manuale della professione medica

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Manuale della professione medica

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Page 1: Manuale della professione medica

Manua

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Professione Med

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eontologia

Etica N

ormativa

e 23,50

Manuale della Professione Medica

Deontologia Etica Normativa

contiene CD-Rom

Page 2: Manuale della professione medica

Manuale della Professione Medica

Deontologia Etica Normativa

EDITOR IN CHIEF

Aldo PAgniPast President FNOMCeO

Sergio FucciGiurista e bioeticista, già consigliere presso la Corte d’Appello di Milano

Presentazione a cura di

PreSidente dellA FederAzione nAzionAle

degli ordini dei Medici-chirurghi e degli odontoiAtri

FnoMceoAMedeo BiAnco

Page 3: Manuale della professione medica

C.G. EDIZIONI MEDICO SCIENTIFICHE s.r.l.Via Candido Viberti, 7 - 10141 TORINOTel. 011.33.85.07 r.a. - Fax 011.38.52.750Sito Web: www.cgems.it - E-mail: [email protected]

Manuale della Professione Medica. Deontologia Etica NormativaVolume unico

© 2011 C.G. Edizioni Medico Scientifiche s.r.l. Tutti i diritti riservati. Questo libro è protetto da Copyright. Nessuna parte di esso può essere riprodotta, contenuta in un sistema di recupero o trasmessa in ogni forma con ogni mezzo meccanico, di fotocopia, incisione o altrimenti, senza il permesso scritto dell’Editore.

ISBN 978-88-7110-270-2

Realizzato in ItaliaDuplicazione Datatex - Torino

Page 4: Manuale della professione medica

EDITOR IN CHIEF

Aldo PAgniPast President FNOMCeO

Sergio FucciGiurista e bioeticista, già consigliere presso la Corte d’Appello di Milano

HANNO COLLABORATO

AleSSSAndro AliMontiDipartimento Ambiente e prevenzione primaria, Istituto Superiore di Sanità

giAncArlo AulizioPresidente OMCeO Forlì-Cesena

MAuro BArniProfessore Emerito di Medicina Legale, Università di Siena

PAolo BencioliniOrdinario di Medicina Legale, Università degli Studi di Padova

criStinA BoniFIMMG, Federazione Italiana Medici di Famiglia

Sergio BovengAPresidente OMCeO, Grosseto

FABio ceMBrAniDirettore Unità Operativa di Medicina Legale, Azienda provinciale per i Servizi Sanitari di Trento

FABio centiniAssociato di tossicologia forense, Università degli studi di Siena

luigi contePresidente OMCeO, Udine

SiMonA del vecchio Direttore S.C. Medicina Legale, ASL 1 Imperiese

vittorio FineSchiOrdinario di Medicina Legale, Università degli Studi di Foggia

Sergio FucciGiurista e bioeticista già consigliere presso la Corte d’Appello di Milano

WAlter gAttiDirettore portale web FNOMCeO

BArtoloMeo griFFAPresidente CAO, Torino

MArio grecoPubblicista, già Direttore FNOM Dirigente sup. ar. Min. Lavoro e P.S., Roma

AleSSAndro innocentiPresidente OMCeO, Sondrio

Bruno MAglionARicercatore presso la Sezione di Medicina Legale del Dipartimento di Anatomia Umana, Farmacologia e scienze medico-forensi, Università degli Studi di Parma

cArlo MAnFrediPresidente OMCeO, Massa Carrara

MASSiMo MArtelloniDirettore UO Medicina Legale AUSL 2, Lucca

PAtriziA MASciovecchioDirettore medico-legale, ASL L’Aquila

dAnielA MAtteiDipartimento Ambiente e prevenzione primaria, Istituto Superiore di Sanità

Hanno collaborato

Page 5: Manuale della professione medica

Manuale della Professione MedicaVI

giuSePPe MiSerottiPresidente OMCeO, Piacenza

giovAnni MorroccheSiDirigente OMCeO, Firenze

giAn-AriStide norelliOrdinario di Medicina Legale, Università degli Studi di Firenze

coSiMo nuMePresidente OMCeO, Taranto

AlBerto olivetiVice Presidente ENPAM e Medico di famiglia, Senigallia (AN)

AriStide PAciPresidente ONAOSIPresidente OMCeO, Terni

Federico PAgAno

FIMMG, Federazione Italiana Medici di Famiglia

Aldo PAgniPast President FNOMCeO

Antonio PAntiPresidente OMCeO, Firenze

chiArA rivielloSpecialista in Ginecologia e Ostetricia, Dipartimento di Anatomia Istologia e Medicina Legale, Università di Firenze

giovAnBAttiStA SiScASpecialista in Medicina dello Sport

elenA terroSi-vAgnoliDottore di Ricerca in Deontologia ed Etica Medica, Università di Siena

eMAnuelA turillAzziProfessore Medicina Associato Legale, Università di Foggia

Page 6: Manuale della professione medica

Indice

Riflessioni per una nuova deontologia Etica e deontologia 1 Il contributo della bioetica 4 L’attività medica tra doverosità e legittimità 8 Dovere di relazione e certezza di consenso 10 Il dovere d’informare 11 Segretezza e informativa 17 Il Codice di Deontologia 21 Il dovere dell’appropriatezza 24 Percorsi dell’appropriatezza 29 Conclusioni 29 Appendice: doveri legali di informativa 31

Capitolo 1 - L’Ordine professionale e il Codice deontologico 45 Art.1 Definizione 45 L’evoluzione nel corso del tempo della deontologia professionale 46 Il valore del Codice nell’ordinamento generale 49 L’uso delle norme deontologiche nella motivazione delle sentenze 50 Art. 2 Potestà e sanzioni disciplinari 52 Il potere disciplinare dell’Ordine e il suo esercizio 53 Il procedimento disciplinare 54 Rapporti tra l’Ordine professionale e le Aziende sanitarie in materia disciplinare 57 Art. 64 Doveri di collaborazione 58 Capitolo 2 - La responsabilità professionale 61 Introduzione al tema della responsabilità professionale per malpratica 61 Laresponsabilitàpenalepermalpratica–colpamedica.Definizione 64

Page 7: Manuale della professione medica

Manuale della Professione MedicaVIII

La responsabilità penale per malpratica – colpa medica. Casistica 70 La responsabilità penale per malpratica – nesso di causalità. Definizione e casistica 74 Il concorso di diverse condotte colpose e di più cause. La responsabilità penale nel lavoro in équipe 80 La responsabilità penale per intervento sanitario “arbitrario” 84 La responsabilità civile per malpratica. Definizione e contenuto 89 La responsabilità civile per malpratica – colpa e nesso di causalità 92 Cenni alla responsabilità della struttura sanitaria 94 Cenni alle problematiche assicurative in campo sanitario 96 La responsabilità davanti alla Corte dei Conti per “danno erariale” 98 Introduzione 98 Il concetto di dolo o colpa grave rilevante nel danno erariale 99 La responsabilità a carico del medico di medicina generale per “iperprescrizione” 100

Capitolo 3 - Doveri del medico e diritti del cittadino 103 Art. 3 Doveri del medico 103 Art. 4 Libertà e indipendenza della professione 105 Indipendenza ed autonomia nell’esercizio della professione all’interno delle strutture sanitarie o in convenzione 106 Art. 7 Limiti dell’attività professonale 108 Art. 20 Rispetto dei diritti del cittadino 108 Art. 28 Fiducia del cittadino 110 Art. 21 Competenza professionale 112 Art. 6 Qualità professionale e gestionale 116 Qualità gestionale 117 Qualità professionale 122

Art. 70 Qualità delle prestazioni 123 L’efficaciael’efficienzadelleprestazioni(faresolociòcheèutileachineha veramente bisogno) 124 L’efficienzael’appropriatezzaorganizzativa(utilizzarealmegliolerisorse disponibili) 124 Latempestivitàelacontinuitàdellecure(larispostagiustaalmomentogiusto: il paziente al centro della organizzazione) 126 L’accessibilitàel’equità(garantireagliutentiunaccessoequoalserviziodi cuihannobisogno) 126

Page 8: Manuale della professione medica

Indice IX

La soddisfazionedegliutenti(ascoltodell’utente) 127 Responsabilizzazioneemiglioramentocontinuodellaqualità(valutazione, monitoraggioeMCQ…chisifermaèperduto!) 127

Art. 14 Sicurezza del paziente e prevenzione del rischio clinico 128

Art. 33 Informazione al cittadino 130

Art. 34 Informazione a terzi 131

Art. 35 Acquisizione del consenso 134

Art. 37 Consenso del legale rappresentante 139

Art. 32 Doveri del medico nei confronti dei soggetti fragili 143

Art. 27 Libera scelta del medico e del luogo di cura 146

Capitolo 4 - Gli obblighi del medico 149

Art. 19 Aggiornamento e formazione professionale permanente 149

L’Ordine per la qualità della professione ed il ruolo dell’ECM 149

Art. 10 Segreto professionale 155

Art. 11 Riservatezza dei dati personali 156

Il dovere della riservatezza 156 Esercizio della medicina e tutela della riservatezza 156

Art. 12 Trattamento dei dati sensibili 167 La protezione dei dati sensibili 167 Normativa 167 Trattamento dei dati personali in ambito sanitario 168 L’informazione della persona assistita 169 Derogheammesse 171 Reclami alle ASL e qualità del SSN 172 Il trattamento dei dati genetici 175

Art. 51 Obblighi del medico 176

Art. 52 Tortura e trattamenti disumani 177

Art. 53 Rifiuto consapevole di nutrirsi 178

Art. 40 Donazione di organi, tessuti e cellule 179

Art. 41 Prelievo di organi e tessuti 179

Page 9: Manuale della professione medica

Manuale della Professione MedicaX

Capitolo 5 - Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 183 Art. 5 Educazione alla salute e rapporti con l’ambiente 183 Attenzione per l’ambiente e prevenzione della salute 183 Art. 8 Obbligo d’intervento 190 Art. 9 Calamità 191 Art. 36 Assistenza d’urgenza 191 Art. 74 Trattamento sanitario obbligatorio e denunce obbligatorie 192 La tutela della salute mentale 192 Fonti normative 192 Il Dipartimento di Salute Mentale 195 La profilassi delle malattie infettive 196 Lanotificadimalattiainfettiva 197 Provvedimenti sulle fonti di infezione 202 Vaccinazioni 220 Notifica delle malattie infettive e altre denunce sanitarie 229 Art. 75 Prevenzione, assistenza e cura della dipendenza da sostanze da abuso 234 Le tossicodipendenze 234 Aspetti generali 234 Definizionedi“stupefacente” 243 Definizioneditossicodipendenza 245 L’aspetto penalistico 249 Il trattamento medico dei tossicodipendenti 252 Tossicodipendenze e deontologia medica 254 Le comunità terapeutiche 255 Appunti su “tabagismo” e “alcolismo” 257 Il tabagismo 257 L’alcolismo 259 Capitolo 6 - Pubblicità e informazione sanitaria 263 Art. 55 Informazione sanitaria 263 Art. 56 Pubblicità dell’informazione sanitaria 263 Art. 57 Divieto di patrocinio 267 Allegato: Pubblicità dell’informazione sanitaria. Linea-guida inerente l’applicazione degli artt. 55-56-57 del Codice di Deontologia medica 270

Page 10: Manuale della professione medica

Indice XI

Capitolo 7 - Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 277 Art. 13 Prescrizione e trattamento terapeutico 277 Art. 23 Continuità delle cure 277 La prescrizione dei farmaci 278 La scelta terapeutica 278 Le attese del paziente 278 L’alleanza terapeutica 279 I condizionamenti del medico 279 La prescrizione delle cure primarie 280 Laconoscenzascientificacomebasedellaterapia 281 Efficienzafarmacologica,efficaciaclinica 283 Terapia ed EBM 284 La prescrizione tra linee-guida ed esigenze di personalizzazione 289 Il processo terapeutico 289 L’appropriatezza prescrittiva 295 Il medico come prescrittore pubblico 296 La terapia: una trama di arcaico e di nuovo 297 La prescrizione di farmaci on-label e off-label 299 Farmacovigilanza 300 Art. 22 Autonomia e responsabilità diagnostico-terapeutica 301 Art. 15 Pratiche non convenzionali 304 Art. 29 Fornitura di farmaci 306 Art. 30 Conflitto di interesse 306 Allegato: Conflitto d’interesse. Linea-guida inerente l’applicazione dell’art. 30 311 Art. 31 Comparaggio 314 L’interpretazione della Giurisprudenza sui rapporti “di confine” tra comparaggio e gli altri reati ipotizzabili a carico del medico 316

Capitolo 8 - La sperimentazione 319 Art. 47 Sperimentazione scientifica 319 Art. 48 Ricerca biomedica e sperimentazione sull’uomo 320 Art. 49 Sperimentazione clinica 322 Conflittod’interesse 324 Art. 50 Sperimentazione sull’animale 325

Page 11: Manuale della professione medica

Manuale della Professione MedicaXII

Capitolo 9 - La documentazione dell’attività medica 329 Art. 24 Certificazione 329 Art. 25 Documentazione clinica 329 Art. 26 Cartella clinica 334 La cartella clinica 334 Definizioneenormativa 334 Cartellaclinica:versounanuovadefinizione 335 IlDLgs318/1999,art.9punto4 337 Inquadramento giuridico 338 Cartella clinica e segreto professionale 341 Requisiti formali 342 Cartellaclinica:compilazione 342 Cartellaclinica:conservazione 349 Gliarchivi 349 La circolazione della cartella clinica 350 Gestione della documentazione sanitaria 352 Cartellaclinicaorientataperproblemi(CMOP) 356 Controllo di qualità e cartella clinica 358 Cartella clinica e responsabilità secondo il diritto vivente 360 La scheda di dimissione ospedaliera (SDO) 365 Il registro operatorio 368 La scheda sanitaria 370

Capitolo 10 - Assistenza al malato inguaribile 373 Art. 39 Assistenza al malato a prognosi infausta 373 Art. 16 Accanimento diagnostico-terapeutico 373 Art. 17 Eutanasia 373 Art. 18 Trattamenti che incidono sull’integrità psico-fisica 373 Art. 38 Autonomia del cittadino e direttive anticipate 374 L’assistenza al malato inguaribile: consentita e appropriata 376 Le scelte mediche: tra desistenza e accanimento 378 Il rifiuto del trattamento 380 Le direttive anticipate 382 Definizioni 384

Capitolo 11 - Sessualità e riproduzione 387 Art. 42 Informazione in materia di sessualità, riproduzione e contraccezione 387

Page 12: Manuale della professione medica

Indice XIII

La contraccezione e la sterilizzazione 387 La contraccezione 387 La sterilizzazione 389 Il transessualismo e il mutamento di sesso 391 Le procedure 392 Art. 43 Interruzione volontaria di gravidanza 394 L’interruzione volontaria di gravidanza 394 Le procedure della legge 194/1978 394 L’impiego della RU486: necessità di un aggiornamento normativo 400 La storia dell’aborto e dell’intercezione medica 400 RU486:meccanismodiazione 402 Evoluzionepoliticaitaliana,dall’indagineconoscitivadelSenatoallacompatibilità dellaRU486conlaleggen.194/1978 402 Art. 44 Fecondazione assistita 408 La procreazione medicalmente assistita 408 Art. 45 Interventi sul genoma umano 412 Art. 46 Test predittivi 414

Capitolo 12 - Rapporti con i colleghi 417 Art. 58 Rispetto reciproco 417 Art. 59 Rapporti con il medico curante 418 Art. 60 Consulenza e consulto 419 Art. 61 Supplenza 421 Art. 62 Attività medico-legale 421 Art. 63 Medicina fiscale 422 Capitolo 13 - Rapporti con il SSN e con enti pubblici e privati 431 Art. 54 Onorari professionali 431 Art. 65 Società tra professionisti 434 Art. 66 Rapporto con altre professioni sanitarie 436 Art. 67 Esercizio abusivo della professione e prestanomismo 438 Premessa 439 L’interdizione della professione come sanzione disciplinare 440 L’esercizio abusivo della professione come reato 441 Art. 68 Medico dipendente o convenzionato 442 Art. 69 Direzione sanitaria 444

Page 13: Manuale della professione medica

Manuale della Professione MedicaXIV

Capitolo 14 - Medicina dello sport 449 Art. 71 Accertamento della idoneità fisica 449 Art. 72 Idoneità - Valutazione medica 449 Art. 73 Doping 451 La legislazione 452 Capitolo 15 - La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 453 Il sistema previdenziale della Fondazione ENPAM 453 Solidarietà,sostenibilitàedequitàgenerazionale:laconvenienza per i futuri contribuenti 454 La contribuzione e le prestazioni dei Fondi 456 Il Fondo di Previdenza Generale 462 La composizione del Fondo 462 La contribuzione al Fondo “Quota A” 464 La contribuzione proporzionale al “Quota B” o Fondo della Libera Professione:requisiti 466 Le prestazioni del Fondo Generale 468 Pensione di invalidità assoluta e permanente 470 Pensione indiretta ai superstiti 470 Pensione di reversibilità ai superstiti 471 Restituzione dei contributi 471 Indennitàdimaternità,adozioneeaffidamentopreadottivo 472 Indennità di aborto 472 Prestazioniassistenzialiall’iscrittoeaisuoisuperstiti:FondoGenerale “Quota A” 473 Prestazioniassistenzialiaggiuntiveall’iscrittoeaisuoisuperstiti:Fondo Generale “Quota B” 474 Integrazione al trattamento minimo INPS 476 Maggiorazione della pensione per gli ex combattenti e loro superstiti 476 I riscatti nel Fondo 477 Il Fondo Speciale dei Medici di Medicina Generale 481 La composizione del Fondo 481 La contribuzione al Fondo 482 Le prestazioni del Fondo 483 I riscatti nel Fondo 488 Il Fondo Speciale degli Specialisti Ambulatoriali 493 La composizione del Fondo 493

Page 14: Manuale della professione medica

Indice XV

La contribuzione al Fondo 494 Le prestazioni del Fondo 494 I riscatti nel Fondo 499 Il Fondo Speciale degli Specialisti e degli Accreditati Esterni 501 La composizione del Fondo 501 La contribuzione al Fondo 502 Le prestazioni del Fondo 504 I riscatti nel Fondo 509 Aliquota Modulare su base volontaria 510 La ricongiunzione 511 La totalizzazione 513 La previdenza complementare 515 “Fondo Sanità” 516 Riscatto di laurea, riscatto di allineamente o Fondo Pensione 517 La previdenza integrativa ONAOSI 525 La legge istitutiva dell’obbligo di contribuzione 525 IlDPR616/1977elalegge167/1991 526 La privatizzazione degli enti di previdenza dei professionisti 526 Giurisprudenza della Corte Costituzionale sull’obbligatorietà di contribuzione all’ONAOSI 527 Legge298/2002:l’estensionedell’obbligodicontribuzioneatuttiisanitari 529 Finanziaria2007:restrizionediobbligodicontribuzione 529 LeprestazionieiserviziONAOSI 530 MisuradellacontribuzioneONAOSI 532 Contribuenti volontari 532 IlnuovoStatutoONAOSI 533 Cosafareperiscriversivolontariamenteall’ONAOSI 535 Lenuovesfidedellaprevidenzaedassistenzadelleprofessionisanitarie 535 Perchéiscriversiall’ONAOSI 538

Capitolo 16 - La libera circolazione nell’Unione Europea 539 Il diritto di stabilimento e la prestazione di servizi 539 Le “direttive medici” e le norme di attuazione 540 Le “direttive odontoiatri” e le norme di attuazione 541 Capitolo 17 - L’esercizio dell’odontoiatria 543 Presupposti formativi 543 Normativa 546 Requisiti giuridici per l’esercizio 548 Campo di attività dell’odontoiatra 548

Page 15: Manuale della professione medica

Manuale della Professione MedicaXVI

Lo studio odontoiatrico 549 L’autorizzazione all’esercizio dell’attività 549 L’impianto elettrico 551 Le apparecchiature radiologiche 554 I dispositivi medici 559 Lavori odontotecnici nello studio odontoiatrico 562 La prevenzione del contagio professionale da HIV 563 Norme per gli operatori odontoiatrici (art. 4) 565 Obblighi degli operatori (art. 9) 565 Lo smaltimento dei rifiuti sanitari 565

Appendice - Web e medici: elementi per un uso corretto del web 571

Page 16: Manuale della professione medica

Sommario per articoloCodice Deontologico

Titolo I – Oggetto e campo di applicazioneArt. 1 – Definizione 45Art. 2 – Potestà e sanzioni disciplinari 52

Titolo II – Doveri generali del medicocAPo i – liBertà, indiPendenzA e dignità dellA ProFeSSione

Art. 3 – Doveri del medico 103Art. 4 – Libertà e indipendenza della professione 105Art. 5 – Educazione alla salute e rapporti con l’ambiente 183Art. 6 – Qualità professionale e gestionale 116Art. 7 – Limiti dell’attività professionale 108 cAPo ii – PreStAzioni d’urgenzA

Art. 8 – Obbligo d’intervento 190Art. 9 – Calamità 191

cAPo iii – oBBlighi PeculiAri del Medico

Art. 10 – Segreto professionale 155Art. 11 – Riservatezza dei dati personali 156 Art. 12 – Trattamento dei dati sensibili 167 cAPo iv – AccertAMenti diAgnoStici e trAttAMenti terAPeutici

Art. 13 – Prescrizione e trattamento terapeutico 277Art. 14 – Sicurezza del paziente e prevenzione del rischio clinico 128Art. 15 – Pratiche non convenzionali 304Art. 16 – Accanimento diagnostico-terapeutico 373Art. 17 – Eutanasia 373Art. 18 – Trattamenti che incidono sulla integrità psico-fisica 373Art. 19 – Aggiornamento e formazione professionale permanente 149

Page 17: Manuale della professione medica

Manuale della Professione MedicaXVIII

Titolo III – Rapporti con il cittadino cAPo i – regole generAli di coMPortAMento Art. 20 – Rispetto dei diritti del cittadino 108Art. 21 – Competenza professionale 112Art. 22 – Autonomia e responsabilità diagnostico-terapeutica 301Art. 23 – Continuità delle cure 277Art. 24 – Certificazione 329Art. 25 – Documentazione clinica 329Art. 26 – Cartella clinica 334

cAPo ii – doveri del Medico e diritti del cittAdino

Art. 27 – Libera scelta del medico e del luogo di cura 146Art. 28 – Fiducia del cittadino 110Art. 29 – Fornitura di farmaci 306Art. 30 – Conflitto di interesse 306Art. 31 – Comparaggio 314

cAPo iii – doveri di ASSiStenzA

Art. 32 – Doveri del medico nei confronti dei soggetti fragili 143

cAPo iv – inForMAzione e conSenSo

Art. 33 – Informazione al cittadino 130Art. 34 – Informazione a terzi 131Art. 35 – Acquisizione del consenso 134Art. 36 – Assistenza d’urgenza 191Art. 37 – Consenso del legale rappresentante 139Art. 38 – Autonomia del cittadino e direttive anticipate 374

cAPo v – ASSiStenzA Ai MAlAti inguAriBili Art. 39 – Assistenza al malato a prognosi infausta 373

cAPo vi – trAPiAnti di orgAni, teSSuti e cellule

Art. 40 – Donazione di organi, tessuti e cellule 179Art. 41 – Prelievo di organi e tessuti 179

cAPo vii – SeSSuAlità e riProduzione Art. 42 – Informazione in materia di sessualità, riproduzione e contraccezione 387

Page 18: Manuale della professione medica

Sommario per articolo XIX

Art. 43 – Interruzione volontaria di gravidanza 394Art. 44 – Fecondazione assistita 408Art. 45 – Interventi sul genoma umano 412Art. 46 – Test predittivi 414

cAPo viii – SPeriMentAzione

Art. 47 – Sperimentazione scientifica 319Art. 48 – Ricerca biomedica e sperimentazione sull’uomo 320Art. 49 – Sperimentazione clinica 322Art. 50 – Sperimentazione sull’animale 325

cAPo iX – trAttAMento Medico e liBertà PerSonAle

Art. 51 – Obblighi del medico 176Art. 52 – Tortura e trattamenti disumani 177Art. 53 – Rifiuto consapevole di nutrirsi 178

cAPo X – onorAri ProFeSSionAli nell’eSercizio liBero ProFeSSionAle

Art. 54 – Onorari professionali 431

cAPo Xi – PuBBlicità e inForMAzione SAnitAriA

Art. 55 – Informazione sanitaria 263Art. 56 – Pubblicità dell’informazione sanitaria 263Art. 57 – Divieto di patrocinio 267

Titolo IV – Rapporti con i colleghi cAPo i – rAPPorti di collABorAzione Art. 58 – Rispetto reciproco 417Art. 59 – Rapporti col medico curante 418

cAPo ii – conSulenzA e conSulto

Art. 60 – Consulenza e consulto 419

cAPo iii – Altri rAPPorti trA Medici Art. 61 – Supplenza 421

cAPo iv – Attività Medico-legAle

Art. 62 – Attività medico legale 421Art. 63 – Medicina fiscale 422

Page 19: Manuale della professione medica

Manuale della Professione MedicaXX

cAPo v – rAPPorti con l’ordine ProFeSSionAle

Art. 64 – Doveri di collaborazione 58

Titolo V – Rapporti con i terzi cAPo i – ModAlità e ForMe di eSPletAMento dell’Attività ProFeSSionAle Art. 65 – Società tra professionisti 434Art. 66 – Rapporto con altre professioni sanitarie 436Art. 67 – Esercizio abusivo della professione e prestanomismo 438

Titolo VI – Rapporti con il Servizio Sanitario Nazionale e con enti pubblici e privati cAPo i – oBBlighi deontologici del Medico A rAPPorto di iMPiego o convenzionAto Art. 68 – Medico dipendente o convenzionato 442Art. 69 – Direzione sanitaria 444Art. 70 – Qualità delle prestazioni 123

cAPo ii – MedicinA dello SPort

Art. 71 – Accertamento della idoneità fisica 449Art. 72 – Idoneità – Valutazione medica 449Art. 73 – Doping 451

cAPo iii – tutelA dellA SAlute collettivA Art. 74 – Trattamento sanitario obbligatorio e denunce obbligatorie 192Art. 75 – Prevenzione, assistenza e cura della dipendenza da sostanze da abuso 234

Page 20: Manuale della professione medica

Indice XXI

Il Giuramento Professionale

Consapevole dell’importanza e della solennità dell’atto che compio e dell’impegno che assumo, giuro:• di esercitare la medicina in libertà e indipen-

denza di giudizio e di comportamento rifug-gendo da ogni indebito condizionamento;

• di perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabi-lità e costante impegno scientifico, culturale e sociale, ogni mio atto professionale;

• di curare ogni paziente con eguale scrupolo e impegno, prescindendo da etnia, religione, nazio-nalità, condizione sociale e ideologia politica e promuovendo l’eliminazione di ogni forma di discriminazione in campo sanitario;

• di non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte di una persona;

• di astenermi da ogni accanimento diagnostico e terapeutico;• di promuovere l’alleanza terapeutica con il paziente fondata sulla fiducia e

sulla reciproca informazione, nel rispetto e condivisione dei principi a cui si ispira l’arte medica;

• di attenermi nella mia attività ai principi etici della solidarietà umana con-tro i quali, nel rispetto della vita e della persona, non utilizzerò mai le mie conoscenze;

• di mettere le mie conoscenze a disposizione del progresso della medicina;• di affidare la mia reputazione professionale esclusivamente alla mia compe-

tenza e alle mie doti morali;• di evitare, anche al di fuori dell’esercizio professionale, ogni atto e compor-

tamento che possano ledere il decoro e la dignità della professione;

Page 21: Manuale della professione medica

Manuale della Professione MedicaXXII

• di rispettare i colleghi anche in caso di contrasto di opinioni;• di rispettare e facilitare il diritto alla libera scelta del medico; • di prestare assistenza d’urgenza a chi ne abbisogni e di mettermi, in caso di

pubblica calamità, a disposizione dell’autorità competente;• di osservare il segreto professionale e di tutelare la riservatezza su tutto ciò

che mi è confidato, che vedo o che ho veduto, inteso o intuito nell’esercizio della mia professione o in ragione del mio stato;

• di prestare, in scienza e coscienza, la mia opera, con diligenza, perizia e pru-denza e secondo equità, osservando le norme deontologiche che regolano l’esercizio della medicina e quelle giuridiche che non risultino in contrasto con gli scopi della mia professione.

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Presentazione Amedeo Bianco

Presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici-Chirurghi e degli Odontoiatri

Il nuovo Manuale della Professione Medica, edito dalla C.G. Edizioni Medico Scientifiche, si presenta come opera pregevole e di notevole valore editoriale realizzata con il contributo di autorevoli rappresentanti istituzionali e della pro-fessione, nonché di studiosi che da sempre si dedicano, con competenza e at-tenzione, alle problematiche della moderna professione medica e odontoiatrica.

Si tratta di un’opera prestigiosa nei suoi contenuti e nella sua struttura, la cui lettura ci sentiamo di consigliare vivamente a tutti i medici, anche a quei colleghi giovani che stanno per entrare nel mondo della professione. Essa in-fatti offre spunti ed elementi di profonda riflessione per quanto attiene alla attività del medico.

Ci troviamo di fronte ad un volume che spazia nei più svariati campi del mondo medico: dall’etica alla responsabilità, dalla materia tecnico-scientifica ad elementi di diritto sanitario che sempre devono supportare il medico nello svolgimento della propria attività. Rappresenta pertanto un valido strumento di apprendimento e di conoscenza sia per chi debba acquisire maggiore de-strezza nella pratica professionale che per chi voglia essere pronto al confronto con le nuove problematiche della professione sempre emergenti.

Non mancano riferimenti alle nostre istituzioni ordinistiche, alla legislazio-ne sanitaria e soprattutto al Codice Deontologico i cui principi sottendono a tanti aspetti fondamentali e a tante problematiche nuove rispetto al passato, cui il professionista della salute è quotidianamente posto di fronte.

Esprimo pertanto il mio compiacimento più sincero, certo di riportare il parere positivo del Comitato Centrale della FNOMCeO, sia alla Casa Editrice del resto già ampiamente nota per la proficua attività da lungo tempo svolta in campo sanitario, sia agli Autori che con il loro pregevole contributo hanno dato maggiore lustro all’iniziativa.

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Manuale della Professione MedicaXXIV

Per un nuovo professionalismo medico fondato sull’alleanza terapeutica*

La malattia, al centro del tradizionale paradigma biomedico e al quale, a partire dalla metà dell’800, si è saldamente ancorata la travolgente ascesa del professionalismo medico del ventesimo secolo, oggi configura in realtà una sorta di oggetto fluttuante all’interno dello spazio definito da tre diverse ed a volte conflittuali rappresentazioni: quella del malato, quella del medico, quella della società.

In questo spazio si muovono con discrete fortune culture della salute e della cura “non ortodosse”, alcune relativamente vecchie (medicine e pratiche non convenzionali), altre del tutto nuove: il self-care, il well-being.

La malattia, territorio indiscusso dei dottori, rappresenta in questi tempi, o meglio in questo nuovo secolo, un fenomeno multidimensionale in costante mutamento non solo per gli aspetti tecnico scientifici, ma anche come prodot-to dell’interazione delle esperienze soggettive delle persone malate e dei nume-rosi condizionamenti che la società nel suo complesso, per scelte economiche, politiche ed etiche, impone alle pratiche professionali ed alle stesse possibilità di scelta dei cittadini.

La moltiplicazione e la segmentazione dei saperi e delle competenze in medicina ed in sanità è paradossalmente diventato un tallone d’Achille della tradizionale dominanza tecnica del medico, laddove ha prima determinato e poi incentivato lo sviluppo di nuovi professionalismi sanitari che oggi lambi-scono e talora invadono gli storici territori di attività esclusiva del medico e dell’odontoiatra.

Questi processi destabilizzano in modo pervasivo le basi cognitive e rela-zionali dell’esercizio professionale, producendo evidenti disagi nella misura in cui impongono risposte efficaci e coerenti ai cambiamenti che coinvolgono medici, medicina e sanità, salvo scontare una sostanziale marginalità tecnica, civile e sociale della professione.

Anche questo ci insegna la storia che abbiamo inteso raccontare in questo vo-lume dedicato a cento anni di professione, naturalmente vissuta in contesti socia-li, civili e tecnico scientifici diversi ma straordinariamente accomunata da ragioni e passioni professionali che intatte dobbiamo consegnare al secolo che verrà.

*Introduzione al volume CentenariodellaistituzionedegliOrdinideiMedici, pubblicato da FNOMCeO (2010). Per gentile concessione FNOMCeO.

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Indice XXV

Abbiamo infatti bisogno della forza di quelle passioni e di quelle ragioni per comprendere il fenomeno, all’apparenza paradossale, secondo il quale, nel vissuto e nel percepito dei medici, siano avvertite profonde incertezze sui fini e sugli scopi della medicina, della sanità e dello stesso esercizio professionale in una fase in cui è invece in crescita esponenziale il grande patrimonio civile e sociale che ha costruito l’ascesa e l’affermazione della dominanza del professio-nalismo medico e cioè i saperi e i poteri della medicina sulla salute e sulla vita.

Queste incertezze vanno affrontate individuando i determinanti dei gran-di processi di cambiamento, valutando il loro impatto tecnico professionale, etico e sociale sul complesso sistema delle cure e dell’assistenza, sulle pratiche professionali, per contrastarne le derive minacciose, per accettarne invece le sfide capaci di produrre miglioramenti e prospettare in tal modo un riposizio-namento, autonomo e responsabile, della professione medica nel core di quei processi decisionali che oggettivamente le competono e dai quali sempre più spesso risulta emarginata. Oggi, forse più di ieri, non è facile rivendicare ruoli autonomi ed avocare responsabilità in un contesto che, sempre più spesso, mette in evidenza preoccupanti inadeguatezze del decisore politico ad assu-mere le scelte che gli competono sugli aspetti direttamente connessi con il corpo umano e con i suoi valori etici e civili e più in generale con le questioni di carattere sanitario concernenti le garanzie dell’equità e dell’efficacia della tutela della salute.

Le scelte in sanità coinvolgono diritti dei cittadini e libertà delle persone e, anche per questo, hanno bisogno di una politica buona, capace cioè di scegliere gli indirizzi con autorevolezza, trasparenza e responsabilità, così come di una gestione dei servizi di cura ed assistenza competente ed efficiente nell’uso delle risorse.

Questo cerchio virtuoso fatica a chiudersi, se i professionisti sono tenuti nell’angolo, ridotti ad una anonima prima linea, esposta su un fronte scon-finato di mediazioni difficili tra presunte infallibilità e i limiti oggettivi della medicina e dei medici, tra domande infinite e risorse definite, tra speranze ed evidenze, tra accessibilità e equità, tra chi decide e che cosa si decide.

In questi nuovi contesti, assume una straordinaria rilevanza il compito di esercitare un ruolo efficace di indirizzo e governo della qualità dell’esercizio professionale non solo inteso come buona pratica tecnica ma anche come consapevole e responsabile assunzione di responsabilità civili e sociali nella garanzia del diritto alla tutela della salute nel secolo che verrà.

La storia che proponiamo ci consegna la speranza di una missione possi-

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Manuale della Professione MedicaXXVI

bile, quella cioè di poter responsabilmente e legittimamente saldare interessi professionali ad interessi generali della comunità.

È ancora possibile che la professione medica possa cessare di subire e co-minciare a stupire se abbandonerà logiche e culture del passato, troppo spesso ridotte a mera difesa di interessi immediati e parcellizzati, nell’illusione miope che salvando le rispettive parti si possa salvare il tutto.

Queste logiche e queste culture hanno chiuso i medici nelle varie ridotte professionali, i Sindacati di categoria, gli Ordini, le Società Medico-scientifi-che, ognuno legittimamente ed orgogliosamen el nuovo paziente-impaziente ed esigente, ma il frutto più prezioso di intelligenze, di culture, di esperienze e sofferenze che hanno profondamente caratterizzato e talora condizionato i profili etici, civili e sociali di grandi questioni attinenti a diritti costituzional-mente protetti.

Il Codice Deontologico, approvato nel dicembre 2006, si colloca all’inter-no di questa tradizione e, rispetto al precedente del 1998 che aveva recepito i principi bioetici della Convenzione di Oviedo, appare ancora più positivo e propositivo, ancora meno paternalista e più lontano dalle suggestioni dei vecchi poteri e dei tradizionali autoritarismi della medicina e dei medici, per rafforzare invece una relazione medico paziente, equilibrata, di pari dignità, fondata sull’informazione e sul consenso che, nel momento di ogni scelta, di-venta un’alleanza.

Un passaggio culturale e professionale non facile e non scontato che per al-cuni suona ancora come una rinuncia o quantomeno come una intollerabile limi-tazione all’esercizio di una delega storicamente dominio indiscusso dei medici, in altre parole una sorta di capitolazione dell’autonomia del medico al prorompen-te emergere di un forte protagonismo del cittadino nelle scelte, a questo titolo variamente ridefinito come impaziente, consumatore, prepotente, esigente.

Può così accadere, ed alcune esperienze lo confermano, che i conflitti oggi effettivamente comprimenti l’autonomia dei medici ed oscuranti ruoli e poteri, quali ad esempio i limiti oggettivi della medicina e dei medici a fronte di attese illimitate, la sostenibilità economica dei servizi sanitari scioccamente giocata su vincoli burocratici imposti, l’esasperato contenzioso medico legale, predatore di fiducia e di risorse ed alla base di devastanti pratiche difensive, i laceranti conflitti etici sulle scelte di inizio e fine vita, vengano talora identificati come il prodotto di una ipertrofia del principio di autodeterminazione del paziente.

Il tramonto della storica “dominanza medica” rischia così di scaricare tutto il suo potenziale di frustrazioni professionali nella relazione di cura, sollecitan-

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Indice XXVII

do una sorta di restaurazione di un neo paternalismo illuminato, un ritorno al passato improponibile ed per giunta incapace a curare quel disagio.

La centralità dell’alleanza terapeutica è dunque rafforzata in uno scenario di esercizio professionale nel quale i due soggetti della relazione di cura sono attraversati da profondi e travolgenti cambiamenti.

Il paziente è più consapevole dei suoi diritti, più informato e quindi più at-tento a rivendicare ed esercitare il proprio protagonismo nelle scelte; il medico è sempre più schiacciato tra i crescenti obblighi verso questo paziente e i vin-coli del contenimento dei costi, spesso malamente imposti e quindi percepiti come invadenti ed invasori delle sfere di autonomia e responsabilità proprie dell’esercizio professionale.

Ma è soprattutto cambiato il contenuto della relazione di cura:• sul piano tecnico professionale, l’esplosione delle biotecnologie, della post

genomica, delle nanotecnologie, mentre esalta le potenzialità del tradizio-nale paradigma biomedico della diagnosi e cura della malattia accenden-do attese e speranze quasi miracolistiche di nuovi straordinari poteri della medicina e dei medici sulla vita biologica dal suo inizio alla sua fine, fatica invece a far comprendere i propri limiti e a motivare gli insuccessi senza perdere fiducia e ruoli;

• sul piano etico alcune di queste straordinarie conquiste si accompagnano a conflitti bioetici che toccano (e lacerano) valori profondi della persona e della collettività, altre pongono seri ed inquietanti dilemmi di giustizia in ragione delle risorse limitate;

• sul piano civile e sociale l’accesso equo a servizi di tutela efficaci, appro-priati e sicuri sostanzia un diritto di cittadinanza, contribuendo a determi-nare senso di appartenenza ad una comunità ed ai suoi valori di solidarietà, di libertà, di tutela dei più fragili.Ai medici di questo nuovo secolo spetta pertanto il difficile compito di

trovare il filo del loro agire posto a garanzia della dignità e della libertà del paziente, delle sue scelte, della sua salute fisica e psichica, del sollievo della sofferenza e della sua vita in una relazione di cura costantemente tesa a realiz-zare un rapporto paritario ed equo, capace cioè di ascoltare ed offrire risposte diverse a domande diverse.

L’autonomia decisionale del cittadino, che si esprime nel consenso/dis-senso informato, è l’elemento fondante di questa alleanza terapeutica al pari dell’autonomia e della responsabilità del medico nell’esercizio delle sue fun-zioni di garanzia. In questo equilibrio, alla tutela ed al rispetto della libertà di

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Manuale della Professione MedicaXXVIII

scelta della persona assistita deve corrispondere la tutela ed il rispetto della autonomia e responsabilità del medico, in ragione della sua scienza e coscienza.

Lo straordinario incontro, ogni volta unico e irripetibile, di libertà e respon-sabilità non ha dunque per il nostro Codice Deontologico natura meramente contrattualistica, ma esprime l’autentico e moderno ruolo del medico nell’eser-cizio delle sue funzioni di garanzia.

In questo nucleo forte di relazioni etiche, civili e tecnico-professionali il soggetto di cura e il curante, ciascuno “auto-re” di scelte, esprimono entrambi l’autonomia e la responsabilità che caratterizza ogni alleanza terapeutica e che in tal senso compiutamente rappresenta il luogo, il tempo e lo strumento per dare forza, autorevolezza e legittimazione a chi decide e a quanto si decide.

Più in generale, in un progetto che si propone di superare il disagio profes-sionale di questi tempi, ci deve animare il comune disegno di una Professione vicina alle Istituzioni sanitarie, a supporto dei loro compiti di tutela della salute pubblica, ed ai cittadini soprattutto dove e quando sono oltraggiati da disin-formazione, silenzi, incapacità amministrative e colpiti nei loro diritti alla tutela della salute da una devastazione dei territori e degli ambienti di vita e di lavoro.

Una vicinanza ai cittadini, ai loro bisogni, alle loro inquietudini è oggi più che mai indispensabile per dare risposte forti ed equilibrate ai dubbi e alle incertezze tecniche, civili, etiche, che il travolgente sviluppo della medicina inevitabilmente propone, non dimenticando mai che anche in un mondo do-minato dalle tecnologie, le parole, gli sguardi e le emozioni sono straordinari strumenti di cura.

Dobbiamo tutelare i nostri giovani, garantendone l’ottimale formazione di base e specialistica, favorendo il loro ingresso esperto nella professione, pro-muovendo lo sviluppo delle conoscenze e delle competenze derivanti da fonti autorevoli e libere da conflitti di interesse.

È nostro compito contribuire a rendere il sistema sanitario affidabile per i cittadini, a vincere la sfida della sostenibilità economica assumendoci la re-sponsabilità morale e tecnico-professionale dell’uso appropriato delle risorse.

Credo che questo sia l’appuntamento a cui ci chiama l’avvio del secolo nuovo che si spalanca dinnanzi a noi. Non lo possiamo mancare per ritornare ad essere autori orgogliosi del nostro futuro e cittadini responsabili del nostro paese.

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PrefazioneAldo Pagni

La deontologia, intesa come il complesso delle norme di comportamento del professionista, ha carattere essenzialmente etico, ma il rapporto del medico con la società, e la potenza della tecnologia sanitaria, hanno reso certamente complessi e ineliminabili, anche se discussi, i collegamenti tra la morale e le leggi.

Anche perché la deontologia (deon + logos), il discorso su ciò che si deve fare, o la scienza del dovere, resta un ampio ed elastico spazio etico-teorico, nel quale l’aggiunta professionale richiama ai doveri etico-sociali inerenti l’esercizio di una professione.

Tuttavia, la deontologia e il Codice deontologico non sono la stessa cosa, anche se strettamente collegati. Il Codice contiene norme deontologiche giuri-diche (che aspirano a divenire leggi), che disciplinano la pratica relativa a que-stioni concrete e specifiche frequentemente rivisitate, in relazione ai cambia-menti sociali e tecnici emergenti. La deontologia rimane il fondamento della riflessione filosofica intorno a quei principi di etica medica, che prendendo le mosse dal Giuramento di Ippocrate sono giunti fino al giuramento attuale.

EticaIn generale è la scienza della condotta, e si riferisce «all’insieme di scritti e

discorsi nei quali si presentano riflessioni sui problemi che si pongono per gli esseri umani quando agiscono e cercano regole e principi da seguire nelle diverse dimensioni della loro vita pratica» (E. Lecaldano)

Nella storia del pensiero umano, dall’antichità ai nostri giorni, si sono intrecciate variamente due concezioni fondamentali, che devono essere tenute sempre presenti quando si discute di etica.

1. Una la considera come lascienzadelfinecui la condotta degli uomini deve essere indirizzata e dei mezzi per raggiungerlo. Sia il fine che i mezzi sono dedotti dalla natura dell’uomo.

Essa parla il linguaggio dell’ideale a cui l’uomo è indirizzato dalla sua natura, e per conseguenza dalla “natura” o “essenza” o “sostanza” dell’uomo.

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Manuale della Professione MedicaXXX

In questa concezione la nozione del bene corrisponde a una realtà perfetta (Aristotele e S. Tommaso: «il bene è la felicità» deducibile dalla natura razio-nale dell’uomo).

2. L’altra la concepisce come la scienza del movente della condotta umana e cerca di determinare tale movente per dirigere o disciplinare la condotta stessa.

Essa, quindi, si occupa dei “motivi” o delle “cause” della condotta umana o delle forze che la determinano, e pretende di attenersi al riconoscimento dei fatti.

In questa concezione la nozione di bene è un oggetto di desiderio, normal-mente istintivo, di qualcosa che sentiamo come mancante e il cui possesso da soddisfazione («il bene è il piacere», come movente abituale e costante della condotta umana).

Considerazioni generali

1. L’Etica non è immutabile ed è oggetto di continue riflessioni e polemiche. Sartre aveva osservato che i periodi nei quali si avverte il bisogno di etica sono quelli di conflitto, di incertezza e di ricerca di nuovi orizzonti, non quelli in cui certi ideali sembrano realizzarsi, bensì quelli di trasformazione, di ricerca di disorientamento.

2. Poiché la nozione di bene mostrava una certa ambiguità, corrispondente alle due concezioni prima citate (Bene significa ciò che è (per il fatto che è), o ciò che è oggetto di aspirazione e di desiderio ?), nel XIX secolo la nozione di valore soppiantò quella di bene nelle discussioni morali, anche per l’amplia-mento dato al significato economico del termine.

E tuttavia, nello stesso periodo, si ebbe nella teoria dei valori una distin-zione analoga a quella che aveva caratterizzato la teoria del bene: 1. Un valore metafisicooassolutistico, indipendente dai suoi rapporti con l’uomo. 2. Un valore empiristico o soggettivistico, in stretto rapporto con l’uomo, o con le attività e il mondo umano.

3. La filosofia morale suscita oggi i maggiori interessi e i maggiori dibattiti, ma secondo B. Williams, J. Mackie, T. Nagel e altri, non riuscirebbe a for-nire motivazioni plausibili alle sue pretese legiferanti per molteplici motivi:a. La crisi delle credenze morali comuni.b. Il declino delle visioni totalizzanti della realtà e della storia.c. Gli sviluppi della scienza e della tecnica in grado di intervenire e modi-

ficare la costituzione biologica e psichica dell’uomo.

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Prefazione XXXI

d. La complessità del vivere moderno e l’individuazione di nuovi codici di comportamento.

e. La necessità di garantire la coesistenza tra razze, culture e forme di vita diverse.

La combinazione di questi motivi spiega perché, a partire dagli anni ’70, la rifles-sione di alcuni pensatori sui problemi concreti degli esseri umani sia divenuta una denuncia e una contestazione dell’utilità di una ricerca esclusivamente meta-etica e astratta, irrilevante per i problemi pratici e reali degli uomini.

La svolta è stata definita l’irruzione dell’etica applicata, il proliferare di una serie di ricerche etiche interessate alla soluzione di questioni morali specifiche: la bioetica, l’etica degli affari, l’etica dell’ambiente e quella degli animali, l’etica dei differenti trattamenti di persone di sesso diverso, l’etica delle generazioni future, l’etica dell’intelligenza artificiale ecc.

Insieme alla ricchezza di queste riflessioni, e del dibattito che ne consegue, non possiamo neanche escludere che, in assenza di teorie generali e di un nucleo etico comune, questo specializzarsi e professionalizzarsi dei vari campi dell’etica applicata non possa provocare una pericolosa frammentazione.

L’etica medica non corre, tuttavia, questo pericolo perché, dagli anni ’90, sulla base dei principi che risalgono agli albori della civiltà, i medici hanno sempre affrontato responsabilmente i nuovi problemi etici generati dagli svi-luppi della medicina in tema di nascita, morte e cura degli esseri umani, che richiedevano soluzioni urgenti, e non potevano essere soddisfatte né dalle leggi né dalla meta-etica.

In questa prospettiva, scrisse S.E. Toulmin nel 1986, la medicina ha salvato l’etica dall’astrattezza.

Etica medica

Da sempre filosofia e medicina sono state intrecciate, e tale intreccio è continuato almeno fino al XVI secolo quando gli studi medici e quelli filosofici facevano parte del curriculum degli studi di coloro che volevano esercitare la professione di medico.

La separazione avvenne nel XIX secolo con l’introduzione del metodo speri-mentale in medicina di C. Bernard, quando la disciplina si trasformò in una scienza.

Dalla metà del secolo scorso i progressi compiuti dalle conoscenze mediche hanno sollevato molti problemi filosofici, sia sotto il profilo dell’epistemologia

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Manuale della Professione MedicaXXXII

del sapere medico, che dell’analisi dell’agire medico, e il cammino della medi-cina e quello della filosofia hanno ricominciato nuovamente ad incontrarsi.

Quei progressi hanno richiamato anche l’attenzione dei sociologi sui rap-porti tra società e medicina, l’interesse per le valutazioni economiche nelle decisioni dei medici, e nel ’70 la nascita della bioetica, definita come «lo studio sistematico della condotta umana nell’area delle scienze della vita e della cura della salute, quando tale condotta viene esaminata alla luce dei valori e dei principi morali».

Le riflessioni e le ricerche della bioetica hanno preso in esame una grande quantità di problemi: dall’eutanasia all’aborto, dallo statuto dell’embrione alla fecondazione assistita, dall’accanimento terapeutico alla fine della vita, dalla natura della persona al suo rispetto, dalla genetica alla sperimentazione animale e a quella clinica, e sicuramente hanno influenzato positivamente la deontolo-gia medica.

In questi ultimi tempi, tuttavia, la bioetica, trasformatasi da riflessione di filosofia morale in un’etica normativa ispiratrice di provvedimenti legislativi ad hoc, ha rischiato di far sparire i confini tra bioetica, etica medica e deontologia, ignorando che l’etica medica, ispiratrice della deontologia, è per tradizione mil-lenaria equidistante da etiche laiche e religiose contrapposte.

La medicina in quanto tale non si configura come una ricerca scientifica della verità, bensì come un’applicazione pratica delle conoscenze scientifiche in rapporto alle esigenze imposte dal contesto umano, unico e irripetibile, nel quale si svolge l’incontro clinico

La medicina, infatti, è una prassi particolare, un’attività scientifica volta al bene del paziente. Le decisioni prese dal medico sono intese soprattutto a indi-viduare il procedimento terapeutico “buono e giusto” per il singolo paziente che ha in cura. È questa specifica constatazione a legare la medicina all’etica, perché una decisione clinica non è mai un atto puramente cognitivo, ma ha sempre un fine che è di natura etica e si identifica con il bene del paziente.

E.D. Pellegrino, insieme al suo collaboratore D.C. Thomasma, ha soste-nuto che ciò che chiamiamo il bene del paziente è composto da quattro ele-menti diversi: 1. Il bene biomedico. 2. Il bene percepito dal paziente. 3. Il bene del paziente in quanto persona. 4. Il bene supremo, secondo cui il paziente regola le sue scelte.

«Per esercitare la professione medica in modo virtuoso, hanno scritto, sono necessarie alcune disposizioni: senza dubbio l’attenzione scrupolosa alla

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Prefazione XXXIII

conoscenza e anche all’abilità tecnica, ma anche la compassione (…), la bene-ficità e la benevolenza (…), l’onestà e la fedeltà alle promesse; forse talvolta anche il coraggio. Si tratta dell’intero elenco delle virtù definite da Aristotele: giustizia, coraggio, temperanza, magnanimità, generosità, mitezza, prudenza, saggeza».

Deontologia

La deontologia medica si alimenta, come scrive Barni, «ancora dell’inesau-sta sorgente dell’etica medica, ispiratrice dei doveri di ogni tutore della salute, che nei millenni della civiltà occidentale si è deprivata, sia pure in parte, delle arcane suggestioni e dei fatalismi esoterici, ancora peraltro dominanti sull’altra medicina».

La deontologia essendo la traduzione dei principi etici della medicina, non deve mai contrastare con questi e deve rispettare l’equilibrata coesistenza tra diritti del cittadino e doveri del medico.

“La notevole mole di documenti diffusi nel corso degli ultimi anni (rispetto alla storia millenaria della medicina), aveva scritto F. Introna nel 1996, dimostra che l’Etica professionale medica (e quindi la somma dei doveri da osservare per rispettare quell’Etica), non tanto è cambiata (né poteva cambiare) quanto si è complicata per due motivi principali:

1. Ai doveri del medico (che sono sostanzialmente quelli di sempre), si affian-cano i diritti dei cittadini onde più chiaro diventa il principio secondo cui il primo dovere del medico sta nel rispettare “i diritti dell’uomo”, sano, malato, fanciullo o anziano, libero o prigioniero, povero o ricco, modesto oppure illustre.

2. Il progresso tecnologico della medicina, nella diagnosi e nella terapia, suscita dubbi, timori e interrogativi nel medico impegnato in uno speci-fico caso, e poiché egli non sempre ha un’autentica sensibilità e una prepa-razione culturale nel campo dell’etica, il Codice deontologico gli fornisce una Guida (ovverosia un reticolo di norme etiche dettagliate) per decidere come comportarsi.

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Riflessioni per una nuova deontologia

Nel centenario degli Ordini dei Medici

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Indice 1

Etica e deontologiaLe radici storico-culturali della bioetica e del biodiritto, categorie conven-

zionali atte a ispirare e definire un’armoniosa biopolitica, forse inattingibile ma necessariamente perseguibile a livello globale e nazionale, si alimentano ancora dalla inesausta sorgente dell’etica medica, ispiratrice dei doveri di ogni tutore della salute, che nei millenni della civiltà occidentale si è deprivata, sia pure in parte, delle arcane suggestioni e dei fatalismi esoterici, ancor peraltro dominanti sull’altra medicina (nota 1). Le alterne vocazioni relazionali tra ga-ranti, operatori e fruitori del progresso tecnico-scientifico hanno in effetti ser-bato, pur nella tensione massima del nostro tempo, la continuità del filo rosso dell’umanesimo. E il medico, oggi meno che mai solista nella concertazione e nell’esecuzione di un’adeguata tutela della salute, raccoglie ed esprime, nell’es-senzialità simbolica e nella responsabilità delle scelte, la chiave di lettura del camaleontico scibile conoscitivo essenziale e variabile in ogni vicenda diagno-stica e curativa della malattia dell’uomo, intesa sempre di più in un’accezione di benessere, ieri sconosciuta, oggi controversa.

L’etica medica ha dunque percorso e innervato la storia della medicina, anzi ne ha supplito la scientificità in proporzione inversa dall’aurora ippocratica del nostro tempo sanitario, costituendosi, d’altronde, come garanzia per una incompiuta liberazione dalle ormai remote presunzioni magiche e paternalisti-che e dall’agghiacciante dottrina moderna della onnipotenza scientifica e per una rispettosa valorizzazione di un patrimonio sociale, la salute, la vita, sempre meglio inteso nella sua duplice pertinenza individuale e collettiva e scandito nei termini non necessariamente coincidenti di sacralità e di qualità.

Il rivoluzionario incontro tra buona medicina e buona filosofia, soprattutto politica, non rifiuta in effetti il retaggio di un mito, di un giuramento (nota 2) che il tempo ha peraltro sfumato e sfrondato serbandone non tanto le ridondanze retoriche, quanto il magistero civile per una sintonia vecchia e nuova tra scienza e coscienza, tra autonomia e responsabilità: termini che definiscono il senso della vera alleanza terapeutica da perseguire non tanto tra persone quanto tra doverosità intimamente sentite e/o coerentemente disciplinate, seguendo un percorso tortuoso ma essenziale al fine di offrire giusti indirizzi alla missione medica, verso una acquietante ed equa dimensione giuridica. Si staglia così e si alimenta proficuamente una categoria nomologica, incisa nella coscienza prima che nelle tavole, la deontologia medica, magmatico ma imprescindibile com-plesso di precetti, variamente intesi, talvolta solo teoricamente sentiti e spesso non compresi dai personali egoismi e dal pubblico potere: ma pur sempre

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Manuale della Professione Medica2

posti a salvaguardia reciproca dei protagonisti della vicenda sanitaria (nota 3), così come esige la nostra Costituzione repubblicana.

Nel nostro paese il ruolo formativo della dottrina deontologica anche nei suoi riflessi giuridici è stato da almeno tre secoli assunto da una disciplina, la medicina legale, sviluppatasi nella sua autonomia in ossequio alla necessità tutta moderna e civile di stabilire regole e metodi e di fornire specialisti per un im-pegno pubblico e privato, alimentato da un modus operandi tecnico-culturale e da una forma mentis professionale, sempre più arricchiti e potenziati dal progresso scientifico, essenzialmente versati sulla condizione umana, attenti allo sviluppo della persona sino alla fine della vita e oltre, passando attraverso le catego-rie della maturazione somatica e mentale, della sessualità, della riproduzione, della malattia, della lesività, delle inabilità; una disciplina che non poteva non assumere connotazioni e responsabilità socio-politiche ed etiche oltre che me-ramente criminalistiche, quest’ultime, di peculiare e specifico interesse forense (nota 4).

Così la deontologia italiana si è qualificata sempre di più e sempre meglio (nota 5), a sua volta diversificando la nostra medicina legale dalle consorelle an-glosassoni e nordeuropee (inflessibilmente rimaste a presidiare la fucina delle funzioni criminalistico-forensi, d’altronde connaturate al sistema di common law) (nota 6), rendendola sensibile stazione ricevente di stimolazioni sociali, opifi-cio operoso di soluzioni e di valutazioni in ambito assicurativo, assistenziale, pensionistico, sempre presente là dove la società organizzata recluta paradigmi scientifici e capacità d’apprezzamenti tecnici equi e controllabili, assolutamente necessari allorché previsioni normative e pulsioni etiche esigano giudizi relativi al substrato biologico, fisico e mentale della persona. Così si è consolidata una vocazione al biodiritto specialmente in ambito di medicina pubblica, allorché si è resa necessaria la doverosa e talvolta ineludibile collaborazione della medicina e del medico e dei professionisti sanitari ai fini dell’affermazione e del soddi-sfacimento di esigenze umane, non soltanto protettive della salute e della vita di ciascuna persona (anch’esse peraltro esperibili solo nel rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo: alla riservatezza, alla libertà, alla dignità) ma an-che (e in armonia con le prime) strumentali per una difesa sociale sempre più attenta e matura contro il delitto, le inabilità e le disuguaglianze, contribuen-do così all’edificazione di un sistema sociosanitario ispirato all’efficienza, alla qualità, alla sicurezza, all’eticità. Ed è qui che la deontologia acquisisce anche una necessaria dimensione giuridica per opera di norme non solo autoctone, ma anche strettamente correlate alla giurisdizione che peraltro non possono né debbono forzare (queste ultime) né la libertà professionale, né l’autonomia

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3Riflessioni per una nuova deontologia

scientifica, né la coscienza dell’operatore e tanto meno la libertà e la dignità dei cittadini, come è in altri momenti sciaguratamente occorso (nota 7).

Le regolegiuridiche, e in primo luogo quelle penali e quelle afferenti al diritto sanitario, dalla tutela del segreto medico (art. 622 cp), all’obbligo di referto (art. 365 cp), di denuncia delle malattie infettive e diffusive e di certificazioni (fino alle questioni inerenti la sperimentazione nell’uomo e la tutela della privacy) e l’etica medica, genuinamente laica seppure attenta e non indifferente a una cul-tura assistenziale permeata di messaggi d’ispirazione pastorale (nota 8), hanno slatentizzato la prevalente essenza pubblicistica della deontologia italiana. Essa ha saputo rendersi sensibile più di ogni altra disciplina medica, nella secon-da metà del Novecento, alle raccomandazioni sopranazionali d’indole bioeti-ca relative alle intemperanze della ricerca (fin dalla sentenza di Norimberga di condanna dei medici nazisti), alle grandi vulnerabilità globali quali colpiscono segnatamente il bambino, la donna, gli handicappati, i diversi, alle degradazioni dell’ecosistema, all’esasperarsi delle disuguaglianze, trovandosi così nelle con-dizioni ideali per raccogliere il messaggio esaltante (e ormai tradito) di una bio-etica sorta non tanto dal magma delle speculazioni di filosofia politica e morale, quanto da soprassalti di responsabilità nei confronti delle energie slatentizzate dal progresso e intesa come presidio atto a denunciare e, se del caso, a contra-stare la pervasività della speculazione scientifica (spinta talora dall’avventuri-smo) fin nelle più intime matrici biologiche della vita, e quindi appassionata ai temi di frontiera che indagano e prospettano l’essere e il divenire dell’uomo, ma anche felicemente interessata ai problemi del quotidiano, inerenti la tutela della salute, della riservatezza, della sicurezza, della dignità personale.

Si è così affermata – ed è questo un dato fortemente positivo – la nuova deontologia (doverosità) del medico e degli altri esercenti le professioni sanita-rie, che tende a ricercare nel professionista sanitario spazi di attenzione e di sensibilità per gli aspetti umanistici e morali, essenziali quanto quelli tecnici, per l’esercizio dell’arte sanitaria e che permea di saldezza giuridica e di signifi-catività etica i nuovi codici comportamentali ispirati anche e sempre di più da direttive sopranazionali generali (come la ConvenzionediOviedosuidirittidell’uomoe la bioetica, siglata il 4 aprile 1997 e da tempo ratificata dal Parlamento italiano) (nota 9) e da codificazioni particolari e nuovissime (sulle tossicodipendenze, sulla sperimentazione dei farmaci, sulla tutela della privacy, sulla terapia del do-lore, sull’accertamento della morte, sui trapianti d’organo ecc.) (nota 10).

La deontologia ha fatto tesoro dei principi bioetici fondamentali conden-sandoli e consolidandoli nel Codice di Deontologia medica, trasferendoli quali do-veri ineludibili nella propria trattatistica e affidandoli alla coscienza del medico

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(nota 11). E sebbene nella profusione di regole deontologiche si senta vivis-sima l’ispirazione proficua di una bioetica sostenitrice (nota 12), l’obiettivo epistemologico anela comunque all’armonia possibile tra scienza, diritto (qui espresso in primo luogo dalla Carta costituzionale) e morale cui è essenziale l’accettazione consapevole e preparata ad accogliere da parte di ciascuno re-sponsabilità eticamente e giuridicamente irrifiutabili.

Il contributo della bioeticaLa deontologia medica fino agli ultimi decenni del secolo scorso è sta-

ta limitata, nell’insegnamento universitario e nell’aggiornamento spinto sino all’Educazione Medica Continua, all’enunciazione dottrinaria e all’applicazione pratica degli articoli dei codici penale e di procedura penale, e delle leggi spe-ciali di rilievo penale e sanitario, nonché del Testo Unico delle leggi sanitarie a stento sopravvissuto al furore delle autonomie, dedicati alla refertazione, alla certificazione, alle denunce sanitarie, all’accertamento della morte, ai trapianti di organi ecc. Venne dunque il tempo, intorno agli anni ’90 dello scorso secolo, della permeazione bioetica, di chiara matrice nordamericana, spesso fideistica-mente invocata quasi che il medico italiano fosse stato fino ad allora insensibile al richiamo dell’umanesimo solidaristico, carattere sempre, in realtà, presente e in lui vivido per l’antico influsso ippocratico e per i richiami culturali recepiti anche dalla Costituzione. Se ne fecero promotori e partecipi filosofi e moralisti nel sogno e nel segno di una medicina finalmente sensibile alla realtà sociale, intesa non tanto alla stregua di oggetto di pietas e obiettivo di “beneficità” oltre che di scienza, quanto come matrice di diritti civili non necessariamente blin-dati dalle norme del diritto positivo. Eppure molto era già stato scolpito con vigorosa precisione ma, peraltro troppo lentamente inteso, nella Costituzione della Repubblica entrata in vigore fin dal 1° gennaio 1948.

La medicina legale se ne fa ancora una volta protagonista e con prontezza ne rivendica il magistero nel Documento di Erice sui rapporti della bioetica e della deon-tologiamedica, entrato più tardi in un oblio senza orizzonti (nota 13).Il ruolo decisivo del documento di Erice, e il riflesso pragmatico nell’applicazione del messaggio della bioetica, era già stato sussunto dalla Società italiana di Medicina legale stessa nella felice armonia del suo patrimonio (nota 14) scientifico e di-dattico (Congresso della SIMLA di Bari del 1989). La Federazione Nazionale dei Medici (FNOMCeO), interpretando il malessere di una professione lusin-gata dal novum bioetico e, per contro, raggelata nell’interpretazione in chiave difensivistica dei doveri della medicina e del medico quali delineati dalla Ma-gistratura e in particolare dalla Cassazione penale ed espressivi di un rigore

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inusitato nei confronti del medico poco avvezzo al rispetto dell’autonomia del paziente (negata d’altronde dai più accaniti esegeti del paternalismo e della be-neficità), riscopriva contemporaneamente il senso più ampio della deontologia, offrendole un respiro nuovo, straordinario, ancor più profondo nei subentranti Codici di Deontologia medica e soprattutto nelle edizioni del 7 ottobre 1998 e del 12 dicembre 2006, ove sono riversati principi e direttive di ispirazione sopranazionale e sono ripercorse le stesse ragioni istituzionali e giudiziarie non pedissequamente considerate e subite, ma scolpite con la forza della ragione insita nell’etica della responsabilità. Del che sarà più ampiamente trattato.

Certamente due fattori esterni vi hanno contribuito, l’uno di segno nega-tivo, l’altro di valenza assolutamente positiva: da una parte l’implosione del-la bioetica, “otre dei venti” improvvisamente apertosi fino a scatenare una devastante tempesta ideologica, dottrinaria e legislativa intorno ai valori della persona e, quindi, agli scopi stessi della medicina, dall’altra parte l’interpreta-zione autentica della Costituzione della Repubblica, da parte della Corte Costi-tuzionale, ribelle a ogni pretesa del legislatore, regionale o nazionale che sia, di legiferare in tema di scelte anche tecniche del medico: tendenza da respingere in quanto espressiva di un preoccupante e progressivo disconoscimento della libertà professionale e scientifica che troverà in Italia, nella legge 40 del 19 febbraio 2004 sulla procreazione assistita e nei puntigliosi orientamenti legi-slativi sulle direttive anticipate, le più evidenti espressioni. Ne riemerge (anche grazie al continuo messaggio della Consulta), tutto da difendere e sostenere, una deontologia professionale, fondata su scienza e coscienza, su autonomia e responsabilità, su informazione e consenso. Ed essa soccorre e salvaguarda il medico sensibile all’ascolto della voce del cittadino, ferma restando la sua posizione di garanzia nei confronti della tutela della pubblica salute e della pubblica incolumità quando entrino in gioco interessi della collettività e del mondo del lavoro democraticamente riconosciuti. D’altronde, le bioetiche viep-più si dividono, e in modo sconvolgente sul ruolo da attribuire all’autonomia del paziente, alimentando spesso il pallido ricorso all’astensionistica medicina della prudenza (meliusdeficerequamabundare).

Ed è così che si è affermato con forza il significato normativo e disciplinare degli Ordini professionali e in particolare dei medici, ma anche degli infermieri e degli altri professionisti sanitari (nota 15), attraverso Codici non più corpo-rativi o autoreferenziali, ma esplicitamente capaci di recuperare, a motivo della preminente funzione formativa e disciplinare degli Ordini, l’ordito e il retaggio codicistico, prevalentemente orientandoli al rispetto di dettami etici e pratici che (pur nel quadro e sotto l’imperio delle regole generali dell’ordinamento ovvia-

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mente valide ergaomnes, medici compresi) esprimono il senso proprio di direttive operanti nel particolare contesto di delicatissimi impegni, relativi, ad esempio, ai trattamenti di fine vita, alla contemporanea reiezione dell’eutanasia attiva e dell’accanimento terapeutico, alla legittimazione della leniterapia e delle terapie del dolore, al rispetto della vita che si forma e dell’autonomia della persona (che non può essere mortificata al solo ruolo di paziente). Ne emergono una fisiono-mia del medico e un afflato professionale, sensibili al contemporaneo apporto della scientia e della humanitas. L’ultimo atto che i giuristi auspicano (nota 16) è il riconoscimento della deontologia, non solo come dottrina e come guida comportamentale, ma anche come autentica espressione di disciplina giuridica, ancorché molta strada debba percorrersi – ma il tempo è ormai venuto – per stabilire ex lege un più chiaro compito e onere degli Ordini dei Medici chirurghi e degli odontoiatri che trasformi, oltre il centenario, un discusso aggregato rap-presentativo in un’autorità garante per la professione e per la società (nota 17). Ma qualcosa è già presente nel Giuramento del medico, premesso al più recente Codice deontologico, l’impegno cioè, «diprestarelamiaoperacondiligenza,periziaeprudenzasecondoscienzaecoscienzaeosservandolenormedeontologichedellamedicinaequellegiuridichechenonrisultinoincontrastoconlamiaprofessione». Si afferma così che la dignità della professione non è orpello corporativo ma espressione di autono-mia scientifica e morale, bisognosa di contorni severi (quale tra l’altro l’ascolto della voce di chi soffre) eppur capace di incidere ancora in difesa delle proprie libertà e delle proprie dignità con l’inderogabilità dell’obbligo di rendere conto immediato e documentario delle proprie scelte), ma non turbativi della sacralità anche etimologica dell’essere professionista (da profiteor). E tutto ciò va inteso nel suo ordito civile e non solo “morale”, in quanto contiene e documenta precetti squisitamente medico-legali, fondati sul convinto e contagioso principio per cui la deontologia è e resta momento formativo di un aperto e duttile biodiritto, anche perché già regolata da uno statuto o da uno strumento giurisprudenziale e disci-plinare fatto di prescrizioni la cui inosservanza è (dovrebbe essere) produttiva di sanzioni disciplinari, ben più efficaci, a mio avviso, del calvario giudiziario.

La massima beneficitàdella bioetica si è per l’appunto espressa in ambito culturale-normativo, tanto nello sviluppo di idee e di impegni (basti pensare ad alcuni fondamentali prodotti del Comitato nazionale per la Bioetica), quan-to nella permeazione etico-deontologica dei codici professionali e in primis di quelli dei medici (2006) e degli infermieri (2009): e non è davvero un picco-lissimo merito, se è ormai certo come vetuste norme di mera prassi opera-tiva e corporativa si siano tradotte in regole di vita professionale concepita nell’effettivo rapporto del sanitario con la persona assistita in ordine ai valori

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della vita, della libertà, del benessere individuale e collettivo. Meno fertile si è rivelato invece il rapporto bioetica-diritto soprattutto nell’elaborazione legisla-tiva quando ha manifestamente posto in crisi il principio di laicità, su cui tutti concordano ma solo a parole (nota 18). Bisogna tuttavia convenire che se è vero che alle parole e alle norme dovrebbero infine seguire i fatti, le scelte, è altrettanto innegabile la vischiosità del come,dove,quando. La difficoltà maggiore sta forse e ancora nell’equivoco etimo della parola bioetica – purtroppo – sem-pre più nebuloso (nota 19).

D’altronde, il bisogno di riflessione è sentito anche a livello internazionale da parte di chi ritiene che la bioetica sia «diventata una costellazione di giudizi in-tuitivi o addirittura di principi assoluti in nome dei quali si pretende di sciogliere le questioni più delicate nel campo della ricerca scientifica e della pratica medica […] con il risultato che spesso viene privilegiata una linea di condotta apodittica, in quanto priva di qualsiasi condivisione». Evidentemente è qui riproponibile il problema di una riconsiderazione della materia non solo sotto il profilo filosofi-co e/o epistemologico ma soprattutto nel cimento della pratica, che in definitiva investe e responsabilizza la temperie deontologica e – per logica derivazione – la medicina legale.

Il problema di base se l’è posto uno psicologo lucidissimo, Jonathan Baron, nel suo studio AgainstBioethics (2006, edito in Italia nel 2008), ove viene esaltata la teoria delle decisioni responsabili. Come scrive Massarenti nella prefazione all’edizione italiana, «tale teoria assomma i pregi della prospettiva morale utili-taristica con l’analiticità della teoria delle decisioni razionali» sicché «la bioeti-ca, affrontando questioni come la sperimentazione sull’uomo, la possibilità di migliorare la natura attraverso la genetica e i farmaci, la riproduzione assistita, le questioni di fine vita (che racchiudono le direttive anticipate, l’eutanasia e la donazione d’organi), il paternalismo medico e il consenso informato, il conflit-to d’interesse e la ricerca farmaceutica, dovrebbe far tesoro – almeno – di uno dei progressi di ricerca scientifica del ’900: la teoria delle decisioni razionali, appunto». Forse, come per ogni sapere, serviva alla bioetica applicata un metodo di lavoro (almeno quello) condiviso: «nella formulazione dei pareri, della diffu-sione degli insegnamenti, nella trattazione delle emergenze (proprie della pratica professionale), nella funzione, infine, degli operatori» (nota 20), un metodo che a essa è sfuggito di mano.

In definitiva, la summa dei doveri del medico cui questa trattazione è dedi-cata merita ormai una nuova interpretazione dei doveri che superi le vecchie elencazioni e classificazioni, traducendo lo scibile operativo scandito da una complessa serie di impegni e di garanzie assolutamente diversificata, molti dei

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quali offrono plurime modalità e compiti aggiuntivi al nucleo centrale e unita-rio dell’attività medica, che non è solo diagnosi e terapia, che non è più esclu-sivamente prevenzione, assistenza, riabilitazione (nota 21) ma sussume nella sua inscindibile unicità il rapporto, la relazione (che è ben più di una alleanza) tra medico e cittadino, tra medicina e società: un rapporto che non è orpello formale sia pur doveroso, ma condizione di perfezione di un’attività articolata ormai su chiare fasi, talune delle quali oserei definire precliniche. Sicché la relazione, antecedente e successiva al consensoinformato, rappresenta, più che un dovere, una componente preliminare dell’atto medico, senza la quale o in difet-to della quale l’atto è di per sé imperfetto quando non illecito. Ed è un concetto, questo, che tratto com’è dal principio fondante della bioetica (l’autonomia) ma anche e soprattutto, per quanto ci riguarda, dalla Costituzione della Repubblica (art. 32), trasforma un dovere medico in un diritto e al contempo in un carattere essenziale della professione medica al duplice livello culturale e operativo. Ne deriva l’obbligo di una riconsiderazione complessiva dei doveri del medico, che vanno ormai distinti in doveri propri del professionista esercente di un servizio di pubblica necessità, impegnato a soddisfare esigenze generali di tutela della sa-lute e doveri etico-giuridici del professionista verso la persona, verso il singolo cittadino, verso il paziente (se ancora si voglia utilizzare un termine assai discuti-bile), intrinseci tutti all’atto medico, al rapporto di cura, all’essenziale momento della specifica tutela contemporaneamente tecnico-scientifica e relazionale.

Il dovere fondamentale del medico resta quello di ben operare e di armonicamente gestire le varie e variamente scandite fasi del rapporto che vanno dall’instaurarsi relazionale all’esecuzione dell’attività diagnostica, unicum di doveri di buona con-dotta, non solo tecnica ma anche e responsabilmente relazionale: e non abbiso-gna di polverose salvaguardie penalistiche (come lo stato di necessità) per essere legittimo in sé medesimo se reso tale dalla partecipazione decisionale della persona.

L’attività medica tra doverosità e legittimitàLa riflessione più attenta sulla pregressa giurisprudenza e sulla più autorevole

dottrina convince pienamente sulla bontà della tesi della autolegittimazione dell’at-tività medica, la quale trae fondamento non tanto dalla scriminante tipizzata del consenso informato dell’avente diritto (quale definito dall’art. 50 del vigente Codice penale), quanto dalla stessa intrinseca finalità di tutela della salute, bene costitu-zionalmente garantito. Il riferimento alla scriminante di cui all’art. 50 cp (consenso dell’avente diritto) sembra addirittura eccentrico, se inteso quale espressione di sempli-ce non antigiuridicità dell’atto medico, anche senza invocare la lettura, a suo tempo scandita da parte della Consulta, dei limiti tracciati dal fantomatico art. 5 del Codi-

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ce civile, norma precostituzionale, la cui ratio doveva ritenersi esaurita nel divieto di fare illimitato mercimonio del proprio corpo (nota 22). Se di scriminanti (in mancanza di crimine) si volesse in ogni caso ricercare la ricorrenza, il riferimento dovrebbe essere unicamente e soltanto limitato alle eccezioni autorizzative dei trattamenti sanitari obbligatori previste dall’art. 32 Cost. (nota 23) dal quale nasce la certezza che i doveri del medico non sono, per quanto riguarda informazione e consenso e quindi rapporto con l’autonomia della persona, soltanto momenti preliminari (indubbiamente importanti) all’impegno di cura e di assistenza, ma costituiscono parte integrante dell’attività medica e cioè della tutela della salute.

A parte le sottili argomentazioni profuse in una recente sentenza della Cassa-zione penale in Sezioni unite (nota 24), sembra di estremo interesse già rilevare come in questo fermissimo senso si sviluppi la teoria che integralmente e inscin-dibilmente considera l’atto medico di per sé giusto (anche etimologicamente), non solo nella sua estrinsecazione tecnica ma anche e “necessariamente” nella sua preliminare dinamica relazionale che per l’appunto si realizza – ordinaria-mente – nei momenti essenziali dell’informazione e della raccolta (documen-tazione) del consenso. È da questa fase che prende vita l’atto medico ordinario unitariamente inteso nella sua perfezione sostanziale e nella sua indivisibilità sequenziale, specialmente ma non esclusivamente in ambito chirurgico, ove la sospensione della coscienza (anestesia) è attuabile ma solo nel quadro di una complessiva programmazione illustrata al paziente e da questi consentita. E l’atto operativo in se stesso rappresenta così non tanto un dovere (ovvio), quanto una porzione della condotta terapeutica (meglio, direi, del rapporto medico-paziente) che trae il suo primo fondamento dalla informazione e dalla esplicitazione del consenso. Se consentito ed eseguito lege artis, l’atto, ad esempio del chirurgo, ha una sua compiuta fisionomia e una sua complessiva legittimità, sempre che non sia stata la monologante autorevolezza del medico a orientare e tracciare gli obiettivi terapeutici da perseguire “negligendo” ciò che il paziente abbia potuto intendere o mal compreso al riguardo. L’atto medico è per contro privo della necessaria di-mensione etica e della specifica copertura costituzionale allorché vi faccia difetto la componente relazionale che ordinariamente si esprime, per l’appunto, attra-verso il consenso debitamente informato, produttivo di un reciproco impegno enfaticamente definito come alleanza terapeutica, categoria relazionale suggesti-va, ma subdola quando, in dispregio dei diritti della persona interessata, chiama in causa soggetti diversi dai protagonisti del rapporto duale, promuovendoli al rango di coro greco dei persuasori più o meno occulti e interessati (nota 25).

In definitiva, solo in presenza di consenso informato l’atto medico è “perfetto” se compiuto e se eseguito secondo le leges artis (nota 26).

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Dovere di relazione e certezza di consensoLa giurisprudenza rafforzata anche recentemente dalla Corte Costituziona-

le (nota 27) è dunque sempre più omogenea, nel ridisegnare l’insopprimibile garanzia del consenso informato (per usare ancora un’espressione semanticamente poco limpida ma che comunque semplifica il linguaggio medico-legale) sempre più integrandolo nella fisionomia generale dell’attività medica e, dottrinaria-mente, nella definizione stessa di atto (attività) del medico che, per esplicita e predominante dottrina giuridica, trae, come si è detto, la sua legittimazione dal-la matrice costituzionale piuttosto che da contorte cause di giustificazione (di-scriminanti penalistiche). In altri termini, grazie anche al positivo e convergen-te messaggio di una bioetica ancora non asservita ai dettami ideologici e di una deontologia “europea”, onorata dal Codice di Deontologia medica del 2006, la volontà del paziente (espressione usata, anche questa, molto disinvoltamente) ha un significato essenziale, ben disegnato dalle norme costituzionali, che non può essere inteso alla stregua di perentoria esaltazione dell’autodeterminazione del paziente, ma deve pur sempre confrontarsi (e viceversa) con l’autonomia del medico in funzione di una possibile convergenza resa limpida dalla massi-ma informazione, ferma restando l’insuperabilità di un esplicito, convincente e consapevole dissenso. Dopo un travaglio quasi ventennale, la Cassazione penale va inoltre precisando come il non espresso dissenso o il difettodi consenso,in particolari circostanze quali si sviluppano nell’attività medica, non possano essere considerati produttivi di illiceità penale di un intervento anche diverso e ultroneo rispetto a quello convenuto, specialmente quando non ne derivi un danno e, ancora meno, quando ne derivi invece un beneficio per il paziente. Il maggior problema verte invece sulle situazioni nelle quali l’informazione e la raccolta e/o la verifica del consenso informato non siano possibile; e semplicistica appare in proposito l’idea, anche di recente riaffiorata, di fondare il giudizio sulle conseguenze, fauste o infauste introducendo alla stregua di discriminante l’esito favorevole di una operatività ispirata al best interest, concetto ostico, so-prattutto al medico legale. In sostanza, la c.d. autolegittimazione dell’atto medico si distingue per la sua virtù di restituire dignità alla professione medica e anche maggior responsabilità deontologica per l’atto medico legittimato dalla confor-me volontà del paziente. Ma quando venga meno questo decisivo connotato etico-giuridico che a esso conferisce assoluta e originale compiutezza e inscin-dibiltà, l’atto medico (non consentito) non può non venire necessariamente considerato entro parametri, limiti e censure sperimentati che devono trovare e troveranno soluzioni magari e preferibilmente deontologiche, piuttosto che giuspenalistiche. Essi si fondano prevalentemente sull’autonomia professionale

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che, piaccia o no, è anch’essa garanzia prima di una buona tutela della salute costituzionalmente garantita e non necessariamente, anzi eccezionalmente, traducibile in termini di antigiuridicità. Si tratta, in ogni caso, di operare con quella ragio-nevolezza consapevole che non intacchi i principi fondamentali e che deve essere propria di chi lavora sulle modalità di espressione del consenso stesso, come di recente è occorso in sede giurisprudenziale per sfumare, ad esempio, l’attendibilità del dissenso del testimone di Geova: evenienza ancora una volta paradigmatica per una ragionevole riconsiderazione e verifica di un rifiuto (alla emotrasfusione), quando affidato alla semplice e sola appartenenza alla parti-colare confessione religiosa (nota 28).In altri termini, occorre confidare ai principi dell’ordinamento professionale e ai canoni delle discipline deontologiche l’individuazione dei percorsi lungo i quali indirizzare la responsabilità delle scelte, quando queste non siano suf-fragate dalla convergente volontà del paziente, espressa in un unico contesto temporale e relazionale. E qui si ripresentano con forza le casistiche, sempre nuove e mutevoli e quindi ribelli alle semplificazioni nomologiche, tra le quali spicca la condizione di sopraggiunta perdita della capacità intellettiva e valu-tativa del paziente e quindi della possibilità di comunicare le proprie volontà, la questione del testamento biologico (dichiarazione anticipata di trattamento?!) che ancora non ha trovato – e tanto meno nel laboratorio legislativo – quella acquietante ed esaustiva soluzione “umanistica” che pure molti giuristi, eticisti e medici legali auspicano (nota 29).

Il dovere d’informareIl primo dovere del medico è, indefinitiva, quello di garantire l’autonomia del pa-ziente ed è questo, a mio avviso, il significato primo da attribuire alla posizione di garanzia del medico, di fronte alla società e al singolo, in difesa della salute e della vita della persona, sì, ma in coerente armonia con la tutela della sua libertà e della sua dignità. E così l’autonomia del paziente, valore di essenziale pre-gnanza etica e giuridica, deve essere garantita dal medico, attraverso puntuali e ininterrotte informazioni propedeutiche al consenso (o al dissenso) stesso.L’informazione è in realtà un momento critico della bimillenaria vicenda sanita-ria, di cui l’esposizione al paziente di certezze e di ipotesi diagnostiche e pro-gnostiche, di programmi o di indirizzi terapeutici, e talvolta di ansie e di spe-ranze, è ormai espressione di crescita del dialogo tra medico e persona assistita, quale segno di una rivoluzione culturale, connotata e sostenuta dall’intervenuta dimensione etica, pubblica e politica della medicina. Da decenni, l’interesse politico-sanitario rivolto alla tutela della salute ha cessato di essere esclusiva-

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mente assegnato alle private sollecitudini o al solidarismo assistenziale, assu-mendo gradualmente il senso di una titolarità collettiva e sociale in un contesto che programmi e legittimi una stretta cooperazione tra scienza e società ai fini della salvaguardia di beni, la salute e la vita, contemporaneamente individuali e collettivi. L’informazione si fa, così, tramite e viatico per assicurare un’attività tanto più efficace quanto più pervasiva dell’intimità personale e per offrirla al più elevato livello di efficacia, nel quadro di una generale strategia difensi-va elaborata secondo i moduli della prevenzione e della politica sanitaria, ed espressiva quindi di una medicina pubblica, votata alla trasparenza e quindi dotata di vocazione informativa. E mentre l’igiene si occupa dell’informazione nel qua-dro della documentazione epidemiologica e della difesa preventiva, la medicina legale si preoccupa anche di offrire contorni di certezza al diritto singolare, alla privacy e al parallelo e classico impegno del medico al segreto professionale, stemperata ma solo fino a un certo punto, dall’esigenza sociale di conoscere il rischio per meglio difendere la comunità dalle insidie per la sicurezza e la salute umana. Si realizza così il grande compromesso deontologico, grazie al quale sopravvivono la riservatezza del dialogo e il rispetto umbratile dei dati sensibili, l’uno e l’altro non insensibili a iniziative, a esigenze per quanto possibile chiare, dirette a soddisfare interessi pubblici, non solo sanitari.

L’esercizio della medicina acquisisce, in altre parole, una complessa valenza informativa, cui afferiscono valori etico-politici quasi costantemente contempe-rabili, salvo che per talune contingenze potenzialmente conflittuali in rappor-to ai diritti fondamentali della persona. Il dovere di informare diviene siffat-tamente un connotato complesso della medicina attuale, insufficientemente analizzato anche in sede filosofica e giuridica; ma è solo accantonando per un attimo l’abusato slogan del “consenso-informato” che si può meglio compren-dere il ruolo singolare e preliminare dell’informazione, spesso clinicamente ed eticamente più rilevante (vedi il caso dei minori) del consenso stesso che comunque non può prescinderne. È relativamente facile, anche sul piano giuri-dico, documentare l’evidenza, la prova del consenso, ma è molto arduo assicu-rare e comprovare una perfetta e corretta informazione. Tornando al rapporto col paziente, lo stesso concetto semanticamente inteso di informazione entra in crisi quando si considera la palese disparità di linguaggi e di conoscenze tra chi offre e chi riceve il relativo flusso di notizie. L’autonomia del paziente, se letteralmente intesa, è poco più di una figura retorica, proprio per difetto degli elementi di giudizio derivabili dalle informazioni: e in carenza di informazione, anche l’alleanza terapeutica, di cui tanto si parla, diviene illusoria, fittizia, declama-toria. Di qui l’opportunità che a garanzia della buona informazione sia rivendi-

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cato il ruolo della comunicazione, che ha in sé ben precisi connotati non d’indot-trinamento o di predica, ma di dialogo, di comunione, di simpatia tra dispari e talvolta tra stranieri morali. Esiste, è vero, un’amplissima e dotta letteratura di classificazioni, di algoritmi, di propositi e di intenti, prodotta da clinici, psicolo-gi, bioeticisti, e – oggettivamente – corredata da indicatori delle valenze terapeu-tiche ed esistenziali: ma forse è scaduto il tempo delle astrazioni dottrinarie! Le inquietanti vicende giudiziarie del nostro tempo impongono un approccio che dia atto della fallacia di una schematizzazione del problema considerato sotto il mero profilo dei presunti rischi e dei reali pericoli di un’informazione apodittica o evasiva e carente (caratteristica quest’ultima della nostra attitudine culturale), e in pari tempo rintracci meglio le coordinate deontologiche del tema. Il difetto informativo è in campo giudiziario un momento di illiceità, che si afferma an-che nella giurisprudenza italiana. Le coordinate soggettive, oggettive e materiali dell’informazione si possono così brevemente descrivere:

a) Il medico, prima e più d’ogni altro sanitario, è regista insostituibile di un im-pegno, che si esercita attraverso un diretto interessamento, non occasionale né incidentale, trasmissibile ai collaboratori con tutte le garanzie proprie del segreto professionale, e ciò vale soprattutto per il curante abituale, coordi-natore a lungo termine delle iniziative diagnostiche e terapeutiche (nota 30).

b) L’informazione va data al paziente, mentre il diritto a sapere dei parenti va ridi-mensionato con risolutezza (come vuole anche il Codice italiano di Deontolo-gia medica), pur restando comprensibilmente tenace (nota 31).

c) A parte ogni considerazione sulle modalità dell’approccio e del rapporto infor-mativo considerato in termini relazionali e psicologici, sembra assolutamente prioritaria l’enunciazione di criteri generali sull’equità quali-quantitativa dell’in-formazione stessa, perché essa divenga giuridicamente rilevante e corretta, fermo restando il suo carattere d’invito, di premessa e di promessa di parteci-pazione al programma terapeutico, anche nei casi gravi e addirittura disperati.

L’informazione deve concernere in effetti ogni elemento del rapporto: la diagnosi, la prognosi, il programma diagnostico-terapeutico e le notizie rela-tive alle patologie in atto che impongono una buona qualità del messaggio, connotato di intonazioni etico-deontologiche, fondato soprattutto sul rispetto della verità, sulla proprietà e compatibilità del linguaggio, sulla chiarezza dei termini: il che non significa né indebita edulcorazione né terroristica crudezza. In tale quadro possono, sul piano medico-legale, aver negativo rilievo la falsità per volontaria omissione o per comunicazione pietisticamente menzognera

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o manifestamente erronea di una diagnosi o di una prognosi sì da realizzare conseguenze d’ordine penalistico o civilistico. Più complessa è l’informazione relativa al programma diagnostico-terapeutico, ch’è parte integrante dell’atto medico e ne costituisce parte essenziale. La relativa vicenda informativa si compone di successivi momenti: l’enunciazione del programma tanto più esau-stiva quanto più invasivo è l’adempimento previsto e proposto; l’indicazione dei benefici e soprattutto dei rischi, considerati in un duplice versante alternativo, l’accettazione o la non accettazione da parte del paziente del programma pro-posto.

Mentre il primo compito non implica che una ragionevole esposizione dei percorsi operativi (con l’importante variante della possibile emergenza intra-chirurgica di indicazioni ultronee rispetto al primitivo programma per il rilievo di patologie non previste, il che implica quanto meno un assenso preventivo dell’eventuale maggior attività chirurgica talvolta demolitiva), il secondo compito non può non realizzare un confronto sulla “quantità” dell’informazione e sulla “densità” dei rischi. I sostenitori della costante prevalenza dell’autonomia del medico individuano nel quantum informativo sui rischi del trattamento (e del non trattamento) il punctum dolens della vicenda comunicativa: idea, peraltro, da respin-gere, dovendosi privilegiare invece la via della diligenza informativa, fondata sul buon senso e sulla frequenza dei rischi, con ragionevole trascuranza di evenien-ze rare o del tutto irregolari che, necessariamente, sfumano nell’imponderabile e nella generale aleatorietà connaturata alla stessa condizione umana, talvolta imprevedibilmente fragile e labile di fronte a qualsiasi stimolo esterno persino minimale o anche indipendente da esso.

La documentazione dell’avvenuta comunicazione è anch’essa un falso pro-blema come ha più volte specificato la Corte di Cassazione, stigmatizzando specifiche direttive, in specie se espresse attraverso la pratica del “modulo” da sottoscrivere (spesso frettolosamente), anche se l’impiego di moduli è in qualche caso necessario e persino stabilito ex lege per speciali cogenze (emotra-sfusione e sperimentazione, ad esempio). Ma non si può non esprimere dubbi sull’eccessivo dettaglio della parte informativa di qualche modulo (specie di derivazione anglosassone), la cui comprensione e il cui valore a fini decisionali impongono un elevato livello culturale, non tanto generale quanto specifico, tanto più se le possibili conseguenze avverse di un determinato trattamento sono cavillosamente elaborate e riservate agli specialisti e non agli ignari pa-zienti che tali restano anche dopo la più attenta lettura. Va detto in proposito, e con estrema chiarezza, che la caccia alla reazione individuale, all’anomalia iatrogena, anche a quelle più improbabili, rivela l’aspetto meno gradevole e

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accettabile del processo informativo, che è quello – assai pilatesco – di lavarsi le mani prima di operare (e non è qui in questione la sola prassi chirurgica).

La ratio dell’informazione è in definitiva connaturata all’essenza stessa del rapporto tra medico e paziente: che va dismettendo più per le esterne pressioni che per virtù sanitaria, le prerogative della nonmaleficità e della beneficità intese come attributo di una potestà decisionale insuscettibile di confronto, e assumen-do invece le connotazioni di un complesso dialogo in cui la reciproca autonomia tende a un’intesa decisionale resa perfetta, piuttosto che dall’informazione, dalla leale comunicazione. Ne deriva un significato sempre più ricco di valenze etiche e giuridiche del processo informativo. Naturalmente l’essenzialità e l’intensità informative, come non possono essere racchiudibili in protocolli polivalenti e omnicomprensivi, non sono del pari uniformi e valide per ogni patologia o con-dizione. La banalità terapeutica (futilità) da un lato, e dall’altro l’impenetrabilità comunicativa legata alla mancata coscienza o all’incompetenza assoluta del pa-ziente, sostanzialmente esonerano dalla realizzazione di un’attività informativa puntigliosa, salvo che a essa non richiami una precisa richiesta del soggetto nel primo caso, dei parenti nell’altro. Vanno inoltre considerate la rinuncia a cono-scere, la delega ad altri del diritto all’informazione, situazioni tutte possibili, che il medico dovrà affrontare prevedendo garanzie che, in casi di forte impegno decisionale, non possono non tradursi in una documentazione liberatoria (che anch’essa non scusa né l’imprudenza, né l’imperizia).

L’evenienza della prognosi infausta resta infine l’area grigia che si frappone alla limpidezza informativa, e che va in ogni caso affrontata con la forza di due certezze comportamentali: il rifiuto della menzogna e l’impegno alla solidale, di-gnitosa, rispettosa comunicazione sulla negativa evoluzione della malattia, che non apra all’illusione ma non chiuda alla speranza, che non sia disperante ma propedeutica a una gestione serena delle fasi terminali, anche sotto il profilo delle terapie palliative e della qualità della vita. L’esperienza ha d’altronde dimostrato che la conoscenza costituisce per il malato, nella maggior parte dei casi, il migliore ausilio per affrontare la sofferenza e per prepararsi alla fine. Da queste considera-zioni emerge un imperativo non facile e solo apparentemente ovvio, ch’è quello del dovere di informare con razionalità e coscienza, con lo stesso spirito con il quale si cura e si assiste: e non tanto per evitare guai giudiziari o fastidiose recri-minazioni, ma per compiere bene il proprio lavoro di medico. E l’informazione fa parte, ancora prima della conferma giurisprudenziale, della buona condotta medica così come volle il Codice di Deontologia medica, sostenendola alla stre-gua di componente insindacabile d’ogni atto medico, promuovendola al valore di fondamentale premessa a una convinta adesione del paziente, modulandola

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ovviamente al gradiente comprensivo e reattivo della persona, pur raccomandan-dosi nei casi molto gravi la circospezione non elusiva né preclusiva di elementi di speranza, ridimensionando (art. 34) e definitivamente delineando il diritto dei parenti all’informazione.

Sul piano più strettamente giuridico e sulla scorta dei diritti costituzional-mente tutelati all’uguaglianza e alla dignità, la valorizzazione dell’informazione e del consenso come presupposti dell’atto medico, come garanzie di giuridicità, assolutamente imprescindibili in quanto probative del corretto modo di sentire e di professare la medicina, allinea la nostra disciplina a quella sopranazionale. Riprendendo infatti la ConvenzionediOviedo (4 aprile 1997), il Codice italiano (2006) tenacemente ripropone il riferimento al diritto del paziente di rifiutare l’informazione sulle proprie condizioni e sulle opzioni mediche tanto diagno-stiche quanto terapeutiche (nota 32). Procedendo con ordine non si possono a tal proposito che prospettare alcune situazioni esemplificative:

a) Il diritto di non sapere fa parte della sfera dei diritti minori e secondari, da rispettare solo se la “non conoscenza”, quasi sempre motivata da problemi di emotività, di ansietà ecc., impedisca ogni opzione e ogni controllo su possibili conseguenze (non necessariamente negative) di una decisione solo medica sulle prospettive esistenziali (verrebbe da dire sulle scelte di vita del paziente) e fa meraviglia che il pieno “rispetto” del rifiuto di sapere sia propugnato da eccessi di solidarismo di una bioetica che magari nega, ad esempio, al pazien-te e al medico scelte (naturalmente non eutanasiche) di fine vita.

b) Il diritto di non sapere deve pertanto essere “discusso” col paziente da par-te del medico nella fase (non sempre onorata) della “informazione” prope-deutica al consenso verso il trattamento proposto, deve essere documentato con le ordinarie procedure (scheda ambulatoriale, cartella clinica, lettera del paziente), deve tuttavia essere respinto dal medico ove siano in pericolo in-teressi vitali per la persona o per altri soggetti, per la società e per il medico stesso che non può tranquillamente incorrere in un’accusa di trattamento arbitrario, con tutto ciò che può seguirne in termini di responsabilità pro-fessionale (anche suscettibile di sequele disciplinari e/o giurisdizionali).

c) L’obbligo informativo è in ogni caso operante anche in caso di rifiuto (ma-lattie infettive in genere e immunodeficienza acquisita, possibile verificarsi di danni a carico di funzioni relazionali quali l’estetica, la sessualità, la capa-cità riproduttiva, la vita lavorativa e sociale, sempre che si tratti comunque di serie compromissioni o modificazioni, i trapianti d’organo ecc.).

d ) Il rifiuto di sapere deve comunque essere seguito dall’indicazione da parte

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del paziente dell’eventuale destinatario dell’informazione, un familiare in genere,manonnecessariamente.Se il soggetto insiste, e sempre in circostanze ovviamente rilevanti, il medico può sospendere la cura informando i parenti del rifiuto (e solo del rifiuto informativo); puòeventualmente proporre la nomina di un amministratore di sostegno da parte del giudice tutelare che, in casi di “fragilità” del paziente, può favorire la comunicazione e il dialogo; può (deve) informare del caso l’autorità sanitaria se trattasi di malattia in-fettiva e diffusiva, nei termini stabiliti dalla legge (e qui si delinea il ruolo dell’obbligatorietà d’informativa di cui sarà più oltre detto).

e) La prognosi non può essere del tutto nascosta al paziente che non voglia conoscere il proprio destino che si sta compiendo, ma va quanto meno enunciata in forma possibilistica lasciando elementi di speranza, anche per rispetto del diritto del paziente a un bilancio della propria vita, nel compier-si di un definitivo cammino (nota 33).

L’informazione e il consenso realizzano dunque l’auspicata sintonia tra potestà medica e autonomia del paziente e delineano il primo dovere del medico nel contesto della legittima attività medica (nota 34). Il difetto di comunicazione si pone sullo stesso piano del difetto tecnico professionale, integrando una con-dizione di colpevole negligenza che delinea non solo trascuranza di un dovere ma soprattutto un autonomo profilo di illiceità.

Segretezza e informativaL’informazione non è peraltro solo propedeutica a ogni fase dell’atto me-

dico, né monodirezionale, in ossequio al principio, vecchio come la medicina, dell’inviolabilità della riservatezza della persona assistita che fa parte della tu-tela della salute garantita dalla Costituzione, fatte salve le condizioni di inte-resse “pubblico” che, peraltro, sono stabilite dalla legge (nota 35). Per quanto riguarda il nostro paese, l’armonia dei valori e degli impegni, ben modulata sul vecchio art. 622 cp, rafforza notevolmente, blinda (come si direbbe gior-nalisticamente) la tutela del segreto, prevedendo peraltro generiche (e solo in poche circostanze esplicite) deroghe, ora facoltative, ora obbligatorie. Da una parte il segreto non è violabile (e tanto meno impiegabile a profitto del medico stesso o di altri) neppure di fronte alle esigenze del processo penale (art. 200 cpp.), dall’altro si stabilisce la possibile ricorrenza di giuste cause di rivelazione, ma en passant, senza cioè dire né quando, né come, né perché (almeno nella nuda formula del precetto): il tutto delegato alla sensibilità del privato verso

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l’offesa, come si evince dall’esigenza di querela di parte, in costanza, peraltro, di un nocumento e in palese contrasto con le procedure d’ufficio previste da una serie di norme, a cominciare dall’obbligo di denuncia e di referto definiti dagli artt. 361, 362, 365 cp e in relazione alla posizione del medico (pubblico ufficiale, incaricato di un pubblico servizio o esercente un servizio di pubblica utilità). Sull’ambiguo e solo ingannevolmente limpido concetto di giusta causa si è molto discusso in dottrina, ma troppo poco in giurisprudenza: cause previste e prefigurate da norme generali (stati di necessità, ad esempio) e speciali (obbli-go di referto, denunce sanitarie, adempimenti previdenziali) talune ondivaghe nel tempo e oscillanti tra garanzia e solidarietà (come quelle relative alle tossi-codipendenze, all’AIDS, ecc.); ovvero cause anche non previste dal diritto ma in-dubbiamente emergenti dalla sensibilità medica verso esigenze-bisogni-valori individuali e/o collettivi contrastanti con il diritto del paziente alla riservatezza. Ed è su questo terreno che ha profuso teorizzazioni e linee-guida la sola de-ontologia medico-legale, peraltro lungamente rimasta isolata a “presidiare” le poche (e ormai insufficienti condizioni previste dall’art. 622 cp): una deontolo-gia, quindi, limitata alle previsioni del diritto penale e civile, anche dopo che la Costituzione aveva aperto nuovi spazi di impegno e di sintesi per la tutela dei diritti personali da un lato, e per la realtà pubblica dall’altro, a cominciare dalle indicazioni relative alla “libertà” della persona.

L’emanazione (nota 36) del Codice (Testo Unico) in materia di protezione dei dati personali ha rappresentato il punto di arrivo, di limpida matrice dottrinaria e di moderna tecnica legislativa, di un lungo processo di affermazione di un diritto costituzionalmente garantito (artt. 76-87), iniziato in Italia con la legge del 31 dicembre 1996, n. 675, e seguito da una impressionante serie di decreti e pareri del Garante della privacy. Il pregio fondante del “TU” (come per bre-vità di seguito si indica) è l’elevatezza concettuale e l’ispirazione democratica, che profondamente permeano uno degli aspetti emblematici (la riservatezza) dell’esercizio della medicina connotato dall’armonia di valori, di diritti, di do-veri, di interessi che vi ineriscono. Ed è questo aspetto del TU che investe come un ciclone di modernità gli archetipi stessi della deontologia medica e della medicina giuridica, tanto da imporre un riordinamento delle idee e dei “luoghi comuni” propri dell’antica (ma perenne) concezione del segreto professionale ine-rente l’esercizio delle professioni sanitarie, che già peraltro, dall’avvento in poi della medicina pubblica, aveva subito (e in maniera per lo più assolutamente legittima) le erosioni prodotte dall’affermazione di “attività di rilevante interesse pubblico” (cui fa preciso ed esplicito riferimento il TU).

La tutela della privacy garantisce dunque la protezione dei dati personali, con

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particolare riguardo ai dati sensibili, così definiti dall’art. 4 del TU, quando ine-renti la salute e la vita sessuale della persona (nota 37). E sono proprio questi ultimi quelli che particolarmente interessano il cittadino, il medico (nonché ogni altro esercente di professioni sanitarie), il sistema sanitario pubblico e privato, soggetti tutti impegnati nel legittimo trattamento dei dati inerenti salute e sessualità. Mentre nel rapporto sin qui scandito da principi etici, deontolo-gici, giuridici ha sempre goduto di enfatico rilievo la riservatezza del medico che venga a conoscenza di un segreto, la tutela della privacy si pone invece a precipua garanzia del trattamento dei dati sensibili. Da un illuministico divieto di base si è passati così a una regolamentazione dell’inevitabile gestione dei dati, che nascono e si formano nella e per la persona sana e malata, ma che incessantemente si precisano e si moltiplicano nel rapporto della persona con i presidi sanitari e non solo con essi. Si può dunque affermare che l’uno o l’altro ordine di tutela (segreto,privacy), in buona misura coincidenti e, comun-que, non alternativi, si muovono su diversi percorsi: la rivelazione del primo solo per giusta causa, e la corretta gestione (trattamento) dei dati nel rispetto del diritto alla riservatezza.

Per meglio intendere la garanzia di tutela della privacy, occorre ricordare alcune definizioni a cominciare da quella di trattamento (art. 4 del TU), identi-ficato inqualunqueoperazioneocomplessodioperazioni,effettuateanchesenzal’ausiliodistrumentielettronici,concernentilaraccolta,laregistrazione,l’organizzazione,lacon-servazione,laconsultazione,l’elaborazione,lamodificazione,laselezione,l’estrazione,ilraffronto,l’utilizzo,l’interconnessione,ilblocco,lacomunicazione,ladiffusione,lacancella-zioneeladistribuzionedeidati,anchesenonregistratiinunabancadati,definitaquest’ul-tima come qualsiasi complesso organizzato di dati personali ripartito in una o più unità dislocate in uno o più siti. L’atto medico, anche il più elementare, comporta un primo trattamento di dati sensibili già nella raccolta stessa dell’anamnesi (da cui scaturiscono dati identificativi e dati sensibili inerenti soprattutto la salute e la vita sessuale), nell’esecuzione e descrizione dell’esame obiettivo, nella formulazione diagnostica e prognostica a fini diagnostici e curativi posto che già le prime due forme e fasi del trattamento dei dati (anamnesi, esame obiettivo) connotano ab initio ogni rapporto medico-paziente e presuppongono pertanto un consenso informato. Ma si tratta di un consenso preliminare e assolutamente diverso da quello classico e fin qui esaminato riguardante la gestione tecnica (diagnostica e terapeutica) del caso clinico. In altri termini, il medico deve informare il pa-ziente anche dell’uso che si intende fare dei dati personali sensibili e ottenere il consenso, senza burocrazia, evocando le leggi non scritte della fiducia recipro-ca. Il paziente (e potenzialmente il cittadino) è pertanto l’interessato, cui deve

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essere assicurato un trattamento dei dati personali, connotato da «un elevato livello di tutela dei diritti e della libertà fondamentali, nonché della dignità personale, con particolare riferimento alla riservatezza, all’identità personale e al diritto alla protezione dei dati personali» (art. 2, TU) (nota 38).

In sintesi, la rivelazione dello stato di salute attraverso i dati che vi si inserisco-no può avvenire con il consenso dell’interessato e anche senza autorizzazione del Garante della privacy se il trattamento riguarda dati e operazioni indispensa-bili per perseguire le finalità di tutela della salute e dell’incolumità fisica dell’in-teressato; ovvero anche senza il consenso dell’interessato e previa autorizzazione dell’autorità garante se la finalità di tutela della salute riguarda un terzo o la col-lettività (art. 76, TU).

La rivelazione per giusta causa condiziona, come si è visto, l’assolutezza del segreto medico e analogamente operano le deroghe alla riservatezza previste dal TU, in presenza di un consenso che il carattere della norma ritiene solo in parte liberatorio (dati gli interessi che si alimentano della conoscenza dei dati sensibili) e anche di un mancato consenso/dissenso dell’interessato. Le previsioni di speci-fiche deroghe in tutto l’arco del trattamento nei casi in cui s’impongono cogenti esigenze di tutela di salute della collettività hanno trovato un’attenta formula-zione di carattere generale laddove (art. 24 del TU) sono state riunite, in ragione della sostanziale omogeneità della disciplina, le disposizioni che autorizzano il trattamento dei dati personali anche in assenza del consenso dell’interessato, unificando, in sostanza, le plurime condizioni a suo tempo previste dalla legge 675/1996. L’art. 24 fa salve le specificità riconosciute, in alcuni casi, per la co-municazione e, soprattutto, per la diffusione dei dati a fini giudiziari. La discipli-na risulta ora più chiara, essendo state eliminate alcune duplicazioni contenute nella previgente normativa. Il presupposto di liceità del trattamento relativo alla sussistenza di un obbligo legale è riferito correttamente alla necessità di adempiere comunque a un obbligo previsto dalla legge e non più al solo caso di “dati raccolti e detenuti” in base al medesimo obbligo. Inoltre il legislatore ha inteso chiarire che il presupposto di liceità del trattamento riferito all’esigenza di salvaguardare la vita o l’incolumità di un terzo è comunque applicabile anche fuori dai già previsti casi in cui veniva specificato che l’interessato non potesse, per incapacità o altri motivi, prestare il proprio consenso. In relazione al caso in cui la medesima finalità riguardi la vita o l’incolumità dell’interessato, la di-sciplina risulta conforme a quella vigente (art. 78) in relazione al trattamento di dati idonei a rilevare lo stato di salute per finalità di cura della persona, che in base alle disposizioni previgenti risultava più rigorosa rispetto a quella del trattamento di dati comuni o sensibili effettuato da soggetti diversi da quelli

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sanitari. La disciplina prevede ora che anche in queste ultime evenienze, se manca il consenso della persona incapace o altrimenti impossibilitata a pre-starlo, è necessario ricorrere al consenso dei prossimi congiunti o familiari, al fine di procedere al trattamento dei dati personali dell’interessato ma solo se sia impossibile acquisire anche il consenso di tali soggetti o vi sia rischio grave e imminente per la salute della persona, il consenso potrà essere acquisito anche successivamente (art. 82, comma 2), ma non alla stregua di usuale sanatoria. Si può in questo quadro stabilire l’esistenza di un corollario di “doveri minori” ma tutti discendenti dall’atto medico come particolarità dell’informazione, neces-sario preludio dell’atto medico.

Il Codice di Deontologia La codificazione deontologica è il prodotto della nuova cultura dei doveri

medici tradotti in norme, la cui recente plasticità, da taluni mal tollerata, non è né vuol essere intesa quale condizione di corriva duttilità nei confronti di pulsioni eterogenee ed eterodosse bensì come garanzia attiva e attivatrice di vitalità, di creatività e infine di responsabilità solidali e consapevoli nel profes-sionista, cognito del suo essere tecnicamente e moralmente impegnato, nella sua attitudine all’ascolto delle “voci” tanto della scienza e della società quanto dell’interlocutore debole, nella sua sensibilità – infine – nei confronti dell’auto-nomia della persona. E tutto ciò senza compromessi e defezioni dalla propria scienza, dalla propria cultura, dalla propria visione del mondo, dalla propria autonomia a un tratto irrinunciabile e coraggiosamente ispiratrice di scelte in una solitudine da non rifiutare, cui tuttavia sovviene il Codice di Deontologia medica (analogo, in buona misura, ai codici degli altri professionisti sanitari, gli infermieri in primo luogo). E il Codice ha compiuto nel tempo un autentico e virtuoso viraggio da strumento di garanzia reciproca (galateo?) tra i partecipi della corporazione, da autorevole, magistrale monito del grande clinico (Frugoni) esor-nato dal carisma di scienza e d’umanesimo, da registro della ricaduta professio-nale delle crescenti e ingravescenti esigenze di medicina pubblica cogenti anche per il “libero professionista”, a guida severa eppure incisiva per il medico, capace di accompagnarlo (volente o nolente), lungo i frastagliati, impervi e scivolosi sentieri della prassi quotidiana resi vieppiù incerti da prescrizioni-indicazioni equivoche, da segnaletiche non aggiornate ovvero viziate da lusinghe ora ideo-logiche ora sottese da interessi economici, da inviti delle sirene abili e fascinose suggeritrici di conflitti di interesse, dalle fobie ed enfatizzazioni dell’errore e della malasanità, del contenzioso e dalle sequele giudiziarie e giurisprudenziali, nonché tormentati dal fervore burocratico regionale, dalle tentazioni, infine,

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di fermarsi in un atteggiamento di resistenza opportunistica e di desistenza difensivistica.

Il Codice deontologico si è così felicemente tradotto in presidio di garanzia non solo dell’atto professionale o, non soltanto, del medico deontologicamen-te corretto ma anche del diritto dei cittadini e delle istituzioni (un codice ormai accessibile alle esigenze della utenza e della pubblica tutela) al rispetto dei re-ciproci diritti di partecipazione e di sostegno per la condizione professionale nel quadro di una gestione della sanità che tenga conto dell’equità, dell’adegua-tezza, della qualità (art. 6) anche con gli strumenti di clinical governance. In questa auspicata armonia si iscrive il dovere medico di informazione, di formazione continua, di indipendenza deontologica anche nelle condizioni di “dipenden-za” lavorativa e operativa. E anche le accezioni pubblicistiche della nuova de-ontologia che impegna il medico non solo nelle calamità (art. 9) ma anche nella tutela dell’ambiente (art. 5), nell’attenzione non occhiuta o “paternalisitica” ma solidaristica nei confronti degli stili di vita negativi per la salute nonché nella discutibile ma legittima e doverosa rilevazione dell’errore (non già confessio-ne e tanto meno delazione), esprimono l’irresistibile crescita di una presenza e di un ruolo costanti nella prevenzione e nella garanzia di vita e di qualità della vita delle future generazioni. La fertilità normativa del Codice trae, in definitiva, origine da fonti essenziali: la deontologia medica ha assunto, come si è visto, sempre più consapevolmente la caratteristica di matrice del Codice (fino a identificarsi in esso), esprimendo la propria evoluta fisionomia di deontologia medico-legale, nell’essenza-valenza di moniti e divieti tradotti in summa di norme articolate, finalizzate non solo a responsabilizzare in senso anche pubblicistico la figura del medico, ma anche e soprattutto necessarie per individuare e og-gettivare le trasgressioni al fine di produrre una giustizia ordinistica o quanto meno a rendere efficace ed esemplare nel duplice senso ammonitore e repres-sivo il processo disciplinare proprio della giurisdizione categoriale; l’etica medi-ca ha visto disperdersi il suo essenziale ancorché vago significato umanistico, praticamente solo complementare alla deontologia; la bioetica ha poi fortemente influito sull’evoluzione del Codice deontologico, ovviamente nelle sue ultime edizioni e particolarmente in quelle del 1998 e del 2006 nelle quali ha trasfuso i suoi principi fondamentali che non si fermano alla non maleficità (neminem laede-re!) ma si estendono al rispetto dell’autonomia della persona (nota 39).

Anche le poche leggi dello Stato, emanate tra il 1998 e il 2006, hanno trovato una eco ben precisa nel più recente Codice: come la legge dell’8 aprile 1998, n. 94, nota come legge “Di Bella” sulla libertà prescrittiva anche off label, la legge del 9 gennaio 2006, n. 7, che vieta le mutilazioni genitali femminili, la legge (TU,

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2003) sulla privacy che ha avuto grande ascolto nella deontologia ufficiale (artt. 11-12) per quanto riguarda la tutela e il trattamento dei dati sensibili, la discipli-na dei dati e documenti clinici e specialistici, la cartella clinica (che meritava più estese previsioni), e infine la valorizzazione dell’interessato come unico deposita-rio del diritto al trattamento dei dati esperibile di regola con il consenso infor-mato e del medico curante cui fanno capo la titolarità del dato oggetto di tutela e la responsabilità per ogni legittimo impiego dei dati stessi: problemi complessi e delicati, sui quali non sono ancora sufficientemente esperiti la sensibilizzazione e la partecipazione dei sanitari e il loro rapporto con l’autorità garante. Ultima ma non secondaria ispirazione al progresso delle nuove norme è venuta dalla dottrina e dalla giurisprudenza il cui costante interesse verso la tutela della salute e la condotta dei medici merita una sempre più attenta riflessione e una migliore attitudine all’ascolto e all’aggiornamento permanente ormai fondamentale mo-mento di riflessione, assunto al ruolo di dovere preciso e non eludibile. Va infine ricordato l’intervento delle società scientifiche e, in particolare, della Società italiana di Medicina legale (SIMLA) per quanto attiene la consulenza medica per l’autorità giudiziaria (art. 62) (nota 40).

Se in una sola frase si dovesse esprimere lo spirito animatore della nuova deontologia, si potrebbe parlare di presa di coscienza dell’autonomia professionale, nel rispetto dei diritti delle persone e della società, rivendicata insieme con la consapevole coerente assunzione da parte del medico di piena responsabilità professionale.

Questo è, d’altronde, l’obiettivo che perseguono la dottrina giuridica e la giurisprudenza più autorevoli, le quali pretendono tanto l’autonomia operativa del medico quanto l’autonomia disciplinare e sanzionatoria degli Ordini pro-fessionali (art. 4). Ed è qui che il legislatore dovrebbe con urgenza esprimere un atto di fiducia negli Ordini professionali e procedere al loro adeguamento istituzionale alle nuove esigenze anche disciplinari. In altri termini, le rinnovate regole deontologiche non possono trovare piena e giusta attuazione se non nel quadro di una nuova realtà ordinistica, cui anela una professione, eccessi-vamente turbata da ingerenze geopolitiche, tecnocratiche, sociologiche e, ma-lauguratamente, bioetiche che ne sconvolgono o scoraggiano la peculiare mis-sione. Mi piace davvero concludere questo capitolo, ricordando un autorevole e appassionato studio, che documenta la valenza del Codice di Deontologia e auspica erga omnes una più incisiva giurisdizione deontologica (nota 41). Tale giurisdizione dovrà sempre più penetrare nell’intimo anche caratteristico delle scelte, della loro compatibilità con linee-guida aggiornate e accreditate, della so-stenibilità delle opzioni anche erroneamente comminate con l’equa distribuzio-

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ne delle risorse. Anche su questi punti dovrà esprimersi una nuova deontologia che postula un nuovo riconoscimento giuridico degli Ordini (dopo cento anni) sul piano generale e un’effettiva rilevanza della governance clinica sulle varie situa-zioni e contestualizzazioni culturali.

Un capitolo tutto da rivedere è quello dell’appropriatezza delle scelte che mi permetto di accennare come una nuova frontiera della deontologia medico-legale, capace di legare l’autonomia alla professione.

Il dovere dell’appropriatezzaLa categoria dell’appropriatezza sembra, tradotta com’è in slogan, estranea alla

classica cultura medica italiana troppo spesso eteroispirata, ancorché in realtà implicita alla vicenda sanitaria (nota 42) se intesa alla stregua di ovvia garanzia di sicurezza, di capacità, di responsabilità. La decisione medica deve essere, in effetti, il risultato di una serrata logica (che faccia cioè a meno di ogni archetipo e conflitto d’interesse); e “logos” vuol dire discorso problematico (non verbum che sottende etimologicamente una presupposta verità): un discorso cioè che si articoli su proposizioni chiave, si colorisca di suggestioni antiche e recenti, si articoli su un metodo indefettibile (eco ammonitrice della méthode cartesiana), sia espressione di una cultura in costante divenire per quanto, avvalendosi di punti fermi (le conquiste della scienza) ma non paralizzanti, si rifletta e si rifranga su tutte e su ciascuna delle contingenze cliniche. E ciò attraverso il ragionamento clinico che può essere definito come il prodotto delle operazioni razionali che il medico compie per diagnosticare, spiegare e curare i fenomeni patologici o come il complesso dei processi della logica che il medico impegna per spiegare e comprendere la condizione del paziente. Come saggiamente afferma Pagni (nota 43), l’appropriatezza sta a significare la scelta «giusta, da parte dell’opera-tore giusto, nella struttura giusta». Nel quadro della logica clinica non può quin-di che operare tanto la medicina dell’esperienza, ambiguo frutto della certezza naturalistica e dell’osservazione casistica e sperimentale, quanto la medicina della deduzione, arricchita dal transfer delle evidenze, quanto infine la medici-na dell’induzione capace di dare pericoloso rilievo alle suggestioni statistiche. S’impone così un’appropriatezza capace di umanizzarsi, di individualizzarsi, di confluire nell’alveo della medicina della persona, di una medicina cioè che si ponga al rispettoso servizio dell’ammalato che è la medicina dell’amore, del dolore, della felicità, dell’autonomia e della dignità di ciascuno, in un amalgama sereno e flessibile, anelante all’alleanza, non precipitato dalle ideologie e dalle scorciatoie culturali (preconcette).

Ebbene, la decisione medica appropriata, che altrimenti può dirsi scelta, opzione,

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indirizzo, costituisce la sintesi finale, operativa o desistiva; ed è qui che si ripropone il senso vero dell’obbligo di garanzia che il medico trae dal messaggio costituzionale, il quale pone in armonia valoriale gli scopi primari della medicina e cioè la tutela della salute da perseguire nel rispetto della libertà e della dignità personali. E così la logica clinica resta ancora il fondamentale ma non il solo fattore delle scelte ap-propriate. Pochi e definiti margini restano in effetti per consentire l’influenza di impegni diversi: da una parte l’interesse pubblico eccezionalmente preponderante se e quando definito dalla legge, dall’altra il rispetto degli indirizzi morali del sin-golo medico da contenere peraltro entro i limiti dell’autonomia giunta solo ex lege sino all’obiezione di coscienza. Il resto può essere oggetto solo di scansione deon-tologica e medico-legale: che, in definitiva, rappresenta il parametro della corret-tezza “sociale” della decisione medica, fatta di scienza e di umanità, concretizzata ed espressa nell’ambito del “logico” protagonismo del medico. Ecco perché è an-dato vieppiù scemando, a differenza di quanto occorre nel mondo anglosassone, il significato dell’intervento a livello casistico della consulenza etica e del comitato etico e sta vieppiù svanendo, non solo in Italia, l’idea del bioeticista ospedaliero strutturato, ed ecco perché in altri presidi appare deprecabile l’apporto di figure diverse (come i volontari della “fede” o della “non fede” specialmente nei con-sultori familiari). La decisione è un atto di coscienza e di volontà del medico e del paziente. Dall’esterno può operarsi solo accentuando gli strumenti di conoscenza e di responsabilità nei protagonisti reali o potenziali della decisione, attraverso la formazione e l’informazione, la crescita scientifica e morale.

Le fasi diverse e le competenze diverse non possono né debbono in ef-fetti scomporre l’unicità di un percorso, ma semmai porre in luce, a monte della contingenza, la gamma delle opzioni possibili su cui scienza e morale si confrontino e da cui derivi a valle un’armonia tra le varie istanze e prospettive anche quando la scelta non dovrebbe tecnicamente che essere una. Non può, in effetti, frapporsi tra il medico decisore e l’atto della decisione una trama di suggerimenti, che non sono comunque, né metodologicamente, né scientifica-mente, né eticamente vincolanti ancheai fini della scelta (ed è in questo senso giusto il richiamo al limite delle linee-guida) e tanto meno scriminanti in sen-so deontologico-giuridico. Altrimenti, l’opera del medico è destinata a cedere all’inerzia e alla predominanza dei dogmi (scientifici o etici) sui giudizi, alla deresponsabilizzazione, cioè, dei soggetti interessati, frantumando così ogni unitarietà e titolarità del processo decisionale. Esso non deve mai scostarsi né dalla razionalità scientifica né dal colloquio tra medico curante e soggetto assi-stito che sottende, come si è visto, un dialogo pregnante, semplice o complesso che sia: non più monologo del medico, come in passato, ma impresa plurisog-

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gettiva da perseguire con il paziente, ovvero con chi lo tutela e lo rappresenta, in una trepida e lucida atmosfera di ascolto dei motivi espressi o inespressi da una sorta di coro eschileo composto dalla famiglia, dalla società, dalla giustizia tanto distributiva quanto retributiva. La soggettività del discorso viene siffat-tamente recuperata nel senso profondo di una missione quale è sentita nella coscienza individuale, ma non fino all’inderogabilità o all’obiezione apodittica. Fin qui, il substrato, il senso della decisione.

Nell’ambito della bioetica si è fatto strada il parallelo concetto di deliberazio-ne: un modus molto complesso e ricco di significati e di percorsi metodologici che non può, a mio avviso, né deve uscire dall’analisi speculativa propria del pensiero filosofico in quanto può solo pervenire a varie opzioni, ciascuna delle quali resta ispirata da un principio morale e pertanto tende a problematicizzare fino alla nebulosità sofistica e a spingere verso il manicheismo il percorso deci-sionale, diluendolo nel tempo, in un tempo che esonda dai canali della tempe-stività operativa e della libertà individuale, per non citare neppure il problema della riservatezza, anch’essa garantita dalla legge.

Con queste premesse in ordine alla razionalità decisionale, occorre prospet-tare alcune integrazioni di valenza soprattutto medico-legale.

La decisione medica si articola, come vuole anche la Giurisprudenza, su tre momenti fondamentali: della diagnosi; della terapia (trattamento); e della ria-bilitazione, essendone peraltro presupposto l’informazione e il consenso e corollari la prevenzione, la prognosi, l’eventuale determinazione anche medico-legale delle provvidenze socio-economiche. Traducendo in termini deontologici le problematiche della decisione stessa, per quanto attiene la diagnosi hanno dun-que particolare significato la repertazione e l’analisi delle evidenze (anamnesti-che, sintomatologiche, oggettive), emergenti da interventi metodologicamente corretti e ripetibili, di natura clinica, laboratoristica, eidologica ecc. In questo essenziale approccio al trattamento, la decisione si avvale oltre che della ca-pacità individuale, della fondamentale appropriatezza metodologica, che deve garantire la rispondenza delle indagini a una logica ermeneutica sequenziale, ispirata a indirizzi generali, riferiti peraltro dal clinico al singolo caso se non per altro motivo, per quello di offrire le garanzie provenienti da una corretta informazione e da un consenso espresso con la massima possibile consapevo-lezza. Avvalendosi della suggestione probabilistica che non contraddice, anzi valorizza, il confronto con le linee-guida accreditate, il processo deliberativo dia-gnostico deve essere chiaro, trasparente, motivato e non velleitario e pertanto scientificamente logico. Non è censurabile, del resto, l’errore diagnostico se non quando incompatibile con paradigmi patogenetico-clinici elementari. Lo sbaglio

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inescusabile si realizza invece per la trascuranza (da imperizia o da negligenza) di fondamentali indirizzi pratici non pleonastici ma corrispondenti a direttive o paradigmi operativi promossi e accolti dalla comunità scientifica, ovvero di ele-mentari regole di condotta. Ma questi sono concetti troppo risaputi per essere ripercorsi. Importante è, comunque, dal punto di vista medico-legale, la se-gnalazione e la registrazione dettagliata dell’iter diagnostico seguito, che dovreb-be essere preceduta dalla descrizione (in cartella clinica) dell’ipotesi primaria e delle varianti ipotetiche successive su cui si muove il processo investigativo. Basterebbe in proposito che il medico acquisisse il senso dell’opportunità di una enunciazione diligente e descrittiva dei passaggi e dei ripensamenti, tale da documentare onestamente la serietà dell’impegno.

La fase fondamentale del comportamento logico, una volta esperito nel-la maniera migliore possibile l’approccio diagnostico, risiede nel trattamento o anche nel non trattamento (o nella cessazione del trattamento o desistenza terapeutica), fasi essenziali dell’atto medico che presuppongono una decisione non sempre revocabile e a un certo punto inflessibile. La decisione definitiva deve evocare e rispettare sempre il fine della medicina, che è quello di garantire il recupero della salute e di salvaguardare la vita, ma entro i termini della logica (ragionevolezza) clinica e mai al di fuori della duplice potestà individuale di far valere la propria libera volontà e di imporre il rispetto della propria dignità. E ciò vale tanto per il medico quanto per l’ammalato e va commisurato, non piegato, ai parametri dell’equità e della sostenibilità. Giova in proposito ricor-dare che l’opera del medico e della medicina non può non tener presente la nozione di salute a suo tempo fatta propria dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, testualmente ripresa in ogni assise socio-politica (almeno fino a pochi anni fa) e introdotta (1978) nella legge fondativa del nostro Servizio Sanitario Nazionale. La categoria “salute” è per sua stessa natura antinomica non solo di malattia ma anche di tutto ciò che mina il benessere psico-fisico, la qualità cioè della vita percepita e accettata. Si è proposta recentemente (con ricadute bioetiche inquietanti) l’indisponibilità del substrato corporeo, oltre che della vita stessa, e si è revocata, mettendola in dubbio, la legittimità del rifiuto di curarsi ma anche di prodursi o di sollecitare una modificazione “morfofunzio-nale” non direttamente correlata a condizioni patologiche, riconducendo così la malattia e la salute nelle strettoie del mero organicismo. E così d’un colpo si è rischiato, ad esempio, di delegittimare ogni separazione medicalmente prodot-ta o assistita tra sessualità e procreazione e ogni discrezionalità correttiva non motivata da malattie organiche. E così, per fare un altro esempio, buona parte della medicina estetica e di ogni altra espressione della “esecrabile” medicina

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dei desideri, sta andando incontro a una preconcetta condanna. Questa esca-lation di divieti moralistici non è tuttavia accettabile, posto che nella temperie civile e democratica la scelta deve solo derivare da un’effettiva armonia tra libertà di curarsi e libertà di essere curati: ed è questo un principio basilare del-la professione medica, un principio del resto prevalente della stessa bioetica, quale è stata e si è nel tempo affermata.

Al di là delle indicazioni normative dirette a soddisfare interessi generali, non possono che valere in definitiva le potestà della medicina, legittime se indi-rizzate verso una virtuosa gamma di obiettivi: che non possono tuttavia tradur-si in obblighi sul se e sul come, tanto per il medico (di cui tuttavia sono ammessi e l’obiezione di coscienza e il rifiuto deontologicamente corretto) quanto per il paziente. La Corte Costituzionale, come si è già riferito, ha d’altronde negato a più riprese (nota 44) allo stesso legislatore la discrezionalità di intervenire nella materia decisionale delle scelte curative (se e quando, ad esempio, siano am-missibili l’elettroshock, il ricorso a medicine alternative, le remore extrabiolo-giche alla procreazione medicalmente assistita), ammonendo sulla esperibilità di prescrizioni normative regolatrici della responsabilità operativa. E anche il legislatore ordinario (non a caso) ha ammesso la prescrivibilità dei farmaci off-label (nota 45), e persino dei placebo, dando giusto ed equilibrato rilievo ai diritti individuali nonché alla scienza e alla responsabilità dei medici (nota 46). Un discorso a parte meritano (si fa per dire) le medicine alternative: capitolo che non può peraltro essere affrontato se non partendo dai medesimi principi. La decisione curativa deve emergere in definitiva da presupposti di relazionalità, di razionalità,diequità,disperimentalità,di responsabilità, essenziali momenti cui si ispira una letteratura immensa e intensa che non occorre ripercorrere se non in alcuni passaggi esemplificativi del tutto attuali in quanto persistente oggetto di animata discussione. In primo luogo, la relazionalità va comunque tenuta presente come condizione di base. Essa risiede nel rispetto della volontà del paziente, liberata dall’enfasi della resistibile ascesa del consenso informato, ieri for-malisticamente ritenuto unico lasciapassare della medicina e preteso in forma scritta su moduli ufficiali e onnivori, concepiti, quasi alla stregua di atti notarili, oggi assunto alla stregua di naturale componente dell’atto medico.

Poche parole occorrono infine sulla razionalità che sottende e legittima la decisione. Linee-guida, protocolli, genialità deduttive: antiche e nuove chiavi di lettura della realtà patologica, sono tutte condizioni necessarie ma insufficienti ad autorizzare certezze. Resta l’ineludibile titolarità (e vulnerabilità) della scelta che deve tendere all’equilibrio tra scienza ed etica: un’etica – soprattutto – di rapporto, come suggestivamente insegna la terapia del dolore! Sullo sfondo

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emerge pur sempre anche il tema dell’equità distributiva e del conflittodiinteresse, che tuttavia si pongono in forme e con forza crescente non certo esorcizza-bile. E così la decisione medica ritorna, compiendo un circolo indubbiamente virtuoso, al punto di partenza, insito nella potestà del medico, del singolo me-dico, in modo molto più sottile, penetrante e coinvolgente rispetto a quanto possano suggerire le classiche e nuove giustificazioni etiche come quelle della beneficità o del best interest, ovvero del rapporto ponderale tra ricerca e clinica (il più pericoloso agli effetti decisionali in quanto alla base del più subdolo dei conflitti di interesse). Su questo e altri dubbi della bioetica e della deontologia non sono peraltro da attendere dal diritto risposte sicure e definitive, capaci di sollevare il medico da ogni incertezza e rischio. D’altronde è sul principio della responsabilità che si fonda l’autonomia del medico ed essa resta tale se garantita da un corretto, sereno e coraggioso potere decisionale.

Così il principio di appropriatezza trae forza e coerenza dal binomio scienza e coscienza; non già da un’aprioristica e generale indicazione, cui altro signifi-cato non compete se non quello di guida ai percorsi operativi; deve invece concretizzarsi in un’analisi fortemente personalizzata, così come esige ogni serio intervento medico, cui sia estranea da un lato la soggettività immotiva-ta, dall’altro la futilità, e sia implicita l’aspirazione a un principio di giustizia e di equità distributiva delle risorse. L’inanità terapeutica autorizza infine un definitivo giudizio medico, di desistenza, in quanto ciò che è inutile ormai, esula dalla potestà di curare e sfuma in un autoritario velleitarismo spesso condizionato da presunzioni, ideologismi, conflitti d’interesse che finiscono per indurre un’inappropriatezza fatalmente prossima all’illecito.

Resterebbe da considerare l’impegno del medico al contenimento del-la spesa sanitaria: un difficile, complesso impegno che peraltro il principio dell’appropriatezza, può rendere meno estraneo alla sensibilità del medico.

Percorsi dell’appropriatezza Nella visione generale del tema deontologico ben si attiene dunque la ca-

tegoria dell’appropriatezza applicabile anche all’informazione, al consenso, alla tutela del rapporto (nota 47). E così si compie il ciclo virtuoso della nuova deontologia in costante divenire, da arricchire con riflessioni ben più appro-fondite e diffuse rispetto a quelle che sin qui ho modestamente espresso.

ConclusioniIl più recente orientamento giurisprudenziale, sistematicamente propo-

sto nel 2009 dalle Sezioni Unite della Cassazione penale, definisce finalmen-

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te l’attività medica come un complesso di competenze e di impegni che non sono solo quelli meramente teorici, di cui si impone l’appropriatezza oltre che la coerenza con le inderogabili pulsioni della scienza e della coscienza, ma si armonizzano con il rispetto profondo dei diritti di libertà e di dignità, con l’autonomia della persona assistita.

Ne deriva l’esigenza di una più matura deontologia, che vada oltre le suggestioni pur provvide della bioetica e si esprima nei termini di una biopolitica espressi-va di un rapporto, di un’ideologia, di una sensibilità capaci di esaltare il dovere nel senso dell’ascolto, del dialogo, del rispetto delle persone e delle istituzioni, nell’auspicio di un biodiritto armonizzato con la diversità e le libertà compatibili.

A livello formativo, il capitolo medico-legale della deontologia va quindi ri-disegnato su basi più ampiamente realistiche, a livello operativo fondato sulle regole in primo luogo ordinistiche, e il Codice merita un ulteriore approfondi-mento di alcuni momenti di diversità più recentemente in altre sedi richiamati, senza alterarne i principi che ne hanno prodotto nel tempo una straordinaria elevazione etica e una grande maturazione sociale.

La recentissima, illuminata e illuminante storia dei “cento anni degli Ordini dei Medici” idealmente si conclude con la parola-auspicio: continua…!Ed è questo auspicio che sarà bello coltivare… (nota 48).

APPROPRIATEZZA

COMPLIANCE (adesione)

EFFICACIA CLINICAEFFICIENZA

allocativa, tecnica, organizzativa

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Appendice: doveri legali di informativa

Si riassumono qui i fondamentali atti medici stabiliti dalle norme (nota 49).

UOdiIgieneeSanitàPubblicadell’AUSLNotifica delle malattie infettive e diffusive (DM 15 dicembre 1990);Denuncia delle malattie veneree (DM 15 dicembre 1990);Denuncia dei casi d’intossicazione da antiparassitari (legge2dicembre1975,n.638);Segnalazione delle vaccinazioni (desueta);Segnalazione di neonati immaturi (DM16luglio2001,n.349);Segnalazione di interruzione di gravidanza (legge22maggio1978,n.194).

SindacoDenuncia delle cause di morte (DPR10settembre1990,n.285).

Sindaco e UOdiIgieneeSanitàPubblicadell’AUSLDenuncia della nascita di infanti deformi (DM16luglio2001);Denuncia dei casi di lesioni invalidanti (desueta).

INAILDenuncia di infortunio del lavoro del titolare di impresa artigiana (DLgs 23 febbraio2000,n.38).

INAILeServiziodiPrevenzioneIgieneeSicurezzaLuoghidiLavorodell’AUSLDenuncia delle malattie professionali (DPR30giugno1965,n.1124);Denuncia delle malattie e delle lesioni causate da raggi X e da sostanze radio-attive (DLgs23febbraio2000,n.38).

AssessoratoRegionaleallaSanitàeCOApressoIstitutoSuperiorediSanitàNotifica AIDS conclamato (DM 15 dicembre 1990).

Comando Provinciale deiVigili del Fuoco, Servizio di Prevenzione Igiene e SicurezzaLuoghidiLavorodell’AUSLDenuncia della detenzione di apparecchi radiologici e di sostanze radioattive (DLgs26maggio2000,n.241,inattuazionediDirettive96/29EURATOM).Servizio di Farmacovigilanza dell’AUSLDenuncia delle reazioni avverse ai medicamenti (DLgs8aprile2002,n.85).

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Tribunale dei MinorenniDenuncia di situazioni d’abbandono di minore (legge4maggio1983,n.184).

Autorità giudiziariaReferto (art.365cp), nel rispetto delle norme di salvaguardia della persona ivi previste.

Note 1. Questa trattazione è ispirata dall’idea di una nuova impostazione (anche

didattica) della Deontologia medica e si propone come sviluppo coerente del prezioso contributo di Pagni A e Benato M. 1910-2010 – I cento anni degliOrdini,deiSindacatimediciedellaprofessione,tracomposizioneeconcertazionedallafinedell’Ottocentoaigiorninostri in Professione e Clinical Governance, n. 3, 2010.

2. La versione attualizzata del c.d. giuramento di Ippocrate è ufficializzata come premessa al Codice di Deontologia Medica (FNOMCeO, 2006) ma non ha che il significato di un solenne ammonimento.

3. Fu Federico Stella sul primo numero della Rivista italiana di Medicina lega-le (1979) a promuovere il superamento delle incomprensioni tra scienza giuridi-ca e scienzamedico-legale:unpericoloda scongiurarsi. Dieci anni dopo (Barni M. MedicinaeDiritto, in Rivista italiana di Medicina legale, 1989) concludevo il mio editoriale con un omaggio alla «deontologia del biologo e del medico, presupposti entrambi del progresso scientifico ed esistenziale, armonizzabili solo in termini giuridici, validi se scanditi in una temperie democratica, se capaci di essere compresi e se realmente corrispondenti ai veri problemi: per cui la medicina legale si propone come garante di una alleanza perenne tra medicina e diritto».

4. Fu Paolo Zacchia, archiatra pontificio del Seicento a indurvi un assetto dot-trinario “definito”, indicando per le questioni medico-legali termini e potestà originali nell’accertamento e nell’interpretazione dell’oggettività a fini foren-si e nell’epicrisi specialistica. Nel De rebus medicis sub specie juris sono dettate le norme esecutive, le alchimie deduttive di un presidio di coraggiosa validità, concepito in un torbido clima postconciliare, oggi evoluto e garante di giu-stizia, in quanto capace di trarre prove, evidenze, traducendole in certezze cau-sali, dalla materia biologica, per sua natura assolutamente ribelle a uniformità semantiche, a esasperazioni schematiche e a interpretazioni dogmatiche e pertanto stimolatrice di incessanti e progressivi “metodi” tecnici (sempre più affinati dalla progressione conoscitiva) e di una parallela capacità di giudizio

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tutta permeata dalla conoscenza delle categorie e delle aspettative del diritto (necessariamente da intendere, ante litteram, come biodiritto).

5. Cfr. Zatti P. Versoundirittoperlabioetica:ricorsoelimitidell’istitutogiuridico. Riv dir civ 1995; 1: 43 ss.

6. E non è questo né un apprezzamento critico e tanto meno una presunzione di superiorità, se si tiene conto del più chiaro approfondimento sperimen-tale e, quindi, scientifico delle scienze forensi nel mondo anglosassone che ha promosso la trionfale acquisizione della teoria delle evidenze e della loro imprescindibilità professionale senza deleghe (come da noi) a principi tec-nologici non ispirati dal principio della verità.

7. Per un preciso inventario delle regole giuridiche tradotte in doveri del me-dico, si rinvia, in primis, ai trattati e manuali di Medicina legale (cfr., da ultimo: Buccelli C, Norelli G, Fineschi V. Medicina legale e delle Assicurazioni. Piccin, Padova, 2009). L’analisi delle doverosità è presente, tra l’altro, nel mio Diritti, doveri, responsabilità del medico. Giuffrè, Milano, 1999, capitolo XVIII: I doveri di informativa, pp. 299-318 (vedi Appendice).

8. Non si dimentichi in proposito la lezione di Vincenzo M. Palmieri che non sacrificò la serietà scientifica al tormento dogmatico.

9. Leggediratifica 28 marzo 2002, n. 145, che peraltro non è stata mai deposi-tata presso il Consiglio d’Europa né corredata dai decreti attuativi, peraltro non necessari.

10. In ordine cronologico si riportano le principali fonti di doverosità: legge 29 dicembre 1998, n. 578 (GU 8 gennaio 1994): Norme per l’accertamento precoce della morte, regolamento con DM 22 agosto 1994, n. 582 (GU 19 ottobre 1994); legge 1° aprile 1999, n. 91 (GU 15 aprile 1999, n. 87): Disposizioni in materia di prelievi e di trapianti di organi e di tessuti; DPR 9 ottobre 1990, n. 309 (GU suppl. ord. 31 ottobre 1999): Testo unico delle leggi in materia di disciplina deglistupefacentiesostanzepsicotrope,prevenzione,curaeriabilitazionedeirelativista-ti di tossicodipendenza; DM Sanità 15 dicembre 1990: Malattieinfettiveediffusive.DLgs 30 giugno 2003, n. 196 (GU suppl. ord. 29 luglio 2003, n. 174) (Codice (TU)inmateria di dati personali).

11. Senza alcuna pretesa di gerarchizzazione vi si considerano l’indipendenza e la dignità della professione sanitaria (autonomia); l’imperativo della presta-zione di assistenza (dovere di curare); l’obbligo, di antico retaggio ippocra-tico, del segreto professionale e il più oggettivo rispetto della riservatezza; il conseguente trattamento (raccolta, rivelazione, trasmissione, elaborazione, assicurazione, utilizzazione a fini leciti) dei dati personali identificativi e sensibili, inerenti cioè la salute e la vita sessuale (tutela della privacy); la cor-

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retta e legittima ispirazione, scientifica e coscienziosa, del trattamento me-dico, cui siano estranei l’abusivismo, il ricorso a cure prive di fondamento e, per contro, l’accanimento terapeutico; la doverosa sfida dell’aggiornamen-to; il rispetto dei diritti, costituzionalmente garantiti, alla dignità, libertà, salute (leit motiv di un costante ammonimento della Corte Costituzionale); lo scrupolo metodologico e ideologico (veridicità) nella certificazione e nell’informazione richiesta dalle leggi; la particolare amorevole attenzio-ne verso i minori, gli anziani, i disabili; il dovere di informare la persona assistita e di acquisirne il consenso avendo assoluto rispetto dell’autono-mia del paziente e delle sue scelte diagnostico-terapeutiche, soprattutto in caso di dissenso; l’astensione da ogni forma di attività di aiuto al suicidio, ma anche di accanimento terapeutico; la cura particolare dei malati termi-nali e gravemente sofferenti ispirata alla massima apertura nei confron-ti della leniterapia e della terapia del dolore; l’attenzione collaborativa al prelievo di organi a fini di trapianto; l’ottemperanza alle leggi in ambito di sessualità e riproduzione cui è peraltro opponibile l’obiezione di coscien-za quando essa sia prevista ex lege (che si stempera anche in una libertà di coscienza essenziale all’autonomia del singolo medico); l’osservanza delle regole di buona condotta clinica e di rispetto dell’integrità personale e della vita nella sperimentazione nell’uomo e nell’animale; la condanna della tortura e dei trattamenti inumani e dispregiativi della persona (e, in particolare della donna, dei minori, dei soggetti privati della libertà), ivi compresa l’alimentazione forzata di chi la rifiuta; la coscienza dei doveri verso l’organizzazione e l’amministrazione civica come le denunce di na-scita e le certificazioni di morte; verso l’igiene pubblica come le denunce delle malattie infettive e diffusive e della malattia mentale pericolosa; ver-so l’amministrazione della giustizia come il rapporto e il referto; verso le finalità di natura sociale come le denunce degli infortuni, delle malattie professionali ecc.).

12. Berlinguer G. Bioetica quotidiana. Giunti, Firenze, 2000.13. Il documento di Erice è riportato in Riv it med leg, 1990.14. Gianformaggio L. Valorietici,costituzionaliegiuridico-socialiedattivitàsanitaria.

Atti del XXX Congresso Nazionale della Società italiana di Medicina legale e delle assicurazioni, Bari, 23-30 settembre 1989.

15. Il ruolo dei professionisti sanitari nella vicenda curativa ha subito una for-tissima accelerazione quantitativa fondata sulla qualifica “universitaria” conseguita, sulla soppressione dei mansionari, sulla formazione dei percor-si formativi e dei codici deontologici, sull’esigenza di una razionalizzazione

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delle attività di équipe che peraltro non può prescindere dal primato medi-co, in termini di scelte e di responsabilità.

16. Cfr. Bellelli A. Il codice di deontologia medica e il suo valore giuridico, in Barni M (a cura di), Bioetica,DeontologiaeDirittoperilnuovocodiceprofessionaledelmedico. Giuffrè, Milano, 1999; Busnelli F. BioeticaeDirittoprivato:frammentidiundi-zionario. Giappichelli, Torino, 2001; Comporti GD. La deontologia medica nella prospettiva degli orientamenti giuridici. Riv it med leg 2002, 24: 855; Iadecola G. Il nuovo codice di Deontologia medica, CEDAM, Padova, 1996; Quadri E. Il codice deontologicomedicoeilrapportotraeticaediritto. Resp civ e prev 2002, pp. 925-948; Rodotà S. Modelli culturali e orizzonti di bioetica (2002, estratto ottenibile dall’Autore).

17. Si veda in proposito la monografia di Raimondi L. Il procedimento disciplinare nelle professioni sanitarie. Giuffrè, Milano, 2007.

18. Cfr. Baron J. Contro la Bioetica. Raffaele Cortina ed., Milano, 2008.19. Come scriveva Engelhardt HT Jr: «Una nuova parola spesso richiama ele-

menti di realtà da controllare nel nostro scibile culturale, e anche se si espri-me con precisione sulle ragioni del suo potere e della sua utilità, è spesso imprecisa nei suoi limiti al punto di poter sottintendere molte aree di inte-resse, posto che una giusta parola può assemblare un ricco set di immagini e di significati e aiutare a scorgere le relazioni tra elementi della realtà fin qui separati nel nostro orizzonte visuale […] Lasciata a se stessa […] suchawordhasafertileorstrategicambiguity.ThishasbeenthecasewithBioethics» (art. n. 14).

20. Per Varnus et al. su Science (2003, 302: 398-399), la Bioetica, se vuole mante-nere la sua autonomia almeno formale, non può non delimitare – a questo punto – il suo campo d’azione occupandosi almeno dei temi epistemologici che riguardano i diritti e le ragioni dell’essere (o del non essere), e interes-sandosi maggiormente a problematiche che hanno assai più a che fare con la salute e il benessere di un gran numero di mortali; e – aggiungo – dovrà raccomandare una segnaletica indubbiamente laica, ma fortemente umani-stica e umanitaria, a una pratica comportamentale liberata dal moralismo e dal laicismo, tendente anzi all’armonizzazione dei nostri desideri, delle nostre ambizioni, dei nostri personali (e legittimi) ideali nel quadro delle regole democratiche.

21. È bello ricordare come nell’istituzione (1978) del Servizio Sanitario Na-zionale le funzioni erano identificate nella prevenzione, nella cura, nella riabilitazione ma anche nella medicina legale: ed è stato un ruolo non tenuto nel debito conto.

22. Corte Cost. n. 471/1990.

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23. La tesi dell’autolegittimazione del trattamento sanitario affermata in dottrina dal-la Cassazione civile e, ora, penale, risale, come ricorda Iadecola, a Giuliano Vassalli (Alcune considerazioni sul consenso del paziente e lo stato di necessità nel trattamentomedico-chirurgico. Arch pen 1973; 81) il quale afferma che sussi-stono principi positivi aventi valore normativo ricavabili (solo) per analogia del sistema delle cause di giustificazione, in forza dei quali il trattamento medico-chirurgico si impone di per se stesso, quando sia condotto in vista delle supreme esigenze della salute del paziente e secondo la lex artis, come fonte di incriminazione dell’atto (Cfr. Iadecola G e Bona M. La responsabili-tà dei medici e delle strutture sanitarie. Milano, Giuffrè, 2009).

24. Cass. pen. Sez. un. 21 gennaio 2009, n. 2347 in Barni M. La legittimazione dell’attivitàmedicaelacuradelpaziente.Resp. Civ. prev. 2009; 2170 ss.

25. Significativo è in proposito il richiamo al valore dei documenti deontolo-gici e, in particolare alla ConvenzionediOviedo (1997) e al nostro Codice di Deontologia medica (2006), e segnatamente all’art. 35, secondo il quale «il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente» aggiungen-do, quale ulteriore conferma del principio di rilevanza del dissenso come limite ultimo e invalicabile all’esercizio dell’attività medica, un precetto se-condo il quale «inpresenzadiundocumentatorifiutodipersonacapace, ilmedicodeve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà del paziente».

26. Alcuni stereotipi, in buona misura abbandonati dalla dottrina giuridica ma ancora pervicacemente “cari” ai custodi di una cittadella di residuale concettualità medico-legale, sono stati in buona misura “superati”. Essi ri-guardano anzitutto alcune presunte e abusate cause di giustificazione (idoli infranti o lesionati) quali:

- Le scriminanti del consenso dell’avente diritto (art. 50 cp), categoria penalistica definita come inapplicabile, non necessaria e addirittura eccentrica in quanto estranea a una attività che trae la sua precisa legittimazione in se stessa e nel dettato costituzionale (sez. VI penale del 14 febbraio 2006 n. 11640, Cane-schi.

- Quella dell’esercizio di un diritto (art. 51 cp) non essendo attribuibile al medico un generale diritto di curare, a fronte del quale non avrebbe alcun rilievo la volontà dell’ammalato che si troverebbe in una posizione di sog-gezione su cui il medico stesso potrebbe ad libitum intervenire con il solo limite della propria coscienza forte di una «posizione di garanzia» vissuta alla stregua di precipuo dovere.

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Riflessioni per una nuova deontologia

- Quella dello stato di necessità (art. 54 cp) che per prevalente opinione dot-trinaria e giurisprudenziale non è evocabile in quanto l’atto medico, specie se urgente, è legittimo e non abbisognevole di scriminanti, ed è ininfluente allorché l’intervento medico si ponga in contrasto con la volontà del pa-ziente e, in particolare, con un suo motivato, consapevole dissenso, attuale o chiaramente documentato che sia. In effetti, si afferma che (Cocco G. Un puntosuldirittodilibertàdirifiutareterapiemedicheancheurgenti. Resp civ prev 2009; 74: 485) «l’art. 54 cp opera in campo medico-chirurgico quando la situazione di urgenza non consenta di attendere che il paziente riprenda conoscenza o comunque non consenta (per le condizioni cliniche in atto) di accertare l’effettiva sussistenza del consenso del paziente. Se invece il paziente manifesta espressamente il suo dissenso al trattamento medico, decidendo anche per il momento in cui diverrà incosciente e coprendo così l’intero percorso dell’intervento sanitario fino ai suoi effetti ultimi, egli non può certo essere obbligato a sottoporvisi perché la libertà personale non può essere compressa in forza di una pretesa eterotutela della vita in palese contrasto con la volontà dell’individuo (…)».

- Sul reato di violenza privata (art. 610 cp) non è da avanzare, a mio avviso, alcuna ulteriore riflessione medico-legale, essendo peraltro da notare come non sia da condividere la tesi secondo la quale la violenza non sarebbe da porre subito in rapporto con una sopraffazione dell’altrui libera espressione del volere, ma si realizzerebbe necessariamente con un comportamento concreto di azione di tolleranza o di omissione non voluta dal soggetto passivo (anche se ormai incapace di dissentire o consentire, come, appunto, il soggetto anestetizzato). In altri termini, e a mo’ di esempio, «il chirurgo nell’eseguire un intervento diverso da quello consentito, esplicherebbe una energia fisica sul corpo del paziente, tenendo una condotta violenta, una vis absoluta sul paziente che, per le condizioni in cui si trova, non può opporre alcuna resistenza». La Cassazio-ne a Sezioni penali unite (2009) ha invece considerato che per la configurazione dell’art. 610 cp, il requisito della violenza, sia essa fisica (propria) o psicologi-ca (impropria) s’identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di autodeterminarsi, sia che l’elemento soggettivo del reato implichi una violenza (appunto) o una minaccia che abbiano l’effetto di costringere taluno a fare, tollerare o ammettere una determinata cosa: “il che sembra rendere del tutto impraticabile l’ipotesi che siffatti requisiti possano ritenersi soddisfatti nell’ipotesi” dell’attività medico-chirurgica in quanto «la violenza […] è un connotato […] di una condotta che […] deve atteggiarsi alla stregua di mezzo destinato a ottenere qualcosa di diverso dal fatto in cui

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Manuale della Professione Medica38

essa si esprime»: questi i termini enunciati dalle Sezioni unite, in maniera dav-vero assai convincente.

- E infine la indisponibilità dell’integrità corporea (art. 5 cc) è ritenuta superata dal dettato costituzionale e va interpretata nel senso che il “negato” potere di di-sporre non esclude la libertà di disporre del proprio corpo e quindi di decidere e di autodeterminarsi in ordine a comportamenti che coinvolgono e interessino il proprio corpo: e questo concetto ben affermato in dottrina è espressamente richiamato dalle Sezioni unite, in modo del tutto conforme ai principi costi-tuzionali.

27. Sentenza “stranamente negletta” è la Corte Cost. del 15 dicembre 2008, n. 438, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 della legge regionale del Piemonte n. 21/2007, in materia di uso di sostanze psicotrope su bambini e ado-lescenti, intervenendo nelle modalità stesse del consenso che, inteso come espressionedellaconsapevoleadesionealtrattamentosanitariopropostodalmedico,siconfigurainvecequaleveroepropriodirittodellapersonaetrovafondamentoneiprincipiespressidall’art.2dellaCostituzionechenetutelaepromuoveidirittifondamentali,e negli artt. 13 e 32 i quali stabiliscono rispettivamente che la libertàpersonaleè invalicabilee che nessuno può essere sottoposto a trattamento sanitario se non perdisposizione di legge, che a sua volta non può violare la dignità della persona.

28. Cass. sez. II civ., 15 settembre 2008, n. 2376, con commento di: Barni M. Sulrifiutodi sangue:un compromessoonorevole, e di Silingardi E e Santunione AL. Ilrifiutodeltrattamentotrasfusionale:laCassazioneancorainbilicotraunpassa-tochenonpassaeunfuturoipotetico, in Riv it med leg 2009; 31: 211 ss.

29. Si rende necessaria la previsione di istituti nuovi (per me non necessaria-mente affidati al legislatore) quali appunto il testamento biologico, funzional-mente rivolti all’autoregolazione per il tempo della sopravvenuta incapa-cità, quali l’autodeterminazione rispetto alle nuove tecnologie biomediche e la difesa del trattamento sanitario ritenuti indesiderati in quanto valutati lesivi della propria identità e dignità personali e non rispondenti al proprio progetto di vita: istituti che rendano cruciale la dichiarazionedivolontà, posto che essa è il veicolo stesso attraverso il quale non soltanto il disponente piani-fica le proprie cure ma rende noto qual è l’insieme dei suoi valori, delle sue convinzioni etiche e morali, delle sue idee filosofiche, del suo credo religio-so (in una parola della sua personale concezione dell’identità e della dignità umana) rispetto alla vita, in malattia e in incoscienza. Ed è da questa lettura rispettosa e umile, che il fiduciario e il medico debbono trarre ispirazione per le loro scelte. Cfr. Pizzetti F. Allefrontieredellavita:iltestamentobiologicotravalori costituzionali e promozione della persona. Giuffrè, Milano, 2009.

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30. È naturale che in proposito si sollevino quesiti e dubbi sul ruolo dei consu-lenti, degli specialisti, dei laboratoristi, degli infermieri, degli anestesisti, dei radiologi ecc.; ma è difficile dire come il compito possa essere delegato e condiviso. Se ne può solo individuare la titolarità, densa di un’irrinunciabile responsabilità, che grava sul decision maker, sempre e a ogni effetto medico-legale (consenso, segreto ecc.).

31. Il duplice diritto alla riservatezza e alla contemporanea conoscenza del proprio stato implica una prerogativa assoluta ed esclusiva della persona interessata, trattandosi di un diritto costituzionalmente tutelato, rifiutabile e delegabile solo mediante un preciso atto di volontà dell’interessato e mai in forza di un’iniziativa o di una presunzione da parte del medico. Solo in caso di minori o psichicamente infermi, l’onus conoscitivo può essere trasferito su chi esercita la tutela. Sono da tener presenti, in proposito: l’opportunità della comunicazione relativa allo stato di salute anche al minore o al malato di mente, che, ove ragionevolmente possibile, deve saper partecipare alle deci-sioni terapeutiche, ancorché non in modo dominante; il ruolo informativo del consultorio, del comitato etico o della équipe informativa non esclusivamen-te medica (counselling) per particolari patologie, indagini, scelte ecc. Si tratta di un ruolo che potrebbe scardinare il legame fondamentale medico-malato e che comunque è subordinato a un atto di volontà da parte dell’utente; la delicatezza informativa da riservare alle persone a rischio per condizio-ni di pericolosità o di trasmissibilità proprie di patologie tenute nascoste dal paziente: problema legato da sempre, nel primo caso, a talune malattie mentali, nel secondo a malattie infettive e diffusive, e oggi alle malattie geneticamente trasmissibili. L’informazione alla persona direttamente o in-direttamente interessata è anche qui prioritaria, ma dev’essere fortemente estesa a ogni possibile conseguenza anche penale dell’eventuale rifiuto di illuminare la persona a rischio. La sindrome da immunodeficienza acquisita ha attualizzato il problema, che è oggetto anche di protocolli comporta-mentali e operativi sui quali si basa ad esempio il contact tracing, e sul quale si articola il sistema delle notifiche e delle denunce all’autorità sanitaria. Il medico deve illustrare al paziente anche il rischio giudiziario e avere il co-raggio di agire al di fuori delle regole del segreto, così come suggerisce l’art. 9 del Codice di Deontologia medica (2006), previa «valutazione sull’oppor-tunità della deroga allorché sia in grave pericolo la salute o la vita di terzi». Una riflessione a parte merita l’informazione nei casi d’intervento medico d’elezione, non corrispondenti, cioè, a condizioni patologiche intese nel comune significato nosologico. È il caso della chirurgia estetica e di taluni

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interventi nella sfera della sessualità e della riproduzione. Già la giurispru-denza ha duramente sanzionato il difetto informativo in contingenze come la fallita plastica mammaria, la fallita interruzione volontaria di gravidanza, la fallita correzione dei caratteri sessuali secondari nel transessuale. Infor-mazione e obbligazione di risultato si attualizzano così e si embricano in diacronica sequenza.

Il ruolo dell’informazione assume connotati quasi biblici, propri della respon-sabile premonizione e del vaticinio esistenziale, quando si tratta della possi-bile deriva dei test genetici (medicina predittiva) e delle responsabilità anche giuridiche connesse alla fecondazione artificiale. L’informazione, in questo caso, deve investire una pluralità di soggetti: il donatore dei gameti (anonimato assoluto o relativo!), la coppia o la donna sola (sempre che ne sia consentito l’accesso alla fecondazione artificiale), la candidata madre portatrice, con l’in-quietante e ammonitrice incombenza di colui del quale si progetta l’esistenza.

32. Per l’art. 33, ultimo capoverso: «la documentata volontà del paziente di non essere informato o di delegare ad altro soggetto l’informazione deve essere rispettata». Molto vaga e ininfluente sul piano medico-legale è la letteratura sul tema, cui mi piace dedicare un primo commento: il dovere di informare il paziente si arresta di frontealrifiutoeallamanifestazioneditotalefiduciaedilealeaffidamento,manoninognicasopuòessereconsideratocomeassoluto,perlasussistenzaolapossibileemergenzadiresponsabilitàmedicherilevanti.Il medico deve pertanto evitare di assumersi autonome iniziative d’importante incidenza sulla salute, sulla futura validità e sulla vita stessa del soggetto, salvi naturalmente i casi di urgenza e di in-differibilità dell’intervento, sentendo in tutta la sua gravità la problematica etico-giuridica della scelta, tanto maggiore quanto maggiore è appunto il rischio clinico, inteso come rischio per la vita, la salute, ma anche per le opzioni e le chancesdella persona nella sua sfera esistenziale e in rapporto con la famiglia, la società, il lavoro, la vita affettiva, sessuale ecc.

33. Occorre dire in definitiva che le possibili conseguenze d’indole deontolo-gico-giudiziaria pesano molto e vanno considerate con grande serietà. Basti citare l’esigenza che il paziente, ad es., sappia e comunichi al partner la sua possi-bile contagiosità; che il paziente sappia che nella struttura in cui si trova non esistono sufficienti opportunità di diagnosi e di cura; basta ricordare al medi-co che il difetto d’informazione elide la regolarità “contrattuale” del rappor-to di cura. Si ricordi intanto che il medico curante è il titolare dei dati sensibili relativi alla salute e alla sessualità del paziente e che anche la comunicazione al paziente ne costituisce trattamento ai sensi del codice della “privacy”, per cui è sempre fondamentale il consenso o il rifiuto (documentato) del paziente.

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Riflessioni per una nuova deontologia

34. Ogni aspetto ne è ampiamente trattato nel capitolo successivo, che ne stabilisce i confini e i limiti, e le modalità espressive, sino al testamento biologico, soffermandosi sulle condizioni che delimitano e sorreggono la capacità di consentire.

35. Si potrebbe dire “in principio era Ippocrate”; ma l’imperativo di riservatezza contenuto nel giuramento è di per se stesso ben più estensivo e denso di impegni e di impulsi morali di quanto non lo sia, ad esempio, la previsione penalistica vigente (art. 622 cp): costituisce infatti la struttura portante di un rapporto di fiducia, tanto più essenziale in era pre-scientifica allorché l’affidamento al medico era più completo, la soggezione, filiale quasi, men-tre, per converso, il senso del dovere e la soggettività (non controllabile) del potere paludato da contenuti di serietà (di riservatezza, anche) connotava-no il rapporto paziente-medico, venendo a occupare il sanitario una posi-zione di garanzia ante litteram, quella propria della salvaguardia della salute.

36. DLgs 30 giugno 2003, n. 196, in GU, suppl. ord., del 29 luglio 2003, n. 174.37. Dati personali: qualunque informazione relativa a persona fisica, persona

giuridica, ente o associazione, identificati o identificabili, anche direttamen-te, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale.

Dati sensibili: i dati personali atti a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, le adesioni a partiti, sindacati, associazioni e organismi a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale.

38. Le altre figure coinvolte nel processo del trattamento sono anch’esse definite (art. 4 TU) e oltre all’interessato, che è il cittadino, la persona, il paziente, sono il:

- Titolare: la persona fisica, la persona giuridica, la pubblica amministrazio-ne e qualsiasi altro ente, associazione e organismo cui competono, anche unitamente ad altro titolare, le decisioni in ordine alle finalità, alle modalità del trattamento dei dati personali e agli strumenti utilizzati, ivi compreso il profilo della sicurezza.

- Responsabile del trattamento: la persona fisica, la persona giuridica, la pubblica amministrazione e qualsiasi altro ente, associazione e organismo preposti dal titolare al trattamento dei dati personali.

- Garante: l’autorità istituita dalla legge 31 dicembre 1996, n. 675, all’articolo 153. Non ci sembra necessario illustrare ulteriormente i soggetti interessati, ba-

standoci ricordare che nel rapporto medico-paziente, il primo è il titolare, il secondo l’interessato.

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39. In questa ottica si colloca una bioetica posta a tutela delle frontiere della vita e il Codice si distingue per averne tratto esemplari indicazioni riguardanti la tutela della volontà del paziente consapevole della qualità stessa della vita e di chi non lo è più, in una delicata e sfumata interpretazione della posizione di garanzia del medico e del potere di scelta del paziente tentando una pos-sibile conciliazione (meglio, mediazione) tra tutela della salute e diritto alla qualità del vivere e del morire (terapia del dolore, rifiuto dell’ostinazione terapeutica, leniterapia e amorevole rispetto e capacità di accompagnamen-to anche nella fase del declino estremo della vita, trattamento rianimato-rio dei prematuri, attenzione particolare ai soggetti minori, fragili, “non competenti”, adeguata considerazione verso eventuali direttive anticipate, disponibilità nei confronti dei legali rappresentanti e in particolare verso gli amministratori di sostegno che non si traduca in deresponsabilizzazione). La cultura dell’autonomia è sufficientemente valorizzata e assimilata senza tuttavia consentire l’adesione e la soggezione a ideologie confessionali o lai-ciste che hanno finito per vanificare l’ansiosa ricerca di un’etica condivisa e, ancora, sul piano pratico per marginalizzare i comitati etici, di cui, un tem-po in sede ordinistica si paventò persino – e non a torto – un’autorevolezza vicaria in tema di deontologia medica. A questa fonte d’ispirazione vanno così ascritte non solo le più recenti e aggiornate indicazioni della Dichiara-zione di Helsinki dell’AMM (in tema, ad esempio, d’uso del placebo), emanata nella sua primitiva stesura (1964) sull’onda della sentenza di Norimberga, ma soprattutto della traduzione in decreti legislativi delle direttive europee in ordine a: sperimentazione dei nuovi farmaci sull’uomo, sperimentazione animale, impiego dei dispositivi medici, direttive che non interessano solo le Aziende sanitarie, e in particolare ospedaliere, e i centri di ricovero e cura a carattere scientifico, che non sono rivolte soltanto ai relativi comitati etici ma che riguardano direttamente il medico, anche di MMG, abilitato (DM 10 maggio 2001), in base a percorsi operativi regionali, alla sperimentazio-ne dei farmaci soprattutto in fase IV. Una considerazione a parte merita la sinossi culturale ed etica proposta dalla Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997 sui diritti della persona e la biomedicina particolarmente incidente, dopo la sua ratifica parlamentare (legge 145 del 28 marzo 2001) ancorché in qualche misura disattesa dall’inerzia governativa nella preparazione ed emanazione dei decreti attuativi ma per prevalente e autorevole dottrina e giurisprudenza (pressoché costante) è da considerare operativa e vincolan-te. È comunque fondamentale il fatto che il Codice di Deontologia medica del 2006 ne abbia accolto i risultati essenziali come, per ricordare i più forti:

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a) la stringente dinamica dell’informazione e del consenso informato diret-to e attuale del paziente (se consapevole) indicati come essenziali requisiti di liceità del trattamento medico, con la conseguente incoercibilità del dis-senso, pur se produttivo di desistenza terapeutica anche in condizioni di rischio per la vita;

b) la particolare attenzione nei confronti dei minori e dei soggetti che ver-sino in condizioni di défaillancementale, il cui contributo alle scelte curative anche in direzione della qualità della vita, va comunque sollecitato e, ove possibile, seguito ricercando una convinta armonia con le opzioni di chi esercita la tutela;

c) il tema delle direttive anticipate (art. 38) viste come non obbligatorie, né notarili, né cogenti, ma meritevoli di effettiva considerazione da parte del medico cui è richiesta una leale motivazione in caso di eventuale rifiuto medico di ottemperanza per ragioni ideologiche o di serietà professionale;

d) la rinuncia all’accanimento terapeutico, ben definito nel Codice, e la prevista attenzione alla salvaguardia della qualità della vita, alla terapia del dolore e alla leniterapia, nella decisa condanna di ogni forma di eutanasia attiva, definita come messa in atto di comportamenti intenzionalmente diretti a produrre il decesso.

40. Gli influssi positivi della norma deontologica si sono scontrati col più complesso, inquietante e drammatico riflesso delle leggi in atto o infieri (testamento biologico) che in sconvolgente misura invadono l’ambito dell’autonomia del medico, non tanto nelle scelte morali quanto in quelle tecniche, e ciò nonostante la diffida della Corte Costituzionale. Per fare un esempio, basterà ricordare la presenza nel Codice deontologico del tema della fecondazione assistita (art. 44) con il riferimento alle procedure già deontologicamente vietate nel 1988 prima dell’approvazione della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (e cioè la maternità surrogata, post-menopausale e post-mortem del partner), riaffermandosi invece l’esigenza della stabilità di coppia mentre non si ripetono nel testo ordinistico del 2006 altri divieti contenuti nella legge 40: diagnosi preimpianto, produzione e impianto di più di tre embrioni, fecondazione eterologa. E non si tratta di un’imperdonabile svista e nemmeno di un invito alla violazione della legge 40; ma solo di un fermo, dignitoso richiamo alla non illiceità deontologica di procedure e di metodi che non contrastino con le finalità scientifiche ed etiche della medicina, cioè, di prevenzione e di tutela della salute intesa nelle accezioni più ampie del termine, come condizione, cioè, di benessere fisico e psichico della persona (art. 3). Non è questo, d’altronde, il solo esempio di rivendicazione della volontà autodisciplinare dei medici italiani, palesemente documentate anche dalla novità degli allegati al Codice stesso (certamente non

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più che indirizzi o linee-guida) sulla pubblicità, sull’informazione sanitaria, sulla ricerca sperimentale, sui conflitti di interesse, sull’aggiornamento e la formazione, sulla prescrizione dei farmaci.

41. Raimondi F e Raimondi L. Il procedimento disciplinare nelle professioni sanitarie. Giuffrè, Milano, 2007.

42. Federspil G. Logicaclinica:iprincipidelmetodoinmedicina. McGraw-Hill, Mi-lano, 2006.

43. Pagni A. Mediciemanagementsanitario:ildifficiledialogotradueculture. C.G. Edi-zioni Medico Scientifiche, Torino, 2009.

44. Pagni A. Mediciemanagementsanitario:ildifficiledialogotradueculture. vedi cap. 3.2. C.G. Edizioni Medico Scientifiche, Torino, 2009.

45. Cfr. Del Tacca M. Impiego clinico dei farmaci off-label. Professione 2005; 5. Iadecola G. Prescrizione dei farmaci “off-label” e responsabilità penale del medico, ibidem, 2006.

46. Legge 8 aprile 1998, n. 94.47. Da Pagni A. Medici e management sanitario. C.G. Edizioni Medico Scientifiche,

Torino, 2003.48. Pagni A e Benato M. 1910-2010–IcentoannidegliOrdini,deiSindacatimedici

edellaprofessione,tracomposizioneeconcertazionedallafinedell’Ottocentoaigiorninostri. Professione 2010; 3 (fascicolo monografico).

49. Da Norelli GA, Buccelli C, Fineschi V. Medicina legale e delle Assicurazioni. Cedam, Padova, 2009.

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L’Ordine professionale e il Codice deontologico

S.Fucci,G.Morrocchesi,A.Panti

Art. 1- Definizione

Il Codice di Deontologia medica contiene principi e regole che il medico-chirurgo e l’odontoiatra, iscritti agli albi professionali dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, di seguito indicati con il termine di medico, devono osservare nell’esercizio della professione.Il comportamento del medico, anche al di fuori dell’esercizio della profes-sione, deve essere consono al decoro e alla dignità della stessa, in armonia con i principi di solidarietà, umanità e impegno civile che la ispirano.Il medico è tenuto alla conoscenza delle norme del presente Codice e degli orientamenti espressi nelle allegate linee-guida, l’ignoranza dei quali, non lo esime dalla responsabilità disciplinare. Il medico deve prestare giuramento professionale.

Quest’articolo, nel primo comma, contiene la definizione di ciò che rappre-senta il Codice, indica chi sono i destinatari delle relative norme e ne sancisce l’obbligatorietà per tutti gli iscritti all’Ordine, indipendentemente dalle moda-lità di esercizio della professione.

Impone ai medici e agli odontoiatri, nel secondo comma, di tenere un comportamento consono ai principi etici che devono improntare l’esercizio professionale anche nelle attività estranee alla professione onde evitare che possano essere lesi il decoro e la dignità della stessa.

Quest’ultima disposizione trova il suo fondamento etico nella circostanza che anche comportamenti extra professionali possono essere lesivi del decoro e

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della dignità di questa comunità di professionisti che ne potrebbe essere, quindi, danneggiata quantomeno sul piano dell’immagine rispetto all’opinione pubblica.

Sancisce, inoltre, il dovere degli iscritti all’Ordine di conoscere il contenuto normativo del Codice e le linee-guida interpretative emanate dalla Federazione e stabilisce l’irrilevanza dell’ignoranza delle regole e dei principi della deontolo-gia medica eventualmente eccepita dal sanitario incolpato di averli trasgrediti.

Questa disposizione richiama alla mente l’art. 5 del Codice penale che sta-bilisce che «nessunopuòinvocareapropriascusal’ignoranzadellaleggepenale» che è stata oggetto di un attento esame da parte della Corte Costituzione che, nella sentenza n. 364/88, ne ha sancito la parziale incostituzionalità solo nella parte in cui «non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevita-bile». Appare opportuno evidenziare, peraltro, che la Corte ha sottolineato che esiste a carico di ciascuno un dovere di essere diligente nella conoscenza dei precetti dell’ordinamento e che deve ritenersi rimproverabile l’ignoranza della legge penale da parte di chi «professionalmente inserito in un determinato campo d’at-tività,nons’informasulleleggipenalidisciplinantilostessocampo». Queste autorevoli affermazioni, sia pure riferite alla normativa penale, possono essere utilizzate per avvalorare la correttezza sostanziale della disposizione deontologica in commento, laddove impone agli iscritti all’Ordine di attivarsi diligentemente per conoscere le relative regole, non ammettendo alcuna ignoranza al riguardo.

D’altra parte la notizia dell’approvazione del nuovo Codice deontologico è stata data dai mass media e gli Ordini provinciali a loro volta ne hanno diffuso il testo e illustrato in convegni il contenuto, accessibile sempre anche via internet.

Questo articolo stabilisce, infine, l’obbligatorietà del giuramento professio-nale che costituisce un atto formale diretto a ribadire l’importanza per ciascun medico delle regole e dei principi della deontologia.

L’evoluzione nel corso del tempo della deontologia professionale

Il Codice deontologico dei medici rappresenta il complesso delle norme che definiscono i doveri degli appartenenti ad una determinata comunità pro-fessionale e viene emanato dalla Federazione nazionale attraverso una com-plessa procedura che vede coinvolti tutti gli Ordini professionali provinciali e, quindi, potenzialmente tutti gli iscritti.

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1. L’Ordine professionale e il codice deontologico 47

Il primo Codice è stato approvato nel 1954 e successivamente ne sono state elaborate nel tempo altre edizioni, fino all’attuale del dicembre 2006.

Nel corso del tempo il Codice ha assunto una maggiore completezza, tale da farne certamente un corpus iuris sempre più aggiornato rispetto all’evolu-zione normativa dei testi di legge che riguardano le nuove attività di compe-tenza dei medici, basti citare la procreazione medicalmente assistita (PMA) e gli interventi sul genoma umano.

L’evoluzione del testo delle norme appare evidente anche laddove si è rico-nosciuto nel tempo l’importanza del coinvolgimento del cittadino nelle deci-sioni che riguardano la tutela della sua salute e, quindi, degli aspetti relazionali del rapporto di cura che non può essere ricondotto solo alla semplice applica-zione di principi tecnici.

Tenendo conto dell’importanza nella nostra società dell’istituzione costi-tuita dalla famiglia non deve essere sottovalutato anche il segnale che il Codice ha voluto dare laddove nel tempo ha cancellato il riferimento ai congiunti come soggetti destinatari di una informazione privilegiata sulle condizioni cliniche dell’ammalato, in conformità all’orientamento assunto sul punto sia dalla dot-trina che dalla giurisprudenza.

Anche la normativa deontologica sul segreto professionale, che costituisce uno dei principi fondamentali dell’esercizio dell’attività medica, ha subito nel tempo delle modifiche per adeguare le regole professionali ai principi giuridici contenuti nella legislazione sul trattamento dei dati personali dell’assistito.

Occorre, quindi, che i sanitari tutti siano sempre più attenti all’evoluzione della normativa deontologica per evitare di rimanere ancorati a principi che nel tempo sono stati rielaborati proprio per adeguarli a quelli contenuti nella legislazione di carattere generale.

Quest’opera di adeguamento dei principi deontologici al contenuto delle leggi appare importante perché dimostra che i medici e gli odontoiatri sono consapevoli del ruolo che svolgono all’interno della comunità nazionale e della loro appartenenza a questa comunità.

Un’eventuale difformità sostanziale della normativa deontologica rispetto al contenuto della legislazione nazionale non è comunque auspicabile perché porrebbe gli iscritti nella difficile situazione di dovere scegliere tra l’ottempe-ranza alla deontologia professionale ovvero alla normativa emanata dal Parla-mento.

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Nello stesso tempo il legislatore nella sua opera di normazione primaria dovrebbe evitare di emanare leggi che si pongano senza alcuna valida giustifica-zione in contrasto i principi deontologici comuni a tutti i sanitari e, soprattutto, rispettare l’autonomia professionale degli operatori, senza la quale difficilmente i medici e gli odontoiatri potrebbero contribuire all’attuazione del principio costituzionale che sancisce il diritto alla salute e, quindi, riconosce implicita-mente il valore sociale delle attività professionali dirette alla tutela della salute.

Purtroppo è accaduto, invece, che il legislatore nazionale abbia inteso emanare norme dirette a disciplinare anche le modalità tecniche dell’esercizio professionale, com’è avvenuto con la legge n. 40 del 2006 sulla PMA che, laddove all’art. 14, imponeva agli operatori di non creare più di tre embrioni e di procedere ad un unico e contestuale impianto degli embrioni prodotti, stabiliva una modalità tecnica che non teneva conto della necessità di adeguare il trattamento alle condizioni di età e di salute della donna, come poi statuito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 151 del 2009.

In questa sentenza la Corte ha dichiarato l’illegittimità di questa disposi-zione perché «nonriconoscealmedicolapossibilitàdiunavalutazione,sullabasedellepiùaggiornateeaccreditateconoscenzetecnico-scientifiche,delsingolocasosottopostoaltrat-tamento,conconseguenteindividuazione,divoltainvolta,dellimitenumericodiembrionida impiantare, ritenuto idoneo adassicurare un serio tentativo di procreazione assistita,riducendoalminimoipotizzabile ilrischioper lasalutedelladonnaedel feto». Questa decisione, richiamando le precedenti sentenze n. 338 del 2003 e n. 282 del 2002, ha ribadito l’importanza del rispetto, anche da parte del legislatore, del principio che garantisce l’autonomia del medico nell’esercizio della sua atti-vità di cura, ricordando che «lagiurisprudenzacostituzionaleharipetutamentepostol’accentosuilimitichealladiscrezionalitàlegislativapongonoleacquisizioniscientificheesperimentali,chesonoincontinuaevoluzioneesullequalisifondal’artemedica:sicché,inmateriadipraticaterapeutica,laregoladifondodeveesserel’autonomiaelaresponsabilitàdelmedico,che,conilconsensodelpaziente,operalenecessariescelteprofessionali».

È importante, inoltre, che sulle questioni di rilevanza bioetica il legislatore eviti di emanare disposizioni forti intese a regolare la materia in modo rigido, senza tenere conto dei diversi orientamenti presenti nella popolazione e anche nelle comunità dei sanitari.

In questa materia, qualora giudicato veramente necessario, l’intervento normativo dovrebbe avere una connotazione non ideologica, che lasci aperta

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1. L’Ordine professionale e il codice deontologico 49

a tutti la possibilità di effettuare le scelte che, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, ciascuno sarà chiamato ad operare per suo conto e sotto la propria autonoma responsabilità.

Non si muove, evidentemente, in questa direzione il disegno di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (cosiddetto DDL Calabrò) laddove intende impedire ai medici di sospendere la nutrizione artificiale anche quando questo trattamento non apporta alcun beneficio alla persona interessata.

Il valore del Codice nell’ordinamento generale

Per molto tempo si è ritenuto, in passato, che la normativa deontologica contenesse principi e regole extragiuridiche, pur non mancando nella giurispru-denza qualche isolata sentenza che ne sanciva la loro rilevanza ai fini della colpa penale perché riconducibili al concetto di disciplina, la cui inosservanza è idonea a qualificare come colposo un determinato comportamento ai sensi dell’art. 43 del Codice penale (vedi, al riguardo, Corte di Cassazione, quarta sezione penale, sent. n. 1516/92).

Anche la Suprema Corte ne ha affermato per lungo tempo un valore limi-tato nell’ordinamento generale affermando che «le disposizioni dei codici deontolo-gicipredispostidagliOrdiniprofessionali,senonrecepitedaunanormadilegge(adesempioinmateriadisegretoprofessionale,tutelatoancheneiconfrontidell’autoritàgiudiziaria),nonhannonélanaturanélecaratteristichedinormedilegge,cometaliassoggettabilialcriteriointerpretativodicuiall’art.12dellepreleggi,masonoespressionedeipoteridiautorganiz-zazionedegliOrdini(oCollegi)sìdaripeterelaloroautorità–comeevidenziatoindottrina–oltrechedaconsuetudiniprofessionalianchedanormecheisuddettiOrdini(oCollegi)emananoperfissare gli obblighi di correttezza cui i propri iscritti devonoattenersi e perregolarelalorofunzionedisciplinare» (vedi, al riguardo, Sezioni Unite Civili Corte di Cassazione, sent. n. 10842/03).

In base a questo principio non era possibile al medico condannato in sede disciplinare ricorrere in Cassazione avverso la sentenza emanata dalla Com-missione Centrale per denunziare un vizio interpretativo delle norme discipli-nari qualificandolo come violazione delle norme che disciplinano l’interpreta-zione della legge.

Questo tradizionale orientamento è stato ribaltato recentemente dalla Suprema Corte che in sostanza ha affermato che nell’ambito della violazione

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di legge, va ricompresa anche la violazione delle norme dei Codici deontologici degli Ordini professionali, trattandosi di norme giuridiche obbligatorie valevoli per gli iscritti all’albo che integrano il diritto oggettivo ai fini della configura-zione dell’illecito disciplinare (vedi, al riguardo, Sezioni Unite Civili, Corte di Cassazione, sent. n. 26810/07).

Questo innovativo principio in relazione al valore da attribuire alle norme deontologiche consente, quindi, al medico incolpato l’esercizio di un più ampio diritto di difesa davanti alla Suprema Corte a tutela dei suoi diritti perché la Cassazione può procedere direttamente all’interpretazione della norma deon-tologica contestata per verificare la correttezza dell’interpretazione fornita al riguardo dai giudici nel grado di giudizio precedente.

D’altra parte nel momento in cui la normativa vigente affida agli Ordini professionali l’esercizio del potere disciplinare sugli iscritti, le regole deontologi-che applicate non possono essere ritenute extragiuridiche perché costituiscono la fonte dell’eventuale contestazione di illecito disciplinare mossa al medico o all’odontoiatra che, all’esito del giudizio, può finire con l’incidere sui diritti soggettivi del sanitario, come quando, ad esempio, ne determina la radiazione dall’albo.

Questo orientamento appare condiviso anche dalla terza sezione della Cas-sazione penale che, nella sentenza n. 16145/08, dopo avere ritenuto che le disposizioni disciplinari « hannovalenzanormativaedintegrativadelleclausolegenerali,lequalivannointerpretateanchefacendoricorsoafontinormativediverse,siapuredirangoinfralegislativo, come le norme di etica professionale», ha riaffermato che il Codice deontologico «rappresentauna fontenormativaqualificabile come“normadi diritto”,lacuiinterpretazionecostituisceuna“quaestioiuris”prospettabileinsededilegittimità».

L’uso delle norme deontologiche nella motivazione delle sentenze

Gli avvocati e i giudici non sono indifferenti rispetto alla normativa deon-tologica che, sempre più negli ultimi tempi, viene richiamata negli atti giudiziari per avvalorare le tesi sostenute e nelle sentenze civili, penali e amministrative a sostegno della decisione presa.

Questo comportamento dei giudici appare degno di nota perché dimostra che anche i giuristi pratici, quali sono certamente gli avvocati e i giudici, consi-

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1. L’Ordine professionale e il codice deontologico 51

derano comunque rilevante per l’ordinamento generale il contenuto dei Codici deontologici.

È interessante notare che le norme deontologiche richiamate più frequen-temente sono quelle che disciplinano la relazione con i pazienti, sia sotto l’aspetto del necessario rispetto della loro autonomia decisionale sia per quanto concerne i doveri di diligenza e perizia che il Codice impone ai medici e agli odontoiatri.

In una situazione nella quale manca nei Codici – sia penale che civile - una specifica disciplina dell’attività medica, il richiamo alle norme del Codice deon-tologico probabilmente appare utile nella misura in cui tende a rendere più evi-denti e specifici i doveri di rispetto della dignità delle persone, di correttezza e di trasparenza nell’attività professionale che già possono desumersi dai principi generali posti dal legislatore, costituzionale e ordinario.

Le norme deontologiche finiscono, quindi, per svolgere una funzione inte-grativa rispetto, ad esempio, al principio di autodeterminazione in relazione alla cura della propria salute sancito dall’art. 32 della Costituzione, in quanto tendono a specificare il comportamento che i sanitari devono tenere nel rap-porto con il paziente quando lo informano del suo stato di salute, delle opzioni terapeutiche esistenti, dei potenziali benefici e dei rischi connessi alla loro ese-cuzione, prima di comunicare le loro proposte di cura.

Questa è probabilmente la ragione del richiamo degli articoli del Codice operato dai giuristi quando, rispetto ad un episodio specifico, viene sottoli-neata l’importanza del principio deontologico del consenso informato ovvero di quello del dissenso informato che, peraltro, trovano la loro generale fonte di legit-timazione nella Costituzione, nella normativa generale ed anche nelle conven-zioni internazionali.

Il richiamo alle norme deontologiche, inoltre, appare utile laddove specifica il contenuto della procedura informativa nei confronti del paziente sottoline-andone l’importanza ai fini della reale possibilità di effettuare le proprie scelte con la necessaria consapevolezza.

La stessa definizione di processo informativo contenuta nell’art. 35 del Codice deontologico, ad esempio, è stata utile ad evidenziare che il dovere d’infor-mazione non può esaurirsi in un unico atto, ma permea il rapporto di cura nel corso del suo svolgimento e, quindi, è parte integrante della complessiva relazione che si instaura tra il medico e il paziente.

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Ecco perché, anche leggendo le sentenze della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione troviamo citata la normativa contenuta nel Codice deon-tologico sul diritto del paziente di scegliere se sottoporsi o meno ad un tratta-mento e sul contenuto del dovere di informazione (vedi, ad esempio, Cass. Civ. sent. n. 23676/08 e n. 2354/10).

Anche nella valutazione del comportamento del curante ai fini della veri-fica della eventuale gravità della colpa, rilevante nel procedimento relativo al cosiddetto danno erariale, non mancano i richiami alle regole deontologiche che impongono al medico di seguire le metodiche diagnostiche e terapeuti-che accreditate dalla scienza medica e, quindi, di agire in modo scrupoloso e attento, seguendo le relative regole cautelari e quelle suggerite dalla comune esperienza (vedi, al riguardo, Corte dei Conti Sicilia, sezione giurisdizionale, sent. n. 1146/06 e C. Conti Puglia, sezione giurisdizionale, sent. n. 11/99).

Il Codice deontologico, d’altra parte, è uno strumento la cui conoscenza diventa utile anche nella pratica professionale quotidiana proprio perché indi-vidua e specifica principi etici fondamentali che appaiono condivisibili nelle loro linee generali anche dalla popolazione destinataria dell’essenziale attività di cura svolta dai medici e dagli odontoiatri.

Art. 2 - Potestà e sanzioni disciplinari

L’inosservanza dei precetti, degli obblighi e dei divieti fissati dal presente Codice di Deontologia medica ed ogni azione od omissione, comunque disdicevoli al decoro o al corretto esercizio della professione, sono punibili dalle Commissioni disciplinari con le sanzioni previste dalla legge. Le sanzioni, nell’ambito della giurisdizione disciplinare, devono essere ade-guate alla gravità degli atti. Il medico deve denunciare all’Ordine ogni iniziativa tendente ad imporgli comportamenti non conformi alla deontologia professionale, da qualunque parte essa provenga.

La Corte Costituzionale ha affermato che «per il fatto dell’appartenenza all’Ordine si crea un vincolo tra iscritto e gruppo professionale che impone comportamenti conformi ai fini che quest’ultimo deve perseguire» (sentenza n. 110 del 12 luglio 1967). Con l’iscrizione all’albo il professionista assume, quindi,

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uno status specialis subiectionis nei confronti dell’Ordine, cui compete di esercitare il potere disciplinare nei confronti dell’iscritto che si renda responsabile di com-portamenti che violino i doveri deontologici propri della professione.

Il potere disciplinare dell’Ordine e il suo esercizio

Secondo la previsione dell’art. 38 del DPR 221/1950, «il procedimento disciplinare è promosso d’ufficio o su richiesta del Prefetto o del Procuratore della Repubblica». Lo stesso articolo precisa che l’Ordine competente è quello nel cui albo il professionista risulta iscritto, anche se il fatto addebitabile sia avvenuto in provincia diversa. I soggetti investiti del potere di iniziativa sono, dunque, l’Ordine, il Prefetto o il Procuratore della Repubblica. È da chiarire, però, che i poteri del Prefetto non sono più quelli di autorità sanitaria provin-ciale, come si configurava nel DPR 221/1950. Tali poteri, dopo la istituzione del Ministero della Sanità (legge 13 marzo 1958 n. 296) sono stati trasferiti al Medico Provinciale e al Veterinario Provinciale e, dopo la legge di riforma sanitaria n. 833/1978, sono stati trasferiti alle Regioni. Ma si tratta del trasfe-rimento della funzione amministrativa in materia di sanità, dalla quale rimane esclusa la funzione amministrativa in materia di Ordini professionali, che è rimasta invece attribuita alla competenza del Ministero della Sanità. Il potere di iniziativa attribuito dall’art. 38 al Prefetto, deve oggi considerarsi attribuito al Ministro della Salute, organo che deve intendersi sostituito al Prefetto in tutte le norme che regolano sia il procedimento disciplinare sia le altre materie di competenza dell’Ordine. È opportuno sottolineare che quando l’azione disci-plinare viene promossa d’ufficio dall’Ordine, essa scaturisce dal potere discre-zionale che ha il Presidente nel valutare se il fatto, di cui riceve notizia, abbia o meno rilevanza sul piano disciplinare, mentre la richiesta del Ministro della Salute o del Pro curatore della Repubblica determina, nei confronti dell’Ordine, l’obbligo a dare inizio al procedimento disciplinare, anche se poi l’esito di tale procedimento può essere di pieno proscioglimento. L’Ordine, comunque, non può sottrarsi a tale obbligo e, nel caso ometta di iniziare il procedimento, l’art. 48 prevede l’esercizio di un potere sostitutivo da parte del Ministro della Salute. Per stabilire quando il procedimento disciplinare può essere promosso, occorre aver chiaro il quadro normativo di riferimento. Le norme che hanno rilievo, a questo fine, sono gli artt. 38, 39 e 44 del DPR 221/1950. Cominciamo ad esa-

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minare l’art. 44, il quale prescrive che «il sanitario a carico del quale abbia avuto luogo procedimento penale è sottoposto a giudizio disciplinare per il medesimo fatto imputatogli purché egli non sia stato prosciolto per la non sussistenza del fatto o per non averlo commesso». Sembra chiaro, quindi, che, secondo quanto previsto dall’art. 38, l’Ordine, ogni qualvolta abbia notizia di fatti rilevanti sul piano disciplinare, può iniziare il relativo procedimento a sua discrezione, ma nel caso in cui il professionista sia sottoposto a procedimento penale occorre attendere che questo abbia avuto luogo e cioè sia stato definito con sentenza irrevocabile. Questa interpretazione ben si raccorda con l’art. 653 cpp, il quale prevede che la sentenza penale irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare. È pur vero che nel nuovo Codice di procedura penale non è stata riprodotta la norma dell’art. 3 del vecchio Codice che obbli-gava a sospendere il procedimento disciplinare fino alla definizione di quello penale, ma rimane pur sempre vincolante per l’Ordine il combinato disposto degli artt. 44 DPR 221/1950 e 653 cpp. È da ritenere temerario sottoporre a giudizio disciplinare il professionista verso il quale pende, per lo stesso fatto, un procedimento penale, se si pensa che il giudice penale, con l’uso del suo ampio potere di indagine e di acquisizione delle prove, può pervenire all’assoluzione perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso. Sussiste, dunque, per l’Ordine, l’obbligo di promuovere un procedimento disciplinare nei confronti del professionista, il quale sia già stato sottoposto a procedimento penale, dopo il passaggio in giudicato della sentenza.

Il procedimento disciplinare

In forza di quanto previsto dall’art. 39, il Presidente nei casi in cui acqui-sisca, quale che ne sia la fonte, notizia di fatti che possano configurarsi come illeciti disciplinari, svolge gli accertamenti necessari a suffragare gli estremi di un comportamento sanzionabile. Egli svolge, quindi, un’istruttoria, racco-gliendo le prove testimoniali e documentali che ritiene utili, convoca e sente il professionista interessato. Con l’entrata in vigore della legge 24 luglio 1985 n. 409 istitutiva, in seno ai Consigli direttivi e al Comitato centrale, di due distinte Commissioni, rispettivamente per gli iscritti all’albo dei Medici Chirurghi e all’albo degli Odontoiatri, con l’attribuzione, tra le altre, della competenza in

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materia disciplinare, e con l’entrata in vigore del DL 27 agosto 1993 n. 324, convertito nella legge 423/1993, che prevede la figura del Presidente delle Commissioni odontoiatriche, la dizione “il Presidente”, di cui all’art. 39, deve oggi intendersi riferita, non più al Presidente dell’Ordine, bensì al Presidente della rispettiva Commissione. L’audizione del professionista, ai sensi dell’art. 39, costituisce, peraltro, atto necessario, nella fase istruttoria preliminare all’apertura del procedimento, e costituisce requisito richiesto ad substantiam per la validità del giudizio disciplinare. Esaurita l’istruttoria, il Presidente della competente Commissione, qualora ritenga che sussistano elementi tali da suf-fragare un illecito disciplinare, riferisce alla Commissione, che decide, con deli-berazione, se promuovere procedimento disciplinare, individuando gli addebiti da contestare, o se archiviare il caso. Qualora il Presidente non rilevi, invece, fatti disdicevoli al decoro professionale, può, a sua discrezione, procedere direttamente all’archiviazione del caso. Dopo che la competente Commissione ha deliberato di promuovere il procedimento disciplinare, spetta al relativo Presidente di Commissione svolgere tutti quegli atti formali previsti dall’art. 39 e che sono da ritenere essenziali per la validità del procedimento. Egli, quindi, deve provvedere, mediante raccomandata con a.r. a notificare all’interessato: gli addebiti circostanziati, il termine, non inferiore a venti giorni, entro il quale egli può prendere visione degli atti relativi al suo deferimento a giudizio e pro-durre le proprie controdeduzioni scritte; l’indicazione del luogo, giorno e ora in cui sarà celebrato il giudizio disciplinare; l’espresso avvertimento che, qua-lora non si presenti alla seduta della Commissione, si procederà al giudizio in sua assenza. Malgrado le innovazioni introdotte dalla legge 409/1985, è rima-sto a carico del Presidente dell’Ordine il dovere, previsto dall’art. 49 del DPR 221/1950, di dare immediata comunicazione dell’inizio del procedimento al Ministro della Salute e al Procuratore della Repubblica territorialmente compe-tente ed eventualmente al Procuratore o all’Ordine di altra circoscrizione che abbia promosso il giudizio. Per tale ragione, il Presidente della Commissione per gli Odontoiatri, una volta assunta la deliberazione, che deve essere sotto-scritta dal Segretario verbalizzante e dal Presidente, deve trasmetterla al Pre-sidente dell’Ordine affinché possa darne comunicazione alle autorità previste ai sensi dell’art. 49 già citato. Il Presidente della Commissione nomina, quindi, il relatore tra i componenti della Commissione stessa. La nomina del relatore ha lo scopo di semplificare lo svolgimento del procedimento disciplinare, affi-

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dando a uno dei componenti del Collegio lo studio degli atti e il compito di relazionare in seduta. Nel caso, però, che non si sia provveduto alla nomina del relatore o nel caso di impedimento di questo a partecipare alla seduta, il procedimento è ugualmente valido se tutti gli atti siano stati letti in seduta, in quanto in tal modo sono ugualmente raggiunte le finalità di legge. Per la validità dell’adunanza della Commissione è sufficiente l’intervento della maggioranza dei componenti, in quanto essa, anche se in funzione disciplinare, si configura pur sempre come un organo collegiale amministrativo. Esaurita l’esposizione dei fatti da parte del relatore, viene sentito, se presente, l’incolpato; l’art. 45 DPR 221/1950 esclude la possibilità, per quest’ultimo, di farsi assistere da un avvocato o da un consulente tecnico. Tale norma, però, è stata dichiarata illegittima dalla Corte di Cassazione, in quanto nel procedimento disciplinare a carico di esercente professione sanitaria, il diritto di difesa dell’incolpato, da assicurarsi anche nella fase amministrativa davanti alla competente Commis-sione ordinistica (fase preordinata e funzionalmente connessa a quella succes-siva di natura giurisdizionale) implica la facoltà di comparire ed essere ascoltato personalmente, ma anche quella di farsi assistere da un difensore o esperto di fiducia, sempre che venga avanzata istanza al riguardo. Chiusa la fase della trattazione orale, ed allontanato l’incolpato, la Commissione passa alla fase della decisione. Nel caso in cui si renda necessario svolgere il procedimento disciplinare in più sedute, non è consentita un’alternanza dei componenti; la decisione è considerata valida solo se viene assunta dall’organo collegiale di cui facciano parte gli stessi componenti presenti nelle varie fasi del procedi-mento. A conclusione del giudizio, viene assunta una deliberazione, la quale deve recare la data, l’indicazione degli addebiti, la motivazione ed il dispositivo. Particolare rilievo assume, ai fini della validità della decisione, la motivazione, nella quale devono porsi in raffronto le risultanze degli atti istruttori con le dichiarazioni rese dall’incolpato, in modo tale che il dispositivo risulti coe-rente con argomentazioni logico-giuridiche atte a suffragare il convincimento di colpevolezza dell’inquisito. Oltre alla deliberazione conclusiva del giudizio, deve essere redatto il verbale nel quale va riportato tutto quanto si è svolto nel corso del giudizio disciplinare. Riguardo alla deliberazione conclusiva del giudizio disciplinare, l’art. 47 del DPR 221/1950 prescrive che essa deve essere sottoscritta da tutti i componenti della Commissione che hanno preso parte alla seduta. Si deve in proposito prendere atto che tale norma regolamentare

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è da ritenersi disapplicata a seguito del mutamento intervenuto nel quadro normativo-ordinamentale in cui opera il principio secondo cui le sentenze rese da un giudice collegiale – costituenti il paradigma al quale si è ispirato il citato art. 47 – devono essere sottoscritte soltanto dal Presidente e dall’estensore. La decisione è pubblicata mediante deposito dell’originale negli uffici della segre-teria a cura del Segretario, che provvede a notificarne copia all’interessato. Tali adempimenti sono di competenza del Segretario dell’Ordine, anche quando si tratti di decisione adottata dalla Commissione per gli iscritti all’albo degli Odontoiatri, e sarà il Presidente dell’Ordine a darne comunicazione alle auto-rità competenti. Peraltro, la pubblicazione della decisione comporta la possibi-lità, per gli iscritti, di prendere visione della medesima, in quanto essa assume anche carattere di orientamento deontologico esemplificativo.

Rapporti tra l’Ordine professionale e le Aziende sanitarie in materia disciplinare

La legge istitutiva dell’Ordine è ispirata alla concezione tradizionale del libero esercizio professionale e si riferisce essenzialmente all’attività medica che si esplica e si esaurisce nel rapporto diretto con il paziente-cliente; essa trascura, quindi, l’attività professionale esercitata, sia con rapporto giuridico di lavoro dipendente sia convenzionato, nell’ambito di un sistema di sicurezza sociale pubblico. Tuttavia il legislatore ha voluto coinvolgere l’Ordine, relati-vamente alle implicazioni di carattere deontologico-disciplinare, nella respon-sabilità della corretta applicazione degli accordi con i medici convenzionati col SSN, avuto riguardo ai comportamenti degli iscritti nell’ambito del rap-porto convenzionale. Ne è un esempio l’art. 48 della legge 23 dicembre 1978 n. 833, ove si prevede che gli Ordini e i Collegi professionali sono tenuti a valutare sotto il profilo deontologico i comportamenti degli iscritti agli albi professionali che si siano resi inadempienti agli obblighi convenzionali. Inol-tre il terzo comma dell’art. 8 del DLgs 30 dicembre 1992 n. 502 ribadisce il medesimo principio con particolare riferimento ai medici di medicina generale e ai pediatri di libera scelta, precisando altresì che i ricorsi avverso le sanzioni comminate dagli Ordini e dai Collegi sono decisi dalla Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie. Le disposizioni ora ricordate non sono state invece introdotte nell’art. 47 della legge n. 833/1978, a proposito della

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disciplina dei rapporti di pubblico impiego con le stesse strutture pubbliche. In questo caso, le sanzioni irrogate dall’Ordine hanno efficacia sull’attività libero-professionale, senza incidere sul rapporto di lavoro dipendente. Soltanto la radiazione, che consiste nell’espulsione dall’albo, comporta effetti sul rapporto di pubblico impiego, in quanto fa venir meno uno del requisiti prescritti per l’instaurazione e il mantenimento in vita del rapporto stesso.

Art. 64 - Doveri di collaborazione

Il medico è tenuto a comunicare al Presidente dell’Ordine i titoli conseguiti utili al fine della compilazione e tenuta degli albi.Il medico che cambia di residenza, trasferisce in altra provincia la sua attività o modifica la sua condizione di esercizio o cessa di esercitare la professione, è tenuto a darne tempestiva comunicazione al Consiglio provinciale dell’Ordine.Il medico è tenuto a comunicare al Presidente dell’Ordine eventuali infrazioni alle regole, al reciproco rispetto e alla corretta collaborazione tra colleghi e alla salvaguardia delle specifiche competenze che devono informare i rap-porti della professione medica con le altre professioni sanitarie.Nell’ambito del procedimento disciplinare le mancate collaborazione e disponibilità del medico convocato dal Presidente della rispettiva Commis-sione di albo costituiscono esse stesse ulteriore elemento di valutazione a fini disciplinari.Il Presidente della rispettiva Commissione di albo, nell’ambito dei suoi poteri di vigilanza deontologica, può convocare i colleghi esercenti la professione nella provincia stessa, sia in ambito pubblico che privato, anche se iscritti ad altro Ordine, informandone l’Ordine di appartenenza per le eventuali conseguenti valutazioni.Il medico eletto negli organi istituzionali dell’Ordine deve adempiere all’in-carico con diligenza e imparzialità nell’interesse della collettività e osservare prudenza e riservatezza nell’espletamento dei propri compiti.

Questo articolo detta norme riguardo ai rapporti tra Ordine e singolo iscritto. Di fatto, per dare maggior peso alla norma, inserisce regole pratiche sulla tempestiva comunicazione delle variazioni di status professionale degli iscritti. Il richiamo forte alla deontologia si ha nell’obbligo, contenuto nel terzo

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1. L’Ordine professionale e il codice deontologico 59

comma, alla segnalazione da parte del medico di possibili infrazioni disciplinari e, più che altro, nell’indicazione etica del dovere di collaborazione tra colleghi e alla salvaguardia delle rispettive competenze sia tra medici sia tra tutti i pro-fessionisti della sanità. Il medico che non collabora durante lo svolgimento di un procedimento disciplinare crea per sé un’aggravante o, comunque, un ulte-riore elemento di valutazione disciplinare. Il Presidente può convocare anche iscritti ad altri Ordini che esercitino nella propria provincia, dandone notizia al Presidente dell’Ordine di iscrizione. Questa norma tenta di rimediare a una situazione spesso incresciosa: dal momento che la normativa comunitaria con-sente l’iscrizione nella provincia di residenza o in quella di esercizio professio-nale, capita di dover giudicare colleghi che operano in lontanissime province e che hanno mantenuto l’iscrizione nel comune di residenza. Questo pone il Consiglio nella condizione di non avere sufficiente conoscenza del contesto ai fini del giudizio disciplinare. La norma infine obbliga il medico eletto in Consiglio alla diligenza e all’imparzialità. Un’obbligazione ovvia, ma non per questo meno opportuna.

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2La responsabilità professionale

S.Fucci

Introduzione al tema della responsabilità professionale per malpratica

Ciascuno è “responsabile” e si assume la “responsabilità” del lavoro che svolge nei diversi campi dell’agire umano.

Volendo focalizzare il significato dei termini sopra indicati con riferimento all’attività medica potremmo affermare che un sanitario si comporta in modo responsabile quando si aggiorna continuamente al fine di acquisire le conoscenze tecniche e pratiche necessarie per effettuare il proprio lavoro professionale in modo corretto.

In questo modo, infatti, consegue gli strumenti tecnici utili a salvaguardare gli interessi relativi al bene “salute” degli assistiti affidati alle proprie cure.

Durante l’esercizio della professione può capitare abbastanza frequente-mente di avere la sensazione del dejà-vu, cioè di potere incasellare subito una situazione di malessere denunziata da un paziente in uno schema mentale già predisposto. Questo comportamento rischia di far perdere al medico il senso critico rispetto alla specifica situazione in esame che, quindi, non viene valutata nella sua particolarità e nelle sue varie sfaccettature.

Si può, quindi, affermare che un medico si comporta in modo “responsa-bile” se si interroga continuamente sul senso e sul significato del proprio lavoro, con la necessaria attenzione e con la prudenza utile ad evitare ogni automatismo decisorio in campo clinico, sottoponendo sempre a revisione critica le conclu-sioni raggiunte, soprattutto quando la diagnosi alternativa – esclusa in base ai primi rilievi – riguarda una ipotesi di malattia altamente rischiosa per l’ammalato.

Per un medico essere responsabile, peraltro, significa anche essere consape-vole della rilevanza – anche sul piano sociale – del lavoro che si svolge che ha

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Manuale della Professione Medica62

riflessi non solo sulla salute del singolo, ma anche sul piano contabile, ammini-strativo e giuridico per l’intera collettività.

Occorre, quindi, essere in grado di evitare di trovarsi in situazioni che pos-sono configurare un conflittodiinteressi e di rifiutare condizionamenti impropri di terzi diretti a sviare l’agire professionale dalle regole giuridiche generali e da quelle proprie della deontologia medica allo scopo di raggiungere profitti indebiti a scapito degli interessi degli assistiti e della comunità.

Essere responsabili, infine, significa essere consapevoli di potere essere chiamati a rispondere del proprio operato sul piano etico e giuridico in senso lato e, quindi, dovere essere in grado non solo di dimostrare le ragioni del comportamento tenuto e la correttezza dello stesso rispetto alle regole dell’arte, ma anche, eventualmente, di risarcire i danni cagionati al paziente attraverso la propria attività di cura.

Il tema della responsabilità per malpratica merita di essere approfondito in questa sede visto il notevole incremento di importanza che ha avuto la que-stione della responsabilità professionale anche sul piano strettamente giuri-dico, ma non solo.

Basta leggere un qualsiasi quotidiano ovvero ascoltare un notiziario radiofonico o televisivo per sentire parlare, non sempre appropriatamente, di questioni attinenti la responsabilità professionale dei medici e degli altri professionisti della sanità.

Le ragioni di tutto ciò sono numerose e non sempre sufficientemente inda-gate con adeguato spirito critico.

In questa sede ci si può limitare ad osservare che i sanitari agiscono sul corpo degli individui che, nel tempo, sono sempre più attenti a verificare l’esito di questi interventi al fine di addebitare l’eventuale insuccesso al medico e/o alla struttura ove opera.

La salute è, infatti, un bene che tutti vorrebbero preservare o migliorare e, quindi, ogni eventuale esito negativo delle cure, pur correttamente proposte e adeguatamente eseguite, viene sempre più spesso attribuito a comportamenti integranti malpratica.

D’altra parte questo campo dell’agire dell’uomo muove anche enormi inte-ressi economici che finiscono con l’influenzare l’attività di cura, ma anche le reazioni degli interessati.

Si creano così aspettative sempre più forti di miglioramento della salute attraverso una medicina fondata sulla miracolosa e innovativa tecnologia, i cui sup-posti effetti positivi vengono poi amplificati dai mass media e dalla pubblicità.

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2. La responsabilità professionale 63

Si tende, quindi, a spingere i pazienti a sottoporsi a cure non sempre appro-priate e a sottovalutare l’incertezza propria dell’intervento medico sul corpo umano, le cui reazioni non sempre sono prevedibili.

Le lamentele dei pazienti, supportate da consulenze medico-legali di parte non sempre adeguatamente critiche rispetto alle narrazioni dei malati, fini-scono poi sulla scrivania dei sempre più numerosi avvocati (non esiste numero chiuso per questa professione protetta) che spesso le patrocinano nella convin-zione di potere poi addebitare l’eventuale esito negativo del giudizio agli errori professionali dei giudici che, pertanto, nella fantasia dei malati, finiscono con il sommarsi a quelli dei sanitari.

Fermo restando l’esigenza sempre più avvertita dalla migliore dottrina di non criminalizzare in modo eccessivo l’attività medico-chirurgica, rimane forte il richiamo ad un maggiore rispetto, da parte di tutti i soggetti coinvolti nel con-tenzioso, della propria deontologia professionale che individua nella salvaguar-dia dell’interesse dell’assistito ovvero del cliente lo scopo ultimo del lavoro svolto.

Non sembra, infatti, che il problema dell’eccessivo contenzioso in campo sanitario, che spaventa anche le compagnie che assicurano questi rischi pro-fessionali, possa risolversi attraverso una depenalizzazione degli illeciti medici, come qualcuno spera e sostiene.

L’opinione pubblica, invero, non accetterebbe una depenalizzazione non accompagnata da altri seri strumenti che assicurino comunque adeguata tutela ai pazienti effettivamente danneggiati dalle attività di cura svolte in modo improprio ovvero inadeguato.

Né appare realmente disincentivante la nuova legge (DLgs n. 28 del 4/3/2010) che prevede come obbligatorio per le nuove cause civili un tentativo preventivo di conciliazione attraverso l’intervento di un organo terzo con fun-zioni di mediazione. Questo passaggio procedurale rischia, infatti, di rimanere solo rituale, se non accompagnato da adeguate strutture di supporto in grado di offrire agli interessati una tempestiva e professionale proposta di mediazione che costituisca una risposta seria e indipendente alla loro domanda di giustizia.

D’altra parte non sembra che tutte le organizzazioni dei legali siano soddi-sfatte del testo emanato dal Parlamento, come si evince dalle numerose critiche al riguardo e richieste di rinvio dell’applicazione di questo tentativo obbligato-rio di conciliazione.

Occorre, pertanto, un recupero dell’etica professionale, non meno di quella

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pubblica, ma occorre innanzitutto una migliore organizzazione delle strutture sanitarie che devono sempre di più agire per prevenire i cosiddetti errori di sistema attraverso i loro reparti di risk managment.

Occorre, inoltre, utilizzare gli errori realmente accertati e quelli che solo per un caso non hanno prodotto effetti negativi (near miss) quale strumento di cono-scenza e di formazione per tutti i soggetti interessati, incentivando le segnalazioni anonime ad un organo terzo e indipendente anche dall’Autorità Giudiziaria.

La responsabilità penale per malpratica – colpa medica. Definizione

In questa sede viene esaminata la problematica inerente la responsabilità professionale penale del medico che, per colpa, cagiona all’assistito lesioni per-sonali ovvero ne provoca la morte.

Questi due reati sono previsti e puniti rispettivamente dall’art. 590 del Codice penale che, al primo comma, stabilisce che «chiunquecagionaadaltripercolpaunalesionepersonaleèpunitoconlareclusionefinoatremesioconlamultafinoadeuro309,00», con aumenti di pena sanciti dai successivi commi in relazione alla gravità delle lesioni, e dall’art. 589 cp che statuisce che «chiunquecagionapercolpalamortediunapersonaèpunitoconlareclusionedaseimesiacinqueanni».

Come si evince anche dal testo sopra riportato si tratta di disposizioni che riguardano qualunque soggetto e, quindi, anche i medici nell’esercizio della loro attività professionale, mancando nel Codice penale una disciplina speci-fica al riguardo relativa ai sanitari.

Mentre le lesioni colpose cagionate dal medico vengono valutate sul piano penale solo in presenza di una istanza di punizione (querela) proveniente dalla parte danneggiata, il delitto di omicidio colposo è sempre procedibile d’ufficio e, quindi, il relativo processo verrà iniziato a prescindere dalla volontà degli eredi del paziente deceduto.

Per realizzare in concreto uno degli illeciti, penali, sopra menzionati occor-rono tre essenziali elementi: a) un comportamento colposo; b) una lesione personale in danno del paziente o l’evento morte dell’assistito; c) l’esistenza di nesso tra il comportamento e l’evento che consenta di ritenere che quel deter-minato evento sia stato causato da quella condotta.

L’area della responsabilità penale del medico può, quindi, essere più o meno

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ampia a seconda della maggiore o minore rigidità nella definizione del concetto di colpa rilevante in questa sede ovvero nell’accertamento del nesso di causalità.

È evidente, infatti, che se si ritenesse, come avvenuto in un passato ormai lontano, che in sede penale rilevano solo colpe assolutamente inescusabili per la loro gravità, l’area della responsabilità del medico verrebbe ristretta solo a questi casi e, quindi, sarebbe esclusa per tutti quei comportamenti integranti una colpa di lieve entità.

In base al disposto dell’art. 43 del codice penale: «il delitto [...] è colposo, ocontrol’intenzione,quandol’evento,anchesepreveduto,nonèvolutodall’agenteesiverificaa causa di negligenza o imprudenza o imperizia [colpa generica],ovveroperinosservanzadileggi,regolamenti,ordiniodiscipline» [colpa specifica].

L’art. 43 del Codice penale detta, quindi, un ampia definizione di colpa senza alcun riferimento alla sua eventuale gravità ovvero al suo grado.

In sede penale il grado della colpa rileva, pertanto, essenzialmente ai fini della determinazione della pena ex art. 133 Codice penale; il giudice, infatti, nell’ir-rogazione in concreto della pena deve tenere conto anche di quanto l’autore del reato si è discostato dalla misura della diligenza prescritta in base allo stato dell’arte e della normativa esistente.

Secondo alcuni Autori nella valutazione della colpa medica occorre evitare un eccessiva penalizzazione dell’attività di cura che potrebbe avere la conse-guenza di indurre i sanitari ad affrontare solo i casi meno complicati ovvero quelli nei quali è più difficile sbagliare.

In realtà il rifiuto indebito degli interventi dimaggioredifficoltà potrebbe a sua volta rilevare sul piano penale, quantomeno per i medici delle strutture del Servizio Sanitario Nazionale e i medici che operano in convenzione che assu-mono la qualifica di pubblici ufficiali per i quali è ipotizzabile il delitto di cui all’art. 328 cp (il delitto [...] ècolposo,ocontrol’intenzione,quandol’evento,anchesepre-veduto,nonèvoIlpubblicoufficialeol’incaricatodiunpubblicoserviziocheindebitamenterifiutaunattoche,perragioni[...] diigieneosanità,deveesserecompiutosenzaritardo,èpunitoconlareclusionedaseimesiadueanni»).

Inoltre l’omissione ingiustificata di un intervento rischioso, ma indicato dallo stato dell’arte perché, ad esempio, risolutivo della patologia che affligge il paziente, potrebbe comunque rilevare sul piano penale qualora fosse possibile collegare in modo certo sul piano causale questo comportamento omissivo con l’evento negativo per la salute o la vita patito dall’interessato.

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Sul piano penale, invero, l’omissione della condotta doverosa perché impo-sta dall’ordinamento o da un obbligo assistenziale è parificata al comporta-mento attivo non corretto ex art. 40 cp («Nessunopuòesserepunitoperun fattoprevedutodallaleggecomereato,sel’eventodannosoopericoloso,dacuidipendelaesistenzadelreato,nonèconseguenzadellasuaazioneoomissione.Nonimpedireunreato,chesihal’obbligogiuridicodiimpedire,equivaleacagionarlo»).

È noto che in medicina conta molto l’appropriata valutazione ex ante del rapporto rischio (dell’intervento) - beneficio (atteso per il paziente in conse-guenza dell’intervento stesso) e, quindi, dovrebbero comunque ritenersi dovuti quei trattamenti dai quali – se correttamente eseguiti – ci si può ragionevol-mente aspettare un reale beneficio per l’assistito.

Nella sentenza penale n. 20595/10 relativa ad una ipotesi di lesioni per-sonali volontarie commesse, durante un incontro sportivo, da un calciatore in danno di un altro della squadra avversaria, la Cassazione, in motivazione, ha affrontato in linea generale il tema del rischioconsentito in quelle attività, tra cui va inserita anche quella medica, che per la loro utilità sociale sono consentite dall’or-dinamento, pur potendo essere giudicate pericolose intrinsecamente ovvero per le modalità di esercizio o per i mezzi adoperati. In quest’occasione la Corte ha precisato che queste attività devono essere svolte nel rispetto delle regole cautelari proprie dell’attività svolta – regole che di norma sono idonee a ridurre il margine di rischio, ma non ad eliminarlo – e che «la regola del bilanciamento tra gli interessi contrapposti costituisce la chiavedivoltaper individuare l’eventualesuperamentodelrischioconsentito,superamentochesaràammessosoloperlatuteladibenidipariosuperiorevalore».

Ha aggiunto, peraltro, la Corte che «rischioconsentitononsignificaperòesonerodall’obbligodiosservanzadelleregoledicautelamasemmairafforzamento:soloincasodirigorosa osservanza di tali regole il rischio potrà ritenersi effettivamente “consentito” perquellapartedel rischio chenonpuò essere eliminato». In definitiva, di norma, nelle “attività pericolose consentite”, rispetto alle attività comuni, «maggiore deve essere il livellodidiligenza,prudenzaeperizianelprecostituirelecondizioniidoneearidurreneilimitidelpossibileilrischioineliminabile».

Sembra potersi concludere, in sostanza, che se un chirurgo esegua d’ur-genza un intervento rischioso – ma indicato in quanto potenzialmente risolu-tore di una grave patologia – rispettando scrupolosamente le regole cautelari proprie della sua disciplina non potrà essere ritenuto in colpa anche se, in ipo-tesi, si realizzi quella parte del rischio che pur prevedibile non era prevenibile.

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Questa conclusione appare ragionevole e conforme al pensiero espresso dalla Cassazione in questa sentenza che, tra le attività pericolose obbligatorie o neces-sitate cita l’attività medicochirurgicad’urgenza osservando, in linea generale, che in questi casi «avvienetalvoltachelanecessitàimprorogabiledell’interventopossaridurrel’esigi-bilitàdell’osservanzadelleregoleneilimitidiunavalutazionecomparativa(spessodaoperarenell’immediatezzae,quindi,conunpiùampiomargined’errore)tracostiebenefici».

Questo passaggio, sia pure non specificamente riferito all’attività del medico, appare interessante perché sembra farsi carico del problema – tipico della medicina d’urgenza – di una decisione clinica da prendere nell’imme-diatezza e della conseguente maggiore possibilità di sbagliare quando si deve intervenire senza possibilità di dilazionare l’intervento, stante l’evidente gravità delle condizioni di salute del paziente.

La giurisprudenza della Suprema Corte, quindi, pur escludendo l’applicabi-lità diretta in campo penale dell’art. 2236 del Codice civile (che, in via eccezio-nale, stabilisce che il professionista risponde solo per dolo o colpa grave qualora la sua prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di specialedifficoltà) si è fatta carico – in un certo senso – di questo problema laddove tende a rap-portare il giudizio sulla colpa alla situazione reale in cui il medico si è trovato ad operare per verificare se era o meno esigibile un diversa e più appropriata condotta, soprattutto in quelle situazioni nelle quali occorre intervenire d’ur-genza e, quindi, decidere cosa fare in un lasso di tempo molto ristretto perché le (gravi) condizioni del paziente non consentono ulteriori accertamenti.

La reale difficoltà di una diagnosi ovvero di esecuzione di un intervento chirurgico, d’altra parte, andrebbe tenuta comunque in considerazione in sede penale per valutare se è possibile giudicare colposo in queste situazioni il com-portamento tenuto dal medico.

Il giudizio sulla correttezza professionale sul piano della diligenza tecnica del comportamento del sanitario non può, inoltre, non tenere conto del grado di specializzazione del medico in quanto diversa è l’abilità tecnica che si deve pretendere da un professionista eventualmente munito di specializzazione nel campo rispetto a quella che si può esigere da un medico non specializzato che si trovi ad operare d’urgenza in mancanza di un collega più esperto.

Sul punto appare opportuno richiamare la sentenza n. 13942/08 della Cassazione penale relativa ad un caso nel quale una ostetrica si era trovata – in sostanza – nella necessità di assistere una partoriente durante un parto non

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eutocico in quanto i ginecologi, pur sollecitati, non avevano potuto intervenire perché già impegnati nell’assistenza ad altre donne partorienti.

L’ostetrica era stata denunziata per lesioni colpose perché nel corso dell’as-sistenza aveva cagionato al neonato una paresi al braccio sinistro, di carattere irreversibile, dovuta ad un errata manovra di estrazione del feto e, ritenuta colpevole dal Tribunale, condannata in primo grado alla pena di tre mesi di reclusione, oltre al risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede.

L’esito del giudizio veniva ribaltato dalla Corte d’Appello che assolveva l’imputata con ampia formula dal reato ascritto ritenendo che la professioni-sta – che non è abilitata dalla legge a prendere parti non fisiologici – avesse operato in una situazione di emergenza e nell’interesse della partorente e del nascituro, altrimenti a rischio di ipossia.

La Suprema Corte, nel confermare l’assoluzione dell’ostetrica, ha affron-tato il diverso e più interessante problema relativo alla condotta esigibile dalla predetta in presenza di una dilatazione ormai completa e del mancato inter-vento dei medici, pur richiesto, e alla sua eventuale rilevanza o meno sul piano della colpa per assunzione avendo agito in contrasto con le leges artis e compiuto un’attività che non poteva svolgere.

Rileva la Cassazione che il problema dell’individuazione della condotta esigi-bile riguarda, nella “normalità” dei casi, le competenzespecifiche di ciascun sanitario a qualunque livello operi e l’agente sarà ritenuto in colpa solo se non ha previsto (e prevenuto) le evitabili conseguenze della sua condotta che conosceva o era tenuto a conoscere in base alla sua professione e alla sua condizione.

Non può, invece, ravvisarsi alcuna colpa (nemmeno per assunzione) dell’agente (nella fattispecie in oggetto l’ostetrica) nel caso di attività specia-lizzata svolta da chi non ha la necessaria specializzazione (nel caso di specie: ostetrica che compie manovre di competenza del ginecologo), se questi si trovi in condizioni di urgenza indifferibile e, quindi, deve agire pur senza avere la neces-saria professionalità.

Il richiamo in questa sentenza, da parte della Cassazione – alle competenze specifiche che ogni professionista specializzato in una determinata branca della medicina deve possedere sottolinea l’importanza, anche in campo penale, delle cosiddette regole dell’arte che dovrebbero costituire un patrimonio comune a ciascun operatore in un determinato settore.

Queste regole sembrano porsi come regole cautelari laddove indicano criteri

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tecnici e percorsi diagnostico-terapeutici diretti ad evitare danni al paziente e a raggiungere lo scopo di tutelare positivamente la salute dell’interessato attra-verso una corretta assistenza.

Di norma queste regole sono contenute in protocolli operativi ovvero in linee-guida che, con diversa forza cogente, costituiscono un importante ausilio per l’esercizio professionale in quanto siano state correttamente elaborate, accet-tate nella pratica e continuamente aggiornate per renderle sempre più idonee a fotografare quello che viene definito lo stato dell’arte.

Va, peraltro, sottolineato che difficilmente una regola scientifica o stati-stica assume carattere incondizionato e integralmente applicabile al singolo caso senza passare attraverso il vaglio critico del medico che, quindi, si assume comunque la responsabilità della diagnosi formulata e della terapia proposta.

La peculiarità di ogni singolo caso impone, infatti, all’operatore sanitario la costante verifica dell’esistenza, in concreto, delle condizioni per applicare o meno una determinata regola che è riferita ad un paziente astratto, non alla persona, eventualmente portatrice di una pluralità di patologie, che il curante si trova a dovere assistere.

Il richiamo alla diretta responsabilità professionale e etica del medico nella prescrizione degli accertamenti diagnostici e delle conseguenti terapie è conte-nuto anche nell’art. 13 del vigente Codice deontologico del 2006 che, peraltro, impone ai sanitari di utilizzare nel loro lavoro acquisizioni scientifiche aggior-nate e sperimentate e di adeguare le sue decisioni aidati scientificiaccreditati ealleevidenze metodologicamente fondate.

In quest’ottica il codice vieta l’utilizzo e la diffusione di terapie e di presidi diagnostici «non provatiscientificamenteononsupportatidaadeguatasperimentazione», quasi a porre un argine anche alle situazioni incresciose vissute non molto tempo fa quando il mondo della sanità e, in particolare, quello dell’oncologia medica fu attraversato dal ciclone della multiterapia Di Bella così chiamata dal nome del medico che l’aveva creata.

Sulla responsabilità personale del medico in merito alle scelte terapeutiche da lui operate, in presenza di altre opzioni curative astrattamente applicabili perché anch’esse indicate nelle linee-guida, è intervenuta di recente la Cassa-zione penale con la sentenza n. 10454/10 relativa ad un anestesista imputato di omicidio colposo.

La Corte ha affermato che questo specialista era in colpa perché, a fronte di

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un imprevisto ed imprevedibile shock anafilattico conseguente ad una reazione allergica provocata dai farmaci utilizzati per procedere all’anestesia di una paziente da sottoporre ad un intervento chirurgico di colecistectomia, aveva proceduto inutilmente a tre tentativi di intubazione seguiti da altre procedure incongrue, invece di attivarsi tempestivamente per l’effettuazione dell’inter-vento risolutore costituito nella fattispecie dalla tracheotomia.

Nella motivazione di questa decisione la Suprema Corte, nel rigettare la tesi difensiva dell’anestesista che aveva sostenuto di essersi comportato in confor-mità alle linee-guida applicabili alla fattispecie, ha osservato che la situazione di emergenza conseguente allo shock anafilattico imponeva di eseguire la trache-otomia, l’unica scelta che in concreto si rendeva chiaramente risolutiva per con-trastare l’ipossia, precisando che le astratte e alternative indicazioni delle linee-guida devono, infatti, essere correttamente valutate rispetto alla situazione da fronteggiare, non potendo essere messe tutte sullo stesso piano quando una sola è idonea nel caso concreto a risolvere una pericolosa patologia.

La responsabilità penale per malpratica – colpa medica. Casistica

Nella casistica giudiziaria tra i profilidi colpa più frequentemente rilevati e accertati emerge la sottovalutazione di elementi che avrebbero dovuto indurre il curante a svolgere accertamenti diagnostici più approfonditi, idonei ad effet-tuare una diagnosi corretta.

Dall’analisi della giurisprudenza della Cassazione penale sembra emergere – sia pure non sempre in modo esplicito – l’invito ai sanitari a coltivare una cultura del dubbio tale da evitare di dare per acquisite certezze in situazioni che, invece, meritano ancora di essere indagate in presenza di elementi di sospetto.

Al riguardo è intervenuta, di recente, la quarta sezione penale della Cassa-zione, che, nella sentenza n. 10452/10, ha ritenuto “colposo” il comportamento di un medico di famiglia che sottovalutando la sintomatologia dolorosa presen-tata da una paziente (persistenti dolori addominali, gonfiore al fegato e scari-che di feci), il rischio connesso all’età (68 anni) e quello derivante dall’anamnesi familiare, ha omesso per lungo tempo di svolgere accertamenti diagnostici più approfonditi, idonei a accertare tempestivamente l’esistente patologia tumorale (neoplasia al colon) così ritardando la conseguente terapia chirurgica.

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Anche nella sentenza penale n. 2474/10 la Cassazione afferma che è in colpa il medico ospedaliero che, omettendo di effettuare dovuti esami cli-nici, dimetta con la diagnosi errata di gastrite un paziente affetto da patologia tumorale. In questo caso il sanitario è stato ritenuto responsabile del delitto di lesioni personali colpose in quanto, in seguito all’errata diagnosi, ha pro-lungato per un tempo significativo le alterazioni funzionali riscontrate (nella specie, vomito, acuti dolori gastrici ed intestinali) e lo stato di complessiva sofferenza, di natura fisica e morale, in cui versava il paziente, così favorendo un processo patologico che, se tempestivamente curato, sarebbe stato evitato o almeno contenuto.

Nella sentenza penale n. 13070/10 la Cassazione ritorna sul tema della colpa medica per negligenza e imperizia ritenendo colposo il comportamento di un chirurgo che non compiendo una accurata e approfondita anamnesi familiare di un malato – che avrebbe evidenziato importanti elementi di familiarità con la neoplasia da cui poi il paziente era risultato affetto e determinato l’esecuzione di utili accertamenti clinici (rettocolonscopia) – e omettendo l’esecuzione di una colonscopia, pur insistentemente richiesta dallo stesso paziente, cagionava al predetto lesioni colpose per il ritardo nella diagnosi e nella cura della malattia.

In questa sentenza la Cassazione ha evidenziato che la mancata annota-zione nella cartella clinica dei dati dei familiari affetti dal carcinoma al colon ovvero da poliposi avvalorava la circostanza addebitata al chirurgo circa l’ese-cuzione in modo superficiale dell’anamnesi familiare.

Emerge, quindi, anche da questa decisione l’importanza non solo dell’esecu-zione di determinate attività mediche ma anche della loro regolare annotazione nella documentazione clinica onde provare l’effettività della loro esecuzione.

In linea generale si può osservare che se le condizioni del paziente sono puntualmente riportate nella relativa documentazione sanitaria e se le ragioni delle scelte di cura sono adeguatamente motivate sul piano tecnico, sarà più facile per il medico dimostrare la situazione clinica in cui versava il paziente e fornire elementi idonei a ricostruire a distanza di tempo il proprio comporta-mento di cura.

Ecco perché, da più parti, si sottolinea come la puntuale tenuta della docu-mentazione sanitaria può costituire un utile strumento di difesa del medico chiamato a rispondere in sede giudiziaria del suo operato, talvolta a notevole distanza di tempo da quando ha agito.

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Ciò vale anche in sede penale perché, se è vero che nel giudizio penale è l’accusa a dovere dimostrare la fondatezza della propria tesi circa la colpevo-lezza dell’imputato, i periti nominati dal Pubblico Ministero nella fase delle indagini preliminari ovvero dal giudice nel corso del giudizio saranno chiamati a dare il loro giudizio tecnico sull’esistenza di un eventuale profilo di colpa anche sulla base degli elementi risultanti dalla cartella clinica e dall’altra docu-mentazione sanitaria esistente che viene, di norma, acquisita alla procedura.

L’accurata tenuta della cartella clinica non costituisce, quindi, solo un dovere deontologico alla luce del disposto dell’art. 26 del Codice di Deontolo-gia del 2006, ma anche un indice della correttezza dell’assistenza prestata, qua-lora venga redatta con chiarezza, puntualità e diligenza e contenga le necessarie informazioni.

Nella casistica giudiziaria emergono anche profili di colpa per omessa dia-gnosi di patologia emergente dagli esami clinici effettuati ovvero per la sottovalu-tazione delle possibili complicanze di una condotta terapeutica.

Nella recente sentenza penale n. 15637/10 la Cassazione ha ritenuto colposo il comportamento di un sanitario in servizio presso la divisione di medicina di un nosocomio che – pur in possesso dei referti ecografici che atte-stavano una situazione di anomalia della colecisti (stante l’ispessimento della parete della colecisti e la sua anomala morfologia) e in presenza di un dolore persistente, di leucocitosi, di vomito e della sostanziale inefficacia della terapia antibiotica attivata in precedenza – aveva omesso di diagnosticare tempestiva-mente la patologia colecistica che affliggeva la paziente.

Nella sentenza penale n. 35307/08 la Cassazione ha, invece, ritenuto col-poso il comportamento di un ortopedico che aveva ridotto la frattura scom-posta del quarto distale radio destro riportata da una minorenne in conse-guenza di una caduta a mano tesa e aveva poi applicato alla piccola paziente un apparecchio gessato braccio-manuale in presenza di edema e tumefazione nella regione del braccio interessata alla frattura, sottovalutando le probabili complicanze vascolari derivanti dalla sua condotta diagnostica e terapeutica e omettendo di rimuovere tempestivamente l’apparecchio gessato, così cagio-nando alla paziente un indebolimento dell’organo della prensione e una defor-mazione dell’arto superiore destro.

Nella sentenza penale n. 30804/08 la Cassazione ha ravvisato profili di colpa a carico del medico di un reparto di ginecologia che aveva omesso di

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prescrivere la necessaria terapia a base di eparina calcica – utile a prevenire l’insorgenza di trombosi – ad una paziente sottoposta ad un intervento di iste-rectomia che aveva manifestato già dal giorno successivo all’operazione fastidi all’arto inferiore sinistro.

Dalla casistica giudiziaria emergono a carico dei sanitari ulteriori profilidicolpa per avere omesso l’emanazione di specifichedirettiveagliinfermieri di reparto in modo da prevenire adeguatamente situazioni di rischio per i pazienti ivi ricoverati.

In questo senso è la decisione n. 48292/08 della Cassazione penale che ha ritenuto colposo il comportamento dei medici psichiatri operanti in un nosocomio che avevano omesso di informare il personale infermieristico del forte rischio di gesti autolesivi e di emanare disposizioni sul divieto di uscita dal reparto, senza accompagnamento, in relazione a un paziente – affetto da un disturbo depressivo maggiore – ricoverato nel reparto psichiatrico ove aveva già tentato di suicidarsi, ragione per la quale era stata aumentata la dose della terapia farmacologica in atto, non ancora, peraltro, in grado di produrre un risultato efficace.

La Suprema Corte ha, inoltre, avuto modo di occuparsi del rapporto tra colpa del medico che interviene per primo e il cosiddetto principiodiaffidamento nel corretto svolgimento dell’attività specialistica di competenza di altri sanitari cui i paziente viene poi indirizzato.

Nella sentenza penale n. 43958/09 la Cassazione ha osservato che il prin-cipio di affidamento nel corretto espletamento dell’attività medica specialistica di competenza di altri professionisti non è invocabile dal sanitario che a sua volta non osservi le regole precauzionali, specifiche o comuni, inerenti l’assi-stenza da lui prestata.

Il caso giudicato dalla Suprema Corte riguarda un medico del Pronto Soc-corso di un nosocomio che, pur nell’impossibilità di accertare in modo defini-tivo la situazione clinica di un paziente caduto da una pianta – stante l’impos-sibilità di effettuare tutti gli accertamenti radiologici in distretti rilevanti della colonna dorsale e cervicale – lo ha dimesso senza adottare le necessarie pre-cauzioni atte ad evitare che potessero avere inizio fenomeni di scivolamento dei metameri, con conseguente compromissione midollare.

Questo comportamento è stato giudicato colposo proprio per l’omissione delle indicate precauzioni e la Cassazione ha ritenuto non applicabile nella fat-tispecie il principiodiaffidamento invocato dal medico del Pronto Soccorso per-ché chi agisce non correttamente non può poi fare affidamento sul fatto che

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altri (in questo caso l’ortopedico cui era stato indirizzato il paziente) mettano in atto tutti i presidi necessari per salvaguardare la salute del paziente visitato.

La responsabilità penale per malpratica – nesso di causalità. Definizione e casistica

Nei paragrafi precedenti è stato sottolineato che il medico può essere ritenuto colpevole del reato di lesioni personali colpose previsto dall’art. 590 del codice penale ovvero del delitto di omicidio colposo di cui all’art. 589 cp in presenza di tre essenziali elementi: a) un comportamento colposo; b) una lesione personale in danno del paziente o l’evento morte dell’assistito; c) l’esi-stenza di nesso tra il comportamento e l’evento che consenta di ritenere che quel determinato evento sia stato causato da quella condotta.

In questa sede verrà approfondito il tema del nesso di causalità che, nei pro-cessi, è oggetto di accese discussioni tra i medici legali consulenti dell’accusa e della difesa perché il mancato accertamento dell’esistenza di questo elemento deve comportare, da parte dei giudici, l’assoluzione del sanitario incolpato.

I consulenti della difesa tenderanno, di norma, ad escludere che l’evento lesivo rilevante in sede penale (lesioni o morte in danno dell’assistito) si è verificato a causa del comportamento del medico incolpato, sostenendo in linea generale l’erroneità delle conclusioni sul punto del perito nominato dal Pubblico Ministero e, in particolare, l’irrilevanza causale del comportamento incriminato essendo intervenute cause, non prevedibili ovvero non prevenibili, idonee a realizzare l’evento predetto in via autonoma.

La modalità più o meno rigorosa dell’accertamento del nesso di causalità incide evidentemente sulla possibilità o meno di sanzionare in sede penale un comportamento colposo tenuto dal medico, produttivo, in ipotesi, di una lesione penalmente rilevante.

Nel corso degli anni vi è stato un andamento oscillante della giurispru-denza sul punto perché in alcune sentenze si è ritenuto sussistente il nesso di causalità tra il comportamento del medico e l’evento negativo per il paziente sulla base di elementi non sempre puntuali e tali da fornire certezze, quanto-meno processuali.

Ciò è avvenuto quando si è ritenuto sussistente il nesso di causalità, ad esempio, sulla base di semplici dati statistici sull’astratta idoneità del corretto

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comportamento terapeutico omesso di evitare le lesioni o la morte del paziente.Si è obiettato, rispetto a questa tendenza poco garantista, che il valore del

bene in gioco in sede penale (la libertà personale dell’imputato) richiede un accertamento della responsabilità sulla base di elementi idonei a fornire una certezza assoluta al riguardo, restando altrimenti aperta per il paziente danneg-giato la strada del risarcimento del danno in sede civile.

È evidente che la prima tendenza giurisprudenziale, motivata probabil-mente anche da fattori extragiuridici (valore della vita umana), ha finito con l’allargare l’area della responsabilità medica, mentre il secondo filone interpre-tativo lo ha ristretto eccessivamente laddove ha richiesto una certezza assoluta del nesso di causalità di non agevole accertamento nel campo della medicina dove non tutti gli effetti sono sempre riconducibili con certezza sul piano bio-logico ad una determinata condotta, attiva o omissiva e dove non sempre tutte le cause sono individuabili in modo preciso.

Sul punto, visto il perdurante contrasto in seno alle stesse sezioni della Suprema Corte, sono intervenute le Sezioni Unite Penali della Cassazione con la famosa sentenza Franzese, n. 30328/02, che ha cercato di ricondurre il tema dell’accertamento del nesso di causalità alle evidenze emerse nel corso del processo, con l’invito ai giudici di merito di indagarle con particolare atten-zione per verificarne la rilevanza sul piano probatorio di questo elemento fon-damentale e, quindi, per valutarne la loro idoneità a fornire la prova processuale dell’esistenza o meno del nesso in oggetto.

In sostanza per le Sezioni Unite non si tratta di verificare la certezza assoluta del nesso, ma, in presenza di una condotta idonea (anche come causa concor-rente) a cagionare le lesioni patite dal paziente o la sua morte, di verificare, alla luce degli elementi forniti dalla difesa, se vi sono fondate spiegazioni alterna-tive idonee ad escludere la responsabilità dell’imputato in quanto, in ipotesi, l’evento incriminato è stato prodotto da altra diversa causa non contrastabile, idonea da sola a realizzarlo. Il nesso di causalità deve essere escluso, altresì, quando la morte dell’assistito non sarebbe stata evitata (o significativamente ritardata) anche se si fosse tempestivamente realizzata la condotta terapeu-tica contestata come ingiustamente omessa o ritardata, stante l’estrema gravità delle condizioni cliniche dell’ammalato.

Questa importante decisione – che indubbiamente ha un contenuto più garantista per il medico rispetto a precedenti decisioni della stessa Corte –ha

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stabilito, in particolare, che il nesso di causalità non può essere accertato esclusi-vamente in base ad un astratto criterio probabilistico fondato su leggi scientifi-che o su massime di esperienza, ma occorre un serio esame di tutti gli elementi della fattispecie per giungere ad un giudizio di certezza processuale fondato su una motivazione razionalmente credibile, che escluda diverse attendibili spiegazioni alternative.

Sulla congruità e sulla razionalità della motivazione dell’esistenza o dell’ine-sistenza del nesso come accertato dai giudici di merito opererà poi il controllo di legittimità della Suprema Corte.

In mancanza di questa certezza processuale perché, ad esempio, sussistono ragionevoli dubbi sulla reale efficacia condizionante della condotta sanitaria incri-minata rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, il giudice deve procedere all’assoluzione del professionista imputato.

Applicando questo principio la Corte di Cassazione, con sentenza penale n. 19334/07, in riforma della decisione della competente Corte d’Appello di Bre-scia, ha assolto i medici imputati di omicidio colposo in danno di un paziente, deceduto per «acutainsufficienzacardiocircolatoriainsoggettoinstatodishockemorragico» ritenendo che la condotta colposa loro contestata – mancata esecuzione dei con-trolli clinici (seconda ecografia) necessari per diagnosticare la progressiva lenta emorragia in atto – pur avendo ritardato il necessario intervento chirurgico d’ur-genza non aveva con certezza prodotto l’exitus dell’ammalato, essendo comunque limitate le possibilità di successo anche di una più tempestiva terapia chirurgica.

In sostanza, quindi, è irrilevante l’errore medico se manca la certezza pro-cessuale sull’idoneità della condotta terapeutica omessa di evitare o ritardare sensibilmente, con elevato grado di credibilità razionale, il decesso del paziente.

L’impatto della sentenza “Franzese” delle Sezioni Unite Penali sulla giu-risprudenza di merito è stato notevole, anche se capita ancora di leggere delle sentenze di merito che richiamano i principi espressi autorevolmente dalla Cassazione applicandoli poi in modo non sempre puntuale.

Come sempre avviene l’interpretazione del contenuto dei principi generali espressi dalle Sezioni Unite della Suprema Corte non è stata omogenea anche all’interno della stessa quarta sezione della Cassazione, cioè di quella sezione che si occupa prevalentemente di responsabilità professionale medica.

Una attenta esegesi della sentenza “Franzese” è contenuta nella più recente sentenza penale n. 17523/08 della quarta sezione della Cassazione che ha

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2. La responsabilità professionale 77

cercato di fare il punto in relazione al valore e al contenuto dei principi espressi dalle Sezioni Unite.

Quest’ultima decisione ritiene che la portata della decisione delle Sezioni Unite n. 30328-02 «oggetto di differenti letture da parte della dottrina ed all’interno della quarta sezione»,secondo la dottrina più convincente «nonèdarinvenirenell’affer-mazione della perdurante validità della teoria condizionalistica e della necessità di procedere algiudiziocontrofattuale,nonpostemaiindubbio,manelfattocheilnessodicausalitànonpuòessereaccertatoconcriteridivalutazionediversidaquelliutilizzatiperglialtrielementicostitutividelreato,sostenendoun’argomentazioneovvia,ma,nonpacificaintemadicolpaprofessionale,incuisi facevariferimentoacriterimetagiuridiciqualiadesempioilvaloredella vita umana».

Quindi il nesso di causalità deve essere accertato in modo corretto e pun-tuale così come tutti gli elementi necessari della fattispecie delittuosa in esame.

Aggiunge questa ultima decisione che le Sezioni Unite hanno richiamato anche «unprincipiolampante,secondocuiperpronunciareunacondannasononecessarieleprove,chepossonoessereancheindiziarieelogiche,edintroducendoilcriteriodellaprobabilitàlogica rispetto a quella statistica in modo da ridimensionare “in modo equilibrato” quella teoria seguita da autorevole voce dottrinale della certezza e della probabilità prossima ad unoel’altradellaprobabilitàstatisticaedelleserieedapprezzabiliprobabilitàdisuccesso».

Sono parole forti perché richiamano l’ovvia necessità di non condannare l’incolpato in mancanza di valide prove che, peraltro, possono essere anche indiziarie e logiche come in tutti i processi e perché sottolineano la soluzione equilibrata offerta dalle Sezioni Unite laddove introducendo il criterio della pro-babilità logica (perché in grado di resistere alle argomentazioni contrarie) pren-dono le distanze sia dall’uso indiscriminato della cosiddetta probabilità statistica sia da quella teoria eccessivamente garantista che richiede la certezza assoluta nella verifica del nesso di causalità.

Precisa, ancora, questa decisione, usando un tono didascalico, che: «Il giudice deve quindi abbandonare l’illusione di poter ricavare deduttivamente la conclusione sull’esi-stenza del rapportodi causalitàdauna legge scientifica (anche se a carattereuniversale) cheriproducainlaboratoriolasuaipotesidiricostruzionedell’eventoedovràfarericorso,sempre,allaricercainduttiva,verificandol’applicabilitàdelleleggiscientificheeventualmenteesistentiallecaratteristichedelcasoconcretoportatoalsuoesame;tenendoinconsiderazionetuttiglispecificifattori presenti e quelli interagenti e pervenendo quindi ad un giudizio di elevata credibilità razio-nale,secondoicriteridivalutazionedellaprovaprevistipertuttiglielementicostitutividelreato».

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Non sono ammesse, quindi, scorciatoie nell’accertamento del nesso attra-verso l’uso delle cosiddette leggi scientifiche la cui idoneità a spiegare le cause dell’evento deve essere verificata nel caso concreto alla luce delle sue specifiche caratteristiche e anche degli altri fattori presenti.

Aggiunge, infine, la Corte che «nondeve chiedersial giudicedi spiegare l’interomeccanismodell’evento;ilnessodicondizionamentodeveritenersiinfattiprovatononsolo(casoassaiimprobabile)quandovengaaccertatacompiutamentelaconcatenazionecausalechehadatoluogoall’eventoma,altresì,intuttiqueicasineiquali,purnonessendocompiu-tamentedescrittooaccertatoilcomplessivosuccedersitalemeccanismo,l’eventosiacomunquericonducibileallacondottacolposadell’agentesiapureconcondottealternative:epurchésiapossibileescluderel’efficienzacausaledidiversimeccanismieziologici».

In questo passaggio la Suprema Corte sembra riaffermare che, in base al testo degli artt. 40 e 41 del Codice penale (quest’ultima norma, tra l’altro, stabi-lisce che «Ilconcorsodicausepreesistentiosimultaneeosopravvenute,ancheseindipendentidall’azioneodomissionedelcolpevole,nonescludeilrapportodicausalitàfral’azioneodomis-sione e l’evento. Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da solesufficientiadeterminarel’evento») è sufficiente, per l’accertamento del nesso, che la condotta colposa del medico abbia contribuito al verificarsi dell’evento, sem-pre che non sia provata in modo attendibile l’esistenza di un diverso (e talvolta autonomo) meccanismo causale, non contrastabile, da solo idoneo a realizzare l’evento.

Questo passaggio della motivazione diventa più comprensibile se si ricorda che nella fattispecie esaminata a suo tempo dalle Sezioni Unite si trattava di omessi e ritardati accertamenti clinici, la cui tempestiva adozione avrebbe fatto verificare l’evento negativo per il paziente in tempi significativamente più lon-tani ovvero avrebbe rallentato o escluso i tempi di latenza di una malattia, anche se provocata da altre cause, neppure accertate e, comunque, non ricolle-gabili sul piano dell’eziologia alla condotta omessa. Il nesso di causalità rileva, quindi, sul piano giuridico non solo quando la condotta terapeutica colposa-mente omessa era idonea a sconfiggere la malattia, ma anche quando poteva ritardarne significativamente la negativa evoluzione.

Il contributo della dottrina medico-legale nell’accertamento del nesso di causalità e l’importanza del lavoro svolto dai periti d’ufficio e di parte emerge da numerose sentenze della Suprema Corte.

Nella recente sentenza penale n. 15637/10 la Cassazione ha ritenuto che

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2. La responsabilità professionale 79

la decisione d’appello impugnata aveva giustamente accertato la sussistenza del nesso di causalità tra la condotta omissiva e attendista tenuta da un medico «nel formulareunadiagnosicorrettaenelrichiedereunaconsulenzachirurgicaedeventualmenteunalaparoscopia esplorativa» e la morte della paziente, dato che, secondo i consulenti dell’accusa, l’ammalata si sarebbe potuta salvare «con alto grado di probabilità logica» se si fosse intervenuti tempestivamente sull’esistente patologia della colecisti.

Ecco perché per il medico incolpato è utile farsi assistere sin dalle prime fasi delle indagini non solo da un avvocato, ma anche da un perito di parte specialista in medicina legale che, coadiuvato dallo specialista nella branca inte-ressata, sia in grado di evidenziare le eventuali lacune ovvero le contraddizioni contenute nella relazione del perito d’ufficio.

Trattandosi, invero, di una materia nella quale spesso sorgono problemi di interpretazione sul piano tecnico della condotta tenuta dal medico imputato, l’opportunità di un ausilio tecnico di parte è evidente perché è utile a corrobo-rare le tesi che la difesa legale poi supporterà sul piano giuridico.

Quid iuris nel caso, invero frequente, di presenza agli atti del giudizio di perizie contrastanti su temi rilevanti quali la colpa medica e il nesso di causalità?

Sul punto è intervenuta di recente la quarta sezione della Suprema Corte che, nella sentenza penale n. 23942/10, ha escluso che il Giudice d’appello possa respingere l’esistenza dei profili di colpa e del nesso di causalità accertati dal giudice di primo grado attraverso il semplice richiamo al «lacerante e palese contrastodivalutazionitecniche» tra le conclusioni sul punto dei consulenti delle parti e dei consulenti d’ufficio.

Ha precisato, inoltre, la Cassazione che, fermo restando l’obbligo di pun-tuale motivazione sulle ragioni per le quali in appello non si ritengono condivi-sibili le conclusioni del primo giudice, in ogni caso il giudicante «quando presceglie unatesiscientificadevemotivareleragioniperlequalilapreferisceadaltre,purposteallasua attenzione».

Ha aggiunto, ancora, la Corte che il giudice ha piena libertà di apprezza-mento anche delle risultanze della perizia d’ufficio, libertà che è, però, tem-perata dall’obbligo di puntuale motivazione del proprio dissenso in modo da dimostrare di essersi soffermato sulla tesi scientifica che ha poi ritenuto di non accogliere. In questo caso non è necessario nominare un nuovo perito d’ufficio perché il giudice per disattendere l’elaborato del perito da lui nominato può avvalersi degli esiti della consulenza di parte, qualora la ritenga condivisibile.

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Sul tema della causa sopravvenuta eccezionale e imprevedibile ovvero dei fattori causali alternativi idonei da soli a produrre l’evento lesivo – con con-seguente eliminazione del rapporto causale ipotizzato dall’accusa con la con-dotta colposa del medico – appare opportuno richiamare la sentenza penale n. 840/08 della Suprema Corte, avente ad oggetto il ricorso di un neurologo condannato per omicidio colposo per avere sottovalutato gli effetti del sovra-dosaggio dei principi attivi dei farmaci utilizzati per la cura di una paziente affetta da una sindrome depressiva.

Il neurologo si era difeso sostenendo che l’intossicazione poteva essere stata provocata da un’ingestione per via orale – volontaria o casuale – da parte della paziente di un farmaco contenente il principio attivo clormipramina che, invece, doveva essere somministrato per via parenterale.

La Cassazione ha ritenuto che i giudici di merito avevano correttamente escluso l’esistenza di questa causa alternativa e autonoma – idonea, qualora sussistente ad escludere il contestato nesso di causalità – sulla scorta delle conclusioni dei periti d’ufficio che avevano correttamente evidenziato, tra l’al-tro, un progressivo aggravamento della situazione patologica della paziente nell’arco di un paio di settimane in seguito all’accumulo nel corso del tempo dei pericolosi principi attivi contenuti nei farmaci utilizzati nella terapia, idonei a produrre l’evento letale.

Secondo i giudici della Cassazione, a fronte dell’esistenza di un’ipotesi alternativa e plausibile nella ricostruzione del nesso di causalità è sempre con-sentito al giudice di merito di escludere tale ipotesi non solo in base ad una dichiarata e motivata maggiore affidabilità dell’ipotesi accusatoria formulata, ma anche tenendo conto delle evidenze probatorie esistenti nel processo che consentano di negare, in termini di elevata credibilità razionale, l’ipotesi alter-nativa allegata dall’imputato.

Il concorso di diverse condotte colpose e di più cause. La responsabilità penale nel lavoro in équipe

Nell’odierna attività di cura il paziente viene assistito di norma da più pro-fessionisti che possono prestare la loro opera in un unico contesto di luogo e di tempo (ad esempio, sala operatoria) oppure in tempi successivi (e talvolta luoghi diversi), collaborando tra di loro (ad esempio, assistenza in corsia orga-

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2. La responsabilità professionale 81

nizzata per turni svolti da diversi medici che, poi, nel dimettere l’assistito lo indirizzano per il prosieguo dell’assistenza al loro medico di fiducia). Queste forme di collaborazione – sincronica o diacronica – si fondano sul principio etico e giuridico della responsabilità personale – ciascuno nel proprio lavoro deve rispettare le regole dell’arte e risponde della loro violazione – e su quello dell’affidamento – ciascuno, in linea di principio, confida sul fatto che gli altri rispettino le regole cautelari proprie della loro disciplina.

Il principiodiaffidamento, peraltro, non può essere correttamente invocato in presenza di evidenti circostanze che costituiscono concreti e rilevabili indizi di un comportamento altrui non rispettoso delle generali regole cautelari proprie della medicina, tale da creare un serio rischio per la salute del paziente. In queste situazioni, chi è presente nel momento in cui viene tenuta la condotta incongrua, cui è possibile porre rimedio stante il suo carattere di manifesta violazione delle regole dell’arte, deve intervenire per rimediare all’errore del collega, altrimenti ne risponde a titolo di concorso. Lo stesso comportamento deve essere tenuto da chi interviene successivamente nell’assistenza al malato e rileva (o è in grado di rile-vare) l’errore, con le caratteristiche sopra evidenziate, commesso in precedenza.

Il principio di affidamento, ancora, non può essere correttamente invocato qualora vi sia un soggetto (il dirigente di un reparto ovvero il c.d. capo-équipe) che, per la sua posizione gerarchica e/o funzionale, abbia l’obbligo giuridico di coordinare e controllare l’operato dei suoi collaboratori, verificandone la rispondenza alle generali regole cautelari dell’arte medica (in caso di coopera-zione nell’intervento da parte di più specialisti di branche diverse, ciascuno, di norma, risponderà solo del mancato rispetto delle regole del settore di appar-tenenza, per rispettare il principio del carattere “ersonale della responsabilità penale sancito dall’art. 27 della Costituzione).

La giurisprudenza della Suprema Corte ha affrontato più volte il tema della responsabilità nel lavoro svolto in équipe da più sanitari nell’ambito della sala operatoria ovvero nella collaborazione professionale realizzatasi in tempi diversi.

Partendo dal principio secondo il quale la posizione di garanzia assunta da cia-scun sanitario impone a colui che assiste un paziente, affidato anche alle cure specialistiche di altri medici, di salvaguardare comunque la salute dell’interes-sato operando in conformità alle regole dell’arte che dettano principi idonei ad evitare l’aggravamento dei sintomi inizialmente riscontrati, la Suprema Corte ha finito, di norma, con l’affermare la responsabilità concorsuale di ciascuno

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degli operatori, coinvolti nell’assistenza, che hanno tenuto un comportamento colposo idoneo a cagionare l’evento negativo, proprio perché non è stato rite-nuto legittimo invocare il “principio dell’affidamento” da parte di coloro cui era addebitabile una colpa di carattere personale.

D’altra parte, in applicazione del principio di equivalenza delle cause, la responsabilità in questi casi è concorsuale, a meno che possa affermarsi l’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che deve avere avuto caratteristiche di ecce-zionalità ed imprevedibilità, tali da elidere ogni precedente contributo causale, come statuito dall’art. 41 del Codice penale.

Nella sentenza penale n. 21594/07, ad esempio, la Cassazione ha confer-mato la responsabilità concorsuale per lesioni colpose gravissime del chirurgo capo-équipe – allontanatosi dalla sala operatoria dopo avere autorizzato l’ane-stesista a procedere all’anestesia di tipo spinale sul malato – nel grave errore commesso dagli specializzandi che, nel portare a termine da soli l’intervento di ernia inguinale, avevano reciso l’arteria epigastrica omettendo poi di suturarla, con conseguente compressione del testicolo per l’imponente fenomeno emor-ragico e danno atrofico della gonade.

In questo caso il profilo di colpa a carico del capo-équipe è stato individuato nel mancato controllo del lavoro svolto dagli specializzandi che possono ope-rare solo in presenza del loro tutor che deve potere sorvegliare l’esecuzione dell’intervento e correggere gli eventuali errori commessi dai sanitari in for-mazione.

La Suprema Corte ha precisato che nell’ipotesi in cui il chirurgo capo-équipe sia costretto ad allontanarsi dalla sala operatoria per assistere altri pazienti o per altri giustificati motivi occorre differire l’atto operatorio, oppure solleci-tare la sua sostituzione o, infine, adottare altre misure idonee ad evitare che il paziente rimanga affidato esclusivamente alle cure degli specializzandi che possono operare solo sotto la guida del loro tutor proprio perché non hanno ancora completamente acquisito le cognizioni tecniche e l’esperienza necessa-ria per lavorare in autonomia. Il loro errore non può, quindi, essere conside-rato imprevedibile da chi ha la funzione di tutor.

Nella sentenza penale n. 19755-09, invece, la Cassazione ha annullato la sentenza d’appello che aveva dichiarato prescritto il delitto di omicidio colposo contestato a sei medici di un reparto di neurochirurgia di un ospedale per non avere diagnosticato tempestivamente la sindrome di Lyell ad una paziente

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2. La responsabilità professionale 83

ivi ricoverata per un meningioma, rilevando l’assoluta carenza di motivazione in relazione all’individuazione delle singole condotte criminose, con partico-lare riferimento al ruolo che ciascun sanitario aveva avuto nell’assistenza alla paziente e nella produzione dell’evento mortale.

La Suprema Corte ha sottolineato che, anche quando si lavora in équipe, occorre sempre esaminare e individuare ilruolospecifico svolto da ciascuno degli imputati nell’assistenza e nelle cure prestate alla paziente, soprattutto quando l’omessa diagnosi riguarda una patologia specialistica non correlata a quella (meningioma) per la quale la paziente era stata ricoverata. La puntuale verifica da parte del giudice dei comportamenti tenuti dai singoli soggetti, infatti, deve essere particolarmente attenta nelle ipotesi di lavoro in équipe e, più in generale, di cooperazione multidisciplinare nell’attività medico-chirurgica anche se svolta non contestualmente, cioè in tutti i casi in cui alla cura del paziente concorrono sanitari diversi. È necessario, invero, contemperare ilprincipiodiaffidamento, in forza del quale il medico titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente può andare esente da responsabilità quando la verificazione dell’evento dannoso può essere ricondotta al comportamento esclusivo di un altro sanita-rio, contitolare della predetta posizione, sulla cui correttezza nella prestazione professionale il primo abbia fatto legittimo affidamento, con l’obbligo di garan-zia verso il paziente che è a carico di tutti gli operatori che contestualmente ovvero successivamente intervengono nella cura del malato. Proprio il principio diaffidamento, infatti, secondo la Cassazione, consente di confinare l’obbligo di diligenza che è a carico di ciascun sanitario entro limiti compatibili con l’esi-genza del carattere necessariamente personale della responsabilità penale, san-cito dall’art. 27 della Costituzione, che esclude la possibilità di configurare una responsabilità di gruppo, indipendentemente dall’esame della rilevanza causale di ciascuna condotta nella determinazione dell’evento dannoso per il paziente.

Nella sentenza penale n. 1866/09, infine, la Cassazione, dopo avere riba-dito che l’instaurazione della relazione terapeutica comporta l’assunzione – da parte del medico che assume la veste di curante – dell’obbligo di agire a tutela della salute e della vita dell’assistito, ha giustamente affermato che questo obbligo non può avere una dimensione irrealistica e una estensione illimitata, tale da comportare anche il dovere di porre in essere prestazioni professionali non dovute, non possibili ovvero radicalmente estranee all’ambito dell’obbli-gazione di cura assunta.

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Manuale della Professione Medica84

La posizione di garanzia, infatti, come ogni posizione giuridica soggettiva, riveste in ciascuna fattispecie concreta una specificadimensione che deve essere preliminarmente definita dal giudice al fine di individuare le condotte esigibili da ciascun operatore, sia in relazione alla propria sfera di competenza specia-listica e professionale, sia per il ruolo esercitato in concreto all’interno dell’or-ganizzazione della struttura sanitaria.

La Suprema Corte, pertanto, ha stabilito che non è corretto desumere l’esistenza di una responsabilità penale per omicidio colposo di un medico di guardia all’interno di una casa circondariale solo dall’omesso controllo da parte sua dell’effettiva esecuzione di un’indagine clinica prescritta in favore di una detenuta per accertare se fosse affetta da tubercolosi, senza verificare la natura della funzione assistenziale svolta in concreto dall’interessato e senza analizzare il contenuto della relazione gerarchica esistente con il dirigente della struttura sanitaria del carcere.

La Cassazione, confermata la condanna per omicidio colposo del medico responsabile della struttura del carcere che non aveva rilevato la stretta corre-lazione tra l’endometrite e l’affezione tubercolare sofferta dalla detenuta, ha invitato i giudici di merito a riesaminare la posizione dei due medici di guardia, condannati nel precedente grado di giudizio ex art. 589 cp, chiamati in tesi ad eseguire solo interventi di cura episodici, per verificare anche se potesse loro attribuirsi un potere di sindacare attivamente le scelte operate dal dirigente.

La posizione di garanzia assunta dal singolo medico che è intervenuto nel processo di cura di una paziente, secondo questa interessante sentenza, non ha sempre l’identico contenuto, potendo essere limitata al controllo ed elimi-nazione solo di alcuni specifici rischi in corrispondenza alle effettive mansioni delegategli dal dirigente all’interno dell’organizzazione sanitaria della struttura.

La responsabilità penale per intervento sanitario “arbitrario”

Nella relazione di cura è in gioco anche la libertà del paziente che non può essere messa in discussione da parte dei sanitari solo in base ad un giudizio di appropriatezza clinica del trattamento proposto.

Il rispetto della libertà dell’individuo, infatti, è strettamente collegato al rispetto della sua dignità di uomo e ai valori che sono espressione di questa dignità anche nell’ipotesi di malattie gravemente invalidanti.

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2. La responsabilità professionale 85

La gestione del proprio corpo secondo i propri principi morali rientra nelle libertà della persona in quanto strumento finalizzato alla sua realizzazione come soggetto che intende costruire una propria identità nella libertà, senza ledere quella altrui.

Nel concetto di libertà può rientrare, quindi, anche il diritto del soggetto, maggiorenne e capace, di rifiutare consapevolmente i trattamenti sanitari non desiderati.

In presenza di un dissenso consapevolmente manifestato dal paziente capace di autodeterminarsi la posizione di garanzia che l’ordinamento attribuisce ai sanitari a tutela della salute degli assistiti si riduce di contenuto in quanto ai medici è ini-bito di porre in essere quei trattamenti oggetto del rifiuto del paziente.

La posizione di garanzia, peraltro, non viene meno anche in queste situa-zioni estreme perché rimane l’obbligo di assistere il malato conformemente ai suoi legittimi desideri, salvo la possibilità di sollevare l’obiezione di coscienza in presenza di richieste che contrastino in modo irrisolvibile con la propria coscienza, fermo restando il dovere di non abbandonare il malato prima che un altro sanitario non se ne possa fare carico.

Codice deontologico del 2006, invero, all’art. 22 afferma che «il medico al qualevenganorichiesteprestazionichecontrastinoconlasuacoscienzaoconilsuoconvin-cimentoclinico,puòrifiutarelapropriaopera,amenochequestocomportamentononsiadi pregiudizievole nocumento per la salute della persona assistita e deve fornire ogni utile informazioneechiarimento».

L’obiezione di coscienza non è, peraltro, disciplinata in via generale nell’ordina-mento pubblico che la prevede solo per singole specifiche situazioni, come, ad esempio, quella prevista dall’art. 9 della legge n. 194/78 in tema di interruzione della gravidanza, e, quindi, occorre molta prudenza nell’utilizzare questo stru-mento, soprattutto per i sanitari che rivestono la qualifica di pubblici ufficiali, per i quali si potrebbe ipotizzare un indebito rifiuto della loro attività (art. 328 cp).

Le considerazioni sopra esposte sul dovere per i sanitari di rispettare la libertà del paziente trovano riscontro nella giurisprudenza che ha esaminato in modo approfondito il tema della relazione medico-paziente.

Ad esempio, la Cassazione, nella sentenza penale n. 11640/06, dopo avere ribadito che l’attività medica, di norma, «richiedeperlasuavaliditàeconcretaliceitàlamanifestazionedelconsensodelpaziente,chenonsiidentificaconquellodicuiall’art.50cp,ma costituisce un presupposto di liceità del trattamento», ha affermato che: «Il consenso

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Manuale della Professione Medica86

afferisceallalibertàmoraledelsoggettoeallasuaautodeterminazione,nonchéallasualibertàfisicaintesacomedirittoalrispettodellapropriaintegritàcorporale»,che sono «profilituttiattinentiallalibertàpersonale,proclamatainviolabiledall’art.13dellaCostituzione».

Ha aggiunto la Suprema Corte nella sentenza penale n. 11335/08 che «nonèattribuibilealmedicoungeneraledirittodicurare,afrontedelqualenonavrebbealcunrilievolavolontàdell’ammalato,chesitroverebbeinunaposizionedisoggezionesucuiilmedicopotrebbeadlibitumintervenire,conilsololimitedellapropriacoscienza» e che «Il consensoinformatoha,comecontenutoconcreto,lafacoltànonsolodisceglieretralediversepossibilitàditrattamentomedico,maanchedieventualmenterifiutarelaterapiaedidecidereconsapevolmentediinterromperla,intuttelefasidellavita,ancheinquellaterminale» (così Cass. civ. sent. n. 21748/08 richiamata dalla Cass. pen. nella sent. 11335/08).

In definitiva, secondo la Cassazione «il criterio di disciplina della relazione medico-malatoèquellodellaliberadisponibilitàdelbenesalutedapartedelpazienteinpossessodellecapacitàintellettiveevolitive,secondounatotaleautonomiadisceltechepuòcomportareilsacrificiodelbenestessodellavitaechedeveesseresemprerispettatadalsanitario» (così Cass. pen. sent. n. 11335/08).

È molto importante in questa sentenza il passaggio della motivazione lad-dove i giudici della Suprema Corte mettono i paletti alla potestà di curare del medico affermando che questa potestà non ha carattere generale e assoluto in quanto trova un limite proprio nella volontà negativa espressa dal paziente che, eventualmente, rifiuti la terapia proposta.

Questo passaggio trova un preciso riscontro anche nel Codice di Deontologia medica del 2006 laddove, all’art. 35, quarto comma, si afferma che «Inognicaso,inpre-senzadiundocumentatorifiutodipersonacapace,ilmedicodevedesisteredaiconseguentiattidia-gnostici-curativi,nonessendoconsentitoalcuntrattamentomedicocontrolavolontàdell’interessato».

Rimane fermo il dovere del medico di verificare che quel rifiuto sia real-mente informato, sia espresso liberamente, sia autentico e, qualora espresso in via anticipata, riguardi la situazione di cura nel quale il trattamento proposto dovrebbe trovare applicazione.

Come affermato dalla Suprema Corte nella sentenza civile n. 21748/07, quindi, per il medico «difrontealrifiutodellacuradapartedeldirettointeressatoc’èspazioperunastrategiadellapersuasioneec’è,primaancora,ildoverediverificarechequelrifiutosiainformato,autenticoeattuale; maallorchéilrifiutoabbiataliconnotatinonc’èpossibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi».

Emerge, peraltro, essenzialmente in sede penale, una diversa rilevanza del

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2. La responsabilità professionale 87

consapevolerifiuto espresso dal paziente capace rispetto alla semplice mancanza di un consenso in determinate situazioni.

Sul punto è intervenuta la recente sentenza n. 2437/09 delle Sezioni Unite penali della Cassazione che riguarda un chirurgo che aveva sottoposto una paziente a un intervento di laparoscopia regolarmente acconsentito e, senza soluzione di continuità, anche a salpingectomia con asportazione della tuba sinistra, trattamento quest’ultimo non oggetto del consenso informato dell’in-teressata o di un rifiuto espresso. La paziente si era lamentata del fatto che questo intervento invasivo fosse stato eseguito senza la previa raccolta del suo assenso e ne era nato un contenzioso in sede penale in quanto erano state ipo-tizzate la configurabilità del reato di violenza privata di cui all’art. 610 cp ovvero del delitto di lesioni personali dolose di cui all’art. 582 cp. La Cassazione, essendo stato accertato che anche il secondo intervento era stato eseguito nel rispetto delle leggi dell’arte medica ed aveva avuto esito fausto (positivo per la salute dell’interessata), ha escluso sia l’esistenza del reato di lesioni personali, per il complessivo miglioramento delle condizioni di salute della paziente, che quello di violenza privata, per la mancanza del requisito autonomo della violenza, non praticabile, peraltro, su paziente anestetizzato.

In motivazione la Cassazione, peraltro, ha ribadito in questa sentenza la sicura illiceità penale della condotta del medico che operi contro la volontà del paziente, direttamente o indirettamente manifestata, a prescindere dall’esito fausto o infausto dell’intervento praticato, trattandosi di attività che assume i caratteri dell’arbitrarietà. La natura del reato ipotizzabile dipende, evidente-mente, dalle modalità della condotta criminosa e dalle sue conseguenze; in linea di massima si può fare riferimento ai reati (582 cp e 610 cp) sopra menzionati.

La Cassazione, inoltre, ha aggiunto che, anche se l’esito sia stato fausto, «l’eventualemancato consensodelpazientealdiverso tipodi interventopraticatodal chi-rurgo,rispettoaquellooriginariamenteassentito,potràrilevaresualtripiani,manonsuquello penale», così lasciando impregiudicata un’eventuale azione in sede civile o disciplinare, salvi gli effetti degli artt. 652 e segg. cpp.

Appare opportuno soffermarsi sui passaggi sopra riassunti di questa impor-tante decisione che tiene conto delle preoccupazioni espresse anche dalla dot-trina sui rischi di un eccesso di penalizzazione dell’attività chirurgica offrendo, peraltro, il lato ad alcuni rilievi critici, soprattutto laddove sembra non tenere conto del diverso valore che per ciascuno ha il bene salute.

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Per escludere l’illiceità penale ex art. 582 cp del mutamento, in assenza del consenso della paziente, del tipo di intervento operatorio effettuato, la sen-tenza, infatti, richiama il concetto di esito fausto dell’intervento, affermando che il concetto di malattia e di tutela della salute devono ricevere una lettura obiettiva che è quella che deriva dai dettami della scienza medica, che prescinde dall’ap-prezzamento dell’interessato. Questa affermazione, peraltro, viene in parte contraddetta quando poi viene argomentato che «per esito fausto dovrà intendersi soltanto quel giudizio positivo sul miglioramento apprezzabile delle condizioni di salute del paziente,ragguagliatononsoltantoalleregolepropriedellascienzamedica,maancheallealternativepossibili,nellequalidevononecessariamenteconfluirelemanifestazionidivolontàpositivamente o indirettamente espresse dal paziente».

La Cassazione sembra non avere tenuto in debito conto la circostanza che il bene salute non è un dato oggettivo, ma si riempie della concezione che l’individuo ne ha; le sue scelte, pertanto, non solo non possono essere pre-termesse nel distinguere tra esito fausto e infausto, ma deve essere comunque consentito all’interessata di esprimerle qualora sia prevedibile ex ante l’ipotesi dell’esecuzione di intervento chirurgico così invasivo come la salpingectomia con asportazione della tuba sinistra, che, invece, non risulta essere stato pro-spettato in precedenza nel caso di specie.

Occorre, quindi, evitare non giustificabili riserve mentali da parte dei chirurghi che – in un rapporto di lealtà e trasparenza – dovrebbero correttamente infor-mare i pazienti della possibilità, qualora prevedibile, di procedere ad ulteriori trattamenti oltre quelli già programmati, consentendo così ai soggetti interessati di accettarli o rifiutarli, soprattutto quando, come nel caso di specie si tratta di interventi estremamente invasivi del corpo della donna. Altrimenti sarà solo la monologante scelta del chirurgo ad orientare gli obiettivi terapeutici da perseguire, in contrasto con i principi costituzionali che impongono la consapevole parte-cipazione del paziente alle decisioni che riguardano la sua salute come, peraltro, ribadito anche nella motivazione della sentenza in commento.

Sulla questione che ci occupa in linea generale e cioè sul valore del dissenso del paziente rispetto alla proposta terapeutica del medico è intervenuta, da ultimo, la quarta sezione penale della Cassazione che, con sentenza n. 21799-10, ha ribadito che «sideveritenere insuperabile l’espresso, liberoe consapevole rifiutoeventualmentemanifestatodalpaziente,ancorchél’omissionedell’interventopossacagionareilpericolodiunaggravamentodellostatodisalutedell’infermoe,persinolasuamorte».

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2. La responsabilità professionale 89

La Suprema Corte, con questo passaggio della motivazione, sembra volere tutelare la libertà del paziente maggiorenne e capace di rifiutare consapevol-mente – previa adeguata informazione sui rischi che la sua decisione può com-portare per la sua salute o per la sua stessa vita – l’esecuzione di un trattamento pur giustamente proposto dal sanitario.

Non sembra condivisibile, per superare il dissenso espresso dal paziente, il richiamo allo stato di necessità di cui all’art. 54 cp perché è molto discutibile l’applicazione di questa norma estremamente generica alla pratica medica e perché, comunque, una norma ordinaria non può consentire un comporta-mento in contrasto con il disposto degli artt. 13 e 32 della Costituzione in tema di libertà delle cure.

Appare utile richiamare, sul punto, la recente sentenza penale n. 26159/10 della quinta sezione della Cassazione che, in un caso concernente un rapi-mento di una persona al fine di disintossicarla, in risposta alla tesi dell’imputato (non medico) che sosteneva di avere agito in stato di necessità afferma, in moti-vazione, che «Inprimoluogo,laCartaCostituzionaleall’art.32stabiliscedueprincipifondamentali:nonèmaipossibile,nemmenoallegislatore,violareilimitiimpostidalrispettodella persona umana ed è sempre vietato il trattamento sanitario obbligatorio, se non inforzadilegge.Inoltre,all’art.13,proscriveinognimodolaviolenzafisica(emorale)sullepersone“comunque”sottopostearestrizionidilibertà.Nonè,quindi,possibileassegnareallaletturadell’art.54cpunsignificatocheurtidirettamentecontroquestiradicalidivietiposti dalla Costituzione».

Il medico, pertanto, in presenza di un rifiuto espresso dal paziente, non può legittimamente invocare lo stato di necessità per intervenire contro la sua volontà. Diversa è evidentemente la situazione in cui vi è una urgenza sanitaria indifferibile cui fare fronte, urgenza che non consente alcuna dilazione dell’in-tervento medico, e il paziente interessato non si oppone al trattamento, né ha in precedenza manifestata una volontà contraria.

La responsabilità civile per malpratica. Definizione e contenuto

Il medico e l’odontoiatra possono essere chiamati a rispondere solo in sede civile qualora il soggetto danneggiato dalla loro colposa condotta professio-nale abbia deciso di agire esclusivamente per avere il ristoro dei danni (patrimo-niali e non patrimoniali) subiti.

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La responsabilità civile comporta, infatti, a carico del soggetto che con il suo comportamento li ha causati, l’obbligo giuridico del risarcimento dei danni che riguardano sia la perdita economica patita dal paziente (lucro ces-sante per la perdita o riduzione della capacità di guadagno e danno emergente per le spese sostenute) sia il cosiddetto danno non patrimoniale che ricomprende il risarcimento non solo della lesione dell’integrità fisica o psichica (cd. danno biologico quantificato, di norma, in base a tabelle elaborate tenuto conto dell’età del soggetto e della natura e entità del pregiudizio al bene salute subito ), ma anche delle sofferenze sul piano morale patite (sempre che vi sia stato un fatto costituente anche un illecito penale) nonché della lesione di altri diritti della persona costituzionalmente garantiti (se, ad esempio, l’illecito ha inciso negati-vamente su un altro soggetto legato al paziente danneggiato da un preesistente legame familiare), come autorevolmente stabilito dalle Sezioni Unite civili nella sentenza n. 26972/08.

Un esempio delle diverse voci di danno risarcibile può essere desunto da una recente sentenza civile della Suprema Corte (n. 13/2010) relativo all’omessa diagnosi di malformazioni del concepito con conseguente lesione del diritto della donna di interrompere la gravidanza alle condizioni stabilite dalla legge n. 194/78. Questa sentenza è utile anche per evidenziare che titolare del diritto al risarcimento dei danni nei confronti di un sanitario (ovvero della struttura in cui opera) può essere anche un soggetto diverso da quello danneggiato nel corso dell’assistenza prestata.

Nel caso di specie, infatti, il soggetto malformato non è stato ritenuto titolare di un diritto al risarcimento perché la sua malattia era congenita e, quindi, non riconducibile ad una condotta colposa dei curanti. L’ASL ove prestava la sua atti-vità professionale l’ecografista responsabile dell’omissione diagnostica, invece, è stata ritenuta responsabile (oltre che per una propria disfunzione organizzativa che aveva ritardato l’esecuzione della seconda ecografia) anche per l’omessa tem-pestiva diagnosi da parte del suo dipendente delle esistenti malformazioni del feto, con conseguente lesione del diritto della donna alla procreazione responsabile.

I giudici, ritenuto provato attraverso presunzioni che la donna, qualora tem-pestivamente informata delle malformazioni, avrebbe deciso di interrompere la gravidanza, hanno riconosciuto in favore della stessa (e del padre) del neo-nato una congrua somma a titolo di risarcimento delle spese da sostenere per il mantenimento del bimbo sino al raggiungimento della sua autonomia eco-

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2. La responsabilità professionale 91

nomica e un’altra a titolo di lucro cessante. Oltre a questo danno di natura patrimoniale sono stati liquidate anche altre voci di danno a ristoro del danno non patrimoniale, in particolare quella relativa alla lesione del diritto di ciascuna per-sona a non dovere essere costretta a cambiare ingiustamente la propria agenda esistenziale e a condurre una vita diversa e peggiore di quella che avrebbe vissuto in assenza della non desiderata nascita di un bimbo gravemente malformato perché affetto da agenesia dell’arto inferiore destro e focomelia di quello sini-stro e quella relativa alle sofferenze morali dovute alla scoperta solo all’atto della nascita della malformazione.

Nel concetto di danno risarcibile rientra, quindi, non solo il danno alla salute in senso stretto e la lesione di altri diritti della persona costituzionalmente garantiti, ma anche il danno economico conseguente, in termini di causalità adeguata, all’inadempimento del sanitario (ovvero della struttura).

I sanitari possono, peraltro, essere chiamati a rispondere del loro compor-tamento sul piano della responsabilità civile anche in conseguenza dell’accer-tamento in sede penale di un reato (di norma lesioni colpose ovvero omicidio colposo) da loro commesso. La parte lesa può, infatti, costituirsi parte civile nel processo penale e, quindi, esercitare in quella sede l’azione civile diretta al risarcimento dei danni patiti.

La sentenza penale irrevocabile di condanna per un reato, inoltre, in base al disposto dell’art. 651 cpp, ha efficacia di giudicato nel giudizio civile diretto ad ottenere il ristoro dei conseguenti danni per quanto riguarda l’accertamento della sussistenza del fatto contestato, la sua illiceità penale e l’affermazione di responsabilità dell’imputato. Queste circostanze, quindi, non possono più essere messe in discussione nel giudizio civile.

È opportuno, peraltro, ricordare in questa sede che l’accertamento in sede penale dell’insussistenza del fatto addebitato al sanitario ovvero della sua non colpevolezza ha efficacia di giudicato, alle condizioni e nei limiti stabiliti dall’art. 652 cpp, anche nel giudizio civile di risarcimento dei danni eventual-mente promosso dal danneggiato.

Le disposizioni sopra richiamate dimostrano la forte correlazione che può sussistere tra il giudizio concernente l’illecito penale e quello relativo all’illecito civile eventualmente commessi da un medico o da un odontoiatra e la necessità, comunque, di difendersi adeguatamente in entrambe le sedi onde evitare le nega-tive ripercussioni del giudizio penale di condanna su quello civile risarcitorio.

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La responsabilità civile per malpratica – colpa e nesso di causalità

Per ottenere il ristoro dei danni subiti occorre, in linea generale, che sussista agli atti la prova dell’esistenza di un fatto illecito produttivo di un danno (patri-moniale o non patrimoniale) per il paziente (ovvero per la parte lesa) e del nesso di causalità tra il comportamento del sanitario e l’evento negativo indicato come integrante l’illecito.

Il comportamento del medico o dell’odontoiatra rileva, sul piano civilistico, sempre che sia addebitabile al sanitario un difetto di perizia, un’imprudenza o una negligenza nella sua condotta professionale tale da consentire di accertare un suo inadempimento all’obbligazione di cura di natura contrattuale da lui assunta ovvero, comunque, una lesione colposa del bene salute tutelato erga omnes, ex art. 2043 cc, indipendentemente dalla presenza di un contratto (cd. illecito extracon-trattuale).

Il paziente danneggiato che agisce in giudizio, di norma, chiede il risar-cimento sia in base alle norme che regolano l’inadempimento contrattuale (applicabili pacificamente anche ai sanitari che lo hanno avuto in cura indi-pendentemente dall’effettiva presenza di un contratto da loro direttamente stipulato, come ribadito più volte dalla Cassazione anche nelle sentenze n. 589/99, 8826/07 e S.U. civ. sent. n. 577/08) sia in base alle disposizioni che implicano una responsabilità extracontrattuale.

Il cumulo di queste due azioni consente al paziente di avvalersi del maggior termine di prescrizione dell’illecito previsto per quello contrattuale (dieci anni, decorrenti, ex sent. n. 581/08 delle S.U. civili della Cassazione, dal momento in cui il paziente, usando l’ordinaria diligenza, percepisce o sarebbe stato in grado di comprendere che la malattia o il peggioramento delle condizioni di salute costi-tuiscono un danno ingiusto conseguente al fatto colposo del medico curante) e anche del disposto dell’art. 1218 del Codice civile che, in sostanza, pone a carico del medico l’onere di provare che il danno non è stato prodotto dalla sua condotta colposa perché inevitabile nonostante l’uso della prescritta diligenza professionale (vedi, al riguardo, Cass. sent. n. 8826/07 e S.U. civ n. 13533/01).

La posizione del sanitario diventa, quindi, più difficile in sede civile perché la giurisprudenza, qualificandolo come un qualsiasi debitore di una determinata pre-stazione, gli impone – in base al disposto dell’art. 1218 cc – di provare che l’ina-

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2. La responsabilità professionale 93

dempimento contestatogli (ad esempio, diagnosi errata) ovvero l’inesatto adempi-mento (ad esempio, diagnosi tardivamente posta pur in presenza di una evidenza clinica) «èstatodeterminatodaimpossibilitàdellaprestazionederivantedacausaaluinonimputabile» al fine di evitare di essere condannato a risarcire i conseguenti danni.

In questo modo la Suprema Corte ha messo anche in crisi la tradizionale, tralatizia distinzione tra le obbligazioni di mezzi – proprie dei professionisti secondo il vecchio orientamento – e le obbligazioni di risultato, rilevando che «anchenellecd.obbligazionidimezzilosforzodiligentedeldebitoreèinognicasorivoltoal perseguimento del risultato dovuto» (così Cass. sent. n. 8826/07). Il sanitario, quindi, deve tenere un comportamento diligente, diretto a perseguire il risul-tato che intende raggiungere il paziente che si è a lui rivolto per la cura di una malattia, informando preventivamente e nel corso della relazione l’assistito delle difficoltà che il suo caso presenta nel raggiungerlo. Tant’è che, proprio i doveri di informazione e di avviso, definiti accessori, ma integrativi rispetto all’ob-bligo primario di cura e di tutela dell’interesse del paziente, hanno contribuito, secondo la sentenza n. 16394/10 della Cassazione, «ad operare quasi una sorta di metamorfosi dell’obbligazione di mezzi in quella di risultato».

È evidente, peraltro, che non un qualsiasi inadempimento alle proprie obbligazioni rileva ai fini della responsabilità civile del medico, ma solo quello qualificato, cioè astrattamente idoneo a causare il danno lamentato.

L’accertamento del nesso di causalità in sede civile, peraltro, deve essere effettuato, secondo la giurisprudenza, seguendo principi di diritto diversi da quelli che è tenuto a seguire il giudice nel processo penale dove non è in gioco solo il patrimonio dell’imputato, ma anche la sua libertà.

Mentre nel processo penale vige la regola della prova del nesso “oltre il ragionevole dubbio”, in sede civile, invece, deve trovare applicazione la regola probatoria della preponderanza dell’evidenza o del più probabile che non (vedi, sul punto, Cass. S.U. civ. sent. n 576/08) che indubbiamente consente di accer-tare il nesso di causalità con meno difficoltà che in penale.

Ne consegue che una volta che in sede processuale civile venga accertato che il sanitario ha omesso di espletare la sua attività professionale seguendo i prescritti canoni di diligenza e di perizia scientifica, il giudice potrà ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale comportamento omissivo sia stato la causa dell’evento lesivo che il medico avrebbe potuto evitare agendo secondo le regole professionali, cautelari e tecniche (vedi, al riguardo, Cass. civ. sent. n. 16123/10).

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Un maggiore onere probatorio a carico del paziente sussiste solo laddove l’interessato lamenti di avere subito un danno alla salute per un difetto di adeguata informazione. In questo caso, infatti, la giurisprudenza più recente pone a carico del paziente l’onere di dimostrare che se avesse ricevuto l’informazione omessa (ad esempio, in relazione ad uno dei rischi collaterali iatrogeni di un intervento chirurgico) non si sarebbe sottoposto alla terapia in questione (vedi, al riguardo, Cass. sent. n. 2487/10). Si tratta, invero, di dimostrare, da parte del paziente, che, qualora adeguatamente informato, avrebbe effettuato, in base a criteri sog-gettivi personali, una scelta diversa da quella effettivamente compiuta di accet-tazione dell’intervento proposto dal sanitario. Se il paziente non è in grado di fornire questa prova viene a mancare il nesso di causalità tra la condotta incrimi-nata e l’evento verificatosi perché l’interessato anche se avesse ricevuto l’infor-mazione ingiustamente omessa si sarebbe comunque sottoposto all’intervento.

Le considerazioni che precedono in relazione all’accertamento della respon-sabilità civile dei sanitari dimostrano l’importanza al riguardo della regolare e puntuale tenuta della cartella clinica ovvero dell’altra documentazione sanitaria, inclusa la scheda personale del paziente utilizzata dal medico di medicina generale.

Solo così il medico sarà in grado di potere dimostrare, spesso a notevole distanza di tempo, le ragioni e la correttezza tecnica del suo operato e, quindi, che l’insuccesso diagnostico o terapeutico si è verificato nonostante abbia agito con la prescritta diligenza professionale.

È opportuno sottolineare che la giurisprudenza della Suprema Corte ha più volte affermato che «la difettosa tenuta della cartella clinica naturalmente non vale ad esclu-derelasussistenzadelnessoeziologicotralacolposacondottadeimedicielapatologiaaccertata,overisultiprovatal’idoneitàditalecondottaaprovocarla,maconsenteanziilricorsoallepre-sunzioni,comeavvieneinognicasoincuilaprovanonpossaesseredataperuncomportamentoascrivibileallastessapartecontrolaqualeilfattodaprovareavrebbepotutoessereinvocato,nelquadrodeiprincipiinordinealladistribuzionedell’oneredellaprovaedalrilievocheassumeatalfinela“vicinanzaallaprova”,ecioèlaeffettivapossibilitàperl’unaoperl’altrapartedioffrirla» (così S.U. civ. Cass. sent. n. 577/08 e di recente Cass. civ. sent. n. 10060/10).

Cenni alla responsabilità della struttura sanitaria

La struttura sanitaria (ASL, ospedale pubblico, casa di cura convenzionata, casa di cura privata) in cui il medico o l’odontoiatra eventualmente lavora

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2. La responsabilità professionale 95

assume a sua volta una responsabilità circa la corretta esecuzione della presta-zione di cura eseguita dal sanitario dipendente ovvero collaboratore.

Ai fini della responsabilità civile è, quindi, irrilevante, come precisato dalla giurisprudenza (S.U. civili Cassazione sent. n. 577/08), «chesitrattidiunacasadicura privata o di un ospedale pubblico in quanto sostanzialmente equivalenti sono a livello normativogliobblighideiduetipidistruttureversoilfruitoredeiservizi», perché non è possibile ritenere sussistenti limitazioni di responsabilità ovvero differenze nei doveri di cura a seconda della natura, pubblica o privata, della struttura essendo pur sempre in gioco il bene salute dell’interessato.

Tale responsabilità, secondo la costante giurisprudenza della Suprema Corte è di natura contrattuale perché, di norma, il contratto di cura è diretta-mente stipulato dal paziente con la struttura che mette a disposizione la sua organizzazione per l’espletamento delle prestazioni richieste dall’ammalato su indicazione dei sanitari (vedi, tra le altre, Cass. civ., sent. n. 1698/06).

La responsabilità della struttura, peraltro, non coincide sempre con quella del medico che eventualmente ha commesso un errore produttivo di danno nell’esecuzione della prestazione sanitaria di sua competenza, perché le obbli-gazioni assunte dall’ospedale o dalla casa di cura verso il paziente con la stipula del contratto di assistenza sanitaria ovvero di spedalità sono più ampie di quelle proprie del professionista, suo collaboratore.

Esistono, infatti, prestazioni di stretta competenza della struttura (ad esem-pio, quelle alberghiere in senso lato e quelle relative alla fornitura di medicinali ovvero alla messa a disposizione delle attrezzature necessarie per l’esecuzione delle prestazioni da parte dei professionisti) che possono comportare, qualora non adempiute correttamente, la responsabilità diretta ed esclusiva dell’ospe-dale o casa di cura nei confronti del paziente.

La giurisprudenza, nell’ambito delle prestazioni proprie della struttura, ha evidenziato quelle relative ad una corretta organizzazione in modo da essere in grado di far fronte puntualmente e senza colpevoli ritardi alle obbligazioni di cura assunte con il paziente. La responsabilità per difetto di organizzazione è stata, ad esempio, riscontrata dalla giurisprudenza nella mancata puntuale esecuzione, nei termini previsti dalle linee-guida, dell’ecografia prescritta ad una donna gravida (vedi, sul punto, Cass. sent. n. 13/10 già citata).

La struttura risponde, inoltre, anche per il fatto del proprio medico o infer-miere dipendente ovvero collaboratore (anche se chiamato ad operare nella casa

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Manuale della Professione Medica96

di cura perché di fiducia del paziente), in base al disposto dell’art. 1228 del Codice civile che stabilisce, in linea generale e salvo patto contrario, che se il debitore della prestazione convenuta nel contratto, nel nostro caso di assistenza sanitaria, si avvale dell’opera di terzi soggetti, «rispondeanchedeifattidolosiocolposidicostoro».

Nel caso in cui venga ipotizzato un errore medico produttivo di danno per il paziente, quest’ultimo potrà convenire in giudizio sia la struttura che il professionista che lo ha curato al fine di ottenere il ristoro dei danni patiti. Il giudice, riscontrata la fondatezza della domanda di risarcimento danni avanzata dal paziente o dai suoi eredi, emanerà una condanna al pagamento delle somme liquidate a tale titolo a carico, in via solidale, sia della struttura che del medico.

L’art. 2055, primo comma, del Codice civile dispone, infatti, che «se il fattodannoso è imputabileapiùpersone, tutte sono obbligate in solidoal risarcimentodel danno», salvo il diritto di regresso come disciplinato in linea generale dal secondo comma della norma in oggetto.

Se, invece, il sanitario ha svolto la sua attività come libero professionista al di fuori della struttura ovvero in via autonoma, come accade per i medici di medicina generale o i pediatri di libera scelta, non è ipotizzabile una respon-sabilità concorsuale dell’ospedale ovvero dell’ASL (vedi, sul punto, Cass. penale sent. n. 36502/08 e n. 34460/03 che hanno escluso la possibilità per il paziente di esercitare l’azione civile nel processo penale nei confronti dell’ASL con la quale il medico di base imputato era convenzionato, sul presup-posto che il relativo rapporto non è di impiego pubblico, ma di collabora-zione coordinata e continuativa, e che l’ASL non può interferire con l’attività autonoma professionale del medico di medicina generale o del pediatra con-venzionato).

Cenni alle problematiche assicurative in campo sanitario

La problematica della responsabilità civile dei sanitari e l’obbligo di risar-cimento dei danni cagionati nell’esercizio professionale impongono un cenno alle questioni inerenti l’opportunità o meno – per i medici e gli odontoiatri – di procedere in via autonoma alla stipula di adeguate forme di assicurazione contro la propria responsabilità civile in modo da tutelare il proprio patrimonio da even-tuali aggressioni da parte di terzi insoddisfatti delle prestazioni di cura ricevute.

L’opportunità sussiste certamente per coloro che esercitano in proprio un’at-

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2. La responsabilità professionale 97

tività libero professionale (come, ad esempio, gli odontoiatri e medici di medi-cina generale) che non godono di alcuna certa copertura assicurativa stipulata da soggetti terzi come, invece, di norma avviene per i medici dipendenti delle strutture sanitarie afferenti al Servizio Sanitario Nazionale. Per questi ultimi, infatti, è previsto, di norma, dai rispettivi contratti che l’ASL ovvero la struttura convenzionata stipulino una polizza che copra anche i danni dei loro collabora-tori e dipendenti, senza, peraltro, coprire la responsabilità per dolo o colpa grave.

Appare opportuno, quindi, che anche i dipendenti e collaboratori delle strutture appartenenti al Servizio Sanitario Nazionale stipulino quantomeno una polizza integrativa di quella eventualmente contratta dall’ospedale o dalla casa di cura per assicurare i rischi non ricompresi nella polizza aziendale e per evitare di essere poi soggetti ad una azione di regresso – della struttura ovvero della compagnia di assicurazione – diretta ad ottenere il rimborso di quanto eventualmente pagato per un rischio non coperto o non totalmente coperto.

Va, infatti, ricordato che le polizze più recenti prevedono, di norma, delle franchige (che escludono la copertura per eventi che implicano un risarcimento al di sotto di un determinato importo minimo ovvero per la quota parte, infe-riore alla franchigia, di eventi di entità maggiore) oltre che dei massimali (che escludono la copertura per somme che eccedono l’importo indicato come massimale).

Tutti i medici che sono interessati a stipulare una polizza – in partico-lare quelli che esercitano la libera professione – devono poi porre attenzione all’oggetto dell’attività assicurata che deve corrispondere a quella effettivamente svolta onde evitare che la compagnia eccepisca validamente che l’evento acca-duto non rientri tra quelli coperti dal contratto e al massimale assicurato onde evitare che non sia congruo rispetto ai rischi inerenti al lavoro svolto (un chirurgo svolge, di norma, un’attività più rischiosa di quella di un internista ovvero un medico di medicina generale).

Le nuove polizze – a differenza di quelle meno recenti – di norma con-tengono, infine, la clausola claims made che indica che la polizza copre solo i rischi denunziati dall’assicurato durante il periodo di vigenza del contratto, con conseguente opportunità di stipulare polizze che non lascino i sanitari scoperti quantomeno per un congruo tempo anche successivo alla cessazione della loro attività professionale. Le denunzie per malpratica dei pazienti, infatti, possono pervenire anche a distanza di tempo dalla cessazione, per pensionamento o

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altro, dell’attività dei sanitari e non sempre è facile sostenere validamente che è maturata la prescrizione (decennale per l’azione civile contrattuale) del loro diritto ad essere risarciti.

La responsabilità davanti alla Corte dei Conti per “danno erariale”

Introduzione

La responsabilità per danno erariale riguarda, per quel che interessa in questa sede, i sanitari che sono legati alle ASL e agli ospedali da un rapporto di impiego ovvero di servizio che, con dolo o colpa grave, abbiano cagionato a questi enti un danno con il loro comportamento (vedi, al riguardo, art. 52 RD 1214/34, art. 1 legge n. 20/1994 e art. 3 DL n. 543/96, convertito in legge n. 639/96).

L’azione per l’accertamento dell’esistenza del danno erariale e per la sua quantificazione viene esercitata dalla Procura della Corte dei Conti innanzi alla sezione giurisdizionale regionale della Corte predetta competente per ter-ritorio, su segnalazione – obbligatoria per legge – ex art. 53 RD 1214/34, dei responsabili dell’ASL o dell’ospedale.

L’azione in oggetto si prescrive in cinque anni dalla data in cui si è verifi-cato il fatto dannoso; tale momento, per le azioni di rivalsa per danni conseguenti a condotte gravemente colpose che abbiano comportato la condanna dell’ASL al pagamento di somme di denaro in favore del paziente, si identifica con il momento in cui l’ente ha effettuato il relativo esborso.

La casistica giurisprudenziale relativa alle ipotesi di danno erariale si arricchi-sce sempre di più di nuove fattispecie, stante l’attento controllo esercitato sulla finanza pubblica e sulle modalità con le quali viene amministrata la spesa inerente ad attività di pubblico interesse, come quelle svolte dalle Asl e dagli ospedali.

La materia del contendere – oltre alla sopra citata rivalsa per condotte gra-vemente imperite, negligenti o imprudenti dei medici che hanno comportato esborsi, in favore dei pazienti danneggiati, a carico delle strutture del Servizio Sani-tario Nazionale in seguito, di norma, all’accertamento della loro responsabilità in sede civile o penale – ha riguardato anche emolumenti o indennità ingiustamente percepite dai sanitari in difetto dei presupposti di legge (ad esempio, indennità di esclusività del rapporto per i medici ospedalieri o indennità di informatica per i medici di medicina generale) ovvero il fenomeno della cosiddetta iperprescrizione di medicinali con il ricettario regionale da parte dei sanitari convenzionati.

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2. La responsabilità professionale 99

Oltre queste fattispecie si deve sottolineare che sempre più spesso l’azione della Procura della Corte dei Conti è diretta anche ad ottenere la condanna del medico convenuto al risarcimento del danno all’immagine del Servizio Sanita-rio Nazionale (o dell’Università) provocato dal comportamento del sanitario tenuto in contrasto con le disposizioni di legge e con quelle che regolano il servizio cui è adibito (vedi, sul punto, Corte dei Conti, sezione giurisdizio-nale per il Veneto, sent. n. 322/09, e sezione giurisdizionale per la Lombar-dia, sent. n. 298/09, e, da ultimo, terza sezione Centrale d’Appello, sent. n. 564/10 relativa ad un concorso pubblico di ammissione ad una scuola di spe-cializzazione nel quale era stato favorito un candidato).

Il concetto di dolo o colpa grave rilevante nel danno erariale

Occorre meglio definire il concetto di dolo o colpa grave, stante la sua rilevanza ai fini dell’accertamento della responsabilità del medico per avere procurato un danno erariale all’ente dal quale dipende o con il quale ha un rapporto di servizio.

La giurisprudenza, in una ipotesi relativa alla percezione indebita dell’in-dennità di esclusività da parte di un medico dirigente di una struttura diparti-mentale che aveva lavorato anche in strutture private, ne ha delineato il con-cetto affermando che «l’elemento psicologico della colpa raggiunge la rilevanza della gravitàinpresenzadicomportamentiomissiviconnotatidallaconsapevolezza,equiparabilealla colpevole ignoranza,dellanecessitàdiagireper eliminareo far cessare la situazionegeneratrice del danno» (vedi, al riguardo, Corte dei Conti, terza sezione Centrale d’Appello, sent. n. 520/10).

In un’altra fattispecie, relativa alla presunta responsabilità per danno erariale di un medico militare per un trattamento incongruo di natura ortopedica in favore di un assistito affetto da sospetta frattura dello scafoide tarsale, l’organo giudicante, all’esito della CTU espletata, ha escluso l’esistenza della colpa grave perché il comportamento diagnostico e terapeutico del sanitario non appariva connotato «da sicura ed estremanegligenza, trascuratezza e imprudenzaprofessionale,né inchiaraviolazionedegliordinariprotocollimedici» (vedi, al riguardo, Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per il Lazio, sent. n. 1597/10).

In un’altra fattispecie, infine, relativa, tra l’altro, a un trattamento a base di “fluconazolo” in pillole per la cura di un’assistita affetta da “Tinea Versicolor”, con prescrizione di dosi “paria5voltequellechelapazienteavrebbedovutoingeriresecondo la letteratura medica”, l’organo giudicante ha ritenuto che la terapia fosse

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frutto di una “gravemente colposa scelta di irragionevolezza prescrittiva” operata dal medico curante (vedi, al riguardo, Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Lombardia, sent. n. 9/10).

La responsabilità a carico del medico di medicina generale per “iperprescrizione”

Negli ultimi anni si è accentuato il controllo sulle prescrizioni effettuate dai medici di medicina generale per verificarne la correttezza sul piano procedu-rale e l’appropriatezza clinica.

Le indagini, di norma, sono partite dall’uso di elementi statistici che segnala-vano, per il medico interessato, il superamento di medie ponderate di spesa farmaceutica “pro capite” nel medesimo bacino di utenza (cosiddetta iperprescrizione in senso lato).

L’uso di questo criterio, senza ulteriori elementi di prova, non è stato rite-nuto, di norma, dalla giurisprudenza della Corte dei Conti, sufficiente ad accer-tare la sussistenza di un danno erariale da iperprescrizione.

Questo criterio, invece, è stato ritenuto, di norma, una buona base per la verifica, caso per caso, della correttezza prescrittiva del medico indagato, la cui discrezionalità tecnica non può divenire impunemente arbitrarietà ovvero irragionevolezza.

Si è ritenuto sussistente il danno erariale da iperprescrizione in senso stretto solo qualora l’indagine abbia portato, anche alla luce di eventuali CTU, ad accertare che il medico di medicina generale, nella sua attività prescrittiva con il ricetta-rio regionale, abbia esorbitato incasispecifici dai limiti derivanti dalla logica, dalla ragionevolezza e dai basilari approdi della letteratura scientifica (vedi, al riguardo, Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Lombardia, sent. n. 9/10).

Le conclusioni cui è giunta questa sentenza appaiono condivisibili perché l’at-tività del medico di medicina generale è connotata da fisiologici margini di apprezza-mento valutativo nella diagnosi e cura delle malattie e, quindi, in quest’ambito, non possono essere contestate, a titolo di danno erariale, scelte terapeutiche effettuate, in maniera non irragionevole e senza grave colpa, per tenere conto della particolare situa-zione in cui versava l’assistito e, anche, delle sue preferenze al riguardo.

In ogni caso, nella valutazione del comportamento prescrittivo del medico, non si può prescindere «dallaconsiderazionedelcontestogeneraleeparticolare(persinolocale)all’internodelqualehaassuntolesuedecisioni», come giustamente osservato dalla Corte dei Conti nella citata sentenza n. 9 del 2010.

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2. La responsabilità professionale 101

Nessuna attenuante può, invece, essere riconosciuta per il medico di medi-cina generale che effettui prescrizioni illecite perché relative a farmaci che i pazienti beneficiari delle prescrizioni stesse hanno credibilmente dichiarato di non avere mai richiesto, né assunto.

Si tratta, in questa ipotesi, di un’attività solo apparentemente di natura pro-fessionale in quanto diretta, attraverso un disegno criminoso, a trarre indebito profitto da queste prescrizioni prive di qualsiasi valenza terapeutica, con con-seguente danno erariale per il Servizio Sanitario Nazionale che le ha rimborsate al farmacista, di norma, compiacente (vedi, al riguardo, Corte dei Conti, terza sezione Centrale d’Appello, sent. n. 199/08).

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3Doveri del medico e diritti del cittadino

S.Bovenga,S.DelVecchio,S.Fucci,A.Pagni

Art. 3 - Doveri del medico

Dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollievo della sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana, senza distinzioni di età, di sesso, di etnia, di religione, di nazionalità, di condizione sociale, di ideologia, in tempo di pace e in tempo di guerra, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera. La salute è intesa nell’accezione più ampia del termine, come condizione cioè di benessere fisico e psichico della persona.

Questo articolo del Codice deontologico pone in evidenza che il dovere principale del medico non è solo quello di tutelare la vita e la salute, intesa quest’ultima come benesserefisico epsichico, della persona assistita, ma anche il sollievo dalla sofferenza, sempre nel rispetto della sua libertà e dignità.

Anche la nostra Carta Costituzionale, al primo comma dell’art. 32, sottolinea l’importanza del bene salute nella nostra società, affermando che la Repubblica lo tutela «comefondamentaledirittodell’individuo», nonché come «interesse della colletti-vità», così legittimando l’attività di cura del medico, stante la sua rilevanza sociale.

Ecco perché, in qualche sentenza, si legge che la prima fonte di legittima-zione dell’attività di cura si rinviene nell’art. 32 della Costituzione che, peraltro, nel secondo comma, ribadisce che quest’attività, di norma, può essere legitti-mamente esercitata solo con il consenso della persona assistita, essendo del tutto eccezionale l’ipotesi del trattamento sanitario obbligatorio per legge.

A sua volta la Corte Costituzionale ha più volte affermato che una legge impositiva di un trattamento sanitario obbligatorio è conforme alla Costitu-zione solo se ha lo scopo di tutelare contemporaneamente la salute del singolo

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e l’interesse alla salute della collettività, messo a rischio, ad esempio, dal peri-colo di diffusione di una malattia infettiva.

La rilevanza sociale dell’attività di cura, quindi, non legittima di per sé una sua imposizione coattiva da parte del medico che, come si evince dall’art. 3 del Codice deontologico del 2006, deve agire nel rispetto della libertà e della dignità della persona.

Il richiamo alla libertà della persona sottolinea appunto che, nella quotidiana attività di cura, occorre coinvolgere l’assistito per effettuare, in un contesto di auspicabile condivisione della proposta diagnostico-terapeutica del medico, i trattamenti utili a salvaguardarne la salute e la vita.

Il richiamo alla dignità implica che il cittadino, anche se affetto da una grave malattia, non perde la sua identità di persona che deve essere rispettata dal curante anche se non ne condivide le scelte di vita.

La consonanza di questo articolo del Codice deontologico con la Costitu-zione vigente emerge anche nella sottolineatura del fatto che l’assistenza medica deve sempre realizzarsi senza distinzioni – ad esempio, di età e di sesso ovvero di etnia e di religione – e, quindi, senza operare ingiuste discriminazioni tra persone che hanno tutte pari dignità e, pertanto, meritano tutte ugualmente rispetto.

Invero la nostra Carta Costituzionale, all’art. 3, primo comma, nell’affermare che «tuttiicittadinihannoparidignitàesonoegualidavantiallalegge,senzadistinzionidisesso,dirazza,dilingua,direligione,diopinionipolitiche,dicondizionipersonaliesociali» afferma il fondamentale principio di eguaglianza che vieta ogni discriminazione.

L’importanza dell’attività medica diretta al sollievo della sofferenza – che è posta sullo steso livello di quella diretta alla tutela della salute e della vita – ribadisce il carattere umanitario dell’attività di cura che non si ferma anche nel caso in cui la malattia è inguaribile e sta conducendo la persona alla fine della sua esperienza di vita.

Anche il legislatore ordinario, con la recente legge n. 38 del 2010, ha evi-denziato l’importanza della terapia diretta al trattamento del dolore proprio perché finalizzata alla tutela della dignità, dell’autonomia e della qualità di vita della persona affetta da una patologia dolorosa.

Occorre ricordare, infine, che i doveri del medico elencati in questo arti-colo del Codice deontologico devono essere adempiuti, non solo in tempo di pace, ma anche in tempo di guerra, e, comunque, indipendentemente dalle condizioni istituzionali e sociali in cui si trovi ad assistere e curare le persone.

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3. Doveri del medico e diritti del cittadino 105

Art. 4 - Libertà e indipendenza della professione

L’esercizio della medicina è fondato sulla libertà e sull’indipendenza della professione che costituiscono diritti inalienabili del medico.Il medico nell’esercizio della professione deve attenersi alle conoscenze scientifi-che e ispirarsi ai valori etici della professione, assumendo come principio il rispetto della vita, della salute fisica e psichica, della libertà e della dignità della persona; non deve soggiacere ad interessi, imposizioni e suggestioni di qualsiasi natura.Il medico deve operare al fine di salvaguardare l’autonomia professionale e segnalare all’Ordine ogni iniziativa tendente a imporgli comportamenti non confacenti alla deontologia professionale.

Questo articolo del Codice deontologico, al primo comma, afferma con forza il valore della libertà e dell’indipendenza nell’esercizio della professione del medico, tant’è che il medico deve considerare questi valori etici come diritti inalienabili sui quali si deve fondare la sua complessiva attività, dovunque e comunque svolta.

Nel secondo comma di questa norma deontologica si riafferma l’impor-tanza dei valori etici della professione cui deve essere ispirata l’attività svolta dai medici, valori che impongono il rispetto della vita e della salute, nonché della libertà e della dignità della persona assistita, ma anche la dovuta attenzione all’evoluzione delle conoscenzescientifiche, onde evitare un eccesso ingiustificato di soggettivismo nell’esercizio della professione.

La medicina, infatti, non è una scienza esatta – essendo connotata da ele-menti probabilistici che, talvolta, ne accentuano l’incertezza – ma ha elaborato una metodologia scientifica per un approccio logico, critico e cautelare alle diverse situazioni che non può essere completamente messa da parte da chi, in nome della propria indipendenza, pretenda di usare come metro di giudizio solo la propria, talvolta obsoleta, conoscenza ed esperienza, scollegata da qual-siasi riferimento scientifico e logico.

Il rispetto da parte del medico della vita e della salute della persona sono strettamente collegati, anche in questa norma, al rispetto della libertà e della dignità dell’individuo perché nella singola relazione di diagnosi e di cura, accanto alla definizione sul piano scientifico del contenuto del bene salute, occorre dare spazio anche al significato che ciascuno attribuisce a questo bene in un determinato contesto.

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Solo in questo modo – ascoltando, quindi, le motivazioni che spingono la persona malata a chiedere di essere assistita – sarà possibile creare una rela-zione che porti ad una decisione condivisa perché rispettosa dell’autonomia pro-fessionale del medico, ma anche delle considerazioni personali del paziente sul percorso di cura proposto dal sanitario, valutato positivamente perché ha tenuto anche conto delle scelte esistenziali effettuate dall’interessato.

Il medico, quindi, nella sua attività non deve fare scelte che, per compiacere l’assistito, contrastino con l’etica professionale, ma, nell’effettuare le sue cor-rette proposte di diagnosi e cura, deve tenere anche conto del vissuto sogget-tivo della malattia, come emerge dalla narrazione della persona malata, e degli scopi leciti che il cliente vuole ottenere con l’ausilio delle competenze, tecniche e umane, del sanitario.

Indipendenza ed autonomia di giudizio, che caratterizzano le professioni intellettuali come quella medica, comportano, peraltro, anche dei profili di responsabilità per le scelte di cura, incongrue ovvero errate, effettuate. L’eser-cizio indipendente e autonomo della professione non può, quindi, essere disgiunto dall’utilizzo della necessaria prudenza, attenzione e perizia e anche dal rifiuto di condizionamenti esterni, impropri perché si riflettono negativa-mente sulla capacità di giudizio del curante, sviandola dal suo scopo primario e cioè dalla tutela del benessere della persona assistita.

Ecco perché, nella parte finale del secondo comma di questa norma, si afferma che il medico «nondevesoggiacereadinteressi,imposizioniesuggestionidiqualsiasinatura».

Aggiunge questo articolo, nel suo terzo e ultimo comma, che il medico, qualora si trovi ad affrontare situazioni e iniziative di qualsiasi genere dirette ad imporre comportamenti in contrasto con le regole deontologiche – perché, ad esempio, lo sollecitano ad effettuare in tempi troppo ravvicinati le visite pro-grammate, non consentendogli in tal modo di svolgere con il dovuto scrupolo la sua attività di diagnosi e cura – deve in prima persona cercare di salvaguar-dare la sua autonomia professionale e, nel contempo, segnalare al competente Ordine provinciale i fatti che possono incidere negativamente sulla stessa.

Indipendenza ed autonomia nell’esercizio della professione all’interno delle strutture sanitarie o in convenzione

Non solo nella libera professione, ma anche all’interno degli ospedali e delle altre strutture sanitarie complesse, così come nella collaborazione in con-

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3. Doveri del medico e diritti del cittadino 107

venzione al Servizio Sanitario, deve essere assicurato l’esercizio indipendente dell’attività professionale.

In questi casi, evidentemente, vanno rispettati i vincoli che nascono dal rapporto di impiego o dal contratto di collaborazione intercorso con la strut-tura ovvero dalla convenzione stipulata con il Servizio Sanitario Nazionale e Regionale, ma deve rimanere integra la capacità di svolgere l’attività profes-sionale nel rispetto dei principi e delle regole deontologiche che non possono essere trascurate perché dirette anche a salvaguardare l’esercizio autonomo e indipendente della medicina.

Il medico, infatti, anche quando sottoposto a vincoli che ne regolano i turni e l’orario di lavoro, rimane pur sempre un prestatore d’opera di natura professionale che, quindi, deve potere svolgere la sua attività in modo non impiegatizio. Deve, pertanto, essere comunque rispettata la sua autonomia e indipendenza di giudizio nella relazione di cura che deve restare connotata dagli aspetti culturali, scientifici e umani che la contraddistinguono.

Anche per questo la giurisprudenza ritiene che il medico, che lavora in una posizione subordinata rispetto a quella del dirigente della struttura o del reparto, deve rispondere in via concorrente delle scelte di cura incongrue effet-tuate dal sanitario in posizione apicale se, qualora in disaccordo, non se ne sia dissociato manifestando il suo dissenso nel corso dell’assistenza prestata ad una persona ivi ricoverata e affidata anche alle sue cure.

La posizione del medico in posizione subordinata non è, infatti, quella del mero esecutore di ordini provenienti dal dirigente apicale, ma un suo collabora-tore professionale e, quindi, deve rimanere integra la sua capacità di dare giudizi diagnostici e terapeutici indipendenti e autonomi anche da quelli del sanitario che riveste una posizione funzionale superiore.

La particolare natura dell’attività medica, diretta alla salvaguardia della salute del paziente, consente, infine, secondo la giurisprudenza, anche l’espressione di un giudizio critico sull’operato di un collega, sempre che sia manifestato in termini corretti, misurati e connotati da obiettività rispetto al fatto giudicato.

Anche un giudizio critico, soprattutto se espresso nel corso di un consulto o di una richiesta di un secondo parere, può rappresentare, infatti, una mani-festazione di libertà e di indipendenza nell’esercizio della professione medica.

L’importante, per evitare spiacevoli conseguenze sul piano disciplinare, civile o penale, rispettare il principio di verità, in base al quale il comportamento

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di cura oggetto di critica deve essere realmente accaduto, e il principio di conti-nenza, che presuppone l’uso di espressioni attinenti al fatto e misurate nel loro contenuto.

Art. 7 - Limiti dell’attività professionale

In nessun caso il medico deve abusare del suo status professionale. Il medico che riveste cariche pubbliche non può avvalersene a scopo di vantaggio professionale.

L’articolo richiama e rafforza il precedente art. 4 sui limiti dell’indipen-denza e della libertà professionale e ricorda al medico che in nessun caso l’eser-cizio della professione deve degenerare in arbitrio e abuso e che la tutela dei diritti del professionista viene meno ove questi trascuri i suoi doveri violando i diritti delle persone di cui si prende cura.

Ancora più grave mancanza deontologica, oltre a configurarsi come un’eventuale ipotesi di reato, si ha nel caso in cui il medico tragga un indebito vantaggio dalla posizione che occupa nelle istituzioni pubbliche e/o abusi del potere derivante dalla sua carica.

Art. 20 - Rispetto dei diritti del cittadino

Il medico nel rapporto con il cittadino deve improntare la propria attività pro-fessionale al rispetto dei diritti fondamentali della persona.

Questo articolo apre la sezione del Codice deontologico dedicata alle regole generali di comportamento nei rapporti con il cittadino.

La parola cittadino che già nella precedente versione del 1998 del Codice deontologico aveva sostituito quella di paziente identifica un soggetto che, sep-pure non ha le competenze tecniche del medico, si pone su un piano paritario nella relazione con il sanitario in quanto titolare di una posizione giuridica che deve essere rispettata dal curante.

Il medico, in base a quanto disposto in questa norma deontologica, deve agire nel corso della sua attività professionale nel rispetto dei diritti fondamentali della persona.

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3. Doveri del medico e diritti del cittadino 109

Quali siano questi diritti fondamentali non viene specificato e, quindi, compete all’interprete cercare di delinearne in linea generale il contenuto, tenendo presente che alcuni di questi diritti, come ad esempio quelli inerenti l’informazione e il con-senso, trovano una loro specificazione già nei successivi articoli del titolo terzo del codici mentre altri, ad esempio quelli inerenti la tutela del segreto professionale e della riservatezza dei dati personali, sono stati indicati nel titolo secondo.

In linea generale si può affermare che rientrano certamente nei diritti fon-damentali tutti quei diritti di libertà inerenti la persona indicati nella nostra Costi-tuzione che, tra l’altro, nell’art. 32, indica specificamente la salute come «fonda-mentaledirittodell’individuo».

Tra questi diritti deve essere ricordato, visto il carattere di società multicul-turale con diverse identità religiose che sta assumendo la nostra società, anche quello sancito dall’art. 19 che stabilisce il diritto di ciascuno di «professare la propria fede religiosa in qualsiasi forma».

Tra i diritti fondamentali di ogni persona devono altresì ritenersi compresi quelli indicati nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, ratificata dall’Italia nel 1955, tra cui vanno ricordati i diritti alla vita, alla libertà e alla sicurezza, al rispetto della propria vita privata e familiare, alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione che devono essere garantiti senza alcuna distinzione e, quindi, senza discriminazioni di alcun genere.

Alla Convenzione ha aderito l’Unione Europea con il recente trattato di Lisbona e l’interpretazione fornita dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo degli artt. 8 e 14 di questa Convenzione, in tema di rispetto della vita privata e familiare e sul divieto di discriminazione, è stata posta dal Tribu-nale di Firenze alla base dell’eccezione di incostituzionalità della nostra legge sulla procreazione medicalmente assistita (n. 40/04) laddove contiene il divieto della fecondazione eterologa, sollevata con ordinanza depositata il 6/9/10.

Anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 2000 contiene degli utili riferimenti per l’individuazione dei diritti fondamentali, tra cui vengono indicati, tra l’altro, il diritto alla «propriaintegritàfisicaepsichica» e, nell’ambito della medicina, il diritto dell’assistito correlato al dovere dei curanti di rispettare «il consensoliberoeinformatodellapersonainteressata,secondolemodalitàstabilitedallalegge».

La Carta in questione si apre con l’affermazione, all’art. 1, dell’inviolabilità della dignità umana, dignità che deve essere sempre rispettata e tutelata e che costituisce indubbiamente il presupposto di ogni diritto fondamentale della persona.

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Un cenno, infine, merita per la sua specificità la Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina del 1996, ratificata dall’Italia nel 2001, che, tra l’altro, afferma, all’art. 2, che «l’interesse e il bene dell’essere umano devono prevalere sul solo interesse della società e della scienza», all’art. 5 che, in linea generale, «un trattamento sanitariopuò esserepraticato solo se lapersona interessataabbiaprestatoil proprio consenso libero e consapevole», e che sottolinea, all’art. 9, l’importanza delle volontà espresse in via anticipata dal paziente rispetto alle cure future e, all’art. 10, il diritto di ogni persona «di essere a conoscenza di ogni dato raccolto sulla propria salute».

Art. 28 - Fiducia del cittadino

Qualora abbia avuto prova di sfiducia da parte della persona assistita o dei suoi legali rappresentanti, se minore o incapace, il medico può rinunciare all’ulteriore trattamento, purché ne dia tempestivo avviso; deve, comunque, prestare la sua opera sino alla sostituzione con altro collega, cui competono le informazioni e la documentazione utili alla prosecuzione delle cure, previo consenso scritto dell’interessato.

La fiducia è un elemento essenziale nella relazione medico-paziente che deve essere presente non solo all’atto iniziale del rapporto, ma anche nel corso del suo svolgimento.

È importante che via sia fiducia perché altrimenti il paziente rischia di non trarre dall’assistenza i possibili benefici, essendo sorti in lui dubbi sulla capacità professionale del medico e, quindi, anche sull’utilità delle cure prestate.

Ma la fiducia deve essere reciproca, perché anche il medico deve potere con-tare sulla leale collaborazione del paziente nel perseguimento degli scopi delle cure proposte o in corso di esecuzione.

In sostanza, nella relazione di cura si incontrano due persone (medico e assistito) che devono avere reciproca fiducia per potere raggiungere l’obiettivo comune costituito dalla salvaguardia della salute del cittadino.

In un rapporto basato su trasparenza e lealtà, il paziente dovrebbe potere liberamente manifestare al medico i propri dubbi e le proprie incertezze e discuterne con il curante al fine di ristabilire il rapporto fiduciario incrinato ovvero di risolverlo.

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3. Doveri del medico e diritti del cittadino 111

Se questo non avviene, l’iniziativa può essere presa dal medico che si senta sfiduciato da atteggiamenti del cittadino incompatibili con il proseguimento di una proficua collaborazione di cura nel reciproco rispetto.

La norma deontologica in commento è diretta a disciplinare la questione fornendo al medico le necessarie indicazioni comportamentali da utilizzare qualora decida di interrompere il rapporto, perché ha avuto prova disfiducia da parte dell’assistito ovvero del legale rappresentante della persona, minore o incapace, che ha in cura.

Il medico che si trovi in una di queste situazioni deve dare tempestivo avviso, cioè comunicare all’interessato o al suo rappresentante la sua decisione di non continuare oltre nell’assistenza.

La funzione di questa comunicazione è quella consentire all’interessato di procedere alla scelta di un altro medico, cui poi il sanitario rinunciante fornirà tutte le notizie utili alla prosecuzione delle cure, inclusa la relativa documen-tazione in suo possesso, previo consenso scritto del paziente per evitare di incorrere in violazioni della normativa sul trattamento dei dati personali.

Il medico deve comunque continuare a prestare la propria opera sino alla sua sostituzione con altro collega per evitare rischi per la salute dell’interessato.

La convenzione che disciplina lo svolgimento dell’attività del medico di medicina generale, che viene liberamente scelto dal paziente nell’ambito di quelli disponibili in un determinato contesto territoriale, contiene una norma specifica per l’esercizio di quella che viene chiamata revoca e ricusazione della scelta.

Il cittadino può revocare la scelta liberamente fatta in precedenza, dandone comunicazione all’Azienda e effettuando una nuova scelta del sanitario di fiducia.

Il medico, a sua volta, ove intenda non proseguire nella sua opera di assi-stenza, deve ricusare il paziente, dandone comunicazione all’Azienda e moti-vando quest’atto sulla base di eccezionali ed accertati motivi di incompatibilità, tra i quali assume particolare importanza laturbativadelrapportodifiducia; la ricusa-zione avrà effetto dal sedicesimo giorno successivo alla comunicazione.

La normativa inserita nella convenzione contiene anche una disciplina spe-cifica per evitare che il cittadino rimanga privo di assistenza qualora a ricusarlo sia l’unico medico operante in quell’ambito territoriale.

Negli ospedali e nelle strutture sanitarie complesse il cittadino, di norma, non è messo in grado di scegliere colui che l’assisterà per le sue necessità di cura.

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Deve ritenersi che anche in queste situazioni occorra cercare, per quanto possibile, di salvaguardare il principio etico e deontologico della reciprocafiducia tra curante e assistito, consentendo ad entrambi di verificarne la persistenza nella relazione e agendo di conseguenza qualora venga a mancare.

L’importante, qualora sia il medico a ritenere che non vi siano le condizioni per proseguire nell’assistenza, stante la sfiducia manifestata dal paziente, che il paziente non venga mai abbandonato, ma venga altrimenti assistito onde evitare rischi per la sua salute.

Il medico, infatti, una volta assunta la posizione di garante della salute del cittadino assistito, deve continuare ad assisterlo fin quando un collega non se ne faccia carico ovvero fin quando il paziente non decida di abbando-nare il nosocomio assumendosi la responsabilità della scelta liberamente effettuata.

Il rifiuto indebito delle cure che non possono essere dilazionate in quanto vanno compiute senza ritardo, manifestato da parte di un medico del Servi-zio Sanitario Nazionale o Regionale, è un comportamento, infatti, che integra quantomeno il delitto di cui all’art. 328 del Codice penale, a prescindere dalle negative conseguenze eventualmente verificatesi sulla salute del paziente.

Art. 21 - Competenza professionale

Il medico deve garantire impegno e competenza professionale, non assu-mendo obblighi che non sia in condizione di soddisfare.Egli deve affrontare nell’ambito delle specifiche responsabilità e competenze ogni problematica con il massimo scrupolo e disponibilità, dedicandovi il tempo necessario per una accurata valutazione dei dati oggettivi, in parti-colare dei dati anamnestici, avvalendosi delle procedure e degli strumenti ritenuti essenziali e coerenti allo scopo e assicurando attenzione alla disponi-bilità dei presidi e delle risorse.

Già nella Roma antica, con l’organizzazione del Servizio Sanitario pubblico istituito dall’imperatore Nerone, era prevista la figura dei protomedici (archia-tri) che, riuniti in collegio, deliberavano sulla competenza professionale dei “medici secondari”, una sorta di “medici della mutua”, eletti dalla popolazione e stipendiati dalla pubblica amministrazione.

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3. Doveri del medico e diritti del cittadino 113

Il protomèdico era il pubblico funzionario preposto a coadiuvare l’attività sanitaria dello Stato. I principali compiti del protomedico erano di valutare le effettive capacità di coloro che chiedevano di intraprendere la professione di medico o farmacista e di vigilare sull’attività di questi.

In Italia, la figura del protomedico sopravvive fino alla metà del XIX secolo, quando viene cancellata dal primo governo D’Azeglio nel 1851.

Sulla base di quella legge, le funzioni formative professionali vennero asse-gnate alle autorità preposte alla Pubblica Istruzione, mentre le funzioni orga-nizzative e di controllo furono demandate al Consiglio superiore di sanità, precedentemente istituito nel 1847.

Cito queste curiosità di storia della medicina unicamente per rendere evi-dente da subito come il tema della competenza professionale, come del resto anche della qualità e della sicurezza, sono da sempre connaturate ai delicati compiti attribuiti ai medici ed agli odontoiatri.

L’articolo 21 del Codice di Deontologia medica è espressamente dedicato alla ‘Competenza Professionale e così recita.

La competenza professionale si esplicita e si esercita in molteplici aspetti che, in estrema sintesi, possiamo ridurre a due:

1. La competenza riferita alle attività cliniche.2. La competenza riferita alle attività organizzativo-gestionali.

La competenza professionale riferita ai professionisti clinici comporta:

– La necessità (e obbligo deontologico) di prolungare il percorso formativo ben oltre il conseguimento dell’abilitazione alla professione ovvero di pro-lungarlo per tutta la vita professionale (articolo 19 del Codice deontolo-gico: «Aggiornamento e formazione professionale permanente»). Si noti che il citato articolo fa esplicitamente riferimento “all’obbligo di mante-nersi aggiornato in materia tecnico-scientifica, etico-deontologica e gestio-nale-organizzativa”.

– L’esigenza di essere sempre al corrente dei più recenti sviluppi della medi-cina (art 19 CD «sviluppo continuo delle conoscenze e competenze in ragione dell’evoluzione dei progressi della scienza»); oggi l’ignoranza non è più scusabile!

– La disponibilità a sottoporsi a forme di verifica e monitoraggio delle pro-prie prestazioni secondo principi di valutazione professionalmente condi-

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visi (art 19 CD «confrontare la sua pratica professionale con i mutamenti dell’organizzazione sanitaria e della domanda di salute dei cittadini».

Alcuni degli strumenti per raggiungere i summenzionati obiettivi sono rap-presentati da:

– Educazione Continua in Medicina (ECM) intesa nel suo senso sostanziale e non certo come un mero adempimento “burocratico”.

– Monitoraggio continuo e sistematico della propria pratica professionale attraverso gli Audit Clinici e le Mortality & Morbility (che potremmo tra-durre liberamente come “rassegne per la sicurezza”).

– Benchmarking con altri Professionisti e con altre Strutture (il cd bench-marking è un processo continuo di misurazione di prodotti, servizi e prassi mediante il confronto con i concorrenti più forti).

La competenza professionale riferita ai professionisti gestionali (medici delle direzioni di presidio, delle direzioni sanitarie e generali), oltre a quanto già detto per i professionisti clinici comporta: – La pianificazione delle competenze tecnico-professionali necessarie a garan-

tire il corretto svolgimento dei percorsi clinico-assistenziali. – La valutazione del livello di competenze possedute dal personale.– La pianificazione della formazione e l’addestramento per l’adeguamento e

la “manutenzione” delle competenze. – La valutazione dell’efficacia delle azioni intraprese.

Alcuni degli strumenti per raggiungere i summenzionati obiettivi sono rap-presentati da:

– Piano della formazione/addestramento finalizzato a sviluppare ed aggiornare le competenze in rapporto ai reali bisogni formativi ed alla domanda di salute.

– La “garanzia” della formazione e dell’addestramento permanente del per-sonale sanitario.

– La verifica, attraverso indicatori predefiniti, del raggiungimento degli obiet-tivi formativi.

Ci sono perlomeno altri tre temi strategici sui quali lavorare e che sono legati in qualche modo alla competenza professionale in tutti i suoi aspetti (clinici e gestionali):

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3. Doveri del medico e diritti del cittadino 115

– Gli aspetti etici dell’ECM e del conflitto di interesse.– La relazione fra ricerca e qualità (la ricerca sanitaria finalizzata per essere

efficace e produttiva, ossia in grado di tradurre rapidamente i risultati in azioni migliorative per le attività di prevenzione, cura, riabilitazione e assi-stenza, deve essere caratterizzata dalla pervasività, dalla capacità cioè, di operare trasversalmente nei servizi sanitari attraverso il coinvolgimento del maggior numero di professionisti, nella logica di migliorare le competenze a beneficio della popolazione curata).

– Etica dell’errore: “Errando discitur” – imparare dagli errori: l’attitudine cri-tica in medicina e il fabbisogno di una nuova etica. Imparare soltanto dai propri errori sarebbe un processo lento e doloroso ed inutilmente costoso per i propri pazienti. Le esperienze devono essere condivise in modo da poter imparare dagli errori altrui. Questo richiede umiltà nell’ammettere di aver sbagliato e nel discutere i fattori che hanno influenzato l’errore. Richiede un atteggiamento critico nei confronti del proprio lavoro e di quello degli altri… L’esperienza generi apprendimento…

Alla luce di quanto detto, gli articoli 19 e 21 del CD vanno letti ed inter-pretati come espressione del massimo rispetto dei diritti del cittadino da parte del medico. Infatti nell’articolo 21 viene chiaramente enunciato l’obbligo del medico di garantire il massimo impegno e il massimo scrupolo in tutti i suoi rapporti professionali con il cittadino. Nel primo comma dell’articolo è stato anche inserito il principio che il medico non deve assumersi obblighi che non sia in condizione di soddisfare. Evidentemente questa affermazione si riferisce alle obbligazioni di risultato essendo pacifico che il medico utilizzerà (deve uti-lizzare) tutti i mezzi a sua disposizione per garantire la qualità della prestazione. Viene anche enunciata chiaramente la necessità di un rapporto stretto con il cittadino attraverso l’approfondito colloquio e la necessità dell’utilizzazione di tutto il tempo necessario per garantire i risultati attesi (e di questo aspetto i medici con profilo “gestionale” non possono non tenere conto nella piani-ficazione delle attività dei Colleghi clinici). Gli articoli 21 e 19 del CD (come del resto molti altri articoli del Codice di Deontologia medica) si possono anche considerare come un interessante esempio di trasposizione in termini deontologici di obblighi giuridici. Il primo comma dell’articolo 21 (ed in un certo senso anche dell’articolo 19), laddove sancisce il dovere del medico di

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Manuale della Professione Medica116

«garantire al paziente impegno e competenza professionale», opera infatti in termini sintetici ed efficaci una individuazione del modello comportamentale in grado di evitare al medico ciò che in campo giuridico è la responsabilità per colpa professionale che, come è noto, può derivare da negligenza, imperizia o imprudenza.

La cultura tecnica evidentemente ha prodotto molte specializzazioni e così facendo ha favorito l’incremento degli standard di benessere dell’uomo malato, ma ne ha sovente frantumato l’identità e quindi i legami e le alleanze affettive e cognitive tra chi cura e chi è curato. Da un paio di decenni la sanità è sollecitata da un grande processo di cambiamento, determinato dall’impatto delle nuove tecnologie mediche e dall’introduzione di nuovi criteri di gestione, responsabilità ed economicità.

È ora necessaria una nuova formulazione culturale del ruolo del medico, che consideri le sue competenze tecnico-specialistiche non il fine dell’azione professionale, ma il mezzo per il benessere biologico e psicologico della per-sona. Le strutture ed i servizi sanitari non devono essere organizzati solo per rispondere alle esigenze professionali di chi lavora, ma per soddisfare le aspet-tative delle persone per le quali lavorano.

L’umanizzazione della sanità non consiste pertanto in una riduttiva idea di marketing relazionale, favorita per esempio dalle attività di customer satisfaction, ma da un profondo riesame del rapporto tra etica, competenza, partecipazione e responsabilità del risultato finale.

Art. 6 - Qualità professionale e gestionale

Il medico agisce secondo il principio di efficacia delle cure nel rispetto dell’au-tonomia della persona tenendo conto dell’uso appropriato delle risorse.Il medico è tenuto a collaborare alla eliminazione di ogni forma di discrimina-zione in campo sanitario, al fine di garantire a tutti i cittadini stesse opportu-nità di accesso, disponibilità, utilizzazione e qualità delle cure.

«La Qualità non è facilmente definibile ma è immediatamente percepibile», questo perché come è difficile definirla così è facile percepirla nel clima, nei comportamenti, nelle voci, nei volti, negli occhi, nell’ordine, nella risposta, nella disponibilità di chi lavora. La qualità non è infatti casuale ma è il risul-

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3. Doveri del medico e diritti del cittadino 117

tato di una precisa volontà organizzativa e di una gestione attenta. La qualità gestionale non garantisce soltanto la qualità dei servizi erogati agli utenti, ma si occupa di tutto il funzionamento del sistema erogatore. Una gestione che offre solamente dei buoni servizi, ma tralascia l’economicità dell’azienda, l’efficienza e la sostenibilità a lungo termine non è una gestione di qualità.

Il Codice di Deontologia medica tratta l’argomento nell’articolo 6, in modo tanto conciso quanto efficace.

Qualità gestionale

È rivolta al perseguimento, a tutti i livelli e con il coinvolgimento di tutti, del miglioramento continuo della qualità tecnica e professionale dei servizi erogati, per raggiungere il migliore soddisfacimento delle aspettative dell’utenza.

In tal senso le priorità gestionali individuate sono legate alle tre dimensioni della qualità condivise dalla comunità scientifica ed istituzionale in ambito sanitario:

1. qualità come percepita dall’utente, intesa come “qualità del servizio”, collegata al modo in cui i singoli utenti la percepiscono in relazione alle loro aspetta-tive; si misura con indicatori legati all’affidabilità, alla capacità di rassicura-zione, alla tempestività ed accessibilità del servizio ed ai tempi di attesa;

2. qualità tecnico-professionale, correlata alla correttezza tecnica e all’appropria-tezza delle prestazioni; si misura con indicatori di sistema, processo ed esito legati all’autovalutazione;

3. qualità organizzativa, riferita al razionale utilizzo delle risorse interne sia nei processi sanitari primari, sia nei processi di supporto; si misura con indi-catori di processo e indicatori legati al raggiungimento degli obiettivi di budget.

Metodologie e strumenti. Il carattere multidimensionale della qualità rende conto della pluralità di metodologie sino ad oggi proposte per la sua gestione (Accreditamento istituzionale, Certificazione ISO 9001, Accreditamento pro-fessionale, EFQM, ecc.); il Sistema Qualità può essere sviluppato utilizzandole indifferentemente in relazione agli obiettivi che si vogliono privilegiare.

Questo vuol dire che un arroccamento in difesa di questo o quel modello, di questo o quello strumento potrebbe lasciare il tempo che trova se lascia spazio alla finalità rispetto al metodo. Come dire… qualunque percorso e/o metodo può essere valido se l’obiettivo che si prefigge è quello di un miglioramento misurabile.

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Infatti tutti i sistemi di qualità “maturi” si assomigliano e richiedono:

1. Approccio sistemico (sistema di gestione della qualità).2. Decisioni basate su dati di fatto (un sistema informativo efficiente ed efficace).3. Miglioramento continuo come obiettivo permanente dell’organizzazione

(radicato e sistematico, non occasionale)… e quindi dei professionisti… 4. Utilizzare al meglio le risorse disponibili.

Approccio sistemico (sistemA di gestione dellA quAlità)

Cosa vuol dire approccio sistemico?«Un sistema è un insieme di elementi che interagiscono per un unico fine».

Un SISTEMA non è una semplice collezione di elementi.Facciamo un esempio: quando motore, carburante, ali, fusoliera, carrello

e così via vengono messi insieme nel modo giusto, il complesso diventa un aeroplano capace di volare; ma nessuna delle sue parti, da sola, è in grado di farlo. L’aereo che vola è un sistema. A pensarci solo un attimo nella moderna sanità accade la stessa cosa.

Sistema qualità: insieme di tutti gli elementi che in una organizzazione interagiscono per garantire la qualità (in una ASL: formazione, ingegneria cli-nica, controllo di gestione, ecc., UU.OO. cliniche, UU.OO. diagnostiche, ecc.). Ma anche la medicina di famiglia o la pediatria o la specialistica ambulatoriale ecc. interagiscono con le altre parti del sistema sanitario.

Un sistema di gestione della qualità deve essere in grado di governare e monitorare, attraverso attività coordinate e in maniera stabile, l’insieme di tutti questi elementi reciprocamente correlati, orientandoli verso il miglioramento continuo della qualità.

Un altro esempio di sistema, il corpo umano: l’organismo si sviluppa e rimane in vita grazie alla interazione fra i vari organi ed apparati. Per com-prendere il funzionamento del corpo, la medicina non si limita a studiare come sono fatti i singoli organi (anatomia), ma si interessa di come essi interagiscono fra loro (fisiologia). Pertanto, come una malattia di un organo compromette la salute dell’individuo, così un settore aziendale inefficiente (anche se apparente-mente “lontano”) procura danni all’intera impresa. La buona salute dei cittadini e dell’azienda è dunque una questione che riguarda tutti i settori e tutti i profes-sionisti. Il corretto funzionamento di un sistema dipende da tutte le sue parti.

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3. Doveri del medico e diritti del cittadino 119

L’implementazione di un sistema di gestione della qualità richiede l’inte-grazione di tutti gli attori del sistema e pertanto è necessario che tutti abbiano chiari, indipendentemente dalla specifica posizione ricoperta nel sistema, quali siano la mission, gli obiettivi, le funzioni e le responsabilità e siano in grado di renderne conto agli altri.

Noi medici dobbiamo ricordare di non essere “soli” e pertanto dobbiamo ren-dere conto (accountability delle culture anglosassoni) non solo ai “nostri” pazienti ma anche a tutti gli altri attori che intervengono nel percorso assistenziale.

L’idea, invero un po’ ingenua, che compiere bene il proprio pezzo di attività sia sufficiente per giungere ad un buon risultato deve essere, laddove ancora presente, rapidamente abbandonata.

Il sistema nel suo complesso può essere paragonato, con una metafora, ad una catena, la cui forza (in termini di efficacia, efficienza, outcome ecc.) corri-sponde a quella dell’anello più debole.

Se ad esempio la radiologia o il laboratorio non rispondono nei tempi o per la qualità dei referti alle richieste dei clinici, ciò potrebbe pregiudicare la qualità finale dell’assistenza. Ma è anche vero che se le richieste di prestazioni diagno-stiche dei clinici non sono appropriate (ad esempio per ragioni di cosiddetta “medicina difensiva”) si crea una domanda eccessiva che induce inefficienze nella erogazione delle prestazioni (senza contare tutte le altre criticità per la tenuta del sistema ed omettendo, per ovvietà, le ripercussioni in alcuni casi anche sulla salute dei pazienti).

Allo stesso modo se l’obiettivo è praticare la trombolisi a tutti i pazienti con ictus ischemico entro sei ore, tutti i professionisti devono integrarsi per permettere il raggiungimento di tale obiettivo (dal medico di medicina generale al medico dell’emergenza territoriale, al medico del Dipartimento di Emer-genza, al radiologo, neurologo ecc.). Chiunque non svolge adeguatamente la sua parte nel processo comprometterà la qualità finale della prestazione e di conseguenza la salute del paziente.

Quindi relativamente ad ogni attività e/o percorso di diagnosi e cura devono essere esplicitati obiettivi, tipologia e volume dell’attività, responsabilità attribu-ite, risorse destinate, tempi di realizzazione, indicatori di verifica, ecc.

Il perché dell’approccio sistemico

«Essendo tutte le cose causanti e causate, aiutate e adiuvanti, mediate e immediate, e tutte essendo legate da un vincolo naturale e insensibile che uni-

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sce le più lontane e le più disparate, ritengo sia impossibile conoscere le parti senza conoscere il tutto, così come è impossibile conoscere il tutto senza cono-scere particolarmente le parti» (Pascal).

decisioni bAsAte su dAti di fAtto (un sistemA informAtivo efficiente ed efficAce)

Dati e informazioni certe portano a decisioni ed interventi efficaci.Sei bravo? dimostralo…!! «Quando la valutazione dei risultati non è basata su metodi scientifici [...]

non c’è modo per distinguere un chirurgo da un geniale ciarlatano». «Ogni ospedale dovrebbe seguire ciascun paziente abbastanza a lungo per

verificare il successo del trattamento e, in caso contrario, ricercarne le cause per evitare fallimenti simili nel futuro (Ernest Amory Codman)».

Qualsiasi organizzazione deve avere un set di indicatori che gli permetta di monitorare la qualità delle proprie prestazioni, individuare eventuali criticità e prendere le decisioni giuste.

Quindi:Responsabilizzazione: in particolare il perseguimento di una buona qualità

dell’assistenza non è un generico compito professionale del singolo operatore, ma un impegno dei team di operatori nel loro insieme, diretta conseguenza del quale vi è la necessità di, e la disponibilità a, sottoporsi a forme di controllo e monitoraggio delle proprie prestazioni secondo principi di valutazione profes-sionalmente condivisi.

migliorAmento continuo come obiettivo permAnente dell’orgAnizzAzione (rAdicAto e sistemAtico, non occAsionAle)... e quindi dei professionisti...

MCQ (Monitoraggio Continuo della Qualità): «un insieme di attività dirette a tenere sotto controllo e a migliorare i processi e gli esiti. Fanno parte di un sistema di MCQ il monitoraggio di processi ed esiti importanti mediante un sistema di indicatori, l’effettuazione di progetti di MCQ, lo sviluppo o l’adat-tamento e l’aggiornamento di procedure organizzative e di linee-guida profes-sionali e la verifica della loro applicazione (Morosini e Perraro, 2001)». I medici DEVONO monitorare il grado di implementazione delle procedure e delle linee-guida EBM attraverso la programmazione e l’effettuazione di audit clinici e verifiche interne. Da questo monitoraggio continuo vengono evidenziate e

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trattate tutte le criticità rilevate nell’ottica del miglioramento continuo della qualità e sicurezza.

È indispensabile ormai assumere il metodo PDCA (Plan – Do – Check – Act) in ogni settore espressione della professione.

I processi di autovalutazione e di autoregolamentazione professionale rap-presentano peraltro i concetti chiave della clinical governance.

utilizzAre Al meglio le risorse disponibili

Nei servizi sanitari, come in generale nei servizi alla persona, le risorse più importanti sono rappresentate dalle risorse umane, quindi utilizzare le risorse umane per le loro qualità umane: tutti i professionisti possono e devono essere coinvolti non dando niente per scontato:

– informazione e comunicazione continua e aperta;– formazione ed addestramento adeguati; – politica dei riconoscimenti (sistema incentivante);– valutazione clima interno.

«…ilsegretodelsuccessostanellaresponsabilizzazionedituttoilpersonalechiamatoamettereal serviziodell’aziendanonsolo la“manod’opera”maanche ilproprio“cervello”eilproprio“cuore”…»

Tratto da Verso la Qualità di Andrea Gardini

Nelle strutture sanitarie (ma anche nei professionisti che non operano in strutture sanitarie) la motivazione che sostiene la maggior parte degli opera-tori è legata al senso del dovere, alla consapevolezza di aiutare il prossimo, di operare con e su delle persone che sono esseri umani condizionati dalla sofferenza e dalla paura. Questi valori devono essere sostenuti e mai messi in discussione, perché nessun modello gestionale per la qualità potrà in alcun modo sostituirli.

Cultura e valori da perseguire, incentivare e sostenere:

Trasparenza, Dedizione, Lealtà, Competenza, Capacità di lavorare insieme, Altruismo altrimenti definite nontechnicalskills.

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Qualità professionale

Se la qualità gestionale va distinta dalla qualità percepita, cosa diversa è per la qualità professionale che – in quanto essenza stessa della professione – deve interessare tutti i medici e ciascun medico allo stesso tempo. Mentre accade spesso di verificare opinioni differenti su chi debba essere preposto alla gestione dei servizi sanitari ed in che modo, con particolare riferimento alla figura del medico-manager, non pare esservi dubbio alcuno sulla neces-sità che tutte le caratteristiche che trasformano una buona prestazione in una performance “di qualità” possano e debbano essere patrimonio di tutti i pro-fessionisti. Nel recente passato si è fatto riferimento alla necessità di creare un ambiente organizzativo adeguato a favorire la fornitura di servizi sanitari di alta qualità definita con il termine di clinical governance.

Nel Regno Unito, laddove il concetto è nato, la clinical governance viene definita come «il contesto in cui i servizi sanitari si rendono responsabili del miglioramento continuo della qualità dell’assistenza e mantengono elevati livelli di prestazioni creando un ambiente che favorisce l’espressione dell’ec-cellenza clinica» (liberamente tradotto da Afirst class service, Department of Health, 1998).

La clinical governance si è diffusa nel Regno Unito, a cominciare dall’avvento del governo laburista nella seconda metà degli anni ’90, come cambiamento radicale del NHS (National Health Service). Questa emergente forma di governo della sanità desiderava ricondurre al centro del sistema la qualità pro-fessionale dei servizi sanitari, rimasta in ombra dopo un decennio di prevalente attenzione al controllo della spesa. La clinical governance si basa su due dimen-sioni fondanti: la concezione di sistema e l’integrazione delle istituzioni, delle strutture organizzative e degli strumenti clinici e gestionali.

Nasce dalla constatazione che gli approcci alla qualità di natura prettamente manageriale non hanno avuto un grande impatto sui professionisti, mentre quelli di natura clinica (basati sull’aderenza alle regole professionali) tendono a respingere l’innovazione organizzativa. Il fatto che la visione manageriale e quella clinica tenderebbero ad essere intrinsecamente differenti, ha impe-dito uno sviluppo armonico del concetto di qualità. La clinical governance viene intesa come un processo di sviluppo della mentalità delle persone e dell’or-ganizzazione, in cui management e professionalità giungono a concordare regole e misure adeguate sulla base dell’esperienza e dei risultati dei profes-

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sionisti, punto di partenza per il miglioramento. Si vedono quindi necessari sia la gestione della qualità delle prestazioni professionali che la qualità gestio-nale. Una qualità prevalentemente gestionale riguardante solo l’organizzazione si traduce in una gestione attenta ma eccessivamente burocratica e priva di attenzione per la qualità delle prestazioni. D’altro canto una forte ed esclusiva attenzione alla qualità delle prestazioni non supportate da una valida qualità gestionale determina strutture attente ai comportamenti ed alle spontaneità a tutti i costi, ma incapaci di attuare un’adeguata organizzazione. Si tratta di un processo costante attraverso il quale i diversi interessi che tenderebbero a con-fliggere trovano accomodamenti (o mediazioni) e nel quale si possono avviare virtuosi processi cooperativi.

La qualità professionale impone l’esigenza che efficacia e appropriatezza clinica diventino parte predominante dei criteri che sono alla base delle scelte operative e che il successivo monitoraggio, indirizzo e regolazione dei processi assistenziali sia effettuato sulla base degli esiti a breve e lungo termine.

Art. 70 - Qualità delle prestazioni

Il medico dipendente o convenzionato deve esigere da parte della struttura in cui opera ogni garanzia affinché le modalità del suo impegno non incidano negativamente sulla qualità e l’equità delle prestazioni nonché sul rispetto delle norme deontologiche. Il medico deve altresì esigere che gli ambienti di lavoro siano decorosi e adeguatamente attrezzati nel rispetto dei requisiti previsti dalla normativa compresi quelli di sicurezza ambientale. Il medico non deve assumere impegni professionali che comportino eccessi di prestazioni tali da pregiudicare la qualità della sua opera professionale e la sicurezza del malato.

Tutti i medici pertanto hanno come mission quella di rispondere ai bisogni di salute della popolazione fornendo cure sicure e di qualità. A tal fine devono “routinariamente” garantire:

1. L’efficacia e l’efficienza delle prestazioni.2. L’efficienza e l’appropriatezza organizzativa.3. La tempestività e la continuità delle cure.

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4. L’accessibilità e l’equità.5. La soddisfazione degli utenti.6. Responsabilizzazione e miglioramento continuo della qualità.

L’efficacia e l’efficienza delle prestazioni (fare solo ciò che è utile a chi ne ha veramente bisogno)

Indirizzi generali e strumenti:

– possedere uno spirito critico sia nei confronti della propria pratica profes-sionale, sia delle evidenze scientifiche;

– essere capaci di ricercare, valutare e applicare le migliori evidenze scientifi-che (EBP core-curriculum);

– valutare sempre il profilo beneficio-rischio degli interventi sanitari;– essere disponibili ad implementare linee-guida Evidence Based Practice (EBP)

e a tradurle in percorsi diagnostico-terapeutici condivisi (condivisione mul-tidisciplinare ed inter-professionale, ecc.);

– capacità di monitorare continuamente e in maniera sistematica la propria pratica professionale (ad esempio attraverso gli audit clinici e le M&M).

Appare del tutto evidente (anche se purtroppo non sempre scontato) che quando ci sono azioni di efficacia dimostrata (prove incontrovertibili e uni-versalmente condivise) queste devono essere adottate (ad esempio igiene delle mani, profilassi tromboembolica, profilassi antibiotica, check list, processo di identificazione del paziente, del sito chirurgico, del lato, ecc.). Ancora una volta è facile dimostrare come la contravvenzione di corrette pratiche professionali ha una ricaduta (oltre che deontologica) molto concreta in termini di respon-sabilità professionale (civile, penale e amministrativa).

L’efficienza e l’appropriatezza organizzativa (utilizzare al meglio le risorse disponibili)

Indirizzi generali e strumenti:

– utilizzare al meglio le “poche” risorse disponibili, un dovere etico in un contesto di risorse limitate (ma anche un preciso dovere deontologico come è scritto all’art. 6 «tenendo conto dell’uso appropriato delle risorse»);

– “condivisione e responsabilizzazione”: tutti i professionisti della sanità devono rendere conto di come vengono investite ed utilizzate le risorse in

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sanità. Efficienza operativa ed economica (efficienza interna): far in modo che siano eseguiti gli interventi voluti con risparmio di risorse (tempo, denaro). Efficienza allocativa (efficienza esterna): far in modo che siano finanziati gli interventi più convenienti, con un rapporto efficacia/costi più elevato;

– Healthcaretecnologyassessement: per decidere “cosa fare” (necessità di valutare l’appropriatezza delle procedure diagnostico-terapeutiche, delle tecnologie da utilizzare nell’assistenza e dei modelli organizzativi, con l’obiettivo di individuare l’allocazione ottimale delle risorse disponibili);

– assicurare il percorso di cura attraverso un approccio centrato sul paziente e sull’insieme del suo percorso assistenziale attraverso la condivisione mul-tidisciplinare, la responsabilizzazione e la partecipazione.

Raramente, infatti, un problema di salute in una organizzazione sanitaria è trattato da un solo professionista o da professionisti di una sola disci-plina. Per lo più vi contribuiscono più professionisti della stessa disciplina, più discipline, più categorie professionali, più unità organizzative e talvolta anche più organizzazioni. Più aumentano la varietà e la specializzazione dei contributi, più sono le “interfacce”, più diventa utile l’approccio per processi per ridurre la complessità e ottimizzare l’uso delle risorse;

– monitorare continuamente e in maniera sistematica la propria pratica profes-sionale attraverso audit organizzativi (o verifiche interne o audit di sistema).

Un tema strettamente correlato è rappresentato dalla economia sanitaria e farmaco-economia («la salute non ha prezzo ma ha dei costi»).

«L’economia è la scienza che studia come le comunità usano le risorse scarse per produrre beni utili e distribuirli tra i membri della comunità» (Samuelson).

Economia sanitaria: rappresenta l’applicazione della scienza economica al settore sanitario. Perché «le risorse limitate devono essere allocate in modo tale da massimizzare i benefici e allo stesso tempo assicurare che i servizi sanitari siano ripartiti in modo giusto (priorità ed equità)» (Mooney, 1996).

La farmaco-economia, branca dell’economia sanitaria, è una nuova disci-plina che si occupa di valutare diversi interventi sanitari, almeno uno dei quali di carattere farmacologico, sotto il profilo economico. Le conseguenze cliniche (efficacia) e quelle economiche (costi) di ogni intervento sono alla base di ogni studio di farmaco economia:

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– Analisi costo-efficacia (ACE).– Analisi costo-utilità (ACU).– Analisi costo-beneficio (ACB).– Analisi di minimizzazione dei costi (AMC).

Il fine della farmaco-economia non è (e non deve essere) quello di ridurre la spesa sanitaria bensì di individuare la priorità dell’allocazione di risorse scarse fra utilizzi alternativi (razionalizzare e non razionare).

La tempestività e la continuità delle cure (la risposta giusta al momento giusto: il paziente al centro della organizzazione)Indirizzi generali e strumenti:

– definire percorsi di cura integrati, con chiara identificazione di chi fa che cosa, come, quando;

– garantire il raccordo tra ospedale e territorio, l’integrazione tra le varie pro-fessionalità e la continuità dei percorsi sanitari;

– prediligere l’approccio per processi;– conoscere e rispettare le competenze, le responsabilità, gli incarichi dei colleghi;– conoscere ed osservare norme, regole, linee-guida, codici di condotta per-

tinenti con la propria professione.L’accessibilità e l’equità (garantire agli utenti un accesso equo al servizio di cui hanno bisogno)Questo tema è particolarmente specifico per i medici (ma non soltanto

loro) che si occupano di macro organizzazione e/o per quelli impegnati nella proposta, programmazione e attuazione delle politiche sanitarie.

Indirizzi generali e strumenti:

– assicurare parità di trattamento, a parità di condizione del servizio prestato, a prescindere dall’area geografica di residenza e/o dalla fascia sociale di appartenenza del cittadino. Maggiore accesso andrebbe garantito a chi ha più bisogno sulla base di criteri espliciti (in presenza di limitate risorse, l’accesso deve essere maggiore per chi ha più necessità);

– programmazione sanitaria: distribuire in modo razionale sul territorio le strutture di assistenza sanitaria al fine di garantire uguale accesso ai servizi disponibili a fronte di uguali bisogni;

– equità nell’accesso alle informazioni. L’equità è un principio fondante del Ser-vizio Sanitario pubblico. Vi sono evidenze che dimostrano che spesso chi è più svantaggiato socialmente – paradossalmente – ha minore accesso ai servizi

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sanitari efficaci e maggiore accesso ai servizi non efficaci e che alla base di que-sto fenomeno vi è spesso una differenza nella conoscenza ed informazione;

– sanità d’iniziativa: le comunità più a rischio sono anche quelle che usu-fruiscono di meno della gamma completa di servizi preventivi secondo la cosiddetta “legge inversa di prevenzione”;

– garantire imparzialità, che si concretizza in un comportamento di neutralità rispetto alle diverse tipologie di cittadini utenti, e nell’impegno ad erogare prestazioni sanitarie evitando ingiustificate ‘discriminazioni’ nell’osser-vanza della pari dignità tra gli utenti.

La soddisfazione degli utenti (ascolto dell’utente)

Indirizzi generali e strumenti:

– fornire informazioni, ove disponibili, basate su prove di efficacia, in grado di aiutare gli utenti a comprendere il percorso assistenziale e metterli in grado di partecipare attivamente ai percorsi di diagnosi e cura (EMPOWERMENT);

– metodo story-telling: raccogliere “LE STORIE” del paziente per avere opportunità vere di capire la percezione dell’utente;

– medicina narrativa (NBM, Narrative Based Medicine): prendersi cura della gente tenendo conto del personale vissuto esperienziale della propria con-dizione umana;

– saper integrare EBM e NBM: «L’EBMriduce (nonannulla) l’incertezzadelleconoscenze … la NBM facilita la relazione e la partecipazione delle Persone»;

– tener conto dell’esperienza degli utenti per costruire percorsi davvero condivisi.

WorldHealthOrganization Declaration of ALMA-ATAInternational Conference on Primary Health Care 6-12 September 1978

ART.4Lepersonehannoildirittoeildoveredipartecipareindividualmenteecollettivamentealla progettazione e alla realizzazione dell’assistenza sanitariadicuihannobisogno

Responsabilizzazione e miglioramento continuo della qualità (valutazione, monitoraggio e MCQ… chi si ferma è perduto!)

Indirizzi generali e strumenti:

– definire standard professionali di elevato valore tecnico (proceduralizzare in protocolli, linee-guida, ecc., la conoscenza scientifica EBM; identificare ed utilizzare standard riconosciuti e condivisi di best practice);

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– documentare la qualità delle prestazioni e dei servizi erogati attraverso cri-teri di valutazione, indicatori e standard di riferimento appropriati. Con-fronto sistematico tra ciò che viene fatto (indicatore) e quanto si dovrebbe fare (standard) attraverso audit clinici, M&M e verifiche interne;

– attuare la metodica del PDCA (Plan (pianifico), Do (faccio), Check(misuro), Act (miglioro)…) su tutti i processi per garantire il MCQ (Miglioramento Continuo della Qualità): stabilire un sistema di misurazione continua della qualità a livello di processo, struttura, esito, soddisfazione dell’utenza, costi, ecc. al fine di perseguire il circolo virtuoso del MCQ.

Una sintesi perfetta del concetto di qualità in sanità:

«Nessunaoccasione,responsabilitàodoverepiùimportantepuòcapitareaunessereumanochequellodidiventaremedico.Nellacuradichisoffreeglinecessitadicom-petenza tecnica,conoscenza scientifica e umana comprensione.Chiècapacediusarequestedoticoncoraggio,umiltàebuonsensoassicureràunserviziosenza uguali al suo occasionale compagno … Dalmedicocisiaspettatatto,attenzioneecomprensioneinquantoilpazientenonèunasemplicecollezionedisintomi,segni,funzionialterate,organilesiosensazionidisturbate.Eglièinveceunessereumanoconpaureesperanzechecercasollievo,aiutoeassicurazione…Perilmedico…nulladell’uomoèstranooripugnante…ilveromedicohauninte-resseprofondoperilsaggioeperilpazzo,perl’orgogliosoeperl’umile,perl’eroestoicoeperilvagabondolamentoso:eglisiprendecuradellagente…».

[dalla Prefazione alla 1° edizione dell’Harrison]

Art. 14 - Sicurezza del paziente e prevenzione del rischio clinico

Il medico opera al fine di garantire le più idonee condizioni di sicurezza del paziente e contribuire all’adeguamento dell’organizzazione sanitaria, alla pre-venzione e gestione del rischio clinico anche attraverso la rilevazione, segnala-zione e valutazione degli errori al fine del miglioramento della qualità delle cure.Il medico a tal fine deve utilizzare tutti gli strumenti disponibili per compren-dere le cause di un evento avverso e mettere in atto i comportamenti neces-sari per evitarne la ripetizione; tali strumenti costituiscono esclusiva riflessione tecnico-professionale, riservata, volta alla identificazione dei rischi, alla corre-zione delle procedure e alla modifica dei comportamenti.

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Basta la semplice lettura di questo articolo, introdotto per la prima volta nell’ultima revisione del Codice di Deontologia medica del dicembre 2006, per cogliere in tutta la sua evidenza l’importanza che, unanimemente, il Con-siglio nazionale della FNOMCeO ha inteso attribuire al tema della sicurezza delle cure traducendo in chiave moderna quel primum non nocere di ippocratica memoria.

Fino a non molti anni or sono sembrava quasi strano parlare di sicurezza in sanità e la cultura dell’errore era indissolubilmente legata a quella della colpa accompagnandosi sempre a riprovazione da parte della stessa comunità pro-fessionale oltre che, ovviamente, a riprovazione sociale. Negli ultimi anni vi è stato ed è tuttora in corso un profondo mutamento culturale rispetto al tema dell’errore sempre più visto con occhio proattivo (ovvero cosa fare per evitare che accada) ma anche con sguardo esperenziale positivo (ovvero quali insegna-menti è possibile trarre da quanto è accaduto).

Senza la pretesa di trattare in questa sede un argomento che per sua natura mal si concilia con una sintesi estrema, è tuttavia possibile richiamare per spot gli indirizzi generali e strumenti:

– promuovere la cultura della sicurezza in tutti gli operatori, a cominciare dalla formazione;

– adeguare le strutture a tutti gli standard strutturali, tecnologici ed organiz-zativi previsti dalle normative nazionali e regionali (Autorizzazione, Accre-ditamento istituzionale e di eccellenza);

– attuare e, se possibile, attestare le Buone Pratiche per la sicurezza del paziente;– garantire la sicurezza dei percorsi sanitari e prevenire i rischi derivanti da

comportamenti non conformi a standard condivisi, soprattutto di tipo pro-fessionale e/o organizzativo;

– valutare accuratamente le criticità e le situazioni a rischio e conseguente-mente, individuare ed adottare tutti gli accorgimenti, atti a minimizzare gli eventuali rischi individuati;

– implementare le metodologie e gli strumenti della Gestione del Rischio Clinico;– identificare le aree a rischio (Incident reporting, Eventi Sentinella, Analisi

dei reclami, Analisi del Contenzioso e della sinistrosità, Dati amministrativi attraverso le SDO, Studio delle cartelle cliniche, ecc.);

– analizzare i rischi (Audit Clinici, M&M, RCA e FMEA);

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– attuare interventi per la sicurezza (oltre le già citate Buone Pratiche per la sicurezza del paziente anche con l’adozione di check list, scheda unica di terapia, procedure di corretta identificazione del paziente, del lato e del sito chirurgico ecc.);

– monitorare continuamente (verifiche interne) sia i near miss che gli eventi ed eventi avversi; monitorare anche la propensione del sistema (compliance) a segnalare e valorizzare queste esperienze.

La qualità delle prestazioni (che presuppone competenza, qualità profes-sionale e gestionale, sicurezza ecc.) ha rappresentato da sempre una necessità del genere umano e non una opzione fra le tante.

La spinta verso la qualità deriva da una insoddisfazione di base unita alla necessità di usare sempre meglio le risorse che con grande fatica si riesce a recuperare o ad avere a disposizione.

Questo è stato il meccanismo che in tutti i campi del genere umano ha portato al progresso: non accontentarsi dei risultati raggiunti anche se questi appaiono soddisfacenti o addirittura buoni.

Questa è la sfida continua che in medicina, come nella vita, dobbiamo accettare e, se possibile, vincere.

Art. 33 - Informazione al cittadino

Il medico deve fornire al paziente la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostico-terapeu-tiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate.Il medico dovrà comunicare con il soggetto tenendo conto delle sue capa-cità di comprensione, al fine di promuoverne la massima partecipazione alle scelte decisionali e l’adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche.Ogni ulteriore richiesta di informazione da parte del paziente deve essere soddisfatta. Il medico deve, altresì, soddisfare le richieste di informazione al cittadino in tema di prevenzione.Le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazione e sofferenza alla persona, devono essere fornite con prudenza, usando terminologie non traumatizzanti e senza escludere elementi di speranza.La documentata volontà della persona assistita di non essere informata o di delegare ad altro soggetto l’informazione deve essere rispettata.

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3. Doveri del medico e diritti del cittadino 131

Art. 34 - Informazione a terzi

L’informazione a terzi presuppone il consenso esplicitamente espresso dal paziente, fatto salvo quanto previsto all’art. 10 e all’art.12, allorché sia in grave pericolo la salute o la vita del soggetto stesso o di altri.In caso di paziente ricoverato, il medico deve raccogliere gli eventuali nomi-nativi delle persone preliminarmente indicate dallo stesso a ricevere la comu-nicazione dei dati sensibili.

Sin dall’antichità Ippocrate aveva esattamente individuato la finalità dell’atto medico e la sua legittimità; basti ricordare, infatti, ciò che quest’ultimo affermava: «Medico neminem laedere est propositum».

Con l’evolversi delle conoscenze in campo medico e attraverso gli orien-tamenti giurisprudenziali in merito si è andato consolidando il concetto di rapporto medico/paziente alla pari ove il paziente non è più colui che si affida incondizionatamente alle cure del medico, ma al contrario chiede e pretende da questi di ottenere le informazioni necessarie affinché possa decidere, con gli elementi a disposizione ed in piena autonomia, se e a quale trattamento aderire.

È assodato quindi il concetto che la liceità dell’atto medico sia subordinata al consenso dell’avente diritto cioè il paziente stesso o in alcuni casi di soggetto minore, interdetto o inabilitato, da chi detiene il potere di legale rappresentante (genitore, tutore, giudice tutelare); salvo casi in cui ricorra lo “stato di necessità” per cui il medico è chiamato ad agire tempestivamente per salvare la vita del paziente anche senza il consenso del paziente o dei suoi legali rappresentanti.

La legislazione italiana manca di una normativa sul consenso all’atto medico ed è quindi necessario far riferimento ad alcuni articoli di legge per capire dove risieda l’obbligatorietà da parte del medico di richiedere il consenso ai tratta-menti stessi.

La liceità dell’atto medico trova oggi legittimazione anzitutto nel dettato costituzionale dell’ art. 32 secondo il quale «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» e stabilisce che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. Parimenti, l’art. 13 della Costituzione afferma che «la libertà personale è inviolabile», rafforzando quindi il dato di indipendenza dell’individuo nelle scelte che lo riguardano personalmente.

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Ciononostante l’art. 5 cc stabilisce che «gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente dell’inte-grità fisica», di conseguenza molti trattamenti medici potrebbero essere consi-derati illeciti in quanto procurano una lesione dell’integrità fisica del soggetto configurando l’evento “lesione di un diritto”. Di contro l’art. 50 cp ammette che «non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto con consenso della persona che può validamente disporne», ne deriva che l’autorizzazione del paziente ad una diminuzione della propria integrità fisica data validamente rende l’atto medico legittimo. Il consenso ex art. 50 cp riguarda solo diritti di cui la persona può validamente disporre e, evidentemente, rinunciare alla propria integrità fisica al fine di raggiungere un bene superiore cioè il miglio-ramento dello stato di salute proprio o di quello altrui, si pensi agli espianti da vivente, è un diritto disponibile: il primo perché procura un beneficio al paziente, il secondo in quanto è previsto dalla legge.

I sanitari adempiono a questo dettato attraverso le attività di prevenzione, di diagnosi, di terapia e di riabilitazione mirate al controllo, alla preservazione e al recupero della salute individuale e collettiva.

Il consenso del paziente entra quindi in gioco ogni qual volta un paziente debba essere sottoposto ad un trattamento sia esso diagnostico, chirurgico o farmacologico e prevede l’accettazione volontaria al trattamento stesso.

Il consenso del paziente costituisce inoltre un elemento essenziale del contratto d’opera professionale che regola i rapporti tra il paziente e il medico. In questo senso l’obbligo di informazione assume importanza nella fase precontrattuale, fase in cui si forma il consenso al trattamento sanitario e in cui si rileva il dovere per i contraenti di comportarsi secondo buona fede (art. 1337 cc).

Il consenso, pertanto, deve sempre essere richiesto in quanto è l’unica espressione che autorizza un qualsiasi atto medico. Altra figura sanitaria che non può essere mai delegata a sostituire il medico in questo compito, ma par-tecipa all’informazione per quanto di sua competenza, è l’infermiere al quale è richiesta una fondamentale opera di assistenza al malato.

L’obbligo dell’informazione è a carico del medico che formula la proposta terapeutica e che dà esecuzione alla stessa. Negli ospedali, poiché i sanitari si avvi-cendano nel rapporto con il paziente, la responsabilità diventa corresponsabilità.

Un consenso privo di informazione completa si può configurare alla stregua

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3. Doveri del medico e diritti del cittadino 133

di un reato di truffa: infatti solo attraverso una completa informazione relativa a tutte le fattispecie dell’intervento medico (diagnosi, prognosi, scopi dell’inter-vento, rischi generici e specifici di ogni fase dello stesso, alternative terapeutiche) il consenso può dirsi espressione piena della volontà del paziente e non semplice e inconsapevole adesione alle direttive del sanitario già intraprese.

La regola generale deve dunque essere quella di fornire tutte le informa-zioni che si ritengono necessarie e utili affinché il paziente possa scegliere con-sapevolmente. Il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) ha orientato verso lo standard soggettivo laddove sostiene che «[…] l’informazione non è fina-lizzata a colmare la inevitabile differenza di conoscenze tecniche tra medico e paziente, ma a porre un soggetto (il paziente) nella condizione di esercitare correttamente i suoi diritti e quindi di formarsi una volontà che sia effettiva-mente tale, in altri termini in condizioni di scegliere».

La radice linguistica della parola consenso si ritrova nelle parole “con” (base semitica, in latino “cano”: comporre, porre insieme, predire) e “sentes” (dall’accadico “sintu”: destino) da cui la lettura del significato di consentes e con-sens cioè “Porre insieme, comporre, predire un destino”.

È compito quindi del medico il quale è custode di conoscenza comporre un legame con il paziente e con il senso della sua sofferenza, della sua malattia o stato morboso, della sua esistenza, della sua personalità.

Consenso deve significare partecipazione, consapevolezza, informazione, libertà di scelta e di decisione delle persone ammalate; deve essere inteso come un momento di quella alleanza terapeutica fondamentale per affrontare la malattia.

L’equilibrato comportamento che il medico assume di caso in caso dipende in modo precipuo dal tipo di rapporto che egli e suoi collaboratori hanno saputo e voluto instaurare con il paziente al fine di conoscere pienamente la sua reale condizione psichica e morale per ottenere un valido consenso.

Una volta concesso il consenso da parte del paziente può essere revocato in qualsiasi momento.

L’assenza del consenso corrisponde a violazione di un diritto del paziente e può configurare, a seconda dei casi, i reati di violenza privata, lesione personale e omicidio preterintenzionale. L’articolo 50 del Codice penale stabilisce la non punibilità di chi lede un diritto, o lo mette in pericolo, con il consenso di chi può validamente disporne. Disattendere a questa norma può comportare il reato di lesioni personali (art. 582) o lesioni personali colpose (art. 590).

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Dei casi di mancato consenso l’esperienza giurisprudenziale ha avuto modo di occuparsi: torna in mente la nota vicenda relativa all’opposizione dei genitori, appartenenti ai Testimoni di Geova, rispetto alla indispensabile trasfusione di sangue nei confronti della loro figlia.

In tale situazione deve ritenersi doveroso da parte del medico, rivolgersi all’autorità giudiziaria, evidenziando la situazione sanitaria del paziente ed il rifiuto del suo rappresentante legale. Sempre che, naturalmente, non sussistano ragioni tanto gravi di urgenza, da non consentire alcun ritardo. È evidente, in tale ultima ipotesi, che il sanitario debba attivarsi immediatamente.

In ordine al rifiuto da parte del paziente stesso, viceversa, i problemi sono ancor più accentuati, anche come conseguenza del totale vuoto normativo, ciò che lascia il medico completamente solo di fronte a scelte di così evidente rile-vanza.

Ad ogni modo il medico dovrà spiegare al suo assistito: quale trattamento (diagnostico, chirurgico o farmacologico) sta proponendo; quali benefici il paziente può attendersi dal trattamento stesso; quali complicanze potrebbero verificarsi in caso di accettazione; a quali rischi per la salute si espone il paziente con un eventuale rifiuto; quali trattamenti alternativi, se ve ne sono, sono dispo-nibili.

Nelle situazioni a prognosi infausta, comunicare con eccessiva crudezza la gravità di una situazione patologica può causare sentimenti di ansia, angoscia e depressione nel malato. Ove non necessario, perciò, il medico non deve com-promettere l’equilibrio psicologico del paziente che, oltre a essere un suo diritto tutelato dalla legge, è un fattore capace di incidere sul decorso della malattia.

Il paziente, tuttavia, ha diritto di chiedere e ricevere informazioni più det-tagliate, oppure può scegliere di non essere informato o delegare una terza persona a ricevere le informazioni ed esprimere il consenso.

Art. 35 - Acquisizione del consenso

Il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente. Il consenso, espresso in forma scritta nei casi previsti dalla legge e nei casi in cui per la particolarità delle prestazioni diagnostiche e/o terapeutiche o per le possibili conseguenze delle stesse sulla integrità fisica si renda opportuna

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3. Doveri del medico e diritti del cittadino 135

una manifestazione documentata della volontà della persona, è integrativo e non sostitutivo del processo informativo di cui all’art. 33.Il procedimento diagnostico e/o il trattamento terapeutico che possano com-portare grave rischio per l’incolumità della persona devono essere intrapresi solo in caso di estrema necessità e previa informazione sulle possibili conse-guenze, cui deve far seguito una opportuna documentazione del consenso.In ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo con-sentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona. Il medico deve intervenire, in scienza e coscienza, nei confronti del paziente incapace, nel rispetto della dignità della persona e della qualità della vita, evitando ogni accanimento terapeutico, tenendo conto delle precedenti volontà del paziente.

Il consenso deve essere quindi espresso liberamente e la forma scritta è obbligatoria nei seguenti casi: terapia con emoderivati e plasmaderivati (DM 15/1/1991, art. 19; DM 1/9/1995, art. 4); espianto di organi (legge 458/1967, art. 2, donazione rene da vivente; legge 91/1999: dissenso all’ espianto da cadavere); sperimentazione clinica; procedimenti diagnostici e terapeutici con grave rischio per la incolumità.

Può definirsi “raccomandata” la forma scritta anche in caso di: atti chirur-gici, procedure invasive terapeutiche o diagnostiche o con mezzi di contrasto, trattamenti oncologici, trattamenti con radiazioni ionizzanti, trattamenti psi-chiatrici di maggior impegno, terapie con elevata incidenza di reazioni avverse, prescrizioni di medicinali al di fuori delle indicazioni ministeriali.

L’articolo 1325 del Codice civile sancisce l’obbligo dell’accordo tra le parti per il perfezionamento del contratto, accordo la cui carenza dà luogo a nullità del contratto stesso (art. 1418).

Nella Convenzione del Consiglio d’Europa, invece, la materia è molto più dettagliata. In particolare il testo afferma: «I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione» (art. 9); inoltre: «Ogni persona ha il diritto di conoscere ogni informazione raccolta sulla propria salute. Tuttavia, la volontà di una persona di non essere informata deve essere rispettata» (art. 10).

Riassumendo, in Italia le norme più esplicite e complete sull’argomento si

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ritrovano nel Codice deontologico del medico, che contiene la disciplina cui ogni professionista si deve attenere nell’esercizio della professione.

Più precisamente in maniera molto dettagliata l’attuale Codice deontolo-gico del 16 dicembre 2006, sancisce al Capo IV (Informazione e consenso), l’obbligo di informazione al cittadino (art. 33) o ai terzi (art. 34), nonché l’ob-bligo di acquisizione del consenso informato del paziente (art. 35) o del legale rappresentante nell’ipotesi di minore (art. 37). Lo stesso Codice deontologico stabilisce poi l’obbligo di rispettare l’autonomia del cittadino anche per quanto riguarda le direttive anticipate (art. 38) nonché i comportamenti da tenere nell’ipotesi di assistenza d’urgenza (art. 36).

Si può pertanto sostenere che sussiste un obbligo diretto, di natura deonto-logica, all’informazione al paziente, nonché all’acquisizione del consenso infor-mato. Obbligo che, ove non ottemperato, potrebbe dar luogo di per sé, indipen-dentemente da eventuali danni in capo al paziente, all’apertura di procedimento disciplinare a carico del sanitario, davanti all’Ordine professionale competente.

Il consenso, per essere valido, deve essere rilasciato esclusivamente dal diretto interessato, salvo alcune eccezioni.

Nel caso in cui il paziente sia minorenne ovvero incapace di intendere e di volere, il valido consenso dovrà esser prestato da chi ne esercita la potestà: i genitori o il tutore legalmente designato, ovvero il rappresentante legale (tutore o curatore) dell’incapace. Il minorenne, però, ha diritto a essere informato e a esprimere i suoi desideri, che devono essere tenuti in considerazione.

Lo stesso vale per la persona interdetta, che ha diritto a essere informata e di veder presa in considerazione la sua volontà. Nel caso in cui il diniego del consenso provenga da un tutore legale il medico ha il dovere di sottoporre la questione all’autorità giudiziaria.

Accade spesso, nel caso di paziente temporaneamente impossibilitato a for-nire il proprio consenso (ad esempio perché in coma), che il medico si rivolga ai prossimi congiunti, chiedendo loro il preventivo consenso ad un intervento di par-ticolare difficoltà. Sotto il profilo strettamente giuridico, e specificamente penale, occorre sottolineare che il consenso dei prossimi congiunti non ha alcun valore.

Nelle ipotesi in cui il paziente non possa prestare alcun valido consenso, pertanto, il medico dovrà assumersi in prima persona ogni responsabilità, e, qualora decidesse di intervenire, non sarà punibile. Sia il Codice penale (art. 54), infatti, sia il Codice deontologico (artt. 8 e 36) prevedono che, in situazioni

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d’emergenza, il medico è tenuto a prestare la sua opera per salvaguardare la salute del paziente.

Il destinatario dell’informazione può non essere esclusivamente il malato nella sua qualità di avente diritto; nel suo stesso interesse, tutto ciò che riguarda il trattamento chirurgico deve essere disponibile per altri medici che, a diverso titolo, possano o debbano proseguire il percorso terapeutico, ovvero valutarne i risultati. Una successiva strategia terapeutica può infatti essere resa necessaria da complicazioni o da concause sopravvenute, ed il chirurgo intervenuto in seconda istanza ha l’assoluta necessità di conoscere perfettamente quanto può essersi verificato nella prima fase di cura.

Un altro importante aspetto è che la persona che deve dare il consenso, deve essere informata inoltre sulle capacità della struttura sanitaria di inter-venire in caso di manifestazione del rischio temuto; il consenso scritto deve essere controfirmato dal paziente e dal medico. Comunque, in caso di ricovero, il consenso deve far parte della cartella clinica.

La rinnovata cultura sociale sul modo di intendere il rapporto medico/paziente ha influenzato anche la giurisprudenza, che ha prima recepito e poi ritenuto fondamentale il principio della obbligatorietà del cosiddetto “con-senso informato”. I principi della Carta Costituzionale e la stessa legge 833/78 hanno fatto da cornice alle diverse stesure dei Codici deontologici ed oggi a precise norme di legge che hanno costruito una giurisprudenza che sempre più ha “allargato” il proprio fronte a favore dei cittadini eliminando la “sacralità” dello stesso ruolo del medico. Quindi, oggi alcune sentenze di Cassazione, hanno individuato che la responsabilità e i doveri del medico non riguardano più solo l’attività propria e dell’eventuale “équipe” che a lui risponde, ma si estende allo stato di efficienza e al livello di dotazioni della struttura sanitaria in cui egli presta la propria attività, traducendosi in un dovere di informazione diretto al paziente, nel rispetto dell’obbligatorietà del “consenso informato”. La Cassazione ha stabilito con sentenza (Cass. civ. sez. III 15/1/1997, n. 364) che il medico non può intervenire senza il consenso informato del paziente, aggiungendo che «se le singole fasi assumono un’autonomia gestionale e pre-sentano varie soluzioni alternative, ognuna delle quali comporti rischi diversi, il suo dovere di informazione si estende anche alle singole fasi e ai rispettivi rischi». Inoltre, la Cassazione con una altra sentenza più recente (Cass. civ. sez. III 16/5/2000, n. 6318) ha stabilito meglio il principio “dell’estensione ogget-

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tiva”: «il principio del consenso informato in vista di un intervento chirurgico o di altra terapia specialistica o accertamento diagnostico invasivo, non riguar-dano soltanto i rischi oggettivi e tecnici in relazione alla situazione soggettiva e allo stato dell’arte della disciplina, ma riguardano anche la concreta, magari momentaneamente carente situazione ospedaliera, in rapporto alle dotazioni e alle attrezzature, e al loro regolare funzionamento, in modo che il paziente possa non soltanto decidere se sottoporsi o meno all’intervento, ma anche se farlo in quella struttura ovvero chiedere di trasferirsi in un’altra». L’omessa informazione sul punto può configurare una negligenza grave, della quale il medico risponderà in concorso con l’ospedale sul piano della responsa-bilità civile, quindi del risarcimento del danno, ed eventualmente anche sul piano professionale, deontologico-disciplinare (Cass. civ. sez. III 30-07-2004, n. 14638).

In ogni caso il principio che nasce da quanto affermato è che il paziente deve essere messo in condizione non soltanto di decidere se sottoporsi o meno all’inter-vento, ma anche se farlo in quella struttura, ovvero chiedere di trasferirsi in un’altra.

Per tali presupposti il modulo di consenso dovrà essere adattato all’attività concretamente svolta dal medico ed alle caratteristiche del singolo paziente.

Il modulo di consenso informato entra a far parte della documentazione clinica del paziente; pertanto, in caso di contestazioni relative al corretto svol-gimento della prestazione compiuta, costituisce un elemento di valutazione della sussistenza o meno della responsabilità professionale del medico.

Come affermato in precedenza, i requisiti di validità del consenso esclu-dono la possibilità di avere un modulo “unico” adeguato a tutti i casi ed a tutti i tipi di intervento.

Nell’acquisizione di un consenso che possa considerarsi lecito e consape-vole nonché valido, sarà opportuno esplicitare tutte le alternative terapeutiche in relazione alla patologia o a i sintomi accusati: per ognuna di queste vanno chiariti i rischi e gli effetti sfavorevoli (in sostanza va spiegato il motivo per cui si è deciso di non scegliere tali tipi di trattamenti); le terapie da effettuare prima del trattamento chirurgico: vanno descritte le cure, anche farmacologiche a cui il paziente dovrà sottoporsi prima dell’intervento, indicandone i benefici e gli effetti indesiderati. Vanno specificati inoltre gli eventuali accorgimenti da adottare in attesa dell’intervento e gli eventuali interventi di altro tipo che potrebbero rendersi necessari od opportuni nel corso dell’intervento presta-

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bilito. Da non sottovalutare affatto le complicanze: vanno indicate tutte quelle che si possono manifestare durante l’intervento, specificando se possibili o probabili in relazione al la patologia ed al singolo paziente. Si dovranno inoltre descrivere gli interventi che sarà necessario eseguire in caso di complicazioni, elencandone i rischi, ma anche gli effetti indesiderati che possono manife-starsi dopo il trattamento chirurgico: complicanze postoperatorie, sintomato-logia dolorosa successiva ed effetti visibili sul segmento corporeo operato. Il paziente dovrà essere meso a conoscenza anche dei trattamenti da effettuare dopo l’intervento chirurgico: il tipo di riabilitazione e il trattamento farmacolo-gico e tutti gli accorgimenti che si dovranno adottare. Infine, il paziente dovrà dichiarare:

a. Di essere pienamente cosciente.b. Di avere letto attentamente il documento.c. Di avere ricevuto dal medico proponente (identificato nel modulo) le spie-

gazioni richieste per la piena comprensione.d. Di averne pertanto compreso interamente il contenuto.e. Di autorizzare l’équipe sanitaria ad effettuare il trattamento sopradescritto.f. Di autorizzare fin da subito gli eventuali interventi alternativi previsti.

Dovrà essere presente ovviamente sul documento sia la firma del medico che quella del paziente, oltre la data comprensiva di giorno, mese, anno.

Art. 37 - Consenso del legale rappresentante

Allorché si tratti di minore o di interdetto il consenso agli interventi diagnostici e terapeutici, nonché al trattamento dei dati sensibili, deve essere espresso dal rappresentante legale.Il medico, nel caso in cui sia stato nominato dal giudice tutelare un ammini-stratore di sostegno deve debitamente informarlo e tenere nel massimo conto le sue istanze.In caso di opposizione da parte del rappresentante legale al trattamento necessario e indifferibile a favore di minori o di incapaci, il medico è tenuto a informare l’autorità giudiziaria; se vi è pericolo per la vita o grave rischio per la salute del minore e dell’incapace, il medico deve comunque procedere senza ritardo e secondo necessità alle cure indispensabili.

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In caso di impossibilità o difficoltà di lettura il documento dovrà essere letto al paziente in presenza di un testimone e sottoscritto da entrambi.

Nel caso di pazienti minori d’età o in stato di incapacità legale (interdetto o inabilitato), salvo la ricorrenza dello stato di necessità, il consenso dovrà essere prestato dal genitore esercente la patria potestà o al giudice tutelare.

In alcuni casi specifici però, ad esempio nel caso dei TSO (trattamento sanitario obbligatorio) cioè quando si realizzano le condizioni per effettuare accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori in tutte quelle situazioni in cui l’interesse della collettività alla salute risulta prevalere sui diritti dell’individuo, la sottoposizione a un trattamento sanitario di un paziente può non essere spontanea o addirittura può avvenire contro la sua volontà. È solo il concreto rischio di danni a terzi a costituire il limite oltre il quale il consenso libero e informato può essere prevaricato e solo in questi casi la potestà di curare può essere considerata alla stregua di un obbligo, tanto per il medico che per il paziente. Lo Stato può legittimamente imporre determinati trattamenti sani-tari ai cittadini, sia non coattivi (quei trattamenti nei quali l’obbligo è sanzio-nato solo indirettamente) che coattivi. Il sanitario, pur vincolato al rispetto della libertà, della dignità e della riservatezza del paziente, non può sottrarsi al rispetto di queste norme, ma ciò non lo autorizza a porre direttamente in essere i procedimenti di coazione, potendo infatti avanzare la proposta alle autorità preposte e seguire la procedure specificamente dettata dalla legge.

Prendiamo ad esempio lo sciopero della fame: non esiste una legge che consideri l’alimentazione forzata un TSO vero e proprio che possa essere imposto ai detenuti o ai soggetti liberi. Infatti, se una persona, sana di mente, rifiuta volontariamente e consapevolmente di nutrirsi, il medico ha il dovere di informarla sulle conseguenze che tale decisione può comportare sulle sue condizioni di salute. Se una persona è consapevole delle possibili conseguenze della propria decisione, il medico non deve assumere iniziative costrittive né collaborare a manovre coattive di nutrizione artificiale, ma deve continuare ad assisterla. Un tale conflitto, sicuramente grave e che si realizza anche ogni qual volta una persona rifiuta un trattamento necessario alla sua sopravvivenza per ragioni fondate, consapevolmente e liberamente accolte, non può dunque in nessuna maniera essere risolto in termini coattivi della volontà dell’assistito.

Se poi la situazione in cui il medico si può trovare è quella in cui il paziente

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sia privo di coscienza, non siano note le sue volontà e tuttavia versi in uno stato di urgente pericolo di vita o corra il rischio di gravi danni il problema non si pone, poiché il sanitario compirà tutti gli atti possibili, non procrastinabili e necessari in modo specifico per superare quel pericolo o quel rischio.

Questa situazione trova la sua giustificazione giuridica nello stato di neces-sità in base all’art. 54 del codice penale: «non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo di un danno grave alla persona …».

È necessario chiarire quali sono confini entro i quali tale potestà del medico può essere esercitata:a) la potestà medica vale solo nel caso in cui il paziente non abbia manifestato

in precedenza una volontà in proposito, non costituisce in nessun modo un obbligo all’intervento in ogni caso, ed entra in gioco in queste circostanze poiché è assente la volontà esplicita del paziente;

b) ai familiari, che non hanno rappresentanza legale del paziente, non è ricono-sciuto potere decisionale; dovranno essere informati e coinvolti, se del caso,ma le decisioni spettano autonomamente al medico, unico legale responsabile.

In alcuni casi il medico dovrà confrontarsi per quanto concerne l’informa-zione e il consenso con persone differenti da quella del paziente che ha in cura e che ne rappresentano gli interessi. La legge, infatti, prevede alcune figure di rappresentanza dei soggetti incapaci di cui diamo qui breve elenco.

– La potestà dei genitori, che è quel complesso di poteri e doveri attribuiti dalla legge ai genitori legittimi, naturali e adottivi nei confronti dei figli minori non emancipati (articoli 315 ss. cc). La finalità di tale funzione è il mantenimento, l’istruzione e l’educazione dei figli (sono questi diritti dei minori art. 30 della Costituzione) e nei rapporti verso l’esterno, e quindi anche verso i medici curanti, i genitori hanno il dovere, quali rappresen-tanti, di sostituire il minore incapace (funzione sostitutiva).

– La tutela, che è una forma di protezione prevista per gli interdetti giudiziali e legali e per minorenni i cui genitori siano morti entrambi o per altra causa impediti; il tutore è nominato dal giudice tutelare e ha cura della persona del tutelato, ricomprendendo in tale termine anche l’obbligo di provvedere alla soddisfazione di ogni esigenza dell’incapace, tra cui la cura delle malat-tie e dunque l’organizzazione dei trattamenti sanitari necessari.

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– L’amministratore di sostegno, figura prevista dalla legge 9 gennaio 2004, n. 6, modificando il nostro Codice civile, ha creato una nuova figura, con la finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno tem-poraneo o permanente. La nomina del’amministratore di sostegno, di facile attivazione e che può avvenire anche su richiesta dello stesso interessato che eventualmente indica la persona da cui desidera essere sostenuto, avviene con un atto nel quale il giudice prevede, tra l’altro, l’oggetto dell’incarico conferito e gli atti che l’amministratore ha il potere di compiere in nome e per conto dell’interessato. Tra gli atti che possono essere compiuti in nome dell’interessato vi sono ovviamente anche quelli di cura della persona e dun-que anche il potere di fornire valido consenso alle prestazioni mediche.

– Per i minorenni il medico dovrà interagire con i genitori o con il tutore: essi saranno informati e daranno il consenso in quanto rappresentanti del minore, ma se uno dei genitori non può esercitare la potestà a causa di lontananza, di incapacità o di altro impedimento, la potestà è esercitata in modo esclusivo dall’altro genitore (art. 317 cc); nel caso in cui i genitori sono separati o divorziati l’esercizio della potestà spetta al genitore al quale il figlio è stato affidato, fatta eccezione per le questioni di più forte inte-resse, come possono essere gravi problemi di salute, per i quali è necessa-rio l’accordo anche dell’altro genitore. Il medico che deve sottoporre un minore a un intervento chirurgico o ad accertamenti diagnostici in rela-zione a malattia di una certa gravità, farà bene a richiedere il consenso di entrambi i genitori a dimostrazione del fatto che vi sia l’accordo o comun-que che gli siano mostrate le particolari condizioni eventualmente stabilite dal Tribunale o dal giudice tutelare. Se tra i genitori c’è disaccordo essi possono ricorrere informalmente al Tribunale per i minorenni, chiedendo che siano presi i provvedimenti più idonei; ovviamente se è stato nominato un tutore il medico farà riferimento a esso quale rappresentante del minore. Può accadere che si versi in una situazione di emergenza e nessuno dei rappresentanti legali del minore sia presente o raggiungibile rapidamente, il medico dovrà intervenire comunque a tutela del diritto alla salute del mino-renne. I casi complessi sono quelli in cui i genitori rifiutano i trattamenti per i minori. In tutti quei casi in cui il medico si trovi in una situazione di

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tal natura o, comunque, di forte contrasto con i genitori relativamente alle terapie ritenute necessarie, e non ricorrano le circostanze che abbiamo visto costituire in sé una scriminante, il medico può e deve informare il Tribunale per i minorenni. Nelle località nelle quali non vi è un Tribunale per i mino-renni, può rivolgersi al giudice tutelare presso il Tribunale più vicino. Ma se il rifiuto di un trattamento, anche se per motivi religiosi o di convincimento morale, fosse accompagnato dalla richiesta o dalla disponibilità ad altro trat-tamento pure possibile e che non presenti rischi particolarmente più alti, allora la richiesta dei genitori dovrà essere soddisfatta e la loro decisione non potrà essere considerata una violazione dei doveri della potestà.

Tra i minori sono compresi anche gli adolescenti i quali, se non completa-mente autonomi, sono spesso perfettamente in grado di rendersi conto di ciò che gli accade, di maturare opinioni autonome e di esprimere in pro-posito la loro volontà. Il medico deve comunque richiedere il consenso al paziente adolescente (che in molti sistemi legali viene considerato valido di per sé), in quanto questi è in grado di apprezzare le ragioni e il significato dell’intervento che gli viene proposto; al fine della valutazione generale deve essere anche tenuta in conto la natura e l’entità dell’intervento.

Art. 32 - Doveri del medico nei confronti dei soggetti fragili

Il medico deve impegnarsi a tutelare il minore, l’anziano e il disabile, in par-ticolare quando ritenga che l’ambiente, familiare o extrafamiliare, nel quale vivono, non sia sufficientemente sollecito alla cura della loro salute, ovvero sia sede di maltrattamenti fisici o psichici, violenze o abusi sessuali, fatti salvi gli obblighi di segnalazione previsti dalla legge.Il medico deve adoperarsi, in qualsiasi circostanza, perché il minore possa fruire di quanto necessario a un armonico sviluppo psico-fisico e affinché allo stesso, all’anziano e al disabile siano garantite qualità e dignità di vita, ponendo particolare attenzione alla tutela dei diritti degli assistiti non autosuf-ficienti sul piano psico-fisico o sociale, qualora vi sia incapacità manifesta di intendere e di volere, ancorché non legalmente dichiarata.Il medico, in caso di opposizione dei legali rappresentanti alla necessaria cura dei minori e degli incapaci, deve ricorrere alla competente autorità giudiziaria.

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Manuale della Professione Medica144

Il medico, analogamente a tutti gli altri professionisti della salute, è tenuto a collaborare al normale funzionamento dell’amministrazione della giustizia in forza di esplicite e puntuali indicazioni di natura sia deontologica che norma-tiva; in tal senso le previsioni della deontologia medica, nel confermare, tra le giuste cause di rivelazione del segreto professionale, la necessità di ottempe-rare ad inderogabili doveri che derivano da specifiche norme legislative, sono molto esplicite.

Innanzitutto esortano il medico a porre particolare attenzione nei riguardi delle persone più fragili (anziani, minori e persone diversamente abili), anche attraverso l’obbligo di referto o di denuncia all’autorità giudiziaria in tutti i casi previsti dalla legge e nel ricordare al medico il dovere di informativa all’auto-rità giudiziaria nel caso in cui il rappresentante legale si opponga a trattamenti necessari ed indifferibili a favore della persona minore e/o incapace.

Quindi il sanitario che ha prestato la sua opera e/o assistenza in un caso che prefiguri l’ipotesi di un delitto perseguibile d’ufficio, potrà, in qualità di pubblico ufficiale e/o incaricato di pubblico servizio, appellarsi alla natura della prestazione professionale ricorrendo alla deroga prevista dal secondo comma dell’ art. 365 del Codice penale.

La tutela dei soggetti fragili risulta come un obiettivo fondamentale della politica sanitaria del paese e inserirle l’obiettivo al centro degli interventi di tutela della salute è un impegno etico soprattutto se si pensa che il nostro è un sistema sanitario basato sui principi della solidarietà e della universalità, e quindi, in un tale sistema, operare una discriminazione nell’accesso alle cure sarebbe ingiustificabile.

Ricordiamo come la legge 328 del 2000 all’art. 22 comma 2 precisa che: «Ferme restando le competenze del Servizio Sanitario Nazionale in materia di preven-zione,curaeriabilitazione,nonchéledisposizioniinmateriadiintegrazionesocio-sani-tariadicuialdecretolegislativo30dicembre1992,n.502,esuccessivemodificazioni,gli interventi di seguito indicati costituiscono il livello essenziale delle prestazioni sociali erogabilisottoformadibenieservizisecondolecaratteristicheedirequisitifissatidallapianificazionenazionale,regionaleezonale,neilimitidellerisorsedelFondonazionaleper lepolitiche sociali, tenuto contodelle risorseordinarie già destinate dagli enti locali allaspesasociale:

a) misure di contrasto dellapovertàedisostegnoalredditoeservizidiaccompagnamento,conparticolareriferimentoallepersonesenzafissadimora;

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3. Doveri del medico e diritti del cittadino 145

b) misureeconomicheperfavorirelavitaautonomaelapermanenzaadomiciliodipersonetotalmentedipendentioincapacidicompieregliattipropridellavitaquotidiana;

c) interventi di sostegno per i minori in situazioni di disagio tramite il sostegno al nucleo fami-liarediorigineel’inserimentopressofamiglie,personeestrutturecomunitariediaccoglienzaditipofamiliareeperlapromozionedeidirittidell’infanziaedell’adolescenza;

d ) misureperilsostegnodelleresponsabilitàfamiliari,aisensidell’articolo16,perfavorirel’armonizzazionedeltempodilavoroedicurafamiliare;

e) misuredisostegnoalledonneindifficoltàperassicurareibeneficidispostidalregiodecreto-legge8maggio1927,n.798,convertitodallalegge6dicembre1928,n.2838,edallalegge10dicembre1925,n.2277,elorosuccessivemodificazioni,integrazionienormeattuative;

f ) interventi per la piena integrazione delle persone disabili aisensidell’articolo14;rea-lizzazione,perisoggettidicuiall’articolo3,comma3,dellalegge5febbraio1992,n.104,deicentrisocio-riabilitativiedellecomunità-alloggiodicuiall’articolo10dellacitataleggen.104del1992,edeiservizidicomunitàediaccoglienzaperquelliprividisostegnofamiliare,nonchéerogazionedelleprestazionidisostituzionetemporaneadellefamiglie;

g) interventiperlepersoneanzianeedisabiliperfavorirelapermanenzaadomicilio,perl’inserimentopressofamiglie,personeestrutturecomunitariediaccoglienzaditipofami-liare,nonchéperl’accoglienzaelasocializzazionepressostruttureresidenzialiesemi-residenzialipercoloroche,inragionedellaelevatafragilitàpersonaleodilimitazionedell’autonomia,nonsianoassistibiliadomicilio;

h) prestazioniintegrateditiposocio-educativopercontrastaredipendenzedadroghe,alcolefarmaci,favorendointerventidinaturapreventiva,direcuperoereinserimentosociale;

i ) informazione e consulenza alle persone e alle famiglie per favorire la fruizione dei servizi e per promuovere iniziative di auto-aiuto».

L’aumento della durata di vita ad esempio è un ottimo traguardo, ma non ha eliminato una caratteristica sempre presente nell’invecchiamento: anche se aumenta l’aspettativa di vita, al termine di questa, vi è un periodo di malattie croniche, spesso di non autosufficienza.

Per non parlare del sostegno e dell’affiancamento alle famiglie in cui sono presenti disabili totalmente non autosufficienti, anche giovani o adulti, e la necessità da parte degli organi sanitari di migliorare le condizioni di salute anche dei minori e degli adolescenti, migliorando così la qualità di vita di tutti,

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Manuale della Professione Medica146

dovendo e potendo per far questo, potenziare certamente i servizi, ma anche avere la possibilità di ricorrere, ove doveroso, all’autorità giudiziaria.

Art. 27 - Libera scelta del medico e del luogo di cura

La libera scelta del medico e del luogo di cura da parte del cittadino costitui-sce il fondamento del rapporto tra medico e paziente.Nell’esercizio dell’attività libero professionale svolta presso le strutture pubbliche e private, la scelta del medico costituisce diritto fondamentale del cittadino.È vietato qualsiasi accordo tra medici tendente a influire sul diritto del cittadino alla libera scelta.Il medico può consigliare, a richiesta e nell’esclusivo interesse del paziente e senza dar luogo a indebiti condizionamenti, che il cittadino si rivolga a deter-minati presidi, istituti o luoghi di cura da lui ritenuti idonei per le cure necessarie.

Ogni cittadino ha la necessità di essere rispettato nella libertà di scelta del medico, del luogo di cura. Viene affermata, in buona sostanza, che la cura e la correlativa esigenza di garanzia di scelta finale sui presidi, istituti o luoghi di cura da privilegiare per garantire la cura stessa deve essere del cittadino. Il rapporto medico-cittadino rimane sempre e comunque di carattere fiduciario e deve sussistere, a garanzia della migliore riuscita delle cure, perché in sua mancanza difficilmente il rapporto potrebbe garantire risultati positivi.

Per quanto attiene alla libera scelta del medico, questa è ribadita anche nella normativa del Servizio Sanitario Nazionale e trova applicazione nei provvedi-menti regolamentari: rappresenta un principio fondamentale ed inalienabile che deve improntare il rapporto medico-paziente, proprio per la natura fidu-ciaria che caratterizza tale rapporto. La libertà di scelta e la natura fiduciaria del rapporto professionista-cliente, trovano riscontro effettivo nell’art. 2232 cc che al 1° comma sancisce l’obbligo di «eseguire personalmente l’incarico assunto» evidenziando, così, indirettamente, l’aspetto fondamentale della fidu-cia che connota il rapporto in esame con conseguenze notevoli anche per il diritto. Il Codice deontologico ribadisce come dovere comportamentale del medico il rispetto del diritto del paziente alla libera scelta del curante, pren-dendo anche in considerazione la sostanziale disparità che spesso connota il

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3. Doveri del medico e diritti del cittadino 147

rapporto medico-paziente e che può consentire al primo di influenzare l’altro su scelte di tipo sanitario.

In effetti uno dei primi diritti in sanità della persona assistita è quello di sce-gliere liberamente il medico di medicina generale o il pediatra di libera scelta. La libertà di opzione riconosciuta ai cittadini può essere esercitata entro un limite massimo di assistiti per medico, ha validità annuale ed è tacitamente rin-novata. L’assistenza include numerose prestazioni quali visite in ambulatorio, assistenza domiciliare, prescrizione di farmaci e/o accertamenti diagnostici, certificazioni ecc.

Si ricorda che è anche tutelata la libertà di scelta del luogo di cura, alle condizioni previste negli articoli 8-ter e seguenti del DLgs 502/92 e successive modifiche: «Alfinedifavorirel’eserciziodeldirittodiliberasceltadelmedicoedelpresi-diodicura,ilMinisterodellasanitàcuralapubblicazionedell’elencoditutteleistituzionipubblicheeprivatecheeroganoprestazionidialtaspecialità,conl’indicazionedelleapparec-chiaturedialtatecnologiaindotazionenonchédelletariffepraticateperleprestazionipiùrilevanti».

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4Gli obblighi del medico

L.Conte,S.DelVecchio,B.Magliona

Art. 19 - Aggiornamento e formazione professionale permanente

Il medico ha l’obbligo di mantenersi aggiornato in materia tecnico-scientifica, etico-deontologica e gestionale organizzativa, onde garantire lo sviluppo continuo delle sue conoscenze e competenze in ragione dell’evoluzione dei progressi della scienza, e di confrontare la sua pratica professionale con i mutamenti dell’organizzazione sanitaria e della domanda di salute dei cittadini.Il medico deve altresì essere disponibile a trasmettere agli studenti e ai colle-ghi le proprie conoscenze e il patrimonio culturale ed etico della professione e dell’arte medica.

L’Ordine per la qualità della professione ed il ruolo dell’ECM

In occasione della celebrazione del centenario della creazione dell’Ordine dei Medici, nel nostro paese, ci troviamo a vivere un momento di grande crisi economico-finanziaria, ma anche politica (nel senso della buona politica), morale e civile. Ed anche la nostra professione vive una crisi più profonda che in altri periodi perché culturalmente non sufficientemente e generalmente attrezzata a dare risposte adeguate ad una società in rapidissima evoluzione ed una politica pervasiva talvolta irrispettosa dei valori fondanti dell’arte medica.

È necessario ricomporre l’unitarietà della nostra professione che negli ultimi anni si è frammentata e dispersa in molte gloriose identità e diversità perdendo di vista l’obiettivo finale e soprattutto perdendo autorevolezza ed “appeal sociale”. Questo non deve significare la rinuncia alle proprie peculiarità ma semplicemente un’armonizzazione di posizioni e linguaggi per proporre un nuovo patto, una nuova alleanza, tecnica, civile e sociale fondata sul riconosci-

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Manuale della Professione Medica150

mento di una compiuta autonomia professionale, quale condizione favorente l’assunzione piena di nuove responsabilità, per restituire dignità all’impegno professionale, per ridare slancio alla solidarietà ed equità per quei diversi e quei diseguali che lo sviluppo economico e sociale immancabilmente produce e dimentica, per irrobustire la fiducia dei professionisti e dei cittadini nelle istitu-zioni democratiche e nei valori costituzionali che esse custodiscono.

Il paradosso di un medico sempre più piccolo in quanto confinato al rango di anonimo ed eterodiretto prestatore d’opera in una medicina ed una sanità sempre più grandi e complesse, è superabile solo attraverso una più attuale ed incisiva rinegoziazione con i cittadini e con le istituzioni di nuovi ruoli e compiti.

E da questo punto di vista gli Ordini hanno condiviso il progetto di Educa-zione Continua in Medicina come strumento utile allo scopo di attrezzare cul-turalmente i propri medici ad assumere il giusto autorevole ruolo nella società moderna.

Quindi è obbligo del medico, per tutta la durata della sua attività professio-nale, mantenere uno standard ottimale di conoscenze e di abilità in relazione ai progressi del sapere scientifico ed all’impetuoso sviluppo delle nuove tec-nologie sanitarie.

Questo è il presupposto fondamentale per garantire al cittadino un cor-retto e proficuo rapporto di fiducia con il medico, che trova puntuale riscontro anche nelle norme legislative che regolano l’esercizio della professione.

Ma come è cambiato lo scenario legislativo per quanto attiene l’aggiorna-mento e la formazione del medico nel nostro paese?

Fin dal 1978 è stato uno degli obiettivi primari del SSN ed era sottolineato come una esigenza indiscutibile e lo stesso nostro Codice deontologico del 1998 l’aveva richiamato soltanto come un dovere morale del medico.

Successivamente con il DLgs n. 502/92, integrato con gli artt. 16 bis, 16 ter e 16 quater del DLgs n. 229/99, l’obbligo dell’Educazione Continua in Medicina (ECM) per i medici è divenuto istituzionale nel nostro paese come in quasi tutti i paesi del mondo.

Quindi i medici in passato si sono sempre aggiornati liberamente secondo i propri bisogni e le loro preferenze.

Oggi la legge prevede un controllo sistematico e “misurato” del livello di conoscenze mantenute ed aggiornate, sulla base del numero di crediti acquisiti annualmente dal professionista con la frequenza di “formazione accreditata”,

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4. Gli obblighi del medico 151

residenziale, a distanza o sul campo. E soprattutto, pur prevedendo una parte formativa lasciata alla libera scelta del professionista, il SSN ed i SSSSRR sta-biliscono gli obiettivi formativi in linea con le proprie esigenze di sviluppo.

È per questo scopo che, in tutti i paesi del mondo, sono nati i programmi di Educazione Continua in Medicina (ECM); essa comprende l’insieme orga-nizzato e controllato di tutte quelle attività formative, sia teoriche che pratiche, promosse da chiunque lo desideri (si tratti di una Società scientifica o di una Società professionale, di una Azienda ospedaliera, o di una Struttura specifi-camente dedicata alla formazione in campo sanitario, ecc.), con lo scopo di mantenere elevata ed al passo con i tempi la professionalità degli operatori della sanità.

Partecipare ai programmi di ECM è un dovere degli operatori della sanità, richiamato anche dal Codice deontologico, ma è anche – naturalmente – un diritto dei cittadini, che giustamente richiedono operatori attenti, aggiornati e sen-sibili. Ciò è oggi particolarmente importante ove si pensi che il cittadino è sempre più informato sulle possibilità della medicina di rispondere, oltre che a domande di cura, a domande più complessive di salute.

Per quanto attiene le sanzioni, mancando dei riferimenti di legge per chi non si aggiorna, il riferimento diventa il Codice di Deontologia medica con la possibilità di sanzioni disciplinari, non prima però di aver espletato una oppor-tuna azione di “recupero”.

Né va dimenticato che il venir meno di conoscenze ed abilità aggiornate può configurare “responsabilità professionale” del medico laddove si dimostri che l’esito infausto di un trattamento od il ritardo di una diagnosi siano adde-bitabili alla sua imperizia, alla mancanza di una adeguata conoscenza tecnica e scientifica.

Ma quale significato deve essere attribuito ai termini Aggiornamento e For-mazione? L’ECM non è o non è solo “aggiornamento professionale” che, di fatto, si limita ad interventi informativi per l’implementazione di nuove cono-scenze teoriche, al recupero di nozioni dimenticate o alla sostituzione di teorie obsolete.

Nel concetto di Formazione è insito un apprendimento che si avvale dell’esperienza, in quanto finalizzato all’applicazione delle conoscenze. Apprendere dall’esperienza è una modalità tipica dell’adulto: comprende la capacità di fare sintesi tra le informazioni teoriche ricevute ed il loro conte-

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sto applicativo, tenendo conto in modo critico e riflessivo della variabilità dei diversi contesti, recepita nell’esperienza del singolo professionista.

La continua sfida della formazione permanente è sintetizzabile nell’impe-gno a far coincidere i bisogni di salute del cittadino con il bisogno del singolo professionista di sentirsi sempre adeguato ad affrontarli.

La professionalità di un operatore della sanità può venire definita da tre caratteristiche fondamentali:

– il possesso di conoscenze teoriche aggiornate (il sapere); – il possesso di abilità tecniche o manuali (il fare); – il possesso di capacità comunicative e relazionali (l’essere).

Il rapido e continuo sviluppo della medicina e, in generale, delle cono-scenze biomediche, l’accrescersi continuo delle innovazioni sia tecnologiche che organizzative, rendono sempre più difficile per il singolo operatore della sanità mantenere queste tre caratteristiche al massimo livello: in altre parole mantenersi “aggiornato e competente”.

L’ECM deve:

– mantenere la capacità dei professionisti della salute di recepire criticamente sempre nuove conoscenze;

– affinare le capacità metodologiche nell’applicarle;– rendere feconde nell’esercizio professionale quotidiano le nozioni acquisite;– far crescere i valori personali professionali ed umani.

Su questa strada c’è la totale coincidenza di interesse con l’etica ed il man-dato istituzionale e giuridico degli Ordini: garantire la qualità della professione a tutela della salute dei cittadini.

Facendo riferimento all’esperienza quinquennale “sperimentale” ECM conclusa che ha avuto il merito di creare attenzione al problema possiamo dire che tale sperimentazione ha avuto il merito di implementare una nuova e più forte attenzione verso la necessità che tutti gli operatori sanitari devono mantenersi costantemente aggiornati e competenti per garantire una costante qualità dell’assistenza.

Sono state molte le critiche rivolte al sistema che non è riuscito a garantire uno sviluppo equilibrato per l’emergere di interessi talvolta non chiari e non conciliabili.

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4. Gli obblighi del medico 153

Purtroppo i crediti che dovevano essere uno strumento di mero supporto alla gestione organizzativa del sistema ECM sono diventati il fine prevalente della maggioranza dei provider e dei professionisti-discenti.

Il burocratismo distributivo dei crediti attuato a livello nazionale e di qual-che regione:

– non è stato per niente modulato dall’intervento spesso inefficiente dei “referee”;

– ha distrutto ogni parvenza di equità;– ha distrutto la valutazione effettiva della qualità educativa degli eventi formativi;– ha indotto i professionisti della salute a palesare senza reticenza l’unica

aspirazione ad accumulare il numero obbligato di crediti;– ha creato talvolta il paradosso che alcuni professionisti affidano per lo più

la propria formazione efficace ad occasioni non accreditate;– c’è stato un quasi esclusivo ricorso ad eventi residenziali; – qualsiasi convegno pur di garantirsi audience chiede l’accreditamento per

garantire un certo numero di crediti (facendo leva molto spesso sulla pro-fessione infermieristica).

Tutto ciò ha gettato discredito su tutto il progetto ECM a cui la nuova Commissione Nazionale in collaborazione con il Comitato Tecnico delle Regioni, facendosi carico delle criticità emerse nella sperimentazione, ha cer-cato di dare risposte adeguate per contrastare un malcostume contagioso e diffuso nell’esercizio della formazione continua.

L’Autorità Centrale Nazionale ha dimostrato di essere pronta a porre rime-dio a questa situazione e ripartire con la nuova esperienza: accreditamento dei provider e non più degli eventi, valorizzazione di Formazione a Distanza e For-mazione sul Campo, Dossier Formativo Individuale e di Gruppo, ecc.

D’altra parte una riflessione critica dell’esperienza maturata nel primo quinquennio sperimentale ECM non può non tener conto anche di un dato già validato da una vasta letteratura internazionale, secondo il quale, in ambito sanitario un sistema di formazione permanente fondato prevalentemente sulla sistematica implementazione ed aggiornamento delle conoscenze degli operatori manifesta una bassa efficaciaquandorapportatoadindicatoridiqualitàdiprocessoediesito.

Va invece riconosciuto al sistema ECM il grande merito di aver prima solle-citato e poi mantenuta alta l’attenzione del management e dei professionisti sul

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Manuale della Professione Medica154

valore della formazione permanente che sempre più si deve connotare con le caratteristiche, gli strumenti e le finalità dello Sviluppo Continuo Professionale.

Questo viraggio deve consolidarsi sempre più attraverso la promozione di metodologie formative che meglio di altre appaiono in grado di cambiare le perfor-mances professionali, migliorare gli skills e quindi incidere sulla qualità degli outcomes.

Nonostante le non poche difficoltà organizzative e gestionali manifestatesi a livello centrale e periferico, determinate dal sovrapporsi spesso incoerente di scelte politiche sui ruoli e compiti degli attori in campo e soprattutto dalla povertà di risorse pubbliche dedicate, il sistema ha comunque ricevuto una spinta formidabile “dal basso” mobilitando, in questi anni, intorno ad una straordinaria mole di eventi prodotti da migliaia di fornitori, circa 12 milioni di partecipazioni di professionisti.

L’Ordine quindi si propone a garanzia della qualità professionale ed a tutela della salute dei cittadini:

– di essere il punto di “garanzia terza” tra i diversi attori dell’ECM;– di essere il controllore dell’equità e dell’efficacia dell’ECM;– di essere il garante della trasparenza del sistema;– di monitorare l’efficienza del sistema e proporre le modifiche necessarie in itinere;– di contribuire direttamente allo sviluppo culturale dei propri iscritti.

Ma nel ribadire che ECM non può semplicemente limitarsi ad una “manu-tenzione tecnico-professionale” del singolo professionista, occorre rilevare che nella identificazione dei nuovi obiettivi formativi si è tenuto ampiamente conto della necessità di garantire anche una sufficiente formazione umana nel senso di humanities.

Ed appare condivisibile la riflessione di Salvino Leone: «È ormai indifferi-bile un recupero della formazione umana del medico da affiancare e integrare a quella sempre più tecnologica che rischia di inaridirlo facendone solo un freddo tecnocrate, bravissimo a decodificare indagini, leggere numeri e gestire appa-recchiature elettroniche ma poco attento ai “bisogni” empatico-relazionali del malato che, non solo non sono diminuiti nel tempo ma, semmai, sono diventati più impellenti data la scarsa attenzione del medico a tali componenti umane».

La Società, la Salute, la Sanità, la Medicina evolvono in scenari e conte-sti sempre più complessi ed adattativi; questa evoluzione necessita di uno sviluppo sincrono e correlato: il moderno modello di erogazione delle cure

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4. Gli obblighi del medico 155

si presenta sempre più complesso e ad alta integrazione multispecialistica e multiprofessionale. Per garantire qualità professionale e risposte adeguate ed efficienti ai bisogni dei cittadini il sistema ECM si deve far carico di queste esigenze formative e predisporsi a transitare progressivamente verso un più maturo sistema di Sviluppo Professionale Continuo.

Nel ricordo del prof. Mario Austoni, clinico emerito dell’Università di Padova, riportiamo la considerazione che la rilevanza delle conoscenze rimane indeterminata finché queste non si dimostrano capaci a risolvere problemi pratici: «Sono infatti le soluzioni dei problemi che hanno il potere di dare, ad un’informazione irrilevante, un senso che la trasformi in rilevante e prescrittiva o che ne promuova la critica ed il rigetto».

E, quindi, in conclusione, l’ECM deve insegnare a tutti i professionisti della salute a risolvere i problemi di salute di ogni cittadino che gli si rivolge ovvero informarlo ed indirizzarlo adeguatamente negli ambiti specifici e deve anche favorire una progressiva implementazione della cultura oltre che multidiscipli-nare anche interprofessionale quale fondamento indispensabile per conseguire obiettivi di salute e non semplici prestazioni sanitarie.

Art. 10 - Segreto professionale

Il medico deve mantenere il segreto su tutto ciò che gli è confidato o di cui venga a conoscenza nell’esercizio della professione.La morte del paziente non esime il medico dall’obbligo del segreto.Il medico deve informare i suoi collaboratori dell’obbligo del segreto professio-nale. L’inosservanza del segreto medico costituisce mancanza grave quando possa derivarne profitto proprio o altrui ovvero nocumento della persona assi-stita o di altri.La rivelazione è ammessa ove motivata da una giusta causa, rappresentata dall’adempimento di un obbligo previsto dalla legge (denuncia e referto all’Autorità Giudiziaria, denunce sanitarie, notifiche di malattie infettive, certi-ficazioni obbligatorie) ovvero da quanto previsto dai successivi artt. 11 e 12.Il medico non deve rendere al Giudice testimonianza su fatti e circostanze inerenti il segreto professionale. La cancellazione dall’albo non esime moralmente il medico dagli obblighi del presente articolo.

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Art. 11 - Riservatezza dei dati personali

Il medico è tenuto al rispetto della riservatezza nel trattamento dei dati perso-nali del paziente e particolarmente dei dati sensibili inerenti la salute e la vita sessuale. Il medico acquisisce la titolarità del trattamento dei dati sensibili nei casi previsti dalla legge, previo consenso del paziente o di chi ne esercita la tutela.Nelle pubblicazioni scientifiche di dati clinici o di osservazioni relative a singole persone, il medico deve assicurare la non identificabilità delle stesse.Il consenso specifico del paziente vale per ogni ulteriore trattamento dei dati medesimi, ma solo nei limiti, nelle forme e con le deroghe stabilite dalla legge.Il medico non può collaborare alla costituzione di banche di dati sanitari, ove non esistano garanzie di tutela della riservatezza, della sicurezza e della vita privata della persona.

Il dovere della riservatezza

Esercizio della medicina e tutela della riservatezza

I. Il radicale mutamento – organizzativo, strutturale e, in un certo senso, anche e soprattutto culturale – cui la realtà sanitaria è andata incontro negli ultimi anni ha coinvolto anche il tema del segreto professionale, che ha pro-gressivamente perso quel significato di principio assoluto che, in un impor-tante contributo di oltre quaranta anni fa, aveva consentito di parlarne nei termini di «pietra angolare dell’esercizio professionale» e di prerogativa della professione «che più ha sollecitato il senso di responsabilità etica e morale del medico».

Le esigenze pubbliche che caratterizzano l’odierno esercizio della medi-cina, infatti, hanno corroso le basi del rispetto della riservatezza nell’ambito del rapporto medico-paziente, rendendo problematico il bilanciamento tra diritti del singolo ed esigenze della collettività.

Le ragioni di tale mutamento sono molteplici.In primo luogo si è assistito alla progressiva scomparsa della connotazione

privatistica del rapporto medico-paziente, che si è dapprima disperso in una serie di rapporti interpersonali e si è quindi quasi completamente spersonaliz-zato, venendo sostituito da un rapporto tra struttura sanitaria e utente della

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4. Gli obblighi del medico 157

medesima, alla cui configurazione non sono estranee istanze organizzative, burocratiche e soprattutto economiche molto distanti dalla tradizione deonto-logica di matrice ippocratica.

Si è fatta strada, in secondo luogo, una diversa percezione sociale della malattia, che ha perso, almeno in parte, la connotazione negativa e quasi di disvalore che sembrava accompagnarla, per cui la persona malata tende a con-figurarsi più come portatore di diritti che come soggetto bisognoso di cure, con la conseguenza che il ruolo del medico corre il rischio di essere relegato a quello di esecutore tecnico dell’altrui volontà.

In terzo e ultimo luogo, l’interpretazione improntata al rigorismo dog-matico proprio della tradizione ippocratica, in cui i principi dell’etica medica godevano di una sorta di autoreferenzialità, ha lasciato il campo a un’imposta-zione più duttile, volta a conciliare, in un contesto pluralistico, istanze diver-genti, attraverso l’adozione di regole minime e di per se stesse prive di valore assoluto, che disegnano uno scenario in cui l’agire secondo scienza e coscienza è sempre meno regola aurea nella definizione del corretto comportamento del medico e sempre più soltanto uno dei tanti valori in gioco nel delicato intreccio di rapporti tra professionisti sanitari, cittadini e società.

In questo contesto, la regola del silenzio, che connotava l’esercizio della medicina, non costituisce più un principio assoluto, ma piuttosto un principio la cui validità potrebbe definirsi, mutuando il termine dalla riflessione bioetica, prima facie, nel senso che la sua cogenza è assoluta solo in quelle situazioni in cui esso non entra in conflitto con altri principi.

In altre parole, quando il medico si trova, come ormai accade sempre più spesso, a dover fronteggiare situazioni in cui il principio di segretezza si pone in contrasto con gli interessi, parimenti rilevanti, di altri soggetti o della collettività, l’impegno alla riservatezza sembra configurarsi più come opzione che come obbligo.

La già richiamata necessità di «conciliare le esigenze del segreto con le esi-genze della vita moderna che sono portatrici di interessi prevalentemente di natura pubblica» ha portato, inoltre, anche a una delimitazione del contenuto del segreto professionale, il cui orizzonte, una volta così ampio da poter essere definito nei termini di visa audita atque intellecta, sembra ora restringersi e ridise-gnarsi alla luce di molteplici fattori.

Segreto deve allora essere ritenuto «ciò che non è comunemente noto, che fa ragionevolmente parte dell’intimità dell’individuo, del suo modo di vivere e

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del suo modo di essere non ovviamente palesi, non destinati comunque all’al-trui comune conoscenza», di cui il sanitario abbia nozione a motivo della sua attività professionale, in analogia con la nozione di dati sensibili di cui alla normativa in tema di privacy.

L’articolato corpo di norme delineato dal DLgs 196/2003, lungi dal mor-tificare la libertà e la coscienza del professionista, attribuisce infatti un valore decisionale di grande rilievo alla responsabilità del singolo, restituendo alla riservatezza il ruolo di carattere distintivo della vita professionale del medico.

La normativa deontologica del 2006 in tema di segreto professionale e riservatezza dei dati personali, pur non menzionando espressamente il testo unico sulla privacy di cui al DLgs n. 196 del 2003, ne riprende nella sostanza il contenuto per quanto concerne i doveri dei sanitari in questa materia, doveri che sono esplicitati anche nei vari provvedimenti emanati dall’autorità garante che dettano disposizioni specifiche in materia

L’analisi deontologica, talvolta, si è soffermata, non senza enfasi retorica, su vere e proprie situazioni limite, che sembrano appartenere più al campo delle ipotesi di scuola che a quello del quotidiano operare del medico, tralasciando di richiamare l’attenzione su tutta una serie di comportamenti corrivi e lesivi – ora subdolamente ora palesemente – del diritto alla riservatezza della persona assi-stita, così largamente divenuti consuetudine da non essere più occasione né di scandalo né di indignazione, e nemmeno di stupore, quasi che si diano per paci-ficamente scontati il fatto che la norma – sia deontologica che giuridica – abbia ormai perso il suo carattere imperativo e una sorta di benevola tolleranza (di cui si ravvisa eloquente traccia nel ritardo rispetto ad altri paesi europei con il quale il nostro paese si è dotato di un’articolata normativa in tema di trattamento dei dati personali) nei confronti dello scarso rispetto dell’altrui riservatezza, anche da parte di chi di tale scarso rispetto rappresenta il soggetto passivo (come dimostra l’esiguità della casistica giurisprudenziale in materia).

La questione riguarda l’intera realtà sanitaria ed è spia di quel divario tra principi deontologici e prassi professionale che non investe il solo tema della riservatezza, ma coinvolge l’esercizio professionale nella sua interezza e fa amaramente dubitare dell’effettivo ruolo e della concreta efficacia della nor-mativa deontologica, la cui conoscenza spesso non va oltre la ristretta cerchia degli addetti ai lavori.

Alcuni esempi valgono a esplicitare quanto affermato: nessun medico «si

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permetterebbe mai di rivelare nomi, fatti, ad altri, senza una giusta causa o senza un preciso obbligo giuridico», eppure quello stesso medico «può inter-rompere tranquillamente un colloquio per ricevere una telefonata durante la quale cita apertamente persone, eventi, luoghi, non curandosi della presenza di un interlocutore esterno»; allo stesso modo, in nessuna struttura «si rilascereb-bero mai fascicoli o indirizzi, senza una preventiva autorizzazione o una pre-cisa procedura», eppure in quella stessa struttura talvolta «si riceve il pubblico in locali arredati con scrivanie traboccanti di fascicoli, documenti, nei quali sono facilmente leggibili nomi, indirizzi, recapiti telefonici»; e ancora: «nessun dipendente di un servizio riferirebbe, a chiunque lo domandi, il contenuto degli interventi effettuati nei confronti di un paziente, eppure lo stesso dipen-dente fornisce informazioni relative agli utenti al telefono, senza controllare preventivamente l’identità dell’interlocutore che li richiede».

A questo proposito opportunamente – stante la molteplicità e l’eteroge-neità delle incombenze amministrativo-burocratiche che affaticano quotidia-namente il sanitario – la normativa deontologica (art. 11) fa obbligo al medico di rispettare la riservatezza nel trattamento dei dati personali del paziente e, in particolare, di quelli sensibili perché «inerenti la salute e la vita sessuale» dell’in-teressato, nonché «di non collaborare alla costituzione di banche di dati sani-tari, ove non esistano garanzie di tutela della riservatezza, della sicurezza e della vita privata della persona».

Occorre sempre rispettare un principio di cautela anche nella trasmissione dei dati personali ad enti che svolgono attività in campo sanitario in modo da fornire solo le notizie che è strettamente necessario ovvero obbligatorio segnalare, escludendo comunque quelle che non hanno interesse per la cura del paziente del pari, nel caso di denunce obbligatorie aventi per destinatari enti o autorità, alla doverosità della denuncia si affianca per il medico l’obbligo di attenersi alle sole notizie richieste dalla legge e di vigilare affinché la tra-smissione del segreto avvenga nella garanzia della tutela della riservatezza della persona assistita e, ove la legge lo prevede, del diritto all’anonimato.

Particolare cautela deve inoltre adoperarsi relativamente alla pubblicazione scientifica – come recita ancora la normativa deontologica – «di dati clinici o di osservazioni relative a singole persone», avendo cura, quando la correttezza della comunicazione scientifica impone di rivelare dettagli che potrebbero consentire l’identificazione del paziente, di ottenere il consenso informato del

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medesimo, del quale si dovrà dare atto nella pubblicazione a stampa, così come prescritto dalle raccomandazioni sovranazionali in materia (si tratta in parti-colare degli UniformRequirementsforManuscriptsSubmittedtoBiomedicalJournals:Writing and Editing for Biomedical Publication: il documento è consultabile al sito internet www.icmje.org).

Infine, il riferimento alla obbligatorietà del consenso ritorna – e si tratta di una significativa innovazione rispetto alla versione previgente, frutto della mutata sensibilità sociale e della più ampia tutela giuridica in tema di tratta-mento dei dati personali – anche in quella parte dell’art. 11 del Codice deon-tologico che detta le indicazioni comportamentali cui il medico deve attenersi.

Particolare attenzione occorre nella redazione di bollettini medici, la cui dif-fusione deve essere preceduta dall’acquisizione del consenso dell’interessato o dei suoi legali rappresentanti. In siffatte evenienze, anche in presenza di un valido consenso, il comportamento del sanitario deve essere improntato a prudenza e discrezione e le notizie sulle condizioni cliniche del paziente, ancorché si tratti di persone eminenti o di larga notorietà, devono limitarsi alle informazioni stret-tamente necessarie; la diffusione ai mezzi di informazione di particolari relativi alla sfera più intima della persona o l’esasperato dettaglio nell’illustrazione dei presidi diagnostico-terapeutici messi in atto, così come, per converso, l’altera-zione dei dati clinici, integrano infatti un agire deontologicamente censurabile, in cui la necessaria deroga al dovere generale di riservatezza che origina dal ruolo pubblico della persona assistita diventa occasione di strumentalizzazioni politi-che o di un illecito sfruttamento pubblicitario delle proprie abilità professionali.

Anche in un contesto, quale l’attuale, molto diverso rispetto a quello in cui il principio del segreto professionale è nato e si è sviluppato, l’impegno alla riservatezza deve dunque continuare a connotare il quotidiano operare del medico, in una tensione che la considerazione dell’esistenza e talora della predominanza di altri interessi non deve svilire, ma anzi esaltare, e nella con-sapevolezza che la garanzia della conciliazione tra interessi confliggenti va ricercata in un’adeguata formazione medico-legale del sanitario, che sola «può preservare dalla pericolosa frattura derivante dai conflitti fra interesse privato e interesse pubblico, tra impegni deontologici e diritti della società».

II. La stessa antinomia che caratterizza la norma deontologica connota anche quella penalistica.

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L’art. 622 cp, come noto, punisce la rivelazione senza giusta causa di segreto professionale ovvero il suo impiego a proprio o altrui profitto, sempre che dal fatto possa derivare un nocumento, inteso come «qualunque detrimento giu-ridicamente apprezzabile, patrimoniale o non patrimoniale, fisico o morale, pubblico o privato».

Secondo un’interpretazione aderente alla chiara lettera della norma, l’articolo in questione configura dunque «due obblighi negativi, consistenti l’uno nel divieto di rivelare il segreto e l’altro nel divieto di utilizzarlo. Basta la violazione di uno solo di tali divieti per integrare il reato. Ma mentre il primo di essi viene meno se sussiste una giusta causa – e venendo meno l’obbligo viene meno la possibilità della sua violazione e quindi la configurabilità del reato – l’altro sussiste sempre incondizionatamente non essendo prevista alcuna causa che ne limiti la portata».

Ora, mentre l’impiego a proprio o altrui profitto configura una fattispecie che non pone particolari problemi interpretativi e appare di rara evenienza, anche se gli interessi economici che in misura crescente gravitano intorno alla realtà sani-taria possono rappresentare un rischio concreto in questo senso, la rivelazione senza giusta causa (che rappresenta una fattispecie il cui elemento intenzionale si identifica nel dolo generico, ossia nella coscienza e volontà di rivelare un segreto, indipendentemente dalla finalità) ha dato luogo, nonostante l’esiguità della casi-stica giurisprudenziale, a una querelle dottrinaria ormai annosa e tuttora irrisolta, di cui è agevole ritrovare traccia nella manualistica medico-legale, alla quale in questa sede si rimanda per un approfondimento della questione.

Se infatti non v’è dubbio che nella nozione di giusta causa rientrino sia le cause imperative (nel senso che esse obbligano alla rivelazione del segreto), la cui ricorrenza si ha allorché la rivelazione si configura, ex art. 51 cp, come adempimento di un dovere da parte del medico (rientrano in questo ambito le denunce sanitarie obbligatorie, i certificati obbligatori, il referto, la denuncia di reato, la perizia e la consulenza tecnica, l’ispezione corporale ordinata dal giudice, l’arbitrato, le visite medico-legali richieste ed espletate per conto della struttura sanitaria pubblica), sia le cause permissive (nel senso che esse con-sentono la rivelazione del segreto), nell’ambito delle quali rientrano le ipotesi scriminanti espressamente previste dal codice penale agli artt. 45 (caso fortuito o forza maggiore), 46 (costringimento fisico), 47 (errore di fatto), 48 (errore determinato dall’altrui inganno), 50 (consenso dell’avente diritto), 51 (esercizio di un diritto), 52 (difesa legittima) e 54 (stato di necessità); molto invece si è

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discusso e si discute sulla cosiddetta giusta causa sociale, il cui apprezzamento trascende la norma penale.

Le ipotesi di scuola hanno classicamente riguardato il caso del conducente di veicoli portatore di una patologia che ne mette a rischio la capacità di guida o, più recentemente, quello del rapporto tra psicoterapeuta e paziente perico-loso, che ha avuto larga eco soprattutto negli Stati Uniti, dove, dopo la vicenda Tarasoff, si è giunti, anche sulla spinta di una non esigua casistica giurispruden-ziale, alla elaborazione di un vero e proprio duty to warn.

Nel nostro paese, dove scarsa attenzione è stata dedicata al problema della tutela della riservatezza nell’ambito del setting psicoterapeutico, nuova linfa al dibattito è stata portata, come già accennato in precedenza, dall’emergere del fenomeno AIDS, che ha reso particolarmente delicata la scelta per il medico tra tacere o rivelare relativamente al problema della liceità della comunicazione dello stato di infezione del proprio paziente al partner sessuale di questi, liceità che può ammettersi o attraverso un’interpretazione estensiva – che sembra prescindere cioè dal requisito dell’attualità del pericolo – dello stato di neces-sità di cui all’art. 54 cp ovvero invocando, per l’appunto, la legittimità di «giu-ste cause di rivelazione per così dire sociali o comunque non previste dalla norma», che assumerebbero conseguentemente dignità giuridica.

Mentre per parte della dottrina nell’interpretazione della nozione di giusta causa occorre attenersi al suo significato giuridico letterale, per cui è giusta solo quella causa che tale è ritenuta e prevista dalla legge, non assumendo pertanto la causa socialmente rilevante alcun rilievo nella fattispecie in commento, per altra parte della dottrina la rivelazione dettata dall’esigenza di tutelare la salute altrui non è meritevole di riprovazione penale, essendo riscattata dalla finalità sociale perseguita e dall’interesse collettivo attuato, in quanto, poiché il pre-cetto morale di non violare il segreto precede e informa l’analogo precetto penale, quest’ultimo risente delle stesse deroghe che impediscono al primo di «ergersi come la consacrazione di un principio assolutamente inalterabile e intangibile».

L’estrema genericità della norma sembra invero autorizzare entrambe le interpretazioni.

Il riferimento all’art. 5, 4° comma, della legge n. 135/1990 consente tut-tavia di fugare alcune incertezze relativamente alla questione in commento. Nello stabilire che «la comunicazione di risultati di accertamenti diagnostici

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diretti o indiretti per infezione da HIV può essere data esclusivamente alla per-sona cui tali esami sono riferiti», tale previsione di legge non sembra lasciare alcuno spazio a interpretazioni diverse, salvo, come già accennato, il ricorso alla scriminante dello stato di necessità ovvero – ma la legittimità di tale solu-zione è in realtà alquanto discussa – a quanto stabilito dall’art. 132 del RD 3 febbraio 1901, n. 45 e successive modificazioni, in base al quale «in tutti i casi di malattia infettiva e diffusa il medico curante dovrà dare alle persone, che assistono e avvicinano l’infermo, le istruzioni necessarie per impedire la pro-pagazione del contagio».

In questo senso si pone del resto anche la recente legislazione in tema di privacy. Se è vero, infatti, che l’insieme dei provvedimenti in materia ha in un certo senso valorizzato il concetto di giusta causa sociale attraverso la pre-visione della possibilità di trattare i dati inerenti allo stato di salute, anche in mancanza del consenso dell’interessato, quando vi sia il perseguimento di fina-lità di tutela dell’incolumità fisica e della salute di un terzo o della collettività, subordinando tale possibilità all’autorizzazione del Garante, è del pari vero che nel caso dell’infezione da HIV esiste una specifica disciplina normativa che esplicitamente vieta ogni possibilità di partnernotification.

Su questo punto ha ritenuto di dover intervenire – proprio per fugare ogni dubbio in merito all’armonizzazione tra le due discipline – lo stesso Garante per la protezione dei dati personali con la pronuncia del 19 dicembre 1997, nella quale è stato precisato che la previsione di cui all’art. 5, comma 4, legge n. 135/1990 («la comunicazione dei risultati degli accertamenti diagnostici diretti o indiretti per infezione da HIV può essere data esclusivamente alla persona cui tali esami sono stati riferiti») deve considerarsi vigente a tutti gli effetti.

Anche in tema di riservatezza, dunque, così come del resto si è verificato anche nel caso di altri recenti interventi legislativi aventi per oggetto – diretta-mente o indirettamente – l’infezione in questione (il riferimento è alle disposizioni in tema di incompatibilità tra condizioni di salute e detenzione di cui alla legge 12 luglio 1999, n. 231), sopravvive (retaggio di un tempo, peraltro non lontano, in cui forte era lo stigma sociale nei confronti dei soggetti affetti da HIV/AIDS?) la previsione di un regime particolare, parzialmente derogatorio rispetto a quello comune, per i soggetti affetti da HIV/AIDS, che sembra quasi postulare una dicotomia – più o meno netta a seconda dei casi – tra infezione da HIV e altre patologie.

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La necessità o per lo meno l’opportunità di una protezione speciale trae origine dalla potenzialità discriminatoria di un determinato dato inerente alla salute; non stupisce, dunque, che nel caso dell’infezione da HIV tale esigenza sia stata particolarmente avvertita e si sia tradotta in specifiche disposizioni normative, volte a rafforzare il sistema di garanzie posto a tutela dei diritti fondamentali della persona.

Tuttavia, ora che lo stigma sociale si è indubbiamente stemperato, anche grazie – il che solo apparentemente può essere considerato un paradosso – alla strenua difesa dei diritti umani e all’orientamento garantista che hanno caratterizzato gli interventi adottati all’insorgere del fenomeno AIDS (si veda in particolare “UNAIDS/WHO Policy Statement on HIV Testing”, giugno 2004), viene da chiedersi se non sia auspicabile una maggiore duttilità da parte del legislatore, in modo da riequilibrare – nel rispetto di ben precise condizioni – il rapporto tra diritti del singolo e interesse della collettività.

In questo senso si pongono le International guidelines on HIV/AIDS and Human rights proposte nel febbraio del 1998 dalla “United Nations High Commission for Human Rights” e dal “Joint United Nations Programme on AIDS”, che ammettono (punto 28 g della Guideline 3) la possibilità da parte delle legislazioni nazionali di autorizzare gli operatori sanitari, in singoli casi, a informare i partner sessuali dei propri pazienti dello stato di sieropositività per l’infezione dei pazienti medesimi, in accordo con i seguenti criteri (il docu-mento è consultabile al sito internet www.unaids.org):

– che la persona sieropositiva per l’infezione da HIV sia stata inserita in un adeguato programma di counselling;

– che il counselling non sia riuscito a determinare opportune modificazioni comportamentali;

– che la persona sieropositiva abbia rifiutato di comunicare, direttamente o indirettamente, il rischio di esposizione all’infezione al suo (o ai suoi) partner;

– che esista un rischio reale di trasmissione al (o ai) partner;– che l’identità della persona sieropositiva sia taciuta al (o ai) partner, sempre

che ciò sia possibile in pratica;– che sia garantito un adeguato sostegno alle persone coinvolte.

La stessa esigenza di pervenire a un punto di equilibrio nel bilanciamento tra diritti individuali e interessi della collettività è del resto attualmente particolarmente

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pressante anche nel caso dei dati genetici, per il cui trattamento lo stesso Garante per la protezione dei dati personali ha posto condizioni estremamente selettive, ma non ha posto un divieto assoluto, subordinando il trattamento non consen-suale di tali dati, in presenza di finalità di tutela dell’incolumità fisica e della salute di un terzo o della collettività, a un’apposita autorizzazione del Garante, in piena armonia – a testimonianza della legittimità dell’ipotizzato parallelismo con il caso dell’infezione da HIV – con quanto stabilito in tema di disclosure e confidentiality dalle raccomandazioni sovranazionali: il riferimento è in particolare alle Proposed internationalguidelinesonethical issues inmedicalgeneticsandgenetic services emanate nel dicembre del 1997 dalla Organizzazione Mondiale della Sanità (il documento è consultabile al sito internet www.who.int/en/), che ammettono, in determinati casi e nel rispetto di precise condizioni, la rivelazione del dato genetico.

Tornando all’inquadramento penalistico della questione, deve essere ricor-dato che, oltre all’art. 622 cp, può trovare applicazione, allorché il medico rive-sta la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, anche l’art. 326 cp, relativo alla rivelazione e utilizzazione di segreti di ufficio.

Se rispetto all’art. 622 cp eguale è il principio etico di riferimento, diverso è invece l’interesse tutelato, in quanto nell’ipotesi sanzionata dall’art. 326 cp tale interesse riguarda la Pubblica Amministrazione, donde la perseguibilità d’ufficio e la maggior pena comminata dal codice penale; diverso è inoltre anche l’oggetto della rivelazione, che nel caso in commento concerne le «notizie di ufficio, le quali debbano rimanere segrete», mentre nella fattispecie precedentemente ana-lizzata si fa riferimento al più ampio concetto di segreto professionale.

Le ipotesi sanzionate riguardano la rivelazione di segreti d’ufficio, l’agevolazione della loro conoscenza (punita anche a titolo di colpa) e l’utilizzazione illegittima del segreto d’ufficio, il cui fine (indebito profitto patrimoniale per sé o altri nella forma più grave; ingiusto profitto non patrimoniale per sé o altri o danno ingiusto ad altri nella forma più lieve) rende ragione della diversa previsione edittale.

Non è necessario, perché si perfezioni il reato, che l’informazione d’ufficio destinata a rimanere segreta sia resa pubblica o divulgata, ma è sufficiente «che essa sia utilizzata fuori dell’ambito istituzionale in cui deve restare confinata», né è necessario che il profitto prospettato si realizzi. Occorre infine precisare che il reato è punibile a titolo di dolo specifico, nel senso che «la volontà deve riguardare sia la condotta di chi si avvale» del segreto sia «l’obiettivo del pro-fitto indebito o del danno ingiusto arrecato ad altri».

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Si tratta di evenienze di raro riscontro in campo sanitario, anche se il veri-ficarsi di tale fattispecie di reato è ipotizzabile in riferimento al rapporto con industrie farmaceutiche o, più in generale, con terzi estranei al rapporto tra persona assistita e pubblica amministrazione.

La questione centrale dal punto di vista dell’analisi medico-legale è invero un’altra, e riguarda «l’esigenza di stabilire, relativamente al carattere di riserva-tezza proprio dei vari documenti sanitari e delle varie situazioni concretizzabili, quale delle due norme [tra art. 326 e art. 622 cp] sia applicabile in caso di vio-lazione dell’obbligo di segreto».

L’orientamento della dottrina giuridica su questo punto – almeno relati-vamente alle ipotesi di rivelazione del contenuto della cartella clinica – si è mostrato discorde, ora affermando la sussistenza della violazione della norma di cui all’art. 622 cp ora vedendovi la violazione dell’art. 326 cp ora infine sostenendo un’ipotesi di concorso formale di reati.

Al di là delle divergenze interpretative della dottrina, ciò che preme qui rilevare è – proprio in riferimento alla cartella clinica e, più in generale, a tutte quelle forme di registrazione dell’attività sanitaria a essa assimilabili – che nella conservazione di tale documento, di cui la giurisprudenza di legittimità ha costantemente ribadito la natura di atto pubblico, troppo spesso il medico indulge a comportamenti cor-rivi e talvolta in palese violazione non soltanto della norma penale, ma anche di quella deontologica. È vero che la normativa in materia è scarsa e ormai inadeguata rispetto alle esigenze dell’attuale realtà sanitaria, ma è altrettanto vero che si tratta del principale e più diffuso mezzo al quale è tuttora affidata la registrazione dell’in-sieme dei dati anamnestici, clinici e diagnostico-terapeutici della persona assistita (o, se si preferisce utilizzare l’espressione fatta propria dalla legislazione in tema di privacy, dei dati sensibili), per cui è più che mai doveroso per il medico conformarsi a un modello comportamentale improntato a prudenza e diligenza.

Un ultimo cenno merita la previsione di cui all’art. 200 cpp, che esonera il medico dall’obbligo di deporre nel processo penale su quanto ha conosciuto per ragione della propria professione, salvi i casi i cui vige l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria.

La previsione in questione, che sancisce una facoltà e non un dovere e che può essere superata dal giudice qualora vi sia il dubbio che la dichiarazione resa per esimersi dal deporre sia infondata, ha un corrispettivo nella norma deontologica (art. 10), che stabilisce un dovere assoluto, vietando al medico di

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«rendere al Giudice testimonianza su ciò che gli è stato confidato o è perve-nuto a sua conoscenza nell’esercizio della professione».

Ancora una volta, dunque, si ripropone l’antinomia tra diritto del singolo e interesse della collettività che percorre l’intero capitolo della riservatezza e che costituisce, per così dire, un leitmotiv ora sotterraneo ora drammaticamente manifesto dell’intera riflessione deontologica.

Ai conflitti a essa sottesi il medico non può sottrarsi; deve, invece, ricercare – si potrebbe dire caso per caso – la composizione tra istanze divergenti, nella con-sapevolezza che ai molteplici interrogativi che l’argomento in questione pone all’agire quotidiano del sanitario non è data una risposta universalmente valida.

Art. 12 - Trattamento dei dati sensibili

Al medico, è consentito il trattamento dei dati personali idonei a rivelare lo stato di salute del paziente previa richiesta o autorizzazione da parte di quest’ultimo, subordinatamente ad una preventiva informazione sulle conse-guenze e sull’opportunità della rivelazione stessa.Al medico peraltro è consentito il trattamento dei dati personali del paziente in assenza del consenso dell’interessato solo ed esclusivamente quando sussi-stano le specifiche ipotesi previste dalla legge ovvero quando vi sia la neces-sità di salvaguardare la vita o la salute del paziente o di terzi nell’ipotesi in cui il paziente medesimo non sia in grado di prestare il proprio consenso per impossibilità fisica, per incapacità di agire e/o di intendere e di volere; in quest’ultima situazione, peraltro, sarà necessaria l’autorizzazione dell’even-tuale legale rappresentante laddove precedentemente nominato. Tale facoltà sussiste nei modi e con le garanzie dell’art. 11 anche in caso di diniego dell’interessato ove vi sia l’urgenza di salvaguardare la vita o la salute di terzi.

La protezione dei dati sensibili

Normativa

Il settore sanitario rappresenta ratione materiae uno dei più sensibili alle novità introdotte e per questo la protezione dei cosiddetti dati sensibili, ossia di quei dati che, riferendosi alla sfera più intima dell’individuo (la salute e la vita sessuale, oltre agli estremi anagrafici), possono essere usati in modo distorto e

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illegittimo per finalità estranee alla loro raccolta, rappresenta attualmente una delle problematiche giuridiche ed etico-deontologiche maggiormente discusse e soggette a interventi di carattere interpretativo e normativo. D’altra parte, l’informatizzazione e l’ampia disponibilità dei dati sanitari implica la registra-zione e il trasferimento degli stessi fra più utenti e continua a sollevare vari quesiti proprio in materia di riservatezza e di sicurezza delle reti, con il corre-lativo problema degli obblighi e delle responsabilità degli operatori coinvolti e con l’osservanza dei precetti deontologici specifici delle professioni sanitarie.

Il diritto alla riservatezza, ossia a non rendere noti e utilizzabili i propri dati personali (anagrafici, di residenza ecc.), le proprie generalità, abitudini, prefe-renze ecc. ha oggi trovato piena e organica disciplina nel nostro ordinamento con il recente DLgs 30 giugno 2003 n. 196, consolidato con la legge 26 feb-braio 2004 n. 45 di conversione con modifiche dell’art. 3 del DL 24 dicembre 2003 n. 354.

Il decreto recepisce secondo la delega contenuta nella legge 127/2001 i contenuti della Direttiva 2002/58 CE, norma di diritto comunitario di attua-zione degli artt. 7 e 8 della menzionata Carta di Nizza.

I primi articoli (1-10) sono dedicati alla disciplina delle “regole generali” in materia di diritto alla riservatezza e trattamento dei dati sensibili.

Gli artt. 11-22 dettano le regole generali per il trattamento dei dati personali (informative, trattamento illecito e risarcimento danni, trattamento effettuato da soggetti che effettuano il trattamento dei dati e il trasferimento dei dati all’estero).

La seconda parte della norma è dedicata alle diverse fattispecie di tratta-mento dei dati personali con risvolti pubblicistici (ambito giudiziario, di poli-zia, sanitario, con scopi di ricerca ecc.) al settore bancario e al settore del lavoro e della previdenza sociale.

Infine la terza parte della norma racchiude negli artt. 141-186 le regole dedicate alla tutela giurisdizionale avanti il giudice ordinario e il reclamo avanti il Garante con le relative sanzioni.

Trattamento dei dati personali in ambito sanitario

Il titolo V del DLgs 196/2003 disciplina il trattamento di dati personali in ambito sanitario. L’art. 77 in deroga alla normativa generale del Codice in materia di protezione dei dati personali indica le modalità semplificate che dovranno seguire gli esercenti le professioni sanitarie per l’informativa e l’acquisizione del consenso.

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I medici e gli odontoiatri ai sensi dell’art. 76 trattano i dati idonei a rivelare lo stato di salute:a) con il consenso dell’interessato senza l’autorizzazione del Garante, se il

trattamento riguarda dati e operazioni indispensabili per perseguire la fina-lità della tutela della incolumità fisica dell’interessato;

b) anche senza il consenso dell’interessato, ma previa autorizzazione del Garante se la tutela della salute e dell’incolumità fisica riguarda un terzo o la collettività.

Nel caso di cui al comma a il consenso è prestato con le modalità semplificate. Sempre nelle fattispecie di cui al primo comma lett. a), e abolita la successiva lettera a l’autorizzazione del Garante è rilasciata sentito il Consiglio Superiore di Sanità a meno che si tratti di particolare urgenza.

L’art. 81 del DLgs in questione disciplina la prestazione del consenso che può essere manifestato anche con una dichiarazione orale. In tal caso il consenso è documentato anziché con atto scritto dell’assistito con annotazione dell’eser-cente la professione sanitaria riferita al trattamento di dati effettuati da uno o più soggetti e alla informativa all’interessato, nei modi indicati negli artt. 78-79-80.

Detta documentazione, anche al fine di renderla riconoscibile ad altro pro-fessionista, può essere resa conoscibile dal medico di famiglia o dal pediatra di libera scelta con apposita annotazione o apposizione di un bollino su carta elettronica o tessera sanitaria. In tutti i casi l’annotazione deve contenere il richiamo all’art. 78, comma 4.

La previsione dell’annotazione o dell’apposizione di un bollino sulla carta elettronica o sulla tessera sanitaria favorisce la circolazione del consenso dei dati che fa carico, nella fattispecie, esclusivamente al medico di famiglia.

Peraltro il medico di famiglia, il pediatra di libera scelta e il libero profes-sionista medico e odontoiatra possono acquisire il consenso in forma scritta attraverso la sottoscrizione di un modello predefinito. Il modello dovrà essere custodito dal medico o dall’odontoiatra e potrà essere esibito in caso di conte-stazione dell’avvenuto consenso.

L’informazione della persona assistita

Circa le modalità dell’informazione al paziente, il codice della privacy punta ad uno snellimento della disciplina attraverso l’adozione di modalità semplifi-cate in base alle quali: – l’interessato o la persona presso la quale sono raccolti i dati personali deve

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essere previamente informato per iscritto o oralmente circa le finalità/modalità del trattamento cui i dati sono destinati;

– la natura obbligatoria/facoltativa del conferimento dei dati; – le conseguenze di un eventuale rifiuto a rispondere;– i soggetti/le categorie di soggetti ai quali i dati personali possono essere

comunicati o che possono venirne a conoscenza in quanto responsabili/incaricati, o nell’ambito della diffusione dei dati stessi;

– i diritti dell’interessato;– gli estremi identificativi del titolare o di un suo rappresentante.

In ambito sanitario l’articolo 78 individua le modalità di semplificazione per l’informativa all’interessato da parte del medico “di famiglia” (o del pedia-tra), sotto tre profili:

– per quanto riguarda l’ambito “oggettivo” di applicazione, l’informativa può essere fornita, con un unico atto, per il complessivo trattamento di dati relativo al paziente (diagnosi, cura, riabilitazione ecc.) e può riguardare anche dati raccolti presso terzi;

– sotto il profilo “soggettivo”, essa può riguardare anche il trattamento di dati “correlato” a quello del medico “di famiglia”, ef fettuato da altro pro-fessionista che con quello venga, in vario modo, in contatto professionale nell’interesse del paziente;

– infine, circa le modalità, l’informativa è resa preferibilmente per iscritto, ma anche con modalità alternativa come le più recenti carte tascabili o altri simili strumenti, integrandola oralmente se necessario.

Appare allora evidente, che anche se semplificata, l’informazione al paziente dovrà comunque essere adeguata alla sua cultura, alle sue possibilità cognitive, alle sue condizioni psichiche e di emotività; deve garantire, inoltre, una comprensione corretta e completa dei dati che possono essere trattati, delle operazioni eseguibili e delle rilevanti finalità dell’interesse pubblico per-seguito. Se questo è vero, non si può, tuttavia, fare ancora una volta a meno di rilevare la peculiarità del sistema normativo predisposto dal legislatore atteso che il medico di medicina generale si trova a dover fornire al paziente una serie piuttosto vasta e articolata di informazioni, in modo semplificato, ma omnicomprensivo e a dover affrontare tematiche delicatissime (AIDS, HIV positività, tossicodipendenza, interruzione volontaria della gravidanza)

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4. Gli obblighi del medico 171

nei confronti delle quali è tuttora presente una certa forma di diffidenza e di pudore.

Proprio per questo, al fine di non pregiudicare il rapporto fiduciario che necessariamente deve essere alla base del rapporto medico-paziente, appare difficile inquadrare le modalità dell’informazione in regole standardizzate e rigide, dovendosi semmai rivalutare il ruolo delle norme deontologiche che sembrano, ancora una volta, da sole in grado di indicare quali siano i presuppo-sti che il medico deve rispettare affinché la comunicazione possa dirsi corretta.

Deroghe ammesse

La previsione di specifiche deroghe, nei casi in cui si impongono cogenti esi-genze di tutela della salute e della collettività, ha trovato un’attenta normazione nel codice della privacy laddove nell’art. 24 sono state riunite, in ragione della sostan-ziale omogeneità della disciplina, le disposizioni che autorizzano il trattamento di dati personali anche in assenza del consenso, unificando, in sostanza, i previgenti articoli 12 e 20 della legge n. 675/1996. L’art. 24 fa salve le specificità riconosciute, in alcuni casi, per la comunicazione e, soprattutto, per la diffusione dei dati (lett. c, f, e g). La disciplina risulta ora più chiara, essendo state eliminate alcune dupli-cazioni e apportate talune opportune precisazioni; in relazione alle lettere a) e b), è stato meglio specificato, in conformità a quanto previsto dalla direttiva europea (art. 7, par. 1, lett. c), Dir. 95/46/CE), il presupposto di liceità del trattamento relativo alla sussistenza di un obbligo legale, riferita ora correttamente alla neces-sità di adempiere comunque ad un obbligo previsto dalla legge, e non più solo al caso di “dati raccolti e detenuti” in base al medesimo obbligo. Inoltre il legislatore ha inteso chiarire che il presupposto di liceità del trattamento riferito all’esigenza di salvaguardare la vita o l’incolumità di un terzo è comunque applicabile anche fuori dei precedenti casi in cui veniva specificato che l’interessato non può, per incapacità o altri motivi, prestare il proprio consenso. In relazione al caso in cui la medesima finalità riguardi la vita o l’incolumità dell’interessato, la disciplina risulta conforme a quella vigente in ambito sanitario in relazione al trattamento di dati idonei a rivelare lo stato di salute per finalità di cura della persona, che in base alle disposizioni previgenti risultava più rigorosa rispetto a quella del tratta-mento di dati comuni o sensibili effettuato da soggetti diversi da quelli sanitari. La disciplina prevede, ora, che anche in questi ultimi casi, se manca il consenso della persona incapace o altrimenti impossibilitata a prestarlo è necessario acquisire il

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consenso dei prossimi congiunti o familiari, e si può procedere al trattamento dei dati personali dell’interessato solo se sia impossibile acquisire anche il consenso di tali soggetti o vi è rischio grave e imminente per la salute della persona, purché il consenso sia acquisito successivamente (art. 82, comma 2).

Questa novità legislativa è stata sostanzialmente recepita nel nuovo Codice di Deontologia del 2006 che, nell’ultimo periodo dell’art. 12, contiene anche il riconoscimento, in favore del medico, della facoltà di procedere al trattamento dei dati personali di un assistito, anche in presenza del diniego dell’interessato, ove vi sia «l’urgenzadisalvaguardarelavitaolasalutediterzi», senza la necessità di richiedere un’autorizzazione al Garante, come invece era previsto nell’art. 9 del Codice deontologico del 1998.

Riguardo al DPR 10 novembre 1999 (Tutela salute mentale 1998-2000) che prevede che presso la direzione del Dipartimento di salute mentale (DSM) sia collocato il sistema informativo dipartimentale che raccoglie, elabora e archivia i dati di struttura, processo di esito, il Garante precisa che ciò non impone alle strutture di ricovero private di fornire al DSM competente l’elenco nominativo dei soggetti che abbiano fatto ricorso a esse. È da verificare, codice alla mano, se debbano essere inviati al sistema informativo del DSM solo dati anonimi e aggregati e non anche i loro dati identificativi.

Reclami alle ASL e qualità del SSN

Riguardo al trattamento di dati raccolti dalle ASL, telefonicamente o tra-mite altri strumenti di indagine, relativamente alla gestione dei reclami, o per il rilevamento della qualità sanitaria, si precisa che – nonostante venga consi-derato di rilevante interesse pubblico dal codice – tali indagini possono essere effettuate solo dopo aver individuato i tipi di dati trattabili e le operazioni su di essi eseguibili secondo il Codice.

In materia di consegna dei referti medici, l’Autorità – ricordando numerosi casi di ASL che li trasmettevano tramite fax di altri soggetti (tabaccheria, uffici privati ecc.) – ricorda come il Codice preveda che i dati personali inerenti lo stato di salute possano essere resi noti al paziente solo per il tramite del medico designato dallo stesso. Il Codice stabilisce, inoltre, che il personale di assistenza sanitaria, non tenuto per legge al segreto professionale, possa venire a cono-scenza delle informazioni sullo stato di salute dei pazienti, solo per quanto riguarda quelle strettamente necessarie per il migliore svolgimento delle sue

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4. Gli obblighi del medico 173

funzioni, e di trattarle comunque in conformità alla normativa in materia di protezione dei dati personali.

Con l’introduzione di un modello di ricetta medica a lettura ottica e la costituzione di una banca-dati centralizzata (contenente il codice fiscale degli assistiti) in cui confluiscono i dati riguardanti le prescrizioni di farmaci e di prestazioni specialistiche, al fine di monitorare meglio e tenere sotto controllo la spesa sanitaria, si incorre però anche nel problema (e nel rischio) di per-mettere abusivamente la ricostruzione analitica della storia sanitaria di ciascun soggetto.

Riguardo alla ricorrente sollecitazione di pronunciarsi in merito alla possibi-lità di comunicare ai familiari lo stato di sieropositività di un paziente con pro-gnosi grave, il Codice non contiene deroghe alle disposizioni di legge vigenti, soprattutto la legge 5 giugno 1990, n. 135 che stabilisce l’obbligo di comunicare i risultati di accertamenti diagnostici, diretti o indiretti, per l’infezione dell’HIV, alla sola persona cui tali esami si riferiscono. Pertanto la comunicazione ai fami-liari non può prescindere dal consenso dell’interessato. Particolarmente con-troverso è invece – anche in termini di responsabilità penale – la valutazione dell’opportunità che il medico provveda a sensibilizzare la persona sieropositiva e cerchi di persuaderla a comunicare al coniuge la propria sieropositività oppure a manifestare il proprio consenso alla rivelazione da parte del medico stesso. Sono da valutare, infatti, le possibili responsabilità penali del soggetto che, con-sapevole del proprio stato patologico, ometta di informare il coniuge, nonché le riflessioni in ambito giuridico e scientifico sui presupposti per l’eventuale appli-cazione del cosiddetto “stato di necessità” nel caso in cui la sieropositività sia resa nota dal medico, senza un consenso, ad un familiare del paziente. Il difficile bilanciamento dei diversi interessi – sostiene il Garante – non può essere risolto applicando tout court le recenti disposizioni che prevedono, in caso di impossi-bilità fisica, di agire o di intendere, o di volere dell’interessato, che il consenso possa essere validamente prestato anche da persone diverse da quest’ultimo, dovendosi considerare anche la norma che la riguarda, in termini omogenei rispetto a tutto il quadro normativo. Senza una forte tutela delle loro informa-zioni, le persone rischiano sempre di più d’essere discriminate per le loro opi-nioni, credenze religiose, condizioni di salute: la privacy si presenta così come un elemento fondamentale della società dell’eguaglianza. Senza una forte tutela dei dati riguardanti i loro rapporti con le istituzioni o l’appartenenza a partiti,

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Manuale della Professione Medica174

sindacati, associazioni, movimenti, i cittadini rischiano d’essere esclusi dai pro-cessi democratici: così la privacy diventa una condizione essenziale per essere inclusi nella società della partecipazione. Senza una forte tutela del “corpo elet-tronico”, dell’insieme delle informazioni raccolte sul nostro conto, la stessa libertà personale è in pericolo e si rafforzano le spinte verso la costruzione di una società della sorveglianza, della classificazione, della selezione sociale.

In materia di dati personali in ambito sanitario, il Garante ha adottato un provvedimento ove sono individuati i trattamenti di dati idonei a rivelare lo stato di salute esonerati dall’obbligo di notificazione di cui all’art. 37 del Codice (Deli-berazione n. 1, del 31 marzo 2004). Sono esonerati da tale obbligo esclusiva-mente i trattamenti effettuati dai singoli professionisti e dagli altri medici che, in forma associata, condividono il trattamento con altri professionisti, specie all’in-terno di uno stesso studio medico. L’esenzione riguarda solo tali soggetti e si riferisce unicamente al trattamento di dati genetici e biometrici, di dati relativi alla procreazione assistita, ai trapianti, alle indagini epidemiologiche, alla rilevazione delle malattie mentali, infettive, diffusive e alla sieropositività che siano effet-tuati nell’ambito degli ordinari rapporti con il paziente. L’esonero non opera, invece, se il trattamento è sistematico e assume il carattere di costante e preva-lente attività del medico come, ad esempio, quello dei dati genetici effettuato da un genetista. Non è previsto esonero neppure per i trattamenti di dati genetici e biometrici effettuati da strutture sanitarie pubbliche o private (ospedali, case di cura e di riposo, Aziende sanitarie, laboratori di analisi, associazioni sportive).

Il Garante precisa che devono essere notificati solo i trattamenti relativi ad una banca-dati on-line. Non vanno quindi notificati i trattamenti di dati sanitari nell’ambito della tele-assistenza (consultazione di specialisti per via telefonica) e quelli organizzati in archivi cartacei, o informatizzati ma non collegati ad una rete telematica. Non devono notificare dati, infine, i medici che usano il computer, unicamente nel proprio ufficio, utilizzando posta elettronica per dialogare con i pazienti e per effettuare prenotazioni per gli assistiti.

L’Autorità interviene in collaborazione con il Ministero della Salute in ordine alle modalità di attuazione dell’art. 17 della legge n. 40/2004 nella parte in cui prevede che le strutture e i centri in cui si praticano tecniche di procre-azione medicalmente assistita trasmettano al Ministero «un elenco contenente l’indicazione numerica degli embrioni prodotti […] nonché», nel rispetto delle vigenti disposizioni sulla tutela della riservatezza dei dati personali, l’indica-

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4. Gli obblighi del medico 175

zione nominativa di coloro che hanno fatto ricorso alle tecniche medesime a «seguito delle quali sono stati formati gli embrioni». Il Ministero ha poi speci-ficato che non si sarebbe più sollecitata una comunicazione nominativa di tutti gli interessati che avevano fatto ricorso alla procreazione assistita presso i cen-tri e che, al contrario, si sarebbe proceduto alla sola richiesta di inviare al Mini-stero una serie di codici numerici riferiti al centro, alla Regione di riferimento e a un numero sequenziale per ogni embrione congelato, in collegamento con i dati identificativi (che rimarranno in possesso esclusivamente dei centri).

Il trattamento dei dati genetici

Il Garante per la protezione dei dati personali ha emanato in data 22/2/2007, un’autorizzazione generale al trattamento dei dati genetici, pubbli-cata sulla GU n. 65 del 2007 e reperibile sul sito www.garante privacy.it.

Questo provvedimento ha la precisa finalità di assicurare un’adeguata pro-tezione ai dati genetici, categoria nella quale la Raccomandazione n. R(97) inse-risce «tuttiidati,diqualunquetipo,cheriguardanoicaratteriereditaridiunindividuoochesonoinrapportoconicarattericheformanoilpatrimoniodiungruppodiindividuiaffini» e che, pur rientrando nella più ampia categoria dei dati sanitari, per la loro particolarità possono essere trattati solo a determinate condizioni.

Il provvedimento in esame, dopo avere definito il dato genetico come «il dato che, indipendentementedalla tipologia, riguarda la costituzionegenotipicadiun individuo,ovvero i caratteri genetici trasmissibili nell’ambito di un gruppo di individui legati da vincoli di parentela», individua e precisa l’ambito di applicazione dell’autorizzazione gene-rale, le finalità consentite del trattamento e le modalità di trattamento, nonché le modalità con le quali deve essere fornita all’interessato l’informativa e deve essere raccolto il consenso e individua la durata massima della conservazione dei campioni biologici prelevati e dati genetici trattati.

In relazione all’informativa che deve essere fornita all’assistito, appare utile evidenziare che per il medico di medicina generale e il pediatra di libera scelta rimangono ferme le prescrizioni al riguardo contenute nell’art. 78 del DLgs n. 196 del 2003 in quanto nell’autorizzazione generale del 22/2/2007 è stabilito che per i trattamenti «non sistematici di dati genetici – [effettuati da queste cate-gorie di sanitari] nell’ambito degli ordinari rapporti con l’interessato per la tutela della saluteedell’incolumitàfisicadiquest’ultimo» – non si applicano gli ulteriori obblighi informativi previsti nel provvedimento in esame.

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L’autorizzazione in oggetto aveva, in origine, efficacia dal 1 aprile 2007 al 31 dicembre 2008; questa durata è stata poi prorogata con successivi prov-vedimenti del Garante, tra cui va menzionata la delibera del 27 aprile 2010, pubblicata sulla GU n. 108 dell’11/5/2010, nella quale si evidenzia che, tenuto anche conto delle proposte di modifica e integrazione sottoposte all’attenzione del Garante da parte della Società di genetica umana, è stato elaborato un nuovo schema di autorizzazione che è stato trasmesso al Ministero della Salute al fine di acquisire il parere dell’Istituto Superiore di Sanità, prescritto dall’art. 90, primo comma, del codice in materia di protezione dei dati personali di cui al DLgs n. 196 del 2003.

La materia, anche per la sua peculiarità, non ha ancora trovato, quindi, una sua stabile regolamentazione normativa.

Art. 51 - Obblighi del medico

Il medico che assista un cittadino in condizioni limitative della libertà perso-nale è tenuto al rispetto rigoroso dei diritti della persona, fermi restando gli obblighi connessi con le sue specifiche funzioni.In caso di trattamento sanitario obbligatorio il medico non deve richiedere o porre in essere misure coattive, salvo casi di effettiva necessità, nel rispetto della dignità della persona e nei limiti previsti dalla legge.

Il Capo IX del Codice di Deontologia medica è dedicato a “trattamento medico e libertà personale”. Con il termine “trattamento medico” si viene a confermare l’ampliamento dell’ambito di pertinenza che precedentemente faceva riferimento in modo esclusivo ai pazienti reclusi.

L’art. 51 del Codice sottolinea pertanto che il medico è comunque sempre tenuto a rispettare i diritti della persona assistita, anche se questa versa in condi-zioni restrittive e/o limitative della libertà personale per motivi giudiziari, mentre il secondo comma precisa che il sanitario non deve porre in essere misure coat-tive se il soggetto passivo rifiuta il trattamento sanitario obbligatorio, salvo i casi di effettiva necessità, e sempre nel pieno rispetto della dignità umana.

Si è pertanto ribadito come il medico, se non in casi eccezionali e previsti dalle normative vigenti, non possa e non debba mai essere fonte di violenza e di costrizione nei confronti di un paziente che non voglia essere sottoposto

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4. Gli obblighi del medico 177

a determinati trattamenti e terapie, come suggerisce il dettato costituzionale.Lo stato di reclusione del paziente in istituti di pena non comporta per

il medico alcuna modifica dei doveri di rispetto dei diritti e della dignità dell’assistito. Il dovere del medico, individuato nell’art. 3 nella «tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana», non deve subire condizionamenti nel caso la persona assistita si trovi in condizioni limitative della libertà personale.

Viene quindi in tal modo recepito il principio costituzionale per il quale tutti i cittadini hanno pari dignità senza distinzione di sesso, razza, lingua, reli-gione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali.

Il medico anche in considerazione degli obblighi connessi con le sue specifiche funzioni, al rispetto delle quali il contenuto dell’art. 51 si richiama, non potrà con-travvenire a quei doveri deontologici che caratterizzano la sua attività professionale.

Art. 52 - Tortura e trattamenti disumani

Il medico non deve in alcun modo o caso collaborare, partecipare o sempli-cemente presenziare a esecuzioni capitali o ad atti di tortura o a trattamenti crudeli, disumani o degradanti.Il medico non deve praticare, per finalità diversa da quelle diagnostiche e terapeutiche, alcuna forma di mutilazione o menomazione, né trattamenti cru-deli, disumani o degradanti.

Tra i divieti previsti all’art. 52, per il medico si rileva anche la sola collabo-razione, la partecipazione (diretta o indiretta) ad atti di tortura o a trattamenti crudeli, disumani e degradanti contro i suoi simili, e financo la presenza alle esecuzioni capitali, anche se nel nostro paese la pena di morte non è prevista dall’ordinamento giuridico; inoltre in tal senso è stato modificato anche l’ordi-namento militare che la stabiliva solo in caso di guerra. Il fatto che nella nostra nazione il problema delle esecuzioni capitali non esista avvalora il rilievo che il Codice dà al divieto sopraindicato, intendendolo come volontà esplicativa anche internazionale in merito alla tematica della pena di morte.

In certi paesi, per esempio alcuni stati degli USA, questa pena ancora esi-ste ed è prevista nell’ordinamento giudiziario, nonostante il dibattito pubblico contro la stessa ferva continuamente a livello sanitario, sociale e politico.

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In situazioni di questo tipo la presenza del medico è richiesta, e pertanto chi vi partecipa non è poi sanzionato sotto nessun profilo.

L’ultimo comma dell’art. 52 pone divieto al medico di praticare qualsiasi forma di mutilazione sessuale femminile, per finalità che non siano diagnosti-che e/o terapeutiche, e certamente risente della nuova struttura multirazziale della società, venendosi a configurare come forma di rifiuto di qualunque tipo di attività, sia pure sostenuta da motivazioni ideologiche, filosofico-spirituali e religiose, che è però da ritenere illecita sotto il profilo squisitamente etico-deontologico, configurandosi per esempio l’infibulazione una forma di mutila-zione che non può venire accettata nella società moderna e progredita.

Il dettato dell’art. 52 del Codice di Deontologia medica sancisce anche l’assoluta incompatibilità dell’esercizio della medicina con pratiche lesive della libertà, della dignità e dell’integrità dell’essere umano, e dovunque tali pratiche vengano effettuate il medico non può neanche solamente presenziare.

Anche nei codici di altri paesi europei, per esempio Francia, Spagna, Por-togallo e Lussemburgo, al medico è vietato partecipare direttamente o indiret-tamente a torture e trattamenti degradanti per la natura umana, sia in tempo di pace sia in occasioni belliche, e in alcuni casi è specificato che egli può spor-gere denuncia all’autorità giudiziaria qualora visitando un detenuto constati che questi abbia subito maltrattamenti o trattamenti inumani o crudeli (anche se nel codice del Lussemburgo è necessario il consenso dell’interessato a meno che non versi in condizioni tali da non poterlo esprimere).

Per quanto rileva comunque l’obbligo del medico di denunciare all’autorità giu-diziaria situazioni delittuose di maltrattamenti o lesioni a reclusi dallo stesso con-statate, ricordiamo come l’obbligo sia giuridicamente stabilito dal Codice penale agli artt. 361, 362 e 365, riguardanti, rispettivamente, l’omessa denuncia da parte di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio e l’omissione di referto.

Art. 53 - Rifiuto consapevole di nutrirsi

Quando una persona rifiuta volontariamente di nutrirsi, il medico ha il dovere di informarla sulle gravi conseguenze che un digiuno protratto può compor-tare sulle sue condizionni di salute. Se la persona è consapevole delle pos-sibili conseguenze della propria decisione, il medico non deve assumere iniziative costrittive né collaborare a manovre coattive di nutrizione artificiale nei confronti della medesima, pur continuando ad assisterla.

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4. Gli obblighi del medico 179

L’argomento trattato nell’articolo ha una valenza generale, in quanto pre-vede che una qualunque persona sana di mente possa rifiutare volontariamente e consapevolmente di nutrirsi, rilevando l’importanza e l’attualità di fenomeni ormai piuttosto abituali nella nostra società moderna, soprattutto a livello ado-lescenziale, che sempre più di frequente il medico si trova a dover affrontare. Questo articolo fornisce al sanitario delle direttive e linee-guida che, da un lato, ribadiscono il dovere di informare il soggetto sulle conseguenze della sua azione e, dall’altro, sottolineano la libertà dello stesso, con l’assunzione da parte sua della responsabilità delle conseguenze della propria decisione. Il medico, inoltre, non è tenuto ad assumere iniziative di tipo costrittivo, in piena coerenza con le preposizioni già esplicitate nel Codice in tema di con-senso informato. Viene evidenziato sempre il dovere primario del medico, cioè quello di fornire assistenza al soggetto qualora ne necessitasse, in ogni caso.

Art. 40 - Donazione di organi, tessuti e cellule

È obbligo del medico la promozione della cultura della donazione di organi, tessuti e cellule anche collaborando alla idonea informazione ai cittadini.

Art. 41 - Prelievo di organi e tessuti

Il prelievo di organi e tessuti da donatore cadavere a scopo di trapianto terapeu-tico può essere effettuato solo nelle condizioni e nei modi previsti dalla legge.Il prelievo non può essere effettuato per fini di lucro e presuppone l’assoluto rispetto della normativa relativa all’accertamento della morte e alla manifesta-zione di volontà del cittadino.Il trapianto di organi da vivente è una risorsa aggiuntiva e non sostitutiva del trapianto da cadavere, non può essere effettuato per fini di lucro e può essere eseguito solo in condizioni di garanzia per quanto attiene alla comprensione dei rischi e alla libera scelta del donatore e del ricevente.

I trapianti di organi e tessuti costituiscono certamente uno dei più rilevanti progressi della medicina nella cura di un grande numero di malattie per le quali non esiste nessuna soluzione alternativa e i progressi delle tecniche chirurgiche

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associati alla scoperta di nuovi farmaci hanno migliorato moltissimo la tolleranza dell’organo trapiantato nel ricevente, facendo sì che migliaia di persone che ne avevano assoluto bisogno beneficiassero con successo della trapiantologia. Con la legge del 1° aprile 1999, n. 91, l’Italia ha sviluppato ormai un modello efficace per la donazione e il trapianto di organi che ha permesso al paese di raggiun-gere una buona posizione a livello europeo: tuttavia il grande problema rimane sempre quello della domanda, che inevitabilmente supera l’offerta. Per questo è necessario che il medico innanzitutto sensibilizzi le persone sul fatto che la collaborazione di ciascuno di noi in questo campo è fondamentale per poter diminuire il divario tra la disponibilità la necessità di organi.

Le principali istanze etico-deontologiche rispetto ai trapianti sono rappre-sentate dalle seguenti fattispecie, nel caso di donazione da donatore vivente: 1) la donazione stessa non deve essere considerata un obbligo morale, ma un grande atto positivo; 2) i valori morali di una libera donazione di rene non possono essere oggetto di scelta da parte dei centri di trapianto, ma debbono essere lasciati alla libera e consapevole decisione dei singoli; 3) la vendita degli organi è immorale in quanto esclude il meno abbiente, mortifica la dignità del donatore, viola il principio della capacità di accesso alle prestazioni; 4) il donatore dovrebbe essere un consanguineo che dia un libero consenso o può essere un non consanguineo, se legato affettivamente; 5) un minorenne non dovrebbe essere donatore vivente; 6) i rischi generici per il donatore sono da mettere in bilancio con il vantaggio per il malato.

Nel caso di donazione da donatore cadavere, invece, dovrebbe verificarsi quanto segue: 1) il consenso dei familiari, in assenza di altre disposizioni del de cuius, dovrebbe essere ottenuto, o quanto meno il non rifiuto all’espianto; 2) il prelievo degli organi va eseguito dopo la definizione della morte cerebrale con i parametri dettati dalle norme per accertarla, con accertamento di morte eseguito da équipe indipendenti da quelle che espiantano e da quelle che tra-piantano; 3) l’esecuzione di tutte le indagini diagnostiche a oggi conosciute per escludere il rischio di trasmissione di malattia attraverso il trapianto; 4) la scelta del trapianto come terapia per un dato paziente deve sempre essere conside-rata in alternativa ad altre, mediante la valutazione costi-benefici e dei rischi-benefici e la considerazione innanzitutto del bene del paziente, caso per caso e situazione per situazione, della cultura che le persone esprimono nei confronti del trapianto e anche della morte; 5) la scelta dei riceventi dalle liste di attesa

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4. Gli obblighi del medico 181

deve avvenire sulla base di criteri predeterminati e condivisi, che tengono conto della compatibilità degli organi, delle condizioni di gravità dei pazienti e del tempo di attesa; 6) gli organi prelevati in una regione devono essere attri-buiti ai centri trapianto della stessa regione, con eccezioni regolamentate per le urgenze, le emergenze, i prestiti e le restituzioni a livello interregionale, nazio-nale e internazionale; 7) i prelievi e i trapianti di organi (non di cornea) devono essere eseguiti solo in strutture pubbliche, con autorizzazione del Ministero della Sanità; 8) rendicontazione pubblica dell’attività, della provenienza degli organi, dei trapianti eseguiti e dei loro risultati immediati e a distanza.

Il trapianto a scopo di lucro non è deontologicamente ammesso, perché prevede il pagamento di un compenso a un donatore vivente, che in cambio offre un proprio organo: in questo caso il trapianto può interessare solo organi e tessuti non vitali (per esempio il rene) o capaci di rigenerarsi (fegato, midollo osseo). Il crescente sviluppo che riguarda tale pratica è da imputarsi alla mag-giore richiesta di trapianti, alla minor disponibilità di trapianto da cadavere e a un allungamento delle liste di attesa, oltre che a una crescente offerta sul mercato internazionale.

Il trapianto a scopo di lucro non sempre è un atto volontario di un singolo donatore, ma è spesso associato al traffico di organi umani. Desta infatti pre-occupazione la scomparsa ogni anno di migliaia di bambini, mai più ritrovati, in Italia e altri paesi europei, e il fatto che le adozioni internazionali registrate nei paesi UE sono molte meno del numero di bambini partiti per l’Europa secondo le anagrafiche dei paesi di origine; a questi si sommano i feti di aborti clandestini (cellule staminali) dei quali non si conosce la fine e l’ipotesi di un mercato degli aborti nelle fasce povere della popolazione, dovuti non a una libera scelta della puerpera, ma alla possibilità di prelievo e vendita degli organi da cadavere.

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5Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente

A.Alimonti,F.Centini,S.DelVecchio,D.Mattei,A.Pagni

Art. 5 - Educazione alla salute e rapporti con l’ambiente

Il medico è tenuto a considerare l’ambiente nel quale l’uomo vive e lavora quale fondamentale determinante della salute dei cittadini.A tal fine il medico è tenuto a promuovere una cultura civile tesa all’utilizzo appropriato delle risorse naturali, anche allo scopo di garantire alle future generazioni la fruizione di un ambiente vivibile.Il medico favorisce e partecipa alle iniziative di prevenzione, di tutela della salute nei luoghi di lavoro e di promozione della salute individuale e collettiva.

Attenzione per l’ambiente e prevenzione della salute

La ricerca applicata, l’evoluzione delle tecnologie, il progresso delle cono-scenze in tutte le discipline scientifiche in particolar modo nel campo medico, l’incremento delle risorse destinate alla prevenzione delle malattie sono tra i principali fattori che hanno contribuito e contribuiscono al prolungamento delle aspettative di vita e al miglioramento dello stato di salute della popolazione.

D’altra parte, invece, il vertiginoso sviluppo delle attività industriali e pro-duttive, non più confinate in determinate aree, mostra evidenti ripercussioni in zone del pianeta sempre più estese e lontane, minacciando il diritto alla salute di intere popolazioni. Molti fenomeni, infatti, tra i quali basti citare il surriscal-damento globale, dimostrano come l’equilibrio uomo/ambiente sia di gran lunga influenzato dalle esigenze indotte da rapporti economici e sottovaluti l’impatto di tali cambiamenti sulla salute umana.

Un esempio eclatante è rappresentato dalla progressiva riduzione di una risorsa essenziale per la vita dell’uomo come l’acqua potabile. Attualmente,

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Manuale della Professione Medica184

anche per effetto della significativa riduzione delle risorse idriche superficiali e profonde, compromesse dalla contaminazione antropica, un miliardo e 500 milioni di persone non hanno accesso all’acqua ed oltre 2,5 miliardi non ne hanno abbastanza per soddisfare le proprie esigenze igieniche. Si tratta di carenze che non rappresentano solo un disagio, ma negano il diritto alla vita a milioni di persone.

Più in generale, gli effetti delle attività antropiche sull’ambiente compor-tano il trasferimento di fattori di rischio di natura chimica, fisica e/o biologica dall’ambiente all’uomo attraverso un’esposizione diretta o indiretta, ad esem-pio mediante il consumo di alimenti contaminati (Tabella 5.1).

Tabella 5.1. Esempi dell’influenza dell’ambiente sulla salute(modificata da: http://www.sepa.org.uk/publications/state_of/2006/main/d_human_health.html)

Implicazioni sanitarie

AriaUna scarsa qualità dell’aria può contribuire al peggioramento dei sintomi in caso di disturbi respiratori quali bronchite ed asma e può determinare l’aumento dell’incidenza di malattie cardiovascolari.

Suolo

La contaminazione dei suoli aumenta il rischio di esposizione ad agenti chimici attraverso la rete alimentare, il contatto diretto o la contaminazio-ne delle risorse idriche. Tale esposizione può dar luogo a patologie (acu-te) anche gravi come ad esempio quelle causate da agenti microbiologi-ci (Escherichia coli type 0157) o può determinare effetti a lungo termine (ad es., aumento dell’incidenza di casi di tumore).

Acqua

L’inquinamento può interessare le risorse di acqua potabile, le acque di bal-neazione e ricreazionali e infine, tutte quelle aree dove ad es. viene pratica-to l’allevamento e la raccolta di molluschi. Un particolare aspetto riguarda anche le patologie gastrointeistinali idrodiffuse dovute a contaminazione microbica.

Clima I cambiamenti climatici possono determinare l’aumento di infezioni associate ad una variazione selettiva del profilo microbiologico.

Agenti chimici L’accumulo nell’ambiente di metalli e di composti organici persistenti può rappresentare un rischio per la salute (aumento dei casi di cancro).

Radiazioni

L’esposizione diretta a radiazioni e l’accumulo di radioattività nella rete ali-mentare può contribuire ad aumentare il rischio di cancro. L’esposizione al radon da fonti naturali in casa è correlata all’aumento di incidenza di cancro ai polmoni.

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5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 185

Eutrofizzazione

Azoto e fosforo di diversa origine (ad es. allevamenti) possono determinare effetti negativi sulla qualità dell’acqua, come ad es. l’insorgere di fioriture algali potenzialmente dannose per l’uomo (irritazioni cutanee, disturbi ga-strointestinali, danni epatici).

Rifiuti

Rifiuti urbani possono produrre germi nocivi. Durante il ciclo di smaltimento si possono produrre sostanze tossiche e cancerogene in grado di innalzare i tassi di mortalità per cancro e il numero di malformazioni nelle popolazioni residenti vicino alle discariche.

Che l’ambiente giochi un ruolo essenziale nel determinare le condizioni di salute e la qualità di vita dell’individuo e di una popolazione è, del resto, dram-maticamente evidenziato dalle molteplici “emergenze ambientali” verificatesi negli ultimi anni e contraddistinte da eccezionali intensità ed estensione, tanto da dover essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari. È del resto ben noto che il 75% delle patologie e delle cause di morte è legato all’ambiente più o meno degradato, ad esposizione occupazionale a sostanze potenzialmente dannose, nonché a stili di vita inappropriati.

In questo scenario appare evidente che è necessario focalizzare l’atten-zione ed investire risorse nell’ambito della prevenzione, intesa come un insieme di «atti finalizzati a eradicare o a eliminare le malattie e le disabilità o a minimizzare il loro impatto». Il concetto di prevenzione è usualmente articolato in livelli, che definiscono una prevenzione convenzionalmente chia-mata primaria, una secondaria e una terziaria (Figura 5.1). La prevenzione terziaria, attraverso ad esempio i classici studi di follow-up, interviene nel caso di patologie conclamate ed ha il compito di ridurre l’impatto negativo di una patologia già avviata, ripristinando le funzioni, riducendo le complicanze e le probabilità di recidive, puntando, in ultima analisi, ad una riduzione del suo incremento stimato.

Con le tecniche di prevenzione secondaria, invece, attuate su individui sin-goli o gruppi di popolazione attraverso programmi di screening (ad esempio programmi di biomonitoraggio) si tende ad effettuare una diagnosi precoce e quindi rallentare e/o contenere la progressione della malattia grazie ad un tempestivo intervento di carattere normativo o terapeutico, normalmente da parte delle autorità sanitarie. Un programma di screening sarà tanto più efficace quanto maggiormente sarà mirato ed in grado di diminuire l’incidenza di una patologia della popolazione biomonitorata.

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La prevenzione primaria consiste, infine, nell’analisi e nella rimozione delle sorgenti di esposizione, così eliminando o riducendo l’esposizione dell’organi-smo e riducendo, quindi, la possibilità dell’organismo di sviluppare patologie collegate allo specifico rischio ambientale. In questo caso si opera sull’indivi-duo sano e/o sull’ambiente, attraverso due tipi di interventi:

– l’allontanamento delle cause di insorgenza o sviluppo di patologie o stati di disagio, come nel caso di attività di risanamento di siti inquinati;

– il potenziamento di fattori utili alla salute come ad esempio l’intensificazione dell’attività fisica o l’implementazione di misure di profilassi immunitaria.

Figura 5.1. Strumenti e obiettivi della prevenzione

Su tali basi l’evoluzione del ruolo professionale e civile del medico e di ogni operatore della salute implica una migliore consapevolezza ed un crescente orientamento verso la promozione della salute umana anche attraverso scelte di tutela ambientale, prevenzione degli inquinamenti ed indicazione di corretti stili di vita. Nell’accezione corrente con il termine inquinamento si intende una serie di fenomeni alterativi dei cicli biogeochimici e/o dei flussi energetici degli ecosistemi, per effetto di eventi naturali – quali terremoti, incendi o fenomeni

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erosivi – o per cause antropiche – centrali energetiche, impianti industriali, inceneritori, discariche, uso di prodotti chimici in agricoltura, traffico veicolare. L’estensione, la portata e gli effetti dei fenomeni di inquinamento sono eviden-temente correlati alla natura ed entità degli agenti inquinanti e alla loro proprietà di diffondersi attraverso differenti matrici, con conseguente trasferimento della contaminazione da un comparto ambientale all’altro (aria, suolo, acque superfi-ciali e sotterranee). Sotto il profilo dell’esposizione ad agenti inquinanti appare evidente come le aree urbane rappresentino un punto critico dal punto di vista della salute pubblica dato che circa il 48% della popolazione mondiale vive oggi in agglomerati urbani dove è significativamente maggiore il rischio di esposi-zione a miscele di agenti fisici e chimici potenzialmente dannosi.

Per orientare le scelte strategiche volte a ridurre l’impatto dell’inquina-mento ambientale sulla salute risulta di fondamentale importanza valutare l’esposizione umana ai diversi fattori di rischio, inclusi potenziali effetti siner-gici, attraverso la definizione delle forme chimiche delle differenti sostanze e gli effetti di trasformazione di queste nelle matrici ambientali, la misura della biodisponibilità degli inquinanti assimilabili, la stima dell’effettiva capacità di produrre effetti biologici dannosi.

Tale valutazione rappresenta uno dei punti critici del risk assessment (analisi del rischio) e degli studi epidemiologici. Il risk assessment si articola in una serie di azioni pianificate consistenti nell’identificazione delle sorgenti di rischio e dei conseguenti potenziali rischi di esposizione nonché nella stima dell’entità di tali rischi di esposizione. È attualmente l’approccio di elezione a supporto di decisioni per la gestione di molteplici situazioni in cui si configuri un inquina-mento ambientale con possibili ricadute sulla salute umana, come ad esempio nel caso della gestione di siti inquinati. L’analisi di rischio consente, infatti, di definire e progettare interventi su un territorio dove insistano fenomeni di contaminazione sulla base dei rischi sanitari ed ambientali oggettivamente definiti e valutati, consentendo così di decidere sulla necessità di intervento, e dimensionare ed ottimizzare le risorse necessarie.

Parallelamente, gli studi epidemiologici costituiscono un eccellente stru-mento d’indagine per evidenziare eventuali effetti a lungo termine di uno o più fattori di rischio (ad esempio all’esposizione a campi elettromagnetici). In con-fronto agli studi di laboratorio in vivo o in vitro, tali studi consentono di osser-vare direttamente le risposte degli individui in condizioni reali, riducendo il

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tasso di incertezza correlato, tra l’altro, a fenomeni di variabilità inter- ed intra-specifica. Negli studi epidemiologici la stima delle diverse esposizioni ambien-tali e delle loro interazioni costituisce un elemento conoscitivo fondamentale anche se è incline a numerose sorgenti di incertezza. Incertezze che derivano sia da alcune caratteristiche intrinseche dell’inquinamento ambientale sia dalla molteplicità ed eterogeneità dei possibili scenari di esposizione influenzati da stili di vita, condizioni socio-economiche, suscettibilità individuale, dieta, ecc. A ciò si aggiunga la problematicità delle esposizioni a miscele di composti e la difficoltà nella definizione degli effetti di tali esposizioni.

A fronte della complessità delle valutazioni in precedenza accennate, in particolare per gli aspetti correlati alla definizione dell’esposizione della popo-lazione, è comunque indispensabile che i processi decisionali in sanità pubblica si avvalgano di modelli epidemiologici validi e di strumenti appropriati deri-vanti da un approccio integrato multidisciplinare.

Tra gli strumenti più validi in tal senso sono da annoverare i sistemi di sorveglianza sanitaria basati su indicatori specifici di relazione tra ambiente e salute, alcuni approcci valutativi innovativi (ad esempio, la Valutazione di Impatto sulla Salute - VIS) e il monitoraggio biologico o biomonitoraggio.

In particolare per sorveglianza sanitaria – secondo la definizione dei Centers for Disease Control and Prevention americani – si intende un processo consolidato, consistente nella raccolta sistematica in continuo, nell’analisi e nell’interpreta-zione di dati sanitari essenziali per pianificare, implementare e valutare la salute della popolazione, da integrare strettamente all’attività di diffusione di tali dati nei confronti di tutti coloro che sono interessati. L’anello finale della catena è costituito dall’applicazione di questi dati nella prevenzione e controllo.

La maggior parte dei sistemi di sorveglianza precedentemente elencati mostra alcuni limiti intrinseci che li porta a fornire misure di rischio con ele-vati margini di incertezza. D’altra parte, invece, è necessario sottolineare come l’approccio basato sul biomonitoraggio presenti la peculiarità di essere relati-vamente indipendente da effetti sinergici/antagonisti dei diversi inquinanti e di poter tenere conto dell’azione combinata di tutte le possibili fonti di espo-sizione (aria, acqua, suolo, polveri, alimenti). Il biomonitoraggio, sebbene sia una procedura complessa e di non facile realizzazione, consiste in un insieme di azioni attuate che permette di avere informazioni sull’effettivo grado di esposizione dell’individuo o di un gruppo di popolazione. Con esso, infatti, si

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è in grado di dosare direttamente il contaminante o i suoi metaboliti nell’or-ganismo bersaglio (dose interna) tenendo in considerazione anche la diversa suscettibilità individuale allo xenobiotico dovuta ad età e a particolari condi-zioni fisiologiche, patologiche e/o genetiche.

Il biomonitoraggio, in effetti, sta ricevendo crescente attenzione dalla comunità scientifica europea se si pensa che il programma di azione comu-nitario all’interno dell’EnvironmentandHealthActionPlan (2004-2010) “Action 3” ribadisce esplicitamente la necessità di sviluppare piani di biomonitoraggio delle popolazioni in Europa, in stretta collaborazione tra gli stati membri.

Per quanto riguarda il contesto nazionale, campagne di sorveglianza della popolazione generale sono state condotte finora solo da alcuni gruppi di lavoro per lo più in ambito di medicina occupazionale o di controllo dell’inquinamento ambientale. I risultati di tali attività hanno fornito un panorama dell’esposizione della popolazione italiana frammentario e lacunoso sia per rappresentatività che per gli xenobiotici studiati, spesso senza definizione delle priorità di intervento, senza garanzie qualitative delle procedure adottate (nella selezione, analisi e valu-tazione dei dati). Ciò non ha agevolato l’attuazione di accurate e permanenti campagne di sorveglianza dell’esposizione della popolazione.

Per superare le evidenti limitazioni nel contesto precedentemente illustrato è stato avviato in Italia il progetto PROBE (programma di biomonitoraggio dell’esposizione della popolazione generale, 2008-2010), che pone il nostro paese tra i pochi stati europei che sono riusciti ad attivarsi nella direzione indi-cata dall’Action 3. Tale programma di sorveglianza, coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità e finanziato dal CCM (Centro nazionale per la prevenzione e il Controllo delle Malattie, del Sottosegretariato alla Salute), si propone di fornire alle istituzioni normative una base di dati affidabile e sufficientemente completa del grado di esposizione della popolazione generale a contaminanti, in particolar modo ai metalli, attraverso campagne di monitoraggio a cadenza biennale di gruppi omogenei e rappresentativi della situazione italiana.

Attualmente, quindi, gli strumenti cognitivi e programmatici sono disponibili ed utilizzabili per intraprendere politiche di promozione della salute attraverso l’adozione di strategie finalizzate alla riduzione dell’impatto dei fenomeni inqui-nanti sulla salute e al miglioramento della salubrità degli ambienti di vita. Nel con-tempo, tuttavia, è importante sollecitare la partecipazione della comunità alle scelte e alle decisioni che riguardano la propria salute, sviluppare le capacità personali a

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partire da una educazione basata su responsabilità e partecipazione, indirizzare i servizi sanitari, a partire dalla formazione del personale, per arrivare ad un modello di assistenza che privilegi un approccio più globale di promozione della salute.

Quest’ultimo obiettivo è distintamente individuato nelle linee-guida dell’OMS che prevedono il raggiungimento di una serie di traguardi entro il 2015 riguar-danti tra l’altro la riduzione significativa degli effetti dannosi derivanti da stili di vita inadeguati e che portano, per esempio, al consumo di sostanze che causano dipendenza quali tabacco, alcool e droghe. In modo del tutto analogo, anche il programma europeo Guadagnare Salute prevede la programmazione di una serie di interventi di tutela della salute pubblica, distribuiti tra istituzioni e governi, capaci di ridurre i principali fattori di rischio. Sul piano nazionale è da segnalare che il Programma Nazionale della Prevenzione 2007-2009 prevede quali ambiti di intervento la sorveglianza e la prevenzione dell’obesità, delle malattie cardiovascolari, degli incidenti stradali, degli infortuni nei luoghi di lavoro e degli incidenti domestici.

In conclusione appare evidente come, in questo contesto, la figura pro-fessionale del medico e degli altri operatori sanitari rappresenti un’eccellente interfaccia tra il mondo della ricerca scientifica e la sanità pubblica per una corretta diffusione ed applicazione delle conoscenze relative ai problemi della salute legati all’ambiente, passando attraverso i media, la scuola, il mondo poli-tico e quello economico. In quest’ottica, il medico dovrebbe in maniera sempre più concreta rappresentare una figura di riferimento per il sostegno delle altre categorie professionali e per le amministrazioni pubbliche affinché vengano promosse politiche di prevenzione della salute e, quindi, di sviluppo sostenibile e salvaguardia ambientale.

Art. 8 - Obbligo d’intervento

Il medico, indipendentemente dalla sua abituale attività, non può mai rifiutarsi di prestare soccorso o cure d’urgenza e deve tempestivamente attivarsi per assicurare assistenza.

Il medico ha il dovere vincolante d’essere disponibile a prestare assistenza e di soccorrere il malato in situazioni d’emergenza, «indipendentemente dalla sua abituale attività».

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Questo obbligo morale, che discende dal più ampio principio di solidarietà a difesa della vita e dell’incolumità personale, previsto anche dal Codice penale per tutti i cittadini, è ancora più cogente per il medico titolare del monopolio della tutela della salute in quanto esercente un “servizio di pubblica necessità”.

Art. 9 - Calamità

Il medico in caso di catastrofe, di calamità o di epidemia, deve mettersi a disposizione dell’Autorità competente.

Questo articolo, dopo il precedente che impegna il medico a prestare la propria opera di fronte a un’emergenza che riguarda un singolo caso, esplicita il dovere deontologico (ma anche giuridico) del medico di «mettersi a [completa] disposi-zione dell’Autorità competente» (anche in assenza di precise disposizioni e indi-pendentemente dall’instaurazione di un qualsiasi rapporto a carattere continuativo), per prestare la propria opera di fronte a un imprevedibile disastro che colpisca la collettività.

Art. 36 - Assistenza d’urgenza

Allorché sussistano condizioni d’urgenza, tenendo conto delle volontà della persona se espressa, il medico deve attivarsi per assicurare l’assistenza indi-spensabile.

Il trattamento medico-chirurgico in urgenza presenta aspetti particolari per-ché individua quelle situazioni in cui un determinato intervento è certamente opportuno, anche se non assolutamente necessario e indifferibile come nei casi di emergenza. Solo nel caso in cui il malato non possa esprimere al momento una volontà contraria, il medico deve prestare la sua assistenza, ovviamente nei limiti delle cure indispensabili, perché chiaro risulta che il paziente può consa-pevolmente scegliere di non curarsi o rifiutare particolari trattamenti (si veda il caso delle emotrasfusioni). Pertanto, nei casi di specie, solo la persona assistita è in grado di valutare se il trattamento medico o chirurgico che gli viene proposto gli può consentire una qualità di vita residua compatibile con la sua dignità perso-nale e con le sue aspettative al riguardo, rilevandosi come la norma deontologica

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in questi casi privilegi in modo esclusivo la volontà consapevole dell’interessato.Anche in caso di urgenza il consenso informato a una determinata cura

può essere espresso da un’altra persona solo se questa è stata delegata chia-ramente dal malato stesso. Se la persona malata è minorenne, il consenso è automaticamente delegato ai genitori. Il minorenne, però, ha diritto a essere informato e a esprimere i suoi desideri, che devono essere tenuti in considera-zione. Se il malato è maggiorenne ma è incapace di decidere, è il tutore legale a dover esprimere il consenso alla cura, ma la persona interdetta ha diritto a essere informato e di veder presa in considerazione la sua volontà.

Art. 74 - Trattamento sanitario obbligatorio e denunce obbligatorie

Il medico deve svolgere i compiti assegnatigli dalla legge in tema di tratta-menti sanitari obbligatori e deve curare con la massima diligenza e tempesti-vità la informativa alle autorità sanitarie e ad altre autorità nei modi, nei tempi e con le procedure stabilite dalla legge, ivi compresa, quando prevista, la tutela dell’anonimato.

La tutela della salute mentale

Fonti normative

La tutela del diritto alla salute è sancita dalla Costituzione ed è comprensiva ovviamente del diritto della persona alla salute mentale. Questo comporta una prima riflessione sulla definizione stessa di equo trattamento e accesso alle cure nel concetto dell’osservanza dei principi della dignità dell’uomo, in quanto definire i criteri per un giusto trattamento nei confronti dei pazienti psichiatrici richiede un approccio complesso, che contempera la necessità del rispetto dei diritti del paziente con quello della sicurezza della società. Ogni idoneo criterio deve essere posto in essere e considerato, pertanto, al fine di trovare giuste corrispondenze tra piano etico e normativo, proprio alla luce della difesa dei diritti umani fonda-mentali. Di certo, quello che va assicurato alle persone affette da malattia mentale sono i diritti di tutti gli altri membri della comunità, indipendentemente poi dalla concreta possibilità che i primi abbiano di esercitarli direttamente.

Riguardo all’assistenza psichiatrica nel nostro paese, opportuna è una consi-derazione sulla legge n. 180 del 13 maggio 1978 poi trasferita negli artt. 33, 34

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e 35 del Servizio Sanitario Nazionale. La legge succitata rappresenta certamente una conquista scientifica, culturale e civile, in quanto, ponendo fine all’istituzione manicomiale e aprendo nuove strade all’organizzazione di un sistema di assistenza sanitaria senza meno ha costruito le condizioni per restituire piena cittadinanza alle persone con malattie psichiatriche, anche se a distanza di quasi trent’anni dalla sua entrata in vigore forse solo oggi si cominciano a cogliere i frutti della sua applicazione.

Certamente, dall’epoca dell’emanazione della legge a oggi l’assistenza psi-chiatrica in Italia ha subito un profondo cambiamento e ha visto passare il malato psichiatrico dalla struttura manicomiale, dove venivano eseguiti inter-venti per il controllo sociale, al Dipartimento di Salute Mentale (DSM), dove gli interventi mirano invece alla prevenzione, cura e riabilitazione.

Un primo cambiamento era già stato introdotto nel 1968 dalla cosiddetta legge Mariotti (legge 431/1968) che, oltre a istituire i Centri di Igiene mentale a scopo di prevenzione e cura, introdusse la possibilità del ricovero volontario e l’abolizione dell’iscrizione del ricovero manicomiale nel casellario giudiziario. Il malato cominciava a essere percepito in funzione del suo diritto alla salute e per-tanto poteva essere curato anche se non pericoloso sia al domicilio, sia fuori che dentro il manicomio, sulla base di una sua semplice richiesta, ma non subiva più l’interdizione d’ufficio, restando potenzialmente libero di decidere sulla propria vita e sulla propria salute, salvo si ravvisasse una necessità tutelare: il concetto custodialistico cominciava a farsi da parte per far posto a quello assistenzialistico.

Numerosi Autori hanno sottolineato la difficoltà di fronteggiare le necessità esi-stenziali dei malati di mente emerse con la legge 180/1978 attraverso gli archetipi normativi del Codice civile del 1942, ispirati però a un’ottica custodialistica, che lasciava ben poco spazio alla capacità di autodeterminazione del sofferente psichico.

La persistenza di norme obsolete ha finito per continuare a frapporre alla rea-lizzazione esistenziale dell’infermo un folto reticolo di impedimenti, conferendo «al tramonto del manicomio il significato di un puro e semplice passaggio di consegne tra un apparato di costrizioni ospedaliere e una camicia di forza giuridica» (Cendon).

Inoltre, la legge ha previsto, con l’abolizione degli ospedali psichiatrici, l’inserimento della psichiatria nell’ambito sanitario, affermando la centralità dell’intervento a livello dei Servizi psichiatrici territoriali o Centri di salute mentale, e ha collocato le strutture psichiatriche di ricovero negli ospedali generali istituendo i Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (SPDC) ed ha carat-

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terizzato gli interventi obbligatori (TSO) come provvedimenti eccezionali e di breve durata, autorizzandoli per esigenze terapeutiche urgenti non arginabili in altro modo.

Più tardi, con il Progetto Obiettivo “Tutela della salute mentale” 1994-1996 erano state individuate delle importanti questioni da affrontare per dare basi più solide al settore dell’assistenza psichiatrica e migliorarne la qualità comples-siva, come la costruzione di una rete di servizi in grado di fornire un intervento integrato, con particolare riguardo alla riabilitazione e alla gestione degli stati di crisi; veniva inoltre favorito sia lo sviluppo dell’organizzazione dipartimentale del lavoro, dotando la rete dei servizi di una precisazione tecnica e gestionale in grado di garantire il funzionamento integrato e continuativo dei servizi stessi, che l’aumento delle competenze professionali degli operatori per far fronte a tutte le patologie psichiatriche con particolare riguardo a quelle più gravi, attraverso interventi diversificati. Inoltre, si affrontava il problema del definitivo supera-mento dell’ospedale psichiatrico mediante l’attuazione di programmi mirati.

Con il DPR del 10 novembre 1999, pubblicato sulla GU n. 274 del 22 novem-bre 1999, è stato approvato il nuovo Progetto Obiettivo Nazionale per la Tutela della salute mentale, che ha costituito adempimento prioritario previsto dal Piano Sanitario Nazionale 1998-2000, e che ha individuato la salute mentale fra le tema-tiche a elevata complessità e per le quali era necessaria l’elaborazione di specifici atti di indirizzo. Appare opportuno evidenziare che il Ministero della Salute, nel Piano sanitario nazionale 2006-2008, ha affermato che «le precedenti azioni program-maticheintemadisalutementalehannoportatoalconsolidamentodiunmodelloorganizzativodipartimentale e alla individuazione di una prassi operativa mirata ad intervenire attivamente e direttamentesulterritorio(domicilio,scuola,luoghidilavoro,ecc.)incollaborazioneconleasso-ciazionideifamiliariedivolontariato,conimedicidimedicinageneraleegliatriservizisanitarie sociali» e che «la distribuzione quantitativa di tutti i servizi dei DSM soddisfa gli standard tendenziali nazionali, con valori superiori per iCentri di salutementale, iCentriDiurni eleStruttureresidenziali», pur evidenziando la presenza di alcune criticità ancora da affrontare. Nel documento preliminare informativo sui contenuti del nuovo Piano sanitario nazionale 2010-2012, infine, tra le patologie rilevanti di cui si occuperà il Piano sanitario nazionale, viene inserita anche la dizione «salute mentale e disturbi del comportamentoalimentare», come comunicato dal Ministero alla Conferenza Stato-Regioni. Il Progetto prevede infatti l’istituzione di una rete di servizi sul territorio, fruibili dai cittadini 24 ore su 24, e potenzia le attività di assistenza e cura soprat-

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tutto di soggetti in età evolutiva. La strategia di intervento proposta nel Progetto Obiettivo ha fornito un quadro di riferimento determinante e ha dato avvio alla riorganizzazione sistematica dei servizi deputati all’assistenza psichiatrica.

Prioritaria è diventata l’esigenza di istituire un DSM in tutte le ASL e il Progetto ha proposto obiettivi più specifici di salute da perseguire incentrando l’attenzione sulla definizione di interventi più decisi sul piano della program-mazione evidenziando quelli primari, con lo scopo di assicurare la presa in carico del paziente e la risposta ai bisogni delle persone affette dai disturbi più gravi che ne compromettono l’autonomia e l’esercizio dei diritti.

Il Dipartimento di Salute Mentale

Le strutture costitutive del DSM sono il Centro di salute mentale, il Servizio psi-chiatrico di diagnosi e cura, il Day hospital, il Centro diurno, le Strutture residenziali.

Il Centro di salute mentale è la sede di elaborazione del progetto terapeu-tico, dove lavora una équipe multiprofessionale che svolge nel centro molteplici attività di prevenzione, cura e riabilitazione, quali la valutazione delle richieste che giungono non solo dagli utenti ma anche dai loro familiari, dai servizi sociali e dai medici di medicina generale; inoltre, effettua attività di filtro e prevenzione dei ricoveri psichiatrici, visite ambulatoriali e domiciliari, colloqui di supporto psicologico; ma vengono eseguite anche psicoterapie individuali e di gruppo, terapia psicofarmacologica, attività di sostegno infermieristico, attività riabilitative e risocializzanti, interventi socio-asssistenziali per gli utenti presi in carico, proposte di ricovero nei Servizi psichiatrici di diagnosi e cura e nelle strutture convenzionate all’uopo, e infine attività di filtro e di invio ad altri servizi specialistici, a strutture semiresidenziali riabilitative o residenziali del DSM o convenzionate. C’è la possibilità che il Centro di salute mentale disponga di alcuni posti letto per situazioni di crisi o attività extraospedaliere.

Il Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (SPDC) invece, è collocato in un ospe-dale e accoglie i pazienti per i quali si renda necessario il ricovero in tale ambiente, sia in forma volontaria che in regime di TSO, essendo la prima modalità comunque quella prevalente. Durante il ricovero possono venire impostate terapie farmaco-logiche, effettuati accertamenti medici internistici e valutata, con la collaborazione del personale del Centro di salute mentale, la situazione personale e relazionale del paziente. A questo punto potranno successivamente essere messi in atto interventi sia psicoterapeutici, sia sulle famiglie che interventi di tipo socio-assistenziale.

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Il Day hospital è uno spazio di assistenza semiresidenziale per prestazioni diagnostiche e terapeutico-riabilitative a breve termine, collocato in strutture ospedaliere o esterne ma collegato con il Centro di salute mentale, e permette la riduzione del periodo di ricovero e/o comunque garantisce l’effettuazione coordinata di accertamenti diagnostici nonché l’avvio e il monitoraggio di interventi farmacologici e psicoterapeutici riabilitativi.

Il Centro diurno è una struttura semiresidenziale con funzione terapeutico-riabilitativa, aperta almeno otto ore al giorno per sei giorni alla settimana, che dispone di locali idonei e attrezzati e si avvale di un proprio gruppo di lavoro ed eventualmente di operatori sociali o di organizzazioni di volontariato. Il centro ha compiti volti a consentire lo sviluppo, nell’ambito di progetti terapeutico-riabilitativi, di abilità personali nella cura di sé e nelle attività quotidiane che si fondano sulle relazioni interpersonali.

Le strutture residenziali rappresentano uno tra gli strumenti essenziali del DSM e lo standard previsto era di un posto letto ogni 10.000 abitanti, oggi però decisamente aumentato proporzionalmente al bisogno.

Le Strutture residenziali sono suddivise secondo le tre tipologie previste, in base all’intensità assistenziale sanitaria: nelle 24 ore, nelle 12 ore, a fascia oraria.

La mission del DSM dovrebbe essere quella di coinvolgere anche le fami-glie nella formulazione e nell’attuazione del piano terapeutico-riabilitativo, con coinvolgimento volontario e responsabilità a carico del servizio e non della famiglia; quella di recuperare gli utenti gravi che non si presentano agli appun-tamenti o abbandonano il percorso terapeutico e la frequentazione del servizio, in modo da ridurre anche la frequenza dei suicidi. Ma la mission comprende anche il sostegno alla nascita di gruppi di auto-aiuto di familiari e di pazienti da parte di cooperative sociali, specie di quelle per l’inserimento lavorativo dei disabili, nonché iniziative di formazione rivolte alla popolazione sui disturbi mentali con la finalità di diminuire i pregiudizi e diffondere atteggiamenti di maggiore solidarietà.

La profilassi delle malattie infettive

Le malattie infettive, lungi dall’essere completamente sotto controllo come erroneamente previsto negli anni ’60 e ’70, costituiscono ancora un rischio rilevante per la salute degli individui e un carico assistenziale per il sistema sanitario. Alcune di esse sono stigmate di povertà (malaria, tubercolosi, AIDS)

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e in particolare una, la tubercolosi, è stata dichiarata dall’OMS, per la prima e unica volta nella sua storia, un’emergenza globale.

Dal 1970 a oggi sono stati scoperti oltre quaranta nuovi agenti infettivi (da Legionella spp ai virus delle febbri emorragiche, passando attraverso i virus epati-tici non-A/non-B e all’HIV), buon ultimo un coronavirus agente di una pande-mia fortunatamente già esaurita, la SARS. Inoltre sempre più si teme la possibi-lità di un uso intenzionale terroristico di agenti infettivi, manipolati in modo tale da non essere controllati con i comuni presidi preventivi e terapeutici.

L’ultimo rapporto mondiale dell’OMS sulla salute conferma il primato delle malattie infettive in termini di mortalità, morbosità e sofferenza, nono-stante la disponibilità per molte di efficaci interventi preventivi e terapeutici. Attualmente, in questo ambito esiste una discrasia tra i successi ottenuti per alcune patologie infettive e, di contro, l’allarme per alcune infezioni emergenti e riemergenti, che riconoscono, tra i principali determinanti:

– selezione di ceppi con maggiore virulenza, resistenza alle terapie, capacità di adattamento a condizioni ecologiche diverse;

– mutate condizioni socioeconomiche ed epidemiologiche;– comparsa e/ o identificazione di nuove specie di patogeni; – mutamenti significativi del contatto uomo/animale (nel campo zootecnico

per la produzione intensiva di carni e uova; in ambito familiare per la pre-senza di animali da compagnia o da caccia);

– intenso e rapido scambio di merci e persone anche da paesi e continenti lontani nell’ambito di una logica di globalizzazione.

La notifica di malattia infettiva

Per poter contrastare le malattie infettive ai fini della programmazione sani-taria e del controllo dell’efficacia degli interventi attuati è necessario conoscere il numero esatto di casi che si verificano nel territorio e le loro modalità di trasmissione. A tal fine è indispensabile la notifica di malattia infettiva accertata o sospetta da parte dei sanitari.

La rilevazione statistica delle malattie infettive ebbe inizio in Italia nel 1888, anno di promulgazione delle prime leggi organiche sulla sanità pubblica.

La notifica, obbligatoria in Italia dal 1934 con l’entrata in vigore del TULLS, RD 27 luglio 1934, n. 1265, che agli art. 254-255 dispone quanto segue: «Il sani-tario che nell’esercizio della sua professione sia venuto a conoscenza di un caso

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di malattia infettiva e diffusiva o sospetta di esserlo, pericolosa per la salute pub-blica, deve immediatamente farne denuncia al podestà e all’ufficiale sanitario comunale e coadiuvarli, se occorra, nella esecuzione delle disposizioni emanate per impedire la diffusione delle malattie stesse e nelle cautele igieniche necessarie [...]. Le denunce di malattie infettive e diffusive o sospette di esserlo, pericolose per la salute pubblica, debbono essere immediatamente comunicate dal podestà al prefetto, dall’ufficiale sanitario al medico provinciale, dal prefetto al Ministro della sanità. Quando la gravità del caso lo esiga, il prefetto, sentito il medico pro-vinciale, può costituire commissioni locali, delegare persone tecniche per esami-nare i caratteri della malattia, inviare medici, spedire medicinali e disporre gli altri provvedimenti necessari per assicurare la cura dei malati ed evitare la diffusione della malattia, informandone sollecitamente il Ministro della sanità».

Con la legge n. 572 del 17 maggio 1952 l’ISTAT divenne l’organo preposto alla raccolta ed elaborazione statistica dei dati.

Dopo l’istituzione del Ministero della Sanità (legge n. 296/1958) e il conse-guente passaggio di competenze dal Ministero dell’Interno, solo nel 1990 il termine “denuncia”, legato a significati di polizia sanitaria, è stato modificato in “notifica”, ovvero una segnalazione il cui principale fine inerisce alla sorveglianza e alla pre-venzione.

Con l’entrata in vigore della legge n. 833/1978, istitutiva del SSN, lo Stato ha deciso di mantenere (art. 6) le competenze connesse alla sanità transfron-taliera, intendendo con ciò l’attività di profilassi delle malattie infettive, dele-gando poi alle Regioni molte funzioni in campo sanitario: «[...] la profilassi delle malattie infettive e diffusive, per le quali siano imposte la vaccinazione obbligatoria o misure quarantenarie, nonché gli interventi contro le epidemie e le epizoozie», fino ad allora competenze dello Stato.

Tale volontà, confermata dalle ultime disposizioni sull’argomento, assegna definitivamente allo Stato, tramite gli Uffici di Sanità marittima, aerea e di fron-tiera, tutte le funzioni relative agli interventi di sanità transfrontaliera su persone, merci e vettori (navi e aerei essenzialmente) in arrivo da altri paesi, volti a limitare il rischio di “importazione” di alcune tra le malattie infettive trasmissibili.

Riconosciuta la necessità di aggiornare e modificare, alla luce delle attuali esi-genze di controllo epidemiologico e di integrazione del sistema informativo sanita-rio nazionale, l’elenco delle malattie infettive e diffusive che danno origine a parti-colari misure di sanità pubblica, il Ministero della Sanità, con DM 15 dicembre 1990

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5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 199

(“Sistema informativo delle malattie infettive e diffusive”), ha modificato il prece-dente DM del 5 luglio 1975, aggiornando il sistema di acquisizione delle informa-zioni, finalizzato alla realizzazione di tempestive misure di profilassi (Tabella 5.2).

Tabella 5.2. Notifiche di malattia infettiva (DM 15 dicembre 1990)

Classe I Malattie per le quali si chiede segnalazione imme-diata o perché soggette al regolamento sanitario internazionale o perché rivestono particolare inte-resse: colera, febbre gialla, febbre ricorrente epi-demica, febbri emorragiche virali (Lassa, Marburg, Ebola), peste, poliomielite, tifo esantematico, bo-tulismo, difterite, influenza con isolamento virale, rabbia, tetano, trichinosi.

Segnalazione da parte del medico alla ASL entro 12 ore dal sospetto di un caso di malattia; segna-lazione immediata dalla ASL alla Regione e da questa al Ministero e all’Istituto Superiore di Sanità; segnalazione immediata del Ministero all’OMS dell’accertamento del caso, ove previsto.

Classe II Malattie rilevanti perché a elevata frequenza e/o passibili di interventi di controllo: blenorragia, bru-cellosi, diarree infettive non da salmonelle, epatite virale A, B, NANB, epatite virale non specificata, febbre tifoide, legionellosi, leishmaniosi cutanea e viscerale, leptospirosi, listeriosi, meningite ed en-cefalite acuta virale, meningite meningococcica, morbillo, parotite, pertosse, rickettsiosi diversa da tifo esantematico, rosolia, salmonellosi non tifoi-dee, scarlattina, sifilide, tularemia, varicella.

Segnalazione alla ASL da parte del medico entro due giorni dall’osservazione del caso, invio degli appositi modelli dalla ASL alla Regione e da que-sta all’ISTAT e al Ministero per le vie ordinarie.

Classe III Malattie per le quali sono richieste particolari do-cumentazioni: aids, lebbra, malaria, micobatteriosi non tubercolare, tubercolosi.

Ove non sia disposto diversamente da provvedi-menti particolari, una parte della scheda di notifica che verrà inviata all’ISTAT (sezione A), analoga per tutte le malattie notificabili, con i dati anagrafici del soggetto e l’indicazione della malattia. La sezione B dei moduli sarà invece differenziata per racco-gliere informazioni epidemiologiche pertinenti. Sono previsti flussi informativi particolari e differen-ziati: per l’AIDS si fa riferimento alle circolari del Ministero della Sanità 13 febbraio1987 n. 5 e 13 febbraio1988 n.14; per la malaria e la lebbra si fa riferimento rispettivamente alla circolare n. 32 del 28 novembre1989 e alla circolare n. 507/G4/3136 del 13 maggio1983.

Classe IV Malattie per le quali alla segnalazione del singolo caso deve seguire quella della ASL solo quando si verificano focolai epidemici: infezioni infestazioni e tossinfezioni di origine alimentare, pediculosi, scabbia, dermatofitosi.

Segnalazione da parte del medico alla ASL entro 24 ore; segnalazione dalla ASL alla Regione e da questa al Ministero, all’ISS, all’ISTAT tramite gli appositi modelli.

Classe V Malattie infettive e diffusive notificate all’ASL e non comprese nelle classi precedenti, zoonosi indicate dal regolamento di polizia veterinaria di cui al DPR 8 febbraio 1954, n. 320.

Le ASL devono comunicare annualmente il riepilogo di tali malattie alla Regione e da questa al Ministe-ro per le vie ordinarie. Ove tali malattie assumano le caratteristiche del focolaio epidemico, verranno segnalate con le modalità previste per la classe IV.

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Manuale della Professione Medica200

Nel DM 15 dicembre 1990 si è proceduto, inoltre, alla classificazione delle malattie infettive e diffusive in cinque classi aggregate sulla base della rilevanza per gravità in termini di letalità, costo sociale, elevata frequenza, estrema rarità, possibilità di intervento con azioni di profilassi e/o terapia e/o educazione sanitaria, interesse sul piano nazionale e internazionale.

Il DM 29 luglio 1998 del Ministero della Sanità ha modificato la scheda di notifica dei casi di tubercolosi e di micobatteriosi non tubercolare; il DM 14 otto-bre 2004 del Ministero della Salute ha aggiunto nella terza classe la sindrome/infezione da rosolia congenita e l’infezione da virus della rosolia in gravidanza.

Il DM 15 dicembre 1990 prevede che: «Il medico che nell’esercizio della sua professione venga a conoscenza di un caso di qualunque malattia infettiva e diffusiva o sospetta di esserlo, pericolosa per la salute pubblica, deve comun-que notificarlo all’autorità sanitaria competente», indicando la malattia sospetta o accertata, gli elementi identificativi del paziente, gli accertamenti diagnostici eventualmente effettuati e la data di comparsa della malattia.

I Servizi di Igiene Pubblica competenti delle ASL devono, a loro volta, attuare un sistema di raccolta delle informazioni finalizzato alla realizzazione di tempestive misure di profilassi, convogliando il flusso informativo a livello regionale e centrale secondo tempi, vie di trasmissione e modalità diverse in rapporto al tipo e livello di provvedimenti sanitari da attuare.

La Commissione dell’Unione Euro pea, con Decisione del 19 marzo 2002 (2002/253/CE) ha stabilito la definizione di caso ai fini della dichiarazione delle malattie trasmissibili alla rete di sorveglianza comunitaria istituita ai sensi della Decisione n. 2119/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio. Salvo disposizioni contrarie, devono essere dichiarati soltanto i casi sintomatici; tut-tavia le infezioni asintomatiche devono essere considerate casi qualora l’infe-zione abbia conseguenze terapeutiche o sulla salute pubblica.

Il sistema adottato dall’Unione Europea si articola su tre livelli:

– caso confermato: verificato da analisi di laboratorio;– caso probabile: quadro clinico chiaro, ovvero collegato epidemiologica-

mente a un caso confermato, cioè un caso che è stato esposto a un caso confermato oppure che ha avuto un’esposizione identica a quella di un caso confermato (ad esempio, ha assunto lo stesso cibo, ha soggiornato nello stesso albergo ecc.);

– caso possibile: quadro clinico indicativo, ma non caso confermato o probabile.

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5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 201

Le classificazioni a tali livelli differenti possono variare in base all’epide-miologia delle singole malattie.

Figura 5.2. Flusso ordinario di notifica del SIMI (Fonte ISS)

il sistemA informAtivo mAlAttie infettive (simi)

Il sistema informativo, denominato SIMI, attualmente copre l’82,5% della popolazione italiana, e presenta molteplici vantaggi:

– migliora la qualità e la tempestività dei dati;– rende possibili interventi rapidi sul territorio ai fini della prevenzione e del

controllo; – facilita il ritorno delle informazioni; – uniforma l’organizzazione e i contenuti del flusso informativo; – rende ottenibile un dato unico e ufficiale per gli organi centrali e le regioni.

L’Osservatorio epidemiologico regionale (OER), che dovrebbe essere stato attivato in ciascuna Regione, ha assorbito laddove attivato le funzioni di Centro regionale di coordinamento del Progetto SIMI. A livello locale, presso il Servizio di Igiene Pubblica di ciascuna ASL, operano i referenti del SIMI, che coordinano il flusso dei dati dalla periferia, svolgono le inchieste epidemio-logiche e trasmettono mensilmente le notifiche all’OER (Figura 5.2).

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Manuale della Professione Medica202

Nel 2002 in Italia sono stati notificati 183.527 casi complessivi (ISTAT, 2005), pari a un tasso di circa 321/100.000 abitanti. Rispetto al 2001 notifiche e tasso registrano un lieve aumento (rispettivamente, +1,01% e +1,02/100.000). Analizzando le differenze di genere, gli uomini continuano a essere più col-piti delle donne: nel 2002 il tasso di notifica ammonta a 355 casi per 100.000 maschi contro 288 per 100.000 femmine. Lo svantaggio del sesso maschile risulta evidente per tutte le malattie, con l’eccezione del tetano e della pertosse.

Escludendo le malattie dell’infanzia, soggette a variazioni molto ampie, si registra un trend in calo per brucellosi, epatiti virali, salmonellosi non tifoidee. Al contrario, si registra una sostanziale stabilità dei casi notificati di AIDS (che, dopo la sensibile diminuzione della seconda metà degli anni ’90, si assestano su un tasso pari a circa 3,3 casi/100.000 residenti) e un notevole aumento delle notifiche di legionellosi.

Provvedimenti sulle fonti di infezione

Il riconoscimento di un caso di malattia infettiva e la sua notifica al Diparti-mento di prevenzione della ASL, consentono di realizzare due obiettivi:

– informativo, in quanto attraverso l’insieme di questi atti è possibile valutare la frequenza, l’avanzamento e la distribuzione nella popolazione e nel terri-torio delle malattie infettive e avere un aggiornato quadro epidemiologico a livello locale, regionale e nazionale;

– operativo, in quanto la denuncia apre la strada a tutte quelle misure di pro-filassi che si rendano necessarie caso per caso.

È evidente che i provvedimenti sono differenziati a seconda del tipo di malattia, della sua frequenza in un determinato territorio, della sua diffusibi-lità e trasmissibilità. Così, se la presenza di un caso di influenza generalmente implica da parte delle Autorità sanitarie locali una semplice opera di registra-zione, il manifestarsi di casi di altre malattie, come una tossinfezione alimen-tare, impone il dispiego di misure tempestive ed efficaci. La conferma diagno-stica dei casi, la ricerca di eventuali portatori, le indagini rivolte all’ambiente familiare o alla collettività e al territorio, costituiscono le condizioni preliminari indispensabili alla messa in atto dei dispositivi (inchiesta epidemiologica) atti a tutelare gli individui e la collettività. L’inchiesta epidemiologica mira dunque a identificare la sorgente del contagio e le modalità di trasmissione dell’infezione,

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5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 203

la presenza di altre sorgenti di infezione (portatori) o di soggetti a rischio. L’ac-curatezza di questa operazione è una condizione essenziale per un efficace intervento di prevenzione sia nei confronti delle persone che dell’ambiente.

lA contumAciA per esigenze profilAttiche

L’acquisizione di nuove conoscenze epidemiologiche e scientifiche, unita-mente all’impatto prodotto sulla salute pubblica da malattie infettive emergenti e riemergenti, hanno suggerito l’opportunità di sottoporre a revisione la Circo-lare n. 65 del 18 agosto 1983 “Disposizioni in materia di periodi contumaciali per esigenze profilattiche” e la Circolare n. 14 del 31 marzo 1992 “Modifica della Circolare 65/1983 sulle misure contumaciali Epatiti virali”. Tale processo ha condotto all’emanazione della Circolare n. 4 del 13 marzo 1998 “Misure di profilassi per esigenze di Sanità pubblica: Provvedimenti da adottare nei confronti di soggetti affetti da alcune malattie infettive e nei confronti di loro conviventi o contatti” in cui sono riportate le malattie, raggruppate sulla base delle classi di notifica di cui al DM 15 dicembre 1990, per le quali sono appli-cabili misure di profilassi individuale e collettiva.

I provvedimenti relativi ai malati mirano all’interruzione della catena di trasmissione della malattia mentre fra le misure relative a conviventi e contatti un’attenzione particolare viene riservata alla possibilità di effettuare interventi di prevenzione primaria.

In tale prospettiva, la vaccinazione, quando possibile, rappresenta il mezzo più appropriato per la prevenzione e il controllo; tale provvedimento può, in alcuni casi, ottenere obiettivi superiori quali l’eliminazione della malattia e l’eradicazione dell’agente causale. Per alcune patologie, quali l’epatite B e il morbillo, è stata dimostrata l’efficacia protettiva della vaccinazione anche a esposizione già avvenuta.

Le misure di profilassi per esigenze di sanità pubblica previste dalla Circo-lare n. 4 del 13 marzo 1998 del Ministero della Sanità sono le seguenti:

Botulismo alimentare: ICD-9 005.1 (Classe di notifica: I).– Periodo di incubazione: da 12 a 48 ore; in casi eccezionali può arrivare a 8 giorni.– Periodo di contagiosità: è esclusa la trasmissione interumana di questa,

come di altre forme di botulismo.– Provvedimenti nei confronti del malato: non previsti.

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– Altre misure preventive: ricerca attiva della fonte di intossicazione, con pre-lievo di appropriati campioni degli alimenti consumati dal paziente nelle 48-12 ore precedenti l’insorgenza della sintomatologia. Indagine epidemio-logica sui commensali.

Colera: ICD-9 001-001.9 (Classe di notifica: I).– Periodo di incubazione: da poche ore a 5 giorni, abitualmente 2-3 giorni.– Periodo di contagiosità: per tutto il periodo di incubazione e fintantoché V.

cholerae è presente nelle feci, abitualmente per alcuni giorni dopo la guari-gione clinica; occasionalmente può instaurarsi lo stato di portatore cronico, con escrezione del patogeno per alcuni mesi.

– Provvedimenti nei confronti del malato: ospedalizzazione con precauzioni enteriche fino alla negatività di 3 coprocolture eseguite a giorni alterni dopo la guarigione clinica, di cui la prima eseguita almeno 3 giorni dopo la sospensione della terapia antimicrobica.

– Altre misure preventive: sorveglianza sanitaria per 5 giorni dalla ultima esposi-zione dei conviventi e delle persone che hanno condiviso alimenti e bevande con il paziente. Ricerca di eventuali portatori tra conviventi mediante copro-coltura. Allontanamento delle persone sottoposte a sorveglianza sanitaria dalle attività che comportino direttamente o indirettamente la manipolazione di ali-menti per almeno 5 giorni dall’ultimo contatto con il caso. In caso di elevata probabilità di trasmissione secondaria in ambito domestico, chemioprofilassi dei conviventi con tetraciclina o doxiciclina ai seguenti dosaggi: adulti: 500 mg di tetraciclina per 4 volte al giorno per tre giorni, oppure 300 mg di doxiciclina in dose singola per tre giorni; bambini: 6 mg/kg di doxiciclina in dose singola per tre giorni, oppure 50 mg/kg/die di tetraciclina divisi in 4 somministrazioni giornaliere per tre giorni. In caso di ceppi di V.cholerae resistenti alla tetraciclina, i trattamenti alternativi sono rappresentati da: adulti: 100 mg di furazolidone 4 volte al dì per un giorno, oppure 2 g 2 volte al dì di cotrimossazolo per un giorno; bambini: 1,25 mg di furazolidone 4 volte al dì per un giorno, oppure 50 mg/kg di cotrimossazolo in due assunzioni giornaliere per un giorno.La vaccinazione anticolerica non è indicata.

Difterite: ICD-9 032-032.9 (Classe di notifica: I).– Periodo di incubazione: abitualmente 2-6 giorni; occasionalmente può

essere più lungo.

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5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 205

– Periodo di contagiosità: variabile da due settimane a poco più di quat-tro settimane, comunque fino a che i bacilli virulenti sono presenti nelle lesioni; i casi di portatore cronico sono rarissimi.

– Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento stretto nei casi di dif-terite laringea; isolamento da contatto nei casi di difterite cutanea; l’isola-mento può essere interrotto dopo 14 giorni di terapia antibiotica o dopo due risultati colturali negativi su campioni appropriati, prelevati a distanza di almeno 24 ore e non meno di 24 ore dopo la cessazione della terapia antibiotica.

– Altre misure preventive: sorveglianza clinica di conviventi e contatti stretti per 7 giorni dall’ultimo contatto con il paziente, con effettuazione di indagini di laboratorio per evidenziare eventuali portatori asintomatici.

Valutazione dello stato vaccinale con:– somministrazione di una dose di richiamo in caso di ciclo vaccinale incom-

pleto, o nel caso siano trascorsi più di 12 mesi dall’ultima dose di un ciclo completo;

– ciclo vaccinale completo in caso di stato vaccinale non determinabile. Antibioticoprofilassi, a prescindere dallo stato vaccinale e senza atten-dere i risultati degli esami colturali, con i seguenti farmaci e ai seguenti dosaggi: adulti: 1.200.000 unità di benzilpenicillina in dose singola per via im, oppure 1 g/die di eritromicina per os per 7-10 giorni; bambini: 600.000 unità di benzilpenicillina in dose singola per via im fino a 6 anni, oppure 40 mg/kg/die di eritromicina per os per 7-10 giorni.

Febbri emorragiche virali: ICD-9 078.8, 078.89 (Classe di notifica: I).– Periodo di incubazione: febbre di Ebola: da 3 a 9 giorni; febbre di Marburg

da 2 a 21 giorni; febbre di Lassa da 6 a 21 giorni.– Periodo di contagiosità: nella fase conclamata della malattia e fintantoché

particelle virali sono presenti nel sangue e nei fluidi biologici.– Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento strettissimo in unità di

alto isolamento o in reparti specializzati per malattie infettive, in stanze dotate di sistema di ventilazione con cappe a flusso laminare, con rigide procedure per lo smaltimento degli escreti e dei fluidi biologici. Disinfezione continua di escreti e fluidi biologici e di tutti i materiali che siano stati a contatto con il paziente, inclusi strumenti e materiale di laboratorio, con soluzioni di ipo-

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Manuale della Professione Medica206

clorito di Na allo 0,5%, oppure di fenolo allo 0,5%, oppure mediante tratta-mento in autoclave, oppure mediante termodistruzione. Scrupoloso rispetto delle precauzioni standard e utilizzazione, in tutte le fasi dell’assistenza al malato, compresa l’esecuzione degli esami di laboratorio, di indumenti e mezzi di protezione individuale (mascherine, guanti, occhiali), possibilmente monouso. Esecuzione degli esami di laboratorio per la ricerca e identifica-zione degli agenti virali responsabili di febbri emorragiche in strutture dotate di sistemi di alto isolamento con livello di sicurezza biologica 4 (BSL 4); gli esami ematochimici di routine possono essere eseguiti in strutture con livello di sicurezza biologica 3 (BSL 3). Per quanto riguarda i casi di malattia da virus Ebola-Marburg, astensione dai rapporti sessuali fino a dimostrazione di assenza dei virus dallo sperma (circa 3 mesi).

– Altre misure preventive: ricerca attiva delle persone che hanno avuto con-tatti con il paziente durante le tre settimane seguenti all’inizio della malattia e sorveglianza sanitaria delle stesse per tre settimane dall’ultimo contatto, con misurazione della temperatura corporea due volte al dì e ospedalizza-zione, con isolamento, al riscontro di temperature superiori a 38,3°C.

– Per ulteriori dettagli si rimanda alle Cir colari del Ministero della Sanità n. 400.2/113.3.74/2808 dell’11 maggio 1995 e 100/67301/4266 del 26 mag-gio 1995.

Poliomielite: ICD-9 045-045.9 (Classe di notifica: I).– Periodo di incubazione: da 3 a 35 giorni, con una media di 7-14 giorni per

i casi di polio paralitica.– Periodo di contagiosità: non definibile con precisione; la contagiosità sussi-

ste fintantoché i poliovirus vengono escreti. I poliovirus sono dimostrabili nelle secrezioni oro-faringee e nelle feci rispettivamente dopo 36 e 72 ore dall’esposizione, con persistenza fino a una settimana nel faringe e per 3-6 settimane e oltre nelle feci. Indagini di campo hanno dimostrato che per ogni caso di poliomielite paralitica si verificano da 100 a 1000 infezioni sub-cliniche.

– Provvedimenti nei confronti del malato: precauzioni enteriche nel caso di ricovero in ospedale (pur essendo altamente auspicabili, sono di scarso significato in ambiente domestico perché al momento della comparsa dei sintomi tutti i contatti domestici sono già stati infettati).

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– Altre misure preventive: sorveglianza clinica di conviventi e contatti stretti per individuazione di altri casi di paralisi flaccida acuta o di meningite aset-tica. Immediata somministrazione di una dose di OPV a tutti i conviventi, ai contatti stretti e a tutti i bambini di età compresa tra 0 e 5 anni residenti nella zona (quartiere, comune, provincia), a prescindere dal loro stato vac-cinale antipolio. Attuazione di campagne straordinarie di vaccinazione anti-polio con OPV in situazione epidemica (nella attuale situazione italiana, in cui non si registrano casi autoctoni di poliomielite da virus selvaggio dal 1983, un caso costituirebbe di per sé un’epidemia). Astensione dalla pratica di iniezioni intramuscolari non strettamente necessarie e differimento degli interventi chirurgici otorinolaringoiatrici fino a definizione e controllo della situazione.

Rabbia: ICD-9 071 (Classe di notifica: I).– Periodo di incubazione: da un minimo di 4 giorni ad alcuni anni, abitual-

mente 3-8 settimane. La durata del periodo di incubazione è condizionata da: ceppo virale e quantità inoculata, sede e caratteristiche della lesione.

– Periodo di contagiosità: da qualche giorno prima dell’inizio della sintoma-tologia all’exitus.

– Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento stretto per tutta la durata della malattia e adozione di precauzioni standard; disinfezione con-tinua di tutti gli oggetti contaminati con saliva, liquor e, in caso di esecu-zione di esame autoptico, di tessuto cerebrale del paziente.

– Altre misure preventive: trattamento post-esposizione di tutti coloro che abbiano subito esposizione di ferite aperte o membrane mucose a saliva, liquor o, in caso di esecuzione di esame autoptico, a tessuto cerebrale del paziente. Per il trattamento pre- e post-esposizione vedere la Circolare n. 36 del 10 settembre 1993. Ricerca attiva dell’animale rabido e di altre per-sone o animali morsicati.

Epatite virale A: ICD-9 070.0-070.1 (Classe di notifica: II).– Periodo di incubazione: da 15 a 50 giorni, mediamente 28-30 giorni.– Periodo di contagiosità: l’infettività è massima nell’ultima parte del periodo

di incubazione e si protrae per alcuni giorni (circa una settimana) dopo la comparsa dell’ittero o dopo l’innalzamento dei livelli ematici degli enzimi epatocellulari, nei casi anitterici.

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– Provvedimenti nei confronti del malato: precauzioni enteriche per 15 giorni dalla diagnosi di epatite A, ma per non più di una settimana dopo la comparsa dell’ittero. In caso di insorgenza di epatite A in reparti di neonatologia, le pre-cauzioni enteriche devono essere adottate per un periodo di tempo più lungo.

– Altre misure preventive: sorveglianza sanitaria per la ricerca di casi secondari, o di altri casi sfuggiti alla diagnosi, tanto in ambito familiare quanto in un ambito più allargato, qualora si sospetti una epidemia da fonte di esposizione comune (viaggio in zona endemica, consumo di frutti di mare crudi). Indicata la somministrazione di immunoglobuline specifiche, purché questa avvenga entro due settimane dall’esposizione. Nel caso di coinvolgimento di scuole materne, le immunoglobuline dovrebbero essere somministrate a tutti i compagni di classe del paziente e, nel caso di asili nido in cui sono ammessi bambini che utilizzano il pannolino, a tutti i bambini potenzialmente esposti e al personale, previa acquisizione del consenso informato da parte dei genitori o dei tutori dei minori. In caso di epidemia interessante in modo ampio la collettività (epidemie a dimensione comunale o regionale), è indicata la vaccinazione del personale impegnato in attività di assistenza sanitaria e alla prima infanzia, oltre che dei contatti.

N.B.: Le stesse misure, con l’esclusione della somministrazione di immu-noglobuline specifiche e del vaccino, si applicano anche ad altre epatiti a trasmissione fecale-orale.

La vaccinazione è altresì consigliata per:a) viaggiatori diretti in zone a elevata morbosità per epatite A;b) addetti a raccolta, allontanamento e smaltimento dei liquami;c) soggetti esposti nel corso di un’epidemia in comunità o in istituzioni;d ) emofiliaci;e) politrasfusi;f ) tossicodipendenti;g) omosessuali maschi;h) ospiti di residenze assistenziali per soggetti con turbe mentali;i ) operatori sanitari esposti ad HAV.

Epatite virale B: ICD-9 072.2-072.3 (Classe di notifica: II).– Periodo di incubazione: da 45 a 180 giorni, mediamente 60-90 giorni.

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– Periodo di contagiosità: l’infettività inizia alcune settimane prima del mani-festarsi della sintomatologia e permane per tutta la durata della malattia. Tutti i soggetti HBsAg positivi sono da considerare potenzialmente infet-tanti.

– Provvedimenti nei confronti del malato: adozione delle precauzioni stan-dard per prevenire l’esposizione e il contatto con sangue e altri fluidi biologici.

– Altre misure preventive: vaccinazione di conviventi e partner sessuali di soggetti portatori cronici di HBsAg, secondo le indicazioni del DM 4 otto-bre 1991 (GU n. 251 del 27 ottobre 1991). Immunoprofilassi post-esposi-zione per tutti i soggetti vittime di lesioni con aghi o oggetti taglienti poten-zialmente infetti e di partner sessuali di pazienti cui sia stata diagnosticata l’epatite virale B. Le immunoglobuline specifiche vanno somministrate al più presto dopo il contatto potenzialmente infettante, insieme con il vac-cino, secondo gli schemi riportati nel DM 3 ottobre 1991 (GU n. 251 del 27 ottobre 1991) e successive modifiche e integrazioni. La profilassi post-esposizione non è necessaria per le persone immunizzate in precedenza che abbiano un titolo anticorpale maggiore o uguale a 10 mUI/ml. In caso contrario, è indicata una dose booster di vaccino, ovvero di immunoglobu-line, per la somministrazione delle quali è necessario acquisire il consenso informato.

Febbre tifoide: ICD-9 002.0 (Classe di notifica: II).– Periodo di incubazione: abitualmente da 1 a 3 settimane, ma può variare da

3 giorni a 3 mesi a seconda della dose infettante.– Periodo di contagiosità: fintantoché S.typhi è presente nelle feci, dalla prima

settimana di malattia per tutta la durata della convalescenza, nei soggetti sottoposti a terapia antibiotica efficace; nel 10% dei casi non trattati l’eli-minazione può continuare anche per mesi dall’esordio. Il 2-5% dei pazienti diviene portatore cronico.

– Provvedimenti nei confronti del malato: precauzioni enteriche fino a risul-tato negativo di 3 coprocolture consecutive, eseguite su campioni fecali prelevati a non meno di 24 ore di distanza l’uno dall’altro e a non meno di 48 ore dalla sospensione di qualsiasi antibiotico. In caso di positività anche di una sola coprocoltura, ripetizione dell’intera procedura dopo un mese.

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Allontanamento, fino a negativizzazione, dalle attività che comportino la manipolazione o distribuzione di alimenti, l’assistenza sanitaria e quella all’infanzia.

– Altre misure preventive: sorveglianza sanitaria per la ricerca di altri casi di infezione e della fonte di esposizione, con particolare riguardo a storie di viaggi in aree endemiche e alle abitudini alimentari. Allontanamento di conviventi e contatti stretti dalle attività che comportino la manipolazione o distribuzione di alimenti, l’assistenza sanitaria e quella all’infanzia, fino a risultato negativo di 2 coprocolture e di 2 urinocolture eseguite su cam-pioni prelevati a non meno di 24 ore di distanza l’uno dall’altro e dopo sospensione per 48 ore di qualsiasi trattamento antimicrobico.

La vaccinazione antitifica è di valore limitato in caso di esposizione a casi con-clamati, mentre può essere utile in caso di convivenza con portatori cronici. La vaccinazione è consigliata per:a) viaggiatori diretti in zone a elevata morbosità per febbre tifoide;b) addetti a raccolta, allontanamento e smaltimento dei liquami;c) soggetti esposti nel corso di un’epidemia in comunità o in istituzioni;d ) personale di laboratorio con possibilità di frequenti contatti con S.typhi.

Legionellosi: ICD-9 482.8 (Classe di notifica: II).– Periodo di incubazione: per la malattia dei legionari, abitualmente da 2 a 10

giorni, più frequentemente 5-6 giorni. Per la febbre di Pontiac da 5 a 66 ore, più frequentemente 24-48 ore.

– Periodo di contagiosità: non è stato documentato il contagio interumano.– Provvedimenti nei confronti del malato: non previsti.– Altre misure preventive: ricerca attiva della sorgente di infezione e dei sog-

getti eventualmente esposti. Sorveglianza sanitaria per la ricerca attiva di segni di infezione nei soggetti esposti alla comune sorgente ambientale. Controllo degli impianti di condizionamento dell’aria e di distribuzione dell’acqua potabile. Bonifica e disinfezione degli stessi mediante clorazione e/o riscaldamento dell’acqua circolante a temperature superiori a 60°C. Pulizia periodica degli impianti di condizionamento e delle torri di raffred-damento con le modalità sopra indicate. Uso di sostanze ad azione biocida per limitare la crescita di microrganismi quali amebe, cianobatteriacee e alghe microscopiche, che favoriscono la sopravvivenza e la moltiplicazione delle legionelle.

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Listeriosi: ICD-9 027.0 (Classe di notifica: II).– Periodo di incubazione: abitualmente tre settimane, ma può variare da 3 a

70 giorni dopo esposizione o consumo di un prodotto contaminato.– Periodo di contagiosità: la Listeria può essere presente per mesi nelle feci

di individui infetti. Nelle madri di neonati affetti da listeriosi connatale può essere riscontrata nelle secrezioni vaginali e nelle urine per 7-10 giorni dopo il parto.

– Provvedimenti nei confronti del malato: non sono necessarie misure di isolamento; sufficiente il rispetto delle comuni norme igieniche e di precau-zioni enteriche.

– Altre misure preventive: sorveglianza sanitaria per identificare possibili focolai epidemici con ricerca della fonte comune di infezione/esposizione. Raccomandazioni circa l’astensione dal consumo di carni crude e poco cotte e di latte non pastorizzato e prodotti derivati, per le donne in stato di gravidanza e per le persone con alterazioni dell’immunocompetenza.

Meningite meningococcica: ICD-9 036.0 (Classe di notifica: II).– Periodo di incubazione: da 2 a 10 giorni, in media 3-4 giorni.– Periodo di contagiosità: fintantoché N.meningitidis è presente nelle secre-

zioni nasali e faringee. Il trattamento antimicrobico, con farmaci nei con-fronti dei quali è conservata la sensibilità di N.meningitidis e che raggiungano adeguate concentrazioni nelle secrezioni faringee, determina la scomparsa dell’agente patogeno dal naso-faringe entro 24 ore.

– Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento respiratorio per 24 ore dall’inizio della chemioantibioticoterapia. Disinfezione continua degli escreti naso-faringei e degli oggetti da essi contaminati. Non è richiesta la disinfezione terminale ma soltanto una accurata pulizia della stanza di degenza e degli altri ambienti in cui il paziente ha soggiornato.

– Altre misure preventive: sorveglianza sanitaria di conviventi e contatti stretti per 10 giorni, con inizio immediato di appropriata terapia al primo segno sospetto di malattia, in particolare modo iperpiressia. Nei conviventi e nei contatti stretti di casi di meningite meningococcica chemio-antibio-ticoprofilassi eseguita mediante impiego dei seguenti farmaci ai seguenti dosaggi: adulti: 600 mg di rifampicina due volte al dì per due giorni, oppure 250 mg di ceftriaxone in dose singola per via im, oppure 500 mg di cipro-

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Manuale della Professione Medica212

floxacina in dose singola per os; bambini: 10 mg/kg/die di rifampicina per i bambini di età superiore a 1 mese, 5 mg/kg/die per quelli di età inferiore a trenta giorni, oppure 125 mg di ceftriaxone in dose singola per via im.

Farmaci alternativi debbono essere utilizzati solo in caso di provata sen-sibilità del ceppo e in situazioni che ostacolino l’uso dei farmaci di prima scelta. La decisione di instaurare un regime di chemioantibioticoprofilassi non deve dipendere dalla ricerca sistematica di portatori di N.meningitidis, che non riveste alcuna utilità pratica ai fini della profilassi.

Morbillo: ICD-9 055-055 (Classe di notifica: II).– Periodo di incubazione: da 7 a 18 giorni, mediamente 10-14 giorni.– Periodo di contagiosità: da poco prima dell’inizio del periodo prodromico

fino a 4 giorni dopo la comparsa dell’esantema.– Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento domiciliare per 5

giorni dalla comparsa dell’esantema. In caso di ricovero ospedaliero, isola-mento respiratorio per analogo periodo.

– Altre misure preventive: sorveglianza sanitaria per la ricerca di soggetti suscettibili, cui va offerta la vaccinazione antimorbillosa (o antimorbillo-parotite-rosolia). La vaccinazione, effettuata entro 72 ore dall’esposizione, ha efficacia protettiva. Possibile anche la somministrazione di immunoglobuline specifiche che va effettuata, previa acquisizione di consenso informato, tas-sativamente entro 6 giorni dall’esposizione: la somministrazione di immu-noglobuline oltre il terzo giorno del periodo di incubazione non è in grado di prevenire la malattia. Anche se non sono previste restrizioni o particolari condizioni per la frequenza scolastica e dell’attività lavorativa di conviventi e contatti suscettibili di un caso di morbillo, se ne raccomanda la vaccinazione per controllare e prevenire epidemie nell’ambito di collettività.

Parotite: ICD-9 072-072.9 (Classe di notifica: II).– Periodo di incubazione: da 12 a 15 giorni, mediamente 18 giorni. – Periodo di contagiosità: da 6 a 7 giorni prima e fino a 9 giorni dopo la

comparsa della tumefazione delle ghiandole salivari. L’infettività è massima nelle 48 ore precedenti la comparsa dei segni clinici della malattia.

– Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento domiciliare e in caso di ricovero ospedaliero. Isolamento respiratorio per 9 giorni dalla comparsa della tumefazione delle ghiandole salivari.

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– Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: ricerca di soggetti suscettibili in ambito familiare e della collettività scolastica, con restrizione della frequenza di collettività dal 12° al 25° giorno successivo all’esposizione.

Pertosse: ICD-9 033-033.9 (Classe di notifica: II).– Periodo di incubazione: da 6 a 20 giorni. Dall’inizio del periodo catarrale

fino a tre settimane dall’inizio della fase parossistica.– Periodo di contagiosità: in pazienti trattati con eritromicina la contagiosità

si estingue in circa 5 giorni dall’inizio della terapia.– Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento domiciliare e, in caso

di ricovero ospedaliero, isolamento respiratorio per i casi accertati labora-toristicamente.

– Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: per i casi sospetti, restrizione dei contatti con soggetti suscettibili, particolarmente se si tratta di bambini di età inferiore a 1 anno, per almeno 5 giorni dall’inizio di ade-guata terapia antibiotica (eritromicina per 14 giorni). Sorveglianza sanitaria per l’identificazione di soggetti suscettibili. Somministrazione, a prescin-dere dallo stato vaccinale, di eritromicina a tutti i conviventi e contatti di età inferiore a 7 anni per ridurre il periodo di contagiosità. Restrizione della frequenza scolastica e di altre collettività infantili di contatti non ade-guatamente vaccinati per 14 giorni dall’ultima esposizione o per 5 giorni dall’inizio di un ciclo di antibioticoprofilassi, con eritromicina. Nei bambini di età inferiore a 7 anni è indicata una dose di richiamo di DTP o di DTaP se sono trascorsi più di tre anni dall’ultima somministrazione.

Rosolia: ICD-9 056-056.9 (Classe di notifica: II).– Periodo di incubazione: da 14 a 21 giorni, mediamente 16-18 giorni.– Periodo di contagiosità: da una settimana prima a non meno di 4 giorni

dopo la comparsa dell’esantema. I neonati affetti da sindrome da rosolia congenita possono eliminare rubivirus per molti mesi.

– Provvedimenti nei confronti del malato: allontanamento dalla frequenza scolastica o dall’attività lavorativa per 7 giorni dalla comparsa dell’esan-tema. In ambiente ospedaliero o in altre istituzioni, isolamento da contatto e utilizzazione di stanza separata per 7 giorni dalla comparsa dell’esantema.

– Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: sorveglianza sani-taria per l’individuazione di contatti suscettibili, in particolar modo donne

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in gravidanza, che dovranno astenersi da qualsiasi contatto con il paziente e sottoporsi a esami sierologici per la determinazione del loro stato immuni-tario nei confronti della rosolia. La vaccinazione dei contatti non immuni, anche se non controindicata, con l’eccezione dello stato di gravidanza, non previene in tutti i casi l’infezione o la malattia. Un’epidemia di rosolia in ambito scolastico o in altra collettività, d’altra parte, giustifica l’effettua-zione di una campagna straordinaria di vaccinazione.

Salmonellosi non tifoidee: ICD-9 003-003.9 (Classe di notifica: II).– Periodo di incubazione: da 6 a 72 ore, abitualmente 12-36 ore.– Periodo di contagiosità: da alcuni giorni prima a diverse settimane dopo la

comparsa della sintomatologia clinica. L’instaurarsi di uno stato di porta-tore cronico è particolarmente frequente nei bambini e può essere favorito dalla somministrazione di antibiotici.

– Provvedimenti nei confronti del malato: precauzioni enteriche per i pazienti ospedalizzati. Allontanamento dei soggetti infetti sintomatici da tutte le attività che comportino la manipolazione o distribuzione di alimenti, l’as-sistenza sanitaria a pazienti ospedalizzati o istituzionalizzati, l’assistenza alla infanzia. Riammissione alle suddette attività dopo risultato negativo di 2 coprocolture consecutive, eseguite su campioni di feci prelevati a non meno di 24 ore di distanza e a non meno di 48 ore dalla sospensione di qualsiasi trattamento antimicrobico.

– Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: ricerca attiva di altri casi di malattia e della fonte di esposizione. Ricerca di casi asintomatici di infezione mediante esame delle feci nei soggetti impegnati in attività che comportino la manipolazione o distribuzione di alimenti, l’assistenza sanitaria o a soggetti istituzionalizzati, l’assistenza all’infanzia, con allonta-namento dei soggetti positivi fino a risultato negativo di due coprocolture consecutive eseguite secondo la procedura precedentemente descritta.

Scarlattina: ICD-9 034.1 (Classe di notifica: II).– Periodo di incubazione: da 1 a 3 giorni.– Periodo di contagiosità: da 10 a 21 giorni dalla comparsa dell’esantema, nei

casi non trattati e non complicati. La terapia antibiotica (con penicillina o altri antibiotici appropriati) determina cessazione della contagiosità entro 24-48 ore.

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– Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento domiciliare per 48 ore dall’inizio di adeguata terapia antibiotica. Precauzioni per secrezioni e liquidi biologici infetti per 24 ore dall’inizio del trattamento antibiotico. In caso di ricovero ospedaliero disinfezione continua di secrezioni purulente e degli oggetti da queste contaminati.

– Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: sorveglianza sani-taria di conviventi e contatti stretti (inclusi compagni di classe e insegnanti) per 7 giorni dall’ultimo contatto con il paziente, ed esecuzione di indagini colturali (tamponi faringei) nei soggetti sintomatici. L’esecuzione sistema-tica di tamponi faringei è indicata nelle situazioni epidemiche e in quelle ad alto rischio (più casi di febbre reumatica nello stesso gruppo familiare o collettività ristretta, casi di febbre reumatica o di nefrite acuta in ambito scolastico, focolai di infezioni di ferite chirurgiche, infezioni invasive da streptococco emolitico di gruppo A).

Varicella: ICD-9 052 (Classe di notifica: II).– Periodo di incubazione: da 2 a 3 settimane, abitualmente 13-17 giorni. Il

periodo di incubazione può essere prolungato in caso di soggetti con alte-razione dell’immunocompetenza o sottoposti a immunoprofilassi passiva.

– Periodo di contagiosità: da 5 giorni prima a non più di 5 giorni dopo la comparsa della prima gittata di vescicole. Il periodo di contagiosità può essere prolungato in caso di soggetti con alterazione dell’immunocompe-tenza o sottoposti a immunoprofilassi passiva.

– Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento domiciliare per almeno 5 giorni dalla comparsa della prima gittata di vescicole, con restrizione dei contatti con altri soggetti suscettibili, in particolar modo donne in stato di gravidanza e neonati. In caso di ricovero ospedaliero, isolamento stretto, in considerazione della possibilità di trasmissione dell’infezione a soggetti suscettibili immunodepressi.

– Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: nessuna restrizione per la frequenza scolastica o di altre collettività. In caso di ricovero ospeda-liero dei contatti, per altre cause, è indicata la separazione per un periodo di 10-21 giorni, prolungato a 28 giorni in caso di somministrazione di immu-noglobuline specifiche, dall’ultimo contatto con un caso di varicella. Vaccina-zione dei soggetti ad alto rischio di complicanze da infezione con virus VZ.

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Lebbra: ICD-9 030-030.9 (Classe di notifica: III).– Periodo di incubazione: da alcuni mesi a decine di anni. – Periodo di contagiosità: l’infettività viene persa, nella maggior parte dei casi,

entro 3 mesi dall’inizio di un trattamento continuo e regolare con dapsone o clofazimina o entro 3 giorni dall’inizio del trattamento con rifampicina.

– Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento da contatto per i pazienti affetti da lebbra lepromatosa; non sono necessarie misure di iso-lamento per le altre forme di lebbra. Restrizione dall’attività lavorativa o scolastica fino a permanenza dello stato di infettività.

– Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: sorveglianza clinica mediante esame immediato e successivi esami periodici di conviventi e altri contatti stretti, a intervalli non superiori a dodici mesi, per almeno 5 anni dall’ultimo contatto con un caso infettivo.

Tubercolosi: ICD-9 010-/018 (Classe di notifica: III).– Periodo di incubazione: circa 4-12 settimane dall’infezione alla comparsa di

una lesione primaria dimostrabile o della positività del test alla tubercolina. L’infezione può persistere allo stato latente per tutta la vita; il rischio di evoluzione verso la tubercolosi polmonare e/o extrapolmonare è massimo nei primi due anni dopo la prima infezione.

– Periodo di contagiosità: fintantoché bacilli tubercolari sono presenti nell’escreato e in altri fluidi biologici. La terapia antimicrobica con farmaci efficaci determina la cessazione della contagiosità entro 4-8 settimane.

– Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento respiratorio in stanze separate e dotate di sistemi di ventilazione a pressione negativa per i sog-getti affetti da tubercolosi polmonare, fino a negativizzazione dell’escreato; precauzioni per secrezioni/drenaggi nelle forme extrapolmonari; sorve-glianza sanitaria per almeno 6 mesi. In caso di scarsa compliance alla terapia, di sospetta farmacoresistenza, o di condizioni di vita che possono determi-nare l’infezione di altre persone, in caso di recidiva è indicato il controllo diretto dell’assunzione della terapia anti-tubercolare.

– Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: sorveglianza sani-taria di conviventi e contatti stretti per la ricerca di altri casi di infezione o malattia. Esecuzione di test alla tubercolina con successiva radiografia del torace dei casi positivi e, in caso di negatività, ripetizione del test a distanza

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di 2-3 mesi dal momento della cessazione dell’esposizione. Chemioprofi-lassi nei contatti stretti cutipositivi; questa è, altresì, indicata per i contatti cutinegativi ad alto rischio di sviluppare la malattia.

Dermatofitosi: ICD-9 110-110.9 (Classe di notifica: IV).– Periodo di incubazione: da 4 a 10 giorni per Tinea cruris e Tinea corporis; da 10

a 14 giorni per Tinea capitis e Tinea barbae; non definito per le altre forme.– Periodo di contagiosità: fintantoché sono presenti le lesioni e che miceti

vitali persistono sui materiali contaminati.– Provvedimenti nei confronti del malato: in caso di Tinea capitis nessuna

restrizione, purché venga seguito un trattamento appropriato. Se il paziente è ospedalizzato precauzioni per drenaggi/secrezioni. Esclusione dalla fre-quenza di palestre e piscine in caso di Tinea corporis, cruris e pedis per tutta la durata del trattamento; se il paziente è ospedalizzato precauzioni per drenaggi/secrezioni.

– Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: ricerca di altri casi di infezione nei conviventi e nei contatti scolastici e ricerca della fonte di infezione, oltre che nei contatti umani, negli animali domestici, spesso por-tatori inapparenti. Educazione sanitaria dei conviventi e contatti allo scopo di impedire la condivisione di oggetti contaminati.

Pediculosi - Ftiriasi: ICD-9 132-132.9 (Classe di notifica: IV).– Periodo di incubazione: in condizioni ottimali per il ciclo vitale dei pidocchi,

da 6 a 10 giorni in caso di infestazione con uova.– Periodo di contagiosità: fintantoché uova, forme larvali o adulte sono pre-

senti e vitali sulle persone infestate o su indumenti e altri fomiti.– Provvedimenti nei confronti del malato:

a) in caso di infestazione da Pediculushumanuscorporis isolamento da contatto per non meno di 24 ore dall’inizio di un adeguato trattamento disinfe-stante. Il trattamento disinfestante consiste nell’applicazione di polvere di talco contenente DDT al 10% oppure malathion all’1% oppure perme-trina allo 0,5% o altri insetticidi. Gli indumenti vanno trattati con gli stessi composti applicati sulle superfici interne oppure lavati con acqua bollente;

b) in caso di infestazioni da P.humanuscapitis, restrizione della frequenza di collettività fino all’avvio di idoneo trattamento disinfestante, certificato dal medico curante. Il trattamento disinfestante, consistente in appli-

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cazione di shampoo medicati contenenti permetrina all’1% o piretrine associate a piperonil-butossido, o benzilbenzoato o altri insetticidi, deve essere periodicamente ripetuto ogni 7-10 giorni per almeno un mese. Pettini e spazzole vanno immersi in acqua calda per 10 minuti e/o lavati con shampoo antiparassitario;

c) in caso di infestazioni da Phthiruspubis le zone interessate vanno rasate; i trattamenti disinfestanti sono simili a quelli da adottare per il P.humanuscapitis e, se non sufficienti, vanno ripetuti dopo 4-7 giorni di intervallo.

– Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: sorveglianza sani-taria per l’identificazione di altri casi di parassitosi, e conseguente tratta-mento disinfestante. I compagni di letto e i partner sessuali di soggetti infestati da P.pubis devono essere trattati in via profilattica con gli stessi prodotti impiegati per i casi di infestazione conclamata.

Scabbia: ICD-9 133 (Classe di notifica: IV).– Periodo di incubazione: da 2 a 6 settimane in caso di persone non esposte

in precedenza, da 1 a 4 giorni in caso di reinfestazione.– Periodo di contagiosità: fino a che gli acari e le uova non siano stati distrutti

da adeguato trattamento. Possono essere necessari 2 o più cicli di tratta-mento, eseguiti a intervalli di una settimana.

– Provvedimenti nei confronti del malato: allontanamento da scuola o dal lavoro fino al giorno successivo a quello di inizio del trattamento. Per sog-getti ospedalizzati o istituzionalizzati, isolamento da contatto per 24 ore dall’inizio del trattamento.

– Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: sorveglianza clinica per la ricerca di altri casi di infestazione; per i familiari e per i soggetti che abbiano avuto contatti cutanei prolungati con il paziente è indicato il tratta-mento profilattico simultaneo. In caso di epidemie è indicato il trattamento profilattico dei contatti. Lenzuola, coperte e vestiti vanno lavati a macchina con acqua a temperatura maggiore di 60°C; i vestiti non lavabili con acqua calda vanno tenuti da parte per una settimana, per evitare reinfestazioni.

Dissenteria bacillare (Shigellosi): ICD-9 004 (Classe di notifica: V).– Periodo di incubazione: da 12 ore a 7 giorni, abitualmente 1-3 giorni.– Periodo di contagiosità: durante l’infezione acuta e fino a che l’agente pato-

geno è presente nelle feci (abitualmente 4 settimane).

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– Provvedimenti nei confronti del malato: precauzioni enteriche, nei casi che richiedono l’ospedalizzazione, fino a risultato negativo di due coprocolture eseguite su campioni fecali raccolti a non meno di 24 ore di distanza l’uno dall’altro e a non meno di 48 ore dalla cessazione del trattamento antimicro-bico. In caso di positività persistente il soggetto, una volta dimesso, andrà sottoposto a sorveglianza sanitaria fino a negativizzazione, con allontana-mento dalle attività che comportino direttamente o indirettamente la mani-polazione di alimenti e dalle attività di assistenza sanitaria e all’infanzia.

– Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: sorveglianza sanita-ria per almeno 7 giorni dall’ultimo contatto con il paziente ed effettuazione di coprocoltura di controllo per i conviventi di contatti sintomatici; trat-tamento dei positivi. Coprocoltura di controllo nei conviventi e contatti, anche asintomatici, impegnati in attività che comportino manipolazione di alimenti o assistenza sanitaria e all’infanzia e loro esclusione da tali attività in caso di risultato positivo. Coprocoltura di controllo nelle situazioni in cui sia verosimile un alto rischio di trasmissione. Istruzione dei conviventi e dei contatti sulla necessità dell’accurato lavaggio delle mani e dello spaz-zolamento delle unghie dopo l’uso dei servizi igienici e prima della mani-polazione di alimenti o della cura di malati e bambini.

Meningite da Haemophilus influenzae B: ICD-9 320.0 (Classe di notifica: V).– Periodo di incubazione: non definito, probabilmente 2-4 giorni.– Periodo di contagiosità: fintantoché il microrganismo è presente nelle

secre-zioni oro-faringee; l’infettività cessa entro 48 ore dall’inizio di un adeguato trattamento antimicrobico.

– Provvedimenti nei confronti del malato: isolamento respiratorio per 24 ore dall’inizio di appropriata terapia.

– Provvedimenti nei confronti di conviventi e di contatti: sorveglianza sanitaria di conviventi e contatti stretti; chemioantibioticoprofilassi con rifampicina per tutti i contatti domestici in ambienti familiari in cui siano presenti bam-bini, oltre al caso indice, di età inferiore a 6 anni; chemioantibioticoprofilassi per i bambini fino a 6 anni e per il personale di scuole materne o asili nido. Il dosaggio consigliato è 20 mg/kg/die, fino a un massimo di 600 mg, in un’unica dose giornaliera per 4 giorni. Vaccinazione dei bambini di età com-presa tra 0 e 6 anni. La pregressa vaccinazione non esclude il trattamento

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profilattico. I contatti di età inferiore a 6 anni sono esclusi dalla frequenza di comunità e possono essere riammessi al termine del periodo di profilassi, a meno che non siano già stati vaccinati con schedula appropriata per l’età.

Vaccinazioni

Le vaccinazioni costituiscono uno degli interventi più efficaci della sanità pub-blica, in quanto attraverso i vaccini è possibile prevenire in modo efficace e sicuro molte malattie infettive ed evitare di conseguenza anche possibili complicanze e sequele invalidanti o fatali. Le vaccinazioni costituiscono il possibile mezzo per eradicare quelle malattie che riconoscono nell’uomo l’unico ospite (vaiolo, polio-mielite, morbillo ecc.) e per controllare le altre. La relazione dimostrata fra alcune infezioni e alcune patologie croniche degenerative fa sperare nella possibilità di prevenire queste ultime mediante l’uso di vaccini (ad es. prevenzione dell’epato-carcinoma primitivo mediante vaccinazione anti epatite virale B; prevenzione del carcinoma del collo dell’utero mediante vaccinazione anti papillomavirus).

Alcune vAccinAzioni di pArticolAre interesse per il medico di medicinA generAle

Influenza

L’influenza costituisce un serio problema epidemiologico per la sua ubiquità, contagiosità, l’esistenza di serbatoi animali e inoltre per la variabilità antigenica dei virus influenzali. Poiché i suoi sintomi sono simili a quelli di altre malattie respiratorie acute di minore importanza, spesso si minimizza l’importanza di questa infezione, responsabile invece di elevata morbosità e indirettamente di elevata mortalità soprattutto in soggetti con età superiore ai 65 anni o con pato-logie croniche. In Italia la sovramortalità dovuta a influenza varia da 3-4 mila a 8-9 mila decessi ogni anno, a seconda della diffusione della epidemia.

La malattia è causata da virus a RNA, della famiglia degli Orthomyxovirus, che sulla base della ribonucleoproteina, vengono suddivisi in tre tipi antigenici maggiori: A (responsabile della maggior parte delle epidemie), B e C; all’in-terno del tipo A si distinguono, a loro volta, ulteriori sottotipi, caratterizzati da antigeni di superificie (emoagglutinina e neuroaminidasi) immunologicamente diversi, di impatto epidemiologico fondamentale nella diffusione delle epide-mie maggiori/pandemie. Quando si verifica un cambiamento di rilievo a carico di uno di questi antigeni – il cosiddetto shift (spostamento) antigenico, evento fortunatamente raro e proprio solo del tipo A – compare un virus dalle carat-

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teristiche totalmente nuove e verso cui la popolazione è immunologicamente suscettibile: ciò determina la comparsa di una pandemia. Gli shift antigenici sono dovuti a ricombinazioni genetiche con virus animali (aviari o suini), per eventi di coinfezione cellulare generalmente a carico di specie che presentano affinità con il sistema immunologico umano.

Più frequente, spesso su base stagionale, è il cosiddetto drift (deriva) antige-nico, che interessa sia il tipo A che, in misura minore, il tipo B, responsabile delle epidemie stagionali che si verificano nella stagione invernale, dovuto a cambia-menti puntiformi nei due antigeni di superficie. Anche negli animali si possono avere infezioni dovute a virus influenzali con diversi sottotipi antigenici. Gli uccelli acquatici costituiscono un serbatoio naturale ed è stato dimostrato il pas-saggio di alcuni virus influenzali anche tra specie diverse (anatre, tacchini, polli, suini). Nel 1997 a Hong Kong, in seguito a una epidemia tra i polli dovuta a un sottotipo A(H5N1), si sono verificati alcuni casi di infezione nell’uomo, dovuti a passaggio diretto del virus dall’animale all’uomo; la letalità è stata di oltre il 30%. Tale epidemia che sembrava sotto controllo è riesplosa nei primi anni di questo secolo con una letalità per l’uomo pari al doppio rispetto al 1997. Fino a ora il contagio è avvenuto tra animale e uomo ma si teme che nel prossimo futuro il virus aviario, ricombinandosi con un virus “umano”, possa acquisire la capacità di passaggio da uomo a uomo con grave rischio per la popolazione mondiale. D’altra parte bisogna ricordare che l’epidemia di spagnola del 1918-1919 era dovuta a un virus suino passato nell’uomo e quindi diffuso da uomo a uomo. L’esperienza ha insegnato che le pandemie si possono verificare a inter-valli irregolari e possono rappresentare vere e proprie emergenze sanitarie. Tut-tavia per poter parlare di potenziale epidemico o pandemico, i ceppi formatisi in seguito a ricombinazione genica dovrebbero avere la capacità di trasmettersi da persona a persona, evento che si realizza raramente.

L’influenza si diffonde da persona a persona mediante contatto diretto, gocce di saliva od oggetti da poco contaminati da secrezioni nasofaringee. L’influenza è altamente contagiosa, specialmente tra soggetti istituzionalizzati, anche se i più colpiti sono i bambini in età scolare in quanto con minore espe-rienza di passate infezioni influenzali. I soggetti sono già contagiosi nelle 24 ore prima dell’inizio dei sintomi. La presenza del virus nelle secrezioni nasali cessa generalmente entro 7 giorni dall’inizio della malattia, ma può persistere più a lungo nei bambini più piccoli e nei pazienti immunocompromessi.

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Nel periodo interpandemico è invece possibile intervenire su variabili note, quali valutare l’assetto immunitario della popolazione, onde compren-dere anche, in caso di rischio pandemico, quali debbano essere le strategie di intervento e organizzazione da mettere in atto. Il vaccino e, in minor misura, i farmaci antivirali e antibatterici sono le armi che, se impiegate in modo esteso e associate a un piano preciso di utilizzo delle risorse strutturali dispo-nibili (ospedali e, in particolare, reparti di terapia intensiva), permetteranno di affrontare in modo congruo future emergenze pandemiche.

Per verificare quali virus circolino nella popolazione è stata istituita dall’OMS una rete di sorveglianza epidemiologica e virologica dell’influenza. In Italia la rete (Influnet) è coordinata dall’Istituto Superiore di Sanità ed è costituita da medici di medicina generale e pediatri di libera scelta, con funzione di medici sentinella, e da centri virologici regionali.

Vaccinazione antinfluenzale

I vaccini antinfluenzali disponibili, prodotti in uova embrionate di pollo, sono immunogeni, sicuri e associati a minimi effetti collaterali.

Pur se sono allo studio diversi vaccini vivi e attenuati da somministrare per via nasale o buccale, al momento quelli utilizzati in Italia sono tutti inattivati e appartengono a tre categorie:

– virus interi, fluidi o adsorbiti a vari adiuvanti;– split (virus frammentati), particelle da cui viene separata la componente

lipidica responsabile della gran parte degli eventi avversi riscontrati con i vaccini a virus interi;

– ad antigeni purificati o subunità, costituiti dai soli antigeni emoagglutinina (H) e neuroaminidasi (N).

I vaccini split e a subunità, pur lievemente meno immunogeni, sono da pre-ferire nelle persone con particolare sensibilità agli effetti collaterali (bambini, soggetti affetti da patologie croniche); i vaccini adiuvati sono indicati per la vaccinazione degli ultrasessantacinquenni.

La composizione dei vaccini, che in genere contengono tre ceppi virali (di solito due di tipo A e uno di tipo B), varia ogni anno secondo le indicazioni che l’OMS annualmente fornisce separatamente per i due emisferi, quello australe e quello boreale.

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Secondo la Circolare 5 agosto 2005 del Ministero della Salute devono essere vaccinati i soggetti appartenenti alle seguenti categorie:

In ambito italiano ed europeo i principali destinatari dell’offerta del vac-cino antinfluenzale sono gli ultrasessantacinquenni e quelli con patologie che aumentano il rischio di complicazioni a seguito di influenza:

– soggetti con età pari o superiore a 65 anni;– bambini di età superiore a 6 mesi e adulti affetti da malattie croniche

dell’apparato respiratorio (comprese l’asma persistente, la displasia bron-copolmonare, la fibrosi cistica), malattie croniche dell’apparato cardiocir-colatorio (comprese le cardiopatie congenite e quelle acquisite), diabete mellito e malattie metaboliche, insufficienza renale, malattie degli organi emopoietici ed emoglobinopatie, malattie congenite o acquisite che com-portino carente produzione di anticorpi, immunosoppressione indotta da farmaci o da HIV, sindromi da malassorbimento intestinale, patologie per le quali sono programmati importanti interventi chirurgici;

– bambini e adolescenti in trattamento con acido acetilsalicilico a lungo ter-mine a rischio di sindrome di Reye in caso di infezione influenzale;

– bambini pretermine (nati prima della 37a settimana di gestazione) e di basso peso alla nascita (inferiore a 2500 g), dopo il compimento del sesto mese;

– donne che saranno al secondo/terzo trimestre di gravidanza durante la stagione epidemica;

– individui di qualunque età ricoverati in strutture per lungodegenti;– medici e personale sanitario di assistenza;– contatti familiari di soggetti ad alto rischio; – soggetti addetti a servizi pubblici di primario interesse collettivo (personale

degli asili nido, insegnanti scuole dell’infanzia e dell’obbligo; addetti poste e telecomunicazioni; dipendenti Pubblica Amministrazione e Difesa; Forze di Polizia inclusa polizia municipale; volontari servizi sanitari di emergenza; personale di assistenza in case di riposo);

– personale che per motivi occupazionali, è a contatto con animali che potreb-bero costituire fonte di infezione da virus influenzali non umani (detentori di allevamenti; addetti all’attività di allevamento; addetti al trasporto di animali vivi; macellatori e vaccinatori; veterinari pubblici e libero-professionisti).

Dall’età di 6 mesi a 36 mesi si somministra mezza dose (0,25 ml) ripetuta a distanza di 4 settimane per i bambini vaccinati per la prima volta. Nei bambini

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Manuale della Professione Medica224

da 3 a 9 anni, non precedentemente esposti all’infezione influenzale o mai vaccinati, sono necessarie due dosi di vaccino, somministrate a un mese di distanza, per evocare una soddisfacente risposta anticorpale. Al di sopra dei 9 anni è sufficiente una sola dose.

La durata della protezione è limitata dal cambiamento degli antigeni di superficie che circoleranno nell’epidemia successiva. Il vaccino antiinfluenzale deve essere somministrato prima dell’inizio della stagione influenzale. Deve essere conservato a temperature comprese tra +2°C e +8°C e somministrato per via intramuscolare. Per tutti i soggetti con età maggiore di 9 anni è racco-mandata l’iniezione in sede deltoidea; al di sotto di questa età la faccia antero-laterale della coscia.

La protezione indotta nei soggetti adulti sani è generalmente del 70-90%; nelle persone anziane e in quelle con malattie croniche, che possono ridurre l’efficienza della risposta immunitaria, i vaccini antinfluenzali sono comun-que efficaci nel prevenire le complicanze e nel ridurre la sovramortalità da influenza del 70-80%. L’uso del vaccino è controindicato nei soggetti con anamnesi positiva per shock anafilattico da proteine dell’uovo e nei bambini sotto i sei mesi di vita. In circa il 20% dei vaccinati la somministrazione del vac-cino può dar luogo a reazioni locali nel punto di inoculo e a reazioni generali come cefalea, malessere, mialgie, febbre, orticaria.

Infezioni invasive da pneumococco

Lo Streptococcus pneumoniae (pneumococco), germe ubiquitario, è un diplo-cocco gram positivo lanceolato. Ne sono stati identificati 90 sierotipi differenti in base alla composizione della capsula polisaccaridica, ma 23 tipi capsulari sono da soli responsabili dell’86-98% di tutte le infezioni invasive pneumococciche nei paesi occidentali. Lo pneumococco è responsabile di gravi infezioni invasive quali batteriemie e meningiti, caratterizzate da elevata letalità. Tra gli aspetti che rendono le infezioni invasive particolarmente temibili è la crescente diffusione in tutto il mondo della multiantibiotico-resistenza che rende difficile la terapia di queste malattie invasive.

In Italia l’infezione da Streptococcus pneumoniae è una delle principali cause di meningite (36% di tutti i casi di meningite segnalati) con un’incidenza parti-colarmente rilevante negli adulti e negli anziani (80,3%) e di sepsi batterica; è inoltre una delle principali cause di polmonite e otite media nei paesi industria-

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lizzati. L’incidenza, oltre che nei primi anni di vita, è più elevata nella popola-zione anziana, attestandosi a valori compresi tra 27 e 62 casi/100.000. In Italia nell’anno 2003 sono stati notificati 309 casi di meningite da pneumococco e di questi 121 (39%) in soggetti tra 25 e 64 anni, e 108 (28%) in soggetti ultra-sessantaquattrenni.

Gruppi a rischio sono i soggetti cardiopatici, broncopneumopatici, persone con età minore di 2 anni e maggiore di 65 anni, persone con immunodeficienze congenite o acquisite (HIV), con asplenia anatomica o funzionale, alcolismo cronico, sindrome nefrosica, insufficienza renale cronica, trapianti d’organi, diabete mellito. I pazienti con perdite liquorali, fratture craniche complicate o procedure neurochirurgiche possono soffrire di meningiti ricorrenti. Oltre il 91% degli adulti con infezione invasiva da pneumococco presenta almeno uno dei sopracitati fattori di rischio.

La trasmissione, data l’alta percentuale di soggetti colonizzati a livello delle alte vie respiratorie, avviene da persona a persona, presumibilmente tramite le goccioline di Flügge.

Il periodo di contagiosità non è noto, ma dura meno di 24 ore dall’inizio di un’efficace terapia antibiotica. Il periodo di incubazione varia a seconda del tipo di infezione e può anche durare solo 1-3 giorni. Le infezioni virali delle alte vie respiratorie, come l’influenza, predispongono all’infezione da pneumo-cocco. Le infezioni pneumococciche sono prevalenti in inverno.

Vaccinazione antipneumococcica

Sono in commercio due tipi di vaccini antipneumococcici: vaccini polisac-caridici e vaccini coniugati.

Il vaccino comunemente usato negli adulti è un vaccino polisaccaridico, contenente 23 antigeni capsulari purificati di Streptococcus pneumoniae, corrispon-denti ai sierotipi più frequentemente implicati nelle infezioni invasive nei paesi occidentali. La vaccinazione antipneumococcica provoca una risposta speci-fica in almeno l’80% dei soggetti sani adulti, l’immunogenicità è di poco infe-riore nei soggetti anziani ed è pure soddisfacente nei soggetti affetti da pato-logie croniche non marcatamente immunodepressive, mentre è decisamente inferiore nei soggetti immunodepressi. La risposta immunitaria si sviluppa, nei confronti di tutti i 23 componenti, circa 2-3 settimane dalla vaccinazione. Il vaccino è considerato tollerabile e sicuro, le lievi reazioni locali in sede di

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Manuale della Professione Medica226

inoculo (dolore, arrossamento, tumefazione) che si hanno in circa metà dei vaccinati recedono entro 24-48 ore, le reazioni sistemiche (febbre, mialgie) sono rare e l’anafilassi eccezionale.

Il vaccino a 23 componenti è dotato di efficacia compresa tra il 57-75% nel prevenire le batteriemie pneumococciche nei soggetti di età pari a 65 anni e/o affetti da patologie non immunodepressive.

La rivaccinazione di norma non è raccomandata nei soggetti immuno-competenti già vaccinati con vaccino 23 valente. Una sola rivaccinazione è prevista nei soggetti con età ≥ 65 anni se la vaccinazione è avvenuta prima dei 64 anni da almeno 5 anni e nei soggetti con asplenia funzionale o anatomica o immunocompromessi se vaccinati da oltre 5 anni (3 anni in soggetti ≤10 anni), comunque prima dei 65 anni di età (Figura 5.3).

Il vaccino polisaccaridico non induce memoria immunitaria e non è effi-cace nei bambini di età inferiore ai 2 anni.

Tabella 5.3. Profilassi immunitaria antitetanica in caso di ferita

Stato vaccinale Ferite superficiali pulite Tutte le altre ferite

Assenza di vaccinazione, stato vaccinale incerto

Inizio della vaccinazione con Td o DT

Inizio della vaccinazione e somministrazione in sito diffe-rente e con diversa siringa di immunoglobuline antitetaniche

Ultima somministrazione del ciclo di base o dose di richia-mo da più di 10 anni

Una dose di richiamo di vac-cino Td o DT

Una dose di richiamo e som-ministrazione in sito differente e con diversa siringa di immu-noglobuline antitetaniche

Ultima somministrazione del ciclo di base o dose di richia-mo tra 5 e 10 anni

Una dose di richiamo di vac-cino Td o DT

Una dose di richiamo; la som- ministrazione di immunoglobu- line antitetaniche non è neces-saria

Ultima somministrazione del ciclo di base o dose di richia-mo da meno di 5 anni

Nessun trattamento Una dose di richiamo di vacci-no solo in presenza di rischio di infezione particolarmente alto; la somministrazione di immu-noglobuline antitetaniche non è necessaria

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5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 227

Figura 5.3. Flow-chart della rivaccinazione nei soggetti ≥ 65 anni

Nell’anno 2001 è stato registrato un vaccino antipneumococcico eptava-lente coniugato. Il vaccino è in grado di indurre una buona risposta anticorpale a partire dal 3° mese di vita e stabilire una buona memoria immunologica nei soggetti. Ciò consente di proteggere dalle infezioni pneumococciche invasive i soggetti più giovani, quelli che non sono tutelabili dal vaccino 23 valente. Il Ministero della Salute con Circolare n. 1 del 19 novembre 2001 ha raccoman-dato l’offerta gratuita di vaccino ai bambini sotto i 5 anni di età ad alto rischio di contrarre patologia invasiva da Streptococcus pneumonite (anemia falciforme, talassemia, asplenia funzionale, broncopneumopatie croniche, immunodepres-sione, diabete mellito, insufficienza renale e sindrome nefrosica, infezione da HIV, immunodeficienze congenite, malattie cardiovascolari croniche, perdita di liquor cefalo-rachidiano, portatori di impianto cocleare).

Il vaccino coniugato eptavalente ha un’efficacia complessiva dell’89% verso le forme invasive e può ridurre l’incidenza di otiti del 10%.

Il vaccino va somministrato per via sottocutanea o intramuscolare. I richiami sono raccomandati, ogni 5 anni, solo nei soggetti ad altissimo rischio.

È possibile somministrare nella stessa seduta, in sedi diverse di iniezione, anche il vaccino antinfluenzale e antidiftotetano, senza variazioni negli effetti collaterali o nella risposta anticorpale.

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Tetano

Il tetano è causato da una esotossina prodotta dal Clostridium tetani, bacillo gram positivo, sporigeno, anaerobio obbligato, tipicamente non invasivo. L’in-fezione sostenuta da questo germe rimane quindi localizzata nel punto di pene-trazione e germinazione delle spore. Le ferite sporche o con tessuto necrotico, le lesioni da schiacciamento e le ustioni sono particolarmente a rischio di tetano se contaminate da Cl.tetani. La forma vegetativa produce una potente esotossina (tetanospasmina), che si lega ai gangliosidi della giunzione neuromuscolare o sulle membrane neuronali nel midollo bloccando l’impulso inibitorio ai nervi motori; si hanno di conseguenza contrazioni muscolari dolorose, inizialmente dei muscoli della mandibola e del collo e successivamente dei muscoli del tronco. La tossina tetanica agisce in quantità minime: la dose letale per l’uomo è valutata in meno 2,5 ng/kg. La letalità si aggira intorno al 30%.

In Italia vengono notificati circa 100 casi/anno. La fascia di età maggior-mente colpita è quella adulto-anziana in quanto generalmente non vaccinata. Il tetano non è trasmissibile da persona a persona. Il periodo di incubazione può variare da 3 a 21 giorni e oltre.

Vaccinazione antitetanica

La vaccinazione costituisce il più efficace mezzo di prevenzione del tetano. L’immunizzazione attiva con anatossina tetanica è indicata per tutti i sog-

getti non immunizzati di qualunque età. Il ciclo vaccinale comprende tre dosi, da eseguirsi le prime due a distanza di

4-8 settimane e la terza a 6-12 mesi. Successivamente per mantenere l’immunità sono raccomandati richiami ogni 10 anni. Dopo la vaccinazione primaria un titolo protettivo persiste per almeno 10 anni. Il vaccino è altamente efficace nel prevenire il tetano quando il ciclo di base è stato completato. Oltre la metà dei vaccinati non presenta effetti collaterali. Tra i più frequenti si hanno reazioni locali come eritema, edema e dolore nel sito di iniezione, e reazioni generali come febbre ≥ 38°C, son-nolenza, irritabilità. Sono state descritte sindrome di Guillain-Barré (SGB) e neu-rite brachiale associate alla vaccinazione antitetanica ma sono estremamente rare.

In caso di ferita chi ha ricevuto il ciclo di base o un richiamo da meno di cinque anni non necessita di profilassi immunitaria. L’impiego delle immuno-globuline antitetaniche (TIG) o del vaccino nel trattamento delle ferite dipende dalla natura della ferita e dallo stato immunitario del ferito.

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È pertanto particolarmente importante raggiungere, mediante campagne di informazione e di offerta attiva della vaccinazione, con il coinvolgimento dei medici di medicina generale, quella parte della popolazione priva di protezione immunitaria nei confronti del tetano (anziani, donne non occupate in attività lavorative per le quali è richiesta la vaccinazione antitetanica obbligatoria).

Non è necessario ricominciare il ciclo primario qualora non siano trascorsi più di 12 mesi tra la prima e la seconda dose, e più di cinque anni tra la seconda e la terza. Si consiglia l’avvio di un nuovo ciclo di base solo in caso di superamento degli intervalli sopra indicati. Per quanto riguarda le vaccinazioni di richiamo, anche se sono passati oltre dieci anni dall’ultima dose, si somministra una sola dose, non essendovi la necessità di cominciare un nuovo ciclo (Tabella 5.3).

L’immunoprofilassi antitetanica è indicata per tutti i soggetti che abbiano riportato ferite puntorie, ferite lacero-contuse o morsicature di animali, conta-minate con terriccio o sporcizia. La profilassi immunitaria antitetanica è indi-cata anche in caso di ustioni e per qualsiasi lesione accompagnata da segni di necrosi dei tessuti (ulcere trofiche, ulcere varicose ecc.).

Febbre ≤38°C e affezioni minori, quali raffreddori e altre infezioni delle vie aeree superiori, non costituiscono controindicazioni, anche temporanee, alla vaccinazione; ugualmente non è necessario rimandare la vaccinazione in caso di trattamenti con cortisonici per uso locale o per uso sistemico a basso dosag-gio, e in caso di affezioni cutanee quali dermatosi, eczemi, infezioni cutanee localizzate (Circolare n. 9 del 26 marzo 1991).

La condizione di sieropositività per HIV non costituisce di per sé una con-troindicazione alla vaccinazione antitetanica. Lo stato di gravidanza non con-troindica la somministrazione di vaccini a base di anatossina; in alcuni paesi, anzi, il vaccino antitetanico è espressamente raccomandato per le donne in gravidanza, ai fini della prevenzione.

Notifica delle malattie infettive e altre denunce sanitarie

Una delle più importanti funzioni giuri diche cui la professione medica è chiamata a ottemperare, è sicuramente l’attività di informativa per cui, oltre al referto e alla denuncia di reato all’autorità giudiziaria (artt. 361, 362 e 365 cp), le denunce sanitarie, che di tale attività sono il fondamento, rappresentano un vero e proprio obbligo legale per tutti gli esercenti la professione di medico chirurgo.

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Manuale della Professione Medica230

L’obbligo di denuncia, infatti, anche con riguardo a quella sanitaria, è da inquadrare nella più vasta categoria degli atti tramite cui, operando in collabo-razione con la pubblica autorità, il medico è tenuto a segnalare circostanze di fatto o di diritto rilevanti ai fini dell’esercizio dei poteri di ufficio dell’Ammini-strazione, i quali si traducono nell’emanazione di successivi atti amministrativi.

Rientrano nella sfera “dell’interesse a conoscere” dell’autorità sanitaria quei fatti di natura tecnica che il medico constata, conosce e accerta nell’eserci-zio della professione, indipendentemente dalla pur tipica e primaria finalità diagnostico-terapeutica.

Nelle denunce si individuano caratteri comuni: la circostanza di fatto o di diritto, cioè l’oggetto dell’informativa che presuppone particolare competenza tecnica per l’identificazione e l’apprez za mento; la finalità, cioè la rilevanza dell’oggetto di denuncia e lo scopo per cui la stessa si pone come obbligo; la natura contravvenzionale dell’eventuale omissione.

Indipendentemente dalla qualifica rivestita dal sanitario (pubblico ufficiale: art. 357 cp; incaricato di pubblico servizio: art. 358 cp; esercente un servizio di pubblica necessità: art. 359 cp), il medico, sia esso libero professionista che dipendente da istituzioni sanitarie pubbliche o private, è tenuto all’obbligo della denuncia sanitaria, sempre che i fatti siano stati rilevati o conosciuti a motivo delle attività prestate o comunque nell’espletare atti riconducibili alla sfera pro-fessionale; tant’è che, giustamente, l’informativa è stata descritta come «testimo-nianza scritta di fatti di natura tecnica constatati nell’esercizio professionale».

Poiché le finalità che si perseguono con l’inoltro della denuncia sanitaria sono quelle di poter operare una migliore e più efficace tutela della salute tramite il possibile allestimento di adeguate misure di ordine preventivo e di igiene pubblica, individuale e collettiva, oltreché di poter effettuare indagini di tipo statistico-epidemiologico, il medico, specifico interprete degli interessi sociali e responsabile di una corretta gestione della salute, deve conoscere le circostanze in cui è previsto di redigere l’atto, i termini e le modalità di pre-sentazione previsti dalla legge e i canoni di compilazione, ricordando altresì che è tenuto a inviarlo di propria iniziativa all’autorità competente, secondo le statuizioni di legge. Trattasi, quindi, di momento fondamentale dell’esercizio della professione da cui deve scaturire la consapevolezza di svolgere un’attività importante per il benessere non solo del proprio “assistito”, ma dell’intera col-lettività, poiché l’informativa che deve essere fornita è essenziale per valutare

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5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 231

la necessità di specifici provvedimenti sanitari, ma non solo, tesi a migliorare e a contenere il fatto morboso, a istruire provvidenze o, comunque, garantire all’istituzione la possibilità di operare utilmente per il benessere individuale e collettivo. È pertanto indispensabile che il medico, nell’adempiere all’ob-bligo previsto dalla legge, precisi con la massima diligenza le circostanze della denuncia, ricordando sempre il «limite distintivo fra la vana burocrazia e la consapevolezza di un irrinunciabile ruolo professionale».

L’importanza della denuncia sanitaria è sottolineata e richiamata anche nell’articolo 23 del Codice di Deontologia medica del 1995 ove si sancisce che «[…] nella redazione delle denunce obbligatorie […] il medico è tenuto alla massima diligenza, alla più attenta e scientificamente corretta registrazione dei dati e formulazione dei giudizi, nonché alla chiara esplicitazione dei propri dati identificativi».

L’obbligo giuridico e deontologicamente sancito, proprio delle denunce all’autorità sanitaria, è previsto da norme di legge (Testo Unico delle Leggi Sanitarie – TULLSS; Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza – TULPS; Regi Decreti e Decreti Ministero della Sanità, Circolari ecc.), la cui ignoranza, in nessun caso, può essere invocata dal sanitario intervenuto nel caso, e, per l’omissione o il ritardo nella compilazione di ciascuna di essa, è prevista appo-sita sanzione.

L’esigenza e l’obbligo della denuncia sanitaria del resto, e segnatamente della denuncia di malattie infettive e diffusive, che rappresenta per il medico e la sanità in genere quella di più frequente riscontro e di maggior interesse pra-tico, erano già stati avvertiti nel secolo XIX, tanto che la legge Crispi-Pagliani del 1888 (legge 22 dicembre 1888, n. 549 “legge per la tutela dell’igiene e della sanità pubblica” in GU 24 dicembre 1888, n. 301 e RD 9 ottobre 1889, n. 6442 “Regolamento esecutivo della Legge Crispi-Pagliani”, in GU 28 ottobre 1889, n. 256) stabiliva come il medico dovesse fare immediata denuncia di ogni caso di malattia infettiva e diffusiva pericolosa o sospetta di esserlo, pre-vedendo inoltre per i contravventori della disposizione sanzioni rappresentate da pene pecuniarie e, nei casi di danno alla persona causalmente riconducibile all’omessa denuncia, da gravi pene, tra cui addirittura, la detenzione. L’otte-nimento di dati statistici il più vicino possibile alla realtà, quali si ottengono tramite il corretto inoltro della denuncia, d’altronde è condizione prioritaria per una corretta e adeguata prevenzione ma, oltre a rappresentare fondamento

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per la tutela della salute, ha rilievo e importanza anche per altri aspetti che inci-dono sul vivere civile dell’individuo e della collettività in maniera non meno significativa. Basti citare a titolo di esempio l’ambito economico-politico, e al modo in cui il recente problema della SARS e anche “l’influenza dei polli” hanno scosso gli scambi e l’economia di intere nazioni. Si deve ricordare, inol-tre, come il sistema sanitario italiano si trovi di fronte a una realtà sociale ben diversa rispetto a quella di soli pochi anni addietro, con un mutamento demo-grafico indotto da cospicui flussi migratori, provenienti da paesi caratterizzati da una realtà patogena anche assai diversa dalla nostra, richiamandosi ipotesi assistenziali prima di non frequente riscontro nella medicina nazionale o non più avvisata come ipotesi endemica/epidemica. Il livello d’interesse sul tema è stato, di recente, ulteriormente sottoscritto dalla legge 189/2002 (del 30 luglio 2002 “Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo”, in GU 26 agosto 2002, n. 199), in cui si prevede l’impegno sempre più attivo del medico nell’assistenza sanitaria ai cittadini extra-comunitari, con il necessario presupposto di una attenzione professionale e di un aggiornamento continuo e permanente per il medico, trattandosi tra l’altro di un preciso obbligo san-cito dall’art. 19 del Codice di Deontologia medica del 2006, per provvedere in modo adeguato alla diagnosi tempestiva di malattie, magari meno usuali nelle attese del medico occidentale, e al relativo trattamento; dovendosi in ciò anche considerare una importante sottolineatura all’obbligo di denuncia, nel momento in cui solo la conoscenza adeguata e tempestiva dei fenomeni (non solo di carattere infettivo) può consentire di prevedere interscambi istituzionali essenziali al benessere individuale e della collettività intera.

Quanto agli aspetti deontologici, specificamente previsti nel Codice deon-tologico, l’omissione della denuncia sanitaria può comportare sanzioni disci-plinari, ai sensi di molteplici previsioni, laddove l’art. 3 riconosce come dovere del medico «la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’uomo» e quindi, più latamente, anche della collettività. L’art. 74 sancisce come il medico debba «svolgere i compiti assegnatigli dalla legge in tema di trattamenti sanitari obbli-gatori e deve curare con la massima diligenza e tempestività l’informativa alle Autorità sanitarie». Per gli esercenti un servizio di pubblica necessità (liberi professionisti), le sanzioni sono erogate dagli organi disciplinari del Consi-glio dell’Ordine, mentre per il medico dipendente (pubblico ufficiale o incari-cato di pubblico servizio) si incorre anche nelle sanzioni previste dalle norme

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contrattuali, quali la censura, la riduzione dello stipendio, la sospensione della qualifica, fino alla destituzione dall’incarico, oltre, ovviamente, per entrambe le categorie, alla previsione specifica per l’inadempienza come tale.

Per le conseguenze d’indole giudiziaria, potendosi configurare in caso di omessa denuncia gli estremi della colpa specifica, per violazione di precise norme, a fronte di omessa notifica di malattia infettiva da parte di medico dipendente o convenzionato può concretizzarsi l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 328 cp, secondo cui «l’incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da 6 mesi a 2 anni»; trattasi di ipotesi sanzionatoria penale, la cui rigorosa applicazione avrebbe senza dubbio funzione di richiamo e monito per tutti i sanitari che sono tenuti alle denunce e che ben attiene anche alla qualifica rivestita da coloro che maggiormente sono coinvolti in questo tipo di attività, il pediatra o il medico di base, i quali, appunto, sono da considerare a tutti gli effetti incaricati di pubblico servizio.

Il «superiore interesse a conoscere», che solo tramite il corretto atto medico rappresentato dalla denuncia risulta pienamente soddisfatto, trova, quale prin-cipale destinatario, le Unità operative funzionali di igiene e sanità pubblica delle ASL (così denominate dalla legge regionale della Toscana), ovvero le altre strutture corrispondenti all’uopo previste nel contesto organizzativo del SSN.

Le molteplici norme di legge non fanno univoco riferimento al termine “denuncia”, in quanto per i plurimi atti di informativa in ambito sanitario sono state, nel tempo, adottate dizioni diverse che richiamano, peraltro, un signifi-cato univoco e conseguente di informativa quale desumibile anche dal vocabo-lario della lingua italiana (Devoto G., Oli G.C.):

– notifica (comunicazione scritta nei modi prescritti da una norma burocra-tica, amministrativa, giudiziaria);

– denuncia (atto formale, informativo, facoltativo o obbligatorio, con il quale si dà notizia alla competente autorità);

– segnalazione (comunicazione o trasmissione breve di determinate notizie);– relazione (mettere al corrente: esposizione informativa).

Trattasi di terminologia solo apparentemente difforme, la quale trova spiegazione nei diversi richiami normativi, ma in specie nel differente rilievo sociale dell’informativa sanitaria che, comunque, è sempre obbligatoria; nell’il-

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lustrazione delle singole tipologie, proprio in rapporto al differente peso e alla diversa importanza dell’atto, si farà riferimento ai suddetti termini, come indicato nella normativa in vigore, fermo restando il contenuto di sostanza che al termine stesso deve essere riservato.

Art. 75 - Prevenzione, assistenza e cura della dipendenza da sostanze da abuso

L’impegno professionale del medico nella prevenzione, nella cura e nel recu-pero clinico e reinserimento sociale del dipendente da sostanze da abuso deve, nel rispetto dei diritti della persona e senza pregiudizi, concretizzarsi nell’aiuto tecnico e umano, sempre finalizzato al superamento della situazione di dipendenza, in collaborazione con le famiglie e le altre organizzazioni sani-tarie e sociali pubbliche e private che si occupano di questo grave disagio.

Le tossicodipendenze

Aspetti generali

Il fenomeno della tossicodipendenza, diffusosi nel nostro paese in modo sporadico all’inizio del secolo scorso, ha subito, col trascorrere dei decenni, una costante ed allarmante evoluzione quantitativa incidente in ambito sociale, giuridico e sanitario tanto da imporre ripetuti interventi del legislatore.

Le cause e i fattori che hanno contribuito a un così drammatico fenomeno non hanno tuttavia trovato una giusta definizione e reazione nei vari assetti normativi, sia per l’intrinseca complessità e la globalità della soggezione alle droghe d’abuso, sia per la carenza di una opportuna collaborazione pluridisci-plinare capace di analizzarne i vari aspetti in termini complessivi e non parziali. I risultati di una siffatta emergenza non si manifestano neanche sul versante politico, limitato com’è dai continui cambiamenti di pensiero e dalle distanze ideologiche nella considerazione degli stati di dipendenza. Ne sono un esem-pio le alternanze delle strategie di trattamento della tossicodipendenza, talora relegate al mero ambito penalistico repressivo oppure spostate nel terreno sanitario in quanto devianze sociali abbisognevoli di misure amministrative e di recupero.

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Nell’evoluzione legislativa italiana, tra il 1975 ed il 1993, si è così assistito ad un susseguirsi di variazioni normative, oscillando tra momenti di parziale permissività e di totale repressione, che, a parte l’abrogazione della dose media giornaliera e della punibilità dell’uso personale sanciti dal referendum del 1993, tra il 1990 ed il 27 febbraio 2006 (data di pubblicazione della legge di conver-sione del DL 272/2005), non hanno mai prodotto modifiche efficaci sul com-plessivo impianto del provvedimento (TU 309/1990). Diversamente, la legge del 15 marzo 2006, che recepisce, come dichiarato dal Ministro Giovanardi «le osservazioni e i suggerimenti degli operatori presenti alla Conferenza di Palermo sulle tossicodipendenze nonché le istanze della Consulta delle Tossi-codipendenze [...]», pare introdurre importanti elementi sostanziali con rinno-vata inversione della corrente di pensiero politico.

La modifica del TU sugli stupefacenti ci riporta infatti, per certi aspetti, alla legge del 1990 reinserendo, nei casi di detenzione per uso personale, la distinzione tra reato penale e amministrativo con la conseguente inammissi-bilità delle così dette “scorte” illimitate legittimate dall’abrogazione della dose media giornaliera. Nella sua suddivisione in 12 titoli, ripartiti in 136 articoli, i problemi della tossicodipendenza sono affrontati in maniera organica e pluri-disciplinare delegando, per competenza, compiti operativi alle varie rappresen-tanze istituzionali:

1) al Consiglio dei Ministri sono riservate funzioni di coordinamento; 2) al Ministero della Salute: prevenzione, autorizzazioni alla produzione e al

commercio, dipendenze;3) al Ministero degli Interni: controllo e repressione;4) al Ministero degli Esteri e della Giustizia: promozione delle collaborazioni

internazionali.

Ma vediamo nel dettaglio quali sono i capisaldi che rendono il provvedi-mento innovativo.

lA nuovA normAtivA

La crisi normativa del 1993, che culminò nelle abrogazioni referendarie con-vertite in legge il 6 giugno 1993, produsse sostanziali innovazioni nel pensiero politico e nell’indirizzo normativo in tema di stupefacenti e di tossicodipen-denze. Le novità introdotte dalla legge n. 49 del 2006 al TU 309/1990 sembrano

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però ancor più incisive e profonde per le efficaci variazioni sull’intero assetto normativo modificato: nei principi, nei contenuti, nelle competenze, nelle attività di controllo e di repressione, nelle sanzioni e nelle loro modalità applicative e negli aspetti socio-sanitari di carattere organizzativo e gestionale.

Va subito osservato che per ciò che riguarda le attribuzioni, al Ministro della Salute è stata salvaguardata la gestione di elementi salienti quali:

a) le attività di prevenzione del consumo e delle dipendenze da sostanze stu-pefacenti o psicotrope e da alcol;

b) la partecipazione ai programmi internazionali di aggiornamento dei dati relativi alle quantità di sostanze stupefacenti o psicotrope effettivamente importate, esportate, fabbricate, impiegate, nonché alle quantità disponibili presso gli enti o le imprese autorizzate;

c) la determinazione degli indirizzi per il rilevamento epidemiologico da parte delle Regioni, delle sostanze stupefacenti o psicotrope;

d ) le autorizzazioni per la coltivazione, la produzione, la fabbricazione, l’im-piego, il commercio, l’esportazione, l’importazione, il transito, l’acquisto, la vendita e detenzione delle sostanze stupefacenti o psicotrope, nonché quelle per la produzione, il commercio, l’esportazione, l’importazione e il transito delle sostanze suscettibili di impiego per la produzione di sostanze stupefa-centi o psicotrope;

e) la tenuta dell’elenco annuale delle imprese autorizzate alla fabbricazione, all’impiego e al commercio all’ingrosso di sostanze stupefacenti o psi-cotrope, di cui alle tabelle dell’articolo 13, sentito l’Istituto Superiore di Sanità, curandone il tempestivo aggiornamento; delle indicazioni relative alla confezione dei farmaci contenenti sostanze stupefacenti o psicotrope;

f ) la verifica annuale e poliennale dell’entrata in commercio di nuovi farmaci, la loro capacità di indurre dipendenza nei consumatori;

g) gli studi e le ricerche relativi agli aspetti farmacologici, tossicologici, medici, psicologici, riabilitativi, sociali, educativi, preventivi e giuridici in tema di droghe, alcol e tabacco;

h) le iniziative volte a eliminare il fenomeno dello scambio di siringhe tra tossicodipendenti, favorendo anche l’immissione nel mercato di siringhe monouso autobloccanti (art. 2. TU 309/1990).

Reintrodotta inoltre la discriminante “quantitativa”, tra attività ammini-strativamente e penalmente illecita, sono assegnate al Ministro della Sanità,

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previo parere dell’Istituto Superiore di Sanità e del Comitato Scientifico di cui all’art. 1-ter, i compiti di completare e aggiornare le tabelle delle sostanze stu-pefacenti e/o psicotrope (art. 13) e la individuazione (art. 78) delle procedure diagnostiche, medico-legali e tossicologico-forensi, nell’accertamento del tipo, del grado e dell’intensità dell’abuso delle sostanze stupefacenti o psicotrope ai fini dell’applicazione delle disposizioni di cui agli articoli 75 e 75-bis.

È invece venuto meno ogni compito del Ministero in ordine alle modalità d’impiego dei farmaci sostitutivi per i quali sono invece disposte misure restrit-tive con l’inserimento in apposite sezioni della tabella II secondo i criteri e le modalità dell’art. 14.

Relativamente alla formulazione delle tabelle, vale osservare che l’equipara-zione tra le così dette “droghe leggere” e le “droghe pesanti”, ha determinato, oltre all’immediata parificazione del trattamento sanzionatorio finora differen-ziato dalla vecchia normativa, la tempestiva revisione della precedente distribu-zione in sei gruppi ridotti a due così rappresentati:

a) nella I tabella sono comprese, tout court, tutte le sostanze stupefacenti vie-tate;

b) nella II tabella, divisa in cinque sezioni, distinte dalla lettera A alla lettera E, sono invece allocate le specialità farmaceutiche, regolarmente registrate in Italia, contenenti principi attivi considerati pericolosi e pertanto persegui-bili se detenuti al di fuori delle prescrizioni ed esigenze mediche.

Ma in aggiunta alle sostanze vietate o soggette a controllo, la nuova formula-zione tabellare riporta anche i valori soglia o massimi di detenibilità cui riferirsi, nell’uso personale, per la distinzione delle trasgressioni amministrativamente o penalmente perseguibili o, nello spaccio, per la valutazione della gravità del reato (lieve o non) su cui modulare la pena. Vale inoltre osservare che più la quantità di principio attivo detenuta eccede il valore di riferimento indicato, più rigorosi dovranno essere gli elementi giustificativi prodotti per il superamento della presunzione di reato così come più elevate risulteranno le pene nei casi di detenzione, al di fuori dell’uso personale, previste dal revisionato art. 73. Nella sua nuova formulazione, anche l’art. 78 si propone però di fornire, attraverso la riproposizione del criterio oggettivo di valutazione, maggiori elementi di cer-tezza nella individuazione dell’illecito penale. Infatti, l’adeguamento periodico delle tabelle e l’individuazione di idonee procedure diagnostiche dovrebbe, nella

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distinzione tra condotte detentive per uso personale da quelle per fini di spac-cio, agevolare l’opera investigativa delle Forze dell’ordine attualmente basata su esclusivi atti testimoniali e indiziari o sulla flagranza di reato.

Ma analizziamo per gradi ciò che il nuovo art. 73 prevede per i detentori di sostanze vietate in quantità superiori ai valori massimi stabiliti.

Art. 73

Relativamente ai reati di cui al comma 1: «chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I prevista dall’articolo 14 [...]», e del comma 2 chi: «[...] essendo munito dell’autorizzazione di cui all’articolo 17, illecitamente cede, mette o procura che altri metta in commercio le sostanze o le preparazioni indicate nelle tabelle I e II di cui all’articolo 14 [...]», si rileva minor rigore e severità nell’attribuzione delle pene minime che risultano ridotte da otto a sei anni di reclusione e che, con il nuovo art. 1-bis, sono applicate, nella stessa misura, a «[...] chi, senza autorizzazione, importa, esporta, riceve a qualsiasi titolo o comunque illecitamente detiene:

a) stupefacenti e/o psicotropi che per quantità, in particolare se superiori ai limiti massimi indicati nelle tabelle o per modalità di confezionamento o per peso lordo o per altre circostanze, appaiano destinate al non esclusivo uso personale;

b) medicinali compresi nella tab. II sez. A eccedenti le quantità prescritte (in questi casi è prevista la riduzione della pena da un terzo alla metà)».

Ma l’indirizzo repressivo, nei confronti della produzione e commercializ-zazione illecita di stupefacenti, si coglie al comma 2-bis dove si prevedono pene, da 6 a 22 anni di reclusione, per chi produce o commercializza sostanze chimiche di base o precursori di sintesi utilizzabili nella produzione degli stu-pefacenti.

Il comma 5, riguardante i reati, così detti di “lieve entità”, perseguiti con pene da uno a sei anni di reclusione e con multe pecuniarie da 3000 a 26.000 euro evidenzia, con l’inserimento del comma 5-bis, l’orientamento del legisla-tore di preservare il tossicodipendente o l’assuntore di sostanze stupefacenti o psicotrope dall’esperienza carceraria disponendo che «[...] il giudice, con la sen-

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5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 239

tenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 cpp, su richiesta dell’imputato e sentito il pubblico ministero, qualora non debba concedersi il beneficio della sospensione condizionale della pena, può applicare, anziché le pene detentive e pecuniarie, quella del lavoro di pubblica utilità di cui all’articolo 54 del DLgs 28 agosto 2000, n. 274, secondo le modalità ivi previste [...]».

Ma la volontà di salvaguardia dal carcere è ancor più manifesta quando si offre: «[...] In deroga a quanto disposto dall’articolo 54 del DLgs 28 agosto 2000, n. 274, il lavoro di pubblica utilità ha una durata corrispondente a quella della sanzione detentiva irrogata. Esso può essere disposto anche nelle strut-ture private autorizzate ai sensi dell’articolo 116, previo consenso delle stesse [...]»; a garanzia quindi che la pena sia scontata è anche previsto che: «[...] In caso di violazione degli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di pub-blica utilità, in deroga a quanto previsto dall’articolo 54 del DLgs 28 agosto 2000, n. 274, su richiesta del Pubblico Ministero o d’ufficio, il Giudice che procede, o quello dell’esecuzione, con le formalità di cui all’articolo 666 cpp, tenuto conto dell’entità dei motivi e delle circostanze della violazione, dispone la revoca della pena con conseguente ripristino di quella sostituita [...]», la pos-sibilità di eludere, per ben due volte, la pena carceraria con lavori di pubblica utilità eseguibili anche all’interno di strutture private.

Artt. 75 e 75-bis

Agli artt. 75 e 75 bis, è stata modificata la perseguibilità amministrativa di: «[...] chiunque, al fine di farne uso personale, illecitamente importi, acquisti o comunque detenga sostanze stupefacenti o psicotrope [...]», stante che, con la novità intro-dotta dalla tab. II sui medicinali, questa investe anche chi: «[...] al di fuori delle condizioni di cui all’art. 72 comma 2 [...] (art. 72) riguarda i [...], farmaci debita-mente prescritti secondo le necessità di cura in relazione alle particolari condizioni patologiche [...]».In questi casi, le sanzioni previste, singole o combinate di durata non inferiore a un mese e non superiore a un anno, sono ridotte da un terzo alla metà qualora si tratti di medicinali compresi nelle sez. A e B e riguardano una o più delle seguenti applicazioni:

a) sospensione della patente di guida o divieto di conseguirla;b) sospensione della licenza di porto d’armi o divieto di conseguirla;

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c) sospensione del passaporto o di ogni altro documento equipollente o divieto di conseguirli;

d ) sospensione di permesso di soggiorno o divieto di conseguirlo se il citta-dino è extracomunitario.

Inoltre, quando ne ricorrano i presupposti (comma 2), l’interessato è invi-tato: «a seguire il programma terapeutico e socio-riabilitativo di cui all’articolo 122 o ad altro programma educativo e informativo, personalizzato in relazione alle proprie specifiche esigenze, predisposto dal servizio pubblico per le tos-sicodipendenze competente per territorio analogamente a quanto disposto al comma 13 (competenza prefettizia) o da una struttura privata autorizzata ai sensi dell’articolo 116».

Sanzioni che divengono più severe nelle circostanze previste dal comma 3 dello stesso articolo, dove, nei confronti dei detentori che «[...] abbiano diretta e immediata disponibilità di veicoli a motore [...]», la sanzione è sensibilmente aggravata prevedendosi il ritiro immediato della patente o del certificato di ido-neità tecnica per i ciclomotori ai quali viene applicato anche il fermo amministra-tivo per un periodo di 30 giorni. Eventi per i quali, agli organi di polizia, è fatto obbligo di contestazione immediata della violazione con trasmissione tempestiva (senza ritardi e comunque non oltre 10 giorni) degli atti, completi degli esiti analitici, al Prefetto. Per ciò che attiene gli accertamenti tecnico-analitici, questi dovranno essere, ai sensi del comma 10, espletati presso: le strutture di medicina legale, i laboratori di tossicologia forense, le strutture delle Forze di polizia o le strutture pubbliche individuate da apposito decreto del Ministero della Salute.

L’erogazione delle sanzioni è decisa, per gravità, durata ed entro un ter-mine di 40 giorni dalla segnalazione, con apposita ordinanza del Prefetto che si avvarrà dell’assistenza di un nucleo operativo da costituirsi presso ciascuna Prefettura-Ufficio Territoriale del Governo. I ricorsi, avversi all’ordinanza pre-fettizia, potranno essere presentati al Giudice di pace entro i 10 giorni suc-cessivi alla notifica. Nel caso degli stranieri maggiorenni gli organi di polizia riferiscono invece al Questore per le opportune azioni di competenza in sede di rinnovo del permesso di soggiorno.

Nel caso di minori, il Prefetto, qualora ciò non contrasti con le esigenze educative, convoca i genitori o chi ne esercita la potestà per informarli sui fatti e sulle strutture di cui al comma 2.

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5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 241

Al comma 6 è specificato invece che l’uso degli accertamenti e degli atti di cui ai commi da 1 a 5 deve riguardare esclusivamente l’applicazione delle misure e delle sanzioni previste dall’art. 75-bis.

La revoca delle sanzioni, nei casi di esiti positivi del programma di cui al comma 2, è disposta dal Prefetto che ne dà comunicazione anche al Questore e al Giudice di pace.

Il comma 14 relativamente ai casi di particolare tenuità della violazione e limitatamente alla prima volta, prevede che il prefetto, quando ne ravvisi i motivi, possa definire il procedimento con il formale invito a non fare più uso delle sostanze stesse.

Con l’introduzione ex novo dell’art. 75-bis, le stesse violazioni di cui al comma 1 dell’art. 75 sono, laddove sussistano condizioni di pericolo per la tutela della sicurezza pubblica, sanzionate, ai sensi del comma 1 dell’art.75-bis, con provvedimenti che, per i soggetti già condannati «[...] anche non definitiva-mente, per reati contro la persona, contro il patrimonio o per quelli previsti dal presente testo unico o dalle norme della circolazione stradale [...]», si sostan-ziano in una o più delle seguenti misure:

a) obbligo di presentarsi almeno due volte a settimana presso il locale ufficio della Polizia di Stato o presso dell’Arma dei Carabinieri territorialmente competente;

b) obbligo di entrare nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, entro una determinata ora e di non uscirne prima di altra ora prefissata;

c) divieto di frequentare determinati locali pubblici;d ) divieto di allontanarsi dal comune di residenza;e) obbligo di comparire in un ufficio o comando di polizia specificamente

indicato, negli orari di entrata e uscita dagli istituti scolastici;f ) divieto di condurre qualsiasi veicolo a motore.

Pene che, per la loro erogazione, sono trasmesse dal Questore, con prov-vedimento motivato, al Giudice di pace competente per territorio e che rap-presenta l’unico referente con poteri di modifica o di revoca. In tal senso va segnalato che i ricorsi, per cassazione, non godono degli effetti sospensivi.

I decreti di revoca, ammessi per i soggetti sottoposti con esito positivo ai programmi riabilitativi, sono invece trasmessi al Questore e al Giudice di pace per la loro applicazione.

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Con l’art. 78, le disposizioni sulle procedure diagnostiche per l’accerta-mento medico-legale e tossicologico-forense del tipo, del grado e dell’intensità, dell’abuso delle sostanze stupefacenti e psicotrope sono demandate, previo parere dell’Istituto Superiore di Sanità e del Comitato Scientifico, ad apposito decreto del Ministero della Salute da sottoporre a periodici aggiornamenti.

L’art. 89 è chiaramente proteso a favorire, nei casi di reato commesso da tos-sicodipendente o alcoldipendente, l’arresto domiciliare e a garantire la prosecu-zione di programmi terapeutici di recupero in corso. Programmi che possono essere seguiti anche da chi sia già in custodia cautelare in carcere e che decida, con istanza personale, di sottoporvisi. Risultano esclusi dai benefici dei commi 1 e 2 i rei di delitti (di mafia) di cui all’art. 4-bis della legge 354/1975 a eccezione di quelli degli artt. 628, comma 3 e 629, comma 2 cpp. Le violazioni al programma sono trasmesse dal responsabile della struttura all’autorità giudiziaria e, laddove «[...] integrino un reato, in caso di omissione, l’autorità giudiziaria ne dà comunicazione alle autorità competenti per la sospensione o revoca dell’autorizzazione di cui all’articolo 116 e dell’accreditamento di cui all’articolo 117, ferma restando l’ado-zione di misure idonee a tutelare i soggetti in trattamento presso la struttura[...]».

Per i reati commessi in relazione allo stato di tossicodipendenza di cui all’art. 90, i benefici della sospensione si applicano ora alle pene non superiori ai sei anni o ai quattro anni per le trasgressioni di cui all’art. 4-bis della legge 354/1975 così come, in casi particolari, l’art. 94 detta le norme per l’affidamento in prova ai servizi sociali.

La parificazione tra i servizi pubblici e privati e le rinnovate opportunità confe-rite nella libera scelta della struttura dove sottoporsi ai programmi di prevenzione, cura e riabilitazione (equiparazione tra assistenza pubblica o privata), costituisce un valido incentivo nell’attivazione di nuovi centri di recupero e ha reso necessaria la revisione degli artt. 113 e 114 sulle competenze attribuite alle Regioni e alle Pro-vince nella disciplina delle attività di prevenzione, cura e recupero delle tossicodi-pendenze. Equipollenza per la quale si sono rivisti anche gli art. 116 e 117 finalizzati alla definizione dei requisiti necessari per l’accreditamento e per l’autorizzazione allo svolgimento delle attività socio-sanitarie cui conseguono l’iscrizione agli Albi regionali e agli elenchi ministeriali. Con gli artt. 128, 129 e 130 sono invece discipli-nati i finanziamenti e le concessioni in uso delle strutture statali e degli enti locali.

È stato inserito l’art. 122-bis che, in materia di verifiche e controlli, dispone, per l’annuale relazione al Parlamento, la trasmissione, dalle Regioni (comma 4, art. 117) al Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro da lui delegato in

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5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 243

materia di politiche antidroga, dei risultati raggiunti dai SERT e dalle comunità nei programmi di recupero definiti ed effettivamente eseguiti.

Definizione di “stupefacente”

L’approccio definitorio al termine “stupefacente”, che sotto il profilo semantico potrebbe apparire di facile soluzione, non ha invece trovato, nei vari ambiti disciplinari, una esauriente traduzione capace di esprimere il reale significato del termine o invero di raccogliere, sotto un unico comma, l’intera categoria di sostanze, in grado dì agire sulla sfera fisico-comportamentale.

L’intento di assegnare alla droga d’abuso una adeguata definizione che nei dizionari della lingua italiana, si traduce in: «Sostanza naturale o di sintesi capace di determinare artificiosi stati di benessere, ma che usata di continuo porta a decadimento etico, psichico e somatico; tali l’oppio e suoi alcaloidi, l’eroina e la cocaina», è, sul fronte scientifico, sistematicamente naufragato tanto che più opportuna è apparsa, secondo alcuni Autori, la soluzione di considerare stupe-facenti solo le sostanze d’abuso specificatamente elencate nelle tabelle ufficiali; una soluzione indubbiamente adeguata a soddisfare la continua evoluzione del settore farmacologico nel campo degli psicofarmaci, ma rispondente più a esigenze giuridiche che non farmacologiche, mediche o sociali.

In questa logica, stupefacenti sono tutti quei composti indicati come tali per legge, noti agli operatori del settore, ma spesso sconosciuti alla collettività, deviata spesso dalla adozione di termini sostitutivi, talvolta mutuati dalla dizione anglosassone e impiegati impropriamente per esprimere il reale concetto di “stupefacente”. Ne sono esempio i termini drugs (che nella sua etimologia origi-nale indica preparati medicamentosi o sostanze di uso gastronomico) o narcotics (sinonimo di “sostanze stupefacenti”) che, nella traduzione letteraria, assume il significato di “narcotico” (farmaco cioè ad azione simile a quella degli oppiacei e quindi inutilizzabile per categorie farmacologiche ad azione diversa), spesso usati, nel linguaggio comune, per indicare le sostanze d’abuso, ma anche per incrementare la confusione nozionistica, resa già difficile dalla competizione aperta, sulla definizione di “stupefacente”, dalle singole discipline fondate su criteri di classificazione propri di ciascuna entità proponente.

Il caos definitorio, che ne è derivato, è stato tale da sortire l’effetto di con-fondere e di fondere spesso il termine “stupefacente”, con quello più generico di “droga” intesa, nell’uso comune, come sostanza capace di produrre piacere,

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ma da perseguire perché distrugge l’individuo, lo rende dipendente e deteriora la società per le attività criminali a essa correlate. Si tratta di un risultato certa-mente non voluto, ma conseguito, grazie anche all’uso del termine “droghe” negli approcci delle discipline giuridiche, mediche e farmacotossicologiche, alla definizione di “stupefacenti” o di “sostanze d’abuso”.

In questo contesto:

– l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dal punto di vista medico, assimila il termine “droga” a «ogni sostanza che introdotta in un organi-smo vivente può modificarne una o più funzioni» finendo, in tal modo, per avvicinarle più ai tossici, nella loro generalità, che non alle reali sostanze d’abuso;

– la farmacotossicologia, conferisce invece alle “droghe” il valore sinonimico di “psicodroghe” o di “sostanze psico-attive” ovvero le riferisce a quei: «composti chimici, naturali o artificiali, in grado di modificare la psicologia o l’attività mentale dell’individuo...»;

– giuridicamente, il termine “droga” si trasferisce in quello di “stupefacente” espressivo di illiceità ovvero di illegalità (“droghe illegali” configurantisi tra i composti tabellati o regolamentati per legge ivi compresi numerosi farmaci soggetti a controllo da perseguire se assunti fuori del nominale impiego terapeutico).

Tra queste definizioni, indubbiamente caratterizzate da ben distinte influenze ed esigenze disciplinari, la più accreditata sembra essere, secondo il parere delle Commissioni statunitense e canadese, quella farmacotossicologica, capace di adattarsi al binomio: droga-psicotropismo, introdotto dal Delay, nel 1966, per distinguere, con il termine “droghe”, particolari «sostanze naturali o sintetiche capaci di modificare l’attività psichica» ossia di produrre uno stato artificiale di condizione mentale attraverso la temporanea modificazione di determinati sistemi neurobiochimici.

L’orientamento quindi di paragonare le “droghe” ai farmaci capaci di pro-durre modificazioni sulla psiche, sul comportamento, sulle funzioni moto-rie e/o sulle capacità di giudizio ossia alle “sostanze psicotrope”, tradottesi, nell’esigenza farmacologica, in “farmaci psicotropi”, ha nuovamente confuso il pensiero comune, più propenso ad assimilare il concetto di psicotropismo con quello di terapeuticità nei confronti delle malattie psichiatriche, che non al

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5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 245

reperimento della nozione di sostanza dotata di attività psichico-mimetica, e quindi di possibile impiego anche voluttuario.

È un rischio da non correre e che impone, per la pericolosità intrinseca a tali preparati, di considerare positivamente l’ibridazione definitoria tra versione giuridica e farmacologica, considerando “stupefacenti”, tutte le sostanze, natu-rali o artificiali, pericolose sul piano individuale e sociale in quanto capaci di produrre alterazioni psico-comportamentali, meritevoli di essere assoggettare al controllo legislativo attraverso la loro catalogazione in apposite tabelle sog-gette a periodici aggiornamenti, nel rispetto di quanto disposto dagli artt. 13 e 14 del vigente TU.

Definizione di tossicodipendenza

Raccogliere sotto un’unica definizione un concetto così ampio come quello della tossicodipendenza e renderlo esauriente per le singole esigenze discipli-nari, non è compito facile e forse i risultati raggiunti, non sono ancora piena-mente soddisfacenti.

Per avere infatti un quadro, seppur teorico, della complessa realtà della tossicodipendenza e individuarne una giusta definizione, non si possono non considerare alcune variabili fondamentali che intervengono, con differente peso, nell’intero fenomeno e che sono rappresentate: dal soggetto, dall’habitat e dalle caratteristiche farmacodinamiche della sostanza d’abuso. Si tratta di fattori tra loro completamente diversi che potrebbero erroneamente orientare verso una analisi separata dei singoli parametri, ognuno dei quali è capace di esprimere decine di variabili patogene a prevalenza psicopatologica, senza for-nire però, da soli, il giusto contributo al globale inquadramento del problema.

Non rimane quindi che la via di ricercare giuste correlazioni tali da raffigu-rare, come risultato finale, le linee generali del fenomeno della tossicodipen-denza: una ricerca complessa che, se riferita alla più grave e classica tossico-mania, quella da eroina, deve imporsi di annoverare i dati analitici soggettivi, contraddistinti da condizioni deficitarie motivazionali (disagio sociale, labilità psichica, labilità sessuale, diminuzione delle capacità fisiche, immaturità, stati di angoscia, carenze familiari) e quelli relativi all’habitat circostante, ai fini di un primo collegamento di sintesi che partendo dal dato dell’uso dello stu-pefacente, può tuttavia, se privilegia i fattori soggettivi, giustificare, nella sua

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prima connotazione, atteggiamenti di opposto conformismo, nel senso della tolleranza in clima di permissività legislativa e della repressione in regime di contenzioso giudiziario. Lo stato psichico, che ne deriva, appare quindi preva-lentemente diverso in rapporto al contesto socio-normativo nel quale l’evento si compie; e ciò indipendentemente dal beneficio psico-fisico immediato che ne discende, che non muta se non per l’idea che la gratificazione possa essere indotta dalla sola e specifica azione farmacologica della sostanza oppure dallo stato emozionale derivante dalla soggettività della predisposizione all’uso. Si tratta di steps di un circuito vizioso dove i mezzi estrinseci, mediatori, sono del tutto irrilevanti rispetto all’effetto primario rappresentato dal primo contatto con lo stupefacente. Sicché il momento causale fondamentale e primario che successivamente si traduce in agente patogeno, come tale in definitiva perce-pito, rimane la sostanza che da sola è in grado di indurre tossicodipendenza per le conseguenze subentranti delle implicazioni d’uso (resistenza-astinenza), le quali impongono regimi di vita e frequenza di gruppi adeguati e specifici (per cultura e ruolo ben definiti) del mondo tossicomanico. Si realizza cioè un comportamento sempre più autonomo rispetto a ogni schiera nosologica, contrassegnato da spunti compulsivi e dalla ricerca ciclica dell’effetto farmaco-logico garantito dalla sostanza.

Siffatti percorsi sono sicuramente diversi da quelli che portano all’uso delle sostanze “indifferenti” sotto il profilo della dipendenza fisica, seppure esistano, quanto meno nella prima fase, caratteri di similitudini tipiche del binomio persona-ambiente. Le motivazioni personali (certamente diverse) e quelle ambientali, costituiscono infatti il primo gradino che conduce alla porta di accesso allo stupefacente e alla conseguente alterazione psichica, prodotta dall’uso intensivo, che può divenire talmente compulsiva da indurre a ripro-varne gli effetti o addirittura a spingere il soggetto verso altri stupefacenti

Nell’intento quindi di fornire un primo inquadramento definitorio, della tossicodipendenza, Tatum e Seeverse la definirono come «una condizione prodotta dall’uso ripetuto di una sostanza chimica, in modo che essa diventa necessaria perché l’interruzione dell’uso provoca disturbi mentali e fisici»: for-mula indubbiamente consona alle esigenze dell’inquadramento farmacotos-sicologico del fenomeno, ma insufficiente a fronteggiare la dimensione del problema nelle sue plurime connotazioni della reazione giuridica, della realtà sanitaria e della devianza sociale. Se ben orientata e pienamente sufficiente a

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definire lo stato indotto dall’uso ripetuto di sostanze d’abuso ovvero a deline-are la condizione soggettiva sotto l’aspetto dei meri effetti psicofarmacologici, la riportata definizione è tutta inadeguata a evidenziare i rapporti dell’individuo con la società, a motivo dei quali la tossicodipendenza potrebbe apparire come un fenomeno facilmente solubile con il semplice intervento farmacologico ovvero attraverso la somministrazione di composti sostitutivi o delle stesse sostanze d’abuso, semmai idonea a risolvere il personale disturbo fisico e/o psichico, ma incapace di limitare o eliminare i pericoli, per l’individuo e la col-lettività, determinati dall’alterazione dello status soggettivo.

Stabilire quindi quale sia la nozione più adeguata per esprimere le circo-stanze, le condizioni individuali e i rapporti tossicodipendente-società, non è impresa agevole, anche se, nello sforzo definitorio, compiuto dalle singole entità scientifiche, la definizione data dall’OMS: «la tossicodipendenza è una condizione di intossicazione cronica o periodica dannosa all’individuo e alla società prodotta dall’uso ripetuto di una sostanza chimica naturale o di sin-tesi. Sono sue caratteristiche: 1) il desiderio incontrollabile ad assumere la sostanza e di procurarsela con ogni mezzo; 2) la tendenza ad aumentarne la dose (tolleranza); 3) la dipendenza psichica e talvolta fisica dagli effetti della sostanza», sembra abbastanza soddisfacente sebbene non affronti la que-stione intrinseca delle cause motivazionali su cui fonda la scelta tipologica del tossicodipendente.

Sotto questo aspetto è infatti anche arduo spiegare il sottile parallelismo tra farmacodipendenza (abuso di composti “legali” ossia farmaci) e tossicodi-pendenza (abuso indifferente di sostanze illegali o legali) ben vedendo che la definizione dell’OMS si rivolge indistintamente a condizioni soggettive conse-guenti «all’uso ripetuto di sostanze chimiche naturali o di sintesi» non meglio definite.

Ed è questa una carenza che nemmeno la definizione biologica di Paton pare colmare: «la tossicodipendenza ha origine quando, in conseguenza della somministrazione di una sostanza, si attivano forze (fisiologiche, biochimiche, sociali o ambientali) che predispongono all’uso continuato di quella sostanza» ignorando essa completamente gli aspetti di pericolosità individuale e sociale conseguenti all’instaurarsi della dipendenza.

Dalle tante definizioni fornite dai numerosi studiosi, comitati e commis-sioni nazionali e internazionali, emerge tuttavia il pensiero comune di consi-

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derare la tossicodipendenza sotto il duplice aspetto del rapporto: individuo-farmaco e/o sostanza d’abuso e individuo-società.

Rispetto al primo caso, il nesso nosologico tra le due entità sarà inequi-vocabilmente rappresentato dalla natura del farmaco e dai suoi effetti traenti verso una continua assunzione e un progressivo aumento delle dosi per ritro-vare le sensazioni tipiche della prima volta. Nel secondo invece, gli elementi, intrinseci all’individuo, sono rappresentati dalle sanzioni dettate dalla modi-ficazione psichica che agisce sia sul fronte relazionale di gruppo, sia sul suo comportamento nella società, protesa, a sua volta, a inquadrare il soggetto in un ruolo ben definito e ben differenziato in ragione del tipo di dipendenza da cui è affetto. È infatti notevolmente diversa la condizione (etero percepita) dell’eroinomane da quella del fumatore di tabacco o di cannabis oppure dell’eti-lista o del farmacofiliaco. Rispetto alla prima figura, la valutazione è infatti fortemente negativa e la reazione tipica è quella della condanna e dell’emargi-nazione, mentre per il fumatore di tabacco, l’etilista ed il farmacofiliaco esiste una sorta di tacita indifferenza e di paziente accettazione seppure tamponate da un sommesso dissenso. Diversamente accade per la cannabis, per l’ecstasy e altri composti, talora erroneamente considerati “droghe sicure” o “leggere” sicché la tossicodipendenza di prevalente matrice giovanile o adolescenziale, ottiene, dalla società, una avversione mitigata da recondita comprensione a sua volta giustificata dalla diversità anagrafica.

Aspetto di uniformità del pensiero scientifico, nel definire la tossicodipen-denza, è la concorde opinione secondo la quale l’uso prolungato instaura uno stato di dipendenza che può essere di ordine psichico, fisico o anche psico-fisico: stati soggettivi indotti dalle proprietà delle singole sostanze d’abuso e pertanto differenziati, che Tatum e Seeverse, nel 1931 indicarono come: drug addiction e drug habituation; siffatti termini caratterizzano, il primo, uno stato di dipendenza fisica (ivi compresa quindi la crisi da astinenza derivante dalla sospensione o riduzione dell’uso) e il secondo di dipendenza psichica. Su que-sta base culturale, nel 1950, l’OMS definiva la drug addiction come «lo stato di periodica o cronica intossicazione, negativa per l’individuo e per la società, prodotto dalla ripetuta assunzione dì sostanze farmacologicamente attive, le cui caratteristiche includono: 1) un desiderio incoercibile ad assumere la sostanza e a procurarsela; 2) ad aumentare la dose; 3) una dipendenza psichica (psicologica) e alcune volte fisica degli effetti della sostanza»; mentre la drug

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habituation, sottende «il desiderio di assumere ripetutamente la sostanza senza che si vengano a creare le caratteristiche negative mostrate dalla addiction, né gli effetti deterioranti per l’individuo e la società».

Si tratta di definizioni che, nella realtà italiana, sono divenute sinonimi di “tossicomania” e di “abitudine o di dipendenza comportamentale”, ma che appaiono già in origine insufficienti a definire lo “stato di dipendenza” meglio esplicitato, negli anni ’60, dalla definizione di drug dependence esplicativa di «uno stato psichico e talora fisico, derivante dalla interazione tra farmaco e organismo, caratterizzato da un particolare comportamento e da altri fattori che spesso includono un desiderio di assumere la sostanza sporadicamente o continuativamente al fine di ottenere effetti attivi sulla psiche e a provocare sconforto per la sua assenza; la tolleranza può essere più o meno presente; un soggetto può essere dipendente o meno dalla sostanza».

Si intende infine per “tolleranza”: «la necessità di aumentare le dosi per ottenere gli stessi effetti di quelle iniziali» e per “dipendenza”:

– psichica: l’impulso all’uso per ottenere piacere (la non assunzione provoca sconforto);

– fisica: l’esigenza di assumere la sostanza (anche in modo continuativo) per non cadere nella crisi da astinenza.

L’aspetto penalistico

Di grande rilievo medico e medico-legale è la previsione penalistica degli stati di tossicodipendenza evocati dal Codice penale (1930) come condizioni che fortemente incidono sulla imputabilità di chi commetta reati in preda all’azione immediata o cronica di sostanze stupefacenti.

Il problema investe l’area degli artt. 88 e 89 cp (vizio totale o parziale di mente) per i quali la capacità di intendere e di volere sia perduta o fortemente scemata tanto da escludere o limitare la imputabilità assimilando così l’azione di sostanze stupefacenti all’abuso di bevande alcoliche. In questo senso si esprimono gli artt. 91 (ubriachezza da caso fortuito o da forza maggiore); 92 (ubriachezza volontaria o colposa o preordinata); 93 (fatto commesso sotto l’azione di sostanze stupefacenti; con rinvio agli artt. 91 e 92); 94 (ubriachezza abituale di chi «è dedito all’uso di bevande alcoliche e in stato frequente di ubriachezza»; idem per colui che è «dedito all’uso di sostanze stupefacenti»);

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95 (cronica intossicazione da alcol o da sostanze stupefacenti; con eventuale rinvio agli artt. 88 e 89).

A parte il fatto che l’effetto acuto dell’uso di droga, se non dovuto a caso fortuito o a forza maggiore, non modifica ex lege, al pari della acuta ubria-chezza, la imputabilità, di particolare interesse medico è il trattamento penale riservato all’assuntore abituale non ancora mentalmente compromesso nella sfera intellettiva o volitiva, la cui imputabilità resta piena e la cui speciale colpe-volezza è anzi sanzionata dall’aumento di pena ove il reato sia stato commesso in stato di ebbrezza, rispetto all’alcolista o al tossicomane cronico affetto cioè da infermità di mente tale da escludere o da scemare grandemente la capacità di intendere e di volere, la cui imputabilità viene invece a essere esclusa o solo parzialmente riconosciuta.

Su tale questione la giurisprudenza è stata ondivaga anche a motivo della difficoltà di una attendibile diagnosi differenziale, ancorché la Corte Costi-tuzionale (n. 114 del 16 aprile 1998) abbia chiaramente sentenziato che la imputabilità con l’aggravamento della pena riguarda solo gli assuntori abi-tuali di droga ai sensi del II e III cpv dell’art. 94 (ubriachezza abituale), per cui «è considerato ubriaco abituale chi è dedito all’uso di bevande alcoli-che e in stato di frequente ubriachezza», assimilato a «chi è dedito all’uso di sostanze stupefacenti».

È inoltre chiaramente stabilito che l’aggravamento della pena non ricade su colui che commette un reato per il solo fatto di essere un assuntore abituale, ma per averlo commesso in preda a una ennesima condizione di intossica-zione acuta. Ed è questo un passaggio che vale la pena riguardare con sempre maggiore attenzione, posto che allude alla sola condizione di ubriachezza o di intossicazione acuta che non esclude né diminuisce la imputabilità mentre è la circostanza della abitualità che produce l’aumento della pena. E ciò in ordine a due distinte e non necessariamente associate contingenze (delle quali la prima è fondamentale, la seconda eventuale) che sottendono una previsione penalistica non obbligatoriamente coincidente con la realtà o con la plausibilità patologica o semplicemente psicologica e comportamentale. L’equilibrio tra esigenze penalistiche e realtà biologica è comunque e logicamente recuperato nel trattamento dell’intossicato cronico.

In tal senso, straordinariamente efficace e particolarmente congrua con le previsioni penalistiche è la distinzione tra abuso e dipendenza tracciata dal

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DSM IV - TR (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Testo revisionato, ed. italiana. Masson, 1998) per cui:

– l’abuso si riferisce alla modalità d’uso (patologica), che conduce a inade-guatezza sociale, senza ancor aver prodotto vere e proprie compromissioni intellettive;

– la dipendenza (tolleranza, astinenza) implica invece un grado più o meno elevato di deterioramento e di compromissione delle attività sociali o pro-fessionali.

Mentre l’abuso si limita a produrre un insufficiente senso di responsabilità, comportamenti incoerenti e impulsivi, espressioni inappropriate di sentimenti di aggressività, per cui il soggetto può incorrere in reati colposi o dolosi «a causa dello stato di intossicazione» (incidenti d’auto, risse, furti ecc.), la dipen-denza provoca invece una condizione mentale realmente patologica. Pur rifug-gendo da ogni approfondimento sulle questioni cliniche e sulla maturazione del non sopito dibattito specialistico, sembra dunque di poter affermare che è quanto meno proponibile e non manifestamente infondato un approccio diagnostico differenziale tra abitualità d’uso e intossicazione cronica, tale da poterne derivare anche una applicazione peritale ai fini della determinazione della imputabilità. Il DSM IV propone per l’appunto percorsi, vere e proprie linee-guide di diagnosi differenziale per l’abuso di alcol, di barbiturici, di oppia-cei, di cocaina, di amfetamine, di allucinogeni, di cannabinoidi, a documentare come la distinzione che qui si ricorda non sia ormai soltanto un frutto più o meno perverso e arbitrario di una discutibile politica criminale, ma corri-sponda invece a condizioni biologiche, almeno in parte oggettivabili.

E a conforto delle possibilità diagnostiche può dirsi che la abitualità è tributaria di una diagnosi fondata per lo più su elementi circostanziali mentre per la intossicazione cronica si impone una diagnosi clinica. Definizione di status cui far seguire adeguati programmi di recupero sociale da svolgersi presso strutture accreditate e per il comma 10) dell’art. 75, dovrà ora avva-lersi, come saggiamente ha sempre sostenuto S.D. Ferrara, di un’autentica consulenza plurispecialistica, meglio se di struttura. Come scriveva Barni, l’uso abituale era infatti dimostrabile attraverso un plurimo e convergente esame documentario, anamnestico, clinico, chimico-tossicologico che può compiersi in tempi reali solo in strutture specializzate.

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Il trattamento medico dei tossicodipendenti

Fondamentale è la comunicazione costante che il medico deve mante-nere con il soggetto tossicodipendente o semplicemente intossicato anche in ordine a una concordata definizione del programma terapeutico e socio-riabilitativo.

L’impostazione corretta del rapporto, basata sulla illustrazione più com-pleta dei reciproci impegni evita infatti l’instaurarsi di situazioni ambigue o di compromesso che potrebbero nuocere in rapporto ai suoi eventuali bene-fici, fermo restando che la responsabilità della conduzione del programma terapeutico e socio-riabilitativo non può non essere in genere demandata agli operatori che agiscono nel servizio o nella struttura, pubblica o privata, che trattano specialisticamente il drogato. Sono i medici curanti coloro che aiutano ad affrontate le sofferenze psicologiche constatandone i mutamenti, gli sbocchi.

Solo l’operatore infatti può valutare il giusto rilievo da attribuire a sin-goli comportamenti nel contesto del complessivo impegno verso il recupero al punto di cogliere una trasgressione giudicabile da parte dell’osservatore esterno come grave e incompatibile con il buon andamento del processo riabi-litativo, quale invece comprensibile e di scarso valore, e viceversa. Ancora una volta l’esperienza e la competenza forniscono autorità e serenità di giudizio all’operatore esperto il quale in tutta scienza e coscienza deciderà se riferire o meno sulla violazione della regola, valutando se complessivamente il pro-gramma è seguito positivamente o meno. Il suo giudizio, ispirato ai principi fondamentali e alla dignità della professione medica, non potrà subire censure di ordine deontologico, amministrativo o giudiziario.

Il medico personale ha il dovere del trattamento clinico dei tossicodipen-denti, in ragione della fenomenologia tossica passibile di trattamento sin-tomatico, dell’intervento urgente e spesso drammatico (somministrazione di naloxone nell’overdose da eroina), delle concomitanti patologie infettive (virus epatiti, AIDS), delle sindromi da astinenza ecc.

Rinviando alle trattazioni cliniche e alle linee-guida specializzate per ogni aspetto farmacologico clinico del trattamento e aderendo alla tesi ormai indi-scussa che il problema di fondo della tossicodipendenza, la disassuefazione, non può risolversi con la cosiddetta medicalizzazione del fenomeno, occorre

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far qui cenno al tema dei cosiddetti farmaci sostitutivi, il cui impiego (meta-done, in primis per quanto attiene le tossicodipendenze da oppiodi) per ben note ragioni farmacologiche di affinità, attenua col tempo la dipendenza, evi-tando i devastanti effetti della astinenza. In effetti, il quesito che più di ogni altro investe gli operatori sanitari in relazione al trattamento medico dei tos-sicodipendenti riguarda le incertezze che ancora sussistono sulla liceità non tanto clinica quanto giuridica delle terapie di mantenimento senza limiti di tempo con farmaci sostitutivi, in particolare per l’operante col metadone.

La risposta al quesito dipende, come è ovvio, non tanto dal riconosci-mento oggettivo della terapeuticità o meno del mantenimento senza limiti di tempo, quanto dalla utilità sanitaria ed etica e quindi della liceità del tratta-mento stesso che pure, come ammesso dalla giurisprudenza penale, è avallata dal consenso quasi unanime della dottrina penalistica.

Questa contrapposizione è particolarmente inquietante posto che pone in discussione non tanto la possibilità di impiego terapeutico di sostanze stupefacenti, come il metadone, ma la legittimità del suo uso continuativo. Come rettamente afferma il Porcella, la nozione clinica di terapeuticità nel trattamento dei tossicodipendenti non ha nulla di peculiare che la differenzi dalla nozione comunemente applicata negli altri ambiti della medicina e in questo senso la terapeuticità del mantenimento con metadone è affermata nei termini più espliciti dal Newman, uno dei massimi esperti in campo mondiale, con parole molto semplici: non può essere fatta dipendere da elementi estranei a valutazioni cliniche; ne è scientificamente comprovato l’effetto senza limiti temporali di contenimento, e di prevenzione di più gravi induzioni tossiche o di devastanti casi da sospensione; è deontologi-camente assurdo ed estraneo alla scienza il principio, pur autorevolmente sostenuto in Giurisprudenza, per il quale «compito del medico è quello di guarire l’ammalato tossicodipendente e non di protrarre la durata della malattia», in quanto «l’uso di sostanze stupefacenti nella cura dei tossicodi-pendenti non tende comunque e difficilmente perviene alla disassuefazione e alla guarigione».

In definitiva, il medico deve riguardare con prudenza, ma senza assurdi atteggiamenti di medicina difensiva alle terapie sostitutive che peraltro meglio possono essere garantite da e in centri specialistici pubblici o privati ormai per legge parificati anche nella competenza certificatoria.

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Tossicodipendenze e deontologia medica

Il Codice di Deontologia medica (cdm) considera all’art. 79 il particolare rap-porto che la società richiede al medico nell’opera di prevenzione del fenomeno della tossicodipendenza e nel trattamento, non solo “tecnico”, diagnostico e curativo, dei soggetti in preda agli effetti acuti o cronici delle droghe d’abuso.

In particolare, il nuovo atteggiamento formativo supera, in armonia col maggioritario stato d’animo degli italiani, ogni indicazione sugli adempimenti certificativi e in qualche modo particolari (ricette mediche) per richiamare a un atteggiamento di responsabilità e di solidarietà che tenga conto non solo del diritto-dovere di tutela della salute della persona ma anche della sua dignità e della sua libertà e più in generale dell’impegno pubblico nei confronti di un male e di un disagio sociale.

Non a caso il riferimento codicistico è diretto a tutte le sostanze d’abuso e non solo ai vecchi e nuovi stupefacenti, quasi a ricordare al medico la com-plessiva esigenza di difesa individuale nei confronti anche dell’alcolismo e del tabagismo. Così sembra di cogliere dal Codice deontologico una chiara denun-cia della ipocrita se non discriminativa messa a fuoco normativa e (sia pure a monte) repressiva delle sole droghe tabellate, in armonia con il dato epidemio-logico estremamente eloquente sui danni dell’abuso di alcol e di tabacco, sui quali ultimi si tornerà in appendice al presente capitolo.

L’art. 75 cdm sollecita dunque il medico, al di là dei suoi specifici obblighi di cura, a porre in essere «senza pregiudizi» e «un aiuto tecnico e umano», sempre finalizzata al superamento della situazione di dipendanza collaborando a compiti di:

a) prevenzione, partecipando a iniziative pubbliche e private, nella scuola, per esempio, nei luoghi di lavoro, nel quotidiano rapporto con le famiglie, con i giovani;

b) cura, ben comprendendo la esigenza di cure tradizionali per le condizioni patologiche che possono aver indotto la tossicodipendenza (disordini men-tali, sindromi dolorose ecc.) o che ne possono esser state la conseguenza e non trascurando la possibilità di equilibrare pro gram mazioni cliniche di trattamento con farmaci sostitutivi;

c) informazione e indirizzo dei soggetti (il tossicodipendente e la famiglia sia pur con assoluto rispetto delle regole sulla privacy) sui programmi socio-riabilitativi;

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d ) collaborazione senza discriminazioni ideologiche di sorta con le organizza-zioni pubbliche e private che si occupano di questo grave disagio sociale.

Ciò premesso, al medico compete pur sempre il dovere di certificare nelle situazioni seguenti:

1) certificato a richiesta del soggetto per il datore di lavoro al fine di ottenere l’aspettativa prevista dalla legge (art. 124 DPR 309/1990);

2) certificato e sempre a richiesta dell’interessato, dei motivi di astensione dal lavoro dovuto allo stato di tossicodipendenza, previsti per le categorie di lavo-ratori destinati a mansioni che comportino rischi per la sicurezza (mai indi-viduate da apposito decreto), l’incolumità e la salute di terzi (Forze di polizia ecc.) secondo quanto dispongono specifiche norme (art. 125 DPR 309/1990).

Le comunità terapeutiche

Le comunità sono, nel loro concetto attuale, l’espressione di una organizza-zione comunitaria impostata sull’esigenza di raccogliere, all’interno di gruppi, abi-tudini sociali, ideologie e interessi omogenei capaci di attribuire, all’agire sociale, finalità determinate per contrastarne le negatività nell’affermazione di principi ide-alistici di uguaglianza e di fratellanza. È questo un concetto che richiama alle anti-che identità di comunità religiose e idealistiche, ma che ha talora assunto, nella iden-tità dei numerosi movimenti giovanili, in particolare degli anni ’70, connotazioni utopistiche di “provocazione” tese a trasformare l’impostazione sociale attraverso l’azione anticonformista, antitetica alle abitudini della consumistica e benestante società “adulta”.

Il fenomeno, è espressivo di determinati movimenti culturali, che sminui-sce tuttavia il significato storico ancestrale delle vecchie comunità socialmente organizzate e basate su principi egualitari.

Attualmente, il concetto di comunità, è invece, in modo prevalente, correlato al triste problema della droga e assume, nella accezione comune, il restrittivo valore di risorsa sociale per il “recupero” del tossicodipendente. La sua aggettivazione “tera-peutica”, nata nei primi anni ’50, e applicata alla cura delle malattie psichiatriche, è indicativa della limitazione concettuale operata sul termine, confinato a esprimere più un luogo di cura e di recupero di “malattie psichiche” o di “devianze sociali”, che non a significare concetti più profondi di socializzazione e di solidarietà.

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Le comunità terapeutiche, nate, negli USA, come centri di “riabilitazione” di soggetti tossicomani con l’intento di favorirne il recupero attraverso la modi-fica dei parametri ambientalistici e psico-comportamentali, hanno assunto, nei contesti culturali dei vari paesi, modelli strutturali e operativi spesso marcata-mente diversi tra loro e non necessariamente ispirati a quelli della proposta di Syanon o di Daytop.

In questo settore l’iniziativa è ora assegnata anche a identità private, accredi-tate a livello regionale, libere di strutturarsi, di scegliere e di eseguire programmi terapeutici in maniera autonoma purché in uniformità di condizioni con i servizi pubblici. La corrispondenza richiesta ai requisiti di accreditamento previsti per legge dovrebbe produrre quindi effetti qualificanti nella gestione dei nuovi centri di recupero improntati sempre più sull’esperienza pluridiscinare e sulla riqualifica-zione dei servizi di prevenzione e di intervento. Contesti che dovrebbero contri-buire al superamento della lacuna definitoria di “Comunità terapeutica” ovviando ai disagi assistenziali derivanti dalle eterogeneità strutturali e gestionali. L’attuale affidamento di compiti di recupero a “gruppi di volontariato” di impronta laica o cattolica nell’ambito di differenze gestionali ispirate a prototipi di rigidità o struttu-rate in modo più o meno terapeutico in conformità della modalità riabilitativa auto-nomamente scelta, difficilmente concordano con i modelli propri della scienza psi-chiatrica (autoassistenza, responsabilizzazione individuale, abolizione gerarchica, influssi comunitari positivi ecc.), ma tutti rivolti a favorire l’interiorizzazione, nel tossicomane, di un nuovo comportamento sociale non deviante. Processo dove fondamentale diviene il valore attribuito al “gruppo” che può essere condizionato dalle modalità con cui le singole componenti si rapportano tra loro, nell’ambito della realizzazione programmatica e dei caratteri connotativi della Comunità tera-peutica. Diversi sono infatti i rapporti individuo-comunità nei centri che privile-giano aspetti psicologici rispetto a quelli di impronta repressiva o assistenzialistica.

Per distinguere le diverse iniziative, alcuni Autori hanno proposto diverse definizioni idonee a differenziare le varie tipologie:– comunità aperta;– comunità chiusa;– comunità gerarchica;– comunità democratica;– comunità autoritaria;

e ciò in funzione soltanto delle metodologie dell’intervento di recupero adottate.

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Appunti su “tabagismo” e “alcolismo”

Il tabagismo

Il vasto panorama delle tossicodipendenze, merita di essere integrato da uno sguardo ad alcune dipendenze, profondamente e storicamente radicate nelle presenti abitudini sociali, derivanti dall’assunzione di sostanze d’abuso “legalizzate”, ma non per questo immeritevoli di considerazione sotto il pro-filo medico e sanitario.

L’“arte” del fumare, discendente da antiche tradizioni popolari proprie di numerose civiltà dell’America Latina, ebbe infatti, alle sue origini, un signifi-cato magico-religioso ben diverso dalla comune ritualità di costume consumi-stico assunta nella attuale cultura occidentale.

L’uso di sigarette, ancor oggi in alcuni paesi propagandato e favorito dalle compagnie produttrici attraverso la martellante opera dei mass-media pubblici-tari, ha costituito un momento storico nella diffusione del fumo di tabacco ancora meritevole di riflessione generale nell’intero versante della salute pubblica. Se pen-siamo inoltre che, negli ambienti chiusi, l’inalazione di fumo passivo, rappresen-tato per il 15% dalle esalazioni del fumatore: “fumo primario” (mainstream smoke) e per l’85% dalla combustione del tabacco nella parte accesa della sigaretta: “fumo secondario” (sidestream smoke), può, dopo circa 78 minuti di permanenza, condurre un non fumatore a elevare le sue concentrazioni urinarie nicotiniche da 10 mg/l a 80 mg/l, e che sono circa tre milioni i morti, che ogni anno si legano all’uso del tabacco, ben si giustifica l’interrogativo sul perché si sia dovuto attendere, quasi un secolo, affinché le autorità sanitarie intervenissero nell’opera legislativa di pre-venzione, di controllo e di repressione a tutela dei non fumatori.

L’attuale consapevolezza che il “tabagismo” è collocato tra le tre maggiori calamità planetarie, assieme alla “fame” e alle “guerre”, ha contribuito al varo della legge n° 3 del 16 gennaio 2003, art. 51, meglio nota come “legge anti fumo”.

E sull’onda dell’azione repressiva, esercitata dal disposto dell’art 51, la Corte di Appello di Roma ha, per la prima volta, in Italia, emesso una sto-rica sentenza (1015/05 del 22 marzo 2005) riconoscendo il danno da fumo e condannando l’Ente Tabacchi al risarcimento di 200.000 euro agli eredi di un deceduto per cause fumo-correlate.

Nella specie, la Corte di Appello ha infatti sottolineato l’obbligo, da parte dell’ETI (Ente Tabacchi Italiani), d’informare i consumatori sui rischi per la

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salute riaffermando, al contempo, che la vendita di tabacchi costituisce attività pericolosa fonte di responsabilità ai sensi dell’art. 2050 cc.

È infatti noto che i tabacchi, essendo destinati al consumo mediante il fumo, contengono, per la loro natura e composizione biochimica, «una poten-ziale carica di nocività, dalla quale ne può discendere un grave danno per la salute considerata bene primario dell’uomo e tutelata dall’art. 32 della Carta Costituzionale come diritto fondamentale del cittadino». Tutela per la quale «l’ente era obbligato a usare ogni cautela per evitare che il rischio si tramutasse in un danno concreto», contrariamente a quanto invece accaduto.

Ma, al di là degli interventi repressivi, il tabagismo può essere combattuto con il potenziamento dell’opera di prevenzione esercitata attraverso lo svi-luppo dei movimenti salutisti e l’incentivazione e l’evoluzione delle terapie di gruppo impostate sul modello del FDP (Five-Day Plane).

Su questa linea il GFT (Gruppi di Fumatori in Trattamento) si sta, infatti, pro-digando per migliorare i modelli transteorici, di Di Clemente e Prochanzka, con terapie di gruppo volte a modificare lo status soggettivo, sia sul piano compor ta-men tale-cognitivo che su quello motivazionale, mediante una tripartizione fasica del programma riabilitativo che risulta così articolato in una prima fase preparato-ria, in una seconda di immersione totale e in una terza di reciproco aiuto.

I risultati confortanti, addirittura superiori alle medie dei successi conse-guiti negli USA e pubblicati sullo SmokingCessationMethods, vedono il follow-up del primo quinquiennio attestato attorno al valore medio del 50%. Si tratta di successi incoraggianti che potrebbero essere maggiormente agevolati da un più stretto coordinamento con l’intervento pubblico di promozione delle attività educative e formative in ambito scolastico. L’art. 104 del TU 309/1990 attribu-isce infatti al Ministero della Pubblica Istruzione precisi compiti in materia di educazione sanitaria e di informazione sui: «danni derivanti dall’alcolismo, dal tabagismo, dall’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope, nonché dalle patolo-gie correlate»: volontà preventiva pienamente illustrata anche dagli artt. 105 e 106 che prevedono l’attivazione, a livello provinciale, di corsi di studio, per gli insegnanti, sul tema di cui all’art. 104 nonché l’istituzione di centri scolastici, di consulenza e di informazione sanitaria, rivolti all’utenza studentesca e cogestiti dai provveditorati e dai SERT.

L’opera del medico è e resta essenziale, sulla base di una diversa conoscenza del rischio da tradurre in prescrizioni terapeutiche, in comunicazioni costanti

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relative alla “condotta’’ di vita. E non possono essere liquidate come assurde o “infantili” le pattuizioni tra medico e paziente nella durata della astinenza, nel più complesso programma di liberazione dalla dipendenza che è essenziale per i soggetti a rischio (cardiopatici, broncoasmatici, facilmente predisposti alle neoplasie).

L’alcolismo

Seppur classificato tra le sostanze d’abuso “legali”, l’alcol etilico si colloca tra i maggiori responsabili di stati di tossicodipendenza che impongono una specifica attenzione legislativa in rapporto agli aspetti sociali connessi all’etili-smo cronico. La condizione etica e le alterazioni comportamentali dei soggetti sotto l’influenza dell’alcol sono state e sono oggetto, infatti, del rigore norma-tivo ben espresso nelle riportate norme penali ed esteso al nuovo Codice della strada, a garanzia della sicurezza stradale.

Le tristi testimonianze, rese dagli organi di informazione ogni fine setti-mana sui decessi per incidenti stradali, hanno infatti imposto, a tutela degli utenti, la stretta legislativa e operativa sui controlli diretti ad accertare sia l’ido-neità dei conducenti alla guida sia le condizioni psico-fisiche soggettive nelle fasi di rilascio e di conferma della patente automobilistica.

L’art. 186 del nuovo Codice della strada (modificato di recente con la legge n. 120 del 29/7/2010), intitolato “Guida sotto l’influenza dell’alcol”, recita infatti al comma 1: «È vietato guidare in stato di ebbrezza in conseguenza dell’uso di bevande alcoliche» ed è espressivo dell’impegno repressivo da adot-tare nei confronti di chiunque costituisca pericolo, per se stesso e per l’integrità altrui, guidando sotto gli effetti dell’alcol.

Tale orientamento meglio si coglie nel n. 2 dello stesso articolo dove, in caso di accertata positività, ove il fatto non costituisca più grave reato, sono previste, a fianco delle sanzioni amministrative di ordine pecuniario, sanzioni penali e sanzioni accessorie.

Inoltre: «Al fine di acquisire elementi utili per motivare l’obbligo di sot-toposizione agli accertamenti di cui al comma 4, gli organi di polizia stradale di cui all’articolo 12, commi 1 e 2, secondo le direttive fornite dal Ministero dell’Interno, nel rispetto della riservatezza personale e senza pregiudizio per l’integrità fisica, possono sottoporre i conducenti ad accertamenti qualitativi non invasivi o a prove, anche attraverso apparecchi portatili».

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Nei casi di positività agli accertamenti qualitativi di cui al comma 3 l’art. 186 così recita: «in ogni caso d’incidente ovvero quando si abbia altrimenti motivo di ritenere che il conducente del veicolo si trovi in stato di alterazione psicofisica derivante dall’influenza dell’alcol, gli organi di polizia stradale di cui all’articolo 12, commi 1 e 2, anche accompagnandolo presso il più vicino ufficio o comando, hanno la facoltà di effettuare l’accertamento con strumenti e procedure determinati dal regolamento.

Per i conducenti coinvolti in incidenti stradali e sottoposti alle cure medi-che, l’accertamento del tasso alcolemico viene effettuato, su richiesta degli organi di polizia stradale di cui all’articolo 12, commi 1 e 2, da parte delle strut-ture sanitarie di base o di quelle accreditate o comunque a tali fini equiparate.

Le strutture sanitarie rilasciano agli organi di polizia stradale la relativa certificazione, estesa alla prognosi delle lesioni accertate, assicurando il rispetto della riservatezza dei dati in base alle vigenti disposizioni di legge [...]».

Qualora dall’accertamento di cui ai commi 4 o 5 risulti un valore cor-rispondente a un tasso alcolemico superiore a 0,5 grammi per litro (g/l), l’interessato è considerato in stato di ebbrezza ai fini dell’applicazione delle sanzioni di cui al comma 2. In caso di rifiuto dell’accertamento di cui ai commi 3, 4 o 5 il conducente è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con le sanzioni di cui al comma 2. Con l’ordinanza con la quale viene disposta la sospensione della patente ai sensi del comma 2, il Prefetto ordina che il conducente si sottoponga a visita medica ai sensi dell’articolo 119, comma 4, che deve avvenire nel termine di sessanta giorni. Qualora il conducente non vi si sottoponga entro il termine fissato, il Prefetto può disporre, in via cautelare, la sospensione della patente di guida fino all’esito della visita medica. Qualora dall’accertamento di cui ai commi 4 o 5 risulti un valore corrispondente a un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro (g/l), ferma restando l’applicazione delle sanzioni di cui al comma 2, il Prefetto, in via cautelare, dispone la sospensione della patente fino all’esito della visita medica di cui al comma 8.

Considerato quindi che il dato diagnostico ha validità probatoria nella con-testazione della contravvenzione e che, in caso di responsabilità penale, potrà essere utilizzato quale prova processuale, il personale medico o abilitato ai prelievi dovrà tener massimo conto delle metodologie di prelievo e di conser-vazione dei reperti in modo da renderli ineccepibili in caso di contraddittorio.

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5. Tutela della salute collettiva, igiene pubblica e ambiente 261

E ciò anche per il fatto che gli accertamenti di rito possono essere utilizzati anche dal conducente come prova a discolpa.

Raccomandazione che il disposto normativo non rende obbligatoria e che non è sufficientemente garantita dall’individuazione di una adeguata catena di custodia e da protocolli operativi sulle modalità di prelievo e sulla scelta dei test diagnostici dotati di validità forense.

Per il personale medico, esiste inoltre la complessa e annosa problema-tica del prelievo ematico e del consenso che, negli accertamenti di idoneità psico-fisica alla guida o nei casi di traumatismi conseguenti a incidente stra-dale, inducono riflessione sul valore del consenso fornito sotto l’effetto di elevate concentrazioni alcoliche o sui prelievi eseguiti (sul traumatizzato inco-sciente senza consenso) per fini curativi e invece utilizzati per scopi giudiziari. E a complicare ulteriormente l’operatività medica e laboratoristica vi è anche l’aspetto, non secondario, della mancata individuazione delle strutture abilitate e dei metodi diagnostici accreditati a livello centrale e periferico.

Come si può pertanto vedere si tratta di brevi richiami, che meritano però di essere integrati nel segno e nel senso della responsabilità del medico, chia-mato non solo a curare il singolo, ma anche a cooperare fattivamente alla tutela della pubblica salute.

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6Pubblicità e informazione sanitaria

G.Morrocchesi,A.Pagni

Art. 55 - Informazione sanitaria

Nella comunicazione in materia sanitaria è sempre necessaria la massima cautela al fine di fornire un’efficace e trasparente informazione al cittadino.Il medico deve attenersi in materia di comunicazione ai criteri contenuti nel presente Codice in tema di pubblicità e informazione al cittadino.Il medico collabora con le istituzioni pubbliche al fine di una corretta informa-zione sanitaria ed una corretta educazione alla salute.

Art. 56 - Pubblicità dell’informazione sanitaria

La pubblicità dell’informazione in materia sanitaria, fornita da singoli e da strutture sanitarie pubbliche o private, non può prescindere, nelle forme e nei contenuti, da principi di correttezza informativa, responsabilità e decoro professionale. La pubblicità promozionale e comparativa è vietata.Per consentire ai cittadini una scelta libera e consapevole tra strutture, servizi e professionisti è indispensabile che l’informazione, con qualsiasi mezzo dif-fusa, non sia arbitraria e discrezionale, ma obbiettiva, veritiera, corredata da dati oggettivi e controllabili e verificata dall’Ordine competente per territorio.Il medico che partecipa, collabora od offre patrocinio o testimonianza alla informazione sanitaria non deve mai venir meno a principi di rigore scienti-fico, di onestà intellettuale e di prudenza, escludendo qualsiasi forma anche indiretta di pubblicità commerciale personale o a favore di altri.Il medico non deve divulgare notizie su avanzamenti della ricerca biomedica e su innovazioni in campo sanitario, non ancora validate e accreditate dal punto di vista scientifico, in particolare se tali da alimentare infondate attese e speranze illusorie.

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Manuale della Professione Medica264

La Conferenza internazionale degli Ordini dei Medici di Parigi, nel 1994, a proposito della pubblicità dei medici, precisò con grande chiarezza, e in ter-mini tuttora utili per il legislatore e per i colleghi, che «l’esercizio della profes-sione non è un’attività artigianale né commerciale. Il medico, sia dipendente sia libero professionista, può rendere noti al pubblico la propria formazione di base e specialistica e gli altri elementi necessari all’informazione dei pazienti nel rispetto dei principi stabiliti dall’Ordine nazionale (o similari) e dalla legge. Tale informazione va chiaramente distinta dall’annuncio pubblicitario di carattere promozionale che rischia di trarre in inganno i pazienti e che è considerato non conforme all’etica dei medici in tutti i Paesi europei. Il medico, inoltre, non deve consentire ad altri di fargli pubblicità o tollerare che la effettuino nei suoi confronti».

Gli artt. 55 e 56 e l’allegato Regolamento esplicativo si propongono di mantenere fede ai principi immutabili dell’etica della professione, chiarendo le differenze tra informazione e pubblicità in ambito sanitario, per garantire che la comunicazione tra i medici e i cittadini sia corretta e veritiera.

L’uso ambiguo del termine “pubblicità informativa” può, infatti, ingenerare confusione dopo che anche il “mercato” sanitario è stato pervaso dalle sugge-stioni della (pseudo)competizione e del marketing, e la professione del medico, dal punto di vista giuridico, è divenuta un’“impresa”, sia pure sui generis.

Il termine “pubblicità”, infatti, ha in genere una connotazione, invasiva, promozionale e reclamistica, propria di messaggi intesi a convincere e persua-dere i cittadini ad acquistare le “merci” prodotte dalle aziende.

L’“informazione sanitaria” corrisponde, invece, all’offerta di notizie utili e funzionali per il “bene” salute delle persone, consentendo loro di scegliere con-sapevolmente quali competenze professionali corrispondono ai loro bisogni, di essere aggiornati sui progressi di conoscenze scientifiche praticamente utilizza-bili e sulle possibili alternative di cura offerte dalla moderna tecnologia sanitaria.

La dizione «pubblicità dell’informazione sanitaria» usata nel Codice è, infatti, un complemento di specificazione che privilegia il valore e la qualità del secondo termine, i dati e le informazioni, ai quali subordinare il primo, gli strumenti e i modi impiegati per la loro trasmissione.

La tecnologia della comunicazione, infatti, anche se non è neutrale, non è di per se stessa buona o cattiva, ma sono i contenuti, gli scopi e i modi dei messaggi scelti dagli utilizzatori a determinarne o meno il valore e il significato.

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6. Pubblicità e informazione sanitaria 265

L’Ordine dei Medici non ha mai ignorato, nel corso della sua lunga storia, l’importanza deontologica di un’informazione etica dei sanitari, e ha vigilato, nei limiti del possibile, affinché il medico non ricorresse a messaggi scorretti, ambigui o ingannevoli, causa di gravi ripercussioni sulla salute dei cittadini, di disdoro per l’immagine della professione e di illecita concorrenza da parte degli abusivi o tra colleghi.

Già nel lontano 1954 l’art. 12 del CDM recitava: «Il medico non deve dif-fondere nel pubblico notizie di nuovi procedimenti diagnostici o terapeutici non ancora sufficientemente comprovati o altre notizie di indole sanitaria che possono suscitare illusorie speranze o timori ingiustificati. Se vi è scopo di lucro la colpa è ancora più grave».

E nei successivi artt. 69 e 70 dichiarava che «l’uso della pubblicità deve essere contenuto entro i limiti della serietà scientifica e professionale», elen-cando i titoli professionali che era lecito iscrivere su «fogli di ricettari, annuari, guide cittadine, elenchi telefonici, placche murali o targhe».

Nel 1984 il Comitato Centrale (CC) della FNOMCeO emanò un regolamento, che oggi può apparire anacronistico, con il quale si vietava al medico il ricorso a pubblicità cinematografiche e radiotelevisive, e si obbligava a riservare i messaggi pubblicitari esclusivamente ai giornali e periodici destinati alla categoria.

Nonostante queste ferme prese di posizione assunte dagli Ordini dei Medici, peraltro dotati di poteri istruttori molto limitati, la pubblicità ambigua, i messaggi degli abusivi e la diffusione di false informazioni non sono diminuiti nell’epoca postindustriale o della comunicazione di massa.

Anche il DLgs 25 gennaio 1992, n. 74, consapevole dei pericoli della pub-blicità ingannevole, ha affidato all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato compiti di repressione e sanzionatori nei suoi confronti, ma non ha previsto il risarcimento del danno patito da chi si è fidato del messaggio pub-blicitario, lasciandolo alla competenza della giurisdizione ordinaria.

Il problema dell’informazione sanitaria in questi ultimi anni è divenuto par-ticolarmente acuto e complesso.

Si è moltiplicata, infatti, in maniera esponenziale la disponibilità in tempo reale degli strumenti tecnici di comunicazione, nazionali e internazionali, parallelamente alla sensibilità, all’interesse e al diritto dei cittadini alle infor-mazioni sui temi della salute, tanto da renderne sempre più difficile il con-trollo qualitativo.

Page 294: Manuale della professione medica

Manuale della Professione Medica266

Alle “mutazioni” relativamente recenti della stampa d’informazione e dei canali radiotelevisivi nazionali e locali in termini di contenuti degli articoli e dei programmi destinati alle malattie e alla salute, si sono, infatti, aggiunti nel corso di pochi anni i messaggi telefonici, la posta elettronica, i social network, Internet e milioni di siti Web e blog, la cui “simultaneità” è in grado di trasformare il mondo in un “villaggio globale” e di modificare i comportamenti umani.

La legge n. 175/92, scaturita dalla necessità improrogabile di un intervento legislativo che regolasse con norme più severe la pubblicità sanitaria, repri-mendo l’esercizio abusivo della professione, e di potenziare l’azione di sorve-glianza degli ordini dei medici, si è rivelata rapidamente superata.

Superata in parte perché ormai “datata” e, poi, perché fino dalla sua pro-mulgazione era stata più attenta alla regolazione “formale” degli strumenti pubblicitari dei soli medici che alla frequente divulgazione prematura di risul-tati scientifici parzialmente verificati o francamente ingannevoli e alle iniziative commerciali, destinate al “benessere” delle persone, che spesso interferiscono negativamente nella relazione terapeutica tra medico e paziente.

È un dovere degli Ordini preoccuparsi che le informazioni degli iscritti agli albi siano scientificamente corrette e veritiere, anche perché sono i principali fornitori delle notizie che i mass media diffondono, ma è anche vero che il cam-biamento del paradigma dalla malattia alla salute ha favorito l’ingresso di altri attori, esterni alla professione, nel campo della pubblicità sanitaria commerciale.

Infatti, i cospicui investimenti delle industrie parasanitarie nell’organizza-zione di messaggi promozionali pubblici (non propriamente falsi, ma spesso privi di riscontri scientifici), destinati al cosiddetto “salutismo” dei cittadini (che si vogliono capaci di discernere l’affidabilità o meno dei messaggi che ricevono, in una contrattazione che, tuttavia, rimane inevitabilmente asimme-trica), non mancano di creare nei destinatari attese difficilmente controllabili, pseudobisogni, sconcerto, suggestioni e credenze, sfiducia nei confronti della comunità scientifica e, qualche volta, anche danni alla salute.

Un breve accenno merita anche il divieto espresso nel Codice nei confronti della pubblicità comparativa, basata sul confronto espresso tra beni e servizi concorrenti.

Il divieto dell’Ordine dei Medici della pubblicità comparativa non è frutto né del «timore del potere della pubblicità» né per difendere con il silenzio le “maga-gne” dei concorrenti e l’immagine della categoria, ma soltanto per consentire

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6. Pubblicità e informazione sanitaria 267

ai cittadini scelte libere ed autonome sulla base della cultura e dell’esperienza personale, e per tutelarli da informazioni comparative incontrollate, difficilmente controllabili e potenzialmente dannose nell’indurre scelte ingannevoli.

Quello sanitario nel SSN è, infatti, un mercato “non mercato”, che privile-gia l’offerta pubblica e “amministra” e calmiera la domanda di salute sulla base delle risorse disponibili; per questi motivi deve essere considerato un settore specifico e delicato.

Nel nostro paese non sono mai stati definiti per legge i requisiti di qualità delle prestazioni erogate dalle strutture pubbliche e private, che consentireb-bero una rigorosa e obiettiva valutazione “comparativa” dell’offerta dispo-nibile, e soltanto giornali e riviste si sono arrogati, in passato, la pretesa di scegliere per i loro lettori, con arbitraria discrezionalità, i “migliori” medici e i “migliori” ospedali italiani.

Le norme del Codice sull’informazione sanitaria saranno, dunque, tanto più forti quanto più saranno rispettate e condivise consapevolmente da tutti i medici iscritti all’albo nell’interesse dell’intera categoria, e quanto più celeri ed efficaci saranno i provvedimenti disciplinari degli Ordini nei confronti di chi, eventualmente, avrà violato le norme pattuite.

Art. 57 - Divieto di patrocinio

Il medico singolo o componente di associazioni scientifiche o professionali non deve concedere avallo o patrocinio a iniziative o forme di pubblicità o comunque promozionali a favore di aziende o istituzioni relativamente a prodotti sanitari o commerciali.

Le norme contenute nei tre articoli in commento del Capo XI rappre-sentano l’adeguamento della disciplina deontologica in materia di pubblicità e informazione sanitaria alle nuove disposizioni dettate dalla legge n. 248/06 al fine di introdurre misure di liberalizzazione del settore dei servizi professionali.

La legge citata, nell’abrogare, tra le altre, «le disposizioni legislative e rego-lamentari» – di cui alla legge n. 175/92 e al DM n. 657/94 – che limitavano fortemente la possibilità di effettuare pubblicità sanitaria, ha stabilito che qua-lunque messaggio pubblicitario deve rispondere a «criteri di trasparenza e veri-dicità […] il cui rispetto è verificato dall’Ordine».

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Manuale della Professione Medica268

Con questo inciso, il legislatore ha mantenuto integro e ribadito il potere di vigilanza e controllo proprio dell’Ordine professionale, unitamente al con-nesso potere sanzionatorio ogni qual volta accerti, in questo specifico ambito, un comportamento lesivo della dignità e del decoro della professione.

La stessa legge n. 248/06 ha disposto che le precedenti disposizioni deonto-logiche fossero adeguate alle nuove norme entro il 1° gennaio 2007, «anche con l’adozione di misure a garanzia della qualità delle prestazioni professionali», salvo, in caso di mancato adeguamento, la definitiva nullità delle norme in contrasto.

Le nuove norme del Codice deontologico del 2006 ribadiscono, tra l’altro, che agli iscritti negli albi è fatto espresso divieto di patrocinare iniziative pubblici-tarie o promozionali relative a prodotti sanitari o commerciali. Per l’applicazione di queste norme, è stata contestualmente adottata un’apposita linea-guida, alle-gata al Codice, contenente la disciplina specifica della pubblicità sanitaria.

Il documento è espressamente riferito «a qualsivoglia forma di pubblicità dell’informazione, comunque diffusa, compreso l’uso di carta intestata e di ricet-tari», utilizzata dai prestatori di servizi, tra i quali sono espressamente compresi tanto il medico o l’odontoiatra che esercitano la professione in forma individuale o associata quanto le strutture pubbliche o private che erogano un servizio sanitario.

Nel caso di queste ultime – le quali, quand’anche solo private, sfuggireb-bero al potere di vigilanza dell’Ordine, trattandosi di soggetti muniti di perso-nalità giuridica autonoma e distinta da quella dei sanitari in esse coinvolti – la responsabilità verso l’Ordine dell’osservanza della disciplina deontologica in materia è attribuita direttamente al direttore sanitario. Con questa imposta-zione unitaria vengono superate le distinzioni della legge n. 175/92, tra pubbli-cità del professionista singolo o associato e pubblicità della struttura sanitaria, per quanto concerne sia le forme e gli strumenti sia i contenuti della medesima.

È confermata la facoltà di utilizzare il sito Internet per divulgare la propria attività professionale e altre informazioni, con l’obbligo, anche in questo caso, di fornire ogni elemento atto a garantire il controllo di quanto asserito nel mes-saggio da parte di chiunque vi abbia interesse, oltre che da parte dell’Ordine. A questo va data comunicazione dell’apertura del sito Internet, nella quale il sanitario dichiara, sotto la sua responsabilità, che il medesimo risponde alle prescrizioni della linea-guida.

Per quanto riguarda gli elementi facoltativi, va posta particolare attenzione agli adempimenti richiesti per il loro inserimento; se riportati nel messaggio,

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6. Pubblicità e informazione sanitaria 269

infatti, devono essere sempre verificabili e certificati, quindi devono essere obbligatoriamente accompagnati da tutte le notizie che ne consentano il riscontro oggettivo e la conferma in sede competente.

Nel punto 4, tra l’altro, a proposito dell’uso della qualifica di specialista, è confermata, nei confronti del medico privo del titolo, la possibilità, con l’os-servanza delle condizioni già previste dalla legge n. 175/92, di fare menzione della particolare disciplina specialistica che esercita.

La linea-guida definisce quindi, al punto 5, gli obblighi deontologici che i liberi professionisti e i direttori sanitari delle strutture sono tenuti a osservare nella loro pubblicità dell’informazione sanitaria.

Altri contenuti della linea-guida riguardano:

– l’utilizzo della posta elettronica per motivi clinici (punto 7) nei rapporti con i pazienti e con i colleghi a fini di consulto, che è consentito purché ven-gano rispettate le condizioni e i criteri di riservatezza dei dati dei pazienti;

– l’utilizzo delle emittenti radiotelevisive nazionali e locali, di organi di stampa e altri strumenti di comunicazione e diffusione delle notizie (punto 8), che comporta il divieto di «concretizzare la promozione o lo sfruttamento pub-blicitario del suo nome o di altri colleghi» e, comunque, il rispetto degli obblighi deontologici previsti dalla linea-guida.

Segue, infine, la disciplina della verifica e valutazione deontologica dei mes-saggi pubblicitari. Il punto 9 fa obbligo agli iscritti all’albo di «comunicare all’Ordine competente per territorio il messaggio pubblicitario che si intende proporre onde consentire la verifica sulla veridicità e trasparenza del mede-simo, di cui all’art. 56 del Codice».

Inoltre, nell’intento di ridurre l’onerosità delle operazioni di verifica da parte degli Ordini, è ammessa una specifica autodichiarazione dell’iscritto che attesti la conformità del messaggio pubblicitario, degli strumenti e dei mezzi utilizzati alle norme deontologiche e alla linea-guida. L’iscritto potrà inoltre chiedere all’Ordine una valutazione preventiva della pubblicità che intende effettuare. In questo caso, l’Ordine rilascia un «formale e motivato parere di eventuale non rispondenza deontologica».

La linea-guida si conclude con l’avvertenza che «l’inosservanza di quanto previsto dal Codice secondo gli orientamenti della presente linea-guida è puni-bile con le sanzioni comminate dagli organismi disciplinari previsti dalla legge».

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Manuale della Professione Medica270

La disposizione conferma che, venute meno, per effetto della legge n. 248/06, le fattispecie illecite di pubblicità, minuziosamente contemplate per legge nei mezzi, nelle forme e nelle caratteristiche estetiche, l’esercizio dell’azione disciplinare viene interamente ricondotto in ambito deontologico secondo la disciplina degli artt. 38 e segg. del DPR n. 221/50.

Giova ricordare che una successiva deliberazione del Comitato centrale della FNOMCeO (n. 53/2007) ha stabilito che «ai fini della tutela della dignità e del decoro, i mezzi, le forme e gli strumenti indicati nella legge 175/92 e nel DM 657/94 per la diffusione dei messaggi pubblicitari conservano piena rispondenza alle disposizioni del vigente Codice di Deontologia anche a seguito delle innovazioni legislative introdotte in materia».

S’intende che questo richiamo a divieti, vincoli e limiti giuridici espressa-mente abrogati può costituire soltanto un’indicazione orientativa di massima ai fini della verifica di competenza degli Ordini provinciali, considerato che una rigida applicazione delle norme abrogate, ma ritenute “rispondenti” alla deontologia medica, significherebbe vanificare del tutto la ratio e le finalità che la legge n. 248/06 ha inteso perseguire nel settore dei servizi professionali.

La complessità della normativa deontologica in questa materia sta comun-que a indicare l’importanza attribuita alla pubblicità sanitaria dagli Organi rap-presentativi delle due professioni, che hanno anche costituito un Osservatorio nazionale sulla pubblicità dell’informazione sanitaria, con compiti di monito-raggio, studio e consulenza su tutti gli aspetti della materia.

Pubblicità dell’informazione sanitaria. Linea-guida inerente l’applicazione degli artt. 55-56-57 del Codice di Deontologia medica

1) premessA

La presente linea-guida in attuazione degli artt. 55-56-57 del Codice di Deontologia medica è riferita a qualsivoglia forma di pubblicità dell’infor-mazione, comunque e con qualsiasi mezzo diffusa, compreso l’uso di carta intestata e di ricettari, utilizzata nell’esercizio della professione in forma individuale o societaria o comunque nello svolgimento delle funzioni di direttore sanitario di strutture autorizzate.

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6. Pubblicità e informazione sanitaria 271

2) definizioni

Ai fini della presente linea-guida, si intendono:

– Prestatore di servizi: la persona fisica (medico o odontoiatra) o giuri-dica (struttura sanitaria pubblica o privata) che eroga un servizio sani-tario. Nella presente linea-guida si usa la parola “medico” al posto di “prestatore di servizi”, pur riferendosi ugualmente a persone fisiche o giuridiche.

– Pubblicità: qualsiasi forma di messaggio, in qualsiasi modo diffuso, con lo scopo di promuovere le prestazioni professionali in forma sin-gola o societaria. La pubblicità deve essere, comunque, riconoscibile, veritiera e corretta.

– Pubblicità ingannevole: qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione, sia idonea ad indurre in errore le per-sone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge, e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro compor-tamento.

– Pubblicità comparativa: qualsiasi pubblicità che pone a confronto in modo esplicito o implicito uno o più concorrenti di servizi rispetto a quelli offerti da chi effettua la pubblicità.

– Informazione sanitaria: qualsiasi notizia utile e funzionale al cittadino per la scelta libera e consapevole di strutture, servizi e professionisti. Le notizie devono essere tali da garantire sempre la tutela della salute individuale e della collettività.

3) elementi costitutivi dell’informAzione sAnitAriA

Il medico su ogni comunicazione informativa dovrà inserire:

– nome e cognome;– il titolo di medico chirurgo e/o odontoiatra;– il domicilio professionale.

L’informazione tramite siti Internet deve essere rispondente al DLgs n. 70 del 9 aprile 2003 e dovrà contenere:

– il nome, la denominazione o la ragione sociale;– il domicilio o la sede legale;

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Manuale della Professione Medica272

– gli estremi che permettono di contattarlo rapidamente e di comunicare direttamente ed efficacemente, compreso l’indirizzo di posta elettronica;

– l’Ordine professionale presso cui è iscritto e il numero di iscrizione;– gli estremi della laurea e dell’abilitazione e l’Università che li ha rilasciati;– la dichiarazione, sotto la propria responsabilità, che il messaggio infor-

mativo è diramato nel rispetto della presente linea-guida;– il numero della partita IVA qualora eserciti un’attività soggetta ad imposta.

Inoltre dovrà contenere gli estremi della comunicazione inviata all’Ordine provinciale relativa all’autodichiarazione del sito Internet rispondente ai contenuti della presente linea-guida.I siti devono essere registrati su domini nazionali italiani e/o dell’Unione Europea, a garanzia dell’individuazione dell’operatore e del committente pubblicitario.

4) ulteriori elementi dell’informAzioni

– I titoli di specializzazione, di libera docenza, i master universitari, dot-torati di ricerca, i titoli di carriera, titoli accademici ed eventuali altri titoli. I titoli riportati devono essere verificabili; a tal fine è fatto obbligo indicare le autorità che li hanno rilasciati e/o i soggetti presso i quali ottenerne conferma;

– il curriculum degli studi universitari e delle attività professionali svolte e certificate anche relativamente alla durata, presso strutture pubbliche o private, le metodiche diagnostiche e/o terapeutiche effettivamente utilizzate e ogni altra informazione rivolta alla salvaguardia e alla sicu-rezza del paziente, certificato negli aspetti quali-quantitativi dal diret-tore o responsabile sanitario;

– il medico non specialista può fare menzione della particolare disciplina specialistica che esercita, con espressioni che ripetano la denomina-zione ufficiale della specialità e che non inducano in errore o equivoco sul possesso del titolo di specializzazione, quando abbia svolto attività professionale nella disciplina medesima per un periodo almeno pari alla durata legale del relativo corso universitario di specializzazione presso strutture sanitarie o istituzioni private a cui si applicano le norme, in tema di autorizzazione e vigilanza, di cui all’art. 43 della legge 23 dicem-bre 1978, n. 833. L’attività svolta e la sua durata devono essere compro-

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6. Pubblicità e informazione sanitaria 273

vate mediante attestato rilasciato dal direttore o dal responsabile sanita-rio della struttura o istituzione;

– nell’indicazione delle attività svolte e dei servizi prestati può farsi rife-rimento al Tariffario Nazionale o ai Nomenclatori Regionali. L’Or-dine valuterà l’indicazione di attività non contemplate negli elenchi di cui sopra, in modo particolare le cosiddette Medicine e Pratiche non convenzionali già individuate quale atto medico dalla FNOMCeO e, comunque, per tali finalità già oggetto di specifiche deliberazioni del Comitato Centrale. In ogni caso dovranno restare escluse le attività manifestamente di fantasia o di natura meramente reclamistica, che pos-sono attrarre i pazienti sulla base di indicazioni non concrete o veritiere;

– ogni attività oggetto di informazione deve fare riferimento a prestazioni sanitarie effettuate direttamente dal professionista e, ove indicato, con presidi o attrezzature esistenti nel suo studio. In ogni caso l’effettiva disponibilità di quanto necessario per l’effettuazione della prestazione nel proprio studio costituirà elemento determinante di valutazione della veridicità e trasparenza del messaggio pubblicitario;

– pagine dedicate all’educazione sanitaria in relazione alle specifiche com-petenze del professionista;

– l’indirizzo di svolgimento dell’attività, gli orari di apertura, le modalità di prenotazione delle visite e degli accessi ambulatoriali e/o domiciliari, l’eventuale presenza di collaboratori e di personale con l’indicazione dei relativi profili professionali e, per le strutture sanitarie, le branche spe-cialistiche con i nominativi dei sanitari afferenti e del sanitario respon-sabile. Può essere pubblicata una mappa stradale di accesso allo studio o alla struttura;

– le associazioni di mutualità volontaria con le quali ha stipulato conven-zione;

– laddove si renda necessario ai fini della chiarezza informativa e nell’in-teresse del paziente, il medico utilizza, ove non già previsto, il cartellino o analogo mezzo identificativo fornito dall’Ordine;

– nel caso in cui il professionista desideri informare l’utenza circa le indagini statistiche relative alle prestazioni sanitarie, deve fare esclusivo riferimento ai dati resi pubblici e/o e comunque elaborati dalle autorità sanitarie com-petenti.

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Manuale della Professione Medica274

In caso di utilizzo dello strumento Internet è raccomandata la conformità dell’informazione fornita ai principi dell’HONCode, ossia ai criteri di qua-lità dell’informazione sanitaria in rete. Inoltre in tali forme di informazione possono essere presenti:

– collegamenti ipertestuali purché rivolti soltanto verso autorità, organi-smi e istituzioni indipendenti (ad esempio: Ordini professionali, Mini-stero della Salute, Istituto Superiore di Sanità, Servizio Sanitario Regio-nale, Università, Società Scientifiche);

– spazi pubblicitari tecnici al solo scopo di fornire all’utente utili stru-menti per la navigazione (ad esempio: collegamenti per prelevare sof-tware per la visualizzazione dei documenti, per la compressione dei dati, per il download dei files).

5) regole deontologiche

Quale che sia il mezzo o lo strumento comunicativo usato dal medico:

– non è ammessa la pubblicità ingannevole, compresa la pubblicazione di notizie che ingenerino aspettative illusorie, che siano false o non verifi-cabili, o che possano procurare timori infondati, spinte consumistiche o comportamenti inappropriati;

– non è ammessa la pubblicazione di notizie che rivestano i caratteri di pub-blicità personale surrettizia, artificiosamente mascherata da informazione sanitaria;

– non è ammessa la pubblicazione di notizie che siano lesive della dignità e del decoro della categoria o comunque eticamente disdicevoli;

– non è ammesso ospitare spazi pubblicitari, a titolo commerciale con par-ticolare riferimento ad aziende farmaceutiche o produttrici di dispositivi o tecnologie operanti in campo sanitario, né, nel caso di Internet, ospitare collegamenti ipertestuali ai siti di tali aziende o comunque a siti commerciali;

– per quanto concerne la rete Internet, il sito web non deve ospitare spazi pubblicitari o link riferibili ad attività pubblicitaria di aziende farmaceu-tiche o tecnologiche operanti in campo sanitario;

– non è ammessa la pubblicizzazione e la vendita, né in forma diretta, né, nel caso di Internet, tramite collegamenti ipertestuali, di prodotti, dispositivi, strumenti e di ogni altro bene o servizio;

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6. Pubblicità e informazione sanitaria 275

– è consentito diffondere messaggi informativi contenenti le tariffe delle pre-stazioni erogate, fermo restando che le caratteristiche economiche di una pre-stazione non devono costituire aspetto esclusivo del messaggio informativo.

6) pubblicità dell’informAzione trAmite internet

Per le forme di pubblicità dell’informazione tramite Internet, il professio-nista dovrà comunicare all’Ordine provinciale di iscrizione (in caso di strut-ture sanitarie tale onere compete al direttore sanitario) di aver messo in rete il sito, dichiarando la conformità deontologica alla presente linea-guida.

7) utilizzo dellA posto elettronicA

L’utilizzo della posta elettronica (e-mail) nei rapporti con i pazienti è con-sentito purché vengano rispettati tutti i criteri di riservatezza dei dati e dei pazienti cui si riferiscono ed in particolare alle seguenti condizioni:

– ogni messaggio deve contenere l’avvertimento che la visita medica rappresenta il solo strumento diagnostico per un efficace trattamento terapeutico e che i consigli forniti via e-mail vanno intesi come meri suggerimenti di comportamento; va altresì riportato che trattasi di cor-rispondenza aperta;

– è rigorosamente vietato inviare messaggi contenenti dati sanitari di un paziente ad altro paziente o a terzi;

– è rigorosamente vietato comunicare a terzi o diffondere l’indirizzo di posta elettronica dei pazienti, in particolare per usi pubblicitari o per piani di marketing clinici;

– qualora il medico predisponga un elenco di pazienti suddivisi per patologia, può inviare messaggi agli appartenenti alla lista, evitando che ciascuno desti-natario possa visualizzare dati relativi agli altri appartenenti alla stessa lista;

– l’utilizzo della posta elettronica nei rapporti fra colleghi ai fini di con-sulto è consentito purché non venga fornito il nominativo del paziente interessato, né il suo indirizzo, né altra informazione che lo renda rico-noscibile, se non per quanto strettamente necessario per le finalità dia-gnostiche e terapeutiche;

– la disponibilità di sistemi di posta elettronica sicurizzati equiparati alla corrispondenza chiusa, può consentire la trasmissione di dati sensibili per quanto previsto dalla normativa sulla tutela dei dati personali.

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Manuale della Professione Medica276

8) utilizzo delle emittenti rAdiotelevisive nAzionAli e locAli, di orgAni di stAmpA e Altri strumenti di comunicAzione e diffusione delle notizie

Nel caso di informazione sanitaria, il medico che vi prende parte a qual-siasi titolo non deve, attraverso lo strumento radiotelevisivo, gli organi di stampa e altri strumenti di comunicazione, concretizzare la promozione o lo sfruttamento pubblicitario del suo nome o di altri colleghi. Il medico è comunque tenuto al rispetto delle regole deontologiche previste al punto 5) della presente linea-guida. Nel caso di pubblicità dell’informazione sanita-ria il medico è tenuto al rispetto di quanto previsto ai punti 3) 4) e 5) della presente linea-guida.

9) verificA e vAlutAzione deontologicA

I medici chirurghi e gli odontoiatri iscritti agli albi professionali sono tenuti al rispetto della presente linea-guida comunicando all’Ordine competente per territorio il messaggio pubblicitario che si intende proporre onde con-sentire la verifica di cui all’art. 56 del Codice stesso.La verifica sulla veridicità e trasparenza dei messaggi pubblicitari potrà essere assicurata tramite una specifica autodichiarazione, rilasciata dagli iscritti, di conformità del messaggio pubblicitario, degli strumenti e dei mezzi utilizzati alle norme del Codice di Deontologia medica e a quanto previsto nella pre-sente linea-guida sulla pubblicità dell’informazione sanitaria. Gli iscritti potranno altresì avvalersi di una richiesta di valutazione pre-ventiva e precauzionale da presentare ai rispettivi Ordini di appartenenza sulla rispondenza della propria comunicazione pubblicitaria alle norme del Codice di Deontologia medica. L’Ordine provinciale, ricevuta la suddetta richiesta, provvederà al rilascio di formale e motivato parere di eventuale non rispondenza deontologica. L’inosservanza di quanto previsto dal Codice secondo gli orientamenti della presente linea-guida è punibile con le sanzioni comminate dagli orga-nismi disciplinari previsti dalla legge.La FNOMCeO predisporrà laddove opportuno ulteriori atti di indirizzo e coordinamento.

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7Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici

F.Cembrani,S.DelVecchio,S.Fucci,C.Manfredi,A.Pagni

Art. 13 - Prescrizione e trattamento terapeutico

La prescrizione di un accertamento diagnostico e/o di una terapia impegna la diretta responsabilità professionale ed etica del medico e non può che far seguito ad una diagnosi circostanziata o, quantomeno, a un fondato sospetto diagnostico.Su tale presupposto al medico è riconosciuta autonomia nella programma-zione, nella scelta e nella applicazione di ogni presidio diagnostico e tera-peutico, anche in regime di ricovero, fatta salva la libertà del paziente di rifiutarle e di assumersi la responsabilità del rifiuto stesso.Le prescrizioni e i trattamenti devono essere ispirati ad aggiornate e sperimen-tate acquisizioni scientifiche tenuto conto dell’uso appropriato delle risorse, sempre perseguendo il beneficio del paziente secondo criteri di equità.Il medico è tenuto a un’adeguata conoscenza della natura e degli effetti dei farmaci, delle loro indicazioni, controindicazioni, interazioni e delle reazioni individuali prevedibili, nonché delle caratteristiche di impiego dei mezzi dia-gnostici e terapeutici e deve adeguare, nell’interesse del paziente, le sue deci-sioni ai dati scientifici accreditati o alle evidenze metodologicamente fondate.Sono vietate l’adozione e la diffusione di terapie e di presidi diagnostici non provati scientificamente o non supportati da adeguata sperimentazione e documentazione clinico-scientifica, nonché di terapie segrete.

Art. 23 - Continuità delle cure

Il medico deve garantire al cittadino la continuità delle cure.In caso di indisponibilità, di impedimento o del venir meno del rapporto di fiducia deve assicurare la propria sostituzione, informandone il cittadino.

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Manuale della Professione Medica278

Il medico che si trovi di fronte a situazioni cliniche alle quali non sia in grado di provvedere efficacemente, deve indicare al paziente le specifiche compe-tenze necessarie al caso in esame.Il medico non può abbandonare il malato ritenuto inguaribile, ma deve conti-nuare ad assisterlo anche al solo fine di lenirne la sofferenza fisica e psichica.

La prescrizione dei farmaci

Il medico, nella sua attività clinica, entra in relazione con singole persone ognuna delle quali si caratterizza per una complessa identità che ricapitola in sé non solo la variabilità biologica ma anche altri peculiari elementi della sua realtà fisica, soggettiva, esistenziale, culturale e sociale. L’idea della vita, i valori e la spiritualità sono diversi nei vari individui così come il concetto di salute o di benessere e quello di malessere o di malattia, di guarigione e di trapasso. Il paziente, nel raccontare al medico la propria “storia di malattia”, descrive il significato soggettivo che i segni e i sintomi hanno per lui, esprime i suoi stati d’animo, le sue esperienze interiori, spesso distorte dalla sofferenza, e comunica le sue aspettative per il futuro. Questi elementi di divaricazione fra la malattia come viene vissuta dalla persona e quella che il medico si impegna a indagare e a trattare rendono non univoco il trasferimento della conoscenza medica nella pratica e obbligano ad una continua rielaborazione dei suoi con-tenuti attraverso un confronto con il sentire e con la cultura del paziente.

La variabilità dei bisogni e delle aspettative della persona implica la neces-sità continua di scomposizione e ricomposizione della techne del medico in un processo di adattamento della conoscenza scientifica alla soggettività delle persone e alla molteplicità di presentazione delle malattie mantenendo inal-terata la capacità relazionale in un rapporto di condivisione esistenziale e di comunicazione autentica.

La scelta terapeutica

Le attese del paziente

Il paziente percepisce la malattia come una ferita psicofisica irrimediabile e talora insopportabile della propria integrità che lo rende insicuro e timoroso perché avverte che su di lui incombono disabilità, sofferenza e morte. Per

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7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 279

questo, si rivolge fiducioso al medico consapevole delle sue abilità e del fatto che la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica mettono a disposizione sempre nuove opportunità per migliorare gli esiti di molte malattie. Al tempo stesso chiede al medico di essere considerato come una persona sofferente intensamente bisognosa di compassione, di altruismo e di empatia e non come un oggetto passivo sul quale riversare il suo sapere scientifico.

Infine, auspica e pretende che il medico pratichi la sua professione senza condizionamenti e conflitti che compromettano la sua autonomia decisionale.

L’alleanza terapeutica

Gli orientamenti prescrittivi del medico sono influenzati dalla sua prepa-razione, dall’esperienza clinica, dalle suggestioni scientifiche, dalla mole d’in-formazioni disponibili, dai nuovi farmaci e dal desiderio di provarli. L’alleanza terapeutica si stabilisce all’atto della prescrizione di un trattamento, adatto alle specifiche esigenze del soggetto, allo scopo di migliorare o di ripristinare lo stato di benessere o di salute. La scelta è resa spesso più complessa dalla con-comitanza di più patologie croniche, dai problemi psicologici e relazionali lavo-rativi e famigliari e dai fattori emotivi e culturali variamente intrecciati e com-binati fra loro. Il processo relazionale bidirezionale che instaura con il paziente vincola il medico a prescrivergli ciò che è più confacente secondo scienza ed etica alle sue necessità e alla condizione biologica ed esistenziale nella quale si trova. Per questo tutto quanto appare utile per il bene del paziente diventa per il medico un mezzo che, rinforzando l’alleanza terapeutica, alimenta il pro-cesso di cura e di autocura.

I condizionamenti del medico

Stabilire un rapporto di feconda comunicazione bidirezionale nella fase di definizione e di successiva gestione della scelta è indispensabile perché l’esito della prescrizione non dipende solo dai contenuti scientifici ma anche dall’interazione fra il sistema di valori, verità, sensibilità, convinzioni e cre-denze del medico con quelle del paziente. La cura, sebbene sia scientifica-mente definita è, al tempo stesso, culturalmente aperta perché il farmaco deve essere “pensato” considerando tutti gli aspetti della vita di una persona che vanno oltre la realtà biologica del corpo vivente e della malattia. Il medico, attraverso la sua persona fisica, la sua cultura, la sua capacità relazionale ed

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Manuale della Professione Medica280

empatica, diventa prescrizione di se stesso ed elemento decisivo dell’esito del trattamento. L’attenzione alla personalità del malato, alle condizioni del suo vivere, alla sua volontà di guarigione e al suo progetto di vita permette di dispiegare pienamente l’azione del farmaco che diventa mezzo ed espressione del “prendersi cura” da parte del medico. Il farmaco è un investimento affet-tivo, una promessa variamente modulata nella cultura delle diverse persone, una parola “magica”, un incantesimo biologico o un “miracoloso tocco sal-vifico”. Questo aspetto, difficilmente accessibile alla quantificazione e all’og-gettivazione, presenta dei correlati neurobiologici corrispondenti agli effetti del placebo che, mentre devono essere neutralizzati nell’ambito della ricerca sulla efficacia dei farmaci nelle popolazioni, diventano un utile elemento che si genera nel contesto della relazione di cura dei singoli casi. Abdicare alla forza della comunicazione favorisce invece l’accesso al farmaco come dispendioso surrogato e scorciatoia puramente chimica della relazione con il paziente e della cura. La responsabilità condivisa della scelta permette di estendere il pro-cesso terapeutico, attraverso il conseguimento del benessere del singolo, al bene della società. L’atto prescrittivo coinvolge il medico nella responsabilità della gestione di risorse economiche attribuendo preziose valenze civiliedetiche al suo operato che, per essere orientato al bene comune, deve considerare l’uso appropriato delle risorse.

La prescrizione nelle cure primarie

Nell’assistenza primaria prevalgono patologie sfumate spesso autolimitan-tesi e di breve durata. Il quadro clinico appare spesso caratterizzato da una costellazione di segni e sintomi indifferenziati e disorganizzati e di disturbi nei quali elementi fisici, funzionali, psichici, sociali e comportamentali sono variamente intrecciati ed embricati fra loro. Spesso la malattia è osservata nella sua fase iniziale prima che il quadro clinico possa mostrarsi in tutta la sua completezza. Le situazioni più sfumate di malessere o di disagio soggettivo prevalgono sulle malattie nosograficamente definite. Il paziente ha un suo “modello profano di malattia” che condiziona il potere di negoziazione che esercita nel corso della consultazione con il medico. Il medico di famiglia deve spesso semplicemente comunicare ai pazienti che si aspettano un rimedio per ogni sintomo, che moltidisturbisiautolimitanoenonrichiedonoalcuninterventofar-macologico. Le prescrizioni finalizzate a soddisfare il bisogno psicologico e di

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7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 281

rassicurazione di chi la richiede e di chi la prescrive, sono spesso insoddisfa-centi, potenzialmente a rischio di reazioni avverse e fonte di sterile dilatazione della spesa. Anche quando la diagnosi è accurata e il trattamento univoco e universalmente accettato, non devono essere trascurati gli aspetti soggettivi del paziente e la relazione medico-paziente per evitare che una scarsa accettabilità e adesione al trattamento possano depotenziarne o vanificarne l’efficacia.

La conoscenza scientifica come base della terapia

La terapia fonda preferibilmente le previsioni sugli esiti che i trattamenti potranno avere nei singoli pazienti sulle conoscenze derivate dalla sperimen-tazioni clinica.

Il RCT (Randomized Controlled Clinical Trial) ben disegnato e condotto rap-presenta lo strumento metodologicamente più valido per ottenere la prova, entro i limiti di probabilità assegnati, che un trattamento è in grado di modifi-care favorevolmente il decorso naturale di una malattia in termini di riduzione della mortalità per tutte le cause e della morbilità causa specifica. La terapia è, al tempo stesso una disciplina storica oidiograficagiacché trasferisce le conoscenze di carattere generale, ricavate su popolazioni selezionate, al singolo individuo che è un universo a sé stante, diverso da tutti gli altri, portatore di una storia localizzata nel tempo e nello spazio. La terapia è pertanto una scienza tecnologica e storica che realizza una sintesi fra i contenuti della conoscenza scientifica e le peculiarità della storia e della realtà clinica dell’individuo per decidere qual è la strada migliore da seguire per lui.

Il RCT si colloca all’apice della gerarchia delle prove di efficacia (Tabella 7.1) perché, rispetto ad altri disegni di studio, si caratterizza per un rigore metodologico nelle fasi di pianificazione, conduzione e analisi dei risultati che rendono minimo l’effetto dei bias. Il bias o distorsione, è un errore sistematico che, introdotto consapevolmente o inconsciamente in qualsiasi stadio dell’in-ferenza, modifica una o più condizioni dell’esperimento in modo tale da con-durre a conclusioni diverse da quelle verso le quali si dirigerebbe se l’unica differenza fra i gruppi fosse rappresentata dai trattamenti a confronto.

Gli strumenti metodologici adottati nella progettazione degli studi per tenere sotto controllo e ridurre al minimo gli errori sistematici comprendono la randomizzazione, la cecità, i criteri d’inclusione e di esclusione, la completezza del follow-up e l’analisi dei risultati con l’approccio intention-to-treat. La randomiz-

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Manuale della Professione Medica282

zazione è una procedura che garantisce a tutti i pazienti la stessa probabilità di essere assegnati a uno qualunque dei gruppi di trattamento a confronto. L’assegnazione casuale, se la numerosità del campione è adeguata, permette che i fattori che influiscono sulla prognosi (ad esempio sesso, età, gravità della malattia, fattori di rischio, patologie concomitanti) e tutti gli altri fattori, la cui natura e identità non sono conosciute, si distribuiscano omogeneamente fra i gruppi di trattamento. Rappresenta inoltre la conditio sine qua non per l’applica-zione delle inferenze statistiche che permettono di stabilire il rapporto causa-effetto fra il trattamento in studio e i risultati ottenuti. Gli studi ben disegnati e realizzati da ricercatori qualificati in condizioni organizzativo-assistenziali ottimali che confrontano il trattamento attivo con il placebo o contro il trat-tamento di riferimento su popolazioni molto selezionate e omogenee (ad es. limitando l’arruolamento a ristretti ambiti di gravità della malattia, eliminando i pazienti più “complessi” per comorbilità e/o polifarmacoterapia, oppure i soggetti in condizioni generali scadute, gli anziani, le donne in gravidanza o che allattano e i bambini), si caratterizzano per un’elevata validità interna che dimostra l’efficacia del trattamento in condizioni sperimentali ideali (efficacy).

Le conclusioni degli studi di efficacy sono generalizzabili esclusivamente a pazienti simili a quelli ammessi allo studio che sono però scarsamente rappre-sentativi dell’universo dei pazienti affetti dalla malattia. Pertanto la loro validità esterna , ossia la trasferibilità delle loro conclusioni a popolazioni differenti e in contesti assistenziali diversi, è molto limitata. Gli studi di effectiveness (Tabella 7.2) valutano invece l’efficacia dei trattamenti in popolazioni molto più simili a quelle che s’incontrano nelle condizioni assistenziali correnti. I pragmatic trial si prefiggono di dimostrare se un trattamento dotato di efficacy è anche efficace in condizioni assistenziali simili al setting dell’assistenza primaria (effectiveness). Questi studi hanno criteri di inclusione meno selettivi che rendono i pazienti arruolati molto simili a quelli della pratica corrente, confrontano regimi tera-peutici più flessibili e gli sperimentatori che li eseguono operano in modo com-parabile a quello che vige nella realtà assistenziale abituale. Le conclusioni dei pragmatic trial sono però più facilmente generalizzabili ai pazienti esterni agli studi. È spesso difficile tracciare una linea netta di demarcazione fra studi di efficacy e di effectiveness.In effetti, quasi sempre coesistono nello stesso studio caratteristiche di entrambe le metodiche che risultano di volta in volta più o meno accentuate. Per questo motivo, per valutare la generalizzabilità o validità

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7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 283

esterna di un trial, è necessario verificare quanto l’eccesso di validità interna ne restringa l’applicabilità ai pazienti del “mondo reale”. Nella modalità di analisi dei risultati di uno studio con l’approccio statistico intention-to-treat viene consi-derato il numero di eventi osservati in ciascun braccio rispetto a tutti i pazienti randomizzati, senza tener conto dell’adesione al protocollo. In questo modo viene fornita una valutazione più realistica dell’efficacia del trattamento perché più attinente alla pratica clinica corrente nell’ambito della quale è frequente l’inosservanza del programma terapeutico.

Efficienza farmacologica, efficacia clinica

Gli end point degli studi clinici più rilevanti per la pratica terapeutica sono rappresentati dalla riduzione della mortalità per tutte le cause, dal prolunga-mento della sopravvivenza, dalla riduzione degli eventi clinici legati alle com-plicanze indotte dalla malattia di base (ad es. infarto, reinfarto, ictus, fratture ecc.), dalla capacità del paziente di mantenere uno stile di vita attivo (assenza di limitazione dell’autonomia e di disabilità), dalla qualità della vita e da un minore ricorso al ricovero ospedaliero o alla chirurgia. I trials che studiano gli end point clinici sono definiti terapeutici o di efficaciaclinica. Gli studi che adottano parametri di efficienzafarmacologica, surrogati rispetto a quelli primari o clinici, ad es. l’aumento della massa ossea e non l’incidenza di fratture, la riduzione della pressione arteriosa o del colesterolo piuttosto che una minore incidenza degli eventi cardiovascolari fatali e non fatali, sono detti conoscitivi o di efficienzafarmacologica e portano a conclusioni più fragili.

Infatti, nonostante le loro conclusioni appaiano spesso ragionevolmente affi-dabili alla luce delle conoscenze dei meccanismi fisiopatologici della malattia e delle osservazioni epidemiologiche, non sempre esiste un rapporto lineare fra l’end point surrogato e quello primario e quindi non sono necessariamente predit-tivi della capacità di ridurre l’incidenza degli eventi clinici che s’intende prevenire o rimandare. Quindi una valutazione della rilevanza di un RCT può essere fatta considerando alcuni criteri essenziali che sono riassunti nella Tabella 7.3.

Per dimostrare l’efficacia “nel mondo reale”, sono spesso disegnati studi di tipo osservazionale che, rispetto ai trials, occupano un livello inferiore nella gerar-chia delle evidenze (Tabella 7.4). I risultati degli studi osservazionali devono essere valutati con la dovuta circospezione perché tendono a sovrastimare quasi sempre l’efficacia dei trattamenti e spesso non sono confermati da studi sperimentali.

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Manuale della Professione Medica284

Terapia ed EBM

La medicina basata sulle prove di efficacia (Evidence Based Medicine, EBM) propone che le decisioni cliniche, nell’assistenza al singolo paziente, devono risultare dall’integrazione tra l’esperienza del medico e l’utilizzo coscienzioso, esplicito e giudizioso delle migliori prove di efficacia scientifiche disponibili, nel rispetto dell’autonomia del medico e delle preferenze del paziente. L’EBM vincola il medico a fondare le sue scelte su criteri scientifici, oggettivi e ripro-ducibili per evitare che utilizzi pratiche e cure superate, inutili o più dannose di quelle che un’accurata analisi della letteratura potrebbe consentire. I risultati dei RCT possono essere esaminati nella loro globalità in revisioni sistematiche spesso combinate in una metanalisi che fornisce una stima complessiva e quan-titativa dell’efficacia di un trattamento. Questa modalità di analisi non può tut-tavia correggere la qualità e l’eterogeneità dei dati che esamina e che include, e, quindi non tutte le conclusioni delle metanalisi garantiscono il massimo livello di evidenza (Tabella 7.4). La qualità dei risultati di una metanalisi è condizio-nata dal rigore metodologico e dai procedimenti statistici adottati. La letteratura scientifica è pletorica e in larga misura irrilevante per la pratica clinica. Il medico riceve informazioni spesso discordanti che potrebbe valutare autonomamente e in modo critico solo se dotato di una preparazione tale da consentirgli di iden-tificare gli articoli scientifici o le metanalisi di buona qualità e di comprendere la loro rilevanza per la pratica clinica. Non essendo realistico pensare di insegnare a tutti i medici come ricercare e interpretare RCT e metanalisi, assume grande importanza pratica la letteratura secondaria rappresentata da sintesi strutturate e commentate di facile e rapida consultazione dei principali RCT e delle meta-nalisi più attuali redatte da parte di esperti indipendenti. Da notare che articoli scientifici, consensus conferences, editoriali, consigli di colleghi, informatori far-maceutici, linee-guida possono contenere in misura maggiore o minore errori sistematici o essere gravate da pesanti conflitti d’interesse.

L’analisi dei comportamenti prescrittivi indica spesso l’esistenza di una “sintonia” fra il comportamento prescrittivo e gli obiettivi di mercato delle industrie. Esiste un’inconsapevolezza diffusa nei medici del fatto che i mes-saggi promozionali e le ricompense di vario tipo inducono pregiudizi e perdita dell’autonomia di giudizio. Non tutti conoscono e apprezzano la metafora del porcospino. Una novella inglese narra la vita di questi animali durante il freddo inverno. I porcospini, nelle loro tane, si avvicinano l’un l’altro per scaldarsi.

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7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 285

Sono però consapevoli del fatto che, se l’abbraccio diventa troppo stretto, si pungono. Anche medici e industria hanno bisogno l’uno dell’altro, ma, se si avvicinano troppo, rischiano di compromettere la reciproca integrità e libertà.

In molte aree della medicina non esistono ricerche di buona qualità e numerose e ampie sono le zone grigie nelle quali non è possibile assumere deci-sioni corroborate da solide dimostrazioni scientifiche. Nella pratica corrente i trattamenti prescritti sono solo in parte basati su prove di efficacia convincenti e spesso fanno riferimento a evidenze più fragili o incerte. Trattamenti, basati su conoscenze di fisiopatologia e di farmacologia, possono essere considerati efficaci nella pratica clinica se sono stati confermati da un’esperienza diretta vasta e condivisa. Si tratta di una circostanza (Tabella 7.4) che risponde al criterio all or none che fa riferimento alle condizioni cliniche nelle quali tutti i pazienti non trattati muoiono e una parte di quelli trattati sopravvive, oppure, una parte dei pazienti non trattati muore e tutti quelli trattati sopravvivono (livello di evidenza 1c). Infine, nelle condizioni in cui non sono disponibili trat-tamenti in grado di modificare la storia naturale della malattia, tutti gli inter-venti devono mirare a limitare la sofferenza.

Tabella 7.1. Gerarchia dei disegni degli studi

Disegno dello studio Descrizione Vantaggi Svantaggi

Più forti

Esperimento randomizzato, controllato

Assegnazione casuale ai gruppi di trattamento a confronto, follow-up prospettico per misurare gli esiti clinici

Distribuisce le caratteristiche dei partecipanti oggetto di misurazione e quelle non soggette a misurazione in modo omogeneo fra i gruppi a confronto

• Necessita di molto tempo • Consuma molte risorse • Difficoltà a ottenere

il consenso alla partecipazione allo studio

Studi clinici controllati ma non randomizzati

Assegnazione non casuale dei pazienti ai gruppi di intervento e di controllo, follow-up prospettico per misurare gli esiti clinici

La misurazione prospettica degli outcome rappresenta un punto di forza

• L’assegnazione non at random può rappresentare un bias

• I paziente con maggiori probabilità di risposta potrebbero essere assegnati preferibilmente nel gruppo intervento

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Manuale della Professione Medica286

Disegno dello studio Descrizione Vantaggi Svantaggi

Studi di coorte prospettici

Gruppi di pazienti che ricevono il trattamento di interesse o quello di controllo indipendentemente dall’intervento attivo dello sperimentatore, seguiti prospetticamente per studiare gli esiti clinici

La valutazione prospettica degli outcome rappresenta un punto di forza

• Bias: le caratteristiche cliniche dei pazienti influenzano il trattamento che ricevono

• Spesso presenti fattori di confondimento

Studi di coorte retrospettivi

Studia gruppi di pazienti che hanno ricevuto il trattamento di interesse o il controllo indipendentemente dall’intervento attivo dello sperimentatore e determina retrospettivamente se hanno presentato gli esiti clinici di interesse

Può essere concluso rapidamente perchè gli outcome si sono già verificati.

• Bias: le caratteristiche cliniche dei pazienti influenzano il trattamento che ricevono

• Sono spesso presenti fattori di confondimento

• La valutazione retrospettiva degli outcome è spesso difficile

Piùdeboli

Studi caso-controllo

Studia 2 gruppi di pazienti dei quali uno ha avuto l’outcome di interesse (casi) e l’altro che non lo ha presentato (controlli) valutando la proporzione in ciascun gruppo di coloro che hanno ricevuto il trattamento oggetto di studio

• Possono essere ultimati rapidamente perché non si devono attendere gli esiti

• Utili quando l’outcome di interesse è raro

• Possibile bias di memoria riguardo l’esposizione

Serie di casi

Descrizione degli esiti in singoli pazienti o in serie di pazienti che hanno ricevuto un trattamento particolare

• Utili per individuare le reazioni avverse

• Generano ipotesi di ricerca

• Assenza del gruppo di controllo e numeri piccolo che impediscono di testare ipotesi

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7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 287

Tabella 7.2. Differenze tra studi clinici di efficacy e di effectiveness

Studio di efficacy Studio di effectiveness

Disegno dello studio RCT RCT, studi osservazionali caso-controllo

e di coorte

Assegnazione dei pazienti Randomizzata Randomizzata (RCT), decisa dal curante

(studi osservazionali)

SettingStandard organizzativo-assistenziali ideali (Università, ospedali, istituti di ricerca)

Contesto assistenziale “reale”, cure primarie

Professionisti ricercatori

Specialisti con addestramento ed esperienza elevati Medici delle cure primarie

Popolazione Più omogenea Più eterogenea

Pazienti Altamente selezionati e motivati Esclusione dei pazienti complessi

Praticamente tutti Criteri di esclusione limitati

Trattamento di controllo Placebo o terapia standard Qualsiasi, anche assenza di trattamento

o trattamento non farmacologico

Modalità di trattamento

Definite da un protocollo rigoroso (più standardizzate)

Più variabili e flessibili secondo i criteri della pratica corrente

Misure di esito

Surrogate (modifiche di parametri strumentali e di laboratorio) o clinicamente rilevanti (morbilità e mortalità)

Cliniche (morbilità e mortalità)Soggettive del pazienteCosti diretti e indiretti, individuali e sociali

Attendibilità Elevata per outcomes clinici Elevata per outcomes soggettivi

Conclusioni Causalità Causalità (RCT), associazioni, correlazioni e stime (studi osservazionali)

Validità interna Elevata Inferiore

Validità esterna Inferiore Elevata e rilevante per il paziente Fornisce indicazioni per l’allocazione delle risorse

Generalizzabilità Limitata ad una popolazione specifica e selezionata Ampia per molti pazienti

Costi di esecuzione Generalmente alti Variabili, ma relativamente bassi

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Manuale della Professione Medica288

Tabella 7.3. Domande per stabilire la rilevanza terapeutica delle conclusioni di uno studio.

1. Qual è l’obiettivo dello studio (end point clinico o surrogato)?

2. Qual è il disegno dello studio (sperimentale o osservazionale)?

3. Quale intervento o terapia è stata studiato?

4. I ricercatori hanno tenuto sotto controllo i fattori di confondimento?

5. In che modo è stato selezionato il campione studiato?

6. Chi sono i soggetti studiati e sono stati seguiti tutti fino al termine dello studio?

7. I risultati sono stati analizzati per l’intention to treat?

8. I risultati dello studio sono clinicamente significativi?

Tabella 7.4. Livelli di efficacia delle evidenze scientifiche

Livello di evidenza Tipo di studi dai quali è stata ottenuta la validità delle prove di efficacia

1 a Metanalisi di RCT senza eterogeneità* 1 b Singolo RCT con intervallo di confidenza ristretto

1 c

Criterio all or none (tutti o nessuno): prima della disponibilità del trattamento tutti i pazienti morivano o peggioravano mentre con il nuovo trattamento una parte sopravvive o migliora; oppure: una parte dei pazienti non trattati muoiono o peggiorano mentre nessuno fra quelli che seguono la nuova terapia muore o peggiora

2 a Una metanalisi con omogeneità* di studi di coorte

2 b Almeno uno studio di coorte di qualità elevata o un RCT di bassa qualità (ad es. quelli con follow-up in meno dell’80%)

2 c Studi post-marketing di outcome 3 a Una metanalisi con omogeneità* di studi caso-controllo3 b Singolo studio caso-controllo di qualità elevata

4 Almeno una serie di casi di qualità elevata(o studi di coorte e caso-controllo di scarsa qualità)

5 Opinione di esperti, senza riferimento a una delle evidenze dei livelli precedenti, basata sulla fisiopatologia o su ricerche di base o su principi generali

*omogeneità: si riferisce a studi numerosi che forniscono stime ampiamente concordanti per l’effetto del trattamento. Le raccomandazioni basate su quest’approccio si applicano al paziente “normale” e possono essere modificate alla luce delle caratteristiche individuali e alle preferenze del paziente.

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7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 289

La prescrizione tra linee-guida ed esigenze di personalizzazione

Le linee-guida (LG), elaborate attraverso un processo di analisi sistema-tica delle migliori prove di efficacia disponibili in letteratura, sono uno stru-mento di sintesi delle conoscenze scientifiche che definisce raccomandazioni di comportamento clinico per assistere il medico nella gestione più appropriata della prevenzione, della diagnosi e della terapia nel singolo paziente. Le LG di buona qualità si caratterizzano per la flessibilità e per la buona adattabilità al contesto clinico e alle peculiarità dei diversi pazienti. Il medico non deve inter-pretare rigidamente le LG né applicarle senza tener conto delle caratteristiche e delle esigenze personali dei singoli pazienti. Dato che le raccomandazioni sono di tipo probabilistico, raramente possono riguardare tutti i pazienti e le varie situazioni cliniche.

Le LG vanno viste come un aiuto alle decisioni cliniche e non come un fattore vincolante e limitante la libertà clinica, può essere lecito e doveroso discostarsi in maniera motivata da quanto suggerito da una LG.

La qualità e l’affidabilità delle raccomandazioni di una LG può essere con-dizionata dai limiti metodologici o dall’eterogeneità dei risultati degli studi sui quali si basa. In questi casi deve essere valutato il rischio che sia lasciato troppo spazio alle interpretazioni fisiopatologiche o alle opinioni e all’esperienza per-sonale dei componenti del gruppo di stesura. Infine, le LG possono essere condizionate da conflitti d’interesse che possono riguardare in varia misura il medico, gli amministratori pubblici o le Società Scientifiche. Le LG esistenti sono di qualità molto diversa, talora sono troppo complicate da seguire e devono essere sempre adattate al contesto assistenziale nel quale si opera.

Il processo terapeutico

La terapia consiste nell’assegnazione degli interventi – farmacologici, chi-rurgici, psicoterapeutici o di altra natura (stili di vita, abitudini voluttuarie, dieta) – convenientemente adattati alle specifiche esigenze e alle caratteristi-che individuali, allo scopo di conservare la salute, di ripristinare uno stato di benessere, di alleviare le sofferenze o di correggere le disabilità. La prescri-zione di farmaci è condizionata dal fatto che essi non sono efficaci in tutti i casi nei quali sono indicati e non sono sempre adattabili alle caratteristiche del singolo soggetto.

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Manuale della Professione Medica290

La terapia può essere:

1) etiologica o risolutiva: fa ottenere la guarigione eliminando l’agente causale;2) fisiopatologica e/o patogenetica: modifica la situazione indotta dalla

malattia prevenendo complicazioni e ritardando progressione e ricadute senza eliminare la causa;

3) sintomatica: risolve o attenua le manifestazioni della malattia senza inter-ferire con le sue cause;

4) profilattica o preventiva: previene l’insorgere o il progredire di una malattia;5) riabilitativa: corregge le disabilità;6) palliativa: allevia le manifestazioni della malattia senza influenzarne il decorso.

Il processo decisionale da seguire nella scelta terapeutica prevede una serie di valutazioni successive e ordinate in una sequenza razionale:

1) Formulare, se possibile, la diagnosi: l’obiettivo è di prescrivere nella misura maggiore possibile per diagnosi e non per sintomi il cui trattamento è peraltro più appropriato se avviene dopo averne individuate le cause. Se una terapia espone a gravi reazioni avverse è necessario avere un livello di certezza della diagnosi elevato. La soglia di probabilità diagnostica può essere più bassa nel caso di terapie meno impegnative. In condizioni di gravità cli-nica può essere necessario iniziare un trattamento senza attendere gli esiti di ulteriori indagini se il suo prevedibile effetto favorevole supera ampiamente i rischi o i danni che deriverebbero dalla sua mancata adozione. Lo stesso atteggiamento è giustificato se un test di conferma diagnostica richiede una procedura invasiva, di non facile realizzazione o se la disponibilità del risul-tato richiede un’attesa troppo lunga. Viceversa una diagnosi precisa è indi-spensabile quando sia disponibile un trattamento altamente specifico ma inefficace in altre patologie. La definizione della diagnosi consente di sapere quali sono le probabilità di risoluzione spontanea del quadro clinico, di valu-tare i rischi che il paziente corre in assenza di terapia e di ponderare i benefici e i rischi degli interventi terapeutici possibili. Se anamnesi e dati clinici sono insufficienti a formulare una diagnosi precisa e l’approfondimento diagno-stico è di difficile programmazione o d’incerta definizione, si può ricorrere a un trattamento “ragionato”. L’adozione del criterio dei remedia ex adjuvanti-bus indica la decisione di intraprendere una terapia non suffragata da prove

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7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 291

cliniche. La prescrizione di una terapia ex adjuvantibus è lanciata come una sonda diagnostica per confermare o escludere l’ipotesi formulata. Il medico aggira l’ostacolo avvalendosi della complicità del paziente al quale espone i vantaggi possibili e i limiti oggettivi del tentativo proposto che potrebbe rive-larsi inidoneo a formulare la diagnosi e/o a risolvere il problema. Tuttavia, in caso di successo, l’esito favorevole potrebbe essere attribuito all’efficacia del trattamento a conferma del sospetto diagnostico, ma potrebbe anche trat-tarsi di una guarigione spontanea indipendente dalla cura somministrata. Una risposta favorevole solo sui sintomi potrebbe però procrastinare inutilmente e pericolosamente la diagnosi vera con possibili ripercussioni negative sulla prognosi. Questo rischio va attentamente valutato prima di procedere con il criterio exadjuvantibus.

2) Definire gli obiettivi del trattamento: significa identificare gli outcomes clinicamente significativi che permettono di selezionare adeguatamente i trattamenti capaci di far raggiungere gli esiti attesi. Il requisito chiave dell’efficacia fa riferimento alla capacità di un trattamento di modificare in senso favorevole la storia naturale della malattia prolungando la sopravvi-venza e/o migliorando la qualità della vita.

3) Definire l’approccio terapeutico: significa decidere qual è il modo migliore per raggiungere gli obiettivi che si sono stabiliti. In prima istanza deve essere esaminata la possibilità di adottare un trattamento farmacologico o non far-macologico. L’approccio terapeutico deve sempre ricomprendere l’educa-zione all’autogestione della malattia, l’allontanamento dei fattori scatenanti, le modificazioni dello stile di vita (esercizio fisico, uso di sostanze psicotrope, fumo di sigaretta) e della dieta. Tutti questi interventi possono anche essere in grado di risolvere da soli il problema senza ricorrere ai farmaci. Anche la sospensione di farmaci che il paziente sta assumendo può essere utile. Le probabilità di successo di un trattamento farmacologico sono sempre util-mente integrate dai trattamenti non farmacologici e dalle modificazioni degli stili di vita. Inoltre gli obiettivi terapeutici sono spesso più efficacemente per-seguiti associando al trattamento principale altri farmaci che concorrono a ridurre il peso degli altri fattori di rischio sugli esiti della malattia.

4) Selezionare la classe di farmaci: per ogni obiettivo terapeutico pos-sono essere disponibili classi farmacologiche diverse. I b-bloccanti, ad esempio, hanno dimostrato di possedere l’effetto farmacologico di

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ridurre la pressione arteriosa, ma altri farmaci antipertensivi hanno dimo-strato di essere più efficaci nel ridurre l’incidenza di ictus, infarto mio-cardico e mortalità per eventi cardiovascolari, soprattutto negli anziani. Pertanto i b-bloccanti non possono essere considerati farmaci di prima linea nel trattamento dell’ipertensione arteriosa. Tuttavia, nei soggetti di età superiore a 60 anni che già assumono altri due o tre farmaci per la pressione arteriosa elevata e non riescono ad avere un buon controllo, un b-bloccante può essere aggiunto come terza o quarta molecola se necessario. Per contro se oltre alla pressione elevata ci si trova di fronte a pazienti portatori di malattia coronarica o di scompenso cardiaco i b-bloccanti possono essere farmaci di prima scelta. In un paziente che presenti ipertensione arteriosa e angina stabile, i b-bloccanti hanno dimo-strato di essere superiori ai calcioantagonisti.

5) Scegliere il farmaco più adatto all’interno della classe di apparte-nenza: sebbene i farmaci siano suddivisi in classi terapeutiche è inesatto e ingiustificato asserire l’esistenza di un effetto di classe secondo il quale tutti i componenti di una classe sono equivalenti e quindi intercambiabili. Ogni classe comprende più farmaci con caratteristiche simili dei quali devono essere conosciute l’efficacia e la tollerabilità per valutare i benefici attesi e i rischi da correre per ottenerli. Anche nella scelta di un farmaco all’interno di una classe, deve essere preferito il criterio dell’efficacia e della tollera-bilità della singola molecola documentato da studi su end points clinici di morbilità e mortalità, spesso disponibili solo per alcuni di essi e solo rara-mente derivati da studi di confronto. Inoltre, pur essendo molecole simili, differenze salienti riguardanti gli aspetti farmacocinetici e farmacodinamici potrebbero influire sugli effetti terapeutici.

6) Definire la dose e il regime terapeutico: sebbene in molti casi si fac-cia riferimento alle dosi standard come ad esempio nel caso degli inibitori di pompa protonica o negli antiaggreganti piastrinici, non è bene usare il far-maco alla stessa dose e col medesimo regime terapeutico in tutti i casi ma alla posologia che garantisca il raggiungimento della concentrazione adeguata nel sito di azione e per il tempo necessario in modo da garantire la produzione dell’effetto terapeutico. Per questi motivi la posologia, data la variabilità inte-rindividuale, deve essere adattata al singolo paziente e modificata nel corso del trattamento, se necessario, per ottenere le risposte desiderate.

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7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 293

7) Personalizzare il trattamento: la gravitàdellamalattia,lafarmacocinetica, la farmacodinamica e le condizioni individuali (età, gravidanza, allattamento o epo-che feconde della vita, rischio lavorativo, stile e ambiente di vita, comor-bilità) impongono scelte più personalizzate specialmente in presenza di alterazioni funzionali dei recettori o degli organi deputati all’escrezione dei farmaci. Devono, inoltre, essere evitate le interazioni farmacologiche sfavorevoli e ponderato il rischio di reazioni avverse in relazione alla pro-babilità che hanno di verificarsi e alla loro potenziale gravità. I benefici probabili e il profilo di tollerabilità del trattamento devono essere infine confrontati con l’accettabilità e la fruibilità da parte del paziente. A parità di efficacia, preferire farmaci con un profilo di sicurezza più favorevole, più semplici da essere assunti e meno costosi.

8) Modulare la polifarmacoterapia:la presenza di più patologie, disturbi e/o fattori di rischio può indurre all’impiego concomitante di più trattamenti e dalla prescrizione di più farmaci di quelli clinicamente indicati. Un’accurata revisione della polifarmacoterapia si basa su cinque elementi: associare il far-maco con la diagnosi corrispondente, individuare i duplicati terapeutici, inter-rogare il paziente sui farmaci realmente assunti compresi i prodotti da banco, gli “integratori” e i prodotti di erboristeria, rivedere i parametri di laboratorio e l’anamnesi del paziente in relazione all’efficacia e alla tossicità del regime terapeutico adottato, sforzarsi di escludere i farmaci non necessari.

9) Scegliere gli indici di monitoraggio di efficienza farmacologica, di efficacia terapeutica e di tollerabilità: il monitoraggio della terapia per-mette di adeguare la posologia, di rivalutare il piano terapeutico o di evitare di prolungare i trattamenti quando sono diventati inutili e di contribuire alla riduzione dell’incidenza delle reazioni avverse. In alcune situazioni il monito-raggio è facilmente ripetibile e di basso costo come ad esempio il controllo della pressione arteriosa o della glicemia e dell’emoglobina glicosilata. Gli indici per il monitoraggio degli effetti collaterali vanno invece definiti caso per caso e possono essere spesso diversi da quelli riguardanti la risposta tera-peutica. Il monitoraggio delle concentrazioni plasmatiche dei farmaci con ristretto margine terapeutico è indispensabile per evitare di incorrere nei due estremi sfavorevoli e opposti: il mancato raggiungimento della dose minima efficace e il superamento della soglia di tossicità. Il monitoraggio plasmatico è essenziale per i farmaci soggetti ad ampia variabilità farmacocinetica inte-

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rindividuale o in situazioni come gravidanza, infanzia e vecchiaia o di patolo-gie degli organi deputati alla metabolizzazione ed eliminazione dei farmaci.

10) Fornire informazioni chiare e dettagliate, istruzioni e avvertenze al paziente sulla pianificazione del monitoraggio clinico e di laborato-rio e/o strumentale.

11) Valutare lo stato funzionale del paziente e la soddisfazione globale: le modificazioni funzionali derivate dal trattamento possono indurre una scarsa adesione o addirittura una sospensione della terapia. Il medico deve discutere di queste variazioni con il paziente, correggere, se possibile, quelle più difficilmente sopportabili, e collocare nella prospettiva dei veri obbiettivi della terapia vantaggi e svantaggi del trattamento per sviluppare e consolidare l’alleanza terapeutica.

12) Valutare l’adesione alla terapia, rivalutare periodicamente la situa-zione clinica e i fattori prognostici, attuare gli aggiustamenti neces-sari, ottimizzare l’adesione alle terapie e consolidare l’alleanza tera-peutica: L’adesione al trattamento, che è parte integrante della relazione medico paziente, può essere definita come la misura del comportamento messo in atto dal paziente rispetto al programma terapeutico stabilito e condiviso con il medico. Si stima che l’adesione, anche per trattamenti la cui prescrizione è solidamente fondata su solide prove di efficacia, sia variabile fra il 40 e il 50%. Questi livelli poco soddisfacenti compromettono il con-seguimento degli obiettivi terapeutici del singolo paziente e di outcome cli-nici rilevanti nelle popolazioni. La scarsa adesione non può essere imputata totalmente al paziente, anche il medico deve opportunamente interrogarsi sulla sua parte di responsabilità. Dato che l’adesione al trattamento non è prevedibile, assumono un’importanza critica tutti gli interventi orientati ad abbattere le barriere e gli ostacoli che la rendono di difficile realizzazione.

13) Programmare la durata della terapia e le modalità di sospensione: è importante preventivare il momento più appropriato per interrompere un trattamento. L’interruzione deve essere programmata, a seconda del tipo di farmaco, con una graduale riduzione della posologia per evitare la sindrome da astinenza nel caso degli oppiacei maggiori e la sindrome da sospensione dell’antidepressivo paroxetina caratterizzata da capogiri, disturbi del sonno e turbe comportamentali e i fenomeni di rimbalzo dovuti alla brusca inter-ruzione dei cortisonici o dei b-bloccanti.

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7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 295

L’appropriatezza prescrittiva

L’irrompere sulla scena della dimensione economica ha messo il sistema sanitario di fronte alla necessità di coniugare l’ambizione etica di fornire pre-stazioni di qualità elevata con l’attenzione ai costi imposta dalla scarsità delle risorse disponibili. L’appropriatezza valuta i benefici attesi o probabili degli atti medici in relazione ai costi certi che la loro scelta comporta e rispetto alle risorse disponibili. Comporta anche un confronto con quanto altri inter-venti avrebbero permesso di conseguire grazie ad una diversa combinazione nell’impiego dello stesso ammontare di risorse. Persegue quindi l’obiettivo di raggiungere risultati di salute predefiniti e compatibili con le risorse disponibili e non il mero contenimento dei costi.

L’appropriatezza clinica definisce il comportamento giusto e congruo del medico rispetto alle necessità di un individuo allo scopo di attribuirgli e prescri-vergli ciò che gli è più confacente nell’ambito di scelte qualitativamente con-formi ai processi relazionali intersoggettivi instaurati. Devono essere sempre soppesati i benefici ragionevolmente conseguibili di ogni trattamento e i rischi proporzionalmente giustificabili rispetto alla capacità di influenzare favorevol-mente il decorso della malattia e la qualità della vita della persona. La prescri-zione di un trattamento è il trasferimento dei risultati della ricerca a pazienti esterni agli studi con caratteristiche cliniche paragonabili nei quali è ragione-vole aspettarsi un risultato favorevole, sebbene nessuno sia in grado di preve-dere se il singolo paziente rientrerà fra chi ne trarrà reale beneficio. La terapia è una scienza tecnologica e storica che non garantisce che una legge universale si ripeta sempre nel particolare e nessuno può essere sicuro che il ripetibile si ripro-durrà nel caso che ci apprestiamo a trattare. Il medico, sebbene ricavi preziose informazioni dalla molteplicità, guarda all’unicità del caso e considera tutto ciò che gli appare utile secondo scienza ed etica per il bene del paziente come economicamente giustificato e giustificabile. L’appropriatezza sanitaria prende in esame, invece, il percorso diagnostico e terapeutico adottato dal medico, i suoi esiti e i suoi costi. Il medico, come soggetto, è sostituito dal “procedimento” che ha messo in atto e il malato dai “dati” sui benefici conseguiti. Medico e malato sono a loro volta valutati con riferimento ai costi sostenuti per cui il criterio guida dell’appropriatezza sanitaria diventa la rispondenza economica. Per verificare se i risultati ottenuti sono appropriati rispetto alle risorse impie-

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gate, sono analizzati indicatori, statistiche e ricerche sugli esiti degli interventi. L’appropriatezza nella sua dimensione sanitaria rappresenta una delle nuove “ragioni tecniche” che incombono sulla libertà di scelta del medico quando decide ciò che è appropriato per il suo paziente. Nell’appropriatezza sanitaria l’obiettivo è la tutela della salute nella popolazione conformemente alle dispo-nibilità economiche e la sua gestione è delegata a un insieme di competenze multidisciplinari in grado di rispondere alle complesse e molteplici esigenze del sistema sanitario (amministratori, ricercatori, epidemiologi, economisti, medici con funzioni di controllo). L’appropriatezza decisa all’interno di procedure standard, di percorsi pre-definiti o di LG spesso differisce da quella del clinico perché diverse sono le inferenze e gli elementi in base ai quali viene formulato il giudizio sul singolo. Gli enunciati significanti dell’appropriatezza in ambito clinico sono rappresentati dal risultato congetturale d’inferenze cliniche ed eti-che, mentre in ambito sanitario rappresentano una sintesi fra le inferenze sta-tistico-epidemiologiche e le esigenze economiche della collettività. Il problema nasce nel momento in cui le due inferenze, applicate al singolo caso, diver-gono e collidono perché basate su concezioni differenti di ciò che è rilevante. Di fronte alle esigenze dell’appropriatezza sanitaria e alle necessità cliniche del malato è pertanto necessario chiarire qual è il prezzo (in termini di equità) che la società è disposta a pagare per ottenere una maggiore appropriatezza e il costo etico e professionale sopportabile da parte dei medici di medicina gene-rale per garantire un sistema sanitario economicamente più efficiente.

Il medico come prescrittore pubblico

Il Sistema Sanitario rimborsa i trattamenti sulla base della dimostrata efficacia in studi clinici e di criteri economici. In altre parole sceglie i farmaci che dimo-strano un vantaggio su popolazioni selezionate a costi accettabili. Il medico è per-tanto chiamato a valutare a norma e a decidere se la soluzione più appropriata per la sanità pubblica è applicabile alla realtà clinica del singolo malato. Se il paziente soddisfa queste caratteristiche, il trattamento è prescrivibile e rimborsabile, è cioè ritenuto giusto e corretto. Sebbene la medicina generale condivida la razionalità scientifica sulla quale si fonda l’EBM e apprezzi il fatto che sia stata adottata come metodologia per la selezione dei farmaci e delle loro indicazioni terapeutiche, è tuttavia ben consapevole che essa costituisce solo uno degli strumenti utili per

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7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 297

esercitare la sua disciplina. Aspira pertanto a sottrarsi da un’applicazione meccani-cistica dei suoi contenuti probanti sia che ciò avvenga per scelta autonoma sia che derivi dal condizionamento autoritativo della sanità pubblica per evitare di ledere e deformare il contenuto della sua techne. La variabilità biologica, infatti, si esprime molto spesso in quadri clinici diversi da quelli dei pazienti arruolati negli studi clinici che hanno concorso a definire la rimborsabilità di un farmaco e, spesso, il medico di medicina generale impatta in condizioni e situazioni nelle quali le prove di efficacia sono troppo fragili o mancano del tutto. I trattamenti di documentata efficacia sono prescritti per periodi molto più prolungati rispetto alla durata degli studi clinici in assenza di documentazioni adeguate. L’elevata incidenza di comor-bilità spesso porta a utilizzare più farmaci senza che sia dimostrato se l’associa-zione è benefica e in che misura o se i vantaggi dimostrati dai farmaci impiegati singolarmente si sommano quando siano utilizzati insieme. Ciò che va bene per una malattia non è detto che sia sempre la migliore soluzione per il malato e nessuno è in grado di prevedere se il singolo paziente rientrerà fra chi trarrà un vantaggio reale. Il paziente ha una sua idea su ciò che potrebbe essergli benefico e ciò che potrebbe recargli danno che deriva dalla sua personalità e dalla sua cultura. Può pertanto respingere un trattamento nonostante sia proposto come appro-priato dal medico di medicina generale e dal sistema sanitario.

Il medico di medicina generale deve pertanto riservarsi un margine di scelta clinica qualora i trattamenti rimborsabili non siano applicabili, non siano accet-tati o siano inefficaci. L’appropriatezza decisa all’interno di procedure stan-dard, di percorsi pre-definiti o di protocolli e note limitative spesso differisce da quella del clinico, ma l’eventualità che le conclusioni dell’appropriatezza sanitaria siano in contrasto con quella clinica non è adeguatamente e nemmeno formalmente riconosciuta.

La terapia: una trama di arcaico e di nuovo

Nella relazione medico-paziente che si suggella con la prescrizione della tera-pia, la persona non ha solo bisogno di essere sollevata dai suoi disagi, ma aspira anche a una incondizionata, piena,solidaleealtruisticadisponibilitàdelterapeuta. Infatti, il paziente, afflitto e disperato, tende a tornare all’antico rapporto con il guaritore nel quale il terapeuta, entrando in contatto con lui in maniera intensa e intima, “resuscita” con il malato facendolo rinascere a nuova vita o, nel caso dramma-

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tico del terminale, “muore” con lui e lo accompagna, con premura e tenerezza, verso il suo destino. Paziente e terapeuta si contrappongono all’entità ostile che è penetrata nell’organismo attivando un processo reattivo di difesa alimentato da un’interazione di trame simboliche, parole e suoni che favoriscono un processo di “autoterapia”. Anche il medico, come il guaritore arcaico, deve favorire l’attiva-zione delle difese già possedute dall’organismo nella consapevolezza che l’effetto dei farmaci non dipende solo dalla farmacodinamica del principio attivo e dalla significatività statistica, ma anche dall’atteggiamento e dalle attese del paziente e del medico, dall’interazione medico-paziente, dall’effetto placebo e dalla naturale tendenza alla guarigione della malattia. Con il linguaggio del farmaco il guari-tore moderno mette ancora in scena l’antichissima arte della guarigione in modo molto più convincente ma che, per essere pienamente efficace, si giova anche delle parole arcaiche. È necessario riappropriarsi pienamente di quell’elemento essenziale della guarigione rappresentato dall’intesa e dalla solidarietà con la per-sona realizzando una proficua sintesi fra elementi antichi e nuovi che sono tutti indispensabili a garantire il bene del paziente. La cura e il suo successo dipen-dono anche dal suo altruismo e dall’attenzione all’uomo, inteso come persona con la sua storia, la sua cultura, la sua affettività e le sue credenze.

La medicina clinica si fonda su un insieme di conoscenze teorico-prati-che che forniscono strumenti adeguati per difendere la salute dei cittadini nel rispetto del valore intrinseco della persona umana.

L’esercizio delle capacità, abilità e competenze del medico implicano tutta-via, direttamente o indirettamente, una responsabilità nella gestione di risorse che, essendo di tutti, devono essere indirizzate al bene comune. La società richiede pertanto al medico di tenere in considerazione anche i risvolti civili e politici della sua professione. Il medico deve scegliere il farmaco più appro-priato dopo aver analizzato criticamente i risultati degli studi clinici per valutare se le loro conclusioni sono applicabili alla realtà clinica del singolo paziente.

Il trattamento con farmaci è importante in molte patologie ad andamento cro-nico per prevenire o ritardare le complicanze e garantire una migliore prognosi. Il contenimento dei costi, la somministrazione della migliore assistenza uguale per tutti e la libertà di scelta del paziente e del medico sono fini che possono entrare in conflitto fra loro. Infatti, ciò che appare appropriato da un punto di vista stret-tamente medico potrebbe risultare del tutto inappropriato dal punto di vista del

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7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 299

costo e della convenienza sociale. Poiché nella realtà le decisioni in campo sani-tario sono prese da soggetti che hanno funzioni sociali profondamente diverse – politici, amministratori, economisti, medici – è indispensabile che ciascuno di questi attori interpreti coerentemente il ruolo e la funzione che è chiamato a svol-gere. Mentre i politici e gli amministratori si devono preoccupare di modulare la spesa sanitaria in relazione alle esigenze globali della società, il medico deve prendersi cura prima di tutto delle persone e, pur tenendo nella giusta considera-zione le esigenze sociali e la necessità di non favorire gli sprechi, deve adoperarsi affinché chi si affida a lui riceva la migliore terapia di cui necessita.

La prescrizione di farmaci on-label e off-label

I medicinali disponibili in Italia, prima di poter essere prescritti dal medico. devono essere autorizzati all’immissione in commercio (AIC) dall’Agenzia ita-liana del Farmaco (AIFA), del Ministero della Salute, o in alternativa dall’Agen-zia europea di valutazione dei medicinali (EMEA).

La procedura per l’autorizzazione al commercio di un farmaco può essere condotta e conclusa in ambito nazionale oppure, per il principio di reciprocità, può scaturire da un provvedimento di approvazione attuato in un altro paese della Comunità europea.

L’autorizzazione al commercio è accompagnata da una Scheda Tecnica Ministeriale (STM), nella quale è riportata la confezione farmaceutica, le indi-cazioni terapeutiche, le controindicazioni, la posologia (intervallo/dosaggio), le proprietà farmacologiche, la via e le modalità di somministrazione e le avver-tenze all’uso, per assicurare un impiego del farmaco appropriato (corretta indi-cazione e comprovata efficacia).

Le Note dell’Aifa, introdotte nel 1994 e continuamente aggiornate e rinno-vate nei contenuti, nella forma e nelle finalità, dal Comitato Tecnico Scientifico (CTS), hanno rappresentato uno strumento regolatorio indispensabile per ridefi-nire i farmaci ritenuti sicuramente efficaci, e quindi rimborsabili dal SSN, da altri autorizzati al commercio ma con minore “evidenza” di vantaggio terapeutico.

L’impiego di un farmaco, in possesso di AIC, si può definire:

1. on-label (label, letteralmente etichetta), quando è prescritto per un’indica-zione terapeutica, con una diversa posologia (intervallo/dosaggio), ma nel rispetto di quanto è contenuto nella STM.

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2. off-label,quando è prescritto per un’indicazione terapeutica e/o secondo una modalità di somministrazione e/o posologia e/o altro diverse da quanto è espressamente previste dalla STMe, e autorizzate al momento dell’immissione in commercio.

La scelta di prescrivere un farmaco, al di fuori delle indicazioni ministe-riali (off-label), è largamente diffusa in vari ambiti della medicina, anche perché spesso riguarda farmaci conosciuti e utilizzati da tempo, per i quali le evidenze scientifiche suggeriscono un razionale d’uso anche in situazioni cliniche non approvate da un punto di vista regolatorio.

Questa situazione, complessa e delicata, è stata, tuttavia, più volte oggetto di regolamentazione legislativa nazionale: L.648/12/1996,L.94/04/1998,DLgs219/4/2006,L.296/2006(Finanziaria2007),L.244/12/2007(Finanziaria2008).

In breve sintesi le leggi, prima del 2007, concedevano al medico curante, sotto la sua diretta responsabilità, sulla base di documentazione scientifica pubblicata su riviste qualificate e in mancanza di alternative terapeutiche, di poter decidere se trattare il proprio assistito con un medicinale autorizzato per un’indicazione terapeutica, e modalità di somministrazione diverse, dopo averlo informato e averne ottenuto il consenso.

Dopo la Finanziaria del 2007 l’alternativa di prescrizioni off-label era con-cessa solo nell’ambito delle sperimentazioni cliniche, sulla base di evidenze scientifiche documentate nella letteratura internazionale, e individuava nei direttori sanitari di Azienda i responsabili dei procedimenti applicativi.

La legge finanziaria del 2008 ha, invece, indicato come condizione indi-spensabile per l’impiego off-label dei medicinali, almeno l’esistenza di studi favorevoli di sperimentazione clinica di 2a fase già conclusi.

Farmacovigilanza

La farmacovigilanza ha lo scopo di valutare il rischio connesso all’assun-zione dei farmaci e di monitorare l’incidenza degli effetti indesiderati (Reazioni Avverse, ADR), eventualmente associati a un trattamento farmacologico, ma anche quello di migliorare e ampliare le informazioni su ADR sospette o già conosciute. Inoltre consente di valutare la maggiore efficacia di un farmaco rispetto ad altri o ad altri tipi di terapie, rendendo più appropriate le cure. Tale

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7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 301

monitoraggio inizia durante la sperimentazione clinica pre-marketing sull’uomo, e prosegue per tutto il periodo nel quale il farmaco rimane in commercio.

Il medico ha il dovere etico di segnalare ogni sospetto di Reazione Avversa, grave o non prevista nel foglietto illustrativo del farmaco prescritto ai suoi pazienti, e rischia pene severe in caso di inadempienza.

La scheda, in passato, era fornita dal Ministero della salute, attraverso il Bollettino di Informazione sui Farmaci (BIF) dell’AIFA inviato a tutti i medici, che oggi pare avere sospeso la pubblicazione. Essa, tuttavia, può essere richiesta ai responsabili di farmacovigilanza delle ASL e delle Aziende ospedaliere, o anche agli Informatori Scientifici del Farmaco. Una volta com-pilata, la scheda deve essere inviata nel più breve tempo possibile al Servi-zio Farmaceutico dell’ASL o dell’Azienda Ospedaliera di competenza che provvederanno a trasmetterla per via telematica al Servizio Farmaceutico del Ministero della Salute.

Art. 22 - Autonomia e responsabilità diagnostico-terapeutica

Il medico al quale vengano richieste prestazioni che contrastino con la sua coscienza o con il suo convincimento clinico, può rifiutare la propria opera, a meno che questo comportamento non sia di pregiudizievole nocumento per la salute della persona assistita e deve fornire al cittadino ogni utile informazione e chiarimento.

L’obiezione di coscienza (dal latino tardo obiecto-onis, derivato del verbo obicere, gettare contro), ha assunto nella nostra lingua diversi veicoli di senso, accumunati da un’idea di rifiuto sostenuta da personali convinzioni che pos-sono riguardare situazioni diverse e/o dall’idea di un intervento nella dialettica del discorso motivato da un’opinione contraria rispetto a quella originaria-mente proposta da una persona terza.

L’obiezione di coscienza ha una tradizione millenaria ma è una conquista della civiltà giuridica moderna se si considera che i suoi fondamenti costitutivi sono presenti nella Carta Costituzionale: nell’art. 2 che garantisce i diritti invio-labili della persona sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e negli artt. 19 e 21 che sanciscono la libertà religiosa e quella di manifestazione del pensiero.

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Coerentemente a tali diritti costituzionali sono state emanate specifiche norme che riconoscono il diritto all’obiezione di coscienza in ambiti comuni a tutti i cittadini (servizio militare e in campo fiscale), e in quelli peculiari delle professioni sanitarie.

Limitandoci a queste ultime, le norme vigenti riconoscono il diritto all’obiezione di coscienza riguardo alla sperimentazione e alla vivisezione sugli animali (DLgs 27/01/1992 n. 116 e legge 12/10/1993, n. 442), e in due ambiti distinti connessi con la riproduttività: l’interruzione volontaria di gravidanza e gli interventi di procreazione medicalmente assistita.

Sono gli artt. 9 e 16 della legge 22 maggio 1978, n. 194 a regolamentare e disciplinare puntualmente l’istituto dell’obiezione di coscienza rispetto agli interventi interruttivi, sia nell’oggetto «attività specificatamente e necessariamentedirette a determinare l’interruzione della gravidanza», che nelle formalità che deb-bono essere seguite «ladichiarazionedell’obbiettoredeve essere comunicataalmedicoprovinciale e, nel caso di personale dipendente dall’ospedale o dallaCasa di cura, anchealdirettoresanitario,entrounmesedall’entratainvigoredellaleggeodalconseguimentoall’abilitazione o dall’assunzione presso un ente tenuto a fornire prestazioni dirette all’in-terruzione di gravidanza o dalla stipulazione di una convenzione con enti previdenziali checomportil’esecuzioneditaliprestazioni». E ancora «L’obiezione di coscienza esonera ilsanitarioedesercenteleattivitàspecificatamenteenecessariamentediretteadeterminarel’interruzionedigravidanza,enondall’assistenzaantecedenteeconseguenteall’intervento» e«Puòsempreessererevocataovenirepropostaaldifuorideitermini[…]maintalecasoladichiarazioneproduceeffettodopounmesedallasuapresentazionealmedicoprovinciale».

Quanto al personale sanitario ed esercente le attività sanitarie, titolari del diritto, l’obiezione di coscienza «Nonpuòessereinvocataquando,datalaparticolaritàdellecircostanze,illoropersonaleinterventoèindispensabilepersalvarelavitadelladonnainimminentepericolodivita».

Analogamente, l’art. 16 della legge n. 40/2004 disciplina in maniera chiara e puntuale l’obiezione di coscienza nell’ambito degli interventi di procreazione medicalmente assistita.

Il 28 maggio del 2004 il Comitato nazionale per la bioetica, cui l’Ordine dei Medici di Venezia aveva posto il quesito se il medico potesse appellarsi all’obiezione di coscienza per rifiutare la prescrizione o la somministrazione di Levonorgestrel per la contraccezione di emergenza post-coitale in riferimento ai suoi possibili effetti post-fertilizzazione, espresse il parere che si riconosceva

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7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 303

al medico la possibilità di rifiutare la prescrizione appellandosi alla cosiddetta clausola di coscienza (dal latino clausola, e dal verbo claudere, chiudere).

Alquanto discutibile apparve la scelta di sovrapporre le modalità di eserci-zio del diritto alla clausola di coscienza con quelle previste dalla legge 194/1978 per l’obiezione di coscienza (che, intanto, produce il suo effetto se comunicata allaAutorità sanitaria un mese prima), anche perché è sembrata avere “inges-sato” pericolosamente e voluto “giuridificare” l’esercizio della clausola di coscienza che è un diritto molto più ampio e flessibile dell’obiezione.

Probabilmente il motivo per cui il Comitato nazionale per la bioetica ha affiancato e sovrapposto questo lemma alla libertà di coscienza, nel lessico professionale, questo lemma è da ricercarsi nella difficoltà di rispondere posi-tivamente al quesito dell’Ordine di Venezia sulla “pillola del giorno dopo”.

Non poteva, infatti, condizionare quella prescrizione con il ricorso all’obie-zione di coscienza prevista dalla legge 194 sull’interruzione di gravidanza, dal momento che il mondo scientifico è diviso tra chi attribuisce al meccanismo di azione di questo tipo di farmaci un effetto “intercettivo”, e non abortivo e chi lo ritiene decisamente “abortivo”, in base alle differenti convinzioni etiche sul momento dell’inizio della vita, privo di certezze scientifiche dimostrate.

Tuttavia il ricorso a questa locuzione, che nella lingua italiana ha vari significati, a proposito della contraccezione post-coitale, «non introduce nes-suna ulteriore sovrastruttura rispetto alla libertà di coscienza garantita dalla Carta Costituzionale e rafforzata dal Codice deontologico, che prevede che il medico possa rifiutare la propria opera nel caso in cui gli siano richieste prestazioni che contrastino con la sua coscienza e/o con il suo convinci-mento clinico (art. 22), nonché il diritto all’obiezione di coscienza in due distinti ambiti connessi con la riproduttività (artt. 43 e 44)». Tuttavia, è di tutto interesse osservare come la deontologia professionale, pur non espli-citandola semanticamente, non definisca la libertà di coscienza come una mera opzione della prassi professionale ma come perno che garantisce l’au-tonomia diagnostico-terapeutica del medico rafforzata dall’esplicito livello di responsabilizzazione richiestogli nel fornire comunque alla persona «… ogni utileinformazioneechiarimento».

«Un’autonomia diagnostica-terapeutica necessariamente responsabile che, evidentemente, pone il medico nel diritto/dovere di agire rispettando la pro-pria coscienza (e i propri valori morali) oltre al suo convincimento clinico, con

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Manuale della Professione Medica304

il solo limite che non provochi un grave e immediato nocumento alla salute della persona assistita».

Non si deve dimenticare che l’efficacia del metodo è tanto più elevata quanto prima si inizia il trattamento dopo un rapporto non protetto e che, pertanto, il farmaco deve essere assunta preferibilmente entro 12 ore dopo il rapporto sessuale e non oltre le 72 ore.

Le numerose denunce, comparse sulla stampa d’informazione e pervenute alla FNOMCeO, da parte di cittadine che, specialmente nei giorni prefestivi e festivi, avevano incontrato difficoltà ad esercitare il diritto di ottenere il far-maco per il rifiuto di prescriverlo opposto da alcuni medici nei Pronto Soc-corso ospedalieri, o dagli operatori della Continuità Assistenziale, ha indotto il Presidente della FNOMCeO, nel dicembre del 2006 a invitare questi colleghi, «piùespostiaeventualidenunceperomissionediattid’ufficioconseguentiallamancatapre-scrizione,atrovareilgiustoequilibriotraildirittodelmedicoall’obiezionedicoscienzaeildirittodellepersoneaunaprestazioneche,peraltro,l’ordinamentogiuridicoriconoscecomedovutoaiConsultorifamiliari(art.1dellalegge405/1975)».

Cembrani F. La clausola di coscienza e l’obiezione: solo una questione di lessico? Professione, 2008, 2: 14-22.

Art. 15 - Pratiche non convenzionali

Il ricorso a pratiche non convenzionali non può prescindere dal rispetto del decoro e della dignità della professione e si esprime nell’esclusivo ambito della diretta e non delegabile responsabilità professionale del medico.Il ricorso a pratiche non convenzionali non deve comunque sottrarre il citta-dino a trattamenti specifici e scientificamente consolidati e richiede sempre circostanziata informazione e acquisizione del consenso.È vietato al medico di collaborare a qualsiasi titolo o di favorire l’esercizio di terzi non medici nel settore delle cosiddette pratiche non convenzionali.

Nel maggio del 2002, in un convegno organizzato dalla FNOMCeO a Terni, fu votato un documento nel quale si affermava che l’esercizio delle medicine non convenzionali era da ritenersi a tutti gli effetti un atto medico, esercitato e gestito esclusivamente dal medico-chirurgo e odontoiatra, con l’acquisizione dell’esplicito consenso consapevole del paziente, e purché tali

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7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 305

cure non sottraessero il malato alla disponibilità di terapie scientificamente accreditate.

Il medico che offre questi trattamenti all’assistito ne risponde, dunque, in prima persona, dopo averne raccolto personalmente il consenso e avere illustrato vantaggi e svantaggi di una proposta curativa che, comunque non lo sottragga a terapie efficaci consolidate.

L’agopuntura, l’omeopatia, la medicina tradizionale cinese, le manipola-zioni osteo-articolari, la medicina ayurvedica e altre numerose “pratiche” sono di volta in volta connotate come: complementari, non convenzionali, integra-tive, tradizionali, eretiche, non ortodosse, olistiche, naturali o dolci. Esse sono discretamente diffuse in Italia e nel resto del mondo, anche se non possiedono alcuna evidenza scientifica a supporto della loro efficacia e, contrariamente all’opinione diffusa che la loro “naturalità” sia sinonimo di innocuità, non sono esenti da rischi.

I cittadini, che hanno il diritto di curarsi come meglio credono, spesso vi ricorrono autonomamente, senza consultare né informare il medico curante, con conseguenze che possono essere anche gravi, dei quali la cronaca porta numerosi esempi. I più frequenti sono il ritardo di una diagnosi e l’abbandono o la sosti-tuzione di terapie farmacologiche efficaci con preparati “naturali” non adeguati.

Le preparazioni derivanti da piante medicinali, dotate di proprietà farmaco-logiche vere e proprie, possono “spiazzare” o neutralizzare l’efficacia dei far-maci convenzionali assunti contemporaneamente, o produrre reazioni avverse anche gravi.

I rischi derivanti dall’uso delle medicine non convenzionali sono monito-rati dal Centro Nazionale di Epidemiologia. Sorveglianza e Promozione della Salute (Cnesps) dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), attivato nell’aprile del 2002.

Le segnalazioni di farmacovigilanza sui farmaci derivanti da piante medi-cinali, giunte a un Comitato scientifico multidisciplinare sono state oltre 400 da quando il Centro è stato attivato, e quasi sempre hanno riguardato eventi gravi.

Particolare attenzione deve essere anche rivolta alla sorveglianza di quei prodotti “salutistici”, “notificati” e “non registrati” al Ministero della Salute sotto il nome di “integratori alimentari” salutistici, privi cioè di proprietà tera-peutiche dimostrate scientificamente, ma vantati come agenti terapeutici.

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L’ISS ha lanciato recentemente una campagna informativa sul corretto uso delle medicine non convenzionali, per consentire ai cittadini scelte consape-voli, e alla quale ha dedicato un sito (Per saperne di più. www.iss.it), e diffuso un poster e un decalogo, condiviso e sottoscritto da numerose società di medicina non convenzionale.

Art. 29 - Fornitura di farmaci

Il medico non può fornire i farmaci necessari alla cura a titolo oneroso.

Art. 30 - Conflitto di interesse

Il medico deve evitare ogni condizione nella quale il giudizio professionale riguardante l’interesse primario, qual è la salute dei cittadini, possa essere indebitamente influenzato da un interesse secondario.Il conflitto di interesse riguarda aspetti economici e non, e si può manifestare nella ricerca scientifica, nella formazione e nell’aggiornamento professionale, nella prescrizione terapeutica e di esami diagnostici e nei rapporti individuali e di gruppo con industrie, enti, organizzazioni e istituzioni, nonché con la pubblica amministrazione.Il medico deve:

– essere consapevole del possibile verificarsi di un conflitto di interesse e valutarne l’importanza e gli eventuali rischi;

– prevenire ogni situazione che possa essere evitata;– dichiarare in maniera esplicita il tipo di rapporto che potrebbe influenzare

le sue scelte consentendo al destinatario di queste una valutazione critica consapevole.

Il medico non deve in alcun modo subordinare il proprio comportamento prescrit-tivo ad accordi economici o di altra natura, per trarne profitto per sé e per altri.

Il Codice deontologico vieta al medico, all’art. 29, di poter fornire al proprio assistito farmaci a titolo oneroso; anzi, il sanitario, se può e possiede confezioni di farmaco idoneo all’uopo nel suo ambulatorio, deve fornirli all’assistito gratuita-

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7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 307

mente e in assenza prescriverli nella forma più idonea, possibilmente meno one-rosa, e comunque dopo aver fornito al paziente spiegazioni sul fatto che molecole uguali hanno costi diversi nel settore farmaceutico, a seconda della casa farmaceu-tica produttrice e, quindi, evidentemente, lasciare al paziente, secondo le proprie possibilità, di acquisire poi il medesimo farmaco sotto denominazione diverse.

Lo chiede anche l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato al Governo e al Parlamento, in una segnalazione approvata nella riunione del 9 novembre 2006.

Per l’Autorità questa misura potrebbe ridurre gli effetti del conflitto di interesse in medicina legato al finanziamento, da parte delle imprese farma-ceutiche, delle spese di viaggio e di ospitalità ai medici in occasione di corsi, convegni, congressi e visite ai laboratori e ai centri di ricerca aziendali.

Contestualmente verrebbe favorita la concorrenza fra farmaci, incenti-vando l’utilizzo dei farmaci generici o, in ogni caso, di quelli a più basso costo, facilitando la riduzione della spesa farmaceutica a carico delle famiglie e del Servizio Sanitario Nazionale.

Secondo l’Autorità dovrebbe in ogni caso essere fatta salva la possibilità, per il medico, di specificare, per motivi clinici, la non sostituibilità del farmaco.

La segnalazione sottolinea che l’ospitalità dei medici a carico del settore farmaceutico rappresenta un aspetto rilevante, anche se non esaustivo, del con-flitto di interesse in medicina: è un fenomeno da mettere sotto osservazione e disciplinare, anche per evitare distorsioni della libera concorrenza.

L’art. 30 del CDM, invece, disciplina proprio il conflitto di interesse, inten-dendosi con esso quell’insieme di condizioni in cui un giudizio professionale che riguarda un interesse primario tende a essere influenzato in maniera ecces-siva da un interesse secondario.

L’interesse primario di un medico è certamente la salute del suo paziente, così come l’interesse primario di un ricercatore è la conoscenza scientifica.

L’interesse secondario, invece, può essere di natura finanziaria, ma può anche riguardare il prestigio personale, la carriera professionale, l’ambizione personale.

Il conflitto di interesse è una condizione, non un comportamento e di questi tempi se ne fa un gran parlare, riferendosi al fatto che oggi la ricerca, l’informazione e, entro certi limiti, la formazione dei medici, sono finanziate dalle aziende produttrici di farmaci e di dispositivi sanitari che i medici stessi prescrivono. Non c’è bisogno che l’opera del medico quale agente del paziente

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(dettata da scienza e coscienza) sia influenzata in maniera evidente anche da altri interessi estranei e diventi anche attività di intermediazione tra produt-tori di beni e fruitori limitati nella loro autonoma capacità di giudizio, quali i pazienti nel momento del bisogno assistenziale, ma è sufficiente che esista un legame che possa compromettere l’indipendenza del giudizio del professio-nista sanitario. Pertanto, come afferma Panti, «non ci si riferisce al conflitto di interesse sotto il profilo giuridico bensì sotto quello etico, come giudizio valoriale». Più in generale il conflitto di interesse in medicina è collegato a una più vasta tela di relazioni tra ricerca scientifica, farmacologia, prevenzione e cura, industria farmaceutica, e la soluzione del problema va cercata prima di tutto sul terreno etico e nell’aumento delle risorse pubbliche da destinare alla ricerca scientifica.

Sul piano concorrenziale, il conflitto di interesse può comportare possibili distorsioni a favore delle industrie che spendono di più in finanziamenti di iniziative convegnistiche.

Misure volte a favorire la concorrenza tra imprese e il confronto tra far-maci equivalenti sono dunque senz’altro preferibili a interventi che inducano le imprese a riduzioni concertate del finanziamento delle spese di viaggio e di ospitalità per i medici. Ciò almeno fino a quando l’intervento sulle risorse pubbliche nel settore interessato non sarà adeguato alle necessità.

In senso giuridico infatti il conflitto di interesse si realizza nell’ipotesi di comparaggio al quale si può resistere, e trionfa la probità intellettuale, o cedere, e si commette un reato. Il comparaggio, infatti, è vietato (art. 31 CDM), in quanto reato (confronta anche artt. 170-172 TUSL), e implica un patto, pre-liminare, diretto a far valere un interesse diverso rispetto a quello etico, e «ha per oggetto non l’atto professionale nella sua totalità, bensì semplicemente una modalità di esso, cioè il contenuto della prescrizione da parte del sanitario si realizzerebbe ugualmente senza l’accordo illecito [che] viene a condizionare soltanto il contenuto della prestazione […] tale contenuto non è di per sé anti-giuridico [lo…] diventa solo in forza dell’accordo illecito» .

In senso etico invece la questione è diversa, in quanto nell’esercizio quoti-diano della medicina esistono condizionamenti che pongono in reciproco con-trasto gli interessi del terzo pagante, del produttore e del cittadino: tra questi, il medico dovrebbe essere arbitro attento solo al bene del paziente, pur nella consapevolezza dei limiti delle risorse disponibili, invero lo stesso non garan-

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7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 309

tisce sempre la sua libertà di giudizio. Nella Carta della Professionalità Medica è scritto che «il giudizio professionale riguardante un interesse primario come la salute dei cittadini può essere influenzato indebitamente da un interesse secondario del professionista (guadagno economico, vantaggi di carriera ecc.)» e si aggiunge che i medici «hanno l’obbligo di riconoscere, rendere pubblici e affrontare i conflitti di interesse che si presentano nello svolgimento dei loro compiti o attività professionali».

Si veda sul tema anche l’articolato parere di Barni dal titolo Il conflitto diinteresse:dalla soggezionealla responsabilitàmedica, recentemente pubblicato sulla Rivista Italiana di Medicina Legale.

Il problema del conflitto di interesse è poi sempre più di attualità nelle riviste scientifiche internazionali. Lancet ha esaminato gli eventuali conflitti di interesse degli autori degli articoli che gli sono stati sottoposti nel 2003, e ne ha respinto alcuni ad esempio perché il protocollo stabiliva che lo sponsor avesse il controllo dei dati della sperimentazione e potesse utilizzarli a suo piacere, naturalmente decidendo di pubblicare solo dati favorevoli ai suoi loro prodotti; oppure perché il protocollo stabiliva che la pubblicazione dei dati generati dal trial poteva essere decisa solo di comune accordo fra gli sperimentatori e lo sponsor e non dal solo sperimentatore; infine perché documentavano un’alta incidenza di alcune malattie e alcuni autori avevano rapporti di collaborazione con industrie che producevano farmaci indicati per il trattamento di quelle stesse malattie e così via.

Certamente gli autori che hanno legami finanziari con compagnie che pro-ducono tabacco riferiscono dati costantemente rassicuranti sul fumo passivo, mentre gli studi sui farmaci contraccettivi di terza generazione finanziati dalle ditte che li producono sono più rassicuranti sulla trombosi di quelli prodotti da istituzioni pubbliche, solo per fare alcuni esempi.

Una revisione sistematica di studi sul rapporto fra autori e industria con-clude che la ricerca sponsorizzata tende costantemente a raggiungere conclu-sioni favorevoli ai prodotti delle industrie sponsorizzanti e questo porta le riviste scientifiche più indipendenti ad adottare la “diffidenza” come regola; in effetti però le riviste hanno l’obbligo di darsi delle regole anche per tracciare un confine fra ciò che le riviste stesse possono ospitare e ciò che non possono ospitare proprio in relazione a questo problema del conflitto di interesse, la sensibilità verso il quale è emersa specialmente nell’ultimo decennio e sta visto-

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samente crescendo, anche se meno nel nostro paese rispetto ad altri.Intanto, in Italia, l’applicazione della ECM pone il problema del conflitto

di interesse proprio nel campo della formazione. Il CIRB (Coordinamento per l’Integrità della Ricerca Biomedica; www.cirb.it) ha inviato al Ministro e alla commissione ECM una lettera, nella quale pone il problema della defini-zione del conflitto di interesse, visto che l’organizzatore deve rispondere a una domanda che recita: «Le fonti di finanziamento configurano incompatibilità o conflitti di interesse?»

Il collegato alla legge finanziaria 2003 al comma 25 dell’art. 48 stabilisce che i relatori e gli organizzatori di convegni devono dichiarare gli eventuali conflitti di interesse; attualmente, gli organizzatori, alla domanda 29, hanno finora risposto di non avere mai ravvisato conflitti di interesse.

Ma che cos’è il conflitto di interesse? Chi lo deve dichiarare? C’è in tutto ciò una parte comica: la Commissione ECM ha chiesto a tutti

gli organizzatori che non hanno ancora ottenuto l’accreditamento per eventi già avvenuti di farsi rilasciare da ogni relatore un’autocertificazione, nella quale venga escluso ogni conflitto di interesse, dato che dichiarazioni mendaci sono punite dal Codice penale. Provocatoriamente qualcuno sostiene che oggi il conflitto di interesse in medicina non esiste.

Può sembrare provocatorio, o retorico, o polemico: le etichette, le prassi, le competenze chiamate in causa sono diverse: dalla bioetica, alla trasparenza, ai codici deontologici, all’auditing dei pari o dei garanti, ai giuramenti di Ippocrate rinnovati-riformulati. L’ipotesi che sottende i dibattiti, le raccomandazioni, le pratiche pervasive e i rituali di autodichiarazione del tipo e del grado di con-flitti di interesse è molto semplice: si assume, come postulato, che il sistema di riferimento per coloro che praticano la medicina sia quello dell’assenza di interessi che non siano quelli di una professionalità autonoma, responsabile solo riguardo al benessere dei pazienti e della salute pubblica. Il conflitto di interesse non potrebbe invero esistere, se cessa il termine di riferimento strut-turale della salute come diritto; il conflitto di interesse si capovolge: riguarda chi pretende di porre come norma operativa principi strutturalmente negati. È ciò che succede per i diritti umani: sono affermati come “indispensabili e obbligatori”, ma devono rispettare e mettersi in lista di attesa rispetto a quelli economici. L’azienda sanità rimanda alla politica globale, che non per nulla ha tolto al “diritto alla salute” la sua qualifica di “fondamentale universale”.

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7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 311

Conflitto d’interesse. Linea-guida inerente l’applicazione dell’art. 30

Premessa

Le situazioni di conflitto di interesse riguardano aspetti economici e non, e possono manifestarsi nella ricerca scientifica, nella formazione e nell’ag-giornamento professionale, nella prescrizione terapeutica e di esami dia-gnostici e nei rapporti con industrie, enti, organizzazioni e istituzioni, non-ché con la pubblica amministrazione.I medici debbono rifiutare elargizioni che possono interferire con le pro-prie decisioni di cui i pazienti sarebbero i destinatari non informati; tali elargizioni possono essere assegnate a strutture pubbliche o a società non a scopo di lucro. I medici possono ricevere compensi, retribuzioni o altre forme di elargi-zione solo attraverso i meccanismi previsti dalla normativa vigente.L’informazione fornita ai medici deve garantire la massima correttezza scientifica e la massima trasparenza. È compito dell’Ordine svolgere azione di supporto e controllo per perseguire tali fini.È compito del medico acquisire strumenti e metodi per esercitare una con-tinua revisione critica della validità degli studi clinici onde poterne esten-dere le acquisizioni alla prassi quotidiana. I medici o le associazioni professionali che effettuano campagne di edu-cazione sanitaria o promuovono forme di informazione sanitaria o par-tecipano alla diffusione di notizie scientifiche attraverso i mass media o la stampa di categoria, debbono manifestare il nome dello sponsor e applicare le norme del presente regolamento, valido anche nei rapporti eventualmente intrattenuti con industrie, organizzazioni e enti pubblici e privati.

Norme specifiche

ricercA scientificA

a. Il ricercatore deve svolgere un ruolo indipendente nella definizione e nella conduzione degli studi, assumendo sempre quale fine essenziale l’interesse dei pazienti, assicurandosi della priorità dell’obiettivo scienti-fico della ricerca;

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b. il ricercatore deve dichiarare gli eventuali rapporti di consulenza o col-laborazione con gli sponsor della ricerca;

c. il ricercatore deve applicare sempre regole di trasparenza, condurre l’ana-lisi dei dati in modo indipendente rispetto agli eventuali interessi dello sponsor e non accettare condizioni per le quali non possa pubblicare o diffondere i risultati delle ricerche, senza vincoli di proprietà da parte degli sponsor, qualora questi comportino risultati negativi per il paziente;

d. se la pubblicazione, anche quando non sia frutto di specifica ricerca, è sponsorizzata il nome dello sponsor deve essere esplicitato;

e. chiunque pubblichi redazionali o resoconti di convegni o partecipi a conferenze stampa deve dichiarare il nome dell’eventuale sponsor;

f. il ricercatore e i membri dei comitati editoriali debbono dichiarare alla rivista scientifica, nella quale intendono pubblicare, il ruolo avuto nel progetto e il nome del responsabile dell’analisi dei dati;

g. il ricercatore deve vigilare sugli eventuali condizionamenti, anche economici, esercitati sui soggetti arruolati nella ricerca, in particolare rispetto a coloro che si trovano in posizione di dipendenza o di vulne-rabilità;

h. il medico non deve accettare di redigere il rapporto conclusivo per la pubblicazione di una ricerca alla quale non ha partecipato;

i. il ricercatore non può accettare clausole di sospensione della ricerca a discrezione dello sponsor ma solo per motivazioni scientifiche o etiche comunicate al Comitato Etico per la convalida.

I medici operanti nei Comitati Etici per la Sperimentazione sui Farmaci (CESF) e nei Comitati Etici Locali (CEL) devono rispettare le regole di trasparenza della sperimentazione prima di approvarla e rilasciare essi stessi dichiarazione di assenza di conflitti di interesse. Le norme di cui sopra si applicano anche agli studi multicentrici.

AggiornAmento e formAzione

a. I medici non possono percepire direttamente finanziamenti allo scopo di favorire la loro partecipazione a eventi formativi; eventuali finan-ziamenti possono essere erogati alla Società Scientifica organizzatrice dell’evento o all’Azienda sanitaria presso la quale opera il medico;

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7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 313

b. il finanziamento da parte delle industrie a congressi e a corsi di for-mazione non deve condizionare la scelta sia dei partecipanti che dei contenuti, dei relatori, dei metodi didattici e degli strumenti impie-gati; la responsabilità di tali scelte spetta al responsabile scientifico dell’evento;

c. il medico non può accettare ristoro economico per un soggiorno supe-riore alla durata dell’evento, né per iniziative turistiche e sociali aggiun-tive e diverse da quelle eventualmente organizzate dal congresso né ospitalità per familiari o amici;

d. i relatori ai congressi hanno diritto ad un compenso ragionevole per il lavoro svolto, in particolare di preparazione, ed al rimborso delle spese di viaggio, alloggio e vitto;

e. il responsabile scientifico vigila affinché il materiale distribuito dall’in-dustria nel corso degli eventi formativi sia rispondente alla normativa vigente e che le voci di spesa relative al contributo dello sponsor, siano chiaramente esplicitate dalla società organizzatrice;

f. i relatori nei mini-meeting, organizzati dalle industrie per illustrare ai medici le caratteristiche dei loro prodotti innovativi, devono dichiarare gli eventuali rapporti con l’azienda promotrice;

g. è fatto divieto ai medici di partecipare ad eventi formativi, compresi i mini-meeting, la cui ospitalità non sia contenuta in limiti ragionevoli o, comunque, intralci l’attività formativa;

h. nel caso in cui i corsi di aggiornamento si svolgano e vengano spon-sorizzati in località turistiche nei periodi di stagionalità, i medici non devono protrarre, oltre la durata dell’evento, la loro permanenza a carico dello sponsor;

i. il medico, ferma restando la libertà delle scelte formative, deve parteci-pare a eventi la cui rilevanza medico-scientifica e valenza formativa sia esclusiva.

lA prescrizione dei fArmAci

La pubblicità dei medicinali effettuata dall’industria farmaceutica tesa a promuoverne la prescrizione, deve favorire l’uso razionale del medicinale, presentandolo in modo obiettivo senza esagerarne le proprietà, e non può essere ingannevole.

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a. L’Ordine collabora, ove richiesto, alla attuazione e alla verifica dei sud-detti precetti e favorisce l’informazione indipendente e la formazione alla lettura critica della letteratura scientifica;

b. il medico è tenuto a non sollecitare e a rifiutare premi, vantaggi pecu-niari o in natura, offerti da aziende farmaceutiche o da aziende fornitrici di materiali o dispositivi medici, salvo che siano di valore trascurabile e comunque collegati all’attività professionale; il medico può accettare pubblicazioni di carattere medico-scientifico;

c. i campioni di farmaci di nuova introduzione possono essere accettati dai medici per un anno dalla loro immissione in commercio;

d. i medici ricevono gli informatori scientifici del farmaco in base alla loro discrezionalità e alle loro esigenze informative senza provocare intral-cio all’assistenza; dell’orario di visita è data notizia ai pazienti mediante informativa esposta nelle sale di aspetto degli ambulatori pubblici o privati e degli studi professionali;

e. il medico non deve sollecitare la pressione delle associazioni dei malati per ottenere la erogazione di farmaci di non provata efficacia;

f. i medici facenti parte di commissioni di aggiudicazione di forniture non pos-sono partecipare a iniziative formative a spese delle aziende partecipanti.

Le norme che disciplinano la prescrizione dei farmaci, una delle decisioni più importanti del medico, sono illustrate all’art. 13. Per il conflitto d’inte-resse in tema di prescrizione terapeutica, l’art. 30 è perentorio: il medico non deve in alcun modo subordinare il proprio comportamento prescrit-tivo ad accordi economici o di altra natura per trarne indebito profitto per sé o per altri. Una circostanza, quest’ultima, nella quale si configura, peral-tro, il reato di comparaggio, punibile penalmente oltre che vietato espressa-mente dal Codice nel successivo art. 31, e che travalica i limiti “morali” di una personale valutazione di un conflitto di interessi.

Art. 31 - Comparaggio

Ogni forma di comparaggio è vietata.

Quest’articolo nel vietare “ogni forma” di “comparaggio” rimanda, per la definizione del comportamento che in concreto costituisce illecito disciplinare,

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7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 315

al corrispondete reato previsto, per quanto riguarda i medici, dall’art. 170 del RD n. 1265 del 1934. Occorre, dunque, far riferimento alla fattispecie delit-tuosa in oggetto per verificare anche il contenuto dell’illecito disciplinare.

L’art. 170, che è inserito nel testo Testo Unico delle Leggi Sanitarie (TULS), pone un preciso divieto, per il medico, di ricevere, per sé o per altri, denaro o altre utilità ovvero di accettarne la promessa, allo scopo di agevolare, con prescrizioni mediche o in qualsiasi altro modo, la diffusione di medicinali o di altri prodotti a uso farmaceutico. Il reato, in seguito alla modifica delle san-zioni introdotta dall’art. 16 DLgs n. 541/92, è punito con la pena congiunta dell’arresto fino ad un anno e con una ammenda. La condanna in sede penale comporta anche la sanzione accessoria della sospensione dell’esercizio della professione per un periodo di tempo pari alla durata della pena inflitta.

Scopo evidente della norma è quello di tutelare la salute pubblica con-tro i pericoli che possono derivare da prescrizioni operate deliberatamente dai medici per finalità di lucro e non per esigenze sanitarie. Si tratta, quindi, di un reato doloso punito severamente, tenuto anche conto della sanzione accessoria che finisce con l’incidere sulla possibilità di esercitare la professione, sia pure per un periodo di tempo limitato.

La norma, peraltro, stabilendo che, se il comportamento del medico violi altre disposizioni di legge, si applicano le relative sanzioni secondo le norme sul concorso dei reati, impone all’interprete di verificare quale sia il confine tra l’art. 170 TULS e gli reati ipotizzabili che possono essere più gravi, come ad esempio quello di corruzione di cui all’art. 319 del Codice penale, o considerati di pari gravità dal legislatore, come quello previsto dall’art. 123 DLgs n. 219/06.

Il medico deve essere consapevole dei diversi rischi che corre violando queste normative che sono finalizzate a proteggere diversi interessi pubblici e che, come nel caso della corruzione, sono punite anche con pene di diversa gravità.

L’art. 123 del DLgs n. 219/06, infatti, al primo comma, vieta – nell’ambito dell’attività di informazione e presentazione dei medicinali – la concessione o promessa ai medici di premi o vantaggi pecuniari o in natura da parte dei sog-getti a ciò abilitati, salvo che «siano di valore trascurabile e siano comunque collegabili all’attivitàespletatadalmedico». Nel contempo, al terzo comma di questa norma, è posto il divieto per i sanitari di sollecitare o accettare dagli informatori scien-tifici gli incentivi la cui concessione o promessa è vietata nel primo comma.

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Manuale della Professione Medica316

La violazione di questo divieto è punita, ai sensi dell’art. 147 del DLgs n. 219/06 con l’arresto fino ad un anno e con l’ammenda da quattrocento a mille euro. Anche in questo caso la condanna in sede penale comporta anche la sanzione accessoria della sospensione dell’esercizio della professione per un periodo di tempo pari alla durata della pena inflitta.

L’art. 319 del Codice penale, a sua volta, vieta ai pubblici ufficiali (sono consi-derati tali dalla giurisprudenza sia i medici che operano nelle strutture del Servizio Sanitario Nazionale, sia i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta nell’esercizio della loro attività in convenzione) di ricevere, per sé o per un terzo, in denaro o altre utilità, retribuzioni che non sono dovute ovvero di accettarne la promessa, per compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio (ad esempio, una prescrizione di medicinali a carico del Servizio Sanitario Nazionale a soggetto non affetto dalla patologia per la quale il farmaco è indicato o all’insaputa del malato che, quindi, non ne viene in possesso, effettuata al solo scopo di favorire la vendita di questi prodotti in cambio di somme di denaro). La pena prevista per questo delitto, considerato molto grave dal legislatore perché contro la pubblica amministrazione, è quella detentiva (da due a cinque anni di reclusione). Ai sensi dell’art. 31 del Codice penale alla condanna per questo delitto consegue l’interdi-zione temporanea dal pubblico ufficio ricoperto dall’autore del fatto.

L’interpretazione della Giurisprudenza sui rapporti “di confine” tra comparaggio e gli altri reati ipotizzabili a carico del medico

La questione dei rapporti tra i reati descritti nelle loro linee generali nel paragrafo che precede è stata esaminata dalla Giurisprudenza in un caso che riguardava l’accertato rapporto illecito triangolare tra un informatore farma-ceutico, un medico di medicina generale e un farmacista, verificato attraverso l’uso di intercettazioni telefoniche e di altri accertamenti, anche bancari. In questa fattispecie, decisa dalla Corte di Cassazione, prima sezione penale, con sentenza n. 42750/07, emerge, tra l’altro, che un medico di base convenzionato con il Servizio Sanitario Nazionale e, quindi, pubblico ufficiale, aveva prescritto un numero elevato di farmaci prodotti dalle case farmaceutiche rappresentate dall’informatore in questione, prescindendo dalle effettive esigenze terapeuti-che degli assistiti, dietro corresponsione di consistenti somme di denaro.

La Suprema Corte, chiamata ad esaminare il rapporto tra l’ipotizzata viola-zione del norma di cui all’art. 170 TULS in tema di comparaggio e il contestato

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7. Gli accertamenti diagnostici e i trattamenti terapeutici 317

delitto di corruzione di cui all’art. 319 del Codice penale, ha stabilito che tra le due norme non ricorre un rapporto di specialità, attesa la diversità del bene giuridico tutelato e l’atteggiarsi del dolo, e, quindi, entrambe potevano essere applicate alla fattispecie in base alla normativa sul concorso dei reati, sussisten-done i presupposti di legge.

La Cassazione non ha mancato di sottolineare che questa conclusione era giustificata dalla riserva contenuta nel secondo comma dell’art. 170 TULS sul comparaggio («seilfattoviolipurealtredisposizionidilegge,siapplicanolerelativesanzionisecondolenormesulconcorsodeireati»), nonostante «la labilità della linea di demarcazione segnatadallegislatoreperledistintefattispecie» della corruzione e del comparaggio.

Questa conclusione deve essere tenuta ben presente dai sanitari perché il delitto di corruzione prevede sanzioni penali molto più pesanti della contrav-venzione di comparaggio, come sopra evidenziato.

La Cassazione con questa decisione ha esaminato anche il rapporto inter-corrente tra la violazione dell’art. 123 DLgs n. 219/06 e il mancato rispetto della disposizione sul divieto di comparaggio contenuta nell’art. 170 TULS.

La Corte, al riguardo, ha affermato che la prima contravvenzione, prodro-mica rispetto al tradizionale reato di comparaggio, è stata introdotta dal legislatore a tutela anticipata della correttezza dell’attività promozionale in campo farma-ceutico, del mercato e della concorrenza nel settore, e indirettamente anche a tutela della salute dei cittadini. Se, infatti, la promessa o la dazione di denaro o altra utilità al sanitario, sono eseguite nel medesimo contesto informativo, ma allo scopo specifico «di agevolare la diffusione di specialità medicinali o di ogni altro prodottoadusofarmaceutico», si configura la diversa e autonoma fattispecie illecita del “comparaggio” di cui all’art. 170 TULS.

Le condotte tenute dal medico in violazione dell’art. 123 DLgs n. 219/06 ovvero dell’art. 170 TULS o ancora dell’art. 319 del codice penale sono tutte, comunque, rilevanti sul piano deontologico perché contrastano con i principi fondamentali dell’etica medica che vieta ai sanitari prescrizioni di medicinali in cambio di premi o vantaggi indebiti.

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La sperimentazione

A.Pagni

Art. 47 - Sperimentazione scientifica

Il progresso della medicina è fondato sulla ricerca scientifica che si avvale anche della sperimentazione sull’animale e sull’uomo.

L’introduzione allo studio della medicina sperimentale, del fisiologo francese C. Ber-nard, pubblicata nel 1865, rappresentò una tappa miliare nella medicina trasfor-mando una pratica, sino allora empirica, nell’esercizio di una professione che attingeva la validità delle sue congetture e conoscenze dalla ricerca scientifica.

Le nuove conoscenze derivanti dall’ingresso della sperimentazione nella medicina, le permisero di rendersi indipendente da ogni specifica concezione filosofica, con le quali aveva mantenuto uno stretto rapporto lungo tutto il Medio Evo, e l’epoca rinascimentale, per attenuarsi nel XVII secolo con la nascita del metodo sperimentale (G. Galilei, Newton, F. Bacone ecc.).

Ilmetodosperimentale,genericamenteinteso,constaditrefasi: la prima consiste nell’os-servazione dei fatti significativi; la seconda nel giungere a un’ipotesi, che, se vera, deve spiegare questi fatti; la terza nel dedurre conseguenze, da quell’ipotesi. Se le conseguenze sono confermate, l’ipotesi è provvisoriamente ritenuta “vera”, anche se in seguito potrà essere modificata, con la scoperta di altri fatti.

Nel XX secolo, dopo i successi della medicina biologica nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento, il cammino della medicina e della filosofia hanno cominciato ad incontrarsi di nuovo. Sia perché la scienza stava divenendo un fattore importante nella determinazione della vita biologica dell’individuo, nelle forme familiari, negli assetti sociali e nello stesso ambiente naturale.

E sia perché si evidenziava che l’intero sviluppo della conoscenza scienti-fica, (condizionata da fattori extrascientifici, storici, sociali, pratici e metafisici),

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Manuale della Professione Medica320

aveva un carattere provvisorio e approssimativo (che non offriva “verità” ma semplici “congetture”), e che i “fatti” ci erano noti solo tramite le teorie all’in-terno di determinati quadri concettuali (paradigmi).

Le riflessioni post-positivistiche ed ermeneutiche hanno portato un contributo importante all’analisi epistemologica applicata alla scienza, mentre quelle fenomenologiche,esistenziali,psicanaliticheedellabioetica si sono occupate, in modo nuovo, dell’uomo e del valore e significato della vita.

Tuttavia, né le une, né le altre hanno risolto interamente il genuino pro-blema filosofico posto dalla medicina moderna: la conciliazione in un rapporto dialettico-moraleconilmalato,inunapproccioclinicoche“oggettiva”lapersonasecondoicanonidellascienza,eunorelazionalechenedeverispettarel’autonomiasoggettiva.

Le prime, identificando l’attività del medico con le sole discipline scien-tifiche organicistiche, hanno fornito una descrizione insufficiente dellametodologiaclinica,chenonsiconfiguracomericercascientificadellaverità,macomeapplicazionepraticadelle“verità”scientificheinrelazionealleesigenzeimpostedalcontestoincuisisvolgel’in-contro tra il medico e l’assistito.

Le seconde hanno mostrano difficoltà a comprendere le dinamiche della relazione terapeutica con le persone, che si sviluppa all’interno di una matrice decisionale carica di valori, ma è insieme tributaria di altre discipline (fisiologia, chi-mica,fisica, farmacologia,biologia, genetica, ricerca,psicologia, sociologiadella salute eambiente),calatenellarealtàviventediunuomo,alloscopodiripristinarnelasaluteecurarne le malattie.

Art. 48 - Ricerca biomedica e sperimentazione sull’uomo

La ricerca biomedica e la sperimentazione sull’uomo devono ispirarsi all’in-derogabile principio della salvaguardia dell’integrità psicofisica e della vita e della dignità della persona. Esse sono subordinate al consenso del sog-getto in esperimento, che deve essere espresso per iscritto, liberamente e consapevolmente, previa specifica informazione sugli obbiettivi, sui metodi, sui benefici previsti, nonché sui rischi potenziali e sul diritto del soggetto stesso di ritirarsi in qualsiasi momento dalla sperimentazione. Nel caso di soggetti minori, interdetti e posti in amministrazioni di sostegno è ammessa solo la sperimentazione per finalità preventive e terapeutiche.

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8. La sperimentazione 321

Il consenso deve essere espresso dai legali rappresentanti, ma il medico spe-rimentatore è tenuto ad informare la persona documentandone la volontà e tenendola comunque sempre in considerazione.Ogni tipologia di sperimentazione compresa quella clinica deve essere pro-grammata e attuata secondo idonei protocolli nel quadro della normativa vigente e dopo avere ricevuto il preventivo assenso da parte di un Comitato Etico indipendente.

La ricerca biomedica e la sperimentazione sull’uomo comprende la speri-mentazione biologica, farmacologica, diagnostica, terapeutica, epidemiologica, prenatale e genetica, oltre a quella sui dispositivi e le apparecchiature sanitarie.

La storia della sperimentazione sull’uomo è inscindibile da quella della medicina e condizione necessaria e irrinunciabile per il suo progresso, anche se è relativamente recente la presa di coscienza del dovere di rispettare i più deboli, i detenuti e i minorati nella sua effettuazione, e di salvaguardare in generale i diritti dell’uomo.

L’inizio della riflessione deontologica e legislativa, in tema di sperimenta-zione sull’uomo, si fa risalire tradizionalmente alle conclusioni del Processo di Norimberga (1946-1947), che condannò i medici nazisti per gli esperimenti cri-minali compiuti sui prigionieri nei campi di sterminio. In seguito a questi fatti, per la prima volta nella storia, una Corte di giustizia riconobbe l’ammissibilità della sperimentazione sull’uomo, purché rispettosa dei suoi diritti, e indicò nel cosiddetto Decalogo di Norimberga (agosto 1947) quali principi etici e giuridici dovessero regolarla per consentire di perseguire gli scienziati e i ricercatori che avessero compiuto sperimentazione criminali sulle persone.

Da quel documento storico sono scaturiti tre principi indefettibili: 1. Che la condizione preliminare, “assolutamente essenziale”, allorché si intraprenda una sperimentazione è il consenso libero e informato da parte di chi vi sottopone. 2. Che colui che inizia, dirige o si impegna a condurre la sperimentazione stessa è personalmente responsabile della sua validità scientifica. 3. Che una sperimenta-zione è giustificata sulla base dei risultati che ci si attende di ottenere, e che il livello di rischio «non deve mai superare quello determinato dall’importanza che il pro-blema, da risolvere mediante la sperimentazione, ha dal punto di vista umanitario».

Nonostante si ritenesse che con il processo di Norimberga, si fossero defi-nitivamente archiviati i maltrattamenti delle persone indifese, non mancarono

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negli anni seguenti alcuni episodi di sperimentazioni selvagge, compiute senza il loro consenso, su pazienti anziani, bambini disabili e braccianti di colore.

Dal 1947 ad oggi oltre trenta tra Memorandum, Convenzioni, Linee-Guida, Risoluzioni e Raccomandazioni concernenti i diritti dell’uomo e i fondamenti etici e giuridici della sperimentazione sono stati emanati dall’OMS, dalle istitu-zioni comunitarie e dallo Stato italiano.

Il ricercatore, tuttavia, oltre a rispettare gli articoli del Codice deontolo-gico dei medici (2006), è tenuto a conoscere in particolare le Direttive etiche internazionali per la ricerca biomedica condotta sui soggetti umani (CIOMS, Ginevra, 1993), la versione più recente della Dichiarazione di Helsinki dell’Associazione Medica Mondiale (2000), le Good Clinical Practice (Diret-tiva CEE n. 91/507/1991), la Convenzione di Oviedo (1997), la Dichiara-zione Universale di bioetica e diritti umani (UNESCO 2005), i documenti dell’EMEA, del Consiglio d’Europa, del Comitato Nazionale per la Bioetica, e il regolamento e le Procedure Operative Standards (SOPs) del Comitato di Bioetica.

Art. 49 - Sperimentazione clinica

La sperimentazione può essere inserita in trattamenti diagnostici e/o terapeu-tici, solo in quanto sia razionalmente e scientificamente suscettibile di utilità diagnostica o terapeutica per i cittadini interessati.In ogni caso di studio clinico, il malato non potrà essere deliberatamente privato dei consolidati mezzi diagnostici e terapeutici indispensabili al mante-nimento e/o al ripristino dello stato di salute.I predetti principi adottati in tema di sperimentazione sono applicabili anche ai volontari sani.

Le GoodClinicalPractice(GCP) sono uno standard internazionale di etica e qualità scientifica, per progettare, condurre, registrare e comunicare i risultati relativi agli studi clinici che coinvolgono soggetti umani.

Nessun farmaco può essere autorizzato al commercio se la sua tollerabilità ed efficacia non sono state precedentemente documentate da studi clinici con-trollati e sottoposti a rigide regole etiche e procedurali.

Anche per farmaci già approvati, la richiesta di eventuali nuove indicazioni,

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8. La sperimentazione 323

vie di somministrazione, diverso confezionamento e schema terapeutico deve essere sottoposto a nuovi studi clinici.

Il DM n. 162/7/1997, recependo le linee-guida europee relative alla Buona Pratica Clinica, ha definito sperimentazione clinica, «ogni sperimentazione condotta su soggettiumaniintesaaidentificareoverificareglieffetticlinici,farmacologicie/oaltrieffettifar-macodinamicidiunprodottoinsperimentazione,e/ostudiarel’assorbimento,ladistribuzione,il metabolismo e l’eliminazione di un prodotto in sperimentazione con l’obbiettivo di valutarne sicurezzae/oefficacia.Iterminisperimentazioneclinicaestudioclinicosonosinonimi».

Una sperimentazione clinica nasce, in genere, da un’idea, stimolata dall’osser-vazione clinica e da motivazioni etiche, e può essere proposta e condotta sponta-neamente da uno sperimentatore o da un’organizzazione di cui fa parte, o ideata progettata e proposta da uno sponsor, sia esso una casa farmaceutica o altro ente.

Una tutela particolare deve essere riservata ai soggetti “vulnerabili” (dete-nuti, prigionieri di guerra e condannati a morte) che non possono partecipare volontariamente e liberamente a una sperimentazione, e le leggi disciplinano in dettaglio i problemi etici presenti nelle sperimentazioni condotte sui minori, gli anziani, i disabili, le donne in età fertile e gli affetti da gravi malattie mentali.

La ricerca in Italia è promossa prevalentemente dalle aziende farmaceu-tiche (il 73,7%) perché gli ingenti investimenti richiesti, in termini di tempo, danaro e di risorse umane, possono essere recuperati con l’immissione sul mercato dei principi attivi studiati e dei relativi brevetti.

La collaborazione tra industria e ricercatori ha permesso finora la disponibi-lità di nuovi farmaci efficaci per il miglioramento della salute pubblica, anche se il recente ingresso dei farmaci generici, e la scadenza dei brevetti, pare minacciare gli investimenti in nuove ricerche da parte dell’industria del farmaco.

Questo rapporto di collaborazione destinato a coinvolgere esseri umani, deve garantire la massima trasparenza e credibilità dei risultati, e che il ricerca-tore non possa essere sospettato di conflittodiinteressi.

Una sperimentazione clinica richiede la scelta di un buon disegno stati-stico, una rigorosa progettazione e conduzione, una raccolta e analisi accurata dei dati, una corretta e coerente interpretazione e un’utilizzazione efficace dei risultati., e può essere effettuata in un solo centro (studio monocentrico) o con-dotta, con un unico protocollo, in più strutture e numerosi sperimentatori (studio multicentrico). In quest’ultimo caso il centro coordinatore è rappresentato dal centro promotore dell’iniziativa.

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In una sperimentazione clinica sarebbe auspicabile il coinvolgimento del medico curante del paziente, sia perché ne conosce la storia clinica e personale, e può aiutarlo a dare un assenso consapevole alla proposta di una ricerca, e sia per evitare il rischio di un’interazione tra il farmaco che il paziente sta assu-mendo nella sperimentazione e quelli eventualmente prescritti dal medico di famiglia.

Giova anche ricordare che una sperimentazione terapeutica ha una finalità indi-viduale, la cui rilevanza diagnostico-terapeutica è diretta al paziente stesso e agli altri partecipanti alla ricerca, mentre la sperimentazione non terapeutica (pura o di base) ha una finalità sociale, in quanto la verifica delle ipotesi scientifiche non è direttamente correlata al beneficio di coloro che si sottopongono volon-tariamente alla ricerca. Infine, gli studi osservazionali rappresentano un metodo di osservazione e per lo studio epidemiologico dei dati relativi all’efficacia dei farmaci prescritti nella normale pratica clinica, ma i protocolli adottati, non potendo essere standardizzati come nella sperimentazione interventistica, devono essere ugualmente rigorosi e non influenzati dal marketing di eventuali sponsor.

Conflitto d’interesse

Il conflitto di interesse è ritenuto più una “condizione” che un “comporta-mento, e diviene «moralmente riprovevole soltanto quando provoca compor-tamenti riprovevoli».

Questa definizione eticamente è chiara ma realisticamente incerta, per cui la FNOMCeO ha ritenuto necessario dedicargli oltre a un articolo anche un allegato esplicativo al Codice (vedi pag. 311).

La sponsorizzazione privata è necessaria e ineliminabile nella ricerca, e sia l’azienda farmaceutica che il ricercatore, e anche la società, hanno un interesse legittimo nella sua promozione, purché tra i due contraenti sia stipulato un contratto pubblico, chiaro e trasparente.

Nelle ricerche cliniche promosse dall’industria farmaceutica il ruolo del medico ricercatore può, infatti, assumere carattere subalterno allo sponsor ed essere influenzato, nella valutazione dei dati raccolti, da una ricerca orientata al profitto nel mercato, ma anche nelle ricerche non profit possono prevalere l’ambizione e gli interessi personali del ricercatore, per ottenere finanziamenti pubblici, piuttosto che il desiderio di conoscere la verità.

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8. La sperimentazione 325

La pubblicazione dei risultati di una sperimentazione clinica rappresenta un momento di cruciale importanza perché quei dati, convalidati da referees autore-voli e accreditati, e pubblicati su importanti riviste scientifiche orienteranno le scelte terapeutiche facendo la fortuna commerciale di un farmaco, e potranno avere ripercussioni sulle scelte di politica sanitaria.

In questo ambito si definisce “frode” la diffusione intenzionale di dati falsi o inesistenti. Il Comitato Nazionale di Bioetica ha individuato nelle ricerche promosse dall’industria due categorie di conflitti di interesse: quelli diretti e quelli indiretti.

I primi corrisponderebbero a situazioni nelle quali il medico ricercatore riceve direttamente un compenso per il suo lavoro da parte della committenza industriale.

Gli indiretti si realizzerebbero, invece, quando il ricercatore riceve dall’indu-stria che ha promosso la ricerca non vantaggi in danaro, ma: viaggi e vacanze, borse di studio, partecipazione gratuita a congressi, o concessioni di apparec-chiature “in comodato d’uso”.

Art. 50 - Sperimentazione sull’animale

La sperimentazione sull’animale deve essere improntata a esigenze e finalità di sviluppo delle conoscenze non altrimenti conseguibili e non a finalità di lucro, deve essere condotta con metodi e mezzi idonei a evitare inutili sofferenze e i protocolli devono avere ricevuto il preventivo assenso di un Comitato Etico indipendente. Sono fatte salve le norme in materia di obiezione di coscienza.

L’utilizzo degli animali nella sperimentazione biomedica appare uno degli aspetti più controversi e inconciliabili del rapporto uomo/animale. Il dissidio non riguarda solo la sfera morale di pratiche che provocano sofferenze ad altri esseri, ma anche la validità scientifica di una ricerca ritenuta da alcuni fallace, e non predittiva per l’uomo.

Gli antivivisezionisti sostengono infatti che, oltre alle sofferenze e al sacri-ficio di un alto numero di esseri viventi (12 milioni ogni anno nell’Unione Europea, senza contare i “non vertebrati” non censiti, usati come cavie), le differenze genetiche, metaboliche e biochimiche tra specie diverse, la diversità delle reazioni immunologiche e nosologiche tra uomini e animali e la lunghezza dei tempi di sperimentazione, condizionerebbero l’attendibilità e la trasferibi-lità di queste ricerche all’uomo.

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E qualcuno ha puntato il dito accusatorio anche contro la sperimentazione animale nella cosmetologia per valutare la tollerabilità cutanea di nuovi prodotti.

L’opinione prevalente nella comunità scientifica che studia l’efficacia e la tollerabilità dei farmaci, i meccanismi biochimici e fisiopatologici delle malat-tie, e sperimenta nuove tecniche chirurgiche, sostiene invece che non si possa rinunciare alle sperimentazioni sull’animale, nella convinzione che finora abbiano permesso di acquisire una parte notevole delle attuali conoscenze e risultati altrimenti irraggiungibili nella cura delle malattie. Esse offrirebbero anche opportunità didattiche non sempre sostituibili con soluzioni tecno-logiche alternative: simulatori elettronici, colture in vitro di cellule e tessuti, microrganismi, tecniche di imaging non invasive e sistemi artificiali..

Queste opinioni scientifiche antitetiche, e gli interrogativi etico-morali suscitati da questo tipo di sperimentazioni non hanno certamente resa agevole l’opera del legislatore a livello nazionale, e comunitario.

Anzi, il Parlamento di Strasburgo, dopo due anni di dibattito, di correzioni e di ripensamenti ha approvato l’8 settembre 2010, tra le proteste di 40 eurodepu-tati che hanno abbandonato l’aula, una direttiva più arretrata di quella vigente in Italia (legge del 1992 e seguenti), in tema di sperimentazioni sull’animale.

Le richieste provenienti da un’opinione pubblica sempre più sensibile all’importanza del rispetto degli animali, imporrebbe la ricerca di un ragio-nevole equilibrio tra chi rifiuta aprioristicamente la sperimentazione animale, rivendicando un uguaglianza interspecifica uomo-animale, e chi, altrettanto decisamente, rivendica la libertà assoluta, e la responsabilità autoreferenziale e incontrollata del ricercatore.

Questo articolo del Codice si è attenuto al dettato del DLgs n. 116/92, e alle altre normative nazionali che disciplinano in ogni suo aspetto lo svolgi-mento di attività scientifiche che prevedano l’uso di animali, (compreso il rico-noscimento all’obiezione di coscienza alla vivisezione), senza prendere partito sulla controversia tra utilità e insostituibilità, eticità e legittimità o meno, di questo genere di sperimentazioni.

Riserve e prese di posizioni fortemente critiche sulle norme vigenti non sono mancate, ma allo sperimentatore sarà comunque richiesto di dimostrare, documentare e sottoscrivere: 1. Che non sono disponibili metodi “alternativi”. 2. Che è necessario il ricorso a una determinata specie animale. 3. Che adotterà la metodica sperimentale che richiederà il minor numero di animali, e con il

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8. La sperimentazione 327

più basso sviluppo neurologico. 4. Che questa provocherà meno dolore, soffe-renza, angoscia, o danni durevoli, offrendo le maggiori probabilità di risultati soddisfacenti. 5. Che non riutilizzerà lo stesso soggetto in altri esperimenti. E, infine. 6. Che ricorrerà all’anestesia dell’animale, a meno che non risulti più dolorosa dell’esperimento o non sia incompatibile con il suo fine (necessaria in questo caso una specifica autorizzazione ministeriale).

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9La documentazione dell’attività medica

S.DelVecchio,V.Fineschi

Art. 24 - Certificazione

Il medico è tenuto a rilasciare al cittadino certificazioni relative al suo stato di salute che attestino dati clinici direttamente constatati e/o oggettivamente docu-mentati. Egli è tenuto alla massima diligenza, alla più attenta e corretta registra-zione dei dati e alla formulazione di giudizi obiettivi e scientificamente corretti.

Art. 25 - Documentazione clinica

Il medico deve, nell’interesse esclusivo della persona assistita, mettere la docu-mentazione clinica in suo possesso a disposizione della stessa o dei suoi legali rappresentanti o di medici o istituzioni da essa indicati per iscritto.

Il certificato medico è la forma più diffusa di documentazione dell’atti-vità medica, una testimonianza scritta su fatti e comportamenti tecnicamente apprezzabili e valutabili, la cui dimostrazione può produrre affermazione di particolari diritti soggettivi previsti dalla legge, ovvero determinare particolari conseguenze a carico dell’individuo e della società, aventi rilevanza giuridica e/o amministrativa.

La certificazione di qualsivoglia condizione deve sempre e comunque essere preceduta dalla valutazione clinica del paziente ed è inoltre importante ricordare che il dato clinico deve essere tenuto ben distinto dai sintomi lamen-tati o comunque da quanto riferito dal paziente.

Il medico, nel redigere certificazioni, deve valutare e attestare soltanto dati clinici che abbia direttamente constatato. Nella compilazione di un certificato medico devono essere riportati i seguenti elementi essenziali:

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– intestazione o timbro del medico certificante;– generalità del paziente richiedente (nome, cognome, data di nascita, resi-

denza o domicilio);– oggetto della certificazione con eventuale diagnosi e prognosi di malattia;– firma del medico certificante;– data e luogo di redazione del certificato.

Il certificato deve essere redatto con scrittura e termini comprensibili, senza correzioni e abrasioni che possano far sorgere il dubbio di successive alterazioni o contraffazioni dell’atto, e, nel caso in cui una correzione si ren-desse indispensabile, questa va indicata a chiare lettere e controfirmata con firma leggibile.

Il rilascio del certificato direttamente al paziente oggetto della certificazione rende implicita la sussistenza del consenso informato da parte del richiedente.

È importante ricordare la duplice valenza di questo atto in quanto le even-tuali irregolarità potranno avere tanto rilievo amministrativo quanto rilievo giuridico civile e/o penale. Il rilascio di un certificato falso potrà quindi rilevare un reato ed essere perseguito a livello deontologico, a livello amministrativo, a livello penale e a livello civile.

La natura giuridica del certificato medico può rientrare in una delle tre ipotesi:

– atto pubblico redatto attraverso la certificazione obbligatoria;– certificato amministrativo rilasciato nell’esercizio delle funzioni pubbliche;– scrittura privata rilasciata in regime libero-professionale, durante il quale il

sanitario non svolge funzioni pubbliche.

La distinzione tra atto pubblico (art. 2699 cc) e certificazione amministra-tiva è stata precisata dalla sentenza n. 257 del 3 luglio 1989 della Cassazione penale sez. V ed è rilevante per la maggiore severità con cui vengono puniti gli illeciti nella redazione degli atti pubblici: nell’atto pubblico si attestano fatti compiuti dal medico con funzioni pubbliche o avvenuti in sua presenza, men-tre nella certificazione il medico con funzioni pubbliche attesta fatti da lui rilevati o conosciuti nell’ambito della sua attività.

Va rilevato che sia l’atto pubblico sia la certificazione amministrativa si fondano sul presupposto essenziale che il sanitario li rediga nell’esercizio delle funzioni di pubblico ufficiale (art. 357 cp) o incaricato di pubblico servizio (art. 358 cp).

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9. La documentazione dell’attività medica 331

Sono atti pubblici che presuppongono l’avvenuta visita medica, la pre-scrizione su ricettario regionale di accertamenti diagnostici (sentenza n. 412 del 14 gennaio 1985 della Cassazione penale, sez. V), il certificato di morte e dell’identificazione delle relative cause (sentenza n. 8496 del 17 ottobre1983 della Cassazione penale, sez. V) e il certificato di idoneità alla guida di autovei-coli (sentenza n. 9228 del 22 novembre 1979 e sentenza n. 1429 del 15 novem-bre 1984 della Cassazione penale, sez. V) e quello di idoneità al porto d’armi (DM 28 aprile 1998 in GU n. 143 del 22 giugno 1998).

Sono considerate certificazioni amministrative: la prescrizione di farmaci su ricettario regionale (sentenza n. 6752 del 7 giugno 1988 della Cassazione penale, sez. Unite, e sentenza n. 8051 del 1 giugno 1990 della Cassazione penale, sez. IV) e le altre certificazioni redatte in qualità di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio come, per esempio, i certificati di idoneità all’at-tività sportiva agonistica di cui al DM Sanità 18 febbraio 1992 per gli atleti non professionisti e di cui al DM Sanità 13 marzo 1995 per gli atleti professionisti.

Va rilevato che i certificati di idoneità allo sport agonistico possono essere rilasciati solo da medici specialisti o accreditati, ai sensi del DL n. 633/79 con-vertito in legge n. 33/80.

Ugualmente, i certificati attestanti l’esonero all’uso delle cinture di sicu-rezza per controindicazione derivante da malattia possono essere rilasciati solo dai medici dipendenti o incaricati del SSN ai sensi della legge 4 agosto 1989 e non dai medici di medicina generale, salvo i casi certificanti lo stato di gravi-danza o la statura inferiore a cm 150.

Sono considerate scritture private (art. 2702 cc) le certificazioni redatte dal medico in qualità di libero professionista, definito come esercente un servizio di pubblica necessità (art. 359 cp). Ad esempio: a) i certificati di assenza di controin-dicazioni per l’esercizio dell’attività sportiva non agonistica ai sensi del DM Sanità del 28 febbraio 1983; b) la proposta di ricovero coatto per pazienti psichiatrici di cui alla legge n. 180/78 (sentenza n. 18341 del 2 dicembre 1983 della Cassazione penale, sez. V) indirizzata al Sindaco, redatta da medico libero professionista; c) i certificati per l’interruzione volontaria di gravidanza di cui alla legge n. 194/78; d) la constatazione di decesso; e) i certificati di malattia per uso assicurativo privato.

Alcuni reati sono tra l’altro previsti nel nostro Codice penale in tema di certificazioni quali il falso materiale, il falso ideologico, la truffa e la violazione di privacy e segreto professionale.

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Il sanitario con funzioni pubbliche risponde di falso materiale (art. 476 cp in atto pubblico e art. 477 cp in certificazione amministrativa) se nella reda-zione del certificato commette alterazioni o contraffazioni mediante cancella-ture, abrasioni, aggiunte successive miranti a far apparire adempiute le condi-zioni richieste per la sua validità.

Il medico che svolge un’attività libero-professionale risponde invece, in caso di falso materiale all’art. 485 cp, articolo nel quale sono previste pene meno severe rispetto a quelle indicate a carico del medico con funzioni pubbliche.

Il medico con funzioni pubbliche risponde di falso ideologico (art. 479 cp in atto pubblico e art. 480 cp in certificazione amministrativa) se il giudizio diagnostico espresso nel certificato si fonda su fatti esplicitamente dichiarati o implicitamente contenuti nel giudizio stesso, che siano non rispondenti al vero, sempre che ciò sia conosciuto da colui che ne fa attestazione, secondo la sentenza n. 11482 del 24 maggio 1977 della Cassazione, sez. VI.

Il sanitario che svolge attività libero-professionale in caso di falso ideologico risponde all’art. 481 del cp: anche in questo caso le pene previste sono meno severe. Ovviamente, il presupposto essenziale di tutti questi reati è il dolo.

La distinzione tra diagnosi falsa e diagnosi errata nel certificato medico ai fini della legge penale è stata definita dalla sentenza del 18 marzo 1999 della Cassazione penale, sezione V: è falsa la certificazione che si basa su premesse oggettive non corrispondenti al vero, è invece errata se risulta inattendibile l’interpretazione data per motivare il giudizio clinico.

Ricordiamo a tal proposito che la Cassazione con sentenza del 14 dicembre 1977 ha ritenuto colpevole del reato di cui all’art. 481 cp (falso ideologico) il medico che compila un certificato di morte senza aver visitato la salma.

Il Tribunale di Modena con sentenza del 15 marzo 1964 ha stabilito la colpe-volezza di cui all’art. 481 cp a carico di un medico che aveva attestato il falso per rimuovere un ostacolo al trasporto della salma di un paziente deceduto, favorendo così i congiunti, pur senza trarne vantaggio personale, ma eludendo in tal modo le norme di polizia mortuaria, anche se per un fine apparentemente umanitario.

Il certificato medico, nonché come già sottolineato la ricetta e/o la richiesta di accertamenti, può determinare la costituzione di diritti a favore del richie-dente con possibili oneri risarcitori a carico di terzi, tra cui anche lo Stato, ed è perciò, per sua propria natura, soggetto a verifica. Di conseguenza false attestazioni possono costituire anche il reato di truffa.

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9. La documentazione dell’attività medica 333

L’ente pubblico può ovviamente esercitare un’azione di rivalsa nei con-fronti del medico, per il danno patrimoniale: questa procedura si aggiunge a quella penale ed è forse ancora più temibile di quest’ultima per il medico che non abbia agito correttamente.

I contenuti del certificato medico sono poi coperti dal segreto professio-nale ai sensi del CDM e della legge sulla privacy.

La violazione del segreto, in assenza di giusta causa, è punita dall’art. 622 cp, se compiuta da un medico durante la libera professione, e viene invece punita più severamente, dall’art. 326 cp, se commessa da un sanitario con funzioni pubbliche.

Va rilevato che lo stesso rilascio di certificazioni o comunque di altra documen-tazione clinica a soggetti diversi dall’interessato, senza il suo preventivo consenso, può costituire una forma di violazione del segreto professionale e della privacy.

La gestione della documentazione sanitaria investe un ambito di organiz-zazione sanitaria insufficientemente regolato dallo Stato tanto in senso nor-mativo quanto in senso organizzativo dagli enti che lo rappresentano. Non vi è dubbio che la documentazione clinica rappresenta un bene destinato a un pubblico servizio, in quanto la sua destinazione è direttamente attinente al fine perseguito, che nel caso delle Aziende ospedaliere o del singolo medico si iden-tifica nella tutela della salute. Ne deriva che la documentazione sanitaria è bene pubblico e in particolare bene patrimoniale indispensabile; la qualifica di bene pubblico del resto non può essere disconosciuta, trattandosi non solo di bene appartenente a un ente pubblico (Azienda sanitaria), ma anche di bene desti-nato all’immediata soddisfazione di bisogni considerati di importanza sociale.

La normativa generale cui far riferimento è il DPR n. 128 del 1969 che, all’art. 5, intesta il relativo impegno al direttore sanitario cui è deputato il rila-scio agli aventi diritto, in base ai criteri stabiliti dalle singole amministrazioni. Ne deriva che le copie delle «cartelle cliniche ed ogni altra certificazione sanita-ria riguardante i malati assistiti in ospedale» rientrano in tale previsione.

Gli aventi diritto, cui è riservato il rilascio del materiale sanitario, sono indi-viduabili, oltre che nel paziente, nella persona fornita di delega, conforme-mente alle disposizioni di legge; in tutti i soggetti appartenenti al Servizio Sani-tario pubblico, negli enti previdenziali (INAIL, INPS), nell’autorità giudiziaria.

In effetti, la trasmissione di documenti inerenti le condizioni di salute e, in genere, personali di un soggetto non si sottrae alla disciplina giuridica del segreto professionale (art. 622), per cui solo l’avente diritto può cementare

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(per scritto) l’accesso di altri ai dati clinici che lo riguardano, salvo che non sussista una diversa previsione normativa che ne stabilisce la trasmissibilità.

Art. 26 - Cartella clinica

La cartella clinica delle strutture pubbliche e private deve essere redatta chia-ramente, con puntualità e diligenza, nel rispetto delle regole della buona pra-tica clinica e contenere, oltre ad ogni dato obiettivo relativo alla condizione patologica e al suo decorso, le attività diagnostico-terapeutiche praticate.La cartella clinica deve registrare i modi e i tempi delle informazioni nonché i termini del consenso del paziente, o di chi ne esercita la tutela, alle proposte diagnostiche e terapeutiche; deve inoltre registrare il consenso del paziente al trattamento dei dati sensibili, con particolare riguardo ai casi di arruolamento ad un protocollo sperimentale.

La cartella clinica

La cartella clinica (cc), alla cui compilazione sono tenuti i medici ospedalieri o dipendenti delle case di cura private, costituisce un documento di grande rilevanza sanitaria, strumento di lavoro essenziale per una corretta assistenza del paziente (9).

Definizione e normativa

«L’importanza che la cartella clinica ha assunto in ambito sanitario è pro-gressivamente scandita e ben sintetizzata dalla messe di contributi offerti dalla dottrina medico-legale e dal riscontro giurisprudenziale di decisioni tese a un più completo assetto giuridico che tale documentazione assume nel contesto della tutela della salute oltre che della mera assistenza sanitaria» (Fineschi V, 2001).

La cartella clinica (cc) era già stata definita come «il fascicolo nel quale si raccolgono i dati anamnestici e obiettivi riguardanti il paziente ricoverato, quelli giornalieri sul decorso della malattia, i risultati delle ricerche e delle ana-lisi effettuate, quelli delle terapie praticate e infine la diagnosi della malattia che ha condotto il paziente in ospedale» (Merusi F, Bargagna M, La cartella clinica, Giuffrè, Milano, 1978).

Essa è pertanto un documento eterogeneo, nel quale il personale sanitario che si avvicenda intorno alla persona assistita cui la cartella si riferisce, registra

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9. La documentazione dell’attività medica 335

un complesso di informazioni (anagrafiche, sanitarie, sociali, ambientali, giu-ridiche) concernenti un determinato paziente allo scopo di poter rilevare ciò che lo riguarda in senso diagnostico-terapeutico non solo nel momento della ospedalizzazione ma anche in tempi successivi. Questa infatti rappresenta un insostituibile strumento tecnico-professionale attraverso il quale garantire e/o programmare opportuni interventi medici, rilevare dati a fini scientifici, anche epidemiologico-statistici, oltre a rivestire, come meglio diremo innanzi, un innegabile ruolo/attributo di natura squisitamente medico-legale.

Infine è nozione acquisita che, come chiaramente scandito dalla circolare del Ministero della Sanità, 14 marzo 1996, tanto la cartella infermieristica quanto il registro operatorio costituiscono parte integrante della cc in aggiunta alla scheda di dimissione ospedaliera, già prevista in ossequio al DM 21 dicem-bre 1991 e quindi ne rappresentano parte integrante e completante.

Cartella clinica: verso una nuova definizione

La cc è il diario nel quale si raccolgono i dati anamnestici e obiettivi riguar-danti il paziente ricoverato, cui il contenuto dello stesso integralmente appar-tiene, quelli giornalieri sul decorso della malattia, i risultati delle indagini stru-mentali e laboratoristiche effettuate, quelli inerenti le terapie praticate e infine la diagnosi della malattia che ha condotto il paziente in ospedale e quindi le con-clusioni diagnostiche e terapeutiche cui si è pervenuti al termine del ricovero.

Costituiscono parte integrante della cc, la cartella infermieristica, il registro operatorio (quando presente) e la scheda di dimissione ospedaliera.

I primi riferimenti normativi relativi alla cc risalgono in Italia alla fine dell’800, con il RD del 1891 che disponeva la conservazione dei documenti relativi all’am-missione del ricoverato, alla diagnosi, al sommario mensile delle condizioni cli-niche e alla dimissione. Il successivo RD del 1909 disponeva che in ogni mani-comio doveva essere presente un fascicolo personale per ciascun ricoverato. Nel 1938, con RD n. 1631 (legge Petragnani), all’articolo 34, si prevedeva che la rego-lare tenuta delle cartelle cliniche e dei registri nosologici fosse compito del pri-mario, principio che viene confermato dal DPR n. 128 del 1969, che all’articolo 7 individua nel primario il «[…] responsabile della regolare compilazione delle cartelle cliniche, dei registri nosologici e della loro conservazione, fino alla conse-gna all’archivio centrale […]», quest’ultimo ubicato presso la Direzione sanitaria così come disciplinato all’art. 2 del medesimo decreto ove si rammenta che la

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Direzione sanitaria deve essere all’uopo fornita di un archivio clinico e si enuncia che tra i compiti del direttore sanitario vi è anche quello di vigilare sull’archivio delle cartelle cliniche e su ogni altra certificazione riguardante i malati assistiti in ospedale. La legge attribuisce specificamente al primario (oggi responsabile di Unità Operativa), l’onere della regolare tenuta della cc e dei registri nosocomiali, sottolineando una responsabilità che ha pertanto chiare implicazioni di natura giuridica sia in ordine ad aspetti prettamente penalistici (relativi, ad esempio, alla tenuta e compilazione di atti di natura pubblica) sia in ordine ad aspetti squisita-mente civilistici, sotto il profilo dell’onere della prova e della individuazione della prestazione dovuta da parte di medici e struttura.

Anche la giurisprudenza si è espressa in merito, affermando che: «la cartella clinica, della cui regolare compilazione è responsabile il primario, adempie alla funzione di diario del decorso della malattia e di altri dati rilevanti» (Cass. sez. V penale, 1983).

Oltre al primario, corresponsabile della corretta compilazione della cc nel quadro delle «attribuzioni riferite ovviamente, e per quanto di competenza, è l’aiuto [figura oggi scomparsa, ma solo nominalmente] che collabora diretta-mente con il primario nell’espletamento dei compiti a lui attribuiti e lo sostitu-isce in caso di assenza o di impedimento», secondo un principio che nel DPR n. 761 del 1979, all’articolo 63 concretizza una titolarità plurisoggettiva nella regolare compilazione delle cartelle cliniche, anche in presenza del primario, poiché l’aiuto svolge funzioni autonome nell’area dei servizi a lui stesso affi-data, sulla base delle direttive ricevute dal primario. Già con il DPR n. 225 del 1974, anche l’infermiere professionale diviene responsabile della corretta conservazione della documentazione sanitaria del paziente, sino al momento della consegna all’archivio centrale; è inoltre prevista la possibilità di annotare sulle schede cliniche gli abituali rilievi di competenza. E inoltre la ricerca di efficienza-efficacia e appropriatezza dei servizi e delle cure nell’ambito delle più generiche prestazioni sanitarie aziendali ha di fatto definitivamente forma-lizzato la caratterizzazione “multiprofessionale” di un tale atto che non si sot-trae certamente dal controllo di qualità di cui, anzi, rappresenta un indice oltre che uno strumento atto alla valutazione dello stesso. Infatti all’art.15 del DLgs n. 229 del 1999 recante le “Norme per la razionalizzazione del Servizio Sani-tario Nazionale a norma della legge 30 novembre 1998, n. 419”, in relazione alla disciplina della dirigenza medica e delle professioni sanitarie viene san-

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9. La documentazione dell’attività medica 337

cito il principio secondo il quale: «L’autonomia tecnico-professionale, con le connesse responsabilità, si esercita nel rispetto della collaborazione multipro-fessionale, nell’ambito di indirizzi operativi e programmi di attività promossi, valutati e verificati a livello dipartimentale e aziendale, finalizzati all’efficace utilizzo delle risorse e all’erogazione di prestazioni appropriate e di qualità».

A margine di quanto sin qui esposto deve annotarsi, come in relazione alla custodia della cartella clinica, al di là del frammentario richiamo, la legislazione attuale manchi di chiare norme che regolamentino in maniera univoca e defini-tiva la sua compilazione (sin dall’apertura) e la sua archiviazione (sin alla chiusura) ovvero che ne garantiscano la integrità/inalterabilità (non manomissione, non dan-neggiamento, non smarrimento), oltre che l’accessibilità ai soli aventi diritto. Un appiglio lo si trova nella recente norma per la tutela della privacy relativamente al trattamento dei dati sensibili nella quale il direttore di ogni unità operativa, indivi-duato dall’Azienda quale incaricato, può delegare a propri collaboratori (medici e infermieri) il compito di curare la diligente custodia della cc e l’osservanza delle misure minime di sicurezza stabilite dal DLgs 318/1999 articolo 9 punto 4.

Il DLgs 318/1999, art. 9 punto 4

«1. Nel caso di trattamento di dati personali per fini diversi da quelli dell’art. 3 della legge (= fini esclusivamente personali), effettuato con strumenti diversi da quelli previsti dal capo II (= strumenti elettronici o automatizzati), sono osservate le seguenti modalità:

– nel designare gli incaricati del trattamento per iscritto e nell’impartire le istruzioni ai sensi dell’art. 8, comma 5 e 19 della legge, il titolare o, se designato, il responsabile devono prescrivere che gli incaricati abbiano accesso ai soli dati personali la cui conoscenza sia strettamente necessaria per adempiere ai compiti loro assegnati;

– gli atti e i documenti contenenti i dati devono essere conservati in archivi ad accesso selezionato e, se affidati agli incaricati del trattamento, devono essere da questi ultimi conservati e restituiti al termine delle operazioni affidate. 2. Nel caso di trattamento di dati di cui agli articoli 22 e 24 della legge, oltre

a quanto previsto nel comma I, devono essere osservate le seguenti modalità:

– se affidati agli incaricati del trattamento, gli atti e i documenti contenenti i dati sono conservati fino alla restituzione, in contenitori muniti di serratura;

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– l’accesso agli archivi deve essere controllato e devono essere identificati e registrati i soggetti che vi vengono ammessi dopo l’orario di chiusura degli archivi stessi».

Va ricordato come in caso di smarrimento, di distruzione o comunque di cattiva gestione delle cartelle cliniche, la responsabilità civile di tali evenienze è sempre riferibile alla amministrazione dell’ospedale, anche se e quando l’il-lecito sia compiuto dalla persona fisica responsabile direttamente alla conser-vazione. Quest’ultima può incorrere in responsabilità di natura penale e poi come soggetto anche a sanzione disciplinare.

Inquadramento giuridico

Dal punto di vista giuridico, il panorama dottrinale risulta sostanzialmente diviso su tre distinte posizioni. Alcuni considerano il memoriale clinico quale semplice dichiarazione di scienza; altri quale un tertium genus in posizione inter-media tra la scrittura privata e l’atto pubblico, e assimilabile a una certificazione amministrativa; altri ancora, la parte più cospicua, si trovano in armonia con le numerose pronunce della Suprema Corte, in prevalenza orientata nel senso di riconoscere alla cc la natura di atto pubblico «inidoneo pertanto a produrre piena certezza legale, non risultando dotato di tutti i requisiti richiesti dall’articolo 2699 cc» e facente quindi fede fino a prova contraria. Viene comunque escluso che la cc possa qualificarsi come semplice attestazione di verità o di scienza tale da configurarsi alla stregua di certificazione ai sensi degli articoli 477 e 480 cp.

Differente è l’inquadramento giuridico della cc delle case di cura private, previsto nel DPCM del 27 giugno 1986 (ex art. 35), che così distingue:

– se inerente prestazioni sanitarie per le quali la casa di cura privata è conven-zionata con la ASL, la sua natura giuridica è la stessa della cc degli stabili-menti pubblici;

– se trattasi di casa di cura non convenzionata, la cc ivi redatta rappresenta esclu-sivamente un promemoria privato dell’attività diagnostica e terapeutica svolta, non rivestendo pertanto né carattere di atto pubblico, né di certificazione.Per quanto concerne l’inquadramento penalistico, pur trattandosi di attività

libero-professionale svolta dal medico all’interno della casa di cura privata, di un servizio di pubblica necessità, la falsità ideologica della cc, in questi casi è punibile ai sensi dell’articolo 481 cp (“Falsità ideologica in certificati commessa

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9. La documentazione dell’attività medica 339

da persone esercenti un servizio di pubblica necessità”), non sussistendo la natura giuridica di certificazione.

A fronte di un tale variegato panorama dottrinale, la Giurisprudenza si mostra costante nel riconoscere in capo alla cc natura di atto pubblico.

Doveroso il richiamo alla dissonante e isolata sentenza della Corte di Cas-sazione, Sezione Terza penale, n. 30150/2002 ove la cartella assume natura di atto privato (per di più in un caso di manifesta connivenza degli amministrativi per soddisfare un interesse privato).

Corte di Cassazione, Sezione Terza penale, sentenza n. 30150/2002: assolto il marito che aveva avuto copia della cartella clinica della moglie senza l’autorizzazione della stessa, ricoverata in reparto psichiatrico: «Il Tribunale di Trapani, in composizione monocratica, con sentenza emessa il 14 marzo 2001, assolveva M.G. dal reato di cui all’art. 35, comma 2° legge 675/1996 in relazione all’art. 23, comma 4° della legge citata, perché il fatto non era previsto dalla legge come reato. Avverso la citata sentenza, il PM presso il Tribunale di Trapani proponeva ricorso per Cassazione, deducendo: motivo unico, violazione di legge. Il fatto doveva essere qualificato quale rivelazione del segreto di ufficio, ai sensi dell’art. 326 cp, stante la qualifica di incaricato di pubblico servizi.

Motivi della decisione. Il ricorso è infondato. Ai fini di una completa intel-ligibilità della vicenda in esame, è opportuno riassumere i termini fattuali della fattispecie. A M.G. è stato contestato il delitto di cui all’art. 35, comma 2° legge 675/1996, in relazione all’art. 23, comma 4° della legge citata perché, in con-corso tra loro e al fine di trarne profitto, lo S., quale soggetto addetto al rilascio di copia delle cartelle cliniche presso l’Ospedale S. Antonio Abate e il M., quale soggetto richiedente, comunicavano dati idonei e rilevare lo stato di salute della D.R.; in particolare, su richiesta del M., lo S. rilasciava al primo copia della car-tella clinica relativa al periodo di degenza della D. presso il reparto di psichia-tria dell’Ospedale S. Antonio Abate, al fine di consentire al M. di produrre la predetta documentazione sanitaria nella causa civile di separazione personale tra i coniugi, instaurata presso il Tribunale di Marsala […]. Il Tribunale di Tra-pani, con sentenza emessa il 14 marzo 2001, assolveva il M. dal reato ascrittogli perché, tenuto conto dell’epoca della vicenda in esame, 30 luglio 1997, il fatto non era previsto dalla legge come reato, ex art. 45 legge 675/1996. Tanto premesso in fatto, va affermato che nella fattispecie non ricorrono gli estremi

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del reato di cui all’art. 326 cp. La cartella clinica relativa allo stato di salute di D.R., pur essendo atto attinente a notizie riservate, non costituiva documento relativo a notizie di ufficio destinate a rimanere segrete. La cartella clinica, invero, previo consenso dell’interessata o previa autorizzazione della compe-tente Autorità amministrativa o giudiziaria, poteva essere rilasciata a terzi per finalità legittime previste dall’ordinamento giuridico. Manca, quindi, l’elemento obiettivo del reato di cui all’art. 326 cp. Va respinto, pertanto, il ricorso pro-posto dal PM avverso la sentenza del Tribunale di Trapani del 14 marzo 2001. PQM La Corte rigetta il ricorso del PM».

Di contro la gran messe di pronunzie della Corte Costituzionale attribui-scono alla cc il possesso dei requisiti propri dell’atto pubblico che, se dotato di certezza legale, implicherebbe per il giudice un vincolo di verità su ciò che il pubblico ufficiale ha attestato, salvo che la parte privata che vi ha interesse, intenti una querela di falso, mirante a porre in questione la falsità del documento.

Cass. pen., sez. V, 21 gennaio 1981: «[…] ha natura di atto pubblico la cartella redatta dal medico dipendente da casa di cura convenzionata con il Ministero della Sanità […]». (Concetto ribadito anche per il medico dipendente da casa di cura convenzionata – Cass. pen. 27 maggio 1992 e Cass. pen. sez. unite 11febbraio 1992).

Cass. pen., sez. V 17 dicembre 1992: «[…] la cartella clinica rientra nella categoria degli atti pubblici ove sia redatta dal medico di un ospedale pubblico essendo caratterizzata dalla produttività di atti costitutivi traslativi modificativi o estintivi rispetto a situazioni giuridiche soggettive di rilevanza pubblicistica nonché dalla documentazione di attività compiute dal pubblico ufficiale che redige l’atto […]».

In precedenza, la stessa corte (Cass. pen. 24 maggio 1992) aveva stabilito che la cc redatta dal medico di un pubblico ospedale non può ritenersi solo e in toto atto pubblico munito di fede privilegiata dovendo tale particolare efficacia probatoria intendersi limitata alla sua provenienza dal pubblico ufficiale e ai fatti che il pubblico ufficiale attesta essere avvenuti in sua presenza o essere stati da lui compiuti. Per atto di fede privilegiata si intende un atto pubblico redatto nelle forme di legge, che promana da un pubblico ufficiale, cui la legge riconosca una speciale potestà certificativa, contenente quanto riferito al pub-blico ufficiale e quanto da lui attestato come detto o accaduto.

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9. La documentazione dell’attività medica 341

Definire la cc come atto pubblico di fede privilegiata comporta una serie di conseguenze sul piano giuridico di non lieve portata:

a) l’applicazione degli articoli 479 e 476 cp per il falso ideologico e materiale nella previsione della pena più grave;

b) l’eventuale responsabilità per omissione o rifiuto di atti di ufficio ex art. 328 cp;c) la rivelazione di segreto di ufficio ex art. 326 cp.

Cartella clinica e segreto professionale

In ambito sanitario, la classica tutela del segreto professionale ex art. 622 cp attiene a tutto ciò che non è comunemente noto, che fa ragionevolmente parte dell’intimità dell’individuo, del suo modo di vivere e del suo modo di essere non ovviamente palesi, di cui il sanitario abbia nozione a motivo della sua attività professionale che si identifica con quanto riportato in cc.

Ben diversa tale accezione dal concetto di tutela della privacy e trattamento dei dati sensibili, così come regolamentati dall’Istituto del Garante, come più avanti specificato nella apposita sezione a esso dedicato.

Cartella clinica: segreto (riferimenti):

– Giuramento di Ippocrate.– Art. 326 cp: “Rivelazione di segreti d’ufficio”.– Art. 622 cp: “Rivelazione di segreto professionale”.– Nuovo Codice di Deontologia medica, artt. 9, 10, 11, 23.– DPR n. 128 del 27 marzo 1968, art. 6 DM 5 agosto 1977 artt. 19, 24.– Legge n. 675 del 31 dicembre 1996 (legge per la tutela della privacy).– DLgs n. 196 del 30 giugno 2003, art. 92.

L’illegittima divulgazione del contenuto della cc può condurre a conse-guenze di ordine penale per la violazione del segreto professionale o di quello d’ufficio e a censure a carico del proprio Ordine o Collegio professionale per violazione del segreto professionale.

Lo studente frequentatore e il medico tirocinante in quanto non strutturati sono tenuti al segreto professionale e non a quello d’ufficio.

La trasmissione consiste nel rendere partecipi del segreto altre persone o enti interessati allo stesso caso, a loro volta vincolati al segreto per ragione di professione o di ufficio.

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le cAuse di giustificAzione

1. Norme imperative: sono disposizioni di legge che obbligano l’esercente la professione sanitaria al dovere di informativa mediante denunce, referti, rap-porti, certificazioni, dichiarazioni o relazioni concernenti fatti di natura profes-sionale, che altrimenti sarebbero coperti dal segreto più rigoroso.

2. Norme scriminative o permissive: sono previste dal codice penale:

– consenso del paziente;– caso fortuito o forza maggiore;– violenza fisica;– errore di fatto;– altrui inganno;– stato di necessità;– legittima difesa.

Requisiti formali

Il contenuto della cc può essere variabile in quanto, a tutt’oggi, come riba-dito, non esiste una norma che definisca le modalità di strutturazione e di compilazione della cc.

In particolare, non c’è ancora una vera e propria direttiva di compilazione specifica, pur parlandosi ampiamente di standard, di cartelle cliniche norma-lizzate ecc.; il vecchio sistema della cartella con la storia clinica divisa per dati anamnestici familiari, fisiologici, della patologia remota e della storia clinica recente nonché dei rilievi clinici scaturiti dalla visita, è ormai superato. Si impongono, infatti, diversi indirizzi nella compilazione della cc e, la struttura e le informazioni riportate per ogni sezione dipendono dal tipo di ricovero e di patologia, oltre che dalle regole di compilazione e della modulistica adottate in ciascun ospedale e ciò è dovuto ai diversi obiettivi personali o di reparto oltre che di area.

Cartella clinica: compilazione

Il più delle volte le cartelle cliniche risultano difficili da consultare per dif-ferenti motivi:– quantità eccessiva e ridondante di dati;– mancanza di un indice;– mancanza di un sistema esplicito di ordinamento dei dati;

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9. La documentazione dell’attività medica 343

– duplicazione e moltiplicazione di cartelle (medica, infermieristica, aneste-siologica, riabilitativa, dietologica ecc.);

– fonti parallele e indipendenti di dati (diario clinico, esami, consegne, comu-nicazioni varie ecc.);

– raccolta dati per analogia (esami, consulenze, procedure ecc.) e non per problema, fonte, data;

– disordine dei documenti;– cartella a misura di specialista;– mancanza di razionale esplicito e documentato per decisioni maggiori o

minori o cambiamenti di strategia;– differenze non controllate (datazione USA o europea, luogo della data-

zione, luogo e formato dei dati identificativi);– dati sparsi qua e là;– differente formato dei dati (parole, numeri, simboli);– scarsa chiarezza della tempistica di riscontri, decisioni, esiti;– datazione non chiara;– uso irrazionale di formati, simboli;– scritture illeggibili;– lista delle abbreviazioni e degli acronimi utilizzati mancante;– lista delle firme e sigle dei professionisti mancante.

Le cartelle facili da consultare dovrebbero essere lineari, essenziali, scevre da eccessivi elementi di distrazione (simboli), da definizioni gergali, da abbreviazioni criptiche o da salti logici, dovrebbero seguire un ordine definito (cronologico, consequenziale, per problemi, per categorie), obbedendo a regole di omogeneità:

– evitare annotazioni illeggibili;– scrivere a macchina/computer, evitando un eccesso di fonti, colori, formati;– usare caratteri adeguati;– non comporre righe troppo lunghe o troppo corte;– spaziare adeguatamente le righe tra di loro;– limitare gli elenchi;– usare con moderazione i richiami (stelle, frecce ecc.).

La cc è in effetti un documento che incorpora elementi di carattere cli-nico (relativo alle parti compilate dal medico), di carattere terapeutico (quelle a opera dell’infermiere), di carattere amministrativo e gestionale. Ogni attività

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svolta dal personale sul paziente viene riportata in cc che diventa lo strumento fondamentale di condivisione del lavoro per tutto il personale.

Ogni figura professionale compila per ogni passaggio terapeutico lo schema funzionale di propria competenza in tempi e modi diversi a seconda delle pro-prie necessità ed esigenze. Quando il paziente viene dimesso, le informazioni raccolte consentono non solo di espletare le procedure di rendiconto previste per ogni ASL e per gli uffici amministrativi relativi, ma anche di fornire i dati per permettere alla direzione la possibilità di effettuare bilanci e consultivi.

Il DPCM del 27 giugno 1986 detta principi di compilazione della cc, che possono servire da generico riferimento e ausilio anche per uno schematico approccio alla documentazione sanitaria da esibire in ambito pubblicistico.

Nella compilazione della cartella debbono risultare per ogni ricoverato le generalità complete, la diagnosi di entrata, l’anamnesi familiare e personale, l’esame obiettivo, gli esami di laboratorio e specialistici, la diagnosi, la terapia, gli esiti e i postumi. Le cartelle cliniche, firmate dal medico curante e sot-toscritte dal medico responsabile di raggruppamento, dovranno portare un numero progressivo ed essere conservate a cura della Direzione sanitaria.

Così come già ricordato, traspare in tutta evidenza che la cc deve essere completa di tutti i dati significativi relativi alla degenza del paziente e deve riflettere quanto effettivamente è stato per lui fatto.

Una indicazione sul significato contenutistico della cc viene fornito dalla Suprema Corte allorché ammonisce essere tale documento un «diario diagno-stico-terapeutico», nel quale vanno annotati fatti di rilevanza giuridica quali i dati anagrafici e anamnestici del paziente, gli esami obiettivi, di laboratorio e specialistici, le terapie praticate, nonché l’andamento, gli esiti e gli eventuali postumi della malattia (Cass. pen. sez. unite, 27 marzo 1992).

I requisiti formali richiesti nella stesura della cc, possono pertanto essere così riassunti:

– intellegibilità della grafia;– descrizione della epicrisi;– precisazione fonte anamnesi;– modalità di acquisizione del consenso;– disposizione cronologica dei rilievi;– indicazione sede dell’accertamento;– correzione adeguata di errori materiali.

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9. La documentazione dell’attività medica 345

Così come deducibile dall’art 23 del nuovo Codice di Deontologia medica, il cui monito deontologico ha l’intento di impegnare il medico alla comple-tezza della documentazione sanitaria, riassumendosi nella raccomandazione l’obbligo sostanziale della chiarezza e veridicità che è presupposto imprescin-dibile di ogni attestazione sanitaria e che si compendia di una annotazione for-malmente accorta e sostanzialmente corretta, da cui non possono che scaturire giudizi parimenti accorti e corretti, prudenti, oltreché diligenti e periti.

La cc deve essere redatta chiaramente, con puntualità e diligenza, nel rispetto delle regole della buona prativa clinica e contenere, oltre a ogni dato obiettivo relativo alla condizione patologica e al suo corso, le attività diagnostico-terapeu-tiche praticate. La finalità è quella di rendere utilizzabile la testimonianza docu-mentata a fini di interesse individuale e collettivo, affinché il singolo o le pluralità degli individui possano valersi dell’atto medico traendo indicazioni comporta-mentali, organizzative o programmatiche aventi carattere sanitario.

I requisiti formali sono stati oggetto di una decisione dell’Autorità Garante (n. 165 del 31 marzo-6 aprile 2003): se la cc è illeggibile per la grafia di chi l’ha redatta, deve essere trascritta in modo che le informazioni in essa conte-nute risultino chiare per il malato. La leggibilità delle informazioni è la prima condizione per la loro piena comprensione. Il Garante lo ha precisato acco-gliendo il ricorso di un paziente che lamentava un riscontro inadeguato da parte dell’Azienda ospedaliera cui si era rivolto chiedendo la comunicazione in forma intelligibile dei dati personali contenuti nella sua cc. In risposta aveva ricevuto copia della cartella che, però, a suo parere, risultava illeggibile per la pessima grafia degli autori e quindi incomprensibile. Nel ricorso il malato chiedeva che le spese del procedimento fossero attribuite all’Azienda ospedaliera.

Nel provvedimento il Garante ha sottolineato la specifica tutela che la legge sulla privacy garantisce alle persone al momento dell’accesso ai propri dati per-sonali, rispetto al diverso diritto di accesso agli atti e documenti amministrativi disciplinato dalla legge 241/1990. L’articolo 13 della legge 675/1996 prevede, infatti, che i dati personali devono essere estratti e comunicati all’interessato in forma intelligibile e il principio viene ulteriormente specificato nel DPR 501/1998, quando in riferimento ad alcune modalità di riscontro al diritto di accesso, si afferma che la comprensione dei dati deve essere agevole e obbliga il titolare del trattamento ad adottare opportune misure per agevolare l’accesso ai dati da parte degli interessati.

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Manuale della Professione Medica346

Anche nel caso in cui l’estrazione e la trasposizione dei dati su un supporto cartaceo o informatico dovesse risultare particolarmente difficoltosa, la richie-sta di accesso ai dati personali, formulata ai sensi della legge sulla privacy, può essere sì soddisfatta dall’esibizione o dalla consegna in copia di un documento, ma la leggibilità delle informazioni è la prima condizione, necessaria anche se non sufficiente, per la loro comprensibilità.

Riconosciuta, quindi, la legittimità delle richieste del ricorrente, il Garante ha ordinato all’Azienda ospedaliera di rilasciare, entro un termine stabilito, una trascrizione dattiloscritta o comunque comprensibile delle informazioni con-tenute nella cc e di comunicarle all’interessato, come prescrive la legge, tramite il medico di fiducia o designato dalla ASL.

All’Azienda sono state inoltre imputate le spese del procedimento.Oltre ai requisiti formali, assumono un ruolo non meno importante nella

compilazione della cc i così detti requisiti sostanziali o essenziali, così riassumibili: veridicità; completezza; chiarezza; correttezza formale; contestualità, tempestività.

– Veridicità: consiste nella conformità di quanto descritto dal medico (o da altro operatore sanitario) con quanto da lui constatato in modo obiettivo.

– Chiarezza: consiste nel redigere l’attestazione scritta in modo esattamente e compiutamente comprensibile per chiunque.

– Contestualità: la cc per «sua natura è un acclaramento storico contempo-raneo».

Le annotazioni vanno pertanto fatte contemporaneamente allo svolgersi dell’evento descritto e cioè senza ritardo né a cose fatte. Deve essere redatta in pendenza di degenza e secondo la sequenza cronologica della registrazione di eventi. La contestualità può non essere intesa in maniera rigorosa, ma nel rispetto di alcuni limiti temporali, quali un equo periodo di riflessione clinica, il rispetto della sequenza cronologica nella registrazione degli eventi e l’esten-sione in pendenza di degenza.

Il problema è quello della contestualità tra verbalizzazione ed eventi della malattia e della definitività della verbalizzazione nel momento stesso in cui vengono annotati gli eventi di degenza, che ex tunc escono dalla disponibilità del verbalizzante.

La contestualità tra verbalizzazione ed evento si ritiene possa realizzarsi nei limiti di tempo compatibili con la riflessione clinica, con le situazioni con-

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tingenti e, comunque, in pendenza di ricovero, con il rispetto della sequenza cronologica della registrazione. È da ritenere, quindi, contemporanea anche la registrazione che avviene qualche tempo dopo in relazione alle contingenze del caso clinico, alle attività di reparto e, in caso di informatizzazione, della organizzazione della immissione dei dati nel computer.

La contestualità della registrazione va intesa in senso stretto in alcune obiettività che possono evolvere e cambiare in breve tempo; al riguardo la Giurisprudenza ha espresso più volte la necessità di una registrazione rigoro-samente contestuale, non postuma, per i «fatti clinici rilevanti».

Giurisprudenza costante afferma che: «la cartella clinica adempie la fun-zione di diario del decorso della malattia e di altri fatti clinici rilevanti, per cui gli eventi devono essere annotati contestualmente al loro verificarsi. Ne consegue che (all’infuori della correzione di meri errori materiali) le modifiche e le aggiunte integrano un falso punibile, anche se il soggetto abbia agito per ristabilire la verità, perché violano le garanzie di certezza accordate agli atti pubblici» (Cass. pen. sez. V, 11 novembre 1983 n. 9423; Cass. pen. sez. V, 23 marzo 1987, n. 3632).

Ciascuna annotazione presenta, singolarmente, autonomo valore docu-mentale definitivo che si realizza nel momento stesso in cui vengono trascritte e qualsiasi successiva alterazione, apportata durante la progressiva forma-zione del complesso documento, costituisce falsità, ancorché il documento sia ancora nella materiale disponibilità del suo autore, in attesa di trasmissione alla Direzione sanitaria.

«La cartella clinica acquista il carattere di definitività in relazione a ogni singola annotazione ed esce dalla sfera di disponibilità del suo autore nel momento in cui la singola annotazione viene registrata. Ogni annotazione assume, pertanto, valore documentale autonomo e spiega efficacia nel traf-fico giuridico non appena viene scritta, con la conseguenza che la successiva alterazione da parte del compilatore costituisce falsità punibile, ancorché il documento sia ancora disponibile materialmente, in attesa della trasmissione alla direzione sanitaria per la definitiva custodia» (Cass. pen, 1963).

Un ritardo nella compilazione oppure la mancata compilazione può dunque configurarsi per il medico esercente all’interno di una struttura sanitaria come una omissione di atti di ufficio, mentre una sua compilazione non veritiera come falso ideologico e una sua correzione postuma come un falso materiale.

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Manuale della Professione Medica348

«Art. 481 cp: “Falsità ideologica in certificati commessa da persone eser-centi un servizio di pubblica necessità” – Chiunque, nell’esercizio di una pro-fessione sanitaria o forense, o di un altro servizio di pubblica necessità, attesta falsamente, in un certificato, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, è punito con la reclusione fino a 1 anno o con la multa da lire centomila e un milione.

Tali pene si applicano congiuntamente se il fatto è commesso a scopo di lucro».

«Art. 479 cp: “Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici” – Il pubblico ufficiale che ricevendo o formando un atto nell’eserci-zio delle sue funzioni, attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto o è avvenuto in sua presenza, o attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute, o comunque attesta falsamente fatti dei quali il certificato è destinato a provare la verità, soggiace alle pene stabilite nell’art. 476».

«Art. 485 cp: “Falso materiale (Falsità in scrittura privata)” – Chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, forma, in tutto o in parte, una scrittura privata falsa, o altera una scrittura privata vera, è punito, qualora ne faccia uso o lasci che altri ne faccia uso, con la reclusione da sei mesi a tre anni. Si considerano alterazioni anche le aggiunte falsamente appo-ste a una scrittura vera, dopo che questa fu definitivamente formata».

La falsificazione ideologica si riferisce ai “fatti”, ossia ai dati obiettivi e controllabili di cui il certificato è destinato a provare l’esistenza. Incide sul contenuto concettuale dell’atto, dando per autentici fatti non veri, pur essendo corretta la forma.

La falsificazione materiale riguarda la parte formale dell’atto che può essere contraffatta in vario modo, ad esempio, apponendovi la firma falsa o alteran-done la materia mediante cancellature, raschiature, aggiunte.

«[…] la terapia domiciliare (Verapamil per os) viene confermata da due medici, con il conforto dello specialista cardiologo. Viene prescritto verbal-mente all’infermiera Verapamil 20 milligrammi per tre volte al giorno, prescri-zione che viene registrata nella documentazione clinica e riportata come tale nel “foglio di terapia”. Non risulta specificata la forma farmaceutica da som-ministrare e l’infermiera somministra il farmaco (inteso per via orale, ma non

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9. La documentazione dell’attività medica 349

esplicitamente riportato) per via e.v. Il bambino decede poco dopo l’iniezione per arresto cardiaco. I medici alteravano la cartella clinica, facendo sparire il foglio di terapia e aggiungendo nella grafica la dizione “per os”, allo scopo di far ricadere la colpa solo sull’infermiera» (Cass. pen. 1983).

Cartella clinica: conservazioneLe cartelle cliniche, unitamente ai relativi referti, vanno conservate illimi-

tatamente, poiché rappresentano un atto ufficiale indispensabile a garantire la certezza del diritto, oltre a costituire preziosa fonte documentaria per le ricer-che di carattere storico-sanitario.

La documentazione diagnostica assimilabile alle radiografie, o alla restante documentazione diagnostica, va conservata almeno 20 anni, non rivestendo il carattere di atti ufficiali, mentre i referti stilati dal medico specialista radio-logo o medico nucleare seguono la sorte della cc, quindi vanno conservati in maniera illimitata nel tempo.

La documentazione clinica, deve essere custodita dal medico solo durante la fase di assistenza e cura del paziente, mentre la responsabilità si trasferisce al direttore sanitario dell’ente, nel momento in cui viene trasferita all’archivio centrale.

È prevista la possibilità della microfilmatura, sostitutiva, nei casi in cui vi fosse difficoltà, da parte dei presidi sanitari, nell’allestimento di idonei locali da destinare all’archivio.

Gli archivi

Il DPR 14 gennaio 1997 n. 37 fornisce le indicazioni di carattere generale in tema di archiviazione di dati di struttura: il compito di raccolta, elaborazione e archiviazione dei dati deve far capo alla “Direzione”, che trattandosi di dati sanitari si identifica nella Direzione sanitaria. Va ricordato che la cc, ai sensi dell’art. 830 cc è un bene patrimoniale indisponibile, la cui gestione è disci-plinata dagli artt. 30 e 35 del DPR 30 settembre 1963, n. 1409 sugli archivi di Stato. La tempistica della conservazione del materiale, nel caso di specie delle cartelle cliniche è illimitata, così come previsto nella Circolare n. 61 del 1986, poiché rappresentano atto ufficiale indispensabile a garantire la certezza del diritto oltre a costituire una preziosa fonte documentale per le ricerche di carattere storico-sanitario.

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Per le radiografie e per gli altri esami diagnostici viene stabilito un limite di 20 anni. Il DM 14 febbraio 1997 ha apportato ulteriori chiarimenti, operando una distinzione tra documenti e resoconti radiologici e di medicina nucleare:

– Documenti: documentazione iconografica prodotta a seguito dell’indagine diagnostica effettuata dal medico specialista. Possono essere detenuti in un locale predisposto, in forma di pellicole radiografiche, in forma cartacea, memorizzati in forma di microfilm o in archivio elettronico in conformità alle direttive dell’agenzia per l’informatizzazione della pubblica ammini-strazione (legge 1° aprile 1981, n 121. art. 8: “Obbligo di denuncia per chi possiede un archivio magnetico”).

– Resoconti diagnostici e di medicina nucleare: referti stilati dal medico specialista radiologo o dal medico nucleare. Devono essere conservati in maniera illimitata.

Viene inoltre stabilito che il riferimento di archivio del materiale, deve coin-cidere con quello riportato nel decreto emanato ai sensi dell’articolo 114 del DL 230/1995, costituito da caratteri alfanumerici, e indicare in forma diretta o indiretta il soggetto al quale è stata erogata la prestazione, la struttura che ha erogato la prestazione e il tipo di prestazione.

La presenza di archivi elettronici, che consente la conservazione delle infor-mazioni per un tempo superiore al regime di ricovero, da una parte determina ricadute positive (disponibilità per consultazione in caso di successivi esami, possibilità di eseguire valutazioni di tipo epidemiologico e statistico, necessità di adempiere a obblighi di legge relativi alle procedure di accreditamento delle strutture sanitarie), dall’altra configura un conflitto tra l’interesse del singolo paziente e la società. La nuova normativa sulla privacy prevede che tali archivi debbano essere segnalati periodicamente (annualmente) al Garante e che debba essere identificato un responsabile della loro corretta conservazione.

La circolazione della cartella clinica

Conflittualità deontologiche emergono in tema di circolazione della cc posto che, oltre all’interessato, altri possono aver diritto a ottenerne copia.

Il paziente ha diritto di avere, ogni volta che lo desidera, piena visione e copia della cc, tuttavia non può farsi consegnare l’originale e portarlo al pro-prio domicilio.

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9. La documentazione dell’attività medica 351

Il problema della circolazione della cc e del trattamento dei dati in essa contenuti è oggi estremamente collegato a quello della tutela della riservatezza (privacy), specie se essa inserisce i dati personali cosiddetti sensibili (inerenti cioè la salute e la vita sessuale) che trovano nella cc la più ampia descrizione.

Questa assoluta tutela di un diritto fondamentale della persona, implica una cura particolare nella tenuta e nella custodia di un documento che sempre più e meglio individua nel paziente o nel suo legale rappresentante e (in caso di paziente minore o incapace) il titolare del diritto rivelare o meno ad altri sog-getti (diversi da quelli appartenenti al circuito clinico ove si svolge la vicenda diagnostico-terapeutica).

La cartella clinica può essere rilasciata:

– al paziente stesso;– al tutore o a chi esercita la patria potestà in caso di minore o incapace;– a persona fornita di delega, conformemente alle disposizioni di legge (ivi

compreso il medico curante);– all’autorità giudiziaria;– agli Enti previdenziali (INAIL, INPS, ecc.);– al SSN (obbligo da parte dell’ente ospedaliero di trasmettere copia della cc

a un altro soggetto del servizio sanitario che abbia strumentalmente biso-gno della cc per erogare il servizio di sua competenza);

– agli eredi legittimi con riserva per determinate notizie;– ai medici a scopo scientifico-statistico purché sia mantenuto l’anonimato.

La cartella clinica non può essere rilasciata:

– a terzi se non muniti di delega (compresi il coniuge o i parenti stretti);– al medico curante senza la autorizzazione del paziente;– ai patronati;– ai Ministeri e all’Autorità di PS solo le notizie a seguito di precisi quesiti di

ordine sanitario.

Il DLgs n. 196 del 30 giugno 2003: “Codice in materia di protezione dei dati personali”, prevede un articolo, il 92, interamente dedicato alla cc:

«Nei casi in cui organismi sanitari pubblici e privati redigono e conservano una cc in conformità alla disciplina applicabile, sono adottati opportuni accor-gimenti per assicurare la comprensibilità dei dati e per distinguere i dati relativi

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Manuale della Professione Medica352

al paziente da quelli eventualmente riguardanti altri interessati, ivi comprese informazioni relative a nascituri.

Eventuali richieste di presa visione o di rilascio di copia della cartella e dell’acclusa scheda di dimissione ospedaliera da parte di soggetti diversi dall’in-teressato possono essere accolte, in tutto o in parte, solo se la richiesta è giu-stificata dalla documentata necessità:

– di far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria ai sensi dell’articolo 26, comma 4, lettera c), di rango pari a quello dell’interessato, ovvero con-sistente in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fonda-mentale e inviolabile;

– di tutelare, in conformità alla disciplina sull’accesso ai documenti ammi-nistrativi, una situazione giuridicamente rilevante di rango pari a quella dell’interessato, ovvero consistente in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile».

Numerosi quesiti sull’accesso ad atti e documenti contenenti dati perso-nali idonei a rivelare lo stato di salute, per verificare entro quali limiti persone diverse dagli interessati possano prenderne visione ed estrarre copia, sono stati posti al Garante, il quale il 9 luglio 2003 ha emesso dei provvedimenti a carat-tere generale in merito ai dati sanitari.

I quesiti riguardavano in particolare:

– il caso in cui la richiesta di accesso sia formulata a una pubblica amministra-zione ai sensi della disciplina sull’accesso a documenti amministrativi (legge n. 241/1990 e altre normative in materia di trasparenza);

– l’accesso a cartelle cliniche detenute presso strutture sanitarie;– il caso in cui la richiesta sia formulata da un difensore in conformità a

quanto previsto dal Codice di procedura penale in materia di cosiddette indagini difensive (art. 391-quater cpp).

Gestione della documentazione sanitaria

Gli atti e i documenti nei quali vengono riportati dati sulla salute e la vita sessuale sono a volte predisposti o raccolti non per finalità di cura dell’interes-sato, ma per scopi amministrativi connessi ad esempio al riconoscimento di particolari benefici o malattie professionali, all’accertamento di responsabilità o al risarcimento di danni.

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9. La documentazione dell’attività medica 353

I quesiti pervenuti vanno poi affrontati tenendo presente che alcuni di tali atti e documenti, come le cartelle cliniche, si caratterizzano per la presenza di diagnosi e anamnesi, nonché per la menzione di patologie riferite a volte anche a individui diversi dal principale interessato, il che influisce sulla legittimazione all’accesso alla cartella e sulle modalità di visione o rilascio delle relative copie, integrali o per estratto (v. ad esempio l’art. 35 del DPCM 27 giugno 1986, in tema di compilazione di cartelle cliniche presso case di cura private).

Le richieste di accesso di cui si tratta riguardano inoltre documenti per i quali (specie per le cartelle cliniche) specifiche disposizioni possono preve-dere speciali modalità o responsabilità di conservazione che si aggiungono ai comuni obblighi di rispetto del segreto professionale. È il caso, appunto, dell’ordinamento interno dei servizi ospedalieri, il quale demanda al primario di ciascuna divisione il compito di curare la regolare compilazione delle car-telle cliniche e la loro conservazione fino alla consegna all’archivio centrale, e attribuisce al direttore sanitario il compito di vigilare sull’archivio delle cartelle e di rilasciarne copia agli aventi diritto, anche in base a criteri “stabiliti” dall’am-ministrazione (artt. 5 e 7 DPR 27 marzo 1969, n. 128; v., analogamente, il citato art. 35 del DPCM 27 giugno 1986, per il quale le cartelle cliniche firmate dal medico curante e sottoscritte dal medico responsabile di raggruppamento sono conservate a cura della Direzione sanitaria).

Le norme sulla trasparenza amministrativa

Rispetto ai quesiti formulati, non suscitano particolari problemi l’accesso ai dati personali da parte dell’interessato (art. 13 legge n. 675/1996) e il rilascio di copia della cc al medesimo interessato a persona munita di specifica delega o, in caso di decesso, a chi «ha un interesse proprio o agisce a tutela dell’interes-sato o per ragioni familiari meritevoli di protezione» (art. 13, comma 3, legge n. 675, come sostituito dall’art. 9, comma 3, del Codice Privacy).

La comunicazione all’interessato di dati personali sulla salute va comun-que effettuata solo per il tramite di un medico (art. 23, comma 2, legge n. 675/1996; v., ora, art. 84 del citato Codice).

Rispetto all’accesso ai documenti da parte di terzi, il Garante ha più volte evidenziato che la legge n. 675/1996 non ha comportato l’abrogazione della disciplina sull’accesso a documenti amministrativi (art. 43, comma 2, legge n. 675/1996), la cui applicabilità, anche in caso di documenti contenenti dati sen-

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Manuale della Professione Medica354

sibili, è stata confermata dalla successiva disposizione (art. 16, DLgs 11 maggio 1999, n. 135) che in riferimento ai soggetti pubblici ha individuato come di «rilevante interesse pubblico», i trattamenti di dati sensibili «necessari per far valere il diritto di difesa in sede amministrativa o giudiziaria, anche da parte di un terzo» (lett. b) e quelli «effettuati in conformità alle leggi e ai regolamenti per l’applicazione della disciplina sull’accesso ai documenti amministrativi» (lett. c).

Il medesimo articolo 16, nel comma 2, ha anche introdotto un’ulteriore garanzia riferita unicamente ai dati riguardanti lo stato di salute o la vita ses-suale, precisando che il trattamento di tali dati da parte del soggetto pubblico è consentito solo se «il diritto da far valere o difendere […] è di rango almeno pari a quello dell’interessato».

Quest’ultima garanzia, come meglio specificato nel Codice Privacy (artt. 60, 71, 92, comma 2), riguarda sia il caso in cui il soggetto pubblico debba valutare una richiesta di terzi di conoscere singoli dati sulla salute o la vita sessuale, ritenuti necessari per far valere il diritto di difesa (lett. b cit.), sia il caso in cui il soggetto pubblico riceva una richiesta di accesso ai documenti amministrativi contenenti siffatti dati. La cosiddetta questione del “pari rango” interessa poi anche la comunicazione a terzi, da parte di un soggetto privato, di singoli dati personali sulla salute e la vita sessuale (ad es., casa di cura privata: art. 22, comma 4, lett. c), legge n. 675/1996; art. art. 26, comma 4, lett. c) del Codice Privacy).

La concreta valutazione dei diritti coinvolti

Le disposizioni da ultimo indicate hanno posto l’interrogativo sul compor-tamento che deve tenere il soggetto pubblico o privato (in caso di richiesta di un terzo di conoscere dati sulla salute o la vita sessuale, oppure di accedere a documenti che li contengono), in particolare nello stabilire se il diritto dedotto dal richiedente vada considerato “di pari rango” rispetto a quello della persona cui si riferiscono i dati.

Il destinatario della richiesta, nel valutare il “rango” del diritto di un terzo che può giustificare l’accesso o la comunicazione, deve utilizzare come para-metro di raffronto non il “diritto di azione e difesa” che pure è costituzional-mente garantito (e che merita in generale protezione a prescindere dall’”im-portanza” del diritto sostanziale che si vuole difendere), quanto questo diritto sottostante che il terzo intende far valere sulla base del materiale documentale che chiede di conoscere.

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9. La documentazione dell’attività medica 355

Ciò chiarito, tale sottostante diritto, come già constatato dall’Autorità e come ora espressamente precisato dal Codice, può essere ritenuto di “pari rango” rispetto a quello dell’interessato – giustificando quindi l’accesso o la comunicazione di dati che l’interessato stesso intende spesso mantenere altri-menti riservati – solo se fa parte della categoria dei diritti della personalità o è compreso tra altri diritti o libertà fondamentali e inviolabili: v. gli artt. 71, 92 comma 2 e 60 del Codice.

In particolare, la norma da ultimo citata prevede espressamente che «quando il trattamento concerne dati idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale, il trattamento è consentito se la situazione giuridicamente rile-vante che si intende tutelare con la richiesta di accesso ai documenti ammi-nistrativi è di rango almeno pari ai diritti dell’interessato, ovvero consiste in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile».

In ogni altra situazione riguardante dati sulla salute o la vita sessuale, non è quindi possibile aderire alla richiesta di accesso o di comunicazione da parte di terzi se i dati o il documento sono ritenuti utili dal richiedente per tutelare in giudizio un interesse legittimo o un diritto soggettivo che possono essere anche di rilievo, ma che restano comunque subvalenti rispetto alla concorrente necessità di tutelare la riservatezza, la dignità e gli altri diritti e libertà fonda-mentali dell’interessato: si pensi al caso dell’accesso – in un caso, denegato dalla Giurisprudenza – volto a soddisfare generiche esigenze basate sulla pro-spettiva eventuale di apprestare la difesa di diritti non posti in discussione in quel momento (Cons. Stato sez. VI, n. 2542/2002).

Con una Newsletter del 3-9 gennaio 2005, n. 240 il Garante informa che anche le foto scattate a fini di interventi chirurgici sono dati personali.

«Una donna ottiene le fotografie dell’operazione di chirurgia plastica grazie all’intervento del Garante. La donna si rivolge al Garante e riesce a ottenere le fotografie scattate prima e dopo alcuni interventi di chirurgia plastica ai quali si era sottoposta e che intendeva produrre in una causa di risarcimento danni nei confronti del medico che l’aveva operata.

Protagonista una giovane donna che dal 1996 al 2003 aveva subito tre inter-venti chirurgici al seno per impianti di protesi, successive sostituzioni e ridu-zione delle cicatrici. Palesemente insoddisfatta dei risultati raggiunti, nel tentativo di recuperare tutta la documentazione clinica che la riguardava, aveva chiesto

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direttamente al chirurgo plastico al quale si era affidata le foto che lo stesso le aveva scattate prima e dopo le operazioni e copia dei moduli di consenso agli interventi, sottoscritti presso lo studio medico. Di questa documentazione non vi era traccia nelle copie delle cartelle cliniche rilasciate alla paziente dalla casa di cura presso la quale aveva subito gli interventi. Di fronte all’assoluto silenzio del medico, la donna si è vista “costretta” a presentare ricorso al Garante. Iniziativa che si è rivelata di per sé sufficiente a farle raggiungere l’obiettivo.

Già nella fase di primo esame del procedimento, infatti, il medico, seppure su invito dell’Autorità, ha dato completo riscontro alle richieste della paziente. Il ricorso è stato quindi definito con provvedimento di non luogo a provvedere.

Il Garante ha comunque posto a carico del chirurgo plastico le spese del procedimento, per aver concesso alla donna l’accesso ai propri dati solo dopo la presentazione del ricorso. La richiesta presentata al medico era, infatti, pie-namente legittima, essendo stata presentata ai sensi del Codice, che riconosce a ognuno il diritto di accedere a tutti i propri dati personali, comprese le foto-grafie che ritraggono in tutto o in parte il proprio corpo».

Si tratta di una tematica complessa, ancora in evoluzione, che peraltro con-ferisce al medico curante un ruolo di rappresentante degli interessi clinici del malato anche in caso di ricovero e di custode primario della relativa documen-tazione nosologica.

Cartella clinica orientata per problemi (CMOP)

Nel corso degli anni si è sviluppata un’evoluzione concettuale e contenuti-stica sulla cc con l’obiettivo di poter usufruire di uno strumento che consenta una valutazione della qualità dell’assistenza medica e fornisca i dati necessari per la pianificazione orientata per problemi (CMOP), produttiva di una migliore consultazione e di una più chiara organizzazione, attraverso una compilazione rispondente alla logica di individuare gli eventi clinici giustificativi del ricovero e di creare per ciascuno una linea di indagine e di trattamento specifico.

Il principio ispiratore è rappresentato dalla necessità di una assistenza globale, preventiva in primis e poi assistenziale, fondata su una irrinunciabile comunicativa fatta di plurimi approcci specialistici o di settoriali équipe clini-che. Tale strumento operativo valorizza il tentativo di crescita e di comunica-zione tra il personale paramedico e infermieristico coinvolto nella risoluzione dei problemi assistenziali. La cartella, così intesa, dovrebbe prevedere una

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9. La documentazione dell’attività medica 357

parte dedicata a una breve descrizione delle informazioni fornite al paziente circa la sua malattia, della loro influenza su ritmi di vita e terapia; dovrebbe inoltre riportare le domande poste dal paziente o le sue preoccupazioni, non-ché il contenuto dei colloqui con i familiari. Un siffatto sistema consentirebbe di restituire al rapporto medico-paziente, oggi depersonalizzato per l’ecces-sivo peso dato all’aspetto tecnologico dell’assistenza, un nuovo significato. Ulteriore risvolto è la esistenza di un sistema di tutela tale da spingere i medici all’aggiornamento permanente e da impedire a quei sanitari la cui competenza tecnica non sia più all’altezza della situazione di provocare danni nei poten-ziali assistiti.

Introdotta negli USA nel 1969, si compone di quattro parti:

1. la lista dei problemi attivi e inattivi;2. i dati di base definitivi;3. piani iniziali;4. il diario clinico (schema SOVP).

La lista dei problemi dovrebbe contenerli tutti e includere diagnosi già for-mulate, stati fisiopatologici e inoltre sintomi, segni obiettivi patologici ed esami di laboratorio, che sono potenzialmente importanti, non collegati a malattie o sindromi già incluse nella lista, e poi altri importanti fattori connessi alla cura del paziente, come problemi di ordine psichico o di ordine sociale, fattori di rischio e malattie già sofferte. Non appena uno dei problemi sarà risolto, la lista dovrà essere aggiornata.

I dati di base dovrebbero comprendere:

– sintomi che costituiscono la ragione del ricovero;– condizione psico-sociale del paziente;– malattia attuale;– revisione dei dati anamnestici per una costruzione più logica dei dati emersi

o riferiti;– esame obiettivo;– dati di laboratorio già acquisiti, compresi quelli eseguiti fin dalle prime ore

del ricovero.

I piani iniziali dovrebbero favorire l’attuazione di un programma allo scopo di pervenire alla diagnosi o al chiarimento di ciascun problema e a eventuale

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Manuale della Professione Medica358

intervento terapeutico (Nonis M, Braga M, Guzzanti E. Cartella clinica e qualità dell’assistenza.Passato,presenteefuturo. Il Pensiero Scientifico editore, 1998).

In un diario clinico così strutturato sono previste, oltre all’intestazione del problema, delle sottosezioni (schema SOVP):

– S = informazioni soggettive: registra i mutamenti della sintomatologia o l’assenza di una modificazione attesa;

– O = informazioni oggettive: descrive come mutano i dati obiettivi e com-prende i risultati delle indagini eseguite per chiarire il problema alla luce dei nuovi risultati ottenuti;

– V = valutazione sulla base delle precedenti voci: revisione critica del pro-blema alla luce dei nuovi risultati ottenuti;

– P = piano di lavoro: formulazione dei piani di lavoro, che dovrebbe ripor-tare le decisioni prese a riguardo di nuove informazioni da raccogliere per la diagnosi, la terapia e l’educazione del paziente.

In sostanza la CMOP, introducendo concetti di grande rilievo, quale quello dell’assistenza globale, facilitando l’impiego di personale sanitario infermieristico per fini assistenziali, aiutando i medici con una precisa e nitida selezione dei problemi assistenziali, diventa uno strumento necessario ai fini di verifica delle cure prestate e attualizza altresì i principi di formazione professionale continua.

Controllo di qualità e cartella clinica

Il DLgs del 30 dicembre 1992, n. 502 ha apportato profonde modifiche e innovazioni nell’organizzazione del SSN, con l’istituzione delle ASL (art. 3) e delle Aziende ospedaliere (art. 4), nonché l’introduzione del DRG System (Dia-gnosis Related Groups) e delle modalità di finanziamento a esso connesso, introducendo pertanto criteri di verifica e revisione della qualità nell’assistenza ospedaliera. Con tale sistema si costruiscono gruppi di pazienti omogenei per consumo di risorse a partire dalle informazioni sulle caratteristiche cliniche e socio-demografiche dei pazienti presenti nella scheda nosologica ospedaliera. La costruzione dei DRG si basa non più sulla consultazione del memoriale clinico, ma deriva dalla scheda di dimissione ospedaliera e la caratteristica principale dei DRG è quella di essere costruiti sulle procedure cliniche, perché fortemente influenzati dal tipo di trattamento cui il paziente viene sottoposto dal medico. Il sistema dei DRG rappresenta uno schema classificatorio che bene si presta

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9. La documentazione dell’attività medica 359

anche all’estrazione di dati per la valutazione dell’assistenza sanitaria. Tale clas-sificazione si esprime in 25 categorie diagnostiche principali riferibili alle varie specialità mediche e chirurgiche e articolata nell’insieme in 489 gruppi.

Per assegnare ciascun paziente a uno specifico DRG sono necessarie le seguenti informazioni: la diagnosi principale di dimissione, tutte le diagnosi secondarie, tutti gli interventi chirurgici e le principali procedure diagnostiche e terapeutiche, l’età, il sesso e lo stato alla dimissione. Nel nostro paese i DRG vengono utilizzati per procedimenti di verifica e revisione della qualità delle cure all’interno dell’ospedale, discostandosi dalla realtà nordamericana ove vengono utilizzati per determinare l’ammontare delle quote di rimborso per gli ospedali per l’assistenza prestata.

In questa ottica la cc acquisisce una ulteriore connotazione economico-amministrativa, nell’ambito della pubblica amministrazione, diventando docu-mento rilevante a fini epidemiologici, di prevenzione, di valutazione e di con-trollo di qualità delle cure (VRQ), di contenimento della spesa sanitaria, di equa distribuzione delle risorse, per cui una buona pratica clinica si realizza e si documenta in una buona redazione e in una attuale tenuta di tale documenta-zione. La cc diviene pertanto strumento informativo essenziale per questo tipo di indagini, fonte di dati privilegiata, facilmente accessibile; tuttavia la cattiva qualità formale e sostanziale di tale documentazione nel nostro paese rende difficoltose tali indagini.

Un altro problema strettamente connesso al controllo di qualità della cc è rappresentato dal fenomeno dell’accreditamento delle strutture ospedaliere, introdotto negli USA sin dai primi anni del secolo scorso (Joint Commis-sion on Accreditation of Health Care Organizations) e diffusosi nei paesi più avanzati d’Europa e anche in Italia, favorito dalle nuove disposizioni normative in materia (DLgs 502/1992, art. 8, comma 7; legge 23 dicembre 1994, n. 721, art. 6; DPR 1° marzo 1994, cap. 8). E anche nel processo di accreditamento la cc riveste un ruolo importante, essendo, secondo autore-voli autori, la qualità e la riservatezza delle informazioni relative all’utente, tra i criteri da prendere in considerazione, con particolare riferimento alla definizione di criteri di qualità per la compilazione della documentazione sanitaria e una periodica verifica del rispetto di tali criteri. Altri autori sotto-lineano l’importanza della cc quale strumento di verifica della qualità delle strutture ospedaliere, delle prestazioni delle stesse. La necessità di sottoporre

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la cc a un monitoraggio continuo della qualità deriva dall’introduzione dei sistemi di qualità nella nuova gestione della Aziende sanitarie, deputati alla valutazione del rapporto costi/benefici delle prestazioni erogate e alla veri-fica della qualità delle stesse. L’OMS parla di qualità dell’assistenza quando: «ogni paziente riceve l’insieme di atti diagnostici e terapeutici che portano ai migliori esiti in tema di salute, tenendo conto dello stato attuale delle cono-scenze scientifiche, con il minor costo e i minori rischi iatrogeni, ottenendo la sua soddisfazione rispetto agli interventi ricevuti, agli esiti ottenuti e alle integrazioni umane avute all’interno del sistema sanitario».

La cc, “accompagnando” il paziente durante tutta la degenza, diventa fonte insostituibile per la valutazione della qualità del sistema, mentre la sua corretta compilazione e tenuta ha sicuramente ricadute positive sulla soddisfazione del paziente, ulteriore parametro di rilievo nella valutazione della qualità della pre-stazione.

Il controllo di qualità esige la definizione di rigorosi canoni e criteri osser-vativi atti a valutare la qualità formale e sostanziale della cc, quali per esempio:

– qualità dell’anamnesi familiare, fisiologica e patologica remota;– qualità dell’anamnesi patologica prossima (motivo del ricovero);– qualità dell’esame obiettivo all’accettazione;– qualità del diario clinico (regolare, corretta e dettagliata tenuta del diario

clinico);– consenso informato;– corrispondenza scheda di dimissione ospedaliera (SDO)-cartella clinica;– qualità grafica della compilazione.

Cartella clinica e responsabilità secondo il diritto vivente

Il cattivo uso delle cartelle cliniche è abbastanza generalizzato e forse tende ad aumentare anche per una scarsa coscienza del valore che tale documento riveste. Infatti, la cc è anche una costante certificazione di ciò che si rileva e di ciò che si fa. La compilazione della cc riveste grande importanza nella formu-lazione di un giudizio di responsabilità medica.

Oltre al rilievo penalistico, da attribuirsi alla cc, precedentemente ripercorso, la scorretta compilazione della stessa ha notevoli ripercussioni anche dal punto di vista civilistico. Non mancano pronunce che stigmatizzano duramente la lacu-nosità del memoriale clinico, a rafforzare ulteriormente un già fondato giudi-

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zio di condanna dell’operato dei medici. Ma non è mancato l’apprezzamento della omessa (o scorretta) compilazione della cc alla stregua di fattore idoneo a determinare l’inversione dell’onere probatorio: la mancata indicazione del com-pimento di una data attività nel diario clinico farebbe sorgere una presunzione iuris tantum (come tale suscettibile di prova contraria) di mancata effettuazione della stessa (Tribunale Roma 28 gennaio 2002). Sarà dunque il medico a dover dimostrare di aver posto in essere tutti quegli atti, imposti dalle leges artis.

Si riportano di seguito alcuni passi significativi estrapolati dalle pronunce dei Giudici di merito in tema di cartella clinica:

«[…] Inoltre la possibilità che la morte del paziente sia intervenuta per altre cause, diverse da quelle diagnosticate e inadeguatamente trattate, le quali non sia stato tuttavia possibile accertare neppure dopo il decesso in ragione di una difettosa tenuta della cartella clinica o della mancanza di adeguati riscontri diagnostici (anche autoptici), non vale a escludere il nesso eziologico tra la condotta colposa dei medici in relazione alla patologia accertata e la morte, ove risulti l’idoneità di tale condotta a provocarla […]». (Cass. civ., sez. III, 13 settembre 2000, n. 12103 – Cass. civ., sez. III 8 agosto 2000 n. 10414).

Il caso riguarda una neonata che, nel corso del parto, aveva riportato la frat-tura dell’omero destro e lesioni del plesso brachiale di sinistra, con conseguenti menomazioni. Tralasciando la parte circa l’appropriatezza o meno delle mano-vre effettuate durante il parto, la Corte si esprime in merito alla compilazione della cartella clinica:

«[…] la cartella clinica non aveva consentito ai consulenti di ricostruire le concrete modalità di andamento del parto e dell’assistenza prestata dal personale sanitario. In una situazione siffatta, è possibile presumere che le attività che altri-menti vi sarebbero state documentate siano state omesse e comunque la mancata segnalazione, nella cartella clinica, di manifestazioni cliniche rilevanti, di tratta-menti medicamentosi e di atti operativi, è indice di un comportamento assisten-ziale costantemente negligente e imperito. Le irregolarità e deficienze della car-tella clinica denotavano per sé un corrispondente comportamento di assistenza al parto manchevole e negligente, segno di un impegno mediocre e disatteso, fonte certa di responsabilità, perché avevano influito in modo determinante sull’in-successo medico nelle fasi del parto. Ma ad analoga conclusione si perveniva quando si valutavano le specifiche, concrete attività svolte dal personale sanitario che aveva assistito al parto […]». (Cass. civ., sez. III, 8 settembre 1998, n. 8875).

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La responsabilità del ginecologo era stata riconosciuta in primo grado di giudizio sia in ordine alla conduzione del parto senz’alcun dubbio produttiva (per negligenza e imperizia) di anossia fetale, sia per quanto riguarda la inerzia omissiva successiva (mancato riconoscimento della sindrome asfittica).

In sede di appello il giudizio era stato ribaltato in senso assolutorio, nella presunzione di una carenza di prove: non risultando in cc neppure la circostanza che il feto era nato con gravi conseguenze dell’anossia ed essendo per di più le annotazioni riportate in cartella e nel certificato di assistenza al parto tra loro contrastanti e oggettivamente lacunose. La Corte di Appello aveva ritenuto che, comunque, «non fosse stato provato che la situazione era già alla nascita così grave» da dover imporre al ginecologo il trasferimento del neonato in un ambito clinico di terapia intensiva. Assumendo che le pur riconosciute vistose omissioni e contraddizioni, presenti sia in cc che nel certificato di assistenza al parto, fos-sero destituite di qualsiasi valore anche solo meramente indiziario delle difficoltà e della cattiva conduzione del parto (nonostante la cc costituisca un fondamen-tale documento di cui compete al medico la puntuale gestione).

La Cassazione ribalta nuovamente la decisione:«[…] espongono i ricorrenti – la responsabilità del ginecologo era stata

prospettata sia nella conduzione del parto (nel corso del quale, per sua grave imperizia e negligenza, si produsse l’anossia cerebrale), sia per quanto riguarda il comportamento omissivo posteriore alla nascita, concretatosi nell’incapacità di diagnosticare la sindrome asfittica già in atto e nell’apprestare al neonato le tempestive terapie, quantomeno per ridurne le conseguenze. Si era in par-ticolare dedotto – affermano ancora – che la colpa grave dell’operatore era scolpita nell’istruttoria dell’esaurito giudizio, da cui era emerso che, contra-riamente a quanto indicato nella cartella clinica, il parto era stato provocato, aveva prodotto frattura alla clavicola (indice delle difficoltà riscontrate nella fase espulsiva e di estrazione, volutamente omesse nel documento ufficiale della sala operatoria) e aveva causato la sindrome asfittica, per fronteggiare la quale sarebbe stato necessario l’immediato ricovero presso un centro spe-cializzato, mentre il neonato era stato collocato in incubatrice e sottoposto a ossigenoterapia del tutto inutile; e che l’ipossia anossica era stata gestita con omissione, negligenza e imperizia […]. Col terzo motivo la sentenza è cen-surata […] per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione laddove aveva ritenuto che le vistose omissioni e contraddizioni della cartella clinica e

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del certificato di assistenza al parto non potessero assurgere, neppure a livello indiziario, a prova dei fatti causativi del danno lamentato e, in particolare, delle asserite complicazioni che si sarebbero verificate durante il parto. Era stato in tal modo disatteso il principio, enunciato in materia di valutazione dell’esat-tezza della prestazione medica da Cass. n. 12103 del 2000, che le omissioni imputabili al medico nella redazione della cartella clinica rilevano come nesso eziologico presunto, atteso che l’imperfetta compilazione della stessa non può, in via di principio, ridondare in danno di chi vanti un diritto in relazione alla prestazione sanitaria […]». (Cass. civ., sez. III, 23 maggio 2003, n. 11316).

La Cassazione richiama la propria sentenza n. 12103/2000, secondo cui non può, in sostanza, tradursi in pregiudizio del paziente, la imperfetta compilazione della cc (atto di esclusiva competenza del sanitario), nel caso in cui ne derivi l’impossibilità di trarre utili elementi di valutazione sulla condotta del medico.

La parte veramente importante della sentenza non è tanto quella relativa alla decisione circa la responsabilità del ginecologo a seguito di una condotta omissiva (qui i giudici hanno deliberato in base a principi ormai consolidati in Giurisprudenza), quanto quella relativa all’individuazione degli elementi di responsabilità a carico del medico. E difatti la Cassazione punta l’indice soprat-tutto sulle carenze rilevate nella cc, che non fu compilata dal ginecologo nel modo dovuto, tanto che in essa non furono annotati, come il medico avrebbe dovuto fare con puntualità, tutti gli atti diagnostici e terapeutici compiuti, né tanto meno il decorso del parto nelle sue diverse fasi.

«In tema di responsabilità professionale del medico-chirurgo, la difettosa tenuta della cartella clinica naturalmente non vale a escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la colposa condotta dei medici in relazione alla patologia accertata e la morte, ove risulti provata la idoneità di tale condotta a provocarla, ma consente anzi il ricorso alle presunzioni, come avviene in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato, nel quadro dei principi in ordine alla distribuzione dell’onere della prova e al rilievo che assume a tal fine la “vicinanza della prova” e cioè la effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla». (Cass. civ., sez. III, n. 11316/2003).

A tale riguardo la Cassazione afferma che la carente compilazione della cc e del certificato di assistenza al parto non può mai andare a pregiudizio del paziente. Pertanto, nel caso in cui dalla cartella non correttamente redatta non

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sia possibile trarre utili elementi di valutazione della condotta del medico, il giudice – ed è questo il punto nodale – potà fare ricorso “a presunzioni logi-che” come fonti di prova.

Quando dalla cc non è possibile stabilire quale siano stati il processo diagno-stico-terapeutico attuato dal medico e il decorso della malattia, il giudice legittima-mente, attraverso le presunzioni, può risalire a quello che presuntivamente fu il comportamento positivo oppure omissivo del sanitario e al decorso della patologia.

In buona sostanza, questa sentenza della Cassazione, assegna alla cartella significato probatorio e addebita a negligenza (produttiva di colpa del sanitario) la mancata registrazione in cartella di un esame, sanzionando, con molta severità, un comportamento del medico ritenuto “non conforme a scienza e coscienza” sulla scorta di indicazioni probatorie presuntive e non certo in base ai dati obiet-tivi. E tutto perché la cartella clinica non era stata compilata nel modo dovuto.

«[…] Peraltro, poiché la cartella clinica relativamente a una partoriente deve contenere detti dati, la mancanza degli stessi si risolve in omissione imputabile al medico nella redazione della cartella clinica».

«Senonché in tema di responsabilità professionale del medico-chirurgo, la difettosa tenuta della cartella clinica non vale a escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la condotta colposa dei medici in relazione alla patologia accertata e il danno subito alla salute, ove risulti provata la idoneità di tale con-dotta a provocarla, ma consente anzi il ricorso alle presunzioni, come avviene in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascri-vibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato […]». (Cass. civ. sez. III n. 583, 13 gennaio 2005).

Amniocentesi: nella cartella clinica vanno annotati anche i prelievi falliti.I medici che effettuano l’amniocentesi hanno l’obbligo di annotare nella

cartella clinica tutti i prelievi di liquido amniotico effettuati, compresi quelli “andati male” che sono da ripetere. La Cassazione conferma la condanna inflitta a un dottore dell’ospedale di … colpevole di non aver segnalato sulla cartella di una paziente in gravidanza che il primo prelievo era stato ematico, segnalando solo il secondo andato a buon fine. La donna aveva perso il bam-bino. Il medico interrogato si era difeso sostenendo che era “prassi” annotare soltanto i prelievi riusciti. Di qui il processo e la condanna per falso ideologico. Per il sanitario era irrilevante annotare il primo prelievo ematico per la sua inutilità ai fini dell’indagine genetica e perché non aveva comportato l’aumento

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dei rischi connessi all’operazione. La Suprema Corte invece afferma che «nel caso di amniocentesi, intervento particolarmente delicato per i rischi connessi, dato clinico rilevante è anche quello costituito da un prelievo ematico, che, pur se ininfluente ai fini dell’indagine genetica cui l’intervento mira, acqui-sta indubbia valenza alla luce delle conseguenze che ne possono derivare. Il trauma fetale da puntura anche se ritenuta evenienza molto rara da quando la procedura di amniocentesi è guidata dall’ecografia, è pur sempre possibile». Il medico è pertanto tenuto a documentare le attività compiute delle quali si “assume la paternità”. Concludono i giudici che la cartella clinica è un «atto pubblico che esplica la funzione di diario dell’intervento medico e dei relativi fatti clinici rilevanti, sicché i fatti devono essere annotati conformemente al loro verificarsi». (Cass. pen. sez. V, sentenza n. 22694 del 16 giugno 2005).

«[…] al Dr. B. vada imputata una colpa professionale, ravvisabile:

a) nella errata valutazione della possibilità di tenuta della protesi nonostante l’elevato grado di mobilità degli elementi inferiori;

b) nella prematura protesizzazione definitiva;c) nell’aver omesso di annotare in cartella clinica i dati inerenti lo stato paro-

dontale […] impedendo di fatto la verifica della graduale guarigione del parodonto […]». (Trib. Modena 9 luglio 1993).

La cc assume quindi un ruolo importante nel contenzioso medico-legale, quale utile testimonianza per lo stato anteriore (stati patologici, trattamenti pre-esistenti ecc.), per il trattamento disposto (percorso diagnostico, terapie sug-gerite, terapie scelte con il paziente, risultati ottenuti ecc.), per gli interventi successivi (re-interventi, completamento di terapie interrotte ecc.), per gli inter-venti disposti da altri sanitari (completamento di piani terapeutici compositi, terapia di mantenimento, semplice successione di più operatori sanitari ecc.).

La scheda di dimissione ospedaliera (SDO)

È già dal 1995 che il finanziamento degli ospedali avviene in base a un sistema tariffario predeterminato, il cosiddetto sistema dei DRG. Nel momento della dimissione del paziente il sanitario compila la SDO indicando sia la diagnosi prin-cipale, motivo del ricovero, che le patologie concomitanti, quando esistenti, gli eventuali interventi o procedure diagnostiche eseguite oltre un altro considerevole

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numero di item. A ogni informazione presente sulla SDO corrisponde un numero di codice cui a sua volta corrisponde una maggiore specificazione nosologica. In una sanità che per molti versi punta sull’Evidence Based Medicine (EBM), con-cetto per il quale le prestazioni sanitarie sono ritenute appropriate secondo criteri scientifici e obiettivi fondati sui dati forniti dalla migliore ricerca possibile, che esista anche un’Evidence Based Health Care Policy per gestire i servizi sanitari, dei cui strumenti fanno parte senz’altro la cartella clinica e la scheda di dimissione ospedaliera è senz’altro un momento di garanzia in più sia per il cittadino utente che per il medico. Solitamente dopo l’avvenuta codifica, la scheda di dimissione ospedaliera, istituita con DM del 28 dicembre 1991, successivamente integrato e disciplinato dal DM del 26 luglio 1993 (che ha precisato analiticamente conte-nuti e modalità di trasmissione delle informazioni raccolte e ha attivato il flusso informativo della SDO prevedendo la trasmissione, con periodicità trimestrale, delle informazioni in essa raccolte dai singoli istituti di cura alla Regione di appar-tenenza e, da questa, al Ministero della Sanità) e parte integrante della cartella clinica, viene processata da un apposito software, denominato grouper, che attra-verso una sofisticata analisi di parametri (età, patologie associate, procedure ecc.) attribuisce il tipo di DRG e quindi la relativa valutazione del valore economico del ricovero. Dal 1° gennaio 1995, la SDO ha sostituito la precedente rilevazione sui ricoveri attuata con il modello ISTAT/D10. Il DM del 27 ottobre 2000, n. 380, ha aggiornato i contenuti e il flusso informativo della SDO e ha fissato regole gene-rali per la codifica delle informazioni di natura clinica (diagnosi, interventi chirur-gici e procedure diagnostico-terapeutiche), precisando che per tale operazione di codifica deve essere utilizzato il più aggiornato sistema di codici ICD9-CM (1997) (codice a 5 cifre) in sostituzione dell’ormai datato sistema ICD9 del 1975 (codice a 4 cifre). Inoltre tale decreto ha introdotto anche altre innovazioni nel sistema, quale l’identificazione del paziente attraverso il codice fiscale e l’adeguamento del flusso ai sensi della normativa sulla privacy e sulle misure di sicurezza per il trattamento dei dati personali, mediante la gestione separata delle informazioni anagrafiche e sanitarie. Il procedimento di codifica della SDO coinvolge varie figure, quindi non solo il sanitario che dimette il paziente (codifica decentrata), ma anche il personale sanitario della Direzione sanitaria (codifica centralizzata) e altri operatori. Il sanitario ha ovviamente un ruolo centrale nell’operazione di codifica, perché deve tener conto di vari aspetti, spesso solo a lui noti, come la dia-gnosi clinica, la corrispondenza di questa con la nomenclatura del Ministero della

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salute, l’allocazione delle risorse per un determinato ricovero, le procedure utiliz-zate per quel caso specifico, la selezione dei codici corrispondenti, e molto altro. Certo è che la SDO è all’origine di qualsiasi flusso informativo, e fondamentale è la sua corretta compilazione e codifica, nonché la sua utilizzabilità nell’ambito del sistema informativo territoriale e ospedaliero, ricordando che le informazioni raccolte e codificate tramite la SDO sono poi trasmesse alle Regioni e da queste al Ministero della Salute.

La SDO è quindi lo strumento di raccolta delle informazioni relative a ogni paziente dimesso dagli istituti di ricovero pubblici e privati in tutto il territorio nazionale, nel rispetto della normativa sulla privacy, ed è raccolta obbligato-riamente sia in caso di ricovero ordinario sia in caso di Day hospital, non applicandosi, invece, all’attività ambulatoriale né a quella delle strutture socio-assistenziali (salvo disposizioni regionali specifiche). Le informazioni descri-vono aspetti del ricovero sia clinici (diagnosi e sintomi rilevanti, interventi chirurgici, procedure diagnostico-terapeutiche, impianto di protesi, modalità di dimissione), sia organizzativi (ad esempio: unità operativa di ammissione e di dimissione, trasferimenti interni, soggetto che sostiene i costi del ricovero).

Di queste informazioni, alcune indispensabili alle attività di indirizzo e monitoraggio nazionale, vengono trasmesse, come già precisato, dalle Regioni al Ministero della Salute.

Dalla SDO sono escluse informazioni relative a farmaci somministrati durante il ricovero o reazioni avverse agli stessi che sono oggetto di altri peculiari flussi informativi. I dati raccolti attraverso la SDO costituiscono un prezioso strumento di conoscenza, di valutazione e di programmazione delle attività di ricovero sia a livello di singoli ospedali che a livello delle istituzioni regionali e nazionali, e le finalità con le quali si possono utilizzare possono essere sia di natura organizzativo-gestionale, sia di natura clinico-epidemiologica, purtutta-via tenendo sempre in debita considerazione le limitazioni della banca dati e l’adozione di precise cautele nella lettura e interpretazione, in quanto possono verificarsi diversità nella codifica e nella completezza delle informazioni regi-strate da Regione a Regione. I significativi cambiamenti dell’ultimo decennio avvenuti nel Servizio Sanitario Nazionale richiedono certamente la disponibilità di informazioni con l’obiettivo di poter effettuare un sempre migliore monito-raggio degli effetti prodotti dai cambiamenti medesimi e la SDO ne rappresenta un valido strumento, costituendo il fulcro per la costruzione di un sistema inte-

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grato tra informazioni anagrafico-gestionali e cliniche all’interno delle strutture ospedaliere, e all’esterno il tramite per le transazioni di tipo economico e per le attività di verifica e controllo di eventuali comportamenti opportunistici.

Le Regioni, oltre al contenuto informativo minimo ed essenziale, possono poi prevedere informazioni ulteriori di proprio interesse.

La SDO, pertanto, che ha le stesse valenze della cartella clinica in quanto parte integrante della stessa, deve recare la firma del medico curante nonché del responsabile di divisione, il quale assume la responsabilità della regolare compi-lazione della stessa e deve contenere sia la denominazione dell’ospedale di rico-vero che il numero della scheda, il cognome e nome del paziente, il sesso dello stesso, la sua data di nascita e il comune di nascita, il luogo di residenza, la citta-dinanza, il suo codice sanitario individuale, la regione di appartenenza, l’ASL di iscrizione, ma anche informazioni sulle modalità di dimissione e sull’eventualità di un riscontro autoptico nonché sulla diagnosi principale alla dimissione e le patologie concomitanti o complicanze della patologia principale, e infine notizie sull’intervento chirurgico principale (o parto) e altri interventi e/o procedure (in casi di Day hospital motivo del ricovero e giornate di presenza). Le responsabi-lità medico-legali connesse alla compilazione della scheda di dimissione ospe-daliera sono analoghe a quelle della cartella clinica e i dati raccolti attraverso di essa costituiscono un prezioso strumento di conoscenza, di valutazione e di programmazione delle attività di ricovero sia a livello di singoli ospedali sia a livello delle istituzioni regionali e nazionali. Il Ministero della Salute divulga pub-blicazioni periodiche, rapporti statistici e studi e i cittadini e gli utenti specializzati possono avere accesso diretto a una banca dati on-line dove sono archiviate tutte le informazioni aggregate (quindi solo ai dati di insieme) relative alle SDO, e rende disponibili alle Regioni dati dettagliati e indicatori relativi alla attività registrata in ciascuna di esse, in modo da ottenere dal riassunto codificato di ogni singolo episodio di ricovero la disponibilità per un’analisi fenomenologica, stati-stica, epidemiologica, di allocazione di risorse a livello sovraospedaliero.

Il registro operatorio

Con la Circolare del Ministero della Sanità del 14 marzo 1996 n. 61 viene isti-tuito il registro operatorio, parte integrante anch’esso della cartella clinica e con le stesse valenze medico-legali, con finalità di documentare il numero e le moda-

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9. La documentazione dell’attività medica 369

lità esecutive degli interventi chirurgici. Nella cartella clinica deve sempre essere compresa una copia di tale verbale qualunque siano le modalità della sua tenuta, tenuta che però è obbligatoria, in quanto il registro operatorio è un atto pubblico.

Nel registro operatorio non si devono utilizzare simboli o abbreviazioni (a eccezione di quelli convenzionali), oppure legenda degli stessi. Il registro opera-torio è la raccolta dei verbali (ogni verbale è in duplice copia), dell’intervento o degli interventi o delle procedure invasive eseguite in regime di ricovero ordina-rio, Day surgery o Day hospital, sul singolo paziente, nella stessa seduta opera-toria.

Il verbale deve essere compilato obbligatoriamente in ogni suo campo e deve essere inserito in originale nella cartella clinica, e come questa conservato illimitatamente; in caso di procedura informatizzata, per ogni verbale operato-rio vanno stampate due copie cartacee, di cui una va inserita in cartella clinica e l’altra costituisce copia cartacea del registro operatorio.

Ogni unità operativa che effettua interventi chirurgici deve avere un pro-prio registro operatorio, la cui compilazione deve garantire i seguenti requisiti, sia formali che sostanziali.

Tra quelli formali, ad esempio, vanno riportati:

– indicazione della data, di ora di inizio, ora di fine dell’atto operatorio;– indicazione del nome del primo operatore e di quanti hanno partecipato

direttamente all’intervento; – diagnosi pre-operatoria, denominazione sintetica della procedura eseguita

(codifica ICD9-CM);– diagnosi finale, post-operatoria;– tipo di anestesia utilizzata e nome dei sanitari che l’hanno condotta;– ora di inizio e fine dell’atto anestesiologico;– descrizione chiara e sufficientemente particolareggiata della procedura attuata;– sottoscrizione da parte del primo operatore; – tipologia di intervento dal punto di vista igienico-sanitario;– tipologia di intervento a seconda dell’urgenza;– identificazione sala operatoria;– eventuali indagini complementari intraoperatorie effettuate;– eventuale esame istologico richiesto, ordinario e/o estemporaneo;– ora di ingresso e ora di uscita del paziente dalla sala operatoria;– etichetta di materiale protesico e/o impiantabile, nel caso utilizzato;

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– etichette identificative dei container e/o buste sterili;– attestazione dell’esecuzione del conteggio garze/tamponi/strumenti.

Tra i requisiti sostanziali si annoverano, invece:

– la veridicità, cioè l’annotazione puntuale dell’intervento, degli interventi o delle procedure invasive eseguite;

– la completezza, consistente nel fatto che attraverso ogni registro operatorio sia possibile identificare in modo univoco l’esecuzione dell’intervento o degli interventi o delle procedure invasive eseguite in regime di ricovero ordinario, Day surgery o Day hospital, sul singolo paziente, nella stessa seduta operatoria e che il verbale deve essere compilato in ogni sua parte;

– la chiarezza, riguardante sia la grafia che l’esposizione: il testo deve essere chiaramente leggibile e comprensibile da tutti coloro che hanno accesso al registro operatorio.

Ovviamente la custodia del registro operatorio è obbligatoria, e le modalità di custodia devono garantire la massima tutela nei riguardi di eventuali mano-missioni e nel rispetto della privacy, in luoghi accessibili solo da personale autorizzato. I registri vanno tenuti presso le sale/blocco operatorio prima della consegna all’archivio centrale, e sarà cura delle direzioni mediche ospedaliere indicare il periodo di conservazione, comunque non oltre l’anno corrente. All’inizio di ogni anno si dovranno utilizzare nuovi registri operatori al fine di facilitare le modalità di archiviazione.

La scheda sanitaria

La scheda sanitaria è stata introdotta dall’articolo 31 dell’accordo col-lettivo nazionale per la medicina generale (DPR 270 del 28 luglio 2000) il quale prevede, a carico del medico di medicina generale convenzionato con il SSN, un vero e proprio obbligo giuridico di tenuta, compilazione e custo-dia di questo documento per ciascuno dei suoi assistiti, in quanto strumento tecnico-professionale finalizzato a migliorare la continuità assistenziale e che permette di collaborare a eventuali indagini epidemiologiche. Sempre per le stesse disposizioni normative, il medico di medicina generale deve inserire nella scheda sanitaria tutti i dati relativi allo stato di salute dell’assistito, prov-vedendo all’aggiornamento della stessa in caso di variazioni; è inoltre obbli-

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gato alla conservazione dei dati rispettando le norme sulla privacy (legge 675 del 1996 come modificata dal DLgs n. 196 del 30 giugno 2003 entrato in vigore dal 1° gennaio 2004). La scheda sanitaria è destinata esclusivamente all’uso del medico di fiducia dell’assistito contenendo la sua storia clinica e assumendo rilevanza, sempre per detto sanitario, anche ai fini delle certifica-zioni richieste dall’assistito. Per contro, la cartella clinica, compilata per ogni ricovero ospedaliero, è destinata anche ai rapporti esterni e può essere richie-sta addirittura da terzi quando particolari esigenze lo impongano, mentre la scheda, al contrario di quanto avviene per la cartella clinica, che costituisce un vero e proprio atto pubblico, nonostante sia compilata da un pubblico ufficiale non acquista un tale valore a meno che, in alcune situazioni, la sua esibizione sia necessaria, come nel caso di ricovero ospedaliero urgente. In tale ipotesi, infatti, il medico di medicina generale è tenuto a compilare sia la richiesta di ricovero sia la scheda di accesso in ospedale in cui deve indicare le ragioni cliniche della richiesta di ricovero urgente, i dati anamnestici, i prov-vedimenti terapeutici eventualmente in corso e gli accertamenti diagnostici effettuati. In questi casi la scheda sanitaria acquista la natura di atto pubblico, mentre negli altri ha valore di certificazione. La Corte di Cassazione non si è mai occupata specificamente della problematica relativa alla natura e alla rilevanza della scheda individuale sanitaria redatta dal medico di medicina generale. In una decisione ha tuttavia affrontato l’analoga questione della natura della ricetta medica redatta dallo stesso (Sezioni unite penali della Cas-sazione, sentenza n. 6752 del 7 giugno 1998). Al riguardo la Suprema Corte afferma che la ricetta medica non è un atto pubblico, ma una certificazione amministrativa anche se redatta da un pubblico ufficiale, e ciò in quanto con essa il sanitario si limita a compiere un’attività amministrativa che attesta il diritto dell’assistito all’erogazione dei farmaci. Diversamente, nel caso in cui il sanitario attesti in una certificazione di aver personalmente compiuto una determinata attività a favore del proprio assistito e di aver accertato la sussi-stenza di uno stato patologico del medesimo in realtà inesistente, allora in tal caso detta certificazione assume la natura di atto pubblico. Tutto ciò ha delle conseguenze, in quanto, nell’ipotesi di ricetta falsa, è applicabile l’articolo 480 cp che prevede il reato di falso in certificazioni amministrative punendolo con una pena fino a due anni di reclusione, mentre, nel caso di false certificazioni, sussiste il ben più grave reato di falso in atto pubblico punito dall’articolo 479

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cp con una pena di gran lunga maggiore (fino a sei anni di reclusione). Appli-cando questi principi all’ipotesi di compilazione della scheda sanitaria relativa a un assistito, in cui ad esempio il medico di medicina generale attesti falsa-mente l’avvenuta prescrizione di determinati farmaci o l’informazione ai fini del consenso informato, allora tale falsificazione rientrerà nell’ipotesi appena accennata del falso in certificazione amministrativa (articolo 480 cp), mentre nel caso in cui ad esempio il medico attesti falsamente nella scheda l’accerta-mento di uno stato patologico in verità non esistente e poi lo riproduca nella richiesta di ricovero ordinario e urgente in ospedale, allora sarà prospettabile l’esistenza del più grave reato di falso in atto pubblico, punito dall’articolo 479 cp. Oggi per il medico di medicina generale è possibile sostituire (DPR n. 445 del 28 dicembre 2000, “Testo unico delle telecomunicazioni”) la scheda individuale cartacea con una digitale. L’articolo 6 di tale DPR dispone che le pubbliche amministrazioni e i privati hanno facoltà di sostituire, a tutti gli effetti, i documenti dei propri archivi e gli altri atti dei quali per legge sia prevista la conservazione su supporto informatico purché sia garantita la conformità con i documenti originali. Ma per quanti anni il medico è tenuto alla conservazione della scheda sanitaria? La norma non specifica al riguardo. Bisogna, quindi, far riferimento alla cartella clinica, e secondo l’opinione pre-valente, convalidata dalla circolare del Ministro della Sanità del 19 dicembre 1986, indirizzata agli assessori regionali della sanità, la sua conservazione è illimitata rappresentando essa un atto ufficiale destinato a garantire la certezza del diritto e a costituire fonte per le ricerche in campo sanitario. In effetti la tesi deve ritenersi avvalorata dal testo unico sulla privacy in cui è prevista la possibilità per chiunque intenda far valere un proprio diritto innanzi al giudice, il cui riconoscimento è condizionato all’accertamento del contenuto della cartella clinica, di poterla acquisire in ogni tempo. E per analogia, ciò deve intendersi anche per le schede individuali sanitarie redatte dal medico di medicina generale per il proprio assistito.

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10Assistenza al malato inguaribile

M.Barni

Art. 39 - Assistenza al malato a prognosi infausta

In caso di malattie a prognosi sicuramente infausta o pervenute alla fase terminale, il medico deve improntare la sua opera ad atti e comportamenti idonei a rispar-miare inutili sofferenze psico-fisiche e fornendo al malato i trattamenti appropriati a tutela, per quanto possibile, della qualità di vita e della dignità della persona.In caso di compromissione dello stato di coscienza, il medico deve proseguire nella terapia di sostegno vitale finché ritenuta ragionevolmente utile evitando ogni forma di accanimento terapeutico.

Art. 16 - Accanimento diagnostico-terapeutico

Il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse, deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita.

Art. 17 - Eutanasia

Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trat-tamenti finalizzati a provocarne la morte.

Art. 18 - Trattamenti che incidono sulla integrità psico-fisica

I trattamenti che incidono sulla integrità e sulla resistenza psico-fisica del malato possono essere attuati, previo accertamento delle necessità terapeu-tiche, e solo al fine di procurare un concreto beneficio clinico al malato o di alleviarne le sofferenze.

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Art. 38 - Autonomia del cittadino e direttive anticipate

Il medico deve attenersi, nell’ambito dell’autonomia e indipendenza che carat-terizza la professione, alla volontà liberamente espressa della persona di curarsi e deve agire nel rispetto della dignità, della libertà e autonomia della stessa.Il medico, compatibilmente con l’età, con la capacità di comprensione e con la maturità del soggetto, ha l’obbligo di dare adeguate informazioni al minore e di tenere conto della sua volontà. In caso di divergenze insanabili rispetto alle richieste del legale rappresentante deve segnalare il caso all’auto-rità giudiziaria; analogamente deve comportarsi di fronte ad un maggiorenne infermo di mente.Il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, deve tenere conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato.

Il tema, meglio il dramma “medico” dell’assistenza al malato inguaribile sembra letterariamente tradursi in una sorta di “ossimoro” rispetto alla medi-cina terapeutica, ove se ne consideri solo la prospettiva della conservazione in vita e non, più realisticamente ed in modo eticamente corretto, quella della qualità della vita stessa che ciascuno ha diritto di far valere finché non venga meno la vigilanza della coscienza. Ed anche oltre se una opzione non sia stata in precedenza esplicitata. Sarebbe forse più “scientificamente” corretto rife-rirsi al trattamento del paziente incurabile; ma l’essenziale è circoscrivere e defi-nire nei giusti termini la mission del medico al tramonto irrevocabile della vita della persona assistita. Non è ad essa assolutamente pertinente ogni forma di eutanasia estranea per motivi di incompatibilità finalistica ed etica al concetto stesso di Medicina.

Una trattazione esaustiva del tema non è qui prospettabile, perché in buona misura strettamente pertinente alla clinica e perché suscettibile di piegarsi al soggettivismo e destinata pertanto ad evocare premesse e differenziazioni ide-ologiche, quelle stesse che diversificano gli approcci e lacerano le coscienze.

Sui molteplici aspetti che la particolare e in massimo grado specializzata fun-zione della medicina di fine-vita investe e propone, legittimamente si muovono in effetti la clinica, la deontologia, la legislazione, la Giurisprudenza e si con-frontano le varie anime della filosofia morale e della bioetica, sicché una guida

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esaustiva, che valga per l’universo professionale, sembra inesperibile e impro-pria, tanto da far preferire una sintetica trattazione di più utile valenza pratica. Per essa, occorre un pragmatismo che prudentemente e rispettosamente operi un doveroso rinvio al riservato dominio di una ben intesa autonomia illuminata da principi generali oltre che dalle soluzioni e dalle raccomandazioni altamente specialistiche magari valide solo per particolari settori delle attività impersonati dai neonatologi, dai rianimatori, dai palliativisti, dai terapeuti del dolore, che si avvicendano lungo tutta l’ininterrotta parabola statisticamente assegnata alla vita, dall’alta prematurità sino alla estrema decadenza. Essenziale conto meri-tano comunque il quadro delle esigenze fondamentali della professione medica che sono quelle stesse cui autorevolmente si rivolge il Codice di Deontologia e che in questa Guida sono state riprese e considerate nei precedenti capitoli.

Ne deriva che, anche nelle condizioni di inguaribilità, ogni trattamento di assistenza e di cura non può prescindere dal principio universale (fondante anche per la bioetica) delle libertà della persona che la Costituzione della Repubblica stabilisce come diritto inalienabile alla autonoma gestione della propria esistenza biologica, la quale non consente deroghe ai paralleli diritti di discrezionalità e di dignità personali neppure in omaggio alla salvaguardia della salute e della vita che restano beni disponibili nel novero della sola autonomia individuale e nel quadro delle condizioni e con le riserve scandite, tra l’altro, dalla nostra Carta Costituzionale. Per esse il medico, se non ha potestà auto-noma alcuna relativamente alla vita di chi a lui si affida (o è affidato), il quale ne è e ne resta il titolare finché capace di intendere e l’unico legittimo decisore, conserva invece (e non ne può prescindere) il dovere di garanzia, tanto della vita, quanto della salute ma sempre in armonia con la volontà della persona, validamente espressa e/o attestata.

Al di fuori di questa partnership, malamente definita come alleanza terapeu-tica, vien meno, oltre alla rispettabilità del singolo professionista, la legittimità stessa dell’attività medica, che altrimenti abdicherebbe dalla sua funzione/mis-sione di tutela della persona sconfinando nella violenza contro la persona psi-chicamente competente. Ed è appunto nella definizione dell’atto e delle scelte terapeutiche, anche di fine vita, che si muove e si sviluppa una nuova deonto-logia medica, promossa e sostenuta dalla bioetica e dal biodiritto, senza venir meno ai principi pacificamente accolti e perseguiti nel segno dell’autonomia e avvertiti con i sensori della scienza e della coscienza. Da questo essenziale

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fondamento etico-giuridico può e deve trarsi ogni ispirazione e segnalazione alla condotta medica anche nei confronti del malato inguaribile, il cui trattamento esige un plus di responsabilità professionali ma non esente è dall’autolegitti-mante partecipazione della persona assistita.

L’assistenza al malato inguaribile: consentita e appropriata

L’unica e democratica direttiva cui ha da ispirarsi l’attività medica (meno perspicuamente si parla di atto medico che resta ogni singolo momento della condotta) stabilisce come ogni condotta resti giuridicamente garantita (vedi la sentenza della Cass. pen. sez. unite 21/1/2009 n. 2437), finché si ispira al rispetto assoluto, da parte del medico, dei doveri di congrua informazione e di acquisizione del consenso, momenti preliminari ma irrinunciabili al dispiegarsi delle procedure e prescrizioni tecniche.

Si deve quindi considerare che anche nel quadro della assistenza al malato ormai deprivato da ogni suscettibilità di guarigione, non solo, ma soprattutto ormai prossimo alla fine, non può venir meno ai principi della sacralità (che significa essenza e mistero di ciascuna vita) e della inviolabile autonomia della persona, informata, cosciente e responsabile. Ad ogni effetto, essa può essere surrogata nei casi di immaturità o di non coscienza dalla espressione di con-sapevolezza e di consenso di chi esercita la tutela, efficace e determinante se contenuta entro limiti che non contrastino con le irrinunciabili finalità di garanzia proprie del medico (rispetto della vita e della dignità della persona anche non competente), che soltanto la libera e diretta scelta del soggetto competente avrebbe potuto altrimenti delimitare e indirizzare, in un confronto capace di attingere le ragioni più intime e individuali dell’esistenza. Ma la sua inesperi-bilità diretta non può, salvo particolarissime condizioni d’emergenza-urgenza, slatentizzare insindacabili e immotivate potestà.

L’altro requisito da considerare e sottolineare come espressione di un con-cetto apparentemente ovvio e tanto connaturato all’attività medica quanto inteso come espressione di una nouvelle vague deontologica è quello dell’appropriatezza delle scelte, non slogan rivoluzionario rispetto alla classica cultura medica ma implicito alla vicenda sanitaria se intesa alla stregua di ovvia garanzia di sicu-rezza, di capacità, di responsabilità. La decisione medica deve essere, in effetti, il risultato di una serrata logica (che faccia cioè a meno di ogni archetipo e conflitto

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di interesse); e logos vuol dire discorso problematico (non verbum che sottende etimologicamente una presupposta verità): un discorso cioè che si articoli su pro-posizioni chiave, si colorisca di suggestioni antiche e recenti, sia tributario di un metodo indefettibile (eco ammonitrice della méthode cartesiana), sia espressione di una cultura in costante divenire, per quanto possibile, avvalendosi di punti fermi (le conquiste della scienza) ma non paralizzanti, si rifletta e si rifranga su tutte e su ciascuna delle contingenze cliniche anche le più esasperate. E ciò attraverso il ragionamento clinico che può essere definito come il prodotto delle operazioni razionali che il medico compie per diagnosticare, spiegare e curare i fenomeni patologici o come il complesso dei processi ermeneutici che il medico anche empaticamente impegna per spiegare e comprendere la condizione del paziente. Come saggiamente afferma Pagni, l’appropriatezza sta a significare la scelta «giu-sta, da parte dell’operatore giusto, nella struttura giusta». Nel quadro della logica clinica non può quindi che operare tanto la medicina della esperienza, ambiguo frutto della certezza naturalistica e della osservazione casistica e sperimentale, quanto la medicina della deduzione, arricchita dal transfer delle evidenze, quanto infine la medicina della induzione valida sempre se capace di non arrendersi alle suggestioni statistiche. Si impone così una appropriatezza capace di umanizzarsi, di individualizzarsi, di confluire nell’alveo della medicina della persona in ogni fase della vita, di una medicina cioè che si ponga al rispettoso servizio dell’amma-lato: la medicina cioè dell’amore, del dolore, della felicità, dell’autonomia e della dignità di ciascuno, in un amalgama sereno e flessibile, anelante alla simpatia, non precipitato dalle ideologie e dalle scorciatoie culturali (preconcette).

Ebbene, la decisione medica appropriata, che altrimenti può dirsi scelta, opzione, indirizzo, costituisce la sintesi finale, operativa o anche desistiva; ed è qui che si ripropone il senso vero dell’obbligo di garanzia che il medico trae dal messaggio costituzionale (art. 32 Cost.).

Il comportamento medico autolegittimato rappresenta così non tanto un dovere (ovvio) quanto una porzione della condotta terapeutica (meglio, direi, del rapporto medico-paziente) che trae il suo primo fondamento proprio dalla informazione e dalla esplicitazione del consenso. Se consentito ed eseguito lege artis, l’atto, in se stesso, gode di compiuta fisionomia e di una sua complessiva legittimità, sempre che non sia stata la monologante autorevolezza del medico a orientare e tracciare gli obiettivi terapeutici da perseguire “negligendo” ciò che il paziente abbia potuto intendere o abbia mal compreso al riguardo. L’atto

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medico è per contro privo della necessaria dimensione etica e della specifica copertura costituzionale allorché vi faccia difetto la componente relazionale che nel caso di persona non competente (minore, incapace di mente) dev’es-sere entro certi limiti intrattenuta con chi esercita la tutela.

Le scelte mediche: tra desistenza e accanimento

Ad una complessa ispirazione valoriale, e cioè la tutela della salute da per-seguire nel rispetto della libertà e della dignità personali, non può dunque non attenersi la logica clinica che resta ancora il fondamentale, ma non il solo, fattore delle scelte. Pochi e definiti margini restano in effetti per consentire l’influenza di pulsioni diverse: da una parte l’interesse pubblico eccezionalmente prepon-derante se e quando definito dalla legge (malattie infettive, malattie mentali, ecc.), dall’altra il rispetto degli indirizzi morali del singolo medico da contenere peraltro entro quei limiti di autonomia traducibili nella obiezione di coscienza quando ex lege prevista o nella clausola di coscienza deontologicamente cor-retta e responsabilmente intesa. Il resto può essere oggetto solo di scansione deontologica e medico-legale: che, in definitiva, rappresenta il parametro della correttezza “sociale” d’ogni decisione medica, fatta di scienza e di umanità, concretizzata ed espressa nell’ambito del “logico” protagonismo del medico, cui non può supplire, a differenza di quanto occorre nel mondo anglosassone, né la consulenza etica ne l’apporto decisivo di figure professionali diverse. La decisione è un atto di coscienza e di volontàcheuniscemedicoepaziente. Dall’esterno può operarsi solo accentuando gli strumenti di conoscenza e di responsabilità nei protagonisti reali o potenziali della decisione, attraverso la formazione e la informazione, la crescita scientifica e morale. Le fasi diverse e le competenze diverse non possono né debbono in effetti scomporre la dialogante unicità di un percorso, specialmente se obbligato dalle contingenze della incurabilità, ma semmai porre in luce, a monte della contingenza stessa, la gamma delle opzioni possibili su cui scienza e morale si confrontino e da cui derivi a valle una armo-nia tra le varie istanze e prospettive anche quando la scelta non dovrebbe tec-nicamente che essere una. Non può in effetti frapporsi tra il medico decisore e l’atto della decisione una trama di suggerimenti, che non sono, comunque, né metodologicamente, né scientificamente, né eticamente vincolanti ancheai fini della scelta (ed è in questo senso giusto il richiamo al limite delle linee-guida) e

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tanto meno scriminanti in senso deontologico-giuridico. Altrimenti, l’opera del medico è destinata a cedere alla inerzia (medicina difensiva) o alla predominante soggezione ai dogmi (scientifici o etici) incombenti sui giudizi, alla derespon-sabilizzazione, cioè, dei soggetti interessati, con il risultato di frantumare così ogni unitarietà e titolarità del processo decisionale. Esso non deve mai scostarsi né dalla razionalità scientifica né dal colloquio tra medico curante e soggetto assistito o suo legale rappresentante che sottende, come si è visto, un dialogo pregnante, semplice o complesso che sia: non più un soliloqio del medico, da recitare, come in passato, in riservata e ombrosa solitudine, ma un’impresa pluri-soggettiva da perseguire con il paziente, ovvero con chi lo tutela e lo rappresenta, in una trepida e lucida atmosfera di ascolto anche dei motivi espressi o inespressi da una sorta di coro eschileo composto dalla famiglia, dalla società, dalla giustizia tanto distributiva quanto retributiva. La soggettività del discorso viene siffat-tamente recuperata nel senso profondo di una missione quale è sentita nella coscienza individuale, ma non fino alla inderogabilità o alla obiezione apodittica.

In questo quadro si sviluppa dunque il percorso prasseologico della medi-cinac.d.difinevita, che non può, per quanto sin qui riassunto (e semplicemente esposto nell’allegato Codice di Deontologia), distaccarsi dal rapporto con la persona ed ignorarne la autonomia.

La fase fondamentale del comportamento logico, una volta esperito nella maniera migliore possibile l’approccio diagnostico e prognostico, risiede infatti nel trattamento o anche nel non trattamento (o nella cessazione del trattamento o desistenza terapeutica), fasi essenziali che presuppongono una decisione non sem-pre revocabile e ad un certo punto inflessibile che deve rispettare pur sempre il fine della medicina, quello di tentare il recupero dello stato di salute migliore possibile e di salvaguardare la vita o almeno la qualità della vita, ma entro i ter-mini della logica (ragionevolezza) clinica; mai al di fuori della duplice reciproca potestà individuale di far valere la propria libera volontà e di imporre il rispetto della propria dignità. E ciò vale tanto per il medico quanto per l’ammalato.

Giova qui ripetere che il paziente competente può accettare o respingere la intrapresa di un trattamento che sia persino sostitutivo di una funzione essen-ziale della vita (ventilazione artificiale, emodialisi, emotrasfusione, trapianto, nutrizione artificiale) e può esigerne la sospensione; ed il medico ha il dovere essenziale di renderlo edotto dei rischi connessi ad una scelta che può essere definitiva.

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Il rifiuto del trattamento

Per quanto peculiarmente riguarda il rifiuto di terapie salva-vita si continua a discutere (con ricadute bioetiche inquietanti) sulla indisponibilità del substrato corporeo, oltre che della vita stessa e si revoca, mettendola in dubbio, la legitti-mità del rifiuto di curarsi. Per converso, si condannano i trattamenti non diretta-mente correlati a condizioni patologiche, riconducendo così la malattia e la salute nelle strettoie del mero organicismo. Questa escalation di divieti moralistici non è tuttavia accettabile, posto che nella temperie civile e democratica, la scelta deve solo derivare da una effettiva armonia tra libertà di curarsi e libertà di essere curati: ed è questo un principio basilare della professione medica, un principio del resto prevalente nella stessa Bioetica, quale è nata e si è nel tempo affermata.

Al di là delle indicazioni normative dirette a soddisfare interessi generali, non possono che valere in definitiva le potestà della medicina, assolutamente legittime se indirizzate verso una virtuosa gamma di obiettivi. Esse vanno con-siderate nella temperie di una responsabilità medica cui fiduciosamente dare credito ma non possono tuttavia tradursi in obblighi sul se e sul come, tanto per il medico (di cui tuttavia sono ammessi anche nella terminalità e la obiezione di coscienza ed il rifiuto deontologicamente corretto) che per il paziente. La Corte Costituzionale ha d’altronde negato a più riprese allo stesso legislatore la discrezionalità di intervenire nella materia decisionale delle scelte curative (se e quando, ad es., siano ammissibili l’elettroshock, il ricorso a medicine alterna-tive, i divieti extrabiologici ed extraterapeutici, la procreazione medicalmente assistita), ammonendo sulla inesperibilità e la intrasferibilità sul piano tecnico di prescrizioni normative. Ed è quanto meno improprio che proposte legisla-tive relative al testamento biologico contemplino la indichiarabilità e la inaccetta-bilità di scelte anticipate relative, ad es., alla nutrizione artificiale dei soggetti in stato vegetativo. Allorché l’accettazione o il rifiuto di una terapia assumono la tragica fisionomia delle scelte di vita, per il medico non può venir meno il rispetto della autonomia della persona. In questa atmosfera d’acceso impegno morale, si fondano e si identificano le due finalità di scelta (la salute, la vita) e i problemi che sembrano ancora marcarne la differenza concorrono solo come occasionali distonie proprie delle evenienze di inesperibilità e di indisponibilità del consenso o del dissenso al trattamento, direttamente e contestualmente espressi. Ma sono solo parvenze di alterità, che la medicina legale, la deonto-

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logia e il diritto, hanno, col trascorrere di un tempo ben misurabile, del tutto superate anche grazie alla affermazione, in chiave non solo bioetica, dell’auto-nomia della persona.

Ove il soggetto non sia competente si pongono tuttavia ulteriori e più artico-late esigenze di rispetto dell’autonomia stessa, alternative rispetto alla diretta esressione di volontà che nel malato, ormai inguaribile, possono considerarsi non superabili:

a) Informazione e acquisizione del consenso da coloro che esercitano la tutela, sempre che la scelta di questi soggetti non implichi un trattamento diretto a provocare la morte (eutanasia attiva).

b) Richiesta di intervento di un amministratore di sostegno in caso di controversia o di profonda incertezza.

c) Ricorso costante e sereno alla leniterapia e alla sedazione del dolore.d) Non adozione o sospensione di ogni trattamento (ivi compresa la nutri-

zione artificiale) quanto incapace di svolgere una effettiva azione e non sia biologicamente attivo.

Possono così riprendersi questioni particolari che per quanto attiene le scelte mediche di fine-vita acquistano un significato esemplare. La prima riguarda la persistenza (o la inesistenza) di un trattamento ormai inutile, futile ed al limite dannoso: in altri termini chiama in causa il c.d. accanimento terapeutico. E si ripre-senta inevitabilmente la domanda che vediamo emergere sempre più distinta-mente nel dibattito pubblico: fino a che punto il medico può e deve spingersi con la terapia? Certamente, è dovere del medico non accanirsi, sapersi fermare quando non c’è più nulla da fare anche se questo può provocare frustrazione e sconforto, specialmente nei casi, che vorremmo chiamare “estremi”, quando cioè lo stato del paziente non solo gli impedisce di esprimersi e di relazionarsi col mondo esterno, ma blocchi la coscienza e riduca la persona ad una anatoma suc-cube della terapia e tale stato si riveli, dopo un attento e prolungato esame, come irreversibile. Non si tratta solo di eventi riguardanti l’interrogativo dei limiti della medicina, ma anche di fatti riguardanti per esempio le sfide della sperimenta-zione e in particolare dei trapianti. In queste situazioni deve recuperarsi e libe-rarsi una umanità onestamente esperibile nel trattamento dei singoli casi, la quale non esclude la incombenza di qualche rischio anche drammatico che la respon-sabilità di ciscuno deve saper assumere quando venga il momento di farlo. È

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così anche chi sente «il mistero di Dio» pervadere la propria vita potrà porre con fiducia il proprio dovere di scelta «nelle mani del Padre». Lo afferma con schiettezza I. Marino e laicamente vorremmo aggiungere che non dovrebbe proprio allora venir meno la fiducia nel medico, che anche nel mondo giuridico è considerato l’insostituibile arbitro delle opzioni più drammatiche: una fiducia che riconosce e rintraccia il senso di umanità, di carità, di responsabilità. Del resto

«Arrivauntempoincuifinisceiltempoe sempre più si assottiglia e aderisce alle rughe della terra e dei massi.La memoria è il velo sottile di muschioche c’è e non c’è. Lo spazionon ha confini, è irriconoscibile.Ogni bagliore è luce dell’eterno,èriflessionedivina.»1

Le direttive anticipate

L’ultimo punto che impone qualche definitiva considerazione è il testamento biologico ovviamente riferito alle condizioni di fine-vita. Un documento appro-vato pressoché unanimemente dal Consiglio nazionale degli Ordini dei Medici (Terni, 12 luglio 2009) ha previsto con chiarezza e lungimiranza la propensione dei medici italiani per una normazione in tema di testamento biologico, limitata alle procedure di compilazione e di gestione e non più pervasiva delle scelte professionali da adottare caso per caso, con scienza e coscienza e in armonia con le volontà della persona assistita direttamente espresse o consegnate ad una direttiva anticipata. Naturalmente la essenziale e più dibattuta questione resta quella dello stato vegetativo e della pertinenza della alimentazione e idratazione artificiali alle comuni forme di assistenza ovvero all’ambito terapeutico, al quale deve essere estranea ogni forma di accanimento.

Su quest’ultima tesi è decisamente schierata la comunità clinico-scientifica, a partire dall’American Medical Association che già il 15 marzo 1986, approvando una risoluzione del CouncilonEthicalandJuridicalAffairsha configurato «la sommini-strazione artificiale di nutrizione ed idratazione tramite una sonda per gastrosto-

1 Cesare Viviani, Credere all’invisibile, Einaudi 2009.

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mia (ma anche tramite sondino naso-gastrico) come una forma di trattamento medico che può essere interrotta in conformità ai principi e alle pratiche che regolano ilnoninizioelasospensioneditrattamentimedicichesoloprolunganolavita. Le fondamentali risoluzioni sono presentate e discusse nel documento pubblicato da JAMA (263 - 1990, pp. 426-430: PersistentVegetativeStateandthedecisiontowith-droworwitholdlifesupport), le varie e pressoché conformi linee-guida operanti in ogni paese meno che in Italia (ove il Ministero della Salute elaborò alla fine degli anni ’90 il c.d. rapporto della Commissione Oleari, mai peraltro ufficializzato) si sono attestate sulle stesse conclusioni. Si veda per tutte la esemplare risoluzione della BritishMedicalAssociation: Witholdingorwithdrowinglifeprolongingmedicaltreat-ment: guidance fordecisionmaking (BMJ Books, London, 1999) che definisce “thecategorizationof artificialnutritionandhydratationasaformof medicaltreatment”, stabi-lendo anche le più logiche garanzie per la decisione di sospensione terapeutica.

La Giurisprudenza è assolutamente e ubiquitariamente ferma su tali prin-cipi. Vedasi per tutti la sentenza sul caso Bland (dicembre 1992 - febbraio 1993) relativo ad un soggetto in s.v.p. successivo a traumatismo multiplo, esaminato dalla House of Lords (la Corte Suprema inglese). Per essa i trattamenti life-saving (nutrizione e idratazione) «costituiscono trattamenti medici soggetti alla valuta-zione medica di appropriatezza per cui il medico non ha l’obbligo giuridico di somministrare trattamenti medici quando ormai incapaci di qualsiasi beneficio (incorrispondenti cioè al best interest); e il medico è tenuto a sospenderli, quando un paziente non è più in grado di acconsentire o di rifiutare e non abbia prece-dentemente espresso la sua volontà, pur avendone discusso con la famiglia». Ma anche la Giustizia italiana ha recentemente sancito (Cass. sez. I civ., 16 ottobre 2007, n. 21745) come «nonv’èdubbio che l’idratazione e la alimentazione artificiale con sondino naso-gastrico costituiscono un trattamento sanitario. Esse infatti integrano un trattamento che sottende un sapere scientifico, posto in essere da medici, anche se poi proseguito da non medici, e consiste nella somministra-zione di preparati come composti chimici implicanti procedure tecnologiche». Anche la Corte di Appello di Milano, col decreto della sezione I civile del 9 luglio 2008, segue tale linea, elencando i fondamentali presupposti per una ricostru-zione “oggettiva”. Una impostazione di tal genere ha d’altronde una sua ragione etico-giuridica che riconosce una matrice estranea alla competenza medica e tut-tavia essenziale per tutte le implicazioni deontologiche (vedi ConvenzionediOviedoe Codice di Deontologia medica). Il problema del procedimento applicativo o sospen-

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sivo di idratazione e alimentazione artificiale è invece di natura esclusivamente clinico-terapeutica e di competenza quindi esclusivamente medica. Ne fa fede, alla fine, un recentissimo intervento della Corte Costituzionale, che al punto 6.1, penultimo comma della sentenza 151/2009, ha nuovamente posto l’accento sui limiti che alla discrezionalità legislativa pongono le acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione e sulle quali si fonda l’arte medica, sicché, in materia di pratica terapeutica, la regola di fondo deve essere l’autonomia e la responsabilità del medico che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali (vedi anche le sentenze delle n. 338 e n. 382 del 2002 sulla incostituzionalità di leggi regionali relative alle terapie elettroconvulsivanti e alle pratiche non convenzionali). La decisione della Corte del 10 aprile 2009 proietta così molta ombra sul disegno di legge relativo alle dichiarazioni anticipate di trattamento, là dove per l’appunto vengono prospettati limiti alle decisioni medi-che legittimamente e responsabilmente assunte in armonia con le espressioni di volontà, anche anticipate, del paziente, che peraltro non possono ritenersi vinco-lanti per chi abbia espresso specifica obiezione di coscienza.

Per evocare una suggestiva metafora potremmo infine dire che l’autono-mia del paziente relativa al trattamento e quindi il rispetto da parte del medico della libertà personale, anche alla fine della vita, si riconoscono nella idea di una porta che separa il paziente dal medico. Se il paziente ha taciuto e tace, il medico vi ha legittimo accesso, mentre se la decisione di non aprirla è stata presa o anticipata liberamente e consapevolmente dal paziente, essa non può essere forzata neanche quando, oltre la soglia, si esaurisce ogni speranza2.

Definizioni

Eutanasia

Azione od omissione deliberatamente diretta a provocare una morte non accompagnata o liberata da sofferenze fisiche e/o morali. È una soluzione finale assolutamente estranea alla potestà e all’etica medica. Il termine è tuttavia infe-licemente utilizzato con aggettivazioni deontologicamente inammissibili: attiva-passiva, pietosa (mercy killing), volontaria (invocata cioè dalla persona assistita). La

2 Chiccoli I.: Brevi note sulla distinzione fra eutanasia attiva e passiva, in «Forumbiodiritto2008:percorsiaconfronto:iniziovita,finevitaealtriproblemi» a cura di Casonato C. e coll., Trento, 2008.

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più esatta definizione ne è offerta dall’art. 17 CDM (vedi). Non è culturalmente oltre che professionalmente accettabile la inclusione nella dimensione eutanasia nel processo di desistenza dalla terapia eticamente e deontologicamente legit-tima, e quando sia richiesta dal paziente competente ovvero espressa dal legale rappresentante ovvero infine confidata a direttive anticipate (art. 39 CDM).

Accanimento terapeutico

La migliore definizione è quella offerta dall’ultimo comma dell’art. 39 CDM, che ne evidenzia la censurabile e difensivistica pretestuosità e futilità, ponendo per contro in positiva luce il dovere del medico di proteggere la vita anche «in caso di compromissione dello stato di coscienza» e di proseguire «nelle terapie di sostegno vitale finché ritenuta ragionevolmente utile» anche nel quadro di una equa fruibilità delle risorse e dei presidi.

Direttive anticipate

Espressione di opzioni relative alle scelte diagnostiche o curative desiderate o rifiutate, manifestate dal cittadino ancora in condizioni di ben intendere, ma valide anche se derivate da una dichiarazione di volontà quod vitam aut valetudi-nem dirette a proiettare la propria autonomia decisionale verso una fase o con-dizione della propria vita nelle quali sia impossibile o inesperibile il consenso informato. Rinviando ad altra parte della Guida la trattazione del tema, ci si limita qui ad affermare che il medico è tenuto a soddisfare le volontà siffatta-mente espresse, sempre che esse non contrastino con l’etica (deontologia) e la dignità professionale e non contemplino attività eutanasiche ultronee alla consapevole e motivata desistenza terapeutica.

Leniterapia

Ogni atto medico che, oltre che alla desistenza di ogni inane o straordinaria iniziativa su soggetti ormai prossimi alla fine, specialmente se sofferenti, sia diretta a realizzare una qualità dignitosa e serena della vita che si spegne.

Trattamenti incidenti sulla integrità psicofisica

Nel quadro della attività terapeutica sono quelli diretti a lenire il dolore o a con-sentire salvifici trattamenti. Non sono condannabili ed anzi doverosi se finalistica-mente positivi, ancorché inaccessibili di ridurre e/o indebolire le funzioni vitali.

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11Sessualità e riproduzione

E.Turillazzi

Art. 42 - Informazione in materia di sessualità, riproduzione e contraccezione

Il medico, nell’ambito della salvaguardia del diritto alla procreazione cosciente e responsabile, è tenuto a fornire ai singoli e alla coppia, nel rispetto della libera determinazione della persona, ogni corretta informazione in materia di sessualità, di riproduzione e di contraccezione.Ogni atto medico in materia di sessualità e di riproduzione è consentito uni-camente al fine di tutela della salute.

La contraccezione e la sterilizzazione

La contraccezione

La contraccezione ormonale è una metodica volta alla prevenzione del concepimento attuata tramite la somministrazione di preparati estroprogestinici variamente combinati secondo determinati schemi posologici. I metodi contraccettivi meccanici e di barriera sono, invece, quelli che creano un ostacolo all’incontro fra sperma-tozoi e ovocita.

V’è da sottolineare un aspetto particolarissimo della contraccezione rap-presentato da quelle pratiche che vengono ricomprese nella definizione di intercezione, termine col quale si definisce la prevenzione della gravidanza prima o subito dopo il concepimento. I metodi attraverso i quali si può attuare la intercezione sono:

a) ormonali: tendenti alla inibizione dell’annidamento mediante somministra-zione orale di dosi elevate di estrogeni oppure di estroprogestinici con inizio

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della assunzione idealmente entro le 24 ore dal rapporto presunto fecon-dante e comunque non oltre le 72 ore (cosiddetta “pillola del giorno dopo”);

b) meccanici: mediante la applicazione di un dispositivo intrauterino nei giorni immediatamente successivi al concepimento in modo da impedire l’annida-mento e quindi l’inizio della gravidanza (cosiddetto “IUD del giorno dopo”).

Lapilloladelgiornodopo, in definitiva, altro non è che un contraccettivo ormo-nale usato con particolare sequenza cronologica e con particolare dosaggio e gravato da effetti collaterali e indesiderati non indifferenti. Si tratta di una metodica già in uso da lungo tempo e che consistite nella somministrazione di estroprogestinici variamente combinati e a vario dosaggio utilizzati, appunto, a scopo di contraccezione d’emergenza. L’introduzione di farmaci nuovi (nel senso che a sostanze già note e utilizzate è stata data una formulazione farmaceutica nuova) è stata definitivamente sancita con decreto di autorizzazione del Mini-stero della Sanità (GU n. 238 dell’11 ottobre 2000) che autorizza la immissione in commercio di specialità medicinali a base di levonorgestrel, prescrivibili con ricetta rinnovabile di volta in volta e con la specifica indicazione terapeutica di «contraccettivo d’emergenza da usare entro 72 ore da un rapporto sessuale non protetto o in caso di mancato funzionamento di un sistema anticoncezionale».

La prescrizione della pillola del giorno dopo deve rispondere a precisi requisiti (rispetto delle indicazioni, considerazione delle controindicazioni e degli effetti collaterali) lacuivalutazionespettaindefinitivasoloalmedico, tenendo ben presente che essa non può essere considerata tout court una alternativa agli usuali metodi contraccettivi. Solo quando il sanitario ritenga, sulla base dei dati clinico-anam-nestici in suo possesso, la somministrazione della pillola del giorno dopo oppor-tuna, efficace e ragionevolmente priva di prevedibili effetti collaterali, egli è tenuto alla sua prescrizione, previa ampia informazione al soggetto.

In merito alla possibilità di rifiuto della prescrizione della pillola del giorno dopo, da parte del sanitario occorrono ulteriori specificazioni.

Tali metodiche esulano dalle previsioni della legge 194/1978. I mezzi inter-cettivi vengono impiegati prima dell’instaurarsi dello stato gravidico e del suo accertamento per cui il loro utilizzo non richiede la attivazione delle procedure previste dalla legge per l’interruzione volontaria della gravidanza nei primi novanta giorni. Ciò premesso, è evidente che non è applicabile in questa fattispe-cie la obiezione di coscienza così come prevista dalla legge 194/1978 esplicitamente

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solo nelle ipotesi di interruzione volontaria della gravidanza. Rimane, tuttavia, per il medico la possibilità, motivata da contrasti con la sua coscienza o con il suo convincimento clinico, di un «rifiuto d’opera professionale».

La sterilizzazione

Definizione

Nell’affrontare la questione della sterilizzazione, occorrono, ai fini di un corretto inquadramento del fenomeno, alcune precisazioni terminologiche. Il termine sterilizzazione indica «ogni atto (e in particolare ogni atto medico) volto a provocare la sterilità in un soggetto sessualmente fecondo».

Sterilizzazione terapeutica

Il tema della sterilizzazione terapeutica, volta cioè a “curare” patologie neo-plastiche o di altra natura nell’uomo o nella donna, non offre particolari spunti di indole etico-giuridica, fatto salvo il dovere del rispetto dell’indicazione tera-peutica e, soprattutto, dell’obbligo per il medico di assolvere a una informa-zione am pia a coprire tutti i molteplici aspetti della procedura (in particolare i rischi e le possibili complicanze fra cui, appunto, gli esiti sterilizzanti) al fine di ottenere un consenso veramente informato e consapevole da parte del sog-getto che si sottopone a simili procedure terapeutiche mediche o chirurgiche.

Sterilizzazione volontaria

La sterilizzazione volontaria necessita di essere inquadrata sotto il duplice profilo della liceità etica e della fattibilità giuridica nel contesto del nostro ordi-namento giuridico attuale.

Considerata la sterilizzazione volontaria, come fattispecie di intervento con finalità terapeutiche, occorre procedere al suo inquadramento normativo-giuridico, ricordando come l’abrogazione dell’art. 522 cp (procurata impotenza alla procreazione) ex art. 22 legge n. 194/1978 non ha, ipso facto, aperto la strada alla liberalizzazione delle ipotesi di sterilizzazione: la causazione della perdita della capacità di procreare configurerebbe, infatti, una lesione perso-nale gravissima (art. 583 cp).

L’abrogazione dell’art. 522 cp non sembra, quindi, aver risolto definitiva-mente il problema della liceità penale degli interventi di sterilizzazione umana volontaria la cui interpretazione giuridica non appare univoca, oscillante com’è

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fra le opposte posizioni di quanti ravvisano nell’art. 5 cc (che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo quando provochino diminuzioni permanenti della integrità psico-fisica del soggetto) un limite invalicabile non superabile nella fattispecie della sterilizzazione nemmeno con il consenso dell’interessato, e quanti, invece, ritengono che «un soggetto consenta ad atti relativi alla pro-pria integrità fisica, se rispondenti ad una scelta per finalità di salute psichica, liberamente valutata». In altri termini, la barriera dell’art. 5 cc non opererebbe nelle fattispecie della sterilizzazione volontaria in quanto non di diminuzione della propria integrità psico-fisica si tratterebbe, bensì del raggiungimento del bene salute (seppure latamente estesa) tutelato dalla Costituzione.

La sterilizzazione volontaria sembra, quindi, essere ammessa nel nostro ordinamento solo se veramente volontaria e suffragata da un consenso real-mente informato e consapevole proprio a motivo delle particolari implicazioni (irreversibilità) dell’atto che si intraprende; ne deriva per il sanitario un obbligo informativo forte e imprescindibile. La reversibilità degli interventi di steriliz-zazione e il conseguente venir meno dell’attributo della permanenza della ridu-zione della integrità psico-fisica indotta dagli atti di disposizione del proprio corpo di cui all’art. 5 cc, potrebbe attutire, fino a eliderla completamente e finalmente, la vetusta ed abusata barriera dell’art. 5 cc. È altresì evidente che il medico cui venga richiesto di praticare un intervento di sterilizzazione può legittimamente rifiutarsi di aderire alla richiesta del soggetto, rientrando appieno tale evenienza nella ipotesi di legittimità del rifiuto di obiezione di coscienza.

Sterilizzazione coattiva

Un cenno, sia pur breve, merita la sterilizzazione coattiva, termine questo comprensivo di tutte le forme di sterilizzazione attuate senza o contro il con-senso dell’interessato, «indipendentemente dal soggetto che ne deliberi l’effettua-zione (genitori o tutori, medici, giudici, Stato) o dalle motivazioni (in particolare quelle di carattere sociale) che possono essere addotte per giustificarle» (CNB).

Ci si riferisce alle forme di sterilizzazione rituale di certe etnie, alla steriliz-zazione di soggetti che abbiano compiuto reati di carattere sessuale, a quella demografica praticata in certe aree del mondo ove consistente è il problema dell’eccesso numerico della popolazione o a ipotesi di sterilizzazione eugene-tica a danno di soggetti disabili. In ogni caso, la sterilizzazione coattiva, ese-guita cioè sull’uomo o sulla donna senza il consenso o con consenso viziato

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e non valido, al di là della assoluta esecrabilità etico-morale, costituisce reato previsto dal nostro ordinamento penale nella fattispecie della lesione personale gravissima (art. 583 cp).

Il transessualismo e il mutamento di sesso

Il transessualismo e il mutamento del sesso morfologico implicano, ancora una volta, attività e potestà mediche afferenti a una concezione ampia di salute che percorre tutte le imprese mediche in ambito di sessualità e riproduzione. Il rifiuto della propria realtà sessuale biologica può senza ombra di dubbio inge-nerare, nei casi di contrasto fra la dimensione psichica della personalità sessuale, l’assetto cromosomico e la espressione fenotipica dei caratteri sessuali primari e secondari, gravi ripercussioni negative sulla salute dell’individuo stesso.

Va, allora, inquadrata in questa ottica e solo in essa la potestà conferita al medico di intervenire con mezzi chirurgici (ma non solo se si pensi alle terapie ormonali) per adeguare i caratteri sessuali di un individuo a quelli del sesso opposto.

La legge n. 164 del 14 aprile 1982 che reca disposizioni in materia di retti-ficazione di attribuzione di sesso rappresenta l’approdo legislativo di un lungo viaggio intrapreso da dottrina e Giurisprudenza. Accanto, infatti, a posizioni di formale rigore concettuale e giurisprudenziale per le quali la necessità di tutelare la certezza dei rapporti giuridici appariva pre minente (per tutte si citi Cass., 3 aprile 1980 che rigettava la domanda di rettificazione stabilendo che l’intervento chirurgico è incompatibile con le esigenze primarie dell’ordina-mento poiché i rapporti intersoggettivi devono essere improntati al criterio della chiarezza e della certezza giuridica), si faceva vieppiù strada un indirizzo giurisprudenziale sempre più sensibile alla questione del transessualismo e alla affermazione del cosiddetto diritto alla identità sessuale, intesa come aspetta-tiva di riconoscimento giuridico delle condizioni nelle quali l’aspetto psicolo-gico e umano è predominante e connotato spesso da una forte componente di dolore e di disagio di ostacolo al raggiungimento di uno stato di pieno benes-sere che si identifica con la salute.

La attuale normativa viene promulgata nel 1982 in risposta anche a un chiaro invito del giudice costituzionale (Corte Cost. n. 98, 12 lu glio-1° agosto 1979) che, investito della questione della legittimità costituzionale della norma

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civilistica che impediva la rettifica degli atti di stato civile a seguito della modi-ficazione chirurgica degli organi genitali esterni, pur non riconoscendo ancora fra i «diritti inviolabili dell’uomo quello di far riconoscere e registrare un sesso esterno diverso dall’originale, acquisito con una trasformazione chirurgica per farlo corrispondere a una originaria personalità psichica», indicava, tuttavia, la necessità di una soluzione legislativa per la questione del transessualismo. La legge introduce di fatto un concetto nuovo di identità sessuale che dà risalto all’orientamento psichico del soggetto come elemento prevalente sui carat-teri sessuali somatici e riconosce il diritto di ciascuno di attribuirsi un sesso conforme alla propria personalità psichica. Non poche critiche ha sollevato la legge del 1982 in merito alla liceità dell’intervento di correzione chirurgica del sesso e delle ripercussioni sull’eventuale matrimonio, sulla famiglia e sulla vita di relazione del soggetto sottoposto a modificazione artificiale del sesso gona-dico. Illuminanti in tal senso sono le parole della Corte Costituzionale che, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della legge n. 164/1982, afferma (Corte Cost., 6 maggio 1985, n. 161) che: «Anche a tacere del rilievo che il principio dell’indisponibilità del proprio corpo è salvaguardato, nella legge in esame, dalla necessità del previo intervento autorizzatorio del tribu-nale, resta comunque che, per giurisprudenza costante, gli atti dispositivi del proprio corpo, quando rivolti alla tu tela della salute, anche psichica, devono ritenersi leciti. La natura terapeutica che la scienza assegna all’intervento chi-rurgico – e che la legge riconosce – nella fattispecie considerata ne esclude la illiceità, mentre le norme che lo consentono, dettate a tutela della persona umana e della sua salute – fondamentale diritto dell’individuo e dell’interesse della collettività – non offendono per certo i parametri costituzionali invocati».

Le procedure

Ai sensi dell’art. 1, quando siano intervenute modificazioni dei caratteri ses-suali o quando le condizioni psico-fisiche del soggetto siano tali da richiederlo, l’interessato (maggiorenne) può inoltrare domanda per la rettificazione di attribu-zione di sesso al tribunale. Il tribunale può, quando necessario (art. 2), nominare un consulente tecnico per accertare le condizioni psico-fisiche del soggetto. L’art. 3 della legge 164 dispone che: «Il Tribunale quando risulta necessario un adegua-mento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico,

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lo autorizza con sentenza. In tal caso il Tribunale, accertata la effettuazione del trattamento autorizzato, dispone la rettificazione in camera di consiglio».

La questione che può porsi, come acutamente è stato sottolineato da parte della dottrina giuridica, insiste sulla «reale necessità dell’intervento chirurgico per ottenere la richiesta di rettificazione degli atti dello stato civile di cui all’art. 3 della legge 164». Ebbene, a tale proposito ondivago – e non poteva essere altrimenti – è l’orientamento della Giurisprudenza che si è espressa in maniera difforme. Si citano, a mo’ di esempio, la sentenza del Tribunale di San Remo (7 ottobre 1991) per il quale «non può accogliersi la domanda di attribuzione del sesso maschile formulata da un soggetto, nato con le caratteristiche del sesso femminile e come tale dichiarato allo stato civile, sul presupposto della mancata accettazione dell’identità femminile e del possesso di caratteristiche psichiche di tipo maschile, senza però che il soggetto si sia sottoposto, in mancanza di una evoluzione naturale, a interventi demolitori degli organi sessuali esistenti (e successivamente ricostruttivi) per assumere anche solo l’apparenza del sesso opposto a quello anagrafico, non essendo a tal fine sufficiente la mastectomia e la disposizione pilifera di tipo maschile, che non incidono sui caratteri ses-suali primari della persona, la quale non ha pertanto perduto le caratteristiche fisiche del sesso originario»; e quella, ben diversa, del Tribunale di Macerata (12 novembre 1984) secondo il quale «l’adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico di cui all’art. 3 della legge n. 164 del 1982, si rileva necessario ai fini della rettifica del sesso solo quando occorre adattare le caratteristiche del sesso medesimo alla personalità psico-sessuale del soggetto, in presenza di provata dissociazione fra la psiche dell’in-teressato e i suoi caratteri sessuali, vale a dire nell’ipotesi che si suole definire di “transessualismo”. Viceversa, nel caso della cosiddetta “intersessualità” in cui a un assetto genetico definito corrisponde un fenotipo ambiguo congenito, per effetto del quale alla nascita si è apprezzata soltanto una definizione apparente del sesso, va disposta direttamente con sentenza la rettificazione dell’attribu-zione del sesso, a termini dell’art. 2 legge n. 164 del 1982».

La sentenza di rettificazione di sesso ha come effetto lo scioglimento dell’eventuale matrimonio e la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso (art. 4). Le attestazioni di stato civile riferite a persona della quale sia stata giudizialmente rettificata l’attribuzione di sesso sono rilasciate con la sola in dicazione del nuovo sesso e

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nome (art. 5). Rimane insoluta la questione relativa all’affidamento dei figli che andrà risolta, di volta in volta, a seconda dell’età dei figli stessi e delle situazioni contingenti.

Art. 43 - Interruzione volontaria di gravidanza

L’interruzione della gravidanza, al di fuori dei casi previsti dalla legge, costi-tuisce grave infrazione deontologica tanto più se compiuta a scopo di lucro. L’obiezione di coscienza del medico si esprime nell’ambito e nei limiti della legge vigente e non lo esime dagli obblighi e dai doveri inerenti alla rela-zione di cura nei confronti della donna.

L’interruzione volontaria di gravidanza

La interruzione volontaria di gravidanza (IVG) è disciplinata dalla legge n. 194 del 22 maggio 1978.

Tutela della maternità

Necessaria premessa a una corretta lettura della legge 194 è l’articolo 1 che testualmente recita: «Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è un mezzo per il controllo delle nascite…». Si tratta, in buona sostanza, di una dichiarazione chiarissima dei principi sui quali si articolerà poi tutta la legge.

Le procedure della legge 194/1978

La IVG nei primi novanta giorni

L’art. 4 regolamenta le procedure per adire l’IVG nei primi novanta giorni di gravidanza. In questa ipotesi «la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avve-nuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, si rivolge a un consultorio pubblico […] o a una struttura socio-sanitaria […] o a

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un medico di sua fiducia». Il medico (art. 5) deve compiere gli accertamenti sani-tari necessari (alla conferma dello stato gravido) nel rispetto della dignità e della libertà della donna; valutare con la donna stessa e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, le circostanze che hanno determinato la richiesta dell’IVG; informarla sui diritti a lei spettanti e su eventuali interventi di carattere sociale cui può fare ricorso; aiutare la donna a verificare la possibilità di rimuovere le cause che l’hanno portata alla decisione di interrompere la gravidanza e promuovere comportamenti consapevoli nel controllo della fecondità. Prima di rilasciare il documento che a norma dell’art. 5 deve contenere solo l’attestazione dello stato di gravidanza e della avvenuta richiesta di interruzione della medesima, il medico può e deve effettuare solo controlli sullo stato e l’epoca della gravidanza in atto. In buona sostanza il medico non ha il dovere di accertare l’effettiva esistenza e la rilevanza delle motivazioni addotte dalla donna, pur essendo opportuno che nel corso del colloquio egli valuti insieme con la donna le motivazioni che l’hanno condotta a richiedere la IVG senza che, peraltro, risulti di sua competenza con-testarle o dimostrarne la eventuale irrilevanza. Al termine del colloquio il medico «rilascia copia di un documento, firmato anche dalla donna, attestante lo stato di gravidanza e l’avvenuta richiesta e la invita a soprassedere per sette giorni. Tra-scorsi i sette giorni, la donna può presentarsi per ottenere la interruzione della gravidanza […] presso una delle sedi autorizzate».

In caso di urgenza clinica, «quando il medico […] riscontra l’esistenza di con-dizioni tali da ren dere urgente l’intervento, rilascia immediatamente alla donna un certificato attestante l’urgenza. Con tale certificato la donna stes sa può pre-sentarsi a una delle sedi autorizzate a praticare la interruzione di gravidanza».

Il ruolo del padre del concepito

L’analisi della legge porta inevitabilmente ad affrontare una questione assai delicata, quella cioè relativa al ruolo decisionale del padre del concepito nei con-fronti del quale la legge mostra, in effetti, solo una minima apertura (art. 5). La esclusione, di fatto, dell’uomo dal processo decisionale che prelude alla IVG appare coerente con l’opzione di fondo ispiratrice della legge la quale ritiene comunque e sempre prevalente la tutela della salute fisio-psichica della madre; e in questa ottica il diritto dell’uomo alla paternità non può mai superare né contrastare il diritto alla salute della donna, fulcro dell’intero sistema normativo sull’aborto.

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La IVG dopo i primi novanta giorni

Dopo il 90° giorno la IVG può essere praticata (art. 6):

a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;

b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave peri-colo per salute fisica o psichica della donna.

Nessun commento si rende necessario in merito al comma a) essendo evi-dente come la sussistenza di un grave pericolo per la vita della donna legit-timi la possibilità di ricorrere alla IVG dopo i primi novanta giorni. Vale solo la pena sottolineare come, secondo la più attenta dottrina medico-legale, «il riscontro di un grave pericolo può essere effettuato anche sulla base di una ragionevole previsione e in mancanza del requisito della sua attualità. È suf-ficiente che tale pericolo si prospetti come probabile, attendibile, verosimile anche a scadenze non immediate».

La valutazione tanto del benessere della madre quanto dell’esistenza di un nesso causale tra la patologia fetale e il grave pericolo per la madre, rappre-senta, in effetti, lo snodo cruciale della normativa che, siffattamente escludendo la liceità di qualsiasi forma di aborto eugenetico, giustifica in realtà la IVG dopo il 90° giorno solo alla luce dell’esistenza di una minaccia grave e comprovata per la salute della madre. Si ritiene, quindi, che non sia determinante la possibilità o meno di diagnosticare l’esistenza delle malformazioni fetali e anzi che ciò sia sostanzialmente irrilevante rispetto a quanto il legislatore addita all’attenzione dei medici cui l’indagine compete. La ratio della norma rispecchia, d’altronde, l’esclusiva preoccupazione del legislatore di tutelare un effettivo pericolo per la salute e la vita della donna da qualunque causa possa essere esso determinato. Ne emerge, come momento di fondamentale rilievo, l’accertamento non tanto delle anomalie e delle malformazioni fetali, di per sé – giova rammentarlo – non giustificatrici della IVG, bensì del pericolo grave per la salute materna (fosse anche solo dell’integrità psichica), unico presupposto che garantisce e dà accesso al ricorso alle pratiche di IVG dopo i primi 90° giorni di gravidanza.

Le modalità tecnico-procedurali per adire la IVG dopo i primi 90 giorni sono previste dall’art. 7 della legge cui si rimanda, limitandosi a sottolineare come «qualora sussista la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione

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della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) – quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna – e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salva-guardare la vita del feto».

La obiezione di coscienza da parte di tutti i professionisti sanitari medici e non medici è specificatamente prevista dall’art. 9 della legge 194. Per quanto riguarda le prestazioni oggetto della obiezione di coscienza, è esplicitamente previsto dall’art. 12 che il personale non «è tenuto a prendere parte alle proce-dure di cui agli artt. 5 e 7 e agli interventi per l’interruzione della gravidanza». Nessun dubbio, quindi, in merito alla possibilità per il personale sanitario di astenersi solo da quelle procedure che siano «specificamente e necessaria-mente» dirette a determinare la IVG, mentre non rientrano nella obiezione di coscienza tutte quelle attività volte alla assistenza, latamente intesa, della donna nei momenti che precedono e che seguono la IVG.

Anche in merito alle procedure di cui agli artt. 5 e 7 e suscettibili di rifiuto da parte degli operatori obiettori sono necessarie alcune precisazioni.

Il primo punto concerne l’incontro e il colloquio di cui all’art. 5 che, per oramai concorde dottrina medico-legale, rappresenta una prestazione non suscettibile di opzioni da parte del medico, non rifiutabile, quindi, neppure attraverso lo strumento della obiezione di coscienza, ma che anzi, proprio per i suoi contenuti, costituisce una prestazione formativa e informativa doverosa anche per il medico obiettore.

Maggiori questioni sorgono in ordine alla redazione del “documento” pre-visto, sempre ai sensi dell’art. 5, al termine del colloquio con la donna. Ebbene, sull’onda di un intenso e serrato dibattito sviluppatosi sin dai primi momenti della applicazione della legge 194, si è da più autorevoli voci sottolineata la non incompatibilità tra la obiezione di coscienza e la compilazione del documento, giungendosi persino a indicare la obbligatorietà anche per il medico obiettore di svolgere tale procedura, posto che «siffatto documento è atto medico sin dove attesta la gravidanza, ma cessa di esserlo là dove registra la volontà della donna».

Più controversa è la questione se il medico obiettore di coscienza possa o debba rilasciare al termine del colloquio il documento che certifica l’esistenza e l’epoca della gravidanza qualora si ravvisino condizioni di urgenza (art. 5, penul-timo comma). In simili ipotesi il certificato costituisce uno strumento autoriz-zativo che permette alla donna di adire alle procedure di IVG, immediatamente

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senza quel periodo di 7 giorni previsto, invece, nei casi non urgenti e sembre-rebbe rientrare nelle procedure coperte dall’obiezione di coscienza. In senso contrario, vi è chi sostiene che anche tale certificato potrebbe essere compatibile con l’obiezione «tenuto conto che esso si limita a constatare una serie di dati […] lasciando alla donna la decisione ultima (anche se non più rinviata di sette giorni) circa l’effettuazione o meno dell’interruzione della gravidanza».

Per quanto attiene, infine, le procedure previste dall’art. 7 non rientrano, sicu-ramente, nella obiezione di coscienza le attività svolte dagli specialisti volte ad accertare la esistenza delle ipotesi di un grave pericolo per la salute della donna.

IVG nelle minorenni

La fattispecie è regolata dall’art. 12 sulla base della premessa generale e imprescindibile secondo la quale «la richiesta di IVG […] è fatta personal-mente dalla donna» e che «è richiesto l’assenso di chi esercita sulla donna stessa la potestà o la tutela», la legge si sofferma su alcune ipotesi particolari:

a) nei primi 90 giorni, quando non si ravvisi nessuna condizione di urgenza e «quando vi siano seri motivi che impediscono o sconsigliano la consul-tazione delle persone esercenti la potestà o la tutela, oppure queste, inter-pellate, rifiutino il loro assenso o esprimano pareri tra loro difformi […]». Si tratta di ipotesi in cui difetta l’assenso di coloro che esercitano la potestà o la tutela per impossibilità a ottenerlo, per rifiuto dell’assenso o per seri motivi che impediscano la consultazione. In tali casi la legge prevede il ricorso al giudice tutelare attraverso le modalità normativamente indicate: un intervento che si concretizza nella emanazione di un atto di autorizza-zione della minore a decidere da sola, escludendo l’intervento dei genitori o di chi esercita la patria potestà. Non vi è nessuna sostituzione di volontà da parte del magistrato nei confronti della minore: il suo operato si tra-duce solo in un provvedimento che integra la volontà della minore, ma non autorizza, di fatto, nessun procedimento abortivo, essendo la decisione finale rimessa unicamente e solo alla responsabilità della donna;

b) nei primi novanta giorni il medico quando ravvisi «l’urgenza dell’intervento a causa di un grave pericolo per la salute della minore, indipendentemente dall’assenso di chi esercita la potestà o la tutela e senza adire il giudice tute-lare, certifica l’esistenza delle condizioni che giustificano l’IVG. Tale certifi-cazione costituisce titolo per ottenere in via d’urgenza l’intervento […]»;

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c) dopo i primi novanta giorni «si applicano anche alla minore le procedure di cui all’art. 7, indipendentemente dall’assenso di chi esercita la potestà o la tutela».

Degna di attenzione è l’ipotesi, assai frequente a verificarsi, del caso di geni-tori separati. Si ricorda, a mente dell’art. 155 cc (Provvedimenti riguardo ai figli) come «[…] salvo che sia diversamente stabilito, le decisioni di maggiore interesse per i figli sono adottate da entrambi i coniugi […]»; se ne deduce che nel caso di genitori separati, entrambi devono essere interpellati riguardo alla richiesta della figlia minore di adire la IVG anche se la figlia è affidata a uno solo di essi.

IVG nella donna interdetta

Tale fattispecie è regolata dall’art. 13 cui si rimanda per le modalità pro-cedurali: nel caso di donna interdetta la richiesta può essere presentata perso-nalmente dalla donna oppure dal marito o dal tutore, dovendosi in quest’ul-timo caso acquisire anche il consenso della donna. L’art. 13 presuppone che la donna interdetta (si rammenti che, ex art. 414 cc, l’interdizione riguarda la incapacità di provvedere agli interessi di natura patrimoniale) conservi la capa-cità di compiere atti di natura personale e, quindi, di richiedere o, comunque, di consentire alla richiesta di IVG. L’articolo va, dunque, interpretato nel senso che «la gestante interdetta può essere, in astratto, capace di prendere consape-volmente la decisione sull’interruzione della propria gravidanza: la sua capacità andrà però verificata, volta per volta, dal sanitario». La decisione finale resta affidata al giudice tutelare che, a differenza di quanto previsto nella ipotesi della minore nella quale il giudice si limita ad autorizzare la stessa a decidere personalmente sulla IVG, nel caso, appunto, di donna interdetta è il giudice che autorizza di fatto l’intervento abortivo.

La responsabilità medica nella IVG

La legge 194 prospetta questioni del tutto peculiari posto che essa impone obblighi e doveri ben precisi per i medici coinvolti nelle procedure, dai quali discendono ben definite ipotesi di reato nel caso di mancata osservanza delle previsioni di legge.

L’art. 17 contempla le ipotesi di interruzione della gravidanza e di parto prematuro colposi, reati questi non specifici degli esercenti le professioni sani-tarie ma che si vengono a realizzare ogniqualvolta che, in conseguenza di una

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qualsiasi condotta colposa messa in atto da chiunque sulla donna, si realizzi o la interruzione della gravidanza o il parto prematuro.

Il successivo articolo 18 prevede la fattispecie dell’aborto doloso, messo in atto, cioè senza il consenso della donna, considerandosi co me non prestato il consenso estorto con violenza ovvero carpito con l’inganno e quella dell’aborto preterintenzionale, ipotesi questa che si concretizza quando l’interruzione della gravidanza consegua ad azioni dirette a provocare lesioni alla donna.

Infine l’art. 19, di particolare interesse per il medico, che sanziona le ipotesi di IVG attuate senza il rispetto delle procedure di cui alla legge n. 194/1978, quali previste in particolare dagli artt. 5, 8, 6, 7, 12 e 13.

L’impiego della RU486: necessità di un aggiornamento normativo

C.Riviello,G.A.Norelli

La storia dell’aborto e dell’intercezione medica

La possibilità di interferire mediante farmaci con l’instaurarsi della gravidanza (contraccezione d’emergenza mediante levonorgestrel) o con il prosegui-mento della stessa (“pillola abortiva” RU486) propone sostanziali implica-zioni di indole clinica, etica e medico-legale. In particolare, per ciò che attiene la contraccezione d’emergenza, le annose discussioni investono il meccani-smo d’azione del farmaco, non ancora chiarito in tutti i suoi aspetti, evocan-dosi dubbi nell’ambito della legittimità dell’obiezione di coscienza per i medici e i farmacisti, della corretta prescrizione e dell’informazione da garantire alla paziente. Nella più recente questione della pillola abortiva, i dubbi recente-mente sollevati, entro i confini dello Stato italiano, sono a proposito della sua compatibilità con la legge n. 194/1978 oltre che della sua efficacia e sicurezza in rapporto alla procedura di aborto chirurgico. È importante notare come il concetto d’intercezione medica (tecnica volta a impedire l’instaurarsi della gravidanza dopo un rapporto sessuale a rischio) e d’interruzione farmacologica di gravidanza abbia origine negli anni ’50, con l’utilizzo di un antagonista dell’acido folico, l’aminopterina, che, tut-tavia, ottiene scarsi risultati. Agli inizi degli anni ’70, l’efficacia del metodo farmacologico è migliorata dall’introduzione delle prostaglandine naturali (PGE2 e PGF2), gravate, tuttavia, da effetti collaterali superiori a quelli di

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un intervento chirurgico. La svolta nell’aborto medico avviene con la sco-perta del mifepristone negli anni ’80 per opera di Emile Baulieu. Il mifepri-stone è un farmaco con forte affinità per i recettori del progesterone e con l’aggiunta di dosi di prostaglandine può determinare un aborto completo. L’efficacia e la sicurezza del farmaco sono state dichiarate dall’OMS e dalle più accreditate linee-guida [come l’American College of Obstetricians and Gynecologists (ACOG) e il Royal College of Obstetricians and Gynaecol-gists (RCOG)], che attribuiscono al mifepristone un’evidenza di grado A-B, per quanto riguarda l’efficacia e la sicurezza nel determinare un aborto, se assunto entro il 56° giorno di gravidanza, e nell’indurre modificazioni della cervice uterina in caso di interruzione terapeutica di gravidanza o di indu-zione del parto per morte intrauterina fetale. In Europa, il farmaco conosce una buona diffusione: in Francia è disponibile sin dalla fine degli anni ’80; nel decennio successivo viene autorizzato dall’agen-zia europea per i farmaci in otto paesi dell’Unione Europea (Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Germania, Grecia, Spagna, Olanda) e, negli stessi anni, è utilizzabile in Svizzera, Israele, Norvegia, Tunisia, Sudafrica, Taiwan, Nuova Zelanda e Federazione Russa; nel settembre 2000 la Food and Drug Admini-stration (FDA) autorizza il farmaco negli Stati Uniti e nel 2005 è inserito nella lista dei farmaci dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Alla fine degli anni ’90, il mifepristone viene autorizzato in Italia per il trattamento della sindrome di Cushing paraneoplastica (grazie alla sua azione di antagonismo sui recettori dei glicocorticoidi); nello stesso periodo viene approvato il Levonor-gestrel, farmaco progestinico che, indicato nella contraccezione di emergenza, permette di prevenire la gravidanza, in caso di rapporto sessuale non protetto, con meccanismo d’azione ancora controverso, in quanto secondo alcuni inter-ferirebbe solo con l’ovulazione, secondo altri impedirebbe anche l’impianto dello zigote. Si sono dovuti aspettare oltre 10 anni prima che l’Agenzia Ita-liana del Farmaco, il 30 luglio 2009, approvasse la commercializzazione della RU486, meglio nota come “pillola abortiva”, introducendo in Italia la possibi-lità dell’aborto medico in linea con altri paesi europei ed extra europei. Questa decisione, tuttavia, ha suscitato notevoli polemiche e dibattiti politici e religiosi al punto che è stata indetta un’indagine conoscitiva al Senato, per valutare che l’utilizzo di tale pillola avvenga nel rispetto della legge n. 194/1978.

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RU486: meccanismo di azione

Il mifepristone è uno steroide sintetico che mostra una forte affinità per i recettori del progesterone e dei glucocorticoidi, esercitando un antagoni-smo competitivo a questi ormoni, sia in esperimenti in vitro sia sugli animali. L’azione competitiva a livello endometriale si traduce in una marcata azione anti-progestinica, che ha portato a proporre l’uso del mifepristone per l’interruzione della gravidanza. La sicurezza e l’efficacia del mifepristone nel determinare l’interruzione della gravidanza è stato approfonditamente analizzato in molte reviews, molte delle quali concludono che la sua azione spesso necessita di essere affiancata alla somministrazione di prostaglan-dine. Il regime combinato con mifepristone e prostaglandine è molto più efficace del regime con il solo mifepristone. Come già accennato, il mifepristone è registrato anche con altre indicazioni in campo ostetrico: è utilizzato per l’induzione della maturazione cervicale in caso di aborto chirurgico, per accelerare l’espulsione fetale in caso di aborto nel secondo-terzo trimestre, per il trattamento medico delle gra-vidanze extrauterine e dell’induzione del travaglio di parto con feto vivo. A basse dosi può essere utilizzato come contraccettivo di emergenza, per quanto il levonorgesterl sia il preparato più adatto allo scopo.

Evoluzione politica italiana, dall’indagine conoscitiva del Senato alla compatibilità della RU486 con la legge n. 194/1978

Per quanto vi sia una consistente letteratura scientifica internazionale che, forte di dati su un’ampia casistica di popolazione e per un tempo conside-revole, abbia dimostrato la sicurezza e i vantaggi dell’utilizzo del farmaco, l’approvazione del mifepristone da parte dell’Agenzia Nazionale del Far-maco ha determinato molte obiezioni, che a livello politico si sono con-cretizzate nell’indagine conoscitiva del Senato. Tale indagine si è conclusa nel mese di novembre 2009 con la decisione di sospendere l’utilizzo del farmaco e riavviare la procedura di approvazione dall’inizio, includendo l’obbligatorietà del ricovero ospedaliero per tutta la durata della procedura come requisito necessario per utilizzare il farmaco dalla sua somministra-zione all’espulsione del prodotto del concepimento.

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I punti salienti su cui ruota la decisione di questa indagine sono due: da una parte la sicurezza del farmaco, dall’altra la modalità di somministrazione dello stesso; in entrambi i casi si fa ricorso a dubbi di compatibilità con la legge n. 194/1978. Per quanto riguarda il primo punto si apprende dal testo dell’indagine cono-scitiva che «la Commissione suggerisce di verificare l’esistenza di studi per superiorità del metodo farmacologico o studi di non inferiorità, al fine di ottemperare all’articolo 15 della citata legge n. 194». Nonostante che, come spiegato in precedenza, negli anni ’80 si sia ancora agli albori della scoperta dell’aborto medico, l’articolo 15 della legge n. 194 contem-pla la possibilità di un metodo abortivo diverso da quello chirurgico, auspicando un aggiornamento del «personale sanitario […] sui metodi anticoncezionali […] sull’uso delle tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza». Rimane, dunque, da definire se la RU486 sia più rispettosa dell’integrità fisica, psichica della donna e meno rischiosa. Per quanto riguarda l’integrità fisica, appare evidente che l’assunzione di un farmaco per via orale o l’introduzione dello stesso al livello vaginale, come accadrebbe per le prostaglandine, presenta un’invasività nettamente inferiore rispetto alla procedura chirurgica, che prevede il ricorso ad anestesia, alla dila-tazione spesso meccanica della cervice uterina, all’isterosuzione e al curettage del materiale endocavitario. Appare evidente che il rispetto dell’integrità fisica è una caratteristica peculiare dell’aborto medico, rispetto a quello chirurgico. Più controverso è, invece, definire se questa metodica sia più rispettosa dell’integrità psichica della donna rispetto al trattamento chirurgico. In primo luogo è opportuno evidenziare come il processo d’interruzione della gravidanza, di per sé, determini una ripercussione psicologica importante, indipendentemente dalla modalità con cui venga eseguito. Dai dati ottenuti dagli altri stati europei nei quali, ormai da molti anni, le donne possono scegliere il metodo abortivo, se medico o chirurgico, emerge che esistono differenti ripercussioni psicologiche nella donna: da un lato la procedura chirurgica ha il vantaggio di risolversi in un tempo breve e stabilito e la pro-cedura medica ha lo svantaggio dell’imprevedibilità e della maggiore durata del processo stesso. Inoltre, il suo protocollo di assunzione impegna attiva-mente la donna per alcuni giorni, per quanto solitamente la fase espulsiva si

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risolva in poche ore nella maggioranza dei casi. Questo implica la responsa-bilizzazione e il coinvolgimento attivo della donna che controlla il decorso dell’aborto e che potrebbe avere un contatto visivo con il materiale espulso. Nonostante questi inconvenienti, in numerosi studi l’80- 90% delle donne si esprime a favore del metodo medico.Nei luoghi dove l’aborto medico è routinariamente offerto e la facilità d’ac-cesso è simile a quello chirurgico, la percentuale di donne che lo preferisce è in crescita: il 61% in Scozia, il 56% in Francia e il 51% in Svezia. Si potrebbe obiettare che la pratica medica, meno invasiva e apparentemente più semplice, possa indurre a sottovalutare l’importanza del ricorso all’aborto e determinarne un incremento. Questo ragionamento suona, tuttavia, alquanto offensivo per la figura femminile, posto che la scelta è subordinata non tanto alla difficoltà dell’intervento, quanto a una mancata prevenzione della gravi-danza. In altre parole, la vera riduzione del tasso di aborti dovrebbe essere raggiunta mediante una promozione della contraccezione consapevole, come d’altronde auspica la stessa legge n. 194/1978, e non con un impedimento al ricorso ad una tecnica alternativa rispetto all’aborto chirurgico. Un altro argomento della legge n. 194 consiste nel ricorso a tecnichemoderneemenorischiose;in tal caso, è sufficiente citare gli studi eseguiti nel corso degli anni, comprese le reviews della Cochrane, che hanno dimostrato la superio-rità o la non inferiorità dell’assunzione della RU486. I principali effetti collaterali, infatti, riguardano le perdite ematiche dipen-denti dall’azione delle prostaglandine, che hanno una durata di circa 9-10 giorni con variabilità da 2 a 32 giorni. La loro entità è solitamente moderata e il rischio di un curettage è del 2,6%, mentre molto inferiore è il rischio di trasfusione (0,1- 0,2%); dagli studi effettuati su oltre 4000 pazienti, non è mai stato riportato alcun intervento di isterectomia per risolvere una pro-blematica di perdite ematiche post aborto medico. Una non frequente complicanza dell’aborto medico consiste nel fallimento completo o parziale della metodica, che espone la donna a revisione di cavità uterina. Appare evidente che il trattamento chirurgico rappresenti una sorta di necessario atto riparatore al mancato, positivo, esito dell’assun-zione del farmaco, per cui non potrebbe discutersi che è indubbiamente da privilegiare un atto rispetto ad un altro cui si debba ricorrere in caso di man-cato successo del primo. A parte questa evenienza, gli effetti collaterali e le

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complicazioni dell’aborto medico sono inferiori rispetto a quelli dell’aborto chirurgico ed anche a quelli cui la donna potrebbe andare potenzialmente incontro con il proseguimento della gravidanza. La mortalità e la morbosità da gravidanza e da parto sono circa dieci volte maggiori rispetto a quelle dell’aborto, anche nei paesi industrializzati. Il dolore a carattere crampiforme è un ulteriore possibile effetto collate-rale; esso accompagna il periodo espulsivo, è più accentuato con l’avanzare dell’epoca gestazionale, è sensibile ai comuni analgesici e varia moltissimo in relazione alla tolleranza e alle esperienze personali. Effetti collaterali più lievi sono i sintomi gastrointestinali, costituiti da nausea, vomito e diarrea, che sono presenti in quasi la metà delle donne, dipendono dalle prostaglandine, sono autolimitanti e spesso si risolvono senza ricorso alla terapia. Più raramente compaiono cefalea, vertigini e stanchezza. Le controindicazioni all’utilizzo della RU486 sono rappresentate dal sospetto di gravidanza extrauterina, dalla presenza di IUD in utero, dall’insufficienza surrenalica cronica, da coagulopatie e da trattamenti in corso con anticoagu-lanti e, com’è ovvio, dall’allergia nota verso il mifepristone o le prostaglandine. In conclusione, sono stati effettuati molti studi e reviews per confrontare la metodica chirurgica e medica dell’aborto, e spesso le conclusioni raggiunte propendono per una eguaglianza dei due metodi con vantaggi e svantaggi diversi a carico di entrambi. Nel dibattito politico, il nodo centrale di presunta incompatibilità con la legge n. 194/1978 riguarda la modalità di somministrazione e il luogo nel quale si verifica l’espulsione del materiale abortivo. Secondo la legge n. 194/1978, la procedura abortiva deve avvenire in ambito ospedaliero pubblico, casa di cura o poliambulatorio, strutture, comunque, regolarmente autorizzate e accreditate; questo concetto è riba-dito in più articoli; art. 7: «[…] i processi patologici […] vengono accertati da un medico del servizio ostetrico-ginecologico dell’ente ospedaliero in cuidevepraticarsil’intervento,che ne certifica l’esistenza […]»; art. 8: «L’inter-ruzione della gravidanza è praticata da un medico del servizio ostetrico-ginecologico presso un ospedale generale tra quelli indicati nell’articolo 20 della legge n. 132 del 12 febbraio 1968, il quale verifica anche l’inesistenza di controindicazioni sanitarie»; art. 11: «L’ente ospedaliero, la casa di cura o il poliambulatorio nei quali l’intervento è stato effettuato sono tenuti ad

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inviare al medico provinciale competente per territorio una dichiarazione con la quale il medico che lo ha eseguito dà notizia dell’intervento stesso e della documentazione sulla base della quale è avvenuto, senza fare men-zione dell’identità della donna».Secondo le conclusioni dell’indagine conoscitiva parlamentare «la coerenza con la legge 194 si realizza solo se c’è il ricovero ospedaliero ordinario per tutto il ciclo fino all’interruzione verificata della gravidanza. Un processo che, se avvenisse al di fuori di questo contesto, sarebbe una violazione della legge 194». Per tale motivo, nella delibera dell’AIFA, si parla di ricovero «dal momento dell’assunzione del farmaco fino alla verifica dell’espulsione del prodotto del concepimento». Appare, tuttavia, evidente come questa direttiva rischi di scontrarsi con il principio di autodeterminazione del singolo, non essendo possibile impe-dire ad un soggetto nel pieno delle sue facoltà il ricorso alla dimissione volontaria dopo l’assunzione del farmaco nella struttura ospedaliera. Nel corso della sperimentazione della RU486 in alcune regioni italiane, infatti, è stata frequente la scelta della paziente di dimissione volontaria con ricorso al ricovero in caso d’incremento di perdite ematiche. È bene tener presente, anche, le conseguenze economico-sanitarie dell’imposizione di un ricovero ordinario di una paziente sana, in attesa di espulsione del prodotto del con-cepimento per un tempo variabile di alcuni giorni, con occupazione di posti letto in una situazione generale di carenza strutturale. In conclusione, a seguito delle molteplici pronunce politiche e degli organi competenti, per quanto anche in Italia sia comparsa la possibilità di scegliere la pratica medica dell’aborto, il percorso appare ancora giuridicamente poco chiaro e complicato, soprattutto nell’ambito della ristretta modalità di som-ministrazione della pillola abortiva con possibili ripercussioni sulla gestione e sulla organizzazione ospedaliera. È auspicabile che sia risolto giuridicamente l’evidente contrasto tra obbligatorietà del ricovero e impossibilità di fatto ad attuarlo, non essendo quello possibile se non nei termini del trattamento sani-tario obbligatorio, non certo contemplabile in quest’ambito. Il tema, dunque, dovrebbe pacatamente affrontarsi al riparo da pregiudizi ideologici, secondo modalità di inquadramento ispirate solo a presupposti clinici e medico-legali, perseguendosi l’interesse della società e dell’utenza

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oltre, ovviamente, al rigoroso rispetto della norma e della criteriologia scientifica. In primo luogo, ammesso il principio secondo cui all’interno di specifiche situazioni è consentito il ricorso all’IVG, la tecnica utilizza-bile dovrebbe essere scelta fra tutte quelle esperibili in termini di liceità. In considerazione della sostanziale equivalenza fra la tecnica medica e quella chirurgica in termini di rischi, di risultati e di convenienza, con leggera pre-valenza della prima in termini di accettabilità e di minore invasività, l’argo-mento dovrebbe ricondursi alla scelta della donna, come si conviene per qualsiasi trattamento sanitario, previa completa, puntuale ed esaustiva infor-mazione che, stante la particolarità del tema, dovrebbe intendersi come una positiva e collaborante comunicazione tra l’operatore sanitario e la donna. È il rispetto del diritto all’autodeterminazione che nella fattispecie dovrebbe prevalere, a fronte di un trattamento, come si è visto, scientificamente lecito e di diversificazioni tecniche proprie alla generalità dei trattamenti sanitari. Quanto all’iter procedurale previsto nella legge n. 194/1978 non vi è dub-bio che si dovrebbe pervenire ad una sua modifica in riferimento ad una gestione del trattamento, non potendosi pretendere che sia subordinata ad un obbligo di legge, correttamente previsto per la procedura chirurgica, la procedura medica che non era allora possibile normativamente prevedere; né sarebbe logico automaticamente ammettersi la modifica procedurale, pur in assenza di un intervento normativo, ciò essendo contrario ai presuppo-sti di civil law, diversamente da quanto potrebbe occorrere in un sistema a common law, ove un pronunciamento proprio al diritto consuetudinario può intendersi modificativo del diritto codificato. Anzi, si potrebbe dire che un tale intervento normativo, rapido ed adeguato al comune sentire, ben potrebbe rappresentare positiva dimostrazione che il nostro sistema legi-slativo è capace di adeguarsi tempestivamente alla realtà sociale ed alle sue modifiche di evoluzione; pena, al contrario, dovere sconsolatamente ammet-tere che il sistema legislativo deve ancora essere superato da un più agile e pertinente sistema giudiziario che nuovamente sarà chiamato a sostituirsi ad esso, nel momento in cui il primo non si dimostri attento, capace e pronto ad ottemperare con puntualità al proprio ruolo, cui non può risultare estranea e men che sostanziale l’espressione che deriva da istanze sociali che hanno tro-vato nella generalità dei paesi europei favorevole e provvida soddisfazione.

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Art. 44 - Fecondazione assistita

La fecondazione medicalmente assistita è un atto integralmente medico ed in ogni sua fase il medico dovrà agire nei confronti dei soggetti coinvolti secondo scienza e coscienza. Alla coppia vanno prospettate tutte le opportune solu-zioni in base alle più recenti ed accreditate acquisizioni scientifiche ed è dovuta la più esauriente e chiara informazione sulle possibilità di successo nei confronti dell’infertilità e sui rischi eventualmente incidenti sulla salute della donna e del nascituro e sulle adeguate e possibili misure di prevenzione. È fatto divieto al medico, anche nell’interesse del bene del nascituro, di attuare:

a) forme di maternità surrogata;b) forme di fecondazione assistita al di fuori di coppie eterosessuali stabili;c) pratiche di fecondazione assistita in donne in menopausa non precoce;d) forme di fecondazione assistita dopo la morte del partner.

È proscritta ogni pratica di fecondazione assistita ispirata a selezione etnica e a fini eugenetici; non è consentita la produzione di embrioni ai soli fini di ricerca ed è vietato ogni sfruttamento commerciale, pubblicitario, industriale di gameti, embrioni e tessuti embrionali o fetali.Sono vietate pratiche di fecondazione assistita in centri non autorizzati o privi di idonei requisiti strutturali e professionali.Sono fatte salve le norme in materia di obiezione di coscienza.

La procreazione medicalmente assistita

Definizione

Col termine “procreazione medicalmente assistita” (pma) s’intende una vasta gamma di tecnologie riproduttive assai diverse le une dalle altre sia per quanto attiene gli aspetti tecnico-procedurali ed il grado di invasività sia per i diversi riflessi e per le implicazioni etico-giuridiche che a esse sono sottese. Viene definita sterilità (inferti-lità) l’assenza di concepimento, oltre ai casi di patologia riconosciuta, dopo 12/24 mesi di regolari rapporti sessuali non protetti. Tutte le coppie che non ottengono gra-vidanza nei termini sopra definiti costituiscono la popolazione delle coppie infertili.

La legge (40/2004) costituisce un punto di arrivo di un lungo percorso che ha visto naufragare, negli anni, numerosi progetti di legge e che si è concluso con la promulgazione dell’attuale testo di legge.

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La legge è stata, successivamente, integrata dalle linee-guida ministeriali, vincolanti per le strutture autorizzate ad effettuare tecniche di pma, destinate ad essere aggiornate ogni tre anni in rapporto alla evoluzione tecnico-scien-tifica ed emanate allo scopo di fornire agli operatori chiare e concrete indica-zioni alla applicazione delle tecniche di pma.

La legge individua (art. 1) le finalità della pma: «1. Al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana è consen-tito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le modalità previste dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito. 2. Il ricorso alla procreazione medicalmente assistita è con-sentito qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità», dettando, poi, (art. 4) rigidi criteri di accesso alle tecniche stesse: «1. Il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è consentito solo quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione ed è comunque circoscritto ai casi di sterilità o di infertilità inspie-gate documentate da atto medico nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico. 2. Le tecniche di procreazione medicalmente assistita sono applicate in base ai seguenti principi: a) gradualità, al fine di evitare il ricorso ad interventi aventi un grado di invasività tecnico e psicologico più gra-voso per i destinatari, ispirandosi al principio della minore invasività; b) consenso informato, da realizzare ai sensi dell’articolo 6. 3. È vietato il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo».

Proseguendo nella analisi della legge, l’articolo 5 individua i requisiti sog-gettivi per le coppie legittimate ad accedere alla pma: «1. Fermo restando quanto stabilito dall’articolo 4, comma 1, possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi».

La legge proibisce espressamente il ricorso alla pma eterologa, effettuata, cioè, utilizzando gameti di donatore, e che comprende una vasta gamma di interventi terapeutici che costituiscono, in determinate condizioni patologiche produttive di sterilità, l’unico itinerario per un successo terapeutico altrimenti non acquisibile con le tecniche omologhe.

Proseguendo nella analisi degli aspetti più salienti della legge, particolare inte-resse suscitano le tematiche del consenso informato (art. 6) ove si stabilisce che il medico debba informare le coppie «sui metodi, sui problemi bioetici e sui possi-

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bili effetti collaterali sanitari e psicologici conseguenti all’applicazione delle tecni-che stesse, sulle probabilità di successo e sui rischi dalle stesse derivanti, nonchè sulle relative conseguenze giuridiche per la donna, per l’uomo e per il nascituro», dovendo essere, peraltro, «prospettata la possibilità di ricorrere a procedure di adozione o di affidamento […] come alternativa alla procreazione medicalmente assistita». Se poco convincente appare l’obbligo per il medico di informare sugli “aspetti bioetici”della pma, momento di ancora più profonda riflessione nasce dal comma 3 dell’articolo 6: «La volontà di entrambi i soggetti di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è espressa per iscritto congiun-tamente al medico responsabile della struttura […] Tra la manifestazione della volontà e l’applicazione della tecnica deve intercorrere un termine non inferiore a sette giorni. La volontà può essere revocata da ciascuno dei soggetti indicati dal presente comma fino al momento della fecondazione dell’ovulo».

Nonostante i molti punti oscuri della legge, essa rappresenta, sicuramente, un passo in avanti nel panorama italiano della pma; negli ultimi anni si era, infatti, sempre più avvertita la necessità di una regolamentazione in materia e, soprat-tutto, in merito ad alcune questioni emerse dal ricorso non controllato e non regolamentato a tali procedure tecniche. Ci si riferisce, qui, ai casi di discono-scimento di paternità dei figli nati a seguito di ricorso a tecniche riproduttive, allo status dei figli nati da inseminazione post mortem ed, infine, alle ipotesi di maternità surrogata che sono stati oggetto di interventi giurisprudenziali che hanno acceso ed alimentato un serrato dibattito dottrinario. Per questi motivi, non si può che ben accogliere l’intervento del legislatore laddove sancisce, come principio fondamentale della legge, la tutela del “nato” da fecondazione assistita, definendone, una volta per tutte, lo stato giuridico (art. 8) e vietando, finalmente, il disconoscimento di paternità e di anonimato della madre (art. 9).

Nel bilancio della legge del tutto positiva appare, infine, la regolamentazione delle strutture autorizzate all’applicazione delle tecniche di pma, attuata attraverso la emanazione di atti per la definizione dei requisiti tecnico-scientifici e organizza-tivi delle strutture; le caratteristiche del personale delle strutture; i criteri per la con-cessione e la revoca delle autorizzazioni; i criteri per lo svolgimento dei controlli sul rispetto delle disposizioni della legge. Viene, inoltre, istituito (art. 11) presso l’Isti-tuto Superiore di Sanità, «un registro nazionale delle strutture autorizzate all’appli-cazione delle tecniche di pma, degli embrioni formati e dei nati a seguito dell’appli-cazione delle tecniche medesime», la iscrizione al quale risulta obbligatoria.

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Infine, un intero capo della legge (capo VI) è dedicato alle “Misure a tutela dell’embrione”. L’art. 13 (Sperimentazione su embrioni umani) vieta «qualsiasi sperimentazione su ciascun embrione umano»; consente la ricerca clinica e spe-rimentale su ciascun embrione umano «a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione stesso, e qualora non siano disponibili meto-dologie alternative»; vieta «a) la produzione di embrioni umani a fini di ricerca o di sperimentazione o comunque a fini diversi da quello previsto dalla presente legge; b) ogni forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni e dei gameti ovvero interventi che, attraverso tecniche di selezione, di manipolazione o comunque tramite procedimenti artificiali, siano diretti ad alterare il patrimonio genetico dell’embrione o del gamete ovvero a predeterminarne caratteristiche genetiche, ad eccezione degli interventi aventi finalità diagnostiche e terapeuti-che, di cui al comma 2 del presente articolo; c) interventi di clonazione mediante trasferimento di nucleo o di scissione precoce dell’embrione o di ectogenesi sia a fini procreativi sia di ricerca; d) la fecondazione di un gamete umano con un gamete di specie diversa e la produzione di ibridi o di chimere». Si introduce, in altri termini, il divieto alla diagnosi preimpianto a finalità eugenetica, divieto questo che ha suscitato un intenso dibattito culturale e dottrinario.

Il successivo articolo 14 (Limiti all’applicazione delle tecniche sugli embrioni) merita un approfondimento particolare per le ripercussioni che esso indubbia-mente ha sulla autonomia e la libertà dei medici nelle scelte terapeutiche. L’arti-colo testualmente recita: «1. È vietata la crioconservazione e la soppressione di embrioni, fermo restando quanto previsto dalla legge 22 maggio 1978, n. 194. 2. Le tecniche di produzione degli embrioni, tenuto conto dell’evoluzione tec-nico-scientifica e di quanto previsto dall’articolo 7, comma 3, non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre. 3. […]». Su questo argomento si è espressa la Corte Costituzionale (sentenza 151/2009) dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 2, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), limitatamente alle parole «ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre».

Per concludere, la legge (art. 16) prevede la possibilità della obiezione di coscienza per il personale sanitario che non è tenuto a prendere parte alle pro-cedure per l’applicazione delle tecniche di pma, disciplinate dalla legge.

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Art. 45 - Interventi sul genoma umano

Ogni eventuale intervento sul genoma deve tendere alla prevenzione e alla correzione di condizioni patologiche.

Definizione

Con la dizione test genetici si intendono «le analisi di specifici geni, del loro prodotto o della loro funzione, nonché ogni altro tipo di indagine del DNA o dei cromosomi, finalizzate a individuare o a escludere modificazioni del DNA, verosimilmente associate a patologie genetiche».

Schematicamente possono individuarsi:

– test diagnostici o clinici che sono finalizzati alla conferma o alla esclusione di una diagnosi clinica o alla caratterizzazione di un quadro patologico sospettato ma non definitivamente inquadrato dalla obiettività clinica;

– test presintomatici o preclinici che identificano una mutazione genica capace di determinare in un futuro più o meno prossimo la comparsa di una malattia. Si tratta di test som ministrati a soggetti che, al momento della esecuzione del test medesimo, non presentano segni o sintomi della malat-tia suscettibile di manifestarsi in futuro. Un test presintomatico, in buona sostanza, quando positivo, indica che una determinata patologia si svilup-perà inevitabilmente nel corso della vita (ad es. corea di Huntington). Tipici test presintomatici sono anche i test prenatali;

– test prognostici che consentono di attribuire a determinati genotipi quadri clinici con caratteristiche di gravità clinica e di decorso pro gnostico diversi. La conoscenza del risultato di questo test consente al medico di program-mare terapie meno aggressive e modulate a seconda del prognostico della malattia stessa;

– test predittivi di suscettibilità genetica che consentono di individuare geno-tipi capaci di comportare, in seguito alla esposizione a fattori ambientali favorenti, oppure per l’intervento di altri fattori genetici scatenanti, un rischio più grande di sviluppare una determinata patologia; – t e s t per l’identificazione degli eterozigoti che sono utili nel caso di malattie genetiche particolarmente frequenti, quali la talassemia, la fibrosi cistica, la mucopolisaccaridosi per identificare i portatori eterozigoti nella popola-zione generale;

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– indagini medico-legali che sono dirette alla documentazione di “evidenze” per l’accertamento della paternità o l’attribuzione di tracce biologiche a determinati individui con un grado di probabilità molto elevato.

Riferimenti normativi

In carenza di norme adhoc sulla esperibilità dei test genetici, risulta ben chiara per il medico l’indicazione del Codice di Deontologia medica (art. 45), nonché il richiamo alla Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina approvata il 19 novembre 1996 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, firmata dal Governo italiano ad Oviedo il 4 aprile 1997 e ratificata in legge nel 2001 (legge 28 marzo 2001, n. 145), che, all’art. 12, così enuncia: «Non si potrà procedere a test predittivi di malattie genetiche o che permettano sia di identificare il sog-getto come portatore di un gene responsabile di una malattia sia di rilevare una predisposizione o una suscettibilità genetica a una malattia se non a fini medici o di ricerca medica, e sotto riserva di una consulenza genetica appropriata».

Test preclinici o presintomatici

Rientrano in questo gruppo i test prenatali effettuati al fine di identificare, durante la vita prenatale, alterazioni genetiche che si renderanno responsa-bili della comparsa di malattie ereditarie. Si tratta spesso di affezioni che, una volta diagnosticate, non lasciano spazio a ipotesi terapeutiche né durante la vita prenatale né nell’immediato post-natale aprendo la strada alla decisione della madre di interrompere la gravidanza ai sensi della legge n. 194/1978 di cui si è già ampiamente trattato.

È qui opportuno riaffermare la importanza del counselling genetico in gravi-danza da strutturarsi in una fase precedente alla eventuale esecuzione del test genetico e diretta a tutte le donne in gravidanza al fine di individuare eventuali condizioni di rischio e una fase successiva all’eventuale risultato positivo del test genetico come momento formativo e informativo di supporto e sostegno nel processo decisionale della donna.

Analoghi, se non forse più inquietanti problemi sorgono intorno alla effet-tuazione di test preclinici di malattie a insorgenza tardiva. La effettuazione di test preclinici nei casi di malattie per le quali a una conoscenza diagnostica in fase pre-sintomatica corrisponde una effettiva ricaduta in termini di concrete possibilità terapeutiche non solleva questioni particolari: «La prescrizione di un test genetico

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Manuale della Professione Medica414

in una fase pre-sintomatica risulterebbe infatti ineccepibile in presenza di una adeguata terapia o qualora fosse quanto meno possibile modificare l’evoluzione della malattia, e ridurne le possibili complicanze, mediante un trattamento medico precoce; appare invece quanto meno discutibile per tutte quelle condizioni per le quali non è di fatto disponibile alcun rimedio terapeutico. La nascita di una moderna medicina molecolare di tipo predittivo impone pertanto una riconside-razione complessiva dei benefici e dei danni apportati dalla scienza. È indiscutibile che ogni individuo abbia diritto di conoscere il proprio genotipo; ma accanto al diritto di sapere si dovrebbe riconoscere anche il diritto di non sapere, soprattutto in quei casi in cui una conoscenza preventiva della malattia porterebbe soltanto a una anticipazione delle sofferenze, senza concreti vantaggi in termini terapeutici».

Art. 46 - Test predittivi

I test diretti in modo esclusivo a rilevare o predire malformazioni o malattie su base ereditaria, devono essere espressamente richiesti, per iscritto, dalla gestante o dalla persona interessata.

L’aspetto più delicato è quello della predittività delle malattie tumorali. Il test predittivo dovrebbe consentire di identificare i soggetti a rischio in una fase molto precoce in modo da poter attuare strategie di prevenzione. Il valore della predittività può essere diverso se il test è applicato a gruppi selezionati di persone (ad esempio famiglie nelle quali segrega la malattia da più generazioni, gruppi etnici particolari) rispetto alla popolazione generale. Questo guadagno di informazione è da attribuirsi alla minore eterogeneità genetica di gruppi definiti rispetto alla popolazione globalmente considerata.

Le indagini genetiche predittive in campo oncologico sono da raccoman-dare: «…per i familiari asintomatici di un paziente, al fine di inserirli in pro-grammi di follow-up per la diagnosi precoce di neoplasie attese, e/o al fi ne di valutare l’eventuale accesso a misure di chirurgia profilattica; per un indivi-duo asintomatico quando la diagnosi genetica può in durre a un cambiamento opportuno nello stile di vita e nelle abitudini alimentari, o a proteggerlo da possibili fattori di rischio anche occupazionale (radioattività, prodotti chimici ecc.) o comunque ad adottare tempestive misure di prevenzione» (Comitato Nazionale per la Bioetica: Terapiagenica, Roma, 15 febbraio 1991).

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11. Sessualità e riproduzione 415

Soggetti minorenni

La questione sottesa dalla effettuazione dei test genetici in tali soggetti pre-senta profili particolari in merito alla opportunità di sottoporre un mi nore a sif-fatte indagini. Andranno, infatti, opportunamente considerati e bilanciati tra loro il rapporto rischio-beneficio insito nella effettuazione del test, la possibilità di recupero dello spazio decisionale del minore, la tutela degli interessi del minore, la indicazione, la urgenza e la reale necessità della effettuazione del test genetico.

A tale proposito il CNB raccomanda di ef fettuare il test genetico su bam-bini o adolescenti solo «se implica un beneficio medico cer to e tempestivo». Nel caso di adolescenti in grado di giudicare le informazioni che vengono loro fornite, un test genetico potrebbe essere giustificato anche da benefici sostan-ziali a livello psico-sociale. «Se i benefici medici o psico-sociali di un test gene-tico non maturano fino all’età adulta – come quando si tratta di identificare lo stato di portatore, ovvero di malattie a esordio tardivo – il test dovrebbe essere generalmente rinviato. Se il bilancio tra potenziali danni e benefici del test risulta incerto, prevale il principio di au tonomia e dovrebbe essere rispettata la decisione degli adolescenti in grado di intendere e di volere, ovvero quella delle famiglie di appartenenza. Qualora i danni potenziali di un test genetico ven-gano ritenuti superiori agli eventuali benefici, il test genetico dovrebbe es sere scoraggiato».

Terapia genica

Il tema delle manipolazioni genetiche offre scenari inquietanti sul piano etico-deontologico; forti richiami alla questione genetica giungono, infatti, dalle maggiori assise scientifiche e culturali, nazionali e internazionali. Ci si riferisce alla Dichiarazione dell’UNESCO sul genoma umano e sui diritti dell’uomo (11 novembre 1997) che, all’art. 1, così stabilisce: «Il genoma umano sottende l’unità fondamentale di tutti i membri della famiglia umana come pure il riconoscimento della loro intrinseca dignità e della loro diversità…». Anche la già citata Convenzione europea sui diritti dell’uomo e la biomedicina dedica ampio spazio alle problematiche inerenti il genoma umano così reci-tando: «Art. 11. Ogni forma di discriminazione nei confronti di una persona in ragione del suo patrimonio genetico è vietata […]. Art. 13. Un intervento che abbia come obiettivo di modificare il genoma umano non può essere intra-preso che per ragioni preventive, diagnostiche o terapeutiche e solamente se

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non ha come scopo di introdurre una modifica nel genoma dei discendenti. Art. 14. L’utilizzazione delle tecniche di assistenza medica alla procreazione non è ammessa per scegliere il sesso del nascituro salvo che in vista di evitare una malattia ereditaria legata al sesso». Non si discosta affatto da tale imposta-zione anche il Codice di Deontologia medica che, all’art. 46, a proposito degli interventi sul genoma umano, valorizzando il principio della terapeuticità, pur intesa non solo nella dimensione di cura in senso tradizionale ma anche in quella più ampia di prevenzione, quale unico criterio nel quale sussumere la legittimazione e la giustificazione della terapia genica che può, quindi, essere definita come terapia diretta a eliminare e sostituire geni responsabili di condi-zioni patologiche non altrimenti curabili o prevenibili.

Esistono due tipi di terapia genica: quella germinale, rivolta cioè alle cellule germinali umane, e quella somatica diretta alle cellule somatiche dell’individuo.

Il principio della terapia genica somatica appare assolutamente ineccepibile sotto il profilo etico-deontologico non discostandosi, se non per la peculiarità degli aspetti tecnico-scientifici, da altre forme di interventi terapeutici nuovi che i progressi della scienza of frono al medico e al paziente.

Nessuna questione particolare, quindi, in merito alla terapia genica somatica se non quelle derivanti dal suo carattere sperimentale che impone il rispetto di particolari limiti di inviolabilità della integrità psico-fisica e della vita della per-sona, della utilità terapeutica, delle norme di buona pratica clinica. La terapia genica, proprio per le sue caratteristiche di terapia in gran parte sperimentale, è subordinata «al consenso del soggetto che deve essere espresso per iscritto, liberamente e con sapevolmente, previa specifica informazione sugli obiettivi, sui metodi, sui benefici previsti nonché sui rischi potenziali…» (art. 46 Codice di Deontologia medica). In definitiva, la terapia genica somatica deve sod-disfare i requisiti fondamentali della correttezza delle indicazioni, l’esistenza di fondati ed acclarati presupposti scientifici, il rispetto delle migliori e più aggiornate conoscenze scientifiche nel settore, la valutazione del rapporto rischio-benefici, l’assenza di alternative terapeutiche meno rischiose, la ido-neità delle strutture di laboratorio e della qualificazione tecnico-scientifica del personale che intraprende le procedure geniche.

Improponibile è la terapia genica germinale, attuata cioè sulle cellule della linea germinale dell’individuo, a motivo di ragioni tecniche, scientifiche, giuri-diche ed etiche.

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12Rapporti con i colleghi

P.Benciolini,A.Panti

Art. 58 - Rispetto reciproco

Il rapporto tra medici deve ispirarsi ai principi di corretta solidarietà, di reci-proco rispetto e di considerazione della attività professionale di ognuno. Il contrasto di opinione non deve violare i principi di un collegiale comporta-mento e di un civile dibattito.Il medico deve assistere i colleghi senza fini di lucro salvo il diritto al ristoro delle spese.Il medico deve essere solidale nei confronti dei colleghi risultati essere ingiu-stamente accusati.

Il contenuto di questo articolo sembra del tutto tautologico in quanto per-sone civili ed educate tengono normalmente questo comportamento, come habitus mentale che discende dal rispetto per gli altri e per le loro idee. Pur-troppo questa è una delle norme più frequentemente trasgredita dai colleghi, sia sul piano esteriore (appunti illeggibili su pezzi di carta strappata invece che lettere leggibili, intestate e firmate) sia sul piano della trasformazione del dissenso o della concorrenza tra colleghi in atteggiamenti calunniosi o offen-sivi. Gli Ordini finora hanno potuto ben poco contro questo comportamento dei medici che talora provoca ingenti danni alla categoria. Qualcuno ha detto che ci sono più reputazioni di medici colpite dal “fuoco amico”, cioè dalle segnalazioni più o meno anonime di colleghi, di quante siano quelle danneg-giate da denunce di malpractice. Insomma, mentre si tende talora a difese anche eccessive della categoria, latita spesso il dibattito collegiale e il confronto con gli altri. Siccome la norma risale al giuramento di Ippocrate, si può pensare che i comportamenti negativi che intende condannare siano in qualche modo

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connessi con la natura umana e che quelli positivi, che si vuole indurre e ren-dere obbliganti, siano difficili a svelarsi spontanei. Comunque il testo non esige particolari esegesi, solo la vigile attenzione degli Ordini che potrebbe rivelarsi utile anche quando il dissidio nasce dal rifiuto di asfissianti e cervellotiche o troppo complesse regole burocratiche (pensiamo alla ricettazione nel Servi-zio Sanitario) che si scarica tra diverse categorie creando purtroppo difficoltà all’incolpevole paziente.

Naturalmente, sostiene il secondo comma dell’articolo, il medico deve assi-stere i colleghi senza fini di lucro. Difficile a farsi, data la numerosità della cate-goria; tuttavia impegno di solidarietà è ragionevole e opportuno, anche se la “fratellanza” che il giuramento di Ippocrate sostiene e sancisce sembra quasi un antico retaggio di fronte alle regole della concorrenza che assimilano i medici a imprese individuali. Infine la solidarietà con il collega ingiustamente accusato di solito è praticata e dovrebbe, in pratica, essere mediata dallo stesso Ordine pro-fessionale, che potrebbe anche presentarsi in giudizio per risarcimento di danni morali a sostegno del proprio iscritto sottoposto, come talora capita, in vere e proprie campagne diffamatorie medianiche.

Art. 59 - Rapporti col medico curante

Il medico che presti la propria opera in situazioni di urgenza o per ragioni di specializzazione a un ammalato in cura presso altro collega, previo consenso dell’interessato o del suo legale rappresentante, è tenuto a dare comunicazione al medico curante o ad altro medico eventualmente indi-cato dal paziente, degli indirizzi diagnostico-terapeutici attuati e delle valutazioni cliniche relative, tenuto conto delle norme di tutela della riser-vatezza.Tra medico curante e colleghi operanti nelle strutture pubbliche e private, anche per assicurare la corretta informazione all’ammalato, deve sussistere, nel rispetto dell’autonomia e del diritto alla riservatezza, un rapporto di con-sultazione, di collaborazione e di informazione reciproca al fine di garantire coerenza e continuità diagnostico-terapeutica.La lettera di dimissione deve essere indirizzata, di norma tramite il paziente, al medico curante o ad altro medico indicato dal paziente.

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12. Rapporti con i colleghi 419

Anche in questo articolo la norma, erede degli antichi codici in cui preva-levano le regole di comportamento, di “etichetta”, tra colleghi, rispetto alle indicazioni sull’approccio alle questioni morali nei rapporti con il paziente, si sofferma nel dettagliare i mezzi e gli strumenti perché l’intervento di più col-leghi nel corso di un evento morboso non crei danno, invece che vantaggio, al paziente e neppure fomenti dissapori tra professionisti. Vi è in più, rispetto ai testi dei precedenti Codici, una forte attenzione alle regole della riservatezza e del consenso del paziente o del legale rappresentante. Insomma, l’obbligo deontologico (e logico sul piano clinico) di avvertire il curante soggiace alla libera determinazione del paziente che ha il diritto di non far conoscere ad alcuno l’intervento di altro medico rispetto al curante.

Tuttavia, dal momento che la massima parte delle prestazioni mediche si svolge all’interno del Servizio Sanitario, sia pur tra medici con differente rap-porto giuridico con le Aziende sanitarie, ma con gli stessi, identici obblighi deontologici nei confronti dei pazienti, il Codice impone ai medici, nell’inte-resse del paziente, l’esercizio della consultazione, della collaborazione e dell’in-formazione reciproca. La sanità moderna non può che configurarsi come un continuo, ininterrotto flusso di comunicazioni intorno al paziente, tra tutti i professionisti impegnati, medici e non medici, e il Codice, al di là del richiamo al reciproco rispetto e all’interesse di porre tutte le possibili e necessarie com-petenze al servizio del paziente, quasi prefigura le regole di una buona medi-cina nell’età dell’informatica che già tutti coinvolge.

Il richiamo alla lettera di dimissione, contenuto nell’ultimo comma, avrebbe potuto essere inserito nell’articolo precedente in quanto la raccomandazione di indirizzarla comunque a un collega rientra nelle norme di reciproco rispetto che danno misura della correttezza di una categoria e del prevalere sempre e comunque dell’interesse del paziente.

Art. 60 - Consulenza e consulto

Qualora la complessità del caso clinico o l’interesse del paziente esigano il ricorso a specifiche competenze specialistiche dignostiche e/o terapeutiche, il medico curante deve proporre il consulto con altro collega o la consulenza presso idonee strutture di specifica qualificazione, ponendo gli adeguati que-siti e fornendo la documentazione in suo possesso.

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In caso di divergenza di opinioni, si dovrà comunque salvaguardare la tutela della salute del paziente che dovrà essere adeguatamente informato a le cui volontà dovranno essere rispettate.I giudizi espressi in sede di consulto o di consulenza devono rispettare la dignità sia del curante che del consulente.Il medico, che sia di contrario avviso, qualora il consulto sia richiesto dal malato o dai suoi familiari, può astenersi dal parteciparvi, fornendo, comun-que, tutte le informazioni e l’eventuale documentazione relativa al caso.Lo specialista o consulente che visiti un ammalato in assenza del curante deve fornire una dettagliata relazione diagnostica e l’indirizzo terapeutico consigliato.

Il primo comma dell’art. 60 riprende il contenuto dell’art. 21, richiamando il medico all’obbligo di garantire competenza e ricordando che è parte di que-sta anche la consapevolezza dei propri limiti e quindi la necessità di non assu-mere impegni che non si è in grado di soddisfare. Quindi il medico, quando ravvisa la necessità di ricorrere, nell’interesse della cura del paziente, a com-petenze specialistiche, deve proporre il consulto di un collega o la consulenza presso strutture idonee, ponendo correttamente i quesiti diagnostici o tera-peutici e fornendo la documentazione in suo possesso. L’articolo richiama ancora i medici a salvaguardare l’interesse del paziente in caso di divergenza di opinioni, fatto di cui la persona dovrà essere adeguatamente informata e la cui volontà dovrà essere comunque rispettata. Quasi a ricordare che in caso di divergenza di opinioni tra medici è sempre il cittadino che è arbitro del proprio destino.

Il terzo comma riprende e riafferma i contenuti dell’art. 58, cioè il rispetto della dignità di tutti i medici coinvolti nella cura, limitando il giudizio agli aspetti clinici della vicenda ed evitando ogni dichiarazione polemica o negativa. In tali casi, purtroppo non rari specialmente nelle relazioni peritali connesse con vicende giudiziarie, l’Ordine deve intervenire per ristabilire la giusta colle-gialità e il decoro della categoria.

Infine il Codice lascia il medico libero di non aderire alla richiesta di con-sulto da parte di un paziente, per quanto sia obbligato a fornire la documen-tazione in suo possesso. Comunque lo specialista o il consulente che visita un ammalato in assenza del curante deve fornire dettagliata relazione scritta.

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12. Rapporti con i colleghi 421

Art. 61 - Supplenza

Il medico che sostituisce nell’attività professionale un collega è tenuto, cessata la supplenza, a fornire al collega sostituito le informazioni cliniche relative ai malati sino allora assistiti, al fine di assicurare la continuità terapeutica.

Anche questo breve articolo contiene raccomandazioni ovvie sul piano logico, ma evidentemente necessarie sul piano pratico. Il medico che sostitui-sce un collega assente deve fornire, al termine della sostituzione, tutte le infor-mazioni relative agli atti medici compiuti durante la sostituzione al fine della corretta prosecuzione della cura. Si sottende che il titolare, prima di assen-tarsi, abbia ugualmente fornito al sostituto le informazioni idonee a svolgere al meglio i propri compiti nell’interesse dei pazienti. Un breve excursus storico mette in evidenza come dell’antico testo ippocratico per molti secoli ci si sia soffermati sul dettare regole di comportamento collegiale, meno attente alle questioni etiche che, al contrario, costituiscono oggi la sostanza del Codice deontologico, proprio perché le conquiste della tecnica portano con sé proble-matiche etiche di ardua risoluzione e che coinvolgono tutti i cittadini.

Art. 62 - Attività medico-legale

L’esercizio dell’attività medico legale è fondato sulla correttezza morale e sulla consapevolezza delle responsabilità etico-giuridiche e deontologiche che ne derivano e deve rifuggire da indebite suggestioni di ordine extratecnico e da ogni sorta di influenza e condizionamento.L’accettazione di un incarico deve essere subordinata alla sussistenza di un’adeguata competenza medico-legale e scientifica in modo da soddisfare le esigenze giuridiche attinenti al caso in esame, nel rispetto dei diritti della persona e delle norme del Codice di Deontologia medica e preferibilmente supportata dalla relativa iscrizione allo specifico albo professionale.In casi di particolare complessità clinica ed in ambito di responsabilità pro-fessionale, è doveroso che il medico legale richieda l’associazione con un collega di comprovata esperienza e competenza nella disciplina coinvolta.Fermi restando gli obblighi di legge, il medico curante non può svolgere fun-zioni medico-legali di ufficio o di controparte nei casi nei quali sia intervenuto

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personalmente per ragioni di assistenza o di cura e nel caso in cui intrattenga un rapporto di lavoro dipendente con la struttura sanitaria coinvolta nella controversia giudiziaria.La consulenza di parte deve tendere unicamente a interpretare le evidenze scientifiche disponibili pur nell’ottica dei patrocinati nel rispetto della ogget-tività e della dialettica scientifica nonché della prudenza nella valutazione relativa alla condotta dei soggetti coinvolti.L’espletamento di prestazioni medico-legali non conformi alle disposizioni in cui ai commi precedenti costituisce oltre che illecito sanzionato da norme di legge, una condotta lesiva del decoro professionale.

Art. 63 - Medicina fiscale

Nell’esercizio delle funzioni di controllo, il medico deve far conoscere al sog-getto sottoposto all’accertamento la propria qualifica e la propria funzione. Il medico fiscale e il curante, nel reciproco rispetto del diverso ruolo, non devono esprimere al cospetto del paziente giudizi critici sul rispettivo operato.

L’interesse principale per questo capo è certamente identificabile nel primo dei due articoli che lo compongono, sembra tuttavia utile una, almeno prelimi-nare, visione d’insieme. Sotto la voce “Attività medico-legale” sono raggruppati due differenti questioni ritenute entrambe (e giustamente) di rilevanza deon-tologica. La prima di esse (il cui titolo riproduce esattamente quello dell’intero capo) è dedicata alle prestazioni più propriamente considerate medico-legali, ma opportunamente continua a comparire anche il richiamo alle implicanze deontologiche della cosiddetta “medicina fiscale”, più correttamente inquadrata poi in relazione alle “funzioni di controllo”. Non vi è dubbio, infatti, che anche in questo ambito l’attività del medico si caratterizza in senso medico-legale sia perché le relative funzioni trovano un fondamento normativo specifico sia anche perché le connesse prestazioni si esprimono mediante attività certificativa dalla quale non è esclusa addirittura una valutazione, sia pure indirettamente, di verifica dell’attendibilità della certificazione di altro collega.

Una riflessione, ancorché breve, sull’art. 63 (“Medicina fiscale”) sembra opportuna e, visto che si collega immediatamente a quanto appena osservato,

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12. Rapporti con i colleghi 423

giustifica l’inversione della successione delle considerazioni dedicate ai due articoli del Capo IV.

Due sono gli aspetti di rilevanza deontologica che l’edizione 2006 del Codice sottopone all’attenzione nel primo caso del medico che svolge le “funzioni di controllo”, nel secondo anche del medico curante. Questa articolazione ripro-duce nella prima parte il testo del 1998, mentre nella seconda parte si tratta di formulazione del tutto innovativa. Non si ritrovano, invece, i riferimenti ad altre due previsioni contenute nell’edizione precedente: quella che negava la possibilità di far conoscere al paziente le valutazioni diagnostiche e terapeu-tiche del medico di controllo e quella che consentiva allo stesso di adottare provvedimenti urgenti per la tutela della salute del malato in caso di “urgenza ed emergenze”. La prima scelta appare ispirata da una saggia revisione critica della reale portata del testo. È infatti compatibile con un’attenta considera-zione dei principi ispirati della deontologia professionale la scelta di prendere esplicitamente in considerazione aspetti attinenti la diagnosi o la terapia per una più adeguata tutela della salute del malato, anche se non ci si rapporta a esso nella veste istituzionale di curante. La questione va affrontata e portata avanti, ovviamente, in un corretto rapporto con il collega al quale il paziente si è affidato: ciò che conta è che la (comune) preoccupazione per il bene del paziente non debba soggiacere a rivendicazioni di competenza puramente for-mali, quando non addirittura dettate da una sorta di “gelosia di possesso”. La seconda richiamata previsione dell’edizione 1998 appariva già come evidente esemplificazione di quanto era osservato e la sua formulazione talmente ovvia da non richiedere una specifica menzione in sede deontologica.

Venendo alle due indicazioni di cui si compone l’attuale art. 63, l’aver mantenuto il dovere del medico di “controllo” di qualificarsi a chi è oggetto dell’accertamento costituisce scelta opportuna e, al tempo stesso, raccoman-dazione deontologica di valore più generale alla quale sarebbe opportuno che un medico ricordasse di attenersi in ogni suo incontro con persone estranee alla sua attuale relazione professionale. Un primo esempio può essere identifi-cato proprio nell’ambito di quella “attività medico-legale” alla quale è esplicita-mente dedicato l’articolo precedente.

La seconda indicazione del nuovo art. 63 attiene al rapporto tra medico “fiscale” e medico curante. Anche alla luce di quanto si è sopra osservato, appare certamente opportuno aver circoscritta questa formulazione al divieto

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di “esprimere al cospetto del paziente giudizi critici sul rispettivo operato”. Si tratta di un comportamento già oggetto di considerazione nella più ampia analisi del “rapporto con il medico curante” collocata all’art. 59 (che, del resto, assorbe anche quanto non più riportato nell’attuale art. 63), ma la sua men-zione in tema di “medicina fiscale” va approvata come ulteriore richiamo trat-tandosi di una relazione tra colleghi particolarmente delicata.

Quanto osservato sulla pertinenze dell’art. 63 in tema di “attività medico-legale” consente di ricordare, a questo punto, che non poche sono le presta-zioni a contenuto e valenza medico-legale dei medici. Proprio per tale motivo, nel corso dei lavori di revisione della versione 1998 del Codice si era pensato di sostituire il precedente art. 64 (“Compiti e funzioni medico legali”) con due distinti articoli dedicati rispettivamente alle prestazioni di natura medico-legale del non specialista e alle “prestazioni medico-legali specialistiche”.

La relativa proposta era stata elaborata con impegno e competenza da un gruppo di colleghi genovesi coordinati dal professor Renzo Celesti (si veda anche n. 3 anno 2005 di Professione), successivamente integrato dai compo-nenti medico-legali della Commissione permanente della Federazione per la revisione del Codice e da ultimo recepito e fatto proprio dalla Società Italiana di Medicina Legale e delle Assicurazioni (SIMLA). Chi scrive ricorda l’inte-resse e la generale condivisione di tale elaborato quando venne presentato alle Giornate Europee di Deontologia Medica del 2005 (Sanremo).

La scelta della FNOMCeO, nella definizione dell’attuale testo del Codice, è stata diversa. L’articolo dedicato specificamente alla “attività medico-legale” è rimasto unico e non contiene quello che appariva (e appare tutt’ora, a chi scrive) l’opportuna distinzione tra prestazioni a valutazioni medico-legali non specifiche e attività che richiedono una competenza specialistica). L’aver considerato, in apposito e separato articolo, le prime avrebbe assunto il significato di un importante richiamo alle implicazioni deontologiche di prestazioni (in particolare di natura certificativa e comunque documentale) che non raramente vengono ritenute da molti colleghi di natura meramente “burocratica” o in ogni caso di secondaria importanza, in quanto esulanti dai compiti specificamente attinenti la cura della malattia e la promozione della salute.

Veniamo comunque all’art. 62 come ci viene proposto dall’edizione 2006 del Codice.

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12. Rapporti con i colleghi 425

Nei mesi trascorsi dalla sua definizione non poche sono state le occasioni di confronto e dibattito (l’ultima, certamente la più qualificata per sede e per interlocutori, costituita dal Congresso SIMLA di Roma, del giugno scorso). Senza alcuna pretesa di poter richiamare in questa sede spunti e contributi, ci si propone di svolgere una, sia pur sintetica, analisi dei commi di cui l’art. 62 si compone senza trascurare un confronto con il testo elaborato dalla Commis-sione Celesti e condiviso dalla SIMLA.

Una preliminare considerazione appare comunque opportuna. Ci si è chiesti, da più parti, perché il Codice deontologico debba prendere in esplicita conside-razione una particolare attività medica come quella medico-legale quando non dedica altrettanta attenzione alle altre, numerosissime, modalità (specialistiche e non) nelle quali la professione del medico può esprimersi. Una prima risposta è consentita dalla constatazione che questa particolare attenzione non è nuova, ma si ritrova già nelle precedenti edizioni del Codice. Una (certamente caustica) diversa motivazione potrebbe essere individuata nella (singolare) discrepanza fra l’abbondante e autorevole dottrina sui temi della deontologia professionale ela-borato dalla medicina legale e gli scarsi contributi dei suoi cultori sulla specifica deontologia del medico-legale. Ma, ancor più, come ignorare che l’ambito pro-fessionale propone non raramente comportamenti che solo eufemisticamente potremmo definire “disinvolti” e la cui rilevanza sotto il profilo deontologico tarda a essere riconosciuta, pur manifestando carenze anche gravi sotto l’uno o l’altro (o entrambi) i fondamentali riferimenti di ogni comportamento professio-nalmente corretto, e cioè la “scienza” e la “coscienza”? La (rinnovata) scelta del Codice di dedicare specifica attenzione all’attività medico-legale è dunque condi-visibile senza riserve e anzi costituisce l’indispensabile premessa per consentire una maggiore attenzione degli Ordini a questi aspetti dell’attività professionale dei loro iscritti (in quanto in questa prospettiva, da considerare comunque, spe-cialisti o non specialisti in medicina legale). Lo prevede, del resto, esplicitamente l’ultimo comma dell’art. 62 che richiama la responsabilità deontologico-discipli-nare (e non solo giuridica) che deriva dall’espletamento di attività medico-legali non conformi alle disposizioni di cui ai commi precedenti.

Veniamo, dunque, alle cinque diverse proposizioni contenute nei rispettivi commi, il cui commento terrà conto anche di quanto è già stato oggetto di una prima sintetica riflessione condotta con Anna Aprile su invito della Rivista Medico e Bambino (n. 6/07, p. 224).

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Manuale della Professione Medica426

Il primo comma ricorda opportunamente la triplice dimensione della respon-sabilità professionale medica (etica, in primo luogo, deontologica e giuridica) che nello svolgimento dell’attività medico-legale va continuamente richiamata all’attenzione del professionista. È singolare constatare come, non raramente, il professionista medico legale tenda a minimizzare i risvolti deontologici, mentre il clinico, chiamato a cimentarsi in questo ambito, sia portato a sottovalutare gli aspetti giuridici (comprese le implicanze processuali). Opportuno appare il monito a mantenere le richieste valutazioni nell’ambito della competenza medico-biologica, nella realistica consapevolezza che proprio in sede di pareri medico-legali possono interferire pressioni (dall’esterno) o suggestioni (nelle modalità di approccio del professionista) non rispettose della specificità e dei limiti del contributo richiesto. Il testo proposto dalla Commissione Celesti, dedi-cato all’attività specialistica medico-legale, insistenva sulla «competenza relativa alla metodologia scientifica, culturale e interpretativa», ricordando che la stessa «costituisce patrimonio conoscitivo irrinunciabile delle discipline medico-legali o delle altre scienze medico-forensi su cui verta l’indagine». La diversa impo-stazione conferita all’attuale art. 62 ha trasferito il richiamo alla competenza nel secondo comma, escludendo peraltro ogni ulteriore riferimento alla meto-dologia e alla cultura specialistica. Questa formulazione, certamente riduttiva anche sotto il profilo delle esigenze deontologiche, non consente comunque di ignorare il preciso dovere etico-deontologico (oltre che, ovviamente, giuridico) di valutare la propria personale competenza e quindi anche l’obbligo di non accettare richieste di pareri che esulino da tale competenza.

Una considerazione, breve ma inevitabilmente critica, merita il riferimento all’auspicata “iscrizione allo specifico albo professionale”, quale garanzia della richiamata “adeguata competenza medico-legale e scientifica”. È noto a tutti (e dovrebbe istituzionalmente esserlo a chi ha emanato il Codice) che non esiste alcuno specifico “albo professionale”, in ambito ordinistico (se non oviamente l’Albo dei medici chirurghi, che tutti li comprende), mentre ben diverso è il significato di altri documenti come “l’elenco degli psicoterapeuti”. Se poi si fosse inteso fare riferimento agli albi dei periti o dei consulenti tecnici esistenti presso i tribunali, è solo il caso di rilevare come la modalità della loro com-pilazione escluda qualunque possibilità di verifica in ordine alle competenze.

Il terzo comma prende, giustamente, in apposita considerazione le “atti-vità” attinenti complesse problematiche peritali, tra le quali esplicitamente

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12. Rapporti con i colleghi 427

include quelle in tema di responsabilità professionale. A tale questione era dedicato, in termini più ampi e meglio esplicitati, il secondo comma della pro-posta Celesti, che faceva riferimento alle indagini «coinvolgenti aspetti clinici e biologici propri di altre discipline, connotate da particolare complessità specia-listica». Con riferimento a questi casi, e per la prima volta, il Codice propone al medico legale il dovere deontologico di associarsi con «un collega di com-provata esperienza e competenza nelle discipline coinvolte» (nella proposta Celesti, «un professionista operante nella particolare disciplina specialistica clinico-biologica avente esperienza tecnico-scientifica e professionale adeguata alle esigenze del caso»).

Si tratta della più rilevante innovazione introdotta dal nuovo Codice in tema di attività a contenuto medico-legale. A parere di chi scrive (e in piena sinto-nia con la proposta a suo tempo elaborata e fatta propria della SIMLA), essa appare del tutto condivisibile e tuttavia da valutare con attenzione e impegno, affinché possa essere positivamente tradotta in termini operativi. Un rilievo cri-tico, avanzato da più parti, coglie l’aspetto paradossale che deriverebbe da una rigida interpretazione dell’enunciato, per cui il dovere deontologico di associa-zione riguarderebbe solo il medico legale e non altri medici richiesti, in prima persona, di svolgere attività peritale. È evidente che lo spirito di queste norme non può fare distinzioni ed esige che indagini complesse vengano affrontate con la duplice competenza, essendo anche quella medico-legale indispensabile a favorire una corretta e completa risposta al giurista.

Assai più importante risulta evidenziare la necessità che questo “dovere” si traduca in un impegno a ottenere l’attenzione da parte di chi richiede l’indagine peritale. Il committente, infatti, è professionista estraneo all’ambito medico e, come tale, non è tenuto a conoscere e ad applicare una norma del nostro Codice. Né quella di cui ora ci occupiamo può essere ritenuta cogente sotto il profilo processuale. Ma è proprio la sua valenza deontologica che, anziché tradursi in una petizione di principio (scarsamente efficace per l’interlocutore specie se come magistrato incline a rivendicare l’autonomia decisionale), deve inspirare il medico richiesto di fornire un qualificato parere peritale a giustifi-care, con adeguata e corretta motivazione, la richiesta di costituire l’indispen-sabile collegio interdisciplinare.

Ci si può chiedere, a questo punto, quale atteggiamento dovrebbe essere assunto in casi di risposta negativa: rinunciare all’incarico o accettarlo comun-

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que, anche se in assenza di quella integrazione che, ritenendola indispensabile, era stata richiesta. La risposta – almeno in questi primi mesi di applicazione del nuovo Codice – non può essere tassativa né va dedotta acriticamente da un’in-terpretazione eccessivamente rigida (e quindi, in ultima analisi, formalistica) del testo qui in commento. Ricordiamo che rientra nella natura stessa delle norme deontologiche (specie di quelle a carattere propositivo) una loro attua-zione basata sul convincimento e sulla maturazione della sensibilità professio-nale in ordine al tema proposto. A maggior ragione questo va tenuto presente quando – come nella questione ora in esame – la possibilità di dare attuazione a tale “dovere” non dipende dal medico – al quale rimane comunque (medico legale o clinico che sia) il previsto dovere di dichiarazione all’interlocutore giu-rista la propria competenza e i limiti della stessa.

Sulle possibili prestazioni medico-legali del medico curante, alle quali è dedicato il quarto comma, il Codice propone considerazioni che riprendono le regole deontologiche in tema di possibile conflitto d’interessi (art. 30).

Questi aspetti non erano stati presi in esame nella proposta della Com-missione Celesti e in effetti potrebbe apparire superfluo richiamarli. Tuttavia occorre richiamare anche in questo caso la funzione pedagogica del Codice, che si esprime, anche riproponendo, in fattispecie specifica, principi generali già altrove esposti quando – come, occorre riconoscerlo, in ordine all’attività peritale – la delicatezza della prestazione lo suggerisca.

Appare comunque ingiustificato circoscrivere i casi di incompatibilità del medico curante all’attività “di ufficio o di controparte”, in quanto la particolare sensibilità deontologica (a differenza dei casi di possibile rilevanza sotto il pro-filo giuridico) potrebbe suggerire di non accettare incarichi nemmeno da colui che è stato (o è ancora) il proprio paziente, senza dimenticare le eventualità (non solo teoriche) in cui la doppia veste di curanti e di consulenti medico-legali potrebbe orientare verso valutazioni tra loro contrastanti. Anche in que-sti casi, comunque, la soluzione andrebbe ricercata assicurando il prevalere della preoccupazione della tutela della salute del paziente sulle sue esigenze, pure legittime, di una soluzione favorevole delle vertenze in ambito giuridico o assicurativo. È per questo che, a chi scrive, sembra deontologicamente da evitare l’assunzione di incarichi peritali da parte del medico curante.

Il quinto comma prende in considerazione il delicato aspetto della con-sulenza di parte, anch’esso per la prima volta, e giustamente, introdotto nel

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Codice. Esso recepisce la sostanza della corrispondente proposta della Com-missione Celesti, formulata in termini per altro più scarni ed essenziali. Della stessa richiamiamo l’impegno del consulente a circoscrivere l’interpretazione dei «dati disponibili in termini tecnicamente compatibili con la posizione patrocinata», concetto che nel testo dell’art. 62 appare esposto in modo meno rigoroso.

Il comma si conclude raccomandando la «prudenza nella valutazione rela-tiva alla condotta dei soggetti coinvolti», formulazione che sembra richiamare le controversie in tema di responsabilità dei professionisti sanitari (unico ambito, in effetti, ove al medico in funzione medico-legale possono essere proposti quesiti in tema di condotta, attinenti cioè all’elemento soggettivo). Tale impostazione risente certamente della non infrequente casistica di azioni giudiziarie promosse nei confronti di medici basate su consulenze di natura medico-legale non adeguatamente motivate o addirittura prive degli indi-spensabili presupposti di ordine clinico-scientifico. Tuttavia la collocazione di questa indicazione deontologica nel comma relativo alle consulenze di parte può indurre a una lettura riduttiva di una tale, più giustificata, preoccupazione, facendola quasi apparire come espressione di malintesa solidarietà corporativa. Per questo motivo avremmo preferito che un (forte) richiamo ad affrontare con meditata prudenza (oltre che con serietà scientifica) questioni così delicate e dalle possibili anche devastanti ripercussioni fosse collocato in sede di indi-cazioni di ordine generale, riguardanti ogni parte di valutazione medico-legale, a prescindere dal committente.

Al comma conclusivo già si è accennato. Come più volte abbiamo avuto occasione di dichiarare, è veramente auspicabile che l’attenzione alla corretta applicazione delle norme deontologiche si traduca, anche per le prestazioni a contenuto medico-legale, in attiva preoccupazione da parte degli Ordini pro-fessionali e, se del caso, in concrete iniziative di carattere disciplinare.

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S.Fucci,M.Greco

Art. 54 – Onorari professionali

Nell’esercizio libero professionale, fermo restando il principio dell’intesa diretta tra medico e cittadino e nel rispetto del decoro professionale, l’onorario deve essere commisurato alla difficoltà, alla complessità e alla qualità della presta-zione, tenendo conto delle competenze e dei mezzi impegnati.Il medico è tenuto a far conoscere il suo onorario preventivamente al cittadino.La corresponsione dei compensi per le prestazioni professionali non deve essere subordinata ai risultati delle prestazioni medesime.Il medico può, in particolari circostanze, prestare gratuitamente la sua opera purché tale comportamento non costituisca concorrenza sleale o illecito acca-parramento di clientela.

L’articolo in commento contiene, rispetto all’art. 52 del precedente Codice del 1998, significative innovazioni, tutte conseguenti alle misure di libe-ralizzazione del “mercato” dei servizi professionali introdotte con il DL n. 223/06, convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 2006, n. 248, che ha abrogato, tra le altre, le disposizioni della legge n. 244/63 che imponevano al medico e all’odontoiatra l’osservanza degli onorari minimi stabiliti ai sensi della stessa legge, vietando altresì qualunque compenso forfetario.

Con l’art. 54, infatti, la FNOMCeO ha adempiuto al disposto dalla stessa legge n. 248/06, che ha prescritto agli Ordini professionali di curare, entro il 1° gennaio 2007, l’adeguamento delle disposizioni deontologiche concernenti l’obbligatorietà della tariffa minima, nonché la contestuale «adozione di misure a garanzia della qualità delle prestazioni professionali».

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La nuova norma deontologica ribadisce anzitutto il principio dell’intesa diretta tra medico e cittadino e, in totale sintonia con l’art. 2233 cc, riafferma che l’onorario, nel rispetto del decoro professionale, deve essere commisurato alla difficoltà, alla complessità e alla qualità della prestazione, tenendo conto delle competenze e dei mezzi impegnati.

Naturalmente, nella nuova disposizione il rispetto del minimo pro fessionale approvato dall’Ordine non costituisce più obbligo deontologico, che il prece-dente Codice di Deontologia estendeva anche alle prestazioni svolte all’interno di società di profes sionisti o a favore della mutualità volontaria e, addirittura, all’attività libero-professionale intra moenia, esercitata dai medici dipendenti delle Aziende sa nitarie, che si con figurasse come libera professione.

La preventiva comunicazione al cittadino dell’onorario richiesto è indicata anch’essa come obbligo deontologico del professionista, ma non è più pre-scritta l’acquisizione dell’accettazione espressa del paziente.

L’art. 54 continua a stabilire, invece, diversamente dal disposto legisla-tivo, che «la corresponsione dei compensi per le prestazioni professionali non deve essere subordinata ai risultati delle prestazioni medesime». La posizione assunta su questo specifico aspetto dall’organo professionale è certamente da condividere, ed è singolare, anzi, che il legislatore non abbia valutato l’impos-sibilità pratica e, comunque, l’inopportunità, in campo medico, di subordinare l’entità del compen so al risultato delle cure.

Resta altresì fermo che il medico può, in particolari circostanze, prestare gratuitamente la sua opera «purché tale comportamento non costituisca con-correnza sleale o illecito accaparramento di clientela».

Va notato, comunque, che le scelte compiute dall’organo professionale su entrambi questi aspetti possono essere considerate pienamente in linea con la citata disposizione legislativa, che ha demandato all’Ordine l’autonoma valu-tazione delle misure più opportune da adottare «a garanzia della qualità delle prestazioni professionali».

Dalla nuova disciplina deontologica, infine, risulta del tutto scomparsa la previsione della possibile introduzione, per autonoma decisione di ciascun Ordine provinciale, ma sulla base di criteri di riferimento unitari sul piano nazionale, della tariffa massima degli onorari professionali.

L’abrogazione delle norme che limitavano l’autonomia negoziale del profes-sionista e del cliente circa l’onorario spettante per la prestazione professionale

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ridimensiona, necessariamente, i limiti oggettivi del potere disciplinare dell’Or-dine in questa materia, posto che alle parti è ora riconosciuta un’ampia libertà contrattuale nel determinare sia la misura sia la tipologia del compenso (si pensi, ad esempio, a forme di “abbonamento”, ora possibili, per controlli e prestazioni di carattere routinario e periodico, che avrebbero oltretutto il merito di migliorare i livelli di prevenzione), pur escludendo l’opportunità in campo sanitario della parametrazione, ammessa dalla legge, del compenso al risultato della prestazione.

Tuttavia, pur dopo le “liberalizzazioni” volute dalla recente legge, l’ono-rario professionale continua a essere un aspetto di rilevanza non secondaria anche sul piano deontologico, mentre la stessa tariffa degli onorari professio-nali, come tale, non è venuta a cadere.

La legge n. 248/06 ha stabilito, infatti, che in caso di lite «il giudice prov-vede alla liquidazione delle spese di giudizio e dei compensi professionali, […] sulla base della tariffa professionale». Ha previsto, inoltre, che nelle procedure a evidenza pubblica – alle quali, ad esempio, è assimilabile per analogia l’ela-borazione di tariffari aziendali per le prestazioni rese nell’esercizio di attività libero-professionale intramuraria – «le stazioni appaltanti possono utilizzare le tariffe, ove motivatamente ritenute adeguate, quale criterio o base di riferi-mento per la determinazione dei compensi per attività professionali».

Nel caso delle professioni di medico chirurgo e di odontoiatra, le disposizioni della legge n. 244/63 sulla tariffa professionale – escluse ovviamente quelle con-cernenti sia l’obbligatorietà dei compensi in essa previsti come importo minimo dell’onorario sia il divieto di compensi forfetari – conservano la loro validità per quanto riguarda i principi e criteri per la determinazione di una tariffa nazionale, con funzione indicativa, nei confronti dei professionisti, dell’equità e congruità del compenso e orientativa, nei confronti dell’Ordine e del giudice allorché siano chiamati a pronunciarsi, nei rispettivi ruoli consultivo e giudicante, in caso di ver-tenza con il cliente. A maggior ragione, resta valida la procedura, prevista dall’art. 1 della legge del 1963, per l’elaborazione (e per la periodica revisione) della tariffa a cura del Mi nistro della Salute, sentito il parere della FNOMCeO, nonché per la sua approvazione con Decreto del Presidente della Repubblica. Conseguente-mente, la tariffa attuale – stabilita dal DPR 17 febbraio 1992 (in GU n. 128, SO, del 2 giugno 1992) – rimane formalmente in vigore con la limitata funzione di cui si è detto, anche se il suo mancato adeguamento, da un quindicennio, ai valori monetari correnti la priva di effettiva utilità pratica anche solo ai fini anzidetti.

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Art. 65 - Società tra professionisti

I medici sono tenuti a comunicare all’Ordine territorialmente competente ogni accordo, contratto o convenzione privata diretta allo svolgimento dell’attività professionale al fine della valutazione della conformità ai principi di decoro, dignità e indipendenza della professione.I medici che esercitano la professione in forma societaria sono tenuti a notificare all’Ordine l’atto costitutivo della società, costituita secondo la normativa vigente, l’eventuale statuto e ogni successiva variazione statutaria ed organizzativa. Il medico non deve partecipare in nessuna veste ad imprese industriali, com-merciali o di altra natura che ne condizionino la dignità e l’indipendenza professionale e non deve stabilire accordi diretti o indiretti con altre profes-sioni sanitarie che svolgano attività o effettuino iniziative di tipo industriale o commerciale inerenti l’esercizio professionale.Il medico, che opera a qualsiasi titolo nell’ambito di qualsivoglia forma socie-taria di esercizio della professione:

– garantisce, sotto la sua responsabilità, l’esclusività dell’oggetto sociale dell’attività professionale relativamente all’albo di appartenenza;

– può detenere partecipazioni societarie nel rispetto delle normative di legge;– è e resta responsabile dei propri atti e delle proprie prescrizioni;– non deve subire condizionamenti di qualsiasi natura della sua autonomia

e indipendenza professionale.

L’Ordine, al fine di verificare il rispetto delle norme deontologiche, è tenuto, nell’ambito della normativa vigente, a iscrivere in apposito elenco i soci profes-sionisti e le società costituite secondo la normativa vigente, anche in ambito inter-professionale, alle quali partecipino i professionisti iscritti presso i rispettivi albi, nell’ambito delle linee di indirizzo e coordinamento emanate dalla FNOMCeO.

L’esercizio libero-professionale in forma individuale, ancorché ancora dif-fuso, va sempre più cedendo il posto a forme associative tra professionisti, in grado – attraverso l’integrazione di competenze specialistiche diverse o com-plementari – di offrire, da una parte, una risposta interdisciplinare e più com-pleta alle esigenze assistenziali dei pazienti, dal punto di vista sia diagnostico sia terapeutico, e di con seguire, dall’altra, rilevanti economie e maggiore effi-cienza nella gestione in comune della struttura profes sionale.

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Con questo duplice obiettivo, anche i medici e gli odontoiatri hanno fatto ricorso in passato all’unica forma associata di esercizio consentita dalla legge 23 novembre 1939, n. 1815, rappresentata dall’istituto dell’associazione professionale (in genere costituita come socie tà di fatto), che comportava per ciascun asso-ciato, oltre all’obbligo di notificare l’esercizio associato all’Ordine di apparte-nenza, quello di esegui re personalmente le prestazioni richieste dal commit-tente, assumendone la diretta ed esclusiva responsabilità.

Nel settore delle attività sanitarie, tuttavia, sotto l’incalzare delle esigenze organizzative, il divieto imposto dalla legge del 1939, di costituire, per l’eserci-zio delle professioni intellettuali, società diverse dal semplice studio associato, è stato via via rimosso, nei confronti delle strutture di laboratorio di analisi, di radiologia e diagnostica per immagini e di fisioterapia che erogano prestazioni per conto del SSN (legge n. 412/91, art. 4, comma 2), mentre la partecipazione dei medici ad associazioni professionali, nonché a società, anche cooperative, è stata prevista dalla riforma-ter per la realizzazione di nuo ve forme organizza-tive nel settore dell’assistenza sanitaria di base. La disciplina di detta partecipa-zione è demandata agli accordi collettivi relativi ai rapporti di convenzione con i medici di medicina generale e con i pediatri di libera scelta.

Da ultimo, il divieto in parola è stato definitivamente eliminato dal DL 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 2006, n. 248, al fine specifico di meglio tutelare la concorrenza nell’intero settore dei ser-vizi professionali e di assicurare agli utenti un’effettiva facoltà di scelta nell’eser-cizio dei propri diritti e di comparazione delle prestazioni offerte sul mercato.

Va però sottolineato che la legge citata (art. 2), pur abrogando «il divieto di fornire all’utenza servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte di società di persone o associazioni tra professionisti», ha mantenuto fermo i principi secondo cui «l’oggetto sociale relativo all’attività libero-professionale deve essere esclusivo, [...] il medesimo professionista non può partecipare a più di una società e [...] la specifica prestazione deve essere resa da uno o più soci professionisti previamente indicati, sotto la propria personale responsabilità».

Proprio dalla riaffermazione di questi principi (oltre che dalla lettera della norma citata), si evince, inoltre, che il divieto di esercizio in forma societaria – salvo il disposto di norme speciali, come quella di cui alla legge n. 412/91 citata – rimane fermo nei confronti delle società di capitali, dotate di propria e assoluta personalità giuridica, nell’ambito delle quali, allo stato della normativa

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civilistica, sarebbe impossibile salvaguardare tanto il carattere personale della prestazione, quanto la responsabilità individuale del professionista.

Il Codice deontologico approvato a fine 2006, proprio in relazione ai nuovi principi introdotti dalla legge n. 248/06 in tema di esercizio societario delle professioni, ha anch’esso dettato, con la norma in commento, nuove disposi-zioni circa gli obblighi del medico-odontoiatra che esercita l’attività professio-nale nell’ambito di società tra professionisti.

La norma conferma e rafforza la già prevista vigilanza dell’Ordine sulle forme di esercizio associato, stabilendo, tra l’altro, l’obbligo, per i medici, di «notificare all’Ordine l’atto costitutivo della società, costituita secondo la nor-mativa vigente, l’eventuale statuto e ogni successiva variazione statutaria ed organizzativa».

Il terzo comma stabilisce in questa sede (invero, non del tutto appropriata) un’assoluta incompatibilità tra l’esercizio medico-odontoiatrico e la partecipa-zione a iniziative imprenditoriali di qualsivoglia natura «che ne condizionino la dignità e l’indipendenza professionale». L’incompatibilità è espressamente estesa agli «accordi diretti o indiretti con altre professioni sanitarie», quando l’iniziativa imprenditoriale sia inerente l’esercizio professionale.

È ammessa invece la partecipazione del medico a società interprofessionali, ossia costituite con altri professionisti sanitari iscritti ai rispettivi albi, purché questi non svolgano attività o effettuino iniziative di tipo industriale o com-merciale inerenti l’esercizio professionale.

In ogni caso, il medico che, «nel rispetto delle normative di legge», esercita in forma societaria è responsabile dei propri atti e delle proprie prescrizioni e «non deve subire condizionamenti di qualsiasi natura della sua autonomia e indipendenza professionale».

È prevista altresì l’emanazione, da parte della FNOMCeO, di linee di indi-rizzo e coordinamento.

Art. 66 - Rapporto con altre professioni sanitarie

Il medico deve garantire la più ampia collaborazione e favorire la comuni-cazione tra tutti gli operatori coinvolti nel processo assistenziale, nel rispetto delle peculiari competenze professionali.

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Con riguardo al rapporto con altre professioni sanitarie merita rilevare il ben diverso tenore della norma dettata dall’art. 66 del nuovo Codice, rispetto a quella contenuta, sotto questa stessa rubrica, nell’art. 68 del Codice precedente.

Nei confronti di questi rapporti – caratterizzati ormai, oltre che dalla pre-senza delle professioni laureate più antiche (quelle appartenenti al ruolo sanita-rio del SSN), da quella di ben ventidue professioni sanitarie non mediche, non più “ausiliarie” della professione medica o odontoiatrica, tutte dotate di un proprio campo di attività e responsabilità e della relativa autonomia decisionale – la deontologia medica mostra di accentuare l’attenzione verso rapporti colla-borativi sottesi al lavoro interdisciplinare e di équipe, che necessita, per essere efficace, di un costante e aperto colloquio tra i professionisti in esso impegnati, nel rispetto delle rispettive competenze professionali.

Va tenuto presente, peraltro, che l’attuale quadro ordinamentale, scaturito dai vari provvedimenti legislativi e regolamentari adottati a partire dal 1994, non fornisce certezze assolute per quanto concerne le sfere di competenza di ciascuna di dette professioni rispetto alla professione medica.

In particolare la legge n. 42/99 stabilisce che «il (rispettivo) campo di attività e di responsabilità è determinato dai contenuti dei decreti ministeriali istitutivi dei relativi profili professionali e degli ordinamenti didattici dei rispettivi corsi di laurea e di formazione post-base, nonché degli specifici codici deontologici, fatte salve le competenze previste per le professioni mediche e per le altre professioni del ruolo sanitario per l’accesso alle quali è richiesto il possesso del diploma di laurea, nel rispetto reciproco delle specifiche competenze professionali».

Come è stato rilevato dalla dottrina, l’ambito di competenza delle diverse professioni sanitarie non mediche viene così a essere definito da tre criteri-guida (contenuto dei profili professionali, contenuto degli ordinamenti didattici univer-sitari, contenuto dei codici deontologici) e da due criteri-limite (competenze delle professioni mediche e competenze degli altri professionisti laureati non medici, come biologi, chimici, psicologi, fisici), criteri che, tuttavia, «disegnano una realtà complessa e talvolta priva di chiare coordinate interpretative» (Magliona).

In realtà, i decreti istitutivi dei rispettivi profili professionali consentono soprat-tutto di individuare le attività che il professionista non medico può svolgere auto-nomamente, da quelle soggette a prescrizione medica; il che indica, con una certa chiarezza, gli atti compresi in una sfera di assoluta autonomia e quelli che rientrano nell’ambito della collaborazione interprofessionale o del lavoro di équipe. Per il

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proprium di ciascuna professione si constata, invece, che, a fronte di profili estrema-mente dettagliati (quasi un mansionario), altri «non consentono, per la loro sinteti-cità, di inquadrare nell’ambito delle singole voci previste tutta la molteplicità delle situazioni che nella realtà concretamente si verificano».

Piuttosto relativo risulta essere, poi, l’apporto di chiarezza che può essere for-nito, sull’ambito di competenza dei singoli professionisti sanitari non medici, sia dagli ordinamenti didattici dei rispettivi corsi di studio e formazione post-base, sia, soprattutto, dai codici deontologici. I primi, infatti, ricalcano di norma i contenuti dei profili professionali; mentre i codici deontologici – espressione del potere di autogoverno delle stesse categorie nella fissazione delle regole di comportamento nell’esercizio professionale – per la loro stessa natura, finalizzazione e provenienza, appaiono ben poco utili, quand’anche sia possibile cogliervi qualche indicazione che vada oltre l’enunciazione del ruolo e della funzione globali della professione, ai fini della certezza giuridica circa le attribuzioni e competenze della medesima.

D’altra parte, anche il criterio-limite costituito dalle competenze della profes-sione medica – a differenza di quanto accade per altre professioni, compresa quella odontoiatrica, le cui leggi istitutive fissano l’oggetto della rispettiva attività – non for-nisce elementi decisivi di carattere giuridico-normativo per la definizione dell’atto medico in generale, né per l’esatta individuazione delle attribuzioni e dei compiti del medico, nell’ambito della stragrande maggioranza delle discipline specialistiche.

Nasce anche da questo dato di fatto la necessità, nello spirito della norma qui in esame e di quelle dettate dagli artt. 68 e 70, di un’assidua attenzione, da parte dei medici, al rispetto delle reciproche competenze e di una imme-diata segnalazione all’Ordine professionale di eventuali indebite “invasioni di campo”, specie nel caso che queste siano in qualche modo tollerate (se non volute) dal datore di lavoro o dai responsabili dell’azienda.

Art. 67 - Esercizio abusivo della professione e prestanomismo

È vietato al medico collaborare a qualsiasi titolo o di favorire, anche fun-gendo da prestanome, chi eserciti abusivamente la professione.Il medico che nell’esercizio professionale venga a conoscenza di prestazioni mediche o odontoiatriche effettuate da non abilitati alla professione o di casi di favoreggiamento dell’abusivismo, è obbligato a farne denuncia all’Ordine territorialmente competente.

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Premessa

La tematica affrontata in quest’articolo riguarda un argomento che ha assunto nel tempo sempre maggiore importanza perché, come emerge anche dai mass media, vi sono numerosi soggetti che esercitano la professione medica o l’odontoiatria, senza averne i titoli, mettendo così a rischio la salute di coloro che vengono assistiti da questi sedicenti professionisti.

La professione medica e l’odontoiatria si caratterizzano, infatti, per la pecu-liare attività svolta da persone che, dopo avere seguito un particolare e rigoroso iter formativo e superato l’esame di abilitazione, si sono iscritti al relativo albo, continuando poi ad aggiornarsi per mantenere nel tempo le conoscenze indi-spensabili per un corretto esercizio della loro attività diagnostica o curativa.

Lo Stato, in questo modo, intende offrire una precisa garanzia ai cittadini che richiedono una prestazione a questi professionisti, sottoposti al controllo dell’Ordine per quanto concerne il rispetto delle norme deontologiche che sono dirette ad assicurare che gli iscritti tengano comportamenti corretti anche sul piano del rispetto dei valori etici ivi delineati.

Quest’articolo, nel primo comma, impone ai medici e agli odontoiatri di non collaborare a qualsiasi titolo con coloro che intendono esercitare la professione senza averne i titoli e, quindi, abusivamente. Il divieto si estende anche a quei comportamenti diretti a favorire, anche fungendo da prestanome, gli abusivi che, storicamente, sono particolarmente diffusi in campo odontoiatrico.

L’Ordine è interessato alla repressione di questo fenomeno per evidenti ragioni, sanitarie, etiche ed economiche, perché non solo non vi è alcuna garan-zia di qualità nelle prestazioni rese dagli abusivi, ma anche perché costoro fini-scono con il realizzare una forma di concorrenza sleale nei confronti degli iscritti che esercitano la professione nel rispetto delle regole, giuridiche e deontologi-che, sancite dall’ordinamento.

Ecco perché, nel secondo comma di questo articolo, viene previsto a carico degli iscritti un vero e proprio dovere deontologico di denuncia all’Or-dine, competente sul piano territoriale, di situazioni dalle quale emerge che prestazioni mediche o odontoiatriche siano state eseguite da persone non abilitate all’esercizio professionale ovvero che un abusivo venga favorito nella sua attività illecita da un soggetto che, invece, è in possesso di tutti i titoli per svolgere l’attività.

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Il fenomeno del cosiddetto prestanomismo vede, infatti, coinvolti in prima persona gli iscritti all’albo che, di norma per ragioni economiche, con i loro comportamenti si prestano a coprire l’attività svolta dagli abusivi in strutture che risultano apparentemente essere regolarmente aperte in quanto intestate a sog-getti muniti delle prescritte abilitazioni all’esercizio professionale.

Il legislatore, consapevole della gravità sul piano sociale di questo compor-tamento, ha introdotto una specifica sanzione disciplinare diretta a contrastarlo.

L’interdizione dalla professione come sanzione disciplinare

L’art. 8 della legge n. 175/92, diretta, tra l’altro, proprio a reprimere l’eser-cizio abusivo delle attività sanitarie, al primo comma, stabilisce, infatti, che «gli esercentileprofessionisanitariecheprestanocomunqueilproprionome,ovverolapropriaattività,alloscopodipermettereodiagevolarel’esercizioabusivodelleprofessionimedesimesonopuniticonl’interdizionedallaprofessioneperunperiodononinferioreadunanno».

A tal fine la legge attribuisce agli Ordini uno specifico potere di ispezione, previsto dal secondo comma di questa norma che, infatti, dispone che «gli Ordinieicollegiprofessionali,ovecostituiti,hannofacoltàdipromuovereispezionipressoglistudiprofessionalidegliiscrittiairispettivialbiprovinciali,alfinedivigilaresulrispettodeidoveriinerentiallerispettiveprofessioni».

La Giurisprudenza della Suprema Corte ha respinto le tesi di coloro che vole-vano collegare questa sanzione all’accertamento di un reato ovvero che volevano attribuire al giudice penale l’irrogazione dell’interdizione sopra menzionata.

Le Sezioni Unite civili della Cassazione, con la sentenza n. 4667/98, hanno, infatti, precisato che questa norma ha introdotto nell’ordinamento «un nuovo tipodisanzionedisciplinarechesiaggiungeaquellegiàindicate» nell’art. 40 del DPR n. 221 del 1950 (l’avvertimento, la censura, la sospensione dall’esercizio della professione e la radiazione dall’albo).

Questa sanzione, infatti, non è collegata alla commissione di un reato, come, invece, quella di cui gli artt. 30 e 31 del Codice penale che prevedono l’interdizione come sanzione accessoria in caso di condanna per delitti commessi con l’abuso della professione.

Il legislatore, invero, ha disciplinato in modo specifico la condotta che deve essere sanzionata ex art. 8 legge n. 175/92, condotta che rileva in sede disci-plinare solo se è caratterizzata dal dolospecifico, come si evince dal testo della

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normativa in cui si mette in evidenza che il comportamento vietato deve essere stato tenuto «alloscopodipermettereodiagevolarel’esercizioabusivodelleprofessioni».

Questa sanzione non è, quindi, immediatamente riconducibile nemmeno al reato di cui all’art. 348 del Codice penale, che punisce l’esercizio abusivo della professione, perché questa norma non prevede per la punibilità un dolospecifico, ma solo quello generico, che presuppone che l’evento delittuoso incriminato sia stato voluto dal medico come conseguenza della propria condotta cosciente e volontaria.

L’orientamento espresso dalle Sezioni Unite è poi stato confermato dalla suc-cessiva Giurisprudenza in materia (vedi, al riguardo, Cass. civ. sent. n. 10698/99 e n. 10393/01 e Cass. pen sent. n. 21212/01).

Si tratta, quindi, di una nuova sanzione la cui applicazione compete esclu-sivamente all’Ordine che la deve irrogare una volta accertata l’esistenza del comportamento illecito sopra menzionato, a prescindere dall’esistenza o meno di una condanna in sede penale.

Occorre che nella motivazione della decisione vengano ben descritti gli ele-menti di fatto in base ai quali si tiene sussistere, a carico dell’iscritto, un compor-tamento diretto specificamente ad agevolare l’attività abusiva in oggetto perché altrimenti si rischia l’annullamento della sanzione in sede di impugnazione (vedi, al riguardo, Cass. civ. sent. 834/07 che ha annullato la precedente sentenza della Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie che aveva confer-mato la sanzione dell’interdizione per un anno irrogata ad un medico “sul rilevo”,considerato erroneo dalla Suprema Corte«chel’avereessoprevistoetemutol’esercizioabusivodapartedell’odontotecnico,senzafarenullaperimpedirlo,equivaleall’averloagevolatoconsapevolmente»; in questa sentenza la Cassazione ha affermato che il testo della legge è chiaro laddove stabilisce che «perconcretarel’illecitoènecessarioildoloinformaspecifica”, inquanto“risultache loscopoulterioreche l’agentesideveprefiggereèquellodipermettereo,comunque,agevolarel’esercizioabusivodellaprofessione»).

L’esercizio abusivo della professione come reato

Come già sopra accennato l’esercizio abusivo di una qualsiasi professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, integra una con-dotta vietata sul piano penale, a prescindere dal fenomeno del prestanomismo.

L’art. 348 del Codice penale, infatti, punisce con la reclusione fino a sei mesi o con la multa da euro 103, 00 a euro 516,00 chi esercita una professione protetta, inclusa quella medica e quella odontoiatrica, senza averne i titoli.

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Manuale della Professione Medica442

Nel caso in cui l’esercizio abusivo in questione è agevolato da parte di un iscritto all’Ordine, anche quest’ultimo sarà punibile ex art. 348 cp a titolo di concorso nel reato commesso dall’abusivo (vedi, sul punto, Cass. pen. sent. n. 22144/08, relativa alla fattispecie nella quale un medico-chirurgo aveva messo a disposizione di un odontotecnico il proprio studio nel quale quest’ultimo visitava i pazienti e li sottoponeva ad interventi sul cavo orale, tra cui la trapa-nazione e l’estrazione dei denti, nonché l’installazione di protesi).

In questo caso è possibile, per l’Ordine, costituirsi parte civile nel pro-cesso penale per ottenere il risarcimento del danno proprio, di natura anche patrimoniale, subito per la lesione dell’interesse «di categoria protetto dall’ordine professionale»che l’attività di cura venga svolta da chi ha i relativi titoli ed è sot-toposto alla sua vigilanza in quanto iscritto, senza che vi siano comportamenti di concorrenza sleale in danno degli altri professionisti operanti in un determinato contesto territoriale (vedi, sul punto, Cass. pen. sent. n. 22144/08).

In linea generale si può affermare che commette il delitto di esercizio abu-sivo della professione medica chiunque esprime giudizi diagnostici, fornisce consigli di cura ovvero prescrive prodotti terapeutici anche se diversi da quelli ordinariamente utilizzati nella medicina tradizionale, senza essere in possesso della relativa abilitazione professionale (vedi, sul punto, Cass. pen. sent. n. 34200/07 in tema di prescrizione di farmaci omeopatici).

In definitiva l’attività di prevenzione, diagnosi e di cura delle malattie rimane il nucleo centrale ed esclusivo della professione medica, a prescindere dagli strumenti utilizzati in concreto.

Va ricordato, infine, che è configurabile il delitto di esercizio abusivo della professione anche qualora l’agente, iscritto nel relativo albo professionale, abbia compiuto l’attività protetta di sua competenza durante il periodo in cui era stato sospeso dall’esercizio professionale in seguito a un provvedimento adottato dai competenti organi amministrativi (vedi, sul punto, Cass. pen. sent. 20439/07, in tema di esercizio della professione forense).

Art. 68 - Medico dipendente o convenzionato

Il medico che presta la propria opera a rapporto d’impiego o di conven-zione, nell’ambito di strutture sanitarie pubbliche o private, è soggetto alla potestà disciplinare dell’Ordine anche in riferimento agli obblighi connessi al rapporto di impiego o convenzionale.Il medico dipendente o convenzionato con le strutture pubbliche e/o private

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13. Rapporti con il SSN e con enti pubblici e privati 443

non può in alcun modo adottare comportamenti che possano indebitamente favorire la propria attività libero-professionale.Il medico qualora si verifichi contrasto tra le norme deontologiche e quelle proprie dell’ente, pubblico o privato, per cui presta la propria attività profes-sionale, deve chiedere l’intervento dell’Ordine, onde siano salvaguardati i diritti propri e dei cittadini.In attesa della composizione della vertenza egli deve assicurare il servizio, salvo i casi di grave violazione dei diritti e dei valori umani delle persone a lui affidate e della dignità, libertà e indipendenza della propria attività professionale.

Il Codice 2006 ribadisce, con l’articolo in esame, un principio da tempo affermato dalla deontologia medica: quello dell’assoggettamento alla potestà disciplinare dell’Ordine dei sanitari che esercitano la professione nell’ambito di strutture pubbliche o private con rapporti di dipendenza o di convenzione, con la precisazione che tale assoggettamento concerne «anche gli obblighi connessi al rapporto di impiego o convenzionale». La norma si pone in diretta relazione con quella dell’art. 1 del Codice che, nel definire il campo di applicazione delle regole deontologiche in esso contenute, fa riferimento ai medici-chirurghi e agli odontoiatri iscritti agli albi professionali dell’Ordine dei Medici-Chirurghi e degli Odontoiatri, senza altra distinzione con riguardo alla forma di esercizio dell’attività professionale.

L’enunciazione non può essere intesa come ingerenza nel potere discipli-nare di cui sono investiti l’azienda o il datore di lavoro nei confronti dei pro-fessionisti dipendenti o instabilmente e funzionalmente inseriti nella struttura in forza di un rapporto di lavoro parasubordinato. Essa, infatti, sta a significare piuttosto che l’iscritto all’albo deve improntare il proprio comportamento, anche nell’adempimento degli obblighi che gli derivano dal rapporto di lavoro, alle regole della deontologia professionale. E, in coerenza con tale principio, il secondo comma pone anzitutto un divieto assoluto al medico dipendente o convenzionato di strumentalizzare a fini di tornaconto personale la posizione rivestita all’interno della struttura.

Nella stessa prospettiva va considerata, per converso, la norma del terzo comma riferita all’ipotesi, deprecabile ma realistica, che si determini un contra-sto tra la regola deontologica e quella di carattere interno in qualche modo sta-bilita dai responsabili della struttura medesima. Peraltro, nel caso del verificarsi

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Manuale della Professione Medica444

di tali situazioni – nelle quali possono essere minacciati, o comunque messi in discussione, diritti propri del medico e/o quelli dei cittadini – il comma medesimo correttamente prescrive al professionista iscritto all’albo di chiedere l’intervento dell’Ordine, mentre quello finale gli fa obbligo di continuare ad assicurare il servizio in attesa della composizione della vertenza, con la sola eccezione nel caso di violazione grave di diritti fondamentali «delle persone a lui affidate» e/o delle prerogative di indipendenza della professione.

Con riferimento a questa eccezione, non si può non osservare che cir-costanze analoghe, di assoluta rilevanza anche sotto il profilo costituzionale, sono state ritenute dal Parlamento atte a legittimare, nel delicato settore dei servizi pubblici essenziali, il passaggio immediato all’azione di sciopero, vale a dire senza l’osservanza del prescritto periodo di preavviso. Occorre aggiun-gere, per completezza, che il medico conserva comunque il diritto – ferma restando la richiesta di intervento dell’Ordine – di adire personalmente, per la tutela dei propri interessi, il giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, oggi competente a conoscere delle controversie inerenti il rapporto di lavoro dipendente o autonomo.

Art. 69 - Direzione sanitaria

Il medico che svolge funzioni di Direzione sanitaria nelle strutture pubbliche o private ovvero di responsabile sanitario in una struttura privata deve garan-tire, nell’espletamento della sua attività, il rispetto delle norme del Codice di Deontologia medica e la difesa dell’autonomia e della dignità professionale all’interno della struttura in cui opera.Egli comunica all’Ordine il proprio incarico e collabora con l’Ordine profes-sionale, competente per territorio, nei compiti di vigilanza sulla collegialità nei rapporti con e tra medici per la correttezza delle prestazioni professionali nell’interesse dei cittadini. Egli, altresì, deve vigilare sulla correttezza del materiale informativo attinente alla organizzazione e alle prestazioni erogate dalla struttura.Egli, infine vigila perché nelle strutture sanitarie non si manifestino atteggia-menti vessatori nei confronti dei colleghi.

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13. Rapporti con il SSN e con enti pubblici e privati 445

L’ordinamento giuridico, negli ultimi decenni, di pari passo con lo svi-luppo, nel numero e nella complessità organizzativa, delle strutture sanitarie, ha rivolto maggiore attenzione, rispetto al TU delle leggi sanitarie del 1934, alla figura del direttore sanitario o tecnico e alle responsabilità alle quali è chiamato per garantire il corretto esercizio professionale all’interno della struttura in cui opera e, con esso, la qualità delle prestazioni rese all’utenza.

Come noto, fin dal Regolamento generale sanitario del 1901, condizione essenziale per l’apertura e l’eserci zio di presidi ambulatoriali o poliambulato-riali è che essi siano diretti da un medico-chirurgo, che ne assume la responsa-bilità tecnica, salve le poche eccezioni ammesse dal DPCM 10 febbraio 1984 per i pre sidi di diagnostica di laboratorio.

L’incarico può essere ricoperto dallo stesso titolare, esercente, proprietario del presidio sanitario, purché in possesso dei requisitirichiesti. Per quest’ultimo aspetto, la normativa nazionale richiede:

– per il direttore tecnico di laboratorio d’analisi, il possesso del la specializza-zione (o di un’esperienza quinquennale in strutture pubbliche) in una delle branche attinenti al laboratorio;

– per il responsabile di impianto radiologico, secondo la definizione del DLgs n. 187/00, il possesso della specializzazione in radiodiagnostica, radiotera-pia o medicina nucleare;

– per il direttore di ambulatorio di cure fisiche, è sufficiente che l’incaricato sia preferibilmente versato in idrologia, idroterapia, terapia fisica o igiene.

Una disciplina più puntuale al riguardo è stata, però, dettata da molte Regioni, le cui leggi in materia di autorizzazione all’apertura ed esercizio delle strutture sanitarie richiedono, di norma, il possesso di una specia lizzazione corrispondente alla natura dell’attività svolta dalla struttura. È generalmente prescritto, inoltre, che il direttore tecnico debba dichiarare per iscritto l’accet-tazione dell’incarico e delle conseguenti responsabilità.

Per quanto concerne le responsabilità del direttore sanitario, la legge n. 412/91, nel ribadire (art. 4, comma 2) che «le isti tuzioni sanitarie private che erogano prestazioni poliambulatoriali, di laboratorio generale o specialistico in materia di analisi chimico-cliniche, di diagno stica per immagini, di medicina fisica e riabilita zione, di terapia radiante ambulatoriale, di medici na nucleare in vivo e in vitro [...] devono avere un direttore sanitario o tecnico»; ha anche stabilito,

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Manuale della Professione Medica446

con assoluta chiarezza, che questi «risponde personalmente dell’organizza-zione tecnica e funzionale dei servizi e del possesso dei prescritti titoli profes-sionali da parte del personale che ivi opera».

Dal disposto ora citato, sebbene espressamente riferito a istituzioni private di tipo ambulatoriale, è dato desumere un principio applicabile, certamente, alla Direzione sanitaria in genere, quello per cui il direttore sanitario o tecnico è investito di una responsabilità personale di carattere generale sul funzionamento com-plessivo del presidio, con obblighi che attengono anzitutto alla vigilanza sui requisiti igie nici e sull’idoneità delle attrezzature tecniche, non ché sul possesso da parte del personale addetto dei prescritti requisiti professionali, ma anche alla vi gilanza sulla qualità delle singole prestazioni dia gnostiche e terapeutiche erogate ai pazienti. Né vanno trascurate le leggi regionali in materia, che indi-cano spesso altri compiti e adempimenti specifici.

Gli obblighi giuridici derivanti al direttore sanitario o tecnico dalle leggi vigenti coincidono, sostanzialmente, con i doveri sanciti dal Codice di Deon-tologia medica relativamente all’espletamento delle funzioni di Direzione sani-taria nell’ambito di strutture pubbliche o private.

È da notare che la deontologia medica, pur riservando attenzione a par-ticolari situazioni manifestatesi nel tempo, soltanto con il Codice approvato nel 1998 ha dettato disposizioni specifiche (art. 70) sulla Direzione sanitaria. Il Codice 2006, a sua volta, con la norma in commento ha introdotto, nella precedente disciplina, integrazioni finalizzate a una più completa responsabi-lizzazione del direttore sanitario.

Anzitutto, alla figura del medico con funzioni di Direzione sanitaria viene appaiata, in modo esplicito, quella del “responsabile sanitario di struttura privata”. Questa aggiunta tende, evidentemente, a chiarire la posizione e la responsabilità del medico nei casi in cui, in carenza di un direttore apposita-mente nominato, venga incaricato delle relative funzioni altro sanitario addetto nel contempo a funzioni diverse. È il caso, per esempio, delle case di cura private con un numero di posti letto inferiore a centocinquanta, per le quali l’art. 26 del DPCM 27 giugno 1986 in materia di requisiti delle case di cura consente il conferimento dell’incarico contestuale a un «medico responsabile di raggruppamento di unità funzionali o di servizio speciale di diagnosi e cura».

In secondo luogo, il direttore sanitario è ora tenuto a comunicare all’Or-dine il proprio incarico – comunicazione che costituisce implicita accettazione

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13. Rapporti con il SSN e con enti pubblici e privati 447

dell’incarico – mentre restano fermi sia il dovere di collaborare con l’Organo professionale nell’opera di «vigilanza sulla collegialità nei rapporti con e tra medici per la correttezza delle prestazioni professionali nell’interesse dei citta-dini», sia quello di «vigilare sulla correttezza del materiale informativo attinente alla organizzazione e alle prestazioni erogate dalla struttura», vale a dire sulla veridicità dei messaggi pubblicitari rivolti al pubblico degli utenti. Per quanto concerne, in particolare, la pubblicità dell’informazione sanitaria, va anzi rile-vato che la responsabilità attribuita al direttore sanitario, sul piano deontolo-gico, è piena e generale, come risulta chiaramente dall’art. 56 e dalla linea-guida allegata al nuovo Codice.

La norma deontologica attribuisce, infine, al direttore sanitario il compito di vigilare «perché nelle strutture sanitarie non si manifestino atteggiamenti vessatori nei confronti dei colleghi». La disposizione si collega anche a quanto previsto dall’art. 68 in merito al comportamento al quale è tenuto il medico nel caso di contrasto con quello che la struttura vorrebbe imporre. Va sottolineato, peraltro, che l’articolo in esame, nel suo complesso, individua un insieme di attribuzioni e compiti, ancorché non nuovi, che definiscono la funzione pro-pria di una Direzione sanitaria correttamente esercitata, di un incarico, cioè, che, per poter garantire la difesa della professione e la qualità delle prestazioni, non può mai essere routinario, specie in una realtà organizzativa, come quella odierna, caratterizzata non solo da elevatissimi livelli tecnologici, ma soprat-tutto dalla presenza, accanto al medico, di altre e numerose figure professionali investite in genere di una propria autonoma sfera di competenza. Sono quindi da richiamare, in proposito, le considerazioni svolte, in particolare, a com-mento degli artt. 66, 67 e 68.

Page 472: Manuale della professione medica

14Medicina dello sport

A.Pagni,G.Sisca

Art. 71 - Accertamento della idoneità fisica

La valutazione della idoneità alla pratica degli sport deve essere ispirata a esclu-sivi criteri di tutela della salute e della integrità fisica e psichica del soggetto.Il medico deve esprimere il relativo giudizio con obiettività e chiarezza, in base alle conoscenze scientifiche più recenti e previa adeguata informazione al soggetto sugli eventuali rischi che la specifica attività sportiva può comportare.

Art. 72 - Idoneità - Valutazione medica

Il medico è tenuto a far valere, in qualsiasi circostanza, la sua potestà di tutelare l’idoneità psico-fisica dell’atleta valutando se un atleta possa intrapren-dere o proseguire la preparazione atletica e l’attività sportiva. Il medico deve esigere che la sua valutazione sia accolta, denunciandone il mancato accoglimento alle autorità competenti e all’Ordine professionale.

I due articoli qui commentati unitariamente si integrano vicendevolmente nel fissare i principi che devono presiedere alle attività del medico dello sport in qua-lunque delle tre aree – dello sport dilettantistico, dello sport agonistico e dello sport professionistico – in riferimento alle quali possono essere richiesti l’accertamento e la certificazione dell’idoneità fisica e psichica all’esercizio della pratica sportiva.

L’osservanza di questi principi richiede una piena conoscenza non solo delle distinte normative che regolano i controlli sanitari relativi a ognuna di dette aree, ma anche della natura, delle caratteristiche, delle modalità di svolgimento, dell’impegno richiesto all’atleta in ciascuna attività sportiva, in modo particolare nei vari campi dell’attività agonistica e ancor più di quella professionistica.

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Manuale della Professione Medica450

Il principio fondamentale è, anche nella tutela sanitaria delle attività spor-tive, quello comune a qualunque settore di esercizio della medicina: il medico deve sempre ispirare la sua opera all’interesse dell’atleta e alla difesa della sua salute, avendo ben presente che quest’ultima, di norma, trae bensì giovamento dalla pratica di uno sport, ma può riceverne grave nocumento in determinate condizioni fisiche o psichiche non tempestivamente o correttamente valutate dal medico.

La norma deontologica del secondo comma dell’art. 71 richiede quindi che il giudizio medico sia basato sulle conoscenze scientifiche più recenti e comunicato all’interessato (o a chi lo rappresenta legalmente) con obiettività e chiarezza, così da renderlo edotto degli «eventuali rischi che la specifica attività sportiva può comportare».

In realtà, la peculiarità della medicina dello sport, rispetto alla generalità delle attività mediche, è rappresentata dalla presenza di notevoli (talvolta for-midabili) interessi economici nell’intero mondo sportivo, in omaggio ai quali gli organismi che ne sono portatori possono tentare di piegare a loro favore il giudizio del medico.

L’art. 72 si riferisce appunto a questa delicata problematica, prescrivendo che il medico non solo faccia valere, in qualsiasi circostanza, la sua potestà di valutare se l’atleta sia nelle condizioni psicofisiche necessarie per intraprendere o proseguire l’attività sportiva, ma esiga, soprattutto, che la sua valutazione sia accolta, facendogli altresì obbligo, in caso di mancato accoglimento, di denun-ciare il fatto alle autorità competenti e all’Ordine professionale.

È da notare, peraltro, che tale comportamento deve guidare l’azione del medico tanto nel caso dei grandi atleti, intorno a quali ruotano gli interessi econo-mici di cui or ora si diceva, quanto in quello dei semplici dilettanti, anche in gio-vanissima età, che vanno spesso difesi dalle ambizioni sbagliate dei loro genitori.

Infine, occorre aggiungere che sarebbe dovere del medico dello sport fare un salto di livello culturale più ampio. Dovrebbe utilizzare concettualmente lo sport (a qualsiasi livello esso sia praticato) come uno strumento terapeutico tra i più potenti esistenti, funzionando da tutor per l’intera classe medica. L’azione del medico (tanto più dello Specialista in Medicina dello Sport) è quello di indi-viduare correttamente ed edurre il più esaustivamente possibile, il proprio sog-getto/paziente/sportivo sul tipo e livello di attività sportiva da svolgere, sulla base di un’attenta valutazione clinica/anamnestica e strumentale, se ritenuta

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14. Medicina dello sport 451

necessaria, dallo stesso. Non bisogna lasciar passare il concetto del “meglio star tranquilli cosi non si rischia”!

Oramai esistono diversi studi scientifici di assoluto livello che vanno in que-sta direzione (Multiple Risk Factor Intervention Trial; Harvard Alumni Study; solo per citarne alcuni). Uno dei principi da seguire da parte del medico è quello della con-sapevolezza di una corretta prescrizione dell’attività fisica, prediligendo un’attività fisica costante, di tipo aerobico, a meno di non trovarsi di fronte ad un atleta già allenato, che garantisce lo stato di salute del soggetto/paziente/sportivo.

La controprova di quanto sopra esposto è che risulta essere consolidata in ambito scientifico l’osservazione di come, nel soggetto sedentario, soprattutto se di età superiore ai 40 anni, l’esercizio fisico occasionale di elevata intensità costituisce un fattore di rischio per IMA.

Anche l’esercizio fisico dunque, come ogni altro farmaco, possiede una pro-pria “finestra terapeutica”, cioè un area di dosaggio al di sotto della quale i bene-fici terapeutici sono minimi o nulli, ed al di sopra della quale il “sovradosaggio” di esercizio può essere nocivo per la salute dello soggetto/paziente/sportivo.

Art. 73 - Doping

Ai fini della tutela della salute il medico non deve consigliare, prescrivere o somministrare trattamenti farmacologici o di altra natura finalizzati ad alterare le prestazioni psico-fisiche correlate ad attività sportiva a qualunque titolo praticata, in particolare qualora tali interventi agiscano direttamente o indiret-tamente modificando il naturale equilibrio psico-fisico del soggetto.

Nella pratica comune per “doping” s’intende “l’uso improprio di terapie farma-cologichemirateapotenziarelecaratteristichediforza,resistenza,aggressività,capacitàdisopportazionedellafatica,superamentodellapaurachepossanoaumentareleprobabilitàdivittoria in una competizione sportiva”.

Il fenomeno doping nel campo dello sport professionistico ha da sempre proposto un problema di tipo etico dal momento che si richiede che tutti gli atleti debbano gareggiare a parità di condizioni, rispettando un regolamento liberamente accettato che pone al centro del comportamento il concetto di fair play (gioco pulito).

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Manuale della Professione Medica452

La ricerca antidoping da sempre si articola in tre punti:

A. Ricerca di farmaci vietati per doping individuabili con le attuali metodiche. B. Farmaci probabilmente individuabili in futuro con metodi in studio. C. Farmaci non appartenenti al gruppo delle sostanze bandite (molecole

nuove o vecchi farmaci di cui non era conosciuta l’efficacia per doping).

Nonostante le numerose regolamentazioni, il doping non sembra comunque un fenomeno in fase di arresto, anzi (F.F. Vincieri, R. Rossi, C. Cirinei, D. Cervini).

La legislazione

Alimenti adattati a un intenso sforzo muscolare, soprattutto per gli sportivi - Circolare Ministero della Sanità, n. 8, 7 giugno 1999.

A. Prodotti finalizzati ad un’integrazione energetica. B. Prodotti con minerali destinati a reintegrare le perdite idrosaline (sudorazione) C. Prodotti finalizzati ad un integrazione di proteine. D. Prodotti finalizzati all’integrazione di aminoacidi e derivati.

Disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta contro il doping - Legge 14 dicembre 2000, n. 376.

1. Tutela sanitaria delle attività sportive. Divieto di doping. 2. Farmaci contenenti sostanze vietate per doping. 3. Sanzioni penali.

Modalità di attuazione delle disposizioni di cui all’art. 7 della L. 376/2000. DM Salute 24 settembre 2003, come modificato dal DM Salute 30 aprile 2004.

Criteri di predisposizione e di aggiornamento della lista di classi dei far-maci, delle sostanze biologicamente e farmacologicamente attive e delle prati-che il cui impiego è considerato vietato per doping.

Commissione per la vigilanza del controllo sul doping, istituita e regolamentata dalla L. 14/XII/2000, N. 376 e dal Decreto interministeriale 31/X/2001, n. 440.

Elenco delle classi di farmaci, delle sostanze biologicamente e farmacologi-camente attive e delle pratiche mediche il cui impiego è considerato vietato per doping (DM Salute X/2002, XII/2002,VII/2003,IX/2003, I/2004).

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15La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI

C.Boni,A.Oliveti,A.Paci,F.Pagano

Il sistema previdenziale della Fondazione ENPAM

Una breve disamina della storia delle prestazioni erogate dall’ENPAM nei suoi settant’anni di vita permette di rilevare che inizialmente, dal 1937, come CASNFM, poi con la CNAM e in seguito con la definitiva denominazione ENPAM fino al 1957, sono state erogate per gli iscritti praticamente solo prestazioni assistenziali consistenti in assegni assistenziali temporanei, una tantum o continuativi.

Solo dal 1958 si è incominciata l’erogazione di trattamenti pensionistici, andando a esaurimento l’erogazione degli assegni assistenziali continuativi e con l’adozione del nuovo Statuto del 1959 la facoltà di gestione di Fondi Spe-ciali per la Previdenza e assistenza di particolari categorie di sanitari.

Questa facoltà si esercita con l’istituzione del Fondo per i medici aventi rapporto professionale con gli istituti gestori dell’assicurazione sociale di malattia (le mutue INAM, ENPAS, INADEL, ENPDEDP) poi sciolti con la legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale n. 833/78.

Il Fondo gestisce conti individuali e tecnicamente calcola le prestazioni con il metodo contributivo.

Dal 1972 ma con decorrenza retroattiva all’anno precedente tale Fondo si divide in tre Fondi per medici generici, specialisti operanti nei propri studi e ambulatoriali, costituendo l’antecedente storico degli attuali tre Fondi Speciali.

Dal 1976 viene adottata la gestione a ripartizione abbandonando la precedente capitalizzazione dei conti individuali e viene adottato lo schema di trattamento a prestazione definita che ancora oggi permette il calcolo delle pensioni. Nel tempo si procede alla diversificazione regolamentare dei tre Fondi con ampliamento delle categorie rappresentate – i pediatri e gli addetti alla guardia medica nel 1985.

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Manuale della Professione Medica454

Nel 1990 il Fondo di Previdenza Generale, originariamente configurato come una gestione a ripartizione pura, è soggetto a una riforma regolamentare che introduce la contribuzione proporzionale al reddito per una seconda quota di pensione – “Quota B” – che si aggiunge a quella fondamentale riferita ai contributi minimi obbligatori, dovuti sul presupposto della semplice iscrizione all’Albo professionale e che viene ora definita come “Quota A”.

Con l’introduzione del secondo sistema di contribuzione si gettarono le basi per una progressiva trasformazione del Fondo da sistema a ripartizione pura a sistema a ripartizione bilanciata da elementi di capitalizzazione, al pari degli altri Fondi.

Tuttora il Fondo di Previdenza Generale viene considerato ancora alla stregua di un sistema a ripartizione pura, e come tale soggetto a critiche, ma è indubbio che quando il Fondo entrerà a regime pieno assumerà i connotati di un sistema misto, sia perché è già intervenuto un processo normativo di assimilazione nei criteri di calcolo delle due Quote di pensione erogate dal Fondo, sia perché nel frattempo si stanno capitalizzando le riserve tecniche del Fondo stesso.

In effetti, al di là delle considerazioni sulle origini estremamente differenziate che indubbiamente si devono riconoscere al Fondo di Previdenza Generale, da una parte, e ai tre Fondi Speciali, dall’altra, si deve affermare che da tempo si assiste a riguardo di tutti i Fondi ENPAM a un progressivo processo di loro assimilazione, sia sul piano normativo sia su quello gestionale, e a un’evoluzione costantemente orientata all’adozione di un sistema gestionale misto.

Solidarietà, sostenibilità ed equità generazionale: la convenienza per i futuri contribuenti

Si può affermare che l’ENPAM, nella sua funzione pubblica, obbliga gli iscritti a un investimento fondiario, immobiliare e finanziario, a rendimento garantito, che appunto per ciò trasferisce sul gestore del Fondo l’obbligazione a garantire questo rendimento già noto all’atto della contribuzione, e che lo obbliga a reperire sul mercato le risorse sufficienti a onorare il debito assunto una volta maturati i requisiti richiesti per la quiescenza, senza alcun paracadute di garanzia pubblica in caso di deficit della gestione.

L’obiettivo prioritario e istituzionale è garantire a tutti i contribuenti attivi e futuri dell’ENPAM la massima pensione possibile, purché sostenibile dall’au-tonomo equilibrio attuariale di ognuno dei Fondi che lo compongono, senza compensazioni tra gli stessi.

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 455

L’equilibrio attuariale dei Fondi ENPAM si identifica commisurando in prospettiva le prestazioni al Patrimonio e, sulla base di questo rapporto, deter-minando la contribuzione di equilibrio.

Da quanto espresso discende che se un Fondo non risulta in equilibrio pro-spettico, o si trova il modo di aumentare da subito la redditività del Patrimonio, o si riducono le prestazioni, o si aumentano i contributi, che però non risolvono il problema di squilibrio, ma più semplicemente lo rinviano, se nel contempo non si riduce l’obbligo di prestazione che l’incasso del contributo definisce.

Per cui la gestione del Patrimonio non può essere scollegata dalla gestione della Previdenza, e il massimo obiettivo del Patrimonio non deve essere quello di garantire una massima redditività generica, bensì quello di garantire una red-ditività tale da non intervenire sui versanti contributivi o delle prestazioni: la redditività prospettica del Patrimonio va attentamente monitorata e collegata al contemporaneo bilancio tra prestazioni e contributi.

Il sistema si regge quindi sulla ripartizione tra generazioni di contribuenti – gli attivi mantengono i pensionati –, meccanismo di gestione finanziaria che è attenuato (nei Fondi Speciali sin dall’inizio della loro storia, ma nel suo insieme per effetto di legge, secondo quanto previsto dal DLgs n. 509/94: «Cinque anni di riserve per anno di pensioni pagate al 1994») da una capitalizzazione dei contributi, che nel tempo ha costituito il Patrimonio dell’ENPAM.

Per inciso, le modalità di calcolo delle prestazioni – se si considera l’attuale diatriba tra contributivo e retributivo ora tanto in voga – per l’ENPAM sono un problema non pertinente né rilevante, perché esiste una diretta proporzione tra tutti i contributi versati e la retribuzione presa a base di calcolo per la pen-sione, la cosiddetta base retributiva media di tutta la vita lavorativa, costruita appunto partendo da tutti i contributi versati, e non solo dai migliori come storicamente in uso nel pubblico.

Semmai è l’aliquota di rendimento che, definendo per somma di anno per anno il quantum percentuale da applicare alla base di cui sopra, deve essere congrua alla sostenibilità prospettica del sistema, per permettere il più alto punto di equilibrio tra interesse del singolo e interesse della collettività.

La Fondazione è abbondantemente all’interno delle indicazioni di legge che disciplinano la vita delle Casse. Ogni tre anni vengono redatti per ogni Fondo i bilanci tecnici attuariali al fine di adottare i provvedimenti per garan-tire l’equilibrio non solo annuale ma anche prospettico della gestione econo-

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Manuale della Professione Medica456

mico-finanziaria del Fondo per almeno trenta anni, con la riserva legale non inferiore a cinque annualità delle pensioni in essere.

A quest’ultimo proposito si ricorda che, se ci si riferisce all’obbligo definito dalla legge di rifarsi al 1994, gli anni di riserva sono più di ventuno; se per prudenza ci si riferisce al corrente anno, sono più di undici (bilancio consuntivo 2009).

È noto come in un sistema a ripartizione la dinamica demografica degli appartenenti al Fondo sia determinante per l’equilibrio attuariale della gestione, così come il fattore lavorativo legato alla redditività delle professioni interes-sate, per cui modifiche importanti delle aspettative di vita degli iscritti o periodi prolungati di stasi economica hanno un peso significativo sulla tenuta di medio e lungo periodo.

Le pensioni ENPAM vengono calcolate sulla retribuzione media di tutta la vita lavorativa, che è assolutamente proporzionale a tutti i contributi versati, per cui non vi è la sperequazione propria del sistema pubblico tra calcolo della prestazione con il contributivo piuttosto che con il retributivo.

Più penalizzante per l’ENPAM appare il fatto che garantisca le sue consi-stenti prestazioni con la cosiddetta aliquota di rendimento sin dal momento del versamento di ogni singolo contributo, conseguentemente trasferendo su di sé il rischio di non poter onorare nel medio e lungo periodo l’obbligazione assunta – causa eventi avversi demografici, lavorativi, economici e/o finanziari – e senza compartecipare il contribuente di tal rischio, o farglielo scontare in anticipo come fanno sia la previdenza pubblica nel sistema contributivo sia quella privata dei fondi pensione o piani individuali pensionistici.

La commisurazione tra aliquota di contribuzione e aliquota di rendimento definisce il debito previdenziale in un sistema in cui il contributo con il suo ren-dimento finanziario deve compensare per intero la prestazione pensionistica.

È indispensabile la determinazione attuariale della commisurazione tra le due aliquote, che scaturisce dalla stima del rendimento atteso dal contributo nel periodo che va dall’incasso al pagamento della pensione e dalla stima dell’aspettativa di vita residua del pensionato e superstiti per determinare l’entità annuale della pensione.

La contribuzione e le prestazioni dei Fondi

L’attività professionale dei medici e degli odontoiatri può essere svolta sotto forma di lavoro autonomo o sotto forma di un rapporto di lavoro dipendente.

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 457

L’attuale normativa del sistema previdenziale prevede che ogni reddito da lavoro dei medici e degli odontoiatri fiscalmente rilevante sia obbligato-riamente sottoposto a contribuzione previdenziale, configurando una coinci-denza tra l’imponibile fiscale e l’imponibile previdenziale.

L’art. 38 della Costituzione stabilisce che «i lavoratori hanno diritto che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia. [...] Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assi-stenza sociale. [...] Ai compiti previsti provvedono organi e istituti predisposti od integrati dallo Stato».

In relazione al dettato costituzionale i redditi da lavoro autonomo hanno il loro riferimento previdenziale obbligatorio nell’ENPAM, mentre quelli da lavoro dipendente lo hanno nell’INPDAP se il sanitario dipende dal SSN o dall’amministrazione statale oppure nell’INPS se dipende da case di cura o cliniche private o da altri soggetti, strutture o enti privati o pubblici.

Nell’ENPAM il reddito da libera professione ha il suo riferimento nel Fondo Generale, rispettivamente nel “Quota A” per i contributi minimi obbli-gatori e nel “Quota B” per i contributi da libera professione eccedenti la quota minima.

Il reddito dei medici convenzionati o accreditati con il SSN fa riferimento per la contribuzione obbligatoria ai tre Fondi Speciali.

Il sistema previdenziale dell’Ente si articola quindi su quattro Fondi di Pre-videnza:

– Fondo di Previdenza Generale, suddiviso in:– “Quota A”,– “Quota B”;

– Fondo Speciale dei Medici di Medicina Generale;– Fondo Speciale degli Specialisti Ambulatoriali;– Fondo Speciale degli Specialisti Esterni.

Alla “Quota A” del Fondo di Previdenza Generale sono iscritti tutti i 346.255 medici e odontoiatri iscritti all’Albo.

Alla “Quota B” sono iscritti 146.686 medici e odontoiatri che nello svolgi-mento di attività libero-professionale producono un reddito superiore a quello già assoggettato a contribuzione presso la “Quota A”.

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Manuale della Professione Medica458

Agli altri tre Fondi (i cosiddetti Fondi Speciali) sono iscritti i medici e gli odontoiatri che operano in rapporto di convenzione e/o accreditamento con gli istituti del Servizio Sanitario Nazionale.

Questi sono:

– 69.350 attivi nel Fondo Speciale dei Medici di Medicina Generale;– 17.218 nel Fondo Speciale degli Specialisti Ambulatoriali;– * 5.295 nel Fondo Speciale degli Specialisti Esterni.* di cui n. 898 convenzionati ad personam e n. 4.397 ex art.1, comma 39, legge 243/2004

I pensionati della Fondazione sono:

1. Fondo di Previdenza Generale – “Quota A” 83.729; 2. Fondo di Previdenza Generale – “Quota B” 24.462; 3. Fondo Speciale dei Medici di Medicina Generale 25.936; 4. Fondo Speciale degli Specialisti Ambulatoriali 11.775; 5. Fondo Speciale degli Specialisti Esterni 6.120.

Considerato che i medici possono essere iscritti contemporaneamente a più Fondi, il Dipartimento gestisce complessivamente circa 600.000 posizioni assicurative.

A fronte dell’obbligatoria iscrizione, l’ENPAM eroga:

1. prestazioni di sola vecchiaia a carico del Fondo di Previdenza Generale;2. prestazioni di vecchiaia e di anzianità a carico dei Fondi Speciali;3. prestazioni di invalidità e a superstiti;4. prestazioni assistenziali.

Le risultanze finanziarie dei Fondi nel bilancio consuntivo 2009 mostrano un favorevole andamento delle gestioni con consistenti avanzi di gestione, a esclusione del Fondo degli Specialisti Esterni le cui aspettative di equilibrio dipendono dall’effettiva applicazione del contributo del 2% sul fatturato annuo delle società professionali.

Gli indicatori fondamentali che vengono normalmente presi in considera-zione per la valutazione del buono stato di salute dei Fondi gestiti dalla Fon-dazione sono il rapporto tra iscritti e pensionati, quello tra contributi e presta-zioni e quello tra Patrimonio e prestazioni., I primi due rapporti sono illustrati dalle seguenti figure e tabelle, ricavate dal bilancio consuntivo 2009:

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 459

Tabella 15.1. Rapporto iscritti/pensionati (dati espressi in milioni di Euro).

Fondo di Previdenza

n. iscritti attivi n. pensionati

Rapporto Iscritti /

PensionatiMedici Superstiti Totale

F. Generale Q.A. 346.255 46.850 36.879 83.729 4,14F. Libera Professione 146.686 18.085 6.377 24.462 6,00F. Medicina Generale 69.350 11.904 14.032 25.936 2,67F. Ambulatoriali 17.218 5.777 5.998 11.775 1,46F. Specialisti * 5.295 2.923 3.197 6.120 0,87

* di cui n. 898 convenzionati ad personam e n. 4.397 ex art.1, comma 39, legge 243/2004

Figura 15.1. Rapporto iscritti/pensionati.

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Manuale della Professione Medica460

Figura 15.2. Rapporto contributi/pensioni.

Figura 15.3. Entrate contributive ripartite tra i Fondi.

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 461

Figura 15.4. Spesa per pensioni ripartita tra i Fondi.

Nel lungo periodo le proiezioni attuariali evidenziano un’inversione di ten-denza nell’equilibrio dei Fondi che inizierà a manifestarsi a seconda delle gestioni tra il 2018 e il 2021, per cui anche alla luce delle disposizioni della Finanziaria 2007, che prevedono la stabilità delle gestioni proiettata a un arco temporale di almeno trent’anni in luogo dei previgenti quindici, dovranno essere valutate idonee iniziative per la salvaguardia dell’equilibrio finanziario di lungo termine.

Dopo l’approvazione dei Ministeri vigilanti, è già operativa la prima trance di interventi assunti dal Consiglio di Amministrazione nel 2006 sulla disciplina regolamentare per salvaguardare la stabilità delle gestioni.

Nel dettaglio:

Fondo Generale:– per la “Quota A” riduzione del coefficiente di rendimento dall’1,75%

all’1,50%;– per la “Quota A” e per la “Quota B” rinvio su base volontaria del pensio-

namento a settant’anni;– indicizzazione delle pensioni nella misura del 75% dell’indice ISTAT fino

a un importo complessivo pari al limite di quattro volte il trattamento minimo INPS; oltre il suddetto limite le pensioni sono indicizzate al 50% dell’indice ISTAT;

Fondo Medici di Medicina Generale: aumento dell’aliquota contributiva dal 15% al 16,5%; – Analogo incremento, invece, non è stato previsto per i pediatri di libera

scelta, per i quali è rimasta invariata l’aliquota di prelievo del 15%;

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Manuale della Professione Medica462

– rideterminazione del coefficiente di rendimento dall’1,50% all’1,55% (deli-bera 10/2010 in attesa di approvazione dai Ministeri Vigilanti) unificazione, ai fini del calcolo del trattamento pensionistico, della base pensionabile; l’istituto dell’aliquota modulare su base volontaria. (possibilità di elevare la quota contributiva a proprio carico da un punto % fino ad un massimo di cinque punti percentuali.

Fondo Specialisti Ambulatoriali:– aumento dell’aliquota contributiva dal 22% al 24% (per gli addetti alla

medicina dei servizi dal 22,50% al 24,50%);

Per tutti i Fondi Speciali:– eliminazione dei coefficienti di maggiorazione e applicazione del coeffi-

ciente di rendimento annuo pro tempore vigente in misura doppia, nei casi di pensionamento a un’età superiore ai sessantacinque anni e fino ai settant’anni, fatto salvo il principio dei diritti acquisiti dagli ultrasessan-tacinquenni al momento dell’entrata in vigore delle modifiche, indiciz-zazione delle pensioni nella misura del 75% dell’indice ISTAT fino a un importo complessivo pari al limite di quattro volte il trattamento minimo INPS; oltre il suddetto limite le pensioni sono indicizzate al 50% dell’in-dice ISTAT.

Il Fondo di Previdenza Generale

La composizione del Fondo

Alla “Quota A” del Fondo di Previdenza Generale sono iscritti tutti i medici e gli odontoiatri iscritti all’Albo dei centosei Ordini dei Medici Chi-rurghi e degli Odontoiatri d’Italia che risultano essere, secondo i dati dell’ul-timo bilancio consuntivo approvato del 2009, 346.255 attivi (di cui 212.384 sesso maschile e 133.871 di sesso femminile) e 83.729 pensionati di cui 46.850 medici e 36.879 superstiti.

Le pensioni ordinarie erogate dal Fondo di Previdenza Generale “Quota A” sono 46.850, quelle erogate a superstiti 36.879 quelle di invalidità 215 . Il rapporto tra iscritti e pensionati è 4,14 (I/P = 346.255/83.729). Il rapporto tra contributi e pensioni è 2,07 (C/P = 354,08/171,10 in milioni di Euro).

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 463

Figura 15.5. Fondo generale “Quota A”.

Alla “Quota B” dello stesso Fondo Generale sono iscritti i medici e gli odontoiatri che nello svolgimento di attività libero-professionale producono un reddito superiore a quello già assoggettato a contribuzione presso la “Quota A”.

Tutti i medici e gli odontoiatri sono tenuti a contribuire alla “Quota B” se producono redditi professionali eccedenti il minimo già coperto dalla “Quota A”.

Figura 15.6. Fondo della libera professione.

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Manuale della Professione Medica464

Il contributo previdenziale a favore della “Quota B” è dovuto in propor-zione al reddito professionale dichiarato ai fini fiscali.

Gli iscritti alla “Quota B” del Fondo Generale sono 146.686 attivi e 24.462 pensionati.

Le pensioni ordinarie erogate dal Fondo di Previdenza Generale “Quota B” sono 18.085, quelle erogate a superstiti 6.377, quelle di invalidità 380. Il rapporto tra iscritti e pensionati è 6,00 (I/P = 146.686 /24.462). Il rapporto tra contributi e pensioni è 7,93 (C/P = 296,39/37,38 in milioni di Euro).

La contribuzione al Fondo “Quota A”

L’iscrizione e la contribuzione al Fondo di Previdenza Generale dell’EN-PAM è obbligatoria per tutti gli iscritti agli Albi dei Medici Chirurghi e Odonto-iatri tenuti dagli Ordini Provinciali e avviene automaticamente ai sensi dell’art. 21 del DLgs CPS 13 settembre 1946, n. 233, che stabilisce appunto che gli iscritti agli Albi sono tenuti all’iscrizione e al pagamento dei relativi contributi all’Ente nazionale di Previdenza e assistenza istituito o da istituirsi per ciascuna categoria.

Ciò avviene indipendentemente dal tipo di attività lavorativa professionale in seguito svolta che potrà poi dar luogo presso altri istituti a un altro obbligo contributivo con conseguente nuova posizione previdenziale.

Il DLgs di privatizzazione dell’ENPAM del 1994 ha confermato l’obbligo di iscrizione e di contribuzione, dando continuità alle finalità istituzionali dell’Ente trasformato giuridicamente.

Difatti all’art. 1 comma 3 del DLgs n. 509/94 si afferma che: «Gli enti trasformati continuano a svolgere le attività previdenziali e assistenziali in atto riconosciute a favore delle categorie di lavoratori e professionisti per le quali sono stati originariamente istituiti, ferma restando la obbligatorietà della iscri-zione e della contribuzione».

In passato la legittimità di quest’obbligo è stata messa in dubbio da alcuni ricorsi effettuati per conto di iscritti con attività di lavoro dipendente a tempo pieno che richiedevano l’esclusione dall’obbligo contributivo.

La Corte Costituzionale con l’ordinanza del 23 giugno 1988, n. 707, ha dichia-rato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sulla base sostanziale del primato della solidarietà sociale rispetto agli elementi sogget-tivi individuali: «Il sistema previdenziale si ispira a superiori esigenze di solidarietà sociale il che impone di prescindere da elementi precipuamente soggettivi quali la

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 465

maggiore o minore attività professionale e la conseguente diversa remunerazione dell’assicurato. Tale principio solidaristico giustifica la obbligatorietà del contri-buto al solo presupposto del potenziale svolgimento dell’attività professionale, connesso all’iscrizione nel relativo albo. È, pertanto, costituzionalmente legittimo l’art. 21 d.l. C.p.S. 13 settembre 1946 n. 233 nella parte in cui prescrive l’obbligo per tutti i medici iscritti all’albo, senza esenzione per quelli che svolgono attività ospedaliera a tempo pieno, del pagamento dei contributi ENPAM».

Principio riaffermato a fronte di un nuovo ricorso con l’ulteriore sentenza della Corte Costituzionale 17 marzo 1995, n. 88: «La struttura di tipo solidari-stico dei sistemi previdenziali delle categorie professionali giustifica l’onere di contribuzione a carico di tutti gli appartenenti all’ordine professionale, ancor-ché dipendenti di un ente in ragione del solo potenziale esercizio dell’attività professionale connesso con l’iscrizione all’albo».

Per cui, a prescindere dall’effettiva produzione di reddito libero-professio-nale, è comunque dovuto da ciascun iscritto un contributo minimo obbligato-rio nelle seguenti misure per l’anno 2010:

– 186,40 annui indicizzati fino a 30 anni di età;– 361,82 annui indicizzati dal compimento dei 30 fino ai 35 anni di età;– 678,99 annui indicizzati dal compimento dei 35 fino ai 40 anni di età;– 1253,96 annui indicizzati dal compimento dei 40 fino a 65 anni di età;– 678,99 annui indicizzati, fino a 65 anni di età, per tutti gli iscritti ultraqua-

rantenni ammessi a contribuzione ridotta.

Oltre ai contributi ordinari, tutti gli iscritti sono tenuti a versare il contri-buto di maternità, adozione e aborto pari a 42,75 annui.

Il contributo è dovuto dal mese successivo all’iscrizione all’Albo sino al mese precedente quello di decorrenza della pensione per invalidità o al mese di compimento del sessantacinquesimo anno di età.

Il contributo viene riscosso a mezzo di ruoli esattoriali, come per le imposte dirette.La Fondazione ha affidato in convenzione la gestione del sistema di riscos-

sione a ESATRI. S.p.A. che si rapporta con i Concessionari territorialmente competenti su base provinciale.

I contributi fissi sono interamente deducibili dall’imponibile IRPEF.Gli iscritti di età inferiore ai quarant’anni e gli iscritti ultraquarantenni a con-

tribuzione ridotta possono chiedere di essere ammessi a contribuire nella misura intera. Tale opzione è irrevocabile e consente di accedere al riscatto di allineamento.

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Manuale della Professione Medica466

L’iscritto che prima del compimento dei sessantacinque anni venga colpito da infortunio o malattia che comporti inabilità assoluta e temporanea all’eser-cizio professionale per più di sei mesi ha diritto all’esonero dall’obbligo con-tributivo per un periodo massimo continuativo di ventiquattro mesi che, ai fini del diritto e della misura delle prestazioni, verrà considerato come periodo contributivo. L’esonero decorre dal mese successivo alla data in cui la malattia o l’infortunio hanno determinato la temporanea inabilità.

La contribuzione proporzionale al “Quota B” o Fondo della Libera Professione: requisiti

Riguarda tutti gli iscritti all’Albo professionale che hanno prodotto un red-dito libero-professionale netto annuo superiore per l’anno 2009:– a € 5.410,22 annui indicizzati per gli iscritti di età inferiore a quarant’anni

ovvero ammessi al contributo ridotto alla “Quota A”;– a € 9.991,70 annui indicizzati per gli iscritti di età superiore a quarant’anni. L’ammontare del contributo dovuto sui redditi prodotti nell’anno 2009 è:– 12,50% del reddito professionale netto, con esclusione delle voci connesse ad

altra forma di previdenza obbligatoria sino all’importo di € 52.637,39 indicizzati;– 1% sul reddito eccedente tale limite, di cui solo lo 0,50% pensionabile. Gli iscritti che contribuiscono – in base a un rapporto stabile e continuati-

vo – anche ad altre forme di previdenza obbligatoria, compresi i Fondi Speciali ENPAM, ovvero siano già titolari di pensione, possono essere ammessi alla contribuzione ridotta:

– del 2% sino € 52.637,39 indicizzati;– dell’1% sul reddito eccedente tale limite, di cui solo lo 0,50% pensionabile.

L’importo del contributo è calcolato dall’ENPAM sulla base dei dati indi-cati nel Modello D, che la Fondazione invia a tutti i medici e che deve essere reso anche per via telematica entro il 31 luglio 2010.

Il contributo deve essere versato mediante bollettino MAV già compilato, pagabile presso qualsiasi istituto di credito o ufficio postale, entro il 31 ottobre 2010 e comunque non oltre il termine indicato sul MAV.

Il bollettino viene inviato a tutti gli iscritti tenuti al versamento, in pros-simità della suddetta scadenza dalla Banca Popolare di Sondrio, incaricata dall’ENPAM.

I contributi proporzionali sono interamente deducibili dall’imponibile IRPEF.

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 467

La contribuzione ridotta si applica sui redditi prodotti a partire dall’anno pre-cedente la presentazione dell’istanza se inoltrata entro il 31 luglio 2010; altrimenti si intende riferita ai redditi denunciati per l’anno immediatamente successivo.

L’iscritto che contribuisce in misura ridotta può chiedere, entro il suddetto termine, di versare il contributo in misura intera; l’opzione è irrevocabile.

È stato abolito, presso la Quota B del Fondo di Previdenza Generale, l’eso-nero contributivo per i pensionati del Fondo che proseguono nell’esercizio dell’attività professionale, in caso di produzione di reddito imponibile presso la “Quota B”, è dovuto il versamento del relativo contributo previdenziale nella misura ridotta del 2%, salva espressa opzione di pagamento nella misura intera del 12,50%. (delibera n. 53/2009 in corso di approvazione da parte dei Ministeri vigilanti)

Per garantire il corretto assolvimento dell’obbligo contributivo da parte degli iscritti alla “Quota B” è stata attivata la procedura di incrocio dei dati in possesso della Fondazione con l’anagrafe tributaria, che permette di veri-ficare la congruenza delle dichiarazioni dei redditi trasmesse dagli iscritti alla Fondazione ai fini del calcolo del contributo di “Quota B” dovuto con quelle presentate dagli stessi ai fini IRPEF al Ministero delle Finanze. Tale iniziativa, preannunciata sin dall’epoca del provvedimento di condono previdenziale e di quello di riforma del sistema sanzionatorio, ha lo scopo di individuare e san-zionare le evasioni contributive derivanti da omessa o infedele dichiarazione dei redditi professionali, con conseguenti positivi riflessi sulle entrate contri-butive della gestione.

Figura 15.7. Entrate.

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Manuale della Professione Medica468

Contributi “Quota A” 52,60%Trasferimento da altri enti per ricongiunzioni (e relativi interessi) 0,29%Contributi per maternità 1,97%Contributi di riscatto (e relativi interessi) “Quota A” 0,34%Sanzioni e penalità Quota A 0,22%Contributi commisurati al reddito professionale “Quota B” 39,11%Contributi di riscatto (e relativi interessi) Quota B 1,81%Contributi su compensi amministratori enti locali 0,05%Sanzioni e penalità Quota B 0,02%

Le prestazioni del Fondo Generale

Le prestazioni del Fondo sono:

1. la pensione ordinaria di vecchiaia;2. la pensione di invalidità assoluta e permanente;3. la pensione indiretta e di reversibilità ai superstiti;4. l’indennità di maternità, adozione, affidamento preadottivo e di aborto;5. le prestazioni assistenziali per il “Quota A” e aggiuntive per il “Quota B”;6. l’integrazione al trattamento minimo INPS;7. la maggiorazione della pensione per gli ex combattenti e loro superstiti.

Le pensioni del Fondo di Previdenza Generale sono corrisposte in ratei mensili anticipati per dodici mensilità all’anno.

Dal 1° gennaio 1999 la pensione del Fondo Generale è stata adeguata al costo della vita, con una rivalutazione annua pari al 75% dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati.

In caso di decesso del titolare della pensione, agli aventi causa spetta la quota di pensione relativa all’intero mese in cui è avvenuto il decesso.

La pensione ordinaria di vecchiaia decorre dal mese successivo al compi-mento del sessantacinquesimo anno di età.

In caso di costanza di iscrizione al Fondo sono richiesti cinque anni di con-tribuzione effettiva; in caso di cancellazione ci vogliono almeno quindici anni di anzianità contributiva utile.

Dal 24 luglio 2006 è possibile rinviare su base volontaria il pensionamento fino al settantesimo anno di età.

Agli iscritti che contribuiscono al Fondo “Quota B” o della Libera Pro-fessione dopo il sessantacinquesimo anno di età spetta un supplemento di

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 469

pensione che viene liquidato d’ufficio ogni triennio, sulla base dei contributi relativi al periodo di riferimento.

Il calcolo della pensione avviene secondo un metodo detto retributivo di tipo reddituale, proprio della Fondazione ENPAM, secondo cui il reddito di ciascun anno viene ricostruito dalla contribuzione versata e dall’aliquota percentuale di prelievo contributivo corrispondente a quello specifico anno di versamento.

Quindi la pensione si ottiene applicando a un’entità numerica un’aliquota percentuale:

€ A CUI SI APPLICA UNA %

base pensionabile x aliquote di rendimento (reddito medio annuo rivalutato) (somma aliquote di rendimento)

La pensione è costituita dalla somma della “Quota A” e della “Quota B”.“Quota A”: la pensione si determina applicando al reddito medio annuo

(ricostruito con l’aliquota del 12,50% attraverso i contributi versati) le aliquote di rendimento pari:

– all’1,10% per gli anni sino al 1997 compreso;– all’1,75% dal 1° gennaio 1998;– all’1,50% dal 1° agosto 2006.

“Quota B”: la pensione si determina applicando al reddito medio annuo (ricostruito con le aliquote del 12,50% e del 2% sulla base dei contributi ver-sati) le aliquote di rendimento pari:

– all’1,75% per ogni anno di contribuzione con aliquota del 12,50%;– allo 0,28% per ogni anno di contribuzione con aliquota del 2%.

Al reddito medio annuo ricostruito con l’aliquota dell’1% viene applicato lo 0,07% per ogni anno di contribuzione con aliquota dell’1%.

La rivalutazione dei redditi per la “Quota A” ai fini del calcolo delle presta-zioni è pari al 75% dell’indice ISTAT.

La rivalutazione dei redditi per la “Quota B” ai fini del calcolo delle presta-zioni è pari al 100% per i redditi riferiti agli anni dal 1990 al 1997; al 75% di tale indice per gli anni successivi al 1997, con riferimento ai soli redditi professio-nali, a esclusione di quelli derivanti da contribuzione volontaria.

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Manuale della Professione Medica470

Pensione di invalidità assoluta e permanente

I requisiti richiesti sono:

– età inferiore ai sessantacinque anni; – inabilità assoluta e permanente all’esercizio dell’attività professionale,

accertata dall’apposita Commissione Medica costituita presso ciascun Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri;

– per la “Quota A” la costanza di contribuzione al Fondo; – per la “Quota B” almeno un anno di contribuzione alla gestione nel trien-

nio antecedente la decorrenza della pensione.

La pensione decorre dal mese successivo alla cessazione di ogni attività, o dal mese successivo alla domanda, se posteriore alla cessazione.

La prestazione è determinata dalla somma della “Quota A” e della “Quota B”.“Quota A”: si calcola come per la pensione ordinaria, aumentando l’anzia-

nità contributiva del numero di anni mancanti al raggiungimento del sessanta-cinquesimo anno di età, con un massimo di dieci anni.

“Quota B”: come per la pensione ordinaria, aumentando l’anzianità contri-butiva del numero di anni mancanti al sessantacinquesimo anno di età, con un massimo di dieci. In caso di anzianità contributiva inferiore a cinque anni, l’au-mento dell’anzianità medesima si applica proporzionalmente agli anni coperti da contribuzione.

L’Ente può effettuare controlli periodici per accertare la permanenza dello stato di invalidità e la pensione viene revocata in caso di ripresa dell’attività o di perdita dello status. L’iscritto alla “Quota B” che non sia in possesso di almeno un anno di contribuzione alla gestione nel triennio antecedente la decorrenza della pensione ha diritto a un trattamento calcolato secondo i criteri della pensione ordinaria.

Ai titolari di trattamenti pensionistici per invalidità assoluta e permanente a carico dei Fondi di Previdenza ENPAM aventi decorrenza dal 1° gennaio 1998 viene garantito un trattamento pensionistico complessivo annuo minimo pari per l’anno 2010 a 13.873,65 indicizzati annualmente nella misura del 100% dell’indice ISTAT.

Pensione indiretta ai superstiti

Viene erogata ai superstiti in caso di decesso dell’iscritto in costanza di con-tribuzione al Fondo, dal mese successivo al decesso. Sono considerati superstiti

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 471

il coniuge e i figli infraventunenni o infraventiseienni se studenti e, in loro assenza, ascendenti e collaterali a carico. La prestazione erogata consiste in un’aliquota della pensione di invalidità che sarebbe spettata al sanitario ove fosse divenuto invalido al momento del decesso.

Le aliquote più frequenti sono:

– solo il coniuge: 70%;– coniuge 60%; 1 figlio 20%; – coniuge 60%; 2 o più figli 40%; – solo un figlio: 80%; – due figli: 90%; – tre o più figli: 100%.

In caso di decesso prima del compimento del sessantacinquesimo anno di età dell’iscritto cancellato o radiato dagli Albi professionali che abbia maturato cinque anni di anzianità contributiva, spetta ai superstiti un’aliquota del tratta-mento di pensione ordinario che sarebbe spettato al sanitario stesso.

Al coniuge superstite che cessa dal diritto alla pensione per aver contratto un nuovo matrimonio spetta un assegno una tantum pari a due annualità della sua quota di pensione.

Pensione di reversibilità ai superstiti

È inerente al decesso dell’iscritto già pensionato e decorre dal mese suc-cessivo al decesso.

La prestazione consta di un’aliquota della pensione in godimento da parte dell’iscritto all’atto del decesso.

Le aliquote applicate sono le stesse della pensione indiretta ai superstiti.

Restituzione dei contributi

Vengono restituiti i contributi al raggiungimento dei sessantacinque anni di età quando in tale data in costanza di iscrizione si abbiano meno di cinque anni di anzianità contributiva o in caso di cancellazione si abbia un’anzianità contributiva inferiore a quindici anni. Viene restituita un’indennità formata dall’88% dei contributi versati, maggiorati degli interessi composti al tasso annuo del 4,50%.

In caso di morte di un sanitario, con meno di cinque anni di anzianità con-

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Manuale della Professione Medica472

tributiva e già cancellato o radiato dagli Albi professionali, l’indennità viene liquidata ai superstiti con le stesse aliquote previste per le pensioni indirette o di reversibilità.

Indennità di maternità, adozione e affidamento preadottivo

Tale indennità spetta per la nascita di un figlio, l’adozione o l’affidamento preadottivo da parte di sanitarie libere professioniste in costanza di iscrizione all’Albo professionale.

La domanda va presentata a partire dal compimento del sesto mese di gra-vidanza ed entro il termine perentorio di centottanta giorni dal parto (o dell’in-gresso in famiglia del bambino).

L’indennità copre i due mesi precedenti il parto e i tre mesi successivi la data effettiva del parto, ed è pari all’80% di cinque dodicesimi del reddito percepito e denunciato ai fini fiscali come reddito da lavoro autonomo nel secondo anno precedente a quello dell’evento.

L’indennità – come sopra determinata – non può essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione calcolata nella misura dell’80% del salario minimo giornaliero stabilito dall’art. 1 del DLgs n. 402/81 e non può essere superiore a cinque volte l’importo minimo come sopra determinato.

L’indennità è incompatibile con l’analogo trattamento economico spet-tante alla lavoratrice dipendente. Per la sua fruizione non è più richiesta l’ef-fettiva sospensione della libera professione (Corte Costituzionale, Sentenza n. 3/98).

La copertura dell’onere per le indennità di maternità, adozione e affida-mento preadottivo è assicurata da un contributo annuo a carico di tutti gli iscritti al Fondo Generale, pari a 42,75 (2010) annui indicizzati.

Indennità di aborto

Tale indennità riguarda l’aborto spontaneo o terapeutico verificatosi non prima del terzo mese di gravidanza, relativo a sanitarie libere professioniste.

La domanda va presentata entro centottanta giorni dalla data dell’aborto stesso.

L’indennità viene erogata per una sola mensilità nella misura dell’80% di una mensilità del reddito percepito e denunciato ai fini fiscali come reddito da lavoro autonomo nel secondo anno precedente a quello dell’evento.

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 473

L’indennità non può essere inferiore a una mensilità di retribuzione calco-lata nella misura dell’80% del salario minimo giornaliero stabilito dall’art. 1 del DLgs n. 402/81.

In caso di aborto dopo il sesto mese di gravidanza, all’iscritta spetta l’intera indennità prevista per i casi di maternità, adozione e affidamento preadottivo.

Prestazioni assistenziali all’iscritto e ai suoi superstiti: Fondo Generale “Quota A”

Le prestazioni vengono erogate:

– agli iscritti, ai pensionati e ai loro superstiti in condizioni economiche disagiate;– agli iscritti, ai pensionati e ai loro superstiti colpiti da infortunio, malattia o da

eventi di particolare gravità e che versano in precarie condizioni economiche.

Il reddito complessivo di qualsiasi natura di tali soggetti non deve essere superiore a sei volte il minimo INPS, aumentabile di un sesto per ogni compo-nente il nucleo familiare, escluso il richiedente.

Per usufruire delle prestazioni assistenziali deve essere presentata apposita domanda, per il tramite del competente Ordine.

Possono essere erogate prestazioni assistenziali straordinarie per:

– spese per interventi chirurgici;– cure sanitarie o fisioterapiche non a carico del SSN;– spese di assistenza ad anziani, malati non autosufficienti, portatori di han-

dicap;– difficoltà contingenti del nucleo familiare, sopravvenute entro i dodici mesi

successivi alla malattia o al decesso dell’iscritto;– spese funerarie;– spese straordinarie per eventi imprevisti.

Tali prestazioni non sono, di norma, di importo superiore a 7.405,52 indi-cizzati.

Tali sussidi, inoltre, possono essere richiesti non più di due volte ogni anno solare.

Se il reddito complessivo non supera 12.695,17 indicizzati, possono essere concesse prestazioni assistenziali straordinarie per un importo annuo massimo di 5.289,66 indicizzati, al fine di sostenere lo stato di bisogno anche al di fuori della casistica sopra elencata.

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Manuale della Professione Medica474

Sono inoltre previsti sussidi assistenziali nei seguenti casi:

– a orfani per fini scolastici;– ospitalità in case di riposo (in tal caso il limite reddituale complessivo è

ridotto della metà rispetto a sei volte il minimo INPS e il contributo è pari a 52,89 giornalieri indicizzati);

– assistenza domiciliare (l’importo del contributo è pari a 528,97 mensili indi-cizzati);

– calamità naturali per le quali si prevede:a) una prestazione una tantum di importo massimo pari a 15.868,96 indi-

cizzati,b) il concorso nel pagamento degli oneri per interessi su mutui, ricostru-

zione o riparazione della casa o dello studio professionale nella misura del 75% degli oneri stessi, con un limite annuo di 8.463,44 indicizzati e per un periodo non superiore a cinque anni.

Le erogazioni delle prestazioni assistenziali debbono essere contenute entro il limite del 5% dell’onere previsto nell’anno per le pensioni erogate dal Fondo Generale “Quota A” (proposta di elevare dal 5% all’8% in presenza di eccezionali eventi calamitosi delibera 43/2010 in attesa di approvazione dei Ministeri Vigilanti).

I comuni colpiti da calamità naturali devono essere indicati in un apposito DPR.

Prestazioni assistenziali aggiuntive all’iscritto e ai suoi superstiti: Fondo Generale “Quota B”

Le prestazioni vengono erogate ai medici e agli odontoiatri che abbiano contribuito al Fondo per almeno un anno nel triennio anteriore alla presenta-zione della domanda, ai pensionati e ai loro superstiti.

Il reddito complessivo di qualsiasi natura di tali soggetti non deve essere superiore a sei volte il minimo INPS, aumentabile di un sesto per ogni compo-nente il nucleo familiare, escluso il richiedente.

Per usufruire delle prestazioni assistenziali deve essere presentata apposita domanda, per il tramite del competente Ordine.

Prestazioni assistenziali per invalidità temporanea. Sono sottoposti a tutela le malattie e gli infortuni che determinino la temporanea e totale inabilità

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 475

all’esercizio dell’attività professionale, con conseguente sospensione dell’attività stessa, per periodi precedenti l’età prevista per il pensionamento di vecchiaia.

La prestazione è erogata a partire dal sessantunesimo giorno dall’insor-genza dell’inabilità e non può essere corrisposta per un periodo continuativo superiore a ventiquattro mesi, ovvero per un periodo anche non continuativo superiore a ventiquattro mesi nell’arco degli ultimi trentasei mesi.

In sede di prima applicazione l’importo della prestazione è stabilito in 2.221,66 mensili indicizzati. La domanda deve essere presentata di norma non prima di novanta giorni dall’insorgenza dell’evento e, comunque, non oltre trenta giorni dalla cessazione dello stato di inabilità.

Prestazioni assistenziali o straordinarie nei casi di invalidità e premorienza. Tali prestazioni, di importo non superiore a 4.231,72 annui indicizzati, sono erogate a favore dei pensionati del Fondo della libera professione che siano titolari del trattamento per invalidità assoluta e permanente.

Sussidi assistenziali aggiuntivi per l’assistenza domiciliare. Ai pensionati del Fondo, al coniuge convivente ovvero al coniuge superstite può essere con-cessa, su domanda motivata, una maggiorazione pari al 50% dell’importo già erogato a tale titolo dalla “Quota A” del Fondo medesimo.

Interventi aggiuntivi per calamità naturali. Agli iscritti, ai pensionati e ai loro superstiti residenti in comuni interessati da calamità naturali, i quali abbiano riportato danni ai beni mobili e immobili, viene concessa, in aggiunta all’indennità già erogata dalla “Quota A” del Fondo, una prestazione straor-dinaria una tantum per un importo pari al 30% della medesima. La domanda deve essere presentata entro e non oltre un anno dal Decreto del Presidente della Repubblica che ha dichiarato lo stato di emergenza.

In caso di infortunio o malattia che comporti inabilità temporanea asso-luta all’esercizio professionale per una durata prevedibile superiore a sei mesi, l’iscritto deve presentare la domanda entro centottanta giorni dall’insorgere della malattia o dal verificarsi dell’infortunio.

La comunicazione può essere effettuata anche oltre il predetto termine nel caso in cui, all’atto della segnalazione medesima, persista lo stato di inabilità temporanea assoluta all’esercizio dell’attività professionale.

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Manuale della Professione Medica476

Integrazione al trattamento minimo INPS

Il requisito per accedere alla prestazione è una pensione ENPAM lorda inferiore al trattamento minimo INPS. Al fine della verifica del non supera-mento di tale limite viene calcolata anche la quota teorica di pensione corri-spondente alle indennità in capitale già percepite dai Fondi Speciali.

Se il pensionato non è coniugato: altri redditi lordi del pensionato inferiori a due volte l’importo annuo della pensione minima INPS.

Se il pensionato è coniugato: altri redditi lordi del pensionato cumulati con quelli del coniuge inferiori a quattro volte l’importo annuo della pensione minima INPS.

Decorre dal mese successivo a quello della domanda e l’entità dell’integra-zione è pari, di norma, alla differenza fra il minimo INPS e la pensione erogata dal l’ENPAM.

L’integrazione, in presenza di requisiti prescritti, compete, pro quota, anche ai superstiti. Sono esclusi dal computo del reddito:

– i redditi esenti IRPEF;– il reddito della casa di abitazione;– l’importo della pensione da integrare.

Maggiorazione della pensione per gli ex combattenti e loro superstiti

Requisiti indispensabili per la prestazione sono il godimento del tratta-mento pensionistico del Fondo di Previdenza Generale quale sanitario o superstite di sanitario e l’appartenenza del sanitario alle categorie aventi diritto al beneficio ai sensi della legge n. 336/70 e successive modificazioni.

Decorre dal mese successivo alla presentazione della domanda.Per i medici titolari di pensione alla data di entrata in vigore della legge n.

140/85 la decorrenza è fissata, a seconda delle categorie, al 1° gennaio 1985 o al 1° gennaio 1989. L’Ente, ai sensi delle disposizioni in tema di prescrizione, corrisponde gli arretrati solo per il quinquennio anteriore alla domanda.

La prestazione è di 15,49 mensili (per i superstiti l’importo è commisurato all’aliquota di competenza).

La maggiorazione è soggetta, come la pensione del Fondo Generale, all’adeguamento al costo della vita, con una rivalutazione annua pari al 75% dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati.

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 477

Il beneficio spetta su un solo trattamento pensionistico.L’ENPAM è tenuto ad anticipare gli importi di questo trattamento, che è

a carico dello Stato; quest’ultimo, con specifiche modalità, rimborsa all’Ente l’onere sostenuto.

I riscatti nel Fondo

i contributi di riscAtto “quotA A”

Riscatto di allineamento. Gli iscritti di qualunque età che contribuiscono nella misura intera possono chiedere di effettuare il riscatto per allineare alla contribuzione prevista per gli ultraquarantenni uno o più anni a contribuzione inferiore. Tali iscritti devono avere un’anzianità contributiva effettiva al Fondo non inferiore a cinque anni.

Il riscatto avviene mediante versamento di un contributo pari alla riserva matematica, necessaria per la copertura assicurativa dell’incremento pensioni-stico conseguibile con il riscatto medesimo.

Detta riserva si calcola moltiplicando la maggiorazione di pensione con-seguibile con il riscatto di allineamento per il coefficiente di capitalizzazione relativo ai periodi di anzianità contributiva effettiva maturati dal sanitario alla data di presentazione della domanda di allineamento (come da tabella ex art. 2 legge n. 45/90). L’importo della riserva non può essere inferiore alla somma dei contributi aggiuntivi da imputare agli anni oggetto dell’allineamento.

Il versamento del contributo di riscatto può essere effettuato in unica solu-zione ovvero in rate semestrali.

Il pagamento rateale avviene in un numero di anni non superiore a quelli da riscattare aumentati del 50% (comunque entro la data di decorrenza della pen-sione), con una maggiorazione pari all’interesse legale pro tempore vigente in ragione d’anno. Al fine del calcolo della pensione si tiene conto esclusivamente dei contributi versati. Il mancato pagamento o il mancato inizio dei versamenti rateali nel termine indicato dall’ENPAM comportano la rinuncia al riscatto.

I contributi di riscatto di allineamento sono interamente deducibili dall’im-ponibile IRPEF (DLgs 18 febbraio 2000, n. 47).

In caso di invalidità o decesso prima del completamento del versamento rateale, il riscatto per l’allineamento dei contributi viene considerato come interamente effettuato. Il debito residuo, senza interessi, viene trattenuto

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Manuale della Professione Medica478

sulle prestazioni in misura non superiore al 20% del loro importo, sino a estinzione.

Con la delibera 15/2009 in attesa di approvazione dei Ministeri Vigilanti è stato introdotto un tetto al beneficio massimo conseguibile di un incremento previdenziale nella misura massima dell’importo pari a quattro volte l’ammon-tare del trattamento pensionistico minimo INPS, annualmente determinato con riferimento alla data di decorrenza della pensione di invalidità o indiretta, mediante trattenuta del 20% sulla prestazione in godimento entro e non oltre la data di compimento del 70° anno di età per gli invalidi e del 75° anno di età per i superstiti.

Qualora nessun versamento sia stato effettuato a titolo di riscatto:

– in caso di decesso dell’iscritto, i superstiti possono rinunciare al riscatto medesimo all’atto della presentazione della domanda di pensione;

– l’iscritto riconosciuto invalido può rinunciare al riscatto medesimo, entro sessanta giorni dall’accoglimento della domanda di invalidità.

Figura 15.8. Uscite.

Pensioni ordinarie “Quota A” 47,09%Pensioni ind. a superstiti “Quota A” 9,26%Pensioni assistenziali “Quota A” 3,37%Indennità di maternità 5,99%Pensioni per invalidità “Quota B” 0,76%

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 479

Prestazioni assistenziali “Quota B” 0,33%Pensioni per invalidità “Quota A” 2,92%Pensioni di rev. a superstiti “Quota A” 12,86%Integrazione al minimo 2,05%Pensioni ordinarie “Quota B” 12,15%Pensioni a superstiti “Quota B” 3,22%

i contributi di riscAtto “quotA b” o fondo dellA liberA professione

Riscatto anni di laurea e specializzazione; periodi precontributivi; servizio militare o civile.

I requisiti indispensabili sono:

– età inferiore a sessantacinque anni; – iscrizione all’Albo professionale;– anzianità contributiva superiore a dieci anni, di cui almeno uno matu-

rato nel triennio immediatamente precedente l’anno della domanda. Per i soli laureati in Odontoiatria, al fine del raggiungimento di tale requisito, i periodi di iscrizione all’Albo dal 1° gennaio 1990 al 31 dicembre 1994 si cumulano all’anzianità contributiva effettiva maturata successivamente;

– non contribuire, al momento della domanda, ad altra forma di previdenza obbligatoria, compresi i Fondi Speciali ENPAM;

– non aver presentato domanda di prestazioni per invalidità permanente; – non aver rinunciato da meno di due anni allo stesso riscatto.

Possono essere riscattati:

– fino a un massimo di dieci anni gli anni relativi al corso legale di laurea e quelli relativi ai titoli di specializzazione. Non è consentito il riscatto di più titoli di specializzazione;

– fino a un massimo di dieci anni il periodo di attività libero-professionale svolta in epoca precedente l’inizio della contribuzione proporzionale;

– i periodi di servizio militare obbligatorio, nonché i periodi di servizio civile svolto in alternativa a quello militare, con esclusione di quelli coincidenti con periodi già coperti da contribuzione effettiva o riscattata, fatta ecce-zione per la contribuzione alla “Quota A”.L’importo del contributo è pari alla riserva matematica necessaria per la

copertura assicurativa del periodo da riscattare. Detta riserva si calcola molti-

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Manuale della Professione Medica480

plicando la maggior quota di pensione conseguibile con il riscatto per il coef-ficiente di capitalizzazione relativo al sesso, all’età e all’anzianità contributiva del sanitario alla data di presentazione della domanda (come da tabella ex art. 2 legge n. 45/90).

Dal 2001 i contributi di riscatto sono interamente deducibili (DLgs 18 feb-braio 2000, n. 47). Il versamento del contributo dovuto può essere effettuato in un’unica soluzione ovvero in rate semestrali.

Il pagamento rateale avviene in un numero di anni non superiore a quelli da riscattare aumentati del 50% (comunque entro il sessantacinquesimo anno di età), con una maggiorazione pari all’interesse legale pro tempore vigente in ragione d’anno. Al fine del calcolo della pensione si tiene conto esclusivamente dei contributi effettivamente versati.

Il mancato pagamento o il mancato inizio dei versamenti rateali nel termine indicato dall’ENPAM comportano la rinuncia al riscatto.

In caso di invalidità o decesso prima della scadenza del termine per il paga-mento o del completamento del versamento rateale, il riscatto viene consi-derato come interamente effettuato. Il debito residuo, senza interessi, viene trattenuto sulle prestazioni in misura non superiore al 20% del loro importo, sino a estinzione.

Qualora nessun versamento sia stato effettuato a titolo di riscatto:

– in caso di decesso dell’iscritto, i superstiti possono rinunciare al riscatto medesimo all’atto della presentazione della domanda di pensione;

– l’iscritto riconosciuto invalido può rinunciare al riscatto medesimo, entro sessanta giorni dall’accoglimento della domanda di invalidità.

Riscatto di allineamento.

Con tale riscatto si allineano uno o più anni di attività nei quali la contri-buzione risulti inferiore all’importo del contributo più elevato fra quelli versati nei tre anni coperti da contribuzione antecedenti la domanda.

L’allineamento è consentito anche per gli anni in cui il versamento è stato effettuato con aliquota ridotta, previo passaggio obbligatorio alla contribu-zione nella misura del 12,50%.

Possono chiedere di effettuare tale riscatto gli iscritti che:

– contribuiscano in misura intera;

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 481

– non abbiano presentato domanda di prestazione per invalidità permanente;– abbiano completato i versamenti relativi a un riscatto analogo o non vi

abbiano rinunciato da meno di due anni;– abbiano un’anzianità contributiva effettiva al Fondo non inferiore a cinque anni;– siano in regola con i pagamenti relativi a precedenti riscatti;– abbiano maturato almeno un anno di contribuzione nel triennio antece-

dente l’anno della domanda.

Il riscatto avviene mediante versamento di un contributo pari alla riserva matematica, necessaria per la copertura assicurativa dell’incremento pensioni-stico conseguibile con il riscatto medesimo.

Detta riserva si calcola moltiplicando la maggiorazione di pensione con-seguibile con il riscatto di allineamento per il coefficiente di capitalizzazione relativo ai periodi di anzianità contributiva effettiva maturati dal sanitario alla data di presentazione della domanda di allineamento (come da tabella ex art. 2 legge n. 45/90). L’importo della riserva non può essere inferiore alla somma dei contributi aggiuntivi da imputare agli anni oggetto dell’allineamento.

Il versamento del contributo di riscatto può essere effettuato in un’unica soluzione ovvero in rate semestrali.

Il pagamento rateale avviene in un numero di anni non superiore a quelli da riscattare aumentati del 50% (comunque entro la data di decorrenza della pensione), con una maggiorazione pari all’interesse legale pro tempore vigente in ragione d’anno. Al fine del calcolo della pensione si tiene conto esclusiva-mente dei contributi versati.

Il mancato pagamento o il mancato inizio dei versamenti rateali nel termine indicato dall’ENPAM comportano la rinuncia al riscatto.

Il Fondo Speciale dei Medici di Medicina Generale

La composizione del Fondo

Gli iscritti attivi al Fondo sono coloro che hanno un rapporto professio-nale con il Servizio Sanitario Nazionale (o altri istituti) in qualità di:

– medici generici;– pediatri di libera scelta;– addetti ai servizi di continuità assistenziale ed emergenza territoriale;– transitati alla dipendenza, appartenenti alle categorie di cui sopra.

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Manuale della Professione Medica482

Gli iscritti pensionati al Fondo alla data del 31 dicembre 2009 sono 69.350 di cui 11.904 medici e 14.032 superstiti. Le pensioni ordinarie erogate dal Fondo sono 25.936, quelle di invalidità 665. Il rapporto tra iscritti e pensionati è 2,67 (I/P = 69.350 /25.936). Il rapporto tra contributi e pensioni è 1,66 (C/P = 1.016,77/614,25 in milioni di Euro). Nella figura che segue si può valutare nel tempo il rapporto tra contributi e prestazioni.

Figura 15.9. Fondo dei Medici di Medicina Generale.

La contribuzione al Fondo

I Medici di Medicina Generale, della continuità assistenziale e dell’emer-genza territoriale, in relazione all’Accordo Collettivo Nazionale, contribui-scono al Fondo dal 1° gennaio 2008 con un’aliquota contributiva del 16,50% di cui il 10,375% a carico dell’azienda e il 6,125% a carico del medico, mentre i pediatri di libera scelta hanno mantenuto l’aliquota contributiva al 15,00% di cui il 9,375% a carico dell’azienda e il 5,625% a carico del medico.

I medici transitati alla dipendenza in relazione al contratto di lavoro contribu-iscono al Fondo con un’aliquota contributiva del 32,35% di cui il 23,80% a carico dell’azienda e l’8,55% a carico del medico. È previsto un contributo aggiuntivo a carico del medico dell’1% sulla quota di compenso superiore a un tetto predeter-minato e indicizzato (in attesa di comunicato ufficiale INPDAP pari a 42.404,60).

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 483

Figura 15.10. Entrate.

Contributi ordinari 86,0%Contributi di riscatto e interessi 6,9%Contributi medici transitati alla dipendenza 4,8%Contributi per ricongiunzione attiva e relativi interessi 2,3%Sanzioni e penalità 0,1%

Le prestazioni del Fondo

Le prestazioni del Fondo sono:

1. la pensione ordinaria di vecchiaia;2. la pensione ordinaria di anzianità;3. la pensione di invalidità assoluta e permanente;4. la pensione indiretta e di reversibilità ai superstiti;5. l’indennità per invalidità temporanea.

I requisiti per la pensione ordinaria di vecchiaia sono:

– cessazione del rapporto;– sessantacinque anni di età;– attualità della contribuzione al sessantacinquesimo anno oppure quindici

anni di contribuzione.I requisiti per la pensione ordinaria di anzianità sono:

– cessazione del rapporto;– trentacinque anni di contributi (effettivi, riscattati o ricongiunti) con cin-

quantotto anni di età e trent’anni di anzianità di laurea;

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Manuale della Professione Medica484

– quarant’anni di contributi (effettivi, riscattati o ricongiunti) e trent’anni di anzianità di laurea.

Il calcolo della pensione avviene secondo un metodo detto retributivo di tipo reddituale, proprio del Fondo, secondo cui il reddito di ciascun anno viene ricostruito dalla contribuzione versata e dall’aliquota percen-tuale di prelievo contributivo corrispondente a quello specifico anno di versamento. La pensione si determina applicando alla base pensionabile, cioè alla media dei redditi rivalutati di tutta la vita professionale, che si ottiene dividendo la somma di tutti i redditi annuali rivalutati del 100% dell’indice ISTAT per tutti gli anni di contribuzione effettiva, le seguenti aliquote o coefficienti di rendimento per gli anni di contribuzione effet-tiva o ricongiunta:

– 1,65% per gli anni dal 1961 al 1983;– 2,25% per gli anni dal 1984 al 1994;– 1,40% per gli anni dal 1995 al 1998;– 1,456% per gli anni dal 1999 al 2003;– 1,50% per gli anni dal 2004 al 2008;– 1,55% dal 2008 in poi (in attesa di approvazione dei Ministeri Vigilanti)

e le seguenti aliquote o coefficienti di rendimento per gli anni di contribuzione riscattata:

– 1,65% per gli anni sino al 31 dicembre 1994;– 1,40% per gli anni dal 1995 al 1998;– 1,456% per gli anni dal 1999 al 2003;– 1,50% per gli anni dal 2004 al 2008;– 1,55% dal 2008 in poi (in attesa di approvazione dei Ministeri Vigilanti)

Quindi la pensione si ottiene applicando un’aliquota percentuale a un’entità numerica:

€ A CUI SI APPLICA UNA %

base pensionabile x aliquote di rendimento (reddito medio annuo rivalutato) (somma aliquote di rendimento)

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 485

A partire dal 1° agosto 2006, nei casi di pensionamento a un’età superiore a sessantacinque anni e fino ai settant’anni, si applica, in misura doppia del 3%, il coefficiente di rendimento pro tempore vigente, fatto salvo il principio dei diritti acquisiti dagli ultrasessantacinquenni, con applicazione dei coefficienti di maggiorazione riferiti all’età del medico raggiunta alla data del 31 luglio 2006.

La misura della pensione ordinaria di anzianità, che si determina con le stesse modalità di calcolo del trattamento ordinario di vecchiaia, viene calco-lata a sessantacinque anni e poi ridotta in base all’aliquota riferita all’età del medico al raggiungimento dei requisiti.

Le scadenze temporali o finestre di accesso al trattamento pensionistico di anzianità sono previste per legge (legge 27 dicembre 1997, n. 449).

Indicizzazione ISTAT delle pensioni. Dal 1° gennaio 2007 le pensioni di importo complessivo annuo fino a quattro volte il trattamento minimo INPS (anno 2010 Euro 23.803,52) vengono maggiorate ogni anno nella misura del 75% dell’indice ISTAT dell’anno precedente. Oltre tale limite l’indicizzazione è pari al 50% dell’indice ISTAT.

Per i medici transitati alla dipendenza le finestre di accesso sono normate dalla legge del 30 luglio 2010, n. 122 (conversione con modifiche del Decreto 31 maggio 2010, n. 78) pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 174/L del 30 luglio 2010

Trattamenti ordinari indennità in capitale. L’iscritto ha la facoltà di convertire in una indennità in capitale una quota pari, nel massimo, al 15% della pensione. L’in-dennità viene erogata solo nel caso in cui l’iscritto conservi una pensione di importo pari almeno al doppio del trattamento minimo INPS (11.901,76 anno 2010).

Requisiti per la restituzione dei contributi:

– cessazione del rapporto professionale prima del sessantacinquesimo anno di età;– anzianità contributiva inferiore a quindici anni.

La restituzione consiste in un’indennità formata dall’88% dei contributi versati, maggiorati dell’interesse al tasso annuo del 4,50%.

Professionisti transitati a rapporto di impiego. Per i professionisti transi-tati a rapporto di impiego, che hanno optato per il mantenimento della posi-zione assicurativa presso l’Ente, la determinazione dei contributi previdenziali

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Manuale della Professione Medica486

è rimessa alle norme e agli accordi contrattuali relativi alla dirigenza del SSN. A essi si applicano, al fine del riconoscimento del trattamento ordinario di vec-chiaia e di anzianità, i requisiti previsti dalla normativa vigente per i lavoratori dipendenti. I requisiti e le finestre di accesso sono normate dalla legge del 30 luglio 2010, n. 122 (conversione con modifiche del Decreto 31 maggio 2010, n. 78) pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 174/L del 30 luglio 2010.

I requisiti per la pensione di invalidità assoluta e permanente sono:

– età inferiore a sessantacinque anni;– inabilità assoluta e permanente all’esercizio della professione medica inter-

venuta prima della cessazione del rapporto e accertata dalla Commissione Medica dell’Or dine Professionale di appartenenza.

Il calcolo della pensione è identico a quello del trattamento ordinario con un bonus aggiuntivo pari al numero degli anni mancanti al sessantacinquesimo, fino a un massimo di dieci anni.

Non è consentita la conversione di parte della pensione in un’indennità in capitale.

In caso di cessazione del rapporto professionale prima del sessantacin-quesimo anno all’iscritto che divenga inabile in modo assoluto e permanente all’esercizio dell’attività professionale spetta il trattamento di pensione ordinario.

L’ENPAM effettua controlli periodici per accertare la permanenza dello stato di invalidità e in caso di ripresa dell’attività la pensione viene revocata.

La decorrenza della pensione è dal mese successivo alla domanda o, se posteriore, alla cessazione del rapporto.

Le pensioni erogate vengono indicizzate nella stessa misura prevista per la pensione di vecchiaia.

Requisito per la pensione indiretta ai superstiti è il decesso dell’iscritto in costanza di contribuzione al Fondo.

Sono considerati superstiti il coniuge e i figli infraventunenni o infraventi-seienni se studenti e, in loro assenza, ascendenti o collaterali a carico.

La pensione indiretta ai superstiti è un’aliquota della pensione di invalidità che sarebbe spettata all’iscritto ove fosse divenuto totalmente e permanente-mente invalido al momento del decesso e decorre dal mese successivo al decesso.

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 487

Le aliquote più frequenti prevedono:

– solo il coniuge: 70%;– coniuge 60%; 1 figlio 20%; – coniuge 60%; 2 o più figli 40%; – solo un figlio: 80%; – due figli: 90%; – tre o più figli: 100%.

La pensione di reversibilità ai superstiti decorre dal mese successivo al decesso dell’iscritto già pensionato, e consiste in un’aliquota della pensione in godimento da parte dell’iscritto all’atto del decesso, utilizzando le stesse aliquote applicate per la pensione indiretta.

Per tutte le prestazioni erogate dai Fondi Speciali vengono effettuate rili-quidazioni a seguito dell’accreditamento di contributi in epoca successiva all’ultima erogazione.

Requisiti indispensabili per usufruire dell’indennità per invalidità tempora-nea sono l’inabilità totale e temporanea all’esercizio dell’attività professionale in costanza del rapporto professionale con gli istituti del SSN e un’età inferiore a settant’anni.

Decorre dal trentunesimo giorno di insorgenza dello stato di inabilità e può essere liquidata per un periodo massimo continuativo di ventiquattro mesi.

Dopo la ripresa dell’attività l’indennità spetta dopo un nuovo periodo di almeno trenta giorni. In ogni caso non può comunque essere corrisposta per un periodo superiore a ventiquattro mesi nell’arco degli ultimi quarantotto.

Vengono pagati ogni anno circa 150.000 assegni giornalieri di malattia, divisi in mandati mensili, a oltre 2.0 00 medici convenzionati.

Tempi massimi di erogazione: sessanta giorni.I primi trenta giorni sono a carico delle assicurazioni stipulate con apposite

convenzioni secondo quanto stabilito dagli Accordi Collettivi Nazionali delle categorie interessate.

L’indennità giornaliera è pari a 1/30 del 62,5% del compenso medio men-sile assoggettato a contributo previdenziale, calcolato sulla base dei tre mesi precedenti quello di sospensione dell’attività.

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Manuale della Professione Medica488

Figura 15.11. Uscite.

Pensioni ordinarie 58,5%Indennità 1,9%Pensione per invalidità 2,9%Ricongiunzioni passive 0,3%Pensioni a superstiti 34,8%Assegni malattia 1,6%

I riscatti nel Fondo

L’aumento della contribuzione volontaria al Fondo con il riscatto è riferi-bile alle seguenti fattispecie:

1. laurea e specializzazione: sei anni del corso di laurea + corso di formazione in medicina generale + corso di specializzazione per i soli pediatri di libera scelta (requisiti: età inferiore a sessantacinque anni, rapporto professionale in essere, anzianità contributiva di almeno dieci anni, non aver presentato domanda per invalidità permanente né aver rinunciato da meno di due anni allo stesso riscatto);

2. servizio militare o servizio civile obbligatorio (requisiti: non averlo già riscattato in altre gestioni obbligatorie);

3. periodi di attività precontributiva prestati per conto di enti ex mutualistici per i quali non vi è stato versamento contributivo (è in via di esaurimento);

4. periodi oggetto di restituzione contributiva;5. periodi di sospensione totale dell’attività per maternità, malattia, aggiorna-

mento all’estero ecc.;6. allineamento contributivo alla media degli ultimi trentasei mesi coperti da

contribuzione (requisiti: età inferiore a settant’anni, rapporto professionale in essere con SSN, anzianità contributiva effettiva al Fondo di almeno cinque

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 489

anni, non aver presentato domanda di prestazione per invalidità permanente, aver completato versamenti relativi e non aver rinunciato da meno di due anni ad analogo riscatto, in regola con pagamenti relativi a precedenti riscatti).

L’onere del riscatto è di importo pari alla riserva matematica, determinata sulla base dei contributi obbligatori, necessaria per la copertura assicurativa del periodo da riscattare, e si ottiene moltiplicando la maggior quota di pensione conseguibile con il riscatto per un coefficiente di capitalizzazione, che aumenta in funzione dell’età anagrafica e dell’anzianità contributiva possedute alla data di presentazione della domanda.

Dal 2001 i contributi di riscatto sono totalmente deducibili dall’imponibile IRPEF (DLgs 18 febbraio 2000, n. 47).

Si può pagare in unica soluzione o in rate semestrali in un numero di anni non superiore a quelli oggetto del riscatto aumentati del 50% e comunque entro i sessantacinque anni per la laurea e specializzazione ed entro la decor-renza della pensione per l’allineamento contributivo, con una maggiorazione pari all’interesse legale pro tempore vigente in ragione d’anno.

Ai fini del calcolo della pensione si tiene conto esclusivamente dei contri-buti effettivamente versati. Il mancato pagamento o il mancato inizio di ver-samento nei termini indicati dall’ENPAM comportano la rinuncia al riscatto.

In caso di invalidità o decesso prima del completamento del versamento rateale, il riscatto viene considerato come interamente effettuato. Il debito resi-duo, senza interessi, viene trattenuto sulle prestazioni in misura non superiore al 20% del loro importo, sino a estinzione.

Con la delibera 15/2009 in attesa di approvazione dei Ministeri Vigilanti è stato introdotto un tetto al beneficio massimo conseguibile di un incremento previden-ziale nella misura massima dell’importo pari a quattro volte l’ammontare del trat-tamento pensionistico minimo INPS, annualmente determinato con riferimento alla data di decorrenza della pensione di invalidità o indiretta, mediante trattenuta del 20% sulla prestazione in godimento entro e non oltre la data di compimento del 70° anno di età per gli invalidi e del 75° anno di età per i superstiti.

Qualora nessun versamento sia stato effettuato a titolo di riscatto, in caso di decesso dell’iscritto i superstiti possono rinunciare al riscatto medesimo all’atto della presentazione della domanda di pensione; l’iscritto riconosciuto invalido può rinunciare al riscatto medesimo, entro sessanta giorni dall’accogli-mento della domanda di invalidità.

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Manuale della Professione Medica490

riscAtto di lAureA e AllineAmento: confronto

Alcune brevi osservazioni generali sono necessarie quando si prenda in esame uno strumento che nell’ultimo bilancio consuntivo 2009 ha fatto regi-strare un incremento notevole rispetto all’anno precedente, nel solo Fondo della Medicina Generale, che ha superato i 69 milioni di Euro.

Dal 2007 al 2009 sono pervenute quasi trentatremila domande di riscatto agli uffici della Fondazione; una massa ingente che ha dato esito a trentunmila proposte di cui due terzi accettate dagli iscritti.

Il riscatto è uno strumento volontario totalmente deducibile fiscalmente per integrare la propria pensione.

Ad oggi, in attesa di approvazione delle modifiche da parte dei Ministeri Vigilanti quello di laurea, agendo su anni in cui non si erano versati contributi, va ad aumentare l’aliquota percentuale del 9,0% (1,50% per sei anni nel Fondo della Medicina Generale) da applicare alla base pensionabile, mentre quello di riallineamento, che agisce su anni in cui è già presente contribuzione, agisce sulla base pensionabile aumentandola, ma non aumenta l’aliquota percentuale finale.

A differenza del riscatto degli anni di laurea, quello di riallineamento con-tributivo non permette di accedere prima al pensionamento per anzianità con-tributiva, ma agisce solo per l’incremento della pensione.

Si ribadisce come sia sempre conveniente fare prima possibile la domanda di riscatto di allineamento dato che questa non è vincolante e prima la si fa meno il riscatto risulterà oneroso.

Infatti questi riscatti sono sempre onerosi, e lo sono nella misura in cui si paga in anticipo il vantaggio pensionistico che si ottiene, commisurato su coef-ficienti di capitalizzazione che tengono conto dell’aspettativa di vita residua del medico richiedente.

Infatti, come già affermato, l’onere del riscatto è pari alla riserva matema-tica necessaria per la copertura assicurativa del periodo da riscattare, e cioè la maggior quota di pensione conseguibile con il riscatto moltiplicata per il coefficiente di capitalizzazione, che aumenta in funzione dell’età anagrafica e dell’anzianità contributiva possedute alla data di presentazione della domanda.

Negli ultimi anni si è registrato in ENPAM un notevole aumento delle domande di riscatto da parte dei medici, che ha superato la capacità degli uffici di dare una risposta immediata.

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 491

Grazie però al meccanismo dell’erogazione di un acconto sul calcolo defi-nitivo, si è permesso lo stesso ai medici interessati di usufruire a fine anno dei vantaggi fiscali del riscatto.

La decisione deliberata dal Consiglio di Amministrazione di inasprire dal 1° gennaio del 2007 il costo del riscatto, elevando i coefficienti di capitalizzazione sulla base delle ultime tavole ISTAT di aspettativa di vita della popolazione, quelle del 2002 rispetto a quelle in uso del 1983, ha determinato un notevole incremento di domande.

Dato che però il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha ritenuto tali aumenti troppo contenuti, non ha dato la sua approvazione alla manovra rimandando indietro la delibera, per cui, nelle more di un’ulteriore delibera della Fondazione che inasprisca tali aumenti, sono rimasti in vigore i vecchi coefficienti di capitalizzazione più favorevoli per gli iscritti.

La Fondazione ENPAM a seguito di uno specifico progetto-obiettivo ha smaltito quasi tutta la quota arretrata di domande di riscatto di allineamento che si sono accumulate e sicuramente in tempi brevi tutte le domande giacenti saranno evase, per cui i medici che hanno fatto domanda di riscatto di allinea-mento si vedranno recapitare la relativa proposta.

Nella proposta ENPAM in arrivo, per facilitare la valutazione sulla conve-nienza e sull’entità dell’adesione all’istituto a breve la lettera riporterà anche un esempio di riscatto parziale di 10/12.000 Euro; rimane comunque l’esempio di un potenziale incremento di 1.000 Euro del trattamento annuo finale al sessantacinquesimo anno di età.

Il contributo, totalmente deducibile, si potrà rateizzare al tasso di inte-resse legale per un numero di anni maggiore fino al 50% degli anni oggetto di riscatto di allineamento.

Alcune precisazioni sono necessarie per leggere bene questa proposta:

– in caso di rinuncia si potrà in seguito presentare in qualsiasi momento una nuova domanda di allineamento;

– si prevede la possibilità di riscattare l’intera posizione contributiva – otte-nendo il massimo di incremento possibile della pensione a sessantacinque anni – anche se la cifra potrà sembrare spropositata: se non si intende ade-rire non si consideri l’allegato modulo MOD.ALL;

– tutti i gradi inferiori in un ventaglio totale di possibilità di cui nella lettera è

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Manuale della Professione Medica492

espresso solo il livello massimo, per cui ogni medico può esercitare la sua opzione: in tal caso va compilato e restituito entro sessanta giorni l’allegato modello MOD.ALL.PARZ;

– quello che conta è il rapporto fisso esistente tra l’incremento annuale di pensione e il suo costo da pagare come riserva matematica, espresso nella lettera dell’ENPAM dal contributo da versare per beneficiare di un incre-mento annuo di 1.000 Euro;

– attualmente il rapporto può oscillare a seconda dell’età anagrafica e della data della domanda: 1.000 Euro annuali in più di pensione a sessantacinque anni potranno costare tra 7-8.000 e 12-13.000 Euro, quindi nell’arco di un rapporto che si posiziona tra 1 a 8 e 1 a 13. Con i nuovi interventi, rigettati dal Ministero dell’Economia e Finanze (MEF) perché troppo morbidi, tale rapporto aumentava di almeno un terzo.

Un altro momento critico avviene generalmente quando nella proposta si valuta la propria pensione annua lorda senza riscatto: vanno chiariti almeno tre passaggi che pur se tecnicamente corretti producono effetti distorsivi sulla definizione e comprensione della cifra finale:

– la base pensionabile è quella della data della domanda e non quella – vero-similmente più alta – che poi sarà a sessantacinque anni;

– la rivalutazione di ogni reddito annuale che contribuisce a definire la base pensionabile è riferita alla data della domanda, non è proiettata ai sessan-tacinque anni, per cui tale base anche in questo è sicuramente più bassa di quello che sarà alla data del pensionamento;

– l’aliquota di rendimento risulta dalla somma delle aliquote annuali esistenti alla data di domanda e non a quella di pensionamento, per cui più anni mancano al pensionamento più è significativa la distorsione.

Va inoltre fatto notare che l’importo in questione non contabilizza un eventuale riscatto di laurea o altro, già finito di pagare.

Quindi la cifra di pensione annua riportata è quella cifra che si riscuote-rebbe come pensione a sessantacinque anni se dalla data della domanda effet-tuata fino al pensionamento non si lavorasse né contribuisse più, e l’ISTAT restasse nel periodo pari a zero.

La pensione finale verosimilmente quindi sarà maggiore di quanto riportato

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 493

sulla proposta e il vantaggio perseguito con il riscatto di allineamento contributivo potrà inoltre realizzare un vantaggio finanziario anche decisamente consistente in caso di una longevità – compresa la reversibilità ai superstiti – maggiore rispetto a quella attuarialmente definita con il coefficiente di capitalizzazione usato per determinarne il costo, che, come detto, è riferito alle tabelle ISTAT del 1983.

Il Fondo Speciale degli Specialisti Ambulatoriali

La composizione del Fondo

Gli iscritti attivi al Fondo sono coloro che hanno un rapporto professio-nale con il Servizio Sanitario Nazionale (o altri istituti) in qualità di:

– specialisti ambulatoriali convenzionati;– addetti alla medicina dei servizi;– odontoiatri convenzionati;– transitati alla dipendenza.

Gli iscritti pensionati al Fondo alla data del 31 dicembre 2009 sono 17.218 di cui 5.777 medici e 5.998 superstiti. Le pensioni ordinarie erogate dal Fondo sono 5.443, quelle di invalidità 381. Il rapporto tra iscritti e pensionati è 1,46 (I/P = 17.218 /11.775). Il rapporto tra contributi e pensioni è 1,72 (C/P = 271,78/152,80 in milioni di Euro). Nella figura che segue si può notare nel tempo il rapporto tra contributi e prestazioni.

Figura 15.12. Fondo degli Specialisti Ambulatoriali.

Page 517: Manuale della professione medica

Manuale della Professione Medica494

La contribuzione al Fondo

Gli specialisti ambulatoriali e gli odontoiatri convenzionati contribui-scono al Fondo con un’aliquota contributiva del 24% di cui il 14,19% a carico dell’azienda e il 9,81% a carico del medico.

Gli addetti alla medicina dei servizi contribuiscono al Fondo con un’ali-quota del 24,50% di cui il 14,16% a carico dell’azienda e il 10,34% a carico del medico.

I medici transitati alla dipendenza in relazione al contratto di lavoro contri-buiscono al Fondo con un’aliquota contributiva del 32,35% di cui il 23,80% a carico dell’azienda e l’8,55% a carico del medico.

È previsto un contributo aggiuntivo a carico del medico dell’1% sulla quota di compenso superiore a un tetto predeterminato e indicizzato (in attesa di comunicato ufficiale INPDAP pari a 42.404,60).

Figura 15.13. Entrate.

Contributi ordinari 70,71%Contributi di riscatto e interessi 3,40%Contributi per iscritti transitati alla dipendenza 23,74%Contributi per ricongiunzione attiva e relativi interessi 2,00%Sanzioni e penalità 0,14%

Le prestazioni del Fondo

Le prestazioni del Fondo sono:

1. pensione ordinaria di vecchiaia;2. pensione ordinaria di anzianità;

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 495

3. pensione di invalidità assoluta e permanente;4. pensione indiretta e di reversibilità a superstiti;5. indennità per invalidità temporanea.

I requisiti per la pensione ordinaria di vecchiaia sono:

– cessazione del rapporto;– sessantacinque anni di età;– attualità della contribuzione al sessantacinquesimo anno oppure quindici

anni di contribuzione.I requisiti per la pensione ordinaria di anzianità sono:

– cessazione del rapporto;– trentacinque anni di contributi (effettivi, riscattati o ricongiunti) con cin-

quantotto anni di età e trent’anni di anzianità di laurea;– quarant’anni di contributi (effettivi, riscattati o ricongiunti) e trent’anni di

anzianità di laurea.

Tali requisiti non varieranno nel 2008 (ex lege n. 243/04).Il calcolo della pensione avviene usando un sistema retributivo di tipo red-

dituale.Per gli specialisti ambulatoriali in convenzione si ricava il compenso medio

annuo relativo ai sessanta mesi di contribuzione precedenti la cessazione del rapporto, ricostruendolo attraverso i contributi versati e l’aliquota contributiva corrispondente. Poi si divide il compenso così ottenuto per il numero medio di ore settimanali di lavoro tenute nel corrispondente periodo. La base pensionabile si ottiene moltiplicando tale ultimo risultato per il numero medio delle ore setti-manali di lavoro tenute nel corso di tutta l’attività. La pensione si ottiene appli-cando alla base pensionabile la percentuale ottenuta moltiplicando l’aliquota del 2,25% per il numero di anni di contribuzione effettiva, riscattata o ricongiunta.

Per gli iscritti transitati alla dipendenza l’importo della pensione si deter-mina applicando alla media dei redditi rivalutati di tutta la vita professionale le seguenti aliquote:

– 2,50% annuo per il periodo precedente il passaggio alla dipendenza;– 2,90% annuo per il periodo successivo al passaggio alla dipendenza.

I redditi sono ricostruiti dalla contribuzione versata sulla base delle aliquote percentuali di prelievo contributivo.

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Manuale della Professione Medica496

A partire dal 1° agosto 2006, nei casi di pensionamento a una età superiore a sessantacinque anni e fino ai settant’anni, si applica, in misura doppia del 3%, il coefficiente di rendimento pro tempore vigente, fatto salvo il principio dei diritti acquisiti dagli ultrasessantacinquenni, con applicazione dei coefficienti di maggiorazione riferiti all’età del medico raggiunta alla data del 31 luglio 2006.

La misura della pensione ordinaria di anzianità, che si determina con le stesse modalità di calcolo del trattamento ordinario di vecchiaia, viene calco-lata a sessantacinque anni e poi ridotta in base all’aliquota riferita all’età del medico al raggiungimento dei requisiti.

Indicizzazione ISTAT delle pensioni. Dal 1° gennaio 2007 le pensioni di importo complessivo annuo fino a quattro volte il trattamento minimo INPS (23.803,52 annui 2010) vengono maggiorate ogni anno nella misura del 75% dell’indice ISTAT dell’anno precedente. Oltre tale limite l’indicizzazione è pari al 50% dell’indice ISTAT.

Trattamenti ordinari indennità in capitale. L’iscritto ha la facoltà di convertire in una indennità in capitale una quota pari, nel massimo, al 15% della pensione. L’indennità viene erogata solo nel caso in cui l’iscritto conservi una pensione di importo pari almeno al doppio del trattamento minimo INPS (11.901,76 annui per il 2010).

Requisiti per la restituzione dei contributi:

– cessazione del rapporto professionale prima del sessantacinquesimo anno di età;

– anzianità contributiva inferiore a quindici anni.

La restituzione consiste in un’indennità formata dall’88% dei contributi versati, maggiorati dell’interesse al tasso annuo del 4,50%.

I requisiti per la pensione di invalidità assoluta e permanente sono:

– età inferiore a sessantacinque anni;– inabilità assoluta e permanente all’esercizio della professione medica inter-

venuta prima della cessazione del rapporto e accertata dalla Commissione Medica dell’Or dine Professionale di appartenenza.

La decorrenza della pensione è dal mese successivo alla domanda o, se posteriore, alla cessazione del rapporto. Il calcolo della pensione è identico

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 497

a quello del trattamento ordinario con un bonus aggiuntivo pari al numero degli anni mancanti al sessantacinquesimo, fino a un massimo di dieci. Non è consentita la conversione di parte della pensione in un’indennità in capitale. In caso di cessazione del rapporto professionale prima del sessantacinquesimo anno all’iscritto che divenga inabile in modo assoluto e permanente all’eser-cizio dell’attività professionale spetta il trattamento di pensione ordinario. L’ENPAM effettua controlli periodici per accertare la permanenza dello stato di invalidità e in caso di ripresa dell’attività la pensione erogata viene revocata. Le pensioni erogate vengono indicizzate nella stessa misura prevista per la pensione di vecchiaia.

Il requisito per il riconoscimento della pensione indiretta ai superstiti è il decesso dell’iscritto in costanza di contribuzione al Fondo.

Sono considerati superstiti il coniuge e i figli infraventunenni o infraventi-seienni se studenti e, in loro assenza, ascendenti o collaterali a carico.

La pensione indiretta ai superstiti è un’aliquota della pensione di invalidità che sarebbe spettata all’iscritto ove fosse divenuto totalmente e permanente-mente invalido al momento del decesso e decorre dal mese successivo al decesso.

Le aliquote più frequenti sono:

– solo il coniuge: 70%;– coniuge 60%; 1 figlio 20%; – coniuge 60%; 2 o più figli 40%; – solo un figlio: 80%; – due figli: 90%; – tre o più figli: 100%.

La pensione di reversibilità ai superstiti decorre dal mese successivo al decesso dell’iscritto già pensionato, e consiste in un’aliquota della pensione in godimento da parte dell’iscritto all’atto del decesso, utilizzando le stesse aliquote applicate per la pensione indiretta.

Per tutte le prestazioni erogate dai Fondi Speciali vengono effettuate rili-quidazioni a seguito dell’accreditamento di contributi in epoca successiva all’ultima erogazione.

Requisiti indispensabili per usufruire dell’indennità per invalidità tempora-nea sono l’inabilità totale e temporanea all’esercizio dell’attività professionale

Page 521: Manuale della professione medica

Manuale della Professione Medica498

in costanza del rapporto professionale con gli istituti del SSN e un’età inferiore a settant’anni.

Spetta dopo centottanta giorni di assenza dal servizio – anche non conti-nuativa – negli ultimi trenta mesi. Può essere liquidata per un periodo massimo di diciotto mesi nell’arco degli ultimi trenta mesi. Il periodo precedente è retri-buito dal SSN.

Figura 15.14. Uscite.

Pensioni ordinarie 66,1%Indennità 1,4%Pensione per invalidità 3,7%Ricongiunzioni passive 1,6%Pensioni a superstiti 26,9%Assegni malattia 0,4%

L’indennità giornaliera viene calcolata sulla base dell’ultima retribuzione mensile, limitatamente alle voci retributive fisse e continuative assoggettate a contribuzione ENPAM, nelle seguenti misure:

– 1,80% del compenso mensile per il periodo retribuito al 50% dal SSN (novanta giorni a partire dal centottantunesimo giorno di assenza);

– 3,60% del compenso mensile per i quindici mesi successivi per i quali non è prevista retribuzione a carico del SSN.Per i medici che svolgano attività in ambulatori di più ASL, l’indennità

spetta solo in caso di sospensione dell’attività presso tutti gli ambulatori.

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 499

I riscatti nel Fondo

L’aumento della contribuzione volontaria al Fondo con il riscatto è riferi-bile alle seguenti fattispecie:

– laurea e specializzazione: sei anni del corso di laurea + corso di specializza-zione fino a un massimo di dieci anni (requisiti: età inferiore a sessantacin-que anni, rapporto professionale in essere, anzianità contributiva di almeno dieci anni, non aver presentato domanda per invalidità permanente né aver rinunciato da meno di due anni allo stesso riscatto);

– servizio militare o servizio civile obbligatorio (requisiti: non averlo già riscattato in altre gestioni obbligatorie);

– periodi di attività precontributiva prestati per conto di enti ex mutualistici per i quali non vi è stato versamento contributivo (è in via di esaurimento);

– periodi oggetto di restituzione contributiva;– periodi di sospensione totale dell’attività per maternità, malattia, aggiorna-

mento all’estero ecc.;– allineamento orario a quello medio tenuto durante l’intera attività coperta

da contribuzione effettiva (requisiti: età inferiore a settant’anni, rapporto professionale con gli istituti del SSN ancora in essere, anzianità contri-butiva al Fondo di almeno dieci anni, non aver presentato domanda per invalidità permanente né aver rinunciato da meno di cinque anni allo stesso riscatto);

– allineamento contributivo per i soli iscritti transitati alla dipendenza alla media degli ultimi trentasei mesi coperti da contribuzione (requisiti: età inferiore a settant’anni, rapporto professionale in essere con SSN, anzianità contributiva effettiva al Fondo di almeno cinque anni, non aver presen-tato domanda di prestazione per invalidità permanente, non aver comple-tato versamenti relativi né aver rinunciato da meno di due anni ad analogo riscatto, in regola con pagamenti relativi a precedenti riscatti).

L’onere del riscatto è di importo pari alla riserva matematica, determinata sulla base dei contributi obbligatori, necessaria per la copertura assicurativa del periodo da riscattare, e si ottiene moltiplicando la maggior quota di pensione conseguibile con il riscatto per un coefficiente di capitalizzazione, che aumenta in funzione dell’età anagrafica e dell’anzianità contributiva possedute alla data di presentazione della domanda.

Page 523: Manuale della professione medica

Manuale della Professione Medica500

Dal 2001 i contributi di riscatto sono totalmente deducibili dall’imponibile IRPEF (DLgs 18 febbraio 2000, n. 47).

Si può pagare in un’unica soluzione o in rate semestrali in un numero di anni non superiore a quelli oggetto del riscatto aumentati del 50% e comunque entro i sessantacinque anni per la laurea e specializzazione ed entro la decor-renza della pensione per l’allineamento contributivo, con una maggiorazione pari all’interesse legale pro tempore vigente in ragione d’anno.

Ai fini del calcolo della pensione si tiene conto esclusivamente dei contri-buti effettivamente versati. Il mancato pagamento o il mancato inizio di ver-samento nei termini indicati dall’ENPAM comportano la rinuncia al riscatto.

In caso di invalidità o decesso prima del completamento del versamento rateale, il riscatto viene considerato come interamente effettuato. Il debito resi-duo, senza interessi, viene trattenuto sulle prestazioni in misura non superiore al 20% del loro importo, sino a estinzione.

Con la delibera 15/2009 in attesa di approvazione dei Ministeri Vigilanti è stato introdotto un tetto al beneficio massimo conseguibile di un incremento previdenziale nella misura massima dell’importo pari a quattro volte l’ammon-tare del trattamento pensionistico minimo INPS, annualmente determinato con riferimento alla data di decorrenza della pensione di invalidità o indiretta, mediante trattenuta del 20% sulla prestazione in godimento entro e non oltre la data di compimento del 70° anno di età per gli invalidi e del 75° anno di età per i superstiti.

Qualora nessun versamento sia stato effettuato a titolo di riscatto, in caso di decesso dell’iscritto, i superstiti possono rinunciare al riscatto medesimo all’atto della presentazione della domanda di pensione; l’iscritto riconosciuto invalido può rinunciare al riscatto medesimo, entro sessanta giorni dall’accogli-mento della domanda di invalidità.

L’ammontare del contributo per il riscatto di allineamento orario è di importo pari, per ciascuna ora da riscattare, al contributo medio determinato in base alle aliquote contributive e ai compensi tabellari, maggiorati del 25% in vigore nei tre anni solari che precedono quello di presentazione della domanda.

Le modalità di versamento prevedono o un’unica soluzione ovvero rate semestrali, con la maggiorazione dell’interesse legale pro tempore vigente in ragione d’anno, in un numero di anni non superiore a cinque e comunque entro la data di cessazione del rapporto.

Non è consentita la compensazione del debito residuo con i trattamenti

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 501

definitivi in capitale o in pensione. In ogni caso, per il computo delle ore riscat-tate utili ai fini delle prestazioni, si tiene conto esclusivamente delle ore per le quali il contributo di riscatto sia stato effettivamente versato.

Il Fondo Speciale degli Specialisti e degli Accreditati Esterni

La composizione del Fondo

Gli iscritti attivi al Fondo sono medici e odontoiatri che svolgono attività in strutture accreditate con il Servizio Sanitario Nazionale (studi professionali, associazioni di professionisti, società di persone) ai sensi dell’art. 13 del DLgs 19 giugno 1999, n. 229, e dell’art. 1, comma 40, legge 23 agosto 2004 n. 243.

Alla data del 31 dicembre 2009 risultano essere 5.295, di cui 898 conven-zionati ad personam e 4.397 ex art. 1, comma 39, legge n. 243/04.

I pensionati sono 6.120 di cui 2.923 medici e 3.197 superstiti.Inoltre contribuiscono al Fondo le società professionali mediche e odon-

toiatriche, in qualunque forma costituite (con esclusione di associazioni fra professionisti e società di persone) e le società di capitali che svolgano attività in regime di accreditamento con il Servizio Sanitario Nazionale.

Le pensioni ordinarie erogate dal Fondo alla data del 31 dicembre 2009 sono 6.120, quelle di invalidità 84, ai superstiti 3.197.

Il rapporto tra iscritti e pensionati è 0,87.Il rapporto tra contributi e pensioni è 0,46. Nella figura che segue si può notare nel tempo il rapporto tra contributi e pensioni.

Figura 15.15. Fondo degli Specialisti.

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Manuale della Professione Medica502

La contribuzione al Fondo

A) Branca a prestazione: 12% dei compensi assoggettati a contribuzione ENPAM, di cui:

– il 10% a carico degli istituti del Servizio Sanitario Nazionale;– il 2% a carico del sanitario.

Rientrano nella branca a prestazione i medici esercenti le seguenti spe-cialità:

– fisiokinesiterapia;– medicina nucleare;– analisi (patologia clinica); – radiologia.

Abbattimento dell’imponibile previdenziale nella branca a prestazione:

– laboratorio 30%;– diagnostica radioimmunologica 40%;– radiologia 40%;– medicina nucleare 60%;– fisiokinesiterapia e terapia fisica 30%.

B) Branca a visita: 22% dei compensi assoggettati a contribuzione ENPAM, di cui:

– il 13% a carico degli istituti del Servizio Sanitario Nazionale;– il 9% a carico del sanitario.

Abbattimento dell’imponibile previdenziale nella branca a visita:

– odontostomatologia 30%;– tutte le altre specialità 20%.

C) Società professionali: 2% del fatturato annuo. Il contributo previden-ziale è calcolato decurtando il fatturato annuo delle società, attinente a presta-zioni specialistiche rese nei confronti del SSN e delle sue strutture operative, di una quota di abbattimento in ragione delle percentuali stabilite dai DPR 23 marzo 1988 n. 119 e n. 120.

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 503

Le società professionali provvedono con cadenza annuale, entro il 31 marzo dell’anno successivo a quello di produzione del fatturato, al versa-mento, mediante bonifico bancario, dei contributi dovuti. Entro il medesimo termine, le società trasmettono l’indicazione del fatturato lordo annuo, gli abbattimenti operati ai sensi dei DPR n. 119 e n. 120 del 1988 e l’elenco nominativo dei soggetti che hanno partecipato alla produzione del fatturato, evidenziando per ciascuno l’importo contributivo da accreditare. Le suddette modalità sono state stabilite con delibera del Consiglio di Amministrazione n. 51 del 16 settembre 2005.

In tema di contenzioso giudiziale passivo nei confronti dell’ENPAM a riguardo della legge n. 243/04 art. 1 comma 39, ci sono stati diversi ricorsi proposti dalle società avverso l’obbligo contributivo del 2%, eccependo essen-zialmente rilievi di incostituzionalità della norma nonché censure accessorie circa presunte difficoltà attuative della stessa.

Molti ricorsi presentati hanno visto il rigetto delle domande e sono stati quindi favorevoli all’ENPAM.

Dalla lettura della sentenza si ricava che il giudice ha accolto le tesi difen-sive della Fondazione affermando:

a) nel rapporto giuridico previdenziale le obbligazioni di contribuzione e di prestazione sono ordinate alla soddisfazione di un interesse pubblico costi-tuzionalmente rilevante;

b) non è sindacabile la scelta di politica sociale operata dal legislatore soprat-tutto perché assoggetta a contribuzione un’attività che altrimenti si sottrar-rebbe all’obbligo di finanziamento del sistema di previdenza;

c) il finanziamento previdenziale, come già affermato dalla Corte Costituzio-nale, non deve necessariamente derivare da contributi di soggetti che siano parte di un rapporto di lavoro;

d ) le società obbligate al versamento, in forza dell’accreditamento, sono erogatori di servizi alla salute e l’imputazione del contributo sui singoli medici evita che si percuota un fatturato prodotto in assenza di tali professionisti. La censura di incostituzionalità metterebbe in luce una significativa e ingenerosa sottovaluta-zione del ruolo dei medici nella produzione “certificata” dei servizi alla salute.

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Manuale della Professione Medica504

Figura 15.16. Entrate.

Contributi ordinari 75,2%Contributi di riscatto e relativi interessi 1,9%Contributi per ricongiunzione attiva e relativi interessi 0,7%Contributi da società accreditate con il SSN 21,7%Sanzioni e penalità 0,0%

Le prestazioni del Fondo

Le prestazioni del Fondo sono:

1. la pensione ordinaria di vecchiaia;2. la pensione ordinaria di anzianità;3. la pensione di invalidità assoluta e permanente;4. la pensione indiretta e di reversibilità ai superstiti;5. l’indennità per invalidità temporanea.

I requisiti per la pensione ordinaria di vecchiaia sono:

– cessazione del rapporto:– sessantacinque anni di età;– attualità della contribuzione al sessantacinquesimo anno oppure quindici

anni di contribuzione.

I requisiti per la pensione ordinaria di anzianità sono:

– cessazione del rapporto;– trentacinque anni di contributi (effettivi, riscattati o ricongiunti) con cin-

quantotto anni di età e trent’anni di anzianità di laurea;

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 505

– quarant’anni di contributi (effettivi, riscattati o ricongiunti) e trent’anni di anzianità di laurea.

La pensione ordinaria si calcola con il metodo retributivo di tipo reddituale riferito a tutta la carriera professionale:

€ A CUI SI APPLICA UNA %

base pensionabile x aliquote di rendimento (reddito medio annuo rivalutato) (somma aliquote di rendimento)

Si ricava il reddito medio annuo relativo a ciascun anno di contribuzione, ricostruendolo attraverso i contributi versati e le aliquote contributive corri-spondenti per ciascun anno di versamento (dal 1° aprile 1988 l’aliquota è del 22% per la branca a visita e dal 1° gennaio 1973 l’aliquota è del 12% per la branca a prestazione). Il reddito annuo viene rivalutato del 100% dell’indice ISTAT fino a 38.734,27; l’importo eccedente nella misura del 75%. La somma di tali redditi, divisa per il numero degli anni di contribuzione effettiva, deter-mina la base pensionabile.

Alla base così ottenuta si applicano le aliquote di rendimento relative a ciascun anno di contribuzione e che sono pari al 2,25% (branca a visita) e all’1,225% (branca a prestazione) a decorrere dal 1° aprile 1988, mentre per il periodo pregresso è pari all’1,225% per entrambe le branche.

A partire dal 1° agosto 2006, nei casi di pensionamento a una età superiore a sessantacinque anni e fino ai settant’anni, si applica, in misura doppia del 3%, il coefficiente di rendimento pro tempore vigente, fatto salvo il principio dei diritti acquisiti dagli ultrasessantacinquenni, con applicazione dei coefficienti di maggiorazione riferiti all’età del medico raggiunta alla data del 31 luglio 2010.

La misura della pensione ordinaria di anzianità, che si determina con le stesse modalità di calcolo del trattamento ordinario di vecchiaia, viene calco-lata a sessantacinque anni e poi ridotta in base all’aliquota riferita all’età del medico al raggiungimento dei requisiti.

Le scadenze temporali o finestre di accesso al trattamento pensionistico di anzianità sono previste per legge (legge 27 dicembre 1997, n. 449).

Indicizzazione ISTAT delle pensioni. Dal 1° gennaio 2007 le pensioni di importo complessivo annuo fino a quattro volte il trattamento minimo INPS

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Manuale della Professione Medica506

(23.803,52 anno 2010) vengono maggiorate ogni anno nella misura del 75% dell’indice ISTAT dell’anno precedente. Oltre tale limite l’indicizzazione è pari al 50% dell’indice ISTAT.

Trattamenti ordinari indennità in capitale. L’iscritto ha la facoltà di con-vertire in una indennità in capitale una quota pari, nel massimo, al 15% della pensione.

L’indennità viene erogata solo nel caso in cui l’iscritto conservi una pensione di importo pari almeno al doppio del trattamento minimo INPS (11.901,76 anno 2010).

L’istituto dell’acconto è stato soppresso dall’1/1/98.

Requisiti per la restituzione dei contributi:

– cessazione del rapporto professionale prima del sessantacinquesimo anno di età;– anzianità contributiva inferiore a quindici anni.

La restituzione consiste in un’indennità formata dall’88% dei contributi versati, maggiorati dell’interesse al tasso annuo del 4,50%.

I requisiti per la pensione di invalidità assoluta e permanente sono:

– età inferiore a sessantacinque anni;– inabilità assoluta e permanente all’esercizio della professione medica inter-

venuta prima della cessazione del rapporto e accertata dalla Commissione Medica dell’Or dine Professionale di appartenenza.

La decorrenza della pensione è dal mese successivo alla domanda o, se posteriore, alla cessazione del rapporto.

Il calcolo della pensione è identico a quello del trattamento ordinario con un bonus aggiuntivo pari al numero degli anni mancanti al sessantacinquesimo, fino a un massimo di dieci.

Non è consentita la conversione di parte della pensione in un’indennità in capitale.

In caso di cessazione del rapporto professionale prima del sessantacin-quesimo anno all’iscritto che divenga inabile in modo assoluto e permanente all’esercizio dell’attività professionale spetta il trattamento di pensione ordi-nario.

L’ENPAM effettua controlli periodici per accertare la permanenza dello

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 507

stato di invalidità e in caso di ripresa dell’attività la pensione erogata viene revocata.

Le pensioni erogate vengono indicizzate nella stessa misura prevista per la pensione di vecchiaia.

Il requisito per il riconoscimento della pensione indiretta ai superstiti è il decesso dell’iscritto in costanza di contribuzione al Fondo.

Sono considerati superstiti il coniuge e i figli infraventunenni o infraventi-seienni se studenti e, in loro assenza, ascendenti o collaterali a carico.

La pensione indiretta ai superstiti è un’aliquota della pensione di invalidità che sarebbe spettata all’iscritto ove fosse divenuto totalmente e permanen-temente invalido al momento del decesso e decorre dal mese successivo al decesso.

Le aliquote più frequenti sono:

– solo il coniuge: 70%;– coniuge 60%; 1 figlio 20%; – coniuge 60%; 2 o più figli 40%; – solo un figlio: 80%; – due figli: 90%; – tre o più figli: 100%.

La pensione di reversibilità ai superstiti decorre dal mese successivo al decesso dell’iscritto già pensionato e consiste in un’aliquota della pensione in godimento da parte dell’iscritto all’atto del decesso, utilizzando le stesse ali-quote applicate per la pensione indiretta. Per tutte le prestazioni erogate dai Fondi Speciali vengono effettuate riliquidazioni a seguito dell’accreditamento di contributi in epoca successiva all’ultima erogazione.

Requisiti indispensabili per usufruire dell’indennità per invalidità tempora-nea sono l’inabilità totale e temporanea all’esercizio dell’attività professionale in costanza del rapporto professionale con gli istituti del SSN e un’età inferiore a settant’anni.

Spetta a partire dal trentunesimo giorno dell’insorgenza dello stato di ina-bilità e non può essere corrisposta per un periodo superiore a diciotto mesi. I primi trenta giorni sono scoperti.

Determinazione della prestazione:

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– medici della branca a visita: indennità giornaliera pari a 1/80 del contributo medio annuo di competenza del biennio solare precedente l’anno che com-prende il periodo di invalidità assistita;

– medici della branca a prestazione: indennità giornaliera pari a 1/43 del medesimo contributo come sopra indicato.

Qualora nel biennio di riferimento vi siano periodi di invalidità assistiti, l’indennità subisce un incremento pari al 6% del suo importo per ogni mese di inabilità.

Per entrambe le categorie, l’indennità non può superare 129,11 al giorno.Dopo la ripresa dell’attività l’indennità spetta dopo un nuovo periodo di

carenza di trenta giorni.Tuttavia il nuovo periodo di carenza si applica solo quando fra gli episodi

di malattia sono trascorsi oltre sei mesi di attività lavorativa.

Figura 15.17. Uscite.

Pensioni ordinarie 64,2%Indennità 3,1%Pensione per invalidità 1,9%Ricongiunzioni passive 0,1%Pensioni a superstiti 29,7%Assegni malattia 0,1%Recupero prestazioni esercizio corrente 0,7%

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 509

I riscatti nel Fondo

L’aumento della contribuzione volontaria al Fondo con il riscatto è riferi-bile alle seguenti fattispecie:

– laurea e specializzazione: sei anni del corso di laurea + corso di specializza-zione fino a un massimo di dieci anni (requisiti: età inferiore a sessantacin-que anni, rapporto professionale in essere, anzianità contributiva di almeno dieci anni, non aver presentato domanda per invalidità permanente né aver rinunciato da meno di due anni allo stesso riscatto);

– servizio militare o servizio civile obbligatorio (requisiti: non averlo già riscattato in altre gestioni obbligatorie);

– periodi di attività precontributiva prestati per conto di enti ex mutualistici per i quali non vi è stato versamento contributivo (è in via di esaurimento).

L’onere del riscatto è di importo pari alla riserva matematica, determinata sulla base dei contributi obbligatori, necessaria per la copertura assicurativa del periodo da riscattare, e si ottiene moltiplicando la maggior quota di pensione conseguibile con il riscatto per un coefficiente di capitalizzazione, che aumenta in funzione dell’età anagrafica e dell’anzianità contributiva possedute alla data di presentazione della domanda.

Dal 2001 i contributi di riscatto sono totalmente deducibili dall’imponibile IRPEF (DLgs 18 febbraio 2000, n. 47).

Si può pagare in un’unica soluzione o in rate semestrali in un numero di anni non superiore a quelli oggetto del riscatto aumentati del 50% e comunque entro i sessantacinque anni per la laurea e specializzazione, con una maggiora-zione pari all’interesse legale pro tempore vigente in ragione d’anno.

Ai fini del calcolo della pensione si tiene conto esclusivamente dei contri-buti effettivamente versati. Il mancato pagamento o il mancato inizio di ver-samento nei termini indicati dall’ENPAM comportano la rinuncia al riscatto.

In caso di invalidità o decesso prima del completamento del versamento rateale, il riscatto viene considerato come interamente effettuato. Il debito resi-duo, senza interessi, viene trattenuto sulle prestazioni in misura non superiore al 20% del loro importo, sino a estinzione.

Qualora nessun versamento sia stato effettuato a titolo di riscatto, in caso di decesso dell’iscritto, i superstiti possono rinunciare al riscatto medesimo all’atto della presentazione della domanda di pensione; l’iscritto riconosciuto

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Manuale della Professione Medica510

invalido può rinunciare al riscatto medesimo, entro sessanta giorni dall’accogli-mento della domanda di invalidità.

Aliquota Modulare su base volontaria

Il nuovo Accordo Collettivo Nazionale per la disciplina dei rapporti coi medici di medicina generale, reso esecutivo con la ratifica della Conferenza Stato-Regioni del 29 luglio 2009 prevede, con decorrenza 1° gennaio 2008, la rideterminazione del contributo previdenziale dovuto al Fondo dei medici di medicina generale da parte delle categorie dei medici dell’assistenza primaria, della continuità assistenziale e dell’emergenza territoriale e precisamente l’ele-vazione del contributo dal 15% al 16,50% (con esclusione dei pediatri per i quali rimane invariato) di cui il 10,375 a carico dell’azienda e il 6,125 a carico del medico. L’ENPAM nel recepire il nuovo Accordo Collettivo ha di conse-guenza modificato il coefficiente di rendimento passando dal precedente 1,50% all’1,55% con decorrenza dal 1° gennaio 2008 (in attesa di approvazione dei Ministeri Vigilanti). Il nuovo Accordo Collettivo Nazionale della Pediatria di libera scelta, invece, ha lasciato invariata la aliquota contributiva (15%), e per-tanto il coefficiente di rendimento è stato ridotto all’1,409%. I nuovi Accordi Collettivi in parola, però, hanno introdotto, quale assoluta novità, rispetto alle precedenti contrattazioni, l’Istituto dell’aliquota modulare su base volontaria: l’iscritto, fermo restando la quota di contributo a carico della Azienda, potrà scegliere di elevare a partire dal 1° gennaio 2009 la quota contributiva a proprio carico di un punto percentuale fino ad un massimo di cinque punti. Tale facoltà riconosciuta soltanto ad alcune categorie professionali (pediatri di libera scelta, medici addetti all’assistenza primaria, alla continuità assistenziale e all’emergenza sanitaria territoriale) è esercitabile al massimo una volta all’anno, entro il 31 gen-naio dell’anno di riferimento del contributo. Le domande presentate oltre tale termine devono intendersi riferite ai contributi dovuti per l’annualità successiva. In assenza di comunicazione di variazione, l’aliquota prescelta rimane confer-mata anche per gli anni successivi.

Tra i vantaggi offerti dall’aliquota modulare vanno sottolineati:

– la modalità di versamento (mensile effettuato direttamente dalla ASL);– nessun costo aggiuntivo di commissione o gestione;– totale deducibilità fiscale.

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 511

L’ENPAM, a fronte di questo nuovo istituto, ha modificato il proprio regolamento prevedendo che i suddetti versamenti vengano memorizzati sulle posizioni previdenziali individuali in modo distinto e separato da quelli deri-vanti dalla contribuzione obbligatoria con riconoscimento di un rendimento identico e calibrato a quello riconosciuto ai contributi obbligatori in ciascun anno di riferimento.

In particolare, dai contributi modulari si generano tanti spezzoni di pen-sione quanto sono gli anni con versamento, ovviamente rivalutati annualmente come per la pensione obbligatoria, che all’atto della pensione finale verranno sommati fra loro per costituire una pensione aggiuntiva a quella dei contributi obbligatori. Viene chiarito anche che i riscatti e le ricongiunzioni non esplicano alcun effetto su questa quota aggiuntiva di pensione legata alla contribuzione modulare e che non si estendono gli effetti del raddoppio delle aliquote di rendimento per i periodi oltre il sessantacinquesimo anno.

La ricongiunzione

L’istituto della ricongiunzione sia attiva (contributi verso l’ENPAM che poi eroga la prestazione) sia passiva (contributi in uscita dall’ENPAM) opera tra il Fondo di Previdenza Generale, i Fondi Speciali gestiti dall’ENPAM e i Fondi gestiti da altri enti e casse di previdenza.

La ricongiunzione dei periodi assicurativi ai fini previdenziali per i liberi professionisti di cui alla legge 5 marzo 1990, n. 45, consente il trasferimento dei contributi da gestioni previdenziali per il lavoro dipendente (INPS e INPDAP) alle Casse di previdenza dei liberi professionisti (nel nostro caso all’ENPAM) e viceversa.

Il trasferimento della posizione contributiva avviene dalla gestione per la quale l’attività lavorativa è cessata alla gestione in cui la posizione è attiva e alimentata.

La ricongiunzione dall’INPDAP o dall’INPS all’ENPAM si può effet-tuare presso il Fondo di Previdenza Generale o preferibilmente presso uno dei Fondi Speciali ENPAM quando l’iscritto svolge attività convenzionate con il Servizio Sanitario Nazionale ed ha quindi una posizione contributiva attiva presso il Fondo Speciale MMG, il Fondo Ambulatoriale o il Fondo Specialisti Esterni.

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Manuale della Professione Medica512

La ricongiunzione può essere effettuata anche trasferendo una posizione contributiva da uno o più Fondi Speciali di Previdenza al Fondo di Previdenza Generale, o viceversa.

La ricongiunzione presso il Fondo di Previdenza Generale si può fare sol-tanto nell’ambito della “Quota A” di tale Fondo, allo scopo di conseguire a 65 anni, con i contributi da ricongiungere, una più elevata misura della pensione di base.

Nel Fondo Generale i periodi contributivi anche relativi a riscatti esistenti presso altre gestioni previdenziali, compresi i Fondi Speciali, possono essere ricongiunti per aumentare la pensione della “Quota A” purché si riferiscano a una posizione contributiva non più attiva. Se i periodi sono coincidenti con anni contributivi già esistenti nel Fondo, determinano un incremento del red-dito medio annuo per il calcolo della pensione; se sono antecedenti l’iscrizione al Fondo Generale, aumentano l’anzianità contributiva utile.

Nei Fondi Speciali sono parimenti ricongiungibili i periodi contributivi, anche relativi a riscatti esistenti presso altre gestioni previdenziali, compresi gli altri Fondi Speciali purché si riferiscano a un’attività cessata con posizione contributiva non più attiva presso il fondo o l’ente da cui devono essere tra-sferiti, e possono aumentare l’anzianità contributiva se relativi a periodi non coincidenti con i contributi del Fondo attivo e in ogni caso aumentano l’entità della pensione finale.

La ricongiunzione invece all’INPDAP (o all’INPS) di periodi e contributi pregressi versati ai Fondi Speciali ENPAM può essere richiesta dai medici dipendenti iscritti a tali Istituti e può risultare molto utile, per acquisire presso tali Istituti il numero di anni di contribuzione occorrenti ad anticipare il pensionamento ovvero per raggiungere quel requisito minimo di almeno 18 anni prima del 1996, indispensabile a ottenere che il calcolo della pensione INPDAP o INPS sia determinato esclusivamente con il metodo retributivo anziché misto retributivo-contributivo.

Nel caso di ricongiunzione in base alla legge 45/1990 dall’INPDAP o dall’INPS all’ENPAM e viceversa, il costo della ricongiunzione dei contributi trasferiti dalla gestione o dalle gestioni previdenziali di origine è a carico del medico ed è pari alla riserva matematica della quota di maggior pensione ottenibile con l’aggiunta dei periodi ricongiunti cui vanno sottratti i contri-buti trasferiti maggiorati dell’interesse composto al tasso annuo del 4,5%. La

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 513

ricongiunzione non consiste quindi nel semplice trasferimento,allapari, dei contributi da una gestione all’altra, ma in una sorta di riscatto del periodo assicu-rativodatrasferire, presso l’istituto previdenziale di appartenenza al momento della domanda. Su richiesta dell’iscritto, infatti, l’ente di destinazione dei con-tributi calcola, secondo il proprio ordinamento pensionistico, la quota vir-tuale di maggiore pensione ottenibile con l’aggiunta dei periodi contributivi da trasferire, ne stabilisce secondo le proprie tabelle di capitalizzazione la riserva matematica e, sottraendo da questa l’ammontare dei contributi riva-lutati ricongiungibili, determina l’eventuale onere differenziale L’eventuale differenza tra riserva matematica e contributi rivalutati trasferiti è dovuta integralmente dall’iscritto; è rateizzabile in un numero di mesi pari alla metà di quelli del periodo ricongiunto, ed è totalmente deducibile dall’imponibile fiscale. L’accettazione della ricongiunzione si concretizza con il pagamento delle prime tre rate entro 60 giorni; in caso di interruzione dei pagamenti rate-ali la ricongiunzione si considera annullata e l’ENPAM procederà alla resti-tuzione delle somme già versate al netto degli interessi di dilazione. Qualora il richiedente, ricevuta comunicazione, non dà seguito alla proposta, potrà presentare la nuova richiesta dopo 10 anni.

La totalizzazione

Sempre più spesso nel mondo sanitario e medico si assiste a variazione della tipologia del lavoro svolto; molte figure professionali modificano la loro attività nel corso della vita lavorativa. Dal rapporto privato a quello pubblico e viceversa, dalla dipendenza alla libera professione, l’incostanza della attività si riflette sul sistema previdenziale. Contributi finiscono in diversi istituti pubblici o enti privatizzati, spesso senza raggiungere, in uno di essi, i requisiti per il trat-tamento pensionistico. A cercare di soddisfare questa non secondaria necessità dovrebbe pensarci la cosiddetta totalizzazione che rappresenta un istituto pre-videnziale che permette ai titolari di più posizioni contributive in enti diversi (INPS, INPDAP, casse professionali) di sommare presso un unico ente, gratu-itamente i diversi periodi assicurativi non coincidenti, per ottenere una prestazione previdenziale, che altrimenti richiederebbe il ricorso all’istituto, oneroso, della ricongiunzione. In questo modo si possono raggiungere i requisiti minimi per la pensione di vecchiaia, anzianità o inabilità. Tali periodi devono essere non

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Manuale della Professione Medica514

coincidenti ai fini del conseguimento del diritto alla totalizzazione; invece ai fini della misura (entità) della pensione periodi coincidenti saranno tuttavia considerati per intero.

Il legislatore ha inteso valorizzare periodi contributivi che, non essendo utilizzabili o utilizzati per conseguire un trattamento previdenziale, potevano considerarsi a buona ragione previdenzialmente “silenti”, e con il DLgs 2 feb-braio 2006, n. 42, recante “Disposizioni in materia di realizzazione dei periodi assicurativi”, ha avviato a soluzione un problema particolarmente sentito dalle categorie dei liberi professionisti che, più dei lavoratori dipendenti, possono cambiare lavoro nel corso della carriera professionale

La disciplina contenuta nel decreto legislativo citato, è stata, però, di recente modificata e migliorata dalla legge 247/2007, e l’iscritto che può contare su periodi di contribuzione presso Gestioni previdenziali diverse (ad esempio, INPS, INPDAP, ENPAM) può chiedere la pensione in regime di totalizza-zione, nelle seguenti ipotesi:

– pensionedi vecchiaia in regimedi totalizzazione. Si può richiedere al 65° anno qualora i periodi non coincidenti di contribuzione esistenti presso le diverse gestioni, sommati tra loro (cioè totalizzati), raggiungano almeno 20 anni complessivamente;

– pensionedianzianitàinregimeditotalizzazione. Si può richiedere prima del 65° anno, se la sommatoria dei periodi non coincidenti raggiunge o supera com-plessivamente i 40 anni;

– pensionediinabilitàinregimeditotalizzazione. Si può richiedere a qualsiasi età, a condizione che risultino raggiunti, con la sommatoria dei periodi non coincidenti, i requisiti contributivi minimi previsti da ciascuna gestione per tale tipo di prestazione.

Fino a tutto il 2007 non poteva accedere alla pensione totalizzata chi fosse già titolare di altra pensione e pertanto molti medici, poiché già fruitori a 65 anni della pensione del Fondo Generale, non hanno potuto totalizzare periodi di contribuzione esistenti altrove. A partire dal 2008, quest’ultima condizione è stata eliminata e la pensione in regime di totalizzazione è diventata mag-giormente accessibile, anche perché dallo stesso anno il valore minimo degli spezzoni contributivi richiesto per totalizzare è stato portato a tre anni, rispetto al minimo di sei anni necessario fino al 2007.

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La richiesta di pensione totalizzata si pone in alternativa rispetto alla ricon-giunzione, per cui ove quest’ultima operazione fosse in corso, deve essere rinunciata e annullata contestualmente alla domanda di totalizzazione.

La domanda si presenta all’Ente presso cui da ultimo sono stati o sono versati i contributi previdenziali, il quale assume l’onere di istruire la pratica e di chiedere alle altre Gestioni coinvolte nella totalizzazione (secondo le indi-cazioni risultanti dalla domanda), i periodi da totalizzare, la verifica dei requisiti ed il conteggio della quote di pensione di rispettiva competenza. Completata l’istruttoria, tale Ente ne comunica i risultati in tutti i dettagli all’INPS, Istituto al quale è stato attribuito dalla legge, in forma esclusiva, il compito di pagare la pensione totalizzata.

La previdenza complementare

La previdenza complementare è stata introdotta nell’ordinamento previ-denziale italiano a seguito della riforma del sistema previdenziale in tre pilastri, funzionale all’esigenza di garantire l’integrazione pensionistica facoltativa da parte di organizzazioni di rappresentanza lavorativa (2° pilastro) o dei singoli lavoratori (3° pilastro) a fronte della progressiva riduzione delle coperture pen-sionistiche da parte della previdenza obbligatoria di base (1° pilastro) determi-nata dagli andamenti demografici e dall’aumento dell’aspettativa di vita della popolazione.

Le forme pensionistiche complementari sono attualmente disciplinate dal DLgs n. 252/05 che, attuando la delega della legge n. 243/200, ha abrogato il previgente DLgs n. 124/93 innovandone la disciplina soprattutto per quanto riguarda il sistema di finanziamento.

L’entrata in vigore del DLgs n. 252/05 – in origine prevista per il 1° gen-naio 2008 – è stata anticipata al 1° gennaio 2007 dalla legge Finanziaria 2007.

A seguito di questa anticipazione applicativa e sulla base della normativa in vigore dal 1° gennaio 2007 la Fondazione ENPAM è stata abilitata all’istitu-zione di una forma pensionistica complementare .

Per istituire il Fondo Pensione, l’ENPAM ha optato per la scelta della tra-sformazione di un fondo esistente, già operante per parte delle categorie di iscritti alla Fondazione, e cioè il Fondo Dentisti, in un nuovo fondo, di cui l’ENPAM è diventato fonte istitutiva.

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Nella seduta del 13 aprile 2007 il Consiglio di Amministrazione dell’EN-PAM ha deliberato la trasformazione del preesistente Fondo Dentisti in Fondo Complementare chiuso denominato “Fondo Sanità”.

Il 16 giugno 2007 il Fondo Dentisti diventa Fondo Pensione Complemen-tare, a contribuzione definita, limitato alla categoria professionale degli eser-centi le professioni sanitarie.

Nella delibera in questione è stato altresì stabilito di approfondire la possi-bilità di soluzioni statutarie che, senza ritardare l’operatività del Fondo neoisti-tuito, consentano di raccogliere anche l’adesione degli appartenenti a partico-lari categorie sanitarie.

Si completa così un percorso che offre agli iscritti della Fondazione la possibilità di incrementare facoltativamente la propria rendita pensionistica utilizzando uno strumento di categoria la cui gestione rientrerebbe in quelle funzioni integrative che la Fondazione ENPAM si è intesa dare nell’interpreta-zione della sua funzione pubblica.

In tal modo si conciliano sia l’essenza istitutiva stessa dell’Ente, che deriva dall’art. 38 della Costituzione, protesa alla tutela del rischio per il lavoratore di non poter più mantenere il proprio tenore di vita per invalidità o vecchiaia, sia l’esigenza di dotarsi di strumenti e metodi di attività più funzionali ed effi-cienti, nell’obiettivo di una garanzia responsabile che vada al di là del semplice concetto di pensione o sussidio assistenziale in caso di fondato bisogno.

“Fondo Sanità”

Fondo Sanità rappresenta quindi per l’ENPAM il 2° pilastro, ossia un sistema di previdenza complementare collettiva a capitalizzazione dove ognuno rimane titolare del patrimonio versato e del rendimento prodotto dagli investimenti.

Destinato ai Medici ed Odontoiatri che svolgono la libera professione, ai Medici convenzionati, ai Medici ed Odontoiatri dipendenti privati che hanno la possibilità di conferire il TFR, limitatamente alla quota di loro spettanza, ai fami-liari fiscalmente a carico, ha visto l’adesione dei Farmacisti iscritti all’ENPAF, dei Veterinari iscritti al SIVeMP, e degli infermieri iscritti all’ENPAPI e all’IPASVI.

“Fondo Sanità” è un Fondo complementare chiuso a contribuzione defi-nita; l’adesione avviene mediante versamento di una quota “una tantum” di € 26; il contributo, definito in percentuale del reddito imponibile, è libero e

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può essere variato di anno in anno; il versamento può avvenire annualmente, semestralmente o mensilmente; la gestione degli investimenti dei contributi è organizzata in multi comparto e l’aderente in base ad età, disponibilità finan-ziarie e propensione al rischio può scegliere di anno in anno il comparto di investimento che meglio risponde alle sue esigenze previdenziali .

La gestione delle risorse, nei Fondi negoziali, non è affidata al C.d.A. ma a gestori finanziari professionali, mediante apposite convenzioni; il C.d.A. può, però, cambiare gestore se insoddisfatto. Ogni movimento è sottoposto alla Commissione di Vigilanza sui Fondi Pensione.

Il montante maturato potrà essere interamente convertito in rendita vitali-zia, oppure essere liquidato sotto forma di capitale sino al 50% e la rimanente parte convertita in rendita.

Prima del pensionamento, sulle somme accumulate si può richiedere antici-pazioni per spese sanitarie, acquisto prima casa, ristrutturazione.

Oltre che strumento previdenziale e finanziario per ampliare con una rendita o un capitale la propria pensione, gode di un innegabile ed incentivante vantaggio fiscale; infatti il contributo è deducibile sino al 12% del reddito dichiarato, con un limite massimo di € 5.164,57; inoltre, la tassazione sulla prestazione (pensione o capitale) parte dal 15% con un abbattimento dello 0,30% annuo a partire dal 15° anno di contribuzione. Tassazione agevolata godono anche le anticipazioni.

Riscatto di laurea, riscatto di allineamento o Fondo Pensione

La reale convenienza dei diversi tipi di riscatto possibili in ENPAM, da quello degli anni di laurea a quelli di specializzazione, di servizio militare e di allineamento contributivo, e il raffronto con la possibilità di investire in un Fondo Pensione sono sempre più spesso oggetto di discussione tra gli iscritti e tra i loro consulenti, dato che tutti configurano l’obiettivo dell’incremento della propria pensione finale.

La convenienza non può prescindere da un’adeguata valutazione della spe-cifica situazione previdenziale dell’iscritto determinata dalle sue caratteristiche ed esigenze personali: l’età, la composizione familiare, l’attuale posizione pre-videnziale all’ENPAM o in altra previdenza, la sua disponibilità economica, la propensione al rischio, tanto per citarne alcune.

Proprio per queste variabili scaturisce l’impostazione della Fondazione di

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promuovere negli iscritti una maggior attitudine a farsi per tempo una corretta analisi previdenziale, in modo da permettere a ognuno la costruzione di una pensione su misura, pagata nel corso della vita lavorativa in base alle proprie mutevoli disponibilità ed esigenze.

È in questi momenti che generalmente si realizza quanto sarebbe stato utile un minimo di formazione previdenziale nel corso di laurea in medicina od odontoiatria.

Prima dell’analisi comparata di questi istituti è necessaria una rapida disa-mina delle loro caratteristiche specifiche, dato che sono profondamente diversi e non sempre confrontabili su parametri omogenei.

Per valutare il riscatto o un fondo pensione complementare in maniera completa, si deve innanzitutto partire dal concetto che si tratta di un investi-mento previdenziale e non finanziario, per cui una comparazione diretta con l’investimento in Titoli di Stato, azioni, obbligazioni o quant’altro di finanzia-rio non è mai di facile esecuzione.

Inoltre va precisato che quando si parla di interessi previdenziali si vuol intendere che al momento del pensionamento la somma di tutti i contributi versati avrà reso tale percentuale di interesse, ma, a differenza dell’interesse bancario, non si avrà sempre la disponibilità del capitale versato.

Il riscatto degli anni di laurea ha l’effetto di aumentare l’entità della pen-sione di vecchiaia di una misura massima pari attualmente per esempio al 9,3% nel Fondo Medicina Generale (1,55% annuo x 6 anni di laurea).

Anche il riscatto di allineamento, agendo sull’altro elemento con il quale si cal-cola la pensione, ossia sulla “base pensionabile”, determina una innegabile maggio-razione di pensione, senza però determinare un aumento di anzianità contributiva.

È importante sottolineare l’aspetto solidaristico dell’istituto del riscatto: in caso di invalidità o premorienza dopo aver accettato la proposta di riscatto, pur senza ancora aver pagato alcuna rata, il calcolo della pensione viene fatto come se il riscatto fosse avvenuto integralmente e il contributo di riscatto mancante – senza aggravio di interessi – verrà trattenuto dalla pensione nella misura massima del 20% del suo importo fino all’estinzione del debito.

Fermo restando l’aumento dell’importo della pensione, con il riscatto degli anni di laurea è reso possibile anticipare la decorrenza del pensionamento per anzianità contributiva, che attualmente nel Fondo Speciale della Medicina

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Generale prevede i requisiti minimi di trent’anni di laurea e di trentacinque anni di versamenti effettivi o riscattati con almeno cinquantotto anni di età, oppure quarant’anni di versamenti effettivi o riscattati a prescindere dall’età anagrafica.

Questo secondo vantaggio dato dal riscatto, che spesso è il vero motivo di interessamento del medico a questo istituto, deve però essere valutato con una certa cautela prospettica, perché in caso di modifiche dell’ordinamento gene-rale della previdenza pubblica in senso di restrizione della possibilità di usufru-ire della pensione di anzianità contributiva anche i Fondi ENPAM sarebbero costretti a recepire la norma, di fatto incidendo negativamente sulle aspettative di chi abbia già aderito al riscatto con lo scopo principale di pensionarsi prima.

Se quest’ultimo è comunque l’interesse primario, è bene in tal caso far notare come sia possibile riscattare i soli anni o mesi utili per rendere coinci-denti i requisiti di anzianità di laurea e di contribuzione minima – effettiva e riscattata – per maturare il diritto alla pensione di anzianità contributiva sfrut-tando le regole vigenti.

Il costo del riscatto (anni di laurea e/o allineamento), totalmente deducibile ai fini fiscali e rateizzabile al tasso vigente di interesse legale, è commisurato all’età e sesso dell’iscritto e alla sua contribuzione al momento della domanda.

Versando un contributo di importo pari alla riserva matematica necessaria per la copertura assicurativa del periodo da riscattare, il richiedente paga anti-cipatamente il maggior vantaggio in termini di prestazione finale ottenuto con il riscatto, in una misura, appunto, che tiene conto di quanto abbia già versato e della sua aspettativa di vita statisticamente determinata per età e sesso al momento della domanda.

In pratica, prima si fa la domanda di riscatto meno questo costa; per cui è conveniente, appena maturato il requisito minimo di contribuzione al Fondo, dieci anni per il riscatto degli anni di laura e cinque per il riscatto di allineamento, presentare la domanda, che non è vincolante, ma fissa a quella data i termini del calcolo del contributo dovuto, per poi in seguito valutare la proposta di riscatto fornita dagli uffici dell’Ente, riservandosi o meno di accettare.

Per esaminare gli svantaggi del riscatto rispetto a un investimento nel Fondo Pensione, a prescindere dai termini di un suo effettivo rendimento, si deve appunto considerare la non trasferibilità sull’asse ereditario o testamenta-

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rio della pensione se non per la sua – ridotta – quota capitalizzabile (15%), e il fatto che la restituzione dei contributi capitalizzati avviene con pensioni men-sili che solo nel tempo permettono il recupero dell’investimento effettuato.

Un Fondo Pensione Complementare invece è uno strumento previdenziale e finanziario, incentivato fiscalmente, che ha lo scopo principale di garantire una rendita integrativa alla pensione che scaturirà dal regime previdenziale obbligatorio cui si appartiene.

È un “salvadanaio” finalizzato alla costituzione di una rendita di scorta che investe in titoli azionari e obbligazionari con la possibilità di scelta tra diverse linee di investimento a differente profilo rischio/rendimento, che gode della deducibilità dei premi dall’imponibile fiscale fino al 12% del reddito annuo con un massimo di 5.164 Euro, e che è assoggettato a una tassazione agevolata (11%) dei rendimenti annuali maturati.

I Fondi Pensione si dividono in Fondo chiuso o negoziale e Fondo aperto.Il Fondo chiuso è riservato ad una sola categoria ossia ai lavoratori di uno

stesso comparto, mentre il Fondo aperto non ha vincoli di riserva e tutti pos-sono aderire.

I Fondi Pensione possono essere divisi anche tra quelli a contribuzione definita (la maggior parte degli attualmente esistenti) e quelli a prestazione defi-nita: nei Fondi a contribuzione definita il contributo viene stabilito a priori da chi effettua il versamento, e opportunamente investito darà luogo a una pre-stazione non nota a priori che in sostanza esprimerà la capacità dell’investitore; nei Fondi a prestazione definita viene stabilito l’obiettivo di una prestazione a scadenza e il contributo verrà poi commisurato alla performance annuale del gestore.

I versamenti annuali nei Fondi aperti a contribuzione definita sono liberi, modificabili e facoltativi, configurando quindi una notevole flessibilità in entrata.

A livello di investimento, quasi tutti i Fondi offrono la possibilità dinamica di usufruire di vari comparti per la gestione dei versamenti: dai più tranquilli di tipo monetario, buoni per consolidare i risultati o per particolari turbolenze dei mercati, sino agli investimenti a diverso bilanciamento tra titoli azionari e obbligazionari, valutabili con specifici benchmark di riferimento e selezionabili in base alla propria convenienza o predisposizione al rischio.

Dopo almeno otto anni di contribuzione è possibile ottenere un’anticipa-

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zione di capitale sulla posizione maturata per esigenze particolari come spese sanitarie o acquisto prima casa, per sé o per i figli.

Sono altresì possibili coperture assicurative accessorie come in caso di morte o di invalidità totale e permanente.

In tema di prestazioni, erogabili sotto forma di rendita vitalizia o di capitale per un massimo della metà del montante maturato, queste si ottengono sia per vecchiaia al compimento dell’età pensionabile richiesta dal regime previdenziale pubblico cui si appartiene (per i medici sessantacinque anni) con almeno cinque anni di iscrizione al Fondo, sia per anzianità contributiva con almeno quindici anni di iscrizione al Fondo, cessazione dell’attività lavorativa ed età non inferiore a cinquantacinque anni. La prestazione finale viene sempre erogata da una com-pagnia assicurativa con cui il gestore stipula un accordo secondo il quale il mon-tante patrimoniale maturato viene trasferito quale premio unico per acquistare il flusso di reddito annuo che costituisce la pensione complementare.

Questa rendita è disponibile in varie formule: vitalizia rivalutabile da subito, ma anche certa per cinque o dieci anni, e poi vitalizia; inoltre potrà essere reversibile, in tutto o in parte, a favore di un’altra persona.

Il trattamento fiscale favorevole, come già detto, è giustificato dall’obiettivo di incentivare la costituzione di una rendita integrativa alla pensione obbliga-toria, per cui è stata prevista la totale deducibilità dei versamenti dal reddito imponibile fino al 12% del reddito per un massimo di 5.164 Euro all’anno, mentre la gestione è soggetta a un’imposta pari all’11% del risultato netto maturato ogni anno, e la rendita è imponibile ai fini fiscali e sottoposta ad ali-quota progressiva di tassazione solo per la quota corrispondente ai contributi dedotti, mentre la sua rivalutazione è tassata al 12,50%.

Va notato come tale vantaggio fiscale si sommi a quello di deducibilità totale dell’istituto del riscatto in ENPAM

Volendo continuare l’analisi comparata tra riscatto e Fondo Complemen-tare non può sfuggire la diversità tra Fondo chiuso e Fondo aperto che non è solo lessicale, ma sostanziale.

Rispetto al riscatto vanno evidenziate almeno tre grandi differenze con i Fondi complementari aperti: la prima riguarda il gestore privato che ovvia-mente a differenza dell’ENPAM agisce per lucro, la seconda considera il diverso trattamento fiscale, mentre la terza riguarda il rischio di investimento

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che va totalmente a carico dell’investitore anche nelle forme a prestazione garantita, dato che il costo di farsi carico del rischio da parte del gestore viene fatto scontare in anticipo nei costi di caricamento dell’investimento.

Vanno inoltre sempre tenuti presenti nella voce “costi a carico” alcuni pas-saggi tecnici cruciali, che sono il costo di caricamento cui viene sottoposto il contributo – in altre parole quanto del versato viene realmente investito e quanto va al gestore –, l’aliquota di retrocessione applicata al risultato di gestione – quanto effettivamente va all’investitore e quanto va al gestore dello stesso – e le modalità attuariali con le quali il montante patrimoniale maturato viene usato come premio unico per una polizza assicurativa che garantisce la rendita integrativa, dato che l’aspettativa di vita viene calcolata in quel momento e non dall’inizio dell’investimento, configurando quindi un costo accessorio. I Fondi aperti infine, sono promossi direttamente dai gestori suddetti senza necessità di accordi tra le parti sociali, senza la possibilità per il sottoscrittore di inter-ferire sulla scelta degli investimenti; si rivolgono in particolare ad autonomi e liberi professionisti e, più in generale, permettono l’adesione individuale a tutti coloro che non hanno un Fondo Pensione aziendale o di categoria.

I Fondi chiusi invece configurano uno o più investitori istituzionali ed è il Consiglio di Amministrazione liberamente eletto dai delegati in rappre-sentanza degli iscritti, che decide le politiche degli investimenti da conferire obbligatoriamente per legge a un gestore scelto all’uopo con apposita conven-zione tra quelli abilitati alla gestione, inoltre non agendo per lucro, non avendo costi da corrispondere a produttori e venditori, le gestioni amministrative e finanziarie costano meno e i rendimenti finali netti sono più elevati. Ed infatti Fondo Sanità, strumento istitutivo di Fondo Pensione Complementare chiuso dell’ENPAM senza scopo di lucro, ha costi di gestione finanziaria molto bassi, compresi tra lo 0,10% e lo 0,15% (rispetto al 2-3% degli altri fondi).

Appare evidente come il fatto positivo della totale autonomia di gestione del Fondo nella scelta dell’investimento debba però scontare, seppure conte-nuti, i costi istituzionali dell’adeguata rappresentatività degli iscritti negli orga-nismi statutari e quelli dell’autonoma amministrazione, per cui solo una platea numerosa di iscritti (Fondo Sanità ha questa potenzialità perché si rivolge a tutti gli esercenti l’attività sanitaria) ne può garantire l’ammortamento, riducen-doli a costi irrisori, senza penalizzare la redditività dell’investimento.

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L’analisi forzatamente sommaria delle caratteristiche salienti dei due istituti in questione induce alcune considerazioni sulla priorità di accesso all’investi-mento in caso di disponibilità economica limitata.

Per prima cosa, il riscatto degli anni di laurea, facendo parte della previ-denza obbligatoria, il cosiddetto 1° pilastro, cui sono subordinate le previ-denze complementari e integrative del 2° e 3° pilastro, permette, alla luce delle attuali normative, di andare in pensione nel Fondo Medici di Medicina Gene-rale prima dei sessantacinque anni, determinando quella cessazione dell’attività lavorativa che è requisito essenziale per usufruire della prestazione per anzia-nità del Fondo Pensione purché si sia iscritti da almeno quindici anni.

La caratteristica vincolante propria del Fondo Pensione è l’obbligata per-manenza nella gestione, con conseguente immobilizzo del capitale investito, fino al raggiungimento dei requisiti pensionistici pubblici, che di fatto condi-zionano l’opzione di uscita dal sistema.

Di converso questo è anche il motivo per cui è stato assegnato al Fondo Pensione un vantaggioso trattamento fiscale.

Sempre dal punto di vista fiscale, alla scadenza è poco conveniente incas-sare sotto forma di capitale parte del montante maturato dalla gestione obbli-gatoria (massimo il 15%) in quanto gravato di tassazione secondo le normali aliquote marginali IRPEF; mentre nel Fondo Complementare è permesso incassare sotto forma di capitale sino al 50%, su cui grava una tassazione age-volata che va dal 15% sino al 9%.

In pratica, il Fondo Pensione deve essere visto come lo strumento per costruire una rendita complementare alla pensione del regime obbligatorio, a essa collegata e subordinata anche nei termini temporali.

Dalla sua parte, oltre al vantaggio fiscale (con la ragionevole speranza che nei prossimi anni venga accentuata la detassazione sulla prestazione finale e sui ren-dimenti annuali), il Fondo Pensione annovera alcune caratteristiche interessanti:– immediata possibilità di accedervi, mentre per il riscatto degli anni di laurea

sono richiesti almeno 10 anni di iscrizione al fondo e 5 per il riscatto di allineamento;

– grande flessibilità nei versamenti, che sono liberi, facoltativi e variabili; – modalità di versamento, annuale, semestrale o mensile; – facoltà ogni anno di indirizzare l’investimento su uno o più comparti;

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– possibilità di poter contribuire anche dopo il pensionamento;– possibilità di costruire una posizione previdenziale ai familiari fiscalmente

a carico con godimento del beneficio fiscale da parte del medico;– quota in capitale sino al 50% del montante maturato che sconta lo stesso

vantaggio fiscale della pensione (dal 15% sino al 9%):– investimento finanziario gestibile, modificabile e controllabile;– un’aspettativa nel lungo periodo di risultati interessanti;– una buona modulabilità sia della determinazione della rendita in uscita, sia

dei beneficiari;– da ultimo, pur se non può garantire nulla sul futuro, il confronto retrospet-

tivo sui dati del mercato degli ultimi anni che vedono i Fondi Pensione vin-centi nei confronti degli altri vari prodotti previdenziali e finanziari offerti sul mercato.

In conclusione, l’istituto del riscatto (laurea/militare/allineamento) garan-tisce un incremento significativo della pensione finale con un buon rendi-mento a termine della cifra investita; il Fondo pensione complementare offre la possibilità di poter contare su una rendita integrativa o su un capitale.

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La previdenza integrativa ONAOSI

L’Opera Nazionale Assistenza Orfani Sanitari Italiani (ONAOSI), risalente alla fine dell’Ottocento, è un ente gestore di una forma di previdenza obbliga-toria integrativa del sistema di previdenza generale. In base al DLgs 30 giugno 1994, n. 509, in attuazione alla delega conferita dall’art. 1, comma 32, della legge n. 537/1993, l’ONAOSI si è trasformata in persona giuridica privata.

La Fondazione ONAOSI, finalizzata a obiettivi di solidarietà e assistenza, ha per scopo primario il sostegno, l’educazione, l’istruzione e la formazione, entro i limiti di bilancio, degli orfani, figli legittimi, adottivi o naturali riconosciuti, di medici-veterinari, farmacisti, medici-chirurghi ed odontoiatri, contribuenti obbligatori o volontari, per consentire loro di conseguire un titolo di studio e di accedere all’esercizio di una professione o di un’arte. La Fondazione eroga pre-stazioni anche in favore di figli di contribuenti obbligatori o volontari viventi, nei casi previsti dallo Statuto. Entro i limiti di bilancio, delle prestazioni e dei servizi della Fondazione possono fruire, a pagamento, anche i figli di contri-buenti obbligatori o volontari viventi, gli stessi contribuenti e i loro coniugi.

Con le recenti modifiche statutarie, nei limiti e nel rispetto delle compati-bilità di bilancio, secondo le modalità e i criteri stabiliti con apposito regola-mento, una volta assicurate le prestazioni ed i servizi primari, la Fondazione potrà erogare prestazioni ai figli del contribuente vivente, il quale si trovi in situazioni di grave e documentata difficoltà economica, ai figli dei contribuenti anche in caso di decesso del genitore non sanitario, nonché ai contribuenti in condizioni di comprovato disagio economico, sociale e professionale al fine del loro recupero lavorativo.

In base alla legge 7 luglio 1901, n. 306, e successive modificazione ed integrazioni, sono contribuenti obbligatori della Fondazione tutti i sanitari, dipendenti pubblici, iscritti ai rispettivi Ordini professionali italiani dei medici chirurghi e odontoiatri, veterinari e farmacisti. Sono contribuenti volontari tutti gli altri sanitari laureati in medicina-veterinaria, in farmacia, in medicina-chirurgia e odontoiatria, che ne facciano richiesta, a condizione che la stessa venga accolta dalla Fondazione.

La legge istitutiva dell’obbligo di contribuzione

La legge 7 luglio 1901, n. 306 stabilisce l’obbligo di contribuzione a carico di tutti i medici, chirurghi, veterinari e farmacisti alle dipendenze di pubbliche

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amministrazioni ed altri enti pubblici. Tutti gli altri sanitari liberamente eser-centi possono iscriversi volontariamente all’ONAOSI.

Prima di allora, risultano due precedenti analoghi: la legge 14 luglio 1898, n. 335, che istituiva la Cassa Pensioni dei Medici Condotti ed il RD 18 febbraio 1895, che creava un Collegio-Convitto per i figli degli insegnanti ad Assisi.

Ad una prima sottoscrizione volontaria di fondi aderiscono circa 4000 sani-tari di tutta Italia. Con il ricavato, nel 1892, inizia l’assistenza, a cinque orfani, provenienti da diverse zone d’Italia. Fin dall’origine non si fa ricorso ad alcun finanziamento pubblico diretto od indiretto.

Con Regio Decreto 20 luglio 1899, che ne approva lo Statuto organico, l’Opera viene eretta in ente morale e nel 1901 si inaugura a Perugia il primo Collegio-convitto per gli orfani dei Sanitari italiani.

Con la Seconda Guerra Mondiale vengono meno i contributi di 40.000 sanitari. Sembra la fine. Ma la tenacia, prima di tutti del prof. Raffaello Silve-strini, nominato Commissario straordinario, e delle Autorità comunali di Peru-gia, porta ad un’insperata e decisiva ripresa.

Il DPR 616/1977 e la legge 167/1991

Nel 1977, in occasione del riordino degli enti di assistenza e beneficenza, le cui funzioni dovevano essere trasferite alle Regioni ed agli enti Locali, il Legislatore, con il DPR n. 616/1977 statuisce che una serie di enti pubblici ritenuti “inutili”, tra cui viene, impropriamente, inclusa l’ONAOSI, debbano essere soppressi. La levata di scudi in favore dell’Opera è generale. Nelle more di un complesso iter, si costituisce l’ANAOSI, l’associazione volontaria privata, che ha la finalità, secondo il decreto, di raccogliere l’eredità ed il patrimonio dell’Opera in caso di sua liquidazione.

Nel 1991, la legge n. 167, promossa da alcuni parlamentari, tra cui primo firmatario il senatore Saporito, riconosce il diritto dell’ONAOSI a continuare ad esistere nella sua veste e con le finalità originarie.

La privatizzazione degli enti di previdenza dei professionisti

Secondo il DLgs. 509/1994, l’ONAOSI (come altri enti di previdenza dei professionisti, tra i quali l’ENPAM per i medici chirurghi e odontoiatri, l’EN-PAV per i medici veterinari e l’ENPAF per i farmacisti) si è trasformato in persona giuridica privata.

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Gli enti trasformati assumono la personalità giuridica di diritto privato, ai sensi degli articoli 12 e seguenti del Codice civile e secondo le disposizioni di cui al DLgs 509/1994, rimanendo titolari di tutti i rapporti attivi e passivi dei corrispondenti enti previdenziali e dei rispettivi patrimoni. Gli atti di trasfor-mazione e tutte le operazioni connesse sono esenti da imposte e tasse.

I nuovi enti continuano a svolgere le attività previdenziali e assistenziali in atto riconosciute a favore delle categorie di lavoratori e professionisti per le quali sono stati originariamente istituiti. Agli enti stessi non sono consentiti finanziamenti pubblici diretti o indiretti.

La vigilanza sulle Associazioni o Fondazioni di cui al DLgs 509/1994 è esercitata dal Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, nonché dagli altri Ministeri rispettivamente competenti. Nei collegi dei sindaci deve essere assicurata la presenza di rap-presentanti delle predette Amministrazioni.

Nell’esercizio della vigilanza il Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, approva:

a) lo statuto e i regolamenti, nonché le relative integrazioni o modificazioni;b) le delibere in materia di contributi e prestazioni, sempre che la relativa potestà

sia prevista dai singoli ordinamenti vigenti. Per le forme di previdenza sosti-tutive dell’assicurazione generale obbligatoria le delibere sono adottate sulla base delle determinazioni definite dalla contrattazione collettiva nazionale.

Inoltre, i Ministeri Vigilanti possono formulare motivati rilievi sui bilanci preventivi e i conti consuntivi; sulle note di variazione al bilancio di previsione; sui criteri di individuazione e di ripartizione del rischio nella scelta degli inve-stimenti così come sono indicati in ogni bilancio preventivo; sulle delibere contenenti criteri direttivi generali. Nel formulare tali rilievi, i Ministeri Vigi-lanti rinviano gli atti al nuovo esame da parte degli organi di amministrazione per riceverne una motivata decisione definitiva. I suddetti rilievi devono essere formulati per i bilanci consuntivi entro sessanta giorni dalla data di ricezione e entro trenta giorni dalla data di ricezione per tutti gli altri atti previsti. Trascorsi detti termini ogni atto relativo diventa esecutivo.

Giurisprudenza della Corte Costituzionale sull’obbligatorietà di contribuzione all’ONAOSI

Con la privatizzazione ci sono nuovi vincoli e condizioni poste dal Legisla-tore. La prima è che, affinché possa darsi corso alla trasformazione, permanga

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l’obbligatorietà della contribuzione e, di conseguenza, una forma di vigilanza da parte dello Stato, prescritta, minuziosamente, dalla normativa ed attuata con lo Statuto ed i Regolamenti.

Anche a seguito della privatizzazione, l’ONAOSI non riceve e non usufru-irà di finanziamenti esterni o di altri ausili pubblici.

Con l’attuazione del decreto 509/1994 permane la finalità originaria, essendo mutata soltanto la forma giuridica.

La Corte Costituzionale, nell’ordinanza n. 214/1999, ribadendo quanto già espresso in occasione di analogo ricorso nei confronti di un altro ente previ-denziale privatizzato, l’ENPAV (sent. n. 248/1997), afferma che il dovere di contribuire è, in primo luogo, espressione di, almeno, due fondamentali prin-cipi, contemplati dalla Costituzione, ai quali l’ONAOSI assolve:

a) la solidarietà ed il mutuo soccorso tra appartenenti ad una e più categorie professionali;

b) il rafforzamento della tutela previdenziale ed assistenziale.

Entrambe le pronunce fanno il punto su alcuni principi basilari, giuridici ed etici, quali l’obbligo di contribuzione, la solidarietà di tutti gli appartenenti alle categorie e la necessità di assicurare certezza alla missione assistenziale, che costi-tuiscono i pilastri su cui si fonda l’Opera, anche a seguito della privatizzazione.

Nella sentenza n. 248, la Corte afferma, infatti, che:

– «Lasuddettatrasformazionehalasciatoimmutatoilcaratterepubblicisticodell’attivitàistituzionalediprevidenzaedassistenzasvolta,articolandosi invecesulpianodiversodiunamodificadeglistrumentidigestioneedelladifferentequalificazionegiuridicadeisoggetti stessi; l’obbligo contributivo costituisce appunto un corollario della rilevanzapubblicisticadell’inalteratofineistituzionale.

– L’art.1deldecreto509contemplasiffattotipoditrasformazioneesplicitamentesotto-lineandolacontinuitàdellacollocazionedell’entenelsistema,comecentrod’imputazionedei rapporti e soprattutto come soggetto preposto a svolgere attività previdenziali ed assistenzialiinatto.

– Lacomunanzadegli interessidegli iscritti comporta che ciascunodi essi concorra conilcontributoalcostodelleerogazionidellequalisigioval’interacategoria,ditalchéilvincolopuòdirsipresuppostoprimaancoracheimposto.

– All’autonomiaorganizzativa,amministrativaecontabilericonosciutaaisingolientiinragione della loro mutata veste giuridica fanno riscontro un articolato sistema di poteri

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 529

ministerialidicontrollosuibilanciediinterventosugliorganidiamministrazione,non-chéunageneralefunzionedicontrollosullagestionedapartedellaCortedeiConti».

Nell’ordinanza n. 214 si specifica, inoltre, che:

– «Tra quest’ultimo ente [ENPAV]el’ONAOSInonsussistonodiversitàdinaturaodifinalitàaventiapprezzabile rilevanza con riguardo alla peculiare ratio dell’intervento operatodallegislatoremedianteladelegacontenutanelcomma32,art.1,dellalegge573 – da cui è scaturito il decreto 509 – echeneppuresonoravvisabilidifferenzequalitative tra la platea degli onerati di contribuzione e quella dei fruitori delle presta-zioni, cosìda indurreunmutamentodelle conclusioni cuiquestaCorte è comesoprapervenuta e che per altro verso la censura concernente l’impossibilità, da parte degliiscritti,diunaverificadelladestinazionedellerisorsequaleconseguenzadell’avvenutaprivatizzazioneèchiaramenteprivadi fondamentoa frontedelpenetrantesistemadicontrolli previsto da parte degli organi ministeriali e della Corte dei Conti.

– Nella stessa sentenza – n. 248 del 1997 – sièinoltresottolineatoilperdurantevaloredelprincipiodisolidarietàendocategoriale,idoneoagratificarelanecessariaprovvistadimezzi tanto più nel nuovosistemaautofinanziatoconseguenteallaprivatizzazione».

Legge 289/2002: l’estensione dell’obbligo di contribuzione a tutti i sanitari

L’art. 52, comma 23, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, modificando l’art. 2, lettera e), della legge 306/1901, aveva esteso l’obbligo di contribuzione a «tutti isanitariiscrittiagliordiniprofessionaliitalianideifarmacisti,medicichirurghi,odontoiatrieveterinari,nellamisurastabilitadalConsigliodiAmministrazionedellafondazione,chenefissamisuraemodalitàdiversamentoconregolamentisoggettiadapprovazionedeiMinisterivigilantiaisensidell’art.3,comma2,deldecretolegislativo30giugno1994,n.509».

Finanziaria 2007: restrizione dell’obbligo di contribuzione

L’art. 1, comma 485, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, ha nuova-mente modificato la lett. e) della legge del 1901 stabilendo che, dal 1° gen-naio 2007, sono contribuenti obbligatori «tutti i sanitari dipendenti pubblici,iscrittiai rispettivi ordiniprofessionali italianideimedici chirurghi, odontoiatri, vete-rinarie farmacisti,nellamisuraeconmodalitàdiversamentofissatedalConsigliodiAmministrazione della fondazione con regolamenti soggetti ad approvazione dei Mini-sterivigilantiaisensidell’articolo3,comma2,deldecretolegislativo30giugno1994,n.509,esuccessivemodificazioni».

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Manuale della Professione Medica530

Sentenza della Corte Costituzionale n. 190/2007: la legge 289/2002 non conteneva i criteri per la fissazione della misura delle quote di con-tribuzione dei sanitari. Con sentenza n. 190 del 5 giugno 2007 la Corte Costituzionale ha dichiarato «l’illegittimità costituzionaledell’art.2, lettera e),dellalegge7luglio1901,n.306,qualesostituitodall’art.52,comma23dellalegge27dicembre2002,n.289,nellaparteincuiprevedechelamisuradelcontributoobbligatoriodituttiisanitariiscrittiagliordiniprofessionaliitalianièstabilitadalConsigliodiAmministrazionedellaFondazioneOperaNazionaleAssistenzaOrfaniSanitariItaliani(ONAOSI),conregolamentisoggettiadapprovazionedeiministerivigilanti,aisensidell’art.3,comma2,deldecretolegislativo30giugno1994,n.509».

La sentenza ha interessato solo il quantum del contributo, mentre non è venuto meno l’obbligo di contribuzione stabilito a carico dei sanitari dall’art. 2, lett. e) della legge 306/1901, come novellato dal comma 23, comma 52, della legge 289/2002 e richiamato dal DLgs 509/1994. La norma scrutinata e censurata dalla Corte, di fatto, non conteneva i criteri cui il Consiglio di Ammi-nistrazione si sarebbe dovuto attenere nella quantificazione della misura delle quote di iscrizione dovute dai sanitari contribuenti.

Resta, altresì, inalterato il correlato obbligo di riscossione in capo all’ONA-OSI per il periodo stabilito dalla legge 289/2002.

Art. 29 Decreto legge 1 ottobre 2007, n. 159, recante “Interventi urgenti in materia economico-finanziaria, per lo sviluppo e l’equità sociale”, convertito con modificazioni nella legge 29 novembre 2007, n. 222. L’art. 29 del DL 159/2997 è intervenuto a colmare, in parte, la lacuna legislativa generata dalla pronuncia n. 190/2007 della Corte Costituzionale, stabilendo i criteri per la quantificazione del contributo dovuto dai sanitari all’ONAOSI per il periodo successivo alla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della sentenza stessa, cioè dal 21 giugno 2007, mentre nulla ha dispo-sto espressamente per il periodo antecedente a tale data. La legge ha prescritto, inoltre, l’ampliamento delle prestazioni assistenziali e una riforma dell’assetto degli organi di gestione dell’ONAOSI.

Le prestazioni e i servizi ONAOSI

La Fondazione, assolve il proprio scopo primario erogando le seguenti pre-stazioni in favore dei soggetti assistiti:

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 531

a) ammissione in strutture;b) contributi in denaro, di carattere ordinario e/o straordinario;c) interventi diretti a favorire la formazione;d ) interventi speciali a favore dei disabili di cui alla legge 5 febbraio 1992, n.

104 e successive modifiche ed integrazioni;e) convenzioni con Università, Istituti e Centri di ricerca per la formazione

finalizzate agli scopi di cui all’art. 2, comma 1, dello Statuto;f ) ogni altra forma ritenuta idonea al conseguimento dei fini istituzionali, o a

essi strumentale, complementare o comunque connessa.

Nell’ambito delle proprie finalità ed entro i limiti di bilancio, a condizioni regolamentate, l’ONAOSI eroga prestazioni e servizi, anche a pagamento, cui possono accedere i figli di contribuenti viventi, obbligatori o volontari, gli stessi contribuenti e i loro coniugi.

I contributi in denaro erogati agli assistiti si diversificano in base alla scola-rità, con delle integrazioni differenziate in ragione di fattori quali l’essere stu-dente “fuori sede” o l’appartenere a nuclei familiari con reddito insufficiente. I contributi vengono erogati agli assistiti a partire dall’età prescolare e fino alla formazione post-laurea. Il limite di età per poter beneficiare dei contributi è fissato a 30 anni.

Si va da un contributo per assistito in età prescolare di € 3.200,00 a € 3.300,00 per l’assistito che frequenta la scuola primaria, a € 3.400,00 più € 500,00 per integrazione fuori sede per chi frequenta la scuola secondaria di primo grado, a € 3.600,00 più € 600,00 per integrazione fuori sede per gli studenti della scuola secondaria di secondo grado; mentre per gli studenti universitari e per la forma-zione post-laurea il contributo è di € 4.000,00 con l’aggiunta di € 2.000,00 per integrazione fuori sede.

Inoltre, sono previsti contributi per la frequenza di corsi di lingua all’estero e per la partecipazione a progetti comunitari di mobilità studentesca (Socrates Erasmus, SISM, ecc.).

Diversi sono i premi erogati agli assistiti, come riconoscimento del profitto negli studi (premio di promozione, premio di studio per gli universitari, premio di laurea).

Sono contemplati, infine, contributi in denaro ed interventi speciali anche per gli assistiti disabili, di cui alla legge 104/92.

Oltre all’ospitalità nelle strutture (non solo educative ma anche, a condi-

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Manuale della Professione Medica532

zioni regolamentate e ad aventi titolo, presso i Centri Vacanze di Pré Saint Didier e Porto Verde), alle famiglie degli assistiti viene garantito un supporto sul territorio da parte del Servizio Sociale della Fondazione.

L’ONAOSI esplica la sua attività formativa anche mediante l’organizza-zione del corso di formazione professionale “Programma START” giunto alla sua XVII Edizione. È stato ampiamente rinnovato nei contenuti con parti-colare attenzione alla formazione informatica ed al riconoscimento dei titoli conseguibili.

Le condizioni in dettaglio per poter fruire delle prestazioni e dei servizi ONAOSI, nonché le tipologie e l’entità dei contributi economici sia domiciliari che per gli aventi titolo ospitati nelle strutture, sono riportate e consultabili sul sito www.onaosi.it.

Misura della contribuzione ONAOSI

Sono contribuenti obbligatori della Fondazione tutti i sanitari, dipendenti pubblici a qualunque titolo, iscritti ai rispettivi Ordini professionali italiani dei medici chirurghi, odontoiatri, medici veterinari e farmacisti.

misurA del contributo obbligAtorio

– lo 0,34% della retribuzione tabellare annua lorda per i sanitari in possesso di anzianità complessiva di servizio, alla data del 31 dicembre dell’anno precedente a quello di contribuzione, inferiore o uguale a 5 anni;

– lo 0,38% della retribuzione tabellare annua lorda per i sanitari in possesso di anzianità complessiva di servizio, alla data del 31 dicembre dell’anno precedente a quello di contribuzione, superiore a 5 anni.

Contribuenti volontari

Sono contribuenti volontari della Fondazione tutti gli altri sanitari laure-ati in medicina e chirurgia, odontoiatria, medicina veterinaria e farmacia, non rientranti nell’art. 5, comma 1, dello Statuto, che ne facciano richiesta, a condi-zione che la stessa venga accolta.

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 533

misurA del contributo volontArio

Quote Sanitari

Anzianità ordinistica fino a 5 anni complessivi

h 155,00 annui Aventi reddito complessivo individuale superiore a h 60.000,00

h 140,00 annui Aventi reddito complessivo individuale superiore a h 40.000,00 ed inferiore/uguale a h 60.000,00

h 75,00 annui Aventi reddito complessivo individuale superiore a h 20.000,00 ed inferiore/uguale a h 40.000,00

h 25,00 annui Aventi reddito complessivo individuale inferiore/uguale a h 20.000,00

Anzianità ordinistica superiore a 5 anni complessivi

h 155,00 annui Aventi reddito complessivo individuale superiore a h 60.000,00

h 140,00 annui Aventi reddito complessivo individuale superiore a h 40.000,00 ed inferiore/uguale a h 60.000,00

h 125,00 annui Aventi reddito complessivo individuale superiore a h 20.000,00 ed inferiore/uguale a h 40.000,00

h 40,00 annui Aventi reddito complessivo individuale inferiore/uguale a h 20.000,00

h 65,00 annui

Contributo una tantum (vitalizio) a partire dall’1.1.2009, per età anagra-fica superiore ai 67 anni compiuti al 31 dicembre dell’anno precedente ed in possesso di una anzianità contributiva complessiva (obbligatoria e/o volontaria) di almeno quindici anni (atto n. 24 del C.d.A. del 21/06/2008)

Il nuovo Statuto ONAOSI

Il 9 febbraio 2010 è stato approvato dai Ministeri Vigilanti il nuovo Statuto ONAOSI. La riforma riguarda principalmente ed in modo significativo due ambiti:

– le prestazioni assistenziali;– l’assetto gestionale e istituzionale dell’ente.

le nuove prestAzioni

Nei limiti e nel rispetto delle compatibilità di bilancio, secondo le modalità e i criteri che saranno stabiliti con apposito regolamento, una volta assicurate le prestazioni ed i servizi alle attuali categorie di assistiti, potranno avere titolo alle nuove tipologie di benefici assistenziali:

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Manuale della Professione Medica534

– ai figli del contribuente vivente, il quale si trovi in situazioni di grave e documentata difficoltà economica;

– ai figli dei contribuenti anche in caso di decesso del genitore non sanitario nel caso di grave e documentata difficoltà economica;

– ai contribuenti in condizioni di comprovato disagio economico, sociale e professionale al fine del loro recupero lavorativo.

Inoltre la Fondazione può erogare prestazioni assistenziali ai contribuenti disabili e agli ex contribuenti, se indigenti secondo criteri e modalità stabiliti con apposito Regolamento, qualora essi non usufruiscano in concreto di pre-stazioni erogate da altri enti allo stesso titolo.

novità dell’Assetto gestionAle

Il nuovo statuto allarga la base elettorale, introducendo un nuovo organi-smo, il Comitato di Indirizzo, i cui 30 componenti sono eletti in larga mag-gioranza direttamente dai sanitari contribuenti: 21 dai contribuenti obbligatori (di cui 17 medici chirurghi e odontoiatri) e 3 dai contribuenti volontari mentre 4 sono designati dalla FNOMCeO (un medico chirurgo ed un odontoiatra) e uno ciascuno da FOFI (farmacisti) e FNOVI (medici veterinari).

Il Consiglio di Amministrazione è costituito da 9 componenti (di cui 5 medici eletti dai contribuenti obbligatori e 1 dai volontari). I componenti saranno eletti direttamente dal Comitato di Indirizzo.

termini ultimi per iscriversi All’onAosi (Art. 24 nuovo stAtuto)

I sanitari neoiscritti all’albo provinciale possono iscriversi come contri-buenti volontari entro 5 (cinque) anni dalla data di prima iscrizione all’albo. Trascorso inutilmente tale termine, la domanda di iscrizione volontaria non sarà accoglibile.

I sanitari già iscritti all’albo provinciale, ma non contribuenti alla data di entrata in vigore del nuovo Statuto (9 febbraio 2010), possono iscriversi all’ONAOSI come contribuenti volontari entro 1 (uno) anno, quindi entro e non oltre l’8 Febbraio 2011. Trascorso inutilmente tale termine, la domanda di iscrizione volontaria non sarà accoglibile.

I sanitari già contribuenti obbligatori, che cessino da tale regime di con-tribuzione, possono iscriversi come contribuenti volontari entro 2 (due) anni

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 535

dalla data di cessazione dal servizio pubblico. Trascorso inutilmente tale ter-mine, la domanda di iscrizione volontaria non sarà accoglibile.

Cosa fare per iscriversi volontariamente all’ONAOSI

È necessario che il sanitario compili, secondo le istruzioni, la domanda di adesione volontaria, scaricabile dal sito www.onaosi.it, e la spedisca all’ONA-OSI, unitamente alla fotocopia di un documento.

Le nuove sfide della previdenza ed assistenza delle professioni sanitarie

Le sfide che attendono la previdenza e l’assistenza delle professioni sono impegnative, in quanto i problemi appaiono rilevanti, in Italia ed anche in Europa, e riguardano, principalmente, le scelte di fondo da compiere nel breve, ma soprattutto nel medio e lungo periodo, affinché le forme e le tipologie di sostegno prevido-assistenziali siano sostenibili e in grado di assicurare presta-zioni adeguate e certe.

La previdenza nel nostro paese si è andata caratterizzando, per alcuni aspetti quali la tutela dai rischi di perdita e di sospensione dal lavoro, la spe-rimentazione ed estensione di istituti di integrazione per i redditi bassi, un sistema di tutele, sempre più mirato al nucleo familiare ed alla popolazione meno giovane, in relazione alle condizioni personali e familiari, la necessità di una riconsiderazione dell’assetto pensionistico obbligatorio in ragione delle modificazioni del quadro demografico. Infatti, l’allungamento della vita media e all’elevazione dell’età, in cui si accede nel mondo del lavoro, possono influenzare la concezione, per così dire, “tradizionale” della tutela obbligatoria, rivolta, prevalentemente, alla maturazione di una rendita pensionistica al ter-mine della vita lavorativa.

Gli obiettivi di solidarietà, equità e convenienza contributiva dovrebbero, a nostro avviso, rimanere prioritari, anche se sono principi che, almeno per quanto riguarda l’ONAOSI, non sembrano aver trovato pieno e stabile domi-cilio all’interno delle categorie professionali che ne fanno parte.

Anche l’esperienza europea presenta una situazione in costante fermento, che sta dando origine, da tempo, a riflessioni e trasformazioni.

Si è aggiunta, su scala mondiale, una congiuntura non favorevole dei mer-cati finanziari e delle economie, la quale limita la possibilità e la capacità di dare risposta alle istanze di protezione dell’individuo e della comunità.

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Manuale della Professione Medica536

I rischi più temuti sono quelli che riguardano le capacità personali di garan-tire non solo il reddito, ma anche un tenore di vita della famiglia e, quindi, la possibile inadeguatezza delle coperture e delle tipologie assicurative. Non c’è quindi solo il “rischio pensione”, il timore, cioè, che una prestazione econo-mica al termine della vita lavorativa sia inadeguata.

Un sistema di previdenza moderno deve essere in grado di crescere e svi-lupparsi; ciò è reso più agevole se, insieme con l’impianto normativo, progre-disce, di pari passo, una cultura previdenziale altrettanto moderna, che salva-guardi e valorizzi ogni forma di protezione.

Le esigenze previdenziali coinvolgono anche interi gruppi di individui, legati tra di loro, come nel caso dell’ONAOSI, da vincoli di appartenenza cate-goriale.

Il problema, a nostro avviso, è comune a tutte le professioni e gli interro-gativi, cui si cerca di dare risposta, sono sostanzialmente gli stessi, con diversi-ficazioni dovute, essenzialmente, alle peculiarità categoriali.

Non è possibile affrontare il tema della tutela prevido-assistenziale, senza riflettere sulla interdipendenza con gli organismi di rappresentanza istituzio-nale delle professioni, cioè gli Ordini, oggetto, da tempo, di un animato con-fronto per la riforma delle professioni intellettuali.

I principi generali, enunciati dalla Comunità europea ai singoli Stati ade-renti, mirano a regolamentare le professioni, tenendo conto dell’interesse generale, dei “consumatori” finali dei servizi (non solo di quelli della profes-sione) e della necessità di salvaguardare i modelli morali, etici e di qualità che i professionisti rappresentano e sui quali i loro clienti confidano. Se, da una parte la concorrenza appare un elemento caratterizzante del mercato aperto europeo, dall’altra, deve conciliarsi con il mantenimento di regole tecniche ed etiche specifiche che spetta a ciascuna professione, autonomamente, darsi. Esse sono necessarie e devono essere volte a garantire imparzialità, compe-tenza, integrità e responsabilità degli iscritti.

La giurisprudenza costituzionale, ancora una volta, dovrebbe fungere da guida nell’individuare percorsi di riforma, partendo dal principio di base secondo cui la vigente normazione riguardante gli Ordini ed i Collegi risponde all’esigenza di tutelare un rilevante interesse pubblico.

Riforme strutturali che devono mantenere agli Ordini lo status giuridico di enti pubblici non economici con funzioni sussidiarie dello Stato in materia di

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15. La tutela dell’esercizio professionale: il Fondo di Previdenza ENPAM e la previdenza integrativa ONAOSI 537

promozione, governo e controllo della qualità professionale della dignità e del decoro dei professionisti a garanzia dei cittadini, anche attraverso l’esercizio di una potestà disciplinare autonoma, fondata sul Codice deontologico.

Il DLgs 509/1994 di privatizzazione ha mostrato alcuni limiti nella sua

concreta applicazione, con ricadute sulla autonomia e degli Enti stessi che ne fanno parte.

Non vanno messi in discussione i principi fondamentali di tale norma, che, al contrario, vanno riaffermati e, dove necessario, resi più incisivi, come la natura privatistica.

Tantomeno è possibile rinunciare al sistema dei controlli esterni, che rap-presentano una tranquillità sia per i contribuenti che per gli Amministratori.

Fermo restando che l’ONAOSI intende rimanere nel DLgs 509/1994 e, quindi, nel modello privatizzato, le ipotesi di riforma dovrebbero, in ogni caso, ispirarsi e tendere ad un modello elaborato, congiuntamente, con le Casse inte-ressate, in cui venga chiarito, definitivamente, che i controlli devono riguar-dare solo il profilo di legittimità degli atti e non anche il merito e, in ogni caso, essere meno burocratici e con una tempistica di riscontro ragionevole e certa.

Va rivisto l’attuale sistema fiscale di doppia tassazione delle prestazioni e dei rendimenti, che determina una disparità di trattamento rispetto al regime, più favorevole, applicato alla previdenza complementare.

L’ONAOSI ha già affrontato e, in buona parte, risolto i problemi di soste-nibilità e adeguatezza; ha realizzato, con tempismo, con realismo e con la mas-sima sensibilità verso le categorie, riforme strutturali. Ha, tra l’altro, approvato l’ultimo bilancio tecnico attuariale su una previsione di equilibrio fino a cin-quanta anni, oltre, cioè, i trenta prescritti dal DM 29 novembre 2007. A condi-zioni legislative invariate, l’ONAOSI ha e avrà certezze per il futuro.

Una tutela, garantita e garantista, come quella espressa dal modello ONA-OSI, testimonia un’attualità straordinaria, tanto più se rapportata alle questioni che arrovellano la previdenza di oggi. La reale coesione e unità di intenti su grandi principi professionali, come la solidarietà, può, a nostro parere, soste-nere un sistema prevido-assistenziale, autofinanziato e autogestito dalle cate-gorie, come quello dell’ONAOSI, in grado di dare risposte positive, senza

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Manuale della Professione Medica538

ausili o finanziamenti pubblici, chiedendo a ciascun iscritto un sacrificio dav-vero contenuto.

Il modello ONAOSI, per le caratteristiche peculiari e la consolidata espe-rienza, è una realtà unica, sul territorio nazionale e, a quanto ci è dato cono-scere, anche in Europa, difficilmente riproducibile. Altre professioni hanno già manifestato interesse ad entrare a far parte dell’ONAOSI, attratte, eviden-temente, dai vantaggi e dagli oneri di contribuzione contenuti rispetto ai pos-sibili benefici, oltre a poter contare su una formula di tutela integrativa ormai collaudata ed affermata.

Perché iscriversi all’ONAOSI

Una cultura previdenziale ed assistenziale realmente moderna ed efficiente ha la missione di corrispondere ai bisogni del professionista, di ampliare il più possibile la tutela del propria capacità reddituale e del nucleo familiare da possibili rischi, anche attraverso l’adesione a forme diversificate di copertura assicurativa integrativa, che non si sovrappongono, ma anzi arricchiscono la voce “pensione”. Con l’iscrizione all’ONAOSI, con un versamento annuale estremamente contenuto, diversificato per fasce di reddito e anzianità ordini-stica, ciascun sanitario può assicurare questa ulteriore tutela a sé e al proprio nucleo familiare, accedendo da subito ad un’ampia gamma di prestazioni e ser-vizi prevido-assistenziali. Il modello ONAOSI, per le caratteristiche peculiari e la consolidata esperienza, è una realtà unica, sul territorio nazionale e, a quanto è dato conoscere, anche in Europa.

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16La libera circolazione nell’Unione Europea

G.Morrocchesi

Per quanto riguarda la libera circolazione dei medici chirurghi cittadini degli stati membri dell’Unione Europea, ed il reciproco riconoscimento dei loro diplomi, certificati e altri titoli, è in vigore in Italia il DLgs 17 agosto 1999 n. 368. Una normativa sostanzialmente analoga è stata prevista per la professione di odontoiatra, con le modifiche intervenute nel tempo alla legge 24 luglio 1985 n. 409. Entrambi i provvedimenti recepiscono nell’ordinamento italiano le pertinenti direttive comunitarie, come più estesamente descritto in seguito.

Il diritto di stabilimento e la prestazione di servizi

Coloro che possiedono un titolo professionale, con un percorso forma-tivo interamente compiuto in un paese comunitario e intendono svolgere sta-bilmente la professione sanitaria in Italia, devono presentare al Ministero della Salute domanda per il riconoscimento del titolo ai fini dell’esercizio del diritto di stabilimento. Per effetto della normativa comunitaria, che ha fissato regole di armonizzazione fra i paesi dell’Unione, la procedura di riconoscimento svolta dal Ministero della Salute d’intesa con quello dell’Università, si sostanzia in una verifica della regolarità della documentazione presentata, il cui esito positivo autorizza l’interessato a richiedere l’iscrizione all’albo professionale italiano. Con l’iscrizione all’albo, il professionista comunitario gode di tutti i diritti e soggiace a tutti gli obblighi previsti per i colleghi italiani, ivi compresa la sottoposizione al potere disciplinare dell’Ordine che, in caso di irrogazione di sanzioni, ne informa il Ministero della Salute, il quale ne dà comunicazione allo stato di origine o di provenienza dell’interessato. A questo proposito, è il caso di sottolineare che ogni potere di applicazione delle norme in materia di libera circolazione, sia relative al riconoscimento dei titoli che nei rapporti con le competenti Autorità

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Manuale della Professione Medica540

degli stati membri, è attribuito al Ministero della Salute che, anche a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, resta l’organo statale competente in materia. Le direttive comunitarie prevedono anche la possibilità, per i soli cittadini dell’Unione Europea, di erogare prestazioni professionali occasionali, senza stabilirsi definitivamente in Italia e, dunque, senza doversi iscrivere all’albo professionale italiano. Per esercitare tale diritto di prestazione di servizi, il profes-sionista deve comunicare, di volta in volta, al Ministero della Salute, la struttura sanitaria in cui andrà a svolgere la prestazione di servizi e il relativo periodo e il Ministero della Salute, in caso di valutazione positiva, adotta il provvedimento autorizzatorio. Per valutare la condizione di “occasionalità” della prestazione, il Ministero ha espresso l’avviso che non insorga l’obbligo di iscrizione all’albo professionale qualora le prestazioni siano contenute nel numero massimo di tre all’anno, superato il quale limite non potrebbe più parlarsi di “prestazioni occa-sionali”. Per le prestazioni ulteriori, da eseguire nello stesso luogo entro un anno dalla prima richiesta, non occorre una nuova autorizzazione ministeriale, ma è sufficiente notificare il motivo e la data delle nuove prestazioni. Tale semplifi-cazione tuttavia non opera per prestazioni dirette allo stesso paziente, perché la norma intende sottoporre a un controllo rigoroso le prestazioni occasionali, onde prevenire eventuali abusi. Per contro, i cittadini che, avendo conseguito il titolo accademico in Italia, intendono esercitare la professione in un altro paese comunitario, devono inoltrare apposita domanda all’Autorità competente del paese estero. In questo caso è possibile che le Autorità del Paese comunitario di destinazione richiedano la presentazione di un attestato di conformità alle direttive comunitarie dei titoli conseguiti in Italia; tale attestato va richiesto e viene rilasciato dal Ministero della Salute. Inoltre è possibile che venga richiesto il certificato di good standing, che viene rilasciato dall’Ordine provinciale italiano presso il quale si è iscritti e che attesta la regolarità dell’iscrizione all’albo italiano e l’assenza di procedimenti disciplinari in corso.

Le “direttive medici” e le norme di attuazione

La libera circolazione dei medici è attualmente disciplinata dalla Direttiva 93/16/CEE, approvata dal Consiglio dei Ministri della Comunità il 5 aprile 1993 e poi oggetto di parziali modificazioni con direttive successive. Il nostro paese ha recepito tale direttiva con il DLgs 368/1999 sopra richiamato. Secondo la

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16. La libera circolazione nell’Unione Europea 541

normativa italiana di recepimento, i diplomi, i certificati e gli altri titoli di medico chirurgo, medico chirurgo specialista e medico chirurgo di medicina generale, rilasciati dagli stati dell’Unione secondo le prescritte condizioni formative, sono riconosciuti in Italia con gli stessi effetti dei diplomi, certificati e altri titoli rila-sciati in Italia per l’esercizio delle corrispondenti attività. Tale riconoscimento avviene secondo le modalità già descritte. Una volta ottenuto il riconoscimento, al medico è data facoltà di utilizzare il corrispondente titolo professionale e la relativa abbreviazione in lingua italiana, così come è data facoltà di accompa-gnare il titolo professionale con la denominazione del diploma nella lingua del paese di origine o di provenienza. Una particolarità riguarda l’esercizio della medicina generale che la direttiva comunitaria prevede sia svolta nel sistema di sicurezza sociale degli stati membri. L’art. 21 del decreto di recepimento richiede il possesso del diploma di formazione specifica o complementare in medicina generale, rilasciato in uno stato membro e che deve essere oggetto di riconoscimento, al pari dei titoli di formazione specialistica.

Le “direttive odontoiatri” e le norme di attuazione

La libera circolazione degli odontoiatri è attualmente disciplinata dalle Direttive 78/686 e 78/687/CEE approvate dal Consiglio dei Ministri della Comunità il 25 luglio 1978 e poi oggetto di parziali modificazioni con direttive successive. Tali direttive hanno fatto sorgere l’obbligo, per i paesi membri, di armonizzare le legislazioni nazionali e, per l’Italia, ha comportato la necessità di adeguare il proprio ordinamento alla disciplina comunitaria. In conseguenza di ciò, è stato necessario disciplinare la formazione universitaria in odonto-iatria attraverso un apposito corso di laurea distinto da quello in medicina e chirurgia (ciò è avvenuto con il DPR 28 febbraio 1980 n. 135) e inoltre prevedere la nuova professione sanitaria di odontoiatra diversa e distinta da quella di medico chirurgo, con l’istituzione del relativo albo professionale (ciò è stato previsto con la legge 409/1985). La medesima legge 409/1985 prevede la procedura per esercitare il diritto di stabilimento e il diritto alla prestazione di servizi secondo modalità e procedure sostanzialmente analoghe a quelle previste per i medici chirurghi, con alcune particolarità che riguardano soprat-tutto la prestazione di servizi occasionali. Infatti, per la prestazione di tali ser-vizi occasionali in Italia, all’odontoiatra comunitario non è richiesto di otte-

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nere la preventiva autorizzazione da parte del Ministero della Salute, bensì può svolgere i servizi occasionali previa dichiarazione da comunicare al medesimo Ministero con la quale il professionista informa della prestazione che intende effettuare, del luogo e del periodo di svolgimento. In ogni caso, nell’ipotesi di prestazione di servizi occasionali, all’odontoiatra comunitario è fatto espresso divieto di acquisire la titolarità di uno studio odontoiatrico. Inoltre, sempre per evidenziare le particolarità previste per l’esercizio dell’odontoiatria rispetto alla professione di medico chirurgo, la normativa nazionale prevede che nel caso di abusi o mancanze tali da comportare, se commessi da odontoiatri italiani, la sospensione dall’esercizio della professione o la radiazione dall’albo profes-sionale, l’Ordine competente diffidi l’odontoiatra comunitario dall’effettuare ulteriori prestazioni di servizi. Quanto, infine, agli odontoiatri italiani che eser-citano il diritto di stabilirsi in un paese dell’Unione, la legge dà loro facoltà di mantenere, a domanda, l’iscrizione all’Albo professionale italiano, con la possibilità quindi di mantenere anche l’iscrizione all’ENPAM per le finalità previdenziali.

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17L’esercizio dell’odontoiatria

B.Griffa

Presupposti formativi

L’odontoiatria, nei suoi aspetti moderni, nasce all’inizio dell’800 con la fon-dazione di scuole odontoiatriche pubbliche e con la nascita di ordinamenti legali, nei vari paesi, della professione del dentista, dei suoi diritti e doveri. In questo periodo l’odontoiatria sembra orientarsi verso un indirizzo puramente pratico che la allontana dalla medicina.

Questa evoluzione tecnica raggiunge il suo culmine negli USA dove, nel 1839, sorge il Baltimora College of Dental Surgery, e nel 1840, l’American Society Journal of Dental Science.

La situazione cambia con la prima guerra mondiale in quanto le necessità derivanti dalla cura dei feriti contribuiscono ad allargare e ad approfondire la conoscenza della chirurgia dentale e orale e di tutta la traumatologia delle ossa mascellari.

Da questo periodo in poi si delinea più evidente il “ritorno” dell’odontoiatria in seno alla medicina. L’odontoiatria, cioè, non si limita più a studiare e curare il solo dente ma comprende, nel proprio ambito, tutti gli organi della bocca. Diviene, in buona sostanza, stomatologia (dal greco stoma = bocca); si sostituisce alla men-talità meccanica del vecchio dentista quella biologica del medico stomatologo.

In Italia questo indirizzo culturale aveva già trovato applicazione con il RD 24 aprile 1890, n. 6850 che consentiva l’esercizio dell’odontoiatria soltanto ai laureati in medicina e chirurgia.

L’art. 1 del provvedimento appena citato stabiliva testualmente: «Chi vuole esercitare l’odontoiatria, la protesi dentaria e la flebotomia deve conseguire la laurea in medicina e deve essere munito di diploma di laurea in medicina e chirurgia».

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Con tale normativa, in realtà, si voleva sancire la competenza ma anche la responsabilità del medico nella cura dell’apparato di masticazione, considerando che (allora come oggi!) l’attività odontoiatrica finiva con l’essere svolta abusiva-mente da persone assolutamente non qualificate, quand’anche non da ciarlatani.

Successivamente in Italia la necessità della laurea in medicina fu sempre ribadita, sia a livello normativo che accademico (vedi a questo proposito la legge 31 marzo 1912, n. 298). È da notare, peraltro, che con RD 31 dicembre 1923, n. 2910 venne istituita una “Scuola Nazionale di Odontoiatria” con il compito di rilasciare la “laurea in odontoiatria” (peraltro, tale legge non ha trovato pratica applicazione). La necessità, infatti, della laurea in medicina e chirurgia fu nuovamente ribadita e chiarita con la normativa del TULLSS n. 1265/1934 e con il RDL 16 ottobre 1924, n. 1755.

Sopravvissero solo alcune disposizioni particolari che consentivano a den-tisti stranieri e profughi ammessi all’esercizio professionale in Italia di essere iscritti in “elenchi transitori” aggiunti all’albo dei medici.

Questo stato di cose comportò il permanere dell’esercizio odontoiatrico nell’ambito della professione medica, con la conseguenza della necessità del conseguimento della laurea in medicina per poter esercitare, a pieno titolo, qualsiasi attività odontoiatrica, prescindendo dal conseguimento del titolo di specializzazione.

Questa situazione giuridica, particolare rispetto a quelle esistenti negli altri paesi della Comunità Europea, ha portato, in tempi recenti, alla necessità, per l’Italia, di dare attuazione alle Direttive CEE n. 78/686 e n. 78/687, all’istitu-zione del corso di laurea in odontoiatria e protesi dentaria (DPR 28 febbraio 1980, n. 135) e alla successiva istituzione della professione sanitaria di odonto-iatra (legge 24 luglio 1985, n. 409).

L’esigenza di conformarsi alle direttive europee: quella per il reciproco riconoscimento dei diplomi che danno accesso all’esercizio dell’odontoiatria (Direttiva n. 78/686) e quella di una formazione specifica comune a tutti i paesi (Direttiva n. 78/687), ha costituito la spinta principale per il “pigro” legislatore italiano ad approvare le leggi che hanno dato vita alla “nuova pro-fessione”, pur con notevole ritardo.

Ormai i tempi erano maturi anche nel nostro paese e nel nostro ordina-mento didattico per l’istituzione del nuovo corso di laurea e del nuovo ordina-mento professionale.

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17. L’esercizio dell’odontoiatria 545

Troppo forte era divenuta nel secondo dopoguerra e più ancora nei decenni successivi, la necessità di dare risposte efficaci alla domanda sanitaria di salute, anche dentale, che perveniva non solo dai ceti più abbienti ma anche e for-tunatamente dalla generalità dei cittadini, in considerazione delle migliorate condizioni economiche e sociali del paese.

A questa prima esigenza va aggiunta subito l’altra, concernete la sempre più chiara consapevolezza della insufficienza del “bagaglio culturale” acquisito durante il corso di laurea in medicina e chirurgia, per un esercizio aggiornato e moderno della odontoiatria.

Prima dell’istituzione del corso di laurea in odontoiatria, il rapporto tra dentisti e popolazione in Italia era tra i più bassi esistenti nei paesi della CEE. A una media europea di un dentista ogni 1700-2000 abitanti faceva riscontro, in Italia, un rapporto oscillante da 1 a 6000 e addirittura da 1 a 20.000 (occorre per contro osservare che questa situazione è poi radicalmente cambiata, tant’è vero che ai giorni nostri ci si trova di fronte alla “pletora odontoiatrica”).

La situazione descritta portava, tra l’altro, a incentivare la deprecabile piaga dell’esercizio abusivo della professione e lo svilupparsi di un irresponsabile prestanomismo.

Il dibattito che si svolse nel paese nel decennio precedente all’approvazione del DPR 28 febbraio 1980, n. 135 (istituzione del corso di odontoiatra e protesi dentaria) evidenziò la necessità di garantire al “nuovo odontoiatra” una cultura biologica in tutto simile a quella relativa a ogni altra specialità medico-chirurgica.

Questa esigenza era, del resto, sentita anche in quei paesi nei quali opera-vano scuole autonome di odontoiatria. A titolo esemplificativo si può citare il rapporto ufficiale della Conferenza tenutasi a Copenaghen nel 1968 sull’in-segnamento dell’odontoiatria in Europa, pubblicato dal Regional Office for Europe della World Health Organization, in cui è affermato testualmente: «I partecipanti sottolineano l’importanza di una solida base di scienze medi-che fondamentali e una base adeguata di medicina generale per individuare le manifestazioni orali di malattie generali e per comprendere le ripercussioni sistematiche delle malattie orali».

Si può, quindi, ragionevolmente sostenere che l’istituzione in Italia, nel 1980, del corso di laurea in odontoiatria e protesi dentaria non deve essere vista come un riaffermarsi del concetto di odontoiatria “tecnica e pratica” svincolata dalle sue tradizioni mediche, ma come la necessità sotto la spinta delle direttive comunitarie

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e delle esigenze sopra descritte, di una figura professionale nuova con un curricu-lum di studi scientifici particolari, pur nell’ambito della tradizione culturale medica.

La cura dei denti, in buona sostanza, deve essere considerata non un pro-cesso puramente locale, ma posta in rapporto con fattori generali e costituzio-nali dell’individuo.

Questa idea-forza, così, viene a essere confermata dal nuovo ordinamento italiano della odontoiatria derivante dall’applicazione delle direttive comunitarie.

Si è inteso creare un nuovo professionista in grado di conciliare le esigenze specifiche delle cure odontoiatriche con la tradizione medica e stomatologica della odontoiatria stessa.

Normativa

È necessario svolgere alcune considerazioni che, seppure in modo sinte-tico, riassumano le vicende relative all’esercizio dell’odontoiatria dalla emana-zione della legge n. 409/1985 fino ai più recenti provvedimenti normativi, con particolare riferimento alla legge 3 febbraio 2003, n. 14 (art. 13), che abroga l’istituto dell’annotazione di cui all’art. 5 della legge n. 409/1985.

A seguito dell’entrata in vigore della legge n. 409/1985, esercitavano l’odon-toiatria (oltre ai laureati del nuovo corso di laurea in odontoiatria e protesi den-taria) i medici immatricolati al relativo corso di laurea anteriormente al 28 gen-naio 1980, nonché i medici specialisti in campo odontoiatrico, i quali avevano la possibilità di essere iscritti all’albo degli odontoiatri o di usufruire dell’istituto dell’annotazione (art. 5 della legge n. 409/1985). Successivamente, con legge n. 471/1988, fu concessa la facoltà di esercitare l’odontoiatria, attraverso l’iscri-zione all’albo degli odontoiatri, anche ai medici immatricolati al relativo corso di laurea negli anni accademici dal 1980-81 al 1984-85, purché l’opzione per l’iscrizione all’albo stesso fosse esercitata entro il 31 dicembre 1991.

È da ricordare per la sua importanza anche la sentenza n. 100/1989 della Corte Costituzionale che, in buona sostanza, permetteva – ai medici immatri-colati al relativo corso di laurea prima del 28 gennaio 1980 – di iscriversi anche all’albo degli odontoiatri senza alcun limite temporale.

La sentenza della Corte di Giustizia europea del 1° giugno 1995 condannò, successivamente, l’Italia per quanto concerne la già citata legge n. 471/1988: la Corte ha ritenuto che fossero estesi eccessivamente i termini temporali con-cessi ai medici per continuare a esercitare l’attività odontoiatrica.

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17. L’esercizio dell’odontoiatria 547

A seguito di questa sentenza fu emanato il DLgs n. 386/1998 che consente, ai medici immatricolati negli anni accademici dal 1980-81 al 1984-85, di man-tenere o ottenere l’iscrizione all’albo degli odontoiatri previo superamento di una prova attitudinale teorico-pratica. Il DLgs n. 386/1998 ha abrogato espli-citamente la legge n. 471/1988.

Un’ulteriore sentenza della Corte di Giustizia della CEE, in data 29 novem-bre 2001, ha sancito la inconciliabilità con le direttive comunitarie del secondo percorso di formazione previsto dalla legge n. 409/1985 (diploma di laurea in medicina e diploma di specializzazione). Nella sentenza è chiarito che il periodo di formazione deve essere sempre di almeno 5 anni e questo requisito non si riscontra, appunto, nel secondo canale di formazione.

A seguito di questa sentenza, la legge 3 febbraio 2003, n. 14 (art. 13), ha sancito l’abrogazione dell’istituto dell’annotazione e l’impossibilità giuridica, per i medici specialisti in campo odontoiatrico (si ricordi che le specializzazioni in campo odontoiatrico sono: odontoiatria e protesi dentaria, chirurgia odontosto-matologica, odontostomatologia e ortognatodonzia, ai sensi del DL 18 settembre 2000), di esercitare l’attività di dentista. La Camera dei Deputati, nel licenziare l’art. 13 della legge comunitaria, ha però vincolato il Governo a tutelare i diritti acquisiti dai medici specialisti immatricolati negli anni accademici dal 1980-81 al 1984-85 che, senza essere obbligati a svolgere la prova attitudinale di cui al DLgs n. 386/1998, potranno iscriversi anche all’albo degli odontoiatri.

L’art. 4, comma 1-quinquies, lettere c) e d) del DLgs n. 277/2003, ha provve-duto proprio a stabilire questi ultimi adempimenti, modificando gli artt. 19 e 20 della legge n. 409/1985, sia per quanto concerne le modalità relative all’autoriz-zazione all’esercizio dell’attività odontoiatrica negli altri stati membri della UE, sia per quanto riguarda l’esercizio dell’attività stessa e la relativa iscrizione all’albo.

Particolarmente importante è il nuovo art. 20 della legge n. 409/1985, che testualmente prevede:

«Ai fini dell’esercizio dell’attività di cui all’articolo 2, si iscrivono all’albo degli odontoiatri, anche in deroga a quanto previsto all’articolo 4, terzo comma:

a) i laureati in medicina e chirurgia abilitati all’esercizio professionale che hanno iniziato la loro formazione universitaria in medicina anteriormente al 28 gennaio 1980;

b) i laureati in medicina e chirurgia abilitati all’esercizio professionale che hanno iniziato la loro formazione universitaria in medicina dopo il 28 gen-

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naio 1980 ed entro il 31 dicembre 1984 e che hanno superato la prova attitudinale di cui al DLgs 13 ottobre 1998 n. 386, o sono in possesso dei diplomi di specializzazione indicati all’articolo 19 comma 3».

Requisiti giuridici per l’esercizio

In buona sostanza, a seguito dell’abrogazione dell’istituto dell’annotazione (art. 13 della legge n. 14/2003), oltre ai laureati in odontoiatria e protesi den-taria, possono esercitare l’odontoiatria, iscrivendosi all’albo degli odontoiatri e mantenendo l’iscrizione all’albo dei medici, le seguenti categorie di medici:

– i medici immatricolati al relativo corso di laurea prima del 28 gennaio 1980;– i medici immatricolati al relativo corso di laurea negli anni accademici dal

1980-81 al 1984-85 che hanno superato le prove attitudinali per l’iscrizione all’Albo degli odontoiatri di cui al DLgs n. 386/1998;

– i medici specialisti in campo odontoiatrico immatricolati negli anni accademici dal 1980-81 al 1984-85; si ricorda che, ai sensi del DM 19 settembre 2000, sono considerate specializzazioni in campo odontoiatrico soltanto le seguenti:– odontoiatria e protesi dentaria;– chirurgia odontostomatologica;– odontostomatologia;– ortognatodonzia.

Questa impostazione è stata ampiamente confermata dal parere del Con-siglio di Stato richiesto non dalla Federazione ma dal Ministero della Salute, per avere il più alto avallo del massimo organo consultivo, da un punto di vista amministrativo, del Governo.

Su questo quadro giuridico si comprenderà l’obbligo di ottemperanza che la Federazione ha svolto per anni con le sue opportune valutazioni, cercando di indirizzare e coordinare al meglio l’attività degli Ordini.

Campo di attività dell’odontoiatra

Come già affermato, anche a seguito della sentenza della Corte di Giustizia europea del 29 novembre 2001 causa C/202/99, è ormai chiaro che: «Una for-mazione in odontoiatria che segue agli studi di medicina non corrisponde al con-tenuto dell’art. 1 della Direttiva 78/687/CEE, che esige una formazione speci-fica di dentista nel corso di studi universitari di una durata di cinque anni dedicati esclusivamente all’odontoiatria. Una formazione che completa studi di medicina e

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rappresenta soltanto una specializzazione in odontoiatria si distingue nettamente per le sue strutture e per il suo contenuto da un curriculum di cinque anni concepito secondo le prescrizioni dell’art. 1 della Direttiva 78/687/CEE, dedicato fin dall’ini-zio all’odontoiatria e concluso con esami concernenti unicamente questa scienza».

In conclusione si può affermare che occorre ora riempire di contenuti la sinte-tica formale prevista dall’art. 2 della legge n. 409/1985 per cui: «Formano oggetto della professione di odontoiatra le attività inerenti alla diagnosi ed alla terapia delle malattie ed anomalie congenite ed acquisite dei denti, della bocca, delle mascelle e dei relativi tessuti, nonché alla prevenzione ed alla riabilitazione odontoiatriche.

Gli odontoiatri possono prescrivere tutti i medicamenti necessari all’eserci-zio della loro professione».

Siamo di fronte a una descrizione eccessivamente generica della attività odontoiatrica che comunque è ormai riservata soltanto ai legittimi esercenti dell’odontoiatria stessa.

Lo studio odontoiatrico

Le normative che regolano l’attività di uno studio odontoiatrico per il rispetto della salute del paziente, della sicurezza dei lavoratori dipendenti e della salvaguardia ambientale, costituiscono certamente un corpus specifico della professione, seppure alcune di queste possano trovare anche altre appli-cazioni in ambito medico. È necessario pertanto dedicare una trattazione spe-cifica allo studio professionale odontoiatrico, distinta da quella relativa allo studio medico, con il qua le pure condivide diversi aspetti, allo scopo di fornire utili indicazioni pratiche per la tutela dell’odontoiatra libero professionista.

L’autorizzazione all’esercizio dell’attività

La definizione giuridica della sede in cui si esercita la professione privata riveste grande importanza per poter individuare gli adempimenti amministrativi che devono essere soddisfatti: in particolare la necessità o meno di ottenere l’au-torizzazione all’apertura.

Un inquadramento preciso della questione è stato reso problematico, in pas-sato, dalle diverse interpretazioni date all’articolo 193 del TU delle leggi sani-tarie, certamente datato nella sua formulazione, se non anche nella sostanza.

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Il Ministero della Sanità, per rispondere a questa esigenza interpretativa, ha emanato, il 3 novembre 1997, una circolare di chiarimento che collocava lo studio odontoiatrico nell’ambito dell’esercizio della libera professione, quando gestito dal professionista, in forma singola o associata; vi era scritto che, in tal caso, «l’autorizzazione del sindaco si risolverebbe in una superflua duplica-zione del titolo di abilitazione professionale».

Con l’approvazione del DLgs n. 229/1999 è stata sostanzialmente con-fermata la definizione di studio odontoiatrico fissata meno di due anni prima: «luogo dove un determinato professionista esercita, in forma singola o asso-ciata, l’odontoiatria, senza l’intermediazione di società di capitale, ovvero senza che la struttura sanitaria acquisisca una soggettività propria, autonoma rispetto a quella dei sanitari che vi operano».

Diverso il caso, invece, della struttura sanitaria che costituisca una figura giuridica autonoma: un esempio può essere l’ambulatorio odontoiatrico poli-specialistico riconosciuto come entità strutturale, la cui autorizzazione viene concessa al proprietario o gestore indipendentemente dalla sua qualifica pro-fessionale. In ogni caso, l’autorizzazione della struttura all’esercizio dell’attività sanitaria «presuppone il possesso di requisiti minimi, strutturali, tecnologici e organizzativi […]», di cui al comma 4, art. 8-ter, del DLgs 229/1999.

In quest’ultimo decreto, quindi, gli studi medici e odontoiatrici sono chia-ramente differenziati dalle strutture sanitarie, pubbliche o private, per le quali è sempre richiesta la nomina di un direttore sanitario (ovvero direttore tecnico per ambulatori) responsabile del rispetto delle norme e regole in campo sanitario.

Ciò nonostante, al comma 2 del predetto articolo 8-ter è stabilito che: «l’auto-rizzazione all’esercizio di attività sanitarie è, altresì, richiesta per gli studi odonto-iatrici, medici e di altre professioni sanitarie, ove attrezzati per erogare prestazioni di chirurgia ambulatoriale, ovvero procedure diagnostiche e terapeutiche di par-ticolare complessità o che comportino un rischio per la sicurezza del paziente». Di cruciale importanza diviene ora l’estensione che si darà alla definizione di chi-rurgia ambulatoriale ovvero del grado di complessità che una procedura clinica debba avere per costituire un rischio per la sicurezza del paziente.

D’altro canto, l’autorizzazione dello studio professionale è presupposto neces-sario dell’accreditamento istituzionale, che «è rilasciato dalla Regione alle strutture autorizzate, pubbliche o private e ai professionisti che ne facciano richiesta, subor-dinatamente alla loro rispondenza ai requisiti ulteriori di qualificazione […]».

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17. L’esercizio dell’odontoiatria 551

In merito a questi requisiti ulteriori richiesti per l’accreditamento dei profes-sionisti, va considerato che la legge nazionale lascia alle Regioni di determinarli con propria legge, talché la disciplina della materia risulta notevolmente diver-sificata sul territorio nazionale. È necessario, pertanto, che il lettore integri gli elementi forniti in questa sede, necessariamente riferiti agli adempimenti richiesti dalla normativa nazionale, con quelli concernenti gli obblighi specifici previsti nella Regione in cui è ubicato lo studio odontoiatrico.

L’impianto elettrico

L’impianto elettrico dello studio odontoiatrico deve soddisfare alcuni requi-siti, come disposto da apposite norme (legge 46/1990 – Norme CEI 64-4). Se, da un lato, esso rappresenta l’ossatura di uno studio, ne costituisce, infatti, la struttura portante e la sua progettazione ed esecuzione sono condizionanti ai fini del buon funzionamento dello studio stesso, dall’altro, comporta una par-ticolare attenzione anche ai fini normativi.

La norma CEI 64-4, art. 1.2.01, denominata “Impianti elettrici in locali a uso medico”, identifica infatti gli studi odontoiatrici come ambulatori medici di tipo A, cioè locali adibiti a uso medico nei quali si utilizzano apparecchiature elettromedicali, con parti applicate, evitando il ricorso all’anestesia generale.

È bene comunque che, a monte di una progettazione tecnica, il titolare abbia una chiara visione di come dovrà funzionare il proprio studio, quali apparecchia-ture saranno usate e dove; ciò sia all’avvio dell’attività sia per i successivi sviluppi professionali. È l’odontoiatra in primis che deve aver chiari i compiti cui dovrà assol-vere l’impianto elettrico: se, per esempio, può essere prefigurato che, in seguito, una determinata stanza dovrà essere attrezzata con un’ulteriore postazione opera-tiva, è ovvio che l’impianto elettrico dovrebbe essere progettato e costruito sì da prevedere in partenza il supporto di tale evoluzione successiva. Una buona analisi delle esigenze presenti e future consente, con un minimo aggravio dei costi, di creare una efficiente struttura elettrica dello studio, evitando successive costose modifiche.

Gli impianti elettrici, per essere conformi alle norme vigenti, devono in particolare rispondere ai seguenti requisiti:

a) essere progettati a regola d’arte da professionisti con specifica competenza nel settore (legge n. 46/1990, art. 6);

b) la messa in opera dell’impianto elettrico deve essere eseguita a regola d’arte da

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una impresa installatrice iscritta alla camera di commercio (CCIAA) o all’albo provinciale delle imprese artigiane (CPA) e in possesso del certificato di rico-noscimento abilitante a operare in questo settore (legge n. 46/1990, artt. 3 e 7);

c) devono essere verificati da un punto di vista della sicurezza e della funzio-nalità, attestata dalla «dichiarazione di conformità dell’impianto a regola d’arte», che l’impresa installatrice rilascerà, dopo le verifiche, al commit-tente, completa degli allegati previsti nel relativo modello (DM 20 febbraio 1992 e successive integrazioni);

d ) devono essere, infine, omologati da parte degli enti istituzionali i quali veri-ficano che vengano rispettate le normative.

Di grande importanza è ciò che si intende per regola d’arte, la cui defini-zione troviamo nella legge n. 186/1968, che all’art. 2 così recita: «i materiali, le apparecchiature, le installazioni e gli impianti elettrici ed elettronici realizzati secondo le norme del Comitato Elettrotecnico Italiano si considerano a regola d’arte».

È compito del titolare dello studio odontoiatrico la scelta delle figure pro-fessionali e artigianali previste nei punti a e b; questi ha il dovere di assicurarsi che siano effettivamente rispondenti ai requisiti di competenza previsti per legge, pena le non lievi sanzioni contenute nella stessa legge.

Nello specifico, il progetto dell’impianto elettrico deve essere obbligatoria-mente eseguito in base all’art. 4, comma 1 c), del Regolamento ap plicativo della già citata legge n. 46/1990 che prevede espressamente tale obbligo, tra gli altri, per i locali adibiti a uso medico.

L’art. 4, comma 2, del Regolamento, in particolare, dispone che: «i pro-getti debbono contenere gli schemi dell’impianto e i disegni planimetrici, non-ché una relazione tecnica sulla consistenza e sulla tipologia dell’installazione, della tra sformazione o dell’ampliamento dell’impianto stesso, con partico-lare riguardo all’individuazione dei materiali e componenti da utilizzare e alle misure di prevenzione da adottare. Si considerano redatti secondo la buona tecnica professionale i progetti elaborati in conformità alle indicazioni delle guide dell’Ente Italiano di Unificazione (UNI) e del CEI».

Poiché il titolare dello studio, responsabile davanti agli organi di verifica, non ha solitamente la capacità tecnica di valutare se realmente un impianto elettrico risponda ai requisiti CEI, appare consigliabile non incaricare del progetto e

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17. L’esercizio dell’odontoiatria 553

dell’esecuzione la stessa persona, affinché il progettista possa fungere da control-lore dell’installatore per conto dell’odontoiatra-committente. In questo modo si realizza una maggiore autotutela del professionista responsabile dello studio.

La denuncia dell’impianto di messa a terra de ve essere eseguita a cura dell’odontoiatra, corredata dei rilievi e della documentazione preparati dall’in-stallatore. Tale denuncia va fatta utilizzando un apposito modulo.

La prima denuncia, per gli impianti eseguiti a partire dal 1994, deve essere inviata all’ISPESL, mentre le successive vanno inviate con cadenza biennale alla ASL competente per territorio.

L’impianto deve essere sottoposto a omologazione e a verifiche periodi-che. L’impianto sarà omologato durante la prima verifica da parte dell’Ente istituzionale preposto. Per gli impianti elettrici installati dopo il 1994 la prima verifica, ossia l’omologazione, è a cura dell’ISPESL.

All’odontoiatra è attribuita anche la responsabilità della necessaria manu-tenzione, nonché delle verifiche periodiche, al fine di mantenere nel tempo la sicurezza e l’affidabilità dell’impianto elettrico dello studio.

Le norme prevedono anche un registro delle verifiche periodiche che l’odontoiatra deve tenere sul posto a disposizione degli enti verificatori.

Presupposto per poter far fronte alle verifiche è la disponibilità e la corret-tezza della documentazione relativa all’impianto elettrico.

La Guida CEI 64-13, relativa agli ambulatori medici di tipo A, prevede un elenco di documenti che devono essere disponibili presso lo studio odontoia-trico per consentire le verifiche previste dalla normativa:

a) planimetria, firmata dal titolare dello studio, che individui i locali destinati a uso odontoiatrico;

b) planimetrie indicanti il posizionamento dei nodi equipotenziali, con i rela-tivi collegamenti e destinazioni;

c) dichiarazione del titolare dello studio di non utilizzo di sostanze infiamma-bili e, comunque, di anestetici che potrebbero formare miscele esplosive;

d ) documentazione con le relative istruzioni del costruttore per l’uso e la manutenzione delle apparecchiature per l’alimentazione di sicurezza (ove presenti);

e) documentazione con l’elenco delle apparecchiature elettromedicali in uso negli ambienti, corredata della documentazione che ne attesti i requisiti di

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sicurezza e le procedure per la ma nutenzione e controllo (certificazione ex Di ret tiva 93/42/CEE per gli acquisti successivi al 14 giugno 1998);

f ) documentazione finale di progetto: – schemi e piani di installazione, – schemi dei quadri, – disegni planimetrici degli impianti, – disposizioni di sicurezza e di manutenzione;g) documentazione finale d’impianto;h) registro delle verifiche periodiche.

Le apparecchiature radiologiche

Gli obblighi di radioprotezione (sorveglianza fisica e controllo di qualità) derivanti dalla detenzione e dall’uso di apparecchiature radiologiche, in quanto sorgenti di radiazioni ionizzanti, sono stati riordinati e precisati dal DLgs 17 marzo 1995, n. 230, in recepimento delle diverse direttive EURATOM in materia. Le norme di radioprotezione ivi contemplate trovano applicazione anche negli studi odontoiatrici.

I principi generali sanciti dal DLgs 26 maggio 2000, n. 187, concernente la “Protezione sanitaria delle persone contro i pericoli delle radiazioni ionizzanti connesse a esposizioni mediche” – che ha abrogato gli artt. 109-114 del DLgs n. 230, dettando in materia norme più organiche e dettagliate – prescrivono che dette esposizioni siano mantenute al livello più basso ragionevolmente otteni-bile, compatibilmente con le esigenze diagnostiche (principio di ottimizzazione) e che debbano essere giustificate dai vantaggi che ne possono derivare dal punto di vista terapeutico per il soggetto esposto (principiodigiustificazione). È espressa-mente stabilito che «è vietata l’esposizione non giustificata» (art. 3).

In particolare, devono essere adottate particolari cautele nel caso in cui l’accertamento radiologico riguardi un sog getto in età pediatrica o una donna in età fertile. Specifiche norme di protezione, dettate dall’art. 10 del DLgs n. 187/2000, devono essere osservate durante la gravidanza e l’allattamento. In primo luogo deve essere effettuata un’accurata anamnesi allo scopo di sapere se la donna è in stato di gravidanza e, ove questa non possa essere esclusa, va posta «particolare attenzione alla giustificazione, alla necessità o all’urgenza, considerando la possibilità di procrastinare l’indagine […]». Se l’indagine dia-

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17. L’esercizio dell’odontoiatria 555

gnostica non può essere evitata, la donna (o chi per essa) deve essere informata dei rischi derivanti all’eventuale nascituro.

Nel caso di gravidanza dichiarata non è consentito alcun impiego a scopo diagnostico delle radiazioni ionizzanti che comporti l’esposizione dell’em-brione o del feto, se non in situazioni di urgenza o in casi di necessità.

Il primo atto dell’odontoiatra che intenda utilizzare un apparecchio radio-logico (tubo radiogeno) in suo possesso è quello di incaricare un esperto qualificato della sorveglianza fisica e del controllo di qualità (art. 77, DLgs n. 230/1995). La nomina deve essere comunicata all’Ispettorato provinciale del lavoro competente per territorio, allegando la dichiarazione di accettazione dell’incarico. È sufficiente avvalersi di un esperto qualificato con abilitazione di primo grado, purché iscritto all’elenco nomi nativo istituito presso l’Ispettorato medico centrale del lavoro.

L’esperto qualificato, in base alle valutazioni relative all’entità del rischio, for-nisce quindi all’odontoiatra una relazione scritta, contenente le valutazioni e le indicazioni di radioprotezione inerenti l’attività radiodiagnostica, specificando:

– il benestare sui progetti di installazione del radiografico;– l’esito della prima verifica;– l’individuazione e la classificazione delle zone ove sussiste rischio di radiazioni;– la classificazione dei lavoratori addetti (associati, collaboratori), che, per le

caratteristiche dell’attività svolta nello studio odontoiatrico, corrisponde a quella di “lavoratori non esposti” (si intende: a una dose superiore ai limiti fissati per le persone del pubblico);

– la frequenza delle valutazioni di sorveglianza fisica;– tutti i provvedimenti di cui ritenga necessaria l’adozione, al fine di assicu-

rare la sorve glianza fisica.

Sulla base di queste indicazioni, il titolare dello studio odontoiatrico prov-vederà ai necessari adempimenti; in particolare, egli deve assicurarsi:

– che gli ambienti in cui sussiste il rischio da radiazioni siano individuati, delimitati, classificati e segnalati (con la prescritta segnaletica);

– che la classificazione dei lavoratori sia quella di lavoratori “non esposti”;– siano predisposte norme interne di protezione e sicurezza adeguate al rischio; – che copia di dette norme sia consultabile nei luoghi frequentati dai lavoratori,

in particolare nelle zone sorvegliate, e provvedere affinché vengano osservate;

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Manuale della Professione Medica556

– che siano indicate, mediante appositi contrassegni, le sorgenti di radiazioni ionizzanti.Questi adempimenti vengono solitamente predisposti e attuati diretta-

mente dagli esperti qualificati, salvo il controllo sull’osservanza delle norme interne da parte dei lavoratori che è necessariamente compito esclusivo e responsabilità del titolare dello studio.

Poiché l’attività radiodiagnostica propria dell’odontoiatra consente di clas-sificare i dipendenti come lavoratori non esposti, l’odontoiatra è dispensato dalla sorveglianza medica e dosimetrica sui dipendenti, la cui dose ricevuta può essere valutata sulla scorta dei risultati della sorveglianza ambientale.

Ottenuta dall’esperto la relazione iniziale (valutazione di radiopro-tezione, benestare sui progetti di installazione del radiografico ed esito della prima verifica), è fatto obbligo al possessore del tubo radiogeno di comunicare alla ASL com petente per territorio la detenzione dell’appa-recchio radiografico, indicando il tipo di apparecchiatura posseduta e le finalità della detenzione, nel nostro caso destinata all’attività radiodiagnostica complementare all’esercizio clinico dell’odontoiatria. A tale comunicazione, che deve avvenire entro 10 giorni (art. 195 TULLSS, va allegata la relazione dell’esperto qualificato, insieme alle altre certificazioni richieste (titoli pro-fessionali, impianto elettrico ecc.).

L’efficacia dei dispositivi e le tecniche di radioprotezione devono essere sottoposte a verifica con cadenza perlomeno biennale: di questa verrà, di volta in volta, redatto apposito verbale di controllo.

La documentazione relativa all’impianto radiologico, tenuta a cura dell’esperto qualificato incaricato, deve essere così conservata:

– la relazione iniziale sull’entità del rischio e sull’esame preventivo dei pro-getti e quelle concernenti eventuali modifiche di in stallazione: per 5 anni dalla cessazione dall’attività radiodiagnostica;

– i verbali delle verifiche periodiche, con le valutazioni delle zone sorvegliate e della dose ricevuta dai lavoratori (non esposti) in essi contenute: per almeno 5 anni dalla data di compilazione.

In caso di cessazione definitiva dall’attività professionale, i documenti predetti devono essere consegnati entro 6 mesi all’Ispettorato provinciale del lavoro competente per territorio che ne assicurerà la conservazione.

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Tutti gli oneri economici derivanti dalla sorveglianza fisica della radiopro-tezione, recita la legge, sono a carico dell’odontoiatra.

La vigilanza sull’applicazione delle disposizioni che disciplinano l’uso delle radiazioni ionizzanti in campo medico è di competenza esclusiva degli organi del SSN competenti per territorio (ASL).

Il controllo di qualità a opera dell’esperto qualificato, a seguito di specifico incarico scritto del titolare dello studio, costituisce un’ulteriore verifica della funzionalità degli apparecchi radiogeni che si aggiunge alla sorveglianza fisica, a cui si è dovuto ottemperare a partire dall’anno 1998.

Le prove idonee a verificare le prestazioni funzionali di un’apparecchiatura sono classificate in tre tipologie:

a) provadiaccettazioneedicollaudo: all’atto di installazione (nuovi radiografici) o dopo l’apporto di importanti modifiche;

b) provadiverificaodistato:per verificare il livello di funzionamento dell’appa-recchiatura in rapporto alla funzione che deve svolgere (apparecchi in uso);

c) provadimantenimentoodicostanza: per verificare periodicamente il corretto funzio namento, attraverso singoli test (controlli pe riodici).

Il risultato delle prove di partenza servirà per valutare lo stato di funzio-namento e affidabilità dell’apparecchiatura, al fine di programmare i successivi controlli periodici e la loro cadenza. Infatti, su questa base l’esperto qualificato predispone un protocollo per il tipo di apparecchiatura posseduta dall’odon-toiatra che preveda quali parametri verificare, le procedure e la periodicità dei controlli. I parametri valutati in ambito odontoiatrico sono:

– il rapporto potenza nominale e potenza effettiva;– il rapporto tra i tempi di esposizione indicati e quelli reali;– la collimazione del fascio radiante (messa a fuoco);– caratterizzazione della dimensione della macchia focale;– linearità della dose erogata;– distanza minima fuoco-pelle.

La frequenza dei controlli da espletare viene determinata sulla base della norma di buona tecnica e, comunque, deve essere congrua al carico di lavoro e alla complessità delle apparecchiature. Per uno studio monoprofessionale dotato di apparecchiature di grado B (prive di un sistema di elaborazione fina-

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lizzato alla ricostruzione delle immagini), sembrerebbe quindi ragionevole ipo-tizzare una frequenza dei controlli non superiore a quella prevista per la sorve-glianza fisica di radioprotezione (biennale); viceversa i protocolli attualmente accreditati prevedono un controllo ogni anno.

L’odontoiatra deve approntare per ogni gruppo di apparecchiature omo-genee un registro, denominato “manuale di qualità”, nel quale sono riportati:

– i protocolli di verifica;– i risultati delle prove di collaudo e di quelle periodiche, con le relative con-

clusioni;– i giudizi sulla qualità tecnica delle prestazioni diagnostiche, sottoscritti da

parte dell’odontoiatra stesso, in qualità di responsabile delle apparecchia-ture abilitato a svolgere direttamente l’indagine clinica (DM Sanità 14 feb-braio 1997, art. 2, comma 2).

Tale registro, del tipo a fogli fissi o cuciti, deve essere custodito per almeno 5 anni dalla data dell’ultima registrazione.

Verifiche sulle modalità dei controlli di qualità vengono effettuate a cam-pione dall’Istituto Superiore di Sanità e dall’Istituto Superiore per la Preven-zione e Sicurezza del Lavoro.

Per avviare l’attività radiodiagnostica in piena regolarità sono inoltre necessari:

– il versamento della tassa annua di concessione regionale, in misura variabile da regione a regione, per il primo apparecchio con una tensione inferiore ai 100 Kvolt (DLgs n. 230/1995);

– la denunciaall’INAIL,entro30giorni dall’inizio dell’uso di apparecchi radio-logici, della detenzione di tali apparecchi, ai fini della assicurazione obbligatoria INAIL, alla quale sono tenuti medici, odontoiatri e tecnici di radiologia contro i rischi derivanti dall’esposizione ai raggi X ai sensi della legge n. 93/1958 e del DPR n. 1055/1960.

Per effetto di tale obbligo, l’odontoiatra deve versare all’istituto assicura-tore un premio annuo il cui importo è attualmente determinato in 50,00 euro circa per ogni sorgente di radiazioni.

Da quanto sopra esposto, risulta evidente che non solo per l’esercizio pro-fessionale specialistico delle discipline radiologiche, ma anche per l’attività radiodiagnostica complementare all’esercizio clinico, incombono sui medici e

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17. L’esercizio dell’odontoiatria 559

sugli odontoiatri, anche se liberi professionisti, precisi obblighi e responsabilità per la radioprotezione dei pazienti, degli ausiliari e delle loso stesse persone. In considerazione di ciò le disposizioni in materia prevedono il periodico accerta-mento delle conoscenze radioprotezionistiche, ossia della conoscenza di tutte le misure che devono essere adottate, in relazione all’evoluzione scientifica e tecnologica, ai fini della radioprotezione.

Al riguardo, vanno richiamate le disposizioni contenute nell’art. 7 del più volte citato DLgs n. 187/2000 che hanno sostituito quelle inizialmente detatte, in esecuzione di quanto previsto dall’abrogato art. 110 del DLgs n. 230/1995, dal DM Sanità 21 febbraio 1997.

La citata norma – dopo aver stabilito che negli ordinamenti didattici dei corsi di laurea in medicina e chirurgia e in odontoiatria e dei corsi di specializzazioni mediche che possono comportare attività radiodiagnostica complementare all’esercizio clinico, «è inserita l’attività didattica in materia di radioprotezione nell’esposizione medica» – dispone testualmente al comma 8: «il personale che opera in ambiti direttamente connessi con l’esposizione medica deve seguire corsi di formazione con periodicità quinquennale; nell’ambito della formazione continua di cui all’art. 16-bis del DLgs n. 502 del 1992 è previsto un programma in materia di radioprotezione». Alla formazione continua – dispone il succes-sivo comma 9 – «possono essere ammessi anche professionisti che operano al di fuori delle Aziende e istituzioni di cui allo stesso decreto, con oneri a carico dell’interessato».

L’organizzazione delle attività di formazione, demandata alle Regioni, è da queste affidata alle associazioni o alle Società Scientifiche accreditate che hanno la radioprotezione del paziente tra le loro finalità. Spetta al presidente dell’associazione o della Società Scientifica rilasciare al professionista «la cer-tificazione sull’esito dell’accertamento del possesso delle conoscenze delle misure di radioprotezione» (art. 10, comma 10).

I dispositivi medici

Con l’espressione dispositivo medico s’intende «qualsiasi strumento, apparec-chio, impianto, sostanza o altro prodotto, compreso il software informatico impiegato per il corretto funzionamento, e destinato dal fabbricante a essere impiegato nell’uomo a scopo di:

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– diagnosi, prevenzione, controllo, terapia o attenuazione di una malattia o di un handicap;

– studio, sostituzione o modifica dell’anatomia o di un processo fisiologico».I dispositivi medici formano oggetto della Direttiva 93/42/CEE, recepita

dall’Italia con il DLgs 24 febbraio 1997, n. 46, con l’obiettivo di armonizzare le disposizioni nazionali in materia di protezione e sicurezza della salute dei pazienti; gli esercenti le professioni sanitarie ne sono coinvolti solamente per alcuni aspetti. Detti dispositivi, per poter essere commercializzati nell’Unione Europea devono soddisfare, a decorrere dal 15 giugno 1998, i requisiti essen-ziali previsti all’allegato I del DLgs 46/1997 e devono recare la marcatura CE, se si tratta di dispositivi medici fabbricati in serie, ovvero apposita dichiarazione di conformità se si tratta di dispositivi medici su misura.

Nel settore odontoiatrico, come noto, la gran parte delle attrezzature e dei materiali di uso comune è costituita da dispositivi fabbricati in serie, mentre i manufatti odonto tecnici sono dispositivi su misura.

Quanto ai primi, va tenuto presente che, dalla predetta data, l’immissione in commercio o la messa in servizio di dispositivi medici privi della marcatura CE è punita con una sanzione pecuniaria da un minimo di 20.658,27 euro a un massimo di 92.962,24 euro. L’odontoiatra, quindi, nel trattare l’usato, deve aver cura di accertare che il dispositivo sia munito della dichiarazione di conformità, che garantisca dal rischio di incorrere in questa pesante sanzione.

La decisione di mantenere, o meno, in ser vizio nel proprio studio attrezzature già in uso al 14 giugno 1998 è subordinata alla valutazi one dei rischi collegati, compito spettante al tito la re dello studio odontoiatrico, in qualità di responsa-bile del servizio di prevenzione e protezione, sulla base del disposto del DLgs n. 626/1994 sulla sicurezza nei luoghi di lavoro (vedere capitolo relativo). In quest’ambito è utile richiedere alle ditte produttrici (mediante raccomandata AR):

– per i dispositivi medici in uso dal 17 settembre 1986, la dichiarazione di conformità alla norma IEC 601-1 (in Italia CEI 62-5), che deve essere rila-sciata in applicazione della direttiva CEE 84/539;

– per i dispositivi prodotti dal 1° gennaio 1996 al 13 giugno 1998, la dichia-razione del fabbricante (in applicazione della direttiva CEE 84/539) circa il possesso della marcatura CE in ottemperanza alla direttiva 89/336.

Infine, per i dispositivi medici in uso prima del 17 settembre 1986 si racco-

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manda di provvedere, ove possibile, al loro ricondizionamento e, comunque, di non reimmetterli in commercio.

Quanto ai dispositivi medici su misura, è da dire anzitutto che è definito tale: «qualsiasi dispositivo fabbricato appositamente, sulla base della prescrizione scritta di un medico debitamente qualificato e indicante, sotto la responsabilità del medesimo, le caratteristiche specifiche di progettazione del dispositivo e destinato a essere utilizzato solo per un determinato paziente. La prescrizione può essere redatta anche da altra persona autorizzata in virtù della propria quali ficazione professionale. I dispositivi fabbricati con metodi di fabbrica-zione continuo o in serie, che debbono essere successivamente adattati per soddisfare un’esigenza specifica, non sono considerati dispositivi su misura».

Quelli di interesse del settore odontoiatri co sono costituiti dai manufatti di laboratorio odontotecnico, vale a dire i prodotti utilizzati dall’odontoiatra per le riabilitazioni protesiche e per i trattamenti di ortodonzia, specialmente mobile.

I dispositivi medici su misura non devono avere la marcatura CE; i fabbricanti di tali dispositivi sono obbligati, invece, a redigere la dichiarazione di conformità del prodotto alla direttiva 93/42 CEE (prevista dall’allegato VIII del DLgs n. 46/1997).

La dichiarazione di conformità rappresenta l’evidenza oggettiva che sono stati rispettati i requisiti essenziali previsti dal DLgs n. 46/1997 ai fini della sicurezza del paziente, dell’odontoiatra e di eventuali terzi.

Premesso che l’odontoiatra deve rivolgersi, a partire dal 14 giugno 1998, esclusi-vamente a laboratori odontotecnici iscritti in un apposito registro presso il Ministero della Salute, che li autorizza a costruire determinati dispositivi medici su misura (pro-tesi dentale provvisoria, fissa, mobile, combinata, scheletrica e ortodontica), esami-niamo le fasi dei rapporti studio-laboratorio secondo quanto previsto dalla legge.

a) La prescrizione (necessaria e indispensabile). Perché il laboratorio odonto-tecnico (fabbricante) possa avviare la produzione del dispositivo su misura deve ricevere una prescrizione da un odontoiatra o un medico abilitato. Come ogni prescrizione medica deve essere fatta su carta intestata, meglio se con il numero di iscrizione all’Ordine, e firmata dal curante. Deve, inol-tre, contenere almeno le seguenti indicazioni:

– il fabbricante (laboratorio) destinatario; – l’individuazione precisa del paziente (nome e/o codice fiscale); – la progettazione esauriente e dettagliata del dispositivo medico.

La prescrizione, con i relativi allegati, andrà conservata dal fabbricante per

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almeno 5 anni; è bene comunque che anche l’odontoiatra conservi copia delle sue prescrizioni nella cartella del paziente.

b) Le valutazioni del laboratorio odontotecnico.È in facoltà del tecnico di eviden-ziare, con relazione sottoscritta, particolari rischi tecnici relativi alla fab-bricazione del dispositivo secondo la prescrizione ricevuta. Sarà quindi compito dell’odontoiatra decidere, anche sulla base di considerazioni clini-che, se modificare il progetto iniziale (con nuova prescrizione) o procedere comunque nella fabbricazione, dandone comunicazione al laboratorio.

c) Il dispositivofinito.Dovrà essere inviato all’odontoiatra prescrittore (e solo a lui!) così corredato:

– imballato con etichettatura; – istruzioni tecniche, qualora necessarie, per l’odontoiatra; – dichiarazione di conformità (necessaria e indispensabile).

È bene conservare tale documentazione, assieme alla copia della prescrizione, per almeno 5 anni.

d ) L’applicazione del dispositivo sul paziente. Al momento dell’applicazione del dispositivo medico su misura, l’odontoiatra deve fornire al paziente le istruzioni necessarie per un uso corretto e sicuro del dispositivo, nonché per il mantenimento della salute orale nel modo più appropriato. Tali istru-zioni, ove necessario, possono essere date per iscritto. È opportuno che la copia delle medesime, firmata dal paziente per ricevuta, sia allegata alla cartella clinica assieme a tutta la documentazione del caso.

Il Ministero della Sanità, con la circolare del 17 luglio 1998 dedicata alla “Direttiva 93/42/CEE – Dispositivi dentali su misura: adempimenti del settore odontoiatrico e odontotecnico”, ha fornito, tra l’altro, indicazioni utili in ordine al corretto rapporto tra studio odontoiatrico e laboratorio odontotecnico.

In effetti, non emergono dal documento sostanziali novità rispetto al pas-sato, se non la necessità di seguire una prassi più rigorosa e di documentarla altrettanto rigorosamente, affinché il paziente, che può sempre richiedere copia della dichiarazione di conformità della sua protesi, sia tutelato adeguatamente.

Lavori odontotecnici nello studio odon toiatrico

È parte della professione di odontoiatra la costruzione nel proprio stu-dio di alcuni apparecchi (protesi mobili in resina, ortodonzia mobile, provvi-sori, placche gnatologiche), per un’applicazione diretta sul proprio paziente.

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17. L’esercizio dell’odontoiatria 563

Questi manufatti, considerati dispositivi medici su misura quando fabbricati dall’odontotecnico per essere immessi in commercio, nel caso di specie pos-sono rientrare nell’insieme della prestazione sanitaria fornita dall’odontoiatra.

Tuttavia deve essere chiara la distinzione tra due situazioni molto differenti:

– da un lato, chi si limita ad assemblare prodotti fabbricati in serie (già mar-cati CE) adattandoli per l’applicazione diretta sul proprio paziente ovvero produce solamente provvisori, riparazioni, riadattamenti o fasi intermedie di lavorazione, e comunque completa un nuovo dispositivo;

– dall’altro, chi, invece, fabbrica dal principio alla fine apparecchi protesici defi-nitivi, mediante procedure tecniche e apparecchiature specifiche, avvalendosi eventualmente dell’opera di un odontotecnico, per i propri o altrui pazienti.

Nei lavori di riparazione, tali da non modificare la struttura del dispositivo, così come nell’adattare al paziente prodotti dotati di marchio CE, non si ricade nella fabbricazione di un dispositivo medico a fini commerciali e la prassi di studio non viene modificata dalla Direttiva 93/42.

Viceversa, nel caso di fabbricazione di dispositivi completi, l’odontoiatra deve comportarsi nello stesso identico modo di una impresa odontotecnica: registrazione presso il Ministero, fascicolo tecnico per ogni dispositivo con prescrizione e dichiarazione di conformità, verifica e documentazione delle fasi di fabbricazione; con tutti gli obblighi documentali richiesti dal Ministero della Salute per essere inseriti nell’elenco dei fabbricanti di dispositivi medici su misura.

Qualora, poi, al procedimento produttivo prenda parte un odontotecnico dipendente, il titolare dello studio assume il ruolo di fabbricante, per cui, oltre a ottemperare a quanto previsto dalla Direttiva 93/42, dovrà dare completa attua-zione anche alle misure prescritte dal DLgs n. 626/1994 ai fini della sicurezza del lavoro.

La prevenzione del contagio professionale da HIV

A partire dal 1990, sotto la spinta della diffusione dell’AIDS, è stata rivolta crescente attenzione a tutte le misure atte a prevenire la contamina zione con l’HIV; a tale scopo l’Autorità sanitaria ha emanato appositi provvedimenti, sulla scorta anche delle indicazioni fornite dalla Commissione nazionale per la lotta contro l’AIDS e dall’Istituto Superiore di Sanità. In particolare, il DM

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Sanità 28 settembre 1990, dopo aver rilevato che «allo stato attuale delle cono-scenze scientifiche, non è possibile identificare con certezza tutti i pazienti con infezione da HIV», sottolineava che, «in aggiunta alle misure che si riferiscono all’assistenza ai soggetti per i quali è già nota l’infezione, è necessario definire precauzioni finalizzate alla prevenzione del contagio con riferimento alle atti-vità che vengono prestate, nelle strutture sanitarie e assistenziali pubbliche e private, nei confronti della generalità delle persone assistite».

Appare subito evidente come la realtà professionale odontoiatrica, per il contatto frequente con liquido salivare misto a sangue e per la presenza di aero-sol potenzialmente infetti prodotti dagli spray degli strumenti rotanti, debba adottare con il massimo scrupolo, sia per l’HIV sia per i virus dell’epatite, tutte le misure di prevenzione del contagio raccomandate dal citato decreto e di seguito elencate, nonché tutte quelle suggerite dall’esperienza clinica ormai maturata in questa delicata materia.

Precauzionidicaratteregenerale(art.1) – Tutti gli operatori, in strutture sanita-rie pubbliche e private, debbono adottare misure di barriera idonee a prevenire l’esposizione di cute e mucose, nei casi in cui sia prevedibile un contatto acci-dentale con il sangue o con altri liquidi biologici.

Eliminazionediaghiealtrioggettitaglienti(art.2) – L’eliminazione degli aghi e degli altri oggetti taglienti, utilizzati nei confronti di qualsiasi paziente, deve avvenire con cautele idonee a evitare punture o tagli accidentali. In particolare gli aghi, le lame di bisturi e gli altri strumenti acuminati o taglienti monouso, non debbono essere in alcun modo manipolati o rincappucciati, ma riposti, per l’eliminazione, in appositi contenitori resistenti alla puntura.

I presidi riutilizzabili debbono, dopo l’uso, essere immediatamente immersi in un disin fettante chimico di riconosciuta efficacia sull’HIV prima delle ope-razioni di smontaggio o pulizia, da effettuare come preparazione per la steri-lizzazione.

Questa procedura, dettata dal rispetto delle conoscenze professionali di igiene e profilassi prima ancora che dal decreto ministeriale, deve essere logicamente estesa alla prevenzione delle infezioni da virus dell’epatite, sce-gliendo disinfettanti attivi anche contro questo agente virale ben più resi-stente dell’HIV.

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17. L’esercizio dell’odontoiatria 565

Norme per gli operatori odontoiatrici (art. 4)

Gli operatori odontoiatrici, oltre a osservare le precauzioni di carattere generale, debbono indossare i guanti durante le manovre che possono com-portare contatto con mucose, sangue, saliva e fluido gengivale, sostituendoli per ogni singolo paziente.

I manipoli, gli ablatori a ultrasuoni, le siringhe aria/acqua, le frese e qual-siasi altro strumento che venga in contatto con le mucose, dopo l’utilizzo, se riutilizzabili, vanno sterilizzati per ogni singolo paziente. Nei casi in cui la ste-rilizzazione non sia tecnicamente possibile, è obbligatoria la disinfezione degli strumenti con sostanze chimiche di riconosciuta efficacia sull’HIV.

In conseguenza del disposto di questo decreto ministeriale, i titolari degli studi professionali sono tenuti a:

– informare adeguatamente tutti gli operatori dei rischi specifici a cui sono esposti e delle norme di prevenzione prescritte dal decreto medesimo;

– assicurare agli operatori i mezzi e i presidi necessari all’attuazione delle misure di prevenzione;

– disporre e vigilare affinché gli operatori osservino le precauzioni stabilite, dotandosi dei mezzi di protezione messi a loro disposizione.

Obblighi degli operatori (art. 9)

Tutti gli operatori di cui all’art. 1 debbono:

– osservare le norme del decreto, nonché le norme correttamente ricono-sciute idonee per il controllo delle infezioni;

– usare, nelle circostanze previste dal decreto, i mezzi di protezione messi a loro disposizione;

– comunicare immediatamente all’organo preposto l’accidentale esposizione a sangue o ad altri liquidi biologici per l’adozione degli opportuni provvedimenti;

– comunicare immediatamente all’organo preposto eventuali proprie ferite o lesioni cutanee essudative per l’adozione degli opportuni provvedimenti.

Lo smaltimento dei rifiuti sanitari

Le norme sullo smaltimento dei rifiuti sono state accorpate e aggiornate con il recepimento delle direttive europee in materia operato dal DLgs 5 febbraio 1997, n. 22 (detto anche Decreto Ronchi) e dalle successive modificazioni e integrazioni.

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All’art. 7, comma 1, i rifiuti vengono classificati, in base all’origine, in rifiuti urbani e rifiuti speciali, e, secondo le caratteristiche di pericolosità, in rifiuti pericolosi e rifiuti non pericolosi.

I rifiuti derivanti da attività sanitarie sono inquadrati tra i “rifiuti speciali” (art. 7, comma 3, lettera h) e sono considerati “pericolosi” (Allegati D, G, H), debbono pertanto essere smaltiti tramite il conferimento a ditte autorizzate ovvero al servizio pubblico, in presenza di apposita convenzione.

È da notare che alle richiamate disposizioni si sono aggiunte quelle det-tate dal Regolamento approvato con DPR 15 luglio 2003, n. 254, recante la disciplina della gestione dei rifiuti sanitari a norma dell’art. 24 della legge 31 luglio 2003, n. 179 (in GU 112 settembre 2003, n. 201). Tale provvedimento ha sostituito quello di cui era prevista l’emanazione dall’art. 45 del Decreto Ron-chi, norma poi abrogata dal citato Regolamento. Il DPR n. 254/2003 ha, in particolare, disciplinato la gestione dei rifiuti pericolosi secondo la distinzione tra pericolosi a rischio infettivo (elencati, a titolo esemplificativo, nell’Allegato I) e pericolosinonarischioinfettivo (elencati nell’Allegato II). Poiché i rifiuti comu-nemente prodotti nell’attività odontoiatrica sono indicati nell’Allegato I, può dirsi, per quanto qui interessa, che la normativa regolamentare non incide sulla disciplina del deposito temporaneo e dello smaltimento già in atto presso lo studio odontoiatrico.

L’art. 6, comma 1, del DLgs n. 22/1997 definisce come:

– «produttore: la persona la cui attività ha prodotto rifiuti e la persona che ha effettuato operazioni di pretrattamento o di miscuglio o altre operazioni che hanno mutato la natura o la com posizione dei rifiuti;

– detentore: il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che li detiene».

Da ciò si desume che l’odontoiatra, per la natura della sua professione, debba considerarsi quale produttore e detentore di rifiuti speciali; vedremo poi come classificati.

Il primo atto del titolare di uno studio odontoiatrico, al momento dell’avvio dell’attività, dev’essere quello di stipulare un contratto per lo smaltimento dei rifiuti con un gestore autorizzato, che sia quello pubblico (ove possibile) o una ditta iscritta all’albo nazionale delle imprese che effettuano la gestione dei rifiuti.

Raccogliere, poi, separatamente negli appositi contenitori i rifiuti speciali prodotti e mantenerli in deposito temporaneo sino al conferimento al servizio

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17. L’esercizio dell’odontoiatria 567

di raccolta. Tutte queste operazioni vanno registrate, i dati conservati e comu-nicati annualmente; si deve inoltre acquisire la conferma dell’avvenuta conse-gna al destinatario finale (impianto di smaltimento), per essere sollevati da ogni ulteriore responsabilità connessa con il rifiuto consegnato al trasportatore.

Più in dettaglio, va precisato che «gli oneri relativi alle attività di smalti-mento sono a carico del detentore che consegna i rifiuti a un raccoglitore auto-rizzato» (art. 10, DLgs 22/1997).

La responsabilità dell’odontoiatra per il corretto smaltimento dei rifiuti, quale produttore e detentore, cessa solo al conferimento di questi al servizio pubblico di raccolta ovvero, se conferito a soggetti privati autorizzati, al rice-vimento della copia del formulario di identificazione controfirmata e datata dal destinatario. In caso di mancato ricevimento entro tre mesi dalla consegna al trasportatore, diviene necessario denunciare alla Provincia gli estremi della mancata ricezione per poter considerare assolti gli obblighi di smaltimento.

Durante il trasporto, i rifiuti speciali devono essere accompagnati da un formulario di identificazione redatto in quattro esemplari, datato e firmato dall’odontoiatra titolare (produttore/detentore dei rifiuti) e controfirmato dal trasportatore al momento del ritiro presso lo studio odontoiatrico. Una copia di questo rimane in possesso dell’odontoiatra; le altre tre saranno datate e controfirmate in arrivo dal destinatario (impianto di smaltimento), e vengono così acquisite: una dal de stinatario stesso e due dal trasportatore, che provvederà a trasmetterne una all’odontoiatra a testimonianza dell’av-venuto smaltimento. Le copie del formulario devono essere conservate per almeno cinque anni.

Sul formulario devono risultare i seguenti dati: nome e indirizzo del pro-duttore e del detentore (nel nostro caso è unico: lo studio odontoiatrico), ori-gine, tipologia, quantità del rifiuto, impianto di destinazione, data e percorso, nome e indirizzo del destinatario.

I formulari, numerati progressivamente e predisposti dalle tipografie auto-rizzate, devono inoltre risultare vidimati presso la Camera di com mer cio o l’Ufficio del registro e la fattura di acquisto (contenente gli estremi del formu-lario) deve essere annotata sul registro IVA-acquisti.

Tale formulario può essere emesso anche dal soggetto che effettua il tra-sporto, sollevando così l’odontoiatra da almeno uno dei numerosi obblighi burocratici che rischiano di sommergerlo.

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I formulari di identificazione costituiscono parte integrante dei registri di carico e scarico dei rifiuti prodotti. Negli allegati è possibile reperire il modello di formulario emanato dal Ministero dell’Ambiente e la relativa descrizione tecnica.

È consentito il deposito temporaneo dei rifiuti sanitari pericolosi prodotti nello studio odontoiatrico, purché in condizioni tali da non comportare rischi per la salute.

I limiti ammessi sono così specificati:

– rifiuti sanitari pericolosi (sostanze anatomiche, rifiuti potenzialmente infetti provenienti da attività medica): fino a un massimo di 30 giorni per quanti-tativi non superiori a 200 litri; se si superano i 200 litri lo smaltimento deve avvenire entro 5 giorni;

– rifiuti speciali pericolosi (amalgama, liquidi di sviluppo e fissaggio delle radiografie): fino a un anno, purché la quantità prodotta nell’anno non superi i 10 metri cubi (10.000 litri!), limite ben difficilmente valicabile da uno studio privato odontoiatrico.

Il deposito temporaneo deve essere effettuato per tipi omogenei, separata-mente, e, per i rifiuti pericolosi, nel rispetto delle norme che disciplinano il depo-sito delle sostanze pericolose in essi contenute (art. 6, comma 1, lettera m), n. 4).

«Al direttore o responsabile sanitario della struttura pubblica o privata compete la sorveglianza e il rispetto delle disposizioni (relative alla detenzione: Ndr) […], fino al conferimento dei rifiuti all’operatore autorizzato al trasporto verso l’impianto di smaltimento».

È fatto anche obbligo di tenere presso lo studio un registro di carico e sca-rico dei rifiuti, co stituito da fogli numerati e vidimati dall’Ufficio del registro, su cui annotare con cadenza set timanale la produzione dei rifiuti e il relativo stoccaggio, nonché il loro ritiro. Come chiarito dalla circolare del Ministero dell’Ambiente del 14 dicembre 1999, di cui si dirà più avanti, da tale obbligo sono in parte esentati i liberi professionisti.

I registri, integrati con i formulari relativi al trasporto dei rifiuti, devono essere conser vati per cinque anni dalla data dell’ultima regi strazione.

Gli odontoiatri hanno facoltà di delegare la tenuta del registro a società di

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17. L’esercizio dell’odontoiatria 569

servizi (ove operanti) costituite dalle Associazioni di categoria, nel qual caso l’obbligo di compilazione diventerebbe mensile. È importante comunque con-servare copia dei dati trasmessi (art. 12, DLgs n. 22/1997 – DM Ambiente 1° aprile 1998, n. 148).

Entro il 30 aprile di ogni anno è obbligatorio inviare alla Camera di com-mercio il MUD (Mo del lo Unico di Dichiarazione) istituito dalla legge n. 70/1994, poi modificato con DPCM del 21 marzo 1997. Anche tale obbligo non si applica ai liberi professionisti che esercitano nel loro studio privato.

In tale modello vanno indicati: i dati del produttore di rifiuti e l’indica-zione della sede in cui i rifiuti vengono prodotti con relativi addetti; le schede RIF con nome, codice, caratteristiche e quantità dei rifiuti speciali prodotti nell’anno precedente, nonché le quantità giacenti al 31 dicembre; i moduli TE con i dati dei trasportatori e la quantità dei rifiuti a loro conferita nell’anno pre-cedente. Tali dati devono essere rilevati dal registro di carico e scarico, pertanto devono corrispondervi esattamente.

Prima dell’invio della dichiarazione è necessario effettuare un versamento su c/c postale intestato alla Camera di commercio, per diritti di segreteria, il cui importo varia a secondo che il supporto dei dati sia cartaceo o magnetico (floppy disk).

Vengono appresso indicati i codici del Catalogo Europeo dei Rifiuti (CER) da utilizzare nella compilazione sia dei registri sia del MUD:

Come accennato, circa l’obbligo di smaltimento dei rifiuti speciali va tenuta presente la circolare del 14 dicembre 1999, con la quale il Ministro dell’Am-biente ha dato la sua interpretazione in merito ai “Soggetti tenuti agli adem-pimenti di cui agli articoli 11, comma 3, e 12, comma 1, del DLgs 5 febbraio 1997, n. 22”, più precisamente circa l’obbligo da parte dei medici e degli odon-toiatri di tenere i registri di carico e scarico e di effettuare la relativa dichiara-zione annuale al Catasto rifiuti (MUD).

La circolare ricorda anzitutto che gli articoli citati prescrivono tali adem-pimenti nei confronti di tutti «gli Enti e le imprese che producono rifiuti peri-colosi». L’obbligo riguarda, pertanto, i rifiuti pericolosi che sono prodotti da complessi organizzati di persone e cose dotati di autonoma soggettività rispetto alle persone che ne fanno parte, o da attività svolte in forma di impresa.

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Tipo di rifiuto Codice europeo (CER)

Rifiuti sanitari potenzialmente infetti 180103

Amalgama d’argento (rifiuto contenente mercurio) 060404

Liquidi di sviluppo in base acquosa (radiografie) 090101

Liquidi di fissaggio (radiografie) 090104

Tuttavia gli obblighi propri dell’impresa si applicano anche nel caso di pre-stazioni sanitarie effettuate bensì da professionisti intellettuali, ma nell’ambito di una struttura complessa, nella quale l’opera personale del professionista costituisce solo un elemento di una attività più ampia, organizzata in forma d’impresa da un professionista-imprenditore (ad es. medico che gestisce una casa di cura o un poliambulatorio).

In definitiva – precisava la circolare – l’obbligo di tenuta dei registri e di comunicazione al Catasto rifiuti riguarda i rifiuti sanitari pericolosi prodotti:

a) da enti (complessi organizzati di persone e cose aventi autonoma soggetti-vità di diritto) che erogano prestazioni sanitarie;

b) da attività sanitarie erogate da professionisti nell’ambito di una organiz-zazione d’impresa (a mero titolo esemplificativo, non esaustivo: cliniche, poliambulatori ecc.).

Dalla circolare risulta confermato, in conclusione, che sono esclusi dai pre-detti adempimenti i rifiuti sanitari pericolosi prodotti, nell’esercizio di profes-sione intellettuale non inquadrata in un’organizzazione d’impresa, da professionisti singoli o associati, ancorché si avvalgano della collaborazione di ausiliari.

Resta fermo che detti rifiuti devono essere comunque avviati allo smalti-mento tramite ditte autorizzate o apposito servizio e che copia del formulario di trasporto (cosiddetto identificativo) deve essere conservata a riprova del corretto smaltimento.

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AppendiceWeb e medici: elementi per un uso corretto del web

W.Gatti

Grazie all’enorme sviluppo tecnologico e di produzione e condivisione di contenuti avvenuto dall’inizio degli anni ’90 ad oggi, la rete comunemente chiamata Internet è diventata una basilare biblioteca di contenuti e servizi a disposizione del medico. La nascita del World Wide Web (da cui l’acronimo www, utilizzato per primo da un fisico inglese del Cern di Ginevra, Tim Ber-ners Lee), ha portato una vera rivoluzione comunicativa e oggi anche in Italia tutte le Istituzioni del SSN, le pubbliche amministrazioni, le Università, gli Ordini professionali, le Associazioni mediche e le Società Scientifiche hanno un proprio sito web attraverso il quale comunicano con i propri associati o iscritti o comunque con i propri utenti di riferimento.

Il Ministero della Salute è da anni presente on line (www.salute.gov.it), con la propria struttura, attraverso un sito che propone documentazioni aggiornate sulle attività del dicastero e sulle varie realtà istituzionali e scientifiche ad esso collegate, dal Consiglio superiore di Sanità:

www.salute.gov.it/ministero/sezMinistero.jsp?label=cssagli Irccs, all’Aifa all’Agenas (www.agenas.it). Sempre a cura del Ministero è stato attivato un servizio decisamente utile, il portale della normativa sanitaria (www.normativasanitaria.it) dove è possibile ricercare leggi e norme in ambito sanitario.

Tutto ciò che riguarda l’ambito “ufficiale” dell’Educazione Continua in Medicina ha nella Commissione nazionale ECM il proprio punto di riferimento: in questo senso sia un canale all’interno del sito del mini-stero (www.salute.gov.it/ecm/ecm.jsp) che il sito dell’Agenas sono il modo più affidabile per ricercare informazioni sia per i medici che per strutture e provider. Anche il sito del Cogeaps (www.cogeaps.it), cioè del consorzio che detiene l’anagrafica di tutti gli operatori della salute, è

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di importante riferimento. Segnaliamo la particolare ricchezza del sito dell’AIFA (www.agenziafarmaco.it), che propone (scaricabili gratuita-mente) documenti e rapporti sull’uso dei farmaci, ma anche la possibilità di segnalare reazioni avverse e di verificare le liste di trasparenza e quelle dei farmaci sottoposti a monitoraggio.

In ambito deontologico e professionale, essenziale risulta la consulta-zione del portale della Federazione nazionale dei medici e degli odontoiatri (www.fnomceo.it), nel quale è riportata tutta la documentazione riguardante deontologia (il Codice deontologico è scaricabile gratuitamente) e problema-tiche professionali (sono scaricabili gratuitamente anche le linee-guida sulla pubblicità sanitaria); la newsletter settimanale è a disposizione di tutti previa registrazione. All’interno del portale – che è anche la porta di ingresso verso decine e decine di eventi ECM realizzati su tutto il territorio nazionale – esi-ste l’unica Anagrafica medico-odontoiatrica pubblicamente consultabile (si veda sul portale FNOM: Ricerca anagrafica). Questa anagrafica è aggiornata periodicamente sulla base dei dati comunicati dai singoli medici al proprio Ordine provinciale. L’anagrafica è risultata anche in passato uno strumento fondamentale per smascherare situazioni di abusivismo (soprattutto in ambito odontoiatrico) ed è uno servizio di esteso uso da parte dei cittadini.

Occorre ricordare comunque che per il medico e per l’odontoiatra il riferi-mento prioritario è il proprio Ordine provinciale. Quasi tutti gli OMCeO hanno un proprio funzionale sito web, all’interno del quale si ritrovano (al di là delle ovvie informazioni di servizio: sede, orari di segreteria, contatto con il Presidente e con i vari membri del Consiglio) documenti, pareri legali, risposte su problema-tiche di pubblicità sanitaria e agenda degli eventi proposti sul territorio.

I due grandi enti prevido-assistenziali d’ambito medico, ENPAM (www.enpam.it) e ONAOSI (www.onaosi.it) hanno una presenza digitale ampia e dettagliata. Sui loro siti attività, documentazione e circolari sono raggiungibili pubblicamente. Nel sito dell’ENPAM, appena rinnovato, si trova anche una dettagliata “Rassegna stampa di politica sanitaria”. Acce-dendo all’area riservata del sito (previa registrazione) si possono utilizzare i servizi personalizzati che rendono possibile agli iscritti la verifica della propria posizione contributiva.

Anche tutti i sindacati e le associazioni mediche interpretano con un certo protagonismo la propria presenza su web, dalla CIMO (www.cimoasmd.it)

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Appendice. Web e medici: elementi per un uso corretto del web 573

all’ANAO-ASSOMED (www.anaao.it), dal SUMAI (www.sumaiweb.it) allo SNAMI (www.snami.org). Sicuramente la FIMMG (www.fimmg.it) è stata tra le prime a utilizzare i sistemi più avanzati di comunicazione, tra cui il forte ricorso all’uso del video e dell’enorme community di Youtube (www.youtube.com). Ben presente online è anche l’Associazione dei dentisti italiani (www.andi.it).

Tante sono poi le Società Scientifiche che hanno un proprio sito web, all’in-terno delle quali si trovano documentazione, attività, razionali dei congressi, eventi, corsi ECM. Alcune società interpretano la propria presenza su internet in modo di pura presenza, una “bandierina” posizionata sul pianeta web. Altre, invece, credono fortemente nella comunicazione digitale e nelle sue modalità multimediali (con l’uso di video, web-tg, sistemi di scaricamento di contenuti e di condivisione di documenti o discussioni). Importante diffusione – anche se non sempre in chiave di “professione” medica; spesso esiste un mix di conte-nuti e target di lettori che non sempre facilità la lettura – hanno le pagine dedi-cate alla sanità e salute da parte del Sole24Ore (www.sanita.ilsole24ore.com),di Repubblica (www.repubblica.it/salute), del Corriere della Sera (www.corriere.it/salute; ma il gruppo RCS ha anche generato un sito specifico che ha la collaborazione della Fondazione Veronesi: www.oksalute.it). Ottimi canali di informazione professionale sono le pagine sanità del portale Yahoo (www.it.health.yahoo.net), dove i conte-nuti sono realizzati dalla redazione di una delle più note case editrici d’ambito medico, Pensiero scientifico, e il più recente www.quotidianosanità.it, che si presenta come il “primo quotidiano on line dedicato al mondo della sanità”.

Tra i siti di informazione dedicati al pubblico professionale medico e proposti da editori specializzati privati, segnaliamo i marchi più seguiti ed affermati, come www.doctonews.it, www.edott.it, www.univadis.it, www.paginemediche.it. Molto spesso questi siti generano anche una newsletter (quotidiana o settimanale) cui ci si può iscrivere in modo gratuito, grazie a cui ricevere sulla propria mail con-tenuti scientifici o professionali, interviste, report e abstract dalle maggiori testate scientifiche internazionali, in testa New England Medical Journal, Lancet e British Medical Journal. Nella maggior parte dei casi questi siti (e le loro newsletter) sono sostenuti da meccanismi (evidentemente dichiarati) di pubblicità o sponsorizza-zione farmaceutica o medicale. L’accesso ai contenuti di questi canali di informa-zione digitale è regolato dall’iscrizione: generalmente gli articoli (in quanto conte-nenti indicazioni farmaceutiche) non possono essere rivolti al cittadino.

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In questi ultimi anni si parla di web 2.0 e ci si riferisce a quel vasto mondo di opportunità interattive e collaborative esploso su web a partire dal 2005 e che comprende i social network, le piattaforme di conoscenza condivisa (come Wiki-pedia e Youtube) e il sistema dei blog. Anche in questo senso il mondo medico può trovare risorse per le proprie necessità. Su Youtube esistono ormai nume-rosissimi contenuti di ambito medico, soprattutto interviste realizzate in sede convegnistica (basta entrare in www.youtube.it e digitare nello spazio della ricerca un termine come – per pura esemplificazione – “cardiologia” oppure “artrosi” per rendersene conto). E visto che i blog di medici italiani non sono ancora così diffusi, si segnala la più importante community di questo tipo: è Sermo (www.sermo.com), un social network americano che coinvolge ormai oltre 115.000 medici e che si vanta di “50 mila argomenti di discussione, con 1 milione di commenti” lasciati da medici di varie discipline.

Ovviamente non tutto quello che si trova su Internet è corretto, affidabile, autorevole, scientificamente sostenuto. La qualità e la validazione dei contenuti che medici, pazienti e cittadini trovano online è uno dei punti caldi (o dolenti) di tutto il sistema. Vale la pena ricordare che esiste un marchio di qualità rico-nosciuto internazionalmente, l’HON CODE, rilasciato dalla Health On the Net Foundation, ente svizzero che attribuisce il proprio marchio e logo ai siti e por-tali di informazione medico-scientifica che rispondono a determinate caratteri-stiche di affidabilità, trasparenza e autorevolezza scientifica delle informazioni.

E quindi per terminare, forse è utile ricordare che tutto il mondo di Wiki-pedia (il sito italiano è raggiungibile qui: www.it.wikipedia.org) è alimentato in modo volontario: chiunque può partecipare alla costruzione di contenuti. Anche il singolo medico italiano può dunque contribuire alla costruzione di questa comunità di saperi pubblici e condivisi. Magari offrendo la propria disponibilità per l’innalzamento del livello qualitativo dei singoli contenuti.