partire dai priori. La costruzione nel 1540-43 dell’imponente Rocca Paolina sulle macerie dei quartie-ri dove sorgevano le case dei Baglioni divenne il simbolo di una dominazione che sarebbe terminata soltanto nel 1860.

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3.

Perugia (e in generale l’Umbria) entra nelle opere di Machiavelli – stante i suoi interessi per l’arte della guerra – in particolare, come abbiamo accennato, attraverso i condottieri e gli uomini d’arme che ne hanno segnato la storia tra i secoli XV e XVI, a partire dal più celebre: Andrea Fortebracci, detto Braccio da Montone. Di nobile famiglia perugina costretta all’esilio dal governo popolare, divenuto capo di una potente compagnia di ventura, Braccio – che pure si era schierato dalla parte di Giovanni XXIII contro i propositi espansionistici del re di Napoli Ladislao I – era poi entrato in urto con il papa «per avergli occupata Perugia e alcune altre terre» (Ist. fior. I, 38, 4).

Ciò era avvenuto nel 1416: approfittando dei contrasti interni alla Chiesa, che avevano portato due anni prima alla convocazione del concilio di Costanza, Braccio si era insignorito di Perugia dopo aver sconfitto le milizie comunali in battaglia (12 luglio). Aveva poi occupato l’Alto Lazio e si era spinto, favorito dal-la vacatio papale, sino a prendere possesso di Roma (16 giugno-26 agosto 1417). Machiavelli racconta del coinvolgimento di Braccio nelle lotte di successione del Regno di Napoli (al soldo prima della regina Giovanna II contro il marito Giaco-mo di Borbone, poi di Alfonso V d’Aragona contro la stessa Giovanna), dei suoi contrasti con il nuovo papa Martino V (che saranno mediati proprio da Firenze: Ist. fior. IV, 7, 5) e della sua fine in battaglia nel giugno 1424:

Braccio, non sbigottito per essersi abbandonato Alfonso, seguitò di fare la impresa contro alla reina, e avendo assediata l’Aquila, il papa, non giudicando a proposito del-la Chiesa la grandezza di Braccio, prese a’ suoi soldi Francesco figliuolo di Sforza, il quale andò a trovare Braccio a l’Aquila dove lo ammazzò e ruppe. Rimase dalla parte di Braccio Oddo suo figliuolo, al quale fu tolta da il papa Perugia e lasciato nello stato di Montone (Ist. fior. I, 38, 8-9).

Il governo a Perugia di Oddo – che sarebbe morto nel febbraio 1425 mentre combatteva per Firenze contro Guidantonio Manfredi, signore di Faenza e alleato del Visconti (Ist. fior. IV, 13, 1-3) – durò in effetti meno di due mesi: il 6 agosto il commissario papale aveva già ripreso il controllo della città. Quanto agli altri eredi di Braccio, del nipote Niccolò della Stella Machiavelli ricorda che fu al servizio di Firenze per reprimere la ribellione di Volterra e tentare la conquista di Lucca (Ist. fior. IV, 18, 20) e che, «mosso da l’antica nimicizia che Braccio avea sempre tenuta con Chiesa» (Ist. fior. V, 2, 5) e che gli era costata la scomunica, assaltò Roma costringendo alla fuga verso Firenze papa Eugenio IV; mentre del figlio legittimo Carlo, rimasto per gran parte della sua carriera militare al soldo dei ve-neziani, rammenta il tentativo – in una pausa della condotta per la Serenissima, nell’estate 1477 – di riprendersi Perugia con le armi e con il sostegno di alcuni membri della fazione nobiliare che ancora rimpiangevano la signoria del padre. Ma la spedizione – «trovando [Carlo] le cose di Perugia difficili, per essere in lega con

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i Fiorentini» (Ist. fior. VII, 32, 5) – si risolse in uno scacco: dopo aver razziato per settimane i territori dell’Umbria e del Senese e aver ottenuto un’effimera vittoria a danno delle milizie guidate da Antonio di Montefeltro, richiamato d’urgenza dalla Serenissima alle prese con la minaccia turca, alla fine perse il controllo del castello di Montone (occupato dal delegato di Sisto IV il 23 ottobre) e con ciò sancì il tramonto delle ambizioni politiche del partito braccesco. Alla notizia della sua morte, avvenuta due anni dopo in battaglia, «a’ Perugini si fermo l’animo», stando a quanto si legge in un appunto di Machiavelli ricompreso nei suoi spogli cancel-lereschi (Opere storiche, a cura di A. Montevecchi e C. Varotti, t. II, 2010, p. 957), dal quale però non si evince chiaramente se si trattò di sgomento per la scomparsa di chi, sulla scia di Braccio, avrebbe potuto rendere Perugia nuovamente potente e indipendente dalla Chiesa, o di soddisfazione per il venir meno di una minaccia armata alle libertà comunali già sin troppo insidiate dai rappresentanti papali.

4.

Condottieri e membri dell’oligarchia nobiliare cittadina, ma diversamente dai Fortebracci sempre formalmente sottomessi all’autorità della Chiesa, furono an-che i Baglioni, la cui signoria de facto su Perugia durò dalla metà del XV alla metà del XVI secolo, sebbene contrastata da un’endemica lotta con le altre fazioni (in particolare quella degli Oddi) e resa debole dai violenti scontri interni alla stessa famiglia. Tra i membri di questo casato, il più citato nei testi machiavelliani (in particolare in quelli diplomatico-cancellereschi) è Giampaolo. Mercenario al sol-do di Firenze sin dal 1493, per la campagna contro Montepulciano, e ancora nel 1498 nella guerra contro Pisa e Venezia, nel 1500 – dopo essere sfuggito alla strage dei suoi fratelli e cugini organizzata da Carlo e Grifonetto Baglioni al termine di un convivio nuziale – Giampaolo passò al servizio di Alessandro VI e, succes-sivamente, del Valentino, al cui disegno espansionistico finì tuttavia per opporsi organizzando a Magione, nel settembre-ottobre 1502, la Dieta alla quale parteci-parono tutti quei signorotti che, dopo aver sostenuto l’avanzata militare del Bor-gia, se ne erano poi sentiti minacciati nei possedimenti e nella vita. Scampato alla strage di Senigallia e alla vendetta del Valentino, dopo la malattia di quest’ultimo e la morte del papa (agosto 1503) aveva ripreso possesso di Perugia (che le truppe borgiane gli avevano tolta nel gennaio 1503) ed era tornato al servizio di Firenze, salvo poi assumere nei confronti di quest’ultima, che ne sollecitava i servigi nella sua lotta eterna contro Pisa, un atteggiamento attendista e sospettoso.

A quest’epoca, aprile 1505, risale la missione condotta da Machiavelli presso Baglioni, il cui obiettivo era comprendere le ragioni dei suoi dinieghi e rinvii rispetto agli impegni militari assunti con la Signoria. L’unica lettera ai Dieci di Libertà scritta dal Segretario in occasione di questa legazione (datata 11 aprile) riassume bene alcuni dei tratti salienti del pensiero politico machiavelliano, oltre a illuminare la figura del condottiero perugino: mentre Firenze, per essere una

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potenza politica effettiva, ha poco da perdere dalla defezione improvvisa di Ba-glioni, quest’ultimo, per essere venuto meno alla sua parola di uomo d’arme ed essersi macchiato «d’ingratitudine e d’infedeltà» (Legazioni. Commissarie. Scritti di Governo, t. IV, 2006, p. 417), condurrà alla rovina se stesso e la sua città. In politi-ca l’infedeltà non paga, come non paga l’errore o il calcolo approssimativo quale che ne sia la giustificazione o scusante addotta. Dal che Machiavelli conclude, prendendo l’apparente furbizia di Giampaolo a modello negativo, «che li omini debbono fare ogni cosa per non si avere mai ad iustificare perché la iustificazione presuppone errore o opinione d’esso» (LCSG, t. IV, p. 418).

5.

Al nome di Perugia – e con riferimento indiretto sempre a Giampaolo Baglio-ni – è legata una disputa filologica nella quale, nel corso del Novecento, sono stati coinvolti i maggiori studiosi italiani del Fiorentino (da Carlo Dionisotti a Mario Martelli, da Roberto Ridolfi a Gennaro Sasso). Essa riguarda un testo machia-velliano che, tra quelli cosiddetti minori, è tra i più conosciuti e importanti. Si allude ai Ghiribizzi al Soderino, il cui valore risiede – secondo la maggior parte degli studiosi – nelle significative anticipazioni concettuali, rispetto al Principe, sul tema della fortuna e sulla difficoltà di considerare l’azione umana come sottoposta a un andamento razionale, se è vero che il mutare delle circostanze e delle contingenze procede con un ritmo diverso rispetto al mutare degli atteggiamenti e compor-tamenti degli uomini. A lungo quest’abbozzo di lettera è stato conosciuto come Ghiribizzi scritti a Raugia al Soderino: se ne riteneva destinatario l’ex gonfaloniere perpetuo Piero Soderini, riparato a Ragusa (l’odierna Dubrovnik) dopo la sua fuga da Firenze nell’agosto 1512, all’indomani del sacco di Prato (l’episodio militare che, come è noto, segnò la fine della Repubblica e l’inizio delle sventure politiche del Machiavelli). Ma dopo il ritrovamento dell’autografo (a opera di Jean-Jacques Marchand) e i successivi approfondimenti critici si è potuto stabilire che quella lettera fu in realtà scritta da Perugia in risposta a una missiva di Giovan Battista Soderini, nipote di Piero, datata 12 settembre 1506 (e indirizzata a Machiavelli, appunto, «a Perugia, o dov’e’ sia»). In quei giorni Machiavelli si trovava in città al seguito di Giulio II che, il 26 agosto, «per gittarne ogni tirann’in terra, / abban-donando la sua stessa soglia, / a Bologna e Perugia [aveva mosso] guerra» (secondo Decennale, vv. 91-93). Ma lo scontro militare con quest’ultima fu evitato, nell’inte-resse di entrambi i contendenti, grazie all’atto di pubblica sottomissione compiuto da Baglioni (13 settembre). L’episodio di cui si rese protagonista un tiranno, con fama di crudele e spietato, che avendo alla sua mercé il pontefice «venuto per tor-gli lo stato» (LCSG, t. V, p. 465) ne riconobbe invece l’autorità, si trova narrato nei Discorsi e, già prima, nel dispaccio alla Signoria scritto la stessa sera del fatto. Nei due testi il giudizio risulta tuttavia diverso. Nei Discorsi si dice che al carat-tere temerario e tumultuoso di Giulio II corrispose la «viltà di Giovampagolo»

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(I, 27, 5), il quale si astenne dal compiere un gesto sacrilego – la presa in ostaggio o l’uccisione di un papa – non per misericordia o bontà, ma perché un atto crudele e politicamente necessario, come quello che gli avrebbe consentito di mantenere il dominio su Perugia, richiedeva pur sempre grandezza, volontà e forza d’animo: tratti del carattere che evidentemente mancavano al tiranno perugino. Nella lette-ra ufficiale, la rinuncia alla forza da parte di Giampaolo era stata invece accreditata, oltre che alla «sua buona natura e umanità» (LCSG, t. V, p. 465), a una scelta tutta politica nel segno dell’umiltà e della prudenza: e in effetti, quella mossa consentì a Baglioni, oltre che di salvare la vita, di mantenere la propria influenza su Perugia pur perdendone il controllo formale. Giampaolo, che già era sfuggito alla rap-presaglia del Valentino cogliendone in anticipo gli intendimenti crudeli contro i traditori della Magione, riuscì anche nel 1506 a salvarsi dalla furia conquistatrice del papa-soldato: dimostrò così doti di abilità politica non inferiori ai suoi meriti di soldato, riconosciute da Machiavelli a caldo, mentre nei suoi scritti post res perditas il giudizio sulla sua condotta risulta essere molto più severo.

6.

Considerato il richiamo appena fatto ai Discorsi, converrà ricordare che in quest’opera si trova narrato un episodio della storia perugina che è assai emblema-tico delle lotte tra fazioni nobiliari che per decenni sconvolsero la città e che Ma-chiavelli, con riferimento in particolare alla sua Firenze, considerava uno dei fattori di maggior debolezza politica degli Stati italiani del tempo: dilaniati al loro interno, instabili, e quindi facilmente preda degli appetiti stranieri. Ma l’episodio è interes-sante anche per le significative riflessioni che stimolò nella mente del Fiorentino circa il peso della contingenza e degli imprevisti nelle cose umane. Risale al 1495 e si riferisce al tentativo degli esuli partigiani degli Oddi di penetrare nottetempo in città, grazie all’aiuto di alcuni loro fautori, e di prenderne il controllo dopo aver eli-minato i capi e sostenitori della consorteria dei Baglioni. Ma a un passo dalla piazza e dai palazzi del potere, un ordine mal inteso, scambiato per un invito a ritirarsi invece che ad avanzare, gettò lo scompiglio tra le fila degli aggressori, facendo fallire miseramente l’azione. Dal che si ricava, secondo Machiavelli, «che non tanto gli ordini, in uno esercito, sono necessari per potere ordinatamente combattere, quan-to perché ogni minimo accidente non ti disordini» (Discorsi III, 14, 9). La massima sembra attinente alla tecnica militare e all’arte del comando, ma in realtà riguarda l’ordine naturale e il mondo umano: basta un minimo caso, un semplice imprevisto, per produrre esiti inaspettati e spesso incontrollabili. È un pensiero che ricorre con costanza nelle sue riflessioni.

Machiavelli seguiva la politica perugina ed era ben documentato sulle sue di-visioni interne. Nei suoi frammenti storici, come pure nei suoi spogli e appunti di lavoro, questi ultimi in particolare molto frammentari e concisi ma egualmente di grande interesse, si trovano spesso annotazioni che dimostrano quanta attenzione

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prestasse alle lotte cittadine nella Perugia del tempo: «I Perugini fuoriusciti assal-torono il contado di Perugia e quelli di dentro si attesono a difendere francamen-te» (aprile 1497); «Fecesi certe novità a Perugia. Donde ne nacque, che si deliberò per ogni parte non ricevere fuoriusciti» (1489); «Venne in Perugia discordia fra Oddi e Baglioni. Pier Filippo Pandolfini fu mandato a Roma: passò di quivi e compose le loro cose» (1489-90); «Tumultuossi a Perugia perché li Oddi vollono rientrare; furono ributtati e capitorno male» (1491); «I Baglioni furno assaltati dagli Oddi e scapitornone gli Oddi con l’aiuto de’ Sanesi» (1495); «i Perugini s’azzuffano insieme» (1495).

7.

Non ci si illuda, però, che i riferimenti a Perugia riguardino le sue complicate vicende politico-militari e le gesta eclatanti dei suoi uomini illustri. A scavare negli scritti machiavelliani si trovano riferimenti ad essa (e a suoi abitanti) che riguardano figure anonime e che rimandano a generi diversi: ad esempio a quello della lette-ratura d’ispirazione satirico-boccaccesca. Al termine della celebre Vita di Castruccio Castracani, redatta nel 1520, Machiavelli inserì una serie di detti memorabili riferiti al celebre condottiero e che, nelle sue intenzioni, servivano a testimoniarne l’argu-zia, la sagacia e la prontezza di pensiero, come si conveniva a una biografia redatta con intendimenti storico-encomiastici e, come si sa, per nulla rigorosa e d’imposta-zione quasi romanzesca. La critica ha stabilito da tempo che questi motti Machia-velli li ha quasi tutti ricalcati (riadattandoli) dalle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio. Quello che ci interessa in questa sede è uno dei più lascivi: «Sendogli significato [a Castruccio] come uno forestiero aveva guasto uno fanciullo, disse: “E’ deve essere uno perugino”». Frase volutamente ambigua, dalla quale non si ricava chiaramente se perugino era lo stupratore, nel qual caso sembrerebbe esserci un riferimento ironico-malizioso agli abitanti dell’intera città e alla loro inclinazione alla sodomia, o se perugino era invece il giovinetto vittima dell’abuso sessuale. L’obliqua fama dei perugini in materia di vicende amorose e di preferenze sessuali era del resto già stata messa in letteratura nel Decamerone, con il celebre episodio che ha per protagonista l’omosessuale Pietro di Vinciolo (al quale «le femine contro all’animo gli erano») e un giovane garzone «che era de’ più belli e de’ più piacevoli di Perugia» (V, 10), episodio che Machiavelli certamente conosceva e che potrebbe aver tenuto presen-te nella stesura di questo spunto proverbiale, uno di quelli che gli editori della Vita hanno sempre censurato nel corso dei secoli a causa proprio del suo contenuto pa-lesemente osceno e offensivo (tant’è che esso si trova presente solo in una versione manoscritta della Vita).

Avendo parlato di figure anonime di perugini, converrà ricordare – ma in un contesto nuovamente politico, per di più tragico e sanguinoso – quei circa trenta esuli, si presume ostili ai Baglioni e per questo fuggiti o cacciati dalla città, che nel 1478 ebbero la cattiva idea di assecondare la famiglia dei Pazzi nel loro piano

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cospiratorio teso a uccidere – sulla base di una rete di complicità che andava da Papa Sisto IV al Re di Napoli Ferdinando I d’Aragona a Federico da Montefel-tro – i due signori de facto di Firenze: Lorenzo e Giuliano de’ Medici. Machiavelli li ricorda nelle Istorie fiorentine, in quel capitolo dell’VIII libro dove appunto si narra di come la congiura, per l’imperizia degli assalitori, fallì miseramente e si risolse per questi ultimi in un bagno di sangue.

Trovavansi in Firenze in questi tempi alcuni perugini, cacciati per le parti di casa loro, i quali i Pazzi, promettendo di rendere loro la patria, avevono tirato nella voglia loro, donde che l’arcivescovo de’ Salviati, il quale era ito per occupare il palagio [della Signoria] insieme con Iacopo di messer Poggio e i suoi Salviati e amici, li aveva con-dotti seco (VIII, 7, 1).

Ma l’occupazione del palazzo del potere non riuscì, grazie alla pronta reazione dei partigiani dei Medici, e i congiurati – compresi gli sfortunati perugini (ma tra di essi c’era forse anche qualche esule da Città di Castello) –, rimasti tutti in trappola, «subito furono morti, o così vivi fuora dalle finestre del palagio gittati» (VIII, 7, 5). Nessuno di quei perugini, i cui nomi non conosciamo e che nessun cronista ci ha tramandato, rivide più la sua amata città.

8.

Dopo Perugia, l’altro grande polo politico-militare umbro era Città di Castello, ove dominava il casato dei Vitelli, anch’essi tradizionalmente votati al mestiere della guerra. Di questo dominio, la cui posizione era a dir poco strategica, essendo posto nel mezzo tra Firenze e i possedimenti pontifici, Machiavelli ha ben illustrato le vicende essenziali soprattutto nelle Istorie fiorentine, dove ricorda ad esempio i tenta-tivi di conquista della città operati prima da Niccolò e Carlo Fortebracci (V, 3), poi da Niccolò Piccinino (V, 31); l’amicizia politica con Firenze, che a lungo sostenne l’autonomia politica di Città di Castello prima che intervenisse tra le due città un tragica inimicizia; le lotte di fazione tra i Vitelli e i loro storici nemici dei Giustini (VIII, 15); il definitivo ritorno della città sotto il dominio papale (VIII, 31).

I Vitelli che ricorrono con più frequenza nei testi machiavelliani sono Niccolò, Paolo e Vitellozzo: il padre e i suoi due figli. Di Niccolò si ricorda come era stato scacciato da Città di Castello dal nemico Lorenzo Giustini (VII, 31), quest’ultimo alleato del papa Sisto IV:

il papa, cupido di tenere le terre della Chiesa nella obedienza loro, aveva fatto sac-cheggiare Spuleto, che si era, mediante le intrinseche fazioni, ribellato; di poi, perché Città di Castello era nella medesima contumacia, la aveva obsediata. Era in quella terra principe Niccolò Vitelli. Teneva costui grande amicizia con Lorenzo de’ Me-dici, donde che da quello non gli fu mancato di aiuti, i quali non furono tanti che defendessero Niccolò (VII, 31 1-2).

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L’amicizia tra quest’ultimo e il Magnifico risaliva all’epoca in cui Niccolò era stato podestà di Firenze (1450). Ma contro la forza delle armate papali guidate dal Cardinale Giuliano della Rovere – che prima di arrivare a Castello avevano devastato Spoleto e occupato Todi (siamo nel 1474) – Firenze nulla aveva potuto a vantaggio del suo alleato. Qualche anno dopo, tuttavia, nel giugno 1482, fu proprio la Signoria a favorire il ritorno a Città di Castello di Niccolò (VIII, 23). In quell’occasione, racconta Machiavelli, il Vitelli aveva fatto distruggere le due fortezze erette durante la sua assenza dal papa, con l’argomento che «non la fortez-za, ma la benivolenza del popolo lo avesse a tenere in quello stato» (Discorsi II, 24, 26). Questo tema dei bastioni e delle fortezze che da soli non bastano ad assicurare il favore del popolo nei confronti del principe è uno di quelli che Machiavelli, proprio a partire dall’esempio di Città di Castello, ha riproposto più volte nei suoi scritti, dal Principe (XX, 25) ai Ghiribizzi al Soderino.

Ma un’alleanza tanto stretta tra Firenze e i Vitelli era destinata, come accen-nato, a trasformarsi in un odio mortale. All’epoca dell’assedio che la Signoria stava stringendo intorno a Pisa – siamo nel 1498-1499 –, al comando delle truppe fiorentine si trovava, ingaggiato in virtù della sua fama militare, Paolo Vitelli. La campagna contro i pisani, che si erano emancipati dal dominio di Firenze grazie all’appoggio francese e che ora non avevano alcuna intenzione di ritornare sotto il suo controllo, si era rivelata per la Signoria estenuante e dispendiosa. Quando fi-nalmente, dopo vari assalti e un lungo assedio, s’era aperta una breccia nelle mura pisane, nell’estate del 1499, era parso ai fiorentini che il loro comandante militare, invece di affondare il colpo decisivo, scegliesse un atteggiamento volutamente attendista e rinunciatario: un modo probabilmente per allungare i tempi della condotta, secondo un’abitudine all’epoca diffusa tra i soldati mercenari. Firenze, stanca probabilmente di pagare senza mai vedere risultati, lo accusò per questo di tradimento: arrestato il 28 settembre, dopo tre giorni fu decapitato. E tra co-loro che seguirono l’istruttoria del breve processo, condividendo una punizione tanto esemplare, ci fu anche Machiavelli, che ricopriva il suo incarico presso la seconda Cancelleria da poco più di un anno. Di questa vicenda si trova traccia in diversi suoi scritti. Ad esempio nel celebre primo Decennale, il componimento in versi pubblicato in un’edizione spuria e non approvata dall’autore nel 1506: «Lungo sarebbe narrar tutti e torti, / tutti l’inganni corsi in quel assedio, / e tut-ti e cittadin per febbre morti. Voi non vedendo all’acquisto remedio, / levast’el campo, per fuggir l’affanno / di quella ’mpresa e del Vitel el tedio. / Poco di po’ del ricevuto inganno / vi vendicast’assai, dando la morte / a quel che fu cagion di tanto danno» (vv. 222-231). Come si vede, Machiavelli condivide pienamente la tesi del tradimento volontario, anche se la storiografia successiva sulla veridicità di questa tesi ha sempre mantenuto un atteggiamento dubbioso. Di Paolo Vitelli si parlerà anche nel Principe («Feciono e’ fiorentini Paulo Vitelli loro capitano, uomo prudentissimo e che di privata fortuna aveva presa grandissima reputazione»: XII, 22), ma senza accennare alla sua morte violenta per mano fiorentina. Morte che fu invece la ragione dell’astio che da quel momento in poi l’altro Vitelli condottiero,

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Vitellozzo, porterà sempre nei confronti di Firenze e che lo spingerà a schierarsi con i nemici di quest’ultima, a partire da Cesare Borgia. All’epoca dell’insurre-zione di Arezzo e della Valdichiana, nel giugno 1502, Vitellozzo starà dalla parte dei ribelli contro la repubblica fiorentina, insieme alle milizie degli Orsini (che brigavano per riportare i Medici al potere, essendo con questi ultimi imparentati) e alle truppe di Giampaolo Baglioni: «Ma Vitellozzo e suo gente superba, / sendo contro di voi di sdegno pieno / per la ferita del fratel acerba, / al Cavallo sfrena-to rupp’el freno / per tradimento, e Valdichiana tutta / vi tolse, e l’altre terre in un baleno» (vv. 331-336). Questo scacco militare, risolto da Firenze solo grazie all’intervento del re di Francia, avrebbe suggerito a Machiavelli uno dei suoi più interessanti scritti giovanili: Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati, risalente al giugno-agosto 1503.

9.

L’episodio particolare al quale il nome di Vitellozzo Vitelli è rimasto proverbial-mente legato è quello della congiura della Magione poi sfociato nella strage di Se-nigallia. Nel racconto che Machiavelli fa degli ultimi istanti di Vitellozzo, malamente caduto nella trappola che gli ha teso il Valentino, si coglie quasi il segno di una ven-detta postuma e di un’antipatia personale che era già chiara, del resto, in quel verso del Decennale, poc’anzi citato, che definisce «gente superba» il casato al quale appar-teneva. Nel celebre Il modo che tenne il duca Valentino per ammazzar Vitellozzo, Oliverotto da Fermo, il Signor Paolo e il duca di Gravina Orsini in Senigaglia il condottiero un tempo famigerato e violento viene descritto, mentre si appresta a entrare in Senigallia, come una figura ormai dimessa, che sembra andare incontro al suo tragico destino con un misto di fatalità e rassegnazione, senza nemmeno tentare di sfuggirvi:

Vitellozzo disarmato, con un cappa foderata di verde, tutto aflitto come se fussi conscio della sua futura morte, dava di sé, conosciuta la virtù dello uomo e la passata sua fortuna, qualche ammirazione. E si dice che, quando e’ si partì da le sua genti per venire a Sini-gaglia e andare contro al duca, che fece come una ultima dipartenza con quelle; e a li suoi capi raccomandò la sua casa e le fortuna di quella; e e’ nipoti ammunì che, non della fortuna di casa loro, ma della virtù de’ loro patri e de’ loro zii si ricordassino (46-47).

Ma dove Vitellozzo sembra mancare completamente alla sua storia passata di condottiero, secondo Machiavelli, è un attimo prima di essere strangolato dai sicari del duca insieme a Oliverotto, allorché si abbandona a recriminazioni e richieste non degne di un soldato della sua fama, che avrebbe dovuto affrontare la morte con altro piglio invece che cercare l’assoluzione divina:

non fu usato da alcuno di loro parole degne della loro passata vita: perché Vitellozzo pre-gò che si suplicassi al papa che gli dessi de’ suoi peccati indulgenzia plenaria; e Liverotto tutta la colpa delle iniurie fatte al duca, piangendo, rivolgeva addosso a Vitellozzo (57).

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Nelle Legazioni, scrivendo a caldo su questi eventi, Machiavelli non era stato meno tenero nei confronti di Vitellozzo. Anche allora gli era apparso un capitano di ventura non più all’altezza della sua gloria. C’è nelle sue parole finanche un che di crudelmente caricaturale:

Venne Vitellozzo in su ’n una muletta, disarmato, con una gabanella indosso stretta, nera e logora, e di sopra un gabbano nero foderato di verde; e chi lo avessi veduto, non arebbe mai gudicato che fussi colui che dua volte questo anno sotto e’ suoi auspizii avea cerco cacciare el Re di Francia di Italia. Era el volto suo pallido e attonito, che denotava a ciascuno facilmente la sua futura morte (LCSG, t. II, p. 558).

Nel complesso il giudizio sull’uomo – uno dei nemici più accaniti di Firenze – è dunque assai negativo. Nel Principe (VIII, 21) persino le «sceleratezze» di Olive-rotto da Fermo, giunto al potere dopo aver fatto strage dei suoi congiunti e dei notabili della sua città al termine di un banchetto, verranno imputate al cattivo magistero di Vitellozzo, nelle cui milizie il primo aveva militato dopo aver fatto il suo apprendistato militare col fratello Paolo. Perché escludere che Machiavelli, per quanto raffinato analista del potere, fosse anch’egli un tipo vendicativo e ran-coroso, capace di giudizi non solo taglienti, ma spesso forse ingenerosi?

10.

Si è detto di come Machiavelli conoscesse l’Umbria intera e non soltanto Pe-rugia e Città di Castello, che erano incontestabilmente i due territori di maggiore importanza politica del tempo. Una mappa delle sue peregrinazioni per questa terra, attraverso borghi e castelli, valli e contrade, è quella che si ricava, in particolare, dalla lettura dei suoi dispacci diplomatici. La seconda legazione presso il Valentino (ottobre 1502-gennaio 1503), la missione presso Giampaolo Baglioni (aprile 1505) e l’attivi-tà diplomatica svolta al seguito di Giulio II (agosto-ottobre 1506) furono le tre più importanti occasioni che ebbe (in particolare la prima e la terza) per muoversi all’in-terno dei confini dell’Umbria dell’epoca e per batterla praticamente tutta: una volta arrivando dalla Romagna e dalle Marche per giungere nei territori di Gualdo Tadino, Assisi, Torgiano, Ospedaletto, Città della Pieve, Castiglion del Lago, per poi datare da Castiglione Aretino l’ultimo dispaccio della sua missione presso Cesare Borgia; un’altra entrando dall’Alto Lazio, passando per Orvieto, Città della Pieve, Cortona, Castiglion del Lago, Passignano, Corciano, Perugia, Gubbio, per dirigersi poi alla volta di Urbino e della Romagna insieme a tutta la corte papale. Ma Machiavelli conosceva bene anche la zona di Todi, la città di Foligno, i territori intorno a Sansepolcro e, assai bene, tutta l’area intorno al lago Trasimeno confinante con la Valdichiana, laddove iniziavano i possedimenti fiorentini e dove più volte si recò in missione nei suoi anni passati alla Cancelleria.

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Machiavelli era un grande osservatore, eppure nei suoi scritti non troviamo descrizioni accurate dei luoghi visti o attraversati. Qualche pagina in questo sen-so, descrittiva di un luogo o di un paesaggio, si ritrova nel Principe e nelle Legazio-ni, ma si tratta di poca cosa. Sappiamo tuttavia quanta importanza egli attribuisse, da buon cultore dell’arte militare, all’esatta conoscenza dei luoghi. La politica, ne era convinto, ha per base la geografia – oltre che la conoscenza storica. E quale fosse l’articolazione territoriale dell’Umbria, quali fossero i suoi equilibri geogra-fici e di potere, Machiavelli lo sapeva assai bene.

11.

Si è detto dell’interesse di Machiavelli per i “signori della guerra” del tempo, che pure osteggiava sul piano politico e dottrinario ritenendoli infidi, costosi e politica-mente non controllabili. Di Braccio da Perugia – da lui definito nelle Istorie «nella guerra reputatissimo» (VII, 32, 1) – abbiamo già scritto. Come anche dei suoi eredi. E così di Giampaolo Baglioni. Ma Machiavelli nei suoi scritti – quelli politici come quelli diplomatici e di governo – non trascura di ricordare nessuno degli altri mer-cenari e condottieri umbri che tra Quattrocento e Cinquecento fecero di questo lembo d’Italia una delle zone dove per le grandi potenze dell’epoca (da Firenze a Venezia) era più facile assoldare milizie e combattenti, per di più accompagnati da una solida reputazione.

Nelle Istorie ricorrono spesso, ad esempio, i nomi di Niccolò e Francesco Pic-cinino, padre e figlio. Sono, si può dire, i protagonisti del V libro, uno dei più famosi e celebri, quello che si apre con l’esposizione della sua personale visione ciclica della storia: «non essendo dalla natura conceduto alle mondane cose il fermarsi, come le arrivano alla loro ultima perfezione, non avendo più da salire, conviene che scendino; e similmente, scese che le sono, e per li disordini ad ulti-ma bassezza pervenute, di necessità, non potendo più scendere, conviene che sal-ghino, e così sempre da il bene si scende al male e da il male si sale al bene. Perché la virtù partorisce quiete, la quiete ozio, l’ozio disordine, il disordine rovina, e similmente dalla rovina nasce l’ordine, da l’ordine virtù, da questa gloria e buona fortuna» (V, 1, 1-2). E via così, in un alternarsi perpetuo. Niccolò Piccinino, di-venuto capo delle milizie braccesche dopo la morte di Braccio da Montone, viene seguito nelle sue gesta e scorribande a partire dal gennaio 1433, quando diede l’as-salto ai territori pontifici regnante Eugenio IV. Nei mesi e anni seguenti, insieme alle sue truppe, si sarebbe distinto nelle guerre di Romagna al fianco di Filippo Maria Visconti, per gli assalti a Genova e Sarzana, per le razzie in terra toscana, per la guerra in Lombardia contro i Veneziani al fianco del mantovano Gianfran-cesco Gonzaga, sino a giungere all’episodio più celebre – per ragioni, diciamo così, artistico-letterarie – della sua carriera, sebbene per lui sfortunato: la sconfitta nella battaglia di Anghiari combattuta nel giugno 1440 contro le truppe del-la coalizione fiorentino-papale capitanate, tra gli altri, da Micheletto Attendolo.

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Di questo scontro – eternato grazie all’affresco perduto di Leonardo del Salone dei Cinquecento di Firenze – Machiavelli offrì una celebre descrizione polemica, che ai suoi occhi doveva servire a mettere in caricatura la guerra mercenaria: «Né furono mai tempi che la guerra che si faceva ne’ paesi d’altri fusse meno pericolosa per chi la faceva, che in quelli. E in tanta rotta e in sí lunga zuffa, che durò dalle venti alle ventiquattro ore, non vi morí altri che uno uomo, il quale non di ferite o d’altro virtuoso colpo, ma caduto da cavallo e calpesto espirò» (V, 33, 14-15). Un cozzo all’apparenza terribile aveva prodotto un solo caduto, per di più vittima di un banale incidente, a dimostrazione di quale fosse il modo di combattere di quei “terribili” condottieri: implacabili nel saccheggiare e nel devastare i contadi, incontentabili nel richiedere compensi e benefici ai loro committenti, ma ben attenti a proteggere la propria vita e quella dei loro “colleghi” mercenari quando c’era da scontrarsi armi alla mano sul campo.

Ma nelle Istorie il Fiorentino ricorda anche Erasmo da Narni, detto il Gatta-melata, che aveva combattuto per Firenze proprio insieme al Piccinino, poi per la Chiesa, prima di passare definitivamente al servizio della Serenissima. A proposito di quest’ultimo, Machiavelli compie uno di quegli errori di data e situazioni che nelle Istorie sono così frequenti e che spesso hanno fatto dubitare delle sue capacità di storiografo. Fa infatti morire il Gattamelata nel 1441 (VI, 3, 12), nel momento in cui era in corso un duro scontro militare tra milanesi, fiorentini e veneziani, mentre in realtà sarebbe morto due anni dopo, nel 1443, a Padova, dove si era ritirato a causa dell’emorragia cerebrale che l’aveva colpito nel gennaio 1440.

E non manca di citare Bartolomeo d’Alviano, militarmente forse il più gran-de dei capitani di ventura umbri. Nei Frammenti storici, ad esempio, lo defini-sce «uomo animoso e pratico» e ricorda la sua condotta per Venezia e al fianco dell’esule Piero de’ Medici contro la Firenze repubblicana. Lo ricorda nella Pro-visione della ordinanza come uno di quei capitani di ventura che, insieme al Valen-tino e a Vitellozzo Vitelli, avevano «corso» (cioè devastato e saccheggiato) «e con pochissimo numero di uomini predato» i territori di Firenze: a dimostrazione, più che del loro coraggio e forza, della debolezza di quest’ultima. Alla sua impetuosità e impazienza di combattente Machiavelli imputa, nel Ritratto di cose di Francia, la sconfitta dell’esercito veneziano, di cui era capo in seconda, nello scontro con i francesi ad Agnadello (14 maggio 1509): «il furore di Bartolomeo d’Alviano trovò uno furore maggiore», e ciò significa che la brama di vittoria, se non controllata, può facilmente portare alla sconfitta anche il più valoroso dei soldati.

12.

Machiavelli cita nei suoi testi tanti umbri che nel corso del Quattro-Cinque-cento hanno rivestito ruoli politici di una certa importanza o che comunque hanno avuto una qualche parte nella vita civile del tempo. Ad esempio, Iacopo Gabrielli da Gubbio, che ebbe posizioni importanti a Firenze nella prima metà del XIV secolo.

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Era stato podestà cittadino nel 1331. Fu capitano della guardia e conservatore della pace tra il 1335 e il 1337. Nel 1339 fu infine nominato capitano di guerra, una magistratura straordinaria che di fatto gli dava pieni poteri a Firenze. E proprio in questa veste Machiavelli lo cita nelle Istorie (II, 32), allorché nel 1340 – a causa del suo comportamento oppressivo e corrotto – fu organizzata contro di lui una (sfor-tunata) congiura capitanata da due importanti oligarchi: Piero de’ Bardi e Bardo Frescobaldi.

Altri umbri li ha personalmente conosciuti e frequentati, in alcuni casi per ragioni di affinità intellettuale e professionale. Perugino, ad esempio, fu un altro podestà di Firenze col quale Machiavelli ebbe relazioni (quella di podestà era all’epoca una carica annuale, con funzioni giurisdizionali, per solito assegnata a un forestiero): Vincenzo conte di Montevibiano. Quest’ultimo si trovò coinvolto, visti i suoi legami con Perugia, nelle complicate trattative che nel novembre 1502 Firenze stava portando avanti, contemporaneamente, con Cesare Borgia e con i suoi luogotenenti ribelli (tra cui Giampaolo Baglioni).

Ma il rapporto più intenso e particolare fu sicuramente quello che ebbe con Agapito Geraldini di Amelia. Di famiglia nobile e illustre – i suoi avi erano stati giuristi, capitani, ambasciatori, alti prelati –, durante le sue permanenze romane era entrato nelle grazie della famiglia Borgia. Prima collaborò con papa Alessan-dro VI; a partire dal 1498 entrò nella segreteria di Cesare Borgia sino a diventarne il braccio destro, firmando tutta la sua corrispondenza ufficiale con l’abbreviativo Agapitus. I due si frequentarono intensamente all’epoca della seconda legazione svolta da Machiavelli presso il Valentino, nei tre mesi compresi tra la congiura della Magione e l’inganno di Senigallia (ma si erano già conosciuti a Urbino nel giugno 1502, ai tempi della prima legazione). Geraldini, come si evince dai dispacci che il Segretario inviava pressoché quotidianamente ai Dieci di Libertà, durante quella missione era diventato il suo confidente e informatore più affida-bile (oltre un misterioso uomo del quale nelle sue carte Machiavelli non ha mai fatto il nome). Geraldini era colui che durante i loro fugaci incontri – spesso not-turni – lo istruiva, sempre con parole sfumate e allusive, sulle reali intenzioni del Duca nei confronti dei traditori della Magione. A leggere la sua corrispondenza diplomatica, si capisce benissimo che Machiavelli – proprio grazie alle “soffiate” di Geraldini – era tra i pochi, in quelle settimane concitate, ad aver capito che Borgia non aveva in realtà alcuna intenzione di rappacificarsi con i suoi luogo-tenenti. Stava solo aspettando l’occasione giusta per vendicarsi e per rispondere a una congiura mancata e grossolanamente organizzata (come era stata quella della Magione) con una congiura rapida e perfettamente eseguita (come sarebbe stata quella ordita a Senigallia).

Ci sono infine umbri che Machiavelli non ha direttamente conosciuto, ma sui quali potrebbe essersi in parte formato, avendone letto le opere e gli scritti. È il caso dell’umanista Giovanni Pontano, nativo di Cerreto di Spoleto, la cui carriera di segretario e letterato si svolse quasi per intero presso la corte aragonese di Napoli. Fu autore di un De principe dedicato ad Alfonso duca di Calabria che

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rientrava nella tradizione cosiddetta degli “specchi del principe” (specula princi-pum): testi rivolti all’educazione, nel segno della magnificenza, della virtù e della magnanimità, del buon sovrano. Machiavelli col suo De principatibus avrebbe ri-preso questa tradizione, a partire proprio dal fortunatissimo (all’epoca) trattato del Pontano, ma alterandone o capovolgendone il significato: agli intendimenti peda-gogico-edificanti degli umanisti avrebbe infatti sostituito un’immagine del buon principe nella quale la virtù si mescola al vizio, l’amore per la lettura dei classici alla brutalità del capo militare, il gusto per le buone maniere alla capacità di dis-simulazione, l’amore per la verità alla necessità della menzogna e dell’inganno.

13.

Un rapporto anche postumo, quello tra Machiavelli e l’Umbria, come abbiamo accennato. Lui, nel corso dei suoi spostamenti per conto della repubblica fiorentina, sostò a Perugia per alcuni giorni. Due suoi congiunti invece vi vissero per qual-che tempo, lasciando – se non altro negli archivi cittadini – non poche tracce del loro passaggio. Si tratta del figlio secondogenito Bernardo e del nipote Giuliano de’ Ricci. Il primo svolse a Perugia l’incarico di tesoriere pontificio a partire dal 1551 sino al 1565: in questo periodo suo figlio Niccolò (lo stesso nome del nonno) studiò presso lo Studium generale. Il secondo – nato nel 1543 dal matrimonio tra la figlia ultimogenita del Fiorentino, la Baccia, e Giovanni de’ Ricci – venne invece a Perugia nel 1563, ospite proprio dello zio materno tesoriere, ma fu una scelta per così dire obbligata: l’aria per lui si era fatta pesante a Firenze dopo che era rimasto coinvolto in un’aggressione. Ma la sua permanenza non fu infruttifera. Durò cinque anni, sino al 1568: in questo periodo ebbe tempo di stringere contatti con l’am-biente intellettuale perugino e di approfondire i suoi interessi letterari. Tra le altre cose, partecipò nel 1567 alla fondazione dell’Accademia degli Eccentrici, uno dei cenacoli culturali della città.

Giuliano de’ Ricci, come è noto, ha svolto un ruolo fondamentale nella fortuna di Machiavelli, per averne trascritto e tramandato – non senza qualche intervento censorio, soprattutto per quel che riguarda le lettere e la corrispondenza – la gran parte degli scritti. Così come un ruolo non secondario, nella diffusione dell’opera machiavelliana, ha svolto il folignate Silvestro Tegli. Sua la prima traduzione in latino del Principe, che sarà pubblicata dall’editore lucchese Pietro Perna nel 1560. Il libro uscì a Basilea, una delle piazze più importanti del cristianesimo riformato, all’epoca fiorente centro intellettuale e librario, dove era presente una nutrita co-munità di emigranti italiani che avevano aderito alla Riforma. Dell’umbro Tegli sappiamo che era stato a Oxford nel 1549, poi a Zurigo a partire dal 1556, dove aveva avuto contatti col teologo protestante Pietro Martire Vermigli. Nel 1558 era poi arrivato a Ginevra, ma avendo rifiutato l’adesione formale al calvinismo era stato costretto a rifugiarsi a Basilea, dove aveva iniziato a frequentare il circolo intellettuale animato da Perna. Questa traduzione in latino, più volte ristampata

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nei decenni successivi – ne conosciamo almeno undici edizioni nell’arco di ottan-ta anni, senza contare le ristampe –, ebbe un ruolo fondamentale nella diffusione del pensiero di Machiavelli su scala europea.

Quella diffusione che la Chiesa aveva invece cercato di bloccare ricorrendo alla messa all’Indice della sua opera: opera contro la quale si appuntò, in partico-lare nel XVII secolo, quel movimento convenzionalmente definito “antimachia-vellismo” e che tra i suoi esponenti più significativi e agguerriti ebbe anche due ecclesiastici umbri: l’eugubino Tomaso Bozio, dell’Ordine di San Filippo Neri, e il folignate Antonio Ciccarelli. Entrambi svolsero le loro carriere, acquisendo una discreta fama, nella Roma curiale. Il primo ebbe stretti rapporti con Papa Clemente VIII. Il secondo operò sotto il pontificato di Sisto V. I loro scritti con-tro l’autore del Principe si leggono oggi solo a scopo erudito, come testimonianza di una corrente culturale che qualche traccia polemica, pur a distanza di alcuni secoli, l’ha comunque lasciata in certi ambienti soprattutto cattolici. Nella mostra perugina su Machiavelli e il mestiere delle armi – di cui questo volume comprende il catalogo – è mancato un dipinto di grande importanza dal punto di vista storico-artistico e documentario, individuato per tempo dai curatori e scelto proprio per il significato, non solo devozionale, che esso riveste per la storia perugina: l’ordine religioso che lo possiede ha ritenuto di non concederlo in prestito con la motivazione di non volere avere nulla a che fare col nome di Machiavelli. Un rigurgito controriformistico in pieno ventunesimo secolo! Ma va anche detto, a compensazione di questo diniego, che è grazie a un altro Ordine religioso, quello dei francescani, che a Perugia si è potuta conservare per secoli una preziosa copia manoscritta del Principe. Apparteneva alla biblioteca del convento di Monteripido. Agli inizi dell’Ottocento, in seguito alla secolarizzazione dei beni ecclesiastici e alla soppressione dei conventi, passò alla Biblioteca Augusta di Perugia, dove ancora oggi si trova.

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Si crede nelle coincidenze, si attribuisce importanza ai dettagli? La storia – si dice – è anche una questione di segni, di particolari all’apparenza insignificanti o secondari, che però compongono, a leggerli bene e a saperli unire tra di loro, se si vuole anche con un po’ di fantasia, un qualcosa di unitario e coerente. La nostra cavalcata attraverso i secoli alla ricerca di tracce e testimonianze machiavelliane riconducibili all’Umbria può dunque chiudersi con alcuni di questi segni, che il lettore potrà interpretare a proprio piacimento.

Il primo riguarda il pittore e incisore Federico Faruffini, autore nel 1864 del Cesare Borgia che ascolta Machiavelli oggi esposto presso i Musei Civici di Pavia. Premiato nel 1867 all’esposizione universale di Parigi, il quadro – enor-me nelle sue dimensioni – fu concepito nell’ambito del revival machiavelliano d’età risorgimentale e post-unitaria, allorché si tentò di fare del Fiorentino un

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precursore dell’unità nazionale, meritevole di figurare nel pantheon dei “padri della patria”. Cinque anni dopo questa sua composizione, Faruffini, stanco delle sue peregrinazioni tra Parigi, Milano e Roma, afflitto da una grave depressione, si trasferì a Perugia con la famiglia da poco formata nella speranza di trovarvi un po’ di tranquillità. Qui visse pochi mesi, il tempo di stringere un’intensa amicizia con l’artista Annibale Brugnoli e di decidere che il suo malessere non gli lasciava altra strada che la morte volontaria: si uccise dunque a Perugia, nel dicembre 1869.

Il secondo riguarda un altro quadro, assai più celebre, il ritratto machiavelliano attribuito a Santi di Tito che si trova attualmente al Palazzo Vecchio di Firenze. Dopo che per tutto l’Ottocento se ne erano perse le tracce, nel 1928 fu acquistato dall’industriale varesino Ermenegildo Trolli e donato a Benito Mussolini, che a sua volta ne girò la proprietà allo Stato italiano. Fu esposto per la prima volta a Roma nel 1932 alla Mostra d’arte antica dopo essere stato restaurato da Mauro Pelliccioli, uno dei più grandi restauratori italiani del Novecento, lo stesso cui si debbono i preziosi restauri degli affreschi di Giotto nella Basilica di San France-sco ad Assisi (nel 1943), e quelli dei dipinti di Perugino e Raffaello nella Sala del Cambio a Perugia.

Il terzo e ultimo segno, che è poi il più recente di tutti, riguarda ancora un dipinto. In questo caso il ritratto inedito di Machiavelli che compare sin dalla copertina di questo volume. Uscito dall’Italia chissà quando, scovato fortunosa-mente sul mercato americano, riportato in Italia da un collezionista umbro di cose machiavelliane (che altri non è che l’autore di queste pagine), proprio a Perugia è stato messo in mostra per la prima volta, dopo il restauro cui è stato sottoposto. È una tavola della metà del Cinquecento che integra la scarna iconografia storica del Fiorentino (come è noto, interamente postuma) e che ci restituisce un’im-magine di quest’ultimo meno convenzionale di quelle del passato e, soprattutto, meno caratterizzata da un tratto machiavellico o machiavelliano, come è il caso degli altri dipinti e ritratti che ci sono pervenuti.

E con questo il cerchio dei rapporti anche soltanto indiziari tra Machiavelli e l’Umbria, per quanto sottilissima possa apparire la sua linea in certi casi, si chiude idealmente. In queste pagine se ne è offerto il sommario. In quelle che seguono se ne troverà il dettaglio.

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Bibliografia

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