marco franzoso - il bambino indaco

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Marco Franzoso

IL BAMBINO INDACO

Einaudi 2012

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TramaChi sei?, chiedo silenziosamente, qual è il tuo segreto? Perché non lo conosco ?» Forse non è così vero che l'istinto materno non sbaglia mai.A volte scegliamo di non dare peso a una piccola crepa, un'incrinatura

impercettibile, che a poco a poco scalfisce, fino a squarciare.Così succede a Carlo, che all'improvviso si ritrova inerme «come chi è rimasto

dalla parte sbagliata di un fiume dopo il crollo di un ponte». Perché Isabel, sua moglie, lotta contro i propri demoni nell'accanito inseguimento di una purezza assoluta. Che svuota, logora, annienta.

Anche il loro bambino.Marco Franzoso ha scritto una storia attuale e sovversiva, che sfida molti luoghi

comuni. Una storia dura raccontata in punta di penna, che non ti togli più dalla testa.

«Quando infine mi passarono il bambino, una fitta di felicità mi lacerò il petto. Respirai forte per non crollare. Lo tenni in braccio e pensai che ce l'avevamo fatta. Almeno fino a lì ce l'avevamo fatta».

«Ho attraversato questa storia sotto tensione fino all'ultima pagina. Poi non ho smesso di tornarci col pensiero. Ho pensato che ci sono due vie per attraversare la vita. E non è possibile sceglierle, perché le decide il destino.

La prima, la più diffusa, è quella delle esperienze universali che bussano alla nostra porta. Arriva la nascita, arriva l'amore, arriva la morte. Da uno vanno vestite di blu, da un altro di rosso. Le esperienze fondamentali sono le stesse per tutti, anche se succedono in mille maniere diverse.

A qualcuno invece è dato in sorte tutt'altro.Ci sono persone a cui l'universale si presenta completamente stravolto,

irriconoscibile.Forse non è più l'universale, ma un'altra cosa ancora, incomprensibile, inaudita,

che non ha nemmeno nome. Il male si installa dove ci dovrebbe essere la tenerezza, la sicurezza più fiduciosa. L'orrore sboccia nel più inaspettato dei luoghi. Il bambino indaco si inoltra in quel luogo impossibile, dove le cose primarie crollano, la vita si sfonda precipitando, e la più pacifica delle condizioni, l'amore per il proprio figlio, va conquistata con la più astuta e feroce delle guerre».

Tiziano Scarpa.

Marco Franzoso è nato nel 1965 in provincia di Venezia, dove attualmente vive.Nel 1998 ha pubblicato il romanzo Westwood dee-jay (Baldini & Castoldi), da

cui è stato tratto uno spettacolo teatrale, e con Marsilio i romanzi Edisol-M.Water Solubile (2002) e Tu non sai cos'è l'amore (2006, Premio Castiglioncello),

anch'esso diventato uno spettacolo teatrale.

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Il bambino indaco

Le auto dei carabinieri sono ferme in fila a bordo strada.Un'ambulanza manovra di fronte al cancelletto metallico del mio palazzo. In

ordine sparso sul marciapiede e nel parcheggio interno una decina di carabinieri si muovono inquieti, lo sguardo a terra in cerca di qualcosa. Sullo spiazzo del bar dall'altra parte della strada c'è un gruppo di curiosi. Sono fermi, immobili, attoniti. Quando mi vedono arrivare ammutoliscono.

Parcheggio dietro la colonna di auto, mi presento al carabiniere di guardia al cancello e gli dico che sono appena stato contattato dal maresciallo. Mi chiede di mostrargli un documento, quindi chiama il suo superiore.

Non è la prima volta che incontro il maresciallo Marino, un uomo imponente, sui sessant'anni. Il viso severo contrasta con le folte basette rosse che spuntano da sotto il berretto d'ordinanza. Mi rivolge il solito saluto militare e annuisce stringendo le labbra in una smorfia che sembra di pena o addirittura rimorso.

- Ha capito di che si tratta? - esordisce. Poi continua: - Mi dispiace tanto.No, non ho capito. Quando mi ha chiamato è stato telegrafico e mi ha

semplicemente invitato a tornare subito a casa. - Cos'è successo? - riesco a dirgli. E inizio come al solito a tremare, chiudo le mani a pugno e stringo, fino quasi a conficcare le unghie nei palmi.

- Mi segua, - dice il maresciallo abbassando la voce.Grazie a lui ci facciamo largo tra le guardie davanti al cancello e raggiungiamo

il parcheggio del condominio, dove possiamo parlare lontano dai curiosi.Ha un'espressione seria. Si guarda intorno, prende tempo e studia il cortile

invaso dai suoi uomini come un vecchio generale studierebbe il campo di un'atroce battaglia.

Quando riprende a guardarmi, sembra usare gli occhi per capire dalla mia postura, dal tremore delle mie mani, dalla mia aria sfiancata, il mio grado di tolleranza alle notizie che sta per darmi. Cerca il tono giusto. Si fa più vicino.

- Si tratta di sua moglie, - inizia.- Mia moglie ?- È successa una tragedia.Da questa distanza vedo bene la pelle grossa del suo viso, le vene che si

raggrumano alla base del naso, i piccoli occhi che mi studiano veloci. Sfila il berretto d'ordinanza e lo stringe con entrambe le mani per la visiera, un gesto che gli ho già visto fare in altre occasioni. Conosco quest'uomo da qualche mese e all'improvviso mi pare che tra noi ci sia una specie di familiarità antica.

- Una tragedia, - ripete. Prende una boccata d'aria, appoggia il berretto alla pancia e continua a stringerlo fino a quando la punta delle dita inizia a sbiancare. - Si, purtroppo.

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Non so dove trovo la forza ma anche in un momento come questo sono in grado di trattenermi e non reagire, non gridare, non fare nulla. Immagino che qualsiasi cosa faccia, qualsiasi frase dica o qualsiasi espressione attraversi il mio viso potrebbe un giorno ritorcersi contro di me. Resto immobile a contemplare la scena e mi perdo a osservare i dettagli più marginali, il tessuto liscio del suo berretto, la ghiaia silenziosa ai nostri piedi e le nostre ombre proiettate dal sole biancastro. Studio i dettagli perché questo mi permette di resistere e prendere tempo. Non crollare.

Ho paura di me, soprattutto.- Mi dica per favore cos'è successo, - dico misurando le parole. Alzo gli occhi

verso il terrazzo del mio appartamento e vedo carabinieri che entrano ed escono con naturalezza da casa mia. Uno di loro scatta foto col flash.

Nell'appartamento a fianco, i miei due vicini anziani appoggiati sui gomiti alla ringhiera di metallo. Lei, Emma, si asciuga gli occhi con un fazzoletto. Lui, il vecchio Dante, accenna un saluto con la mano e l'accompagna con un movimento rallentato del viso. Scuote la testa e non si dà pace.

- Sua moglie è stata trovata morta, - riprende il maresciallo Marino.Mi gira la testa, ho bisogno di sedermi. - Mi sento male, - gli dico. Lui chiama

due giovani guardie che mi prendono sottobraccio e mi accompagnano a sedere sul muretto vicino al portone d'entrata. Il maresciallo ci segue da poca distanza. - Le faccio portare qualcosa da bere, - dice.

- Grazie, - rispondo.- Lei ora pensi solo a stare tranquillo.Una delle due guardie si allontana e torna di corsa con un bicchiere. Bevo troppo

velocemente, poi sputo con un colpo di tosse.- Si sforzi di stare tranquillo, - ripete il maresciallo Marino.Appoggia una mano sulla mia spalla. Stringe con una forza morbida e allo stesso

tempo decisa e io sento tutta la pressione del suo corpo su di me.Finalmente chiudo gli occhi. Respiro lentamente e l'oscurità improvvisa sembra

regalarmi qualche istante di stabilità.Porto i palmi delle mani sugli occhi e ascolto il vociare sgraziato dei carabinieri.

Sento i loro passi sulla ghiaia. Li sento sciamare intorno, impegnati nelle loro mansioni, occupati nel tentativo di ristabilire l'ordine rassicurante delle cose, scovare cause verificabili, tracce possibili sulle quali costruire una qualche possibile oggettività. Suppongo sia questo il loro lavoro. La promessa della Legge.

Chiedo al maresciallo che mi racconti cos'è successo.Gli dico che non tema di dirmi la verità. Non ho alcuna paura di sentirla, la

verità. Anzi, la verità mi farà bene, ne sono sicuro.- Avevamo tutti gli elementi per prevenire questa tragedia, - inizia. - Ma

abbiamo sottovalutato.Fa allontanare il giovane carabiniere che ha portato l'acqua e mi siede vicino, sul

muretto.

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È una giornata molto calda. Siamo nel pieno di un afoso pomeriggio di luglio e dalla terra sale un'umidità che impregna i pantaloni, si appiccica fastidiosamente alla camicia.

Io sudo. Cerco solo di stare immobile e di trattenermi come da tempo ho imparato a fare. - Cos'ha detto?

- Abbiamo tutti sottovalutato la situazione, - ripete quasi sentisse il dovere di scusarsi.

- No, non tutti l'abbiamo sottovalutata, - gli dico con un filo di voce. - E poi cos'è successo?

Un carabiniere che sta vicino al cancello, forse lo stesso che mi ha accolto all'inizio, chiama il maresciallo e lui gli risponde infastidito. Fa cenno con la mano di non disturbare.

- Poi c'è sua madre, - continua.Io ricomincio a tremare. - Mia madre? - alzo la voce.- Mia madre cosa ? - Sento che non ho più le forze e mi afferro al muretto come

se ora, davvero, una corrente irresistibile e spietata potesse risucchiarmi lontano, strapparmi via per sempre.

Il maresciallo sta per riprendere a parlare quando io lo interrompo. - Dov'è mio figlio? - gli chiedo.

- Suo figlio è al sicuro, - risponde. - È in custodia dagli assistenti sociali. Sta bene, suo figlio, non si preoccupi.

- È ferito ?- No. Le ho detto che sta bene. Non si preoccupi per lui, non ci pensi, suo figlio

è in salvo. Nessuno gli farà più niente.È un uomo a cui l'esperienza ha insegnato a seguire i tempi del copione nel

migliore dei modi. Non accelera e non rallenta la cadenza. Capisce dai miei gesti, dal mio sguardo e dalle mie domande qual è il momento delle frasi da pronunciare. È un professionista e sa come agire anche nelle situazioni umanamente più complesse. Intanto mi sta vicino e mi tiene d'occhio perché ha imparato a diffidare di quelli in grado di controllarsi come me.

- Suo figlio ha visto tutto, ma lo aiuteremo noi, - riprende il maresciallo. - Lei può contare su di noi in ogni momento.

- E mia madre ?- L'abbiamo sedata. È a letto e sta bene. C'è un medico con lei. Non si preoccupi,

sua madre è fuori pericolo, ormai. Cosa c'è? - mi chiede. - Si sente male?Tossisco. La gola è tornata secca e poi, all'improvviso, una fitta mi prende allo

stomaco. - Mi viene da vomitare, - mi sforzo di dirgli. - Mi scusi.- Ce la fa ? - mi chiede. - Non c'è niente di cui scusarsi.Sono qui per lei.Nel frattempo attira l'attenzione di una delle guardie e anche se io dico che sto

meglio lui non sembra convinto.- Chiama il medico, - ordina alla guardia.

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Il medico scende trafelato dopo pochi minuti, il camice aperto sul davanti. È un volontario della Croce Verde di appena trent'anni, magro, capelli stopposi sopra la fronte.

I suoi occhi si muovono veloci e spaventati.- Come si sente? - chiede tastandomi il polso.- Non lo so.- Se posso permettermi... - dice il medico. - Se lo desidera, potrei darle qualcosa.

Qualcosa di leggero, non le farà male.- No, grazie. Il maresciallo gli fa cenno di andare.- Voglio vedere mia madre.- Sua madre sta dormendo. Adesso non è possibile.- Voglio vederla, - insisto. - Dov'è mio figlio?- Senta... - inizia il maresciallo. Torna subito a stringere le labbra con

un'espressione di rimorso. - D'accordo, l'accompagno io, - concede infine, - anche se non sarebbe consentito.

Entriamo nel palazzo. Nell'atrio non c'è nessuno. Si sente solo un mormorio lontano, dai piani superiori, probabilmente da casa mia.

In ascensore gli istanti scorrono infiniti. Non mi ero mai accorto della lentezza di questo ascensore. È un modello nuovo e sembra fermo anche quando si muove.

Le porte si aprono al quinto piano.Esce prima il maresciallo, poi io, infine la giovane guardia che ci ha seguiti.La porta del mio appartamento è spalancata, uno spiraglio di luce dentro il buio

polveroso del pianerottolo.Sento i nostri passi rimbombare nel corridoio. Adesso nessuno parla, i

carabinieri che stazionano davanti alla porta mi guardano.Sulla soglia, prima ancora di entrare vedo il corpo di mia moglie disteso di

traverso sul pavimento, sopra il tappeto con motivi indiani che avevamo scovato in un mercatino equosolidale.

È crivellato di colpi e io ne riconosco il viso nonostante sia coperto di schizzi di sangue.

Anche i muri del nostro soggiorno sono schizzati di sangue.- Sto male, - dico al maresciallo.La giovane guardia mi si avvicina. - Vuole uscire?-No.C'è sangue sullo stereo e sui suoi cd di musica etnica.C'è sangue sul suo quadro, quello che chiamavamo la Tuffatrice, appeso sopra il

divano. Sangue sul divano. Sangue sul tappeto. Ci sono schizzi sulle tende della portafinestra.

C'è sangue sul suo corpo morto.Le gambe sono leggermente divaricate, sembra distesa in una posizione comoda,

quasi naturale. Indossa la tunica marocchina che aveva acquistato durante un viaggio in Nordafrica con delle amiche prima che ci conoscessimo. È scalza.

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Inizio a prendere coscienza di me. Inizio a pensare per la prima volta con lucidità a ciò che sta succedendo. Questa è la mia casa, mi ripeto quasi dovessi convincermene, questo il mio tappeto, questo il mio salotto. Questa mia moglie.

Saranno passati pochi minuti da quando ho varcato il cancello sulla strada e sono stato accolto dal maresciallo, eppure sembra trascorsa un'eternità. Il tempo si è rappreso addensando insieme ogni elemento della mia vita per spararmelo addosso ora, con tutta la violenza di cui è capace.

Pur faticando a guardare ciò che mi sta davanti agli occhi, riconosco questa scena come l'unico esito possibile di una serie di eventi che nessuno ha saputo fermare. Né io, né il maresciallo.

- È stata ferita anche mia madre ?- No, - dice il maresciallo. - Sua madre sta bene. Ha avuto una crisi di nervi e

l'abbiamo sedata, gliel'ho detto.Mia madre sta bene, mi ripeto ossessivamente come servisse a stabilizzare le

cose. Mia madre sta bene.Il maresciallo nel frattempo ci ha ripensato e dice che è impossibile vederla ora.

Penso che mi piacerebbe avere qui Sara, il mio avvocato, con le sue braccia nervose e il suo atteggiamento pratico, ma ho il sospetto che se chiedessi di farla chiamare, il maresciallo e i suoi uomini lo prenderebbero come un affronto. Ci sono loro qui. Ci sono loro a vegliare su di me, a cercare di rimettere ordine nelle cose.

Allora non faccio niente, lascio scorrere altri istanti e abbasso lo sguardo.E finalmente la vedo, seminascosta ai piedi del divano, morbida, la pelle di

daino sfrangiata dentro la quale mio padre custodiva la sua vecchia pistola.È proprio finita, penso.Tra me e mia moglie Isabel iniziò tutto nel migliore dei modi, poco meno di

quattro anni fa. Io avevo trentasei anni, e da qualche tempo la mia vita era entrata in una sorta di stallo che pareva dover durare per sempre. Ero socio in una piccola agenzia di comunicazione che pur non brillando mi garantiva una certa stabilità economica e mi ero costruito negli anni un'indipendenza sentimentale che sembrava più che sufficiente. Voglio dire che non riponevo grandi aspettative nei confronti della vita e sentivo che era giusto così, perché nemmeno la vita sembrava riporre grandi aspettative su di me. In giro, poi, c'erano un sacco di opportunità. Gli amici, le ragazze. Era tutto a disposizione e io non mi tiravo indietro.

L'incontro era stato organizzato da Valentina, la fidanzata di un amico, una laureanda in giurisprudenza con la passione per la biodanza. In quei mesi spesso mi parlava di questa ragazza svizzera che lavorava nell'erboristeria di una città vicina, Treviso, e che a sentire lei pareva tagliata su di me. E poi, continuava a ripetermi quasi fosse una minaccia, avevo trentasei anni, non sentivo il bisogno di sistemarmi ?

No. Non lo sentivo.Fu lei a prendere l'iniziativa, e senza consultarmi organizzò questa cena a due,

per un venerdì sera di metà ottobre.

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Un autentico appuntamento al buio.Quella sera faceva freddo e l'aria era bagnata da una pioggia sottilissima e

densa, quasi un vapore gelido. La gente rientrava dal lavoro guidando con lentezza. Una colonna di macchine si snodava sulla circonvallazione attorno alle antiche mura della città, un serpente ininterrotto fatto di lamiera, sedili imbottiti, riscaldamenti accesi, autoradio sintonizzate su trasmissioni satiriche. La settimana sfumava nella zona franca del weekend. Il serpente scivolava sull'asfalto umido. Bisognava bucare la densità del suo corpo per penetrare là dentro, oltre le mura, nello spazio protetto del centro, dove un dedalo di divieti di transito e di sosta scoraggiava gli intrusi, e dove regnava un diffuso, militaresco senso di ordine, l'illusione della cittadina ideale.

Pur essendo un intruso, conoscevo Treviso e riuscii ad attraversare l'anello di traffico e parcheggiare in sosta vietata a pochi metri dal ristorante: nemmeno nella cittadina ideale, tutto sommato, i vigili urbani sarebbero usciti con la pioggia.

Arrivai al ristorante con un quarto d'ora di anticipo e aspettai al bancone del bar con un aperitivo. Lei arrivò puntuale, alle otto. Svizzera.

Non fu difficile riconoscerla. Appena la vidi superare la porta di vetro mi sembrò quasi di ritrovare una persona già nota. Vestiva un enorme cappotto militare color cachi, squadrato sulle spalle e lungo fino alle ginocchia. I capelli biondi raccolti dietro, gli occhi azzurri, grandi. Era indubbiamente bella.

Mi piacque il suo modo di camminare. Mi piacque il sorriso insicuro e insieme aperto, la franchezza con cui si diresse verso di me: - Sei tu Carlo?

- Sono io. Si, credo proprio di si, - dissi.Un giovane cameriere col pizzo e le basette a punta ci fece accomodare in una

saletta in fondo. Il tavolo era di legno massiccio, con vecchie sedie impagliate e una tovaglia di lino color panna ricamata a mano, in linea con lo stile da osteria storica del locale. In compenso, il pavimento era fatto di lastroni di vetro e là sotto, silenziosa, incantata e quasi fiabesca, scorreva l'acqua di un ramo del Sile.

La saletta era tutta per noi. Una bolla di intimità ci avvolse da subito e sembrò annullare ogni imbarazzo. Fingendo di studiare il menu, ci lanciammo occhiate a vicenda fino a quando i nostri sguardi si incontrarono. - Non avevo mai partecipato a un appuntamento al buio, - disse lei.

- Neppure io, - risposi, e scoppiammo a ridere.Quella sera parlammo a lungo, sospesi sopra il pavimento di vetro, nello scrigno

della piccola sala, le nostre voci scorrevano basse e fluide. Isabel iniziò proponendo un patto: le sarebbe piaciuto godersi la cena in completa rilassatezza, senza inseguire grandi aspettative che avrebbero solo inceppato il dialogo. - Magari non ci rivedremo più, - disse sorridendo. La luce tenue dell'ambiente rendeva i suoi occhi di un blu insondabile e riposante. - Magari ci rivedremo ancora, chi lo sa ? Lasciamo fare al destino e godiamoci questa bella cena, che dici ?

Quella frase mi colpì. Nella sua banalità era dotata di un tale buon senso che era impossibile non accettare. E non solo per assecondare la donna che avevo di

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fronte, ma perché sentivo che per una volta nella vita si poteva provare ad abbassare le difese.

- Mi piace, - le risposi. - Si.Da quel momento la conversazione fu fitta e deliziosamente disordinata.

Scivolammo con naturalezza da un argomento all'altro e lei, soprattutto, pareva instancabile.

Mi srotolò davanti la sua vita passata, i primi dieci anni in Italia, a Roma, un miniappartamento a Trastevere, un motorino scassato, i pomeriggi di primavera a prendere il sole nei giardini di Villa Pamphili. Mi raccontò della pittura, la sua passione più bruciante.

Sembrava non cercare né volere niente, e nemmeno io cercai mai di fare colpo su di lei. Nessuno sentiva il bisogno di sedurre nessuno ed era del tutto naturale essere lì, lontani dal mondo, in quella piccola sala protetta. Che insperata sensazione di intimità, continuavo a ripetermi.

Mi disse di amare quasi fisicamente Lucien Freud, i suoi personaggi volgari e al tempo stesso sofisticati. Mi spiegò la decadenza della scultura dopo Giacometti. Mi rivelò di essere quasi fuggita dalla Svizzera ed essersi rifugiata in Italia perché credeva che in questo Paese l'arte avesse intriso ogni aspetto dell'esistenza, anche la vita quotidiana della gente. Ma subito aveva compreso che non era così.

Per questo si era trasferita al Nord. Qui almeno c'erano il mare e Venezia, molto meno contaminata di Roma. Inoltre c'erano le Dolomiti, e lei amava come nient'altro fare lunghe passeggiate da sola tra i monti, d'estate.

- Anch'io vado spesso sulle Dolomiti, - intervenni con entusiasmo. Mi sistemai sulla sedia e repressi l'impulso di sfiorarle le mani.

- Passo San Pellegrino, il Monte Civetta... - elencò lei. - Le Tre Cime di Lavaredo...

- Sono i miei posti, - esclamai sorpreso. Erano i miei posti, si, ci ero andato fin da bambino con mio padre, con mia madre.

- ... lassù ho trascorso un sacco di giornate. C'è una bella energia e l'aria è leggera. Ti senti una cosa sola con la natura.

Socchiuse gli occhi e sembrò guardare distante come se davanti a lei si aprisse un panorama montano e assolato.

- Chissà quante volte eravamo lassù nello stesso momento, - scherzai. - Chissà quante volte ci siamo sfiorati.

Prima o poi era destino incontrarci.- Prima o poi, - confermò lei.Mi piaceva il suo accento tedesco. Mi piaceva il suo sguardo distante e

l'irrequietezza curiosa che intuivo nascosta là in fondo, dietro lo schermo mobile degli occhi.

Il brusio dalla sala principale ci raggiungeva a soffi, come portato dal vento, e sotto di noi l'acqua continuava a scorrere con una limpidezza splendente.

Il vino era ottimo. Avevamo ordinato un Chianti d'annata.Quanto al cibo, fui soprattutto io ad approfittare del menù tradizionale del

ristorante, un risotto ai funghi e fegato alla veneziana. Lei scelse un'insalata.

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Ricordo che il cameriere rimase quasi stupito della sua ordinazione. Quell'ordinazione non gli bastava, a quanto pareva, e si trattenne accanto al tavolo, con una faccia severa, come un guardiano raggelato da chissà quale sospetto.

- E a parte il contorno? - aveva chiesto. - Una buona costata di chianina come ottimo accostamento al vino che avete scelto ? Magari del pesce ? Abbiamo dell'eccellente branzino al sale, questa sera.

Ricordo la risposta gentile e insieme ferma di Isabel.- Niente, - aveva risposto. - Io sono vegetariana.Lo aveva detto sorridendo, scuotendo la testa per sdrammatizzare, quasi a

prendersi gioco anzitutto di se stessa. Chissà quante volte le era successa una scena simile al ristorante.

Quando il cameriere se ne fu andato, riempii i bicchieri e brindammo, così, senza un preciso motivo, un brindisi senza oggetto e per questo doppiamente prezioso.

Mi sembrava di essere a un tratto guarito dalla lunga amnesia che mi aveva impedito, per troppo tempo, di ricordare quanto fosse inebriante condividere certi piccoli piaceri, certi dettagli della vita.

Quando uscimmo dal ristorante faceva ancora più freddo.La pioggia sottile si era dissolta lasciando appena una traccia di foschia nell'aria.

Le strade erano deserte, immerse in un silenzio magnifico, spettrale, rotto solo dalle nostre voci e dai nostri passi sui blocchi di marmo delle piazze rinascimentali. Piazza della Borsa, piazza dei Signori, piazza Duomo. Percorremmo quel perfetto itinerario da cartolina fino a raggiungere un sottoportico e continuammo lungo il reticolo di fiumiciattoli e canali che attraversavano il centro.

Lei mi guidava, al riparo dentro il cappotto che le arrivava alle ginocchia. Il passo deciso. Lo sguardo acceso.

Era felice, avrei giurato.Passando davanti alla vetrina di un'erboristeria, si fermò.- Io lavoro qui, - disse.- Ah, - risposi io.- Questa è la mia tana. Quando sono qui dentro sto bene.Il negozio era illuminato solo dal riverbero giallastro dei lampioni. Dentro si

intravedeva un paesaggio di ombre e sagome indistinte. Gli spigoli del bancone, gli scaffali delle tisane, i sacchetti di erbe ben ordinati in vetrina.

- Guarda lì, - continuò. - Riesci a vedere?- Cosa? - Non volevo deluderla, ma non si vedeva davvero nulla.- Quello l'ho fatto io, - disse Isabel. - Guarda bene.Indicò un quadro appeso dietro il bancone e di cui si intuivano appena la grande

cornice dorata e una striscia di colore chiaro.- Non si vede molto, - sorrisi. - Cos'è?

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- Una tuffatrice, - rispose lei. Indicò il fondo azzurro che rappresentava il cielo, e quindi la macchia bianca al centro: una specie di striscia curva, oblunga, semplicissima eppure non priva di una sua drammaticità. La Tuffatrice, appunto.

Strinsi gli occhi. Mano a mano che la vista si adattava alla semioscurità, riuscivo a intravederne il corpo flessuoso piegato nello sforzo del tuffo. Un corpo sospeso e dai contorni evanescenti, poco definiti, corroso dalle pennellate azzurre del fondo che sembravano pronte a inghiottirlo e scomporlo come in un quadro di Francis Bacon. Un corpo che si stava confondendo con l'azzurro del cielo.

- Sembra volersi trasformare in cielo, - dissi io.- Si sta trasformando in cielo, - confermò lei. - La donna attraverso il tuffo

prende il volo e diventa leggera come l'aria. Si purifica.- Che bella idea, - le dissi, anche se non vedevo quasi nulla. Eppure quella sua

breve descrizione mi emozionò sinceramente.Fu naturale iniziare a frequentarci. Casa sua era nel centro storico. Un piccolo

appartamento di tre stanze interamente bianche: non solo i muri ma anche gli infissi, le porte, gran parte dei mobili. Ovunque c'erano lunghe candele sottili, profumate, pronte a bruciare, alcune un poco curve, piegate dal sole della precedente estate.

In soggiorno, al posto del divano una montagna di grandi cuscini orientali di velluto, intessuti di paillettes multicolore e ricamati con fili d'oro. Nella camera da letto dominava un aroma di incenso alla cannella. Qui Isabel aveva ricavato un tatami accostando delle assi di legno e legandole con uno spago. Sopra vi aveva appoggiato un materasso in pura lana vergine, e sopra ancora un piumino spesso e leggero, cucito con le sue mani, di un morbido cotone bianco che carezzava la pelle.

Era bello dormire lì il fine settimana. Isabel anche d'inverno amava tenere di notte la finestra semiaperta per far entrare l'aria buona, e noi ne approfittavamo per scaldarci, stringerci, carezzarci e addormentarci dentro il tepore dei corpi, protetti dalla densità quasi impalpabile del piumino bianco.

La domenica mattina si svegliava prima di me, iniziava la giornata con gli esercizi yoga e mi regalava delle ricche colazioni che portava a letto su un grande vassoio marocchino di metallo. Una ciotola di latte di mandorle, fichi secchi, uvetta, grissini al sesamo, biscotti all'uovo preparati con le sue mani. E caffè, solo per me. Al centro del vassoio, una piccola candela accesa. Un lumino dalla fiamma bassa.

C'eravamo abituati a fare colazione così, nella penombra del mattino, la persiana semiabbassata, le tende scosse da un'immancabile brezza. Fuori dal tempo e dal rumore della vita.

Nudi sul letto, candidi, appagati, passavamo intere mattine a farci cullare dalla musica classica che dal soggiorno scivolava dentro la camera. Rachmaninov, Sibelius, Mahler, mentre la piccola candela che bruciava sul vassoio si trasformava lentamente nel centro del mondo.

Era questo che la vita mi aveva rubato negli anni. La capacità di immergermi dentro simili riserve di pace. E io adesso non desideravo altro che recuperare.

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Col passare dei mesi quei fine settimana non ci bastarono più. Fu lei a prendere l'iniziativa, una domenica pomeriggio di gennaio. Eravamo sulla terrazza di casa mia, a Padova, con un bicchiere in mano. Io sorseggiavo la solita birra, lei un succo di frutta. Pur non essendo ancora la stagione adatta per stare all'aperto, ci piaceva rimanere sotto il cielo, a goderci il panorama mentre l'aria ci soffiava sulla faccia, tenace, carezzevole, come tentando di infiammare una brace.

Il sole sfiorava le cime basse delle colline di fronte alla città e calava lento, quasi galleggiando. Nel cielo trasparente apparivano le prime striature rosso-viola. C'era silenzio, in strada, come sempre a quell'ora e in quella stagione.

In lontananza, una colonna muta di auto sfilava sul cavalcavia che conduceva verso il centro.

- Voglio vivere con te, - iniziò titubante.Io sentii che non c'era bisogno di rispondere. Dissi solo: - Quando?- Subito, - fece lei.Iniziammo a convivere la settimana successiva, anche perché quel cambiamento

non avrebbe stravolto la vita di nessuno. Padova non è così distante da Treviso e ciascuno dei due avrebbe potuto continuare la vita di sempre: lei l'erboristeria, io la pubblicità. Ci spiaceva abbandonare casa sua, le lunghe domeniche mattina di pace, le stanze fuori dal tempo, gli spazi ideali che sembravano disegnati per noi. Ma decidemmo di trasferire da me i pezzi della sua casa a cui eravamo più affezionati. Sostituimmo il mio letto col suo tatami artigianale, le mie tende sintetiche con le sue di lino, disseminammo cuscini orientali in soggiorno, sistemammo un portaincenso in ogni stanza e infine trovammo posto per i dischi di musica etnica.

In breve anche la mia casa si trasformò in una tana e noi riprendemmo, come in precedenza facevamo da lei, a nasconderci là dentro e chiudere fuori, senza rimorsi, il resto del mondo.

Il test di gravidanza risultò positivo a giugno. Il test era una specie di penna a sfera bianca con un foro circolare a metà dello stelo. Dentro il foro c'era del cotone pressato che si colorava di blu in caso di risultato positivo.

Ricordo quel giorno. Stavo seduto sul divano a sfogliare un giornale quando lei uscì di corsa dal bagno sventolando quell'aggeggio a forma di penna. Venne a sedersi al mio fianco e me lo passò. - Sono incinta, - disse. - Sono incinta, sono incinta, capisci ? - Era stupita, non le sembrava vero che un miracolo del genere potesse capitare anche a lei.

Eccolo, il nostro bambino, un puntino azzurro, indaco per la precisione. Un puntino colorato dentro il foro di una penna di plastica bianca.

La sera festeggiammo. Stappammo una bottiglia di vino rosso, lo stesso del nostro primo incontro, il Chianti, e io al terzo bicchiere dissi che volevo cambiare macchina.

Il tipo di dettagli insignificanti che si ricordano con precisione anche dopo anni. Eravamo appoggiati alla ringhiera della terrazza, io chino sui gomiti, lei in piedi, dritta, a guardare l'oscurità spalmarsi sugli edifici davanti a noi.

- Potrebbe essere utile, - convenne Isabel.

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- Si. Anche usata, a patto che sia una station-wagon, - ripresi io. - Deve contenere ogni cosa, le valigie, le borse, il passeggino. Tutto. Voglio che ci stia la nostra casa, in quella macchina.

- Che bello, - disse lei. - Sai quanti viaggi, noi tre.Rientrai, presi il telefono e chiamai mia madre. Le comunicai la notizia e anche

senza vederla ero sicuro che le si fossero inumiditi gli occhi.Mentre parlavo ridevo nervosamente, colto da un inspiegabile imbarazzo che

non mi permetteva di scandire bene le parole. La mia voce si era trasformata in un comico brontolio afono, come quello di certi personaggi dei cartoni animati.

- Carlo, - disse mia madre commossa. - Non posso crederci, mi gira la testa, sono felice.

- Sarai una bellissima nonna.Eccolo il mondo delle cose definitive. Ecco che siamo diventati come loro,

come mia madre, com'era mio padre, ecco che siamo passati dall'altra parte, dalla parte degli adulti, dei genitori, dalla parte delle cose più preziose e irreversibili.

Portai fuori il telefono e lo allungai a Isabel e lei ascoltò le congratulazioni di mia madre. - Grazie, Livia, - sorrise Isabel nella cornetta, con quel tipo di confidenza che i primi tempi doveva aver lasciato mia madre un poco perplessa ma che ormai, ero sicuro, l'aveva del tutto conquistata.

Quella notte non riuscimmo a dormire. Restammo a fantasticare sul futuro, a stringerci baciandoci con delicatezza, scambiandoci infinite tenerezze. Trascorremmo una settimana felice, indimenticabile. Un mese felice.

Era l'inizio dell'estate, la bellezza del mondo assediava la città ipnotizzandola coi riflessi del tramonto sulle colline e le raffiche di brezza fresca che venivano a scuotere, invitanti, le tende della nostra casa.

Noi rispondevamo all'invito. Partivamo per interminabili gite sulle colline. La domenica ci spingevamo fino a qualche spiaggia del litorale veneziano. Passeggiavamo sul bagnasciuga iodato di Sottomarina, dal proverbiale effetto benefico sull'apparato respiratorio. Ci fermavamo per cena a Chioggia, o Venezia, o nell'isola di Murano, dove regalai a Isabel un braccialetto di vetro azzurro artigianale, con un piccolo pendaglio a forma di delfino.

Visitammo dimore dai nomi antichi. Le ville venete della Riviera del Brenta, Villa Pisani col suo labirinto di bosso, Villa dei Vescovi sulle pendici incolte dei Colli Euganei.

Rimasi incantato dal giardino italiano seicentesco di Villa Pizzoni, di cui Isabel seppe spiegarmi le caratteristiche che lo rendevano così diverso e naturale rispetto a quello alla francese, invece troppo artificiale.

La bellezza ci chiamava, ci sceglieva perché sapeva di essere riconosciuta da noi, sapeva che eravamo ingordi della sua meraviglia e che qualunque forma avesse assunto noi l'avremmo riconosciuta. Perché noi eravamo le sue dimore predilette, una donna e un uomo nella loro stagione migliore.

Azzardammo un fine settimana sulla riva di Caorle. La sera del sabato ci fermammo a cenare in un vecchio casolare al centro della laguna con Luca e Valentina, l'amica che ci aveva fatti incontrare.

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Il casolare era nella zona di San Gaetano, e solo durante la cena scoprimmo che un tempo era stata l'osteria preferita da Hemingway. L'incantesimo della laguna ci circondava.

Beccacce, aironi rossi, falchi di palude, gabbiani volavano in ogni angolo del cielo perdendosi nella notte mentre le loro grida roche si allontanavano verso il mare.

Alle pareti dell'osteria c'erano foto seppiate. Hemingway col fucile, Hemingway in compagnia del barone Franchetti, Hemingway alla fine di un pomeriggio di caccia, con la selvaggina caricata sulla spalla. Infine, vicino alla porta, il vecchio Hemingway che rideva soddisfatto, lo sguardo appannato degli ultimi anni.

Quella sera Valentina si dedicò completamente a Isabel.Le fece una quantità di complimenti. - Sei sempre più bella, - ripeteva

sfiorandole la pancia. - Hai un colorito, Isabel... Non so, sembri un angelo.Isabel le rispondeva ridendo e guardandomi soddisfatta.Eravamo una coppia perfetta.Durante la cena mi lasciai andare, cedetti con Luca a una lunga serie di brindisi

e uscii dal ristorante quasi barcollando. Avrei voluto restare fuori ancora, andare in spiaggia a vedere il mare e la luna, a camminare sulla sabbia, ma Isabel rispose di sentirsi molto stanca. - Domani, - disse, - domani.

Come fummo in camera andò in bagno e io mi spogliai.Mi stesi sul letto e chiusi gli occhi. Mi girava la testa, e cercai di concentrarmi

su una crepa del soffitto, una ruga quasi impercettibile che sfiorava la base del lampadario.

Non si sentiva alcun rumore provenire dall'esterno e ancora una volta mi sembrava di essere in un luogo protetto, separato, solo nostro.

Il silenzio venne rotto dallo schiocco metallico della chiave del bagno girata dall'interno. Dopo pochi istanti potei percepire Isabel muoversi, strisciare i piedi sul tappeto di spugna sotto il lavandino. Sembrava fare attenzione a come si spostava.

Aprì il rubinetto e mi sembrò che si sciacquasse il viso.Altri momenti di silenzio. Chiuse il rubinetto e rimase ferma. La porta del bagno

era così sottile da permettermi di distinguere il suo respiro pesante, affannato. La sentii riaprire l'acqua e mi sembrò che il respiro pesante si trasformasse in un pianto. All'inizio un sibilo soffocato, poi un singhiozzare mal trattenuto. Tirò lo sciacquone. Abbassò la tavoletta e immaginai che si fosse seduta, che rimanesse immobile fino a quando passava.

Per altri interminabili secondi non sentii altro che lo scorrere neutro dell'acqua nel lavandino. Nemmeno il frusciare del mio respiro, perché mi sforzavo di trattenerlo per ascoltare meglio. Niente.

Appena uscì le domandai cosa stesse accadendo. - Amore, va tutto bene ?- Si, tutto bene. Perché me lo chiedi?Aveva gli occhi rossi e un'espressione triste che non le avevo mai visto prima.

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Accese la lampada sopra il comodino e spense la luce principale. In quella penombra dorata, dello stesso colore di un fuoco morente, si spogliò e si distese al mio fianco.

Mi accarezzò i capelli e mi sfiorò il viso coi polpastrelli.Poi spense la lampada e nonostante io non le avessi chiesto altro, continuò a

ripetere che non c'era nulla. - Nulla, - diceva, - nulla, tesoro. Adesso dormiamo.Sfrego gli occhi con le mani e mi guardo intorno. Un carabiniere in tuta bianca

scatta foto in ogni angolo del soggiorno.Un altro nella stessa tenuta esamina il pavimento, una pinzetta in mano e una

busta trasparente nell'altra, pronto a raccogliere eventuali reperti. Fuori, qualcuno perlustra la terrazza. Torno a guardare la pelle di daino che mio padre usava come custodia della pistola e con una fitta allo stomaco mi chiedo dove sia finita l'arma. Vorrei cercare anch'io, ma mi trattengo e non faccio niente.

Ci sono carabinieri in tutta la casa. Alcuni si muovono sulla scena come semplici curiosi. Altri corrono nervosamente avanti e indietro, entrano ed escono dal corridoio, sussurrano qualcosa all'orecchio del maresciallo e poi si allontanano.

Un paio di uomini in borghese parlano al telefonino.Cercano tracce, prove, cause, dinamiche in grado di ricostruire la curva

vertiginosa di ciò che è successo. Sono stati istruiti a fare questo, scovare il punto in cui ogni tratto della curva combacia con l'altro tratto, una custodia di pistola, una tenda schizzata di sangue, un'impronta sul tappeto. Esaminano a fondo l'inclinazione dei fatti come se in questo modo fosse possibile, chissà, estendere la curva all'indietro e risalire a un'origine remota, persa nel tempo. L'origine indefettibile di ciò che siamo e di tutti i sanguinosi errori del mondo.

Mi lasciano in pace qualche minuto. Finalmente. Godo il privilegio di sentirmi invisibile come una specie di arredo e ne approfitto per raccogliere le forze. Davanti a me, il cadavere di mia moglie sembra in attesa, mentre alla parete, nel blu accecante di un cielo dipinto racchiusa da una cornice, la Tuffatrice spicca il suo salto eterno.

Dico al maresciallo che ho caldo e gli chiedo se posso levarmi la giacca.- Come no, - dice lui.Sudo e credo che anche il maresciallo inizi a soffrire.Toglie il berretto d'ordinanza e si asciuga la fronte con un fazzoletto di carta che

poi appallottola e mette diligentemente in tasca. Si fa portare un bicchiere d'acqua, prende una sedia e si sistema vicino a me.

Accenna un sorriso stanco. - Mi ricordo la prima volta che è venuto in caserma, - dice come se stesse iniziando una lunga, dettagliata rievocazione, ma subito tace e lascia sfumare il ricordo. - Adesso faremo per lei tutto quello che possiamo. Si fidi. La aiuteremo noi. La fronte del maresciallo ha già ricominciato a sudare. - Io ho tre figli...

Forse per la prima volta nella mia vita di adulto, inizio a piangere davanti a qualcuno. - Mi scusi, - gli dico.

- Non riesco a trattenermi.

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- Non c'è niente di cui scusarsi. Estrae di nuovo il pacchetto di fazzoletti e me ne allunga uno. - Le farà bene piangere. Il problema sono quelli che non piangono.

Il fazzoletto ha un forte aroma balsamico. Mi asciugo la faccia, mi soffio il naso e lo ringrazio ancora.

Qualcuno lo chiama dalla terrazza. Il maresciallo Marino mi sfiora la spalla e si alza. - Torno subito, - dice.

Attraversa la portafinestra e raggiunge un carabiniere, che gli indica qualcosa nel cortile sottostante. Quindi insieme si spostano verso la ringhiera e scompaiono dalla mia vista.

Finalmente solo, trovo il coraggio per guardare il cadavere di mia moglie. La sua magrezza impressionante.

Le linee secche di un corpo di trentotto chili. Le ossa che sporgono dalle spalle, i polpacci inesistenti. Gli occhi chiusi conferiscono al viso un'espressione di pace e di dolorosa beatitudine. Nella tunica leggera che aderisce malamente al corpo ricorda la fissità serena e disadorna del Cristo di Mantegna.

Ora il mistero di questo corpo sta davanti a me e mi chiede di ricostruire una storia, la mia e quella di Isabel.

Più ci penso, tuttavia, meno mi sembra di comprendere.Mi chiedo di quale storia questo sia l'esito e chi ne siano stati i veri protagonisti,

ma non so cosa rispondere. Mi chiedo cosa stessimo cercando e cosa ognuno di noi due si fosse illuso di aver trovato nell'altro. Forse semplicemente una persona in cui perdersi, mi dico, un estraneo con cui mimare gli aspetti superficiali di un'innocua intimità.

Certo desideravamo le rassicurazioni che solo un estraneo può regalare, le apparenze della comprensione che solo due persone distanti, incapaci di toccarsi possono offrirsi.

Il maresciallo torna. - L'hanno recuperata, - lo sento dire con sollievo come se fosse importante. - Hanno recuperato la pistola. Era impigliata in un cespuglio vicino ai garage.

Non so cosa dire. Immagino la pistola di mio padre volare fuori dalla portafinestra del mio appartamento al quinto piano, la immagino impennarsi nel sole del pomeriggio e brillare come il frammento di un'astronave distrutta prima di infilarsi dentro un cespuglio del cortile.

Fisso i suoi occhi scuri. Gli dico che ho bisogno di vedere mia madre. Lo supplico. Mi diano pure tutti i calmanti che desiderano, ma io a questo punto devo vedere mia madre.

Il maresciallo mi sovrasta con la sua corporatura. Mi studia come ha imparato a fare in tanti anni di carriera.

Poi si guarda in giro per controllare i suoi uomini, che sentendosi osservati si muovono più svelti, nervosi, in preda a una forma di smaniosa efficienza.

- Va bene, - dice. - Ma niente colpi di testa.Lui e un carabiniere, forse lo stesso che mi si è avvicinato quando sono entrato,

mi scortano di là, nella nostra stanza, dove trovo mia madre distesa sul letto. È evidentemente sedata. Accanto a lei un carabiniere donna, una ragazza pallida sui

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vent'anni. Dall'altra parte il medico della Croce Verde che mi ha visitato nel parcheggio.

Mi avvicino. - Mamma, - dico.Lei schiude appena gli occhi, due fessure sottili come quelle di qualcuno che

osserva la realtà attraverso una luce eccessiva, uno scoppio di bianco accecante.- Mamma, sono io.- Vieni qui, avvicinati, - sussurra.Guardo il maresciallo. Con un unico gesto annuisce verso di me e verso il

carabiniere che è entrato con noi e che ora si muove alle mie spalle, fino al fianco del letto, tallonandomi da vicino.

Mi inginocchio e le prendo la mano. Posso quasi sentire il suo fiato. Mia madre stringe come può, senza forza.

Apre gli occhi e sorride. - È salvo.Continuo a tenerle la mano, con un nodo in gola, mentre lei chiude gli occhi

senza smettere di sorridere.- Il bambino è salvo, - ripete.- Mamma.- Non preoccuparti per me, - continua mia madre. - Io me la cavo.Il carabiniere dietro di me mi appoggia una mano sulla spalla e mi fa alzare. Fa

un cenno col viso come a dire di stare tranquillo.- Ora torniamo di là, - mi invita il maresciallo.Cammino lento, schiacciato dalla fatica. Torno a sedermi sulla sedia di prima e il

maresciallo dice che non potrò vedere il bambino fino a nuova disposizione. Sarà in ogni caso questione di minuti, un'ora al massimo. - Qualcuno se ne sta occupando al Tribunale dei Minori. Ma vedrà, non ci saranno problemi. Lei è comunque il padre.

Nel breve tempo in cui siamo stati nell'altra stanza, i rilievi fotografici sono finiti e qualcuno ha coperto il corpo di mia moglie con un telo. Osservo la sagoma sotto il telo e di nuovo mi sembra di intuire una forma di ultima, straziante pace, sotto il tessuto, sotto il sangue che inizierà a rapprendersi, ormai, sul suo viso e tra i capelli.

Distolgo lo sguardo. Un biberon caduto sul divano continua a gocciolare su uno dei cuscini di velluto. Ha formato una chiazza biancastra e quando provo ad alzarmi per metterlo a posto una guardia mi blocca perché non sono autorizzato a toccare niente.

Sento la voce paterna del maresciallo parlottare in modo indistinto là fuori, nello spazio della terrazza.

Lo osservo e mi torna in mente che proprio su quella terrazza abbiamo trascorso infinite serate, Isabel e io. Anzi, proprio lì è iniziato a crollare tutto. Era una sera calda, l'imbrunire. Ricordo ogni cosa, ogni parola, ogni espressione del suo viso, ogni dettaglio. E ricordo anche la mia confusione, la mia perplessità ancora vaga e del tutto insufficiente a intravedere l'ombra di ciò che stava per travolgerci.

Là sopra ci sentivamo sospesi, lontani da terra, staccati dalle contingenze del mondo, più leggeri di chiunque altro. Eravamo creature speciali sostenute dallo

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stupore e da straordinari programmi per il futuro che da quel punto di osservazione strategico al quinto piano si godevano la vista di tramonti incantevoli.

Quella sera eravamo seduti sulle sdraio ad ammirare le colline risplendere nei colori del crepuscolo. Una corona di rosso ultraterreno cresceva alle loro spalle mentre le poche nuvole presenti, in alto, assorbivano la tinta come batuffoli di cotone. Uno stormo di rondini se ne andava tranquillo in lontananza e nessun aereo, nessun rumore, nulla turbava la bellezza del momento.

Venti giorni prima ci eravamo sposati in una piccola saletta affrescata del municipio, alla presenza di Luca e Valentina nel ruolo di testimoni e di mia madre. I genitori di Isabel, che non avevo mai incontrato, si erano fatti vivi solo mandando un regalo, mentre mio fratello aveva già trovato un volo per raggiungerci da Boston quando io lo avevo convinto a lasciar perdere. Volevamo una cerimonia veloce, niente più che una formalità. Avevamo tutta la felicità che ci serviva, giusto? Non c'era bisogno di certificarlo.

Le carezzavo la pancia nella speranza di sentire qualcosa, ma quel qualcosa era ancora troppo piccolo. Lei mi prese la mano e l'allontanò. Con un tono perentorio che non le avevo mai sentito disse che mi doveva parlare. Di qualunque cosa si trattasse, doveva essere qualcosa che le premeva molto. - Certo, tesoro, - risposi. Strinsi la sua mano per incoraggiarla: - Dimmi tutto.

- Voglio parlarti dello stile di vita, - iniziò. Subito si interruppe, sfilò la mano dalla mia e rientrò in casa come se avesse avuto bisogno di guadagnare tempo. Dalla cucina mi chiese se volevo qualcosa da bere.

- Quello che prendi tu.- Una tisana ?- Una tisana, - risposi.Qualche minuto più tardi tornò con un paio di tisane al timo.- Io voglio fare il massimo per il bambino, - riprese dentro una specie di foga

trattenuta.- Anch'io voglio fare il massimo.- No, - spiegò lei. - Non basta. Noi dobbiamo fare di più.- Cioè ?- Cioè, durante la gravidanza sono fondamentali i dettagli.E noi non stiamo facendo abbastanza. Sembrava molto preoccupata e io pensai

che doveva essere da tempo che teneva per sé quelle preoccupazioni. Gli occhi erano spalancati e le iridi sembravano assorbire un riflesso del tramonto che si era fatto, nel frattempo, violaceo.

- Cosa intendi?- Non prenderla male, ma io sento che dobbiamo essere più attenti.- Hai ragione, - le dissi.- Il nostro stile di vita. La serenità che dobbiamo creare in casa. Il cibo che

mangiamo.- Certo. Tutto conta. Come no.

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Si soffermò a spiegarmi quanto fosse importante l'alimentazione della madre per il feto. Lo so bene, mi veniva da risponderle. Ovvio che era importante, ma non volevo interromperla e non dissi nulla. Sentivo che ci teneva a farmi capire che c'era qualcosa di più. Qualcosa di fondamentale che a me ancora sfuggiva o che non volevo capire.

La sua voce aveva infine trovato un tono pacato e con quel tono Isabel mi spiegò che tutto quanto la madre pensava, sentiva, percepiva, tutto quanto lei respirava, beveva e mangiava, era di fatto ciò che il feto pensava, sentiva, percepiva, respirava, beveva e mangiava.

- Ma come parli? - scherzai. - Perché sei così seria?Perché lo chiami feto ?- Sapevo che non avresti capito, - rispose lei.Il cielo compiva la sua ultima metamorfosi, trascolorando in un blu prussiano,

quasi nero, mentre una brezza fresca smuoveva i fiori della gerbera che tenevamo nell'angolo della terrazza. L'aroma di timo delle tisane aleggiava fra noi mentre restavo a guardare l'espressione inquieta, la bocca e le sopracciglia contratte di mia moglie.

Bevve l'ultimo sorso di tisana e continuò col dire che dovevamo sforzarci di vivere quella gravidanza serenamente.

Posò la tazza, si carezzò il dorso di una mano socchiudendo gli occhi e guardando lontano come per impedirmi di scorgere la sua improvvisa tristezza.

- Cosa c'è, Isabel?- Le ultime ricerche di neuropsichiatria prenatale dimostrano che il feto ha una

sua propria vita emotiva, - mi comunicò con gravità. - È stato scoperto che il feto può piangere, capisci ?

- Beh, - dissi raddrizzandomi sulla sdraio. - Il nostro non piangerà.- Non si riesce mai a parlare seriamente, con te. Ascoltami, una volta.- Ti sto ascoltando.- No, tu non mi stai ascoltando.- Come no ?- No. Tu ascolti solo la tua paura.- Quale paura ?Isabel non rispose. Rientrò in soggiorno per frugare tra la pila di riviste che da

qualche tempo avevano invaso la casa. Le raccoglieva al supermercato biologico, nei negozi Chicco, lana o Prénatal. Alcune erano più patinate di una rivista di moda, altre avevano un aspetto secco e trasmettevano un senso di urgente essenzialità. C'erano anche stampe di pdf scaricati da internet. «Pianeta mamma!

», si intitolava la rivista che mia moglie portò in terrazza quella sera.- Senti, - disse tornando da me. Aprì la rivista e iniziò a sfogliarla. - Senti qua.

Ma ascoltami con attenzione, per favore.Sfogliava e ripeteva che dovevamo sforzarci di essere il più sereni possibile se

volevamo comunicare energie positive al feto. Dovevamo soprattutto essere più attenti all'alimentazione, disse. Era quello il punto centrale, l'alimentazione.

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Finalmente trovò la pagina. Un disegno computerizzato illustrava il corpo di una donna incinta con il bambino rannicchiato nel ventre. Linee di vari colori, a seconda del tipo di alimento, collegavano la bocca e l'apparato digerente della madre al corpo del bambino, suggerendo uno scambio fluido e irreversibile. Quelle linee di diversi colori che si snodavano dentro il corpo mi ricordarono lo schema delle linee di una metropolitana.

- Guarda, - continuava a ripetere indicando il percorso degli alimenti dentro il corpo disegnato. - Vedi come funziona ?

Insomma dovevamo usare tutte le precauzioni se volevamo un figlio speciale. Dovevamo restituire la massima attenzione alle questioni fondamentali come l'alimentazione, perché il nostro di sicuro lo era, un figlio speciale.

Dovevamo adottare una disciplina prima che fosse troppo tardi. La disciplina. Solo così si otteneva il meglio per il feto.

- Il feto è disciplina, capisci? - concluse.- Certo, - risposi io. - Credi che avrei potuto metterlo in dubbio ?- No, intendo dire se capisci davvero.- Certo che capisco davvero.- È molto importante per me sentirtelo dire.- Anche per me è importante.- No, - si risenti. Prese un profondo respiro. - So bene che non lo è, ma vorrei

almeno che ti sforzassi.- Perché mi parli così ?- Perché dobbiamo fare del nostro meglio. E voglio che anche tu dia il massimo.

C'è bisogno anche di te.- Cosa intendi?- Che non dobbiamo lasciare niente al caso. Noi dobbiamo tenere tutto sotto

controllo.- Certo.- Dammi la tua parola, ti prego.- Certo che ti dò la mia parola.Sembrò rilassarsi e annunciò la prima delle nuove regole.Si trattava della pausa pranzo. Disse che avrebbe smesso di nutrirsi in uno di

quei sudici bar del centro di Treviso, ma che si sarebbe portata il cibo da casa. Cibo preparato da lei con tutto l'amore e la cura possibili. Solo così il feto sarebbe cresciuto sano e forte.

- Dobbiamo sforzarci ed è importante che lo facciamo tutti e due. Insieme.- Sono d'accordo, - risposi. - Magari è un po' eccessivo, ma va bene.- No, - si arrabbiò. - Non c'è niente di eccessivo. Perché non provi a capirmi ?- Ci sto provando, - le dissi.- Non basta, - rispose.La città ormai pulsava di vita elettrica e lontana. Dall'appartamento accanto, si

sentiva il volume alto del televisore del vecchio Dante. Un comico pronunciava battute indistinte seguite da risate altrettanto indistinte che arrivavano a onde, come portate dalla brezza.

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- Ho freddo, - disse Isabel. - Io rientro -. Mi baciò e sgusciò in cucina.La seguii e la osservai riempire tre contenitori di vetro col pranzo del giorno

dopo. Fette di cetriolo, cubetti di avocado, insalata verde e pomodoro.Si muoveva per la cucina con mosse agili. Il suo programma alimentare era

ufficialmente operativo. Non c'era più tempo da perdere e il fatto di avermene parlato l'aveva liberata da un peso.

- Ecco l'alimentazione perfetta per una madre, - dichiarò senza girarsi verso di me. - E farebbe bene anche a te.

- Cosa dici ? - le chiesi.- In che senso ? - disse lei.- Non vorrai vivere di cetrioli, - scherzai.- No, certo. Non solo cetrioli. Perché questo tono?- Quale tono ?- Questo.- Io non ho nessun tono, amore.- Quindi cosa vuoi dire ?- Io non voglio dire niente. Voglio solo dire che una donna in gravidanza deve

nutrire due corpi.- Cosa c'è? - insistette. - Sei strano questa sera, non ti capisco.- Scusa, - tentai allora. - Sono io che non capisco te.Cos'hai?- Niente.- Come niente ?- Niente, - disse. - Niente.- Mi sembra solo che tu sia un po' esagerata. Non mi sembra di essere strano.- Io esagerata ?- Si, Isabel.- Io sarei esagerata? - Iniziò a piangere. - Tu mi offendi.- Io non ti sto offendendo, - mi scusai. - Perché parli di offendere, io non ti

voglio offendere. Vieni qua, devi essere un po' stanca.- Ecco, vedi? Io sarei stanca. Scarichi sempre tutto su di me.La sera del giorno successivo tornò dal lavoro verso le nove. Da quando si era

trasferita da me i suoi orari non erano facili. Uscire da Treviso, prendere la tangenziale nel traffico di sempre, l'autostrada. Approdare a casa, salire le scale. Era già sfinita, ed era appena il primo giorno del nuovo corso alimentare. Quando gliene parlai, si irrigidì e rifiutò di ammettere che aveva fame.

- Mi fai sentire in colpa proprio mentre io sto dando il massimo, - si difese.- Cosa c'entra la colpa? - domandai confuso.- C'entra. Perché non è facile dare il massimo quando tuo marito ti è contro. Ma

ora non voglio più parlare. Finisco di preparare il pranzo per domani e andiamo a letto.

Le ciotole di vetro aspettavano le nuove razioni. Sotto i faretti bianchi della cucina le sue mani si muovevano pallide e determinate. Cetrioli a fettine sottili. Pomodori interi. Avocado e carote.

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Iniziai a sentirmi confuso. Amavo ogni giorno di più la donna che avevo al mio fianco e al tempo stesso percepivo aprirsi tra noi infinite finissime crepe. Una ragnatela di minuscole fratture ci stava distanziando e noi pian piano imparavamo a nasconderle, prima ancora di esserne consapevoli, sotto un tappeto di riti di coppia e attenzioni di superficie.

Continuavamo a dormire accanto, continuavamo a stringerci l'uno all'altra, ma dentro di me - e suppongo anche di lei - si diffondeva il gusto di un nuovo stupore.

Forse ero io il problema. Forse l'avevo delusa, avevo mancato in qualcosa che lei non aveva il coraggio di confessarmi, e questo era il suo tentativo di ricondurre a sé la mia attenzione.

O forse la gravidanza stava riportando a galla un dolore antico che lei finora era riuscita a governare e a non guardare negli occhi.

Non so. Non avevo risposte. Non sapevo cosa pensare.Credo sia stato per mantenere vive le parvenze di un dialogo se lei in quel

periodo assunse con me una sorta di atteggiamento didattico. Mi spiegava le sue idee come fossi stato un discepolo. Insistendo forse sarebbe riuscita a farmi comprendere qualche profonda verità di cui mi ostinavo a non tenere sufficiente conto.

- Siamo usciti fuori dalla vita, - mi ripeteva in continuazione.- L'uomo ha trasformato il mondo in una palla da baseball lanciata contro un

muro. Fra pochi anni la palla si schianterà distruggendo ogni cosa. Tutto è disumano.

Un sabato pomeriggio di dicembre uscimmo per una passeggiata in centro. Le strade erano un trionfo di luminarie.

Stelle comete e fontane di luce gialla illuminavano a intermittenza le vetrine mentre decine di babbi natale offrivano buoni sconto, biglietti omaggio per il circo e manciate di caramelle. La gente sciamava pigra tra i negozi, affollandone alcuni all'inverosimile e lasciandone altri vuoti, desolati, in base a chissà quale capricciosa condanna.

Nell'aria l'odore di caldarroste si mischiava a quello dei petardi che qualche ragazzino doveva aver lanciato, poco lontano, in anticipo sul capodanno.

Mano nella mano, io e Isabel attraversavamo quella gelida baldoria, osservando distrattamente le insegne, i manifesti delle pubblicità di vacanze sul Mar Rosso, le immancabili locandine degli sconti sui cellulari.

Davanti a una pasticceria lei si bloccò. In vetrina svettava una montagna di plum-cake al cioccolato decorata da glasse fucsia, gialle e all'intramontabile gusto puffo. Un dolce di tre piani con scritto buon anno ! disputava lo spazio con un millefoglie di mezzo metro quadro dall'aspetto talmente fresco che pareva di sentirne la fragranza anche dal marciapiede.

Lei continuava a scuotere la testa. - Ci fanno ingozzare per non farci capire, - disse. - Vogliono tenerci lontani da noi stessi.

- Cosa? - chiesi io.- Io non ne voglio più sapere, - continuò con voce monotona.

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Quei dolci non erano che una specie di anestetizzante sociale, un trucco, un escamotage per distogliere lo sguardo delle persone dalla realtà del loro essere intimamente disumanizzati, segno inoppugnabile della caduta senza fine dell'Occidente.

Iniziò a piangere.- Cosa c'è, Isabel?- Io non ne voglio più, - ripetè.Liberò la mano dalla mia per asciugarsi gli occhi col dorso.Restammo immobili a fianco dell'entrata della pasticceria mentre una

processione di ragazzi, giovani coppie, famiglie con bambini, entrava e usciva rumorosamente.

Ridevano e parlavano a voce troppo alta per via della musica di una bancarella di dolciumi a pochi metri, dall'altra parte della strada. Sembravano avere fretta di prendersi ciò che avevano atteso per un anno intero e che adesso, nonostante i venti di crisi che sferzavano mezzo pianeta, spettava loro di diritto. Risate. Musica da quattro soldi.

Un'indigestione di zuccheri.- Io mi sento così lontana, - continuò lei. - Non condivido più niente.- Stai calma, Isabel, - le sussurrai. - Stai tranquilla.La sua posizione un poco curva all'indietro, tipica delle donne incinte, la faceva

apparire ancora più instabile sulle gambe magre. La bella pelle vellutata e sottile del viso, illuminata dai neon rosa-azzurri della pasticceria, appariva pallida. Mi avvicinai e la baciai. - Stai tranquilla, Isabel, - ripetei. - Ci sono io -. Mentre la baciavo scorgevo per la prima volta delle minuscole rughe agli angoli della bocca.

Doveva essere un effetto dei neon, eppure non potei fare a meno di notare come il suo bel volto apparisse a un tratto scavato, stanco, triste.

- Mi sembra che questo sia profondamente sbagliato, continuò lei, e iniziò a singhiozzare più forte, le mani davanti al viso. I palmi premuti sugli occhi.

- Cosa c'è, Isabel? - chiesi di nuovo.- Scusami, ma non ce la faccio.- Piangi, - le dissi io. - Piangi, su, butta tutto fuori.Lasciati andare.Una ragazza con un cappotto di camoscio sbucò dalla pasticceria reggendo un

vassoio di dolci. Indugiò un istante a guardarci e Isabel si girò di scatto verso di me per nascondersi.

Non voleva che gli altri la vedessero piangere.Appena uscita, la ragazza si scontrò con un bambino che entrava di corsa e il

vassoio le cadde dalle mani. Fu aiutata da un babbo natale giovanissimo, col vestito largo. Sotto i bordi dei pantaloni rossi si vedevano i jeans sdruciti.

Isabel non guardò la scena e continuò a piangere con il viso sulla mia spalla, in attesa che si allontanassero.

La strinsi con forza e lei si lasciò finalmente andare contro di me. Restammo qualche minuto così, senza muoverci, fino a quando il suo respiro non tornò normale.

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- Risolveremo tutto, - le dissi. - Siamo una squadra, noi. Stai tranquilla -. Le carezzai la testa con dolcezza. Le sfiorai il collo e la nuca. Infine le presi le mani e le infilai, le mie e le sue, nelle tasche del suo cappotto.

- Non capisco perché mi devo sforzare, - riprese con voce ancora rotta. - Non c'è più nulla di naturale nella vita delle persone. Non sono io che mi devo sforzare.

- Hai ragione, - la rassicurai.- Io non mi devo sforzare più.- Non ti devi sforzare di niente, - le dissi. - No. Stai tranquilla.- Grazie, - disse lei. Raddrizzò la testa e si guardò intorno come svegliandosi da

un sogno straziante. - Il mio bambino sarà diverso.Era ossessionata dall'inquinamento. Inquinamento atmosferico, inquinamento

elettromagnetico, inquinamento del cibo.Un sabato pomeriggio, anche se era inverno, andammo al mare. Non potendo

arrampicarsi in montagna con un bambino nel ventre, aveva riscoperto le passeggiate sulla spiaggia.

Durante il viaggio in macchina parlò poco. Teneva lo sguardo fuori dal finestrino e contava i giganteschi ripetitori dei cellulari. Ne contò quattro uscendo dalla città, sedici tra la tangenziale e l'autostrada, altri sette sulla Treviso-Mare.

Non diceva molto. Pronunciava solo, ogni tanto, un numero. Uno, cinque, sette, diciannove...

Mentre passeggiavamo sulla riva, stretti nei nostri cappotti, mi spiegò che il mare era diventato una pattumiera e che il pesce - non sfuggiva a nessuno - si trovava suo malgrado a vivere nella più grande discarica del mondo.

Le piogge, dopo aver lavato montagne, colline e pianure, vi riversavano ogni scarto umano grazie a un reticolo di torrenti, fiumi e lagune sempre più simili a canali di scolo.

Tutto finiva nel mare, veniva assimilato dal pesce e conservato dentro le sue carni fino a quando veniva rilasciato nell'intestino umano. Mercurio, piombo, alluminio, metalli pesanti che inquinavano irrimediabilmente anche il nostro organismo. Per non parlare degli animali segregati negli allevamenti intensivi. Quelli erano veleno allo stato puro.

Si iscrisse a un corso di yoga prenatale, confidenzialmente consigliato da una delle sue riviste, «A nanna! » Al corso di yoga le insegnarono esercizi per la divaricazione dell'utero e il rilassamento naturale dell'addome.

Erano interminabili esercizi di respirazione: inspirare velocemente, espirare lentamente, una volta dopo l'altra, così per ore. Inspirare, espirare. Le insegnavano questi esercizi e lei trascorreva interi pomeriggi a eseguirli anche a casa.

All'inizio ebbero un effetto tranquillizzante. Poi anche quell'effetto svanì.A yoga conobbe altre donne e in breve il nostro appartamento fu invaso dalle

sue amiche del corso.C'era Anna, maestra elementare e moglie di un finanziere.Si lamentava del fatto che la notte non riusciva più a dormire. Spesso piangeva,

seduta sul nostro divano. Anche a casa, talvolta, senza nessun apparente motivo si

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trovava a piangere. Ma il marito non se ne accorgeva, troppo preso dal lavoro. Ripeteva come in un mantra di avere paura. - Non ce la faccio, - diceva. - Io non ce la faccio.

Indossava tute da ginnastica larghe per nascondere il ventre e tirava i capelli castani indietro, a coda di cavallo, lasciando ancora più scoperti i grandi occhi turbati.

Poneva un sacco di domande a mia moglie, la quale doveva apparirle, evidentemente, come la depositaria di un sapere iniziatico. Cosa si mangiava in gravidanza? Come sarebbe stato il giorno del parto ? E se le cose fossero andate male ?

Si affliggeva per l'assenza quasi totale del marito e diceva di sentirsi brutta. Anche se in fondo lo giustificava, suo marito, come non capirlo ? Lei era diventata un mostro di cento chili ed era naturale che lui si fosse allontanato.

Poi riprendeva a piangere.C'era anche Eleonora, una manager quarantenne che lavorava all'Unicredit.

Capelli a caschetto e telefonino sempre in mano. La vidi un paio di volte e poi scomparve.

C'era Angelica, una giovane infermiera carina, capelli biondi e corti, una specie di Annie Lennox poco più che adolescente. E Clara, Bruna, Francesca. Donne sole.

Spaventate.Durò qualche settimana, poi gli incontri si diradarono.Tornavano a trovarci le più deboli, perché mia moglie sembrava a suo agio solo

con loro.Talvolta veniva anche mia madre, e un giorno mentre eravamo soli ne approfittò

per parlarmi. Disse che era preoccupata e mi chiese se stava succedendo qualcosa.Da qualche giorno cercava mia moglie al telefonino ma lei non rispondeva mai.

Ultimamente l'aveva vista molto pallida, sfuggente, e mi disse che voleva parlarle. Io quella volta provai uno sconosciuto sentimento di vergogna.

Mi vergognai di me, forse, di farle scoprire la situazione nella quale realmente mi trovavo, e le chiesi la cortesia di non intromettersi. Temevo anche che un suo intervento potesse peggiorare le cose. Qualche problema c'era, si, le dissi, ma niente di grave. Stava succedendo quello che succedeva a tutte le donne in gravidanza. - Non è niente, - le dissi. - È solo un momento, mamma. Lascia stare -.

Dovetti essere troppo brusco, immagino, perché da quel momento anche mia madre diradò le visite.

Un giorno Anna, la moglie del finanziere, parlò a Isabel di una certa Leila. Una siciliana che viveva a un paio di quartieri da noi. Si occupava di pulizia dell'aura, e si diceva fosse molto brava anche con le impurità più sottili.

Isabel ne fu subito entusiasta, si esaltò al solo sentirne parlare e fu inevitabile fissare subito un incontro.

L'esperta di pulizia dell'aura ci ricevette nel suo appartamento della periferia popolare, con gli infissi in alluminio anodizzato e quadri di Cristo, Sai Baba e

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Osho Rajneesh appesi alle pareti. Era una donna sulla cinquantina e nonostante fosse pieno inverno indossava un paio di ciabatte infradito senza calze. I piedi erano bianchi e paffuti, le unghie con lo smalto viola un po' scrostato.

Fece stendere mia moglie su un tavolo che pareva un vecchissimo letto operatorio, le impose le mani sul viso e sull'addome e sul sesso. Le mani rimanevano immobili qualche secondo e poi scivolavano giù, attratte dalle parti basse del corpo.

La donna chiuse gli occhi e iniziò a muovere le mani sopra il corpo come carezzando qualcosa, lisciando qualche densità dell'aria che noi non potevamo vedere né sentire.

In sottofondo una musica elettronica lentissima, un pianoforte sintetico il cui lungo riverbero sembrava in grado di rallentare il tempo.

Leila disse di aver individuato delle macchie scure nell'aura esterna di mia moglie, ma subito ci rassicurò.

Non c'era da preoccuparsi, spiegò, non era ancora troppo tardi. Mi invitò ad avvicinarmi e indicò un punto invisibile sospeso a trenta centimetri sopra la testa, all'altezza della fronte.

- Qui, - disse. - Qui c'è un arrossamento che dipende dal fegato, ma è poca cosa... Questo lo posso mettere a posto anche oggi.

- Grazie, - disse Isabel.- Cosa potrebbe essere ? - azzardai io provando a mostrarmi interessato.- Tensioni nervose scaricate a livello intestinale, - rispose Leila con tono da

vecchio luminare della medicina.- Qui, eccolo, - continuò a imporre le mani sopra il suo corpo, - qui sento un

forte ostacolo energetico.- È grave ? - si preoccupò Isabel.- No, non è grave, - la rassicurò Leila. - È un sintomo del fatto che senti un peso

troppo grande sulle tue spalle -.Mi guardò come se fossi stato io la causa di quell'arrossamento dell'aura a trenta

centimetri dal corpo. - Ma tu non devi preoccuparti, Isabel, - concluse. - E adesso stai ferma un istante, sto per dirvi un segreto.

Chiuse gli occhi e trattenne il respiro. Rimase immobile per forse un minuto fin quando non tossì fuori l'aria e sbarrò gli occhi.

- Sarà un bambino indaco, - concluse soddisfatta, quasi affaticata per la concentrazione, allontanando di scatto le mani come da qualcosa di incandescente.

- Indaco? - chiesi io rivelando tutta la mia ignoranza.- Sei contenta? - chiese Leila a mia moglie.- Si, - rispose Isabel raggiante. - Si, si. Me lo sentivo.Lo sapevo.- Sono molto felice, - dissi anch'io. - Ma cosa significa indaco ?In quel periodo, dopo cena, sul divano, amavamo leggere e commentare libri e

riviste che lei scovava in librerie alternative di cui io fino ad allora nemmeno sapevo l'esistenza.

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Libri di psicologia pubblicati da editori sconosciuti che spiegavano quanto fosse facile ricongiungersi con se stessi ed essere felici in un periodo delicato come la gravidanza.

Libri esoterici che insegnavano a prendersi cura dell'aura e spiegavano come ritrovare il contatto col proprio Spirito Guida liberando le energie sottili del nostro essere più profondo. Libri sul concepimento dolce e sul parto in acqua, il meno violento per il feto, abituato da nove mesi a percepire l'acqua come proprio elemento naturale. Un parto innovativo e insieme arcaico che avrebbe prodotto una nuova specie di umani, nati sotto il segno dell'equilibrio e non del trauma primigenio.

Io trascorrevo quelle serate con un sollievo nuovo. Non erano tanto gli argomenti dei libri a interessarmi, quanto la pace che sembravamo ritrovare in quei momenti, leggendo insieme, i nostri corpi a contatto sul divano. Mi alzavo solo per prepararle una tisana mentre lei continuava a leggere a voce alta.

Le pagine e le parole ci regalavano una tregua. Ci permettevano di immedesimarci nelle persone che avremmo desiderato essere: lucide, consapevoli, pacificate.

Mancavano pochi giorni alla nascita del bambino e una parte di me avrebbe voluto rimanere così per sempre, io e lei, immobili, in quell'unità ritrovata e sospesa, il vapore di una tisana che si alzava dalla tazza sul tavolino, mentre uno dei due leggeva.

Avevamo affrontato La via del guerriero di pace di Dan Millman, eravamo passati per Antiche terapie essene e lettura dell'aura di Anne Meurois-Givaudan e avevamo concluso con La forza che è in te di Rosemary Altea.

A quel punto ero finalmente pronto per avvicinarmi a un testo ben più importante, I bambini indaco, appunto.

- Così capisci di che si tratta.L'argomento meritava una cornice speciale. Isabel accese due candele agli

angoli opposti della stanza, secondo le preziose indicazioni dell'antica disciplina del feng shui.

Aggiunse sul tavolino un incenso che iniziò a bruciare in fretta, il fumo che si arricciava nell'aria. Io inserii nel lettore dello stereo Gymnopédies di Erik Satie, abbassai il volume e tornai a sedermi vicino a lei.

- Sono i bambini del terzo millennio, - mi spiegò prima ancora di aprire il libro. - Possiedono notevoli attributi psicologico-spirituali e hanno un istinto comportamentale rivoluzionario rispetto ai bambini cui siamo abituati fino a questo stadio evolutivo dell'umanità. Per questo i loro genitori si trovano spiazzati, perché non li capiscono e li interpretano con le categorie morbose della psicologia tradizionale.

Tutto qua. È semplice.Era molto semplice, si.Sul divano, i nostri corpi aderivano e potevo sentire il suo respiro lento. Per

qualche minuto, ascoltai stordito le sue parole.

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- Se sono bambini iperattivi, - continuò a voce bassa, come recitando una storia meravigliosa, - è perché la società reprime il loro essere anticipatori. Vengono sul pianeta Terra per aiutare l'umanità a progredire verso il bene supremo, ma l'umanità non lo capisce e se ne difende. Pensa a Cristo: Cristo era un bambino indaco, e hai visto cos'è stato capace di fare. E soprattutto cosa gli hanno fatto.

- Ma... - provai a scuotermi.Lei non mi diede il tempo di continuare. - Nascono per essere messaggeri e

creatori di una nuova era. E potranno farlo solo se li aiuteremo a crescere nel modo giusto. Evitando i vaccini, per esempio.

La guardavo senza espressione. Avrei voluto trovare il modo di sdrammatizzare ma la solennità della sua voce mi premeva addosso come una spessa, soffocante coperta.

- Il mondo ha troppo sofferto per il male, e loro sono stati mandati per ristabilire l'equilibrio perduto. Sono i bambini della guarigione, capisci ? Pura luce, oltre il corpo.

Mise da parte il libro, mi prese la mano e mi chiese di ascoltarla con la massima attenzione. Mi raccontò di asceti finlandesi che non toccavano cibo da anni e stavano benissimo, di guru pachistani che praticavano la levitazione del corpo come fosse la ginnastica più naturale del mondo.

Parlò della fotosintesi e mi spiegò come le piante traessero dalla luce non solo l'energia per vivere ma anche il legno stesso di cui erano costituite.

- La luce è materia, - concluse soddisfatta come avesse dimostrato un complicato teorema matematico. Un teorema che riguardava anche lei. Soprattutto lei, perché da qualche settimana Isabel aveva smesso di ingerire cibi solidi. Si giustificava ripetendo che nel mondo tutto era contaminato, l'aria che respiravamo, l'acqua che bevevamo, e ovviamente il cibo che mangiavamo. Ogni elemento che penetrava nel nostro corpo in un tempo oscuro come quello, di caduta vertiginosa verso il nulla occidentale, non faceva che inocularvi una dose letale di malattia che a breve ci avrebbe portati tutti alla morte.

Fu così che scartando ogni giorno un nuovo cibo avvelenato, non le rimase quasi più nulla di cui nutrirsi. Era diventata anche lei un'asceta medievale che si preparava al giorno del giudizio. La sua divinità era lo spirito senza materia, il suo demonio la deperibilità organica.

Le volte che ancora lo faceva, le volte che ingeriva del cibo solido, sembrava invasa da un dolore e una sofferenza indicibili.

Ogni tanto sveniva. Ma lei interpretava quei cedimenti come forme di disinquinamento corporeo, segni evidenti di un benessere profondo che iniziava a manifestarsi anche in superficie. Spesso piangeva, e anche questo per lei era un segno di liberazione, perché era così che il corpo espelleva le tossine sciolte nelle lacrime. Talvolta trascorreva la notte insonne, ma se anche per questo c'era una spiegazione non me ne fece mai partecipe.

Non so come riuscimmo a farcela, davvero. In qualche modo comunque arrivammo al giorno del parto.

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Era un venerdì, le sei del pomeriggio, quando lei dalla cucina si lamentò di provare un dolore al ventre.

- Cosa senti di preciso ?- Niente. Una specie di leggero morso allo stomaco, ma è già passato.- Andiamo in ospedale, - dissi. - Non si sa mai.- Perché ? - ribatté lei. Fece un passo indietro, verso la zona in ombra della

cucina, come un animale in cerca di un nascondiglio. - Non serve andare in ospedale.

Iniziammo una discussione sfiancante sul fatto di correre o meno in ospedale. Disse che una madre sapeva meglio di chiunque altro quando veniva il momento, e quello per lei non era il momento. Senza contare quanto detestasse l'idea di affidarsi a una struttura come un ospedale, un posto che puzzava di orribili sostanze chimiche, e spersonalizzava i pazienti. - Come se il nostro bambino fosse un numero, - concluse.

Le ricordai che avrebbe trovato la sala destinata al parto in acqua per il quale si era esercitata tanto al corso di yoga, e riuscii a convincerla. Per strada, tutto mi sembrava ovattato, come composto di una strana gommapiuma, il traffico, le altre macchine, le persone che attraversavano.

Sentivo il battito del mio stesso cuore nelle dita che stringevano il volante. Mi sforzavo di tenere la situazione sotto controllo.

Varcammo l'entrata del reparto alle otto e mezza e fummo accolti da un'ostetrica gentile. Una donna di mezza età, un poco sovrappeso, rossa di capelli e la faccia rubizza.

Con un marcato accento dell'Est ci raccontò di avere tre figli e che tutti e tre erano rimasti a casa, dalle parti di Bucarest. Intanto fece spogliare mia moglie, le fece indossare un camice e la fece stendere su un letto. Le sfiorò la pancia e trovò che il collo dell'utero era in effetti dilatato.

- Ecco, - dissi io, - vedi che abbiamo fatto bene a venire.- Ti sembra questo il momento ? - ribatté lei.L'ostetrica ci mostrò la sala parto con la sua bella vasca al centro e a mia moglie

brillarono gli occhi. Si toccò il ventre e solo allora sembrò accorgersi che le doglie erano iniziate.

Meno di un quarto d'ora dopo era immersa nella vasca e stava bene, le piaceva. Sembrava rilassata, serena, dimentica di ogni conflitto.

Un'ora dopo nessuna novità. Due ore dopo nemmeno.Verso le undici di sera le dissero che doveva uscire.L'acqua calda abbassava troppo la pressione corporea e avrebbe potuto

compromettere il parto, spiegò il ginecologo che nel frattempo ci aveva raggiunti. - Dobbiamo farla uscire, peccato, - disse. - Dovremo fare un parto normale.

- No, - rispose lei. - Se è così me ne torno a casa.Fu il momento di un'altra interminabile discussione, su chi avesse la

responsabilità delle sue scelte di donna, sul concetto giuridico di diritto dell'individuo e più in generale sul tema della libertà umana. Mentre parlava la vedevo contrarre inutilmente l'addome e spingere con fatica.

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L'ostetrica la prese per un braccio e usò un tono severo, spazientito, da vecchia matrona contadina che intuiva l'approssimarsi del pericolo. - Qui si fa come dico io, - disse.

Mi avvicinai a Isabel e col tono più delicato di cui ero capace le dissi che non era colpa sua se non aveva ancora partorito. Afferrai le sue mani e l'aiutai a uscire dalla vasca.

Lei non riuscì a trattenere l'ennesimo pianto.Alle cinque del mattino ci condussero in una sala parto tradizionale e

stimolarono le contrazioni con un'iniezione di ossitocina a cui lei si oppose con tutte le forze ma che il medico le impose. Con lo stesso tono dell'ostetrica disse che adesso si faceva come diceva lui, visto che eravamo sotto la sua responsabilità legale.

Mia moglie partorì alle sette passate, quando attraverso un finestrone in alto, sopra il letto dov'era distesa, entrava il rosa incantato della prima luce. Nella confusione della sala parto - lei che gridava, le infermiere che parlottavano, l'ostetrica che dava ordini - per alcuni istanti mi sembrò di non sentire più alcun rumore. Era di nuovo quel senso di ovattamento provato mentre guidavo verso l'ospedale.

Le persone parevano rallentate, sospese da terra. Lei era sfinita, esangue, senza voce. Triste. Delusa.

Quando infine mi passarono il bambino, una fitta di felicità mi lacerò il petto. Respirai forte per non crollare.

Lo tenni in braccio e pensai che ce l'avevamo fatta.Almeno fino a lì ce l'avevamo fatta.Chi sei?, chiedo silenziosamente guardando la sagoma del corpo di mia moglie,

a pochi metri da me. Qual è il tuo segreto ? Da dove arrivi ? Perché non ti conosco ?

Guardo quel fagotto disteso immobile a terra. I rilievi del viso e del corpo che sporgono appena, sotto il telo, come indistinte catene montuose. Perché so davvero così poco di te ? Ho vissuto e preso le decisioni più importanti della mia vita con una sconosciuta. Una donna che si è sforzata quanto ha potuto di celare il proprio segreto anche a se stessa. La colpa primitiva, la maledizione del destino, il guasto impietoso che sceglie alcuni e li rende più fragili, più infelici, destinati a perdere nello sforzo disperato di tenere il controllo della propria vita.

Carabinieri entrano e escono. Il loro viavai comincia a irritarmi. Si muovono troppo disinvolti, con la volgarità degli invasori. Sono impiegati del disastro, professionisti della tragedia umana che intervengono quando la vita degli altri è sfuggita fuori controllo e ha deviato verso direzioni pericolose per l'ordine sociale. Si adoperano per riportare dentro argini d'emergenza una realtà dispettosa e autodistruttiva perché pensano che senza il loro intervento la realtà si ostinerebbe a straripare e travolgerebbe altre vite.

In un certo modo era ciò che mia moglie desiderava di più. Un'esondazione, un diluvio. Non un diluvio del male e della morte ma comunque un lavaggio dell'anima oltre che del corpo. Un lavaggio radicale del mondo intero, vigoroso e

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violento, che avrebbe lasciato le cose scarnificate, quasi inesistenti, ma finalmente pure. Come le abluzioni intestinali cui si era sottoposta negli ultimi mesi, come la pulizia dell'aura affidata a Leila, come le diete estreme detossicanti, come le diverse pratiche sacrificali attraverso le quali un'umanità ossessionata dalle tossine cercava di realizzare l'ideale di un'igiene perfetta.

Entrano tre infermieri della Croce Verde. Uno regge una barella estensibile. Mi riconoscono subito per l'assenza di divisa e perché, oltre al fagotto sotto il telo, sono l'unico essere nella stanza a restare immobile. Mi fissano senza espressione. Io mi alzo, faccio spazio, li lascio passare.

Mi rendo più invisibile che posso.Pensavo che fossero venuti per portare via il cadavere e invece li vedo

raggiungere la stanza da letto. Sento gli scatti metallici della barella che viene messa in piedi, poi un brusio di sottofondo. Le ruote della barella scivolano sul pavimento. Forse delle sedie vengono spostate. Poi silenzio.

- Come sta, signora? - sento dire da una voce di uomo.- È sveglia ? Può sentirmi ?Non distinguo la risposta.- Ora, signora, lasci fare a noi. Ora la alziamo e la mettiamo qua, - continua la

voce.Mi avvicino alla porta e mi appoggio senza rumore allo stipite.Gli infermieri accostano la barella al letto e uno di loro, il più vecchio, forse

quello che ha parlato, cinge mia madre da dietro le spalle. Un altro le regge la testa. Il terzo, poco più che ragazzino, la solleva per le gambe.

La fanno scivolare sulla barella e la fissano con due cinture, una all'altezza del torace, una all'altezza del bacino.

In soggiorno sollevano la barella da terra, per farla passare sopra il corpo di mia moglie.

Prima che spariscano fuori dall'appartamento chiedo loro di fermarsi, mi avvicino e sussurro a mia madre di stare tranquilla. La rassicuro. È tutto finito e non è colpa di nessuno, le dico. O per lo meno non è colpa sua. Poi mi rendo conto che lei non mi sente e sta dormendo un sonno profondo, lontano, e la lascio andare e scomparire oltre la porta che dà sul pianerottolo.

Lento, svuotato e al tempo stesso pesante, torno a sedermi sulla mia sedia al centro della stanza, come un vecchio sovrano dimenticato che siede sul trono, mentre intorno gli invasori si impossessano, indifferenti, della sua reggia.

Sul divano, il biberon pieno di latte continua a svuotarsi sul cuscino, goccia dopo goccia.

Rivedo proprio su quel divano mia moglie che si spoglia, il neonato sulle ginocchia, infagottato dentro una piccola coperta di lana. Il bambino si agita, vuole liberarsi ma non riesce. Le gambe, il corpo, sono avvolti nell'involucro troppo stretto.

Lei sfila il maglione, sbottona la camicetta e sgancia il reggiseno. La sua magrezza è impressionante, ha raggiunto il traguardo dei quarantadue chili. Tre mesi dopo il parto, anche se i seni rattrappiscono, si ostina ad allattare. Si ostina a

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somministrargli il proprio latte anche se per questo si disidrata e si sgonfia. È straziante assistere alla sua inutile determinazione.

Il seno è minuto, cascante e grinzoso. La pelle attorno ai capezzoli sembra secca.

Isabel avvicina nostro figlio alla mammella e lui inizia a succhiare. Succhia solo per alcuni secondi, poi agita la testa e boccheggia come un pesce gettato sull'erba.

Si attacca e si stacca ripetutamente, con movimenti nervosi del capo. Scatta sul capezzolo con la bocca spalancata, succhia e poi si allontana di nuovo, deluso. Non capisce perché da quel seno non esca niente, non capisce dove sbaglia. Ma ha fame e subito si riattacca e cerca di succhiare con tutte le forze. Si innervosisce. Inizia un gridolino di smarrimento che mi mette i brividi e che vorrei interrompere subito, in qualunque modo.

Riprova a succhiare, si stacca ancora, osserva il bersaglio del capezzolo e riprende. Potrebbe andare avanti per ore. Tutto inutile.

- Vedi, - dice Isabel. - Vedi che non ha fame?Il bambino continua ad agitarsi come se il problema fosse il bozzolo che lo

imprigiona, la tutina e la coperta in cui è avvolto e che non gli permettono di muoversi liberamente.

Agita le manine come un minuscolo sciamano che tenta, sotto la spinta della disperazione, un incantesimo contro la siccità. Davanti a lui, la mammella è una piccola divinità secca. Dev'essere colpa sua se non riesce a succhiare, se non riesce a convincere la piccola divinità a concedere il suo tesoro.

- Forse c'è poco latte, - dico io.- Non è possibile, - dice lei. - Guarda qua.Mi mostra la coppa di un reggiseno tutta bagnata, sulla quale prima di iniziare

sarebbe sbordato il liquido in eccesso.Si copre il seno. Ha deciso che il bambino ha succhiato abbastanza. È anche il

suo modo di farmi pagare la mia insinuazione. Si riveste e rimette il bambino nella culla, anche se lui ora grida come un ossesso.

Io non dico niente.Al quarto mese il bambino piangeva sempre di più, quasi senza interruzione.

Ogni volta che provavo a sollevare l'argomento, lei si risentiva e io smettevo per non far precipitare la situazione. Quella non era fame e quelli non erano pianti, sosteneva lei. Era il modo in cui i bambini rafforzavano le vie respiratorie.

Lo svezzamento fu rigorosamente naturale, biodinamico, vegano, crudista. Nel frattempo mio figlio aveva quasi interrotto la crescita. Un bambino della sua età avrebbe dovuto lievitare come una forma di pane. Lui, invece, ne aveva solo per mantenersi in vita e non certo per aumentare di peso.

Iniziammo a frequentare gli studi dei pediatri, ma pediatri alternativi, steineriani, olistici, new age. Sceglievo quelli in qualche modo compatibili con la sua visione delle cose perché fossero in grado di trovare un varco nella sua ostinazione.

Mi informavo, chiedevo consigli a mio fratello medico e trascorrevo lunghi pomeriggi al telefono per scovare i pediatri più accomodanti. Ugualmente erano discussioni ad ogni incontro. Anche i più concilianti criticavano la dieta che lei

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aveva impostato per il bambino. Mia moglie stringeva le labbra e incrociava le braccia sul petto, stizzita, mentre quelli prescrivevano formaggio, uova e lenticchie, spiegandole che un bambino necessitava di cibi cotti e non bastava nutrirlo con cetrioli, avocado, fichi e succo di datteri.

Dopo ogni incontro mi teneva il broncio. Diceva che se la portavo dai pediatri significava che non mi fidavo di lei. Diceva che far visitare un bambino da un pediatra era umiliante per una madre. Solo una madre, infatti, sapeva di cosa aveva bisogno suo figlio.

A Forlì litigò letteralmente con il più importante specialista d'alimentazione infantile d'Italia. Fu una disputa snervante, a tratti surreale, e lei si batté con particolare spirito polemico. Durante l'incontro discussero della masticazione negli australopitechi, i nostri progenitori che evidentemente erano vegetariani. Parlarono di un certo enzima di cui i bambini sono privi, e perciò non assimilano cibi crudi. Lei gli spiegò alzando il tono della voce che la carne faceva male perché quelle della carne erano proteine morte, in uno stato di putrefazione. Parlarono del formaggio grana stagionato tre anni e litigarono sulle proprietà degli oli di semi, che secondo lei contenevano tutto ciò di cui c'è bisogno per nutrirsi e rimanere sani. Prima di andarcene, mia moglie smentì la teoria dell'evoluzione.

Presi a tornare a casa dal lavoro sempre più presto. Già a metà pomeriggio le voci dei clienti e dei miei soci e i rumori dell'ufficio sfumavano in una sorta di brusio indistinto, preoccupante, come quello di una marea che preme contro il litorale. Verso le quattro spegnevo il computer e sorridevo vago ai soci che mi guardavano con aria stupita, per affrettarmi a casa e controllare la situazione.

Con la gravidanza Isabel aveva lasciato il lavoro.Dell'esperienza all'erboristeria rimaneva una scorta colossale di tisane, oli

essenziali, prodotti fitoterapici, e il quadro della Tuffatrice che dominava ora la parete del nostro soggiorno. Usciva di casa pochissimo e soltanto con il pretesto di una passeggiata in centro riuscivo a portarla nei negozi biologici che le piacevano tanto.

Giravamo per le corsie di legno grezzo, tra i cartelli delle offerte scritti in una confidenziale grafia a mano. Isabel sembrava conoscere tutte le persone che lavoravano in quei negozi: cassiere fondatrici di siti internet sul veganesimo; fruttivendoli in grado di intrattenerci, mentre pesavano le arance, sui danni dei vaccini e sugli innominabili errori della medicina tradizionale; addette alla pulizia che sapevano spiegare con competenza i vantaggi della medicina olistica.

L'allontanavo appena potevo e la portavo a camminare tra pile di datteri e avocadi e ananas biologici con l'unico scopo di invogliarla a comprare del cibo. Riuscivo a farle prendere delle confezioni di cialde al mais grezzo, cracker al farro, tortini al kamut con l'uvetta.

La sera a tavola ne mangiava un po'. Li succhiava, sarebbe più corretto dire. Ci giocava, sbriciolava cracker e cialde sul tavolo. Li girava tra le dita come un agronomo alle prese con strani inaffidabili frutti, ne prendeva minuscoli morsi, bocconcini che tratteneva in bocca il più a lungo possibile e che diluiva con enormi quantità d'acqua.

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Ultimamente beveva in continuazione. Sosteneva che per stare bene bisogna bere almeno sei litri d'acqua al giorno.

Lei si riempiva lo stomaco di acqua magnetizzata in un'apposita caraffa e tutto quel liquido placava la fame.

Una volta, dopo essersi lasciata andare mangiando un intero pacchetto di cracker al farro, andò in bagno con una calma sospetta. Riuscii a distinguere nitidamente il rumore dei conati.

La immaginai in ginocchio sul pavimento del bagno, una mano aggrappata al bordo del water, l'altra mano dietro la nuca a trattenere i capelli. Resistetti all'impulso di fare irruzione. L'equilibrio casalingo era già abbastanza fragile per rischiare di comprometterlo del tutto. Quando tornò di là era pallida ed evitò di incrociare i miei occhi.

- Come stai ? - chiesi, senza riuscire a trattenermi. - Ti vedo un po' pallida. Hai le nausee?

- Perché mi parli con questo tono? - disse lei fulminandomi con lo sguardo. - Cosa ti ho fatto? Perché non perdi mai occasione per rimproverarmi ?

Non seppi cosa rispondere. Non lo sapevo più.Pensavo che se avessi reagito con troppa decisione lei avrebbe potuto andarsene,

preparare una borsa mentre ero al lavoro e sparire nel nulla assieme a mio figlio. Volatilizzarsi.

Magari all'estero, dopotutto aveva ancora la cittadinanza svizzera. Oppure, peggio, temevo che potesse verificare il livello di leggerezza raggiunto dal suo corpo grazie al processo di purificazione, librandosi in volo dalla terrazza, un giorno, con il bambino indaco in braccio.

Un volo leggero, sospeso come quello dipinto nel quadro della Tuffatrice e che li avrebbe trasformati per sempre: aria nell'aria, luce nella luce.

Cercavo di muovermi con la massima cautela. Avanzavo lento con la paura che il pavimento su cui camminavo si sgretolasse da un momento all'altro. Vivevo in uno stato di costante allerta. Di notte faticavo a dormire e di recente mi ero accorto di soffrire di vertigini, un problema che pensavo di avere superato dai tempi dell'adolescenza.

Non andavo più sulla terrazza. Ne avevo paura.- Mi sembrava di avere sentito dei rumori strani, continuai.- Che rumori ? - protestò lei. - Di che rumori parli ? quasi gridò. - Perché non

faccio mai niente che ti vada bene ?- Io ti sono vicino, - azzardai. - Fidati di me.- Fidati tu di me.Il giorno dopo chiamai mio fratello. Lui era lontano, davvero troppo lontano. Se

n'era andato da un decennio a fare ricerca medica in giro per le principali università americane.

- È un disastro, - commentò dopo che gli ebbi spiegato la situazione. - Un disastro. Bisogna alzare la guardia.

- Cosa devo fare ?- Devi fare di più, - si irritò.

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- Di più cosa? - chiesi spaventato.- Di più, maledizione, di più, - disse. - Speriamo che non sia troppo tardi.- Troppo tardi per cosa ?- Non capisci? - s'inalberò lui. - Tu non capisci proprio, - continuò. - O forse non

vuoi capire?- Ti prego, - gli dissi. - Aiutami.Mi diede il nome di un medico, il dottor Moroni, con cui aveva mantenuto i

contatti. Un vecchio compagno di università che si era specializzato in pediatria e di cui ci si poteva fidare. Mi raccomandò di chiamarlo subito e mi disse che non potevo permettermi il lusso di fare altri errori.

Riagganciai e telefonai al pediatra.Ci incontrammo il giorno dopo nel suo piccolo ambulatorio con le pareti

decorate da grandi poster di Gatto Silvestro, Daffy Duck e i personaggi di Toy Story. Non ero riuscito a portargli il bambino, mia moglie si insospettiva ad ogni tentativo di stare da solo con lui, ma avevo con me delle foto e tutti i referti dei pediatri precedenti.

Mentre il dottor Moroni esaminava le foto di mio figlio, ebbi l'impressione che stessimo parlando di un bambino rapito, di cui a me, il padre, fosse rimasto soltanto questo, un fascio di foto e di referti.

Disse anche lui di fare attenzione. Per quello che poteva giudicare, il bambino era molto più magro di quanto avrebbe dovuto. Non fu categorico come mio fratello ma parlò a lungo di percentili, di circonferenza cranica, di sviluppo osseo e sviluppo motorio. Quando vide che mi agitavo sulla sedia mi disse di stare calmo. - Non siamo ancora nella zona di estremo allarme, - mi tranquillizzò. - La avviso solo di alzare la guardia, anche se forse non dovrei permettermi di darle dei consigli. Ma conosco suo fratello e le parlo da padre. Anch'io ho un bambino.

Quando uscii, nella sala d'aspetto una giovane madre aspettava il suo turno, sfogliando con tranquillità un settimanale.

Accanto a lei, su un passeggino, una bambina che poteva avere due anni, bene in carne e con un paio di treccine ai lati della testa, mi guardò con occhi spalancati.

Nei pochi momenti che trascorrevo da solo col bambino, mi affrettavo a imboccarlo di nascosto. Tenevo degli omogeneizzati in una tasca della mia borsa da lavoro. Lo facevo con urgenza, quasi con furia quando lei non poteva accorgersene. Mentre era in bagno, per esempio.

Dopo un incontro con l'ennesima pediatra che avevo fatto scegliere a lei - una specialista di medicina naturale che ci apostrofò duramente per le condizioni in cui era ridotto il bambino -, io non resistetti e la insultai.

Eravamo nel parcheggio di un poliambulatorio appena costruito lungo la tangenziale. A pochi metri da noi, oltre una siepe rinsecchita dal sole e dallo smog, auto e camion sfrecciavano con un boato che rimbombava e io fui costretto ad alzare la voce.

Le dissi che non era possibile che mio figlio soffrisse la fame e che questa storia finiva qui. - La nostra storia finisce qui, - gridai.

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Sistemai in macchina il seggiolino di mio figlio. Lui non piangeva né dormiva, si limitava a guardare dritto davanti a sé, verso il sedile anteriore, attonito come i suoi genitori.

La portiera restò aperta mentre io e lei ci affrontavamo, finalmente, un giovedì mattina verso le dieci, al lato di una strada.

Lei non rispose subito. Non mi aveva mai visto così.Mi disse di non gridare: - Stai calmo, Carlo, stai tranquillo.Adesso vediamo insieme, abbiamo fatto tutto insieme, affronteremo anche

questo. Vedrai.Io non mi placai. Queste sue improvvise, momentanee pause di ragionevolezza

mi facevano infuriare ancora più del resto. Le gridai una serie di improperi e le diedi una spinta che la mandò a sbattere contro la siepe.

Non cadde. Con voce controllata mi ripetè di calmarmi.- Va bene, - disse, - faremo come vuoi tu. Ma non alzare la voce. Noi due ce la

faremo.Gli occhi blu cercarono i miei. Sembrava essersi trasformata in una persona

dolcissima. Volle stringermi, volle abbracciarmi. Mi parve che fosse il suo modo di ammettere che aveva sbagliato e a quel punto mi calmai. Bene, mi dissi, è finita. È finito questo maledetto incubo. Dovevo soltanto sbloccarla con uno scossone. Perché non ci avevo pensato prima?

Quella sera, per la prima volta dal parto, preparò del riso che il bambino mangiò avidamente, sporcandosi tutto, la bocca, le manine, il bavaglino di Winnie the Pooh.

Il riso era cotto in un brodo con della polvere di tacchino disidratato. Nulla del genere era mai finito sulla nostra tavola prima. Era un buon piatto. Ricco. Disse che però bisognava iniziare con calma, senza strappi. Mi permise di usare la polvere di tacchino disidratato per non più di tre volte la settimana. Io acconsentii. Ero felice. Mi sentivo esausto ma mi pareva che fossimo sulla buona strada. Ce l'abbiamo fatta, mi dicevo.

Il giorno dopo mentre ero in ufficio mi telefonò Valentina, l'amica che ci aveva presentati. Sentii subito che era preoccupata. Mi chiese cosa stava succedendo. Disse di aver ricevuto una telefonata da Isabel e di averla sentita stravolta.

- Cosa c'è? - mi chiese.- Non lo so, - risposi. - Non lo so più, Valentina.- Isabel mi ha chiamato per chiedermi il numero di un collega, - disse lei, e capii

subito cosa intendeva. Valentina lavorava in uno studio di avvocati. - Ha intenzione di iniziare la pratica di separazione.

Non ricordo molto altro di quella telefonata. Mi abbandonai contro la sedia in preda a una debolezza sfiancante.

Mi sentivo come sul tetto di un grattacielo: ovunque guardassi, era vertigine.Non sapevo niente della donna con cui vivevo, di cosa le attraversasse la mente,

cosa sentisse, quali paure nascoste la muovessero. Mia moglie era un'estranea.Andai a casa e non feci parola della telefonata. Lei si comportò allo stesso

modo. A quel punto dovevo solo guadagnare tempo. Dovevo placare la tensione,

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rimanere qui e far rimanere anche lei. Non potevo permettere che lei prendesse a pretesto un mio sfogo di rabbia per andarsene chissà dove.

Nei giorni successivi mi trasformai in un'entità immobile, paralizzata, innocua.Sempre più spesso la sentivo piangere oppure vomitare.Io restavo a letto, gli occhi sbarrati, senza fare niente.Anche il bambino piangeva. Un paio di pasti decenti alla settimana non gli

bastavano di certo. Aveva fame e la fame gli impediva anche di dormire. Frignava per notti intere.

Quando facevo per alzarmi e andare a calmarlo, Isabel mi precedeva. - Vado io, - mi gelava.

Chiesi aiuto a mia madre. C'era bisogno di lei. Che mi aiutasse. La implorai.- E in che modo? - sospirò mia madre. Era stupita, forse addirittura delusa che

suo figlio fosse finito in un tale vortice di miseria. Che non si fosse accorto proprio di niente fin dall'inizio. Chissà, forse si chiedeva cosa fosse andato storto, come fosse stato possibile che suo figlio si fosse rivelato tanto imprudente, tanto stupido da fare un errore di valutazione così grossolano dopo tutto l'impegno speso per educarlo nel più dignitoso dei modi e nei migliori istituti scolastici della città.

- Non possiamo permetterci una separazione, - concluse mia madre. - Dobbiamo controllarla, dobbiamo impedirle di scappare o di fare una follia.

Consigliò di sforzarmi al massimo e mostrare l'atteggiamento più comprensivo possibile con lei. Di abbassare la tensione in casa e di cercare a mia volta un avvocato.

Si trattava di assecondarla quando lei mi spiegava la forza delle energie astrali e degli spiriti guida, e di fingere di interessarmi alle sue teorie. Come avevo già intuito, si trattava di tenere mia moglie dov'era.

Salutai mia madre con una traccia di sollievo. Mentre mi allontanavo dalla vecchia casa dove io e mio fratello eravamo cresciuti ebbi un brivido violento. No, non potevo davvero rischiare chissà quale follia. Avrei seguito i consigli di mia madre. Avrei cercato un avvocato e avrei seguito anche i suoi. Avrei fatto come mi avrebbero detto loro. Se mi fossi fermato a pensare mi sarei trovato ancora lassù, sopra un grattacielo di pensieri, di paure innominabili e vertiginose.

Iniziarono a comparire strane foto in casa.Erano le foto di un tale con una faccia scarna, allungata, capelli neri tirati

all'indietro, un paio di piccoli occhi inafferrabili e una bocca carnosa che aveva qualcosa di disturbante.

Il collo appariva gonfio in modo anormale. Si trattava di un certo Bruno Gròning, un guaritore vissuto in Germania e morto nel 1959.

Un giorno trovai una sua foto dentro il frigorifero, nascosta sotto una tazza di acqua magnetizzata che lei conservava là dentro. Ne trovai un'altra sotto l'impianto stereo.

Una sotto una candela in camera da letto. A ogni foto, fissavo con desolazione la faccia di quella presenza che aveva invaso i miei spazi. Cercai come un segugio per la casa e trovai foto di questo Bruno Grôning dappertutto.

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Una era persino sotto il materasso.La sera le chiesi cosa fossero quelle foto e lei rispose chiedendomi se non

sentivo la bella energia che da qualche giorno vibrava in casa.- Come no? - le risposi. - Effettivamente, avevo proprio sentito qualcosa di

diverso ma non riuscivo a capire cosa fosse.Mi porse una tazza fumante di tisana e mi parlò con leggiadria adolescenziale di

questo santo guaritore che aveva saputo esaltare la propria energia e l'aveva usata a fin di bene, per compiere miracoli a schiere di moribondi, storpi, poliomielitici.

- Interessante, - dicevo, - davvero molto interessante.Raccontami -. L'ascoltai fingendo il più profondo trasporto per i prodigi di quel

santo, e compresi che da solo non ce la potevo fare. Ero troppo confuso per pensare con la mia testa e avevo bisogno di costruirmi quanto prima una squadra che pensasse per me. Potevo difendermi dall'ingovernabile mostruosità che era diventata la mia vita solo trovandomi degli alleati.

Oltre a me, la squadra sarebbe stata costituita da mia madre, mio fratello e i suoi eventuali contatti, nonché dal mio nuovo avvocato. A loro avrei delegato tutte le scelte.

Avrei eseguito nel più solerte dei modi gli ordini impartiti.L'avvocato si chiamava Sara Riccioli. Il suo ufficio si trovava sopra un lounge

bar nella zona centrale della città, in uno di quei palazzoni di marmo bianco d'epoca fascista, tra l'Agenzia delle Entrate e la vecchia sede della Camera di Commercio.

- La prima cosa da fare, - disse quando mi ricevette, è costruire prove documentali cartacee.

Alle pareti dell'ufficio alcune foto testimoniavano un passato da giocatrice di tennis. Doveva avere all'incirca la mia età. Le braccia erano nervose, da ragazza, e anche i gesti pratici delle mani erano da ragazza. Ma il corpo da atleta si era un poco appesantito sotto il tailleur elegante e squadrato.

Incassò il mio assegno di millecinquecento euro per un primo rimborso spese e lo mise a fianco del computer, incastrandolo sotto un angolo della tastiera. Non lo fece sparire. Non si vergognava di essere una professionista costosa. Anzi.

Mi ascoltò fissandomi in viso e io ricambiai lo sguardo per tutto il tempo del colloquio, consapevole che stavo mettendo la mia vita in mano a questa donna.

Le raccontai la mia storia con foga, mangiandomi le parole.Lei distolse lo sguardo solo un paio di volte, richiamata dal suono della posta in

arrivo sul computer. Rispose a un messaggio digitando sulla tastiera a velocità strabiliante e tornò a guardarmi. - Prove documentali cartacee, ripetè, - perché in tribunale vale solo la carta. Dispone di prove su carta, lei ?

- No, avvocato.- Non ha certificati, referti psichiatrici schiaccianti che attestino la pericolosità

della situazione per il minore ?-No.- Non ha niente di niente ?- No, avvocato.

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- Molto male.- Mi dispiace -. Tentai un sorriso smarrito e accavallai le gambe. La sedia emise

un leggero gemito. Avrei voluto chiederle del suo passato di giocatrice di tennis, chiederle se aveva figli, chiederle cosa significava essere un noto avvocato specializzato in diritto di famiglia e puntare lo sguardo, giorno dopo giorno, dentro il disastro della vita degli altri. Ma parlò lei.

- Non serve dispiacersi, - disse. - Adesso bisogna fissare subito un appuntamento coi servizi sociali. Poi, coinvolgeremo uno psichiatra che conosco. La porterà da lui. A sua moglie faremo credere che è lei stesso ad averne bisogno.

- Uno psichiatra?- Si, e faremo scrivere tutto. Dobbiamo costruire prove cartacee. Vanno bene i

pediatri che ha scelto fin qui, ma ci serve un pediatra ufficiale dell'ospedale. Conosce un pediatra dell'ospedale, lei?

- No, avvocato.- È un medico ? Mi ha detto che sua moglie è magrissima.La faccia visitare, la faccia vedere. Dobbiamo esporre sua moglie al mondo e

fare in modo che il mondo possa guardare la verità.- Mio fratello è medico, - risposi. - Saprà indicarmi qualcuno.- Molto bene, - disse lei.Mi osservò socchiudendo gli occhi e poi, a sorpresa, ricambiò il mio sorriso di

un paio di minuti prima. - E adesso la smetta di agitarsi su quella sedia. Piuttosto, perché non mi fa vedere una foto di questo bambino ?

L'assistente sociale a cui venni affidato aveva un marcato accento toscano. Al telefono disse che era stata avvertita dal mio avvocato e mi dette la disponibilità per la settimana successiva. Mi disse che avremmo risolto, lei era lì per quello e non c'era da agitarsi tanto. Aveva affrontato situazioni peggiori, lei.

La sede dei servizi sociali occupava la vecchia scuola elementare di piazza Castello. Era un bel posto a vederlo da fuori, mi era sempre piaciuto. Un grande giardino separava la costruzione dalla piazza, un giardino di enormi pini e pioppi e castagni che dovevano stare lì da decenni, magari da secoli.

In fondo, poco distante dall'ingresso, si intravedevano uno scivolo di plastica colorata e un'altalena di metallo dall'aria non troppo stabile. Un rettangolo di sabbia per far giocare i bambini. Non sapevo se fossero ricordi di quando il palazzo era una scuola o se quelle attrazioni fossero state messe per i figli dei visitatori attuali.

Aspettammo il nostro turno seduti in un corridoio lungo e stretto. C'erano disegni a pastello realizzati da bambini appesi ordinatamente alle pareti. Di nuovo, mi chiesi a quando risalissero.

Isabel leggeva un libro che si intitolava Le vie della benedizione.L'idea di imitarla e mettermi a leggere in un momento del genere mi procurava

una vaga nausea. Avevo lo stomaco chiuso e gli occhi mi bruciavano. Lanciai uno sguardo intorno. Una coppia di ragazzi al massimo ventenni ci sedeva di fronte. Lui era un magrebino dallo sguardo assente, lei una ragazza con una frangia bionda, incinta, forse al sesto, settimo mese.

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Più in là, una signora anziana leggeva una rivista di gossip con Carla Bruni in copertina. Oltre, una donna con un cappotto del tutto inadatto alla stagione e un cerchietto rosa sulla testa. Teneva in mano un bicchiere di plastica da cui si spandeva un odore di caffè scadente, da macchinetta.

Pensai che qualcosa ci univa, tutti noi, in quel corridoio.Uno spavento appena sopito, una tensione trattenuta e nascosta dietro la nostra

immobilità.L'assistente sociale uscì da una delle tante porte color panna per farci entrare in

una vecchia aula riadattata a consultorio. Sedette a quella che aveva tutta l'aria di essere una cattedra. Era una donna giovane, più giovane di noi, con un naso pronunciato e una bocca sottile dal sorriso senza calore. La voce era vagamente roca. Un bracciale di legno intarsiato al polso.

Appena ci sedemmo iniziarono le domande. Voleva che fossi io a rispondere per primo. Voleva che mi presentassi e mi «raccontassi». Mi chiese anche di ricordare un bel momento della nostra relazione di coppia, un momento speciale che non avrei mai dimenticato. Voleva che fossi spontaneo e non pensassi alle risposte, ma dicessi la prima cosa che mi veniva in mente.

Io parlavo da uomo impaurito. Sudavo e cercavo di mantenere un sorriso di circostanza. Desideravo farle capire il mio impegno, comunicarle la mia buona fede e la volontà di uscire dal nostro vicolo cieco. Dissi che il nostro era un rapporto di grande amore che si era inceppato sul problema dell'alimentazione del bambino. - Un ricordo? - mi interruppi poi. - La nostra vita insieme è stata tutta un bel ricordo, - dissi senza crederci.

Guardai mia moglie per invitarla a continuare. Avrei voluto che si esprimesse lei, a quel punto, che parlasse, che cominciasse a buttare fuori quel che covava. Ero sicuro che nel giro di poche parole si sarebbe smascherata, avrebbe iniziato a decantare le virtù del latte di riso o la necessità che la razza umana iniziasse a nutrirsi di luce.

Lei però rimase impassibile e non accennò a continuare.Guardò dritta davanti a sé come se il suo unico interlocutore fosse la donna

dall'altra parte del tavolo.Si era vestita con una camicia bianca molto larga, da uomo, probabilmente una

delle mie, e una gonna a fiori lunga alle ginocchia. Sopra la camicia una specie di sciarpa di cotone a frange che le cadeva sulle spalle e mascherava le forme magrissime del busto.

Era truccata. Non la vedevo truccarsi da mesi. Si era messa del fondotinta e il colorito del viso appariva tonico e lievemente abbronzato. Non c'era traccia della ragnatela di rughe sottili che da quando aveva iniziato a dimagrire le aveva invaso la fronte, gli zigomi, il contorno della bocca.

Non c'era traccia delle occhiaie.Manteneva anche lei un sorriso stampato. Annuiva a ogni commento

dell'assistente sociale, e quando invece ero io a parlare rimaneva immobile, al punto che sembrava trattenere il respiro. Si era trasformata nella più compassata

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delle donne, una brava madre che aveva soltanto bisogno di un poco d'aiuto. Muoveva la testa, approvava.

Sembrava a suo agio. Si era studiata a memoria il prontuario della persona normale.

L'assistente sociale si comportava come noi. Concedeva un sorriso, assentiva, metteva in scena la dinamica dell'ascolto attento e consapevole.

- Il momento più bello della nostra relazione? - riecheggiai incerto, quando lei tornò a farmi quella domanda.

- Si, così ci conosciamo meglio, - disse lei. Si sfiorò il bracciale al polso, strinse le labbra e mi guardò con impazienza.

A un tratto mi sembrò di riconoscere qualcosa in lei, nel suo viso giovane e per niente bello, nella sua aria di vaga sufficienza. Mi sembrò di rivedere le decine di studentesse di psicologia e scienze sociali incontrate ai tempi dell'università, il tipo di ragazze anonime che cercavano di darsi un tono con la pretesa di comprendere e giudicare il mondo. - Non ci pensi, dica quello che le viene in mente.

Forza, lo dica. Butti fuori.Osservai mia moglie quasi implorante. Toccava a lei parlare, ora. Ma lei taceva e

aspettava che fossi io a fare il primo passo falso.Nei momenti di silenzio che seguirono quella domanda si udirono delle voci

provenire dalla stanza accanto. Prima un parlare tranquillo, poi all'improvviso uno sbotto. Un uomo iniziò a gridare in un italiano malsicuro e io immaginai che fosse il magrebino visto prima in corridoio. Poi si sentì un tonfo come di sedia sbattuta sul pavimento, e una ragazza che gridava ancora più forte.

L'assistente sociale non fece caso a quelle urla e a quel pianto. Io ripresi mangiandomi le parole e poi, disperato, adottai la stessa tattica di mia moglie e iniziai ad annuire a ogni frase. Ero un uomo sfiancato, gli occhi segnati dall'insonnia, la camicia chiazzata di sudore. Non riuscivo a risultare credibile, arrancavo tra una frase e l'altra come un naufrago che nuota verso una riva sempre più lontana per via di una corrente inesorabile. Mia moglie invece sedeva serafica, bella.

Alla fine dell'incontro l'assistente sociale ci condusse in una stanza dove c'era una bilancia e chiese a mia moglie di salirci sopra. Pesava più di quaranta chili. Quaranta e tre etti, per la precisione, e l'assistente sociale annuì soddisfatta.

- Bene, - disse rivolta a mia moglie, - bene, bene.Mi pare che le cose si possano risolvere -. Ci condusse alla porta e disse che la

settimana successiva ci sarebbero stati degli incontri individuali. Aveva bisogno di approfondire le cose, spiegò, ed era importante incontrarci singolarmente per valutare il personale punto di vista di ciascuno.

Appena a casa mia moglie corse in bagno, chiuse la porta con violenza, aprì l'acqua della doccia per coprire i colpi di tosse strozzati e i conati. Poi, tirò l'acqua del water per tre volte di fila.

Soltanto in seguito avrei scoperto che prima di ogni incontro con l'assistente sociale lei ingurgitava una confezione da un chilo di mascarpone. Un chilo di

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mascarpone cremoso e compatto nello stomaco. Tenersi quella zavorra nel corpo per un paio d'ore non doveva essere facile per lei, ma un chilo in più su quella bilancia contava ed era chiaro che lei era disposta a tutto pur di fare apparire me come il pazzo.

Ormai non lavoravo più. Mi limitavo alla presenza fisica in ufficio nel corso del mattino e del primo pomeriggio.

Seduto alla scrivania, non facevo che chiedermi cosa poteva succedere a casa in mia assenza. Passavo ore al telefono per organizzare alleanze e disegnare strategie. Parlavo con il dottor Moroni e contattavo altri pediatri dai quali mendicavo relazioni scritte, psichiatri che potessero comprendere la situazione. Poi c'era l'assistente sociale, e ovviamente Sara, il mio avvocato.

Un giorno affrontai i miei due soci e dissi loro di avere bisogno di tempo. Dissi che questioni importanti in famiglia richiedevano la mia attenzione e che nelle settimane successive sarei stato in ufficio in modo saltuario. Risposero con un sorriso vago, quasi sarcastico: si erano già accorti da soli che avevo smesso da un po' di occuparmi della nostra società.

Era una piccola società in un momento particolarmente difficile di mercato e c'era bisogno del mio lavoro come non mai. Ma loro non obiettarono. Mi guardarono con aria costernata, l'aria con cui si guarderebbe qualcuno che, dopo il crollo di un ponte, fosse rimasto dalla parte sbagliata del fiume. Non ero più in grado di procedere con loro, almeno per il momento. Sembrarono comprendere.

Avevo gli occhi arrossati e scavati di chi non dorme abbastanza. Non era solo mia moglie a essere invecchiata di colpo, allo specchio scoprivo che anche il mio volto era segnato. Senza contare quella perenne sensazione di inadeguatezza, di stupidità, di colpa. Perché, ormai ne ero convinto, stava succedendo tutto per colpa mia.

Una sera, in macchina, durante una telefonata con mio fratello che mi spiegava il rischio di non vaccinare il bambino contro il tetano e mi illustrava nei dettagli i dolori terrificanti con cui moriva chi veniva colpito da quel morbo, dovetti interrompere la conversazione fingendo una caduta della linea. Mi fermai sul ciglio della strada e feci appena in tempo ad aprire la portiera. Vomitai in un getto il pranzo di alcune ore prima, sporcando il copricasse e il tappetino della macchina.

In realtà stavo sviluppando a mia volta problemi con il cibo. Trovavo sempre più difficile nutrirmi mentre mio figlio non riusciva a farlo abbastanza. Era come se mangiando gli portassi via qualcosa, lo derubassi di ciò che era suo. Al mondo il cibo era limitato, e ogni boccone nel mio stomaco era un boccone sottratto a lui.

Mi sostenevo con succhi di frutta, yogurt, snack comprati al volo nelle stazioni di servizio. E poi, certi giorni, un appetito orribile mi tagliava lo stomaco e allora correvo nel fast food vicino all'ufficio e divoravo un paio di hamburger con morsi rabbiosi, quasi senza masticare, sentendomi colpevole e nauseato.

Iniziai a prendere alcune gocce di Minias prima di andare a letto. Mi consentivano di dormire e di non sentire il bambino che piangeva nell'altra stanza.

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Anche lui continuava a dormire poco, si appisolava in genere soltanto verso l'alba, quando la stanchezza prendeva il sopravvento sulla fame.

Una notte sognai che lui moriva. Nel sogno era spaventosamente leggero, lo tenevo in braccio e la sua consistenza mi ricordava quella dei palloncini gonfiabili del luna park, quelli con le sembianze di personaggi dei cartoni animati.

Tenevo mio figlio in braccio e lo guardavo e pensavo, o forse gli dicevo, o immaginavo di dirgli: stai tranquillo, noi ce la faremo. Ma mentre gli parlavo lo sentivo perdere consistenza. Il suo corpo si faceva più piccolo e più leggero.

Pur avendolo in braccio, in qualche modo lo sentivo sempre più lontano. Cosa c'è ?, gli chiesi. Cosa fai ? Perché te ne stai andando ?

La sua pelle e la sua carne persero ogni tensione e il bambino iniziò visibilmente a sgonfiarsi. Non sapevo cosa fare. Nel sogno provai un senso di schifo per me stesso e per la mia inadeguatezza e mi dissi che in realtà il problema ero io. Che non ero all'altezza e stavo facendo davvero troppo poco mentre mio figlio si sgonfiava e moriva.

L'estate volgeva al termine. Io una sera decisi di rientrare a casa prima del solito per controllare cosa succedeva in mia assenza. Volevo prenderla di sorpresa.

Trovai il bambino sul pavimento, sopra la pelle di pecora che usavamo come stuoia e su cui Isabel lo lasciava delle ore. Uno dei suoi cd andava allo stereo. Cori maschili accompagnati da cetre indiane e un ritmo di campanelli e cembali. Una musica ricorsiva, sempre le stesse note, poche parole, lo stesso mantra e gli stessi suoni. Nessuno sviluppo della melodia.

Mi inginocchiai sulla pelle di pecora e fissai il bambino.Stringeva in mano un sonaglio di gomma che in teoria avrebbe dovuto essere il

suo gioco, anche se lui se ne stava apatico e indifferente. La luce dalla finestra accentuava il suo colorito giallastro. Aveva appreso a stare seduto con la schiena dritta con un mese abbondante di ritardo rispetto alla media e si muoveva troppo piano, rallentato, impacciato.

Presi il sonaglio e lo agitai. Lui reagì stancamente. Fingevo di partecipare alle sue scoperte, ma erano scoperte che nemmeno a lui interessavano. Se fingeva di reagire, se fingeva di provare a giocare, era soltanto per assecondare me, l'unica possibilità che aveva di sopravvivere. Stava giocando a fare il bambino con il padre. Io stavo al gioco e facevo il padre.

Lei era di là, in cucina, riuscivo a sentire i suoi movimenti.Presi un respiro e attraverso la porta aperta, con il tono più normale che potevo,

le chiesi com'era andata la giornata.- Bene, - la sentii rispondere. - È andata bene, perché me lo chiedi tutte le sere ?Feci suonare ancora il sonaglio del bambino. Volevo comunicarle che stavo

facendo dell'altro, stavo giocando con nostro figlio, farle credere che potevamo avere una conversazione qualunque, distratta, priva di doppi sensi.

Come ogni coppia. Volevo che la tensione restasse sotto controllo e che resistesse l'illusione di poter collaborare.

- Ti va di aiutarmi a preparare la tavola? - sospirò lei.- Sono un po' stanca.

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- Lascia tutto e vieni con noi, - dissi dal tappeto. - Vieni a sederti qui.- Ho quasi finito, - rispose.Era il suo momento di dimostrarsi una madre capace. Il momento di accudire la

famiglia, preparare la cena, preparare la tavola, mettere a letto la famiglia, spegnere la luce, dare la buona notte.

Si stava prodigando per questo. Come ogni sera, sbucciava tre cetrioli, tagliava due pomodori. Schiacciava un avocado con il manico di un mestolo di legno. Poi, per dessert, i fichi secchi che aveva lasciato in ammollo tutto il giorno perché, diceva da qualche tempo, il liquido del fico secco era la cosa più nutriente del mondo. Ferro e sali minerali nella loro forma migliore, quella liquida, quella meglio assimilabile dall'organismo umano.

Mi alzai con una delle solite vertigini, lasciai mio figlio sulla pelle di pecora e la raggiunsi. La trovai che lavorava sul ripiano della cucina, sopra un grande tagliere di acero giapponese o thailandese o chissà, tagliando fette di cetriolo sottilissime, quasi trasparenti. Vista di spalle la sua magrezza era impressionante. Da davanti sapeva ancora dissimularla con sciarpe, camicie larghe, scialli, ma da dietro era impossibile.

Provai un senso di odio pieno e feroce, misto a tenerezza, due sentimenti impastati in un grumo senza speranza. La strinsi da dietro. - Lo sai che ti amo, - dissi con voce roca.

Isabel si bloccò. Chinò leggermente il capo. Sembrò pensare a quello che avevo detto e continuò a stringere il coltello in mano.

Iniziò a piangere e l'odio e la tenerezza si infiammarono entrambi, dentro di me, come una brace sotto un soffio di vento.

- Mi sento sola, - disse.- Non sei sola, - risposi. Usai un tono condiscendente.Dovevo essere una persona delicata e dovevo essere credibile.Non l'avrei mai più insultata e spinta contro una siepe e sarei stato per sempre un

compagno comprensivo.- Io ci sono, - dissi. - Vorrei che tu ti fidassi di me. Sono qui per aiutarti. Siamo

una famiglia, no ? Usami come un sostegno, hai già fatto tanto e stai facendo anche troppo.

Una famiglia. Dissi proprio così.- Io sono qui per te -. La strinsi più forte e lei si decise a lasciar andare il

coltello. Incrociai le mani sulla sua pancia e iniziai a massaggiarla. Lei strinse le sue dita tra le mie. Le baciai il collo da dietro. Soffiai per spostare i capelli sottili e appoggiai le labbra sulla nuca, dove ricordavo che le piaceva.

Mentre la baciavo, alzai gli occhi verso la dispensa e pensai a come potevo far ingerire a mio figlio, quella sera, un po' del contenuto di una bottiglietta di carne di tacchino in polvere. Erano bottigliette mignon, da venticinque grammi, ma pareva che il contenuto corrispondesse a quattro volte tanto di carne fresca. Un etto di carne.

- È come se non ti fidassi di me, - ruppe il silenzio tra le lacrime. - È come se tu volessi controllarmi.

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- Mi piacerebbe che anche tu ogni tanto mi chiedessi come va, - provai a scherzare io.

Il brano musicale finì magicamente. Tesi l'orecchio per sentire se il bambino si muoveva sulla pelle di pecora. Lei si divincolò e si aggirò per la cucina, trascinando le pantofole di lana finlandese. Sentivo il suo respiro. Sentivo il ronzio delle casse senza musica. Sentivo il mio cuore pulsare sul collo.

- Scusa, - dissi spaventato da quei secondi di silenzio assoluto. - Era così, per dire.

Lei non rispose. Spalancò seccamente un cassetto e rovistò tra le posate.- Qualcosa non va ? - chiesi con tono impaziente, ora.Per essere credibile, supponevo di dover manifestare anche un accenno di

carattere. Un lieve risentimento. Se non mi risentivo per il suo silenzio, lei avrebbe magari interpretato questa assenza come un segno di distanza o, peggio, di disinteresse. In tutte le coppie normali c'erano degli screzi e questi erano importanti per il rapporto. L'avevo letto in una rivista di psicologia che avevo trovato in casa settimane prima. E io cercavo di comportarmi come indicato dalle sue riviste.

Quando il bambino iniziò a piangere, andai a prenderlo e mi sedetti con lui sul divano. Ce l'avevo in braccio proprio come in quel sogno, osservavo i suoi occhi tristi.

Cercai di riprendere il discorso: - Tu non ti devi sentire sola se ci sono io.- Spesso non mi sento capita. Cos'è successo tra di noi?- Niente, - le dissi. - Siamo solo molto stanchi per quello che stiamo facendo.

Allevare un bambino con tutto l'impegno che ci mettiamo è faticoso -. E intanto pensavo ossessivamente alle bottigliette da venticinque grammi di tacchino in polvere. Cosa era meglio fare? Era più veloce scioglierla in un bicchiere o mescolarla al latte nel biberon ?

O forse somministrarla in cucchiaini come una specie di medicina? - È solo un momento, - le dissi. - Vedrai che se ci impegniamo tutto passa, ce la faremo e diventeremo una coppia ancora più forte e unita. Diventeremo ancora di più una famiglia.

Più tardi, quella sera, mentre lei faceva il bagno, aprii l'anta della dispensa e guardai con noncuranza come cercando dell'altro. Finalmente le vidi, le boccette con la carne disidratata. Tesi l'orecchio per essere sicuro che lei fosse ancora nella vasca.

Riempii un cucchiaio di polvere di tacchino, ci lasciai cadere alcune gocce d'acqua e con uno stuzzicadenti mescolai la poltiglia. Doveva essere schifosa ma mio figlio ingoiò con avidità. Io avevo fretta, non potevo aspettare. Al tempo stesso non potevo permettermi di sporcargli il pigiamino perché lei se ne sarebbe accorta e sarebbe stata la fine.

- Sei un bambino speciale, - gli sussurrai mentre lo imboccavo, come se questo potesse convincerlo a mangiare più in fretta. - Certo, come no, un bambino indaco che ci farà fare un grande balzo spirituale.

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Al quarto cucchiaio ebbe un rigurgito. Mi ero fatto prendere dalla foga e avevo esagerato. Il fatto è che, se avessi potuto, gli avrei ficcato un tubo in gola e ci avrei spinto dentro chili di cibo. Era la cosa che desideravo di più: riempirlo di cibo, letteralmente, stipare in lui abbastanza roba da impedire, una volta per tutte, che potesse sgonfiarsi da un momento all'altro come un palloncino. Desideravo pomparlo e dargli consistenza e desideravo, più di ogni altra cosa, non sognare mai più di vederlo morire.

Lui lasciò scivolare dagli angoli della bocca un po' di quella poltiglia. Tossi e si dimenò, rischiando quasi di sfuggirmi e cadere per terra. Nel panico, misi in tasca la boccetta e la polvere uscì e riempì la tasca. Con dello scottex provai a pulirgli la bocca. Ma lui piangeva ed era spaventato e la poltiglia gli scivolò anche lungo il collo. Adesso, più che del pigiamino ero preoccupato che fosse rimasto sporco in qualche punto che non vedevo oppure, peggio, che gli fosse rimasto addosso l'odore della carne.

Dovevo inventarmi qualcosa. Subito. Corsi nell'altro bagno, quello in fondo al corridoio, e lo spogliai. Potevo fingere che mi fosse venuto in mente di fare una doccia con lui? No. Lei si sarebbe insospettita per quella doccia inattesa e la prossima volta non mi avrebbe lasciato il bambino da solo dopo cena. Ero un idiota.

Lasciai mio figlio nel bagno in fondo al corridoio e bussai alla porta di quello dove c'era lei. Le chiesi come andava, se avesse bisogno di qualcosa.

Socchiusi la porta. C'erano delle candele accese. Un paio di incensi. Lei era distesa con gli occhi chiusi, si stava concentrando. Ero un uomo fortunato.

- Scusa, - sussurrai. E uscii.Si stava concentrando, si. Inspirazione ed espirazione.Avevo tutto il tempo per andare di là, lavarlo, asciugarlo col phon e rivestirlo.Anzi, riuscii pure a dargli un cracker. Eravamo due uomini fortunati, io e mio

figlio. Davvero. Ci eravamo fatti una bella cena, quella sera.Più tardi, di notte, a letto, prima di addormentarsi, Isabel si avvicinò come

volesse baciarmi e disse: - Manca una bottiglietta di polvere di tacchino. Ce n'erano sei e adesso ce ne sono cinque. Ne sai qualcosa?

Dico al maresciallo Marino che ho bisogno di aria. Lui mi guarda grattandosi una basetta. - Voglio solo uscire fuori, - dico. Non aggiungo, e forse non ce n'è bisogno, che voglio vedere mia madre mentre viene portata via.

In terrazza avanzo lento, cauto, mentre il maresciallo mi segue preoccupato. Mi sono trasformato in un uomo che soffre di vertigini. Un uomo che per troppi mesi ha avuto terrore di questa terrazza. Tenendomi a una ventina di centimetri dalla ringhiera getto uno sguardo giù e vedo la folla che si è radunata. Ci saranno almeno un centinaio di persone, donne del quartiere, frequentatori del bar, anziani, ragazzi col motorino. Un paio di telecamere. I giornalisti.

Gli eventi oggi non possono più avvenire da soli. C'è un posto inevitabile anche per loro, per la gente che fa da sfondo e circonda la scena principale. Guardano lo spettacolo e lo interpretano con le categorie antiche della disgrazia e del senso. Le disgrazie sono una rottura nella rete del reale. Il senso è la forza che teneva unite

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le maglie sottili di quella rete, una forza che per un attimo è venuta a mancare provocando il triste spettacolo a cui stanno assistendo.

Cerco anch'io un senso in ciò che vedo, forse una difesa contro l'anarchia della disgrazia, ma non trovo nulla.

Mi avvicino alla ringhiera e vedo mia madre sopra la barella. Osservo il suo corpo scivolare leggero attraverso il cortile. Sembra sospesa a mezz'aria.

I carabinieri allontanano la gente dal cancelletto di metallo e l'ambulanza può manovrare e mettersi obliqua sulla strada.

Gli infermieri la caricano con naturalezza. L'ambulanza risucchia la barella e parte senza scosse. Mi chiedo cosa succederà ora, se esista un copione del disastro, se a mia madre e a me basterà lasciarci andare mentre altri continueranno a condurci.

- Venga, - mi dice il maresciallo. - Torniamo dentro, su.Gli squilla il cellulare e parlando si allontana verso la terrazza. Attaccato al

telefono, si gira verso di me. Sorride, e il suo sorriso mi pare qualcosa di promettente e insieme fuori posto, quasi osceno.

Riaggancia e mi raggiunge. - Mi hanno chiamato dal tribunale, - dice. - La faccio accompagnare da suo figlio.

- Grazie, - gli rispondo svuotato, senza riconoscere più nemmeno le mie emozioni. Mi dò un'occhiata intorno.

Guardo le cose, gli oggetti. È tutto lontano.Cerco la pelle di pecora, era sempre lì, vicino al divano.Non la trovo e ricordo che da qualche settimana era sparita perché si portava

dietro vibrazioni negative.Tutto aveva una vibrazione per lei. Tutto aveva un senso, tutto aveva un ruolo

nel percorso della redenzione e della purificazione, tutto stava per qualcos'altro e tendeva a qualcos'altro. Tutto doveva rientrare nel progetto di emancipazione dell'uomo dalla volgarità dell'esistente.

Il tappeto indiano serviva per meditare, il quadro della Tuffatrice illustrava la trasformazione del corpo in cielo, le tende bianche di lino biologico, ora schizzate di sangue, avevano lo scopo di schermare le impurità esterne. I grandi cuscini marocchini emanavano energia buona. Gli incensi, poi.

Mi accorgo che uno di questi è ancora acceso, vicino allo stereo. Deve averlo acceso lei, al massimo un paio di ore fa. Quel fumo è l'ultima conseguenza di una sua azione da viva. Qualcosa di lei non è ancora morto e si ostina, come un'accusa, a impregnare l'aria della stanza.

Guardo consumarsi l'incenso, osservo la spira di fumo che sale, raggiunge il soffitto, si allarga e poi si scioglie nell'aria. Ne annuso con gli occhi chiusi la fragranza aspra finché non avverto improvviso un senso di liberazione, come se percepissi che ciò che mia moglie era nell'intimo, quella cosa che lei chiamava anima, non fosse più ingabbiata nell'involucro avvelenato del suo corpo ma si stesse liberando nell'aria.

- Andiamo, - dico al maresciallo. - Sono pronto.

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Infilo la porta d'uscita scortato da un paio di carabinieri e mi giro per fissare un'ultima volta la scena, la casa in cui come in un tempio sacro sarebbe dovuto crescere il bambino indaco. Dal centro della stanza il maresciallo Marino mi fa un segno di saluto con la mano. Annuisce come a dire di tenere duro. È dalla mia parte e non lo dimenticherò mai.

L'ultima cosa che vedo è il corpo di mia moglie a terra, coperto dal telo. Un carabiniere le cammina accanto facendo attenzione a non calpestarla.

In cortile mi gira la testa. Mi stringo al braccio di uno dei carabinieri, gli chiedo per favore di starmi vicino. Lui è giovane, ben piantato. Mi fa spazio tra la massa di persone.

Tutti mi guardano e io non provo niente. I loro sguardi non mi sfiorano nemmeno. Sono distanti, in una realtà oscura e parallela.

Un giornalista segue i miei movimenti ruotando la telecamera appoggiata su una spalla. Lo vedo dall'altra parte della strada, è salito su un muretto e riprende tutto da lì.

Immagino lo zoom che mi inquadra mentre la mia faccia bianca riempie lo schermo.

- Vuole rilasciare una dichiarazione alla stampa ? - mi chiede il carabiniere.Faccio cenno di no con la testa. Lui mi aiuta a salire in macchina e quindi sale

con me.Accendono le sirene e partiamo lentamente. La folla si apre mentre noi

scorriamo in mezzo, al rallentatore, nel pomeriggio di luce bassa. Poi sempre più veloci, via, le sirene spiegate, la guida precisa in corsia di sorpasso, nessuna paura.

Mi stanno accompagnando da mio figlio. Mi stanno facendo una cortesia, in fondo, e io gliene sono grato.

Mia madre decise di entrare in campo quando la situazione stava per sfuggire pericolosamente fuori controllo.

Mi aveva promesso che avrebbe fatto lei il lavoro duro e lo fece, con una tenacia che non le conoscevo.

Prese l'abitudine di venire tutti i pomeriggi a casa nostra per incontrarsi con mia moglie e farsela amica. Vestiva sempre un cappotto che avevano acquistato insieme, in centro, un'eternità prima, un cappotto nero lungo fino alle ginocchia, in pura lana vergine, con un colletto di pelo ecologico. In testa un basco calato fin quasi sugli occhi.

Era una specie di divisa d'attacco, la sua versione personale di una mimetica militare.

Mia madre aveva compreso meglio di chiunque altro che quella sarebbe stata una guerra e che la prima mossa da fare era mimetizzarsi con l'avversario. Fingersi dalla sua parte e fargli abbassare la guardia mettendolo a suo agio.

Per riuscirci bisognava però trasformarsi, regalargli segni di appartenenza e diventare il suo alleato d'eccellenza nella guerra che a quel punto avrebbero combattuto insieme, contro un nemico ancora più insidioso, sfuggente, corrotto dal regime occidentale. Io.

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Vedo mia madre camuffarsi e vedo Isabel lasciarsi incantare.Ci crede e insieme diffida. Non è vero, si dice a volte. Non può essere vero, c'è

qualcosa che stride nel sorriso con cui questa nonna si presenta ogni pomeriggio in quell'abbigliamento così giovanile. Il suo istinto animale le fa percepire che qualcosa non quadra. Ma anche se non è sicura fino in fondo, per una volta decide di lasciarsi andare e concederle fiducia. Sarà una fiducia vigile, comunque.

Mia madre entra in casa, sfila il basco, tiene la borsetta con sé e abbraccia la nuora.

- Come stai? Che piacere vederti, - dicono entrambe.Isabel le offre un caffè anche se sa bene quanto sia dannoso tenere del caffè

nella dispensa, vista l'enorme quantità di radicali liberi che sprigiona nell'aria. È una delle pochissime fonti di tossine che riesce ancora a tollerare in casa, ma agli ospiti il caffè piace e lei desidera piacere agli ospiti. In fondo il caffè non contamina troppo l'ambiente.

Si, lo contamina, ne contamina l'aura, le energie più sottili, ma non sono contaminazioni letali. Sono contaminazioni rimediabili con l'incenso adatto, quello che lei si fa arrivare per posta aerea da Ceylon.

Siedono sul divano, e mentre mia madre beve il caffè lei piange.Mia madre la consola. Spera ogni volta che il pianto sia un segnale del crollo in

arrivo, anche se ormai inizia a comprendere che il crollo non arriverà mai.- Cosa c'è? - le chiede con la delicatezza di una madre.- Perché piangi sempre? Parlami, lascia che ti aiuti.Mia madre appoggia il caffè sul tavolino e senza lasciare la borsa va ad

abbracciarla.Lei piange convulsamente. Appena riesce a parlare, singhiozza di sentirsi sola.

Si sente lontana da tutto, nessuno la capisce. Estrae un fazzoletto di lino dalla manica e si asciuga gli occhi. Si alza, per nulla sfiancata, e va a riempirsi un bicchiere d'acqua.

Mia madre torna al suo posto, delusa come sempre. Inquieta.- Va bene, - conclude. - Ora riposati un po', io intanto vado a fare due passi col

bambino. Perché non mi accompagni nella sua stanza ?In camera trovano il bambino sul letto, semivestito, solo un asciugamano a

scaldare i piedi. Dorme.Mia moglie prova a opporsi. Dice che le sembra un peccato svegliarlo. Mia

madre risponde che lo porterà in giro senza svegliarlo. Lei sa come fare.Accompagna questa frase con un movimento del capo, un movimento inclusivo

per rendere chiaro che se lei sa come si fa, questo non significa che mia moglie non lo sappia. Sanno entrambe come si fa. Sono due madri, no?

Sono alleate, non è così?Recuperano il passeggino da un angolo della stanza.- Mi dispiace tanto svegliarlo, - ripete Isabel ancora più dubbiosa.- Non si sveglierà, - assicura mia madre.Mia madre sa che in questi istanti ogni dettaglio è fondamentale e che un errore

anche minimo può mettere a rischio non solo questo, ma anche gli incontri futuri.

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Si china sul letto e lo solleva. Il bambino è tramortito dalla stanchezza e dalla fame. Dorme in uno stato di apatia sonnambula. Dorme per rendere minimo il dispendio di energia. Il suo corpo risparmia.

Mentre mia madre lo solleva, lui ha un sussulto.Mia madre trattiene il fiato. Gli regge la testa con la mano, gli carezza la

sommità del capo e sussurra come una sorta di vecchia fata gentile: - Dormi, dormi... - Il bambino agita la testa, ciondola. Forse si sveglierà. Molto probabile che si sveglierà.

Allora con un movimento fulmineo, istintivo, animale, precosciente e risolutivo, mia madre lo sistema sul passeggino, lo copre e inizia a canticchiare una ninnananna.

Il bambino fortunatamente non apre gli occhi. È andato tutto bene.- Riposati, - le dice prima di uscire.Mia moglie ringrazia ma è risentita di una tale raccomandazione.Perché lei non ha alcun bisogno di riposarsi.Avrebbe bisogno al contrario di avere ancora più forza per opporsi alla curva

degli eventi e alle persone. Avrebbe bisogno di un'alleata con cui combattere il mondo avverso e aumentare il fuoco di una guerra d'attacco, non di rimanere a difesa delle retroguardie. Così si perde la guerra e basta. Si cade in battaglia. Si muore delle peggiori malattie, insomma.

Sulla strada mia madre ha un passo lento ma deciso. Per abitudine preferisce non far trasparire ciò che pensa e che sente. Lo fa sempre, con chiunque. È abituata a eludere lo sguardo indagatore degli altri. Ha abbastanza anni da ricordare la guerra vera, quella di quando era bambina, la fame autentica e i pasti a base di croste, i pomeriggi a battere i boschi sui colli in cerca di frutti selvatici.

Giunta all'angolo in fondo al viale gira a destra, verso la chiesa di Santa Maria Assunta. Mentre cammina viene invasa da una frenesia che non riesce a gestire. Adesso è felice e può permettersi di sorridere. Ce l'ho fatta, pensa.

Stringe la borsetta, gira la testa indietro, sempre all'erta, per controllare di non essere seguita. Sa di essere un poco ridicola ma non le importa e in realtà c'è qualcosa di epico, forse di minaccioso in questa donna con un basco in testa, il viso segnato che scruta il fondo della strada.

Appena svoltato il secondo angolo apre la borsetta. Mio figlio è sveglio, ormai, si guarda intorno come emergendo da un grave letargo. Non capisce dove si trova. Quando vede la borsetta inizia a tremare perché sa che dentro c'è del cibo buono. Cibo vero. Non la pastina cruda e senza sale a base di miglio e olio di sesamo che mia moglie gli propina ogni giorno e che lui, pur affamato, non riesce più ad accettare per la nausea, permettendo a Isabel di sospirare trionfante: - Vedi che non ha fame, rifiuta il cibo, io gli offro il cucchiaio pieno e lui tira la testa indietro.

Cibo vero. Non le pappine indigeribili e rese insipide dalla troppa acqua tiepida. Non il latte allungato, quasi trasparente, contenuto nel biberon e che le permette di lamentarsi: - Eccolo qui il latte, qual è il problema, perché mi stai sempre addosso ?

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Mia madre aumenta la velocità. Inizia a tremare anche lei. Il respiro si fa corto. Se non si mette a correre è perché non vuole dare nell'occhio. Attraversa la strada semivuota, raggiunge il sagrato della chiesa di Santa Maria Assunta ed entra facendosi il segno della croce. Resta in fondo, dove c'è una penombra protettiva.

- Grazie, Signore, - dice sedendosi su uno degli ultimi banchi. Poi inizia a fingere di pregare.

- Ave Maria, - dice. - Padre nostro che sei nei cieli.Credo in Dio Padre Onnipotente. L'eterno riposo.Ecco, è questa la felicità.Estrae dalla borsetta l'involucro e lo stringe soddisfatta.Deve sbrigarsi perché mio figlio si agita sul passeggino e tra un attimo si

metterà a urlare. Srotola l'involucro, c'è del prosciutto cotto. Non è che mia madre sia una fanatica della carne, lei stessa ne consuma poca, ma nulla le è mai sembrato più benedetto di questo prosciutto.

Prende una fetta e la arrotola e la porge al bambino che la afferra con le manine tremanti. Freme e ingerisce senza quasi masticare. Stai calmo tesoro, vorrebbe dirgli mia madre, sono qui per te, rilassati. Ma non ci riesce. Anche lei è in preda a una frenesia isterica. Mangia, pensa. Mangia, tesoro, nutriti. Mangia che noi due ce la facciamo.

Mangia, e le sembra di sentirsi rianimare a sua volta.Ecco un'altra fetta, non temere, amore mio, ce la faremo.Lui prende la fetta e la fa fuori nel giro di poco. È piccolo ma ha una fame antica

e animale. - Fai piano, - dice mia madre. - Mastica, su, fai il bravo.In una tasca della sua borsa, chiusa con la cerniera, c'è un altro involucro con del

prosciutto crudo, delle sottilette e due pacchetti di cracker. All'inizio mia madre aveva pensato di portare anche del salmone affumicato di cui suo nipote andava matto. Ma poi aveva stabilito che era troppo pericoloso perché quando tornava dalla passeggiata la prima cosa che mia moglie faceva, una cosa apparentemente tra le altre, era di prenderlo e annusargli le mani.

Non c'è quasi nessuno in chiesa. Un odore stantio di incenso.La luce è soffusa, e dal rosone colorato sopra l'altare entra una sfocata

luminescenza gialla, rossa e blu. Una signora anziana vestita a lutto accende una candela vicino all'organo. Si inginocchia davanti al quadro della Madonna Assunta e poi torna indietro, per sedersi in una delle ultime file.

Passa vicino a mia madre e mia madre riprende a pregare ad alta voce, solo per farsi sentire. Ave Maria. Una donna che porta un bambino a mangiare in chiesa non è una santa, deve pensare quella donna, è una matta.

Mia madre però sa come guardarla, con un sorriso di nonna che invece significa: «Ho bisogno tutti i giorni di pregare, anche se è l'ora della merenda per il bambino.

Non è nonna, lei? Non capisce? Non è nonna anche lei?», fa con un sorriso leggero come a dire: «Visto qua, il mio campione?» Si, anche lei è nonna. Infatti risponde incantata al sorriso, vinta dall'espressione innocente di mia madre.

- Si chiama Pietro, - dice mia madre prima che l'altra possa chiedere qualcosa.

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Mia madre prende l'ultima fetta di prosciutto e gliela dà, poi giunge le mani come per pregare. Guarda con ansia le manine che stringono il cibo. Finito il cotto, ecco il crudo. Tre fette. Peccato non potergliene dare ancora.

Il bambino si placa. Quando arriva il momento dei cracker sorride. I suoi occhi sono giallastri, ma non è malato.

Non ha l'epatite - o almeno crediamo -, il colore è dovuto alla carenza di minerali e vitamine e questo, per quanto grave sia, non è ancora così grave da compromettere la sua vita. Comprometterà in ogni caso lo sviluppo, la crescita, ma questo è il costo che dobbiamo pagare.

Anche i dentini sono giallastri.Appena ha finito di cibarlo mia madre afferra un breviario dall'inginocchiatoio e

finge di sfogliarlo. Nel frattempo prende in braccio il bambino e gli misura la febbre.

Bene, dice. Nessun pericolo. 37.3, come sempre.Da dietro l'imponente complesso marmoreo dell'altare esce un vecchio prete,

magro, lento, affaticato. Cammina curvo nel modo inconfondibile di chi soffre di dolori reumatici alla schiena. Attraversa la chiesa e quando raggiunge mia madre le chiede come si chiama il bambino.

- Pietro, - risponde lei senza neppure accorgersi di avere gli occhi umidi.Mia madre è una donna riservata, a volte rocciosa, non è certo una che si sfoga

facilmente. Ha visto questa città spopolarsi e risorgere. Ha visto la gente patire la fame e poi iniziare a sprecare. Ha visto mio fratello andarsene lontano e io, beh, sbagliare nel modo peggiore di tutti. Eppure davanti a questo prete sente di poter abbassare le difese e piange per il momentaneo senso di sollievo. Mio figlio la guarda stupito. Dovrà chiedersi come mai ogni persona che gli dà del cibo poi si mette a piangere. Il prete la guarda e le dice di stare tranquilla con una voce gutturale, molto bassa, plasmata da anni di colloqui nel silenzio di un luogo sacro.

Le chiede se ha voglia di parlare un po', se vuole uscire con lui e fare due passi. Mia madre risponde di no, anche se è ciò che desidererebbe di più e di cui forse avrebbe più bisogno. Ma non ha ancora finito con mio figlio.

- No. Grazie padre, - gli risponde.- Stia calma, - le dice il prete prima di allontanarsi.- Passi a trovarmi quando vuole.Mio figlio ha ancora fame, vorrebbe altre preziose e rigeneranti fette. Ma lei si

sforza di non dargliene più, perché in questo momento nulla sarebbe peggio di una indigestione.

L'indigestione farebbe crollare il progetto generale imprimendogli un'accelerazione improvvisa e devastante.

Mia madre estrae dalla borsetta una bottiglia d'acqua e un cucchiaino. Con il cucchiaino dosa un integratore in polvere di sali minerali e ferro e lo versa nell'acqua. Prima di dargli da bere gli copre il petto con un tovagliolo: anche una goccia sospetta potrebbe trasformarsi in un disastro.

Lui stringe la bottiglia con le manine e beve. Beve come se non lo facesse da giorni. Lei si sente svenire.

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Prima di uscire si fa il segno della croce presso l'acquasantiera.C'è poca acqua, ma è sufficiente per dare una prima sciacquata alle mani del

bambino. Lo prende in braccio, gli bagna le mani e rimane in piedi con lo sguardo verso l'altare come stesse pregando. Gli sciacqua anche la bocca.

È una cosa veloce, la prima sgrassata.Fuori, si ferma sulla piazzetta a fianco della chiesa, poco oltre il sagrato, dove ci

sono delle panche di marmo e ragazzi e ragazze che chiacchierano in gruppetti. C'è anche una fontanella. Qui mia madre procede a una pulizia più decisa.

È tornata nervosa, tesa, il suo sguardo è vigile. In chiesa si sentiva protetta, fuori il rischio di venire scoperti è più alto.

Ha paura di usare saponi o detergenti perché mia moglie si accorgerebbe dell'odore, così è costretta ad arrangiarsi con l'acqua.

Inzuppa un fazzoletto e lo passa sulla bocca e sul viso del bambino. L'acqua è gelida e lui rabbrividisce. È tornato in quel dormiveglia assopito, e in breve non reagisce più al freddo.

Mia madre si guarda intorno e riprende a pulirlo. Una manina. L'altra manina.Fingendo un gesto di affetto tra una nonna e un neonato lo stringe guancia a

guancia, gli sfrega la fronte sul proprio collo, gli carezza con i polsi i capelli. È il modo per passargli il proprio profumo, una fragranza di Gucci che qualcuno le ha regalato all'ultimo Natale e che avrà un effetto coprente, non troppo sospetto, su eventuali odori di cibo rimasti addosso al bambino.

Non deve essere troppo acceso, il profumo, altrimenti mia moglie ne parlerebbe con mia madre. Le direbbe che per la salute del figlio sarebbe bene che la nonna non usasse i profumi. I profumi sono pieni di alcoli, sostanze chimiche che entrano nelle cellule, si impregnano nel sangue - tanto più nelle delicate cellule di un bambino - e da lì iniziano la loro azione contaminante in tutto il corpo.

Bisogna essere cauti, quindi, anche con questo profumo.Dev'esserci, ma quasi impercettibile.Per spiazzarla, appena entra in casa, mia madre chiede a mia moglie cosa pensa

di quel nuovo profumo. Mia moglie risponde con sufficienza che è buono. Solleva il bambino che si stava addormentando e lo stringe a sé. Prende una manina tra le sue e la bacia, e mia madre sa che quel bacio è una scusa per annusare.

Mia moglie non dice niente.Forse ha sentito un lontano odore di carne di maiale. È sensibilissima su queste

cose. Ma è un odore leggero e potrebbe venire da chissà dove. Magari da mia madre stessa che, appartenendo a una razza che consuma maiale da generazioni, ne ha la pelle impregnata e contamina l'odore di nostro figlio.

Alza lo sguardo verso mia madre e le sorride. Tutto bene.In fondo è utile avere una suocera così. Una suocera che ogni tanto dà una mano

e si prende cura del bambino.- Hai un'altra faccia, - dice mia madre. - Hai visto che ti ha fatto bene prenderti

una mezzoretta tutta per te. È la cosa giusta prendersi un po' di tempo per sé ogni giorno.

- Si, - risponde lei. - Si.

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Ci furono vari incontri individuali con l'assistente sociale.Domande su domande e pochi segni di comprensione.All'ultimo mi disse che potevo parlare apertamente di tutto ciò che ancora non

era emerso. Si appoggiò allo schienale della sedia come preparandosi a una lunga confessione e io mi lasciai andare.

Raccontai tutto, dissi la verità, ma la dissi in modo confuso perché ero disperato. Raccontai della dieta a base di cetrioli, della farsa del latte al seno trascinata per mesi, dei pianti nevrotici di mia moglie alternati a fasi di lucida scaltrezza, dell'ossessione per l'aura del bambino indaco. Raccontai della fame e dell'assenza di sonno di mio figlio. Mi parve di svuotarmi.

Mi sentivo liberare ad ogni parola che pronunciavo.Era finalmente arrivato l'inizio della risoluzione, mi dicevo.L'assistente sociale rigirava tra le dita una sigaretta sottile, una Philip Morris

spenta. Mi guardava con occhi duri, mi fissava per farmi capire che mentire non sarebbe servito.

Per impressionarla estrassi dalla borsa alcune foto di Bruno Grôning di cui la casa era disseminata. Mostrai i referti raccolti, quelli del dottor Moroni e di altri pediatri, in cui si dichiarava l'insufficiente sviluppo ponderale del bambino. Dissi che non ce la facevo più e che volevo solo essere aiutato. Volevo solo salvare il piccolo. Speravo che lei capisse di cosa parlavo.

Lei mi ascoltava e annuiva. La bocca senza labbra si stringeva attorno al filtro della sigaretta.

- Fa uso di cocaina, lei? - mi chiese.- In che senso ? - risposi.- Esiste un solo senso.- No, dottoressa, perché me lo chiede ?- Niente, un'informazione.- Le ho dato quest'idea?- Senta, - continuò senza ascoltarmi. - Le è mai capitato di tornare a casa la sera

dopo aver bevuto un po' più del solito ?- Perché me lo chiede ?- Ha mai picchiato sua moglie ?- Non capisco, - riuscii soltanto a rispondere. - Non capisco -. Dovetti prendermi

la testa tra le mani, all'improvviso pesava un quintale. - Io non credo che sia questo il problema.

- Forse non lo è per lei, ma magari lo è per sua moglie, - continuò l'assistente sociale.

Mi massaggiai gli occhi e sollevai la testa. Dalle foto sparse sulla cattedra-scrivania, Bruno Grôning mi guardava con un sorriso di trionfo. Raccolsi le foto e le rimisi nella borsa.

- Forse dovrebbe farsi aiutare lei a risolvere i suoi problemi.Sua moglie continua a difenderla ma credo di capire che stia solo reagendo a

una situazione di stress emotivo dentro la quale si è trovata suo malgrado. Sua moglie è una donna molto sensibile.

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- Può essere, - dissi. - Ma non è questo il punto.- No? - disse lei. - Ha mai picchiato sua moglie? Sia sincero.- Perché me lo chiede ?- Le è mai capitato di insultare e spintonare sua moglie per strada? O peggio

ancora davanti al bambino? Sa che il bambino potrebbe restarne scioccato per tutta la vita ?

- No, - dissi. - No, no -. Ma non servì.Uscendo, mi guardai intorno. Il corridoio era deserto.Nessuno nemmeno fuori dall'edificio, nell'ombra densa sotto la cappa dei pioppi

e dei pini. Anche il piccolo parco giochi se ne stava vuoto, in silenzio.La situazione stava precipitando. E nel frattempo non ero mai riuscito a

trascinare mia moglie dallo psichiatra, quello indicato dall'avvocato Sara. Non si fidava. All'ultimo momento sgusciava via come un felino sospettoso e mi chiedeva di rimandare l'incontro.

La donna che piagnucolava di essere sola non si fidava più di nessuno e aveva eliminato dalla sua vita le poche amiche, Valentina e persino Anna, la moglie del finanziere conosciuta al corso di yoga. Anche per mia madre diventava sempre più complicato farsi affidare il bambino.

Andai da lei. Per non allarmarla troppo e non confessarle la mia disperazione dissi di essere passato per prelevare un documento. In effetti dovevo cercarne uno per il commercialista.

Lo cercai nella cassaforte di mio padre, dove tenevamo le carte importanti. Infilai la testa nella cassaforte come dentro una ghigliottina e afferrai una busta.

Non mi stupii di trovare qualcos'altro, anche se non ci pensavo da forse vent'anni. La sua pistola. Avvolta in una pelle sfrangiata di daino. Non avevo mai capito perché mio padre l'avesse presa, non sapeva nemmeno usarla, a quanto ne so. Doveva essere stato negli anni Ottanta, quando la zona era stata sconvolta da una serie di rapine nelle case.

Stava nascosta sotto il mio vecchio diploma di laurea.Eccola, mi dissi, e mi bruciarono gli occhi. C'era anche una scatola coi proiettili,

non molti, meno di una decina.Giusto un caricatore. Pochi anni di carcere non sono nulla, mi scoprii a pensare.

La fantasia estrema che avevo sempre nascosto anche a me stesso.Sentii mia madre avvicinarsi e feci appena in tempo a rimetterla a posto. Chiusi

la cassaforte e quando mi girai trovai i suoi occhi a fissarmi.- Che documento cercavi ?- Oh, - dissi spaventato, accorgendomi di averlo lasciato dentro.La guardai. Non c'era una vera e propria pena nei suoi occhi. Non c'era paura o

delusione. Era rimasta solo l'operatività, la praticità quasi primordiale della donna che deve pensare alla sopravvivenza dei figli e della discendenza.

- Vuoi un caffè ? - chiese.-Si.Mia madre veniva da una famiglia contadina. Salvare il salvabile, costi quel che

costi, ecco la linea di condotta, una necessità incisa nelle sue vene.

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Tornò col caffè. Senza farmi domande mise un cucchiaino di zucchero e mescolò. Mescolò a lungo. Mescolò il caffè di suo figlio e fu uno di quei momenti che sembrano poter durare in eterno, una madre e un figlio che comunicano senza parlarsi.

Aveva gli occhi umidi. Da piccolo pensavo che mia madre non piangesse mai, non ne aveva il tempo, non ne aveva la predisposizione, e se lo faceva doveva essere di nascosto. Quel giorno non si vergognò di farlo davanti a me, senza nascondere la faccia, gli occhi liquidi. Voleva dire che mi considerava abbastanza grande e non c'era più bisogno di nascondersi.

Dopo la sosta da mia madre rientrai a casa. Venni accolto da un concerto di corni tibetani, quelle specie di lunghissime trombe che i monaci usano per comunicare da una vetta all'altra. Avevo sentito quel disco mille volte.

Sul mobiletto a fianco dello stereo, la copertina del cd mostrava una ragazza dalla chioma nera che girava su se stessa come un derviscio. Dietro di lei, un prato verde e un cielo di un colore azzurrissimo, così intenso da ferire la vista. Il titolo era Supernatural Energy.

Lei era distesa sul divano con le mani incrociate sopra la pancia, eseguendo un esercizio di reiki.

Aveva sentito di sicuro la porta aprirsi e chiudersi, ma rimase immobile sul divano.

Mi spostai per la casa con la leggerezza di un ladro, superai il soggiorno e andai in cucina a bere un bicchiere d'acqua. Finsi che tutto fosse normale. In fondo non era strano entrare in una casa dove un bambino in camera da letto piangeva per la fame e sua madre in soggiorno meditava.

La musica finì all'incirca dopo un quarto d'ora. Lei richiamò la sua energia dentro le proprie sembianze corporee e si alzò lentamente dal divano. Si adoperò per farmi sentire che il suo spirito si riadattava con fatica ai limiti dell'involucro mortale.

Le chiesi com'era andata. Poi, per chiarire la domanda e non dare vita ai soliti malintesi che potevano costarmi una discussione lunga tutta la serata, le chiesi com'era andata con la meditazione. Ero infatti molto orgoglioso di avere una moglie dalla straordinaria capacità di fusione con l'Essere Universale. Praticamente non mi interessava altro nella vita. Avere una moglie che si annullava nell'Essere Universale come nessuno. Una persona che sapeva cosa significasse fondersi col Tutto Indivisibile.

Volevo farle sapere che io ero solo un miserabile che ambiva a diventare come lei, anche se dal basso del mio stato corporeo non avrei mai raggiunto quelle vette della conoscenza.

- Ti ho visto profondamente immersa, - dissi ammirato.Che bella parola, immersa. Immersa nel liquido degli spiriti guida. Immersa

nelle energie vitali che l'Occidente aveva dimenticato, perduto, svilito, venduto, corrotto.

Immersa nella Verità, unica e indivisibile com'era stata intuita dagli gnostici o dai grandi mistici occidentali come Platone, Pitagora, Origene, e Valentino.

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Isabel non rispose. Annuì. Sospirò un «bene» a fior di labbra. Sulla faccia un'espressione estatica. Era ancora immersa, senza dubbio.

Forse avrei dovuto aspettare, avrei dovuto concederle qualche istante, avere la delicatezza di comprendere la sua fatica. Ma decisi di essere ancora una volta fuori tempo, scomposto, maldestro. Le dissi: - Era bellissimo guardarti, Isabel. Sono rimasto un quarto d'ora a osservarti immobile.

Ti ho ammirata ma non volevo disturbarti. Sembrava che volassi. Sembravi un angelo. Sembravi senza corpo.

Quasi priva di peso.Lei mosse la testa di lato per stirare i tendini del collo, la faccia sempre più

concentrata, lontana.Le mie parole dovettero comunque aver fatto breccia, soprattutto la parola

immersa, e da qualche parte dentro di lei si insinuò la speranza che io non stessi scherzando.

Magari aveva davvero meditato in un modo così profondo da perdere peso, da diventare qualcosa di simile a una presenza senza corpo.

Mi sedetti al suo fianco. Le presi la mano e ne carezzai il dorso. Sfiorai la pelle flaccida, le dita sottili e scarnificate.

Le carezzai il polso. Poi l'avambraccio. Potevo percepire la durezza delle ossa.Avvicinai il mio viso stanco al suo collo. Mi comportavo come il più innamorato

degli uomini. Le scostai i capelli con le dita e la baciai. Lei chiuse gli occhi e fui sicuro che, almeno per un momento, provò qualcosa, un'emozione.

Forse fu per i complimenti che le avevo rivolto. O perché il fatto di non poter più commettere errori stava facendo di me un attore fantastico. Oppure perché da quando mi ripetevo di amarla mi sembrava di aver ricominciato ad amarla davvero. Ma sono certo che mentre la baciavo sul collo, si mosse qualcosa dentro di lei.

Eravamo stati due persone affiatate. Due sconosciuti che bevevano vino nei ristoranti e facevano passeggiate mano nella mano.

Sentivo il calore della sua pelle sulle mie labbra e pensai all'assistente sociale che mi chiedeva di ricordare il nostro momento più bello.

L'unica cosa che mi venne in mente fu la pistola avvolta nella pelle di daino dentro la cassaforte.

Un giorno disse che mi doveva parlare. - Così non possiamo andare avanti, - iniziò. - Ho una proposta per noi.

Dalla camera sentivo giungere i soliti lamenti bassi.Una voce flebile, una nenia senza fine. Il piagnisteo affamato del bambino.- Cosa intendi? - le chiesi.- Se tra noi è un problema di cibo, risolviamo il problema alla radice, - concluse.Il piagnisteo di là si alzò di tono. Forse aveva sentito le nostre voci in soggiorno

e aveva raccolto le forze per farsi sentire e chiamarci. Mi chiedevo dove trovasse ancora l'energia.

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- Ho deciso che da questa sera non mi occuperò più della sua alimentazione. Fai tutto come vuoi tu. Se sta male perché mangia troppo o perché mangia carne, te ne prendi tutte le responsabilità.

La guardai allibito. Una scossa di felicità dolorosa mi fece tremare. Tremavo per ogni cosa, ormai, per l'ansia, per i sogni che facevo, tremavo persino per le belle sorprese.

Come sempre, mi imposi di fingere la massima normalità e annuii come per ringraziare di una piccola concessione senza importanza.

Continuò dicendo che per dimostrarmi la sua buona volontà mi avrebbe accompagnato personalmente al supermercato a prendere un po' di carne, se era la carne il nostro problema.

Al banco della macelleria ordinò mezzo chilo di fesa di tacchino e otto costate di manzo prodotte con processi biodinamici in Austria, da mucche non contaminate che brucavano l'erba all'aria aperta. Era euforica, sembrava voler comprare tutto. Prese anche delle salsicce di tacchino. Tradì un attimo di esitazione soltanto quando il macellaio fece per consegnarle gli involucri. - Carlo, puoi prenderli tu ?

Quella sera mi permise di cucinare ciò che volevo e come volevo. Disse solo che non poteva sedersi a tavola con noi. La dovevo capire, disse. Una cosa alla volta.

Io e il bambino mangiammo con avidità. Tagliuzzai per bene la carne di manzo poco cotta, ancora al sangue, e lo imboccai. Eravamo due animali. Un uomo e il suo cucciolo disperatamente affamato. Mio figlio sembrava stordito ed era lento nei movimenti.

Mangiammo a lungo, in modo meccanico, un boccone dopo l'altro. Il bambino mangiò la carne, mangiò il pane, mangiò il budino al cioccolato. Prendeva e ingeriva direttamente.

Sembrava quasi si fosse dimenticato come masticare.Alla fine della cena, lei si affacciò dalla cucina e disse di voler esagerare. Voleva

dimostrarmi quant'era cambiata e dargli la cosa più nutriente che esista in natura, disse, l'olio di sesamo. Va bene, dissi io, non era un problema l'olio di sesamo.

Ero così felice. Stava cominciando una fase nuova, mi dicevo. Ce l'avevo fatta, alla fine.

Quella settimana mio figlio fece pasti sempre più abbondanti.Per la prima volta nella sua vita poteva riempirsi lo stomaco. Masticava, si

sporcava, agitava le manine come un matto. Si stava rianimando, ma tuttavia non cresceva.

Il suo sviluppo era fermo e anzi, pur con tutto quel mangiare, diminuiva di peso.Lei appariva tranquilla. Trascorremmo una settimana serena e un paio di volte

andammo persino a farci un giro in macchina, noi tre, come una famiglia vera, come ai vecchi tempi, in campagna e al mare.

Quando riuscii a portare di nascosto il bambino dal dottor Moroni, mi disse che il problema erano quegli oli: anche in presenza di una buona alimentazione non permettevano al suo organismo di assimilare il cibo. Carne o non carne, era come se lui non mangiasse affatto.

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Infatti, da giorni mio figlio si sporcava di continuo e le sue feci si erano fatte liquide e chiare, di un giallo quasi paglierino.

La convinsi a smettere gli oli, e lei non discusse più di tanto.- Se è solo questo, - disse.Il bambino tuttavia continuava a non prendere peso.Aveva più di un anno e dimostrava al massimo dieci mesi.A maggio, un pomeriggio di sole, nessuna nuvola in cielo, il dottor Moroni mi

comunicò che era scaduto il tempo massimo. Gli chiesi per cortesia di scrivermi un referto.

Anche se non era il referto di un pediatra dell'ospedale speravo che fosse sufficiente.

Moroni dott. Enrico Medico Chirurgo Specialista in Pediatria Specialista in Igiene: Sanità Pubblica Specialista in Igiene: Medicina di Laboratorio Lo scrivente, Moroni dott. Enrico, Specialista in Pediatria clinica, dietro richiesta del genitore e per gli usi consentiti dalla Legge, dichiara di aver visitato il piccolo Pietro presso il proprio ambulatorio sito in Padova.

In occasione di tale visita sono stati riscontrati i seguenti valori di crescita somatica: Peso: kg 7,8, pari a un valore inferiore al terzo percentile Altezza: cm 69, pari a un valore inferiore al terzo percentile Circonferenza cranica: cm 42, pari a un valore inferiore al terzo percentile Il bambino presenta un accrescimento staturo-ponderale molto inferiore a quello atteso per la statura di entrambi i genitori, da probabile ridotto introito calorico.

Dott. Enrico Moroni Non scrisse tutto. Non scrisse che a mio figlio da un mese non crescevano più i capelli e le unghie. Non scrisse che era un bambino depresso e che a tredici mesi non camminava più. Che anche se settimane prima aveva iniziato a farlo, ora aveva smesso. Non ne aveva le forze, mi spiegò il pediatra. E forse non ne aveva più nemmeno la voglia.

Uscii dall'ambulatorio e telefonai a Sara per comunicarle le novità. Mi sforzai di mantenere un tono fermo, ma come al solito iniziai a balbettare. La gola mi si seccò. Lei disse che era meglio vederci e dopo mezzora ero nel suo ufficio.

- Non intendo aspettare un secondo di più, succeda quel che succeda, - dissi. - Se devo provocare una qualche reazione da parte di mia moglie, è venuto il momento di farlo.

- Stai calmo, risolveremo ogni cosa -. La posta in arrivo sul suo computer provocava piccoli richiami sonori, continui, a intervalli regolari, come i segnali di un conto alla rovescia.

Dalle pareti, versioni più giovani di Sara mi guardavano con una racchetta in mano, le braccia nude sotto il sole, mentre la Sara-avvocato in diritto di famiglia mi fissava seria dall'altra parte della scrivania. Aveva i capelli sciolti. Qualcosa di morbido nello sguardo, più morbido di quanto avesse mai concesso, qualcosa che mi rassicurò.

Conveniva con me che se non agivo in quel momento mi dovevo assumere tutte le responsabilità di ciò che sarebbe successo in seguito. Mi consigliò di prendere il bambino e portarlo via, a casa della nonna magari, per qualche giorno, in attesa

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degli sviluppi. - Sappi che tecnicamente quello che ti sto proponendo si chiama rapimento, - disse.

Mi diede un foglio e una penna e mi dettò una lettera che avrei dovuto consegnare di persona a mia moglie. La stessa che avrei dovuto inoltre spedirle tramite raccomandata con ricevuta di ritorno quel pomeriggio stesso.

Non riuscivo a immaginare come avrebbe reagito lei.Mi scoppiava la testa. Ci sarebbe stata una discussione e la discussione poteva

degenerare in qualsiasi modo. Me lo ripetei mille volte per non trovarmi impreparato.

L'assistente sociale le avrebbe dato ragione. Ecco, avrebbe detto, ecco le prove tangibili della brutalità del marito.

Chiamai mia madre. Sperai con tutto me stesso di trovarla con il bambino e lei, infatti, mi rispose con un tono bassissimo.

- Sono in chiesa, - sussurrò.- Torna subito a casa, da te, con il bambino, - le dissi.Mi diressi verso il mio appartamento. Entrai in modo rumoroso, facendo sbattere

il mazzo di chiavi contro la serratura.Lei era in soggiorno. Mi guardò entrare con occhi socchiusi. Fu il mio turno di

dirle che le dovevo parlare.Ci sedemmo sul divano. Col tono più delicato che potei le dissi che la vedevo

molto stanca. Le dissi che ero molto preoccupato per lei e che secondo me aveva bisogno di una pausa. Le porsi il foglio e le spiegai in modo gentile e insieme imbarazzato che era necessario per me darle questa lettera. Volevo fare le cose in regola senza che si creassero malintesi tra di noi. - Ce la faremo, - le dissi, - usciremo insieme da questo tunnel, ma tu adesso lascia fare a me. Fidati.

Isabel non rispose.La guardai e aspettai la sua reazione senza muovermi, a pochi centimetri da lei.

Prese il foglio e lo lesse e rilesse.- Cosa significa? - chiese.- Niente, - dissi io. - Non significa niente.Irrigidì la schiena. Una parte di lei sapeva che questa era la cosa giusta ma al

tempo stesso che non poteva concederla senza opporre resistenza. Una madre doveva lottare per il suo bambino. Altrimenti non era una madre.

- E per quanto tempo ?- Una settimana al massimo, - dissi. - Ma è una cosa senza importanza.

Decideremo insieme.C'era un tono maturo e rassicurante nella mia voce. Era tutto a posto, era tutto

giusto. Il foglio adesso le stava sul grembo e il suo bianco catturava la luce dalla portafinestra.

Comunicava in termini legali che mi stavo portando via suo figlio e lei non parlava, rimaneva immobile. Scosse solo la testa.

Il suo silenzio mi stupiva, la sua immobilità era innaturale.

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- Va bene, - accettò alla fine. Stanca, sfiancata anche lei. Immagino che progettasse di liberarsi di ogni peso per qualche giorno, di riprendere le forze per essere pronta, quando fosse stato il momento, allo scontro finale.

Io ero stordito. Avevamo parlato come persone ragionevoli che si capiscono e collaborano.

Uscii e mi diressi fino alla locale caserma dei carabinieri dove chiesi di parlare col maresciallo, secondo le istruzioni ricevute da Sara. Il maresciallo non c'era e dovetti aspettarlo su una delle vecchie sedie in sala d'attesa.

Entrarono dei carabinieri scortando una ragazza che si trascinava a stento, imbambolata. A quanto capii era stata fermata mentre guidava sotto effetto di eroina. Poi due filippini, un uomo e una donna, che sedettero accanto a me e si strinsero la mano spaventati.

Nell'ufficio più vicino, un carabiniere spiegava al telefono la procedura per denunciare lo smarrimento della patente. Appena ebbe finito ricevette un'altra telefonata e disse che avrebbe mandato una volante da qualche parte.

Riattaccò e raccontò ridacchiando al vicino di scrivania che due donne si erano menate in un bar.

Finalmente mi fecero accomodare nell'ufficio del maresciallo.Era una stanza spaziosa, poco arredata. Un vecchio computer inutilizzabile per

terra, sotto la finestra, e uno nuovo sul tavolo. Sui muri convivevano varie edizioni del calendario dei carabinieri. Una foto del presidente della Repubblica in bella vista.

Mi presentai e guardai il maresciallo negli occhi. Avevo bisogno di fargli capire chi ero. Avevo bisogno che lui mi credesse anche se avevo l'espressione di un pazzo ed ero pallido, smagrito, con le occhiaie di uno che tira tardi la notte.

Si presentò anche lui. - Maresciallo Marino, - disse.- Marino è il cognome, - scherzò ripetendo una battuta detta mille volte. Aveva

sui sessant'anni, era alto e squadrato e fin da subito mi ricordò mio padre, facendomi sentire ancora più a disagio. Mentre gli spiegavo quel che stava succedendo, la gola mi si seccò di nuovo. Non riuscivo a parlare. Tossivo in continuazione. Gli chiesi un bicchiere d'acqua. Lui si alzò per andare a prenderlo e mentre mi passava vicino ne approfittò per scrutarmi in faccia e verificare se le mie pupille tradivano l'uso di stupefacenti.

No, non riuscivo a essere credibile. Io da solo non ero mai stato credibile. Nella mia vita c'era sempre stato bisogno della mia storia, del mio passato e della mia famiglia per rendermi credibile. Per questo quando il maresciallo fu di ritorno raccontai che mio padre era stato per quarant'anni ingegnere edile in quella zona. Ero ridicolo, mi vergognavo di me stesso, ma immaginai che per lui fosse importante conoscere il mondo da cui provenivo. Gli dissi dove abitava mia madre. Gli dissi chi erano i miei parenti, cosa facevano, tutta gente che abitava da una vita da quelle parti, gli chiesi se li conosceva e lui annuì vagamente. Mi costruivo un'identità affidabile e lo facevo attraverso gli altri, perché attraverso me stesso era impossibile.

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Mi sarei reso conto in seguito di aver fatto breccia in lui proprio per il mio essere così disperato e scomposto. Ero talmente impresentabile da non poter essere che sincero.

Gli consegnai una fotocopia della lettera che avevo appena lasciato a mia moglie e gli dissi che ne avrei spedita una copia anche per raccomandata.

Mi chiese dove avrei tenuto il bambino in quei giorni e io gli dissi che sarei stato nella vecchia casa della mia famiglia.

Gli ripetei l'indirizzo.Lui si appuntò tutto e mi chiese se volevo dell'altra acqua.Anni di esperienza gli avevano insegnato ad assorbire le storie più singolari e

dolorose e comportarsi ogni volta come si trattasse di una pratica ordinaria. Soltanto il modo in cui si grattava le basette rossastre poteva tradire il suo malinconico stupore: per me, per il bambino, per l'assurdità sempre nuova delle vicende umane.

Adesso mi indagheranno, pensavo io. Rapimento di minore, mi dissi.Il maresciallo mi lasciò andare e mi fece gli auguri.La mattina dopo, a sorpresa, piombò a casa di mia madre alle sei e mezza del

mattino.Disse che passava per caso, si guardò intorno, fissò il passeggino nell'ingresso.

Chiese a mia madre se gli preparava un caffè e mia madre senza battere ciglio glielo preparò.

Le disse che gli sarebbe piaciuto salutarmi e mia madre venne a svegliarmi.Era venuto per controllare. E noi eravamo lì. Bene.Prima di andarsene mi sfiorò la spalla e mi disse di non avere paura. - Vedrà che

aggiustiamo tutto, - disse. Ed ebbi l'impressione che fosse sincero.Mia moglie veniva a trovarci tutti i pomeriggi. Sembrava più tranquilla, ora.

Arrivava alle due e mezza o alle tre, stava un poco con nostro figlio e poi se ne andava nella mia vecchia camera, quella di quand'ero bambino, a meditare o dormire.

Mia madre la sera le preparava cibi vegetariani, più spesso vegani, e Isabel sembrava apprezzare. Ammorbidì addirittura la regola e talvolta si prese il lusso di pietanze cotte e solide. Del riso bollito all'olio d'oliva e della focaccia fatta in casa, per esempio. E in pochi giorni sembrò riprendersi.

Anche il bambino cresceva, finalmente. In quattro settimane acquistò quasi un chilo di peso e crebbe di cinque centimetri in altezza. Il colorito diventò più rosato e le feci di un bel marrone denso, autunnale. In quella situazione non c'era nulla che mi rassicurasse di più. Era il mio bambino e il suo corpo stava tornando a funzionare in modo normale.

Durò quattro settimane, appunto. Perché poi, anche se mangiava, riprese a dimagrire.

Isabel amava trascorrere quei pomeriggi assolati di inizio estate per lo più all'aria aperta, approfittando della pace del nostro giardino, passeggiando con Pietro sotto l'ombra degli alberi. Mia madre in casa si occupava delle faccende domestiche e ogni tanto li osservava soddisfatta, quasi alleggerita per come Isabel

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si comportava nei confronti di Pietro, visto che lo teneva in braccio come una madre e gli indicava con dolcezza la magnolia, il pino, il bel rosaio fiorito che si arrampicava sulle colonne del garage.

Talvolta mentre camminava e chiacchierava con Pietro si allontanava e scompariva dalla vista, ma in breve tornava verso casa con una tranquillità che mia madre non le aveva mai conosciuto. Sembrava tutto alle spalle.

L'ultimo di quei pomeriggi l'assenza sembrò prolungarsi troppo e mia madre uscì per controllare se era successo qualcosa. Camminò in silenzio radente il muro del garage e la scopri nascosta dietro la biancheria stesa. Trovandosela davanti così all'improvviso Isabel si spaventò e la guardò quasi inorridita. Pietro iniziò a piangere e lei istintivamente allontanò una mano dalla sua bocca e cercò di nascondere il suo piccolo viso dietro un braccio.

Pietro era cianotico e respirava affannato. Mia madre si mise a gridare e chiamare aiuto anche se in casa non c'era nessuno. Poi si sentì svenire e sedette a terra. Non poteva immaginare che si potesse arrivare a quel punto, era qualcosa che esulava dalle possibilità umane, per lei.

Si avvicinò a Pietro che nel frattempo si era fatto pallido e sudaticcio e vide che aveva la lingua di un verde scurissimo, quasi nero, perché Isabel gli aveva messo in bocca qualcosa di quel colore, probabilmente una pastiglia.

Isabel rimase immobile a fissare mia madre con gli occhi spalancati, e quando mia madre le chiese cosa aveva fatto, le rispose con voce naturale che non era niente, era semplicemente terra. Terra, pensò mia madre. Terra in bocca a Pietro.

Non poteva essere terra.Ecco perché da giorni, da quando erano cominciate le passeggiate in giardino,

Pietro andava di corpo troppe volte e aveva smesso di mettere su peso. Era chiaro quel che stava succedendo.

Lo purgava. Lo purificava. Per questo era così poco turbata dall'idea che il bambino mangiasse in abbondanza qualsiasi cosa mia madre gli proponesse, carne, pesce, pasta, pane.

Mia madre mi chiamò al telefono e mi disse di rientrare subito.In un quarto d'ora ero lì. Le trovai sedute in soggiorno, una di fianco all'altra, in

silenzio, paralizzate. Il bambino giocava con un trattore di plastica dentro un box.Dissi: - Che cazzo fai! ?Mia madre si alzò in piedi e mi disse come stavano le cose. - Isabel ha dato un

purgante a Pietro.Non riuscivo a crederci. Mi avvicinai e la presi per il bavero.- Io ti ammazzo, - le dissi.Mia madre mi disse di calmarmi.Spinsi via anche lei.Mia moglie mi disse di stare calmo. La mia era una reazione eccessiva e

secondo lei non era proprio il caso. Se ne andò offesa.Il giorno dopo ci giunse quel fax.Il suo avvocato mi comunicò di aver certificato le percosse e di avere anche un

referto del pronto soccorso, dove mia moglie si era fatta visitare appena uscita di

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casa. Aveva una carta in mano ora. Era stata lei la prima a procurarsi delle prove documentali cartacee di valore schiacciante.

Venni querelato per percosse e minacce in presenza di minore.I carabinieri mi dissero che avevo sbagliato.Il maresciallo Marino, quando lo incontrai, scuoteva la testa e sembrava non

crederci. Disse che l'avevo deluso.Una settimana dopo, il Tribunale dei Minori mi tolse il bambino e lo affidò a lei.Quel giorno lei si presentò a casa senza preavviso, accompagnata dal suo

avvocato, sventolando l'ordine del Tribunale.Si fece consegnare Pietro e andò via. Fu un attimo.Poi successe quel che successe.Le macchine blu in fila lungo il marciapiede. L'ambulanza.Tutti questi carabinieri in casa.Chissà se alcuni di loro sono quelli che avevo già visto durante la mia prima

visita alla caserma. Oggi nella mia mente le facce si confondono e solo alcune resistono, nitide, quasi taglienti, come maschere dell'orrore. Il maresciallo.

L'avvocato Sara. Anna, la moglie del finanziere che piangeva sempre e di cui non ho saputo più nulla. Leila, la guaritrice dell'aura, che prevedeva la nascita del bambino indaco con il tono di un angelo annunciatore. L'assistente sociale con la sua bocca senza labbra, gli occhi giovani e troppo duri, cattivi.

Infine mia madre sul letto di casa mia, sotto shock. I capelli insanguinati di mia moglie, stesa a terra. Io che entro in casa schiacciato dagli eventi.

E tutto compresso in un istante.Da quel momento la mia vita è un indistinto fluire di eventi. I fatti accadono uno

dopo l'altro e io fatico a metterli in connessione. Mi sembra di osservarli su uno schermo muto, privo di audio. Allora mi lascio trasportare, un tappo di sughero sull'acqua. Galleggio senza opporre resistenza alla corrente e alle onde.

Infiniti incontri con inquirenti, avvocati, testimoni. Deposizioni in questura. Una serie sfiancante di appuntamenti coi servizi sociali. Deposizioni in tribunale col giudice dei minori. Nessun interrogatorio nel vero senso della parola, piuttosto una sequenza di scadenze con le quali lo Stato mi chiede di essere all'altezza del mio ruolo di vedovo e di padre prima di concedermi l'affidamento definitivo del minore, come lo chiamano loro.

Mio figlio e io ci trasferiamo a casa di mia madre, quella dove sono nato e cresciuto. Nei primi giorni viene a vivere con noi una zia, sorella di mia madre, perché io ho un crollo psicologico e non sono in grado di fare niente.

Singhiozzo e basta e qualsiasi sensazione, la luce, l'aria, il minimo odore, mi piega le gambe. L'insonnia torna a farmi compagnia ma io mi sforzo di non prendere sonniferi.

Spero sia una compagna passeggera invece durerà per anni.Vedo in ogni angolo il corpo insanguinato di mia moglie che mi fissa come uno

spettro, e per quanto distolga lo sguardo me lo trovo sempre davanti come un'accusa.

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Allora è lei, questa zia, che si occupa di tutto, prepara da mangiare e segue il bambino. Lavarlo, vestirlo, cambiarlo.

La zia si occupa anche dell'iscrizione all'asilo nido, dove iniziamo a portarlo per poche ore al giorno, in previsione di quando tornerà a casa sua e io riprenderò a lavorare e tenterò di ricostruirmi un'esistenza. All'asilo mio figlio è seguito da una psicologa del Comune, una ragazza inesperta e insicura, ma buona. È quello che ci vuole per un bambino come il mio. Lui lo sente, e dopo mille resistenze comincia ad affezionarsi. Quando vado a prenderlo spesso li trovo che giocano insieme. Loro due e basta, isolati dagli altri bambini.

Pochi giorni dopo l'omicidio mia madre viene ricoverata in un reparto di psichiatria. È stata un'idea dell'avvocato Sara. Pare ci siano gli estremi per l'infermità mentale. Io eseguo diligente le mansioni che mi affidano, come sempre grato, senza fiatare. Accompagno mia madre alle visite e vengo coinvolto nei colloqui psichiatrici, dove spesso mi chiedono di essere presente come se fossi suo padre, suo fratello, o suo marito, invece che suo figlio.

Anche mia madre fa tutto quello che le si dice. Più passano i giorni, più sul suo viso si stampa un'espressione straziata e insieme serena. Ci sono rughe nuove su quella faccia, eppure sono rughe distese, quasi luminose. Trascorre gran parte del tempo nel parchetto dell'ospedale, seduta su una panca senza fare molto. Vado a trovarla ogni mattina, dopo aver accompagnato mio figlio all'asilo.

Alle volte, mentre sono lì, mi sento improvvisamente bene. Immagino che questi sprazzi di pace che provo, la pace che sembra provare mia madre sulla panca e la pace che mi sembra tutti provino in un reparto come questo, dove i pazienti sono sedati e si aggirano come sonnambuli, sia una sorta di balsamo necessario. Là fuori, oltre le mura dell'ospedale, il presente è una specie di lama infetta e la nostra anima ha bisogno di questa pace, come un albero ha bisogno della resina per guarire le ferite sul tronco.

Io e la mamma ci prendiamo il nostro tempo. Quando ne abbiamo voglia facciamo due passi sotto gli alberi, ma più spesso stiamo seduti su una delle panche, a parlare o a non dire niente. Ci sembra che non ci sia niente da dire e allora stiamo lì e basta, in silenzio. Ogni tanto arriva un infermiere per somministrarle qualche farmaco. Noi lo lasciamo fare, ma non vediamo l'ora che se ne vada per riprenderci la nostra intimità. Appena l'infermiere si allontana mia madre toglie la pastiglia dalla bocca e la nasconde in tasca.

- Come stai? - le chiedo.- Bene, - dice. - Come sta Pietro? Mangia?- Si, mamma. Mangia in continuazione. Mangia sempre.- Cosa mangia?- Tacchino. Pollo. Gli piacciono le salsicce. Spaghetti al pomodoro. Adora la

pizza. Tutto.- Bravo, Pietro.- Il bambino sta bene. Ora dobbiamo pensare a te.- Io sto bene, non preoccuparti per me. Io me la cavo.

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Il medico che l'ha in cura è un vecchio conoscente di mio padre e ha una particolare attenzione per noi. È un uomo alto e magro, un po' goffo nei movimenti. Quando lo vede avvicinarsi mia madre cambia espressione, abbassa gli occhi e appoggia le mani sulle ginocchia. Recita la sua parte, mima quella che secondo lei è la paziente sedata anche se non ce ne sarebbe bisogno. C'è un patto tacito tra noi e i medici.

Il medico le concede un sorriso cauto e le chiede come va. Ascolta le poche parole di mia madre con le mani dietro la schiena, immobile in piedi davanti a noi. Dice sempre: - Bene, bene. Stiamo facendo bei progressi. Avanti così.

È più giovane di lei e indossa scarpe da tennis bianche, da ragazzo. Ha fama di essere un bravo dottore e averlo dalla nostra parte è molto importante.

Mi chiede di seguirlo. Io dico a mia madre che torno subito, mi alzo e insieme al medico ci allontaniamo di qualche passo, sotto gli alberi, come vecchi amici che devono confidarsi chissà quale segreto. Mia madre ci segue con uno sguardo che sembra assente, in realtà è semplicemente disinteressata ai segreti.

- Lo stato di shock persiste, - dice il medico prima che io gli ponga qualche domanda. - Ma se la caverà. Sua madre è una donna forte.

- Grazie, dottore.- Le stia vicino. Passi con lei più tempo che può.Lo ringrazio ancora e torno da mia madre. Lui allontanandosi le fa segno con la

mano che più tardi verrà di nuovo.- Dimmi cosa mangia, - ripete mia madre senza rispondere al suo saluto.- Tutto, - le dico.- E cresce?- Si, cresce, come un bambino.- E sta bene?- Si, chiede sempre della nonna.- Lui non ha visto niente, - mi assicura. - Ha sentito i colpi, ma non ha visto

niente.- Non ti preoccupare di questo, adesso. Stai tranquilla, mamma.Mia madre osserva il medico scomparire dietro una porta.Ora che ci siamo liberati della sua presenza lei sente il bisogno di parlare. Si

sistema sulla panca e mi guarda.Credo che in certi momenti avere qualcuno che ti ascolta sia la miglior cura.

Allora io mi metto a disposizione e ascolto la sua storia decine di volte, con partecipazione sempre rinnovata. So che per lei raccontare significa affidarmi quella storia, e io me ne faccio carico come posso.

Parla velocemente, quasi mangiandosi le parole. Ogni tanto si blocca e mi guarda con un'espressione assente.

Io le prendo la mano e la tengo stretta. È tiepida, appena un poco ruvida. Inizio a piangere. A quel punto lei ricomincia.

Vuole che l'ascolti, non che pianga. Vuole che impari a quali temperature può arrivare la vita e cosa può significare esserne all'altezza. Lo fa per me.

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Era successo tutto automaticamente, come se una specie di forza meccanica avesse covato per lungo tempo dentro di lei e poi fosse esplosa. Aprire la borsa, estrarre la pistola, impugnarla con due mani, sparare. Era stato un istante, ma in quell'istante mia moglie aveva trovato il tempo di lanciarle uno sguardo incredulo, come se non avesse mai contemplato quella possibilità.

Mia madre si ferma, appoggia le mani davanti al viso e lo massaggia. Stira la pelle sulle tempie e rilassa gli occhi.

Quando le allontana ha un'espressione stanchissima.L'aveva colpita al petto e aveva continuato a sparare anche mentre cadeva. Le

sembrava di essere felice e impazzire allo stesso tempo. Aveva svuotato il caricatore sul suo corpo e mentre sparava aveva provato la sensazione di liberarla di qualcosa. Come se nel breve istante in cui Isabel comprendeva ciò che stava succedendo si fosse alleggerita di un peso insostenibile proprio grazie a lei. Appena a terra le aveva restituito uno sguardo che non avrebbe più dimenticato, di risentimento e gratitudine insieme. Forse in realtà non aspettava che questo. Poi aveva chiuso gli occhi, e mia madre aveva lanciato impulsivamente la pistola fuori dalla finestra.

Forse non aspettava che questo.Penso alla verità profonda di queste parole. Una verità che mi sembra di non

comprendere del tutto. O forse, al contrario, una verità da cui mi devo difendere perché appartiene troppo profondamente anche a me. La verità ultima. Il luogo in cui risentimento e gratitudine diventano la stessa cosa.

Sono passati cinque anni, da allora. Sembrano secoli, ere liquide che hanno lavato, con il loro scorrere, la sabbia dei ricordi.

Mi capita di ricordare con precisione i frammenti di una vita lontana solo quando mi muovo distrattamente per la città, cammino con un amico nel parchetto dove giocano i bambini, passo in macchina davanti all'ospedale specializzato nei parti in acqua oppure di fronte al mio vecchio appartamento, che nel frattempo ho venduto.

Succede soprattutto al supermercato. Ogni volta che mi trovo nel reparto carni e salumi, mi assale un fremito, una sensazione di stanchezza. Oppure quando, tra le corsie ordinate dei prodotti, mi imbatto nelle confezioni mignon di carne di tacchino in polvere.

Per il resto, potrei quasi fingere di averla dimenticata, la storia alle mie spalle. Proprio come un sogno di molte notti fa che torna a noi soltanto a sprazzi, di sorpresa, richiamato da un dettaglio, da un luogo o da una parola casuale, per poi affondare di nuovo nella sabbia della memoria.

Restare a vivere nella casa di mia madre è stata la scelta migliore. Dormire nella stessa camera di quand'ero bambino, mangiare nella stessa cucina, giocare nello stesso giardino con mio figlio: tutto questo mi provoca emozioni profonde. Ci sono anche gli stessi alberi, cresciuti rispetto ad allora, e mi piace raccontargli i loro nomi. Lo faccio nell'unico modo che conosco, quello tranquillo che usava mio padre con me. Il pino marittimo, la magnolia - proprio in questi giorni è in fiore, mi basta aprire la finestra per sentirne il profumo -, l'albero dei cachi. Mio

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figlio ascolta come ascoltavo io, orgoglioso che suo padre sia lì con lui, a spiegargli le cose.

Delle volte la confusione ha il sopravvento. Succede soprattutto la sera, negli istanti sospesi tra quando mio figlio si addormenta e quando anch'io riesco a prendere sonno.

La mia mente sovrappone il presente al passato, il passato al presente, e io devo sforzarmi se voglio mantenere un qualche ordine reale.

In realtà, più le stagioni e gli anni trascorrono, più sembra che al centro della mia vita ci sia una sorta di buco temporale.

Uno strappo aperto attraverso il quale le cose continueranno a mischiarsi, anche solo per brevi attimi, il prima e il dopo, quello che sono stato e quello che sono, il bambino indaco a un passo dalla morte per denutrizione e il bambino di adesso, che si appresta ai suoi primi giorni di scuola.

Forse devo imparare a non oppormi più. Bisogna lasciarli scorrere, i pensieri, come se non ci appartenessero.

Lasciarli fluire in modo da attenuarne la spinta distruttiva.Le dighe sono pericolose.Se scorrono, i pensieri passano e si inabissano verso qualche mare remoto

portando via con sé il dolore. Mentre scompare il dolore scompare anche un pezzo di vita, certo. Ma non esiste altra salvezza che questa.

Spesso mi trovo a girare per casa come un sonnambulo.Quando nessuno è in giro cerco in cantina oggetti appartenenti al mio passato.

Un giocattolo, un libro di geografia, una lampada. L'altra sera, dopo cena, mia madre ha voluto farmi vedere le foto di quand'ero piccolo. Foto vecchio stile, scattate con una vecchia macchina, stampate e appiccicate alle pagine di un album. Anche allora ho faticato a riconoscermi e ad ammettere che ero proprio io il bambino ritratto.

In quelle foto c'è sempre una famiglia, dietro di me.C'è sempre un padre che mi tiene in braccio mentre una madre scatta la foto,

oppure il contrario. C'è un fratello, ci sono apparizioni di nonne, zie, amici di famiglia. C'è una casa sullo sfondo.

Di ciò che c'è stato sullo sfondo della mia vita successiva, quella compresa fra quando me ne sono andato da qui e quando ci sono infine tornato, non è rimasto molto. Nessuna casa. Nessuna famiglia. Pochi amici. Uno sfondo vuoto, immateriale, come la superficie trasparente su cui recitano gli attori di un film da riempire con gli effetti speciali.

Gioco in cameretta coi Lego, costruisco ponti levatoi per castelli immaginari, disegno coi pennarelli astronavi multicolore, cerco sul pavimento i tasselli per un puzzle di Winnie the Pooh. Mescolo i miei vecchi giochi con quelli del mio bambino. Vorrei non avere una storia e neppure un futuro, soltanto la concentrazione di questo presente, io e mio figlio che giochiamo insieme, con la serietà che i giochi veri richiedono.

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Poi vengo colpito dalla sensazione opposta, penso che ho bisogno di fare tesoro della folle esperienza che ho vissuto e devo ottenerne un'utilità, un insegnamento, una qualche ricchezza interiore.

Infine, tutte queste sensazioni contrastanti mi abbandonano.Vanno e vengono da sole, indipendenti, e io so di essere soltanto un luogo di

passaggio neutro, una terra di nessuno.Mi resta il desiderio che mio figlio non cresca schiacciato dal peso della

disgrazia. Lo guardo giocare vicino a me e questo per il momento mi basta. Tutto è congiunto, ne sono certo, a qualche livello tutti i fili si annodano, il senso di tutto si compie. E penso che sono stato fortunato.

Si, davvero fortunato.La tempesta degli eventi mi ha lasciato un bambino bellissimo che presto

inizierà la scuola elementare. Insieme abbiamo seguito un percorso di psicoterapia durato tre anni. E pare aver funzionato, visto che la depressione dei primi mesi della sua vita sembra essere scomparsa dal suo volto ridente.

Mi ha lasciato una madre. Dopo il reparto psichiatrico, per alcuni anni agli arresti domiciliari e quindi ancora a casa, perché il suo mondo è diventato questa casa e quello che c'è fuori non le interessa più.

Mi ha lasciato senza una moglie e senza la voglia di trovarne un'altra. Senza il desiderio di ricostruirmi una vita, una famiglia, una relazione.

Ultimamente, mentre porto mio figlio a comprare i quaderni o l'astuccio con le matite per la scuola, o mentre componiamo insieme il puzzle del pirata Barbanera, mi sembra di percepire una sorta di illuminazione del presente.

Perché se da una parte questa storia mi ha lasciato senza più alcuna attesa nei confronti della vita, dall'altra mi ha fatto comprendere che proprio quest'assenza è il fine ultimo della vita.

Mio figlio intanto cresce. Mia madre invecchia. Mio fratello manda email dagli Stati Uniti.

Cresce, mio figlio, non si ferma mai, cresce, lui.Nei primi due anni, dopo il trasferimento a casa di mia madre, si rifiutava di

mangiare. Il cibo gli faceva schifo.Vomitava ogni volta che gli davamo qualcosa. Ma tanti medici ci hanno aiutato,

il dottor Moroni e altri pediatri ci hanno seguito permettendoci di superare anche questo.

Abbiamo tenuto duro.Il fatto - mi hanno spiegato - era che lui in qualche modo non se la sentiva di

rifiutare l'insegnamento materno e cercava per quanto possibile di salvarla, sua madre.

Non riusciva a pensare che se sua madre non gli dava da mangiare o non gli faceva digerire il cibo, questo per forza dovesse essere un male. Se n'era fatto una ragione e la emulava, a modo suo.

Ha emulato la madre più che ha potuto, ma noi abbiamo tenuto duro. Abbiamo tenuto duro anche quando ha subito un terribile intervento chirurgico all'intestino, causato dall'eccesso di lassativi somministrati da sua madre negli ultimi mesi. Lo

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abbiamo salvato con un intervento urgente di due ore e un ricovero ospedaliero di nove giorni.

Gli è rimasto un bel segno lungo la pancia.Abbiamo tenuto duro quando la società che avevo contribuito a fondare è fallita

e i miei vecchi soci si sono coalizzati contro di me. E allora, di nuovo, avvocati, tribunali, giudici, consulenti di ogni genere. Ma questo è sembrato un gioco da ragazzi, per noi, ormai.

Abbiamo tenuto duro quando mio figlio ha chiesto della mamma. Lo ricorderò sempre. Gli avevo da poco parlato di mio padre, il nonno che non aveva fatto in tempo a conoscere, dicendogli che tanto tempo prima era volato in cielo.

Era una giornata di primavera, una giornata fresca, saranno state le sette di sera. L'ho sentito chiamare, gridare qualcosa dalla terrazza. Anche in questa casa abbiamo una terrazza.

Molto meno vertiginosa dell'altra, però. Siamo al primo piano.Sono uscito anch'io e l'ho trovato appoggiato con le mani alla ringhiera, gli

occhi in alto, in direzione del cielo, a chiamare: - Mamma, mamma.- Che fai? - gli chiedo.- Chiamo la mamma.- Cosa vuoi dire ?- Anche la mamma è in cielo, - mi risponde.Abbiamo tenuto duro anche lì. Anche allora, tutti insieme, tutti compatti, io, mia

madre, mio fratello che arriva una volta all'anno e che stravede per lui. La mia squadra a difendere comunque il ricordo di sua madre.

A difendere la madre e a dirgli qualche pezzetto di verità.Non tutta, ma qualche frammento, appunto, qualche mezzo racconto, qualche

ricordo innocuo, sufficiente per non deludere il suo desiderio di conoscere e appagare temporaneamente la sua curiosità. Perché io credo che sua madre non lo abbia mai realmente odiato, ma che al contrario lo abbia amato così tanto da non sentirsi alla sua altezza.

Questo voglio raccontargli, un poco alla volta. Visto che mi sono convinto sia andata proprio così. Che sia stata questa la vera origine di tutto.

Quel giorno sulla terrazza al primo piano mi sono sforzato di comportarmi come mi avevano insegnato durante il percorso psicoterapeutico. Dovevo apparire fermo, tranquillo, e allo stesso tempo accogliente. L'ho raggiunto presso la ringhiera e l'ho preso per mano e gli ho confermato che sua mamma era proprio sospesa sopra le nostre teste, era andata in cielo prima di noi e ci stava aspettando lì.

Poi l'abbiamo salutata insieme agitando le mani.Non ho pensato un solo istante che lui credesse a ciò che gli stavo raccontando.

È impossibile che il rumore assordante degli spari o comunque la vista anche fugace di quel corpo insanguinato non abbiano un posto indelebile nella sua memoria. Ma io ho continuato lo stesso. Era il mio compito. Quello che si aspettava da me.

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Anche da quella terrazza si intravedono i colli. Meno imponenti rispetto a quelli della mia vecchia casa, certo, ma li si può vedere comunque.

Siamo rimasti a guardare il tramonto tenendoci per mano. Sentivo addosso un leggero senso di déjà-vu. Ma al posto della madre ora c'era lui, mentre io ero rimasto assurdamente io.

- Il sole va a dormire, - mi ha detto mio figlio.Io non ho risposto. Avevo un nodo in gola e non volevo che se ne accorgesse.Insieme abbiamo osservato il sole scomparire dietro il colle più alto e strisce di

un rosso carico sbiadivano in un viola senza confine. - Adesso ho freddo, - ha detto a quel punto. - Portami dentro, papà.

Mi ha preso per mano e mi ha fatto strada verso la porta della terrazza. Prima di entrare si è fermato, si è girato ancora verso il cielo, e col tono leggero con cui si saluta una persona che si vedrà a breve, ha detto: - Ciao, mamma.