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Maurizio Blondet 09/12/2004 Nicolas Sarkozy è l’uomo che punta a sostituire Chirac come presidente francese per le elezioni del 2007. A questo scopo, Sarkozy sta diventando segretario dell’UMP, il partito “gollista” di governo. Fatto singolare, tutti i media filo-Bush parlano molto bene di Sarkozy, al contrario di quello che fanno nei confronti di Chirac. Il piccolo mistero è rivelato da un vecchio libro, “Histoire des Israelites de Salonique”, dello storico ebreo-francese Joseph Nehama (1881-1971). Nella parte VI della voluminosa storia, si racconta come il nonno materno di Sarkozy, Benedict Mallah, fosse un ebreo nato a Salonicco (città in cui allora la popolazione giudaica era maggioranza) sotto l’impero Ottomano. Il nonno di questo Benedict Mallah, Haim Joseph Mallah, era un rabbino di Salonicco (morì nel 1720) appartenente alla setta dei “dunmneh” (apostati in turco), ossia dei seguaci del falso messia Sabbatai Zevi convertitosi falsamente all’Islam nel 1666; precisamente, la famiglia Mallah faceva parte della setta sabbatista dei Karakash, che praticava culti aberranti sessuali, e che “formò” un altro falso messia, stavolta polaccco, Jacob Frank. Il rabbino Mallah fu tra i diffusori del Sabbateismo in Ucraina e in Polonia. Varrà la pena di ricordare che il centro delle credenze sabbatee è una gnosi aberrante, per cui “la salvezza si ottiene attraverso il peccato”, anzitutto con l’apostasia, ma anche con trasgressioni sessuali estreme, come l’incesto. Infatti il “messia” Zevi ha “abolito la Legge” e i suoi

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Maurizio Blondet 09/12/2004

Nicolas Sarkozy è l’uomo che punta a sostituire Chirac come presidente francese per le elezioni del 2007. A questo scopo, Sarkozy sta diventando segretario dell’UMP, il partito “gollista” di governo. Fatto singolare, tutti i media filo-Bush parlano molto bene di Sarkozy, al contrario di quello che fanno nei confronti di Chirac.Il piccolo mistero è rivelato da un vecchio libro, “Histoire des Israelites de Salonique”, dello storico ebreo-francese Joseph Nehama (1881-1971). Nella parte VI della voluminosa storia, si racconta come il nonno materno di Sarkozy, Benedict Mallah, fosse un ebreo nato a Salonicco (città in cui allora la popolazione giudaica era maggioranza) sotto l’impero Ottomano. Il nonno di questo Benedict Mallah, Haim Joseph Mallah, era un rabbino di Salonicco (morì nel 1720) appartenente alla setta dei “dunmneh” (apostati in turco), ossia dei seguaci del falso messia Sabbatai Zevi convertitosi falsamente all’Islam nel 1666; precisamente, la famiglia Mallah faceva parte della setta sabbatista dei Karakash, che praticava culti aberranti sessuali, e che “formò” un altro falso messia, stavolta polaccco, Jacob Frank. Il rabbino Mallah fu tra i diffusori del Sabbateismo in Ucraina e in Polonia. Varrà la pena di ricordare che il centro delle credenze sabbatee è una gnosi aberrante, per cui “la salvezza si ottiene attraverso il peccato”, anzitutto con l’apostasia, ma anche con trasgressioni sessuali estreme, come l’incesto. Infatti il “messia” Zevi ha “abolito la Legge” e i suoi divieti. Un immoralismo radicale si cela sotto false vesti islamiche nei Dunmeh: i quali costituirono, come si sa, il movimento dei Giovani Turchi. Lo stesso Kemal Ataturk era quasi certamente un dunmeh. Jacob Frank, visto che operava in Polonia, si convertì falsamente al cattolicesimo. Il nonno materno di Sarkozy, Benedict Mallah, arrivato in Francia agli inizi del secolo, s’è parimenti “convertito” alla religione cattolica.

La fonte della notizia è Barry Chamish, un estremista religioso ebraico assai ostile ai sabbatei, che li vede come traditori della vera fede talmudica. Per una storia dei sabbatei e frankisti, si veda il libro di Maurizio Blondet “Cronache dell’Anticristo”, 2001, Effedieffe edizioni.

di Maurizio Blondet

Maurizio Blondet

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06/09/2006

Rabbi Abraham Isaac Kook (1864-1935)

Dopo la pubblicazione del capitolo VII («Il primo tentativo») de «I fanatici dell'Apocalisse»  ed i capitoli XV («L'amico frankista di Wojtyla») e XVI («Strani destini ad Hollywood»), di «Cronache dell'Anticristo», pubblichiamo oggi il capitolo XVII di quest'ultimo testo.

Il lettore può credere che la nostra storia sia, appunto, storia: che riguardi il passato,  remoto o prossimo. Mentre procedevamo verso il presente, può avere avuto l'impressione che le tracce del frankismo vero e proprio, della sua dottrina aberrante, si facessero confuse.Che gli ultimi personaggi presentati avessero filiazioni frankiste sempre più indirette, o incerte, o equivoche.Si può credere insomma che il frankismo abbia cessato di agire come forza attiva nell'attualità.Per disilludersi, occorre conoscere gli eventi occorsi in Polonia dopo la caduta, o l'autodissoluzione, del regime comunista.Al principio degli anni '90, trionfa Solidarnosc; la grande formazione cattolica conta sei milioni di iscritti; Lech Walesa, il suo capo, l'amico del Papa, viene eletto presidente della Repubblica; viene insediato un governo cattolico.La Polonia si affaccia alla libertà rivestita del suo cattolicesimo, e tutto indica che resterà solidamente sotto il segno cristiano per un lungo avvenire.Ma possono i poteri forti internazionali, e i poteri occulti, tollerare una Polonia governata stabilmente dal cattolicesimo?Che possa alzare la sua voce nel mondo un potere statuale anticomunista, ma non cooptato al nuovo «internazionalismo», quello del capitale globalizzato?

Non possono.Non vogliono.E infatti, provocheranno l'evento che spazzerà via le vittorie di Solidarnosc, e spazzerà i cattolici dal potere.Il primo governo cattolico polacco è un governo di coalizione.Nella coalizione è presente un piccolo partito cattolico-integralista, che si chiama Unione Nazionale Cristiana (la sigla in polacco è ZCHN); al suo capo, il supercattolico Piotr Naimski, viene affidato l'incarico di direttore dell'Ufficio di Protezione dello Stato (UOP), ossia dei servizi segreti rinnovati.Questo partitino di estrema destra è stato fin dall'inizio un fattore di turbativa nella coalizione.Col suo fondamentalismo rigido, la sua retorica antidemocratica, il suo antisemitismo,

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ha suscitato lo sdegno dei settori laici della società, ma anche di numerosi cattolici; si può dire che lo ZCHN abbia provocato la grande fuga dei polacchi dalla Chiesa e la vasta disaffezione dal cattolicesimo negli anni '90, resuscitando l'anticlericalismo che, in Polonia, ha almeno altrettanto profonde radici storiche.Chi è Piotr Naimski, il capo di questo partito supercattolico?

L'ha detto lui stesso: «Sono frankista, come Mickiewicz», ha dichiarato pubblicamente, aggiungendo di esserne fiero.Sia che con questa dichiarazione cercasse di parare rivelazioni sul suo passato familiare provenienti dall'opposizione, sia che pensasse che i tempi fossero ormai maturi per esibire un'identità tenuta generalmente nascosta dagli adepti, una cosa è certa: il frankismo dev'essere ancora vivo e vitale nel background familiare di Naimski.Difatti Naimski, il «cattolico integralista», ha sposato un'ebrea osservante: l'endogamia frankista ancora presente, due secoli e mezzo dopo Frank.Come capo dei servizi segreti rinnovati, Naimski aveva accesso ai documenti segreti della vecchia polizia politica comunista.Specificamente, alle liste dei collaboratori col regime, che spiavano e scrivevano rapporti riservati sul loro prossimo.La questione era bruciante in Polonia, come in ogni Paese dell'Est: centinaia di migliaia di insospettabili potevano rivelarsi ex collaborazionisti, l'opinione pubblica voleva sapere; secondo l'espressione polacca, la società aveva bisogno di una vasta «lustrazione», doveva essere purificata dai doppiogiochisti, per affrontare purificata l'avvenire.Ebbene: nel giugno del '92, Naimski ha pronta una prima lista di 120 collaboratori col passato regime.Il 4 di giugno, l'allora ministro degli Interni Antoni Macierewicz la legge davanti al Parlamento.Il trauma è enorme: la lista comprende quasi tutti gli eroi di Solidarnosc, compreso Lech Walesa, il capo dello Stato in carica, indicato nei documenti segreti come «agente Bolek».La rivelazione provoca la catena di eventi probabilmente auspicata dai suoi promotori: la caduta immediata, lo stesso 4 giugno, del governo cattolico; la spaccatura nella destra cattolica (fra i partiti che credono alla lista, e quelli che non ci credono); una scissione avvelenata dal sospetto, che dura tuttora e che impedisce al moderatismo cattolico l'unità necessaria per riprendere il potere;la distruzione del mito di Solidarnosc; l'impossibilità di procedere alla vera «lustrazione» dei vecchi agenti comunisti nascosti nelle istituzioni ormai libere, perché tutti temono una nuova provocazione, ricatti e calunnie sul modello dell'«evento del Quattro Giugno».Infine, ma non ultimo, il ritorno dei comunisti al potere.

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Lech Walesa

Nel '93, a causa della crisi di governo provocata dalle rivelazioni di Naimski il cattolico, si tengono in Polonia elezioni anticipate.Il partito comunista, ribattezzato «democratico di sinistra» e riconvertito al liberismo economico (e perciò «lustrato» a sufficienza agli occhi dei poteri finanziari internazionali) vince le elezioni.Le vince nel '93, poi rivince le elezioni presidenziali del '95 e del 2000, proprio perché l'altro schieramento è scisso e diviso dal sospetto reciproco.Un particolare istruttivo: Antoni Macierewicz, il ministro degli Interni che lesse la lista del Quattro Giugno, ne è stato travolto ed ora, screditato, vive ai margini della politica.Piotr Naimski, l'autore della lista, continua invece a dirigere il suo partito e a far carriera.Nel 1999 lui, il cattolico rigidamente fondamentalista, risultava presente a una conferenza internazionale come consigliere per gli Affari Esteri del premier polacco, neocomunista.E nonostante Lech Walesa sia stato prosciolto da un regolare tribunale, nell'agosto del 2000, dall'accusa infamante di essere stato una spia del regime comunista, Naimski può farsi intervistare e ripetere la sua incredibile accusa: «Resto convinto che Walesa è l'agente Bolek».In ogni caso, per Walesa ormai è passato il tempo della riscossa.Lui e Solidarnosc non si riavranno più dalle loro «Mani Pulite».Hanno subìto lo stesso tracollo che ha affondato per sempre la Democrazia Cristiana italiana, e guarda caso, con lo stesso modus operandi: prima l'accusa e il processo sui giornali, poi - quando è tardi - i proscioglimenti, la riabilitazione.La Polonia, sotto la guida dei «democratici di sinistra» post-comunisti, è stata normalizzata, e assorbita senza residui nella «economia globale di mercato».

Un solo Stato resta, anzi è divenuto, non-normalizzato nel mondo.Non si può non accennarne.È Israele.Lo Stato sionista, laico e socialista che esisteva ancora vent'anni or sono è profondamente mutato: oggi è uno Stato religioso fondamentalista, dove le scelte politiche sono prese in obbedienza ai rabbini più estremisti.La gioventù abbronzata dei kibbutzim di trent'anni fa, i pionieri in pantaloni corti e armata di mitra, sono scomparsi nelle sue strade.Rimpiazzati da torme di pallidi, accigliati e barbuti individui, dai lugubri cappelli antiquati sotto cui spuntano lunghi riccioli unti, dalle cui giacche nere - l'abito dei ghetti

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polacchi dei diciottesimo secolo - spuntano i filatteri.Israele è oggi uno Stato hassidico, un ghetto esclusivista ostile agli stranieri («animali parlanti», per il Talmud), dove nessuno osa violare il sabato facendo una semplice telefonata (il sabato è vietato «accendere fuochi», dunque usare l'elettricità), dove è onorevole ostentare religiosità.Nelle scuole d'Israele, per ordine dei rabbini, il segno aritmetico dell'addizione, «+», in quanto ricorda l'odiata croce, è stato sostituito con un «t» rovesciato.Israele è lo Stato dove un movimento politico messianico chiamato Gush Emunim («Blocco dei Fedeli») ha il favore di almeno il 50% della popolazione.La metamorfosi è in qualche modo stupefacente.Fino a ieri, gli ebrei «religiosi», e in particolare gli Hassidim, aborrivano lo Stato d'Israele.Uno Stato laico «come gli altri», fondato sul potere politico e delle armi, era visto da costoro come una creazione illegittima, una violenza alla divinità (è Dio, non la forza e l'astuzia degli ebrei che deve restituire la Terra Santa al popolo eletto) e un'apostasia satanica. (1)Oggi invece l'oltranzismo religioso riconosce piena legittimità al sionismo, mentre il sionismo accetta sempre più supinamente le credenze sulla terra, «sacra in ogni pollice», d'Israele, e immette nella legislazione laica gli interdetti e i divieti talmudici un tempo osservati solo da gruppi settari.

La conciliazione ed identificazione tra laicità e messianismo è compiuta. E' istruttivo sapere come e chi ha prodotto la metamorfosi.L'autore di tanto mutamento fu il rabbino polacco Abraham Ytzchak Hacohen Kook (1864-1935), primo rabbino capo askenazita della Palestina dal 1921 al 1935, e kabbalista insigne.Rabbi Kook insegnò ai suoi numerosi allievi (fra cui futuri uomini politici, come Begin e Shamir) quanto segue: l'esilio del popolo ebraico esprime sul piano storico la «rottura» (shever, parola in lingua ebraica formata dalle lettere shin, beth, resh) che si produsse al momento della Creazione, la «rottura dei vasi» di Isaac Luria; questa rottura comporta un profondo squilibrio del popolo eletto, che è sprofondato nelle tenebre e nel peccato; ma in queste tenebre si deve vedereun «annuncio», bessorà.La parola ebraica bessorà, formata dalle lettere beth, shin, resh, è l'anagramma di «shever», rottura.Ogni rottura e caduta nel popolo ebraico è dunque annuncio di rinnovamento, luce escatologica.Il sionismo, come ogni ideologia secolare, è appunto una rottura della santità inerente agli israeliti, e una caduta nel peccato.Il fatto che proprio atei e socialisti, negatori laici, abbiano ricondotto il popolo a Sion, è effettivamente un'aberrazione blasfema.Ma attenzione, avvertiva rabbi Kook: «per far venire l'era messianica, è necessario passare attraverso il profano nella sua lotta contro la religione e la spiritualità, e anche attraverso la profanazione». (2)Siamo, come si vede, nella piena accettazione del principio «la redenzione attraverso il peccato» che era stata esclusiva credenza dei sabbatei e dei frankisti.Rabbi Kook parla di «distruzione in vista di una costruzine», e predica «l'utilizzazione delle forze vive e negatrici che operano nel profano», perché l'empietà obbedisce a un piano divino, volto alla redenzione del popolo eletto.Con rabbi Kook, l'antinomismo, che fu proprio delle sette dei falsi messia Sabbatai Zevi

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e Jacob Frank, diventa il pilastro portante della «ortodossia» giudaica contemporanea: la redenzione (politica e «sacra») attraverso l'empietà esercitata senza limiti.Non a caso parecchi discepoli di Abraham Kook divennero dei terroristi ebraici (come Shamir e Begin, membri della «Banda Stern») e si macchiarono di delitti orrendi.Rabbi Kook inoltre legittima il sionismo come tappa empia, e perciò necessaria («segno innegabile»), verso la redenzione del popolo.

Il figlio di rabbi Kook, Tzvi Yehuda Kook (1891-1981) insegnò che la redenzione messianica avviene non ad opera di un singolo mitologico messia, ma nel quadro della storia naturale e umana: è colonizzando tutta la terra d'Israele, sacra in ogni pollice quadrato, che ciascun ebreo realizza la redenzione messianica.E' dovere sacro di ogni ebreo prendere possesso del Paese e popolarlo in ogni sua parte, con l'ovvia conseguenza: bisogna cacciarne i palestinesi che lo abitano, e mai più restituirglielo, nemmeno in piccola parte. (3)E questa l'ideologia del Gush Emunim, messianismo condiviso da una buona metà della popolazione israeliana e israelita.In esso, come abbiamo visto, confluiscono l'antinomismo sabbateo nella sua forma più rozza, (per gli ebrei, i comandamenti «non valgono»), e il militantismo «mistico» e politico di Jacob Frank: per il Gush Emunim lo Stato d'Israele come «realtà storica hic et nunc» (ossia con la sua astuzia, il suo armamento, le miserie del sistema parlamentare, i suoi compromessi e i suoi crimini compresi) è in sé un «fenomeno sacro».E l'autoredenzione.Il popolo israelita, che ha accettato tanti falsi messia, oggi adora se stesso, con le sue macchie e le sue colpe, come ultimo e definitivo Messia.

Maurizio Blondet

Note1) Su questa posizione permane, ma marginale, piccolo e isolato, il gruppo ultraortodosso «Neturé Qarta». Uno dei suoi capi, il rabbino Yoel Moshe Teitelbaum (scomparso nel 1982) denunciò il sionismo come «falso messianismo, eresia, ostacolo alla redenzione, opera di Satana».2) Citato da David Banon, «Il Messianismo», Giuntina, Firenze, 2000, pagina 107.3) La questione della «restituzione» di una parte della terra ai palestinesi, che affatica le diplomazie, non verrà perciò mai accettata dagli ebrei. Lo impedisce la convinzione che la terra sia «sacra in ogni pollice», e che sia vietato consegnarla anche in parte. Sono questi elementi irrazionalisti che ostacolano ogni «soluzione di pace» in Palestina. Del resto, rabbi Kook padre fu un aperto laudatore dell'irrazionalismo. Egli era il capofila della corrente di pensiero giudaico detta «abramica», che rifiutava la «cultura ellenica» (dunque i principi della logica, del diritto e in generale della razionalità) perché, per gli ebrei, tutto è già in Abramo, nella Torah e nella Kabbalah.

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RISPOSTA DI MAURIZIO BLONDET A GENNARINI Maurizio Blondet 14/04/2005

Riceviamo in data 11/04/2005 alle ore 20:50 la seguente lettera di Giuseppe Gennarini a Maurizio Blondet

Signor Blondet

il suo articolo mi ha veramente sorpreso.

Mi ricordo con piacere l''incontro con lei anni fa a New York quando parlammo della situazione della Chiesa americana.

L'articolo scritto da me sui Lubavitcher vuole solo dimostrare come i due principali argomenti della apologetica giudaica anticristiana ( che Gesu` non sarebbe il vero Messia perche` il Messia non poteva morire e perche` il Messia avrebbe instaurato con la sua venuta il regno messianico) sono caduti a causa dei Lubavitcher.

Per il resto riguardante le relazioni con gli ebrei, Pio XI ha detto che i cristiani sono "semiti spirituali", PIo XII ha tuonato a piu` riprese contro le dottrine razziali e Giovanni Paolo II ha detto che li ebrei sono i nostri "fratelli maggiori" e che la relazione tra religione ebrea e criatianesimo e` "intrinseca e non estrinseca". Quindi un cattolico non puo` che avere rapporti di stima e di rispetto verso gli ebrei, per i quali la Chiesa da tempo immemorabile prega il Venerdi` santo. Non voglio citare San Paolo o Gesu` stesso perche` penso che lei conosca questi testi.

Quello che poi dice sul neocatecumenato mi ha lasciato stupefatto: lei scrive che i neocatecumenali "i riti cattolici li hanno abbandonati da tempo", che "sono inventori insaziabili di rituali fai-da-te", che "quando i neocatecumenali s'impadroniscono di una chiesa parrocchiale ne espellono i fedeli normali", e finalmente:"ritengono invalido il battesimo dei cristiani qualunque, sicché ribattezzano i loro adepti".

Ma scherziamo? Ma ha cercato di documentarsi? Manca solo di accusarci di mangiare i bambini, cosa di cui erano regolarmente accusati i cristiani della chiesa primitiva. E` interessante che poi questa accusa nel corso dei

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secoli venne trasferita al popolo giudaico.In questa serie di dicerie, non nate da informazione diretta, mi sembra impossibile riconoscere il Blondet con cui parlai anni fa e di cui ho letto con interesse diversi articoli e alcuni libri.

Per finire, poiche` lei scrive di "papa polacco" e della "mascherata giudaica promossa dal Concilio", non so se stia parlando da un punto di vista di un cattolico o da altro punto di vista. Forse anche il Papa era un messianista criptogiudeo e il Concilio una farsa frankista?

Giuseppe Gennarini

Caro Gennarini

mi scusi anzitutto il ritardo della risposta, dovuto al fatto che in ritardo ho ricevuto la sua mail da Effedieffe. Anch’io ricordo con piacere quel colloquio a New York, e mi domandavo se l’estensore su Il Foglio fosse proprio quel Gennarini.Quanto al tema, me ne dispiaccio più di lei. Mi par di vedere dalle sue affermazioni sui Lubavitcher non malafede (il che mi dà sollievo), ma ingenuità.I Lubavitcher accettano che il Messia possa morire? Ma è ovvio: il celebre “rebbe” Schneerson di New York, da loro creduto il Messia, è morto ultranovantenne. Sicchè la loro dottrina ha dovuto essere cambiata in base a questa nuova circostanza: era il messia, eppure è morto. Questo genere di mutamenti opportunistici non e’ una novità nel giudaismo. Nel 1666 un altro falso “messia”, Sabbatai Zevi, di fronte alla prospettiva di essere decapitato dal Sultano, si convertì all’Islam. A quel punto lui e molti suoi seguaci, anziché concludere che il Messia non era Zevi, elaborarono la dottrina secondo cui il messia “doveva” scendere in basso, oltre le “porte d’iniquità”, fino all’apostasia, ecc. Non sto a ricordarle Jacob Frank, che mi sembra lei conosca. Il punto è che nel giudaismo l’avvento del Messia implica l’annullamento della Legge e di ogni legge morale; sicchè il Messia stesso è “anomico” (e può fare quel che vuole, per esempio commettere incesto) e i seguaci del Messia sono ormai liberati da ogni norma e limite. Fu contro questa idea, evidentemente già corrente al suo tempo, che Gesù disse: non crediate che io [benché Messia] sia venuto ad abolire uno iota delle Legge, ecc.. Spero possa da qui rilevare la mia angoscia nel sapervi “amici” e “in comune attesa messianica” con gente di questo stampo anomico. Chieda ai rabbini Lubavitcher cosa pensano dei palestinesi, e come s’immaginano il “regno a venire”: se lo immaginano come il dominio temporale giudaico, e come soggezione dei “gentili” ai padroni ebrei. I gentili, come nuovi schiavi, nel “Regno” dovranno lavorare anche il sabato e la notte; saranno passibili di morte se “creano loro riti”, e così via.

Non mi faccia il torto di attribuirmi un anti-giudaismo razzista. La mia è un’opposizione culturale e religiosa al confusionismo ben-intenzionato oggi corrente nella Chiesa. Non le sfuggirà che Pio XI, nel definire i cristiani “semiti spirituali”, non faceva che confermare la dottrina perenne, che il corpo della Chiesa è il Novus Israel, subentrato all’Alleanza e al vetus. Ora, proprio questa

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dottrina della “sostituzione” è rigettata dalla nuova teologia clericale. Che la relazione tra ebraismo e cristianesimo sia “intrinseca” è ovvio, e la Chiesa non mi ha mai insegnato altrimenti, anche prima del Concilio e di Giovanni Paolo II. Ma la frase “fratelli maggiori”, se non è una locuzione di cortesia, è da prendere con le molle. E’ storicamente falso che gli ebrei d’oggi – non intesi come razza, ma come seguaci di una religione – siano “fratelli maggiori”. Sono invece fratelli “minori”. Il giudaismo dei tempi di Gesù, centrato sul Tempio e sul sacrificio dell’agnello pasquale, è infatti scomparso col Tempio; e dal II secolo dopo Cristo, è stato sempre più decisamente sostituito dal “culto della Torah”, con l’inestricabile processo della sua interpretazione talmudica e gnostico-numerologica (la Kabbalah); fino al punto che la venerazione (adorazione?) del Talmud ha finito per sostituire quella della Torah: “precetti di uomini” gabellati come “la Legge”. Vedo infatti che nella vostra domus Galileae i rabbini danzano attorno alla Torah. Spero non lo facciate anche voi. Mi pare di ricordare che la nostra non è una “religione del Libro”, e la divinizzazione di un Testo, bensì del Verbo fatto Uomo; confido che questo dettaglio non sia ancora stato abolito.Anche sulla “stima e rispetto” che il cattolico deve avere verso gli ebrei, non capisco se tale “stima e rispetto” deve estendersi anche ai loro errori, ai loro falsi messia, ai loro “precetti di uomini”. Mi par di ricordare che già Isaia, con poco rispetto, se ne prendeva gioco: “regola su regola, precetto su precetto, un po’ qui un po’ là”. Quand’ero ragazzo, durante ogni messa si pregava pro perfidis Judaeis: ma non per chiedere a Dio che li sterminasse, bensì che li convertisse, in modo che riconoscessero Gesù come Messia. Ora, poiché questo li offendeva, la preghiera è stata abolita: per compiere un atto di cortesia, e politicamente corretto, abbiamo cessato di compiere un atto di carità, con cui invocavamo la loro salvezza eterna. Quanto alle parole di Paolo e Gesù, è strano, forse leggo su edizioni sbagliate: perché vi leggo, in chiaro e in parabole (il fico sterile da cui “non nasca più frutto in eterno”, fino alla festa del figlio del Re a cui i primi invitati si rifiutano, fino all’invettiva: “sarà lasciata la vostra casa deserta”) tutto mi pare indicare il rifiuto del popolo infedele, la decadenza del Patto che aveva stretto con Dio, e la stipula di una Nuova Alleanza con il nuovo Israele, dove “non c’è più né giudeo né greco”. Fino al giorno in cui un “piccolo resto” dell’Israele antico non dirà “Benedetto colui che viene nel nome del Signore” – cosa che, preti e Papi hanno sempre insegnato, si riferisce alla loro accettazione di Gesù. Ora, appare che questa dottrina sia stata condannata, e sostituita con una nuova. Ma quale precisamente, non si capisce bene. Gli ebrei hanno diritto ad un nuovo Messia, non essendogli piaciuto il primo? Non hanno bisogno di conversione? Sono santi per razza in quanto “seme d’Abramo”? La promessa divina a loro è tuttora vigente? Hanno ragione a prendersi la Terra Santa con la violenza e la frode contro un popolo di rejetti? Non si capisce bene perché su questo tema c’è tutto un dico-e-non-dico, un fraseggio vago e motivato più da “cortesia” che dalla verità. Sarebbe altamente opportuno definire dogmaticamente che la “sostituzione” è caduta, che gli ebrei hanno ragione ad attendere ancora il Messia, che ci sono ancora un popolo eletto e tutti gli altri, rifiutati; con i necessari raccordi coi testi evangelici che paiono dire proprio il contrario.Non sto scherzando. La cosa è estremamente grave e dolorosa, perché il rapporto della “nuova” Chiesa con gli ebrei tocca il centro della fede cristiana. Se gli ebrei hanno ragione, non è che ha torto la Chiesa; ha torto Gesù. Di qui non si scappa. Se la Chiesa dice che si è sbagliata a credersi il Novus Israel, si autodichiara una frangia del giudaismo destinata ad essere assorbita in esso (se loro vogliono; ma

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non credo, visto che non siamo “razza di Abramo”); o peggio, un errore bimillenario, destinato ad esaurirsi nel “regno futuro” tutto giocato sull’aldiquà.Di qui le mie considerazioni alquanto aspre sulla “mascherata giudaica” che va di moda nell’alto clericalismo. Mi ricordo con senso di offesa il Giubileo del 2000, quando a fianco della Porta Santa apparvero due gladiatori hollywoodiani, che soffiavano su copie dello shofar, il corno ebraico di duemila e passa anni fa, forse recuperate dai magazzini di Cecil B. De Mille. Che cos’era? Se non la vuol chiamare mascherata, la chiami fanta-liturgia, imitazione light di un ebraismo biblico che nemmeno più esiste. Offensiva, penso oltretutto, per gli ebrei religiosi; come non si offenderebbero a vedere dei goym imitare un arcaico rito giudaico? Non ci offenderemmo noi a vedere, poniamo, dei monaci buddhisti imitare il rito eucaristico, in segno di simpatia per noi? Mi limito a notare la beffarda circostanza: abolita la lingua e il rigore liturgico in nome dell’”aggiornamento”, la Chiesa post-conciliare è andata a ripescare immaginari riti primitivi ebraici. E veniamo al “Papa polacco”. Forse un criptogiudeo?, ironizza lei. Se avrà la bontà di leggere le mie “Cronache dell’Anticristo” vedrà che ho raccolto indiscutibili indizi di una annosa manipolazione psichica del cattolicesimo polacco. Al punto che “il poeta polacco” per eccellenza, il super-cattolico Adam Mickiewicz, risulta essere un frankista (seguace del “messia” Jacob Frank) – del resto era un ben strano cattolico, visto che accorse a sostenere Mazzini nella Repubblica Romana giacobina, che cacciò il Papa da Roma. Ma questo, mi creda, è per me il più doloroso argomento: quali influssi abbia senza saperlo respirato il giovane Karol Wojtyla, è davvero qualcosa che non vorrei avere scavato.Ma, con ciò, voglio ricordare a chi si scandalizza che essere cattolico non significa essere “papista”. Del resto ce l’ha insegnato Giovanni Paolo II, chiedendo perdono per atti, atteggiamenti e fatti della Chiesa e di Papi precedenti, che evidentemente lui giudicava erronei. Invece, la lezione che si tende a ricavarne è: se l’ha detto, se l’ha approvato il Papa regnante, anche se contrasta con i duemila anni della precedente dottrina, è giusto e vero: ubi Petrus ibi Ecclesia, eccetera. Ma se hanno avuto torto altri Papi, perché non – eventualmente – anche questo ultimo? Il tema è troppo denso per essere trattato qui. Mi limito ad accennare che la possibilità di un Papa eretico è pacificamente ammessa dalla dottrina cattolica e dal diritto canonico; e senza che ciò contraddica il dogma dell’infallibilità; “perché infallibilità non significa inerranza del Papa come individuo, ma l’inerranza dell’ufficio papale in quanto tale” (Cfr. Roberto De Mattei, “Quale Papa dopo il Papa?”, Piemme, 2002, p.112). Ma su questo scriverò forse qualcosa, se ne avrò tempo. Quanto al “cammino neocatecumenale”, se ho ecceduto in asprezza me ne scuso. Ma tuttavia, non credo si possa negare che il “cammino” ha cambiato le forme delle sue chiese e adeguato alla sua specificità una sua liturgia. Quanto ai riti nella Domus Galileae che lei stesso, Gennarini, ha descritto entusiasta in un suo articolo su Il Foglio, ho notato: la Torah al centro (con rabbini danzanti attorno), il “cielo stellato” come coronamento dell’edificio, le ripetute allusioni all’Architetto dell’Universo che per fabbricare il mondo avrebbe usato la Torah come un architetto usa mappe e piante (una cosetta kabbalistica)…tutto ciò, mi scusi, ha un certo sapore…Beh, come lo definirebbe lei? Spero sia solo ingenuità.

Maurizio Blondet

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Confermato: Wojtyla era ebreo (forse frankista) Maurizio Blondet 28/12/2005

Carol Wojtyla prega davanti al muro del pianto durante il suo viaggio in Terra Santa del marzo 2000

Allora era proprio vero: Giovanni Paolo II era ebreo.Lo ha scoperto con gioia Yaakov Wise, uno studioso di genealogie ebraiche che abita a Manchester.Da esperto del problema, Wise ha fatto ricerche sull'ascendenza del lato femminile della famiglia Wojtyla: per decreto rabbinico sono le madri, non i padri, a trasmettere l'ebraicità.La mamma di Karol, che morì quando lui era lattante, aveva sposato un polacco cattolico; ma il suo nome, Emilia Kaczorowska è apparso a Wise un adattamento polacco di un nome ebraico molto comune nel mondo yiddish: Katz.La nonna si chiamava Marianna Scholz, altro nome ebraico (Schulze, Schultz).E la bisnonna, Zuzanna Rybicka, altro nome di suono ebraico.Infatti tali nomi appaiono frequenti nelle tombe del cimitero ebraico di Bielsko-Biala, da cui veniva la famiglia della mamma di Karol.Wise ne è sicuro: «come storico ebreo, ho accesso ad informazioni che sono chiuse ad altri storici», dice.Con questo lignaggio materno fino alla terza generazione, Karol Wojtyla non solo era un ebreo integrale; avesse chiesto la cittadinanza israeliana, lo Stato ebraico avrebbe dovuto riconoscergliela.

Questo fatto getta una nuova luce non solo sugli atti di Karol Wojtyla (la visita del primo Papa a una sinagoga, la preghiera al «muro del pianto», le «scuse» della Chiesa agli ebrei) ma sulla sua neo-teologia della «elezione».Risale a lui la nuova e malferma dottrina «cattolica» secondo cui l'Antica Alleanza persiste tutt'ora; la Nuova Alleanza (di Gesù) non l'ha fatta decadere - insomma che gli ebrei hanno diritto di aspettare ancora un messia, avendo rifiutato il primo.Una «dottrina» che forza alquanto i testi del Vangelo, per negare la «sostituzione».Anche l'accettazione dell'Olocausto (con la maiuscola) come il «sacrificio di sangue» sacramentale che fa degli ebrei la «vittima» collettiva alternativa all'Agnello, diventa più significativa alla luce dell'ebraicità di Wojtyla.Del resto nel 1998, quando il Papa polacco chiese perdono agli ebrei col documento «Noi ricordiamo», Giovanni Paolo II approvò il discorso ufficiale, dove si diceva che

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«il popolo ebraico è crocifisso da duemila anni».Non «perseguitato», ma «crocifisso», come il Salvatore.E non da tremila anni, ma da duemila: ossia dalla nascita di Cristo.Dal solo fatto che Gesù sia nato.Popolo «crocifisso» per il fatto che il cristianesimo esiste.

Che significa?La frase è assurda per un cattolico credente.Ma esprime i sentimenti di ogni ebreo, «offeso» dalla pretesa cristiana di essere il Novus Israel.Ma non basta.Nel processo di canonizzazione a tappe forzate, sarebbe bene che gli avvocati del diavolo investigassero questo lato del beatificando.Che idea aveva di sé Wojtyla e della sua ebraicità?Perché in Polonia, come noto, nacque e operò Jacob Frank (1726-1791), un israelita che si proclamò messia; e sull'esempio di Sabbataei Zevi (un precedente «messia» che operò in ambiente islamico e si convertì falsamente all'Islam con tutti i suoi seguaci) anche Frank e 500 famiglie di suoi fedeli si fecero battezzare, nel 1759.Mantenendo però in segreto i loro culti ebraici eretici spesso licenziosi (vi aveva una parte importante la figlia di Frank, Eva, adorata con un culto copiato a quello della Vergine Nera di Cracovia), la fede nel loro «messia» apostata, e la pratica della più stretta endogamia settaria (i frankisti si sposano solo tra loro, come ordinato da Frank: «non prendete in moglie nessuna delle loro puttane» cattoliche).

Nota è la giustificazione teologica della loro apostasia e doppiezza: il messia «deve» compiere gli atti più peccaminosi, e la conversione falsa all'odiata «religione di Edom» (Roma) è la peggiore. Perché «la salvezza si ottiene attraverso il peccato», secondo una tipica movenza gnostica detta anti-nomica (1).I frankisti andavano a messa la domenica, ma il sabato si riunivano nelle loro sinagoghe segrete.Wojtyla era influenzato sicuramente da questa «cultura», perché personalità frankiste hanno svolto una parte essenziale nel creare il particolare nazionalismo polacco, l'idea della nazione sofferente, «Cristo delle nazioni».Il poeta nazionale polacco Adam Mickiewicz (1798-1855) tanto amato dal Papa, era un frankista: super-cattolico a parole, ma amico di Mazzini, con cui partecipò alla Repubblica Romana, la massonica impresa che nel 1849 cacciò da Roma Pio IX; e morì a Costantinopoli mentre cercava di arruolare una legione ebraica per liberare Gerusalemme: un sionista ante litteram.Jerzy Turowicz, il potentissimo direttore di «Tygodnik Powsszechny», l'autorevole rivista cattolico-progressista cui Karol collaborò e che tanto influì sulla sua formazione culturale e spirituale, era un frankista, e al suo funerale volle si cantassero cori ebraici.Di altri personaggi ebrei o frankisti che hanno influito e guidato il giovane Wojtyla ho parlato nel mio libro «Cronache dell'Anticristo» (Effedieffe, 2001).Fra l'altro è notevole che la comunità ebraica americana si prodigò per sostenere finanziariamente Solidarnosc, organizzazione sindacale cattolica, ma controllata da vicino da tre ebrei di fiducia, Jacek Kuron, Adam Michnik e Bronislaw Geremek, figli di funzionari comunisti di colpo passati al nemico.

Ma sapeva Wojtyla di avere sangue ebreo?Wise sostiene di sì.

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Altrimenti non si spiega perché nel 1940, il giovane seminarista si sia nascosto ai nazionalsocialisti: se si fosse saputo polacco e dunque «ariano», non sarebbe stato necessario.Ma se lo sapeva, perché ha taciuto questa sua identità, mentre moltiplicava i favori e le aperture al giudaismo?Questo elemento può indicare una sua appartenenza all'ambiente frankista: celare il proprio ebraismo è un obbligo per la setta (2).D'altra parte, sua madre Emilia si sposò al di fuori della cerchia ebraica, e questo potrebbe essere un segno contrario; però il mutamento del nome da Katz a Kaczorowska potrebbe essere un indizio a favore.E' anche possibile che, a distanza di due secoli, gli stessi elementi frankisti non abbiano più una coscienza netta e separata della loro identità, si sentano insieme «cattolici» ed ebrei.Sarà stato il caso di Giovanni Paolo?E' una questione su cui indagare a fondo, anziché proclamarlo «santo subito» senza accurata inchiesta.Santo, forse; ma subito, meglio di no.

Maurizio Blondet

Note1) «Antinomia» vuol dire «contro la legge» (nòmos in greco). Nell'ebraismo ortodosso come in quello frankista, l'avvento del messia sancisce l'abolizione della «legge» e di ogni legge, anche morale. Tipicamente, i frankisti  - ormai «liberati» dalla legge grazie al loro «messia» - praticavano l'incesto, «perché lassù non esiste divieto». Contro questa credenza giudaica, esplicitamente, Gesù dice la famosa frase: «non crediate sia venuto ad abolire la legge». Voleva dire: benché il Messia sia venuto (era Lui), della legge morale non cadrà «uno jota» fino alla fine dei tempi.2) Voci che Wojtyla fosse ebreo sono circolate parecchio in Polonia. Del resto, nella polemica politica polacca, è frequente che un avversario venga accusato di essere un «ebreo nascosto», ossia un frankista. Il regime comunista cercò di far credere che lo stesso Lech Walesa fosse un ebreo, che in realtà si chiamava Leiba Kohne (Cohen). Non era vero. Lo stesso Walesa una volta spiegò: «l'antisemitismo in Polonia è dovuto agli ebrei che celano la loro nazionalità», insomma un'altra allusione ai frankisti.

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archivio: religione

Sionismo è pulizia etnica

Maurizio Blondet

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Theodor Herzl, il padre fondatore dell’ideologia sionista, cominciò dal 1895 a tenere un diario dedicato esclusivamente ad annotare gli avanzamenti della «causa ebraica». Il 12 giugno di

quell’anno, egli delineava già il programma completo di rimozione delle popolazioni non-ebraiche dal futuro Stato sionista, attraverso l’esproprio dei terreni.

Herzl tracciò una doppia strategia, la prima da attuare verso i pochi grandi proprietari terrieri e l’altra, alla massa dei poveri nullatenenti.

«I proprietari terrieri verranno dalla nostra parte», scriveva: «Sia il processo di esproprio che la rimozione devono avvenire con circospezione e discrezione. (...) L’esproprio volontario sarà

compiuto da nostri agenti segreti. La Compagnia pagherà prezzi eccessivi» per le terre. «Lasciamo che i proprietari immobiliari credano di starci ingannando, vendendoci le cose a più

del loro valore. Ma noi non rivenderemo loro più niente».

Questo per i latifondisti. Quanto agli altri, «proveremo a far sparire la popolazione senza mezzi oltre confine procurando loro impiego nei Paesi di transito (sic) e allo stesso tempo negando

loro ogni occasione di lavoro nel nostro Paese».

Dunque già nel 1895 Herzl progettava di costringere i palestinesi poveri all’esodo «volontario», negando loro i mezzi di sussistenza nel Paese. Anche la strategia dell’acquisto segreto di

proprietà immobiliari è poi stata sempre applicata, e continua ad essere applicata ancor oggi per occupare le case palestinesi nella vecchia Gerusalemme.

Lo Stato ebraico vieta ai proprietari di restaurare quelle case, cadenti e bisognose di manutenzione; negli anni recenti in cui Arafat aveva per contro vietato ai palestinesi di vendere

le loro case ad israeliani, l’ostacolo era aggirato da «compagnie» estere, spesso con denominazione cristiana, che si offrivano di acquistare gli immobili in rovina e non riadattabili,

spesso per un prezzo superiore al loro valore. Risultava poi che queste compagnie fantomatiche erano di «agenti segreti» della lobby.

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Una volta compiuto l’acquisto, aggiungeva Herzl, «le proprietà terriere saranno scambiate solo tra ebrei».

Da abile avvocato, Herzl si rendeva conto che sarebbe stato giuridicamente difficile sancire apertamente non valida la vendita a non-ebrei. Ma ciò si può ottenere con il controllo dei prezzi.

«Se il proprietario vuole vendere la proprietà, avrà il diritto di ricomprarla al nostro prezzo di vendita originario». Ossia al prezzo «eccessivo».

Trovo questa informazione nel saggio di Chaim Simons, «A historical survey of proposal to transfer Arabs from Palestine, 1895-1945», reperibile anche su internet. Simons è un rabbino

israeliano, favorevole alla pulizia etnica, che ha voluto raccogliere tutte le dichiarazioni dei grandi sionisti a favore della «rimozione»; per dimostrare che si trattava di «una direttiva politca

definita» e fedelmente perseguita da tutti i veri sionisti. Un libro prezioso, perchè contiene la storia di un secolo di manovre occulte, di trame segrete, di contatti con i più alti livelli del potere

mondiale con cui la lobby sionista ha raggiunto il suo scopo. Una fonte inestimabile.

La Fabian Society

Per esempio, la manovra per guadagnare al progetto la Fabian Society: colonna dell’imperialismo britannico dell’ala «progressista», strumento fra i primi del progetto del

governo mondiale, la Fabian Society si proponeva essa stessa uno scopo occulto, quello di instaurare un socialismo tecnocratico logorando il capitalismo con riforme graduali – volte a svuotare la proprietà delle imprese per trasferirla a manager stipendiati. Il «fabianesimo» è il

socialismo dei ricchi, in parte ancora promosso dalla London School of Economics.

Ebbene: nel dicembre 1915, Israel Zangwill – un altro padre fondatore del sionismo – tenne una conferenza davanti alla Fabian per convincere quei potenti, illuminati e massonici signori della

necessità di espellere gli arabi dalla Palestina.

Zangwill lamentò che nonostante l’accelerazione degli insediamenti ebraici in Palestina (allora parte dell’impero ottomano), la popolazione ebraica laggiù contava solo centomila membri, che possedevano solo il 2% delle terre: «Troppo pochi interessi stabiliti per poter reclamare il suolo

su una base di Realpolitik», deplorò. Anche se il Paese fosse passato sotto la sovranità britannica, il ritorno degli ebrei sarebbe rimasto difficile.

«A meno che gli arabi non se ne vadano marciando in Arabia, o siano pacificamente espropriati, qualunque governo fondato su basi democratiche costituzionali finirebbe per essere non già

un’autonomia ebraica, bensì un’autonomia araba».

Sicchè già Zangwill poneva il problema della mai superata ambiguità dello Stato ebraico, che pretende insieme di essere «democratico» e razziale, via apartheid. Che fare?

Zangwill poneva la questione a quei potenti signori. Era ancora lontano il tempo in cui Sion, super-armata, avrebbe potuto prendersi la terra «su una base di Realpolitik». I potenti signori fabiani espressero piena adesione al bisogno del povero piccolo popolo di creare uno Stato

Modello razzialmente puro.

Nello stesso tempo, già Zangwill dava per scontato, nel 1915, che la Palestina sarebbe passata sotto amministrazione britannica. Erano evidentemente già in corso le grandi manovre che

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avrebbero portato alla «Dichiarazione Balfour» nel 1917, dove il capo della diplomazia britannica, lord Balfour, dichiarava che la Palestina era «il focolare ebraico»; e per strappare

quel «focolare» ai turchi, Londra avrebbe spedito in quel lontano quadrante oltre un milione di soldati, al comando del generale Allenby, sottraendole ai fronti europei pericolanti della prima

guerra mondiale.

Ma gli ebrei avevano promesso, in cambio, che avrebbero ottenuto l’entrata in guerra degli USA. Cosa che infatti avvenne, nel 1917 stesso.

Lord Rothschild

Centro motore delle manovre era il barone Edmond de Rothschild, il gran banchiere, grande finanziatore di insediamenti ebraici illegali in Palestina. Difatti, la Dichiarazione Balfour ha la

forma di una lettera che lord Balfour (membro della loggia Quatuor Coronati di Londra) dirige a Lord Rothschild.

In quei mesi, la propaganda ebraica aveva già diffuso la seguente immagine della Palestina: «Una terra senza popolo per un popolo senza terra». Ma tutti gli attori della commedia

sapevano che la terra aveva già un popolo, e  discutevano accanitamente come eliminarlo.

Che cosa ne pensava lord Rotshild?

Lo scrisse Vladimir Jabotinsky, il sionista di destra, fondatore del movimento revisionista ebraico da cui proviene il Likud, fautore di una presa di possesso della terra con le armi. Nel

1929, Jabotinsky ebbe un colloquio con Rotshilld, e dopo annotò:«Dicono che sono un estremista? A confronto con il barone, sono un moderato... Io, ad

esempio, sono disposto ad accettare una maggioranza (di ebrei) in Palestina del 55-60%, mentre egli vuole che la Palestina sia completamente ebraica... E’ un sionista, è un visionario

che vuole l’indipendenza ebraica anche più di quanto la vogliamo noi» (Tutto questo episodio fu rievocato da «Tribuna Sionista», una pubblicazione messicana in lingua yiddish, nel maggio

1954).

Felix Warburg

E’ il banchiere ebreo-tedesco, divenuto americano, che pronunciò davanti al Senato americano la celebre frase: «Avremo il governo mondiale, o col consenso o con la forza».

Che sionismo e mondialismo siano le facce di una sola medaglia, basta a dimostrarlo il fatto che Warburg, «internazionalista» in economia, fu anche per anni presidente dell’Agenzia Ebraica

(Jewish Agency), in cui riuscì a far entrare anche membri non sionisti, purchè miliardari.

Nell’ottobre 1930 – gli insediamenti ebraici nel «focolare» stavano già provocando gravissimi disordini – il governo britannico si preparava a limitare l’immigrazione giudaica in Palestina (Passfield White Paper). Warburg scrisse una lettera all’Alto Commissario britannico per la

Palestina, lord John Chancellor, a cui propose il «trasferimento» in massa degli arabi in Transgiordania, l’attuale regno di Giordania, allora sotto occupazione inglese.

Pochi giorni dopo, l’Agenzia Ebraica organizzò una manifestazione di 40 mila ebrei in Madison Square Garden a New York per protestare contro le limitazioni.

Qui Warburg, nella pubblica arringa ai manifestanti, ripetè la sua proposta: «E’ ingiusto parlare

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di tale offerta (sic) di terre in Transgiordania come di un espatrio degli arabi, in quanto la Transgiordania è un territorio arabo, separato dalla Palestina solo dal fiume Giordano».

Ancor oggi, la proposta di sbattere i palestinesi in Giordania affiora spesso nei discorsi dei capi israeliani.

«Unità del Mondo»

Nel 1932 a Danzica, vari gruppi di socialisti ebrei della Diaspora, di vedute diverse  spesso in fiero contrasto, trovarono un accordo d’unione. Il nuovo partito social-sionista fu chiamato con

un nome che evocava il governo mondiale: «Unità del Mondo», in ebraico Ilhud Olami.

Nel 1937, prima del Congresso Sionista di quell’anno, «Unità Mondiale» tenne la sua conferenza preparatoria a Zurigo (il 29 luglio). David Ben Gurion lesse la relazione

programmatica.

In essa si legge: «Gli arabi che abitano in queste piane saranno rimossi e trasferiti nello Stato arabo» (?).

Egli, in realtà, evocava una decisione britannica (Commissione Peel) che effettivamente progettava l’espulsione dei palestinesi nelle terre vicine. Lietissimo, Ben Gurion assicurò che

sarebbe stato possibile rimpiazzare ogni famiglia araba «trasferita» con cinque famiglie ebraiche sullo stesso terreno.

Nel dibattito seguente, si segnalò il delegato Berl Katznelson, che parlò a favore della moralità delle espulsioni: «La mia coscienza è completamente netta. Un vicino distante è meglio che un

nemico prossimo. Loro non ci perderanno ad essere trasferiti, e noi men che meno».

Aharon Zisling, un capo di kibbutz: «Non c’è disputa sul nostro diritto morale a proporre il trasferimento. Non c’è assolutamente alcuna obiezione etica a questa proposta, che stimolerà

lo sviluppo della vita nazionale».

Golda Myerson, poi nota come Golda Meir, primo ministro israeliano: «Sono d’accordo che gli arabi lascino la Palestina e in ciò la mia coscienza è perfettamente limpida».

Eliezer Kaplan, tesoriere della Jewish Agency, volle smentire ogni confronto con le espulsioni di ebrei dalla Germania, allora in corso: «Qui non parliamo di espulsione ma di un trasferimento organizzato di arabi da una zona interna allo Stato ebraico ad un’altra zona dentro uno Stato arabo, ossia nel loro ambiente nazionale, e assicuriamo che le loro condizioni saranno, come

minimo, non peggiori delle loro in precedenza».

«Mandiamoli in Iraq»

Impossibile citare tutte le dichiarazioni, lettere e progetti elaborati da Ben Gurion per l’espulsione dei palestinesi; sono semplicemente troppe. Basterà ricordare una sua lettera all’Alto Commissario britannico, nel luglio 1936, dove si diceva a favore del «trasferimento

forzato (compulsory) degli arabi», purchè lo facessero gli inglesi. Si sporcassero le mani loro. Altrimenti, annotava nel suo diario, se si concentisse ad arabi di restare nello Stato ebraico, acquisteranno diritti in quanto minoranza e si guadagneranno le simpatie di cui godono le

minoranze.

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«Dobbiamo fare questo (espulsione) subito, e il primo e forse decisivo passo è di prepararci ad applicarla».

Nel dicembre 1938, Ben Gurion elaborò un piano per «trasferire» i palestinesi in Iraq, da poco diventato un regno indipendente ma sotto controllo britannico.

«Offriremo all’Iraq dieci milioni di sterline per trasferire centomila famiglie arabe dalla Palestina », scrisse nel suo diario, al 10 dicembre ’38.

«Se non fosse per Ibn-Saud e l’Egitto, questo piano avrebbe una chance. In ogni caso, ci sia o non ci sia una possibilità, dobbiamo affrontarlo con un progetto completo».

Il progetto andò avanti, infatti, anche con una accurata campagna di stampa. La lobby assoldò a questo scopo Montague Bell, direttore del settimanale «Great Britain and the West», a cui pagò grosse somme, e di cui fece il suo uomo di fiducia semi-diplomatico presso il governo iracheno.

Nell’ottobre 1938, in occasione dell’anniversario dell’indipendenza dell’Iraq, Bell scrisse un articolo sul Times in cui ricordava quanto l’Iraq fosse spopolato, e per questo economicamente

arretrato.

«La prima necessità per l’Iraq è un accrescimento di popolazione. Con 3,5 o 4 milioni in più di abitanti, può rendere giustizia alle potenzialità della sua terra, dove la mancanza di manodopera è un problema costante; e colmare lo svantaggio rispetto a Turchia e Iran, con le loro molto più

dense popolazioni. L’insediamento dei nomadi sulla terra può aiutare, ma ogni aumento veramente sostanzioso di popolazione in futuro dovrà venire da fuori».

Dalla Palestina, ovviamente.

Non occorre dirlo: il piano di «trasferimento in Iraq» incontrò l’immediato favore di Louis Dembitz Brandeis, giudice della Corte Suprema USA. Ebreo, seguace della setta di Jacob

Frank, il «messia» polacco settecentesco, Brandeis fu uno dei motori più potenti della lobby sionista in America; una storia completa della sua instanncabile azione dietro le quinte deve

essere ancora scritta.

Nell’agosto 1939, Brandeis portò la proposta al presidente Franklin Delano Roosevelt. In una minuta di un colloquio con un emissario sionista, Robert Szold, si legge: «IDB (Brandeis)

suggerisce che Norman (altro emissario) dia priorità al piano Iraq e ci si concentri».

Non sapeva che possono essere raccolti dieci milioni di sterline» per convincere gli iracheni. Ma la lobby aveva il denaro a disposizione, il che facilitava le cose…

E’ notevole come già allora gli ebrei disponessero da padroni delle terre altrui, e non solo della Palestina. L’interesse per la «democrazia» in Iraq ha come si vede una certa tradizione.

Roosevelt entusiasta

Franklin Delano Roosevelt, 32° presidente, cominciò ad appassionarsi all’idea di «trasferire» 4 milioni di palestinesi nell’ottobre 1938. Il che è inevitabile, visto che era circondato da ministri e

consigliori come Henry Morgenthau, Felix Frankfurter, Stephen Wise e Ben Cohen, che scriveva i suoi discorsi.

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Brandeis scrisse infatti a Frankfurter che Roosevelt comprende il significato della Palestina, «la necessità di tenerla indivisa e di renderla ebraica. E’ rimasto tremendamente interessato, e del tutto sorpreso, nell’apprendere la grande crescita della popolazione araba durante la guerra».

Difatti, il 25 di ottobre 1938, Roosevelt incontrò l’ambasciatore britannico in USA, sir Ronald Lindasy, che riferì a Londra: il presidente «è impressionato del fatto che la popolazione araba

(in Palestina) è cresciuta di 400 mila membri dall’inizio del Mandato» britannico.

Il 13 marzo 1939 il giudice frankista Brandeis fu in grado di mostrare ai suoi compari Frankfurter, Ben Cohen e Wise, una lettera di Roosevelt a lui indirizzata, in cui il presidente

«includeva l’idea che quei 400 mila arabi entrati in Palestina (sic) dalla Dichiarazione Balfour certamente non hanno diritto allo stesso rispetto degli ebrei. Ha suggerito che il trasferimento di

questi arabi in Iraq dovrebbe essere preso in esame».

Nel dicembre 1942, esaltato dall’esito della guerra in corso, Roosevelt confidò al suo segretario al Tesoro Henry Morgenthau (autore del piano Morgenthau di castrazione dell’intera

popolazione maschile tedesca):

«Effettivamente io metterei un filo spinato tutt’attorno alla Palestina, e comincerei a rimuovere gli arabi... Troverei della terra per gli arabi in qualche altra parte del Medio Oriente... per ogni arabo (rimosso) possiamo metterci una famiglia ebrea. Ma non voglio portarne dentro più di

quanto (la terra) possa economicamente sopportare... Naturalmente, se ci sono il 90% di ebrei, gli ebrei domineranno il governo… Ci sono un sacco di posti in cui rimuovere gli arabi. Basta

scavare un pozzo, perchè ci sono una quantità di acque sotterranee (nel deserto), e possiamo spostare gli arabi dove possano vivere».

Frankenstein è fra noi

Chiudo qui per non rendere l’articolo troppo lungo. Ma consiglio la lettura integrale dello studio di rabbi Simons, a cui rimando l’interessato anche per i riferimenti e le fonti delle citazioni di cui

sopra; sono tutte in nota nel testo. Come ho detto, l’edizione del 2004 è disponibile sul web: ProposalsToTransferArabsFromPalestine1895-1947

Mi preme solo  riportare la conclusione di rabbi Simons, che come ho detto non è affatto contrario all’espulsione in massa.

«...Tagliare il cancro da un corpo malato non è crudele, è necessario. Pochissimi hanno il coraggio di sostenere pubblicamente la rimozione degli arabi dalla Palestina. E tuttavia, lo

studio di questa corrispondenza confidenziale, diari privati e minute di riunioni chiuse, rivela i veri sentimenti dei leader sionisti sulla questione. (...) Tentativi di nascondere le proposte di

trasferimento fatte dai leader sionisti del passato ha portato a una riscrittura della storia e alla censura di documenti ufficiali».

«... Inoltre, uno studio statistico condotto dal giurista ebreo tedesco Ernst Frankenstein nel 1939, chiarisce che «il 75% della popolazione araba di Palestina sono essi stessi immigrati o

discendono da individui che immigrarono in Palestina nell’ultimo secolo, per lo più dopo il 1882».

«E’ troppo facile bollare i trasferimenti come ‘razzisti’ o ‘nazisti’: è un errore storico, in quanto trasferimenti di popolazione hanno avuto luogo – e con successo – molto prima dell’era

nazista».

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Bentornato fra noi, dottor Frankenstein.

Maurizio Blondet

Ebrei piangono la memoria del «messia» Zevi Maurizio Blondet 12/06/2007

Sabbatai Zevi (July 23, 1626–1676, in Dulcigno, Montenegro)

Il municipio di Smirne in Turchia sta per abbattere la casa in cui, secondo la tradizione, visse Sabbatai Zevi, il falso messia che nel 1666 si convertì falsamente all’Islam dando origine alla setta dei dunmeh criptogiudei - e la rivista ebraica americana Forward eleva una protesta e un’elegia nostalgica per quel gruppo umano eletto. (1)Strano.Dopotutto il sabbatismo è un’eresia e una apostasia per l’ebraismo, e i rabbini, quando alludono a Sabbatai Zevi, debbono aggiungere «possa il suo nome essere cancellato».Ma sono pur sempre ebrei, della razza superiore, di cui anche le eresie sono sacre e belle.«Il sabbatismo fu un movimento dinamico, mistico e progressista» si strugge Forward.Soprattutto, fu «il precursore del sionismo».E, rivela il giornale, due presidenti di Israele, Ytzhak Ben-Zvi e Zalman Shazar, erano «entrambi savii del movimento»; e gli oppositori ebraici del padre del sionismo, Theodor Herzl, lo chiamavano «il nuovo Sabbatai Zevi».Non è la sola rivelazione dello struggente articolo rievocativo.Forward offre una serie di particolari poco noti sulla setta dunmeh, e lascia intendere che «migliaia» di falsi islamici criptogiudei vivono ancora nella società turca.Il silenzio selettivo su certi particolari è ancora più significativo: non una sola volta si ricorda il fatto che i criptogiudei furono la forza radicale dietro la rivoluzione di Ataturk e il suo regime secolarista (massonico), che da allora ha sempre retto la Turchia per mano dei militari (dunmeh l’attuale capo supremo dello Stato Maggiore, Bukuyanit) in un colpo di Stato permanente.Il giornale americano giustifica Zevi: fu «costretto» a convertirsi perché il sultano lo pose nell’alternativa di «prendere il turbante o morire».Aggiunge che «quasi un terzo degli ebrei europei credevano fosse il messia, e avevano cominciato ad affluire in Turchia nell’attesa del trionfo d’Israele, lungamente atteso».

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Si tace su cosa doveva consistere tale trionfo: Sabbatai Zevi aveva promesso ai suoi fanatici seguaci che andava a Costantinopoli a prendere il potere promesso ad Israele, cacciando il sultano.Ciò che poi i dunmeh hanno effettivamente fatto, nel primo del ‘900, in forma laica e militarista.Quando Sabbatai Zevi, per scampare alla decapitazione, apostatò l’ebraismo, «i suoi seguaci videro nella conversione un atto eroico di tikkun, o riparazione, e seguirono il loro messia diventando musulmani all’esterno, e in segreto mantenendo la loro fede giudaica messianica».Per cui i turchi li chiamarono «dunmeh», ossia «voltagabbana».Molto brevemente ricorda che «il sabbatismo non si estinse dopo la morte di Zevi»; anzi che ci furono «altri messia, persone oggi dimenticate come Baruchya Russo e Jacob Frank».Il giornale americano sorvola sul fatto che questi due instaurarono culti sessualmente aberranti: poiché era arrivato il Messia, conclusero, «non c’è più divieto di incesto», e praticarono le mistiche ma carnalissime nozze tra fratelli, e lo scambio delle mogli in orge notturne.Dice solo che il movimento sabbateo «ha molto influenzato l’emergenza, nel 18mo secolo dello Hassidismo»: infatti gli hassidici, fra cui la setta Lubavitcher tanto amata dai neocatecumenali, praticano una «mistica» sessuale orgiastica.Le prodezze sessuali dei rabbini hassidici fanno parte integrante dei racconti mistici glorificati da Buber.Fatto è, dice Forward, che «ci sono dunmeh anche oggi, che vivono in comunità segrete, all’inizio a Salonicco ma oggi per tutta la Turchia».Molti dunmeh «sono stati sterminati nell’olocausto», dice il giornale ed è una piena menzogna: come sarebbero stati sterminati, visto che il Terzo Reich non occupò la Turchia, e per di più essi sono ufficialmente musulmani?

In attesa di lumi su questa shoah ignorata, proseguiamo la lettura.«Molti dunmeh fanno parte della odierna elite turca, ma è tabù dirlo… anche se la loro identità è un segreto aperto».Per esempio, «Ismail Cem, il ministro degli Esteri turco recentemente scomparso, fu rivelato come un dunmeh da vari giornali turchi, ma lui negò sempre di essere sabbateo».Segue una conversazione con «uno dei pochi dunmeh che dichiarano volontariamente la propria discendenza», Barry Kapandji: una dichiarazione non proprio completa, dato che Kapandji è un nome inventato («L’uso nel mio nome reale è fuori questione», dice il sabbateo).Kapandji, che oggi ha 33 anni, racconta che suo padre lo iniziò alla setta quando ne aveva nove, «e da allora è rimasto affascinato dal suo retaggio» pseudo-messianico.E’ stato «Kapandji» ad avvertire del pericolo che la casa di Sabbatai Zevi, nella strada di Smirne chiamata Agora Giri, al numero civico 920, stava per essere abbattuta per farne un giardino pubblico.I dunmeh non vogliono esporsi a difenderla, rivelando la loro identità; gli ebrei diciamo ortodossi fanno finta di non sapere nulla della setta.«Ma Sabbatai Zevi ha, nel bene o nel male, contribuito a formare la storia del popolo ebraico, e dovremmo riconoscerglielo», s’indigna il Kapandji.Lui spera che la casa sia salvata coi soldi della diaspora americana, e trasformata in museo.Che quella casa sia l’abitazione di Sabbatai lo assicura a Forward «il dottor Cenciz

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Sisman, un esperto di sabbatismo che ha un dottorato della Harvard University. Sisman cita una quantità di prove, fra cui articoli di giornali del 1925 e 1940, in cui la casa è descritta come ‘visitata da credenti’, e un libro del 1935 del noto storico Abraham Galante, nonché un racconto del 1961 dello scrittore John Freely, che ha visto un gruppo di credenti accendere candele e compiere un rito al terzo piano dell’edificio».

Dal seguito dell’articolo, risulta che «la tradizione segreta di credenze, liturgia, rituali e persino le ricette» dei dunmeh sono studiati e raccolti con amore da importanti studiosi ebraici.Così, «il celebre studioso della Kabbalah Avraham Elqayam ha recentemente pubblicato un articolo sul significato mistico del da poco scoperto libro di ricette dunmeh» (sic).E c’è un giornale online, «Zeek», di cui il giornalista di Forward è direttore, «che pubblica traduzioni degli inni sabbatei e racconti in prima persona di Zevi durante la preghiera»: prezioso materiale «raccolto da David Halperin, docente emerito di religione alla Università del Nord Carolina». (2)Tutta questa cura e attenzione, da parte di ebrei (apparentemente) non sabbatisti, supera di molto la curiosità archeologica per un «retaggio» scomparso.E’ noto che per i rabbini israeliani qualunque azione compiuta da un ebreo, anche dichiaratosi falso messia, è comunque santa perché avvicina il trionfo finale di Israel.Come disse rabbi Rav Kook, primo rabbino capo di Israele: «Per far venire l’era messianica, è necessario passare attraverso il profano nella sua lotta contro la spiritualità, ed anche attraverso la profanazione».E’ esattamente la «mistica» di Sabbatai Zevi, con cui giustificò la sua apostasia come «riscatto».Ancora Rav Kook: «Questa distruzione in vista della costruzione (harissa tzarekh binyan) è l’applicazione dell’insegnamento kabbalistico sulla distruzione dei mondi in vista della loro restaurazione… i pionieri empi (sionisti laburisti) sono dunque, a loro insaputa, gli agenti zelanti del piano divino il cui obbiettivo è, radunando gli ebrei nella loro terra, di realizzare la redenzione di Israele».Dal che discende il corollario: qualunque mezzo - l’inganno, la falsa apostasia, la menzogna - è lecito per accelerare l’avvento del regno.

A leggere queste frasi sorgono spontanee alcune domande: il primo rabbino di Israele, Kook, ispiratore del Likud, era un sabbateo? Oppure: esiste una percettibile differenza fra il sabbatismo aberrante e apostata e l’ebraismo maggioritario?Domande di cui è inutile la risposta.I dunmeh, conclude sibillino il giornalista di Forward, «segretamente, ancora resistono».

Maurizio Blondet

Note1) Jay Michaelson, «Shrine of false messiah in Turkey may be razed», Forward, 18 maggio 2007.2) Citato da David Banon, «Il messianismo», Giuntina 1998, pagina 107.

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backCome «soffrirono» gli ebrei in Polonia Maurizio Blondet 03/02/2006

Bogdan Chmielnicki

E' un luogo comune accusare i polacchi, e in generale gli slavi dell'Est di «antisemitismo».Non mancano mai le occasioni perché ci vengano descritte le «sofferenze degli ebrei nell'Est», i pogrom, le persecuzioni zariste e così via.Ora, un lettore mi manda un lungo saggio di un autore americano, E. Michael Jones, che fa una luce sorprendente sulla natura e le cause dell'antisemitismo slavo.Jones ha avuto la costanza di leggersi gli undici volumi della monumentale «Storia degli ebrei» di Heinrich Graetz (1819-1891), un ebreo tedesco considerato fondatore della storiografia ebraica. Illuminista e razionalista, Graetz è fra l'altro un critico inflessibile della gnosi kabbalistica, alla cui egemonia nel mondo giudaico attribuisce le più dissennate speranze messianiche (incarnate da «messia» come Sabbatai Zevi e Jacob Frank) e, peggio, i vizi della mentalità giudaica, fra cui «una sorta di trionfale delizia nell'ingannare e frodare» (sic).Graetz ricorda che con lo statuto di Kalisz (1251) la Polonia diede ai suoi ebrei diritti ignoti a tutte le altre comunità giudaiche europee: l'amministrazione autonoma della comunità e un sistema giudiziario indipendente dalla magistratura cristiana polacca, il Kahal, che aveva l'esclusiva giurisdizioni sulle liti fra ebrei.

E' dal Kahal che si sviluppa la «sapienza» talmudica (il Talmud è essenzialmente un codice penale) e la cultura casistica delle dispute rabbiniche, con la caratteristica tendenza (riporto parole di Graetz) a «contorcere e distorcere, all'ingegnosa sofisticheria, e all'ostilità per tutto ciò che non entrava nel loro campo di visione».Ciò che secondo lo storico ebraico «ha minato il loro senso morale» creando una vera abitudine alla «sofisticheria e alla vanteria».A causa dello Statuto di Kalisz, la Polonia fu definita in Europa «paradisum judaeorum». Inevitabilmente, nel corso delle fiammate di persecuzioni che avvennero nella cristianità tra l'undicesimo e il 16mo secolo, una quantità di ebrei, per lo più tedeschi, emigrarono là, portando la loro lingua, il «juedische Deuych» o Yiddish: subito approfittando della totale indipendenza che la Polonia consentiva loro per non integrarsi affatto alla popolazione, evitare di impararne la lingua, astenersi da ogni contatto con essa a parte il commercio e (dice Graetz) occasionali e illecite attività sessuali.

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Quanto soffrirono gli ebrei in Polonia, lo suggerisce la loro demografia.Tra il 1340 e il 1772 la popolazione polacca cristiana aumenta di cinque volte; quella ebraica di 75 volte.Nel 1795, al tempo della terza ed ultima spartizione della Polonia, viveva là l'80 % degli ebrei askenazi, ossia non medio-orientali.

Alla crescita demografiche corrispose, come dubitarne?, una crescita della ricchezza e del potere dei sofferenti figli di Giuda.E la loro età d'oro polacca coincise con l'espansione «imperiale» della Polonia, avvenuta tra il 1500 e il 1650.Nel 1634 la Polonia era infatti divenuta lo Stato più vasto d'Europa, esteso dal Baltico fin quasi al Mar Nero, dalla Slesia tedesca a quella che oggi è nota come Ucraina, 200 chilometri oltre il fiume Dnepr. Il 60 % della popolazione della Polonia non era polacca e nemmeno cattolica ma, ampiamente, ortodossa.In questi territori conquistati, oggi parte di Ucraina e Bielorussia giù fino alla Crimea, la nobiltà polacca (esempio storico di inconcludenti vanitosi) si ritagliò proprietà vaste a volte come l'attuale Svizzera: immensi latifondi in mano a una microscopica oligarchia nullafacente, sulle cui zolle lavorava, mal compensato e sull'orlo della miseria perenne, il contadiname polacco.Questi contadini, originariamente cittadini-soldati delle immense conquiste imperiali, furono rovinati dalle guerre che erano stati costretti a fare; passarono dunque ai latifondisti nella condizione di servi.Per di più nel 1633 il parlamento polacco dominato dai nobili, il Sejm, vietò per legge all'aristocrazia polacca di occuparsi di affari e commercio di ogni genere; non parve decente a lorsignori dedicarsi ad attività produttive o anche volgari come vendere la vodka. Perciò, affidarono l'amministrazione dei loro immensi latifondi, di cui non potevano occuparsi (avete indovinato?) agli ebrei.Di fatto glieli affittarono con contratti a breve termine, in cambio di un canone fisso e anticipato; stava poi agli ebrei rifarsi sui contadini con esazioni e prelievi.E' il sistema detto dell'«arenda»; nella lingua dei contadini polacchi, «arendarz» (o esattore) e «ebreo» divennero sinonimi.Di fatto, l'80 % dei capifamiglia ebrei nelle campagne, e il 15 % nelle città, erano impiegati come «arendarz».A peggiorare la situazione, il kahal ebraico aggiudicò i contratti d'arenda agli ebrei più ricchi, che poi li subappaltavano agli ebrei più poveri e perciò più famelici.L'oggetto dell'arenda («affitto di beni o diritti immobiliari») potevano essere i terreni agricoli, ma anche le taverne, i mulini, l'esazione di pedaggi su strade e ponti, il diritto di raccogliere pagamenti di ogni tipo di monopolio.I nobili polacchi (cattolicissimi ovviamente) giunsero a locare agli ebrei le chiese di loro proprietà, ossia quasi tutte le chiese di campagna.Ciò significa che l'ebreo aveva le chiavi della chiesa, che apriva solo per le cerimonie richieste dai contadini - matrimoni, battesimi e funerali - ovviamente a pagamento.

E poiché il contratto d'arenda era a breve termine e poteva non essere rinnovato, gli ebrei locatari avevano tutto l'interesse ad estrarre dalle loro vittime quanto più denaro possibile nel più breve termine.L'incentivo del cuore ebraico a rendersi umani o almeno miti verso i contadini, odiati cristiani, era già debole; l'incentivo finanziario, così importante per loro, mancava del tutto.

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Tanto più che lo Stato polacco - che dall'arenda ricavava il 70 % dei suoi introiti fiscali - poneva tutta la forza della legge dalla parte degli ebrei (i suoi esattori) anziché del popolo.Dal 1633, quando gli ebrei assunsero il controllo dello spaccio dell'alcol, contadini che osavano distillarsi la vodka di nascosto nelle loro isbe, non pagandovi le tasse, subivano l'irruzione degli esattori: ebrei armati, che parlavano una lingua semi-tedesca, autorizzati a spaccare le storte e le botti e ad imporre multe esose, cosa che faceva con delizia un popolo che - come sanno i palestinesi - tratta il resto dell'umanità con disprezzo e, quando può, con l'angheria più gelida e insensibile.L'arenda e il modo in cui gli ebrei la gestirono è la causa profonda della perenne miseria e secolare arcaismo dell'agricoltura polacca.

Gli esattori «arendarz», affittuari a breve, non avevano nessun interesse a mantenere in buono stato le fattorie, gli attrezzi agricoli, a non sfruttare oltre i limiti i terreni e i lavoratori.Per di più, acquisirono la lucrosa abitudine di manipolare i prezzi del grano in modo tale da sottrarlo all'uso alimentare per destinarlo alla distillazione, più lucrosa per loro; e naturalmente promossero intensamente il consumo della vodka, che dava profitti alti e che si dovevano ricavare a breve termine.Col tempo fra i contadini polacchi, «non si sa perché», si sviluppò un certo sentimento «antisemita». Non così fra i nobili cattolicissimi della Polonia, Cristo delle nazioni.Scrive Graetz: «l'ebreo in qualche misura controbilanciava i difetti nazionali: l'incostanza impulsiva, la leggerezza, la prodigalità della nobiltà polacca trovavano il loro contrappeso nella prudenza, sagacia economica e cautela ebraica. Per il nobile polacco l'ebreo era più che un finanziere; era il suo consigliere prudente, quello che lo cavava dai debiti, il suo tutto in tutto…un'alleanza utilitaristica unica fu formata tra il latifondista polacco e l'elite finanziaria giudaica».Nel 1572, alla morte di re Sigismondo (che aveva abbandonato loro la gestione del regno: rabbi Mendel di Brest era chiamato «il segretario del re»), gli ebrei sofferenti avevano raggiunto abbastanza potere da decidere il successore.

E lo fecero in consultazioni con la «sublime porta» di Costantinopoli, la Francia ugonotta e i protestanti britannici, interessati anch'essi alla successione polacca.Il grande mediatore in quest'affare (in cui si distribuirono miliardi) fu Solomon ben Nathan Askenazi, già medico di Sigismondo, poi emigrato a Costantinopoli dove servì il sultano così fedelmente come aveva servito il re polacco.Presso la «porta», del resto, Solomon non fece altro che succedere a Joseph Nasi, consulente del sultano e sorta di capo non-ufficiale dell'ebraismo mondiale di quei tempi.Ma quell'età d'oro fu anche l'inizio in cui sul «paradisus judaeorum» polacco cominciò ad addensarsi qualche nube minacciosa.Ciò, a causa di una delle etnie che l'espansionismo imperiale polacco aveva incorporato: i cosacchi. Anche ad essi fu esteso, tanto per cominciare, il regime latifondista dell'arenda.Anche i cosacchi scoprirono di dover pagare una tassa per entrare nelle loro chiese ortodosse. Subire il dominio dei signori polacchi cattolici, pazienza; ma dover pagare vodka e battesimi agli ebrei, non è da cosacchi.I polacchi, questi antisemiti civilizzati, subivano.Ai cosacchi, selvaggi, cominciarono a prudere le mani.

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Presto fra loro nacque un capo, Bogdan Chmielnicki.Il suo grido: «i polacchi ci hanno reso schiavi della razza maledetta dei giudei»  non fu accolto con sospiri di rassegnazione «à la polonaise».Rapidamente, Chmielnicki si trovò a guidare un'orda di cosacchi e tartari alleati che sconfisse l'armata polacca il 16 maggio 1648: da allora l'orda ebbe davanti una strada sgombra fino al cuore della Polonia, e la percorse in un'orgia di saccheggi, stupri, massacri «à l'asiatique», come usa (e gli americani in Iraq lo stanno imparando) da quelle parti.Cosacchi e tartari dedicarono una speciale attenzione agli ebrei; pare che ne abbiano fatti fuori 100 mila.Allora, per ammissione dello storico ebreo Henryk Grynberg, «le armate polacche (in ritirata) furono la sola difesa degli ebrei».Quando l'armata cosacca investì le mura di Lwow, Chmielnicki intimò agli assediati: consegnateci gli ebrei che avete in città, e noi leviamo l'assedio.Che cosa fecero gli antisemiti polacchi in gravi difficoltà, assediati e affamati?Risposero di no.Non consegnarono alcun ebreo, resistettero, e così salvarono quelli che erano rimasti chiusi a Lwow.Ecco fino a che punto i polacchi hanno perseguitato gli ebrei.Ecco quanto hanno fatto soffrire i loro benefattori (1).

Maurizio Blondet

Note1) Non voglio guastare lo stile aulico di questo excursus storico con un'espressione rivoltante della volgarità napoletana e romanesca. L'espressione però mi viene alle labbra, e perciò la metto in nota: si vede qui ancora una volta applicata la metodologia che Israele ha adottato verso gli arabi, anzi verso il mondo intero dei goym: «chiagni e'ffotti». Perseguita, e strilla che sei perseguitato. Opprimi, e lamentati che soffri.

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