massime del cardinale di retz

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QUESTO E-BOOK: TITOLO: Massime AUTORE: Retz, Jean Francois Paul : de Gondi, cardinal de TRADUTTORE: Balduzzi, Serafino CURATORE: Balduzzi, Serafino ILLUSTRAZIONI: Robert Nanteuil TRATTO DA: Paul de Gondi, cardinale di Retz, Massime a cura di Serafino Balduzzi - Illustrazioni di Robert Nanteuil - Edizioni Gruppo ACT, Milano, 2006 - 64 pagine, cm 18,5 x 27 1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 20 maggio 2010

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Massime Del Cardinale Di Retz

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Page 1: Massime Del Cardinale Di Retz

QUESTO E-BOOK:

TITOLO: MassimeAUTORE: Retz, Jean Francois Paul : de Gondi, cardinal deTRADUTTORE: Balduzzi, SerafinoCURATORE: Balduzzi, SerafinoILLUSTRAZIONI: Robert Nanteuil

TRATTO DA: Paul de Gondi, cardinale di Retz, Massimea cura di Serafino Balduzzi - Illustrazioni di Robert Nanteuil - Edizioni Gruppo ACT, Milano, 2006 - 64 pagine, cm 18,5 x 27

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 20 maggio 2010

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MASSIME

tratte dalle Memoriedi Paul de Gondi, cardinale di Retz

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Comunicare

1. Il talento d’insinuarsi è d’impiego molto più largo del dono di convincere: ci si può insinuare sempre dappertutto, mentre è normale che non si persuada nessuno.

2. Il favore del pubblico è sempre più facile da ottenere con l’inerzia che con l’azione. Il favore conseguibile con l’azione di­pende tutto dal risultato, cioè da una cosa che nessuno al mondo può mai garantire. Invece l’inerzia dava solide garanzie di buona stampa, fondate sul pubblico odio per il ministero, che veniva co­stantemente alimentato.

Parigi è in rivolta, perché la Corte ha tratto in arresto il consigliere del Parla­mento Broussel, considerato difensore dei contribuenti contro l’esosità del fi­sco. Nella “stanza dei bottoni” si discute se la situazione sia o no tanto perico­losa da imporre concessioni alla piazza.

3. Si vide entrare il luogotenente civile, pallido come un mor­to. Raccontò alla regina certe piccole peripezie insignificanti, che gli erano capitate sulla strada da casa sua al palazzo reale. Però non ho mai visto alla commedia italiana una caricatura della fifa così rozza ed esagerata.

A quel punto le animucce paurose entrarono in risonanza. Il cardinal Mazzarino non si era granché impressionato del racconto a fosche tinte che gli avevamo fatto La Meilleraye e io; La Riviè­re, poi, non aveva fatto una piega. Ma il terrore manifestato da quell’omarino per le proprie faccenduole s’insinuò (per contagio

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fra simili, credo) nella loro immaginazione, da lì si arrampicò dentro la mente, e infine strisciò nel cuore.

Fu una metamorfosi incredibile. Non mi consideravano più un buffone terrorista. Ammisero che c’era da riflettere. Incomincia­rono a discutere.

Il maresciallo de la Meilleraye e Retz sono inviati in piazza a promettere la li­berazione di Broussel.

4. Quell’impiastro di La Meilleraye mi tolse ogni possibilità di misurare le parole. Aveva detto che mi avrebbe seguito. Invece montò a cavallo con la spada sguainata, si mise alla testa dei ca­valli leggeri della guardia, e avanzò gridando a perdifiato: «Liber­tà a Broussel!»

C’era molto chiasso in giro. Molti lo videro, ma pochi intesero che cosa gridava: quella spada levata parlava più chiaro della bocca. Alcuni si armarono: un facchino che impugnava una scia­bola fu ucciso con un colpo di pistola. Le grida raddoppiarono e da tutte le parti si corse alle armi.

5. L’abominio messo in ridicolo: questa è la miscela più peri­colosa e irreparabile che ci sia.

6. Scendere al livello dei piccoli è il modo più sicuro per salire a quello dei grandi.

7. Feci di questo biglietto l’uso migliore. Si sa quanto piaccio­no i misteri alla gente: io lo confidai con il vincolo del segreto a quattro o cinquecento persone.

8. Mi ero proprio trovato in una posizione delicata. In casi del genere, finché le accuse sono più verosimili delle risposte che po­tete dare, conviene scivolar d’ala e defilarsi; e aspettare ad alzar la testa quando il credito passi dalla vostra parte.

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9. Per convincere una persona poco intelligente, le ragioni più efficaci sono le meno intelligenti.

10. Avevamo provviste per alimentare l’immaginazione del pubblico ancora per un bel pezzo: in questo genere d’affari, il se­greto è tutto qui.

11. Per un bel po’ li lasciai pestar l’acqua nel mortaio, perché sfogassero l’immaginazione, che non s’arrende mai finché è surri­scaldata. Alla fine proposi quello che avevo deciso fin dall’inizio.

12. Il valore di una proposta dipende dal momento in cui vien fatta.

13. In quindici giorni, le liberava lui a scapaccioni le strade del pane, se l’assemblea la piantava una buona volta di farsi turlupi­nare. La gente non ci capiva niente di negoziati e conferenze: con meno chiacchiere a far nebbia, tutto il regno si sarebbe schierato da un bel pezzo con la capitale. Con trenta parole e zero sintassi fece un effetto clamoroso.

14. Quando si è costretti a fare un discorso spiacevole, è più cortese presentarlo un po’ arzigogolato che semplice e limpido, perché ferisce meno.

15. Notate la differenza fra segreto e forma segreta. Una cosa che sanno tutti e non è più un segreto, può conservare ufficial­mente forma segreta, per cui rimane decoroso fingere di non sa­perla. Se invece perde anche la forma, è realtà irrimediabile: non rimane che prenderla per le corna.

16. È meno imprudente farla da padrone, che dimenticarsi di parlare da servo.

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17. Quando si deve rifiutare qualcosa a chi può farci del male, oppure del bene, il rifiuto va mascherato meglio che si può.

18. È molto imbarazzante, quando si serve un principe, dover­gli tacere il vero motivo dei consigli dati per il suo bene. Non po­tevamo mica dirgli: fai così, perché non sei capace di far altro.

19. È pericoloso mostrarsi faziosi, specie quando lo si è.

20. Lionne si propose fin dall’inizio di farmi parlare, allo sco­po di usare poi le mie parole come fece. Lo dico, non per analisi o valutazioni di probabilità, ma perché mi rivedo davanti agli occhi i suoi atteggiamenti e la sua faccia. Non ve lo so spiegare, ma vidi che mi voleva provocare. L’ho osservato altre volte: non è raro che negli affari si presentino situazioni, che sono insieme inespli­cabili e chiarissime.

21. Per il pubblico chi s’accoda non conta.

22. L’antidoto del pregiudizio è la speranza.

23. Certo, due sciocchezze insieme sono troppe. L’inferiore può fare le stesse cose della persona cui deve rispetto, ma non può dire le stesse parole. Un ecclesiastico non può ammettere di essere armato, nemmeno quando lo è. Potete star sicura che, su certi argomenti, il mondo esige d’essere ingannato. Non è raro che le circostanze giustifichino atti che uno è costretto a fare con­tro la sua professione. Ma parole, mai: quelle non le giustifica nessuno.

24. Come dare contorni netti alla nebbia? Come dare struttura a una conversazione sull’assenza di strutture? Invece di risponde­

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re a me, il mio interlocutore parlava con se stesso e, come sempre càpita, non se n’accorgeva nemmeno.

25. È pericoloso far proposte che sembrano a doppio fondo, ma non lo sono: si paga il mistero che non c’è, e si ottiene un ef­fetto controproducente.

26. Snocciolò una serie d’analisi e di proposte di cui, ve lo confesso, non capii niente. Pan per focaccia: gli opposi un discor­setto di cui, vi giuro, fu lui a non capir niente.

27. Non era privo d’abilità e d’intelligenza. Il suo difetto era di volersi presentare come gran negoziatore: di solito è un ostacolo insuperabile a farsi strada in quel mestiere.

28. Si stava facendo il callo alle perdite, alle ingiurie, alla di­sgrazia. Questa sinistra abitudine mi spaventò.

29. Credo che le grandi apparenze senza sostanza di negoziati in corso facessero precipitare la situazione verso la pace più in fretta di quanto avrebbe fatto qualunque trattativa vera e sostan­ziale.

L’immaginazione ha una parte importante negli affari: in quel­li grandi ancor più che in quelli minori. L’immaginazione popola­re, certe volte, basta da sola a scatenare la guerra civile. Questa volta bastò a far la pace.

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Congiure, guerra civile

30. Spesso congiurare è una pazzia; ma, una volta finita la congiura, non c’è niente di meglio per mettere la testa a partito, almeno per qualche tempo. Infatti il pericolo non finisce subito, e ci si deve per forza conservare prudenti e circospetti.

31. È una bella stupidaggine far parlare di sé come di persone capaci di azioni pericolose.

Retz prepara una congiura contro Richelieu appoggiandosi a prigionieri della Bastiglia, che contano d’impadronirsi del loro carcere e muovere da lì per at­taccare Parigi.

32. Tutte le circostanze straordinarie hanno un peso incredibile nei moti popolari. Riflettei che questa sarebbe stata una bomba: niente dà carica e simpatia a un movimento come il ridicolo che cade sui suoi nemici. Mi resi conto che sarebbe stato un colpo da maestro: offrire lo spettacolo d’un ministro incapace di accorgersi che i suoi stessi prigionieri potevano metterlo sotto, per così dire, servendosi delle stesse catene fornite da lui.

33. Figuratevi il mio successo fra questa gente, che influisce sugli umori popolari più di chiunque altro. I ricchi hanno troppo da rischiare; i mendicanti sono controproducenti, perché tutti han­no paura che pensino solo a saccheggiare case e botteghe. L’idea­le è che parlino di sommosse le persone con affari privati abba­stanza in disordine da desiderare che si buttino per aria anche quelli pubblici, ma non così poveri da presentarsi come mendi­canti patentati.

34. Gli stati che soffrono cadono nel torpore, quando il male dura troppo: la lunga durata opprime l’immaginazione della gen­

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te, e le fa credere che il male non potrà mai finire. Ma appena la gente vede uno spiraglio di luce (ed è immancabile, prima o poi) ne prova tanta sorpresa, tanta gioia, tanto entusiasmo, che passa di colpo da un estremo all’altro: la rivoluzione, da impossibile, diventa per lei facilissima, a portata di mano. Può bastare questo per farla incominciare davvero.

35. Aggiunsi ciò che mi pareva utile per calmare la cittadinan­za: non fu difficile, perché ormai era l’ora di cena. Non ridete, non è cosa da poco! Ho sempre osservato che a Parigi, nei tumulti popolari, nemmeno le persone più violente sono disposte (come si dice) a «perdere il giro dei pasti».

36. La folla è la bestia più incontrollabile che ci sia: non si prendono mai abbastanza precauzioni – ed è anche la bestia più diffidente: non si dicono mai abbastanza bugie.

37. A una sommossa parigina non partecipa solo ‘tanta gente’, ma addirittura il mondo intero. Io avevo fatto appostare molte persone, ma scomparivano nel gran mucchio.

38. È normale che la gente si stanchi qualche tempo prima di rendersene conto.

39. «Completiamo l’opera, finiamo pure di scalzare l’autorità del Parlamento e mettiamo al suo posto la nostra: ma dovremo fare le stesse cose che oggi fa il Parlamento, e incontreremo infal­libilmente gli stessi inconvenienti. Imporremo tasse pesanti, con­fischeremo i preziosi. Per due terzi della popolazione non cam­bierà niente. Per il terzo rimanente, la borghesia, sarà molto peg­gio, perché avremo attaccato e vinto o abbattuto un’istituzione alla quale quel ceto è legato in mille modi.

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«Ci sono volute sei settimane per far scricchiolare l’autorità del Parlamento; per far cadere la nostra basteranno otto giorni.»

40. Aver ascendente sul popolo è scomodo, perché si viene in­colpati anche dei moti che, con tutta la buona volontà, non si rie­scono a evitare.

41. Ecco la disgrazia delle guerre civili: si fanno sbagli gravi persino per buona condotta.

42. La guerra civile è una malattia complicata: quando si usa un rimedio adatto per alleviare un sintomo, se ne aggravano altri tre o quattro.

43. «Il magistrato non si nasconde mai. Non commetterei que­sta viltà, nemmeno se fossi sicuro di morire. Del resto, servirebbe solo a incoraggiare i sediziosi. Se pensassero che ho paura di loro, non mi servirebbe a niente svignarmela di nascosto: mi verrebbe­ro a trovare a casa mia.»

44. Elbeuf restò convinto che tutta la discussione fosse limpida come l’acqua. Non era poco, con quel maledetto intrigante. Chi congiura sempre, vede congiure dappertutto.

45. Ciascuno teneva d’occhio i movimenti degli altri: tutti dif­fidavano di tutti. Si girava armati: credo che in tutto il palazzo non ci fossero venti persone senza pugnale in tasca. A me non piaceva, ma un giorno che sembrava più pericoloso del solito, Brissac me ne impose uno senza tanti complimenti. Mi sentivo a disagio. Beaufort, col suo tatto d’ippopotamo, vide il fodero spuntare dalle mie tasche, lo additò a Des Roches, capitano delle guardie del Principe, e disse ridendo: «Guardate il breviario del coadiutore!» Fu spiritoso, ma io non risi.

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46. L’intervallo dal 14 al 18 occorreva semplicemente per ap­porre firme e risolvere alcuni problemini protocollari. Ma agli oc­chi della gente comune, in tempi di fazioni e d’intrighi, ciò che è vuoto è mistero. I pesciolini si buttarono con entusiasmo a riem­pire di chiacchiere quel vuoto.

47. Beaufort non sapeva che riunire una folla è quanto basta ad aizzarla. Il suo comizio con intento tranquillizzante fece l’effetto contrario: la temperatura salì. Ancora due o tre giorni dopo, si ve­devano in giro tumulti ben più gravi di quello originario. Novion, per esempio, si trovò a scappare per i vicoli a gambe levate, cor­rendo tutti i rischi che può correre in questi casi un povero disgra­ziato.

48. Non era facile risolvere i problemi della sicurezza, perché di solito chi creava il disordine era la stessa guardia civica che lo doveva reprimere.

49. In clima rivoluzionario, quando tutti sono irrequieti, la pal­ma spetta a chi prende l’iniziativa, se è svelto e azzecca il primo colpo.

50. Lasciatemi fare una pausa di riflessione. Che scandalo: un ministro gioca spudoratamente a rimpiattino col nome e l’onore di un gran re. Il più augusto parlamento del regno, erede della ca­mera dei pari, s’invischia in contraddizioni e giochi di prestigio puerili.

Mi pare d’aver già detto che, quando un paese cade in questa febbre frenetica, gli uomini non capiscono più niente. Conoscevo persone perbene, che avrebbero affrontato il martirio per sostene­re le ragioni del Principe. Ne conoscevo altre, virtuose e disinte­ressate, che sarebbero perite col sorriso sulle labbra pur di soste­

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nere quelle della Corte. C’è di questa gente fanatica, e i grandi se ne servono per i loro comodi. Poi, quando hanno finito di acceca­re gli altri, accecano se stessi peggio degli altri.

51. «Questi son tempi strani, signore: si vedono strane combi­nazioni. Meglio tirarsene fuori in fretta e furia, anche a costo di lasciarci qualche penna. Sarebbe il meno male, perché l’alternati­va può essere, colla condotta più saggia del mondo, di perdere tutto - anche l’onore.»

52. Parlava della mia condotta: «È così netta, così elevata, che chi al vostro posto non ne sarebbe capace ci vede un mistero. E nei tempi torbidi, tutto ciò che passa per mistero è odiato.»

53. La prima regola da rispettare quando si vuol muovere la popolazione, anche per un attacco bello e buono, è dare a intende­re che si tratta solo di difendersi.

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La Corte

54. Ogni cosa può far moda, ma più di tutto l’atteggiamento della Corte nei nostri confronti, seppure con effetti diversi secon­do le circostanze. In certi momenti essere in disgrazia a Corte è come un fuoco purificatore: tutti i difetti scompaiono, e splendo­no solo i nostri pregi. Ma in altri momenti, chi è in disgrazia fa la figura di essere persona non troppo raccomandabile.

55. Ero troppo popolare in città per rimanerlo a lungo anche a Corte. Questo era il mio delitto, agli occhi di quell’italiano ma­chiavellico. Non tralasciavo di aggravare il delitto con larghe spe­se, che non ostentavo: perciò riuscivano più brillanti. Facevo grandi elemosine e liberalità, che spesso tenevo segrete: perciò tutti ne parlavano.

56. Una volta, uscendo da palazzo reale, sbottai a dire al mare­sciallo di Villeroy che avevo fatto due riflessioni. La prima: non sta bene che un ministro faccia porcherie, ma è ancor peggio se ne dice. La seconda: se gli dài una notizia scomoda, diventi un criminale.

57. Quando si parla a un principe, potere il bene è pericoloso quanto volere il male, e quasi altrettanto criminale.

58. Si scambiava per rivolta tutto ciò che non fosse prona sot­tomissione.

59. La piaggeria diventa un pericolo serio, nelle circostanze che espongono la sua vittima alla paura. Se assecondi il suo desi­derio di non spaventarsi, la inciti a esporsi indifesa.

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60. I deboli a Corte bevono immancabilmente qualunque fola ci si prenda il disturbo di propinargli. L’ho visto mille volte: per­ché non ci caschino, bisogna proprio che il ministro sia un inca­pace.

61. Di solito un governo non ci sa fare, nella calma che suben­tra a una forte tempesta, quando l’adulazione raddoppia mentre la diffidenza non dimezza.

62. Un tragico errore dei governi dispotici di quest’ultimo se­colo, è la massima di giustificare sempre i superiori contro gl’in­feriori. Questa roba si trova in Machiavelli, che ha due categorie di lettori: quelli che leggono, ma non capiscono niente; e quelli che giurano che ha sempre ragione, perché è sempre così cattivo. Nemmeno per sogno: anche Machiavelli a volte sbaglia, e questo che ho detto è il suo sbaglio più grande.

63. Il disinteresse andava bene durante la guerra, quando si trattava di difendere Parigi e versare il sangue del popolo. Ma adesso non si combatteva più: si tessevano intrighi fra un principe reale e un primo ministro. Finiti i tempi del coraggio e del disin­teresse, erano venuti quelli dell’astuzia e dell’abilità. Insistere nel disinteresse era perdere il passo dell’attualità: c’era da passare per stupidi.

64. Toccavo con mano, una volta di più, che la Corte non rie­sce ad avere la minima nozione del pubblico, della gente per le strade. La tabe che la fa marcire – l’adulazione – provoca un deli­rio incurabile su questo punto. Mi rendevo conto che, nell’imma­ginazione della Regina, mancavano riferimenti concreti al pubbli­co – e dunque le sembrava astratto e chimerico qualunque discor­so facessi in proposito; come se quella donna non sapesse, per esempio, il significato della parola ‘barricata’.

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65. Constatai che il più abile cortigiano può prendere fior di cantonate, se si fida troppo delle proprie congetture. Nel caso spe­cifico, si suppose che mi avessero fatto cardinale come corrispet­tivo di grossi piaceri, che dovevo aver reso alla Corte. Stabilito l’assioma, non si lesinarono sforzi per inculcarlo a Monsieur – che invece sapeva perfettamente com’erano andate le cose, e ride­va di quelle panzane.

In fatto di calunnie, ciò che non nuoce al bersaglio finisce per giovargli: le mie quotazioni presso Monsieur salirono. Anzi gli aggressori danneggiarono sé stessi, senza nemmeno accorgersene.

Una volta chiesi a Monsieur dove trovava la pazienza di ascol­tare tante sciocchezze sempre uguali, che gli riferivano contro di me. Lui rispose: «E dove lo mettete il piacere di smascherare, ogni mattina, la cattiveria della gente travestita da zelo; e ogni sera la loro coglioneria scambiata per furbizia?» Presi atto della bella lezione, rivolta a chiunque abbia l’onore di frequentare grandi prìncipi.

66. Mi scrisse che il piano poteva funzionare, e il Re tornare a Parigi, solo se coglievo la Corte di sorpresa. Se invece davo il tempo di consultare l’oracolo, si sa che i preti del tempio l’avreb­bero fatto rispondere a modo loro. I quali preti preferiscono che tutto crolli, piuttosto che veniate voi a reggerlo aggiungendo il vostro sassolino.

67. Servien temeva che i suoi compari lo volessero fregare, e rifiutava di parlarmi da solo. Voleva coinvolgere Le Tellier come testimonio. «Andrebbe subito dal signor Cardinale» diceva alla Regina «a insinuare che sto cospirando con quell’uomo. Perciò, signora, prego vostra maestà di mandarlo con me, perché corra il rischio anche lui.»

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Difficile immaginare che una proposta come quella che facevo – non dico: non venisse accettata – ma di più: non riscuotesse ap­plausi a scena aperta. Anche a supporla insincera, come potevano fare solo quei degenerati, c’era comunque da cavarne parecchi vantaggi. Invece mi guardarono con occhio di triglia. Notai che si sbirciavano di sottecchi: ciascuno dei due aspettava che l’altro si sbilanciasse per primo. Erano evidentemente paralizzati dalla dif­fidenza, ma il vero destinatario non ero io: quei due non si fidava­no l’uno dell’altro. I discorsi surreali e nulladicenti che seguiro­no, confermarono l’impressione.

La situazione non era obiettivamente tale da sollevare troppi dubbi. Ma loro pensavano soltanto: che cosa racconterà frate spia al capo sul mio conto?

68. Le cose furono gestite dai cortigiani con l’arroganza e la storditaggine di chi è votato alla rovina senza scampo. Invece di perire, gli sprovveduti ebbero successo. C’è solo una spiegazione possibile: fu un miracolo. Ma le corti son piene di servi leccapiedi che non credono ai miracoli; loro li chiamano ‘lungimiranza’.

69. I cortigiani si lasciano sempre ingannare dagli applausi, senza riflettere che il pubblico fa poca differenza fra gli oggetti eterogenei cui li rivolge.

70. Devo dire che, a Corte, la maggior parte delle inimicizie non sono meglio giustificate di questa. Anzi, più sono infondate, più risultano tenaci. Il motivo è chiaro. Le offese di questo tipo esistono solo nell’immaginazione: perciò la loro vegetazione pro­spera e ingrassa di tutti i veleni di cui abbonda un ambiente così malsano.

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Decidere, decisioni difficili

71. Una somma di ‘meno peggio’ si presenta sempre come un guazzabuglio difficile da capire, che solo il puro caso può scio­gliere.

72. Vi racconterò io come andarono le cose. Le due corti ave­vano fatto offerte incredibili finché il Conte diceva di no, ma si affrettarono a tirar la briglia quando disse di sì. È una specialità che in Spagna si chiama flemma dovuta al clima, e in Austria prudenza dovuta alla politica. Quanto al Conte, per tre mesi non ottenne niente e serbò una fermezza incrollabile. Infine gli diede­ro retta ed ebbe quel che chiedeva: allora di colpo cambiò idea. L’indecisione è fatta così: procura sempre finali a sorpresa.

73. Era l’uomo più giudizioso del mondo nel distinguere il male dal peggio e il bene dal meglio: grande qualità, per un mini­stro. I piccoli passi di avvicinamento e le modeste manovre pre­paratorie lo spazientivano un po’ troppo. Ma è un difetto comune di chi non perde mai di vista le cose più importanti; esso trova sempre le sue compensazioni.

74. È assolutamente imperdonabile non prevedere e non evita­re quelle situazioni, in cui non si può far niente che non sia sba­gliato. Ho sempre constatato che il caso non basta a ridurre una persona in quello stato, che è infelice quant’altri mai: ci si cade solo dopo aver commesso grossi errori. Ho cercato di scoprire se ci sia una ragione teorica perché le cose non possano andare altri­menti, ma non sono riuscito a trovarla. Tuttavia la mia convinzio­ne empirica rimane, perché non ho mai visto esempi in contrario.

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75. Un pericolo estremo può avere il suo fascino, se alla peg­gio si può cadere con onore. Ma chiamo orrendo un pericolo, an­che non eccezionale, se in caso sfortunato minaccia di lasciarti sputtanato senza rimedio.

76. È sempre spiacevole ricorrere a mezzi estremi, ma la sag­gezza li impone, se non c’è di meglio. Il loro aspetto incoraggian­te è che non sono vie di mezzo, e se funzionano tagliano il nodo.

77. In certi casi nemmeno la prudenza riesce a far quadrare un piano d’azione, senza inserirci la speranza di sopravvenienze fa­vorevoli.

78. Di fronte a un’alternativa, questa specie di persone osserva correttamente i pro e i contro con i loro nessi, ma non sa decidere sull’insieme. Giudica separatamente il merito di ciascuna possibi­lità, ma non sa metterle tutte a confronto per scegliere la migliore e rinunciare alle altre. Perciò la sua decisione resta incerta: oggi dà più valore a una cosa, domani a un’altra.

79. Bouillon applicava una regola ovvia, che purtroppo viene sempre dimenticata: era l’unico uomo che abbia conosciuto, che non perdesse mai tempo a sostenere un’opinione, se si rendeva conto di non poterla far prevalere.

80. Niente dimostra la solida capacità di giudizio d’un uomo, quanto saper decidere nettamente fra soluzioni che presentano tutte gravi inconvenienti.

81. Gli spagnoli erano disposti a promettere qualsiasi cosa: in un negoziato, il più forte se lo può permettere. Ma il più debole deve stare attento, perché non può mantenere qualsiasi cosa.

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82. Non è detto che la coerenza al dovere non si ripaghi: anzi è l’atteggiamento che ha maggior probabilità di far nascere occa­sioni favorevoli.

83. «Bella gloria avremo! Per valere qualcosa, la gloria deve durare. La nostra non durerà più di qualche ora, se ci accontentia­mo di inseguire le buone intenzioni senza effetti pratici. Voi siete disinteressato, e sapete bene che ammiro questo atteggiamento e gli dò il giusto valore. Ma son sicuro che voi stesso trovereste strano se lo fossi anch’io. La vostra famiglia non vi dà problemi; invece mia moglie - eccola qui - me ne dà parecchi, per non par­lare dei figli.»

84. Si trova finalmente in mano il coltello per il manico, e che cosa fa? Sbuccia una mela. Niente rovina le qualità che potrebbe­ro fare un grand’uomo, quanto l’incapacità di cogliere le occasio­ni decisive per la propria reputazione. Di solito si mancano per cogliere le occasioni di far soldi. Così ci s’inganna due volte, per­ché sulla reputazione si potrebbe costruire anche il patrimonio. Bouillon volle fare il furbo, e perse l’occasione di essere accorto. Son cose che càpitano.

85. Il falso senso di sicurezza ispirato dalle alternative di riser­va, è la causa più frequente delle imprudenze che facciamo.

86. Benché l’idea non fosse ancora elaborata, andò subito a ge­nio a mio padre, che era di mentalità molto conservatrice. Comin­ciai a credere che non fosse poi una pensata così radicale come mi era sembrata al primo momento. Dopo averne discusso a lun­go, non ci parve nemmeno troppo rischiosa. Ricordai un’osserva­zione fatta altre volte: ciò che sembra azzardato, ma non lo è, di solito è saggio.

Page 20: Massime Del Cardinale Di Retz

87. Ciò che è necessario non è mai azzardato.

88. Nell’attività politica, quando si è sulla difensiva, non è mai saggio affrettare ciò che non è urgente. Ma in queste circostanze l’ansia dei subalterni può creare problemi enormi: quegli sciocchi si credono perduti, se non si agitano come pazzi. Predicavo tutti i giorni che il volo migliore era quello librato, che le impennate erano pericolose, che aspettare avrebbe reso più che agire. Ma nessuno capiva queste verità sacrosante.

89. Si sa che, in un tentativo di riconciliazione, niente crea dif­fidenza quanto la ritrosia ad accettare obblighi di riconoscenza verso l’interlocutore.

90. Correvo il rischio di pagare per tutti. Avrei avuto da sce­gliere fra l’odio per essermi opposto, o l’avversione per aver pro­vocato, o il disprezzo per non esser riuscito. Tutto senza muovere un dito: bastava lasciar fare agli altri. Figuratevi il mio imbaraz­zo.

91. La misura era di quelle che non hanno né un valido scopo, né un buon odore: perciò sono sempre pericolose.

92. Immaginate in quale condizione mi trovavo: in città dove­vo sostenere la mia parte dell’antipatia e dell’odio che si attirava il nome di Mazzarino; e intanto lui in persona si applicava stre­nuamente a rompermi le ossa. E mi attaccava presso un principe le cui doti essenziali erano aver paura di tutti e non fidarsi di nes­suno - davanti a gente che voleva vedermi morto - e davanti ad al­tra gente a cui non importava granché come andassi a finire, ma trovava divertente che finissi male.

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93. Il giorno in cui qualcuno mi avesse buttato a terra, per l’o­pinione pubblica sarei passato sì da disinteressato, ma ancor più da babbeo. Sul piano intellettuale ero convinto; ma non sentivo ancora una spinta sufficiente, tutto sommato, per agire contro la mia inclinazione. Quando si è in questo stato, convinti nell’intel­ligenza ma non nella volontà, si possono cogliere occasioni che si presentino, ma non si va a cercarle.

94. Un tentativo va sempre fatto, quando c’è da guadagnare anche se va male.

95. L’ho notato varie volte: se uno esita a lungo prima d’intra­prendere qualcosa, quando alla fine si decide, è facile che si com­porti in modo precipitoso.

96. Può essere imprudente non dar peso persino a ciò che non ha peso.

97. Ho visto tante volte che i grandi guai si combinano per gli scrupoli che si mettono a evitare i piccoli guai.

98. È bene non scherzare col favore altrui: se è schietto, va te­nuto caro; se falso, è meglio tenersi alla larga.

99. Fu un insigne esempio di quant’è pericoloso il diffuso sport di prendere impegni che si credono gratis, perché hanno presupposti che sembrano impossibili - e poi magari non lo sono.

100. Sarà capitato qualche volta anche a voi di aspettarvi un brutto guaio, e di prendere le vostre misure per proteggervi. A un tratto scoprite che vi sbagliavate: in realtà non c’è nessun perico­lo. Allora vi trovate combattuta fra la gioia per l’orizzonte che si

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rasserena, e il dispetto per i passi e sacrifici che ormai avete fatto e sprecato. A me è accaduto spesso.

Monsieur era felice che la Regina fosse così lontana da ogni accordo col Principe, ma si disperava per le offerte che gli aveva fatto lui. Una reazione comune in questi casi è di non arrendersi all’evidenza, ma dirsi: «non è vero che mi ero sbagliato». Ci si fonda su reazioni caratteriali, che si gabellano per ragionamenti.

101. Certe volte è impossibile piacere a tutti, e chi insiste fini­sce - all’opposto - per scontentare tutti. Non parliamo poi dell’ef­fetto in una situazione negoziale: atteggiamenti di questo genere si presentano come brutte furbate.

102. Gli uomini incerti, di solito, non esitano tanto sul fine, quanto sui mezzi.

103. Un indeciso non segue quasi mai la propria visione delle cose, finché gli rimane una scusa per tergiversare.

104. Ci rendemmo conto d’aver fatto un errore fatale, che ci lasciava aperte soltanto scelte proibitive. E noi, come sempre suc­cede in questi casi, adottammo la peggiore di tutte: quella di fare ognun per sé.

105. «Mi trovo in un bell’imbarazzo. Considero le cose che ho detto vere, sacrosante e senza alternative. Eppure le considero, nello stesso tempo, come porcherie inaccettabili.»

107. Monsieur m’interruppe con foga: «Non volevo dir questo. So benissimo che abbiamo avuto ragione. Ma tante volte non ba­sta ‘aver ragione’. Figurarsi se basta ‘averla avuta’!»

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108. «Una volta i frondisti mi avrebbero messo sotto accusa come consigliere troppo fiacco. Ma quando la guerra dura da molto tempo, credetemi, la maggioranza diventa sempre pacifista. Così oggi la maggioranza direbbe che sono saggio.»

109. Queste voci incatenavano perché, se da un lato non sem­bravano troppo convincenti, d’altronde trattenevano dallo spinge­re una conclusione.

110. Gli uomini delle grandi realizzazioni hanno questa supe­riorità sugli altri: che arrivano prima a vederne la possibilità.

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Donne

111. Da parte mia ero nel primo ardore delle scopate, che da giovani è facile scambiare con il primo ardore dell’amore.

112. Negli intrighi amorosi gli ecclesiastici, come le donne, salvano la faccia solo se si mettono con persone di gran merito.

Retz si appresta a prendere gli ordini sacerdotali per divenire vescovo coadiu­tore dello zio, arcivescovo di Parigi, con l’aspettativa di succedergli alla sua morte.

113. Trovavo l’arcivescovado di Parigi degradato di fronte al mondo dalle infami frequentazioni di mio zio. Per rimettere le cose in sesto, prevedevo difficoltà a non finire; e non ero tanto cieco da non vedere che la principale e insormontabile l’avevo dentro di me. Sapevo quant’è severo il modello morale d’un ve­scovo. Eppure capivo che non ce l’avrei mai fatta: qualunque considerazione di coscienza o d’interesse potessi opporre alla mia sregolatezza, sarebbe stata una diga di sabbia contro la tempesta di mare.

Riflettei per sei giorni, e arrivai alla decisione che avrei fatto il male, non da improvvisatore, ma su progetto. Per carità, in questo modo il peccato è molto più grave. Ma funziona meglio: si muni­sce ogni porcheria del suo coperchio, che almeno un po’ la na­sconde. Soprattutto ci si protegge dal pericolo dei pericoli: il ridi­colo – che nel nostro mestiere deriva innanzitutto dalla miscela incongrua di peccati e giaculatorie.

Ecco le sante disposizioni con cui uscii da San Lazzaro. Ma non esageriamo: c’era anche un aspetto commendevole. Decisi fermamente di adempiere tutti i doveri del mio mestiere, e di es­sere tanto buono per le anime altrui, quanto potevo esser cattivo per la mia.

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114. Fin dai tempi della lettura delle Vite di Plutarco, farmi capo di un partito mi era sembrato l’apice della vita intensa e fa­mosa, dedicata a grandi azioni. E ora mi spingevano anche consi­derazioni pratiche: addio alle rogne dello stato ecclesiastico! Quei perpetui problemi di buon costume, quel rasentare sempre l’abis­so del ridicolo, a rischio di caderci. Come il famoso arcivescovo di Sens, che metteva a disposizione i suoi peccati e ordinava ai fe­deli di aggiungerci i loro rimorsi.

Per ora mi reggevo con l’appoggio della Sorbona, le mie pre­diche e la simpatia del pubblico. Ma queste cose non si sa mai quanto durano: bastano un passo falso, una circostanza sfortunata, per mandar tutto all’aria.

Le magagne dei protagonisti, invece, sono sempre protette da una nebbia. La loro statura superiore fa rispettare anche ciò che non riesce a giustificare. Lo stesso comportamento può essere vi­zio nel povero arcivescovo, e virtù nel grande capopartito.

115. La Regina era adorata, ma per le sue disgrazie, non per i meriti. La si era sempre vista perseguitata: veder soffrire una per­sona del suo rango vale quanto scoprire virtù eccezionali in una persona più modesta. S’immaginava che avesse dimostrato un’e­roica pazienza: l’indolenza la imita molto bene. Comunque di si­curo ci si aspettavano meraviglie da lei: Bautru diceva che già in­cominciava a far miracoli, perché riusciva a far dimenticare ai bi­gotti quant’era civetta.

116. La Regina, fra le persone che ho incontrato, era la più do­tata di un genere di spirito, che le serviva a non sembrare scema a chi non la conosceva.

117. Per innamorarsi non sceglieva: amava perché doveva sempre amare qualcuno. Si poteva addirittura appiopparle un

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nuovo amante per scommessa; ma quando l’aveva preso, e finché durava, l’amava in modo esclusivo e fedele.

Il suo era proprio l’amore eterno, nonostante i rimpiazzi occa­sionali dell’oggetto amato. Magari ogni tanto una mosca bastava a distrarla; ma poi ritornava in servizio con slanci commoventi.

118. Non ho mai visto nessuno che, vivendo nel vizio, mo­strasse così poco rispetto per la virtù.

119. Esser teneri con le donne significa avere in fondo bontà di cuore. L’ho detto tante volte anche a voi: l’anima buona si vede più dai difetti che dai pregi.

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Ecclesiastici e devoti

120. Non credo che ci fosse al mondo un uomo più buono di mio padre, e le virtù non gli mancavano. Eppure questi duelli e affari di donne non gl’impedirono d’insistere, con tutta la deter­minazione di cui era capace, nel proposito perverso di fare un uomo di chiesa dell’anima, credo, meno ecclesiastica di tutto l’u­niverso. Bastarono la predilezione per il figlio maggiore e la cir­costanza che l’arcivescovado di Parigi fosse appannaggio della famiglia. Non se ne rese mai conto. Scommetto che avrebbe giu­rato in tutta sincerità che lo spingeva solo la preoccupazione dei pericoli per l’anima mia, che avrei corso facendo un altro mestie­re.

Niente è preda delle illusioni quanto la pietà: non c’è malinte­so che non ci faccia il nido, non c’è visione di fantasmi che non ne esca consacrata, e le migliori intenzioni non aiutano a evitare le cantonate. Capitò tutto quello che vi ho raccontato, eppure con­tinuarono a volermi uomo di chiesa.

121. Portai la decisione fino in fondo. Nemmeno l’ombra di bagordi né di galanterie: mi vestivo come la modestia in persona. Ed era una modestia sostenuta da un bel po’ di spese, belle livree, carrozze e cavalli di prim’ordine e sette od otto gentiluomini al seguito, fra cui quattro cavalieri di Malta.

122. Non feci il bigotto, perché avevo paura che alla lunga spuntasse il piede caprino. Ma coccolavo i bigotti: secondo loro è questo, in realtà, l’articolo di fede più importante.

123. Brion, gran cuoco di spezzatino devozione/peccato, era uno stupido, ma aveva uso di mondo, che in certi casi può surro­gare l’intelligenza.

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124. Quanto al clero, si sa che ha sempre dato l’esempio di ogni servaggio, e allora lo predicava alla gente dal pulpito sotto il nome di ubbidienza.

Retz entra in carica come vescovo coadiutore dello zio, arcivescovo di Pa­rigi.

125. Facevo nella diocesi ciò che potevo senza irritare la gelo­sia dello zio. C’era ben poco che non potesse irritare il suo bell’u­more. Così mi esercitavo a cavar meriti soprattutto da ciò che non facevo. La gelosia dell’arcivescovo mi dava in realtà un grosso vantaggio. Non poteva lamentarsi se mostravo intenzioni magni­fiche in ogni campo: mentre, se fossi stato io il padrone, avrei do­vuto accontentarmi dei pochi provvedimenti che si potevano met­tere in pratica.

126. A mio giudizio, basta mettere in chiaro che cosa sia o non sia vero, ma non ha senso prendersela colle persone.

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Errori e inganni

127. Non sempre errare humanum est - certe volte si fanno er­rori da bestia.

128. Lui mi chiese sarcastico se non mi ero mai accorto che alla gente piace esser imbrogliata. Devo dire che è vero anche questo: fu proprio la massima che funzionò in quell’occasione.

129. Quando restammo soli, gli dissi di non aver mai visto usare tanta eloquenza, per convincere la gente che prendersi la febbre quartana è una bella fortuna. «Il guaio» rispose «è che, per questa volta, mi devo convincere anch’io.»

Quel giorno Bouillon non disse nulla che si potesse propria­mente considerare falso né comunque riprovevole, ma nello stes­so tempo non trascurò nulla che servisse a mascherare le sue in­tenzioni. Lo notò anche Bellièvre, e me lo disse. Io commentai: «Il più abile briccone non saprebbe fare nemmeno la metà. Ho os­servato in varie occasioni il nostro amico, alle prese con quelle che a Corte passano per le persone più abili. Per essere bravi come lui, bisogna metterci il cuore.»

130. La diffidenza può ingannare più della fiducia.

131. Portò in dote al governo la furfanteria: questo non l’aveva ancora fatto nessuno. E il governo furfante, per quanto fortunato e assoluto, non era proprio un bello spettacolo da vedere, e attirava il disprezzo: cioè la malattia più pericolosa per uno stato, e il con­tagio che si diffonde più facilmente e rapidamente dal capo alle membra.

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132. Il culmine del peggio si raggiunge quando quelli che co­mandano perdono il senso della vergogna, perché allora quelli che ubbidiscono perdono il rispetto: a quel punto si esce dal coma, ma si cade nelle convulsioni.

133. Chi sa ammettere il proprio errore vale ancor più di chi lo sa evitare.

134. Uno dei peggiori difetti che spesso mostriamo, quando subiamo una disgrazia per colpa nostra, è di cercare scuse per il passato anziché rimedi per il futuro. Così si perde tempo, e i ri­medi arrivano tardi.

135. Quando il risultato ci dimostra che abbiamo sbagliato strada, è facile correggere il ragionamento che avevamo seguito, ma è molto più difficile abbandonare le impressioni che ce l’ave­vano suggerito.

136. Vedrete poi nei particolari come Noirmoutier mi tradì e mi abbandonò un’altra volta. Avevo un debole per lui, perché era allegro e spensierato: un buon compagno per tempi più facili. Quando abbiamo un debole per qualcuno lo classifichiamo come generosità, e perdoniamo offese che invece sarebbe prudente prendere sul serio.

137. Quando dài a qualcuno un consiglio che non gli piace, è facile che non si chieda affatto se è buono o cattivo, ma solo che diavolo d’interesse puoi avere tu a dargli un consiglio simile. È uno sbaglio comunissimo, ed è grande.

138. La sua era la sincerità brutale e screditata, che rimane dopo che gl’imbrogli hanno mostrato di non funzionare.

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139. Ciascuno è portato a immaginare che i mezzi migliori per fregare gli altri, siano precisamente quelli adatti a fregar lui.

140. È un bel guaio, la propensione che abbiamo a vedere ne­gli altri i nostri difetti.

141. Monsieur fu orgoglioso della giustezza delle sue vedute. Gli consentirono un paio di successi di poco conto, che non risol­vevano il suo problema. In compenso contribuirono non poco ad addormentarlo, e in ultima analisi a rovinarlo.

142. Se tanta gente voleva che il duca di Lorena se ne andasse, la sua ritirata - penserete voi - avrà fatto tutti contenti. Invece sol­levò un putiferio di contrarietà. Chi più aveva protestato all’arri­vo, più strillò alla partenza. Non è strano che gli uomini non co­noscano sé stessi, visto che non si ascoltano quando parlano.

143. Quando per partito preso si è tanto ostili a una data scelta, si è sempre portati a credere che ci siano alternative, e anzi che siano agevoli. È un’idea che s’insinua ovunque, anche nelle fanta­sie dei subalterni. Ci si confida quant’è facile, lo si bisbiglia all’o­recchio. Il segreto è un venticello, che gradualmente diventa un temporale e fa diversi effetti dannosi, sia fra gli amici, sia nei rap­porti con gli avversari.

144. Di solito le amicizie si conservano solo finché dura la buona fortuna. Io l’avevo sempre letto nei libri, ma non ci crede­vo. Dio sa quanti sbagli ho commesso per questo motivo. Nei momenti difficili sarò stato venti volte sul punto di mancare del necessario, perché ai bei tempi non mi ero mai preoccupato di non mancare del superfluo.

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Grandi affari

145. Constatai che, nei grandi affari, l’intelligenza non è niente senza il coraggio. Elbeuf non salvò nemmeno le apparenze. S’in­garbugliò in spiegazioni ridicole delle sue precedenti affermazio­ni, e cedette anche ciò che nessuno gli chiedeva.

146. Nei grandi affari, chi dà spazio agli sbagli degli altri spes­so è più colpevole di loro.

147. Nei grandi affari non esistono piccole circostanze.

148. Se negli affari quotidiani spesso una parola vale l’altra, invece nelle faccende importanti non si pesa mai abbastanza il va­lore d’ogni parola.

140. Penso che sia sempre uno sbaglio, nei grandi affari, rivan­gare il passato, a meno che non si richieda per la storia o per ge­stire qualche aspetto particolare del presente.

141. Per vederci chiaro quando ci sono in giro tanti pregiudizi, bisogna essere filosofi in attività di servizio. Ma i filosofi son quattro gatti e contano zero, perché non sono gente che sappia maneggiare picca e spada. Quelli che gridano nelle strade, quelli che concionano nelle assemblee, si accontentano della minestra d’idee che trovano dentro la pignatta comune.

142. «Per essere efficace, la guerra dev’essere fatta senza scru­poli. È consentito un solo scrupolo: non si deve intrallazzare coi nemici dello stato.

«Esclusi i contatti con gli stranieri, per ogni altro aspetto Mon­sieur non avrà esitazioni: arruolerà truppe, raccoglierà denaro, oc­

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cuperà uffici pubblici, confischerà entrate fiscali. A chi s’oppone con armi o cavilli: botte in testa.»

143. Quando l’affare è importante, non ci sono né fatica né pe­ricolo né spesa che tengano.

144. Quando ci si occupa di grandi affari, ancor più che di quelli correnti, non bisogna mai lasciarsi prendere la mano dal gusto di scherzare. Ti diverti, ti senti superiore - ma intanto non stai attento.

145. Capita spesso che ci si trovi imbarcati in una scelta di fondo, più per colpa d’una parola di troppo che per motivi seri. Quando faccio questa riflessione, concludo sempre che negli affa­ri più grandi non si pesano mai abbastanza le parole più piccole.

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Il Parlamento

146. La regia prevedeva che gli attori comparissero uno dopo l’altro, perché scandire il tempo dello spettacolo è essenziale per commuovere il pubblico, e un Parlamento è un pubblico come un altro. Il calcolo risultò giusto: i tre interventi sgranati fecero ben altro effetto di una dichiarazione congiunta.

147. Ho già detto che il Parlamento è un pubblico come un al­tro; anzi, aggiungerò, è un pubblico d’imbecilli.

148. Quegli stupidi si aizzarono l’un l’altro, ancor prima di mettersi seduti. Due giorni prima erano bianchi come stracci per la fifa. So io la fatica che avevo fatto a tenerli ritti. E ora di colpo, senza saper bene perché, passavano dalla paura alla voglia di spaccar tutto. Probabilmente avevano mostrato maggior buon senso quando avevano paura.

149. Durante i tre mesi dell’assedio, il Parlamento si riunì re­golarmente ogni mattina, e a volte anche il pomeriggio, quasi sempre per discutere fanfaluche. Roba di cui due commissari si sarebbero sbarazzati in un quarto d’ora. Di solito si trattava di se­gnalazioni di tesori, nascosti da simpatizzanti della Corte: era dif­ficile trovarne fondata una su cento. S’incaponivano a inseguire farfalle, e si accanivano a farlo in buona e debita forma legale. Imparai presto che un’assemblea istituita per gestire la pace, in guerra non è che un ferrovecchio.

150. I magistrati sono tanto abituati alla caterva di formalità delle loro procedure giudiziarie, che nemmeno fuori dai processi sono capaci di distinguere la forma dalla sostanza.

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151. Qualcuno doveva pur introdurre l’argomento, e quell’as­semblea era sensibilissima alle prime impressioni. Il nome di chi parlava per primo poteva decidere se la proposta sarebbe stata ac­colta o respinta. Tutto ben considerato, arrivammo alla conclusio­ne che era meno peggio non tener nascosta l’intesa fra noi, e sce­gliere una presentazione autorevole, piuttosto che correre l’av­ventura di un intervento a sorpresa dall’esito imprevedibile. In realtà rischio e avventura sono all’ordine del giorno in queste as­semblee, nonostante le infinite procedure che le regolano. Anche il semplice sospetto che certi membri siano d’accordo fra loro, è capacissimo di avvelenare la discussione sui provvedimenti più giusti e sacrosanti.

152. Il modo più efficace per far passare ai voti in assemblea una decisione difficile è di metter su i giovani contro i vecchi.

153. «Confesso che non avrei mai creduto ciò che vedo con i miei occhi. Il giorno 13 il Parlamento non vuol nemmeno sentir parlare della pace di Rueil. Il 15 l’accetta, salvo pochi articoli. Non basta: il 16 prende le stesse persone che avevano firmato la pace senza poteri, anzi contro il suo ordine esplicito, e le rispedi­sce a negoziare, senza vincoli né istruzioni. Non basta nemmeno questo: noi finiamo coperti di contumelie, perché osiamo lamen­tarci di esser lasciati fuori, e che Longueville e Turenne vengano abbandonati. Ma anche questo è poco: potremmo lasciar fare al popolo, che impiccherebbe tutti questi imbrattacarte; e invece ri­schiamo la nostra vita per salvare la loro. Ammetto che l’ultimo punto è una questione di buon gusto.»

154. Lo spirito di contraddizione domina tutti i collegi che ho visto in vita mia, e il Parlamento mi sembra peggio degli altri: perfino peggio dell’Università.

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155. Non ci vuol niente ai giuristi per fare volar via una matti­nata: uno dice una parola, e subito cinquanta si mettono in lista per commentarla, ciascuno a suo modo. A ogni momento biso­gnava rileggere quelle stupide testimonianze, da cui non si sareb­be cavato di che condannare un facchino a una sola frustata.

156. Per dare un’idea del parlamento di Bordeaux com’era a quei tempi, si può dire che il suo esponente più posato e autore­vole poteva giocarsi a scopone tutto il suo patrimonio in una sera, senza che nessuno ci vedesse niente di strano.

157. Anche gli organi assembleari possono soffrire di torpori.

158. Non ho mai capito come un singolo possa sentirsi offeso da un corpo assembleare.

159. I parlamentari si credevano padroni di sé stessi, ma in realtà recitavano su un palcoscenico, con macchine teatrali nasco­ste sotto le assi del pavimento.

160. Conclusa la lettura, ci fu un acceso dibattito sul fatto che lo scritto fosse privo di firma. Nel caso specifico non cambiava niente; ma in questi illustri consessi le formalità sono il solo og­getto a portata di molte testoline che ne fanno parte, e impegnano duramente anche le poche teste sensate.

161. Ebbi tutto il tempo di prepararmi, perché il mio turno ve­niva dopo i voti della Grande Chambre. Così ero, in pratica, il primo a esprimere un’opinione. Quei bravi vecchietti, quando de­vono improvvisare, non dicono mai niente che abbia senso comu­ne.

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162. Un consigliere osservò che, per far rispettare atti del ge­nere, bisognava mandare a notificarli un numero insolitamente grande di ufficiali giudiziari e armarli, non di calamai, ma di buo­ni moschetti.

163. Un consigliere fece presente che il primo passo, per la sussistenza delle truppe, era di stanziare i fondi necessari. Propo­se di prelevarli dalla cassa delle partite casuali, sull’introito del diritto annuale. Clamori e indignazione: come si permetteva? At­tentare alla quiete pubblica era già abbastanza brutto - spendere i soldi dell’assemblea era orribile. Monsieur dovette toccar con mano che avevo ragione io a dire che è scomodo far guerra al Re secondo le direttive del Re.

164. Quando è un ente a rendersi ridicolo, la cosa non riesce subito chiara: un Parlamento è un’istituzione grande e maestosa, fin dalla scalinata che sale al portone d’ingresso. I poveri tapini suppongono che sia anche infallibile. Invece si vede subito quan­do cade nel ridicolo un uomo, sia pur principe del sangue. Lo ri­petevo tutti i giorni a Monsieur. Lui mi dava ragione, ma si met­teva a fischiettare e concludeva: «Che altro si può fare?»

165. Il bastian contrario non manca mai, specialmente dove si sospettano manovre predisposte.

166. «Vi ho già detto che all’inizio il Parlamento incasserà il colpo di sorpresa. Ma dopo qualche giorno, vedrete che applaudi­rà con entusiasmo. Le assemblee sono fatte così. Non ho mai vi­sto che occorrano più di tre o quattro giorni d’abitudine, per far rientrare nella normalità le forzature più evidenti.»

167. Si può immaginare qualcosa di più necessario al Principe e a Monsieur, che rafforzare l’alleanza col Parlamento? Ma inve­

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ce di correre a impegnarlo e portarlo definitivamente dalla loro parte, commettono due errori: lo lasciano libero di scorrazzare, e cercano di fargli paura. Si sa come finiscono queste storie: l’as­semblea usa la libertà che gli dài per vendicarsi della paura che gli fai.

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Il Partito

168. Sono convinto che per fare un buon capo partito occorro­no doti più grandi che per un buon imperatore del mondo intero; e che nella scala di queste doti la determinazione conta quanto il giudizio: intendo il giudizio eroico, quello che serve a distinguere lo straordinario dall’impossibile. È un genere di giudizio che si trova solo nei grandi spiriti, e di rado anche in quelli: il Conte non ne aveva nemmeno il più lontano sospetto. La sua capacità di giu­dicare era molto modesta, e lo trascinava quindi a diffidenze in­giustificate: un vero disastro per un capo partito, che ha spesso bi­sogno di vietarsi anche il solo sospetto, e comunque si deve guar­dare in ogni istante dal lasciar trasparire la minima traccia di dif­fidenza, fosse pur legittima.

169. Così va il mondo: i benintenzionati sono capaci soltanto di brancolare nel buio; poi arriva qualcuno con gli occhi aperti, che aggiunge passioni sue e spirito di parte agl’interessi pubblici, e approfitta delle occasioni. Egli vede il futuro e le potenzialità, dove la grande assemblea guarda soltanto il presente e l’apparen­za.

170. Spero di avervi dimostrato quanto sbaglia chi crede che un partito non nasca senza un capo che l’abbia progettato. Un partito può nascere in una notte. Lo stato di violenta agitazione durò un anno intero, e non produsse niente; poi, in un istante, fece sbocciare e crescere un partito, molto più in fretta di quanto fa­cesse comodo a chi ci si trovò coinvolto.

171. In un partito convivere con i compagni è molto più fatico­so che combattere gli avversari.

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172. Se permettete che i vostri avversari facciano pubblica­mente quello che non vi deve piacere, il pubblico pensa che se lo possano permettere perché sono più forti di voi, che li lasciate fare. D’altronde, non vedevo come impedirlo senza violenza, che non sarebbe stata né giusta né prudente. Ingiusta, perché esercita­ta dal forte sul debole. Imprudente, perché avrebbe portato la que­stione pubblica sul terreno della contesa privata.

173. I capi d’un partito lo controllano finché riescono a preve­nire o reprimere i mugugni.

174. La divisione fra noi rischiava solo di far crescere il partito dei Prìncipi, e di creare tanta confusione da non lasciar spazio per azioni ben studiate e ordinate, ma costringerci a improvvisare botte e risposte alla giornata. Questa è la condizione peggiore che si possa immaginare, da evitar sempre con ogni cura.

175. Vi meraviglierete che parli di sicurezza, sul fondamento della semplice popolarità: direte che il pubblico è lunatico. Ma, tutto sommato, i parigini sono più costanti di tanti altri.

176. Quando il terreno è ancora indefinito e non si sa niente di preciso, il capo ha colpa di tutto quello che - non si sa mai - i se­guaci hanno paura che gli possa venire in mente.

177. Chi pensa che il capo di un partito lo guidi come vuole, non sa che cos’è un partito. Di solito i veri padroni sono i subal­terni, con i loro interessi veri o presunti: loro prendono la mano al capo e condizionano la sua prudenza.

178. Mi son sempre figurato un partito come una nuvola: cia­scuno che alzi gli occhi a guardarla, ci vede quel che gli pare.

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La Paura

179. Il clima di paura è adatto per discutere, ma non per deci­dere.

180. È raro che la paura paralizzi singole persone: ma ho os­servato che l’effetto è molto più frequente sulle assemblee delibe­ranti.

181. Le decisioni interlocutorie sembrano sempre le più sagge agl’indecisi, perché assecondano il loro difetto.

Caumartin fu bravissimo: non suggerì niente a nessuno, ma fece nascere i pensieri giusti direttamente nelle teste altrui.

Per esempio, Monsieur usava fare come quelli che devono tuf­farsi nell’acqua fredda: chiudono gli occhi e si buttano. Caumar­tin diceva: no! bisogna che si butti con gli occhi aperti. Bisogna farglieli aprire con una batteria di paure, ciascuna non troppo grande, ma sparate a raffica, che non gli lascino il tempo di assor­birle.

182. Dopo il faticoso cammino per passare dalla velleità alla volontà - e dalla volontà alla risoluzione - e dalla risoluzione al progetto - e dal progetto all'attuazione - quell’uomo era capacissi­mo di impantanarsi e tornare al punto di partenza, quando già si trovava nel bel mezzo dell’attuazione.

183. Quando un uomo è debole, non c’è verso che riesca a na­sconderlo.

184. Quando la paura si sente furba, diventa del tutto incorreg­gibile.

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185. Quando infine lo convinsi, si comportò nel modo tipico dei deboli, che passano da un estremo all’altro. Non biasimò più gli accordi coi nemici, ma passò addirittura a giustificarli. E non lo fece in modo sensato, ma con ragionamenti storti: di quelli che servono solo a convincere gli ascoltatori che si vuole ingannarli.

186. Monsieur aveva una tal paura dei tranelli da caderci di continuo (come càpita alle lepri).

187. L’incertezza di Monsieur era d’un genere speciale. Lo pa­ralizzava solo quando bisognava muoversi, ma lo metteva subito in moto se era indispensabile star fermi. Il fatto è che lui non scartava mai gli scenari incompatibili, ma li teneva tutti davanti agli occhi. Ogni comportamento, cattivo in uno scenario, gli sem­brava buono in qualche altro. E la scelta, sempre rinviata, gli pa­reva sempre aperta.

188. Si dice che combattere contro il carattere non serve a niente. Quello pauroso è ancor più inattaccabile degli altri: la pau­ra è una salda rocca.

189. Paura e debolezza hanno effetti incredibili: io dico che il loro caleidoscopio è molto più colorito di quello delle passioni violente. Per lo meno, è più facile che mettano insieme atteggia­menti contraddittori.

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Potere, forza

190. Se ti credono forte, tu sei forte.

191. Il coraggio è una dote non rara, per non dire banale. La determinazione è più rara di quanto s’immagina, eppure è ancor più necessaria per compiere grandi azioni: e ci può essere azione più grande che guidare un partito? Guidare un esercito è di gran lunga più semplice. Naturalmente uno stato è più complesso, ma i congegni per la guida non sono affatto così fragili, né così delica­ti.

192. Enrico IV non aveva paura delle leggi, perché aveva fidu­cia in sé stesso.

193. In certi paesi l’abitudine ha reso gli uomini capaci di sop­portare il fuoco; da noi, è riuscita a incallirci verso cose che i no­stri padri temevano più del fuoco. Loro detestavano la servitù, an­cor più per l’onore dei loro signori che per sé stessi: noi ci siamo dentro fino al collo, e non ce ne accorgiamo nemmeno.

194. Il Parlamento fece udire il primo brontolio a proposito dell’editto sui dazi doganali; e bastò perché tutti si svegliassero. Ancora intontiti dal sonno, brancolarono in cerca delle leggi: non c’erano più. Tutti si sgomentarono, protestarono, rivendicarono. Nel gran baccano le ragioni del diritto, cui bisognava rifarsi, da oscure e venerande divennero opinabili; e poi senz’altro odiose per metà degli opinanti.

La gente entrò nel santuario e strappò il velo che deve sempre coprire ogni parola, ogni pensiero, sul diritto del popolo e su quello del sovrano: due cose che convivono pacificamente solo quando non ci si pensa e non se ne parla.

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195. In altri tempi i sovrani portavano ai loro sudditi vero ri­spetto: ma ora le cattive abitudini di due secoli di cortigianeria l’hanno ridotto a pura formalità. Chi inventò queste abitudini non sapeva quel che faceva: ora, per conseguenza, anche il rispetto dei sudditi per i sovrani può diventare una pura formalità.

196. «So che per voi il popolo non conta, perché la Corte è ar­mata. Ma lasciatevi dire che il popolo va preso sul serio, quando si prende sul serio da sé. Badate che esso incomincia a pensare che siano le vostre truppe a non contare niente. Per nostra disgra­zia, la forza della folla risiede nella sua immaginazione. La folla è l’unica potenza al mondo di cui si possa dire, quando supera un certo limite, che può fare davvero tutto ciò che immagina di poter fare.»

197. Elbeuf s’inalberò e ripeté le solite cose: che per mandarlo via bisognava ammazzarlo. Si alzò un mormorio di riprovazione. Per la verità Elbeuf parlò bene, ma non fu tempestivo: non era il momento di contestare, ma di trovare accomodamenti. Ho sempre notato che i deboli non cercano accomodamenti, finché hanno qualche forza per negoziare: aspettano di non averne più.

198. «L’entusiasmo basta solo per incominciare; ma quando si raffredda, bisogna rimpiazzarlo con la forza. Non sto pensando alla violenza, che è quasi sempre un mezzo grossolano e di esito incerto. Penso alla forza contrattuale: quella che avete se i vostri antagonisti si convincono di dover fare i conti con voi.»

199. «Questa non è forza contrattuale: possiamo saccheggiare e impiccare – ma il Parlamento non lo sa.»

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200. È la maledizione della forza popolare. Chi la maneggia, di solito, vuol farla temere per ricavarne vantaggio; ma non gli conviene scatenarla, per non bruciarsi anche lui, nei suoi interessi materiali e morali. Purtroppo è una forza così grande che nessuno ci crede, finché non se la trova addosso: e allora è troppo tardi.

201. Per far vedere che si comanda, occorre dimostrarlo nei fatti; le investiture formali non bastano. Si può perdere completa­mente il potere, e illudersi per un bel pezzo di averlo ancora. Ed è un’illusione che può resistere a qualsiasi evidenza. Gli uomini possono mettere un impegno incredibile a ingannarsi da soli.

202. In certi momenti certe persone hanno sempre ragione, qualunque cosa facciano.

203. «Vi sembra giusto far altrettanto danno allo stato, con la vostra inerzia, quanto altri ne fanno con la loro disonestà?»

204. Le persone che, alla lunga, fanno l’opinione pubblica non sono né frondisti né mazzarini: è la gente qualsiasi, che non par­teggia per nessuno, ma vuole solo il bene dello stato. Quando in­cominciano i disordini, questa gente non conta nulla. Ma alla fine sono loro a decidere.

205. Guai a prendersi gioco di chi ha in mano l’autorità reale! Per quanti difetti possa avere, non è mai così debole da non ren­dere necessario di blandirlo, oppure di distruggerlo. Ciò che non si deve mai fare è disprezzarlo, perché appartiene alla rara specie delle persone che possono avvantaggiarsi anche dell’esser prese sottogamba.

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Storici e protagonisti

206. Non c’è persona così informata che non le sfugga qualco­sa. Nelle storie scritte da chi realmente sa, perché è stato coinvol­to nel segreto delle cose, ci sono molti più punti interrogativi che in quelle scritte da ignoranti. Infatti i beceri nati davanti alla porta di servizio, che non hanno mai potuto sgranar gli occhi più in là dell’anticamera, si piccano di saper tutto delle stanze più segrete. Mi ha sempre meravigliato l’insolenza di quella gente meschina – in tutti i sensi: sociale, mentale e morale – che s’illude di penetra­re nel cuore e nella mente di chi conduce i grandi affari, e di spie­gar tutto.

Ricordo che un giorno vidi due o tre opere del genere sullo scrittoio del Principe. Lui s’accorse che guardavo, e mi disse: «Quella gentucola immagina che voi e io siamo come sarebbero loro, se si trovassero nei nostri panni.»

207. Il fatto curioso è che adesso chiunque vede la contraddi­zione, ma allora nessuno sembrava accorgersene. Ricordo di es­sermi stupito tante volte, leggendo antiche storie piene di contrad­dizioni. Ma poi l’esperienza m’ha insegnato che non sempre ‘contraddittorio’ significa ‘falso’.

208. Riferire i propri ricordi o ricavare un racconto da memo­rie altrui, sono rispettivamente ritrarre dal vivo o ricostruire per sentito dire. Nei registri, come nelle tombe, restano solo i corpi: le anime volano via.

Lo spirito di un’assemblea intenta a decidere lo cogliete in un colpo d’occhio, lo percepite in un moto delle persone, lo annusate in un’atmosfera, che non sempre sapreste analizzare nelle sue componenti. Poco o niente di tutto questo è racchiuso nelle deli­

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berazioni, negli esiti che sembrano importanti: nei soli, comun­que, che si possono annotare nei registri.

Vedete bene che sono uno storico scrupoloso. Trovo il fatto mio, e conto di darvi un valore aggiunto, dove descrivo quanto osservai al vivo dei movimenti nascosti di tutte le macchine che producevano esiti registrati.

209. Vi giuro che la maggior parte delle manovre che mi attri­buirono in quel tempo gli esperti di segrete cose, furono sogni a occhi aperti in notti di luna nuova.

Purtroppo quella gente sognava molto sul mio conto. Perciò ero esposto in continuazione alle diffidenze degli uni, ai timori degli altri e alle speculazioni di tutti.

Un ruolo così - che a dir tanto è difensivo - riesce pericoloso quando lo reciti, e scomodo quando lo racconti. Sembri maledet­tamente presuntuoso: non riesci a dire quattro cosette che fai tu, senza tirare in ballo le grandi cose che fanno gli altri. Ti calzi sul­la testa la berretta da notte, ma la Pace ti rincalza le coperte e la Guerra soffia per spegnerti la candela.

210. Per far commenti mi dovrei avventurare in congetture, e ho constatato spesso che anche le più ragionevoli possono essere sbagliate. La storia non si fa colle congetture, tanto meno per pre­sentarla a una persona seria come voi.

211. Uno storico che parlasse di tempi lontani cercherebbe del­le scuse. Per non perdere ogni credito, non se la sentirebbe di ac­costare uno all’altro atteggiamenti contraddittori e inverosimili come questi, senza inventargli qualche giustificazione.

L’intervallo cronologico fu quello che ho detto, e non ci furo­no altre spiegazioni oltre quelle che ho indicato. I romanzi inven­tati dai politici di ceto servile per legare insieme questi fatti, sono chimere. Torno sempre alla mia massima: le scelte giuste e quelle

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sbagliate determinano con ugual rigore il corso dei fatti. Se vede­te che quel corso è bizzarro e stravagante, potete giurare che la scelta a monte dev’essere stata un grosso sbaglio.

212. Qualunque gran gesto che non sia stato messo in pratica sembra impossibile, a chi di gran gesti non è capace.

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Temperamenti e umori

213. Bisogna ammettere che i suoi vizi, per essere soddisfatti, richiedevano l’impiego di grandi virtù. Una fortuna adeguata può rendere illustri vizi del genere.

214. Il fatto è che voleva troppo bene a sé stesso: questa è l’in­dole dei vigliacchi; e non temeva abbastanza sé stesso: è l’indole di chi non si cura del proprio nome.

215. Montrésor era stato per tutta la vita partigiano di Mon­sieur. Era un consigliere pericoloso, di quelli che hanno la politi­ca nel cervello ma non nel cuore: gente che consiglia ogni cosa, perché lei non fa niente. Laigue, al contrario, era uno stupido co­raggiosissimo, e altrettanto presuntuoso: gente che affronta qua­lunque impresa senza riflettere, se glielo dice uno di cui si fida. Il secondo era nelle mani del primo, ma si condizionavano a vicen­da: prima Montrésor persuadeva Laigue e poi, come sempre càpi­ta, Laigue montava la testa a Montrésor.

216. Il valore d’un uomo può dipendere più da ciò che non fa in certe occasioni, che da tutto quello che può fare per il resto dei suoi giorni.

217. L’esperienza mi dice che si fa pace quando non si vuol li­tigare; la circostanza di avere o no validi motivi è indifferente.

218. Chi ha grandi qualità e grandi progetti non è mediocre. Ma se perde i progetti per strada e non conclude niente, non vale niente: e così diventa mediocre.

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219. Gli esempi del passato colpiscono gli uomini molto più di quelli contemporanei. Siamo abituati a vederne di tutti i colori. Ci meravigliamo che Caligola nominasse senatore un cavallo; ma se accadesse oggi, davanti ai nostri occhi, penseremmo solo che ab­biamo visto di peggio.

220. Le difficoltà risultarono alla fine più utili alla Corte delle più astute manovre. Non impedirono al Cardinale di negoziare: lui non poteva trattenersi, suppongo che lo facesse anche nel son­no. Ma lo indussero, diversamente dal solito, a non fidarsi solo del negoziato.

221. Brontolava sempre e attaccava briga su ogni piccolezza: brutto difetto, per chi abbia a che fare con molta gente.

222. Aveva settantadue anni, ma era sano e vigoroso, spendeva molto, non si vendeva per poco ed era d’umore brusco e feroce - che passava per aperto e franco. Queste caratteristiche supplivano bene all’età, e gli evitavano di sembrare uno che ha fatto il suo tempo.

223. Mi parve una persona straordinaria, di grande capacità. Lo si capiva, perché sapeva fidarsi degli altri: dote rara, che ap­partiene a spiriti sicuri di sé e fuori del comune.

224. Il primo presidente era un uomo tutto d’un pezzo. Le per­sone come lui sono capaci di bere senza batter ciglio qualunque fanfaluca: basta che confermi le loro idee preconcette.

Eppoi c’era il Cardinale. Lui non avrebbe mai supposto che uno potesse rinunciare a mettere un doppiofondo dovunque si po­tesse applicare. Con le persone come lui si va a colpo sicuro, se gli si fa credere che si offre aiuto a qualcuno solo per imbrogliar­lo meglio.

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225. I cervelli di gallina non ammettono mai che qualcosa suc­ceda per caso, se può avvenire per calcolo.

226. «Si capisce» brontolò la Regina, «sono i soliti nobili sen­timenti. Come li odio!»

227. Di tutte le virtù, la prudenza è la più facile da contraffare.

229. Lo tormentava con pretesti e cavilli, come i fortunati fan­no sempre con gl’infelici.

230. Persino l’insolenza fa bella figura, se ha successo.

231. Dissi: «Dunque avevo ragione di sconsigliarvi.» Fece un gesto d’impazienza e ribatté: «Be’, che c’è di strano? Non si giu­dicano le azioni dall’esito. Ieri avevo ragione io - oggi ce l’avete voi. Che fare, con gente testarda come quella lì?» Io aggiunsi nel pensiero: «Che fare, con gente debole come te?»

232. È facile che una persona, quando finalmente afferra la di­gnità a cinque stelle che stava inseguendo da un pezzo, da princi­pio si abbagli da sé, mentre si guarda allo specchio. Allora non mancherà di far stupidaggini, e questi errori iniziali lasceranno il segno.

233. Per chi sta sopra, mostrare riguardo alla suscettibilità e al pudore di chi sta sotto è buona regola, tanto di politica quanto di decoro.

234. A me piace stare allegro ed esser popolare. Comandare il governo non va troppo d’accordo con lo stare allegri - e rende im­portanti, sì, ma non popolari.

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235. Non si sa mai abbastanza delle buone azioni, e special­mente di quelle per cui dobbiamo riconoscenza.

236. Gli uomini sono stimati per i loro lati peggiori. Si disse che ero impavido - si doveva dire che ero un bell’incosciente: ef­fettivo il vizio, chimerica la virtù. Del resto, non era stato per co­raggio che avevo trascurato di premunirmi: ahimè, non avevo pensato al pericolo.

237. Non sono uomo da spingere il rispetto delle leggi fino alla pignoleria; ma ero convinto, e lo sono ancora, che il santuario dell’autorità sovrana non deve mai essere messo in discussione.

238. Mai esagerare colle buone intenzioni! Ho spesso trascura­to questa regola aurea e ho sempre avuto da pentirmene, negli af­fari pubblici come in quelli di famiglia. Ma vedete: è difficile cor­reggere un difetto che lusinghi, insieme, il senso morale e una forte inclinazione che ci sentiamo dentro. In fondo non mi pento della mia scelta nemmeno adesso. Eppure m’è costata la prigionia con tutte le sue conseguenze, e non sono cose da poco.

Se avessi seguito la strada opposta, se avessi accettato le offer­te di Servien, mi sarei tolto d’imbarazzo e avrei evitato un monte di disgrazie, sotto il quale ho corso il rischio di finire schiacciato. Naturalmente non avrei evitato gl’inconvenienti che ricadono sempre su chi è a capo d’un partito, e si disimpegna senza accon­tentare i suoi sostenitori. Ma il caso avrebbe potuto aiutarmi o, alla peggio, il passar del tempo avrebbe fatto svanire ogni rimpro­vero.

È tutto vero, e io ho fatto altrimenti. Ma non ho rimpianti. Ho dato ascolto alla mia indole. Penso che - salvo tener fede a se stessi e non mentire - tutto il resto non faccia poi gran differenza

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nella vita d’un uomo. Perciò sono ragionevolmente contento di quello che ho fatto.

239. Un rimedio ci dà maggior sollievo, se prima l’abbiamo previsto e studiato, e poi lo vediamo funzionare in pratica.

240. «Se avessimo di fronte dei grand’uomini, potrei pensare che minaccino senza crederci neanche loro. Ma queste bertucce si fanno più scrupoli a dire una cosa che a metterla in pratica.»

241. «L’attesa di tutti sul vostro conto è così grande, che siete obbligato a soddisfarla a rischio della vita, e anche di più: a ri­schio della libertà.»

242. Le persone più diffidenti sono spesso le più facili da im­brogliare.

243. Il dispiacere che si prova a metter mano al portafoglio ci fa perdere tempo, anche quando sappiamo che non c’è alternativa - e poi spenderemo lo stesso, ma troppo tardi.

244. Un ragazzo deve riflettere, almeno una volta la settimana, che è imprudente lasciarsi andare alla bontà senza pensarci bene. Sia chiaro: un gran signore non sarà mai abbastanza buono. Ma, specialmente nelle avversità, dev’essere capace di tenere la bontà ben nascosta in fondo al cuore, quando è necessario per difendere la dignità.

Io, che sono troppo spontaneo, tante volte non ho rispettato questa massima. Ragazzi, prendete nota: quanti guai m’è costato!

245. Far dei favori a chi ci tradisce, è bellissimo; accettarne da lui, fa schifo. Se prendi uno schiaffo, il cristianesimo consiglia di offrir la guancia per prenderne un altro, ma non per accettare una

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carezza che mascheri il primo. Se fosse una cosa giusta, state si­curi che il vangelo la consiglierebbe.

246. Questa storia rappresenta in modo esemplare i tradimenti degli amici verso chi cade in disgrazia. Primo passo: gli amici mettono in giro la voce che anche loro hanno da lamentarsi di quel reprobo. Secondo passo: minimizzano gli obblighi che han­no nei suoi confronti. Semmai devono ben altro ad altre persone le quali, guarda caso, godono sempre di buona fortuna.

In questo modo è facile ingannare l’incostante attenzione che la maggior parte degli uomini rivolge alle ingratitudini che non li coinvolgono personalmente, e rimpiazzare la gratitudine dovuta con un’altra fasulla.

L’unico rimedio contro questi dispiaceri - che ci fanno male, nella disgrazia, ancor più della disgrazia stessa - è di fare il bene per il gusto di farlo. Questo è il modo più sicuro. Ma non è a por­tata di chi è incline alla cattiveria, e nemmeno di chi ha buon cuo­re. Infatti il buon cuore conosce il valore della coscienza soddi­sfatta, ma non sfugge ai dispiaceri dell’amicizia delusa.

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Paul de Gondi nel 1650, in abito di vescovo di Corinto “in partibus infidelium” e coadiutore dello zio arcivescovo di Parigi. La sua divisa sotto il ritratto è un po’ aggressiva: due mazze su cui sta scritto, rispettivamente, illa tuetur e haec domat. L’autore di questa incisione, come delle altre riportate in seguito, è Robert Nanteuil.

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Anna d’Austria nel 1660, non più reginetta di Francia come ai tempi degl’intrighi amorosi con il duca di Buckingham (si veda­no I Tre Moschettieri), né Reggente per il figlio Luigi XIV (quan­do Retz fece un maldestro tentativo di conquistare le sue grazie a scapito di Mazzarino), ma ormai anziana Regina Madre.

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Mazzarino succedette a Richelieu nella fondazione della mo­narchia assoluta in Francia, e provvide a educare l’autocrate Luigi XIV. Tuttavia la pubblica opinione fu ingrata nei suoi con­fronti e lo denigrò per lungo tempo, anche dopo la morte, come furfante italiano. Ce ne volle prima che si scoprisse che aveva dato alla grandeur un contributo decisivo.

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Luigi II di Borbone, principe di Condé, che prima inflisse gra­vi colpi alle fortune militari spagnole, poi collaborò con loro a scapito del suo paese, e infine, dopo un lungo esilio, ritornò sotto le bandiere del cugino Luigi XIV.

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L’astuto e tortuoso duca di Bouillon. Le sue manovre erano intese a procurargli adeguate contropartite della perdita di Se­dan, piccola signoria indipendente ai confini tra Francia e Paesi Bassi spagnoli, che Richelieu gli aveva confiscato come covo se­dizioso.