maria stella non lo deve sapere. non lo deve sapere! non lo deve sapere!

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Tarcisio Mestizia, satira scolastica

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Page 1: Maria Stella non lo deve sapere. Non lo deve sapere! NON LO DEVE SAPERE!

Disponibile anche:

Libro: 12,50 euro (dal 28 ottobre 2011) e-book (download): 8,49 euro e-book su CD in libreria: 8,49 euro (da novembre 2011)

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Tarcisio Mestizia

Maria Stella non lo deve sapere non lo deve sapere

NON LO DEVE SAPERE! Storie di ordinario malcostume scolastico e di altre miserie,

raccontate nero su bianco da chi le ha vissute e viste bene da vicino.

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MARIA STELLA NON LO DEVE SAPERE NON LO DEVE SAPERE

NON LO DEVE SAPERE! Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-386-7 In copertina: Immagine fornita dall’autore

Finito di stampare nel mese di Ottobre 2011 da Logo srl

Borgoricco - Padova

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“Guardati dall’ira del buono” -vecchio proverbio cinese-

In queste pagine non v’è Ombra alcuna di bugia.

Lasciate allor parlar Tarcisio E così sia!

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PREMESSA Molti colleghi, nel tempo, hanno scritto libercoli più o meno esilaranti sulla scuola. La maggior parte di loro ha raccontato l’ignoranza oceanica dei propri allievi, probabilmente esasperato dalla fatica quo-tidiana di una professione che a volte può regalare all’insegnante una pesante sensazione di sconfitta e di inuti-lità, paragonabile a quella di chi si ostina a spalar acqua con un forcone. Io penso invece che sia cosa normalissima che gli alunni siano ignoranti; è logico che non sappiano, fa parte del loro essere discenti. Non servirebbero le scuole se noi, come diceva Totò, na-scessimo “imparati”. La cosa veramente importante è che non escano dal quin-quennio delle scuole superiori tanto ignoranti quanto lo era-no al loro ingresso, il primo anno.

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Ed è qui che entriamo in gioco noi insegnanti con un compi-to arduo, pieno di responsabilità e di insidie, ricco di soddi-sfazioni, a livello umano, ma assolutamente mal retribuito. Evito deliberatamente allora di sfottere, come molti hanno fatto, gli alunni che nei decenni del mio lavoro ho incontra-to, riportandone strafalcioni o aneddoti relativi alle nostre giornate insieme tra le mura scolastiche. Esporli al ludibrio dei lettori sarebbe facile, ma troppo triste. Tutti loro (alunni, strafalcioni e aneddoti) saranno custoditi nel mio cuore, per ridere in solitudine, tra pochi mesi, quan-do finalmente, nella mia nuova vita di pensionato, la scuola per me sarà soltanto un ricordo.

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Maria Stella non lo deve sapere non lo deve sapere

NON LO DEVE SAPERE! Storie di ordinario malcostume scolastico e di altre miserie,

raccontate nero su bianco da chi le ha vissute e viste bene da vicino.

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CAPITOLO 1°

Il Deficientificio Ogni città ha il suo deficientificio. Noi, nella nostra ridente cittadina della più profonda provin-cia italiana, abbiamo l’Istituto Garibaldi. Nato dalle ceneri dell’ormai scomparsa, ma mai dimenticata, scuola Magistrale, l’Istituto Garibaldi raccoglie tutti quegli indirizzi di studio e quelle specializzazioni atte a far sì che, a buon diritto, possa essere definito una vera e propria fabbri-ca di deficienti. Ogni anno infatti, il suddetto Istituto butta sul mercato della disoccupazione e sulla strada dell’abbandono universitario centinaia di neo diplomati, che sono però autentici deficien-ti, nel vero senso etimologico del termine. Deficiens, con buona pace del latino, è colui che manca di qualcosa. I neo diplomati del Garibaldi infatti, e di questo possiamo esserne certi, visto l’esiguo numero di coloro che

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superano poi i test d’ingresso universitari, mancano di quella minima base culturale che, unitamente a un buon uso della dialettica, consente a un giovane di belle speranze di affac-ciarsi sul mondo universitario o del lavoro. Ma il deficientificio è, malgrado la sostanza dei fatti, un’istituzione utilissima, sia per la città in cui sorge, che per la società in generale. In primo luogo, infatti, tiene occupata una folta pletora di in-segnanti, che non saprebbero in realtà cos’altro fare per arri-vare al ventisette del mese, giorno in cui incassano uno sti-pendio da fame, misero e umiliante nella sua pochezza, ma pur sempre sicuro, cascasse il mondo. In secondo luogo, il deficientificio, come ho già detto, è isti-tuzione imprescindibile e utilissima per tutti quei genitori i quali, segretamente consapevoli di aver generato figli che al posto del cervello hanno un cavolfiore, non ammetterebbero mai questa triste realtà nemmeno sotto tortura e necessitano, di conseguenza, di una struttura scolastica che abbia le sem-bianze apparenti e soprattutto il nome di un liceo, in cui par-cheggiare la prole per cinque lunghi anni o anche di più, fa-cendo credere ai parenti e al mondo intero che la progenie ha una smodata passione per le lingue, la scienze sociali o la musica. Tutti sanno che nella nostra città le uniche scuole superiori degne di questo nome sono il Liceo Classico e il Liceo

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Scientifico, ma se il dato di realtà è quello costituito da un figlio microcefalo, e se la scuola privata costa un occhio del-la testa, proprio come gli altri deficientifici di impronta cat-tolica, rinomati per le tariffe capestro, allora un povero geni-tore cosa deve fare? Ripiegherà certamente sull’Istituto Garibaldi. Da poco tem-po poi, il Ministero della Pubblica Istruzione (evviva Maria Stella!) ha dotato la nostra secolare e gloriosa istituzione an-che di un Liceo Musicale Coreutico, dove i giovani che han-no una spiccata tendenza per le percussioni, o per il piffero di virgiliana memoria, o che hanno appena imparato che Mozart non è soltanto un famoso cioccolatino, possono dar sfogo alle loro passioni, con l’assoluta garanzia di non esse-re quotidianamente scocciati dall’inutile esercizio della grammatica, italiana o latina che dir si voglia. I fortunati al-lievi del Liceo Musicale non saranno nemmeno vessati dallo studio della matematica, che in epoca di computer e I-pad è assolutamente trascurabile e superfluo. Il culto e la pratica della nostra cara lingua italiana, che così stava a cuore a Dante e a Manzoni, al Garibaldi non occupa più ormai da tempo un posto di rilievo. In anticipo sugli altri colleghi della penisola, i docenti dell’Istituto hanno smesso da un pezzo di proporre lo studio

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della lingua italiana come fiore all’occhiello della loro pro-grammazione annuale. Infatti, in nome di un ben noto progetto di accoglienza verso gli alunni stranieri, che nella scuola potrebbero sentirsi di-scriminati, hanno partorito un’unanime revisione dei pro-grammi e degli obiettivi: in buona sostanza, perché tediare la platea degli allievi con inutili lezioni sui verbi, sull’uso del congiuntivo, sulla consecutio temporum quando, così facen-do, si rischierebbe di discriminare un povero studente extra-comunitario? No, al bando questi programmi obsoleti, e ben vengano nuo-ve idee illuminate, come l’intervallo multietnico, scandito da molteplici schifezzuole, cucinate all’uopo di beatificare la cucina dei paesi d’origine degli alunni, e chissenefrega dei modi verbali e dei modi in generale! L’importante è che i fanciulli di ogni paese e contrada si i-scrivano in massa, si iscrivano tutti, perché il numero conta, eccome se conta! Infatti anche sullo stipendio dei dirigenti scolastici c’è una piccola percentuale in più: più allievi nelle aule, più euro che fioccano a fine mese in busta paga! E allora il Garibaldi spalanca i suoi giganteschi cancelli, ac-coglie e raccoglie adolescenti da ogni luogo e da ogni scuo-la, recupera e promuove, e soprattutto….è gratis!

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La ricchezza di questa scuola è soprattutto il materiale uma-no e sub umano che circola nei corridoi, che si annida nelle aule, nei cortili e perfino in portineria. Se Pedro Almodovar o Pupi Avati cercassero una fonte d’ispirazione per i loro film, qui non avrebbero che l’imbarazzo della scelta, perché si sa che la realtà supera da sempre, e di molto, anche la più fervida fantasia.

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CAPITOLO 2°

La bidella Bratz Il buon giorno si vede dal mattino, diceva qualche saggio dei tempi andati. E tu cosa vedi, come prima cosa al mattino, varcata la soglia dell’Istituto Garibaldi? Lei, non puoi non vederla, impossibile evitarla del tutto, perché è la prima cosa (creatura?) che ti si para innanzi in tutto il suo fulgore leopardato, o zebrato, a seconda dell’umore del momento. Il suo regno-postazione è la portineria sulla sinistra, appena prima dell’ingresso. Di corporatura minuta, ha però artificialmente pompato in ugual misura tette e capigliatura, esponendole caparbiamente entrambe all’occhio degli astanti che volenti o nolenti, ma ogni volta un po’ più sconcertati, non possono esimersi dal notare l’esile esserino che arranca agguerrito sui tacchi, fati-cosamente eretto sotto il peso di un cotonatissimo cespuglio

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di capelli di un improbabile color arancione, e sbilanciato in avanti dall’altrettanto ingombrante peso di un davanzale che è un inno al silicone e al buon vecchio detto latino “melius abundare quam deficere”. Concetta, come dice il nome stesso, non è nata a Trento e nemmeno a Bolzano, e si esprime ancora oggi in un italiano approssimativo, che risale al periodo pre unità d’Italia. In compenso però, gesticola tantissimo, cercando, con la mimica gestuale, di compensare le evidenti lacune linguisti-che che la caratterizzano. Sempre educatissima, saluta con uguale entusiasmo alunni e professori. Sospende per un attimo la sua occupazione pri-maria, la lettura di Novella 2000, o la sistemazione del truc-co, e urla: «Ciao professò! Che mi andresti a prenne’ un cafè? Vedi de fallo fa’ decaffeinato che sto con la vita nervosa assai!» Se per caso stai uscendo, e non devi presentarti in classe nel giro di cinque minuti, non hai scampo, ti tocca andare a prenderle il caffè al “BAR DI FIANCO”. In realtà il vero nome del bar è BAR BURLESQUE, ma è meglio noto in tutta la scuola come il BAR DI FIANCO, es-sendo posizionato a fianco del portone d’ingresso. Se invece ti imbatti nella bidella Bratz mentre stai palese-mente entrando a scuola, ti apostrofa così: «AHO’! Professò! Hai visto che cazz di giornata che ci stà?»

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E da qui parte una serie colorita di commenti sulle condizio-ni metereologiche del momento (argomento che va fortissi-mo nella conversazione con i bidelli) tutti in un rigoroso ita-liano pre unitario, con annesso corredo di parolacce a inter-calare, per sottolineare in qualsiasi stagione il suo costante disappunto. La bidella Bratz è così. Nel suo sfavillante look da femmina-pantera, che nemmeno la più squallida delle periferie è riu-scita a sbiadire, è la prima e unica certezza della giornata per chi si presenta di buon ora, allievo o professore che sia, sulla soglia dell’Istituto Garibaldi.

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CAPITOLO 3°

Il segreto di Fatima, ovvero il mistero delle cattedre Nemmeno il Vaticano, con la sua esperienza secolare in ma-teria, riesce a custodire i suoi segreti con la tenacia e la per-vicacia con cui all’Istituto Garibaldi viene mantenuto il se-greto sulla composizione e sull’assegnazione delle cattedre ai poveri professori. Sperando invano di evitare lamentele e proteste mettendo i colleghi di fronte al fatto compiuto, l’orrido vicepreside e lo staff che circonda l’INEFFABILE dirigente scolastico oc-cultano lo schema delle cattedre per il successivo anno sco-lastico fin dal precedente mese di maggio. In questo periodo e per tutto il mese di giugno, mentre tutti quanti lavorano per gli esami di stato o procedono ai recupe-ri per il saldo dei debiti, l’orribile vicepreside, con la com-plicità di un manipolo di sgomitanti collaboratori accurata-mente selezionati tra i colleghi, si affanna a mettere insieme

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lo schema delle cattedre dell’anno scolastico successivo. Chi assegnare a quali classi è il dilemma che evidentemente lo attanaglia per due mesi buoni, durante i quali non gli si può rivolgere la parola nemmeno se la scuola va a fuoco. Non si può far conto neppure sull’INTROVABILE dirigen-te, allo scopo di avere qualche informazione in anteprima. Tempo addietro - lavoravo al Garibaldi già da trentadue anni - avendogli chiesto notizie sulla mia cattedra dell’anno a ve-nire, venivo a scoprire che l’INEGUAGLIABILE INCOM-PETENTE era convinto che io insegnassi filosofia. Va detto che da qualche lustro insegno lingua e letteratura francese, sempre quella, sempre in questo stramaledettissimo istituto. Ai poveri professori, la verità sulle classi dell’anno succes-sivo verrà svelata solamente ai primi di settembre, quando ormai saranno fagocitati e fiaccati dalle prove per il recupero dei debiti e da altre amenità da inizio anno. Non sia mai che, rendendo pubbliche le cattedre per tempo, qualcuno possa in santa pace dedicarsi a programmare il lavoro dell’anno sco-lastico successivo da qualche amena località della villeggia-tura… no! Questo non sia mai! Questa opportunità, che è invece prassi consolidata in tutte le scuole italiane, al Garibaldi è tabù. Naturalmente pochi eletti (sempre i soliti) sfuggono alla re-gola ferrea che vorrebbe mantenere tutti i professori nella più totale ignoranza circa il loro destino.

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Questi privilegiati, una decina più o meno, sono i soliti rac-comandati, quelli che hanno un parente in politica, le “mogli di…”, i raccomandati dalla curia o, in ultima analisi, quelli che sgomitando da una vita sono riusciti a entrare nelle gra-zie dell’INESPRIMIBILE o del suo orrido vice a suon di fa-vori, atteggiamento sottomesso e a un’attività di lecchinag-gio degna di un film del ragionier Fantozzi. Il trentuno di agosto, verso le due del pomeriggio, un bidello sudato espone al pubblico un fascicoletto spesso di pagine con nomi dei professori e le classi a cui sono stati assegnati, poi salta sulla bici e fugge via pedalando a più non posso, più velocemente possibile… …e da quel momento è l’inferno. L’INEFFABILE dirigente diventa INTROVABILE, l’orrido vice sparisce, e un nugolo di professoresse urlanti (sempre le solite e sempre femmine) si strappa di mano il fascicolo che già mostra, dopo pochi minuti, segni di disfacimento: le pa-gine sono sgualcite, alcune vengono strappate, altre fotoco-piate, e intanto urla, mormorii, promesse di vendetta e un’esclamazione unanime: “…MA CHE CATTEDRA DI MERDA!”

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CAPITOLO 4°

Io: l’autore, professor Tarcisio Mestizia Mi manca un soffio alla pensione. È questo l’unico pensiero che mi tiene vivo, che fa sì che un giorno dopo l’altro io ab-bia ancora la forza di volontà di varcare quotidianamente la soglia del mio inferno personale: l’Istituto Garibaldi. A differenza dei miei colleghi più giovani, più ambiziosi o più plausibilmente timorosi delle ritorsioni dell’IMPREVEDIBILE, e quindi inevitabilmente piegati a novanta gradi di fronte all’IMMARCESCIBILE e al suo staff, la mia posizione di quasi pensionato mi fa percepire da tutti quasi come un outsider, uno che ha già un piedino fuori dall’ambiente scolastico. Questo mi consente, oltre alla consueta libertà di pensiero, anche, finalmente, una certa libertà di parola senza tema di ripicche o ritorsioni, pratiche non infrequenti nella scuola

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che presto, grazie a Dio, mi accingerò ad abbandonare per sempre. E dire che quando ho cominciato mi piaceva tantissimo il mio lavoro! Si era rispettati, considerati come un importante punto di riferimento dalle famiglie e quasi amati dagli allie-vi. Allora ero giovane e non mi pesavano i chilometri che ogni giorno, in corriera, facevo per raggiungere le scuole dove mi avevano assegnato, prima come supplente, poi co-me professore di ruolo. Ma basta, finiamola lì con i ricordi. Ogni volta che rivango il passato vengo guardato male, co-me se fossi un vecchio mammut fuori da un museo, via dal posto che gli compete, perché appartenente ormai a un’altra era… ma come era bello una volta insegnare, avere alunni attenti e curiosi, e Proust, come era bello spiegare Proust… Ora che tutto è cambiato sogno a occhi aperti il momento non lontano in cui non visto osserverò, magari davanti a un aperitivo, i miei colleghi mentre, cupi in volto, si dirigono al lavoro. Con la liquidazione, magari, mi comprerò un bilocale a I-stambul, con vista sul Bosforo, per passarci i mesi invernali, oppure a Paris, nei pressi di Saint Germain, a un tiro di schioppo dal Cafè Flore. Ma forse dovrò mettere la dentiera, o fare l’impianto dei mo-lari inferiori, e poi pagare la badante della zia Rituccia, che

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nonostante i novantotto anni non accenna ancora a morire, e allora? La liquidazione se n’è già andata, la mia gioventù pure, il comunismo è morto da un pezzo… e a me cosa resta allora? Mi resta questo desiderio mai sopito di togliermi qualche sassolino dalla scarpa, di raccontare quella che per più di quarant’anni è stata la mia vita, così, per amor di verità, per un sussulto di ribellione, perché Maria Stella che in vita sua non ha mai insegnato un giorno, ma che in compenso è Mi-nistro della Pubblica Istruzione, certe cose le deve sapere…. Ma forse Maria Stella non legge, non sogna il Bosforo e non le è mai importato nulla di Proust. FINE ANTEPRIMA CONTINUA…

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