mamet tre usi del coltello

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    minimum fax cinema

    nuova serie6

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    David MametI tre usi del coltello.Saggi e lezioni sul cinema

    titoli originali: Three Uses of the Knife. On the Natureand Purpose of Drama, On Directing Films e True and False.Heresy and Common Sense for the Actortraduzioni di Flavia Abbinante (Dirigere un film),Andreina Lombardi Bom (I tre usi del coltello)e Bruna Tortorella (Vero e falso)

    © David Mamet, 1991, 1997, 1998© minimum fax, 2002, 2010Tutti i diritti riservati

    Edizioni minimum faxpiazzale di Ponte Milvio, 28 – 00135 Romatel. 06.3336545 / 06.3336553 – fax 06.3336385

    [email protected]

    I edizione: novembre 2002II edizione: giugno 2010ISBN 978-88-7521-265-0

    Composizione tipografica:Sabon (Jan Tschichold, 1967) per gli interniFutura (Paul Renner, 1928) e Filosofia (Zuzana Licko, 1996) per la copertina

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    David Mamet

    I tre usi del coltelloSaggi e lezioni sul cinema

    traduzioni diFlavia Abbinante, Andreina Lombardi Bom,

    Bruna Tortorella

    prefazione diFrancesca Serafini

    con una nota introduttiva di

    Gino Ventriglia

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    DAVID MAMET: UNO SCONOSCIUTO

    DI FAMA MONDIALE

    di Francesca Serafini

    In Lakeboat , uno dei primi testi teatrali di David Mamet, il giovanemozzo Dale, finito il suo lavoro, beve una birra sul ponte insieme a

     Joe, marinaio più anziano e disincantato.

    dale: Mi ricordo in un corso di giornalismo, quando facevo il liceo,l’insegnante diceva sempre di non usare mai negli articoli la parola fa-moso. Tipo: «Il Signor X, famoso dottore...»joe: Proprio così, perché se sono famosi, che bisogno c’è di dirlo?dale: E l’insegnante diceva che se non lo erano...joe: E allora perché cazzo devi dire che lo sono, giusto?

    dale: Appunto.1

    Queste poche battute rappresentano un efficace esempio dellatecnica di dialogato di Mamet, giocata – nel teatro così come nellesceneggiature cinematografiche – sulla brevità e l’arguzia del con-

    [ 5 ]

    1. David Mamet, Teatro II (Perversioni sessuali a Chicago, Lakeboat), Costa & No-lan, Genova 1989, p. 90 [mio il corsivo in famoso].

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    traddittorio incalzante, cui spesso dona realismo e vivacità il ricor-so al turpiloquio. Ma non solo. Queste battute rappresentano ancheil paradosso cui ci si trova di fronte nel sottoporre all’attenzione dellettore italiano un nuovo tassello della monumentale e variegataopera di questo autore, come sono i tre saggi qui presenti (Dirigereun film del 1991, Vero e falso del 1997 e I tre usi del coltello del1998). Il paradosso consiste nel fatto che, per tutti i non addetti ailavori (in ambito teatrale e cinematografico), ricordare quanto Ma-met sia famoso non è un pleonasmo. Molta della sua produzione hainfatti avuto scarsa fortuna nel nostro paese, malgrado la sua in-dubbia rilevanza: la maggior parte dei testi teatrali che sono stati

    tradotti in italiano è ora fuori commercio e la loro rappresentazio-ne è a tutt’oggi episodica; e inoltre i film di cui Mamet ha firmato laregia (ad eccezione forse del Colpo, che ha ottenuto un buon suc-cesso di pubblico anche grazie alla notorietà degli attori, fra cuiGene Hackman e Danny De Vito, e alla presentazione fuori concor-so al Festival del Cinema di Venezia del 2001) hanno avuto una di-stribuzione difficile e in molti casi sono usciti fuori stagione: adesempio Hollywood,Vermont , del 2000, è arrivato nelle sale italia-

    ne soltanto nell’estate del 2002.Eppure, nonostante queste complicazioni, il rapporto fra Mamet

    e il pubblico italiano (e non solo) è molto più solido di quanto si pos-sa pensare, in quel modo anonimo e oscuro in cui gli sceneggiatorisi fanno sempre amare dal proprio pubblico: e cioè attraverso la sto-ria che hanno scritto. In modo anonimo e oscuro quando abbianoscelto (o gli sia stato richiesto) di limitarsi a sceneggiare quella sto-

    ria, senza girarla o interpretarla. Questo almeno è quanto avviene inItalia, dove si continua «una ormai radicata tradizione romantico-idealistica, secondo cui l’auteur cinematografico, per essere vera-mente tale, deve fare tutto da sé».2 E invece Mamet era un vero au-teur molto prima di mettersi dietro la macchina da presa, a giudica-

    [ 6 ]

    2. Gino Ventriglia, «Introduzione», in Ken Dancyger e Jeff Rush, Il cinema oltre leregole, Rizzoli, Milano 2000, p. 8.

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    re – per rimanere in ambito cinematografico – dai film di altri regi-sti di cui ha firmato la sceneggiatura (e qui, finalmente, aggiungerefamosi sarebbe davvero una ridondanza): dal Postino suona sempredue volte del 19813 al Verdetto dell’anno successivo, dagli Intocca-bili del 1987 fino al più recente Hannibal del 2001, scritto a quattromani con Steven Zaillian.

    Si può dire che in questo caso siamo in presenza di un fatto sin-golare, che poi è l’auspicio di molti artisti: e cioè che la fama dellaloro opera li preceda. In effetti, i film citati rappresentano un bel bi-glietto da visita per Mamet, la cui vicenda artistica tuttavia comin-cia molto prima nel tempo e non nel cinema (a cui approda soltan-

    to agli inizi degli anni Ottanta), ma nel teatro.

    1. Storia di un drammaturgo

    Mamet è considerato una delle stelle che, con David Rabe e SamShepard (della stessa generazione), costituiscono il «firmamento»del teatro americano contemporaneo che possa già dirsi «classico»,

    delineato da Mario Maffi come un arcipelago:

    un vasto arcipelago di isole nella corrente, di cui è arduo disegnareuna mappa accurata poiché sfuggono i contorni precisi, le coordinate,i reciproci collegamenti, i punti di riferimento stabili, e in cui a tuttaprima sembrerebbe che unico elemento comune sia quella particolare(e angosciosa) risacca sociale che ha dominato l’ultimo quindicenniodi vita americana.4

    [ 7 ]

    3. Film di Bob Rafelson, tratto dal romanzo omonimo di James Cain, del 1934, chein precedenza era stato già portato sul grande schermo da Pierre Chenal con Le Der-nier tournant del 1939, da Luchino Visconti con Ossessione del 1943 («film con cuitradizionalmente si fa iniziare il neorealismo», secondo Paolo Mereghetti, Il Mere- ghetti.Dizionario dei film 2000, Baldini & Castoldi, Milano 1999, p. 1292) e da TayGarnett nel 1946 con il titolo originario.

    4. Mario Maffi, «Prefazione», in Id. (a cura di), Nuovo teatro d’America, Costa &Nolan, Genova 1987, p. 17.

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    Un punto in comune fra questi autori è che le loro sperimentazio-ni non incontrano certamente i gusti della critica ufficiale, con cuipolemizza un giovanissimo Mamet:

    Tolstoj una volta disse che nell’esercito russo quando un generale ave-va raggiunto il più alto grado come Russo veniva promosso Tedesco.Il massimo risultato da raggiungere è essere considerati cittadini ono-rari inglesi, poiché evidentemente la nostra vita reale non sembra unargomento adatto al teatro.5

    E invece per Mamet non c’è altro argomento che la realtà, oppu-

    re quelle tante piccole realtà abitate da uomini disperati e animatisoltanto dalla logica del guadagno. Le sue scelte drammaturgichevanno decisamente in direzione contraria all’orientamento consola-torio del teatro «istituzionale» di Broadway, a cui tuttavia Mametapproda nel 1977 con American Buffalo6 (scritto nel 1975), e poinel tempo con il resto della sua produzione, dopo anni di sperimen-tazioni nei teatri di Chicago.

    Azione e Parola

    Una caratteristica dei testi teatrali di Mamet è l’apparente assenzadi azione, intesa – come generalmente viene intesa nell’ambito dellanarrazione – come atto del personaggio, evento che muti il corsodella storia. In effetti, in molte di queste opere succede poco e nien-

    te. Anche in due testi come Oleanna, del 1992, e il più lontano neltempo American Buffalo, che ruotano intorno a due grandi eventi

    [ 8 ]

    5. In Christopher W.E. Bigsby, «David Mamet», in David Mamet, Glengarry GlenRoss. Con materiale critico su Mamet e la sua opera, Teatro di Genova, Genova1985, p. 7.

    6. Trasposto nel film omonimo di Michael Corrente del 1996, con sceneggiatura del-lo stesso Mamet.

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    (lo stupro in un caso e il furto di una preziosa moneta nell’altro), leazioni sono soltanto evocate nelle battute dei personaggi, che «par-lano» e «non agiscono».7 Nel caso di Oleanna l’azione evocata eche costituisce il motore della storia (il millantato stupro del profes-sore ai danni della sua allieva) non solo non viene messa in scena,ma di fatto non è neanche accaduta nella realtà del dramma, perchéla ragazza ha mentito (si tratta quindi di una non-azione).8 Così co-me non verrà attuato il furto di cui i protagonisti di American Buf-falo non fanno altro che parlare per tutto il tempo, perché parlare èl’unico modo in cui possono agire.9 Parlare, però, in quel modo spe-ciale in cui si esprimono tutti i personaggi di Mamet, che è da più

    parti riconosciuto come

    un virtuoso di quella che in inglese si chiama la fourletter word , ossiala parolaccia: nel senso che egli possiede forse più di qualsiasi altroscrittore, di teatro o no, l’orecchio per quella particolare forma di afa-sia, di difficoltà comunicativa, che appunto si esterna mediante un tur-piloquio esasperato e incessante.10

    [ 9 ]

    7. È nota in proposito la reazione polemica del critico John Simon alla rappresenta-zione di American Buffalo: «Non pretendo l’unità di azione, chiedo soltanto un ma-ledetto straccio di azione qualsiasi», in Christopher W.E. Bigsby, «David Mamet»,cit., p. 9.

    8. Scrive al riguardo Masolino D’Amico: «l’ambiguità del rapporto fra John e Carol èaffidata tutta alle parole, e il conflitto nasce da un’incomprensione soltanto verbale»,in «Introduzione» a David Mamet, Oleanna, Costa & Nolan, Genova 1993, p. 8.

    9. A proposito di un altro testo di Mamet, Perversioni sessuali a Chicago, Almansi hanotato come la parola oscena sia sostitutiva dell’atto sessuale, «una forma di ma-sturbazione verbale» che risponde al principio: «Quanto meno si fa all’amore, tantopiù bisogna parlarne, e tanto più stratosferiche diventano le fantasie» (Guido Al-mansi, «Prefazione», in David Mamet, Teatro II ..., cit., pp. 5-6). E Almansi ricordaancora come in un altro testo, Lakeboat , Mamet faccia dire a uno dei personaggi:«La prima cosa per quanto riguarda le navi... è che di fighette non se ne vede nean-che una... È per questo che tutti dicono “cazzo” in continuazione e parlano di sco-pare» (Ivi, p. 5).

    10. Masolino D’Amico, in «Introduzione» a David Mamet, Oleanna, cit. p. 10. Pro-prio a proposito di American Buffalo scrive Almansi: «In fatto di gros mots, Mametè un maestro: un cantore della bestemmia e dell’invettiva. “Fuckin’ Ruthie, fuckin’

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    Un turpiloquio continuamente interrotto da sapienti pause chedanno ritmo ed efficacia a quello che Masolino D’Amico ha defini-to «dialogo spezzato». Ed è in questo tipo di dialogato che consistel’azione del teatro di Mamet, animato com’è dal sovrapporsi incal-zante dei vari personaggi al centro delle diverse scene.11

    Sul piano dei contenuti, il dialogo difficile si traduce nella diffi-coltà dei personaggi ad avere fra loro rapporti che non siano rego-lati, se non dall’inganno, dal rancore, dall’istinto di sopraffazione.

    Tutta l’opera di Mamet, non solo teatrale, sembra dirci che i rap-porti fra le persone sono complicati: sono difficili quelli fra uomo edonna (a giudicare dal Bosco e, in maniera più ancora esasperata, da

    Perversioni sessuali a Chicago), quelli fra padri e figli (si pensi al pic-colo testo Reunion12), quelli fra colleghi di lavoro (e certamente in tal

    [ 10 ]

    Ruthie, fuckin’ Ruthie, fuckin’ Ruthie, fuckin’ Ruthie”, dice Teach nella sua primaentrata in scena [...]. E alla domanda di Don, “What?”, Teach aggiunge la necessariasottolineatura: “Fuckin’ Ruthie”», come se l’angoscia venisse superata attraverso«la catarsi dell’osceno. La bestemmia è necessaria al personaggio come il cibo chemangia, l’aria che respira. Bestemmio, quindi sopravvivo (“Turpiloquor, ergosum”)». (Guido Almansi, «Il turpiloquio in Mamet», in David Mamet, Teatro [Il bo-

    sco, Una vita nel teatro, Glengarry Glen Ross], Costa & Nolan, Genova 1986, pp.10-11).

    11. «L’azione è il personaggio», dice Bigsby, con riferimento ai drammi di Mamet, ericorda come in tal senso l’autore statunitense interpreti alla lettera l’idea di EugèneIonesco che «in teatro, se dovete usare un qualsiasi tipo di narrazione, non state fa-cendo il vostro lavoro» (Christopher W.E. Bigsby, «David Mamet», cit., p. 10). Io-nesco, certamente. Ma anche Čechov. Scrive Guido Fink: «Mamet è ossessionato daAnton Čechov, dalle sue parole divaganti, dai suoi silenzi, da quel dialogo fatto dimonologhi non comunicanti, dal suo rifiuto della “trama” e dell’azione» (in Id., Nonsolo Woody Allen, Marsilio, Venezia 2001, p. 240). Così come emerge non solo dal-le opere creative di Čechov (a cui Mamet rende omaggio in più di un’occasione, e inparticolare con la sceneggiatura di Vanya sulla 42a strada, adattamento dello ZioVanja, per il film di Louis Malle del 1994), ma anche dalle sue riflessioni teoriche (cfrin proposito Anton Čechov, Senza trama e senza finale, a cura di Piero Brunello, mi-nimum fax, Roma 2002).

    12. Il cui titolo sembra un omaggio ad Harold Pinter, che aveva sceneggiato il filmomonimo di Jerry Schatzberg del 1989 (in Italia noto col titolo del romanzo di FredUhlman da cui è stato tratto: L’amico ritrovato). Pinter del resto è stato «il dramma-turgo contemporaneo che di Mamet – o almeno del primo Mamet – è stato senza

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    senso Glengarry Glen Ross costituisce una sorta di manifesto pro-grammatico). Tutti i personaggi creati da Mamet sono odiosi, im-perfetti, dominati da impulsi che creano conflitti laceranti. Eppure,sostiene sottilmente Guido Almansi, «a seconda lettura, le comme-die di Mamet, persino quelle che sembrano più ciniche, sono estre-mamente positive, quasi giovanilmente ottimiste, circa la possibilitàdella fraternità e dell’amore».13 Si potrebbe dire che Mamet lavorialle sue storie con lo stesso spirito che Ian McEwan rintraccia nellasua scrittura: «Credo che nei miei racconti si proietti un senso delmale che è di un genere ben preciso; quello per cui uno cerca di pen-sare il peggio possibile così da propiziarsi il bene».14 Come se il male

    e l’inferno che animiamo ogni giorno,15

    circoscritti nelle pagine di unracconto così come nelle battute di un dialogo, potessero essere te-nuti a bada. Nel caso di Mamet però – a differenza di McEwan – nonc’è alcun intento apotropaico: c’è semmai un’istanza etica che lospinge a perseguire il vero anziché il bello oil facile (il cui effetto con-solatorio è effimero e pericoloso).16 Scrive in proposito Bigsby:

    [ 11 ]

    dubbio il maestro e il modello», come ricorda Guido Fink (Id., Non solo..., cit., pp.240-41), che inserisce Mamet – pur con le sue peculiarità – nel solco della «tradizio-ne ebraica del cinema americano».

    13. Guido Almansi, «Il turpiloquio in Mamet», cit., p. 9.

    14. Così diceva di sé McEwan nel 1975, anno di uscita della sua prima raccolta, Pri-mo amore e ultimi riti, come viene ricordato nel retro di copertina dell’edizione Ei-naudi del 1979.

    15. Un inferno che per certi versi ricorda quello di cui parla Sartre nel testo teatralePorta chiusa, a cui ci riconduce la battuta di Roma, uno dei protagonisti di GlengarryGlen Ross: «I cattivi vanno all’inferno? Io non ci credo, ma chi lo sa, magari è vero.Secondo me c’è l’inferno. Qui però. E io voglio starne fuori, io» (David Mamet, Tea-tro..., cit., p.132). Qualcosa di simile a quello che dice Garcin in Porta chiusa: «Èquesto dunque l’inferno? Non lo avrei mai creduto. Vi ricordate? Il solfo, il rogo, lagraticola... buffonate! Nessun bisogno di graticole; l’inferno, sono gli Altri» (Jean-Paul Sartre, Le mosche,Porta chiusa, Bompiani, Milano 1989, p. 165).

    16. Mamet ricorda come, dopo aver assistito a una commedia a lieto fine, «lasciamoil teatro compiaciuti come dopo un bel sogno a occhi aperti. Hanno alleviato le no-stre pene, ci hanno rassicurato che tutto va per il meglio, ma non ci sentiamo per que-

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    Mamet è un moralista che lamenta il crollo dell’immagine pubblica edello scopo di vita individuale mostrando un mondo spiritualmenteinaridito in cui dominano i ritmi della disperazione e in cui l’occasio-nale armonia nei rapporti umani o il momentaneo lirismo sepolto in

    profondità nella struttura del linguaggio sono poco più di un’eco diquello che fu una volta uno stato di grazia, una grazia lasciata ormaimolto indietro nel tempo, sopravanzata da più di un secolo di violen-za e di tradimento.17

    Il fatto è che Mamet è consapevole di tutto questo e non può faraltro che rappresentarlo. Convinto com’è – secondo l’idea del Tea-tro d’Arte di Stanislavskij – che il teatro «è il luogo in cui si va a sen-

    tire la verità»,18 come drammaturgo sente il «dovere morale» dimettere in scena la sua verità:

    Se non ammettiamo ciò che sappiamo, siamo una nazione che non rie-sce a ricordare i propri sogni, siamo come una persona infelice chenon li ricorda e sostiene quindi di non sognare, affermando che i sogninon esistono proprio.Ci stiamo distruggendo perché accettiamo la nostra infelicità.Ci stiamo distruggendo perché avalliamo e accettiamo l’oblio nella te-levisione, nel cinema e nel teatro.Chi avrà il coraggio di parlare chiaro? Chi parlerà in nome dello spi-rito dell’America? In nome dello spirito dell’uomo?19

    Ecco, sembra questo il ruolo che Mamet ritaglia per sé: quello diuno spietato recensore dei propri tempi.

    [ 12 ]

    sto più felici». Il suo teatro invece ha come presupposto il credo di Freud: «L’unicomodo per dimenticare è ricordare» (cfr David Mamet, Note in margine a una tova- glia, minimum fax, Roma 2004, pp. 24-25).

    17. Christopher W.E. Bigsby, «David Mamet», cit., pp. 11-12.

    18. David Mamet, Note in margine..., cit., p. 38.

    19. Ivi, pp. 37-38.

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    Viviamo in una nazione infelice. Come popolo siamo gravati daun’immagine terribile di noi stessi. Come uomo di teatro intuisco chel’unico modo per alleggerire il drappo funebre della morale e la pueri-le ipersofisticazione della nostra vita è la celebrazione teatrale di ciò

    che ci unisce.20

    In tempi di bancarotta morale possiamo contribuire a modificare l’a-bitudine ad agire sotto la spinta della coercizione e della paura, e a so-stituirle con la fiducia, l’autostima e la solidarietà.Se siamo onesti verso i nostri ideali, possiamo aiutare a costruire unasocietà ideale, una società che si fondi e che aderisca ai principi eticifondamentali, non predicando, ma creandola ogni sera di fronte aglispettatori, mostrando loro come funziona. In pratica.21

    Certo, a ricordare queste dichiarazioni di poetica (che risalgono al-la fine degli anni Ottanta), il lettore dei Tre usi del coltello sarà coltodi sorpresa quando si troverà di fronte a brani come quello che segue:

    I drammaturghi che mirano a cambiare il mondo assumono una posi-zione di superiorità morale nei confronti del pubblico e permettono alpubblico di assumere la stessa posizione di superiorità nei confronti di

    coloro che nel dramma non accettano le idee del protagonista.Non è compito del drammaturgo dar vita a un cambiamento sociale.Ci sono grandi uomini e grandi donne che realizzano cambiamenti so-ciali. Li realizzano a prezzo di dimostrazioni di coraggio personale:corrono il rischio di prendersi una manganellata in testa durante lamarcia di Montgomery. O si incatenano a un pilastro. O sopportanocon dignità il ridicolo e il disprezzo. Mettono a repentaglio la loro vi-ta, e questo può ispirare eroismo negli altri.Però lo scopo dell’arte non è cambiare ma allietare.22

    Anche se la contraddizione è solo apparente perché – passandodal piano teorico a quello pratico della scrittura drammaturgica – ci

    [ 13 ]

    20. Ivi, p. 48.

    21. Ivi, p. 45.

    22. Infra, pp. 64-65.

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    si accorge che in effetti Mamet non sale mai in cattedra, in nessunadelle sue opere, e non ci dice mai quale è il mondo migliore possibi-le. Non c’è mai nei suoi drammi un personaggio positivo che facciada contraltare agli altri e nel quale lo spettatore possa ravvisare trac-ce del suo pensiero.23 Mamet non indica le soluzioni ma rappresen-ta con brutalità i problemi. Pone lo spettatore di fronte alla realtàdelle cose, nella loro complessità, così come si profila davanti ai suoiocchi, senza il sovrasenso di un’alternativa interna all’opera.

    Il Teatro e «l’anima vivente» dell’uomo contemporaneo

    Se «lo scopo di un lavoro teatrale è quello di portare sulla scena l’a-nima vivente dell’uomo»,24 Mamet deve descrivere in quale direzio-ne si volge l’anima dell’uomo contemporaneo, che è l’unica che glistia a cuore. E allora, allo stesso modo in cui i personaggi del teatroantico erano mossi da Eros e Thanatos, quelli dei suoi drammi han-no sublimato quegli stessi istinti primari nel surrogato della «ricer-ca del guadagno». Per tentare di spiegare questo passaggio delicato

    – che di fatto è assolutamente centrale nell’opera di Mamet, e nonsolo teatrale – torna utile l’accostamento con un romanzo lontanonello spazio e nel tempo, Le relazioni pericolose di Choderlos de La-clos del 1781. Una magistrale testimonianza letteraria del fenome-no del libertinaggio, in cui molti studiosi hanno letto la «conversio-ne» dell’istinto alla guerra, represso – per forza di cose – in tempi direlativa pace come è stato, in parte, il Settecento francese. In questo

    romanzo, i due protagonisti (il visconte di Valmont e la marchesa diMerteuil), esemplari nella loro perfidia, studiano a tavolino le mos-

    [ 14 ]

    23. Questo almeno per quanto riguarda i testi teatrali. Perché a proposito di alcunifilm (uno in particolare, Hollywood, Vermont , di cui si parlerà più avanti) le cose avolte stanno diversamente.

    24. Di nuovo un fondamento della Teoria di Stanislavskij (cfr David Mamet, Note inmargine..., cit., p. 7).

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    se da seguire per le loro conquiste amorose, ricalcando i metodi diuna vera e propria strategia militare. Tutta l’opera di seduzione deidue libertini si muove secondo i binari di un sottile meccanismo psi-cologico, volto – ancor prima che a ottenere il piacere dell’atto ses-suale – a compromettere e a sopraffare completamente l’oggettodella conquista (la «preda» o la «vittima»). Ogni mossa è concepi-ta, in effetti, come un tassello di una vera impresa guerresca, il cuiscopo (la «vittoria») non è il raggiungimento del piacere fisico – o al-meno, non solo – ma la «gloria» che risplenderà sulla carriera del li-bertino, che potrà fregiarsi dell’ennesima medaglia, frutto dell’en-nesima battaglia vinta.25 Dunque un sottile gioco senza esclusioni di

    colpi in cui Eros e Thanatos sono due facce della stessa medaglia.Ora, con un grande salto, si prenda in considerazione GlengarryGlen Ross (con cui Mamet si aggiudica, nel 1984, il premio Pulitzerper il miglior testo teatrale). Shelley Levene è stato un «valoroso»agente immobiliare ma negli ultimi tempi sembra aver perduto losmalto del passato, finché riesce a concludere un grande affare ven-dendo otto lotti di un terreno paludoso in Florida a una coppia chenon se ne potrà fare nulla (per la distanza dal loro luogo di residen-

    za e le condizioni del terreno). Levene racconta in questo modo, alsuo collega Ricky Roma, il momento in cui i suoi clienti «capitola-no» e si decidono a firmare il contratto di vendita:

    levene: [...] Insomma li ho inchiodati. Io mi sentivo leggero, una piu-ma, loro erano un piombo, sembravano fusi sulla sedia... Ero cosìconcentrato su di loro che non riuscivano a muoversi, sì e no respira-vano... Ho ancora in mente l’ultima cosa che gli ho detto: «Questo è il

    momento!» (Pausa) Hanno firmato, Ricky. È stato grande. Cristo se è

    [ 15 ]

    25. È stato osservato come questo aspetto sia stato rappresentato molto bene fin dal-la prima scena nel film che, nel 1988, Stephen Frears ha tratto dal romanzo di Laclos(con la sceneggiatura, premiata con l’Oscar, di Christopher Hampton, che aveva giàadattato il testo per il teatro). Il film si apre con i due libertini che si prestano all’ela-borata toletta mattutina come a una vestizione: merletti, fiocchi, nei e parrucche ven-gono indossati come fossero cotte, gambali, barbute e ginocchiere di cavalieri me-dievali che si preparino a un torneo mortale.

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    stato grande. Come se fossero appassiti improvvisamente. Non un ge-sto, non una parola, niente, era come se, te lo giuro su Dio, si fosseroimprovvisamente mummificati. Allora lui allunga la mano, prende lapenna, la guarda un momento, fa la sua firma, poi la passa a sua mo-

    glie, firma anche lei... Cazzo se è stato solenne.26

    La lettura che di questa scena ha fatto Guido Almansi ci aiuta acapire le cose come stanno. All’inizio, infatti, Almansi fa un paral-lelo con la guerra: «Da una parte c’è Levene, il predatore, che è ar-mato: la penna stilografica in mano, paziente, spietato, ossessivo.Dall’altro le vittime negli ultimi spasimi della disfatta».27 Ma poi,

    quando la vendita è «consumata», Almansi commenta:

    Che grande scena erotica! L’intensità dell’esperienza non è sacrificatapassando attraverso il filtro della scrittura e della scena. E l’intensità èquella di un coito: Levene ha posseduto i suoi clienti. Se il pubblico èrestio a lasciarsi andare durante Glengarry Glen Ross, non è per labrutalità del testo, ma perché lo specchio che Mamet mette di frontealla società consumistica è troppo fedele.28

    Così come i libertini di Laclos avevano condotto le loro conqui-ste amorose con lo spirito di due strateghi militari (sublimando il lo-ro impeto guerresco), allo stesso modo i venditori di Mamet – per iquali l’amore non è più possibile29 – nel «sedurre» i loro clienti affi-

    [ 16 ]

    26. David Mamet, Teatro..., cit., p. 145.

    27. Guido Almansi, «L’arte di vendere», in David Mamet, Glengarry Glen Ross...,cit., p. 23.

    28. Ibidem.

    29. Un altro testo, il già citato Perversioni sessuali a Chicago, mette in scena l’im-possibilità di un rapporto fra uomo e donna fondato sull’amore. Il rapporto sessua-le viene fatto rientrare nei meccanismi e nella logica della carriera nel lavoro. Scrivein proposito Almansi: «Fare all’amore con molti partner è il segno del successo, del-la carriera sociale e mondana, della vittoria [...]» (Guido Almansi, «Prefazione», inDavid Mamet, Teatro II ..., cit., p. 6). Qualcosa di cui ci si possa vantare con i colle-

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    lano le proprie «armi» per raggiungere l’unica cosa che conta nellasocietà che rappresentano:30 «C’è solo la voglia di fare soldi, e quel-la ti aggancia», dice Ricky Roma in un’altra scena di Glengarry. Inmodo analogo, il vecchio ladro Joe More, interpretato da GeneHackman nel film Il colpo, alla battuta del suo collega sul fatto chel’amore faccia girare il mondo, risponde così: «Sì, l’amore fa girareil mondo. L’amore per i soldi».

    Una caratteristica, questa, non soltanto degli Americani di oggi,31

    a giudicare da quello che scriveva – un secolo prima di Mamet –Walt Whitman. Sostiene in proposito Christopher Bigsby:

    L’autore di American Buffalo e Glengarry Glen Ross non avrebbecertamente difficoltà a riconoscere la sua affinità con l’uomo chescriveva: «Lo stato di depravazione della “business-class” nel nostropaese non è minore di quanto si sia immaginato, bensì infinitamentepiù grande... Le grandi città ricche di rispettabili (o non rispettabili)ladri e furfanti. Nella vita di società, leggerezza, tiepide relazioniamorose, deboli infedeltà, piccoli o addirittura inesistenti scopi, giu-sto per ammazzare il tempo; nel business (questa onnivora parola

    moderna, business) il solo ed unico scopo è, con ogni mezzo, il gua-dagno... Il concetto di far soldi... rimane oggi unico padrone delcampo...»32

    [ 17 ]

    ghi (Almansi parla ancora di «meritocrazia della scopata», ibidem), come succede aBernard, mentre racconta a Danny la sua ultima conquista: una ragazza conosciutain un bar e che a letto, per raggiungere l’orgasmo, ha bisogno di inscenare una guer-ra, con tanto di bombe, fuoco e tuta antiproiettile (Eros e Thanatos di nuovo a brac-cetto, e questa volta con uno yuppie).

    30. Nella quale, per la verità, l’istinto guerresco non sembra affatto sublimato, a giu-dicare dalle tante guerre che gli Stati Uniti continuano a promuovere in diverse zonedel mondo.

    31. Americani è il titolo italiano del film di James Foley tratto da Glengarry GlenRoss nel 1992.

    32. Christopher W.E. Bigsby, «David Mamet», cit., p. 13.

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    «Geremiade» in difesa del Teatro d’Autore: il ruolo dell’attore se-condo Mamet 

    Se i personaggi di Mamet sono mossi dall’amore per i soldi, è ditutt’altra natura l’amore che spinge il loro autore nel suo lavoro: ecioè «l’amore per il teatro» – per il Teatro d’Arte – che vede seria-mente minato dal mondo di un business tutto particolare, come èquello dello show business, fatto di produttori che pensano solo aiprofitti33 e di agenti34 che pensano solo a sfruttare gli attori, i veri at-tori.35 Quelli che secondo Mamet sono «con le spalle al muro», chenon hanno altra scelta che seguire la propria inclinazione, a dispet-

    to dei rischi economici cui vanno incontro, dal momento che «perun attore – vale a dire per un uomo o una donna interessati a farecarriera nel teatro – una sicurezza del genere non c’è mai stata».36

    Mamet apprende l’idea del Teatro come Arte dagli insegnamenti diSanford Meisner, che a sua volta si era formato alla scuola di MariaOuspenskaja e Richard Boleslavskij (grazie a cui le idee di Konstan-tin Stanislavskij, intorno agli anni Venti, avevano cominciato a dif-fondersi negli Stati Uniti in modo pervasivo).37 Con Meisner, Ma-

    met studia da attore ma passa molto presto alla regia e successiva-mente alla scrittura dei testi da rappresentare.

    Per una compagnia di attori ventenni in formazione la piazza non of-friva granché (non potevamo permetterci di pagare i diritti d’autore);

    [ 18 ]

    33. Mamet in Dirigere un film li definisce per questo: «comitato di delinquenti» (in-fra, p. 154).

    34. Che in Una vita nel teatro (1977) il vecchio attore Robert definisce «ladri di tom-be» (David Mamet, Teatro..., cit., p. 104).

    35. Da non confondere con i divi hollywoodiani, di cui Mamet stigmatizza tutte leidiosincrasie.

    36. Infra, p. 221.

    37. Si veda in proposito il saggio di Claudio Vicentini, «Le avventure del Sistema ne-gli Stati Uniti», in Mel Gordon, Il sistema di Stanislavskij, Marsilio, Venezia 1992,pp. 149-182.

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    perciò cominciai a scrivere dei testi di teatro. In questi testi cercai dimaterializzare – e spero di farlo ancora – i primi principi che mi eranostati rilevati quando studiavo da attore, e che mi sforzavo di insegna-re e applicare.

    Si trattava dei principi di Stanislavskij: 1) il teatro è un luogo dove si vaper ascoltare la verità; 2) recita bene o male, ma recita lealmente; 3) loscopo del teatro non è la rappresentazione del «carattere» o dell’«emo-zione», ma la rivelazione di una finalità attraverso l’azione; 4) si do-vrebbe amare l’arte in se stessi, piuttosto che se stessi nell’arte.38

    Ecco. Di nuovo il lettore di questo volume si troverà spiazzatoquando confronterà l’autentico tributo del giovane Mamet al Mae-

    stro Stanislavskij con tutte le «invettive» che in Vero e falso il più ma-turo drammaturgo dirige contro il suo Sistema, e contro il Metodoche ne avevano tratto alcuni registi americani.39 Ed è in questo checonsiste la caratteristica più evidente del Mamet saggista: quella dimettere in continuo scacco le proprie convinzioni, sorprendendo divolta in volta il lettore (o l’allievo) con ragionamenti che sembranospazzar via tutti quelli del passato, in un continuo work in progressche è la sua teoria del Teatro. In questo aspetto – più ancora che nel

    merito delle idee40 – Mamet ricorda la continua evoluzione del pen-siero di Stanislavskij, che in La mia vita nell’arte scriveva: «Ho vissu-to una vita veramente varia e multiforme, nel corso della quale ho do-vuto cambiare più di una volta le mie idee fondamentali».41 Tra «le

    [ 19 ]

    38. David Mamet, «Notizia», in Id., Teatro..., cit., p. 163.

    39. Il Metodo è «la versione “americana” del Sistema, che secondo Strasberg perfe-

    zionerebbe i procedimenti stanislavskiani utilizzando le intuizioni di Vachtangovsull’uso della Giustificazione e della Memoria Emotiva» (Mel Gordon, Il sistema...,cit., p. 189).

    40. Anche se in un’intervista del 1976 Mamet dichiarava: «Tutto quello che sono co-me drammaturgo sento di doverlo a Stanislavskij – voglio dire, Cristo, ogni dram-maturgo dovrebbe leggere quello che scrive solo sulle consonanti e le vocali» (RossWetzsteon, «David Mamet: Remember That Name», in David Mamet in Conversa-tion, a cura di Leslie Kane, The University of Michigan Press 2001, p. 11).

    41. In epigrafe in Mel Gordon, Il sistema..., cit., p. 3.

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    idee fondamentali» del Sistema che Mamet apprenderà e poi metteràin discussione, c’è senz’altro il concetto di Memoria Emotiva, e cioè:«la facoltà che permette all’attore di suscitare in sé, dal proprio pas-sato, percezioni sensibili e reazioni emotive controllate. Rievocandointeriormente semplici percezioni sensibili provate nel passato, comeil sapore di un cibo o lo sciogliersi dei fiocchi di neve sul viso, l’attoreimpara a rivivere nel presente sensazioni provate nel passato».42

    Per Mamet, al contrario, l’attore è tanto più bravo quanto più rie-sce a dimenticarsi di sé e a immergersi nella realtà della scena cherappresenta, interagendo con gli altri personaggi sulla base del testoche, con la sua interpretazione, deve manipolare il meno possibile.

    Un testo sul quale bisogna lavorare in un’unica direzione, secondoquanto Mamet ripete agli attori nelle sue lezioni: «imparate le bat-tute, ponetevi un obiettivo semplice come quello indicato dall’auto-re, pronunciate le battute chiaramente nel tentativo di raggiungerequell’obiettivo».43

    Del resto lo stesso Stanislavskij era tornato a riflettere sul princi-pio della Memoria Emotiva sostituendolo, all’inizio degli anni Tren-ta, con la teoria del Magico Se («Che cosa farei io, personalmente, se

    mi trovassi nella stessa situazione in cui il personaggio si trova inquesta scena?»)44. Sempre nello stesso periodo, Stanislavskij mette-va a punto l’idea di dividere il testo da rappresentare in Sezioni, co-sicché l’attore potesse «individuare direttive più semplici e preciseper giungere progressivamente alla definizione della propria par-te».45 Queste direttive sono i Compiti, concetto che Mamet fa suo,così come avevano fatto gli allievi di Stanislavskij Vachtangov e Če-

    chov (nipote dello scrittore). Se per il maestro russo «ogni scena diun dramma può essere scomposta in compiti (tradotti anche con

    [ 20 ]

    42. Ivi, p. 188.

    43. Infra, p. 254.

    44. Mel Gordon, Il sistema..., cit., p. 191.

    45. Ivi, p. 125.

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    “scopi” o “problemi”) che il personaggio deve svolgere»,46 in Vero efalso Mamet consiglia di individuare un compito e di suddividerlo asua volta in tanti compiti più piccoli da realizzare.

    Dopo aver finito una scena, ne incontrerete un’altra, con il suo com-pito specifico; messe tutte insieme, le scene costituiscono il dramma.Se recitate scena per scena, renderete un buon servizio al dramma. Secercate di trascinarvi dietro la conoscenza complessiva del dramma inogni scena, rovinerete tutto il progetto del drammaturgo, e non avre-te nessuna possibilità di fare bene scena per scena.Il pugile deve combattere un round alla volta; il combattimento andràcome andrà. Il pugile sale sul ring con un progetto semplice, e poi de-

    ve affrontare le cose momento per momento. Voi fate lo stesso. La cor-retta unità di applicazione è la scena.47

    Si capisce, anche da queste parole, quanto Mamet sia spaventatodall’idea che la recitazione possa rovinare «il progetto del dramma-turgo». Per questo è riluttante a periodi di lunghe prove sul testo(inutili e dannosi per lui, convinto com’è che all’attore non serva«preparazione» ma «impegno»).48 Mamet vorrebbe un attore che è

    un esecutore del testo (ma non in senso necessariamente riduttivo).Per lui la recitazione è soprattutto «un’abilità fisica»:

    non è un esercizio mentale, e non ha assolutamente nulla a che farecon la capacità di superare un esame. La capacità di recitare non è l’a-

    [ 21 ]

    46. Ivi, p. 185, dove pure si legge: «Il compito, ovvero ciò che il personaggio si pro-pone, spinge l’attore a compiere un’Azione che di solito si esplica in un’attività psi-

    chica e fisica tesa alla realizzazione del compito».47. Infra, p. 270.

    48. Cfr «Il sistema delle prove», infra, pp. 266-68. In proposito bisogna dire che se ilprimo Stanislavskij credeva in ripetute e lunghissime prove, intorno agli anni Trentafinisce con il trovarsi d’accordo con Nemirovič-Dančenko nel ritenere che: «Le mi-nuziose analisi critiche condotte intorno al tavolo, anziché costituire una solida basecapace di sostenere e di ispirare il lavoro degli interpreti, rischiavano, in molti casi,di diventare un pretesto che permetteva agli attori di rinviare l’effettivo lavoro sullamessa in scena» (Mel Gordon, Il sistema..., cit., p. 132).

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    bilità meccanica di amalgamare fra loro oasi emotive, di legarle insie-me come un filo di perle per creare una performance (come vorrebbeil Metodo). Non è neanche la padronanza della sintassi (come vuole ilmodello dell’oratoria accademica). La capacità di recitare è come l’a-

    bilità nello sport, che è un’attività fisica. E come per quel tipo di sfor-zo, la sua difficoltà consiste in larga parte nel fatto che è molto piùsemplice di quanto sembri. Come lo sport, lo studio della recitazioneconsiste principalmente nel non ostacolare se stessi e nell’imparare adaffrontare l’incertezza e a sentirsi a proprio agio nel disagio.49

    L’attore per Mamet non deve – e non può – rendere il testo cherappresenta «interessante» ma deve e può renderlo «veritiero». Per

    creare il suo personaggio l’attore deve attenersi a un unico dogma:«Non inventare nulla, non negare nulla».50 A rendere interessante ildramma ci deve avere già pensato il drammaturgo.

    In sostanza, Mamet non fa altro che affermare la priorità del te-sto così come l’autore l’ha concepito, e da qui viene il suo rifiuto delSistema così come del Metodo (strumenti per registi e attori più cheper «scrittori»). Il perché va ricercato nel fatto che Mamet è essen-zialmente un «drammaturgo». Un vero auteur, come si diceva in

    apertura, che difende con vigore nei suoi saggi e nelle sue lezioni l’i-dea del Teatro che ha studiato e che intende praticare. Un Teatro checerto sente minacciato ma che crede ancora possibile. Nello stile avolte «lamentoso» che Mamet adopera nel corso delle sue tratta-zioni teoriche, si ravvisa a tratti lo stesso spirito con cui Konrad Lo-renz, nel 1972, aveva scritto i discorsi su Gli otto peccati capitalidella nostra civiltà. Nelle pagine di questo saggio, che sono la tra-

    scrizione di un intervento radiofonico di Lorenz, aleggia un appa-rente pessimismo, nella schiettezza con cui Lorenz stigmatizza «ilcrollo morale e culturale che incombe sugli Stati Uniti»,51 cui si le-

    [ 22 ]

    49. Infra, p. 223.

    50. Infra, p. 240.

    51. Konrad Lorenz, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, Adelphi, Milano2002, p. 12.

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    gano le questioni della sovrappopolazione e dell’ideologia dello svi-luppo. Ma quanto più il richiamo è allarmato e pessimista, tanto piùsottende l’amore per ciò che si crede in pericolo e la concreta spe-ranza che con le proprie parole si possa contribuire a salvarlo. È inquesta direzione che si può leggere Mamet, la cui opera saggistica –per quanto riguarda il teatro – difende con nettezza e con amorel’integrità di quella drammaturgica, specchio di quella stessa «ci-viltà» che Lorenz sentiva minacciata.

    2. Un drammaturgo a Hollywood52

    Il Teatro dunque è il primo amore di Mamet, ma anche un amoredifficile da praticare. Il perché è lo stesso Mamet a spiegarlo:

    Oggi il Teatro può dare da vivere, bene che vada, in modo disconti-nuo. Anche a chi ha molto talento. Può darsi che ci venga nostalgia peri tempi in cui uno scrittore, un regista o un attore potevano vivere aNew York e lavorare anno dopo anno su del materiale stimolante e

    godere di una sicurezza economica. Nulla di tutto ciò è più possibile.Perciò il lavoratore del teatro è lacerato.53

    «Lacerato» perché attratto dall’atmosfera di assoluta libertàcreativa che aleggia negli ambienti teatrali,54 ma allo stesso tempo

    [ 23 ]

    52. È proprio Mamet a definirsi in questo modo, nel paragrafo omonimo di Note inmargine a una tovaglia (cit., pp. 104-9). In esso Mamet ci spiega cosa vuol dire per

    lui essere un drammaturgo: «il che significa che ho passato la maggior parte del tem-po della mia vita adulta seduto a parlare con me stesso e a trascrivere la conversa-zione» (ivi, p. 104).

    53. Ivi, p. 205.

    54. «C’è una gran quantità di talento nel teatro di questo Paese, nei piccoli teatri diChicago, Boston, New York, Louisville e soprattutto Seattle. Gli artisti del teatro so-no all’opera, in queste e in altre città. Recitano, disegnano scene e costumi, dirigono escrivono testi teatrali costantemente, e poiché vivono in un’atmosfera completamen-te libera dalle pressioni commerciali non hanno bisogno di imboscare le loro capacità

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    allettato dal mondo del cinema, a cui – a un certo punto della suacarriera – Mamet arriva passando per la porta principale. È Bob Ra-felson, nelle parole dello stesso Mamet, il suo «sponsor a Holly-wood», che nel 1981 lo coinvolge nella stesura della sceneggiaturadel Postino suona sempre due volte. L’anno successivo Mamet firmaquella del Verdetto di Sidney Lumet, che «è un testo esemplare del-la struttura in tre atti»,55 spiegata dallo stesso Mamet – in modo al-trettanto «esemplare» – in un capitolo dei Tre usi del coltello, attra-verso il racconto di una «partita perfetta».56

    Nel 1987, dopo essere stato definitivamente consacrato comesceneggiatore con Gli intoccabili (film diretto da Brian De Palma),

    Mamet firma la sua prima regia nella Casa dei giochi, del quale diràqualche anno dopo: «Magari non è niente di eccezionale, ma sicu-ramente è molto meglio di tanti film per la televisione».57

    Appena un anno dopo è già pronto il suo secondo film, Le cosecambiano, giocato sullo scambio tra un padrino accusato di omici-dio e un anziano calzolaio italo-americano che, data la straordina-ria somiglianza con il boss, accetta di prendere il suo posto per unabella somma di denaro.

    Di qui nel tempo Mamet non conosce soste: alterna la scrittura disceneggiature per film di altri58 alla regia dei propri, che nel tempo

    [ 24 ]

    togliendole dal mercato per alzare il prezzo, o di prostituirsi all’estetica commerciale;e così sviluppano le loro capacità, il loro punto di vista e il loro talento», ivi, p. 108.

    55. Ken Dancyger e Jeff Rush, Il cinema..., cit., p. 46.

    56. Infra, p. 49.

    57. Infra, p. 139. Se Mamet conserva negli anni un certo scetticismo nei confronti delcinema (a cui dedica comunque buona parte della sua attività), è decisamente piùnetto e unilaterale il rifiuto della televisione. Convinto com’è che solo il teatro possarappresentare una visione del mondo, scrive in proposito: «Visto che lo scopo del ci-nema è la rivelazione graduale dei genitali umani e quello della televisione è il soste-gno a svariate fabbriche di armi leggere del Connecticut, lo scopo del teatro non è al-tro che la produzione di senso» (David Mamet, Note in margine..., cit., p. 96).

    58. Da Non siamo angeli di Neil Jordan a Sesso e potere di Barry Levinson; da Hof-fa di Danny De Vito (dalla cui sceneggiatura Ken Englade ha tratto il romanzo omo-

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    cominciano ad avere un discreto riscontro di critica più che di pub-blico.59 Eppure, nonostante la sua attività sia ormai da tempo quasiesclusivamente assorbita dal grande schermo, Mamet continua anutrire una certa diffidenza nei confronti del cinema (che stenta aconsiderare arte, perché troppo simile a un’industria). La stessa dif-fidenza di un altro autore, ebreo e americano come lui, Woody Al-len che, in Italia per presentare il suo film Hollywood Ending , dice:

    Sono un regista newyorkese e sono molto critico nei confronti di Hol-lywood. Spendono un mare di soldi per girare film di scarsissima qua-lità. I film europei con cui sono cresciuto, invece, hanno contribuitonon poco allo sviluppo del cinema come arte. «Noi siamo l’industria

    del cinema», dicono, ed è proprio quel che sono. Non mi consideroparte dell’establishment hollywoodiano. Quella logica di fare quattri-ni a palate a me non interessa affatto.60

    Mamet non è meno duro: se da un lato sembra cercare un com-promesso con i produttori (che auspica siano almeno animati dauna «venalità creativa»,61 una forma cioè di compromesso che sap-pia coniugare le esigenze della produzione con la creatività e il ta-

    lento), dall’altro non usa mezze parole nei loro confronti. Si pensialla lunga e agguerrita nota di Dirigere un film:

    Quelli che si vantano di essere dei «produttori» non hanno mai bene-ficiato di un’esperienza di questo genere, e la loro arroganza non ha li-

    [ 25 ]

    nimo) a Vanya sulla 42a strada di Louis Malle; dall’Urlo dell’odio di Lee Tamahori aRonin di John Frankenheimer, passando per film – pur di successo – in cui Mametnon è neanche accreditato, come Sol levante di Philip Kaufman.

    59. Tra questi in particolare si segnala Homicide del 1991, che Guido Fink conside-ra «uno dei suoi film migliori, se non il migliore in assoluto» (Id., Non solo..., cit., p.241).

    60. Giuseppe Videtti, «Allen: “Io, artista fallito non amo il cinema Usa”», La Re- pubblica, 27 ottobre 2002, p. 38.

    61. David Mamet, Note in margine..., cit., p. 109.

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    miti. Sono come i proprietari di schiavi di tanto tempo fa, seduti sullaveranda con una bibita rinfrescante in mano a lamentarsi dell’innatapigrizia della razza negra. Al «produttore», che non ha mai avuto ache fare con le esigenze di questo mestiere, tutte le idee sembrano fon-

    damentalmente uguali, tranne il fatto che le sue hanno la priorità as-soluta, per il semplice motivo che le ha pensate lui. [...]Sono una persona molto orgogliosa e, suppongo, per certi versi anchearrogante. Nei miei continui scontri – dai quali esco in genere sconfit-to – con queste persone che si fanno chiamare «produttori», spesso miconsolo all’idea che se un giorno la nostra società dovesse arrivare altracollo, io sarò sempre in grado di procacciarmi da mangiare e dadormire mettendo in scena commedie per far ridere la gente, mentrequelli lì, per non morire di fame, dovranno aspettare che quelli come

    me si mettano al lavoro.Già, è così che vedo i «produttori». È un po’ come se stessero semprelì a dirti: «Lascia che ce la porti io la tua mucca alla fiera, figliolo».62

    A garantire a Mamet la «sopravvivenza» dunque, di là dalla suaintesa con i produttori, è la capacità di inventare e raccontare storie.Ed è proprio la storia – di nuovo, come nel teatro – il nucleo vivo delsuo lavoro creativo, una storia in cui cercare di infondere, indipen-

    dentemente da tutto, una propria verità, che potrebbe essere cor-rotta quando siano coinvolti anche altri nel rappresentarla (e nel ci-nema la dimensione «corale» è ben più vincolante che nel teatro, incui pure Mamet temeva che si potesse «rovinare il progetto deldrammaturgo»). Scrive ancora in Dirigere un film:

    Il mercato del cinema è incappato in una spirale di degenerazione per-ché è guidato da persone che per orientarsi non hanno nessuna busso-la. E la sola cosa che voi potete fare per contrastare questo movimen-to verso il basso è dire la verità. Ogni volta che qualcuno dice la verità,cresce la forza che contrasta questa tendenza.Non potete nascondere il vostro obiettivo. Nessuno può nasconderlo.La maggior parte dei film americani degli ultimi tempi sono banali,sciatti e osceni. Se il vostro obiettivo è avere successo nell’«industria»

    [ 26 ]

    62. Infra, pp. 154-55 n.

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    cinematografica, il vostro lavoro, e con esso la vostra anima, sarannoesposti a quelle influenze distruttive. Se cercate a tutti i costi di averel’approvazione di quell’industria, è molto probabile che anche voi fi-nirete per acquistare quelle caratteristiche. 63

    Il modo in cui Mamet cerca di evitare di «farne parte a tutti gli ef-fetti» è quello da un lato di dar voce, con la schiettezza che si tro-verà in molti saggi e in molte lezioni contenute in questo volume, al-le sue critiche spietate; e dall’altro di usare i fondi ricavati dalla rea-lizzazione di film più commerciali per produrne altri che da quelliprendano le distanze. In modo ironico, o addirittura parodico, co-

    me è il caso di Hollywood,Vermont – su cui conviene soffermarsi –in cui l’autore racconta le avventure rocambolesche di una compa-gnia hollywoodiana sul set di un film. L’iniziale location scelta dal-la produzione è nel New Hampshire, ma diverse ragioni spingonola troupe a spostarsi a Waterford, una cittadina del Vermont chesembra rispondere alle esigenze del copione. Potrebbe sembrare in-fatti del xix secolo (e il film prevede un’ambientazione ottocente-sca), ha una stazione dei vigili del fuoco (necessaria alla storia) e so-

    prattutto un antico mulino nel quale dovrebbe svolgersi una scenaimportante del film, per come l’ha concepita il suo sceneggiatore,

     Joe White (interpretato da Philip Seymour Hoffman). Una voltagiunti nella cittadina – completamente sconvolta dall’arrivo dei di-vi hollywoodiani – il regista e la sua compagnia si trovano di fron-te a uno scenario diverso da quello immaginato: il mulino, peresempio, non esiste più già dal 1960, perché distrutto da una serie

    di incendi sospetti. A questo punto la produzione deve scegliere seinvestire altri soldi per allestire il set così come richiesto dalla sce-neggiatura, oppure adeguare la sceneggiatura stessa allo scenarioche offre Waterford, dove ormai la compagnia si è insediata. Inuti-le suggerire quale soluzione viene adottata, se l’autore di questastoria è la stessa persona che anni prima aveva scritto: «Produzio-

    [ 27 ]

    63. Infra, pp. 169-70.

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    ne e production values sono parole in codice che stanno per abban-dono della storia».64 E in effetti nel film è il candido sceneggiatore(che non a caso si chiama White) a rimettersi al lavoro per non per-dere – pur tra mille travagli – l’opportunità di lavorare a Holly-wood. Contrariamente a quanto osservato a proposito dei testi tea-trali di Mamet, in questo film White rappresenta il contraltare pu-ro e moralmente incorrotto di una serie di personaggi senza scru-poli (come il produttore, certamente, ma anche, per esempio, il di-vo interpretato da Alec Baldwin, che ha una certa passione per leragazzine). Per una volta, dunque, un personaggio sembra rappre-sentare il punto di vista dell’autore e non è un caso che, dovendo

    scegliere fra ruoli che pure ne raccontano l’esperienza (come il regi-sta, per esempio), Mamet scelga come proprio portavoce lo scritto-re, riaffermando una volta di più quale è la sua vocazione principa-le, di là dai «mestieri» nell’ambito dello spettacolo che pure riescea svolgere con una certa maestria.65 Perché un autore che si sentissesoprattutto regista non potrebbe considerare il suo ruolo come:«un’estensione dionisiaca dello sceneggiatore, ovvero (cosa che pe-raltro dovrebbe sempre accadere) come colui che rifinisce il lavoro

    in modo tale da rendere invisibili le fatiche del lavoro tecnico».66 Epiù in generale non potrebbe ridurre il concetto di regia – che Ma-met conosce e pratica da molto tempo – alla semplice «elaborazio-ne dell’elenco delle inquadrature. Quello che farete poi sul set saràsemplicemente riprendere ciò che avete già scelto di riprendere. È il

     progetto che fa il film».67

    [ 28 ]

    64. David Mamet, Note in margine..., cit., p. 31-32.

    65. Nello spazio che Medusa (distributore italiano del film) ha riservato a Holly-wood, Vermont sul suo sito internet, in concomitanza con la sua uscita italiana, sitrovava in proposito questa dichiarazione di Mamet: «Ho utilizzato molte delle mieavventure di Hollywood per i personaggi del film. Alcune delle mie esperienze da re-gista sono confluite nel personaggio di Walt Price, come le mie avventure di autore,per un certo verso, hanno arricchito lo sceneggiatore Joe White».

    66. Infra, p. 111.

    67. Infra, p. 115.

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    Una volta che avete capito queste cose, andate a girare il film. Trove-rete qualcuno che sa come si usa la cinepresa, oppure imparate a farlovoi; troverete un tecnico delle luci, oppure imparate voi a fare l’illu-minazione. Non c’è nessuna magia in questo. Ci sono persone che san-

    no fare alcune cose meglio di altre, a seconda del loro grado di com-petenza tecnica e della loro particolare attitudine a quella mansione.È come suonare il pianoforte. In teoria tutti possono imparare a suo-nare il piano. Per alcuni può essere molto, molto difficile, ma poi allafine ce la fanno. Non esiste quasi nessuno che non riesca a imparare.In mezzo c’è una larghissima fascia di gente che sa suonare il piano avari livelli di bravura; e in cima c’è una quantità molto, molto ridottadi persone che suonano in maniera straordinaria e che a partire da unasemplice abilità tecnica riescono a creare vera arte. Lo stesso vale per

    la fotografia e per il missaggio del suono. Sono solo abilità tecniche.Fare il regista non è altro che un’abilità tecnica. Dovete solo saper fa-re un elenco delle inquadrature.68

    Di nuovo uno dei «mestieri» dello spettacolo, la regia (così comela recitazione in Vero e falso), sembra ridursi a una semplice «abilitàtecnica», quasi che l’arte risieda soltanto nella storia e nelle battutedei dialoghi (che certo, anche nel cinema di Mamet, hanno la stessa

    efficacia e lo stesso ritmo di quelli teatrali).69 Ma le cose stanno di-versamente, e non solo perché Mamet – come forse si è ormai capi-to e come si capirà tanto più nella lettura dei suoi saggi – può ribal-tare in ogni momento il senso delle proprie affermazioni; ma perchénel suo attacco c’è solo una forma di difesa.70 La difesa della veritàche cerca di infondere in ogni sua storia e che sente minacciata daquello show business contro il quale si scaglia con ferocia e senza

    mezze misure e che pure gli dà da vivere; e che infine lo attrae, come

    [ 29 ]

    68. Infra, p. 180.

    69. In proposito va detto come nei saggi di Mamet – in cui pure, in più di un’occasio-ne, l’autore rende omaggio al maestro Ejzenštejn – persino la teoria del montaggio vie-ne ridotta a un semplice espediente tecnico (la giustapposizione di due inquadratureche ne suggeriscono una terza) per aiutare il regista a perseguire «il senso della scena».

    70. Ma anche di stimolo alla riflessione personale, che cerca sempre di provocare ilMamet docente dal piglio maieutico nelle sue lezioni sulla regia.

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    un enorme luna park sfavillante. Non a caso, nel chiudere il suo in-tervento «Un drammaturgo a Hollywood», Mamet scrive:

    Personalmente, ho tratto profitto in molti modi dal mio soggiorno a

    Hollywood. Sto per rimettermi all’opera su un nuovo testo teatralecon, lo ammetto, una labile traccia dell’assurda ingenuità del tedescoche disse: «Chi l’avrebbe mai detto? Pensavo fossero semplici cam-peggi estivi»; e non vedo l’ora di fare un altro film.71

    D’altra parte che l’atmosfera del set attragga Mamet in modo ir-resistibile si capisce dalla passione e dal trasporto con cui ricorda igiorni passati insieme alla ex moglie Lindsay Crouse,72 durante le ri-

    prese di Iceman (1984), nel lungo racconto «Osservazioni di unamoglie dietro le quinte» contenuto in Note in margine a una tova- glia.73 In queste pagine, Mamet spiega molto bene come il gruppoche costituisce la compagnia finisce per essere una vera e propria fa-miglia, produttori compresi. D’altra parte, l’attrice Patti LuPone –premiata con un Tony Award per la sua interpretazione in Holly-wood,Vermont – ha definito questo film: «Un’affettuosa condannadel mondo del cinema suscitata proprio dal nostro amore per il

    mondo dello spettacolo. Ritrarlo in questo modo è per noi un tribu-to d’amore».74 E il senso di questo amore – quale che possa essere lacritica nei confronti dell’ambiente che lo ispira – è chiaro nella bat-tuta con cui Mamet fa chiudere ad Alec Baldwin Hollywood, Ver-mont : «Il cinema? Sempre meglio che andare a lavorare». Perché ilcinema – pur con i suoi metodi industriali – rimane sempre un’arte,nel modo in cui l’intende Mamet. E per lui l’arte ha fra i suoi scopi

    principali – lo abbiamo già ricordato – quello di «allietare». I suoifruitori, certamente. Ma anche chi la pratica in modo militante.

    [ 30 ]

    71. David Mamet, Note in margine..., cit., p. 109.

    72. Interprete dei primi film di Mamet, così come la seconda moglie, Rebecca Pid-geon, è la protagonista degli ultimi.

    73. Ivi, pp. 185-209.

    74. Nel sito Medusa.

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    NOTA INTRODUTTIVA

    di Gino Ventriglia

    1.

    Gli scritti presentati in questo volume, che escono ora per la primavolta in traduzione italiana, appartengono alla vasta produzione teo-rica di David Mamet e riuniscono in un unico libro tre «pezzi» ap-parsi in diverse raccolte: I tre usi del coltello, un saggio sulla dram-maturgia (teatrale e cinematografica); Dirigere un film, le sue lezionisulla regia cinematografica; Vero e falso, infine, un saggio sull’artedella recitazione. Lo scopo è offrire ai lettori italiani una panoramica

    sulle riflessioni di Mamet intorno ai vari aspetti della propria arte.Chi da questi scritti si aspettasse una trattazione sistematica ri-marrebbe deluso: il ragionare di Mamet non è di carattere manuali-stico. È piuttosto la conduzione, attraverso metafore spesso fulmi-nanti, binomi oppositivi, talvolta paradossi e boutades, di una seriedi «affondo» sui fondamenti stessi degli oggetti d’osservazione. Èun metodo che si dispiega per suggestioni più che per un argomen-tare sistematico ed esaustivo.

    [ 31 ]

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    David Mamet appartiene a quella categoria di creatori, piuttostorara, che resiste a una classificazione facile e immediata. Basta dareuna semplice scorsa ai titoli che ha prodotto in oltre trent’anni di at-tività per avere la percezione chiara di quanto sia complesso il per-sonaggio: il suo è un talento di scrittura decisamente prolifico, chespazia dalle pièce teatrali alle sceneggiature per la televisione e il ci-nema, dai saggi teorici alle memorie autobiografiche, dalle riflessio-ni sparse ai romanzi, dai racconti brevi alle storie per bambini.

    Questa capacità straordinaria di muoversi agilmente e con suc-cesso in campi e generi affini ma diversi lo colloca in una posizionechiave, facendone una figura dalla cui opera è difficile prescindere –

    i «dialoghi alla Mamet» (il Mametspeak), i «meccanismi alla Ma-met», le «situazioni alla Mamet» – e, al tempo stesso, una sorta diapolide dell’espressività artistica.1

    2.

    Come spesso accade con i suoi lavori per il palco o per lo schermo,

    l’effetto che la lettura di questi tre scritti produce nel lettore è di sti-molare una sorta di cortocircuiti, vere e proprie illuminazioni,squarci rivelatori nella comprensione di una categoria – dramma-turgica, estetica, etica – che si delinea con nettezza perché propostada un’angolazione diversa e obbliga a riconsiderare il senso profon-do della pièce o del film, o del saggio, come nel nostro caso, al di làdi quanto viene affermato o «messo in scena».

    [ 32 ]

    1. L’identità di David Mamet è ormai così chiaramente impressa nella sua opera ci-nematografica che riesce difficile disgiungere i vari piani – scrittore, produttore, re-gista – e metterli poi in relazione con l’altro David Mamet, il commediografo e il teo-rico dello spazio e della parola. Eppure pochi in Europa accettano ancora di confe-rirgli lo status dell’artista di cinema, accreditandolo di una teatralità, di una voca-zione spuria e marginale che ne fa, al meglio, il Pinter degli Stati Uniti e della sua ge-nerazione. («David Mamet», di Giorgio Gosetti, in Hollywood 2000, Microart’sEdizioni, Genova 2001, p. 203.)

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    Mamet rifugge dalle semplificazioni e, perciò, è alla permanentericerca della semplicità. La regola del «bacio» (k.i.s.s.: Keep It Sim-

     ple, Stupid ) è la stella polare della sua scrittura, drammaturgica enon: ma semplicità non è sinonimo di linearità, anzi. Ricorrendo al-la fortunata categoria di Charles Mauron, una delle sue «metaforeossessive» – quegli elementi di poetica e di estetica ricorrenti e rive-latori nell’opera di un autore – è quella che potremmo definire la«poetica del doppio fondo». Per Mamet la realtà percepita nonsempre è veritiera: al contrario, spesso nasconde una seconda, di-versa verità, che a uno sguardo ancora più approfondito rivelaun’ulteriore, ancora diversa, verità, in un rincorrersi e una mise en

    abîme del concetto stesso di verità.Il tema della doppiezza, del doppio, è radicato nella cinemato-grafia hollywoodiana, soprattutto in quella di matrice ebraica.2 Nelcaso di Mamet, il tema del doppio si espande dall’interno dell’indi-viduo, dalla sua identità, fino a comprendere la realtà tutta, il mon-do esterno incardinato sull’eterno gioco dell’apparire e dell’essere.Ritroviamo così nelle sue opere la declinazione di tutti i tipi di dop-piezza: trappole per la mente, trappole per l’anima. Una sorta di

    marchio di fabbrica. Scatole cinesi, trompe-l’œil , labirinti, diffiden-ze, menzogne, truffe, inganni, manipolazioni, corruzioni, tradi-menti, scarti prospettici, giochi di specchi, illusioni e delusioni: laverità è qualcosa che continua a sfuggire, che può anche svelarsi perun tratto, ma poi, non appena fissata come definitiva, rivelarsi co-me ennesima falsa verità, in un movimento che obbliga a un inces-sante lavorìo d’interpretazione e ribaltamento degli stessi criteri di

    giudizio. La «verità vera» è sempre già altrove, sfugge: come nelle

    [ 33 ]

    2. «Quello del rapporto tra l’ebreo e la sua ombra, quella shadow che Jackie-Jack [ilprotagonista di Il cantante di jazz – il primo film sonoro – che metteva in scena unebreo che si tingeva il viso col nerofumo per cantare a Broadway, n.d.a.] scopre nel-lo specchio, e noi spettatori vediamo sullo schermo, in una geniale raffigurazione diquel tema del doppio che dalle origini del cinema yiddish a Woody Allen, domineràl’immaginario del cosiddetto “cinema ebraico”». (Guido Fink, «Gli ebrei e il cinemaamericano», in Storia del cinema mondiale, Einaudi 2000, p. 1253.)

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    fughe architettoniche o nell’immagine riflessa in due specchi messidi fronte.

    3.

    Ifilm La casa dei giochi, Le cose cambiano, Wag the dog-Sesso e po-tere, La formula, Heist-Il colpo – da Mamet scritti e/o diretti – met-tono tutti in scena variazioni del «doppio», riproposto su vari pianie livelli. Nel continuo inseguimento di ciò che è irraggiungibile, Ma-met concepisce la parola e il linguaggio come gli strumenti principi

    per accedere alla verità, o meglio, al suo stadio successivo: un «viag-gio» che non si conclude mai una volta per tutte.Il verdetto (1982) è la seconda sceneggiatura che Mamet scrisse

    per il cinema (la prima era stata Il postino suona sempre due voltedi Bob Rafelson), ed è oggi riconosciuta come un vero e proprioclassico della scrittura cinematografica. La storia della realizzazio-ne di questo capolavoro, però, fu particolarmente tormentata.

    David Mamet fece il primo trattamento del Verdetto. Una grande

    star mostrò interesse per il film, ma disse che il suo personaggio do-veva diventare più corposo. Il che spesso significa spiegare quelloche non dovrebbe venir detto, una variazione del pupazzetto digomma. L’interpretazione dovrebbe dar corpo al personaggio. EMamet gioca molto sul non detto; vuole che sia l’attore a dar corpoal personaggio. Infatti si rifiutò di cambiare il copione. Fu chiamataun’altra sceneggiatrice. Una sceneggiatrice molto intelligente che

    riempì semplicemente quello che non veniva detto nella sceneggia-tura di Mamet e prese un compenso molto alto.La sceneggiatura venne rovinata. A quel punto, la star propose di

    sistemarla con un terzo sceneggiatore. In tutto, furono fatte cinquestesure. La cifra stanziata per la sceneggiatura del film ammontavagià a un milione di dollari. E la sceneggiatura continuava a peggio-rare. La star stava lentamente spostando tutta l’enfasi sul suo perso-naggio. Mamet aveva scritto di un ubriacone che tocca il fondo di

    [ 34 ]

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    una vita dissipata, finché un giorno intravede un’occasione di sal-vezza e, pieno di timore, l’afferra. La star continuava a eliminare ilati sgradevoli del personaggio, cercando di renderlo più amabile,così che il pubblico potesse «identificarsi». Racconta Sidney Lumet,il regista del film: «Quando ricevetti un’ennesima versione del Ver-detto, andai a rileggermi quella che Mamet mi aveva dato mesi pri-ma. Dissi che avrei fatto il film solo con quella sceneggiatura. E cosìfacemmo. Paul Newman la lesse e ci mettemmo di corsa all’opera».3

    Abbiamo riportato questo passo perché vi è raccontata una dellechiavi per afferrare la natura del talento di Mamet – quello che pe-raltro lo ha reso più celebre: la sua non è solo l’abilità di cogliere la

    vividezza del linguaggio quotidiano, la sua frammentarietà, la ger-galità dello street-talking , quella «imprecisione» fatta di giri, di ri-petizioni, di rimbalzi, di afasie. Ci troveremmo certo di fronte a unagrande capacità, ma solo di natura tecnica e mimetica, utile al mas-simo per conseguire qualche maggiore effetto di realismo. No: il suotalento è quello di far funzionare quel linguaggio, per sua natura ap-prossimativo, come potentissimo strumento espressivo e insiemecognitivo. Quel dialogato inesatto, insistito, avvitato, apparente-

    mente ozioso, è il grimaldello che permette di lacerare il velo che na-sconde il senso, di svelare i pensieri, i sentimenti, le intenzioni deisuoi personaggi. Con fatica, per vie traverse, la verità del personag-gio affiora nonostante le sue parole, nelle pieghe di senso delle sueparole, negli espedienti verbali che sfoggia nel tentativo di tratte-nerla – primo tra questi il turpiloquio, specchietto per le allodole; e,inevitabilmente, quelle parole finiscono invece per tradire il perso-

    naggio e svelarne la verità. Resa migliore della categoria di «sotto-testo» è difficile da trovare.

    aaronow: (...) I mean are you actually talking about this, or are wejust...moss: No, we’re just...

    [ 35 ]

    3. Sidney Lumet, Fare un film, Pratiche Editrice, Parma 1995, pp. 40-41.

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    aaronow: We’re just «talking» about it.moss: We’re just speaking about it. (Pause) As an idea.aaronow: As an idea.moss: Yes.

    aaronow: We’re not actually talking about it.moss: No.4

    Lo scambio è tratto da Glengarry Glen Ross, opera teatrale diMamet forse più nota al pubblico italiano nella sua versione cine-matografica, Americani, interpretata da Jack Lemmon e Al Pacino.Il brano è emblematico su due piani: da un lato, ci dà la costruzione

    di un tipico Mametspeak, un dialogo alla Mamet – tre o quattro pa-role (in questo caso: talking , just , idea, yes/no) ripetute in frasi laco-niche o tronche, appena variate, «slittate», che rendono conto del-lo scarto tra il dire e il fare, tra la parola puramente speculativa, ipo-tetica, e la parola finalizzata all’azione: che rivelano l’intenzione delpersonaggio di compiere l’azione nel momento stesso in cui nega divolerlo fare. Dall’altro lato, mostra in miniatura la tecnica dell’hold up spesso usata da Mamet: cioè del «trattenimento» di quell’even-

    to-fantasma continuamente evocato nelle battute, intorno a cuiruota tutta la pièce, e che non è mai avvenuto – lo stupro in Olean-na – o che non avverrà mai – il furto in American Buffalo.

    4.

    Attraverso l’incessante lavorìo di ricerca della verità, le considera-zioni contenute in queste pagine – in particolare quelle «sulla natu-ra e lo scopo del dramma», sviluppate per la scrittura sia di teatro

    [ 36 ]

    4. «Sì. Cioè, gliene hai parlato o ne stai solo...» «No, ne sto solo...» «Ne stai solo par-lando». «Sì, ne parliamo e basta. (Pausa) Un’idea». «Un’idea». «Sì». «Non è che par-liamo come per farlo». «No» (David, Mamet, «Glengarry Glen Ross» in Teatro...,cit., p. 128).

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    sia di cinema – si spingono ben oltre, e da Mamet non ci si potrebbeaspettare nulla di meno. Si spingono fino a domandarsi quale sia loscopo dell’arte tutta, la sua ragione di esistere.

    «Lo scopo dell’arte non è cambiare ma allietare. Non ritengo cheil suo scopo sia illuminarci. Non ritengo che sia cambiarci. Non ri-tengo che sia istruirci»,5 dice l’autore, pur consapevole che le cosenon sono poi così facili: «La vita non è semplice, la verità non è sem-plice, la vera arte non è semplice. La vera arte è profonda e intricatae varia quanto le menti e le anime degli esseri umani che la creano».6

    In cosa consiste questo «allietare»? «Essi [gli artisti] sono spintiad alleggerire il peso dell’insopportabile disuguaglianza tra la loro

    mente conscia e inconscia, e a raggiungere così l’armonia».7

    È quiarduo il suo tentativo di recupero di Brecht,8 di cui si può dire chetutto cercava fuorché l’appeasement del pubblico: per Mamet, ilpubblico non vuole essere risvegliato alla coscienza: «Il pubblicovuole essere incuriosito, fuorviato, talvolta deluso, in modo da po-ter essere alla fine appagato».9

    L’effetto catartico rifiutato nei «falsi drammi» rispunta qui comeappeasement e «appagamento». Il vero e il falso, l’autentico e il fa-

    sullo, costituiscono i termini, etici ed estetici, entro cui si dipana laconcezione di Mamet. La sua critica alla pseudo-arte dei «falsidrammi» – in particolare i «drammi a tesi», che trattano le questio-ni di attualità sociale, e i «campioni d’incasso estivi», quelli tuttaazione ed effetti speciali – segna però la differenza: «La gente è atti-rata dai campioni d’incasso estivi perché non sono soddisfacenti – eoffrono così l’opportunità di reiterare la compulsione».10 Ciò che i

    [ 37 ]

    5. Infra, p. 65.

    6. Infra, p. 79.

    7. Infra, p. 80.

    8. Infra, p. 78.

    9. Infra, p. 70.

    10. Infra, p. 79.

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    falsi drammi producono non è appeasement ma mera euforia con-solatoria, laddove «il vero dramma, e specialmente la tragedia, ri-chiede invece che il protagonista eserciti la volontà, che crei, di fron-te a noi, sul palcoscenico, il suo stesso carattere, la forza di conti-nuare».11 Una tale distinzione diventa più chiara quando Mametsintetizza, in toni corrosivi e vagamente apocalittici, alcune tenden-ze di Hollywood e della televisione: «L’arte, che esiste per portarearmonia, diventa intrattenimento, che esiste per distrarre, e sta di-ventando totalitarismo, che esiste per censurare e controllare».12

    È evidente che per Mamet «la struttura drammatica non è un’in-venzione arbitraria, non è nemmeno un’invenzione conscia. È una

    codificazione organica del meccanismo umano di sistemazione del-le informazioni».13 In questo senso, sono estremamente stimolanti ipassaggi sulle tecniche di sceneggiatura: dal montage come mezzoper eliminare la «digressione», che la drammaturgia per sua naturamal sopporta, alla costruzione del protagonista, definito come l’e-roe che deve creare sul palco la forza di continuare. Amleto, Ulisse,Otello, Edipo: «La forza di questi eroi proviene dalla facoltà di resi-stere»14 e, in una lettura rubata al secondo libro del De Rerum Na-

    tura di Lucrezio: «Possiamo esercitare le nostre abilità di sopravvi-venza, anticipare il protagonista, provare una paura indiretta sa-pendoci al sicuro».15

    Mamet non è un regista visionario. Lui stesso ne è cosciente: «Cisono registi che sono anche dei veri e propri maestri dell’immagine,che infondono nei loro film una grande acutezza di visione, una sen-sibilità visiva davvero geniale. Io non sono uno di quelli».16 Natu-

    [ 38 ]

    11. Infra, p. 75.

    12. Infra, p. 82.

    13. Infra, p. 96.

    14. Infra, p. 57.

    15. Infra, p. 68.

    16. Infra, p. 176.

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    ralmente, qui gioca la sua nascita come drammaturgo e regista tea-trale, e sarebbe fuori luogo aspettarsi da Mamet un cinema di lin-guaggio visuale. È però estremamente consapevole delle peculiaritàdel mezzo cinematografico: pur senza appropriarsi del linguaggiocinematografico per come si è storicamente evoluto, Mamet sa cheil regista, ma a questo punto il drammaturgo, nell’elaborare il de-sign del film, non può affidarsi all’immagine in sé, bensì al montag-gio come lo concepisce Ejzenštejn, ossia alla giustapposizione di im-magini «neutre», «non enfatizzate», non significanti in sé e per sé,ma che, montate, producono nella mente dello spettatore un signi-ficato «altro», il senso che traspare. Da questo punto di vista, è ec-

    cellente il lavoro che riesce a improvvisare con gli allievi per la mes-sa a punto di una scena, individuandone le sequenze come segmen-ti necessari alla produzione del senso che determina la scena stessa.

    Le sue lezioni sono un ottimo esempio del processo di creazioneche uno sceneggiatore mette in opera quando immagina e scrive in-corporando il punto di vista del regista – concepire la scena in fun-zione della realizzazione cinematografica. Mamet si rivela maestronella capacità di individuare un livello di pertinenza drammaturgi-

    ca, e procedere senza mai deflettere dal senso della scena e della se-quenza, senza cedere alle immagini stereotipate o agli slittamenti disenso. La progressione drammatica è data dalla successione di im-magini, in termini visuali: ma non è un semplice dare informazioniallo spettatore, quanto piuttosto raccontare «quella sequenza es-senziale di avvenimenti che separano l’eroe dal conseguimento delsuo scopo».17

    L’estetica minimalista, essenzialista, di Mamet rifugge la bella im-magine o la soluzione «carina»: è lui stesso a citare Hemingway:«Scrivi la storia, elimina tutte le belle frasi e vedi se funziona anco-ra».18 Allo stesso modo, seguendo una logica di sottrazione, rifiutadi suggerire all’attore qualsiasi indicazione modale: non è su come

    [ 39 ]

    17. Infra, p. 110.

    18. Infra, p. 110.

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    l’attore esprimerà un’emozione, su come darà una battuta, che lastoria deve fare affidamento per essere raccontata o, meglio, dram-matizzata. Qui diventa tagliente la critica di Mamet al Metodo at-toriale, quello di matrice strasberghiana e, per altri versi, stanislav-skiana, che ha bisogno di comprendere le «motivazioni» del suopersonaggio, di conoscere ogni possibile dettaglio del suo «retro-scena». Contro il Metodo, la scelta di Mamet è per l’attore che vie-ne definito «fisico» o «tecnico»: «La recitazione dovrebbe essere l’e-secuzione delle sole azioni fisiche che la sceneggiatura richiede».19

    D’altra parte, già dalle prime pagine di Vero e falso, Mamet esponein maniera drastica la sua posizione «Non esiste nessun personag-

    gio. Esistono solo delle battute su una pagina».20

    Per quanto possaessere un punto di vista opinabile, a questo punto dovrebbe esserchiaro il perché.

    Mamet è un drammaturgo rigoroso e coerente: inoltre, sa benequanto, negli imprevedibili percorsi dalla pagina al palco o alloschermo, una scena possa facilmente cambiare di senso. Basta unniente: una sfumatura nella battuta, un tono, un gesto – e il sensodella scena è distorto, o peggio, tradito. Perciò non può lasciare nul-

    la alla contingenza: il suo testo deve contenere, in sé, il meccanismodi coinvolgimento del pubblico. Non ci deve essere nulla di aggiun-tivo alla pagina scritta. Nulla al di fuori di un’interpretazione «nonenfatizzata». «Siete voi che raccontate la storia. Non lasciate che siail protagonista a farlo al vostro posto. Siete voi che raccontate lastoria e voi che dirigete il film. Non c’è bisogno di andar dietro alprotagonista. E non c’è bisogno di delineare il suo “personaggio”. E

    non ci serve nessun “retroscena”».

    21

    A questo punto, non resta che tuffarsi nelle fluide pagine di Ma-met, godersele per come sono scritte e cercare di afferrarne la verità:o, almeno, una verità provvisoria.

    [ 40 ]

    19. Infra, p. 172.

    20. Infra, p. 215.

    21. Infra, p. 131.

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    I tre usi del coltello

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    Prima parteI tre usi del coltello

    La natura e lo scopo del dramma

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    Questo libro è dedicato a Michael Feingold 

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    1. IL FATTORE DI RAFFREDDAMENTO DEL VENTO

    Drammatizzare fa parte della nostra natura. Almeno una volta algiorno reinterpretiamo il tempo meteorologico – un fenomeno es-

    senzialmente impersonale – rendendolo un’espressione del nostroattuale punto di vista sull’universo: «Magnifico. Sta piovendo. Pro-prio oggi che mi sento giù di corda. Sempre la stessa storia, non èvero?»

    Oppure diciamo: «Non ricordo di aver mai sentito un freddo si-mile», per creare un legame con i nostri coetanei. Oppure diciamo:«Quando ero ragazzo gli inverni erano più lunghi», per godere di

    uno dei piaceri dell’invecchiamento.Il tempo è impersonale, ma noi lo intendiamo e insieme lo sfrut-tiamo come elemento drammatico, cioè provvisto di una sorta ditrama, allo scopo di comprendere il suo significato per il protagoni-sta, vale a dire per noi stessi.

    Drammatizziamo il tempo, il traffico e altri fenomeni impersona-li utilizzando l’esagerazione, l’accostamento ironico, l’inversione,la proiezione, tutti gli strumenti impiegati dal drammaturgo per

    [ 47 ]

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    creare fenomeni significativi dal punto di vista emotivo, e dallo psi-canalista per interpretarli.

    Drammatizziamo una vicenda prendendo gli eventi e riorganiz-zandoli, prolungandoli, condensandoli, in modo da comprendere ilsignificato personale che essi hanno per noi: per noi in quanto pro-tagonisti del dramma individuale che riteniamo sia la nostra vita.

    Se dite: «Oggi ho aspettato l’autobus alla fermata», probabilmen-te la frase non avrà nessun valore drammatico. Se dite: «Oggi allafermata ho aspettato l’autobus un sacco di tempo», magari ne avràun po’ di più. Se diceste: «L’autobus oggi è passato subito», l’episo-dio non risulterebbe drammatico (e non ci sarebbe davvero motivo

    di raccontarlo). Ma potremmo dire: «Sapete quanto ci ha messo adarrivare l’autobus oggi?»... ed ecco che di colpo stiamo prendendogli eventi della vita e lavorandoci sopra con strumenti drammatici.

    «Oggi ho aspettato l’autobus per mezz’ora» è un’affermazionedrammatica. Significa: «Ho aspettato un lasso di tempo sufficienteper essere sicuro che tu capisca che è stato troppo a lungo».

    (E questa è una sottile distinzione, poiché colui che parla non puòscegliere un lasso di tempo troppo breve se vuol essere certo che l’a-

    scoltatore afferri il concetto, né troppo lungo perché l’ascoltatore loaccetti come verosimile, dato che a quel punto non si tratterebbe piùdi dramma ma di farsa. Così il proto-drammaturgo sceglie incon-sciamente, e in modo esemplare, come è nella nostra natura, la quan-tità di tempo che permetta all’ascoltatore di sospendere la sua incre-dulità, di accettare che l’attesa di mezz’ora non sia al di fuori delcampo delle probabilità, pur rientrando nei parametri dell’insolito.

    L’ascoltatore pertanto accetta l’affermazione per il divertimento cheoffre, e una commedia minuscola ma perfettamente riconoscibile inquanto tale è stata messa in scena e apprezzata dal pubblico.)

    «Questa è solo la terza volta nella storia della National FootballLeague che un esordiente prima richiamato in panchina per quelloche sembrava un infortunio serio sia tornato a correre per più dicento iarde in una partita post-season».

    Questa statistica della nfl, come l’attesa dell’autobus, prende

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    l’ordinario e lo presenta in maniera tale che possa offrire un godi-mento drammatico. L’esclamazione «Che corsa!» viene affiancata aun dato statistico per permetterci di assaporarla meglio/più a lun-go/in modo diverso. A quella corsa viene assegnato il valore dram-matico dell’incontrovertibile.

    Prendiamo le utilissime espressioni «fai sempre» e «non fai mai»una certa cosa. Grazie ad esse riformuliamo qualcosa che non è an-cora definito rendendolo drammatico. Sfruttiamo la nostra affer-mazione e le diamo una forma drammatica, per ottenere un benefi-cio personale. Ad esempio, raggiungere un livello di trascendenza inuna discussione con il nostro partner, come nei casi di «fai sempre»

    e «non fai mai». Potremmo avviare una chiacchierata a cena con unsimpatico argomento di conversazione: «Oggi ho aspettato l’auto-bus per mezz’ora».

    In queste minuscole commedie noi rendiamo il generale e l’ordi-nario particolare e oggettivo, cioè parte di un universo che è procla-mato comprensibile dalla nostra stessa formulazione. Si tratta dibuona drammaturgia.

    La cattiva drammaturgia possiamo trovarla nelle chiacchiere dei

    politici che hanno pochissimo o nulla da dire. Essi degradano que-sto processo e parlano piuttosto di cose soggettive e nebulose: par-lano del Futuro. Parlano del Domani, parlano dello Stile America-no, della Nostra Missione, del Progresso, del Cambiamento.

    Questi sono termini volti a infiammare gli animi più o meno blan-damente (vogliono dire «Sorgi, popolo americano», oppure «Sorgie corri baldanzoso di qua e di là») e che fanno le veci del teatro. So-

    no meri segnaposti che scandiscono la progressione drammatica, ehanno una funzione simile a quella delle scene di sesso o di insegui-mento nei film-spazzatura: non sono collegati a nessun problemareale e sono inseriti come intrattenimenti modulari in una storia pri-va di contenuto.

    (Allo stesso modo, possiamo supporre che, poiché democratici erepubblicani reagiscono ai rispettivi orientamenti gridando «alloscandalo», i loro orientamenti siano essenzialmente identici.)

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    Possiamo vedere all’opera il naturale impulso drammatico quan-do un giornale parla degli incassi di un film. Lo stimolo drammatico– il nostro impulso a strutturare causa ed effetto allo scopo di accre-scere la nostra scorta di conoscenza pratica dell’universo – è assentenel film in sé, ma emerge spontaneamente nella nostra presentazionedi un dramma in corso tra i film. Proprio come, una volta esaurito ilnostro interesse per Zeus, creiamo spontaneamente il pantheon.

    Qualcuno dice che la terra sta diventando più calda. No, dicequalcun altro, non è vero, e i tuoi sensi hanno torto. E così abbiamoil fattore del raffreddamento del vento. Dato che non possiamo al-lontanare la nostra preoccupazione per le mutazioni climatiche, la

    drammatizziamo, trasformando perfino quella misura che si po-trebbe ritenere meno personale e più scientifica, la temperatura,esattamente come drammatizziamo la nostra attesa alla fermatadell’autobus.

    Ho bisogno di sentirmi accusato a torto, così dico: «E per di piùquel maledetto autobus è passato con Mezz’Ora Di Ritardo!» Hobisogno di scacciare la preoccupazione, così dico: «Può darsi che latemperatura sia più alta del normale... ma, se consideriamo il fatto-

    re di raffreddamento dovuto al vento...»(Vorrei sottolineare che si tratta di un accorgimento drammatico

    piuttosto elegante, poiché il vento non soffia sempre alla stessa ve-locità, e il suo effetto può essere più o meno attenuato a seconda checi si trovi o no sulla sua traiettoria. Il «fattore» ci permette di so-spendere la nostra incredulità in nome del piacere che offre.)

    Quando i contenuti del film o le decisioni della legislatura non ci

    soddisfano (vale a dire, non placano la nostra preoccupazione, nonoffrono speranza), elaboriamo la loro arida azio