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di TOMMASO PINCIO Nel luogo più oscuro del seco- lo breve, Martin Amis era già stato. La prima volta nel 1991, con La frec- cia del tempo, dove la vita di un me- dico nazista che ha prestato servi- zio in un lager era raccontata a ri- troso, in un turbinare di cambi di identità e scorribande erotiche. C’era poi tornato nel 2000 in altra maniera, dando conto della sua pri- ma visita ad Auschwitz in un me- moir scaturito dalla morte del pa- dre. Dopodiché (a meno di non di- menticare qualcosa e evitando di considerare il suo interessamento a Stalin e ai gulag un’estensione della stessa materia) ha atteso qua- si un quindicennio per farvi ritor- no una terza volta. Come spesso ca- pita ai romanzi di Amis, anche quest’ultimo è stato oggetto di po- lemiche: era ancora un semplice manoscritto quando si sparse la no- tizia che La zona d’interesse (tradu- zione di Maurizia Balmelli, Einau- di, pp. 304, e 20,00) era stato rifiuta- to sia dell’editore francese che da quello tedesco. Le voci volevano che all’origine ci fossero le sconsi- derate richieste economiche dell’autore, un’ipotesi confermata in parte da Hanser e smentita da Gallimard, che giunse alla sua deci- sione, perlomeno a quanto ha affer- mato, «per ragioni letterarie». Nes- suno dei due editori ha ammesso un fastidio per il modo all’apparen- za irriguardoso con il quale Amis ha trattato l’Olocausto. Probabile tuttavia, se non certo, che la que- stione abbia pesato. Amis rigetta l’idea di Adorno per cui scrivere poesia dopo Auschwitz equivarrebbe a un atto di barbarie, e lo fa sposando l’opinione di W. G. Sebald, ossia abbracciando la te- si opposta, e affermando dunque che quello è l’unico luogo cui la mente di una persona è sempre ri- volta. In una simile disposizione mentale non c’è alcun elemento di novità, come è nient’affatto nuovo lo scandalo di affrontare un tasto tanto delicato in maniera dichiara- tamente scorretta; si pensi all’esempio delle Benevole di Littel, pubblicato in Francia senza grandi problemi. Qual è dunque la que- stione? Il libro è forse davvero sba- gliato nel tono e affetto da una tra- ma informe, come sostengono da Gallimard? Tutt’altro. È una delle opere più riuscite di Amis; superio- re di gran lunga ai libri che lo han- no immediatamente preceduto, La vedova incinta e Lionel Asbo, ro- manzi che a detta di molti pareva- no indicare una fase di stanca, se non l’inizio di un declino. Il guaio, per così dire, sta altrove. Sta nel fatto che La zona di intesa non è un romanzo per tutti. Quan- to a questo, la giornalista Gina Tho- mas ha colto un nodo essenziale osservando che il problema consi- ste nell’umorismo disivolto, sfac- ciatamente inglese e di non imme- diata comprensione al lettore stra- niero, a cominciare ovviamente dal lettore tedesco. La colpa di Amis – sempre che tale la si possa definire – non è tanto quella di ave- re ambientato una commedia ro- mantica a due passi dal filo spina- to di un campo di sterminio, quan- to l’avere attribuito a personaggi te- deschi, e per di più nazisti, una ar- guzia macabra che è tipicamente britannica. La dissonanza è per giunta intensificata dal fatto che l’azione, anziché passare attraverso il filtro livellatore di un narratore on- niscente, viene riferita in prima per- sona e in tempo pressoché reale dai protagonisti. Parliamo infatti di un romanzo a tre voci che si alternano con cadenza regolare per sei capito- li. Ognuna ha un suo carattere e di- versi trascorsi; ognuna tende, più che a proporre una propria versio- ne dei fatti, a mostrare e dunque an- nientare l’immagine che il prece- dente narratore ha dato di sé. C’è Angelus Thomsen detto Go- lo che, col suo metro e novanta di altezza e i capelli di un bianco ghiaccio, incarna l’epitome del per- fetto ariano o, come dicono le don- ne che lo frequentano, dello stron- zo islandese. A dispetto delle appa- renze e delle ascendenze – è niente- meno che il nipote prediletto di Martin Bormann, segretario perso- nale di un Hitler mai chiamato per nome lungo tutto il romanzo – Go- lo è un nazista agnostico, più preso dalle sue mire di seduttore seriale che dai non meglio precisati com- piti di collegamento tra il Reich e la IG Farben, che in quel di Au- schwitz finanzia a scopo di ricerca bellica il Kat Zet III, un ramo della soluzione finale noto ai lettori di Amis in quanto già presente nella Freccia del tempo. Nel momento in cui il romanzo ha inizio, l’agosto del 1942, Golo ha messo gli occhi su una preda conforme «all’ideale nazionale del- la femminilità giovane, imperturba- bile, agreste, concepita per la pro- creazione e i lavori pesanti». Si chiama Hannah, è madre di due bambine nonché moglie del mag- giore Paul Doll, il Kommandant, «la punta di lancia di questo formi- dabile programma nazionale di igiene applicata» che sono i campi di sterminio, la Zona d’interesse. Tuttavia, Doll è per Golo soltan- to il Vecchio Beone, il quale, in quanto voce del romanzo, può a sua volta estarnare una scarsissi- ma opinione di Golo. Comincia col liquidarlo come un omosessuale e, quando l’evidenza dei fatti gli di- mostra il contrario, insiste comun- que nel vedere in lui un eccesso di effemminatezza. Stando ai parame- tri nazisti, Doll non è poi così lonta- no dal vero: Golo legge in segreto Thomas Mann e ha posseduto ope- re d’arte, un Klee, un Kandinsky mi- nuscolo. D’altra parte, la massima preoccupazione estetica del Vec- chio Beone è quella di porre rime- dio al tanfo di carne bruciata, non foss’altro che a causa del fastidio che procura alla moglie, con la qua- le Doll ha non pochi problemi, non ultimo quello di una relazione sessuale per nulla soddisfacente. La presenza del Kommandant sembra servire da portavoce alla ba- nalità del male, tanto che lui stesso con forza asserisce: «Io sono un uo- mo normale con bisogni normali. Sono assolutamente normale. È que- sto che nessuno sembra capire». In effetti – e proprio in questo consiste uno dei maggiori pregi del romanzo – Doll sarebbe normale se si limitasse a essere un uomo senza particolari qualità, anziché un compendio di difetti e di po- chezze. Più che banale, Doll è un uomo ridicolo, patetico, grottesco. Per assurdo, ben più normale di lui è l’ebreo Szmul, la terza voce nar- rante, l’uomo più triste della storia del mondo in quanto a capo degli uomini più tristi del Lager, gli schia- vi dell’SK, la Squadra Speciale che adempie al proprio ufficio «in mez- zo ai morti, con le forbici, le pinze e le mazzuole, i secchi con gli avan- zi di benzina, le siviere, le macine». In soldoni, è il capo degli ebrei che assistono i nazisti nell’opera di ster- minio e smaltimento dei cadaveri. Quella di Szmul è, ovviamente, la normalità dell’impossibile: non abituarsi al Lager, non impazzire, parlare, conservare un sentimento di fratellanza. Le parti nelle quali prende la parola sono le più brevi. La sua stringatezza è il contraltare della stolida verbosità di Doll e, seppure più indirettamente, dell’estetismo donnaiolo di Golo. Parla poco perché è il solo a render- si conto del fatto che, neppure co- noscendo ogni singolo minuto del- la storia umana, sarebbe possibile trovare «alcun esempio, alcun mo- dello, alcun precedente». Parla po- co anche perché, consapevole del suo destino, assume la ieratica la- conicità del santo, dell’uomo che si è svuotato di sé; e tale è questa sua consapevolezza che, nel rico- noscersi martire di una degenera- zione unica nella Storia, si soffer- ma a considerare come la parola martire derivi «dal greco martur, che significa testimone». Szmul seppellirà il thermos con- tenente le sue essenziali memorie sotto un arbusto di uva spina, cer- to che «per questa ragione non tut- to di me morirà». È importante no- tare, a questo proposito, come Amis si preoccupi di mostrarci il modo in cui le parole dei tre narra- tori sono giunte a noi. Nelle primis- sime righe del romanzo vediamo un notes aperto su un ceppo e le sue pagine smosse da un vento in- discreto, mentre il proprietario, Go- lo Thomsen, è tutto preso dall’ince- dere di un nuovo oggetto del desi- derio, la moglie di Doll. Più avanti ecco il marito, l’uomo che si crede- va normale, interrotto nella stesu- ra dei suoi vaniloqui dalla camerie- ra che bussa alla porta. Simili dettagli sembrano evoca- re l’antico espediente romanzesco del manoscritto ritrovato in un baule. Altrettanto significativo è che, a guerra finita, uno dei perso- naggi si ritrovi a fare il traduttore, quasi a lasciare intendere che il ro- manzo nel suo complesso vada preso come la riscrittura di un te- sto già dato, il riflesso di uno spec- chio dell’orrore. Il che spieghereb- be perché Auschwitz faccia da sfon- do a una commedia d’amore dove il sesso è soltanto un ricordo. Spie- gherebbe inoltre perché un’anoma- lia tedesca venga resa con umori- smo britannico e forse anche co- me mai la traduzione di Maurizia Balmelli abbia la sola pecca di esse- re migliore dell’originale. TRE VOCI SI ALTERNANO SMENTENDOSI A VICENDA E PROIETTANDO SU UNA STORIA TUTTA TEDESCA L’ AMABILMENTE SCANDALOSO UMORISMO BRITANNICO: DA EINAUDI, «LA ZONA D’INTERESSE» MARTIN AMIS, AMORE ALL’INFERNO KEMENY E ALTRI POETI ITALIANI ORELLI PETROWSKAJA MEYERHOFF YEHOSHUA GAVRON SAER CASTILLO RULFO FUTURISTI

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Page 1: MARTINAMIS, AMORE ALL’INFERNOgiorgioorelli.com/pdf/alias18ott2015.pdf · sciuto,ecisonoilsogno,lapiega-turagrottescaeavoltecomicaad-dirittura, la visione netta di uno smembramento

di TOMMASO PINCIO

Nel luogopiùoscuro del seco-lo breve, Martin Amis era già stato.La primavolta nel 1991, conLa frec-cia del tempo, dove la vita di unme-dico nazista che ha prestato servi-zio in un lager era raccontata a ri-troso, in un turbinare di cambi diidentità e scorribande erotiche.C’era poi tornato nel 2000 in altramaniera, dando conto della sua pri-ma visita ad Auschwitz in un me-moir scaturito dalla morte del pa-dre. Dopodiché (a meno di non di-menticare qualcosa e evitando diconsiderare il suo interessamentoa Stalin e ai gulag un’estensionedella stessamateria) ha atteso qua-si un quindicennio per farvi ritor-nouna terza volta. Come spesso ca-pita ai romanzi di Amis, anchequest’ultimo è stato oggetto di po-lemiche: era ancora un semplicemanoscritto quando si sparse la no-tizia che La zona d’interesse (tradu-zione di Maurizia Balmelli, Einau-di, pp. 304,e 20,00) era stato rifiuta-to sia dell’editore francese che daquello tedesco. Le voci volevanoche all’origine ci fossero le sconsi-derate richieste economichedell’autore, un’ipotesi confermatain parte da Hanser e smentita daGallimard, che giunse alla sua deci-sione, perlomeno aquanto ha affer-mato, «per ragioni letterarie». Nes-suno dei due editori ha ammessoun fastidio per ilmodo all’apparen-za irriguardoso con il quale Amisha trattato l’Olocausto. Probabiletuttavia, se non certo, che la que-stione abbia pesato.

Amis rigetta l’idea di Adorno percui scrivere poesia dopo Auschwitzequivarrebbe a un atto di barbarie,e lo fa sposando l’opinione di W.G. Sebald, ossia abbracciando la te-si opposta, e affermando dunqueche quello è l’unico luogo cui lamente di una persona è sempre ri-volta. In una simile disposizionementale non c’è alcun elemento dinovità, come è nient’affatto nuovolo scandalo di affrontare un tastotanto delicato in maniera dichiara-tamente scorretta; si pensiall’esempio delle Benevole di Littel,pubblicato in Francia senza grandiproblemi. Qual è dunque la que-stione? Il libro è forse davvero sba-gliato nel tono e affetto da una tra-ma informe, come sostengono daGallimard? Tutt’altro. È una delleopere più riuscite di Amis; superio-re di gran lunga ai libri che lo han-no immediatamente preceduto,La vedova incinta e Lionel Asbo, ro-manzi che a detta di molti pareva-no indicare una fase di stanca, senon l’inizio di un declino.

Il guaio, per così dire, sta altrove.Sta nel fatto che La zona di intesanon è un romanzo per tutti. Quan-to a questo, la giornalistaGina Tho-mas ha colto un nodo essenzialeosservando che il problema consi-ste nell’umorismo disivolto, sfac-ciatamente inglese e di non imme-diata comprensione al lettore stra-niero, a cominciare ovviamentedal lettore tedesco. La colpa diAmis – sempre che tale la si possadefinire – non è tanto quella di ave-re ambientato una commedia ro-mantica a due passi dal filo spina-to di un campodi sterminio, quan-to l’avere attribuito apersonaggi te-deschi, e per di più nazisti, una ar-guzia macabra che è tipicamentebritannica. La dissonanza è pergiunta intensificata dal fatto chel’azione, anziché passare attraversoil filtro livellatoredi unnarratoreon-niscente, viene riferita inprimaper-sona e in tempopressoché reale daiprotagonisti. Parliamo infatti di un

romanzo a tre voci che si alternanoconcadenza regolareper sei capito-li. Ognuna ha un suo carattere e di-versi trascorsi; ognuna tende, piùche a proporre una propria versio-nedei fatti, amostrare edunquean-nientare l’immagine che il prece-dente narratore ha dato di sé.

C’è Angelus Thomsen detto Go-lo che, col suo metro e novanta dialtezza e i capelli di un biancoghiaccio, incarna l’epitomedel per-fetto ariano o, come dicono le don-ne che lo frequentano, dello stron-zo islandese. A dispetto delle appa-renze edelle ascendenze – è niente-meno che il nipote prediletto diMartin Bormann, segretario perso-nale di un Hitler mai chiamato pernome lungo tutto il romanzo – Go-lo è un nazista agnostico, più preso

dalle sue mire di seduttore serialeche dai non meglio precisati com-piti di collegamento tra il Reich e laIG Farben, che in quel di Au-schwitz finanzia a scopo di ricercabellica il Kat Zet III, un ramo dellasoluzione finale noto ai lettori diAmis in quanto già presente nellaFreccia del tempo.

Nel momento in cui il romanzoha inizio, l’agosto del 1942, Goloha messo gli occhi su una predaconforme «all’ideale nazionale del-la femminilità giovane, imperturba-bile, agreste, concepita per la pro-creazione e i lavori pesanti». Sichiama Hannah, è madre di duebambine nonché moglie del mag-giore Paul Doll, il Kommandant,«la punta di lancia di questo formi-dabile programma nazionale diigiene applicata» che sono i campidi sterminio, la Zona d’interesse.

Tuttavia, Doll è per Golo soltan-to il Vecchio Beone, il quale, inquanto voce del romanzo, può asua volta estarnare una scarsissi-ma opinione di Golo. Comincia colliquidarlo come un omosessuale e,quando l’evidenza dei fatti gli di-mostra il contrario, insiste comun-que nel vedere in lui un eccesso dieffemminatezza. Standoai parame-tri nazisti, Doll non è poi così lonta-no dal vero: Golo legge in segretoThomasManneha posseduto ope-re d’arte, unKlee, unKandinskymi-nuscolo. D’altra parte, la massimapreoccupazione estetica del Vec-chio Beone è quella di porre rime-dio al tanfo di carne bruciata, nonfoss’altro che a causa del fastidiocheprocura allamoglie, con la qua-le Doll ha non pochi problemi,

non ultimo quello di una relazionesessuale per nulla soddisfacente.

La presenza del Kommandantsembra serviredaportavoce allaba-nalità del male, tanto che lui stessocon forza asserisce: «Io sono un uo-mo normale con bisogni normali.Sonoassolutamentenormale. Èque-sto che nessuno sembra capire».

In effetti – e proprio in questoconsiste uno deimaggiori pregi delromanzo – Doll sarebbe normalese si limitasse a essere un uomosenza particolari qualità, anzichéun compendio di difetti e di po-chezze. Più che banale, Doll è unuomo ridicolo, patetico, grottesco.Per assurdo, ben più normale di luiè l’ebreo Szmul, la terza voce nar-rante, l’uomo più triste della storiadel mondo in quanto a capo degliuomini più tristi del Lager, gli schia-vi dell’SK, la Squadra Speciale cheadempie al proprio ufficio «inmez-zo ai morti, con le forbici, le pinzee lemazzuole, i secchi con gli avan-zi di benzina, le siviere, le macine».In soldoni, è il capo degli ebrei cheassistono i nazisti nell’opera di ster-minio e smaltimento dei cadaveri.

Quella di Szmul è, ovviamente,la normalità dell’impossibile: non

abituarsi al Lager, non impazzire,parlare, conservare un sentimentodi fratellanza. Le parti nelle qualiprende la parola sono le più brevi.La sua stringatezza è il contraltaredella stolida verbosità di Doll e,seppure più indirettamente,dell’estetismo donnaiolo di Golo.Parla poco perché è il solo a render-si conto del fatto che, neppure co-noscendo ogni singolominuto del-la storia umana, sarebbe possibiletrovare «alcun esempio, alcun mo-dello, alcun precedente». Parla po-co anche perché, consapevole delsuo destino, assume la ieratica la-conicità del santo, dell’uomo chesi è svuotato di sé; e tale è questasua consapevolezza che, nel rico-noscersi martire di una degenera-zione unica nella Storia, si soffer-ma a considerare come la parolamartire derivi «dal greco martur,che significa testimone».

Szmul seppellirà il thermos con-tenente le sue essenziali memoriesotto un arbusto di uva spina, cer-to che «per questa ragione non tut-to di me morirà». È importante no-tare, a questo proposito, comeAmis si preoccupi di mostrarci ilmodo in cui le parole dei tre narra-

tori sono giunte a noi. Nelle primis-sime righe del romanzo vediamoun notes aperto su un ceppo e lesue pagine smosse da un vento in-discreto,mentre il proprietario,Go-lo Thomsen, è tutto preso dall’ince-dere di un nuovo oggetto del desi-derio, la moglie di Doll. Più avantiecco il marito, l’uomo che si crede-va normale, interrotto nella stesu-ra dei suoi vaniloqui dalla camerie-ra che bussa alla porta.

Simili dettagli sembrano evoca-re l’antico espediente romanzescodel manoscritto ritrovato in unbaule. Altrettanto significativo èche, a guerra finita, uno dei perso-naggi si ritrovi a fare il traduttore,quasi a lasciare intendere che il ro-manzo nel suo complesso vadapreso come la riscrittura di un te-sto già dato, il riflesso di uno spec-chio dell’orrore. Il che spieghereb-beperchéAuschwitz faccia da sfon-do a una commedia d’amore doveil sesso è soltanto un ricordo. Spie-gherebbe inoltre perché un’anoma-lia tedesca venga resa con umori-smo britannico e forse anche co-me mai la traduzione di MauriziaBalmelli abbia la sola peccadi esse-re migliore dell’originale.

TRE VOCI SI ALTERNANO SMENTENDOSIAVICENDAEPROIETTANDOSUUNASTORIATUTTA TEDESCA L’ AMABILMENTESCANDALOSO UMORISMO BRITANNICO:DA EINAUDI, «LA ZONA D’INTERESSE»

MARTIN AMIS,AMORE ALL’INFERNO

KEMENY E ALTRI POETI ITALIANI • ORELLI •PETROWSKAJA • MEYERHOFF • YEHOSHUA •GAVRON • SAER • CASTILLO • RULFO • FUTURISTI

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(2) ALIAS DOMENICA18 OTTOBRE 2015

di ENZO DI MAURO

Se qualcuno dovesse pigliar-si vaghezza di chiedere all’autore,per puro capriccio, quali tra que-sti107 incontri con la prosa e la po-esia (Edizioni del Verri, pp. 168, e13,00) potrebbero essere ricondu-cibili a un del tutto ipotetico prin-cipio di realtà ovvero o anche a unpersonaggio che sia o che sia statonel mondo in carne e ossa, egli ra-gionevolmente risponderebbesenza esitare: «Che domanda! Èsemplice: con Beethoven, Ovidio,Garcìa Lorca e Salvador Dalì». Epoi, dopo una brevissima pausa econ la medesima determinazione,aggiungerebbe: «E con la DonnaBarbuta». Di sicuro Tomaso Ke-meny (Budapest, classe 1938)ometterebbe di ricordare che nelsuo libro c’è un incontro con sestesso o con la Realtà, la quale haqui una grana schiettamente sur-realista, onirica, quasi di giovani-le, sorgivo empito novecentesco,

così come lo abbiamo conosciutoe amato nelle arti, nel cinema enella stessa letteratura, testimo-nianza viva ed emozionante diun’epoca in cui la pratica del con-flitto pareva necessaria alla creati-vità. Kemeny – al quale, come al-trovemi pare di aver ricordato, ca-pitò di incontrare sul lungomaredi una città della Costa Azzurra,egli poco più che adolescente el’altro già vecchio e coronato digloria, il grande Breton: un simbo-lico battesimodel fuoco, si potreb-be dire il segnavia di un destinomilitante – è stato e continua a es-sere il frutto più prezioso di quellatradizione modernista che lui, nelcorso degli anni, nel corpo dellascrittura, ha saputo variare e mo-dulare con la destrezza di unmae-stro che insieme è riuscito semprea rimanere un fraterno compagnodi strada (ma lui, certo, preferireb-be di lotta, di resistenza, tanto cie-ca come l’amore è la sua fede nel-la poesia e nella «gioventù eterna

/ del mondo»: che sono poi, perquesto poeta, una sola cosa, un so-lo desiderio).

La Realtà, si diceva. Ma la Real-tà, dopotutto, vi si presenta, qui,sogno essa stessa, a scompigliareil sogno. Una notte entrano in ca-sa dei soldati, dei predatori, emen-tre costoro (così sta scritto) «porta-no via ogni mio avere, mi accorgodi giacere sul pavimento del miostudio. Tutto pare normale tranneche la mia testa si trova staccata afianco delmio corpo, per poi roto-lare vicino ai miei piedi. La Realtàgiunge nuda e cruda, e con un bri-vido,poco prima dell’alba. È la Si-gnora Tohil a chinarsi su di me, ea rimettere la mia testa al suo po-sto». Sembra chiaro: ci troviamodinanzi a una scena surrealista trale più tipiche, a una sequenza allamaniera delle primissime pellico-le del Grande Spagnolo e insom-ma a una ammissione di correitàa quel movimento. C’è, dolorosa-mente percussivo, il fantasma de-

gli orrori e dei terrori del secoloscorso che il poeta ha ben cono-sciuto, e ci sono il sogno, la piega-tura grottesca e a volte comica ad-dirittura, la visione netta di unosmembramento del corpo che siaccompagna a quello, non menolacerante, dell’io. Ma poi, e al con-tempo, c’è il desiderio dell’alba, ilbisogno struggente della ricompo-sizione, dell’avvento di una solari-tà che ricompatti il soggetto e lacomunità dopo «il sonno delle no-stre generazioni».

Sotto tale aspetto parlavo primadimilitanza e anzi direi che in nes-sun altro poeta più che in Kemenysi coglie questo nodo complessotanto simile a unanobile, produtti-va contraddizione: la presa d’atto,da un lato, della condizione inelut-tabile e avventurosa di una postre-mae strematamodernità e, dall’al-tro, la nostalgia dell’unità perdu-ta. Si potrebbe riassumere in unaformula (forse grossolana alla paridi ogni formula) che Kemeny nonpuò non oscillare (o, anzi meglio,

è costretto a farlo) tra Bellezza eOrrore – dove l’Orrore viene indi-cato nel culto scellerato della vani-tà, dell’esibizionismo, dell’egoi-smo sociale e della vile rassegna-zione di massa all’empietà (ma sitratta beninteso, per lui, di empie-

tà contro la poesia),mentre la Bel-lezza (in specie per l’insigne stu-dioso di Dylan Thomas, di Pounde di Joyce) si mostra per frantumi,macerata e ferita.

E vale inoltre la pena di fermar-si, tra questi 107 incontri con laprosa e la poesia, su quello con laVerità, laddove essa, anche qui, «simanifesta comenostalgia di un fu-turo diverso, in grado di coprire ilmondo intero».Ma la Verità, quel-li che la rispettano, «la incontranoin forma di Menzogna o di Illusio-ne». E, lasciando la prosa per lospecchio dei versi, ecco che «il Ve-ro si vela così / in turbini e vortici/ lontano sia da chi vive / di frodee saccheggio / sia dall’onesto epersino / dal santo». Da tali e tan-te tensioni è impastato e sostenta-to questo libro scritto da un poetaostinatamente e nonostante (econtro) tutto felice.Né si può affer-mare, senza cadere in un vieto ple-onasmo, che l’opera ora data allestampe da Tomaso Kemeny ci ab-bia sorpreso.

KEMENY, BONITO, SCHIAVONE: TRE VARIAZIONI GENERAZIONALI

di MASSIMO RAFFAELI

Giorgio Orelli è un poeta chenon assomiglia a nessun altro: que-sta è la clausola esemplare del sag-gio introduttivo di Pier VincenzoMengaldo a Tutte le poesie (Monda-dori, «Oscar», pp. LXXIX+480, e

22.00) del poeta ticinese a cura otti-ma di Pietro De Marchi con la colla-borazione di Pietro Montorfani chefirma la bibliografia. Nativo di Airo-lo, nell’alto Ticino, Orelli è mancatonovantaduenne a Bellinzona nel no-vembre del 2013 dopo una vita ope-rosissima di insegnante, traduttore(splendide le sue versioni da Goetheche uscirono in un «Oscar» nel ’74),di critico militante e di studioso (quibasti alludere al suo primo volumeriassuntivo, Accertamenti verbali,Bompiani 1978) formatosi negli annidi guerra a Friburgo con GianfrancoContini, il quale, giusto nel ’44, ave-va corredato la prima plaquettedell’allievo, Né bianco né viola, diuna memorabile epistola in versi.

E tuttavia sia il magistero di Conti-ni, così vistosamente importante, siala collocazione geografica tra margi-ne e confine d’Italia e dunque virtual-mente debitoria di testualità più cen-trali, sia soprattutto una coscienzametalinguistica sovradeterminata (sisospettava da taluni che dentro ogniverso di Orelli, data la memoria som-mamente ricettiva, ce ne fosse sem-pre un altro e un altro ancora senzacheperò si cogliesse la tautologia con-tenuta in un simile sospetto), insom-ma il coagulo di indizi tanto numero-si aveva finito in un primo momentocon l’iscrivere nel senso comunel’idea che si trattasse di un poeta digrande dignità e rispettabilità ma pri-vo di una propria e aggettante fisiono-mia. Né lo aveva favorito la precoceinclusione nella celebre antologia diLuciano Anceschi, Linea lombarda(’52), che lo riconosceva tra i più pro-mettenti post-montalianima lo collo-cava ai bordi di una tradizione regio-nalista e, per così dire, «laghista».

Solo il tempoavrebbe detto che im-mediatamente alle spalle di Orellic’era sì Montale ma buon ultimo diuna risorgiva che, transitando da Pa-scoli, si originava dal grande invasodi Dante. E Orelli ci aveva messo delsuo serbandounapostura defilata, tu-telata da un rigoroso understatement,lui altissimo e sempre sorridente, lavoce calda eprofonda di uomodavve-ro alla mano, un professore delle me-die che nessuno a Bellinzona, permezzo secolo, aveva mai incontratose non in bicicletta. Lavorava con ri-serbo e accanimento, inseguiva il flus-so di varianti cautelandosi dal limiteinerte della ne varietur perché, dabuon continiano, riteneva più impor-tante il fare del già fatto e alla staticadella compiutezza anteponeva la vita-le dinamica della imperfezione. Con-tava, evidentemente, sui tempi lun-ghi e infatti la sua poesia è apprezza-bile nella sua piena originalità (vale adire nella sua intramata, concentrica,compattezza) soltanto se letta in re-trospettiva.

Orelli ha pubblicato in vita suaquattro raccolte appena, L’ora deltempo (del ’62, ma si tratta del collet-tore-antologia di tutta la produzionegiovanile), Sinopie (’77), Spiracoli(’89), Il collo dell’anitra (2001) cui orase ne aggiunge una quinta e inedita,L’orlo della vita, «un libro-finito nonfinito» secondo la parola dell’autore,cheDeMarchi ha il merito di produr-re riordinandolo fra i testi già antici-pati in riviste e miscellanee(2003-2013) e quelli, viceversa, affida-ti a redazioni non ufficialmente com-piute cui si sommano, in appendice,versioni da due tra i classici più ama-ti, Lucrezio e Goethe.

In una delle poesie remote, «Sera aBedretto», c’è già potenzialmente losviluppo di Orelli. Giocatori di carte

in una osteria di campagna e, fuori dilì, comepresenze correlative, delle ca-pre che ruzzano: «La capre, giuntequasi sulla soglia/ dell’osteria,/ siguardano lunatiche e pietose/ negliocchi, si provano la fronte/ con urtisordi». È quasi un idillio campestre,chiuso nel giro di pochi endecasillabiinteri o spezzati ma incisi, come pureamava dire, a graffito secco mentre illessico è scabro e appena velato daun pulviscolo allitterante, lo stessoche sarà sempre prelibato da Orellistudioso: qui sono evidenti le virtùprimordiali che Mengaldo riconoscenella «attenzione» alla realtà (una at-tenzione sottilmente decentrata e raf-freddata, ai limiti dello stupore) e inun senso di totale traslucida «imma-nenza». Quanto a ciò, le raccolte suc-cessive, specialmente Sinopie e Spira-coli, possono ampliare la gamma lin-guistica (dal dialetto materno di Pra-to Leventina, ai gerghi della società af-fluente, al tedesco), possono dilatarela metrica verso il calco esametrico o

la prosa ritmica, possono persino adi-re la forma-racconto (e si ricordino lenotevoli prove giovanili di Un giornodella vita, Lerici 1960) ma non posso-no mai recidere quella antica radicepercettiva: piante, animali, esseri uma-ni popolano la poesia di Orelli senzal’ambizionedi essere dei simboli odel-le allegorie, sonopresenze, figure, vociche si stagliano ad altezza d’uomo e simuovono nell’orizzonte d’attesa dellapura normalità.

Lo spazio e il tempo le immettonoal presente e nel campo acustico/visi-vo con una naturalezza da brividi pro-prio perché nulla (nessunametafisica,nessun credo, nessuna poetica prede-terminata) le vorrebbe mai lì. E si di-rebbe che esse esistono, o che torninoa farlo, soltanto come tracceo impron-te di una vita che è o che comunque èstata vera, dopo tutto enonostante tut-to. (L’orlo della vita, il titolo terminalee dantesco, dice per contrappasso,evocando il vuoto e l’abisso, l’immen-sità del non-essere che avrebbe potu-

to normalmente inghiottirle).Sembrerà strano ma se c’è un poe-

ta cui si addice il paradosso di Brecht,secondo cui le poesie politiche parla-no in realtà di alberi, costui è proprioOrelli che apertamente diffidava del-la vena oratoria e temeva «la rabbia, ilrisentimento» (comeaffermanegli ap-punti di Quasi un abbecedario, a curadi Yari Bernasconi, Casagrande2014). La sua poesia è politica nonperché da certi epigrammi escanopunte satiriche o sarcastiche, né per-ché ha voluto lui tante volte ribadired’essere un compagno di Renzo Tra-maglino (e cioè un partigianodell’eguaglianza), ma perché le pre-senze che si iscrivononella sua testua-lità, quelle voci, quei volti dileguanti,quei medesimi fruscìi vegetali o ani-mali, nella loro penuria, nella lorospoglia finitezza, testimoniano di unaperfezione che denuncia di per sé gliautomatismi percettivi, le gerarchiedi rango e di senso, di quanto si è av-vezzi a chiamare la normalità.

Nel suo libro terminale si leggonoal-cuni versi dal titolo «Farfalla»: «Sem-bra eccessivo l’odore/ di gelsomino incui vo ringioito/ da una farfalla/ bian-chissimachevòlita/ vantandosi di nul-la/ e in cima alla salita controvento/sbietta verso un giardino,/ si posa suuncorimbo/dimelo, si fa fiore».Orellisembra tornato allo stampo più anti-co, a una specie di idillio, l’immaginesegue il moto lieve quasi di un haiku,che il metro asseconda, la lingua assa-pora i nomi delle piante e si imbevedella loro patina in evidente stato disoddisfazione. Ma non c’è affatto idil-lio, semmai c’èun rito lento, inesorabi-le, di metamorfosi per cui la farfallache sembrava svagata e perduta a uncerto punto cambia direzione, trova ilproprio ramo, si confonde con un fio-re e, alla lettera, di colpo si fa fiore: nul-la lo lascerebbe immaginare ma que-sto è uno dei modi possibili, e tra i piùsingolari, per alludere senza alcuna re-torica a ciò cheungiorno fudetto il so-gno di una cosa.

«107 INCONTRI CON LA PROSA E LA POESIA» EDIZIONI DEL VERRI

La stremata modernitàdi Tomaso Kemeny,dove il reale è onirico

GERENZA

di C. B. M.

Stasi, mancanza di passioni, attesadell’attesa e resa all’illusione, perdita di senso,oppressione, annientamento della naturalità,espropriazione, esaurimento di forze e difiamma sono i mali che lasciano «qui» – ed è ilnostro qui ed ora – solo «l’errante el’impiccato». Così, con un rimando agli Arcanidei Tarocchi – il Matto o l’Eremita e l’Appeso –,si chiude il sonetto-introibo a Cassandra, unpaesaggio (Oèdipus, pp. 61, e 11,00), terzo librodi poesia di Ivan Schiavone (Roma, 1983). Afigure storicamente portatrici di moltisignificati, predisposte a interpretazioni plurali,fa da netto contraltare l’inconfutabiledeterminazione del luogo, l’incipitario «Qui»ribattuto in anafora all’inizio di ogni periodo. Ilpaesaggio è proprio quello, desolato, dei nostrigiorni, a noi spazialmente vicino, tanto daincluderci tutti; i mali sono quelli già orditi ecompiuti da anni di politiche imperialiste, le cuiconseguenze annuncia una voce di profetessasventurata, veritiera e non creduta. Il ricorso almito, assai mediato, è efficace: il libro chetestimonia e stigmatizza lo stato delle cose, e lapassività che vi concorre, muove da un

orizzonte potenzialmente condiviso, reagiscealla dispersione e alla decostruzione culturale eidentitaria attraverso la scelta di una figura,Cassandra, largamente nota e rappresentativa,e che per questo potrebbe ostacolare l’odiernoinfallibile divide et impera. Schiavone colloca,«monta» nel paesaggio testuale i cumuli dirovine che ci circondano, ma non vi si crogiola.Già dai volumi d’esordio, Enuegz (Onyx, 2010) eStrutture (Oèdipus, 2011), malgrado la radicalitàdella disillusione, si avverte uno sforzocostruttivo e morale, una tragicità non priva disfumature didattiche. Cassandra è una donnadi Ilio, per compagne ha le protagoniste delleTroiane, la tragedia pacifista di Euripide: voci diun popolo vinto raccontano la guerra chehanno patito come orfane, madri cui hannoucciso tutti i figli maschi, vedove e schiave.

E ancora una voce femminile, quella diAmelia Rosselli, è scelta per l’epigrafe, limpida,a questa Cassandra: «ma / non è vero che ildomani sia sicuro / e non è vero che l’oggi ècalmo».

Il tempo su cui si apre il libro è un post quem:«dopo di che (dopo che», è il verso incipitario,sospeso con parentesi non chiusa sulla paginadella prima sezione, Winterreise. Qui, dovesiamo, «tutto è bruciato / tutto è gelato / tutto èbloccato dalla neve». Alla disposizione a gradinidella prima parte, seguono la stesura compattae priva di versus dell’Automatismo delleCassandre, serrato, dolentissimo monologoaperto e chiuso da «oramai», spia di tardività, di«carogne ammassate», di «terra alla bocca», epoi i versi a scalini della Conta dei giorni,poemetto d’interrogazioni sgomente eansiogene, constatazione della «rottura dellinguaggio». A concludere un libro tuttocostruito con accortezza metrica e lessico perprogramma ampio, nove splendidi testi,traforati quasi avessero lacune e finementelegati in ripresa, offrono «per venature»,«attraverso la tramatura», Annotazioni pertornare ad abitare.

Il merito maggioredel «dantesco»Giorgio Orelli(lo coglie beneMengaldo)è l’attenzionealla realtà: realtàdei laghi maternie anche dell’abisso

L’idillio ticinesesi fa immanenza

Scene alla Buñuel,orrori del ’900,l’«io» smembratocome il corpo...Tra nostalgiedell’unità perdutae l’attesa militantedi un’albadi ricomposizione

IVAN SCHIAVONE IL SUO TERZO LIBRO

Cassandra qui,nel paesaggiodelle rovine di MARIA GRAZIA CALANDRONE

Arriva un giorno in cui l’amatochiama cane quello che fino a quelmomento, insieme, avevamo chiamatotavolo – ed è l’inizio delle «cosedisumane». Nel suo Alterazioni delritmo (Nottetempo, pp. 92, e 8,00)Vittorio Lingiardi non poteva dirlomeglio, non poteva esprimere megliolo straniamento di chi resta, quandol’Altro si chiama fuori dall’amorecondiviso, cambiando il nome stessodelle cose, a volte il nome stessodell’amore, che non era che questo: «semi amo ti amo / senza farmi più male».Perché gli amori cominciano amandonoi attraverso l’altro, continuanoquando amiamo l’altro attraverso dinoi, se grazie a lui abbiamo imparatoad amarci – e finiscono, se finiscono,quando smette la reciprocità intima edolce di questa cura. Qui addiritturaper un tradimento, chiamato col suonome. La precisione delle parole èdecisiva, nell’amore come neldisamore. Dare alle cose proprio ilnome che hanno, il nome proprio.Anche la malattia, anche l’alterazionedel ritmo cardiaco: è il solo organo maitrascurato, che si ammala. Il corpo,

«bestiola / che piange e mi consola», siribella ammalandosi – e un giorno sene andrà, sgancerà dalla «montagnaanimale» quei suoi 21 grammi d’anima,come «una grazia infantile» che esalada se stessa. Come ha fatto lei, ancora,anche in questo libro, come ha fatto lamadre. Rieccole, le mani della madre,le mani fragili e bianche della madremorente che anche Pippo Del Bono,nel suo coraggiosissimo Orchideeaccarezza, mostrandoci pure lui, senzala falsa ossessione contemporanea delprivato, quel tenerissimo, lungo,dignitoso addio a «pochi grammi dimadre sfinita». Le mani della madreche, quando è stato nostro il tempod’essere indifesi e fragili, citrattenevano dal precipitarenell’indifferenziato, nell’abbandono nelquale ogni vita è gettata nascendo –come scrive meravigliosamenteMassimo Recalcati –, ora sono le maniche noi teniamo e accarezziamo, lì,all’orlo semplice e tremendo tra la vitae la morte «che della vita è la vita piùforte». Quando il dolore si fa più feroce,Lingiardi attacca un ritmo regolare,leggero, da canzonetta: l’animasanguina e la bocca scandiscecantilene. Pensiamo a Sandro Penna e

ai suoi marinaretti: bianchi, ardenti,ossessivi. Pensiamo a come batta iltempo e le rime Caproni, nel suocapolavoro Il seme del piangere,anch’esso sulla morte della madre:«canzonetta: che sembri scritta pergioco / e lo sei piangendo: e confuoco». Certo, questi orfani che fanno ipoeti cantano lieve perché hanno ilpudore di non appesantire, ma ancheperché il suono infantile, da filastroccae da ninnananna, ci fa sentire menosoli, davanti a una perdita tanto remotae cruciale: le mani della madrevengono sostituite dal battito leggero dichi resta, il ritmo viene mantenutoregolare dalla volontà di ricostituire ilcanto originario del battito del cuore,materno e proprio, nonostante le suealterazioni e adulterazioni. Nonostantela solitudine. Ad apertura dellapenultima sezione, Lingiardi citaWhitehead: «Religione è ciò che uno fadella propria solitudine». Religionedella parola, anche, come Celan oMandel’stam nei rispettivi precipiziumani di Shoah e gulag, religione delsilenzio di una morte: minima per ilmondo, massima per chi è sprofondatoin essa, l’ha conosciuta tanto da trovarela voce per cantarla. Piano.

«TUTTE LE POESIE» DEGLI OSCAR MONDADORI, A CURA DI PIETRO DE MARCHI

POESIA

di CECILIA BELLO MINCIACCHI

Per lavoro Iddio «prosciuga le anime», lamamma «mangia i resti» – fredda e cieca come«unpesce / senz’occhi» –, il padre «nessuno lo ve-de», e il risultato è un vocativo, un soffio, sospesotra nostalgia, rammarico, constatazione: «oh miosogno fetale // unica porta fecale».

Il nuovo libro di poesia di Vito M. Bonito iniziadal suo centro, da questa rima impietosa, fetale :fecale, coagulo di suono e di senso, paragram-ma-clausola della sezione felicità coniugale, il cuititolo, in una terna immedicabile, con quella ri-ma si accorda già sulla soglia. E così congiunzio-ne, gestazione e deiezione si riverberano, legatein una catena che perpetua infelicità. A ribadirequanta forza e quanta evidenza possegga il vinco-lo istituito dalla rima è già Bonito in uno studiodedicato a Pascoli, Il canto della crisalide (Clueb,1999): «la rimamostra la verità d’una parola nellaverità di un’altra parola». Verità è termine diffici-le, anzi scomodo, disturbante per la sua assolu-tezza, eppure pieno di sostanza, non aggirabile; eBonito è un poeta che predilige l’effetto di veritàall’effetto di realtà, come si evince da suo recentesaggio sul cinema di Herzog e di Korine.

Apparso per le eleganti edizioni del Ponte delSale di Rovigo, Soffiati via (pp. 119, e 15,00), conle sueminime favole nere, con le sue voci di bam-bini «sottili», «bambini cromati», assassinati o as-sassini, comunque volati, soffiati, e con le sue«statuine di sangue», vira i colori dal reale al vero.È un vero esistenziale e psichico, quello attintodaBonito, un vero intimo, d’abisso, tramato di or-rore per il niente su cui la vita pencola, il nienteda cui proviene e a cui fatalmente torna. Il testod’apertura, «il balcone» del libro, si apre nel pie-no di un gerundio: «morendo / si va infrantumi… // niente buio niente barlumi», dovenonpoca suggestione crea l’eco – volontaria o in-volontaria che sia – di una parola in rima che ap-partiene al Balcone montaliano, «La vita che dàbarlumi»… Nella chiusa, poi, il testo di Bonitoprecipita in una verticale che non lascia spiragli,

semplice, chiara, assertiva: «niente muove da unmotivo / niente muore / né rimane vivo».

Poche pagine dopo, «le persone piccole di san-gue / respiranomale // fiori vivi / senz’aria // il soleli trema / fino alla fine //mehr licht / mehr nicht »:qui l’inconsueto uso transitivo del verbo ‘tremare’aggiunge crudeltà all’agonia, perché la agiscedall’esterno (e il tremore è segno di inermità, con-cetto caro da sempre alla poetica di Bonito), e ren-depiùdesolanti e coincidenti leduediscusseversio-ni del commiato di Goethe: più luce, più niente –non più. Nodo del libro è proprio il «non più», e il«cosa restadeimorti». Lesituazioni, le storie stilizza-te, le voci di Soffiati via sono postume, sono quelledimorti che «“si alzano tra imorti” e recitanocomeseniente fosse», si leggenell’epigrafe daKantor cheapre la prima sezione, luce eterna.

Sebbene condizioni e soggetti siano presenti,qui, in limine mortis anzi più diffusamente postmortem – «ora che sono morto» –, questo è un li-bro pieno di materia: vi premono la fisicità dei«corpicini» e il soffio che va via, il tremito reitera-to, l’ardore del fuoco, la piccolezza tangibile datadall’affollamento dei diminutivi subdolamentegraziosi, quei vestitini, lumini, manine, vocine,ossicini, uccellini. Tutto concorre a diffonderepalpabilità, acuzie dei sensi e loro (e nostro) sgo-mento. Anche la mancanza di una possibile so-spensione, di un latino demorari, è desolatamen-te fisica: «nessuna dimora nessuna».

La sintassi dell’infanzia – «giochiamo che cadi// che nessunomi aiuta / amorire giochiamo // cheio /muoio / sonomorto / ora e ti annuso» – non sor-ride, i versi sono brevissimi, le parole essenziali escarne, imbarazzanti per la loro nudità, circondatedal bianco della pagina come da un campo inneva-to – A distanza di neve (Book, 1997) è uno dei primititoli di Bonito che da vent’anni (è nato nel 1963 aFoggia, vive a Bologna) investe la poesia del biancoe del gelo dei lutti, o arde nella Fioritura del sangue(Perrone, 2010). Se alle spalle c’è anche scritturami-stica, qui l’estasi manca, «non c’è paradiso» né con-forto, negato ogni diritto all’integrità della persona:«habeas corpus / nostro infinito svanire».

VITTORIO LINGIARDI

Ciò che ognunofa della propriasolitudine: versiper «Alterazionidel ritmo»non solo cardiaco

ORELLI

VITO M. BONITO «SOFFIATI VIA» NELLE EDIZIONI DEL PONTE DEL SALE

Minime favole nere con vocidi bambini sottili e cromati

In copertina di «Alias-D»:George Grosz, «Cainoo Hitler all’inferno», 1944New York, David Nolan

Carlo Carrà,«Il bove», 1932,Ferrara, Museo d’ArteModernae Contemporanea«Filippo De Pisis»

Enrico Baj, «La favoritadel presidente», 1992

Il manifestodirettore responsabile:Norma Rangeri

a cura diRoberto AndreottiFrancesca BorrelliFederico De Melis

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(3)ALIAS DOMENICA18 OTTOBRE 2015

di ENZO DI MAURO

Se qualcuno dovesse pigliar-si vaghezza di chiedere all’autore,per puro capriccio, quali tra que-sti107 incontri con la prosa e la po-esia (Edizioni del Verri, pp. 168, e13,00) potrebbero essere ricondu-cibili a un del tutto ipotetico prin-cipio di realtà ovvero o anche a unpersonaggio che sia o che sia statonel mondo in carne e ossa, egli ra-gionevolmente risponderebbesenza esitare: «Che domanda! Èsemplice: con Beethoven, Ovidio,Garcìa Lorca e Salvador Dalì». Epoi, dopo una brevissima pausa econ la medesima determinazione,aggiungerebbe: «E con la DonnaBarbuta». Di sicuro Tomaso Ke-meny (Budapest, classe 1938)ometterebbe di ricordare che nelsuo libro c’è un incontro con sestesso o con la Realtà, la quale haqui una grana schiettamente sur-realista, onirica, quasi di giovani-le, sorgivo empito novecentesco,

così come lo abbiamo conosciutoe amato nelle arti, nel cinema enella stessa letteratura, testimo-nianza viva ed emozionante diun’epoca in cui la pratica del con-flitto pareva necessaria alla creati-vità. Kemeny – al quale, come al-trovemi pare di aver ricordato, ca-pitò di incontrare sul lungomaredi una città della Costa Azzurra,egli poco più che adolescente el’altro già vecchio e coronato digloria, il grande Breton: un simbo-lico battesimodel fuoco, si potreb-be dire il segnavia di un destinomilitante – è stato e continua a es-sere il frutto più prezioso di quellatradizione modernista che lui, nelcorso degli anni, nel corpo dellascrittura, ha saputo variare e mo-dulare con la destrezza di unmae-stro che insieme è riuscito semprea rimanere un fraterno compagnodi strada (ma lui, certo, preferireb-be di lotta, di resistenza, tanto cie-ca come l’amore è la sua fede nel-la poesia e nella «gioventù eterna

/ del mondo»: che sono poi, perquesto poeta, una sola cosa, un so-lo desiderio).

La Realtà, si diceva. Ma la Real-tà, dopotutto, vi si presenta, qui,sogno essa stessa, a scompigliareil sogno. Una notte entrano in ca-sa dei soldati, dei predatori, emen-tre costoro (così sta scritto) «porta-no via ogni mio avere, mi accorgodi giacere sul pavimento del miostudio. Tutto pare normale tranneche la mia testa si trova staccata afianco delmio corpo, per poi roto-lare vicino ai miei piedi. La Realtàgiunge nuda e cruda, e con un bri-vido,poco prima dell’alba. È la Si-gnora Tohil a chinarsi su di me, ea rimettere la mia testa al suo po-sto». Sembra chiaro: ci troviamodinanzi a una scena surrealista trale più tipiche, a una sequenza allamaniera delle primissime pellico-le del Grande Spagnolo e insom-ma a una ammissione di correitàa quel movimento. C’è, dolorosa-mente percussivo, il fantasma de-

gli orrori e dei terrori del secoloscorso che il poeta ha ben cono-sciuto, e ci sono il sogno, la piega-tura grottesca e a volte comica ad-dirittura, la visione netta di unosmembramento del corpo che siaccompagna a quello, non menolacerante, dell’io. Ma poi, e al con-tempo, c’è il desiderio dell’alba, ilbisogno struggente della ricompo-sizione, dell’avvento di una solari-tà che ricompatti il soggetto e lacomunità dopo «il sonno delle no-stre generazioni».

Sotto tale aspetto parlavo primadimilitanza e anzi direi che in nes-sun altro poeta più che in Kemenysi coglie questo nodo complessotanto simile a unanobile, produtti-va contraddizione: la presa d’atto,da un lato, della condizione inelut-tabile e avventurosa di una postre-mae strematamodernità e, dall’al-tro, la nostalgia dell’unità perdu-ta. Si potrebbe riassumere in unaformula (forse grossolana alla paridi ogni formula) che Kemeny nonpuò non oscillare (o, anzi meglio,

è costretto a farlo) tra Bellezza eOrrore – dove l’Orrore viene indi-cato nel culto scellerato della vani-tà, dell’esibizionismo, dell’egoi-smo sociale e della vile rassegna-zione di massa all’empietà (ma sitratta beninteso, per lui, di empie-

tà contro la poesia),mentre la Bel-lezza (in specie per l’insigne stu-dioso di Dylan Thomas, di Pounde di Joyce) si mostra per frantumi,macerata e ferita.

E vale inoltre la pena di fermar-si, tra questi 107 incontri con laprosa e la poesia, su quello con laVerità, laddove essa, anche qui, «simanifesta comenostalgia di un fu-turo diverso, in grado di coprire ilmondo intero».Ma la Verità, quel-li che la rispettano, «la incontranoin forma di Menzogna o di Illusio-ne». E, lasciando la prosa per lospecchio dei versi, ecco che «il Ve-ro si vela così / in turbini e vortici/ lontano sia da chi vive / di frodee saccheggio / sia dall’onesto epersino / dal santo». Da tali e tan-te tensioni è impastato e sostenta-to questo libro scritto da un poetaostinatamente e nonostante (econtro) tutto felice.Né si può affer-mare, senza cadere in un vieto ple-onasmo, che l’opera ora data allestampe da Tomaso Kemeny ci ab-bia sorpreso.

KEMENY, BONITO, SCHIAVONE: TRE VARIAZIONI GENERAZIONALI

di MASSIMO RAFFAELI

Giorgio Orelli è un poeta chenon assomiglia a nessun altro: que-sta è la clausola esemplare del sag-gio introduttivo di Pier VincenzoMengaldo a Tutte le poesie (Monda-dori, «Oscar», pp. LXXIX+480, e

22.00) del poeta ticinese a cura otti-ma di Pietro De Marchi con la colla-borazione di Pietro Montorfani chefirma la bibliografia. Nativo di Airo-lo, nell’alto Ticino, Orelli è mancatonovantaduenne a Bellinzona nel no-vembre del 2013 dopo una vita ope-rosissima di insegnante, traduttore(splendide le sue versioni da Goetheche uscirono in un «Oscar» nel ’74),di critico militante e di studioso (quibasti alludere al suo primo volumeriassuntivo, Accertamenti verbali,Bompiani 1978) formatosi negli annidi guerra a Friburgo con GianfrancoContini, il quale, giusto nel ’44, ave-va corredato la prima plaquettedell’allievo, Né bianco né viola, diuna memorabile epistola in versi.

E tuttavia sia il magistero di Conti-ni, così vistosamente importante, siala collocazione geografica tra margi-ne e confine d’Italia e dunque virtual-mente debitoria di testualità più cen-trali, sia soprattutto una coscienzametalinguistica sovradeterminata (sisospettava da taluni che dentro ogniverso di Orelli, data la memoria som-mamente ricettiva, ce ne fosse sem-pre un altro e un altro ancora senzacheperò si cogliesse la tautologia con-tenuta in un simile sospetto), insom-ma il coagulo di indizi tanto numero-si aveva finito in un primo momentocon l’iscrivere nel senso comunel’idea che si trattasse di un poeta digrande dignità e rispettabilità ma pri-vo di una propria e aggettante fisiono-mia. Né lo aveva favorito la precoceinclusione nella celebre antologia diLuciano Anceschi, Linea lombarda(’52), che lo riconosceva tra i più pro-mettenti post-montalianima lo collo-cava ai bordi di una tradizione regio-nalista e, per così dire, «laghista».

Solo il tempoavrebbe detto che im-mediatamente alle spalle di Orellic’era sì Montale ma buon ultimo diuna risorgiva che, transitando da Pa-scoli, si originava dal grande invasodi Dante. E Orelli ci aveva messo delsuo serbandounapostura defilata, tu-telata da un rigoroso understatement,lui altissimo e sempre sorridente, lavoce calda eprofonda di uomodavve-ro alla mano, un professore delle me-die che nessuno a Bellinzona, permezzo secolo, aveva mai incontratose non in bicicletta. Lavorava con ri-serbo e accanimento, inseguiva il flus-so di varianti cautelandosi dal limiteinerte della ne varietur perché, dabuon continiano, riteneva più impor-tante il fare del già fatto e alla staticadella compiutezza anteponeva la vita-le dinamica della imperfezione. Con-tava, evidentemente, sui tempi lun-ghi e infatti la sua poesia è apprezza-bile nella sua piena originalità (vale adire nella sua intramata, concentrica,compattezza) soltanto se letta in re-trospettiva.

Orelli ha pubblicato in vita suaquattro raccolte appena, L’ora deltempo (del ’62, ma si tratta del collet-tore-antologia di tutta la produzionegiovanile), Sinopie (’77), Spiracoli(’89), Il collo dell’anitra (2001) cui orase ne aggiunge una quinta e inedita,L’orlo della vita, «un libro-finito nonfinito» secondo la parola dell’autore,cheDeMarchi ha il merito di produr-re riordinandolo fra i testi già antici-pati in riviste e miscellanee(2003-2013) e quelli, viceversa, affida-ti a redazioni non ufficialmente com-piute cui si sommano, in appendice,versioni da due tra i classici più ama-ti, Lucrezio e Goethe.

In una delle poesie remote, «Sera aBedretto», c’è già potenzialmente losviluppo di Orelli. Giocatori di carte

in una osteria di campagna e, fuori dilì, comepresenze correlative, delle ca-pre che ruzzano: «La capre, giuntequasi sulla soglia/ dell’osteria,/ siguardano lunatiche e pietose/ negliocchi, si provano la fronte/ con urtisordi». È quasi un idillio campestre,chiuso nel giro di pochi endecasillabiinteri o spezzati ma incisi, come pureamava dire, a graffito secco mentre illessico è scabro e appena velato daun pulviscolo allitterante, lo stessoche sarà sempre prelibato da Orellistudioso: qui sono evidenti le virtùprimordiali che Mengaldo riconoscenella «attenzione» alla realtà (una at-tenzione sottilmente decentrata e raf-freddata, ai limiti dello stupore) e inun senso di totale traslucida «imma-nenza». Quanto a ciò, le raccolte suc-cessive, specialmente Sinopie e Spira-coli, possono ampliare la gamma lin-guistica (dal dialetto materno di Pra-to Leventina, ai gerghi della società af-fluente, al tedesco), possono dilatarela metrica verso il calco esametrico o

la prosa ritmica, possono persino adi-re la forma-racconto (e si ricordino lenotevoli prove giovanili di Un giornodella vita, Lerici 1960) ma non posso-no mai recidere quella antica radicepercettiva: piante, animali, esseri uma-ni popolano la poesia di Orelli senzal’ambizionedi essere dei simboli odel-le allegorie, sonopresenze, figure, vociche si stagliano ad altezza d’uomo e simuovono nell’orizzonte d’attesa dellapura normalità.

Lo spazio e il tempo le immettonoal presente e nel campo acustico/visi-vo con una naturalezza da brividi pro-prio perché nulla (nessunametafisica,nessun credo, nessuna poetica prede-terminata) le vorrebbe mai lì. E si di-rebbe che esse esistono, o che torninoa farlo, soltanto come tracceo impron-te di una vita che è o che comunque èstata vera, dopo tutto enonostante tut-to. (L’orlo della vita, il titolo terminalee dantesco, dice per contrappasso,evocando il vuoto e l’abisso, l’immen-sità del non-essere che avrebbe potu-

to normalmente inghiottirle).Sembrerà strano ma se c’è un poe-

ta cui si addice il paradosso di Brecht,secondo cui le poesie politiche parla-no in realtà di alberi, costui è proprioOrelli che apertamente diffidava del-la vena oratoria e temeva «la rabbia, ilrisentimento» (comeaffermanegli ap-punti di Quasi un abbecedario, a curadi Yari Bernasconi, Casagrande2014). La sua poesia è politica nonperché da certi epigrammi escanopunte satiriche o sarcastiche, né per-ché ha voluto lui tante volte ribadired’essere un compagno di Renzo Tra-maglino (e cioè un partigianodell’eguaglianza), ma perché le pre-senze che si iscrivononella sua testua-lità, quelle voci, quei volti dileguanti,quei medesimi fruscìi vegetali o ani-mali, nella loro penuria, nella lorospoglia finitezza, testimoniano di unaperfezione che denuncia di per sé gliautomatismi percettivi, le gerarchiedi rango e di senso, di quanto si è av-vezzi a chiamare la normalità.

Nel suo libro terminale si leggonoal-cuni versi dal titolo «Farfalla»: «Sem-bra eccessivo l’odore/ di gelsomino incui vo ringioito/ da una farfalla/ bian-chissimachevòlita/ vantandosi di nul-la/ e in cima alla salita controvento/sbietta verso un giardino,/ si posa suuncorimbo/dimelo, si fa fiore».Orellisembra tornato allo stampo più anti-co, a una specie di idillio, l’immaginesegue il moto lieve quasi di un haiku,che il metro asseconda, la lingua assa-pora i nomi delle piante e si imbevedella loro patina in evidente stato disoddisfazione. Ma non c’è affatto idil-lio, semmai c’èun rito lento, inesorabi-le, di metamorfosi per cui la farfallache sembrava svagata e perduta a uncerto punto cambia direzione, trova ilproprio ramo, si confonde con un fio-re e, alla lettera, di colpo si fa fiore: nul-la lo lascerebbe immaginare ma que-sto è uno dei modi possibili, e tra i piùsingolari, per alludere senza alcuna re-torica a ciò cheungiorno fudetto il so-gno di una cosa.

«107 INCONTRI CON LA PROSA E LA POESIA» EDIZIONI DEL VERRI

La stremata modernitàdi Tomaso Kemeny,dove il reale è onirico

GERENZA

di C. B. M.

Stasi, mancanza di passioni, attesadell’attesa e resa all’illusione, perdita di senso,oppressione, annientamento della naturalità,espropriazione, esaurimento di forze e difiamma sono i mali che lasciano «qui» – ed è ilnostro qui ed ora – solo «l’errante el’impiccato». Così, con un rimando agli Arcanidei Tarocchi – il Matto o l’Eremita e l’Appeso –,si chiude il sonetto-introibo a Cassandra, unpaesaggio (Oèdipus, pp. 61, e 11,00), terzo librodi poesia di Ivan Schiavone (Roma, 1983). Afigure storicamente portatrici di moltisignificati, predisposte a interpretazioni plurali,fa da netto contraltare l’inconfutabiledeterminazione del luogo, l’incipitario «Qui»ribattuto in anafora all’inizio di ogni periodo. Ilpaesaggio è proprio quello, desolato, dei nostrigiorni, a noi spazialmente vicino, tanto daincluderci tutti; i mali sono quelli già orditi ecompiuti da anni di politiche imperialiste, le cuiconseguenze annuncia una voce di profetessasventurata, veritiera e non creduta. Il ricorso almito, assai mediato, è efficace: il libro chetestimonia e stigmatizza lo stato delle cose, e lapassività che vi concorre, muove da un

orizzonte potenzialmente condiviso, reagiscealla dispersione e alla decostruzione culturale eidentitaria attraverso la scelta di una figura,Cassandra, largamente nota e rappresentativa,e che per questo potrebbe ostacolare l’odiernoinfallibile divide et impera. Schiavone colloca,«monta» nel paesaggio testuale i cumuli dirovine che ci circondano, ma non vi si crogiola.Già dai volumi d’esordio, Enuegz (Onyx, 2010) eStrutture (Oèdipus, 2011), malgrado la radicalitàdella disillusione, si avverte uno sforzocostruttivo e morale, una tragicità non priva disfumature didattiche. Cassandra è una donnadi Ilio, per compagne ha le protagoniste delleTroiane, la tragedia pacifista di Euripide: voci diun popolo vinto raccontano la guerra chehanno patito come orfane, madri cui hannoucciso tutti i figli maschi, vedove e schiave.

E ancora una voce femminile, quella diAmelia Rosselli, è scelta per l’epigrafe, limpida,a questa Cassandra: «ma / non è vero che ildomani sia sicuro / e non è vero che l’oggi ècalmo».

Il tempo su cui si apre il libro è un post quem:«dopo di che (dopo che», è il verso incipitario,sospeso con parentesi non chiusa sulla paginadella prima sezione, Winterreise. Qui, dovesiamo, «tutto è bruciato / tutto è gelato / tutto èbloccato dalla neve». Alla disposizione a gradinidella prima parte, seguono la stesura compattae priva di versus dell’Automatismo delleCassandre, serrato, dolentissimo monologoaperto e chiuso da «oramai», spia di tardività, di«carogne ammassate», di «terra alla bocca», epoi i versi a scalini della Conta dei giorni,poemetto d’interrogazioni sgomente eansiogene, constatazione della «rottura dellinguaggio». A concludere un libro tuttocostruito con accortezza metrica e lessico perprogramma ampio, nove splendidi testi,traforati quasi avessero lacune e finementelegati in ripresa, offrono «per venature»,«attraverso la tramatura», Annotazioni pertornare ad abitare.

Il merito maggioredel «dantesco»Giorgio Orelli(lo coglie beneMengaldo)è l’attenzionealla realtà: realtàdei laghi maternie anche dell’abisso

L’idillio ticinesesi fa immanenza

Scene alla Buñuel,orrori del ’900,l’«io» smembratocome il corpo...Tra nostalgiedell’unità perdutae l’attesa militantedi un’albadi ricomposizione

IVAN SCHIAVONE IL SUO TERZO LIBRO

Cassandra qui,nel paesaggiodelle rovine di MARIA GRAZIA CALANDRONE

Arriva un giorno in cui l’amatochiama cane quello che fino a quelmomento, insieme, avevamo chiamatotavolo – ed è l’inizio delle «cosedisumane». Nel suo Alterazioni delritmo (Nottetempo, pp. 92, e 8,00)Vittorio Lingiardi non poteva dirlomeglio, non poteva esprimere megliolo straniamento di chi resta, quandol’Altro si chiama fuori dall’amorecondiviso, cambiando il nome stessodelle cose, a volte il nome stessodell’amore, che non era che questo: «semi amo ti amo / senza farmi più male».Perché gli amori cominciano amandonoi attraverso l’altro, continuanoquando amiamo l’altro attraverso dinoi, se grazie a lui abbiamo imparatoad amarci – e finiscono, se finiscono,quando smette la reciprocità intima edolce di questa cura. Qui addiritturaper un tradimento, chiamato col suonome. La precisione delle parole èdecisiva, nell’amore come neldisamore. Dare alle cose proprio ilnome che hanno, il nome proprio.Anche la malattia, anche l’alterazionedel ritmo cardiaco: è il solo organo maitrascurato, che si ammala. Il corpo,

«bestiola / che piange e mi consola», siribella ammalandosi – e un giorno sene andrà, sgancerà dalla «montagnaanimale» quei suoi 21 grammi d’anima,come «una grazia infantile» che esalada se stessa. Come ha fatto lei, ancora,anche in questo libro, come ha fatto lamadre. Rieccole, le mani della madre,le mani fragili e bianche della madremorente che anche Pippo Del Bono,nel suo coraggiosissimo Orchideeaccarezza, mostrandoci pure lui, senzala falsa ossessione contemporanea delprivato, quel tenerissimo, lungo,dignitoso addio a «pochi grammi dimadre sfinita». Le mani della madreche, quando è stato nostro il tempod’essere indifesi e fragili, citrattenevano dal precipitarenell’indifferenziato, nell’abbandono nelquale ogni vita è gettata nascendo –come scrive meravigliosamenteMassimo Recalcati –, ora sono le maniche noi teniamo e accarezziamo, lì,all’orlo semplice e tremendo tra la vitae la morte «che della vita è la vita piùforte». Quando il dolore si fa più feroce,Lingiardi attacca un ritmo regolare,leggero, da canzonetta: l’animasanguina e la bocca scandiscecantilene. Pensiamo a Sandro Penna e

ai suoi marinaretti: bianchi, ardenti,ossessivi. Pensiamo a come batta iltempo e le rime Caproni, nel suocapolavoro Il seme del piangere,anch’esso sulla morte della madre:«canzonetta: che sembri scritta pergioco / e lo sei piangendo: e confuoco». Certo, questi orfani che fanno ipoeti cantano lieve perché hanno ilpudore di non appesantire, ma ancheperché il suono infantile, da filastroccae da ninnananna, ci fa sentire menosoli, davanti a una perdita tanto remotae cruciale: le mani della madrevengono sostituite dal battito leggero dichi resta, il ritmo viene mantenutoregolare dalla volontà di ricostituire ilcanto originario del battito del cuore,materno e proprio, nonostante le suealterazioni e adulterazioni. Nonostantela solitudine. Ad apertura dellapenultima sezione, Lingiardi citaWhitehead: «Religione è ciò che uno fadella propria solitudine». Religionedella parola, anche, come Celan oMandel’stam nei rispettivi precipiziumani di Shoah e gulag, religione delsilenzio di una morte: minima per ilmondo, massima per chi è sprofondatoin essa, l’ha conosciuta tanto da trovarela voce per cantarla. Piano.

«TUTTE LE POESIE» DEGLI OSCAR MONDADORI, A CURA DI PIETRO DE MARCHI

POESIA

di CECILIA BELLO MINCIACCHI

Per lavoro Iddio «prosciuga le anime», lamamma «mangia i resti» – fredda e cieca come«unpesce / senz’occhi» –, il padre «nessuno lo ve-de», e il risultato è un vocativo, un soffio, sospesotra nostalgia, rammarico, constatazione: «oh miosogno fetale // unica porta fecale».

Il nuovo libro di poesia di Vito M. Bonito iniziadal suo centro, da questa rima impietosa, fetale :fecale, coagulo di suono e di senso, paragram-ma-clausola della sezione felicità coniugale, il cuititolo, in una terna immedicabile, con quella ri-ma si accorda già sulla soglia. E così congiunzio-ne, gestazione e deiezione si riverberano, legatein una catena che perpetua infelicità. A ribadirequanta forza e quanta evidenza possegga il vinco-lo istituito dalla rima è già Bonito in uno studiodedicato a Pascoli, Il canto della crisalide (Clueb,1999): «la rimamostra la verità d’una parola nellaverità di un’altra parola». Verità è termine diffici-le, anzi scomodo, disturbante per la sua assolu-tezza, eppure pieno di sostanza, non aggirabile; eBonito è un poeta che predilige l’effetto di veritàall’effetto di realtà, come si evince da suo recentesaggio sul cinema di Herzog e di Korine.

Apparso per le eleganti edizioni del Ponte delSale di Rovigo, Soffiati via (pp. 119, e 15,00), conle sueminime favole nere, con le sue voci di bam-bini «sottili», «bambini cromati», assassinati o as-sassini, comunque volati, soffiati, e con le sue«statuine di sangue», vira i colori dal reale al vero.È un vero esistenziale e psichico, quello attintodaBonito, un vero intimo, d’abisso, tramato di or-rore per il niente su cui la vita pencola, il nienteda cui proviene e a cui fatalmente torna. Il testod’apertura, «il balcone» del libro, si apre nel pie-no di un gerundio: «morendo / si va infrantumi… // niente buio niente barlumi», dovenonpoca suggestione crea l’eco – volontaria o in-volontaria che sia – di una parola in rima che ap-partiene al Balcone montaliano, «La vita che dàbarlumi»… Nella chiusa, poi, il testo di Bonitoprecipita in una verticale che non lascia spiragli,

semplice, chiara, assertiva: «niente muove da unmotivo / niente muore / né rimane vivo».

Poche pagine dopo, «le persone piccole di san-gue / respiranomale // fiori vivi / senz’aria // il soleli trema / fino alla fine //mehr licht / mehr nicht »:qui l’inconsueto uso transitivo del verbo ‘tremare’aggiunge crudeltà all’agonia, perché la agiscedall’esterno (e il tremore è segno di inermità, con-cetto caro da sempre alla poetica di Bonito), e ren-depiùdesolanti e coincidenti leduediscusseversio-ni del commiato di Goethe: più luce, più niente –non più. Nodo del libro è proprio il «non più», e il«cosa restadeimorti». Lesituazioni, le storie stilizza-te, le voci di Soffiati via sono postume, sono quelledimorti che «“si alzano tra imorti” e recitanocomeseniente fosse», si leggenell’epigrafe daKantor cheapre la prima sezione, luce eterna.

Sebbene condizioni e soggetti siano presenti,qui, in limine mortis anzi più diffusamente postmortem – «ora che sono morto» –, questo è un li-bro pieno di materia: vi premono la fisicità dei«corpicini» e il soffio che va via, il tremito reitera-to, l’ardore del fuoco, la piccolezza tangibile datadall’affollamento dei diminutivi subdolamentegraziosi, quei vestitini, lumini, manine, vocine,ossicini, uccellini. Tutto concorre a diffonderepalpabilità, acuzie dei sensi e loro (e nostro) sgo-mento. Anche la mancanza di una possibile so-spensione, di un latino demorari, è desolatamen-te fisica: «nessuna dimora nessuna».

La sintassi dell’infanzia – «giochiamo che cadi// che nessunomi aiuta / amorire giochiamo // cheio /muoio / sonomorto / ora e ti annuso» – non sor-ride, i versi sono brevissimi, le parole essenziali escarne, imbarazzanti per la loro nudità, circondatedal bianco della pagina come da un campo inneva-to – A distanza di neve (Book, 1997) è uno dei primititoli di Bonito che da vent’anni (è nato nel 1963 aFoggia, vive a Bologna) investe la poesia del biancoe del gelo dei lutti, o arde nella Fioritura del sangue(Perrone, 2010). Se alle spalle c’è anche scritturami-stica, qui l’estasi manca, «non c’è paradiso» né con-forto, negato ogni diritto all’integrità della persona:«habeas corpus / nostro infinito svanire».

VITTORIO LINGIARDI

Ciò che ognunofa della propriasolitudine: versiper «Alterazionidel ritmo»non solo cardiaco

ORELLI

VITO M. BONITO «SOFFIATI VIA» NELLE EDIZIONI DEL PONTE DEL SALE

Minime favole nere con vocidi bambini sottili e cromati

In copertina di «Alias-D»:George Grosz, «Cainoo Hitler all’inferno», 1944New York, David Nolan

Carlo Carrà,«Il bove», 1932,Ferrara, Museo d’ArteModernae Contemporanea«Filippo De Pisis»

Enrico Baj, «La favoritadel presidente», 1992

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a cura diRoberto AndreottiFrancesca BorrelliFederico De Melis

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(4) ALIAS DOMENICA18 OTTOBRE 2015

di ANDREA COLOMBO

Nel suo ultimo romanzo, L’in-ganno, Thomas Mann racconta lavicenda tragica e grottesca di unadonna che ha fatto della prolificitàun culto e che, quando perde lapossibilità di procreare, perde conciò anche ogni ragione di vita. Si-no a illudersi, quando il sangue tor-na a sgorgare, che si tratti di un mi-racolo, mentre è il segno della ma-lattia destinata a ucciderla. Chissàse Abraham Yehoshua aveva inmente, per contrasto, anche que-sto modello quando ha deciso dicentrare il suo nuovo romanzo, Lacomparsa (traduzione di Alessan-dra Shomroni, in uscita mercoledìper Einaudi, pp. 260, e 20.00) suuna donna, Noga, che alla fertilitànon ha mai dato alcuna importan-za e che, pur credendo di averlapersa appena quarantenne, non sene stupisce né se ne affligge. Suo-natrice d’arpa, Noga ha sacrificatoil rapporto con un marito amato, eche moltissimo la amava, pur dinon dargli il figlio che desiderava.Potrebbe dire di averlo fatto pernon mettere a rischio la sua carrie-ra di concertista, ma è troppo one-sta per mentirsi ed è cosciente delfatto che nella sua stessa orchestraci sono madri e nonne.

Perché abbia scelto di deluderetanto l’ex marito quanto la sua fa-miglia di origine, Noga non sapreb-be dirlo. Ma la domanda inevasa,che chiama in causa l’intero sensodella sua vita, la aspetta nella cittànatale, a Gerusalemme, dove è co-stretta a tornare per pochi mesi,dall’Olanda, dopo la morte del pa-dre. Nulla di clamoroso, in realtà,accade nel corso del soggiorno: unpaio di corteggiatori occasionali,un confronto tenuto sempre sotto

traccia ma costante con il suo pas-sato, con il fratello che sembra aversofferto più di tutti per il suo divor-zio, con il ricordo del padre, con lamadre, che si rivela protagonista,pagina dopo pagina, della relazio-ne forse più importante e meno ri-solta della sua vita, perché incarnaun modello di femminilità oppostoal suo. C’è un imprevisto e dram-matico incontro con il marito, chepur avendo ormai ottenuto dallanuova consorte l’ambita prole nonhamai smesso di amarla. Ricompa-re, per un attimo, anche il ragazzodi cui Noga era stata innamoratada adolescente, prima che diventas-se un ortodosso. Ma ancora prima,la protagonista si imbatte nel figliodi lui, abituato a intrufolarsi di na-scosto in casa, per rubare qualcheora di tv proibita dall’ortodossia.

La sola vera avventura, nella bre-ve trasferta gerosolimitana, è quel-la che porta Noga, per ingannare iltempo e guadagnare qualcosa, a im-barcarsi in una breve ma intensacarriera di comparsa. Forse è solouna parentesi,ma forse è unameta-fora della sua intera scelta di vita.In fondo ha optato per uno stru-mento, l’arpa, che la costringe qua-si sempre a restare in seconda fila,quando non ridotta a spettatrice.Dopo il matrimonio non è andataoltre una relazione estremementesaltuaria; vive a migliaia di chilome-tri dalla famiglia e dal suo paese,senza partecipare davvero ai picco-li e grandi drammi dell’una e dell’al-tro. Senzamai rendere nulla esplici-to, l’autore induce il dubbio per cuila stessa scelta che le è costata ilma-trimonio, comportando il rifiuto diuna parte essenziale della sua fem-minilità, ora la costringa nel ruoloangusto di una semplice comparsa,nel film della sua vita.

Dietro la superficie minimalistadi una vicenda privata, Yehoshuanasconde una trama fitta, piena disimbolismi e metafore, a partiredal nome della protagonista, Noga,che in ebraico è anche il nome del-la stella Venere, dunque alludendoda una parte a quella femminilitàche è, per Noga, il cuore di un con-flitto lacerante e irrisolto, e d’altraparte evocando l’arpa, lo strumen-to suonato da re David, che nellasimbologia ebraica torna con fre-quenza (sebbene gli studiosi riten-gono oggi che si trattasse piuttostodi una lira). Al cuore del libro nonsta solo il dilemma di Noga,ma il te-ma universale della femminilità edella difficoltà ad accettarla nellacomplessità della sua ricchezza, siada parte delle donne, che da partedegli uomini.

Ma anche questo contenuto fun-ziona, almeno in parte, come untrompe l’oeil, perché alla fin fine,sebbene diversamente di libro in li-bro, AbrahamYehoshua alludesem-pre a Israele, ai suoi conflitti e alle la-cerazioni che lo agitano. Proprio co-

me nell’Amante aveva approfittatodi una storia privata per piazzaredietro le quinte il dilemma rappre-sentato per gli israeliani dagli arabidi Israele, qui adopera la storia diNoga per mettere in campo un pro-blemameno vistoso emeno tragico,maper Israele, e per gli israeliani lai-ci, non meno drammatico e difficil-mente risolubile, quello segnato dalproliferarere degli ortodossi.

Nel romanzo la loro presenza ècostante: popolano in maggioranzail quartiere dov’è la casa in cui laprotagonista è cresciuta e dove tor-na per tre mesi a vivere. Ortodossoera il primo amore della donna, or-todossi sono i bambini che le inva-dono la casa incantati, ortodossi so-no ormai quasi tutti i vicini dei suoiassolutamente laici genitori, e fre-quenti, anche semai eccessivamen-te esibiti, sono i richiami al peso de-terminante che gli ortodossi hannoormai nel definire l’identità, e spes-so anche le scelte politiche, delloStato ebraico. Il lato della femmini-lità cheNoga rifiuta, del resto, è pre-cisamente quello più esaltato nellefamiglie ortodosse, estremamenteprolifiche e dove vige una divisionedei ruoli esasperata.

La prospettiva di Yehoshua nonè sospettabile di filortodossia, es-sendo piuttosto vicina a quella deipionieri di Israele: è un laico che ve-de gli ebrei più come un popoloche come una comunità religiosa eche, anni fa, destò ira e scandalonella Diaspora affermando che gliebrei dovrebbero «normalizzarsi»,trasferendosi tutti in Israele, e scio-gliendo così il nodo dell’identitàebraica, che si risolverebbe nellacoincidenza tra ebrei e israeliani. Èevidente, dunque, che la modificasostanziale subita dalla identitàisraeliana in seguito alla pressionedei religiosi, con un progressivo slit-tamento dall’identità etnica e na-zionale verso quella «confessiona-le», non può incontrare i suoi favo-ri. Come lui sono laici i protagoni-sti della Comparsa, da Noga a tuttala sua famiglia. E, tuttavia, Yeho-shua non si permette, com’è ovvio,di ignorare il fatto che gli ortodossisono una parte di Israele, una com-ponente stabile e fondante dellasuamultiforme e a volte contraddit-toria identità.

Alla drastica chiusura di Noganei confronti dei «neri», comune amoltissimi laici, contrappone la tol-leranza, la capacità di dialogo emo-tivo; e persino nel personaggio del-la madre infonde una certa simpa-tia. Autorizzando dunque a conclu-dere che così comeNoga, per diven-tare protagonista della propria vita,deve riconoscere e accettare quelversante della propria femminilitàche ha provato a rinnegare, forseanche i laici di Israele devono rico-noscere come parte della loro iden-tità nazionale gli ortodossi, penal’esplosione di un conflitto internononmeno lacerante di quello ester-no con i palestinesi

Walter De Maria, «Beds of Spikes»,part., 1968-’69, Basilea, Kunstmuseum

Le parole del nemicoper far tremarele voci della Shoah

Avigdor Arikha, «Scarlet Scarf on studioChair», 1989

Sfida all’ortodossiadel ruolo femminile

di VALENTINA PARISI

Partiamo dalla struttura del li-bro e dalla sua circolarità: il viag-gio a ritroso nel passato ha iniziocon l’apparizione alla stazionecentrale di Berlino dell’anzianoebreo americano Sam e l’ammis-sione della protagonista: «Vengofin troppo spesso qui», e terminacon l’incontro altrettanto irrealecon la vecchietta di Kiev e le paro-le «torno un po’ troppo spesso daqueste parti». Qual è il senso diquesta struttura ad anello che ri-porta la narratrice al punto dipartenza? Davvero non c’è viad’uscita nello spazio del ricordo?

In realtà, è quasi per caso che l’episo-dio di Kiev si è ritrovato alla fine, in te-oria avrebbe dovuto essere al centro,una sorta di ritorno a casa di Katja, lafigliola prodiga. D’altronde, le storiedi cui si compone il libro sono statescritte nell’arco di quasi cinque anni ela collocazione dei capitoli è cambia-ta molte volte. In un certo senso, ilmio viaggio è un tentativo di Wande-rung romantica, e la forma del fram-mento si è rivelata la più adatta a riflet-tere questo tipo di tensione…una ten-sione che ruota intorno non soloall’ombra lunga di eventi concreti,ma anche alla ricerca di un procedi-mento letterario, di unamodalità nar-rativa per rappresentarli sulla base diciò che sappiamo, e di quello che non

potremo mai sapere. E questa ricercadi una via per tessere una fabula intor-no al ricordo ci riporta di nuovo alladomanda di partenza: qual è la nostraposizione soggettiva rispetto a BabijJar e alla Shoah?

Questo stesso interrogativo la fi-glia lo propone a bruciapelo allaprotagonista durante la visita alMuseo di storia tedesca di Berlinodavanti al pannello esplicativo del-le leggi di Norimberga: mamma, enoi qui dove siamo?Sì, è una domanda da cui non potevofare a meno di partire, ma che insie-me dovevo anche superare, per evita-re di restare intrappolata nella con-trapposizione vittime/carnefici, che

non intendevo replicare e di cui perso-nalmentenonho alcun bisogno. In re-altà, a distanza di tempo mi sono resaconto di come abbiano influito, sullascelta del punto di vista da cui narrarealcuni episodi, soprattutto remine-scenze cinematografiche: la «terra de-solata» della scena iniziale, il «vuotoin piena città» dove adesso sorge lastazione centrale, è in realtà la Wasteland di Potsdamer Platz ripresa daWim Wenders nelCielo sopra Berlino.È come se unaparte dime fosse anco-ra lì, in quel vuoto che mi aveva tantocolpita quando, arrivando per la pri-ma volta a Berlino, mi ero sentita dicolpo al centro dell’Europa e, al tem-po stesso, catapultata in una terra de-solata che sembrava appena uscitadalla guerra. Così come non avrei maipotuto scrivere il capitolo sullamia vi-sita a Babij Jar se non fossi inconscia-mente tornata a Blow-Up di Antonio-ni, alla scena nel parco in cui il «vero»avvenimento sfugge all’attenzionedel protagonista e viene colto unica-mente dall’obiettivo della macchinafotografica. Allo stesso modo, la gentea passeggio nel parco di Babij Jar e iovedevamonellomedesimo istante co-se radicalmente diverse. E da qui sor-ge un altro interrogativo che, in real-tà, è un problema di coscienza: comefacciamo a obbedire all’imperativoetico di sapere che cos’è storicamenteavvenuto e, nel contempo, a non la-sciarci travolgere e annientare da que-sta forma di sapere?

Volendo individuare un punto disvolta nel suo libro, verrebbe da pen-sare al capitolo Kalisz, dove la nar-ratrice, raggiunta finalmente la lo-calità polacca da cui provenivano isuoi avi – «tutta quella sequela diRikva, Raizla, Natan, Ozjel, Jozef» –si accorge di aver dimenticato il mo-vente primo della sua ricerca, tra-sformatasi ormai in ossessione. Lasuaunica speranza è quella di trova-re qualcosa, non importa cosa, perpotersi avviare sulla strada del ritor-no, «pur non sapendo se la casa incui sarei rientrata avesse le sue fon-damenta nel linguaggio, nello spa-zio o nella mia parentela». È riusci-ta poi a trovare una risposta a que-sta domanda?

Certamente la lingua. È la lingua,non la mia famiglia, la vera protago-nista di questo libro. Credo che nonavreimai potuto scrivere la storia de-gli Krzevin in una lingua diversa daltedesco – «la lingua del nemico». Scri-vere nella mia madrelingua, il russo,mi avrebbe inchiodata al ruolo di vit-tima, non sarei mai riuscita a sbaraz-zarmi dalla retorica che condizionaancora oggi in Russia il discorso sullaseconda guerra mondiale e sulla vit-toria sul nazismo. La mia vittoria per-sonale invece è scrivere in questo te-desco che non è un tedesco «vero»,ma artificiale, perché nasconde undoppio fondo di allusioni e riferimen-ti cammuffati, comprensibili solo achi conosce il russo…

A proposito, il temadel cammuffa-mento compare anche nell’episodiodi Varsavia, quando la narratricescopre che l’edificio da lei identifica-to come il collegio per sordomuti di-retto da suo bisnonno in realtà nonè quello giusto e, delusa, partecipaal casting per diventare la protago-nista di una performance dell’arti-sta contemporanea polacca Katarzy-na Kozyra…Sì, però in quel caso la metafora deltravestitismo assume una valenza ne-gativa, infatti l’episodio del castingmiha dimostrato per l’ennesima voltache non sono in grado di recitare unastoria diversa dalla mia. Tutt’altro di-scorso per quanto riguarda il passag-gio dal russo al tedesco, che invecemiha dato la possibilità di stare da en-trambe le parti, di essere io e non io,mentre scrivo. In questo senso, io emio fratello – che ha appreso perfetta-mente l’ebraico – abbiamo intrapresodue strade identiche, benché all’appa-renzaopposte, e in ogni caso altrettan-to incomprensibili per i nostri genito-ri che vivono tuttora a Kiev.

Il suo libro ha già avuto tante tra-duzioni, ma non una russa. Pensadi affidarsi a un traduttore esterno,oppure di auto-tradursi?In realtà, il testo tedesco è già in par-te una traduzione, da un originalerusso elaborato mentalmente, sullabase di precise sonorità, di associa-zioni di idee, eppure mai scritto. Èun testo spurio che nasce tra le lin-gue, in uno spazio intermedio postotra il linguaggio coniato nell’ambitodella cosiddetta «rielaborazione del-la memoria» in Germania e quellodella retorica sovietica della vittoria,che a livello inconscio ha segnato lamia infanzia. Uno spazio impossibi-le, alimentato da narrazioni chiara-mente inconciliabili, e anche unospazio assai poco accogliente, cheimpedisce alle parole di «accomodar-si» al posto riservato loro e le costrin-ge a tremare leggermente. Tradurrequesto libro in russo vorrebbe dire in-vertire la direzione e trasformare ilmio Drang nach Westen, la mia per-sonale deriva verso occidente, in de-riva verso est. Significherebbe torna-re a qualcosa di molto simile al libroche non ho voluto scrivere.

Il suono dei ricordiin un impossibilespazio linguistico,al croceviatra «rielaborazionedella memoria»tedescae retorica sovieticadella vittoria

di INGRID BASSO

Quando tutto tornerà a essere come nonè mai stato allora l’immaginazione coincideràfinalmente con la realtà, e il vissuto cesserà ditrasformarsi in illusione: Quando tutto torneràa essere come non è mai stato (traduzione diGiovanna Agabio, Marsilio, pp. 324, e 19,00) èun percorso di riconciliazione con il propriopassato che il tedesco Joachim Meyerhoff hatrasformato in romanzo rielaborando unalunga serie di pièces teatrali autobiografichedal titolo Alle Toten fliegen hoch. Nella suastoria personale la «realtà» ha ben poco dioggettivo e il binario della cosiddetta«normalità» non è che uno tra i tanti chesolcano un mondo inafferrabile. JoachimMeyerhoff è cresciuto a Hesterberg, il piùgrande ospedale psichiatrico regionale delloSchleswig-Holstein: il padre era psichiatrainfantile e dell’adolescenza, direttore diun’imponente struttura che contava fino amillecinquecento ospiti. Casermoni enormi dimattoni al cui centro troneggiava la villa deldirettore. «Il lussuoso edificio era unadimostrazione di potere e allo stesso tempoanche la dichiarazione che il direttore non

intendeva stare al di fuori di quel mondo.Medico e re in una sola persona». La figura deldottor Meyerhoff domina incontrastata ilromanzo, è la forma che prende la realtàspirituale del protagonista. In fondo,riconciliarsi con la propria storia significa perlo scrittore Meyerhoff riconciliarsi con lafigura del padre, un uomo fisicamente bruttoma «indiscriminatamente colto», sempreentusiasta della vita, sovrano dalla curiositàimplacabile capace di vedere la bellezzaanche nelle più turpi malformazioni dei corpiumani, fino a interpretare la testa deforme diuna paziente come una bolla di saponemodellata dal vento. Il dottor Meyerhoff almattino si fa scortare serio al lavorodall’«autista»: un paziente che finge di avereun volante tra le mani e mima con le labbra ilrombo del motore, mentre il suo notabilepasseggero lo segue agitando la valigetta. Lerecite di Natale all’ospedale vengono messein piedi con assassini e delinquenti colpevolidi reati sessuali e perciò rinchiusi a vita:dietro a ogni pastore sta un infermieregigantesco pronto a intervenire. Il dottorMeyerhoff è un «nomade della cultura legatoalla propria poltrona»: non è mai andato più

lontano di Weimar eppure sembra conoscereil mondo a menadito, un mondo sul qualepontifica convinto senza remore né sosta. Èl’uomo che dà la tonalità emotiva alla vitadella famiglia, che colora il mondo deicaustici e divertentissimi tre figli e detta legge,pur senza mai dare ordini, a una mogliealtrettanto intelligente, ma decisamentesuccube di quella personalità istrionica cosìdominante. La vita della famiglia Meyerhoff,così come l’intero regno dell’ospedalepsichiatrico, si regge dunque su un equilibrioche ha fondamenta umane. Ma che accadequando quelle fondamenta cedono? Cheaccade quando gli equilibri famigliarimutano, il mondo cambia, gli ospedalipsichiatrici chiudono? Il tempo sembradiventare allora la triste simulazione di unpassato che forse non è mai stato reale, nonera che una teoria elaborata da una singolapersona. Il mondo intero dev’essere quindiricostruito, la sua visione trasformata e conessa anche il passato deve assumere un voltodiverso. Diventare adulto significa per loscrittore comprendere finalmente che «ilpassato è un luogo molto più insicuro, menogarantito, del futuro».

di MASSIMILIANO DE VILLA

Il deserto della Giudea con le sue collinearide, il Mar Morto e, dietro, i monti, dovel’uomo strappa, a fatica, i campi all’incolto.Più da vicino una collina, su cui sorgel’avamposto illegale Maalé Chermesh C. Non èsegnato sulle carte, per il governo israelianonon esiste. Eppure, una ventina di personevive aggrappata a questa geografia disporgenze, scarpate e aridità, dentro containerche, tutti uguali nella forma, sono case, asili osinagoghe. Ci si ritrova così, non senza disagio,nella Cisgiordania, tra i coloni ebrei o – comealtri dicono cambiando la lingua senza che lasostanza cambi – tra i settler della West Bank.Dentro questo paesaggio estremo, la storia didue fratelli, Gabi e Roni Cooper, orfani,adottati, cresciuti in un kibbutz, ora di nuovosoli. Due fratelli diversi, ma accomunati da unpercorso accidentato attraverso la vita e daun’irrequietezza sottile che ha portato Gabiall’aggressività, e Roni all’imprudenzafinanziaria. Sposato a Tel Aviv, Gabi perdemoglie e figlio per intemperanza. Una bruscasvolta lo porta, seguace di un ebraismoultraortodosso e chassidico, a sfidare il vento e

la polvere nell’insediamento illegale. Unasvolta che, così sembra, ha acquietato il suoanimo e lo ha disposto al lavoro, allasolidarietà, al vincolo comunitario, allapreghiera: a un’esistenza scandita dalladevozione e dal procedere lento del calendarioreligioso. Gettato sulla strada da speculazionispericolate e rincorso da clienti e creditori, di lìa qualche anno anche Roni riparerà sullacollina, a dividere con il fratello un’esistenzanuda, la scarna quotidianità racchiusa dallelamiere ondulate di un caravan. Conviventi nelraggio di pochi metri ma assorti entrambinella propria solitudine siderale, i due fratelliscambiano parole a intermittenza e moltosilenzio. Tra loro, un abisso di diversità ma lastessa disperata voglia di resistere in piedidopo ogni colpo del destino. Intorno a questifratelli e al loro passato che emerge a colpi diflashback si muove un microcosmo diesistenze. C’è Otniel Assis, il veteranodell’avamposto, granitico coltivatore e colonofanatico. Ci sono i suoi figli Ghitit, amazzonepervasa dal fuoco dell’ideologia, e Yakir,tormentato da dubbi sulla liceità degliinsediamenti. C’è Nir Rivlin, ebreo hippie eautore, su una chitarra sgangherata, di canzoni

che cadono nella dimenticanza ancora primadi vedere la luce. C’è la moglie Sheulit,attorniata di bambini, che un giorno spedirà ilmarito via di casa ed entrerà in sinagoga con icapelli sciolti. C’è Neta Hirschson, estetista eagitatrice scalmanata che alternatamente urlaslogan di destra e fa le unghie alle donnedell’avamposto. C’è l’esercito israeliano chepresidia l’illegalità della postazione e, invisoagli abitanti, affigge inascoltati ordini disgombero a intervalli regolari. C’è il governoche con una mano aiuta e con l’altra minaccia.C’è, poco distante, il villaggio arabo diCharmish con i suoi ulivi. È questo ilpaesaggio che Assaf Gavron squaderna davantial lettore nel suo settimo romanzo La collina(traduzione di Shira Katz, Giuntina, pp. 529,e19.50). Un paesaggio, quello dei territorioccupati da Israele e rivendicati per intero daipalestinesi, che il lettore attraversa non senzadisagio, almeno in apertura, ma che Gavron,schierato apertamente contro gli insediamenti,disegna nel suo carattere complessoaffacciandosi sulla realtà di una coloniaisraeliana. Lascia a casa le opinioni largamentecondivise, condivise da lui stesso, e – lontanodalle immagini che si logorano di bocca in

bocca – semplicemente guarda. Guarda perdue anni da vicino la realtà degli insediamenti.Poi, passando dall’osservazione al romanzo,descrive le persone che abitano l’immaginarioavamposto Maalé Chermesh: negli slanci dialtruismo, nelle acque basse della diffidenza o,peggio, dell’intolleranza, nell’ardore politico,nella foga spiritata, nella rabbia contro ilgoverno e l’esercito, nelle paradossali alleanzecon gli arabi del villaggio accanto o con imilitanti di Shalom Achshav per scongiurare lacostruzione di un muro. Il tutto con quellalibertà, di sguardo e di stile, tipica dellagenerazione israeliana che sfiora o ha da pocosuperato i quarant’anni. E con una misura diironia che mostra spesso, dietro le paroled’ordine e le bandiere, tutta la commediaumana. Tutte le febbri e le inquietudini chediventano nulla se avvicinate, per confronto,all’antica essenzialità della natura. Sopra tuttele parole – sembra suggerire Gavron – sulrumoroso agitarsi di queste donne e di questiuomini si eleva la collina, le sue rocce e i suoiulivi secolari, i suoi rovi e i suoi tramonti, « ilpaesaggio »regale, sublime, selvaggio, chequasi grida, ma anche risuona: qui è il deserto,qui è la Bibbia, qui la Genesi.

di V.P.

In un saggio del 2009 titolatoDopo l’ultimo testimone David Bi-dussa si chiedeva quali conseguen-ze fosse destinata ad avere sullame-moria collettiva la scomparsa fisi-ca, tanto imminente quanto irrepa-rabile, dei sopravvissuti della Sho-ah. Il libro di Katja Petrowskaja For-se Esther (traduzione di Ada Viglia-ni, Adelphi, pp. 241, e 18,00) ci pro-ietta imperiosamente in questa di-mensione post-testimoniale, com-plice anche l’appartenenza dell’au-trice all’ultima generazione sovieti-ca. «La Storia comincia quando,all’improvviso, non ci sono piùper-sone a cui poter domandare,ma so-lo fonti. Io non avevo più nessunoa cui chiedere…»

È questa la constatazione che haspinto la scrittrice, nata a Kiev nel1970, a tentare di riportare alla lucei suoi parenti sommersi, gli Krzevine i Levi, «lucciole del passato, che il-luminavano piccole zone d’attor-no, qualche strada o qualche fatto,ma non se stesse». Lo sforzo si sa-rebbe rivelato, fin da subito, fontedi frustrazione e di ulteriori dubbiper la controfigura dell’autrice,che, come Katja Petrowskaja, viveormai da anni a Berlino e viaggia aritroso verso est da «una città chepratica la pace in modo quasi ag-gressivo». A distinguere ForseEsther dallo sfondo dell’ormai ster-minata letteratura sull’argomentoè un acuto, quasi lancinante sensodel paradosso, unito a una scepsiradicale che investe non solo la pos-sibilità di ricostruire l’esatto svolgi-mento degli eventi, ma anchel’eventualità che miseri lacerti dipassato possano aggiungere coe-renza a quell’immagine sfocata cheè la nostra identità.

Nel corso delle ricerche che laportarono dove un tempo sorgevail ghetto di Varsavia, nonché inquell’amena località di villeggiatu-ra austriaca che è diventata oraMauthausen, l’io narrante si rendeinfatti conto di come il passato sem-bri sabotare a ogni piè sospinto lesue aspettative e commetta persi-no numerosi faux pas. Ad esempio,quandodagli archivi spunta un lon-tano parente, Ad. Krzevin, che si ri-velerà poi chiamarsi nonAdam, co-me sarebbe parso plausibile, bensìAdolf. Ma che la pretesa dei nomidi identificare chicchessia sia al-quanto risibile lo sostiene lo stessoassunto di partenza: «I nomi di al-cuni miei parenti erano di così am-pia diffusione che non aveva sensomettersi sulle loro tracce. Sarebbestata una ricerca tra omonimi…».Sarebbe stata, in altre parole, una«selezione tra ‘nostri’ e ‘non nostri’»capace di ricordare all’autrice benpiù sinistre cernite. Così, non stupi-sce che l’ombra dubitativa di un«forse» aleggi sull’identità del perso-naggio certo più indimenticabile ditutto il libro, quella bisnonna cheforse si chiamava Esther, la qualecon la lentezza biblica di una tarta-ruga si era incamminata spontanea-mente sulla strada di Babij Jar.

Altrove, invece, il passato sem-bra riaffiorare con maggior doviziadi particolari, che restano tuttaviaper lo più incomprensibili a causadella distanza prospettica tra oggie ieri. Per l’autrice, cresciuta «nellafamiglia dei popoli fratellidell’Unione Sovietica» dove ogniaccenno alla Shoah era stato a lun-go rimosso, la riscoperta del pro-prio retroterra ebraico non puòche accompagnarsi a una sensazio-ne di spiazzante estraneità. «Eccoin che cosa consistevano la miastoria, la mia genealogia, ma que-sto non ero io». Costruito su inevi-tabili lacune e sui coni d’ombradel passato, il testo è scritto in te-desco, ma è dotato di un doppiofondo linguistico, dove le rispostead alcune domande generano a lo-ro volta nuovi interrogativi.

YEHOSHUAINCONTRO CON KATJA PETROWSKAJA, AUTRICE DI «FORSE ESTHER» «LA COMPARSA», ULTIMO ROMANZO DELLO SCRITTORE ISRAELIANO, EINAUDI

MEYERHOFF

Un manicomiocome set:«Quando tuttotornerà a esserecome non èmai stato»

ASSAF GAVRON

Un immaginarioavampostonei Territori:«La collina»dove chi vinceè la natura

La Storiacominciaquandole vocidei testimonitacciono

PETROWSKAJA

Dietro la vicenda minimalistadi una donna che si rifiutadi diventare madre, una tramasatura di simbolismi e metaforesulla identità religiosa di Israele

Page 5: MARTINAMIS, AMORE ALL’INFERNOgiorgioorelli.com/pdf/alias18ott2015.pdf · sciuto,ecisonoilsogno,lapiega-turagrottescaeavoltecomicaad-dirittura, la visione netta di uno smembramento

(5)ALIAS DOMENICA18 OTTOBRE 2015

di ANDREA COLOMBO

Nel suo ultimo romanzo, L’in-ganno, Thomas Mann racconta lavicenda tragica e grottesca di unadonna che ha fatto della prolificitàun culto e che, quando perde lapossibilità di procreare, perde conciò anche ogni ragione di vita. Si-no a illudersi, quando il sangue tor-na a sgorgare, che si tratti di un mi-racolo, mentre è il segno della ma-lattia destinata a ucciderla. Chissàse Abraham Yehoshua aveva inmente, per contrasto, anche que-sto modello quando ha deciso dicentrare il suo nuovo romanzo, Lacomparsa (traduzione di Alessan-dra Shomroni, in uscita mercoledìper Einaudi, pp. 260, e 20.00) suuna donna, Noga, che alla fertilitànon ha mai dato alcuna importan-za e che, pur credendo di averlapersa appena quarantenne, non sene stupisce né se ne affligge. Suo-natrice d’arpa, Noga ha sacrificatoil rapporto con un marito amato, eche moltissimo la amava, pur dinon dargli il figlio che desiderava.Potrebbe dire di averlo fatto pernon mettere a rischio la sua carrie-ra di concertista, ma è troppo one-sta per mentirsi ed è cosciente delfatto che nella sua stessa orchestraci sono madri e nonne.

Perché abbia scelto di deluderetanto l’ex marito quanto la sua fa-miglia di origine, Noga non sapreb-be dirlo. Ma la domanda inevasa,che chiama in causa l’intero sensodella sua vita, la aspetta nella cittànatale, a Gerusalemme, dove è co-stretta a tornare per pochi mesi,dall’Olanda, dopo la morte del pa-dre. Nulla di clamoroso, in realtà,accade nel corso del soggiorno: unpaio di corteggiatori occasionali,un confronto tenuto sempre sotto

traccia ma costante con il suo pas-sato, con il fratello che sembra aversofferto più di tutti per il suo divor-zio, con il ricordo del padre, con lamadre, che si rivela protagonista,pagina dopo pagina, della relazio-ne forse più importante e meno ri-solta della sua vita, perché incarnaun modello di femminilità oppostoal suo. C’è un imprevisto e dram-matico incontro con il marito, chepur avendo ormai ottenuto dallanuova consorte l’ambita prole nonhamai smesso di amarla. Ricompa-re, per un attimo, anche il ragazzodi cui Noga era stata innamoratada adolescente, prima che diventas-se un ortodosso. Ma ancora prima,la protagonista si imbatte nel figliodi lui, abituato a intrufolarsi di na-scosto in casa, per rubare qualcheora di tv proibita dall’ortodossia.

La sola vera avventura, nella bre-ve trasferta gerosolimitana, è quel-la che porta Noga, per ingannare iltempo e guadagnare qualcosa, a im-barcarsi in una breve ma intensacarriera di comparsa. Forse è solouna parentesi,ma forse è unameta-fora della sua intera scelta di vita.In fondo ha optato per uno stru-mento, l’arpa, che la costringe qua-si sempre a restare in seconda fila,quando non ridotta a spettatrice.Dopo il matrimonio non è andataoltre una relazione estremementesaltuaria; vive a migliaia di chilome-tri dalla famiglia e dal suo paese,senza partecipare davvero ai picco-li e grandi drammi dell’una e dell’al-tro. Senzamai rendere nulla esplici-to, l’autore induce il dubbio per cuila stessa scelta che le è costata ilma-trimonio, comportando il rifiuto diuna parte essenziale della sua fem-minilità, ora la costringa nel ruoloangusto di una semplice comparsa,nel film della sua vita.

Dietro la superficie minimalistadi una vicenda privata, Yehoshuanasconde una trama fitta, piena disimbolismi e metafore, a partiredal nome della protagonista, Noga,che in ebraico è anche il nome del-la stella Venere, dunque alludendoda una parte a quella femminilitàche è, per Noga, il cuore di un con-flitto lacerante e irrisolto, e d’altraparte evocando l’arpa, lo strumen-to suonato da re David, che nellasimbologia ebraica torna con fre-quenza (sebbene gli studiosi riten-gono oggi che si trattasse piuttostodi una lira). Al cuore del libro nonsta solo il dilemma di Noga,ma il te-ma universale della femminilità edella difficoltà ad accettarla nellacomplessità della sua ricchezza, siada parte delle donne, che da partedegli uomini.

Ma anche questo contenuto fun-ziona, almeno in parte, come untrompe l’oeil, perché alla fin fine,sebbene diversamente di libro in li-bro, AbrahamYehoshua alludesem-pre a Israele, ai suoi conflitti e alle la-cerazioni che lo agitano. Proprio co-

me nell’Amante aveva approfittatodi una storia privata per piazzaredietro le quinte il dilemma rappre-sentato per gli israeliani dagli arabidi Israele, qui adopera la storia diNoga per mettere in campo un pro-blemameno vistoso emeno tragico,maper Israele, e per gli israeliani lai-ci, non meno drammatico e difficil-mente risolubile, quello segnato dalproliferarere degli ortodossi.

Nel romanzo la loro presenza ècostante: popolano in maggioranzail quartiere dov’è la casa in cui laprotagonista è cresciuta e dove tor-na per tre mesi a vivere. Ortodossoera il primo amore della donna, or-todossi sono i bambini che le inva-dono la casa incantati, ortodossi so-no ormai quasi tutti i vicini dei suoiassolutamente laici genitori, e fre-quenti, anche semai eccessivamen-te esibiti, sono i richiami al peso de-terminante che gli ortodossi hannoormai nel definire l’identità, e spes-so anche le scelte politiche, delloStato ebraico. Il lato della femmini-lità cheNoga rifiuta, del resto, è pre-cisamente quello più esaltato nellefamiglie ortodosse, estremamenteprolifiche e dove vige una divisionedei ruoli esasperata.

La prospettiva di Yehoshua nonè sospettabile di filortodossia, es-sendo piuttosto vicina a quella deipionieri di Israele: è un laico che ve-de gli ebrei più come un popoloche come una comunità religiosa eche, anni fa, destò ira e scandalonella Diaspora affermando che gliebrei dovrebbero «normalizzarsi»,trasferendosi tutti in Israele, e scio-gliendo così il nodo dell’identitàebraica, che si risolverebbe nellacoincidenza tra ebrei e israeliani. Èevidente, dunque, che la modificasostanziale subita dalla identitàisraeliana in seguito alla pressionedei religiosi, con un progressivo slit-tamento dall’identità etnica e na-zionale verso quella «confessiona-le», non può incontrare i suoi favo-ri. Come lui sono laici i protagoni-sti della Comparsa, da Noga a tuttala sua famiglia. E, tuttavia, Yeho-shua non si permette, com’è ovvio,di ignorare il fatto che gli ortodossisono una parte di Israele, una com-ponente stabile e fondante dellasuamultiforme e a volte contraddit-toria identità.

Alla drastica chiusura di Noganei confronti dei «neri», comune amoltissimi laici, contrappone la tol-leranza, la capacità di dialogo emo-tivo; e persino nel personaggio del-la madre infonde una certa simpa-tia. Autorizzando dunque a conclu-dere che così comeNoga, per diven-tare protagonista della propria vita,deve riconoscere e accettare quelversante della propria femminilitàche ha provato a rinnegare, forseanche i laici di Israele devono rico-noscere come parte della loro iden-tità nazionale gli ortodossi, penal’esplosione di un conflitto internononmeno lacerante di quello ester-no con i palestinesi

Walter De Maria, «Beds of Spikes»,part., 1968-’69, Basilea, Kunstmuseum

Le parole del nemicoper far tremarele voci della Shoah

Avigdor Arikha, «Scarlet Scarf on studioChair», 1989

Sfida all’ortodossiadel ruolo femminile

di VALENTINA PARISI

Partiamo dalla struttura del li-bro e dalla sua circolarità: il viag-gio a ritroso nel passato ha iniziocon l’apparizione alla stazionecentrale di Berlino dell’anzianoebreo americano Sam e l’ammis-sione della protagonista: «Vengofin troppo spesso qui», e terminacon l’incontro altrettanto irrealecon la vecchietta di Kiev e le paro-le «torno un po’ troppo spesso daqueste parti». Qual è il senso diquesta struttura ad anello che ri-porta la narratrice al punto dipartenza? Davvero non c’è viad’uscita nello spazio del ricordo?

In realtà, è quasi per caso che l’episo-dio di Kiev si è ritrovato alla fine, in te-oria avrebbe dovuto essere al centro,una sorta di ritorno a casa di Katja, lafigliola prodiga. D’altronde, le storiedi cui si compone il libro sono statescritte nell’arco di quasi cinque anni ela collocazione dei capitoli è cambia-ta molte volte. In un certo senso, ilmio viaggio è un tentativo di Wande-rung romantica, e la forma del fram-mento si è rivelata la più adatta a riflet-tere questo tipo di tensione…una ten-sione che ruota intorno non soloall’ombra lunga di eventi concreti,ma anche alla ricerca di un procedi-mento letterario, di unamodalità nar-rativa per rappresentarli sulla base diciò che sappiamo, e di quello che non

potremo mai sapere. E questa ricercadi una via per tessere una fabula intor-no al ricordo ci riporta di nuovo alladomanda di partenza: qual è la nostraposizione soggettiva rispetto a BabijJar e alla Shoah?

Questo stesso interrogativo la fi-glia lo propone a bruciapelo allaprotagonista durante la visita alMuseo di storia tedesca di Berlinodavanti al pannello esplicativo del-le leggi di Norimberga: mamma, enoi qui dove siamo?Sì, è una domanda da cui non potevofare a meno di partire, ma che insie-me dovevo anche superare, per evita-re di restare intrappolata nella con-trapposizione vittime/carnefici, che

non intendevo replicare e di cui perso-nalmentenonho alcun bisogno. In re-altà, a distanza di tempo mi sono resaconto di come abbiano influito, sullascelta del punto di vista da cui narrarealcuni episodi, soprattutto remine-scenze cinematografiche: la «terra de-solata» della scena iniziale, il «vuotoin piena città» dove adesso sorge lastazione centrale, è in realtà la Wasteland di Potsdamer Platz ripresa daWim Wenders nelCielo sopra Berlino.È come se unaparte dime fosse anco-ra lì, in quel vuoto che mi aveva tantocolpita quando, arrivando per la pri-ma volta a Berlino, mi ero sentita dicolpo al centro dell’Europa e, al tem-po stesso, catapultata in una terra de-solata che sembrava appena uscitadalla guerra. Così come non avrei maipotuto scrivere il capitolo sullamia vi-sita a Babij Jar se non fossi inconscia-mente tornata a Blow-Up di Antonio-ni, alla scena nel parco in cui il «vero»avvenimento sfugge all’attenzionedel protagonista e viene colto unica-mente dall’obiettivo della macchinafotografica. Allo stesso modo, la gentea passeggio nel parco di Babij Jar e iovedevamonellomedesimo istante co-se radicalmente diverse. E da qui sor-ge un altro interrogativo che, in real-tà, è un problema di coscienza: comefacciamo a obbedire all’imperativoetico di sapere che cos’è storicamenteavvenuto e, nel contempo, a non la-sciarci travolgere e annientare da que-sta forma di sapere?

Volendo individuare un punto disvolta nel suo libro, verrebbe da pen-sare al capitolo Kalisz, dove la nar-ratrice, raggiunta finalmente la lo-calità polacca da cui provenivano isuoi avi – «tutta quella sequela diRikva, Raizla, Natan, Ozjel, Jozef» –si accorge di aver dimenticato il mo-vente primo della sua ricerca, tra-sformatasi ormai in ossessione. Lasuaunica speranza è quella di trova-re qualcosa, non importa cosa, perpotersi avviare sulla strada del ritor-no, «pur non sapendo se la casa incui sarei rientrata avesse le sue fon-damenta nel linguaggio, nello spa-zio o nella mia parentela». È riusci-ta poi a trovare una risposta a que-sta domanda?

Certamente la lingua. È la lingua,non la mia famiglia, la vera protago-nista di questo libro. Credo che nonavreimai potuto scrivere la storia de-gli Krzevin in una lingua diversa daltedesco – «la lingua del nemico». Scri-vere nella mia madrelingua, il russo,mi avrebbe inchiodata al ruolo di vit-tima, non sarei mai riuscita a sbaraz-zarmi dalla retorica che condizionaancora oggi in Russia il discorso sullaseconda guerra mondiale e sulla vit-toria sul nazismo. La mia vittoria per-sonale invece è scrivere in questo te-desco che non è un tedesco «vero»,ma artificiale, perché nasconde undoppio fondo di allusioni e riferimen-ti cammuffati, comprensibili solo achi conosce il russo…

A proposito, il temadel cammuffa-mento compare anche nell’episodiodi Varsavia, quando la narratricescopre che l’edificio da lei identifica-to come il collegio per sordomuti di-retto da suo bisnonno in realtà nonè quello giusto e, delusa, partecipaal casting per diventare la protago-nista di una performance dell’arti-sta contemporanea polacca Katarzy-na Kozyra…Sì, però in quel caso la metafora deltravestitismo assume una valenza ne-gativa, infatti l’episodio del castingmiha dimostrato per l’ennesima voltache non sono in grado di recitare unastoria diversa dalla mia. Tutt’altro di-scorso per quanto riguarda il passag-gio dal russo al tedesco, che invecemiha dato la possibilità di stare da en-trambe le parti, di essere io e non io,mentre scrivo. In questo senso, io emio fratello – che ha appreso perfetta-mente l’ebraico – abbiamo intrapresodue strade identiche, benché all’appa-renzaopposte, e in ogni caso altrettan-to incomprensibili per i nostri genito-ri che vivono tuttora a Kiev.

Il suo libro ha già avuto tante tra-duzioni, ma non una russa. Pensadi affidarsi a un traduttore esterno,oppure di auto-tradursi?In realtà, il testo tedesco è già in par-te una traduzione, da un originalerusso elaborato mentalmente, sullabase di precise sonorità, di associa-zioni di idee, eppure mai scritto. Èun testo spurio che nasce tra le lin-gue, in uno spazio intermedio postotra il linguaggio coniato nell’ambitodella cosiddetta «rielaborazione del-la memoria» in Germania e quellodella retorica sovietica della vittoria,che a livello inconscio ha segnato lamia infanzia. Uno spazio impossibi-le, alimentato da narrazioni chiara-mente inconciliabili, e anche unospazio assai poco accogliente, cheimpedisce alle parole di «accomodar-si» al posto riservato loro e le costrin-ge a tremare leggermente. Tradurrequesto libro in russo vorrebbe dire in-vertire la direzione e trasformare ilmio Drang nach Westen, la mia per-sonale deriva verso occidente, in de-riva verso est. Significherebbe torna-re a qualcosa di molto simile al libroche non ho voluto scrivere.

Il suono dei ricordiin un impossibilespazio linguistico,al croceviatra «rielaborazionedella memoria»tedescae retorica sovieticadella vittoria

di INGRID BASSO

Quando tutto tornerà a essere come nonè mai stato allora l’immaginazione coincideràfinalmente con la realtà, e il vissuto cesserà ditrasformarsi in illusione: Quando tutto torneràa essere come non è mai stato (traduzione diGiovanna Agabio, Marsilio, pp. 324, e 19,00) èun percorso di riconciliazione con il propriopassato che il tedesco Joachim Meyerhoff hatrasformato in romanzo rielaborando unalunga serie di pièces teatrali autobiografichedal titolo Alle Toten fliegen hoch. Nella suastoria personale la «realtà» ha ben poco dioggettivo e il binario della cosiddetta«normalità» non è che uno tra i tanti chesolcano un mondo inafferrabile. JoachimMeyerhoff è cresciuto a Hesterberg, il piùgrande ospedale psichiatrico regionale delloSchleswig-Holstein: il padre era psichiatrainfantile e dell’adolescenza, direttore diun’imponente struttura che contava fino amillecinquecento ospiti. Casermoni enormi dimattoni al cui centro troneggiava la villa deldirettore. «Il lussuoso edificio era unadimostrazione di potere e allo stesso tempoanche la dichiarazione che il direttore non

intendeva stare al di fuori di quel mondo.Medico e re in una sola persona». La figura deldottor Meyerhoff domina incontrastata ilromanzo, è la forma che prende la realtàspirituale del protagonista. In fondo,riconciliarsi con la propria storia significa perlo scrittore Meyerhoff riconciliarsi con lafigura del padre, un uomo fisicamente bruttoma «indiscriminatamente colto», sempreentusiasta della vita, sovrano dalla curiositàimplacabile capace di vedere la bellezzaanche nelle più turpi malformazioni dei corpiumani, fino a interpretare la testa deforme diuna paziente come una bolla di saponemodellata dal vento. Il dottor Meyerhoff almattino si fa scortare serio al lavorodall’«autista»: un paziente che finge di avereun volante tra le mani e mima con le labbra ilrombo del motore, mentre il suo notabilepasseggero lo segue agitando la valigetta. Lerecite di Natale all’ospedale vengono messein piedi con assassini e delinquenti colpevolidi reati sessuali e perciò rinchiusi a vita:dietro a ogni pastore sta un infermieregigantesco pronto a intervenire. Il dottorMeyerhoff è un «nomade della cultura legatoalla propria poltrona»: non è mai andato più

lontano di Weimar eppure sembra conoscereil mondo a menadito, un mondo sul qualepontifica convinto senza remore né sosta. Èl’uomo che dà la tonalità emotiva alla vitadella famiglia, che colora il mondo deicaustici e divertentissimi tre figli e detta legge,pur senza mai dare ordini, a una mogliealtrettanto intelligente, ma decisamentesuccube di quella personalità istrionica cosìdominante. La vita della famiglia Meyerhoff,così come l’intero regno dell’ospedalepsichiatrico, si regge dunque su un equilibrioche ha fondamenta umane. Ma che accadequando quelle fondamenta cedono? Cheaccade quando gli equilibri famigliarimutano, il mondo cambia, gli ospedalipsichiatrici chiudono? Il tempo sembradiventare allora la triste simulazione di unpassato che forse non è mai stato reale, nonera che una teoria elaborata da una singolapersona. Il mondo intero dev’essere quindiricostruito, la sua visione trasformata e conessa anche il passato deve assumere un voltodiverso. Diventare adulto significa per loscrittore comprendere finalmente che «ilpassato è un luogo molto più insicuro, menogarantito, del futuro».

di MASSIMILIANO DE VILLA

Il deserto della Giudea con le sue collinearide, il Mar Morto e, dietro, i monti, dovel’uomo strappa, a fatica, i campi all’incolto.Più da vicino una collina, su cui sorgel’avamposto illegale Maalé Chermesh C. Non èsegnato sulle carte, per il governo israelianonon esiste. Eppure, una ventina di personevive aggrappata a questa geografia disporgenze, scarpate e aridità, dentro containerche, tutti uguali nella forma, sono case, asili osinagoghe. Ci si ritrova così, non senza disagio,nella Cisgiordania, tra i coloni ebrei o – comealtri dicono cambiando la lingua senza che lasostanza cambi – tra i settler della West Bank.Dentro questo paesaggio estremo, la storia didue fratelli, Gabi e Roni Cooper, orfani,adottati, cresciuti in un kibbutz, ora di nuovosoli. Due fratelli diversi, ma accomunati da unpercorso accidentato attraverso la vita e daun’irrequietezza sottile che ha portato Gabiall’aggressività, e Roni all’imprudenzafinanziaria. Sposato a Tel Aviv, Gabi perdemoglie e figlio per intemperanza. Una bruscasvolta lo porta, seguace di un ebraismoultraortodosso e chassidico, a sfidare il vento e

la polvere nell’insediamento illegale. Unasvolta che, così sembra, ha acquietato il suoanimo e lo ha disposto al lavoro, allasolidarietà, al vincolo comunitario, allapreghiera: a un’esistenza scandita dalladevozione e dal procedere lento del calendarioreligioso. Gettato sulla strada da speculazionispericolate e rincorso da clienti e creditori, di lìa qualche anno anche Roni riparerà sullacollina, a dividere con il fratello un’esistenzanuda, la scarna quotidianità racchiusa dallelamiere ondulate di un caravan. Conviventi nelraggio di pochi metri ma assorti entrambinella propria solitudine siderale, i due fratelliscambiano parole a intermittenza e moltosilenzio. Tra loro, un abisso di diversità ma lastessa disperata voglia di resistere in piedidopo ogni colpo del destino. Intorno a questifratelli e al loro passato che emerge a colpi diflashback si muove un microcosmo diesistenze. C’è Otniel Assis, il veteranodell’avamposto, granitico coltivatore e colonofanatico. Ci sono i suoi figli Ghitit, amazzonepervasa dal fuoco dell’ideologia, e Yakir,tormentato da dubbi sulla liceità degliinsediamenti. C’è Nir Rivlin, ebreo hippie eautore, su una chitarra sgangherata, di canzoni

che cadono nella dimenticanza ancora primadi vedere la luce. C’è la moglie Sheulit,attorniata di bambini, che un giorno spedirà ilmarito via di casa ed entrerà in sinagoga con icapelli sciolti. C’è Neta Hirschson, estetista eagitatrice scalmanata che alternatamente urlaslogan di destra e fa le unghie alle donnedell’avamposto. C’è l’esercito israeliano chepresidia l’illegalità della postazione e, invisoagli abitanti, affigge inascoltati ordini disgombero a intervalli regolari. C’è il governoche con una mano aiuta e con l’altra minaccia.C’è, poco distante, il villaggio arabo diCharmish con i suoi ulivi. È questo ilpaesaggio che Assaf Gavron squaderna davantial lettore nel suo settimo romanzo La collina(traduzione di Shira Katz, Giuntina, pp. 529,e19.50). Un paesaggio, quello dei territorioccupati da Israele e rivendicati per intero daipalestinesi, che il lettore attraversa non senzadisagio, almeno in apertura, ma che Gavron,schierato apertamente contro gli insediamenti,disegna nel suo carattere complessoaffacciandosi sulla realtà di una coloniaisraeliana. Lascia a casa le opinioni largamentecondivise, condivise da lui stesso, e – lontanodalle immagini che si logorano di bocca in

bocca – semplicemente guarda. Guarda perdue anni da vicino la realtà degli insediamenti.Poi, passando dall’osservazione al romanzo,descrive le persone che abitano l’immaginarioavamposto Maalé Chermesh: negli slanci dialtruismo, nelle acque basse della diffidenza o,peggio, dell’intolleranza, nell’ardore politico,nella foga spiritata, nella rabbia contro ilgoverno e l’esercito, nelle paradossali alleanzecon gli arabi del villaggio accanto o con imilitanti di Shalom Achshav per scongiurare lacostruzione di un muro. Il tutto con quellalibertà, di sguardo e di stile, tipica dellagenerazione israeliana che sfiora o ha da pocosuperato i quarant’anni. E con una misura diironia che mostra spesso, dietro le paroled’ordine e le bandiere, tutta la commediaumana. Tutte le febbri e le inquietudini chediventano nulla se avvicinate, per confronto,all’antica essenzialità della natura. Sopra tuttele parole – sembra suggerire Gavron – sulrumoroso agitarsi di queste donne e di questiuomini si eleva la collina, le sue rocce e i suoiulivi secolari, i suoi rovi e i suoi tramonti, « ilpaesaggio »regale, sublime, selvaggio, chequasi grida, ma anche risuona: qui è il deserto,qui è la Bibbia, qui la Genesi.

di V.P.

In un saggio del 2009 titolatoDopo l’ultimo testimone David Bi-dussa si chiedeva quali conseguen-ze fosse destinata ad avere sullame-moria collettiva la scomparsa fisi-ca, tanto imminente quanto irrepa-rabile, dei sopravvissuti della Sho-ah. Il libro di Katja Petrowskaja For-se Esther (traduzione di Ada Viglia-ni, Adelphi, pp. 241, e 18,00) ci pro-ietta imperiosamente in questa di-mensione post-testimoniale, com-plice anche l’appartenenza dell’au-trice all’ultima generazione sovieti-ca. «La Storia comincia quando,all’improvviso, non ci sono piùper-sone a cui poter domandare,ma so-lo fonti. Io non avevo più nessunoa cui chiedere…»

È questa la constatazione che haspinto la scrittrice, nata a Kiev nel1970, a tentare di riportare alla lucei suoi parenti sommersi, gli Krzevine i Levi, «lucciole del passato, che il-luminavano piccole zone d’attor-no, qualche strada o qualche fatto,ma non se stesse». Lo sforzo si sa-rebbe rivelato, fin da subito, fontedi frustrazione e di ulteriori dubbiper la controfigura dell’autrice,che, come Katja Petrowskaja, viveormai da anni a Berlino e viaggia aritroso verso est da «una città chepratica la pace in modo quasi ag-gressivo». A distinguere ForseEsther dallo sfondo dell’ormai ster-minata letteratura sull’argomentoè un acuto, quasi lancinante sensodel paradosso, unito a una scepsiradicale che investe non solo la pos-sibilità di ricostruire l’esatto svolgi-mento degli eventi, ma anchel’eventualità che miseri lacerti dipassato possano aggiungere coe-renza a quell’immagine sfocata cheè la nostra identità.

Nel corso delle ricerche che laportarono dove un tempo sorgevail ghetto di Varsavia, nonché inquell’amena località di villeggiatu-ra austriaca che è diventata oraMauthausen, l’io narrante si rendeinfatti conto di come il passato sem-bri sabotare a ogni piè sospinto lesue aspettative e commetta persi-no numerosi faux pas. Ad esempio,quandodagli archivi spunta un lon-tano parente, Ad. Krzevin, che si ri-velerà poi chiamarsi nonAdam, co-me sarebbe parso plausibile, bensìAdolf. Ma che la pretesa dei nomidi identificare chicchessia sia al-quanto risibile lo sostiene lo stessoassunto di partenza: «I nomi di al-cuni miei parenti erano di così am-pia diffusione che non aveva sensomettersi sulle loro tracce. Sarebbestata una ricerca tra omonimi…».Sarebbe stata, in altre parole, una«selezione tra ‘nostri’ e ‘non nostri’»capace di ricordare all’autrice benpiù sinistre cernite. Così, non stupi-sce che l’ombra dubitativa di un«forse» aleggi sull’identità del perso-naggio certo più indimenticabile ditutto il libro, quella bisnonna cheforse si chiamava Esther, la qualecon la lentezza biblica di una tarta-ruga si era incamminata spontanea-mente sulla strada di Babij Jar.

Altrove, invece, il passato sem-bra riaffiorare con maggior doviziadi particolari, che restano tuttaviaper lo più incomprensibili a causadella distanza prospettica tra oggie ieri. Per l’autrice, cresciuta «nellafamiglia dei popoli fratellidell’Unione Sovietica» dove ogniaccenno alla Shoah era stato a lun-go rimosso, la riscoperta del pro-prio retroterra ebraico non puòche accompagnarsi a una sensazio-ne di spiazzante estraneità. «Eccoin che cosa consistevano la miastoria, la mia genealogia, ma que-sto non ero io». Costruito su inevi-tabili lacune e sui coni d’ombradel passato, il testo è scritto in te-desco, ma è dotato di un doppiofondo linguistico, dove le rispostead alcune domande generano a lo-ro volta nuovi interrogativi.

YEHOSHUAINCONTRO CON KATJA PETROWSKAJA, AUTRICE DI «FORSE ESTHER» «LA COMPARSA», ULTIMO ROMANZO DELLO SCRITTORE ISRAELIANO, EINAUDI

MEYERHOFF

Un manicomiocome set:«Quando tuttotornerà a esserecome non èmai stato»

ASSAF GAVRON

Un immaginarioavampostonei Territori:«La collina»dove chi vinceè la natura

La Storiacominciaquandole vocidei testimonitacciono

PETROWSKAJA

Dietro la vicenda minimalistadi una donna che si rifiutadi diventare madre, una tramasatura di simbolismi e metaforesulla identità religiosa di Israele

Page 6: MARTINAMIS, AMORE ALL’INFERNOgiorgioorelli.com/pdf/alias18ott2015.pdf · sciuto,ecisonoilsogno,lapiega-turagrottescaeavoltecomicaad-dirittura, la visione netta di uno smembramento

(6) ALIAS DOMENICA18 OTTOBRE 2015

di FRANCESCA LAZZARATO

Anche i lettori italiani, graziealle traduzioni degli ultimi anni, ri-conoscono ormai l’argentino JuanJosé Saer come uno dei più grandiscrittori contemporanei,manon tut-ti, forse, ricordano che la sua primaopera apparsa nella nostra lingua èL’arcano, riproposta oggi da LaNuo-va Frontiera (pp.159, e 15, 50) nellastessa ottima versione curata nel ’94per Giunti da una ispanista speri-mentata come Luisa Pranzetti: unromanzopubblicato contemporane-amente in spagnolo e in francese ol-tre un decennio prima, arrivato danoi in ritardo (o forse troppo in anti-cipo, vista l’indifferenza con cui ven-ne accolto), e che aveva segnatouna svolta nel percorso di uno scrit-tore la cui grandezza cominciava ap-pena a essere intuita dalla critica.

Negli anni ’70, infatti, l’influenzadelnouveau roman aveva indottoSa-er a dilatare la ricerca formale rigoro-sa e complessa che già caratterizzavala sua narrativa, fino a produrre anti-romanzi comeEl limonero real eGlo-sa: un camminoche, seperseguito fi-no in fondo, avrebbe potuto condur-loaun’astrazioneprossimaall’illeggi-bilità e al silenzio.

L’arcano – pur non allontanando-si troppo dalle ossessioni dell’auto-re e dalla sua idea di narrativa, giàben definite nel romanzo d’esordio,Responso, e ancora di più in quellodella sua prima maturità, Cicatrici(La Nuova Frontiera 2012) – nonesclude invece le ragioni della tra-ma e sembra volgersi (anche se l’ap-parente rivisitazione di generi lette-rari diversi si rivela un semplice pre-testo intertestuale) verso il romanzostorico e la cronaca di viaggio. Nona caso lo spunto veniva, racconta lostesso Saer, dalla lettura della Histo-ria argentina di Busaniche, in cui siparla brevemente di Francisco delPuerto,mozzo su unadelle navi spa-gnole al comando di Juan Díaz deSolís, che avevano raggiunto e risali-to nel 1516 il Río de la Plata, per cer-care un passaggio tra Atlantico e Pa-cifico. Solís e alcuni marinai eranoscesi a terra, dove gli indigeni li ave-vano uccisi e divorati, e, mentre lacaravella ripartiva, nessuno si era ac-corto che il mozzo era scampato almassacro; gli indios lo avrebbero te-nuto con loro per dieci anni, finoall’avvistamento casuale di una na-ve spagnola della spedizione Cabo-to, alla quale lo avrebbero restituito.

«La storia mi sedusse all’istante edecisi di non leggere altro sulla vi-

cenda, per poter immaginare più li-beramente il racconto. L’unica cosache conservai furonoquelle quattor-dici righe», scrisse Saer ventisette an-ni dopo la prima uscita del roman-zo, affermando di aver scelto come«personaggio collettivo» la tribùestinta e quasi sconosciuta dei Cola-stiné, per poter creare senza impac-ci etnologici un deuteragonista daaffiancare al mozzo, voce narrantealla quale non vienemai dato unno-me. E nemmeno i luoghi in cui L’ar-cano si svolge sono mai nominati,compreso quello della prigionia, in-dicato solo come un qualche punto

delle Indie perso nel cosidetto mardulce, unica evidente allusioneall’immenso estuario in cui conflui-scono i fiumi Uruguay e Paraná (èsulle rive di quest’ultimo, tra l’altro,che lo scrittore santafesino è nato ecresciuto, trasformandolo poi nellaZona, sfondo e protagonista di qua-si tutta la sua opera).

Basterebbero questa vaghezza ela rinuncia alla toponomastica o alledate, insieme alla non linearità delracconto e alla sua adesione ai ritmicapricciosi e frammentari del ricor-do individuale, a farci intendere cheL’arcano non è ciò che a prima vistapotrebbe sembrare. Non è un «nuo-vo romanzo storico latinoamerica-no», etichetta applicata da Ángel Ra-ma a Yo, el supremo di Roa Bastos oaTerra nostradi Fuentes, perché Sa-er nonera interessato a una ricostru-zione attendibile degli eventi, tantoche tutti i suoi romanzi ambientatinel passato (oltre a L’arcano, La nu-bes e La ocasiòn) si potrebbero defi-nire antistorici. Non un classico ro-manzodi viaggio e d’avventura, per-ché non ne possiede l’intenzione diintrattenere e stupire. Non un ro-manzo picaresco, anche se il prota-gonista è un orfano alla ventura: allasua vita errante, infatti, vengono de-dicate poche e succinte pagine, chenegano spazio all’affacciarsi di unLazarillo.Nonè, infine, unmemoria-le, anche se l’autenticità della me-moria e il suo legame con l’immagi-nazione sonouno dei punti cardina-li del romanzo.

Sin dalle prime righe, L’arcano sirivela piuttosto una perfetta fabulafilosofica in cui l’autore dà forma diracconto a questioni che da semprelo assillano: la natura del linguaggioe la sua capacità dimodellare l’esse-re umano, la ri-creazione del mon-do attraverso la scrittura, il rapportotra spazio e tempo, l’esistenza di unLuogo che contiene tutti gli altri, ildisorientamento e la precarietà cheinsidiano ogni aspetto del reale.

Diversi sia dai selvaggi semiuma-ni cui si stentava a riconoscere il pos-sesso di un’anima, sia da quelli idea-lizzati nel diciottesimo secolo, gli in-dios Colastiné sono sì antropofagi,ma solo una volta all’anno, quandoorganizzano un grande banchettodi carne umana e una sbornia collet-tiva, seguiti da un’epica orgia, cheSaer descrive con fredda minuzia;sempre, però, lasciano in vita unpri-gioniero che trattano con riguardo eche li vede tornare lentamente auna vita industriosa, austera e sem-pre uguale: qualcuno, insomma,che funzioni da legame conun ester-

no inimmaginabile e perciò inquie-tante e temuto, e che, una volta tor-nato dai suoi, tramandi quanto havisto. È questo il compito affidato almozzo, la cui indispensabile alteritàviene coltivata con cura (gli indiosnon gli insegnano la loro lingua fra-gile e informe, né cercano di render-lo uno di loro) e evocata nella ripeti-zione di un unico vocabolo, def-ghi,qualcosa di simile a «testimone»: unestraneo chedeve farsi veicolo di im-mortalità per la tribù, impegnata inpiccoli riti ossessivi destinati a evita-re la disintegrazione del mondo co-nosciuto, l’unico possibile. E anchel’orgia antropofaga è un rito, il piùimportante, che per riaffermare econsolidare l’esistenza di un univer-so ordinato e riconoscibile esige unperiodico scivolamentonel caos pri-migenio del desiderio.

L’antico mozzo lo capirà moltotempo dopo, in una patria matrignadove diventerà via via una meravi-glia da esibire, ma «contaminata» alpunto da aver dimenticato la linguanativa. Approderà poi alla condizio-ne di pupillo del prete Quesada, chegli insegnerà a leggere a scrivere e lointrodurrà allo studio e alla cultura,quindi reciterà con successo comeattore girovago la messa in scenadell’esperienza fatta oltremare. Solodopo aver vissuto lungamente da en-tenado (El entenado è il titolo origi-nale del libro: un termine che indicail figliastro, o anche colui che vieneallevato da estranei), il vagabondopotrà fermarsi, adottare tre orfani eaprire una florida stamperia, appro-dando, in vista dellamorte, alla quie-te e soprattutto a una scrittura «ve-ra», dopo averne praticate di false eingannevoli come il resoconto dellesue avventure raccolto da padreQuesada, o la commedia sui «selvag-gi» nata per compiacere l’immagina-rio europeo e il suo gusto per l’esoti-co e il meraviglioso.

Sessant’annidopo,portato a termi-ne il viaggio che lo ha traformato daentenado a padre di entenados, rina-to più e più volte sino a riconoscersicomenarratore, il protagonista com-pie infine la missione che gli indiosgli hanno affidato. Ed è così che na-sce un racconto fatto di frammenti,in cui gli anni volano, brillano imma-gini remote e l’incatenarsi delle rifles-sioni sovrasta, circonda, illumina ifatti, simile alla «abbondanzadel cie-lo» che abbacinava ilmozzo sulle co-ste vuote delle Indie: come per con-fermare ancora una volta – nota Flo-rencia Abbate, studiosa acutadell’opera di Saer – «la funzione re-dentrice della scrittura del ricordo».

di STEFANO GALLERANI

Erede di una tradizione platense cheda Borges, Cortázar ed Arlt risale fino aLeopoldo Lugones e all’uruguaiano HoracioQuiroga, Abelardo Castillo (nato a BuenosAires nel 1935 ma cresciuto a San Pedrofino ai diciott’anni) è uno scrittorepressoché sconosciuto all’editoria italiana:se si esclude la pubblicazione, per Crocetti,nel 2002, del Vangelo secondo Van Hutten(1999), ad oggi suo terzo ed ultimoromanzo, nessuno dei titoli che lo hannoreso, con Juan José Saer e Ricardo Piglia,uno dei più importanti scrittori argentinidella sua generazione, ha sinora trovato danoi l’accoglienza che avrebbe meritato. Aparziale risarcimento di questadisattenzione, Del Vecchio ha appena datoalle stampe I mondi reali (traduzione di ElisaMontanelli, pp.262, e 16,00), volume che,sotto l’intestazione di cui lo stesso Castillo

ha fregiato, dal 1972, ogni raccolta dicuentos, riunisce una completa antologiadella sua arte narrativa. Coprendo un arcotemporale che va dal 1961 al 2004 è cosìpossibile tratteggiare un ritratto fedele dellapersonalità letteraria di Abelardo Castillo,sorprendendosi, innanzitutto, perl’uniformità del suo stile che, pur a frontedel passare dei decenni e stabilite alcunedifferenze, caratterizza tutti i racconti quiraggruppati. Si passa in questo modo, senzasoluzione di continuità, dagli esordi (conLas otras puertas, del 1961, e Cuentoscrueles, del 1966), connotati da un realismoatavico e primitivo, alla piena maturità, traanni settanta ed ottanta, quando sullapagina prende il sopravvento una ciframetafisica e, talvolta, iper-citazionista.Densi di eco e di rimandi, infatti, i raccontidi questo periodo si focalizzano su unadimensione privata in cui a prevalere è iltema classico del doppelgänger, inteso sia

come duplicazione della psiche deipersonaggi che come dialogo tra realtàcomplementari e solo all’apparenzadistinte. Limpida nella prosa quantocomplessa nell’escogitazione, la scritturadiventa, per Abelardo Castillo, una sfida allepossibilità del quotidiano, laddove, chegiochi con stilemi di genere («L’assassinoirreprensibile») o con variazioni sottili daisuoi testi o da altri paradigmatici dellatradizione novecentesca («Le pantere e iltempio»), è sempre il sogno, l’atmosferanotturna, a irrompere, con il suo incedereossessivo, nella tiepida tranquilità delgiorno. Artisti falliti o santi bevitori evisionari, i suoi protagonisti (da un’altraprospettiva niente più che gli alter egodella sua coscienza) modulano la propriavoce quasi sempre in prima persona,giocando con l’imprevisto e le continuesprezzature che colorano le loro grotteschee catastrofiche confessioni. Come

sottolinea opportunamente ElisaMontanelli, a quest’altezza «scompare ladimensione storica che avevacaratterizzato il Castillo precedente escompare in qualche modo anche laspereanza di una redenzione collettivadell’uomo. L’individuo è solo, non si senteparte di un processo storico, non è uno degliartefici della ruota degli eventi e del progresso,ne è semmai il distruttore». Pure, nulla di piùdistante da queste novelle di un disperato re-ferto nichilistico: la temperatura emotivadell’autore di Crónica de un iniciado (il suosecondo romanzo, del 1991) è piuttosto quel-la, per usare una sua espressione, di una «stan-chezza indulgente e dolorosa, quasi ironica»;una stanchezza che fa il paio con la lunga fe-deltà da mezzo secolo testimoniata da Castilloalla letteratura in quanto strumento per decli-nare quella vita che, come i mondi reali e mu-tuando l’incipit del «Decurione», è doppia. «Al-meno doppia».

Nelle foreste del Rio della Plata,all’inizio del cinquecento,un mozzo approda tra gli indiosche ne fanno il loro messaggero;e Saer ribadisce la ri-creazionedel mondo attraverso la scrittura

di STEFANO TEDESCHI

«Quella notte non riuscii a dor-mire fino a che non ebbi terminatouna seconda lettura; mai, dopo lanotte tremenda in cui avevo letto Lametamorfosi di Kafka, in un lugubrepensionato studentesco di Bogotàdieci anni prima, avevo conosciutouna simile commozione. Il giornodopo lessi El llano en llamas e lo stu-pore rimase intatto. Per il restodell’anno non riuscii a leggere nes-sun altro autore, perché tuttimi sem-bravano minori». Così García Már-quez riferisce del suo incontro conJuanRulfo e con il suo romanzomag-giore, Pedro Páramo, un incontro,che come lo stesso scrittore colom-biano avrebbe poi affermato, gli mo-strò un nuovo cammino verso quel-la scrittura che sembrava essere ap-prodata, per lui, a un vicolo cieco.

Con la pubblicazione di Il gallod’oro (traduzione di Paolo Collo, Ei-naudi, pp. XII-82, e14,00) – la cui ulti-ma edizione presso gli Editori Riunitirisaliva al 1982nella traduzione diDa-

rio Puccini – viene data finalmenteanche ai lettori italiani la possibilitàdi leggere la narrativa di Juan Rulfonella sua interezza: questo romanzobreve completa infatti la sua opera,di cui la stessa Einaudi aveva già pub-blicato, in nuove traduzioni, i raccon-ti diLapianura in fiamme (2012) ePe-dro Páramo (2014), tutti introdotti daErnesto Franco, e fornisce una buonaoccasione per tornare sulle paginedello scrittoremessicano, che nel frat-tempo si è guadagnato una enormebibliografia di studi critici.

Il titolo della prima raccolta – Lapianura in fiamme, del 1953 – fondaprima di ogni altra cosa uno spazio,quello rurale del Messico profondo, epiùprecisamente della regionedi Jali-sco dove l’autore era nato, e dallaquale aveva proiettato fantasie con-notanti la devastata geografia dei rac-conti, dall’immaginaria cittadina diComala all’itineranza tra le fiere diprovincia raccontata nel Gallo d’oro.Spazi rurali resi inclementi di certodal clima e dall’aridità della terra, maanche dalle violenze sofferte durante

la Rivoluzione e la successiva guerracristera, eventi che la famiglia di Rul-fo aveva vissuto in prima persona.Uno spazio, dunque, trafitto dal pas-saggio della storia, che da lontano ar-riva a sconvolgere le campagne confuria inaudita, attraverso movimenticollettivi ma traversata anche da epi-sodi diffusi di violenza individuale,che marchiano ogni rapporto con ilsegnodella sopraffazione e dell’ingiu-stiza. L’approdo finale è a un paesag-gio desolato, «in cui si annida la tri-stezza», pervaso da una costante pre-senza della morte.

Se questa è la realtà che Rulfo haconosciuto e che rimane sempre vivanella sua memoria, anche quando sitrasferirà nella capitale, nonperciò es-sa condiziona la sua narrativa in unadirezione fondamentalmente reali-sta: quella geografia rurale così deli-mitata diventa, infatti, la cifra di unospazio la cui dimensione è universa-le; non è un caso, allora, chemolti deiluoghi evocati nei racconti siano ano-nimi o immaginari, così come lo èCo-mala, il paese di PedroPáramodefini-

to la «vera bocca dell’inferno», per-ché il suo nome viene dal comal, il re-cipiente di argilla che simette sul fuo-co vivo per cucinare. E, tuttavia, queiluoghi Rulfo li descrive in modoasciutto, essenziale, riducendo al mi-nimo l’aggettivazione, mentre faemergere echi, ricordi, frammenti vi-suali, che poi riprodurrà nella suema-gnifiche fotografie.

L’assoluta economia linguistica èuna delle peculiarità più notevoli del-la narrativa di Rulfo: lontano dalleproliferazioni barocche delle scrittu-re caraibiche riversate nel realismomagico, l’autore messicano rielaborala lingua popolare dei contadini di Ja-lisco per creare una sorta di «idiomadell’ineffabile» che, come ha ricorda-to Francesco Fava, è fatto di «scartitemporali sottilissimi, dialoghi che simuovono quasi sempre sul filodell’ambiguità, reticolati di ripetizio-ni e variazioni, intreccio di diversi re-gistri e di vari piani narrativi». Un lin-guaggio, dunque, molto arduo perqualsiasi traduttore, che rischia diperdere la relazione fortissima tra la

concretezza delle immagini, la lorocorporeità e il loro rinvio a un livellodi realtà ulteriore, tutto da decifrare.

Negli spazi disegnati da Rulfo simuovonopersonaggi che di quel pae-saggio hanno assunto i contorni nettie i destini ineluttabili: nei raccontiemergono come bozzetti in chiaro-scuro – indimenticabili, come Maca-rio, o Anacleto Morones dei raccontiomonimi o come il padre e il figlio di«Non senti latrare i cani» – mentrenei due romanzi Pedro PáramoeDio-nisio Pinzón sono figure a tutto ton-do inquella loro tragicità che ha i con-fini di una tragedia collettiva, capacedi trascinare con sé tutti coloro che siavvicinano.

Pedro Páramo, la figura emblemati-ca che è il cardine di tutta l’opera diRulfo, travolgerà l’intero paese: il ro-manzodi cui è protagonista è struttu-rato come un viaggio alla ricerca delpadre cheuno dei narratori, Juan Pre-ciado, viene istigato a compiere dallamadre morente: per lui Pedro Pára-mo è uno sconosciuto, da cui la ma-dre è fuggita, e che piano piano si ri-velerà ignobile, e da tempo già mor-to. Così, il viaggio alla ricerca del pa-dre perduto si trasforma in un viag-gio nel paese dei morti: Juan Precia-do scende a Comala come dentro ungirone infernale e tutti i personaggiche incontra si rivelano appartenerea un tempo passato che ha lasciatodietro di sé solo rovine. Poco a pocoanche la voce di Juan Preciado perdela sua singolarità, all’inizio così mar-cata: si comincia con un’accumula-zione di verbi in prima persona e ag-gettivi possessivi – «Venni a Comalaperché mi dissero che qui viveva miopadre, un certo Pedro Páramo. Miamadreme lo disse. Le promisi che sa-rei venuto a trovarlo appena lei fossemorta» – per sciogliersi poi in un nar-ratore impersonale, quando scopria-mo che forse anche Juan Preciado èmorto, o che comunque attraversa ri-petutamente quella frontiera tra la vi-ta e la morte che nella cultura messi-cana è da sempre porosa e fragile.

Il viaggio nel paese dei morti assu-me, così, toni che richiamano allostesso tempo mitologie preispaniche– il viaggio di Quetzalcoatl al Mictlan– e classiche saghe, ma ai personagginon è dato riemergere a unnuovo de-stino, perché il loro è un viaggio sen-za ritorno, come senza pietà è la deci-sione estrema di Pedro Páramo: luiche possiede ormai tutta la regionecircostante, domina la cittadina, hasparso figli nelle campagne e aComa-la, di fronte all’impossibilità di realiz-zare il solo vero desiderio della sua vi-ta – essere accettato dall’unica donnacheha amato, Susana San Juan –deci-de di lasciarsi andare, di sedersi da-vanti alla sua enorme casa e di far an-dare in rovina tutto quello chepossie-de, compresa la città e i suoi abitanti.L’impossibilità del ritorno, di una ca-tarsi in grado di superare la tragedia,è segnata da questo accumularsi diperdite successive: il mancato incon-tro con il padre, l’impossibile uscitadalla violenza, l’irraggiungibilità deldesiderio.

Se la rovina di Pedro Páramo e diComala sono segnate dalla violenza,dalla perdita e dall’impotenza del po-tere di fronte al lasciarsimorire di Su-sana, il percorso di Dionisio Pinzónin Il gallo d’oro presenta tutt’altro iti-nerario: nato come soggetto cinema-tografico, venne portato una primavolta sullo schermo (in una versionenon proprio fortunata) nel 1964 daRoberto Gavaldón, con la sceneggia-tura di Carlos Fuentes e Gabriel Gar-cía Márquez. Solo più tardi, nel 1980,Rulfo lo avrebbe recuperato per farneil breve romanzo che conosciamo, equesta versione avrebbe poi cono-sciuto una nuova, e questa sì straordi-

naria, trasposizione cinematograficain El imperio de la fortuna di ArturoRipstein nel 1986. Tra le sue pagine siracconta la storia di Dionisio, «unodegli uomini più poveri di San Mi-guel del Milagro» che si guadagna davivere come banditore nelle fiere enelle lotte tra galli. Per via di un acci-dente, Dioniso entra in possesso diun gallo da combattimento lasciatomezzomorto nell’arena e riesce a far-lo diventare un campione, ciò che –insieme al gioco delle carte – lo con-durrà a una vertiginosa ascesa socia-le ed economica, in cui la fortuna siconiugherà con il progressivo abban-dono di ogni scrupolo.

Dioniso accumula dunqueunapic-cola fortuna, e conquista i favori dellaCaponera, la cantante delle fiere dicui si è innamorato, e che diventa perlui una sorta di talismano portafortu-na indispensabile per vincere alle car-te. La rapidità dell’ascesa corrispon-de però a quella della caduta: in unanotte fatale, Dionisio perderà tutto,compresa la sua donna, compresa lavita. Partito come una narrazionequasi verista, Il gallo d’oro si trasfor-ma in un potente racconto sul poteredel denaro e sulla sua maledizione, ei personaggi – come segnala ErnestoFranco nell’introduzione «non sonouomini o donne alla ricerca di un pro-prio fare dentro la storia, ma figuredel destino condannate a ripetereper l’eternità la propria parte. Forse èper questo che i luoghi dove si svolgo-no i fatti sono quasi sempre palcosce-nici o simulacri di palcoscenico».

Se Pedro Páramo aveva costruito ilsuo avvenire sulla violenza e la sopraf-fazione,Dionisio Pinzónprocede gra-zie all’imprevedibile corso della fortu-na; ma entrambi si avvieranno a unafine che sembra sancire la muta im-potenza di cui partecipano tanto glioffesi quanto coloro che sembrano es-sere riusciti a dominare quel mondo.

L’opera di Rulfo si chiude allora, intutti e tre i suoi libri, sull’apparente si-gillo di ogni orizzonte, quasi a epitaf-fio di un mondo rurale che negli annicinquanta già si stava spegnendo, tra-volto dall’urbanizzazione acceleratae dalla fuga dalla campagne. La vocedello scrittore messicano non si spe-gne tuttavia in un accordo in minore,ma assume dall’interno quella trage-dia collettiva, se ne fa voce intensa edolente, testimonianza senza infingi-menti a favore di coloro che, travoltidalla storia, sono rimasti senza voce.

di RAUL SCHENARDI

«Antiche come la paura, le storiefantastiche precedono la scrittura. Gli spettripopolano tutte le letterature: sono nelloZendavesta, nella Bibbia, in Omero, nelleMille e una notte»: questo l’incipit dellaprefazione di Bioy Casares alla Antologiadella letteratura fantastica che curò, nel1940, con la moglie Silvina Ocampo e conBorges. I cultori delle classificazioni precisepotrebbero avere qualcosa da ridire:l’accenno alla paura e agli spettri fa pensarepiuttosto ai cuentos de miedo, come a lungosono stati chiamati in ambitoispanoamericano i racconti del terrore. Delresto, Bioy Casares aveva chiaro che laletteratura fantastica si nutre anche di benaltre suggestioni, e nell’antologia figuranoracconti come «Tantalia» di MacedonioFernández e «Tlön, Uqbar, Orbis Tertius» diBorges – definiti «fantasie metafisiche» – nei

quali non sono i fantasmi né l’orroresuscitato da esseri o eventi soprannaturali ainquietare ma, rispettivamente, un’innocuapiantina di trifoglio e qualche volumepolveroso. Non vi figuravano invece raccontidi vampiri, perché «il loro ingresso nellaletteratura non è stato felice; ricorderemoDracula di Bram Stoker». Il successo dellestorie di vampiri nella letteratura universalesmentisce in qualche misura questo giudizio,e ora l’antologia Racconti ispanomericani delterrore del XIX secolo (a cura di Lola LópezMartín, traduzione di Alessio Mirarchi,Dajana Morelli e Marcella Solinas, edizioniArcoiris, pp. 152, e12,00) viene a confermareche anche in America latina questo filone hagoduto di una vasta fortuna. Il raccontotitolato «Tristán Canaletto», del venezuelanoJulio Calcaño, ha addirittura preceduto lapubblicazione del Dracula di Stoker, e lapresenza demoniaca in «L’ombra nera», diCasimiro Collado. Largo seguito hanno avuto

anche le storie basate sulle superstizionipopolari, di cui troviamo un esempio nel«Rospo» dell’argentino Leopoldo Lugones,tra i nomi più famosi presentinell’antologia, insieme a William H. Hudsone all’amico Rubén Darío, il poetanicaraguense con il quale condivideval’ossessione per le teorie occultiste eteosofiche, un’altra fonte inesauribile diracconti misteriosi. Manca all’appelloHoracio Quiroga (nella collana degliEccentrici, però, è stato pubblicato Iperseguitati), che fu tra i primi estimatori diPoe nel subcontinente americano e seppefar tesoro del suo magistero. Di ispirazionekafkiana è «Il cane interiore (letteraconfidenziale di un uomo di scienza)»,dell’argentino Carlos Octavio Bunge, storiadi una metamorfosi animale, mentre il temadella possessione telepatica o ipnotica è alcentro di due racconti, «La confessione diPelino Viera», di William H. Hudson, e «Di

fronte alla giuria», del messicano AlejandroCuevas. Uno studioso di ipnotismo è anche ilprotagonista del magistrale «Thanatopia», diDarío, che non si rassegna alla perdita dellamoglie e riesce a tenerne in vita il simulacro.Completano utilmente il volume le accuratebiografie degli autori e la postfazione dellacuratrice, che mette in luce, oltre al debitonei confronti della tradizione gotica inglese(Walpole e Lewis), di Hoffmann e Poe, ilcontrasto fra lo spirito razionalisticodell’epoca e la persistenza di paure atavicheche si nutrivano di antiche superstizioni e dinuovi terrori, generati proprio dallo sviluppotecnologico. Con questa antologia il catalogodegli Eccentrici arriva al ventesimo volume,senza venir meno al progetto editorialeracchiuso nel nome della collana, che allapubblicazione di autori contemporanei(Laiseca, Damiani, Dámaso Martínez) unisceil meritorio recupero di classici come Arlt,Vallejo e Holmberg.

ABELARDOCASTILLO

Indulgentee ironica,la stanchezzadei raccontiargentini:«I mondi reali»

Fabula filosoficadi un testimonedei riti antropofagi

RULFO«IL GALLO D’ORO», IN UNA NUOVA TRADUZIONE PER EINAUDI

RACCONTI

Da Rubén Daríoa Hudsoni protagonistilatinoamericanidel terrorenel XIX secolo

Juan Rulfo, autoritratto sul Nevadodi Toluca, 1940 ca., da «100 fotografiasde Juan Rulfo», Mexico, 2013

SAERJuan José Saer a Parigi nel 2002,foto Daniel Mordzinski

DALLA NUOVA FRONTIERA «L’ARCANO», OPERA DELLA SVOLTA LETTERARIA DI JUAN JOSÉ SAER

L’apparente sigillodi ogni orizzontechiude i tre libridi Rulfo, epitaffiodi unmondo ruralegià in declino.Qui, la rovinanascedalla violentalusinga del denaro

Il destino in fiammesu fondali messicani

Page 7: MARTINAMIS, AMORE ALL’INFERNOgiorgioorelli.com/pdf/alias18ott2015.pdf · sciuto,ecisonoilsogno,lapiega-turagrottescaeavoltecomicaad-dirittura, la visione netta di uno smembramento

(7)ALIAS DOMENICA18 OTTOBRE 2015

di FRANCESCA LAZZARATO

Anche i lettori italiani, graziealle traduzioni degli ultimi anni, ri-conoscono ormai l’argentino JuanJosé Saer come uno dei più grandiscrittori contemporanei,manon tut-ti, forse, ricordano che la sua primaopera apparsa nella nostra lingua èL’arcano, riproposta oggi da LaNuo-va Frontiera (pp.159, e 15, 50) nellastessa ottima versione curata nel ’94per Giunti da una ispanista speri-mentata come Luisa Pranzetti: unromanzopubblicato contemporane-amente in spagnolo e in francese ol-tre un decennio prima, arrivato danoi in ritardo (o forse troppo in anti-cipo, vista l’indifferenza con cui ven-ne accolto), e che aveva segnatouna svolta nel percorso di uno scrit-tore la cui grandezza cominciava ap-pena a essere intuita dalla critica.

Negli anni ’70, infatti, l’influenzadelnouveau roman aveva indottoSa-er a dilatare la ricerca formale rigoro-sa e complessa che già caratterizzavala sua narrativa, fino a produrre anti-romanzi comeEl limonero real eGlo-sa: un camminoche, seperseguito fi-no in fondo, avrebbe potuto condur-loaun’astrazioneprossimaall’illeggi-bilità e al silenzio.

L’arcano – pur non allontanando-si troppo dalle ossessioni dell’auto-re e dalla sua idea di narrativa, giàben definite nel romanzo d’esordio,Responso, e ancora di più in quellodella sua prima maturità, Cicatrici(La Nuova Frontiera 2012) – nonesclude invece le ragioni della tra-ma e sembra volgersi (anche se l’ap-parente rivisitazione di generi lette-rari diversi si rivela un semplice pre-testo intertestuale) verso il romanzostorico e la cronaca di viaggio. Nona caso lo spunto veniva, racconta lostesso Saer, dalla lettura della Histo-ria argentina di Busaniche, in cui siparla brevemente di Francisco delPuerto,mozzo su unadelle navi spa-gnole al comando di Juan Díaz deSolís, che avevano raggiunto e risali-to nel 1516 il Río de la Plata, per cer-care un passaggio tra Atlantico e Pa-cifico. Solís e alcuni marinai eranoscesi a terra, dove gli indigeni li ave-vano uccisi e divorati, e, mentre lacaravella ripartiva, nessuno si era ac-corto che il mozzo era scampato almassacro; gli indios lo avrebbero te-nuto con loro per dieci anni, finoall’avvistamento casuale di una na-ve spagnola della spedizione Cabo-to, alla quale lo avrebbero restituito.

«La storia mi sedusse all’istante edecisi di non leggere altro sulla vi-

cenda, per poter immaginare più li-beramente il racconto. L’unica cosache conservai furonoquelle quattor-dici righe», scrisse Saer ventisette an-ni dopo la prima uscita del roman-zo, affermando di aver scelto come«personaggio collettivo» la tribùestinta e quasi sconosciuta dei Cola-stiné, per poter creare senza impac-ci etnologici un deuteragonista daaffiancare al mozzo, voce narrantealla quale non vienemai dato unno-me. E nemmeno i luoghi in cui L’ar-cano si svolge sono mai nominati,compreso quello della prigionia, in-dicato solo come un qualche punto

delle Indie perso nel cosidetto mardulce, unica evidente allusioneall’immenso estuario in cui conflui-scono i fiumi Uruguay e Paraná (èsulle rive di quest’ultimo, tra l’altro,che lo scrittore santafesino è nato ecresciuto, trasformandolo poi nellaZona, sfondo e protagonista di qua-si tutta la sua opera).

Basterebbero questa vaghezza ela rinuncia alla toponomastica o alledate, insieme alla non linearità delracconto e alla sua adesione ai ritmicapricciosi e frammentari del ricor-do individuale, a farci intendere cheL’arcano non è ciò che a prima vistapotrebbe sembrare. Non è un «nuo-vo romanzo storico latinoamerica-no», etichetta applicata da Ángel Ra-ma a Yo, el supremo di Roa Bastos oaTerra nostradi Fuentes, perché Sa-er nonera interessato a una ricostru-zione attendibile degli eventi, tantoche tutti i suoi romanzi ambientatinel passato (oltre a L’arcano, La nu-bes e La ocasiòn) si potrebbero defi-nire antistorici. Non un classico ro-manzodi viaggio e d’avventura, per-ché non ne possiede l’intenzione diintrattenere e stupire. Non un ro-manzo picaresco, anche se il prota-gonista è un orfano alla ventura: allasua vita errante, infatti, vengono de-dicate poche e succinte pagine, chenegano spazio all’affacciarsi di unLazarillo.Nonè, infine, unmemoria-le, anche se l’autenticità della me-moria e il suo legame con l’immagi-nazione sonouno dei punti cardina-li del romanzo.

Sin dalle prime righe, L’arcano sirivela piuttosto una perfetta fabulafilosofica in cui l’autore dà forma diracconto a questioni che da semprelo assillano: la natura del linguaggioe la sua capacità dimodellare l’esse-re umano, la ri-creazione del mon-do attraverso la scrittura, il rapportotra spazio e tempo, l’esistenza di unLuogo che contiene tutti gli altri, ildisorientamento e la precarietà cheinsidiano ogni aspetto del reale.

Diversi sia dai selvaggi semiuma-ni cui si stentava a riconoscere il pos-sesso di un’anima, sia da quelli idea-lizzati nel diciottesimo secolo, gli in-dios Colastiné sono sì antropofagi,ma solo una volta all’anno, quandoorganizzano un grande banchettodi carne umana e una sbornia collet-tiva, seguiti da un’epica orgia, cheSaer descrive con fredda minuzia;sempre, però, lasciano in vita unpri-gioniero che trattano con riguardo eche li vede tornare lentamente auna vita industriosa, austera e sem-pre uguale: qualcuno, insomma,che funzioni da legame conun ester-

no inimmaginabile e perciò inquie-tante e temuto, e che, una volta tor-nato dai suoi, tramandi quanto havisto. È questo il compito affidato almozzo, la cui indispensabile alteritàviene coltivata con cura (gli indiosnon gli insegnano la loro lingua fra-gile e informe, né cercano di render-lo uno di loro) e evocata nella ripeti-zione di un unico vocabolo, def-ghi,qualcosa di simile a «testimone»: unestraneo chedeve farsi veicolo di im-mortalità per la tribù, impegnata inpiccoli riti ossessivi destinati a evita-re la disintegrazione del mondo co-nosciuto, l’unico possibile. E anchel’orgia antropofaga è un rito, il piùimportante, che per riaffermare econsolidare l’esistenza di un univer-so ordinato e riconoscibile esige unperiodico scivolamentonel caos pri-migenio del desiderio.

L’antico mozzo lo capirà moltotempo dopo, in una patria matrignadove diventerà via via una meravi-glia da esibire, ma «contaminata» alpunto da aver dimenticato la linguanativa. Approderà poi alla condizio-ne di pupillo del prete Quesada, chegli insegnerà a leggere a scrivere e lointrodurrà allo studio e alla cultura,quindi reciterà con successo comeattore girovago la messa in scenadell’esperienza fatta oltremare. Solodopo aver vissuto lungamente da en-tenado (El entenado è il titolo origi-nale del libro: un termine che indicail figliastro, o anche colui che vieneallevato da estranei), il vagabondopotrà fermarsi, adottare tre orfani eaprire una florida stamperia, appro-dando, in vista dellamorte, alla quie-te e soprattutto a una scrittura «ve-ra», dopo averne praticate di false eingannevoli come il resoconto dellesue avventure raccolto da padreQuesada, o la commedia sui «selvag-gi» nata per compiacere l’immagina-rio europeo e il suo gusto per l’esoti-co e il meraviglioso.

Sessant’annidopo,portato a termi-ne il viaggio che lo ha traformato daentenado a padre di entenados, rina-to più e più volte sino a riconoscersicomenarratore, il protagonista com-pie infine la missione che gli indiosgli hanno affidato. Ed è così che na-sce un racconto fatto di frammenti,in cui gli anni volano, brillano imma-gini remote e l’incatenarsi delle rifles-sioni sovrasta, circonda, illumina ifatti, simile alla «abbondanzadel cie-lo» che abbacinava ilmozzo sulle co-ste vuote delle Indie: come per con-fermare ancora una volta – nota Flo-rencia Abbate, studiosa acutadell’opera di Saer – «la funzione re-dentrice della scrittura del ricordo».

di STEFANO GALLERANI

Erede di una tradizione platense cheda Borges, Cortázar ed Arlt risale fino aLeopoldo Lugones e all’uruguaiano HoracioQuiroga, Abelardo Castillo (nato a BuenosAires nel 1935 ma cresciuto a San Pedrofino ai diciott’anni) è uno scrittorepressoché sconosciuto all’editoria italiana:se si esclude la pubblicazione, per Crocetti,nel 2002, del Vangelo secondo Van Hutten(1999), ad oggi suo terzo ed ultimoromanzo, nessuno dei titoli che lo hannoreso, con Juan José Saer e Ricardo Piglia,uno dei più importanti scrittori argentinidella sua generazione, ha sinora trovato danoi l’accoglienza che avrebbe meritato. Aparziale risarcimento di questadisattenzione, Del Vecchio ha appena datoalle stampe I mondi reali (traduzione di ElisaMontanelli, pp.262, e 16,00), volume che,sotto l’intestazione di cui lo stesso Castillo

ha fregiato, dal 1972, ogni raccolta dicuentos, riunisce una completa antologiadella sua arte narrativa. Coprendo un arcotemporale che va dal 1961 al 2004 è cosìpossibile tratteggiare un ritratto fedele dellapersonalità letteraria di Abelardo Castillo,sorprendendosi, innanzitutto, perl’uniformità del suo stile che, pur a frontedel passare dei decenni e stabilite alcunedifferenze, caratterizza tutti i racconti quiraggruppati. Si passa in questo modo, senzasoluzione di continuità, dagli esordi (conLas otras puertas, del 1961, e Cuentoscrueles, del 1966), connotati da un realismoatavico e primitivo, alla piena maturità, traanni settanta ed ottanta, quando sullapagina prende il sopravvento una ciframetafisica e, talvolta, iper-citazionista.Densi di eco e di rimandi, infatti, i raccontidi questo periodo si focalizzano su unadimensione privata in cui a prevalere è iltema classico del doppelgänger, inteso sia

come duplicazione della psiche deipersonaggi che come dialogo tra realtàcomplementari e solo all’apparenzadistinte. Limpida nella prosa quantocomplessa nell’escogitazione, la scritturadiventa, per Abelardo Castillo, una sfida allepossibilità del quotidiano, laddove, chegiochi con stilemi di genere («L’assassinoirreprensibile») o con variazioni sottili daisuoi testi o da altri paradigmatici dellatradizione novecentesca («Le pantere e iltempio»), è sempre il sogno, l’atmosferanotturna, a irrompere, con il suo incedereossessivo, nella tiepida tranquilità delgiorno. Artisti falliti o santi bevitori evisionari, i suoi protagonisti (da un’altraprospettiva niente più che gli alter egodella sua coscienza) modulano la propriavoce quasi sempre in prima persona,giocando con l’imprevisto e le continuesprezzature che colorano le loro grotteschee catastrofiche confessioni. Come

sottolinea opportunamente ElisaMontanelli, a quest’altezza «scompare ladimensione storica che avevacaratterizzato il Castillo precedente escompare in qualche modo anche laspereanza di una redenzione collettivadell’uomo. L’individuo è solo, non si senteparte di un processo storico, non è uno degliartefici della ruota degli eventi e del progresso,ne è semmai il distruttore». Pure, nulla di piùdistante da queste novelle di un disperato re-ferto nichilistico: la temperatura emotivadell’autore di Crónica de un iniciado (il suosecondo romanzo, del 1991) è piuttosto quel-la, per usare una sua espressione, di una «stan-chezza indulgente e dolorosa, quasi ironica»;una stanchezza che fa il paio con la lunga fe-deltà da mezzo secolo testimoniata da Castilloalla letteratura in quanto strumento per decli-nare quella vita che, come i mondi reali e mu-tuando l’incipit del «Decurione», è doppia. «Al-meno doppia».

Nelle foreste del Rio della Plata,all’inizio del cinquecento,un mozzo approda tra gli indiosche ne fanno il loro messaggero;e Saer ribadisce la ri-creazionedel mondo attraverso la scrittura

di STEFANO TEDESCHI

«Quella notte non riuscii a dor-mire fino a che non ebbi terminatouna seconda lettura; mai, dopo lanotte tremenda in cui avevo letto Lametamorfosi di Kafka, in un lugubrepensionato studentesco di Bogotàdieci anni prima, avevo conosciutouna simile commozione. Il giornodopo lessi El llano en llamas e lo stu-pore rimase intatto. Per il restodell’anno non riuscii a leggere nes-sun altro autore, perché tuttimi sem-bravano minori». Così García Már-quez riferisce del suo incontro conJuanRulfo e con il suo romanzomag-giore, Pedro Páramo, un incontro,che come lo stesso scrittore colom-biano avrebbe poi affermato, gli mo-strò un nuovo cammino verso quel-la scrittura che sembrava essere ap-prodata, per lui, a un vicolo cieco.

Con la pubblicazione di Il gallod’oro (traduzione di Paolo Collo, Ei-naudi, pp. XII-82, e14,00) – la cui ulti-ma edizione presso gli Editori Riunitirisaliva al 1982 nella traduzione diDa-

rio Puccini – viene data finalmenteanche ai lettori italiani la possibilitàdi leggere la narrativa di Juan Rulfonella sua interezza: questo romanzobreve completa infatti la sua opera,di cui la stessa Einaudi aveva già pub-blicato, in nuove traduzioni, i raccon-ti diLapianura in fiamme (2012) ePe-dro Páramo (2014), tutti introdotti daErnesto Franco, e fornisce una buonaoccasione per tornare sulle paginedello scrittoremessicano, che nel frat-tempo si è guadagnato una enormebibliografia di studi critici.

Il titolo della prima raccolta – Lapianura in fiamme, del 1953 – fondaprima di ogni altra cosa uno spazio,quello rurale del Messico profondo, epiùprecisamente della regionedi Jali-sco dove l’autore era nato, e dallaquale aveva proiettato fantasie con-notanti la devastata geografia dei rac-conti, dall’immaginaria cittadina diComala all’itineranza tra le fiere diprovincia raccontata nel Gallo d’oro.Spazi rurali resi inclementi di certodal clima e dall’aridità della terra, maanche dalle violenze sofferte durante

la Rivoluzione e la successiva guerracristera, eventi che la famiglia di Rul-fo aveva vissuto in prima persona.Uno spazio, dunque, trafitto dal pas-saggio della storia, che da lontano ar-riva a sconvolgere le campagne confuria inaudita, attraverso movimenticollettivi ma traversata anche da epi-sodi diffusi di violenza individuale,che marchiano ogni rapporto con ilsegnodella sopraffazione e dell’ingiu-stiza. L’approdo finale è a un paesag-gio desolato, «in cui si annida la tri-stezza», pervaso da una costante pre-senza della morte.

Se questa è la realtà che Rulfo haconosciuto e che rimane sempre vivanella sua memoria, anche quando sitrasferirà nella capitale, nonperciò es-sa condiziona la sua narrativa in unadirezione fondamentalmente reali-sta: quella geografia rurale così deli-mitata diventa, infatti, la cifra di unospazio la cui dimensione è universa-le; non è un caso, allora, chemolti deiluoghi evocati nei racconti siano ano-nimi o immaginari, così come lo èCo-mala, il paese di PedroPáramodefini-

to la «vera bocca dell’inferno», per-ché il suo nome viene dal comal, il re-cipiente di argilla che simette sul fuo-co vivo per cucinare. E, tuttavia, queiluoghi Rulfo li descrive in modoasciutto, essenziale, riducendo al mi-nimo l’aggettivazione, mentre faemergere echi, ricordi, frammenti vi-suali, che poi riprodurrà nella suema-gnifiche fotografie.

L’assoluta economia linguistica èuna delle peculiarità più notevoli del-la narrativa di Rulfo: lontano dalleproliferazioni barocche delle scrittu-re caraibiche riversate nel realismomagico, l’autore messicano rielaborala lingua popolare dei contadini di Ja-lisco per creare una sorta di «idiomadell’ineffabile» che, come ha ricorda-to Francesco Fava, è fatto di «scartitemporali sottilissimi, dialoghi che simuovono quasi sempre sul filodell’ambiguità, reticolati di ripetizio-ni e variazioni, intreccio di diversi re-gistri e di vari piani narrativi». Un lin-guaggio, dunque, molto arduo perqualsiasi traduttore, che rischia diperdere la relazione fortissima tra la

concretezza delle immagini, la lorocorporeità e il loro rinvio a un livellodi realtà ulteriore, tutto da decifrare.

Negli spazi disegnati da Rulfo simuovonopersonaggi che di quel pae-saggio hanno assunto i contorni nettie i destini ineluttabili: nei raccontiemergono come bozzetti in chiaro-scuro – indimenticabili, come Maca-rio, o Anacleto Morones dei raccontiomonimi o come il padre e il figlio di«Non senti latrare i cani» – mentrenei due romanzi Pedro PáramoeDio-nisio Pinzón sono figure a tutto ton-do inquella loro tragicità che ha i con-fini di una tragedia collettiva, capacedi trascinare con sé tutti coloro che siavvicinano.

Pedro Páramo, la figura emblemati-ca che è il cardine di tutta l’opera diRulfo, travolgerà l’intero paese: il ro-manzodi cui è protagonista è struttu-rato come un viaggio alla ricerca delpadre cheuno dei narratori, Juan Pre-ciado, viene istigato a compiere dallamadre morente: per lui Pedro Pára-mo è uno sconosciuto, da cui la ma-dre è fuggita, e che piano piano si ri-velerà ignobile, e da tempo già mor-to. Così, il viaggio alla ricerca del pa-dre perduto si trasforma in un viag-gio nel paese dei morti: Juan Precia-do scende a Comala come dentro ungirone infernale e tutti i personaggiche incontra si rivelano appartenerea un tempo passato che ha lasciatodietro di sé solo rovine. Poco a pocoanche la voce di Juan Preciado perdela sua singolarità, all’inizio così mar-cata: si comincia con un’accumula-zione di verbi in prima persona e ag-gettivi possessivi – «Venni a Comalaperché mi dissero che qui viveva miopadre, un certo Pedro Páramo. Miamadreme lo disse. Le promisi che sa-rei venuto a trovarlo appena lei fossemorta» – per sciogliersi poi in un nar-ratore impersonale, quando scopria-mo che forse anche Juan Preciado èmorto, o che comunque attraversa ri-petutamente quella frontiera tra la vi-ta e la morte che nella cultura messi-cana è da sempre porosa e fragile.

Il viaggio nel paese dei morti assu-me, così, toni che richiamano allostesso tempo mitologie preispaniche– il viaggio di Quetzalcoatl al Mictlan– e classiche saghe, ma ai personagginon è dato riemergere a unnuovo de-stino, perché il loro è un viaggio sen-za ritorno, come senza pietà è la deci-sione estrema di Pedro Páramo: luiche possiede ormai tutta la regionecircostante, domina la cittadina, hasparso figli nelle campagne e aComa-la, di fronte all’impossibilità di realiz-zare il solo vero desiderio della sua vi-ta – essere accettato dall’unica donnacheha amato, Susana San Juan –deci-de di lasciarsi andare, di sedersi da-vanti alla sua enorme casa e di far an-dare in rovina tutto quello chepossie-de, compresa la città e i suoi abitanti.L’impossibilità del ritorno, di una ca-tarsi in grado di superare la tragedia,è segnata da questo accumularsi diperdite successive: il mancato incon-tro con il padre, l’impossibile uscitadalla violenza, l’irraggiungibilità deldesiderio.

Se la rovina di Pedro Páramo e diComala sono segnate dalla violenza,dalla perdita e dall’impotenza del po-tere di fronte al lasciarsimorire di Su-sana, il percorso di Dionisio Pinzónin Il gallo d’oro presenta tutt’altro iti-nerario: nato come soggetto cinema-tografico, venne portato una primavolta sullo schermo (in una versionenon proprio fortunata) nel 1964 daRoberto Gavaldón, con la sceneggia-tura di Carlos Fuentes e Gabriel Gar-cía Márquez. Solo più tardi, nel 1980,Rulfo lo avrebbe recuperato per farneil breve romanzo che conosciamo, equesta versione avrebbe poi cono-sciuto una nuova, e questa sì straordi-

naria, trasposizione cinematograficain El imperio de la fortuna di ArturoRipstein nel 1986. Tra le sue pagine siracconta la storia di Dionisio, «unodegli uomini più poveri di San Mi-guel del Milagro» che si guadagna davivere come banditore nelle fiere enelle lotte tra galli. Per via di un acci-dente, Dioniso entra in possesso diun gallo da combattimento lasciatomezzomorto nell’arena e riesce a far-lo diventare un campione, ciò che –insieme al gioco delle carte – lo con-durrà a una vertiginosa ascesa socia-le ed economica, in cui la fortuna siconiugherà con il progressivo abban-dono di ogni scrupolo.

Dioniso accumula dunqueunapic-cola fortuna, e conquista i favori dellaCaponera, la cantante delle fiere dicui si è innamorato, e che diventa perlui una sorta di talismano portafortu-na indispensabile per vincere alle car-te. La rapidità dell’ascesa corrispon-de però a quella della caduta: in unanotte fatale, Dionisio perderà tutto,compresa la sua donna, compresa lavita. Partito come una narrazionequasi verista, Il gallo d’oro si trasfor-ma in un potente racconto sul poteredel denaro e sulla sua maledizione, ei personaggi – come segnala ErnestoFranco nell’introduzione «non sonouomini o donne alla ricerca di un pro-prio fare dentro la storia, ma figuredel destino condannate a ripetereper l’eternità la propria parte. Forse èper questo che i luoghi dove si svolgo-no i fatti sono quasi sempre palcosce-nici o simulacri di palcoscenico».

Se Pedro Páramo aveva costruito ilsuo avvenire sulla violenza e la sopraf-fazione,Dionisio Pinzónprocede gra-zie all’imprevedibile corso della fortu-na; ma entrambi si avvieranno a unafine che sembra sancire la muta im-potenza di cui partecipano tanto glioffesi quanto coloro che sembrano es-sere riusciti a dominare quel mondo.

L’opera di Rulfo si chiude allora, intutti e tre i suoi libri, sull’apparente si-gillo di ogni orizzonte, quasi a epitaf-fio di un mondo rurale che negli annicinquanta già si stava spegnendo, tra-volto dall’urbanizzazione acceleratae dalla fuga dalla campagne. La vocedello scrittore messicano non si spe-gne tuttavia in un accordo in minore,ma assume dall’interno quella trage-dia collettiva, se ne fa voce intensa edolente, testimonianza senza infingi-menti a favore di coloro che, travoltidalla storia, sono rimasti senza voce.

di RAUL SCHENARDI

«Antiche come la paura, le storiefantastiche precedono la scrittura. Gli spettripopolano tutte le letterature: sono nelloZendavesta, nella Bibbia, in Omero, nelleMille e una notte»: questo l’incipit dellaprefazione di Bioy Casares alla Antologiadella letteratura fantastica che curò, nel1940, con la moglie Silvina Ocampo e conBorges. I cultori delle classificazioni precisepotrebbero avere qualcosa da ridire:l’accenno alla paura e agli spettri fa pensarepiuttosto ai cuentos de miedo, come a lungosono stati chiamati in ambitoispanoamericano i racconti del terrore. Delresto, Bioy Casares aveva chiaro che laletteratura fantastica si nutre anche di benaltre suggestioni, e nell’antologia figuranoracconti come «Tantalia» di MacedonioFernández e «Tlön, Uqbar, Orbis Tertius» diBorges – definiti «fantasie metafisiche» – nei

quali non sono i fantasmi né l’orroresuscitato da esseri o eventi soprannaturali ainquietare ma, rispettivamente, un’innocuapiantina di trifoglio e qualche volumepolveroso. Non vi figuravano invece raccontidi vampiri, perché «il loro ingresso nellaletteratura non è stato felice; ricorderemoDracula di Bram Stoker». Il successo dellestorie di vampiri nella letteratura universalesmentisce in qualche misura questo giudizio,e ora l’antologia Racconti ispanomericani delterrore del XIX secolo (a cura di Lola LópezMartín, traduzione di Alessio Mirarchi,Dajana Morelli e Marcella Solinas, edizioniArcoiris, pp. 152, e12,00) viene a confermareche anche in America latina questo filone hagoduto di una vasta fortuna. Il raccontotitolato «Tristán Canaletto», del venezuelanoJulio Calcaño, ha addirittura preceduto lapubblicazione del Dracula di Stoker, e lapresenza demoniaca in «L’ombra nera», diCasimiro Collado. Largo seguito hanno avuto

anche le storie basate sulle superstizionipopolari, di cui troviamo un esempio nel«Rospo» dell’argentino Leopoldo Lugones,tra i nomi più famosi presentinell’antologia, insieme a William H. Hudsone all’amico Rubén Darío, il poetanicaraguense con il quale condivideval’ossessione per le teorie occultiste eteosofiche, un’altra fonte inesauribile diracconti misteriosi. Manca all’appelloHoracio Quiroga (nella collana degliEccentrici, però, è stato pubblicato Iperseguitati), che fu tra i primi estimatori diPoe nel subcontinente americano e seppefar tesoro del suo magistero. Di ispirazionekafkiana è «Il cane interiore (letteraconfidenziale di un uomo di scienza)»,dell’argentino Carlos Octavio Bunge, storiadi una metamorfosi animale, mentre il temadella possessione telepatica o ipnotica è alcentro di due racconti, «La confessione diPelino Viera», di William H. Hudson, e «Di

fronte alla giuria», del messicano AlejandroCuevas. Uno studioso di ipnotismo è anche ilprotagonista del magistrale «Thanatopia», diDarío, che non si rassegna alla perdita dellamoglie e riesce a tenerne in vita il simulacro.Completano utilmente il volume le accuratebiografie degli autori e la postfazione dellacuratrice, che mette in luce, oltre al debitonei confronti della tradizione gotica inglese(Walpole e Lewis), di Hoffmann e Poe, ilcontrasto fra lo spirito razionalisticodell’epoca e la persistenza di paure atavicheche si nutrivano di antiche superstizioni e dinuovi terrori, generati proprio dallo sviluppotecnologico. Con questa antologia il catalogodegli Eccentrici arriva al ventesimo volume,senza venir meno al progetto editorialeracchiuso nel nome della collana, che allapubblicazione di autori contemporanei(Laiseca, Damiani, Dámaso Martínez) unisceil meritorio recupero di classici come Arlt,Vallejo e Holmberg.

ABELARDOCASTILLO

Indulgentee ironica,la stanchezzadei raccontiargentini:«I mondi reali»

Fabula filosoficadi un testimonedei riti antropofagi

RULFO«IL GALLO D’ORO», IN UNA NUOVA TRADUZIONE PER EINAUDI

RACCONTI

Da Rubén Daríoa Hudsoni protagonistilatinoamericanidel terrorenel XIX secolo

Juan Rulfo, autoritratto sul Nevadodi Toluca, 1940 ca., da «100 fotografiasde Juan Rulfo», Mexico, 2013

SAERJuan José Saer a Parigi nel 2002,foto Daniel Mordzinski

DALLA NUOVA FRONTIERA «L’ARCANO», OPERA DELLA SVOLTA LETTERARIA DI JUAN JOSÉ SAER

L’apparente sigillodi ogni orizzontechiude i tre libridi Rulfo, epitaffiodi unmondo ruralegià in declino.Qui, la rovinanascedalla violentalusinga del denaro

Il destino in fiammesu fondali messicani

Page 8: MARTINAMIS, AMORE ALL’INFERNOgiorgioorelli.com/pdf/alias18ott2015.pdf · sciuto,ecisonoilsogno,lapiega-turagrottescaeavoltecomicaad-dirittura, la visione netta di uno smembramento

(8) ALIAS DOMENICA18 OTTOBRE 2015

di MAURIZIO GIUFRÈMILANO

Fin dal suo pionieristico saggio Futu-rismo e fotografia (Multhipla, 1979) Gio-vanni Lista ha indagato avvenimenti e figu-re delle arti visive del Ventennio. Lo ha fat-to con scrupolo, come dimostra la mostraFotografia Futurista alla Galleria Carla Soz-zani di Milano (fino all’1 novembre).Un’esposizione che ci si aspetterebbe ditrovare nella programmazione di uno deitanti spazi espositivi pubblici di Milanoper il valore delle opere raccolte,ma che in-vece si svolge in quello di una galleria pri-vata che così ha voluto celebrare i suoi ven-ticinque anni di vita e che per la fotografiaha fin dall’inizio dmostrato un impegnoparticolare, sempre con esposizioni di qua-lità come quella in corso. Diviso in quattrosezioni, il percorso espositivo illustra ciòche fu il contributo del Futurismo all’«im-magine meccanica» codificata ne La foto-grafia futuristadiMarinetti e Tato (Gugliel-mo Sansoni) nel 1930, ossia i tre «modelliformali» che elenca il manifesto: il fotodi-namismo dei Fratelli Bragaglia, «la mesco-lanza drammatica di oggetti mobili e im-mobili» e «la composizione organica dei di-versi stati d’animo di una persona» (Boc-cioni).Ma si dà anche conto sia degli ante-fatti di inizio Novecento, che compongo-no l’humus dei temi poi confluiti nell’este-tica fotografica dei futuristi, sia dello speri-mentalismo che tra le due guerre sapràmi-surarsi con la fotografia delle avanguardieartistiche europee.

Si parte così da quel laboratorio del fan-tastico e delmisterico rappresentato dal ri-tratto multiplo, dalla manipolazione persovrapposizione del negativo e dalla ripro-duzione di immagini in movimento (cro-nofotografia) che con efficacia illustrano ildesiderio di superare il dato sensibile dellarealtà per dirigersi verso tutto ciò che ri-guarda l’altro da sé: il vasto mondo che staoltre il percettibile. Sulla scorta dell’innova-zione della fotografia scientifica (Mach,Marey,Muybridge), fotografi come i Fratel-li Alinari, Mario Nunes Vai, Carlo Maiora-na e persino Boccioni, insieme a TitoD’Alessandri, si cimentano con la tecnicadel multiritratto (ludico o a specchi) perquella «distruzione della mimesi» per laquale ogni scoperta è utile per vincere il re-alismo e la stasi della ritrattistica corrente.In questo ambito si inseriscono le immagi-ni teatralizzate, come quella di FrancescoNegri (Apparizione spiritica, 1895-1900),che narrano situazioni irreali e stravaganti.

All’inizio, infatti, la fotografia, neimodi da-ti dal pittoricismo, non persuade i futuri-sti. Saranno Anton Giulio e Arturo Braga-glia, con il Fotodinamismo, a convincerliche la fotografia può invece essere, come ilcinema, il nuovo medium adatto a espri-mere i contenuti plastici della velocità edell’azione. Boccioni lo intuì con il «dina-mismo universale» composto di cinetismo(kinesis) e energia (dynamis), al quale i Fra-telli Bragaglia saranno sempre riconoscen-ti. Le loro fotodinamiche dei primi annidieci – quali Un inchino, Ritratto polifisio-gnomicodiUmberto Boccioni o la serie del-le immagini de Il pittore FrancescoTromba-dori – interpretano con esemplare effettola teoria boccioniana. Queste rivelano «losvolgersi dinamico e continuo del gesto –scrive Lista in catalogo – rispetto al movi-mento lineare, sequenziale e segmentato»delle cronofotografie. Causa il lungo tem-po di posa, insieme alla lenta sensibilizza-zionedella lastra, il soggetto si presenta co-me avvolto in una «nuvola lattiginosa e ra-refatta» che bene interpreta il movimentoe l’energia vitale del Futurismo.Nell’autori-tratto di Anton Giulio Bragaglia dal titoloGustavo Bonaventura (1913) lo «sdoppia-mento incosciente» della figura, prodottodella sovraimpressione, se irride il ritrattospiritico in voga all’inizio del secolo, catturala realtà fenomenica cogliendone le sue«qualità trascendentali» (Fotodinamismo fu-turista, Roma, 1913) contenute nel movi-mento delle cose nello spazio. Già la filoso-fia di Bergson con le sue tesi sul movimen-to fornì al Futurismo più di un elemento diriflessione non solo per ciò che riguarda l’immagine-movimento del cinema, ma an-che per ciò che sono le immagini-istanta-nee della fotografia: le sezioni immobili, co-me le definì Deleuze. Se le prime sottostan-noal «tempo impersonale, uniforme, astrat-to» (falso movimento) della macchina dapresa, le seconde sono «pose» e «istanti pri-vilegiati» che richiedono solo una sintesi.Ciò che si nota, scrisseDeleuze, è il terminefinale o il punto culminante «da una formaa un’altra forma». In entrambi i casi siamosempre nel campo della «riproduzione diun’illusione» (Bergson).

L’unicità del reale sta solo nel documen-tare vernissage, fatti di cronaca o ritratti. Iritratti sono quelli in studio di Carrà,Mari-netti, o dei due insieme a Papini, Boccionie Palazzeschi, eseguiti da Mario NunesVas: tradizionali nella composizione e nel-la posa dei soggetti. È «un gruppo d’avan-guardia che mostra e ribadisce le proprieradici e la propria appartenenza borghe-

se». Diverso il caso degli autoritratti di De-pero (Con pugno, Con Riso cinico o Consmorfia (1915)) o delle foto dove l’artista ro-veretano inscena divertito gesti grotteschie teatrali, come ad esempio in Mimica! in-sieme a Clavel che con un imbuto in testaimita il soldatino di piombo. Dello stessosegno ironico sono le foto-performance incostume di Bruno Munari, mentre più ela-borati i ritratti con fotomontaggi di Ivos Pa-cetti, Giulio Parisio e Tato con inserti di og-getti e macchine.

L’ultima sezione della mostra riguardagli anni venti e trenta. Il Futurismo è ormaiun movimento eterogeneo. Per molti deisuoi artisti è impossibile omologarsi allescelte culturali del fascismo, e nonostantela passiva adesionediMarinetti, alcuni pre-feriranno soggiornare per un periodoall’estero comeRussolo, Prampolini, Depe-ro. Nel frattempo il confronto con le avan-guardie d’oltralpe si fa serrato soprattuttodopo la mostra internazionale Film undFoto di Stoccarda nel 1929. Il fotocollaggioe il fotomontaggio sono adesso le pratichepiù utilizzate e in mostra se ne elencanoprove esemplari. Si va da Io+gatto di Wan-da Wulz, la sovrapposizione perfetta didue immagini facciali dalle quali ne scatu-risce una terza ambigua e «magnetica», alRitratto guerriero letterario di Mario Carlidi Tato (lo scrittore è unito in dissolvenzaalle copertine dei suoi libri), fino a Fortuna-to Depero a New York di Mario Castagnerie a L’Incubo torinese di Piero Luigi Boccar-di, dove le architetture riprese dal basso ein obliquo straniano figure e paesaggi.

Il laboratorio fotografico del Futurismonon ci consegna però solo volti e corpiumani,ma, come recita ilmanifesto futuri-sta, anche «il drammadi oggetti umanizza-ti, pietrificati, cristallizzati o vegetalizzatimediante camuffamenti e luci speciali».Camuffamenti di oggetti sono quelli di Ta-to con utensili e materiali di uso domesti-co, ma «scene miniaturizzate» per esserefotografate sono anche quelle ideate conpiccole sagome di carta da Italo Bertoglioo con figurine in legno da Giulio Parisio.Sono tutte immagini rientranti nel generedel «Teatrino», più in generale sono «com-posizioni d’oggetti» che possono essereastratte, comedei semplici solidi geometri-ci dal vago sapore metafisico (Bertoglio,Mario Bellusi), oppure riprodurre specialiriflessi e ombre (Piero Luigi Boccardi). Pri-ma che la guerra cancelli ogni speranza lafotografia futurista passa dal «dinamismouniversale» allo sperimentalismo dei mol-teplici «stati dell’animo» attraverso unamolteplicità di invenzioni che la mostra il-lustra con perfezione e che ci fanno inten-dere, ce ne fosse stato bisogno, il valore diuna ricerca a buon diritto inscrivibile tra lepiù originali della storia delle avanguardienovecentesche.

di ANTONELLO TOLVEBOLOGNA

Giunta alla sua secondaedizione, la Biennale di Fotografiaillumina la scena estetica diBologna con una serie di nuovi eimperdibili incontri chedisegnano il panorama industrialein tutte le sue varie declinazioni esfaccettature visive, in tutte le sueforme, con formule cheraccontano il passato, leggono ilpresente, immaginano il futuro.Dopo un primo appuntamento dirodaggio organizzato persensibilizzare lo spettatore almondo della fotografia (di unafotografia che, come una poesiamuta, mostra paesaggi eatmosfere sempre più aperte aldiscorso critico, al lavoromanuale, al circuitoimprenditoriale), il nuovopalinsesto offerto daFoto/Industria, non solo consolidail sodalizio tra il Comune e laFondazione Mast, ma offre alpubblico l’opportunità di

accedere gratuitamente ad alcuniluoghi storici, di ammirarearchitetture e godere diallestimenti puliti, armonici,coinvolgenti. A Palazzo PepoliCampogrande, ad esempio, primadi gustare il sorprendente reportvideo-fotografico proposto daEdward Burtynsky con i suoiPaesaggi industrializzati, lospettatore inciampa in unamonumentale installazione aparete di Marco Gastini (Ilconcerto di Campogrande, nelvolo) e viene rapito dallo scaloneche porta al primo piano, sede diuna sezione distaccata dellaPinacoteca Nazionale. Direttaancora una volta da FrançoisHébel (responsabile deiRencontres de la Photographied’Arles), Foto/Industria proponeun percorso nel mondo dellaproduzione e del lavoro umano,disseminandolo in undici sedistoriche e negli eleganti spazi delMast, dove la mostradocumentaria Dall’album al librofotografico propone un viaggio

nell’industria italiana attraverso120 volumi della collezione SavinaPalmieri. Si propongono inparticolare pregiati focus dedicatia David LaChapelle, Hong Hao,Edward Burtynsky, O. WinstonLink, Luca Campigotto, PierreGonnord, Neal Slavin, GianniBerengo Gardin, Kathy Ryan,Jason Sangik Noh, Hein Gorny eLéon Gimpel i cui progetti non sifermano alla superficie della realtàfiltrata e manipolata dai media,ma operano piuttosto nel mezzodelle questioni, tra le profonditàdel visto e del vissuto, tra le quintedi un teatro della immaginazione,sovversiva e trasformativa.«Dall’infinitesimale al gigantesco,dal raggio di sole sulla moquetteal treno che sfreccia nella notte atutta velocità, dalla ricostruzioneartificiale che sembra più veradella stessa realtà a composizionidi oggetti recuperati chesembrano, questi sì, disegni, dalbello che dovrebbe invece esserevisto brutto, dai corpi logori esfruttati alla sontuosa dignità

dell’ironia e della poesia, ifotografi invitati hanno tutti sceltopunti di vista e modi di operareforti, inattesi e soprattuttosignificativi» puntualizza Hébel.Tra le varie esposizioni, il mondoofferto da Pierre Gonnord con(Altri) Lavoratori negli spazi diSanta Maria della Vita, invita ariflettere, attraverso il ritratto,sulle maggioranze silenziose, leperiferie urbane, i sentierisecondari. «Esplorare queimargini (o meglio quegli altrove) è

il mio modo di riconoscerel’importanza del silenzio costruitosocialmente, ma soprattutto direndere omaggio a quegli Altri Noitestimoni di un’esistenza che èloro propria e quanto mai unica.Detentori di una straordinariaforza vitale», suggerisce l’artistanel testo che accompagna lamostra. Che la fotografiaindustriale sia diventata perBologna un fiore all’occhiello loattesta non solo l’itinerariopolifonico offerto in città, maanche la nascita di un concorso –GD4PhotoArt – e del progettoWerker 10 / CommunityDarkroom, per effetto del quale lospazio espositivo si trasforma inun ambiente pedagogico dove«viene a comporsi una sorta dicostellazione collaborativa chepermette allo spettatore» diassumere un ruolo attivo neiprocessi di produzionedell’immagine, oltre che nelreediting e nell’analisi critica degliscatti quale forma diapprendimento collettivo.

A MILANO, GALLERIA SOZZANI, «FOTOGRAFIA FUTURISTA» A CURA DI GIOVANNI LISTA

FUTURISTIPiero Luigi Boccardi, «Dalla luce alle tenebre»,1931; al centro, Tato (Guglielmo Sansoni),«Aeroritratto fantastico di Mino Somenzi»,1934; in basso, Pierre Gonnord, «Miroslaw,2009», dalla serie «(Other)Workers»in mostra a Foto/Industria a Bologna

Velocità azioneai sali d’argento

FOTO/INDUSTRIA

Il visto, il vissuto,l’immaginazionesovversiva:a Bolognaun itinerarioespositivo

All’inizio, troppo implicata nel pittoricismo, la fotografiamise in sospetto Boccioni e compagni. Furono i fratelliBragaglia a convincerli che si trattava di un nuovo mediumatto a esprimere i contenuti «plastici» del dinamismo