morire quassotto sarebbe darvi una soddisfazione

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Stefano Di Cagno CAPITAINEMO Morire quassotto sarebbe darvi una soddisfazione

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Narrativa subacquea

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Page 1: Morire quassotto sarebbe darvi una soddisfazione

Stefano Di Cagno

CAPITAINEMO

Morire quassotto sarebbe darvi una soddisfazione

Page 2: Morire quassotto sarebbe darvi una soddisfazione

INDICE

Premessa .................................................................................. 6

I Iperossia sul Micca .......................................................... 8

II. Sistema di coppia inefficace ........................................... 24

III. A centodieci finisce il Trimix2 ....................................... 33

IV. Aria esaurita in Croazia ................................................. 49 V. L’erba cattiva… ............................................................. 57

VI. Da centoventi a zero in trenta secondi .......................... 68

VII. Non te la do… .............................................................. 81

VIII Allora sei proprio deficiente ......................................... 92

IX. Coazioni ........................................................................ 99

X. Ignoranza o ipocrisia? ................................................. 107

Conclusioni .......................................................................... 116Foto di copertina Julie Martone, realizzazione grafica Massimo Cellamare

Seconda Edizione

Copyright 2013 © Edizioni Capitain Nemo di Stefano Di Cagno http://www.captainnemopress.net/ISBN 9 788890 8646 0 5

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Page 3: Morire quassotto sarebbe darvi una soddisfazione

Dedicato a Julie, per la quale non valgo abbastanza.

La felicità [...] ha sempre vita breve.(P.P. Pasolini, Trasumanar e organizzar)

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Premessa

Questo libro parte dalla fine. L’estate del 2004 non la ricorderò tra le mi-gliori della mia vita, anche se c’è stato sicuramente di peggio. Se l’ultima mia compagna non mi avesse lasciato malamente qualche settimana fa, forse non avrei scritto ciò che vi accingete a leggere. Ho nel cassetto, o meglio nei dischi rigidi dei computer in ufficio, un certo numero di lavori incompiuti: romanzi, storie brevi, autobiografie e saggi tecnici. Per svariati motivi tra cui la convin-zione di scrivere da schifo, ma soprattutto per smodato ottimismo, non ho mai avuto il tempo di dedicarmici. Ho sempre pensato di essere capace di buttare giù qualcosa più lungo di un articolo, o quantomeno di portarlo a termine, solo quando sono di umore tetro e provo qualche sorta di malessere per parec-chio più di ventiquattrore filate. Il che fino ad ora non era mai successo, con conseguente inaridimento della vena letteraria.

Ma è stata un’estate di merda, come ho detto prima, e l’amore mi ha lascia-to in malo modo, prendendo a calci in faccia cuore e orgoglio.

Quindi, perché non scrivere un libro sui miei incidenti subacquei, sulle mie cazzate, sui miei errori?

Come articolista della rivista che ho contribuito a fondare, e che in queste settimane sono indeciso se af/fondare o meno, ho spesso preso posizione sui fatti che hanno portato alla morte dei subacquei, soprattutto profondisti. E’ mia opinione che le cause di incidente, mortale o meno, non siano mai casuali.

Buona parte di questa convinzione deriva dall’esperienza personale. Il mio primo incidente subacqueo, o mancato incidente se vogliamo essere più pre-cisi, risale a pochi anni dopo aver cominciato quest’attività. Gli altri si sono sostanzialmente ‘’spalmati’’ nel corso di questa.

Ho escluso da questo elenco le poche volte che un mio allievo ha avuto problemi durante il corso rendendo necessario il mio intervento. Forse potrei dare un seguito a questa ‘’opera’’. Magari inserire la narrazione di quei (po-chi) eventi insieme con quella di altri di cui ho fonte certa e che, globalmente, possono dare un contributo concreto alla disamina, comprensione e (magari, ma ne dubito) prevenzione degli infortuni.

Nel raccontare i dieci episodi si sono mano a mano inserite altre storie, spero non appesantiscano il tutto.

I lettori noteranno che alcuni dei dieci incidenti raccontati non sono pro-priamente tali. In vita mia sono finito in camera iperbarica ‘’solo’’ due volte. Per uno che fa subacquea estrema da dieci anni non so se sia poco o molto, ma tant’è. Almeno altre due volte ci sarei dovuto andare ma non l’ho fatto perché ho il cervello bacato. In ogni modo, in buona sostanza, se vogliamo definire un

incidente subacqueo come la causa che ha come effetto dei danni fisici all’at-tore del dramma, non tutti quelli riportati sono tali.

Qualche volta semplicemente l’ho rischiata, ci sono andato molto ma molto vicino e sono qui a raccontarlo.

Sono però episodi che completano il quadro delle cose che possono causa-re una brutta fine sott’acqua e li trovo particolarmente indicativi. Last but not least, se questa roba non fosse di alcuna utilità, dato che contiene una buona dose involontaria di umorismo per la quantità di azioni stupide, forse qualcu-no si farà due risate. Oggigiorno ne abbiamo davvero bisogno.

Per il resto, non credo che diventerà un best seller. La maggior parte di quelli che nel nostro ambiente lo leggeranno mi detesta (è reciproco), mi di-verte l’idea di raccontare loro le fesserie che riesco a fare e che nonostante ciò non mi uccidono. Come sostengono alcuni miei cari amici (condivido piena-mente e l’ho pensato anche in quei frangenti…), una delle ragioni fondamen-tali per cui riesco a tirarmi via dalle braccia della nera signora, lassotto, è che morendo darei loro una soddisfazione troppo grande.

Bari, ottobre 2004

Premessa alla seconda edizioneChi non muore si rivede, dicono, ed eccoci alla seconda edizione, rivista e

corretta dai tanti refusi della prima. I ”Libri di Captain Nemo” non cambiano ne’ nella forma ne’ nella sostanza, l’unica cosa che troverete mutata, ma se ac-quistate questo volume per la prima volta (e perché mai farlo due volte direte voi… beh, potreste aver perso la prima edizione o letto un libro non di vostra proprietà e aver voluto colmare questa lacuna, dico io…) non ve ne sarete nemmeno accorti, è la ragione sociale, cambiata nel tempo. Siamo alla terza, e restando in argomento proverbi, non c’è due… Presumo non ve ne saranno altre, anche per i libri di prossima pubblicazione in questa collana.

Se dunque siete nuovi lettori, spero che questo esordio vi piaccia almeno un po’, e che diventerete dei Fedeli Lettori, per citare il Maestro omonimo e Re.

Sono passati quasi dieci anni da quando ho scritto di getto (oh che getto, ve ne accorgerete…) questo primo libro, eppure sembra ieri. La subacquea non cambia, nonostante il prepotente affacciarsi sul mercato globale dei re-breathers. Del resto, a parte permettere di andare un po’ più fondi un po’ più a lungo, non sono altro che degli ARO da anni quaranta. Per cui, perché aspet-tarsi rivoluzioni.

Insomma, benvenuti nel mio personalissimo mondo borderline, e… buona lettura.

Bari maggio 2013

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IIPEROSSIA SUL MICCA

Dopo un paio d’anni di carriera professionistica subacquea ho comin-ciato a utilizzare le miscele e l’ossigeno per la respirazione. Nei corsi di formazione e in tutti i testi consultati si affermava con certezza che una cri-si iperossica non è letale di per se. Ciò che provoca la morte dei subacquei colpiti è l’affogamento, causato dalle convulsioni e dall’incoscienza che fanno perdere il boccaglio. E’ la ragione per cui viene caldamente consi-gliato l’uso di una maschera granfacciale nelle lunghe decompressioni con uso di elevate pressioni parziali di ossigeno (O2) (nota*1). Mentre le ma-schere classiche coprono l’area degli occhi e del naso, quelle granfacciali rendono stagno tutto il viso e permettono la respirazione senza dover te-nere un boccaglio tra i denti. In caso di perdita di conoscenza il subacqueo continua a respirare e, nello scenario descritto successivamente, in caso di convulsioni, non corre il rischio di perdere simili equipaggiamenti. Non sono di uso frequente perché costose e abbastanza complicate da gestire, soprattutto in quanto disperdono sempre del gas e difficili da togliere in caso di necessità.

Secondo le mie fonti, da qualsiasi tipo di problema si può venire fuori sott’acqua, salvo che da una crisi iperossica.(nota*2)

Il 25 luglio 2004 mi trovavo a Santa Maria di Leuca, l’estremo capo sud della Puglia. La mia ditta doveva fornire a titolo gratuito assistenza a un gruppo di subacquei che, a loro volta, avrebbe depositato una corona d’alloro sul relitto del sommergibile italiano Pietro Micca. Ogni anno la sezione locale dell’Associazione Nazionale Marinai d’Italia, i veterani del-la Marina Militare, commemora i 54 caduti del Micca lanciando in mare la corona, benedetta durante una messa che viene celebrata appositamente poco prima. L’ANMI desiderava che quest’anno il simbolo di memoria e riconoscimento dei propri caduti fosse lasciato sullo scafo del sommergi-bile.

Tutto luglio, per non parlare dei mesi precedenti, era stato infernale. Le cose andavano male in tutti i settori della mia vita e il mese che stava per cominciare sembrava e poi non è effettivamente stato meglio. Il giorno prima della cerimonia, le cose avevano cominciato a prendere una piega spiacevole anche sott’acqua.

Eravamo arrivati in zona con un giorno di ritardo e l’alaggio e allesti-mento del gommone di sette metri che avremmo usato aveva occupato tutta la sera e la mattinata successiva. Per un intero pomeriggio la ricerca del relitto era stata infruttuosa. I punti GPS (nota*3) che ci avevano dato diffe-rivano di qualche secondo rispetto a quelli reali riportati infine sul nostro strumento, una volta individuato il segnale sul fondo. Speravamo di avere fortuna, ma non era evidentemente il periodo giusto. Alle volte mi è capi-tato di trovare un relitto, con i punti precisi o meno, in un batter d’occhio. Altre ci giravo attorno senza riuscire a venirne a capo per giorni. Il Pietro Micca sembrava voler entrare nella seconda categoria statistica.

Alla fine, un rilevante rialzo del fondale era apparso sullo schermo dell’ecoscandaglio ed era stato lanciato in acqua il primo pedagno.

Il nostro metodo è sostanzialmente semplice. Arriviamo sul punto ap-prossimato e buttiamo in mare una bottiglia di plastica, una lattina, qual-cosa che galleggi insomma, collegato sul fondo a un ancorotto o a un peso qualsiasi da una cimetta. Con l’esperienza abbiamo sviluppato un sistema

nota*1) L’aria è composta dal 78% di azoto, dal 21% di ossigeno e da piccole quantità di altri gas come anidride carbonica, vapor acqueo e gas nobili. La pressione dell’aria è la somma delle pressioni parziali (PP)esercitata da ciascuno dei gas che la compongono. Questi si comportano come se occupassero da soli un dato volume, cioè la pressione parziale di un gas non influisce su quella di un altro.nota*2) L’ossigeno può dar luogo a due effetti patologici opposti. Essendo il gas metabo-lita, ovvero necessario ai processi vitali del nostro organismo (come più o meno di tutte le specie animali e vegetali del pianeta), se assunto in eccesso o in difetto causa grossi guai. Si definisce ipossica la condizione in cui la pressione parziale del gas è inferiore alla misura di 0.21 sul livello del mare. Scendendo sotto questa condizione normale, si arriva mano a mano a una quantità insufficiente alla vita. Superando viceversa quella quantità si verifica il fenomeno dell’iperossia. Come detto, si può respirare ossigeno puro per lungo tempo prima di provocare danni fisici irreparabili. A differenza dell’ipossia, in una condizione iperossica si ottengono miglioramenti per l’organismo, tanto che moltissime patologie vengono curate così e l’ossigeno puro in pressione viene usato anche per cure estetiche. Come tutte le cose, però, il troppo stroppia. Crescendo la PPO2 e la pressione circostante, e aumentando il tempo di esposizione, l’organismo subisce effetti deleteri, come le crisi convulsive di cui narro un esempio.

nota*3) Global Positioning System. E’ un sistema di posizionamento globale, basato sulla triangolazione della ricezione del segnale da parte di un apparecchio terrestre di almeno tre degli oltre venti satelliti geostazionari adibiti allo scopo. Fornisce i dati sulla propria posizio-ne fino al centimetro e, dopo essere nato per scopi militari e scientifici, si è diffuso prima nei settori dell’aeronautica e della marineria, per finire ad essere usato ovunque, dai navigatori per auto ai cellulari e orologi di ultima generazione.

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ottimale, che consiste nell’usare un oggetto che sia abbastanza pesante da precipitare giù quanto più possibile sulla verticale. Bisogna trovare il giu-sto equilibrio tra scarsa influenza alle correnti (forma allungata con poca superficie orizzontale), e peso sufficiente a piantarsi sul fondo, ma non tale da costringere a faticate debilitanti per salparlo in superficie. Se possibile, all’estremità del peso si saldano tre o quattro aste di metallo flessibile, che facciano da àncora ma che non resistano a una decisa trazione. La corrente non riesce a tirar via il pedagno, la forza umana o la potenza della barca si.

La cimetta, a sua volta, viene arrotolata con cura sul galleggiante, che dovrebbe avere una forma circolare, come una bottiglia di plastica appun-to, in modo che ruoti su se stesso svolgendola.

Immediatamente i ragazzi a bordo del gommone avevano lanciato un secondo pedagno e rilevato la distanza che separava il punto segnalatoci da quello reale: oltre 300 metri. Nulla sulla terraferma, un bel po’ di acqua da scandagliare in mare, corrispondendo all’incirca a 300.000 metri quadri di superficie da battere palmo palmo con uno strumento elettronico non efficacissimo.

Trovato quello che poteva senz’altro essere il Micca, s’era fatto tardi per un’immersione. Così arrivavamo esattamente a fare la cosa che di solito più mi preoccupa sul lavoro: agire di fretta.

Il giorno dopo c’era un po’ di mare e le operazioni di rilevamento e ac-certamento definitivo del punto ci presero altro tempo. Solo nel pomeriggio riuscimmo ad effettuare l’immersione, che doveva portare al posiziona-mento di una cima di ancoraggio che fosse davvero sicura per ormeggiare le imbarcazioni l’indomani, durante la cerimonia. Dovevamo usare anche un nostro robot subacqueo (detto ROV, dall’acronimo anglosassone per Remotely Operated Vehicle ), (nota*4) con trasmissione in diretta delle im-magini dal fondo sulla motovedetta della Capitaneria di Porto di Leuca, che avrebbe imbarcato autorità civili, militari e religiose.

Scendemmo in due, portandoci appresso gli scooter subacquei, dei pic-coli siluri elettrici (foto 1 e 2) da cui ci saremmo fatti trainare per essere più veloci ed abbattere fatica e consumi di gas. L’accordo con i due sub che

nota*4) ROV sono controllati e alimentati dalla superficie a mezzo di cablazioni. Possono essere di varia grandezza, per intenderci dalle dimensioni di un pallone da calcio a mostri grandi come un furgone. I robot subacquei non vincolati che si muovono automaticamente sono chiamati AUV, Autonomous Underwater Vehicles.

Gli scooter subacquei, utilizzati con due configurazioni completamente diverse. In alto sul lago di Bracciano,in occasione del record di immersione femminile con rebreather a circuito chiuso elettronico. In basso, con monobombola ricreativo. Il sub è trainato, in questo modello tow behind, limitandosi a guidare con una mano.

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fornivano assistenza di superficie e che dovevano scendere alla nostra rie-mersione, era di mollare l’ormeggio del gommone una volta che con il mio compagno avessimo messo la testa sott’acqua, scendendo lungo la cima. In quel modo non avremmo avuto difficoltà a trainarla anche se l’àncora fosse stata in prossimità del Micca o in una posizione che non ci piaceva. Volevamo mettere il capo sommerso della cima sulla torretta del sommer-gibile, assicurandolo a una catena, di modo che fosse semplice e veloce posizionare la corona d’alloro proprio lì.

Per stanchezza e inesperienza, i due sul natante tirarono in acqua oltre cinquanta metri di corda di troppo. Era una cima di circa 12 millimetri di diametro, autoaffondante. Imbevutasi d’acqua scese giù, stendendosi quasi orizzontalmente per le decine di metri eccedenti, tirata da un’insidiosa cor-rente di un nodo almeno, che cominciava verso i cinquanta metri.

Arrivai sull’àncora, che giaceva sul fondo a pochi metri dallo scafo. Gonfiai il gav (giubbotto ad assetto variabile) e l’aumento del suo volume mi spinse verso l’alto sollevandomi insieme al pezzo di ferro e ai suoi tre metri di catena. Lo scooter mi trainò nella direzione voluta, la struttura della torretta che si intravedeva in prossimità. Là buttai dentro un buco tra le lamiere contorte l’àncora e sgonfiai il gav per ristabilire il mio galleggia-mento in assetto neutro.

Impegnati sul relitto, completamente ignari della situazione, trascor-remmo la quindicina di minuti previsti sul ponte del sommergibile, assicu-rando la cima a delle afferrature e dando una prima occhiata intorno.

Il Micca giace a oltre ottanta metri sul fondo, in assetto di navigazione, leggermente piegato verso sinistra. C’era poco pesce quel pomeriggio ma molte aragoste, anche di ragguardevoli proporzioni. Il mio compagno illu-minò alcuni portelli aperti e un cannone. Fermi così, congelati nel tempo, completamente inghirlandati da molluschi e spugne da quel terribile giorno in cui il sommergibile inglese Trooper aveva sorpreso il rivale italiano in navigazione di superficie sotto costa. Pochissimi i superstiti dei settantadue uomini d’equipaggio. Solo diciotto tra ufficiali e marinai in quel momento in servizio o a fumare una sigaretta in coperta, riuscirono a salvarsi.

Sembra che il Trooper aspettasse il Micca da giorni, così come altri sommergibili alleati avevano guattato e affondato due sommergibili ocea-nici italiani simili al Micca, anche loro di stanza alla Base Som di Taranto. Il Romolo e Remo erano sospettati dai servizi segreti alleati di trasportare armi di sterminio tedesche in Giappone, ma li circondava anche una leg-

genda su carichi di paghe in oro per le nostre truppe in NordAfrica.Sul fondo, la storia di quei poveracci in molti casi morti di asfissia o,

come alcuni sussurrano, suicidi (alcune fonti storiche raccontano di spari raccolti dai sonar delle navi accorse, altre di bombe di profondità lanciate dalla nostra stessa Marina per abbreviarne l’agonia), m’invadeva la mente.

Era tutto così tranquillo, così immobile.Ci staccammo dal relitto come convenuto, cominciando a risalire lun-

go la cima. In un primo momento pensammo che la curvatura anomala fosse solo un po’ di bando lasciato apposta dai colleghi in superficie, par-ticolarmente fastidioso perché accentuato dalla corrente. Dopo un po’ però ci accorgemmo di stare percorrendo con fatica un profilo sostanzialmente orizzontale, ancora parecchio profondi. I consumi erano alti, le riserve di gas non grandiose. Non ci andava di mollare la cima e risalire in verticale lanciando un pallone. La corrente era forte, fuori cominciava a rabbuiare e poteva succedere che non si accorgessero di noi.

E’ facile pontificare in un’aula didattica o al ristorante su cosa fare nelle situazioni anomale. Nella realtà è invece spesso difficile prendere la deci-sione giusta quando hai alcune decine di minuti di gas ancora respirabile e non puoi comunicare in maniera chiara e intellegibile con chi ti è vicino. Il linguaggio dei segni, l’uso di tavolette su cui scrivere, diventano penosa-mente inefficaci tanto più l’evento straordinario si sposta verso l’emergen-za. Mi ricordo momenti, che racconterò più avanti, in cui la frustrazione di non essere compreso, di non riuscire a farmi capire nei pochi concitati istanti in cui era vitale, ha raggiunto livelli parossistici.

Non riuscivamo a deciderci. C’era un po’ di decompressione da fare e avevamo consumato del gas in più di quello che volevamo. Quando sei fuori sede e hai le scorte limitate, ogni spreco ti fa innervosire perché cor-risponde a un aumento di rischi, prospettive di fallimento e problemi vari.

Tra la possibilità di stare appesi nel nulla in mezzo al mare, allontanan-doci dal gommone e scatenando chissà quale allarme e/o intoppo e, vice-versa, risalire direttamente sotto la barca, il secondo scenario risultava di certo il più gettonato. Quella maledetta cima avrebbe pur avuto termine…

Così fu, alla fine. Dopo un bel po’ iniziò a risalire marcatamente in ver-ticale verso l’alto e riprendemmo il profilo previsto. Uscimmo dall’acqua nervosi, infreddoliti e incupiti.

Nessuno di noi è superstizioso, ma un po’ di ubbia non ha mai fatto male, mentre la sfiga sempre…

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Il mio compagno aveva usato una muta stagna, sudando abbondante-mente per infilarsela ma venendo compensato, guadagnando sotto il pelo dell’acqua una buona protezione termica. Al contrario io avevo optato per una comoda muta umida, che mi ero infilato in acqua dopo essermi tuffa-to in costume in versione vacanziera. Prevedevo un’immersione piuttosto corta e di non dover soffrire il freddo, invece quel contrattempo mi aveva costretto a una bella raggelata. Sul fondo l’acqua era fredda. L’elio conte-nuto nelle nostre miscele per azzerare la narcosi indotta dall’azoto (nota*5), essendo un forte conduttore termico aveva trasferito rapidamente la tempe-ratura esterna agli organi interni del corpo, dove il sangue si concentra per effetto della pressione esercitata dalla colonna d’acqua.

Il ritardo sul programma ci riservava ulteriori malesseri. L’idea era una bella doccia, un po’ di riposo e una cena serena al ristorante di un grande albergo, in cui alloggiava uno degli ufficiali della Marina Militare che il giorno dopo, in forma privata, avrebbe partecipato all’immersione. Invece vi si presentò una schiera di trasandati zingari puzzolenti. Ciascuno di noi rispecchiava la faccia dell’altro: stanca, tirata, irsuta.

Non valeva la pena infatti spostarsi da Leuca fino al paesino limitrofo, dove avevamo affittato un villino. Scaricai dal gommone i maschi e caricai la mia ragazza e la nostra quasi amante, portandole a fare un rapido bagno. Grande soddisfazione vederle tuffarsi nude nell’acqua limpida e fresca del Capo, ma ogni medaglia ha il suo rovescio e quello era pesante. La gelosia scavava baratri incolmabili per il futuro, il voler fare troppe cose insieme esauriva le energie nell’immediato e niente veniva bene.

Stavamo correndo tra le braccia della Legge di Murphy, me lo sentivo. Secondo questo tecnico dell’aeronautica militare statunitense, il capitano Edward Murphy, ‘’Se qualcosa può andare storto ci andrà – e lo farà nel

momento peggiore possibile”. Dal 1949, anno in cui pare abbia avuto ori-gine questo postulato, nessuno è riuscito a smentirne efficacemente la ve-ridicità.

L’interpretazione corrente le attribuisce una componente di fatalità che personalmente non condivido. La Legge di Murphy è assolutamente valida proprio perché non vi è alcun dubbio che se poniamo in essere tutte le con-dizioni idonee a combinare un casino, quello si verifichi.

E’ talmente azzeccata, a mio parere, che in alcuni casi mi ha letteral-mente salvato la vita. Conscio del star facendo quanto di peggio nel peg-gior momento, dovevo solo aspettarmi il disastro e, quindi, sono riuscito a tirarmene fuori quantomeno grazie al fatto di non essere stato colto di sorpresa.

Cosa che è avvenuta quella domenica.Il mare era piatto, ma nella notte, tra sesso complicato e tormentato

(affollato, come dice Viktor Navorski/Tom Hanks in The Terminal (nota*6) e afa terribile, le poche ore di sonno erano volate via senza lasciare traccia.

Mentre scrutavo la distesa blu sotto un sole già cocente alle nove di mattina, il nervosismo mi aveva attanagliato il cuore e la mente in una ricerca infruttuosa della boa di ormeggio. Non ricordo bene dove la cer-cassi e perché, fatto sta che per un bel pezzo condussi il gommone a vuoto, seguendo malamente la bussola e una direzione sballata. A bordo c’era il medico militare, ottimo marinaio, e il mio nervosismo era aumentato dalla consapevolezza di star inanellando figure barbine.

Arrivati finalmente sul punto e finalmente messo in acqua il ROV, ci attendeva una nuova sgradevole sorpresa: quell’affare non funzionava. Ah, Murphy, Murphy…

Inutile raccontare il profluvio di bestemmie e imprecazioni. Dopo po-chissimo erano lì le imbarcazioni della Capitaneria e degli spettatori, qual-cuno benediceva i caduti, qualcun altro applaudiva ed ecco che erano anda-ti tutti via. Restavamo noi e una vedetta, con altri sub militari.

Un minimo di raziocinio mi permise di impedire che due subacquei con pochissima esperienza profondistica scendessero sul Micca, ma poi, per stanchezza e svogliatezza, eccomi in acqua a scattare foto senza muta e con un monobombola con schienalino che avevamo utilizzato per alcuni

nota*5) La narcosi di azoto o Effetto Martini come la definì l’esploratore e ricercatore fran-cese Jacques Cousteau, è una forma di alterazione comportamentale indotta dall’aumento di profondità e dal relativo incremento della pressione parziale dell’azoto. Comunemente si ritiene che inizi a diventare influente dopo i trenta metri, fino a essere genericamente poco gestibile e pericolosa oltre i cinquanta. Sempre secondo Cousteau e contemporanei, pur non essendovi un parametro scientificamente valido per misurarne gli effetti, empiricamente si potrebbe descriverli come quelli indotti dall’assunzione di un bicchiere di Martini ogni dieci metri di profondità a partire dai trenta. Non sappiamo se il Comandante facesse riferimento alle dosi del suo parigrado britannico, che come è noto lo assume con un’oliva, ‘’agitato, non mescolato’’ nota*6) Tom Hanks, Catherine Zeta-Jones, The Terminal, regia di Stephen Spilberg, USA

2004.

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lavoretti in porto. Per un difetto congenito all’organo dell’equilibrio, soffro qualsiasi tipo

di brusco mutamento gravitazionale. Il mal di mare dopo qualche giorno di navigazione diventa mal di terra. Se salto con il paracadute di solito vomito o sono lì lì a ogni sobbalzo dell’aereo e a ogni gancio (ragione per cui mi autoassolvo se apro basso…). Una volta da un’ovovia ho rigettato un piatto di würstel e crauti sugli sciatori in basso.

Ad aggravare il tutto mancanza di sonno, preoccupazione per l’umore della mia ragazza e stanchezza generale. Non mi andava di infilarmi la muta, di allestire un gav su una bombola, né di chiederlo ai presenti. Non mi andava di sentirmi male davanti a tutti e allora via, in acqua alla spe-rindio.

Il quindici litri aveva solo cinquanta bar residui e così mi attaccai alla garibaldina un cinque litri di ossigeno davanti, per buona misura. Mentre cincischiavo tra i sei e dodici metri, prendendo come riferimento le bombo-le deco attaccate a quelle quote (visto che ovviamente non avevo nemmeno preso un profondimetro), mi accorsi che qualcosa non quadrava.

I due sub esperti, che dovevano filmare e fare assistenza a quelli dell’ANMI che avrebbero messo la corona, si erano portati troppo in fon-do. Gli altri avevano qualche difficoltà al punto di raccolta bombole dei quaranta metri, lo vedevo bene. Preoccupato che succedesse qualcosa, mi fiondai verso il basso, completamente dimentico di quale erogatore avevo in bocca. La mia configurazione era semplicemente una non configurazio-ne. Costume da bagno, pinne, maschera, un mono semi scarico e un altro di O2.

Il brivido di freddo al termoclino dei trenta metri non mi diede nessun segnale di preallarme. Ho fatto alcune immersioni a sessanta, anche settan-ta metri, in acqua a 12-14 gradi, solo in costume [foto 3, l’Autore è ritratto sulla tazza del bagno del rimorchiatore Miseno, affondato a –75 metri da-vanti l’isola di Ischia, per una pubblicità della rivista Captain Nemo, ndr].

Tutte quelle immersioni le ho fatte respirando aria, sapendo benissimo che la narcosi mi avrebbe reso sopportabile il freddo. A Leuca non stava succedendo, il che mi doveva dire molto su cosa stavo respirando.

A quaranta metri intercettai i due e feci loro segno di risalire interrom-pendo l’immersione. Non mi sentivo granché, avevo freddo ed ero preoc-cupato per la scarsità di aria, così arrivai a giungere le mani in segno di preghiera indicando la via verso la superficie. A volte chiedere umilmente

Una controversa pubblicità della rivista Capitain Nemo e, a lato, l’Autore seduto sul wc del rimorchiatore Miseno, alla temperatura di 14 gradi centigradi, o qualcosa di meno...

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fa ottenere risultati migliori, e questo fu l’effetto fortunatamente ottenu-to. Sapevo di stare facendo di tutto per farmi male, ma non immaginavo quanto.

Avevo appena cominciato la risalita quando…Vanno. Meno male. Ora li seguo. Zzzzzzzzzzzz.Cristo che cazzo succede. Zzzzzzzzzzzzzzzzz.Non capisco… devo salire…. Togliermi da qui…Buio. Nero. Zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz. Luce. La cima. Stringila cazzo… tirati su… pedala maledizione, pedala…Zzzzzzzzzzzzzzz. Buio. Nero. Zzzzzzzzzzzzzzzz. Luce.Sto salendo… dai, dai, spingi…Zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz. Buio. Luce. Zzzzzzzzzzzzzzzzz. Buio. Luce.

Zzzzzzzzzzzzzzzzz.Mo muoio… Il gommone… «Aiut’… Aiutooo…AIUTOOOooo…oo…o…»Buio.Dicono che le convulsioni per crisi iperossica non si possano né preve-

dere, né anticipare, né controllare.Non è vero, o quasi. Almeno per la mia personalissima esperienza.Sono arrivato spesso a sentire un accumulo eccessivo di O2 nell’or-

ganismo in soste decompressive tirate, estreme. Ma stavo a pochi metri, perfettamente equipaggiato e in allerta.

In me la respirazione di O2, per parecchio tempo e ad alta pressione, ingenera prima di tutto una forte irritabilità e insofferenza alla permanenza in acqua in decompressione. Prolungando la cosa inizio ad avere sensazio-ni di nausea e ad un certo punto conati di vomito, associati dopo un po’ di tempo a tremori dei muscoli facciali, soprattutto intorno alla bocca.

So quanto posso stare in quelle condizioni senza rischi e che beneficio comporta in termini di accorciamento dei tempi deco. Mi è stato utilissimo in immersioni con mare grosso, e/o durante lavori in cui era fondamentale uscire dall’acqua il prima possibile. Ma è alchimia empirica e soggettiva.

La decompressione viene oggi venduta come una sorta di scienza esatta, con teorie più o meno strampalate, incoerenti tra loro, del tutto prive di seria ricerca scientifica.

La diffusione di internet e dei forum specialistici ha in qualche maniera aperto da un lato la strada a un’accessibilità all’informazione rizomatica e multinazionale, ma dall’altro ha permesso a chiunque, senza particolari

qualifiche o cognizioni, di proporre teorie e prassi incontrollatamente.A questo fenomeno sono associate vere e proprie operazioni di potere

e commerciali, con medici e imprenditori della didattica subacquea che cavalcano questa o quella tesi per propri interessi, che nulla hanno a che vedere con la conoscenza scientifica e una corretta educazione.

Peggio di tutto, negli anni ci si è sostanzialmente allontanati dal mare e dalla pratica costante, facendo vieppiù subacquea da salotto, virtuale o meno.

Le insidie e problematiche della realtà vissuta sono scomparse, l’errore umano indotto da fattori spesso sottovalutati, viene liquidato facilmente come gestibile e prevenibile soltanto con i protocolli.

Protocolli spesso basati su dati ed esperienze fasulli.Nel mio caso però tutto questo non c’entrava più.A Santa Maria di Leuca non sapevo di aver sbagliato erogatore e di

essere sceso a quaranta metri respirando ossigeno puro, senza gav e senza muta, perché stavo facendo una cosa del tutto inaccettabile.

Era come se fossi saltato da un aereo senza paracadute ma con un om-brello, per andare a vedere se riuscivo a spiegare a un altro paracadutista a che quota doveva aprire il suo.

Tutti gli anni di esperienza, la capacità di saper discriminare tra fumo e arrosto per una gestione decente della mia attività personale, erano in pro-cinto di essere buttati nel cesso, con una morte stupida e inutile.

A Santa Maria di Leuca, sul sommergibile Pietro Micca, ci stavo per lasciare la vita da cretino.

La crisi convulsiva sembra essere come un film di fantascienza della serie Poltergeist. Lo schermo della tv diventa nero, poi si riempie di puntini grigi e fa zzzzzzzzzzzzzzzz. Dopodiché l’immagine prende fuoco, per spa-rire immediatamente di nuovo, dividendosi un attimo prima in due sezioni orizzontali che si disallineano tra loro andando verso lati opposti.

Così è stato per me, almeno. Ciò che stavo vedendo tremolava a scatti e poi spariva nel buio più assoluto per poi riapparire, tremolare, disallinearsi e ritornare nero. Nella bocca il sapore metallico che accompagna ogni stra-na condizione fisica lassotto, narcosi, vertigine… iperossia.

Come altre volte, a salvarmi è stata la mia condizione di maniaco de-pressivo borderline, sempre in bilico tra pulsioni di morte ed esacerbato istinto di sopravvivenza. E, ne sono certo da tanto, quei sei o sette acidi che mi sono sparato da adolescente insieme alle tante canne e sbornie che

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hanno fatto da corollario alla mia vita sociale (e asociale). Mentre tutto il mondo se ne andava a farsi benedire, una parte del mio cervello reagiva come sempre all’alterazione comportamentale senza il panico indotto da questa nelle persone che non l’hanno mai né sperimentata né controllata.

Nelle situazioni di pericolo, di stress, il cervello non focalizza sui fattori importanti, oggettivi, bensì sulle valutazioni che di esse da ciascun indi-viduo. Questo, almeno, secondo gli psicologi cognitivisti (nota*7). La mia esperienza pregressa di stati di significativa alterazione comportamentale indotta da sostanze psicotrope, ha casualmente allenato il mio cervello nel rispondere efficacemente a distorsioni macroscopiche sott’acqua.

Sapevo che dovevo tenere la cima ben stretta quando il mondo scompa-riva dietro il velo nero. Non era più ragionamento, solo istinto. Non ero in grado di capire dopo quanto tempo riprendevo un minimo di contatto con la realtà, ma sapevo che mi dovevo ritrovare con quella dannata corda ben serrata tra le dita, perché non avevo un gav e sarei sprofondato.

Continuavo a respirare ossigeno senza saperlo, incapace di ogni rifles-sione, a una pressione decrescente man mano che guadagnavo metri verso la salvezza, ma che partiva da PPO2 5.0, quando il massimo consigliato comunemente è di 1.6.

Anche quello non era importante, ovviamente. Contava solo riuscire a non far diventare il buio definitivo, risalire in superficie, conquistare metri a ogni sprazzo di luce, anche se con brividi, scosse, o quant’altro. Combat-tere o morire.

Sarei morto dai venti metri in su? Non credo. In acqua avevo persone fidate ed estremamente capaci del mio team. In superficie un medico iper-barico e cardiologo, la terraferma era vicinissima e avevamo mezzi veloci, radio, personale esperto nel soccorso.

Lo dimostra anche l’efficienza con cui, arrivato su, mi hanno preso, svestito di quelle poche cose, letteralmente buttato sulla vedetta e trasferito a terra e, ad ogni buon conto, in camera iperbarica a Gallipoli.

Oserei dire che quest’ultima non servisse nemmeno: avevo respirato solo ossigeno, sempre, in un’immersione durata alla fine non oltre die-ci minuti complessivi. Paradossalmente, quella sciagurata esperienza mi doveva aver desaturato a tempo di record anche dai residui di gas inerti

dell’immersione del pomeriggio prima.Se avessi perso conoscenza e lasciato il boccaglio non in superficie ma

un po’ sotto, c’era chi mi avrebbe preso e portato su in tempo. Era già pronto da quando mi aveva visto schizzargli vicino verso la superficie e controllava da sotto la situazione mentre mi acchiappavano, qualcuno sal-tava in acqua e mi issavano a bordo incosciente.

Eppure, tra l’inizio delle convulsioni a quaranta metri e la risalita fino a venti, la morte mi ha accompagnato sorridendo. Perplessa, presumo per l’ennesima volta, forse addirittura curiosa di vedere come andava a finire.

Se mi fossi fermato a cercare di pensare, seguendo il famoso tormen-tone che insegnano nei corsi subacquei sulla gestione dei ‘’problemi’’, il fermati, pensa e poi agisci, sarei affogato e il mio corpo avrebbe raggiunto il fondo, cullato e accompagnato da pressione e corrente.

Come leggerete nei successivi episodi, la mia filosofia è sempre stata diversa: sott’acqua sai esattamente quel poco che ti può capitare di brutto. Lo sai con assoluta, matematica certezza. E’ determinato da come stai fisi-camente e psicologicamente, dal compito che vai ad eseguire, dal luogo in cui t’immergi, dal tuo addestramento ed equipaggiamento, dalla tua stupi-dità e incoscienza. Pertanto, rimane solo da vedere cosa succede e agire di conseguenza. Agire in fretta, pensando poco o niente.

Così, alla fine, mi è capitato tante volte di tirare la corda sapendo quale margine di rischio avevo. E credo che lo facciano in molti. E’ che, per ci-tare Dirty Harry, «ogni uomo dovrebbe conoscere i propri limiti» (nota*8).

Per quanto si cerchi di impedirlo, di prevenirlo (e di negarlo anche), la maggior parte di noi scende sott’acqua soprattutto per se stesso. Cerchia-mo qualcosa, lassotto, che non è propriamente il pesciolino, il relitto, un reddito.

Alle volte, inconfessatamente, ci sfidiamo e sfidiamo la sorte. Almeno è quello che spesso ho fatto io, e ritengo che prendere esempio da ciò che facciamo e proviamo, renda più facile capire gli altri.

Non sono mai sceso nella maniera che avete letto e che leggerete in una grotta. Non sono mai entrato senza cautele e criterio in un relitto. Non ho mai fatto un corso o un qualsiasi lavoro alla cieca, senza sapere ciò cui andavo incontro e cosa chiedevo agli altri. E’ il motivo per cui non sono

nota*7) P.e. secondo P. H. Lindsay e D. A. Norman, in L’uomo elaboratore di informazioni, introduzione cognitivista alla psicologia, Giunti Editore, Firenze, 1983. nota*8) Clint Eastwood, Magnum Force, regia di Ted Post, USA 1973.

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morto nell’attività ordinaria, per cui nessun mio allievo o collaboratore si è mai fatto male in dieci anni di attività.

So esattamente dove non c’è fortuna o abilità o coraggio che tengano.Resta che ho tirato la corda qua e là. Naturalmente non solo nella subac-

quea, anche nella vita, in altri sport. E mi è andata bene.A Leuca, come nelle altre nove storie, mi è andata anche meglio. Ho

fatto una cazzata immane, con un margine di sopravvivenza irrisorio. E di forza, non accettando la statistica, me ne sono tirato fuori.

Non sono un saggio come lo tratteggiava Orazio, dominatore delle pro-prie passioni e paure, «che ha tutto in sé, una sfera perfetta / sulla cui su-perficie levigata / niente di estraneo può far presa / e contro cui si scaglia impotente il destino» (nota*9).

Quest’estate stanchezza, depressione, problemi sentimentali e profes-sionali, mi hanno scosso come un albero nella tempesta. Le cellule del mio cervello vibravano come le foglie del pioppo nel vento. Ho perso colpi.

Non vi è nulla di accettabile in questa mia cosiddetta immersione. In alcune delle altre c’è inesperienza e inconsapevolezza, la costruzione di un sapere fatto proprio con sacrifici e lavoro. A Leuca agiva un uomo che doveva solo lasciar stare l’acqua e andarsene in vacanza per un po’. Un bel po’.

Quel giorno tutto quello che non dovevo fare l’ho fatto perché ero fuso. Così fuso da decidere, dopo, che era il caso di starmene un po’ buonino, o mi sarei decisamente ammazzato.

Eppure, da una condizione così estrema e improponibile, come per tutte le azioni umane, ne possiamo tirare fuori alcune informazioni utili.

La prima, come accennato, è che non si deve mai dare nulla per sconta-to, soprattutto la propria fine. Per quanto si possa e debba andare in acqua con criterio, comunque c’immergiamo in un ambiente a noi ostile, in cui la sola cosa che ci tiene in vita è una riserva finita di gas respirabili. Se succede qualcosa, per colpa nostra o meno, bisogna lottare sempre e a ogni costo, perché non è finita finché non è finita. Se non abbiamo questa risor-sa caratteriale, si sappia che andando alla guerra abbiamo deciso di farlo disarmati.

La seconda scoperta che facciamo è come non sia del tutto vero che le convulsioni per iperossia ci debbano per forza impedire di reagire. C’è

ancora un margine, esiguo, piccolissimo, fortunoso, ma c’è. Saperlo può tornare utile, e non condivido la convinzione che bisogna nascondere la flessibilità dei margini perché le persone non sono in grado di discriminare.

Ho sempre guardato con sospetto ai corsi didattici in cui si mettono semafori rossi a destra e a manca molto prima dell’incrocio. Di solito suc-cede che il guidatore, una volta sceso in strada autonomamente, si accorge che gli si impedisce di passare su un rettilineo senza nessun pericolo. E’ la storia del piccolo pastore che gridava al lupo al lupo immotivatamente, e che viene divorato dal predatore perché nessuno gli crede più quando ha davvero bisogno di soccorso.

Alcuni anni fa morì in Messico, in grotta, un subacqueo dell’Italia del nord. Per diminuire le decompressioni prendeva l’ossigeno puro in profon-dità. Aveva letto nei libri, gli era stato detto nei corsi, che è pericolosissimo, che non è in alcun modo possibile accorgersi dell’insidia prima del suo scatenarsi e che i limiti sono assoluti.

Come tanti, però, aveva fatto dei semplici ragionamenti. Se è vero che si possono passare decine di minuti assumendo ossigeno alla pressione par-ziale di 1.6 (ossigeno puro a sei metri di profondità, ossigeno contenuto nell’aria a sessanta metri, p.e.), è anche vero che a pressioni superiori c’è una correlazione tra tempo di permanenza e quota abbastanza precisa.

In camera iperbarica si fanno cicli di O2 puro a diciotto metri, di decine di minuti. Altre condizioni, ma anche ben altre pressioni.

E’ inoltre noto che vi sia una soggettività nelle reazioni organiche alla stessa esperienza, tra individui. Così come è noto che fattori diversi (bio-chimici, ambientali, psicologici) possono aumentare i tempi di reazione negativa dell’organismo, si sa che è vero anche l’opposto.

Empiricamente, dunque, lui come tanti di noi si era fatto un proprio quadro del rischio. E aveva ecceduto nel senso opposto.

In quella grotta messicana, l’uomo tirò troppo la corda. Tra fermarsi a uno stop a trecento metri dall’incrocio e attraversare a tutta velocità nell’o-ra di punta con il rosso, scelse quest’ultima possibilità.

Forse, se non fosse stato in grotta, si sarebbe salvato da solo, così come ho fatto io. Forse, se avesse avuto compagni diversi, sarebbe sopravvissuto comunque. Ma questa è un’altra storia, che non conosceremo mai.

Di certo, l’informazione contribuisce alla formazione del libero arbitrio in maniera più accettabile rispetto all’ignoranza.

nota*9) . Orazio Flacco, Satire, Libro secondo, 7, vv. 86-88, in Opere, Garzanti, Milano, 1988.

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IISISTEMA DI COPPIA INEFFICACE

Nel giugno del 1999 scrissi un articolo intotolato Dai, aboliamo il si-stema di coppia per il numero zero di Captain Nemo. Sostenevo un po’ per provocazione un po’ per convinzione, che il sistema di coppia (nota*10) non serva e sia anzi deleterio. I quattro motivi principali del mio dissenso erano che crea un falso senso di sicurezza nel subacqueo, impone un eccesso di pianificazione e di supporti logistici, crea rischi aggiuntivi in immersioni difficili, è un criterio fondato sul fuorviante concetto della sicurezza dettata dal numero. Se vi interessa questo pregevole pezzo (scherzo), potete tro-var-lo sul sito internet della rivista, all’url www.captainnemomagazine.net.

La prima volta che ho avuto conferma del fatto che tra dire e fare ci sia senza alcun dubbio di mezzo il mare, nella subacquea, è stato quando ho osservato tra il divertito e il preoccupato un cosiddetto “esaurimento d’aria’’ durante un’immersione in cui facevo da guida. Una signora aveva consumato tutta l’aria della sua bombola, con grande anticipo rispetto alla fine dell’immersione e ai consumi degli altri del gruppo.

Per calcolare quanti gas ci necessitano, empiricamente o con un control-lo medico si determina il proprio volume polmonare, moltiplicando il con-sumo in litri al minuto per la quota a cui ci si immerge, espressa in atmo-sfere. Se consumiamo i mediamente presunti venti litri al minuto a persona, e ci immergiamo a trenta metri per dieci minuti, possiamo approssimativa-mente stabilire che la quantità di aria necessaria sarà di 20x10x4=800 litri sul fondo. Sempre empiricamente, se ci teniamo larghi e facciamo finta che i 10 minuti che ci vorranno per scendere e risalire da quella profondità siano comunque sempre trascorsi a quella quota, avremo bisogno di altri 800 litri che, sommati ai primi, fanno 1.600. In un monobombola da 15 litri caricato a 200 atmosfere ce ne stanno 3.000. Si considera quindi, a ragione, di essere abbastanza sicuri.

La realtà, come detto, differisce spesso dalla teoria. A parte sempre pos-sibili accidenti meccanici, per cui potremmo sprecare e consumare dell’a-

ria, una delle cose che ho rapidamente imparato con l’esperienza è che le persone consumano più di ciò che effettivamente entra nei loro polmoni. Se si facesse un esperimento, potremmo dimostrare che a ogni atto respiratorio di un soggetto inesperto e/o in affanno o addirittura nel panico, corrisponde uno spreco di aria che invece di entrare nell’organismo va dispersa dall’e-rogatore all’acqua circostante. Per ovviare alla sempre inferiore mancanza di selezione dei subacquei, il sistema didattico e industriale ha elaborato una teoria secondo cui in caso di affanno respiratorio, invece di dimostrare che il subacqueo o la subacquea quell’attività non la dovrebbero fare, si debba erogare una grande quantità di gas che faccia sentire artificialmente sicuri e permetta di recuperare il controllo. Nella pratica chi il controllo lo perde, con erogatori che sparano aria in eccesso, l’unico effetto certo che ottiene è un ulteriore incremento della paura, causato dalla constatazione che la già poca aria di cui si dispone se ne sta andando allegramente a farsi una passeggiata verso la superficie, in serafiche quanto inutili bolle.

Tornando alla mia storia, quella volta la signora reagì con stile e digni-tà, poggiando le ginocchia sul fondo come fosse stata in piscina durante il corso, a tre metri invece che a una ventina. Guardò speranzosa il compagno assegnatole e gli rivolse il segnale standard di esaurimento del gas respi-ratorio, facendo il gesto piuttosto macabro del taglio della gola, che indica appunto quel problema e la richiesta di aiuto.

Immagino bene quale fu la sua reazione mentale quando vide il suo salvatore, quello che secondo il manuale avrebbe dovuto con gesto plasti-co avvicinarsi, fornirle il proprio secondo erogatore e aiutarla a risalire in superficie… darsi bellamente alla fuga.

La immaginai in quel momento, mentre ridacchiavo pinneggiando per andare a darle una mano, la immaginai durante la risalita incasinata, ne fui reso edotto dalla viva voce sbraitante che appena in superficie cominciò a insultare il soggetto con parolacce indegne di una signora perbene della borghesia romana.

Voi direte, beh, è colpa di un corso fatto male, di un singolo vigliaccone.Non sono d’accordo. Un annetto dopo avvenne che un ufficiale degli al-

pini, uomo provato a ben altre difficoltà debbo presumere, esaurisse l’aria su un relitto davanti Civitavecchia.

Portavo lui, due sottufficiali dei reparti speciali della Polizia di Stato (NOCS - (nota*11)) tra i quali la mia istruttrice di paracadutismo, e una mia nota*10) Il sistema di coppia o Buddy System è uno dei pilastri fondanti la didattica subac-

quea. Esso postula che l’immersione debba sempre essere effettuata con un compagno e che, in caso di bisogno, sia a questi che ci si debba affidare per risolvere i più disparati problemi.

nota*11) Nucleo Operativo Speciale di Sicurezza

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allieva a fare un giro su questo piroscafo. Scendemmo sull’albero di carico centrale, facemmo una passeggiata a poppa con quaranta metri di visibilità lineare, tenendoci a meno di cinquanta metri di profondità. Ancora non usavamo le miscele iperossigenate per i ricreativi (nota*12), ma la narcosi non era poi elevatissima e mi sembrava di tenere tutto sotto controllo. Di buon conto in acqua c’era un altro mio allievo, subacqueo esperto e capace, che si allenava con una configurazione che prevedeva quattro bombole.

Per farla breve, mentre tornavamo a centro nave sulla cima di risalita (foto 3), proprio come insegnavo ad ogni corso avanzato e come avevo ricordato che poteva succedere nel briefing pre-immersione, i miei sub si deconcentrarono a fine immersione. Succede spessissimo. Il cervello è sta-to sottoposto a un forte stress anche se tutto va bene. Per quanto le persone si sentano confortevoli e sicure, sanno benissimo che sopra di loro c’è una colonna d’acqua che li separa dall’aria respirabile all’infinito, e che quella che si portano dietro si esaurisce più o meno rapidamente. Sono preoccu-pati e in ansia nel loro intimo e tendono a rassicurarsi anticipatamente non appena si sta per cominciare la risalita. La mente molla, cede. Dato che il nostro sistema nervoso funziona per stimoli elettrici, si potrebbe dire che è come se un interruttore salvavita fosse tarato male, scattando in anticipo. Ricollegandomi al racconto precedente, nel caso della mia crisi iperossica il mio cervello si è definitivamente spento solo una volta arrivato in super-ficie, messo una mano su un tientibene e lanciato un efficace seppur flebile grido di aiuto. A quel punto ero in salvo, potevano pensarci gli altri a me e si poteva calare il sipario per recuperare un po’.

Tornando al nostro piroscafo davanti a Civitavecchia… Ero davanti a tutti e fino a quel momento il gruppetto seguiva ordinatamente. Avevo fatto una decina di metri in diagonale verso l’alto quando mi girai nuovamente per controllarli e vicino a me vidi solo la ragazza e l’alpino. In basso, sul ponte superiore, all’altezza di uno degli ingressi alla rampa di scale inter-na del fumaiolo, c’era il poliziotto, che stava evidentemente seguendo la collega per entrarvi. Mi prese un colpo. Segnalai agli altri due di risalire, chiamando in aiuto il subacqueo con la configurazione tecnica per assi-

nota*12) La subacquea viene divisa in categorie. Quella cosiddetta ricreativa (o rec) corri-sponde alla pratica delle immersioni sportive e turistiche senza decompressione entro i 40 metri. Genericamente tutte le immersioni che implicano tappe decompressive, uso di miscele e che sono più profonde di 40 metri vengono viceversa chiamate tecniche (o tec).

L’albero centrale dell’Adernò.

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sterli, dopodiché mi precipitai letteralmente verso quello che cominciava a prefigurarsi come un pericolo serio.

Ci misi qualche secondo buono a bloccare fisicamente il sub che voleva entrare nella porta semi spalancata, tra filaccioni, ami e pezzi di rete. Sperai che mi ascoltasse e cominciasse a raggiungere gli altri mentre pensavo alla ragazza, ma quando tornai indietro con quella bestemmiando nell’erogato-re, lui era ancora lì. Eppure fino a quel momento non era ancora successo niente, il bello doveva ancora cominciare.

Dieci metri più su, arrivato con i due quasi all’albero, non vi era più traccia dell’alpino. Mi guardai intorno e con orrore misto a un’isterica ila-rità, lo vidi pinneggiare verso di me con vigore. Solo che stava fermo.

L’uomo, invece di risalire, aveva adocchiato sui cinquantaquattro metri un’àncora a ombrello, era sceso e se l’era attaccata alla cintura dei pesi, ritornando indietro. Completamente rintronato, non aveva pensato che un motivo per cui quella stava sul fondo doveva pur esservi. Infatti, si era impigliata venendo abbandonata da qualcuno dei pescatori domenicali che frequentavano la verticale del relitto. Al nostro centro subacqueo di roba così ne avevamo una cassa piena. L’alpino, che nonostante la fama di gran-di bevitori del Corpo evidentemente non reggeva altrettanto bene la narco-si, pinneggiava ancorato al fondo alla rovescia.

Mi avvicinai staccandogli il guinzaglio, ma a quel punto aveva dato fondo alla scorta dell’aria e questa, raggiunti una trentina di Bar (nota*13) re-sidui, a causa della profondità era diventata difficile da respirare. In teoria, per un discreto subacqueo, sarebbe stata una buona cosa, perché avrebbe allertato l’uomo consigliandogli una rapida ascesa dalla zona pericolosa, sfruttando la pur poca riserva più in alto (nota*14).

Lui partì completamente per la tangente e perse la testa. Iniziò a farmi prima il solito segnale di emergenza, nuotando nel blu come un cagnolino, annaspando con mani e gambe. Poi sputò l’erogatore e si fiondò sul mio.

E’ una reazione comune, che non viene insegnata mai nei corsi ricre-ativi. Il soggetto in panico rifiuta l’erogatore di emergenza anche se gli è porto marcatamente, ma tende a cercare di catturare quello che l’altro subacqueo ha in bocca, che è certo funzioni. Paleoencefalo alla riscossa!

Sotto il controllo delle circonvoluzioni cerebrali che ereditiamo dai ret-tili, il nostro si ritrovò in bocca l’erogatore che voleva. Lo aspettavo al var-co ed ero pronto a usare per me stesso quello che tenevo in mano ufficial-mente per lui. Una volta che il tizio aveva di che respirare, feci però solo in tempo a girarmi per controllare quanto mi separava da un bell’appiglio. Volevo avere qualcosa a cui aggrapparmi per riportare su la penna nera, e proprio per quello ‘’armavo’’ i relitti su cui lavoravo con cime verticali verso la superficie e orizzontali di comunicazione tra loro.

Sentii un mugolio disperato dietro di me e mi rigirai. Non credevo ai miei occhi. Quell’immersione fu davvero surreale. Era già la seconda volta che non sapevo se mettermi a ridere come un matto o rinunciare e vedermi sui giornali, per il primo morto della mia carriera. L’alpino, invece di respi-rare dalla mia bombola e seguirmi, aveva diciamo così “frenato” e tirato il tubo dell’erogatore fino a strapparne il boccaglio. Ora era lì, con quel pezzo di plastica gialla in bocca. Bocca che era aperta e che non gli faceva ingur-gitare acqua nei polmoni solo perché stava letteralmente urlando di paura.

Era quasi osceno, gli occhi grigi slavati spalancati, resi giganteschi dal vetro a lente ottica per correggere la miopia, il cappuccio di neoprene e quel boccaglio che apriva un orifizio circolare nel volto. Sembrava uno schiavo sadomaso, con uno di quei cappucci di cuoio che servono a obbligare a tenere la bocca aperta, per pratiche sessuali non esattamente ortodosse.

Mi scossi e ritornai verso di lui, ma quello si lanciò verso il basso ulu-lando. Era pazzesco, incredibile, uno scherzo. Se non fosse che tutti sono personaggi reali cui chiedere conferma, pensereste vi prenda in giro. Inve-ce no. Le cose buffe in questa commedia tragicomica dovevano però esser lungi dall’esaurirsi.

Lassotto c’erano i due NOCS, ormai anch’essi a corto di aria, che inve-ce di risalire cincischiavano. Vedendosi arrivare la vittima di un probabile incidente grave, chiunque abbia fatto un corso subacqueo e fatto gli eserci-zi dopo aver visionato il filmino di rito, a questo punto si immaginerà due persone lanciate al soccorso, pronte a offrire non uno ma due erogatori di riserva.

Manco per niente. Non solo arretrarono. Non solo l’uomo prese la com-

nota*13) Bar è l’unità di misura della pressione nel sistema metrico (corrispondente a PSI in quello imperiale usato dagli anglosassoni). Un bar è la pressione esercitata al suolo dall’at-mosfera terrestre, e corrisponde a un kg su cm2.(nota*14) Gli erogatori sono dei semplici riduttori di pressione, che vengono posizionati sul rubinetto della bombola. Genericamente, senza esaminare i vari modelli esistenti, possiamo dire che forniscono l’aria a una pressione intermedia costante, a prescindere dalla profondità e dalla quantità residua nella bombola. Sostanzialmente, tanto più si scende profondi e tanto-meno questo è valido per tutti, nel senso che può capitare che verso un decimo di gas residuo la respirazione diventi decisamente ‘’dura’’.

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pagna per la spalla e che Iddio mi fulmini se racconto palle, lo vedo ora come lo stavo vedendo quel giorno, la tirò indietro mettendosi davanti a farle scudo: entrambi avevano assunto una posizione da boxe, guardia pronta! Ci raccontarono poi, davanti a una birra e una pizza al tavolo di uno dei locali del porto turistico di Riva di Traiano, poche ore dopo, che erano entrambi pronti a tramortirlo. Equivaleva a ucciderlo, altro che soccorso, altro che sistema di coppia.

Intanto che mi gustavo la scenetta ero ridisceso da loro. Acchiappai il tizio, gli infilai il mio secondo stadio con il boccaglio superstite in bocca e me lo tirai di peso su. Il resto è storia, con cinture di pesi strappate che cascavano sfiorando la testa di altri sub, una lite con un gruppo di un altro centro subacqueo - fecero commenti impropri - e una serie di strascichi vari ed eventuali. Nessuno si fece male, ma quella storia poteva finire in modo tragico e rappresenta paradigmaticamente una serie di casi da manuale, oltre che una delle pietre miliari della mia sfiducia nel buddy system.

Tornando ai miei di incidenti e quasi incidenti, pochi mesi dopo ero in nord Italia, sul Lago Maggiore, a svolgervi un corso per salire di grado nella carriera professionale.

Quel giorno eravamo in quattro, un allievo istruttore e due allievi subac-quei, tra cui io, oltre al direttore del corso.

Quest’ultimo aveva dimenticato a casa dei genitori, dove aveva il ma-gazzino delle attrezzature, la frusta di carica del compressore. Così, dopo la prima immersione, ci trovavamo con le due bombole sulla schiena, con-tenenti l’aria per il fondo, scariche per metà.

Ci guardammo pensierosi. Era domenica pomeriggio, il corso poteva finire, mentre si profilava un rinvio che sarebbe costato soldi e tempo. Due venivano rispettivamente da Torino e Bergamo, io da Bari, e non mi allet-tava l’idea. Il gran capo propose di accorciare i tempi di immersione e le quote, ma di finire, e tutti accettammo entusiasti.

La Legge di Murphy cominciò a muovere i suoi ingranaggi.Dopo un’ora eccomi attaccato a sessanta metri nel Lago Maggiore, ad

uno sperone roccioso che sembrava il dorso di un brontosauro.Uno degli altri aveva finito il gas ed era appiccicato al suo compagno,

che doveva essere il mio, per mezzo della frusta di emergenza (nota*15) di quasi due metri. L’altro, il trainer, cincischiava vicino a loro, preoccupato per i buoni cinquanta metri di fondale che avevamo sotto al sedere e le sette atmosfere sulla testa. Teste che, nel caso loro, erano corredate di inutili ca-

schetti da rocciatore, su cui campeggiavano gloriosamente un profluvio di torce subacquee, che puntavano sulle facce di ciascuno verso cui si volgeva il loro sguardo, abbagliandolo.

La mia maschera faceva acqua, era buio pesto se non dove le frustate di luce delle lampade illuminavano. Stavo finendo l’aria anch’io.

Feci il mio bel gesto standard di esaurimento aria e richiesta di aiuto verso quelle figure, indistinte dietro un bagliore accecante. Mi sembrò che qualcuno gesticolasse, forse per dirmi di raggiungerli laggiù. Peccato che loro stessero in assetto neutro (nota*16) sul nulla e che io avessi giustappun-to finito il gas che alimentava non solo la mia respirazione, ma anche il giubbetto di sostentamento. Poco poco fossi stato negativo, se avessi avuto qualche ulteriore problema, già mi vedevo sprofondare abbandonato a me stesso.

Pensai di rispondere col signorile quanto efficace gesto dell’ombrello, ma credo che la reazione effettiva fu semplicemente di sbattermene e an-darmene.

Presi l’erogatore della bombola anteriore sinistra, che conteneva una miscela inadeguata e potenzialmente pericolosa fino a venti metri più su. Quella era piena e, senza saper né leggere né scrivere, come si dice a Roma, me lo ficcai in bocca e respirai abbondantemente.

Era Nitrox 40 (nota*17) , che equivaleva a quella quota a respirare l’O2 dell’aria a quasi centoventi metri… si poteva fare, l’avevo fatto, bastava togliersi di là immediatamente, non far trascorrere del tempo.

Aiutandomi con le braccia, ancora molto poco consapevole della flessi-bilità delle regole subacquee, mi fiondai verso l’alto. Meglio un’embolia, se proprio si doveva rischiarla, che schiattare laggiù.

Gli altri erano tutti adulti vaccinati, due dei quali carichi di prosopopea e celodurismo, quindi si arrangiassero da soli, avevo le mie rogne da sbri-

nota*15) Detta anche Octopus perché insieme a quella primaria, alla frusta del manometro (che indica la quantità di gas in bombola) e la cosiddetta frusta corta, che rifornisce il gav, partendo dal corpo del primo stadio sembra lontanamente una piovra, coi propri tentacoli. nota*16) Come vedremo più volte, sott’acqua si può contrastare la gravità galleggiando a qualsiasi quota senza scendere o salire. Questo stato è definito assetto neutro, al quale si aggiungono quello positivo e negativo.nota*17) Il termine anglosassone Nitrox deriva da Nitrogen e Oxigen, azoto e ossigeno, i due gas principali dell’aria. Indica le miscele binarie che contengono una quantità superiore al 21% di O2 e che per questo vengono definite iperossigenate. Il numero che lo segue indica la percentuale variabile dell’O2, che in questo caso era del 40%.

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gare e non stavo condividendole con nessuno.Non ne sono sicuro, ma credo fu lì che imparai una delle prime cose che

negli anni dopo ho fatto tante volte in automatismo: aprire tutti i rubinetti delle bombole decompressive, per tenerle pronte e operative, al primo ac-cenno di problema. Mi è poi capitato di risolvere bei casini, non trovando-mi con rubinetti chiusi quando i secondi diventano attimi e la vita si gioca sulla roulette della velocità di reazione e delle cose che funzionano contro quelle che ti tradiscono.

Anche questo è sviluppo cognitivo ed ha addirittura dignità di legge nel-la psicologia. Si chiama Legge dell’informazione retroattiva o Information Feedback: il risultato di un evento serve da informazione su quell’evento (nota*18).

Per conto mio, sul sistema di coppia la croce calò definitivamente.

IIIA CENTODIECI METRI FINISCE IL TRIMIX

La maggior parte dei subacquei tecnici che mi conosce associa l’isola d’Ischia al rapporto che ha legato me e la mia compagna e socia d’allora a Cristiano.

Ischia invece è stata la nostra palestra sin dal ’94, tre anni prima di co-noscere il mai sufficientemente compianto Etrusco.

Ci arrivai la prima volta per l’ultimo corso istruttori tenuto da un Course Director PADI per quell’agenzia. Un’impressionante dimostrazione di ge-ometrica potenza (per citare il Negri pre-Impero), con quaranta candidati e uno staff di almeno una quindicina di istruttori che coadiuvavano il di-rettore di corso.

L’ambiente era davvero spettacolare. Il paesino di Sant’Angelo, chiuso dal promontorio omonimo verso il mare e arroccato sulle rupi scoscese della parte sud dell’isola, accoglieva un gruppo compatto ed entusiasta di oltre cinquanta subacquei professionali, che studiavano e si immergevano il giorno e cenavano, cantavano e si divertivano la sera.

nota*18) Lindsay e Norman, op. cit., pag. 442. Claudia a Sant’Angelo, a destra il promontorio.

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Il sottoscritto, ad onor del vero, non faceva molto onore a cotanto spi-rito aggregativo, né dimostravo di recepire il verbo rec. Durante le lezioni perlopiù dormivo e la sera, dopo cena, fregavo una bombola e mi immer-gevo da solo fuori il porto, con buona pace dello staff e del patron, che mi sopportavano, presumo rassegnati.

Per una settimana mi sono letteralmente drogato di azoto picchiando sui novanta metri, succhiando aria quasi liquida per la pressione, spegnendo la luce sul fondo e godendomi la sensazione di deprivazione sensoriale. Tor-navo su a palla, tra granseole che fuggivano sulla sabbia e pesci S. Pietro inchiodati dal fascio luminoso.

Poi mi ubriacavo di ottimo limoncello, facevo sesso con una dolce indi-gena e venivo sistematicamente raccattato dal mio maestro Gigi la mattina, su qualche sdraio umidiccia.

Sono tornato lì per tre anni, finché Cristiano non ci venne a cercare per fare da noi i corsi per istruttore di subacquea tecnica.

Cristiano… che persona straordinaria, nel bene e nel male. Una delle prime sere, al ristorante dell’albergo dove avevamo il centro subacqueo,

Sulla nave Proteo.

Il maestro. Un uomo grande. Un buon subacqueo, uno dei tanti amici che non hanno condiviso le mie scelte.

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con quel suo sguardo sfuggente e timido che contrastava con il fisico im-ponente, prese la mano di Claudia per spiegarle come si poteva conquistare una donna col solo tocco delle mani. Al terzo bicchiere di Lagavullin o Laphroaig, i due single malt torbati dell’isola di Islay che adorava (il Whi-sky, non l’isola…), iniziò a spiegarci una particolare tecnica di approccio sessuale, particolarmente audace, che suscitò in noi immediato amore per quel ragazzone contraddittorio.

Da quel momento Ischia diventò per noi Ischia Porto. Il diving di Cri-stiano, la villetta della mamma tedesca, la barca del padre medico che uti-lizzava lui per il lavoro, financo le prestazioni professionali del fratello dentista per diletto e surfista per lavoro (ops…), rappresentavano il centro del nostro mondo laggiù.

Per alcuni anni, però, prima di Cristiano, era stata appunto Sant’Angelo la base delle nostre attività nel Golfo di Napoli.

Lì portammo allievi e clienti dal nostro diving laziale. Lì cominciammo a farci le ossa con il profondismo, violando e distruggendo sistematica-mente tutte le regole della subacquea ricreativa che ci avevano insegnato.

Tanto per dirne una, intorno agli anni tra il ’95 e ’97 facevamo para-cadutismo con un nostro caro amico, titolare di una scuola ai Pratoni del Vivaro, nel bellissimo parco dei Castelli Romani.

Ci piaceva moltissimo la velocità e l’adrenalina, che cozzavano con il modo lento, goffo e perennemente preoccupato dei possibili danni fisici del mondo della subacquea dilettantistica. Per me cominciava a porsi l’interro-gativo sulla reale natura ed entità di quest’ultimi.

Gioco a rugby, ho lavorato alla doma dei cavalli, ho fatto un po’ di sport di contatto e soprattutto menato parecchio le mani nella mia vita. Farmi male è stata una costante e non ho paura del dolore e delle ferite. Non mi piacciono, ma ci sono abituato.

Quanto e come ci si poteva fare male andando sott’acqua?Uno dei primi miti sfatati empiricamente fu quello della velocità di ri-

salita e del pericolo delle pallonate. Parlo del fatto in se, non delle innume-revoli diverse possibilità. Nei corsi si enfatizzava la necessità assoluta di evitare di risalire superando un minimo di dieci metri al minuto. Ci veniva insegnato e a nostra volta insegnavamo ad evitare di trattenere il respiro andando verso l’alto, perché l’aria contenuta nei polmoni si espande mano a mano che la pressione decresce e il suo schiacciamento diminuisce. Se fosse intrappolata nel nostro corpo comincerebbe a dilatarlo come un pal-

loncino che viene gonfiato eccessivamente, lacerando i tessuti esattamente come ad un certo punto l’elasticità della plastica ha fine e porta allo scop-pio.

Le teorie su quale velocità fosse ottimale risalendo erano più d’una, si passava da dieci a diciotto metri al minuto e sembrava che ciascuno si alzasse la mattina proponendo una propria versione. La mia formazione scolastica e universitaria è scientifica e trovavo bizzarro il modo di trattare la questione. La stessa letteratura medico-scientifica di sostegno era con-traddittoria, datata, praticamente del tutto empirica.

Il promontorio di Sant’Angelo è collegato all’isola madre da una lingua di sabbia. Avendo Ischia alle spalle, a destra c’è un’ampia spiaggia e a sini-stra il porticciolo. La parte immediatamente profonda è proprio lì fuori. Il promontorio a destra scende in acqua a gradoni di rocce, ma spiana subito restando per molte centinaia di metri verso il largo tra i trenta e cinquanta metri. A sinistra invece, appena fuori dal molo, comincia una rapida disce-sa di sabbia, con un vero e proprio canale centrale, che assomiglia al letto

I Presidenti della S.S. Lazio Subacquea e Paracadutismo flirtano prima di passare a cose meno serie...

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di un torrente. Sprofonda in pochissimo fino all’orlo di un baratro, sugli ottanta metri, che picchia giù fino quasi ai cento. Quella parete, lì curva verso il largo e si avvicina al promontorio, così che se si togliesse l’acqua si vedrebbe una collina rocciosa di un paio di centinaia di metri, dall’im-pervia facciata senza soluzione di continuità.

Con Claudia cominciammo a immergerci lì con la nostra attrezzatu-ra ricreativa, scendendo rapidissimi per gusto e per risparmiare aria, dato che quell’equipaggiamento era inidoneo a permanenze lunghe. Arrivati sul fondo, euforici per l’adrenalina e la narcosi, risalivamo lentamente lungo il costone roccioso, ammirandone la vita e i colori.

Un giorno ci fu un qualche problema tecnico, non ricordo esattamente cosa, fatto sta che da almeno ottanta o novanta metri pallonammo su senza controllo, praticamente abbracciati. Fu una folgorazione.

L’acqua era di un blu intenso e noi salivamo a una velocità impressio-nante in mezzo alla colonna delle nostre bolle di espirazione. Eravamo più veloci di queste, per cui ad un certo punto le superammo. Stavo leggermen-te sopra Claudia e vedevo la sua faccia perplessa, non spaventata, quasi curiosa. Entrambi buttavamo fuori l’aria che si espandeva rapidamente nei nostri polmoni. Anzi, direi che avevamo semplicemente la bocca aperta e lei si faceva strada da se, prepotentemente. Sul fondo le bolle erano picco-lissime, del diametro di millimetri e al massimo pochi centimetri, come il perlage di un bicchiere di champagne. Salendo si espandevano sempre più, diventando grandi come meduse, a cui somigliavano anche nella parte in-feriore, i tentacoli costituiti dallo sfilacciamento di bollicine. Nel superarle, riflettevano sulla loro faccia convessa i nostri volti, come uno specchio de-formante. Ricordo benissimo che formulai per la prima volta il pensiero di dover quanto prima fare una foto e/o una ripresa video di quello spettacolo.

In un attimo fummo fuori, saltando in superficie fino alla cintola come due tappi di spumante.

Non eravamo eccessivamente preoccupati, nessun dolore, nessun pro-blema fisico apparente. Dovevamo nuotare per una cinquantina di metri per rag-giungere l’inizio del molo, ancora per la sua lunghezza e a ritroso dentro al porto fino alla banchina. Un trecento metri complessivi mentre, immagi-navamo, la malattia da decompressione si sarebbe fatta strada de-bilitandoci.

Non succedeva nulla.Pinneggiavamo parlando, scambiando sensazioni e, mano a mano, la

preoccupazione scemava per lasciar spazio alla gioia di essere sopravvis-suti a un evento che credevamo mortale e al piacere per l’avventura, di per se nient’affatto brutta, anzi.

Sul molo stavamo bene. Ad ogni buon conto ci dirigemmo a un telefono pubblico (i rari cellulari erano ancora troppo cari per le nostre tasche) e chiamammo l’emergenza del DAN (nota*19). Rispose personalmente una dei due soci fondatori dell’organizzazione, che una volta ascoltato il rac-conto mi disse qualcosa che penso non abbia mai più sostenuto con nessu-no. Secondo il medico i tempi di permanenza prima della pallonata, infe-riori di parecchio ai tre minuti (eravamo scesi ad almeno cinquanta metri al minuto) non consentivano di ipotizzare una sovrasaturazione del sangue. In buona sostanza la quantità di aria pressurizzata in circolo, non aveva raggiunto quella quantità che porta a un rilascio nei tessuti dell’organismo (nota*20).

Non ci eravamo fatti nulla perché avevamo espulso l’aria dai polmoni attraverso la bocca senza creare costrizioni che lacerassero i tessuti, e non avevamo suf-ficienti gas nell’organismo perché questi cercassero altre vie di espansione e fuga (che si risolvono in danni chiamati malattie da decom-pressione, embolie, etc.).

Davvero illuminante.Pertanto, se ci fiondavamo giù in meno di un minuto, un minuto e mez-

zo, gonfiavamo il gav a palla e pinneggiavamo in risalita tenendo ben spa-lancate le vie respiratorie, i trenta secondi di caduta libera saltando dall’a-

nota*19) DAN, Divers Alert Network, organizzazione di assistenza ai subacquei, solo appa-rentemente senza scopo di lucro. Sia negli USA che in Europa è stato scoperto che dietro la Fondazione no-profit si celano società commerciali che gestiscono un fiorente mercato, che negli USA è stato valutato in 17 milioni di dollari e in Italia di qualche miliardo di vecchie lire.nota*20) E’ un processo abbastanza semplice da capire. Noi respiriamo aria alla pressione di una atmosfera sulla superficie terrestre. Mano a mano che saliamo verso l’alto, questa pres-sione diminuisce, al punto che p.e., sugli aerei bisogna pressurizzare l’abitacolo o altrimenti respirare con una maschera. Sott’acqua il fenomeno si inverte. La colonna d’acqua schiaccia l’aria, per cui la quantità di questa che dai polmoni entra in circolo è superiore all’ordinario. Con il passare dei minuti, il sangue si riempie di aria oltre il necessario, si sovrasatura appun-to, e comincia a scambiare i gas con il resto del corpo. Da cellula a cellula questi penetrano nei tessuti fino a riempirli completamente se si permane per il tempo necessario. Per uscire i gas devono fare il percorso inverso. Per questo si devono fare le giuste tappe di sosta e avere una velocità di risalita data: serve a consentire la lenta migrazione dei gas verso il sangue, da questo ai polmoni e la loro espulsione con la respirazione.

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ereo si rovesciavano in straordinari trenta secondi di risalita libera senza problemi.

Era nata la subacquea estrema del duo Di Cagno-Serpieri (in rigoroso ordine alfabetico).

Questo è quello che cominciammo a fare di quando in quando, e le immersioni ricreative con masse di sub impauriti, demotivati e rompico-glioni ci vennero definitivamente a nausea. Da lì alla subacquea tecnica che muoveva i suoi primi passi in Italia, importata dagli USA, fu soltanto nell’ordine delle cose.

Rispetto al paracadutismo la subacquea aveva molto più fascino per le enormi implicazioni tecnologiche, scientifiche, esplorative, professionali e tanto altro.

Eravamo affamati di sapere e, in fondo, quei salti da sotto a su erano esattamente come i salti da sopra a giù, pura adrenalina e fini a se stessi. Volevamo di più.

Cominciammo così a metterci in contatto con le due agenzie didattiche che operavano da poco nel nostro paese, e tra l’antipatia e la spocchia del patron dell’una e la spocchia e la buffa antipatia dell’altro, scegliemmo quest’ultimo. Tra l’altro l’ometto aveva un socio squisito, all’epoca, bravo a insegnare e comple-tamente diverso da lui, per cui si compensavano. Poi facevano aria profon-da, e noi da quella venivamo, quella comprendevamo.

Come ho già detto avevamo fame di sapere, sete di logica, interesse per la tecnica e le tecnologie. Fummo conquistati dall’uso di equipaggiamenti appropriati, dalle possibilità operative, dall’avventura che si spostava dagli zompi da un aereo urlando per darsi coraggio, verso analogie con la con-quista spaziale.

Ci si poteva far male, si poteva morire, ma tanto non si vive in eterno e preferisco scegliermi il modo in cui schiattare, se posso.

Così, appena due anni dopo quelle mattane, eccomi a tenere corsi in cui spiegavo perché non era il caso di farle. Sostanzialmente, però, finivo sem-pre per illustrare compiutamente come rischiare nello stesso modo, solo apparentemente in maniera più intelligente…

Era l’inizio dell’epoca del Trimix.La miscela Trimix è la contrazione anglosassone di ‘’tre miscele’’. Sono

l’ossigeno e l’azoto, contenuti nell’aria che respiriamo, a cui si aggiunge l’elio, un gas inerte che si raccoglie da giacimenti naturali. L’elio va a so-stituire nelle quantità che desideriamo parti degli altri due gas. Il concetto

fondante, da cui poi si elaborano strategie e tesi diverse e a volte anche in contrasto tra loro, è che si debba sempre avere una percentuale di ossigeno essenziale alla nostra sopravvivenza. La quantità di azoto non deve esse-re debilitante dal punto di vista dell’effetto narcotico sotto pressione, e si tende a non sostituirlo del tutto con l’elio perché questi è un gas costoso e alla fin fine raro. Per dirla tutta, prima o poi l’elio sulla terra si esaurirà come il petrolio.

Un giorno che non so datare, da qualche parte nel 1997 credo, arrivam-mo a Sant’Angelo per tenere un corso istruttori ad un allievo romano (foto 8). Avevamo il sabato e la domenica e bisognava essere assolutamente di ritorno a Roma per l’inizio della nuova settimana lavorativa.

All’epoca utilizzavamo una configurazione decisamente pericolosa. Consisteva in un bibombola sulle spalle e due bombole più piccole assicu-rate davanti. La versione originaria erano tre bombole dietro e due davanti, ma il peso, l’ingombro e la quantità di erogatori era decisamente eccessiva. Le teorie su come si dovesse scendere e cosa fare in acqua erano speri-mentali, confuse, personalizzate. La nostra didattica prevedeva la discesa con respirazione ad aria fino a sessanta metri, dalla terza bombola centrale posteriore. Si passava al trimix dai sessanta ai cento, l’inverso salendo e, infine, era previsto l’uso di una miscela binaria, contenente ossigeno e azo-to in proporzioni modificate a vantaggio del primo, dai quaranta in su (il nitrox citato sopra). Respirare una maggior quantità di ossigeno consentiva alle molecole di questi di legarsi a quelle di azoto e di elio più velocemen-te, espellendone una maggior quantità nelle varie tappe di risalita. Il tutto veniva programmato e calcolato a terra con dei specifici programmi com-puterizzati, basati sulle attuali conoscenze medico-iperbariche.

Arrivati a sei metri, si passava alla quinta bombola, contenente ossige-no puro, che respirato a quella quota non è tossico ed elimina in maniera ottimale i residui di gas inerti, che ci impedirebbero altrimenti di uscire dall’acqua in tempi brevi senza contrarre mdd.

Il peso totale di questo ambaradan andava sui sessanta chili, per cui si era deciso di togliere di mezzo una bombola.

All’epoca – sembrano passati secoli – l’ignoranza di tutti noi che inse-gnavamo come andare sott’acqua (sic!), ci faceva preoccupare molto per l’elio e poco per l’azoto. La molecola del primo è molto meno densa di quella dell’azoto, quasi quattro volte. Pertanto entra ed esce nei tessuti più rapidamente. Le teorie pseudo-moderate volevano che l’elio fosse perico-

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loso da gestire. C’era una verità subdola in questo. Era ed è vero che una pallonata utilizzando forti percentuali d’elio, se dovesse capitare dopo una decina o più di minuti di immersione, avrebbe effetti deleteri, probabil-mente mortali. L’azoto non è da meno, ma in qualche modo, proprio per la maggior densità della molecola, non produce effetti molto evidenti e spet-tacolarmente macabri come farebbe l’elio. E’ famoso di questo gas l’effetto Coca-Cola, ovvero la trasformazione in schiuma del sangue per l’espansio-ne delle microbolle. Come sia, entrambi i gas in quel caso produrrebbero conseguenze nefaste. Perché si poneva tanta enfasi sull’elio?

A mio parere prima di tutto perché parlavamo a vanvera. In secondo luogo c’era un problema politico e commerciale. Tutte le agenzie didatti-che cavalcano teorie per farsi la guerra. Da quando la subacquea ha separa-to nettamente l’apnea dall’immersione con bombole, quest’ultima pratica ha perso ogni selezione sportiva e ogni tipo di competizione agonistica. Ovviamente non è scomparso il campanilismo e si è accentuato l’interesse commerciale, per cui per dimostrare chi è meglio di chi, si sono rapidamen-te prodotti meccanismi distorsivi e perversi. “Il mio modo di insegnare è meglio del tuo” è un classico del genere. Il problema è come lo si dimostra.

Nello sci esiste una competizione didattica internazionale. Le varie scuole gareggiano tra loro per dimostrare come si insegna più rapidamente, con maggior sicurezza e minori rischi e traumi fisici.

Nella subacquea il lavoro muscolare e tecnico è quello prodotto dal movimento labiale e dalla digitazione sui tasti dei computer collegati a internet.

La subacquea tecnica è pericolosa. Scendere profondi, essere obbligati a permanenze in tappe decompressive lungo la risalita pena malattie e morte, sono chiaramente fonti di preoccupazione e rischio.

L’unica maniera per abbattere notevolmente i pericoli è avere una came-ra iperbarica e un medico sopra la testa.

L’escamotage è stato però velocemente trovato. Al di là dell’enfasi ma-chista sulla profondità, i corsi si effettuavano e si effettuano generalmente con permanenze ridotte all’osso e quote il più basse possibile. Peccato che questo comporti sostenere di aver abilitato persone per obiettivi che in re-altà sotto tutela didattica non hanno mai raggiunto.

Se si effettuasse una seria selezione psico-attitudinale e medica, il buon 80% dei subacquei tecnici attuali non supererebbe il nulla osta dei medici. Per questo le didattiche consentono un’estrema elasticità sulla questione,

con ampia produzione di certificati medici fasulli, autocertificazioni o sem-plici visite dal medico di famiglia.

C’era un’altra considerazione politica da parte dei proprietari delle agenzie tecniche nostrane. Qualsiasi novità veniva inizialmente contrasta-ta da chi non la introduceva, per incapacità o altri interessi, per paura di perdere fette di mercato e/o potere. A prescindere dal fatto tecnico, biso-gnava assolutamente disprezzare le teorie degli altri, che potevano provo-care un’emorragia di clienti. Ci si preoccupava degli incidenti con l’elio soprattutto perché esponevano a un attacco globale da parte di chi non lo proponeva. Se qualcuno moriva usando aria o immergendosi profondo con questa, bene o male l’evento negativo coinvolgeva tutti in una sorta di correità, per cui passava sotto silenzio. Viceversa, una morte o un incidente con tecniche nuove, a prescindere dalle colpe effettive, poteva portare a una generale aggressione. Grazie a questo modo di pensare e di formare la cultura generale, incidenti dove veramente c’è dolo e colpa grave da parte di istruttori e didattiche incapaci e approssimative, sono passati sotto silenzio, nascosti tra le pieghe di un’omertà e di una collettiva tendenza all’im-boscamento.

Quel corso a Ischia dunque era svolto ancora con poca o nulla cogni-zione di causa. Avevamo deciso di levare dieci chili di peso e di ingombri togliendo quella terza bombola posteriore, usando trimix in una delle due bombole rimanenti e aria nell’altra. Davanti nitrox e ossigeno.

Scendemmo con cautela, svolgendo gli esercizi previsti e tenendoci lungo la parete quasi verticale. L’allievo era molto bravo, istruttore ricre-ativo puntiglioso e preparato, molto più meticoloso di me. Dal canto mio pensavo che quel sistema non insegnasse granché a chi non aveva già del suo background, ma era abbastanza sicuro. Potevo gestire con una certa tranquillità i rischi.

Arrivati alla prima spianata di sabbia, sugli ottanta metri, dovevamo allontanarci dalla parete per trovare i cento metri previsti dal corso. Altri istruttori sceglievano come detto di mantenersi anche a quei venti metri di margine dalla quota prevista per il brevetto. L’avevo visto fare dai due proprietari della licenza italiana della nostra didattica.

A me e Claudia non piaceva, era un metodo che lasciava intendere mol-ta poca fiducia nei propri mezzi e nelle capacità dei propri allievi. Veni-vamo pagati per dimostrare al cliente se sapeva o meno stare lassotto, per insegnargli alcuni trucchi per farlo alla meno peggio e per tutelarlo ripor-

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tandolo a casa sano se non ne era in grado. Ci si arrivava per gradi, ma ci si doveva arrivare, eravamo lì per quello.

Così iniziammo a pinneggiare lungo il fondo, vicini. Dopo un po’, a uno dei regolari controlli della quantità residua dei gas, l’allievo mi segnalò che era arrivato quasi al limite della pressione stabilita per sospendere tutto e risalire. Eravamo sui novantacinque metri. Tornare indietro mi sembrava troppo rischioso, perché per non perdere contatto con il fondale e guada-gnare in sicurezza tornando sulla parete, avremmo consumato parecchio. Mi guardai intorno e vidi una rete dei pescatori abbandonata, probabilmen-te impigliatasi su una roccia che copriva alla vista. Ci avvicinammo e deci-si che potevo utilizzarla per assicurarvi il rocchetto che portavamo sempre con noi, svolgendo il centinaio di metri di sagolino alla cui estremità si agganciava un pallone gonfiabile. Così feci, o forse lo feci fare all’allievo, non ricordo. Risalimmo tranquilli, secondo il programma, lungo quella li-nea verticale e rientrammo.

Il pallone, che lasciai in superficie, ci sarebbe servito nell’immersione del giorno dopo per fare l’esatto opposto. Saremmo scesi rapidamente lì, avrei sganciato il rocchetto e me lo sarei portato appresso nel percorso fino alla parete, lungo la quale avremmo effettuato la risalita.

La memoria è quella che è. Per qualche ragione le cose andarono diver-samente. L’allievo se ne tornò a Roma con anticipo e l’immersione la feci da solo.

A un certo punto stavo a novantacinque metri su quel cavolo di rocchet-to. Invece di prenderlo e andarmene, guardavo la pendenza verso gli abissi e meditavo su dove potesse essere la seconda parete.

Come descritto prima, uscendo dal porto di Sant’Angelo la distesa di sabbia raggiungeva un costone roccioso sugli ottanta metri. Questo curva-va verso il largo, avvicinandosi sempre più al promontorio fino a diventare una lingua di limo e arenaria abbastanza stretta. Non sapevamo però quan-to, dove avesse termine, né di quanti metri sprofondasse giù l’altra parete. Le carte nautiche descrivevano una linea batimetrica proprio lì, con una seconda poco lontano, di duecento metri. Le distanze effettive, nell’ordine di decine di metri e anche più, erano sconosciute.

Noi le chiamavamo la prima e la seconda parete di Sant’Angelo, e quest’ultima era come il canto di una sirena. Sapevamo che lì non ci era an-dato nessuno, era vergine, probabilmente incastonata di corallo, con le tane dei grandi pesci, murene, cernie. La desideravamo ardentemente.

Presi a scendere lasciando il rocchetto dove si trovava, l’avrei recupera-to al ritorno salendo nel blu e riavvolgendo la sagola.

La miscela che usavamo sul fondo era una versione casereccia del Tri-mix. Quest’ultimo nella sua accezione pura è la composizione di una mi-scela respiratoria ottenuta prendendo separatamente i tre gas e pompandoli nelle bombole. Per comodità e per il tipo di tecnologia a noi disponibile, ci producevamo una versione chiamata Heliair, ovvero elio e aria. L’elio vie-ne in questo caso travasato nelle bombole subacquee da quelle industriali di stoccaggio e poi si rabbocca pompando con i normali compressori ad aria. Ancora non sapevamo fare di meglio.

Quell’intruglio era il 50/50 delle nostre origini. Cinquanta percento di elio e cinquanta percento di aria. A cento metri la pressione parziale dei singoli gas forniva una quantità ottimale di ossigeno e una narcosi di azoto equivalente allo respirare aria a cinquanta metri.

Poteva andare.Il problema è che gli effetti negativi della narcosi aumentano a prescin-

dere dalla profondità anche in funzione dei cosiddetti fattori incrementanti. Freddo, ansia, scarsa visibilità incidono fortemente sul nostro cervello. La narcosi altro non è che la descrizione di una alterazione biochimica indotta dalle molecole di azoto sulle nostre cellule nervose, la cui comunicazione elettrica delle informazioni, processamento e immagazzinamento mnestico (la creazione dei ricordi) viene rallentata e inficiata, o addirittura cancel-lata.

Mentre scendevo, la sempre minor luce creava un effetto visivo di cur-vatura dell’orizzonte. Avanzavo e mi sembrava continuamente che la sab-bia sprofondasse d’un tratto, laggiù, a un batter di pinne. L’orlo agognato doveva essere lì.

Sulla retina dei miei occhi, inoltre, si era stampata la matrice della rete e mi sembrava che questa fosse a pelo della sabbia per tutto il percorso.

Ero concentratissimo a cercare di non strisciare sul fondo, impigliando qualche parte del mio equipaggiamento in una rete inesistente se non nel mio cervello, e a raggiungere quel benedetto strapiombo.

Improvvisamente, trascorso pochissimo, sentii un leggero indurimento nella respirazione. Ero ovviamente sempre più in narcosi perché scendevo, avevo già raggiunto i centodieci metri e oltre rendendo inferiore l’effetto dell’elio.

Guardai il manometro e mi prese un colpo: avevo superato abbondan-

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temente i tre quarti della mia unica bombola di Trimix. Non era la prima volta che guardando il manometro vedevo nettamente muoversi la lancetta ad ogni respiro, ma era di sicuro la prima che mi faceva letteralmente ca-care sotto.

A centodieci metri ogni mio respiro corrispondeva al consumo teorico di una quarantina di litri. Come avrei scoperto più in là ne usciva almeno il doppio dal secondo stadio (l’erogatore è costituito dal primo stadio, il riduttore di pressione che viene avvitato sul rubinetto della bombola, e dal secondo stadio, che comunica attraverso un tubo di plastica detto frusta, che teniamo in bocca tramite il boccaglio). Per mia fortuna avevo erogatori veramente poco performanti, anche se avessi letteralmente aspirato come un mantice, più di tanto non mi davano. Quella durezza nel rifornirmi di gas mentre ero in panico stava mantenendo ridotti i consumi.

Mi scossi e cercai di riprendere il controllo della respirazione, riparten-do verso l’origine della mia disgraziata passeggiata.

Un’altra tegola mi stava per cadere sulla testa.Giratomi, ecco che quel fondale che scendendo sembrava un dannato

pianoro, si era trasformato in una salita col 45% di inclinazione. Diedi un colpo di pinne. Tutto il peso e la resistenza all’attrito dell’acqua di quella roba che avevo addosso, si evidenziò drammaticamente. No, così consu-mavo il Trimix in un secondo, senza nessuna speranza. Avrei dovuto pren-dere l’aria a cento metri e sapevo che poteva essere un’esperienza da cui probabilmente non sarei uscito vivo. Almeno così mi avevano detto.

Molte persone, tra cui io stesso, sono scese oltre i cento metri ad aria. La narcosi graduale si può in qualche maniera controllare. Per chi beve al-colici è sostanzialmente come avvicinarsi bicchiere dopo bicchiere all’in-coscienza. Vi assicuro che l’effetto è uguale.

Prendere la botta narcotica tutto d’un colpo è un’altra storia. Pensate che all’epoca noi avevamo per standard didattico l’obbligo di far passare gli al-lievi da Trimix (o meglio da Heliair) ad aria, a sessanta metri. Dovevamo fermarci a quella quota in sicurezza, ben stabili, verificare la tranquillità dell’allievo e controllarne la capacità operativa, dopodiché fargli effettuare il cambio. Se c’erano problemi o ritenevamo sconsigliabile la cosa a quella quota, si saliva più su anche di venti metri per fare il passaggio.

Ora io stavo per prendermi la botta a oltre cento metri…Fu più rapido per me prendere la decisione che per voi leggere questa

frase.

Dovevo salire immediatamente. Non c’era tempo per pensare e per in-de-cisioni.

Gonfiai il gav e mi staccai dal fondo. Cercavo di respirare appena appe-na, giusto per calmare l’affanno. Mi misi in posizione. Con la mano sinistra controllavo i comandi del carico e scarico dei gas del giubbetto e tenevo sottocchio il computer al polso, che mi dava la profondità tra i vari dati. Con la destra avevo preso in mano l’erogatore della bombola contenente l’aria. Appena fui certo di essere pronto sputai l’erogatore della miscela con elio e presi quello dell’aria. Provai a respirare trattenendo la miscela precedente nei polmoni, così da miscelare il tutto un po’. Contavo mi desse un attimo di tempo... Ottimista.

Non ho memoria di quel che accadde e dove. So che a un certo punto una voce dentro di me diceva cosa dovevo fare mentre il cervello era com-pletamente sbronzo, come se avessi tracannato un’intera bottiglia di gin e l’apice dell’effetto fosse stato raggiunto immediatamente.

So che a un certo punto il mio sguardo, puntato sul computer, iniziò a focalizzare l’indistinta macchia azzurra del suo colore, in una forma squa-drata, con un display al centro. Da qualche parte mi arrivò l’infor-mazione che ci stava scritto un ottanta.

Feci qualche altro metro verso l’alto prima di riuscire a cominciare a scaricare i gas per rallentare la velocità. Qualche altra decina di metri ci vollero per riprendere un controllo appena decente.

A un certo punto ero sui quaranta e stavo passando al nitrox.Venni fuori in breve tempo, la mia permanenza totale era stata ridotta,

una decina di minuti, non lontano dal pallone che ondeggiava beffardo, pren-dendomi per il culo.

Non sia mai. Quando me la vado a cercare, lo faccio seriamente.Quel rocchetto, che il patron della didattica mi aveva fatto pagare alcu-

ne centinaia di mila lire, tornava a casa con me o morte!La narcosi è incredibile, perché i suoi effetti di ottenebramento del ra-

ziocinio perdurano anche quando la pressione ha mollato la presa sul no-stro organismo. E il sottoscritto il raziocinio a volte già di suo non sa dove sta di casa.

Nuotai verso il pallone guardando i manometri e facendomi due calcoli. Avevo raggiunto i cento metri ad aria parecchie volte precedentemente, nella bombola con l’elio avevo ancora qualche decina di Bar, sufficienti per non impelagarmi con la rete mentre staccavo il rocchetto.

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Quindi via, di nuovo sotto. Stavo facendo esattamente le stesse cose dell’alpino e dei NOCS del racconto precedente.

Arrivai sul fondo come un sacco di patate buttato dal decimo piano. Mi misi in ginocchio stordito come un pugile massacrato di cazzottoni al cra-nio e passai alla miscela ternaria senza grossi risultati di lucidità.

Il maledetto moschettone di ottone non si apriva. Come al solito la mol-la interna aveva deciso che quello era il momento per fare i capricci. Ah, di sicuro molto tecnico, oggi si direbbe molto DIR (nota*21) , ma in quel frangente tra lui e me vinceva lui. Forse…

Feci quella che i miei amici definiscono una dicagnata: staccai un mo-schettone da roccia con cui assicuravo al mio imbraco una delle estremità di una bombola laterale. Senza rimuoverlo dalla bombola lo attaccai al rocchetto, dopodichè diedi aria al poderoso giubbetto. Per qualche istante pensai che sarei rimasto lì come un idiota, a novanta metri, ancorato alla rete. Poi le maglie a cui teneva il rocchetto si ruppero e partii per la super-ficie come un missile da Cape Canaveral.

Ovviamente ero ritornato a respirare aria, per cui stavo fatto biecamen-te. Mentre sgonfiavo il gav e cercavo un assetto, provai a recuperare il rocchetto, la cui sagola cominciava a perdere rapidamente la tensione e mi si avvicinava. In qualche decina di secondi ero legato come un salame.

La faccio breve. Il resto dell’immersione fu una costante imprecazione, come sempre. Uscii dall’acqua centinaia di metri dalla costa, tra gli scafi dei napoletani che sfrecciavano a un millimetro dal mio pallone, le gambe completamente immobilizzate da decine di metri di sagola.

Non me ne fregava niente. Avevo rinunciato a qualsiasi azione già da almeno quaranta metri più giù. Ero stanco, stravolto, affamato, assetato, sudato e bagnato e, non so come, sentivo la mia puzza acida, o la imma-ginavo.

Ero come E.T., l’unica parola che conoscevo e belavo alle onde era caaaasa.

IVSOLO DIVING IN CROAZIA

Per quasi tutto il 1998 non sono andato in acqua. Seri problemi fisici e un lungo periodo nella patria di mia madre, la Svezia, mi tennero lonta-no dalla subacquea. In quel periodo la mia compagna raggiunse da sola, sempre a Ischia, fuori Sant’Angelo, i centosettantuno metri di profondità, superando seppur di poco il record stabilito dall’americana Ann Kristovich nel cenote messicano di Zacaton (nota*22).

Nella primavera del 1999 portammo a termine il progetto di fondazione di una rivista di subacquea tecnica ed estrema, che vide luce il mese di giugno nella prima e unica versione bilingue, italiano e inglese. Il mercato estero, ma soprattutto i costi di traduzione, si erano rivelati improbi e già eravamo in perdita, per cui i numeri successivi furono monolingua.

Fui contattato da un noto subacqueo triestino, che aveva pubblicato al-cune traduzioni di libri sulla subacquea tecnica yankee, che andavano per la maggiore.

Avevo con la sua casa editrice un debito risalente proprio alla prima edizione del libro Deep Diving, una pubblicità del nostro centro subacqueo di Civitavecchia, nel frattempo chiuso da Claudia.

Convenimmo di andare in pari pubblicizzando sul numero uscente di Captain Nemo il loro catalogo e facemmo anche una recensione del libro uscito da poco, che aveva scritto insieme al socio.

Mi invitò ad andarlo a trovare e a farci un po’ di immersioni insieme, in Croazia, cosa che non mi dispiaceva.

Partimmo poco tempo dopo, io e un subacqueo barese che a quel tempo collaborava con noi, dopo essere stato nostro allievo istruttore.

Faceva terzetto la mia Terranova, Teti.Con un furgoncino preso in prestito, caricammo bombole e attrezzature

e ci dirigemmo lungo l’Adriatico fino a Trieste.

nota*21) DIR, Doing It Right. E’ un sistema di immersione nato negli USA per l’esperien-za di alcuni speleosub, che lo pubblicizzano come l’unico modo possibile per immergersi, quello giusto, appunto (niente a che vedere con Spike Lee, sono WASP, rednecks della Flo-rida profonda, incestuosa e razzista). Controverso, soprattutto per la rigidità degli schemi e sull’utilizzo di specifiche marche di attrezzature, che hanno evidenziato una propensione a utilizzare condizionamenti psicologici da setta scientologista a fini commerciali.

nota*22) I cenotes sono chiamati dai geologi sinkholes. Sono cavità naturali a cielo aperto, che col passare del tempo si riempiono di acqua. Dietro Roma ve n’è uno, studiato dal Prof. Paolo Bono del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università La Sapienza di Roma, con cui abbiamo collaborato per qualche anno. Con Claudia vi abbiamo raggiunto i cento-sessanta metri di profondità, sui quasi quattrocento verificati dai robot subacquei dei Vigili del Fuoco.

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Arrivati nella città frontaliera ci fu difficile trovare la via dove aveva sede la società dei nostri ospiti, che era anche la loro libreria. Vagammo un po’ chiedendo ai triestini, senza che nessuno ne conoscesse la locazione, quando finalmente beccammo una vecchietta che stava per attraversare la strada a un semaforo vicino al porto. In stretto accento napoletano, l’arzilla quanto cortese e attempata signora ci diede le giuste indicazioni.

La libreria era molto graziosa, in una viuzza caratteristica del centro storico, con una bella entrata e scaffali colmi di volumi marinareschi, carte e reperti di relitti.

Parlammo a lungo scambiandoci opinioni e storie e programmammo le immersioni dei giorni successivi.

L’indomani attraversai la frontiera in auto con il triestino, seguito dall’altro con il furgoncino. Avevamo molte idee comuni e l’opinione sui nostri conoscenti del settore non differiva mai. Eppure ci dividevano altret-tante cose, come fu presto chiaro.

L’atmosfera in ogni caso era piacevole. Facemmo un’immersione sul relitto del piroscafo austriaco Baron Gautsch, che a me non suscitò un grande effetto. Lo scrissi tempo dopo su una lista internet di subacquea tecnica facendo incazzare il tizio, che mi indirizzò prima una mail e poi ribadì al telefono le sue proteste. Prendeva soldi con le immersioni che facevano dal diving locale gli italiani e quella cattiva pubblicità la vedeva come un affronto personale. A essere onesti lo sapevo. Non mi era andato giù pagare l’immersione e intravedere il tipo che intascava di nascosto la cagnotta dal croato. Finché si trattava di pagare un estraneo bene, ma quel comportamento viscido e materiale da parte dell’ospite mi ripugnava.

Ci spostammo più a sud, per andare a vedere il relitto di una torpedi-niera della Grande Guerra, che giaceva su un fondale di una settantina di metri, credo.

La Croazia mi sembrava bellissima, stupefacente per essere dall’altro lato del mare di casa mia. Il paesaggio era simile alla Svezia, le coste roc-ciose dolci e arrotondate, piene di alberi nordici, costellate di isolette con il mare sempre piatto come una tavola.

Dormimmo in un alberghetto che sembrava tedesco e la colazione pare-va apparecchiata per una tavola crucca.

Ci portarono in un piccolo porto da cui saremmo partiti con l’imbarca-zione di un pirata locale. In mezzo a quei subacquei molto compresi nel loro ruolo di super tekkies, anche se gentili e simpatici, il capello fluente e

La libreria del NED, uno dei titolari e il mio cane.

Uno scorcio del Baron e i soci del NED al completo.

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poco pulito dell’uomo, le battute sprezzanti e l’aria decisamente bandite-sca da depredatore mi riscaldavano il cuore. I triestini non mi piacevano e tutta la tiritera razzista antislava, ascoltata in auto viaggiando, ancor meno. Per quanto mia madre sia scandinava mi sento molto terrone e il razzismo borioso mi fa vomitare.

Con noi c’era un istruttore di una didattica tecnica appena nata, fondata da un tizio di Como che mi ha intentato parecchie cause per affermazioni sul suo operato che ritiene offensive, per ora perdendole.

Mentre caricavamo le nostre cose, questo tizio si infilava un paio di pannoloni da incontinente sotto la muta stagna.

Chiesi discretamente quante ore di immersione prevedeva di fare, e quando mi dissero che sarebbe durata intorno a un’oretta complessivamen-te, cioè quanto prevedevo di fare anch’io tra fondo e deco, non mi fu pos-sibile evitare di scuotere la testa.

I libri pubblicati dalla casa editrice istriana avevano avuto un effetto dirompente sulla comunità subacquea italiana, che in alcuni casi aveva re-cepito come segno distintivo di grande capacità e tecnicismo soprattutto cose come mettersi i pannoloni, infilarsi preservativi con tubicini collegati all’esterno delle mute stagne, girarsi attorno al collo le fruste di respirazio-ne lunghe, bardarsi con quante più bombole ed erogatori possibili e altre amenità del genere. Il tutto per fare le stesse immersioni che fino al giorno prima ritenevano necessitassero di circa un quinto di quella paccottiglia.

C’era un clima assurdo intorno alla prima diffusione della subacquea tecnica. Dall’esigenza di colmare delle lacune operative e scientifiche, mi-gliorare il livello di sicurezza e spostare più in là i propri limiti, si era rapidamente passati a un baillame farsesco di teorie strampalate, tecniche pretestuose e inconcludenti, ridondanze sovrabbondanti. Il principe di quest’ultime era purtroppo il nostro capintesta didattico, che però a me e Claudia lasciava un ampio margine per farci i fatti nostri ed evitare fesserie.

Lasciammo gli ormeggi e noi baresi eravamo pronti. Gli altri avevano molto ancora con cui cincischiare.

Nei corsi ricreativi si insegna che uno dei sintomi di nervosismo è pren-dersi molto tempo per preparare l’equipaggiamento. Forse lì c’erano solo subacquei espertissimi e a loro agio, ma non lo dimostravano. Arrivati sulla verticale del relitto, pedagnato con una cimetta, in pochi minuti ero in ac-qua con il socio del triestino. Passava tempo e dopo un quarto d’ora stava-mo ancora lì a galleggiare come due stronzi.

Decisi di andarmene per i fatti miei. Era da un po’ che facevo immersio-ni in solitaria e le trovavo particolarmente rilassanti, perché praticamente sempre avevo lavorato portando in acqua allievi e clienti. Esserne respon-sabile, mi stressava. Anche con i miei collaboratori non mi sentivo mai a mio agio, buttavo sempre un occhio a quel che facevano e nessuna immer-sione era mai un piacere completo.

Salutai e scesi.Se la terraferma era lontana da qualsiasi tratto di costa dell’Adriatico

nostrano, il fondo marino croato non differiva di una virgola dai posti peg-giori. Scarsa visibilità, solita temperatura e fangaccio.

S’era fatto pomeriggio e la luce del sole non filtrava granché ma la so-spensione non avrebbe fatto cambiare di molto le cose.

Il relitto era discreto, bisognava immaginarsi ciò che veniva dietro i tre o quattro metri che si vedevano, ma stava in assetto di navigazione ed era abbastanza integro. Me lo avevano descritto in un certo modo e il barcaiolo ci aveva avvertito che vi era stata persa una rete a strascico da un pesche-reccio locale. Mi chiese anzi proprio di recuperarla successivamente.

Arrivai sulla prua e non ci capivo un granché. Pensai che la narcosi fos-se un po’ troppo forte, ma in realtà nel tentativo di portar via la rete aveva-no letteralmente divelto parte della struttura del relitto, dalla piccola carat-teristica timoneria fino a prua, storcendola un bel po’. Non ero rincitrullito al punto di vedere un’improvvisa angolazione di novanta gradi dove non c’era, era proprio così che l’avevano ridotto. Diciamo, per correttezza, che probabilmente ci misi del tempo in più a capirlo per colpa della narcosi, cosa che non sarebbe successa con una miscela idonea.

Preso atto dello stato reale e attuale mi diressi a poppa.Ero soprappensiero e a un certo punto mi alzai troppo sullo scafo per

superare delle strutture, perdendo l’orientamento e il contatto visivo.Avrei dovuto mettere da qualche parte l’estremità della sagola del solito

rocchetto e svolgerla allontanandomi, per non perdere il contatto. Pigrizia.Come al solito mi scocciava interrompere l’immersione e risalire, anche

perché sapevo che sarebbero scesi dopo di me e volevo beccarli per ras-sicurali sulla mia condizione. Non è divertente fare un’immersione senza sapere se chi sta lassotto da prima di te è riemerso sano e salvo.

Così scesi sul fondo e mi misi a girare a vuoto. Consumai parecchio e quando finalmente ribeccai lo scafo era decisamente il momento di rien-trare.

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Purtroppo ero finito parecchio verso poppa, e dovetti farmi sul fondo buoni cinquanta metri per ritornare sulla cima di risalita.

Continuavo a rifiutarmi di risalire in libera, sparando su il pallone, e visto il consumo ormai era chiaramente questione di narcosi.

E’ buffo, quando ci si riflette a secco, come una parte della nostra co-scienza sappia benissimo che si sta facendo una cazzata. E’ come se non riusciamo a tradurre in azioni un pensiero profondo che è stato soverchiato da decisioni irrazionali.

In quel caso era sicuramente causa dell’azoto, ma credo sia connaturato in noi. Mi è capitato di riflettere su decisioni e azioni prese senza alcun condizionamento indotto da qualsivoglia sostanza, cose che sapevo di non dover fare ma ho fatto comunque. O viceversa, cose che dovevo fare e non ho fatto, per un blocco psicologico.

Aldous Huxley, ne Le Porte della Percezione (nota*23) , oltre a tratteg-giare ipotesi mistiche e paranormali tipiche della cultura psichedelica post-bellica statunitense (sfociata nei figli dei fiori e nel pacifismo antiguerra del Vietnam), fornì nel 1954 una delle prime indicazioni su come fosse possibile che esistessero porte della mente altrimenti sconosciute, e come esse si ‘’aprissero’’ con l’esperienza lisergica. Avevo avuto il mio periodo dell’LSD, ma anche un momento ‘’zen’’, in cui attraverso pratiche yoga e meditazione trascendentale, ma soprattutto leggendo i testi base delle culture mistico-religiose orientali, si erano ben evidenziate le analogie tra quelle esperienze trascendentali.

Il digiuno, l’astinenza, le privazioni del sonno, i sogni in fase REM, le malattie che alterano l’equilibrio mentale, le droghe psicotrope, le MAO (nota*24), sono tutte chiavi per aprire (e in certi casi chiudere) porte del nostro cervello. Le chiavi altro non sono che cause biochimiche, le porte effetti neuropsichici.

L’azoto, la narcosi, la profondità, le distorsioni visive, appartengono anch’esse tutte a quel complesso universo.

Il loro controllo, la loro manifestazione, fanno parte di un nostro mondo interiore in cui spiritualità e scienza si possono tranquillamente contami-nare l’un l’altra.

Nelle pagine precedenti ho menzionato più volte una sorta di Io sepa-rato dal resto della consapevolezza di Se. Una voce guida lontana, che ho forse erroneamente messo in contrapposizione a espressioni cognitive ar-caiche. Il fisico Fritjof Capra, per descrivere il processo di raggiungimento della consapevolezza del Se, attraverso varie tecniche ed espressioni nella cultura filosofica e religiosa orientale, parla viceversa di una mente razio-nale, pensante, da far tacere per lasciare emergere una modalità intuitiva (nota*25). Quest’ultima è una sorta di ‘’illuminazione’’ (il Satori nello Zen (nota*26)), che scaturisce dal tacitamento del pensiero concettuale.

Molte volte ho sostenuto, più o meno scherzando, che chi scende pro-fondo ad aria è così scemo in superficie da non percepire nessuna differen-za sott’acqua. Si potrebbe però ipotizzare che, almeno per una parte di noi, sia un modo inconsapevole di far emergere l’Io profondo.

Mentre risalivo incontrai il gruppo che scendeva e, poco più su, il mio collaboratore. Avevo quasi finito il mio bibombola. Stavo già pensando a una riemersione disordinata con probabile piccola mdd, da curare pren-dendo dalla barca una bombola e ridiscendendo in tappa, per comprimere nuovamente le bolle e farle uscire dalla parte giusta.

Il povero malcapitato che mi veniva incontro era la risposta a ogni pro-blema e, senza tanti complimenti, gli sequestrai un erogatore inficiando la sua immersione. Del resto sul quel relitto, con quella assenza di visibilità, ad aria non era il caso che ci andasse. Non erano le condizioni giuste, se mai ci sono, per un’immersione profonda con una forte narcosi.

Un po’ più in alto erano appese alcune bombole di ossigeno del gruppo. Mi sembrava che ve ne fossero a sufficienza e avevo chiesto se potevo usarlo prima, in barca. Per cui mi ci attaccai, riducendo i tempi decompres-sivi e ripulendo l’organismo da qualche probabile bollicina cattiva.

Terminata l’immersione risalimmo a bordo, solo per sentire qualche de-cina di minuti dopo un accorato appello del triestino. Il tizio dei pannoloni

nota*23) A. Huxley, Le Porte della Percezione, Mondadori, Milano, 2002.nota*24) Monoamminossidasi, enzimi che inattivano le amine biogene cerebrali (noradre-nalina, serotonina e dopamina).

nota*25) Capra, Il Tao della fisica, Adelphi Edizioni, Milano, 1989, pagg. 44-45.nota*26) Daishi, Il canto dell’immediato Satori. Poema zen, Mondadori, Milano, 1997.

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aveva dimenticato la bombola di ossigeno personale in barca, e io mi ero ciucciato quello che avrebbe potuto evitare di doverne chiedere altro. Ci facemmo parecchie risate considerando che alla fine, anche se quello aveva dimenticato un proprio pezzo di attrezzatura, aveva mandato un altro in superficie al posto suo pur di non spostare il culo da una tappa deco.

La paura di farsi male, spesso porta ad un esasperato egoismo sott’ac-qua.

Secondo uno dei fondatori della subacquea tecnica nordamericana, uno degli errori più gravi commessi negli anni passati è stato dare eccessiva en-fasi alle mdd. Per paura del loro manifestarsi, molte volte i subacquei com-mettono errori e prendono decisioni che causano ben altri effetti nefasti.

Ci furono un po’ di discussioni su quell’immersione, soprattutto quando qualche mese dopo i nostri rapporti si raffreddarono per poi degenerare in una sequela di reciproci insulti e contumelie.

Per me fu un lampante esempio di come, prima o poi, mi sarei fatto male facendo immersioni in solitaria, senza modificare il mio equipaggiamento ‘’leggero’’ e usando l’aria. C’era qualcosa che non andava in ciò che ci mettevamo addosso, che era o troppo o troppo poco. Sembrava non si riu-scisse a trovare un equilibrio nei diversi scenari.

VL’ERBA CATTIVA NON MUORE MAI

Alcuni mesi dopo il giro in Croazia, eravamo di nuovo ad Ischia da Cristiano, per il primo record del mondo di immersione profonda con bom-bole, organizzato appositamente da noi per Claudia.

Avevamo trovato e cominciato ad esplorare la parete esterna di Sant’An-gelo, su cui ci immergevamo dalla barca del nostro amico.

Bellissima, cominciava dopo un pianoro roccioso sui quarantacinque, cinquanta metri, distante oltre trecento dalla punta del promontorio.

Al centro spiccava una guglia rocciosa, che avevamo soprannominato la Guglia del Cremlino. Lì posizionammo una catena che saliva per molti metri, per proseguire poi con una cima, fino alla superficie, dov’era assicu-rata a un galleggiante.

C’erano vari punti di discesa su questa spettacolare parete, che sprofon-dava fino a oltre duecento metri di profondità praticamente dritta. Avevano nomi, che furono coniati prendendo esempio da quelli dei freeclimbers e riders (nota*27).

Il record doveva essere un momento di comunione tra subacquei di di-versa provenienza didattica, che avrebbero prestato a Claudia la loro assi-stenza insieme al nostro team. Furono invitate molte donne, tra cui parec-chie straniere.

Questo raffreddò l’entusiasmo dei due triestini succitati. Avevano dato all’inizio dell’estate la loro adesione, chiedendo espressamente di poter es-sere loro a filmare l’evento sott’acqua. Quando si accorsero che le ragazze provenienti dagli USA e dalla Gran Bretagna scendevano più profondo di loro, iniziarono ad accampare scuse, a cercare motivi di lite.

Fu un triste episodio di frustrazione maschile, ma ce ne dovevano essere altri.

Claudia si allenava con calma, nonostante la sua emotività. Era preoc-cupata, ma cercava di non darlo a vedere. La presenza di tante ragazze la gasava.

nota*27) Rispettivamente coloro che fanno roccia arrampicandosi solo con l’ausilio delle mani, senza utilizzare martelli e picozze per assicurare i chiodi con cui fissare le cime di sicurezza (se usate…) e gli sciatori di monotavola, gli snowboarders che fanno fuoripista.

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Si prospettava l’arrivo di un grosso fronte depressionario, che avrebbe trascinato dal nord Europa mal tempo, burrasche. Sant’Angelo dava sul mare aperto e la sua punta prendeva purtroppo praticamente ogni maroso.

Cercammo di trovare una soluzione per non dover rinviare l’evento e ci venne l’idea di sfruttare la vicinanza con il porticciolo.

All’epoca non avevamo ancora gli scooter ma, non ancora impigriti e viziati, non ci preoccupava l’idea di pinneggiare anche per grandi distan-ze. La specializzazione profondistica che negli anni successivi ci avrebbe portato a fare praticamente solo discese verticali e brevi spostamenti sul fondo, al massimo dell’ampiezza di un relitto, era ancora agli albori. Solo fino a pochi mesi prima si arrivava sul punto di immersione pinneggiando per centinaia e centinaia di metri in superficie, anche se con ben altra con-figurazione, ingombro e peso.

Dato che la decompressione sarebbe stata lunga, pensammo che si pote-va lasciare una scorta di bombole sotto la Guglia del Cremlino, e con quella muoversi rientrando nel porto a nuoto, sott’acqua.

Decidemmo così di fare un esperimento la settimana prima del record. Claudia si sarebbe immersa per allenarsi, scendendo da sola a un centinaio di metri e oltre, io avrei fatto qualche filmato e poi percorso la distanza da lì al riparo sicuro con ogni tempo, per calcolare quanto ci voleva.

Avevamo fatto dei cambiamenti nella configurazione standard del ‘97. Purtroppo l’aria, che dopo quel giorno sarebbe stata completamente elimi-nata nelle immersioni profonde, era ancora sulle spalle, con il bibombola caricato con un’unica una bottiglia di Heliair.

Davanti venivano assicurate le due bombole decompressive e quella di Nitrox iniziavamo a usarla non solo in risalita, bensì anche in discesa.

Optavamo già per la separazione tra le due bombole posteriori, pas-sando dall’una all’altra mano a mano che consumavamo il contenuto, te-nendole in sostanziale equilibrio. Era una tipica pratica degli speleosub, e ci pareva una soluzione intelligente al rischio di malfunzionamenti del connettore centrale, detto manifold.

Un’altra modifica all’equipaggiamento che ci era stato insegnato esse-re ottimale, era l’eliminazione dei laccetti elastici del gav. Il proprietario della nostra agenzia didattica commercializzava in Italia alcune marche americane di attrezzatura tecnica, così come facevano i suoi concorrenti. E’ sempre stato malcostume nazionale imporre, sostanzialmente attraverso forme psicologiche di coercizione e ricatto subdolo, l’acquisto degli equi-

paggiamenti in un abbinamento marche/didattica.Invece di capire effettivamente cosa era ed è buono e cosa non lo è, chi

appartiene a una certa ‘’bottega’’ viene indotto a comprare e parteggiare acriticamente per la qualità dei prodotti venduti da questa.

I gav commercializzati dal tizio e che avevamo ovviamente anche noi non erano affatto male, però si discostavano di poco dagli altri. Venivano particolarmente apprezzati per una caratteristica che, lungi dall’essere po-sitiva, dimostrava tristemente il basso livello dei subacquei che addestra-vamo.

Quei gav nascevano per la subacquea in grotta. Grotta statunitense e messicana. A differenza del carsismo nostrano, nel sud-est del centroame-rica le cavità sono spesso molto ampie. E’ inoltre pieno di cenotes. Per-tanto gli speleo si trovavano ad aver bisogno di un gav che sostenesse da un lato il loro equipaggiamento pesante con un grande volume, dall’altro fosse poco ingombrante nelle penetrazioni anguste. La scelta tecnica era un sacco costretto da lacci elastici. Questi consentivano il gonfiaggio, ma stringevano il tessuto fino a farne un salcicciotto se sgonfiato.

La conseguenza collaterale era avere una sacca anche eccessivamente grande come capacità, ma immediatamente sgonfiabile rispetto a una senza lacci.

Questo scatenava l’appetito degli psicolabili: si pavoneggiavano con un gav che era il più grande del mondo, ma anche se lo riempivano troppo per errore e incapacità, potevano sgonfiarlo in un attimo tacendo le proprie paure.

A me non piaceva poi tanto. Avevo letto pesanti critiche sul fatto che, in caso di emergenza, i laccetti potevano impedire un corretto equilibrio. Sa-pevo che qualcuno di altre ditte ci marciava sopra, ma sostanzialmente mi sembrava una cosa plausibile. Inoltre noi non gonfiavamo mai l’intero gav, a differenza della maggioranza dei sub che ne avevano uno di quel genere, e sospettavo che i laccetti nascondessero davvero una scarsa padronanza del mezzo.

Per parecchi mesi avevo fatto le mie prove. Il rovescio della medaglia era che per questioni di marketing, sfruttando il contenimento degli elasti-ci, la ditta produttrice aveva aumentato tantissimo il volume della sacca e quindi le dimensioni. Ovviamente il nostro patron importava solo quelli più grossi. Essendo un nanetto con un enorme ego, soffriva all’idea di ac-quisti di volumi medi o inferiori: i suoi gav dovevano essere come sostene-

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va fosse il suo uccello, abnormi!Già dalla primavera avevo chiesto a Claudia e Cristiano di togliere i

laccetti elastici. Almeno la maggior parte di essi.Non chiedetemi perché, forse faccio parecchie idiozie per una sorta di

certezza in una specie di equilibrio sulla bilancia dei pagamenti cosmici. Non ci credo… ma credo che pagando uno scotto, facendo un sacrificio rituale, se ne eviti uno più grosso. Con Claudia era diventata una sorta di superstizione confessata a mezza bocca a ogni tentativo di record: abbiamo versato questo sangue, non ce ne verrà chiesto ulteriormente.

Quel giorno, poco prima di imbarcarci, guardai il suo gav con i laccetti e sbottai «Claudia, leva quei cazzo di cosi, ora!»

La banchina cominciava ad affollarsi. Le prime settimane di settembre mischiavano tipologie di turisti: le famiglie, quelli delle terme, i pensionati, gli stranieri, la figa.

*****Verso la fine di luglio ero scappato via. Non la reggevo.Ragazze stratosferiche in bikini, top, parei e sfoggio di lembi di tessuto

coprenti il nulla dappertutto.Con Claudia facevamo spesso bliz a Napoli, prendendo il traghetto la

sera, incontrandoci con un nostro amico soprannominato Trifix per certe doti e facendo insieme a lui raid sessual-goderecci.

Una notte, in un locale per scambi di coppie inventato in un lido balnea-re del nord partenopeo, ci fu un’incursione dei carabinieri. Quanto abbiamo riso. A un certo punto c’era un appuntato che in cerca di prove sull’utilizzo di sostanze stupefacenti controllava nella poca luce un preservativo usato, tenendolo con aria schifata ma professionale a un centimetro dalla faccia e cercando di capire controluce che cosa ci fosse realmente dentro.

Un’altra volta, Trifix aveva arruolato una smandrappata locale per una mezza orgia a beneficio del leader maximo della nostra comune agenzia didattica. Come riportato più su, questi sbandierava dimensioni anacondia-che del proprio organo riproduttivo, contando credo su quel detto popolare che si accompagna al movimento del dito indice e del pollice tenuti a 90°, che rappresenterebbe il rapporto tra altezza e attributi.

La popolana, verace e vorace, contraddisse queste asserzioni, facendo commenti poco lusinghieri su dimensioni e irrorazione sanguigna dei corpi cavernosi e, devo dire, sia io che il compare non potemmo fare a meno

di buttare un occhio per controllare, trovando che pareva avesse ragioni. Certo, era abbastanza buio e penso lui fosse come al solito pippato fracico, quindi non possiamo esser sicuri. Claudia quella sera non rimase, per cui non fu possibile mandare in avanscoperta, per una verifica scientificamente valida, un testimone idoneo.

All’alba, dopo una notte di porcate, c’imbarcavamo sul traghetto delle 6,45 dal molo Beverello e un’oretta dopo aspettavamo Cristiano bivaccan-do davanti al suo diving.

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«Gli orgasmi inondano il corpo di endorfine che alleviano il dolore e ti calmano. I sessodipendenti in realtà hanno una dipendenza dalle endorfine, non dal sesso. I sessodipendenti hanno un bisogno folle della feniletilamina peptide che si produce in situazioni di pericolo, di infatuazione, di rischio e di paura» (nota*28) .

Come descrivermi meglio. Non è una stronzata, ho anche letto uno stu-dio del Caltech, una delle università più serie al mondo, sugli effetti della phenylethylamine (PEA) (nota*29) .

Ischia mi piaceva enormemente più di Capri perché era un’isola si, ma la vita era vera. Non quella sorta di palcoscenico modaiolo e pseudo-VIP della vicina. C’era turismo, gente col sorriso obbligatorio stampato in fac-cia e le creme abbronzanti perennemente in mano, ma tanta gente normale, lavoratori, indigeni indaffarati coi cazzi loro.

D’estate, nel periodo clou, aveva solo due difetti: i napoletani che sfrec-ciavano con i loro scafi a mezzo millimetro dal tuo cranio e la figa.

Troppa. Troppo esposta. Troppo faticosa da raccogliere e comunque non disponibile in rapporto corretto rispetto alla terrificante quantità.

Non ce la feci e ad agosto me ne tornai a casa da solo, lasciando Claudia a lavorare con i rec, che la divertivano. Settembre era un mese più indicato per riaffacciarsi da quelle parti.

*****Uscimmo da Ischia Porto con il mare che si era fatto grosso, si ballava,

davanti al promontorio.Avevamo l’ormeggio pronto e sicuro, ma c’era una certa agitazione

e confusione. Scesero in acqua prima due romani – uno era quello della configurazione tecnica nell’episodio dell’alpino, l’altro un suo amico tanto grosso quanto imbecille, narciso e cacasotto.

Claudia mi aveva dato ascolto e sul suo gav non c’erano più elastici. Saltai in acqua, bue che dice cornuto all’asino, equipaggiato veramente da schifo. Il gav era uno pseudotecnico di una ditta di imprenditori della ferramenta. Un vorrei-ma-non-posso schifoso. Assicurato a quello un mo-

nobombola Trimix, e davanti un altro quindici litri ad aria. Nei miei soliti tentativi di fare la squadra da solo e sopperire all’inanità delle persone che ci circondavano, il programma era, nell’ordine: scendere prima di Clau-dia sotto la Guglia, lasciare la bombola di aria, fiondarmi oltre il baratro intercettandola e filmandone la discesa fino a cento metri, risalire dandole un’occhiata, verificare che stesse tornando da una picchiata a centotrenta, recuperare la bombola d’aria e infine pinneggiare fino in porto. Oplà.

Saltai in acqua.Claudia seguiva. Un nostro teamer verificò l’apertura dei rubinetti delle

sue bombole posteriori.In quei casi, con mare mosso, invece di star a combattere in superficie,

sgonfiavamo i gav per essere negativi e saltavamo in acqua sprofondando fino a cinque, sei metri, dove il moto ondoso finiva. Là facevamo i con-trolli.

Quella volta li lasciammo perdere.Murphy, Murphy. Non c’è mai casualità dietro a una concatenazione di

eventi che porta all’errore macroscopico e alla tragedia.Pinneggiai a testa in giù per accellerare la discesa. In meno di un minuto

ero sul costone e lasciavo la bombola. Qualcosa mi vibrava dentro, sentivo che le cose non stavano andando come dovevano.

Un’esitazione, guardavo lungo la catena e non vedevo arrivare Claudia.L’elio trasmette il calore come il freddo esterno nel nostro organismo,

per cui avevo messo una frusta per caricare la muta stagna sulla bombola d’aria. Questa muta, a differenza di quelle classiche dette umide perché fanno entrare l’acqua, la intrappolano e la sfruttano come ulteriore spessore di protezione termica, sono del tutto stagne. Chi ha visto i film di James Bond o lo Schwarzenegger di True Lies (nota*30), sa che ci puoi entrare den-tro con uno smoking, anche se non garantisco sull’uscita inamidata.

Pompai dell’aria. Tanta. Ero diventato come l’omino Michelin e se non mi fossi lanciato di sotto m’avrebbe trascinato in alto. L’aria migrò soprat-tutto nelle scarpe di neoprene e queste si espansero al punto che temetti espellessero le pinne.

Mi era successo. A Santa Marinella, due anni prima.

nota*28) C. Palahniuk, Soffocare, Mondadori, Milano, 2002, pag. 23.nota*29) California Institute of Technology, Does phenylethylamine act as an endogenous amphetamine in some patients? Int J Neuropsychopharmcol 1999 Sep; 2(3):229-240

nota*30) Arnold Schwarzenegger, Jamie Lee Curtis, Tom Arnold, True Lies, diretto da James Cameron, USA, 1994.

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*****Con un carissimo amico detto er Frustone avevamo portato in mare due

spocchiosi buffoni della nascente comunità tecnica capitolina. Tragici, as-solutamente pieni di se, tronfi, convinti che l’andare a ramazzare le teorie e le mode statunitensi sulla rete facesse di loro degli uomini invece che degli ominicchi.

Con Frustone ci divertivamo a prenderli per il culo.Dovevamo fargli fare un’immersione su un relitto e invece li accompa-

gnammo sul fango.Mi ero comprato da poco una muta stagna a basso prezzo. Un copertone

o poco più. Il mio compare, noto animale, sosteneva che un vero subac-queo scendesse in acqua senza gav. Dato che sono più stupido di lui, non solo non misi il gav, che con la stagna in fondo, se sai nuotare e hai gambe in caso di rotture, si può anche fare. No, pensai bene di assicurarmi una bombola da dodici litri davanti, trasversalmente. Dopodiché, non contento, mi tuffai a testa in giù dal gommone.

Ridevo, giuro che ridevo sguaiatamente mentre cercavo di aprire il ru-binetto della bombola, ovviamente chiuso. Stavo a capa sotto. Le pinne erano state sparate via dall’aria, che si era compressa dentro la muta prepo-tentemente verso l’alto, mentre mi infilavo in acqua con quel tuffo disgra-ziato. Non riuscivo a girarmi, né ad aprire il rubinetto, incastrato. Guardavo le gambe del Frustone e degli altri e non smettevo di ridere perché sapevo esattamente quello che stava dicendo ai due, alquanto perplessi.

Alla intimorita richiesta di sapere se dovevano intervenire, aveva ov-viamente risposto di no, che andava tutto bene. Faccia imbronciata (im-bruttita, dicono a Roma), tono brusco, solo un tremolio del labbro inferiore che chi lo conosce sa individuare come segnale delle sghignazzate che sta reprimendo.

Quando ebbe deciso che forse stavo morendo, visto che da qualche mi-nuto non uscivano bolle, diede, magnanimo, l’assenso al recupero.

«Ao’, dateje ‘na mano che sennò s’affoghe!»Il sottoscritto vedeva ormai un velo nero calargli sugli occhi.Morire” quassotto” sarebbe darvi una soddisfazione, mai!Mi concentrai un’ultima volta prima di perdere conoscenza e, con uno

sforzo titanico, riuscì a spostare la leva (qualcuno si ricorderà quelle schi-fezze di rubinetti con la levetta che andava da destra a sinistra e viceversa e la chiusura a valvola a sfera).

Ahhhh, respirare. Presi un po’ di boccate, recuperai un minimo di ener-gia e finalmente, con una plastica contrazione delle ginocchia al petto, feci la capriola che ristabilì il corretto posizionamento testa/piedi.

«Tutto bene? Non siete ancora pronti a scendere? Stavo solo controllan-do due cosette».

*****Le pinne tennero. Mentre scendevo a palla di cannone tenevo la teleca-

mera scafandrata davanti a me. Vedevo una striscia di bolle, che dovevano essere di Claudia.

Mano a mano che guadagnavo metri e velocità comprimendo l’aria nel mio gav e nella stagna, iniziavo a percepire un suono che mi accapponava la pelle.

Uooo, uooooo, uooooo…Terrificante.A un certo punto la vidi e mi si raggelò definitivamente il sangue.Il video racconta la storia del mio aggancio. Prima che mollassi la tele-

camera e questa, positiva, ruotasse su se stessa salendo sempre più veloce verso la superficie, si sente il mio mugugnare, prima arrabbiato poi spaven-tato, che si sovrappone al gemere di Claudia.

Si era staccata anzitempo dalla cima di ormeggio ed era scesa veloce-mente sulla verticale della parete. Aveva fatto il passaggio dall’aria all’He-liair in profondità.

Si accorse subito che la bombola della miscela ternaria era chiusa e per un attimo aveva pensato di provare ad aprirla. Ma era molto negativa e quindi veloce.

Immediatamente aveva provato a gonfiare il gav per rallentare la disce-sa ed era passata ad aria, sui novanta metri, con una forte botta narcotica. A rendere le cose pericolosissime, le si era rotto il tubo corrugato che portava l’aria della bombola al giubbetto di assetto.

Quando scaricammo il profilo del computer fu evidente che era riuscita a stabilizzarsi, ma perdeva piano quota e avrebbe cominciato in breve a sprofondare verso il fondo a duecento metri. Sarebbe probabilmente morta affogata prima di arrivarci.

Il mio impatto col suo corpo fu brusco. Tenni la telecamera per un atti-mo e poi la mollai.

Claudia ripeteva continuamente il gesto di tirare in avanti il corrugato.

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Era una coazione. Pensandoci più tardi avremmo potuto riflettere sulla giu-stezza dell’eliminare il cavetto metallico che proprio con quel gesto con-sente nei gav ricreativi di scaricare l’aria. Una persona in quelle condizioni perderebbe la galleggiabilità proprio quando le servirebbe di più.

Nel suo caso il problema non si poneva minimamente. Il gav aveva due camere interne. Una era scarica e impossibile da caricare per lei, visto che la bombola era chiusa. L’altra perdeva gas dal pezzo di corrugato strappato.

La sua salvezza, anche se era prematuro dirlo, era stata aver tolto i lac-cetti elastici: il gav si era dispiegato ad ala, abbracciando il bibombola e non si era sgonfiato del tutto. Parte del gas era intrappolata nella parte di sacca che si manteneva più alta rispetto al foro.

Se avessi avuto tempo, un buon equipaggiamento e se fossi finito alle sue spalle, forse avrei potuto ispezionare l’attrezzatura e capire il proble-ma, risolvendolo lì. Ma non andava così.

Provai a metterle davanti il mio erogatore pensando che avesse un pro-blema di gas, ma andai subito in affanno e lei si muoveva scompostamente, rischiando di strapparmelo di mano. Il suo grido era in realtà il suono di un costante balbettio interno. Claudia parlava con se stessa, con tono lamen-toso, e quel suono si trasformava nello Uooooooooo ripetitivo che avevo sentito.

Quando siamo un po’ storditi, lassotto, parliamo tra noi ad alta voce. Non so bene perché, ma è così.

Un’alterazione massiccia ci fa produrre quel suono, che gli americani scrivono Wha Wha.

Intanto pinneggiavo furiosamente verso l’alto, cercando di produrre una diagonale che mi portasse verso la roccia, distante alcuni metri.

Cercavo freneticamente di ragionare. Non sapevo quanto gas avesse e cosa stesse respirando. Non potevo farle cambiare erogatore laggiù, in quello stato non sarei riuscito ad assicurarglielo in bocca e se cominciava a bere era morta.

Non potevo nemmeno rischiare una risalita libera, quando finalmen-te saremmo diventati positivi la velocità poteva diventare incontrollabile. Addosso non avevo altre bombole, quindi dovevamo assolutamente restare insieme di modo che potessi usare le sue decompressive.

Pinneggiavo, urlavo, pinneggiavo, tiravo.Per due volte, stravolto, pensai di abbandonarla, che saremmo morti

entrambi e che dovevo provare a salvarmi. Per due volte continuai a pin-

neggiare, a tirare e a urlare.Da centocinque arrivammo a cento, e poi a novanta e infine a una settan-

tina di metri toccai la roccia cominciando a tirami su con un braccio mentre con l’altro abbrancavo Claudia.

Sopra di me vedevo la catena e la sua cima. La salvezza. Forse.Claudia cominciava ad agitarsi di meno, e a un certo punto mi sembrò

che si riprendesse.Arrivai alla catena e cominciai a sollevarci su di essa. Sentivo il mio

erogatore che si induriva e agganciai la cima con le gambe, tenendo sempre Claudia e cominciando ad aprire le bombole deco.

Ero stanco, stravolto. Da qualche parte durante quella risalita si riprese del tutto e tornò la mia Pciucka di sempre. Parlava, come al solito, inarre-stabile. Voleva spiegarmi tutto lì, sul momento. Le feci una carezza invece di incazzarmi come sempre, e ritengo sia stato uno dei segni più tangibili del fatto che non ci avevo scommesso un soldino bucato sull’happy end.

La sera, rivedendo il filmato, Claudia rideva e descriveva le sue sensa-zioni, anestetizzata dalla narcosi, io avevo la febbre forte per lo choc.

Quella storia cambiò molte cose e in parte è una delle cause della suc-cessiva morte di Cristiano.

Lui si spaventò, molto, forse più di noi. Claudia ne era uscita abbastanza tranquilla, con rinnovata fiducia nel compagno che le faceva da spalla. Per me fu comunque un’iniezione di convinzione nei miei mezzi e nella possi-bilità di gestire l’assurdo nell’abisso.

Cristiano, invece, decise che da quel momento sotto i centoventi non ci sarebbe più andato, e questa posizione fu rafforzata da un altro incidente in cui fu lui a salvare la pelle a un fotoreporter di fama, sempre nello stesso posto.

In qualche maniera, la certezza che bastava non eccedere con la profon-dità e il sentirsi a casa a ottanta, novanta metri, gli fece sottovalutare altre cose, causando la sua stessa fine.

Non è tanto il rischio, né l’errore ad ammazzarci, ma la loro sottova-lutazione.

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VIDA CENTOVENTI A ZERO IN TRENTA SECONDI

Il record a Ischia non si fece mai più. Non a causa di quell’episodio, come alcune malelingue sussurrarono, ma per problemi diciamo così di ordine pubblico, che racconterò in qualche altro libro, visto che ho preso il via della pubblicazione delle mie storie.

Sei mesi dopo ci trasferimmo in nord Italia, per provare a farlo in un lago, che ci garantiva minor necessità di supporti logistici (leggi barche) e maggior garanzia di acqua piatta.

In un primo tempo pensammo al Garda.Dopo un salto da Bari (dove abitavamo) a Londra in Fiat Panda per par-

tecipare alla prima conferenza di subacquea tecnica in quel paese, riscen-demmo giù, al di qua delle Alpi, venendo fermati dalla Polizia un giorno si e l’altro pure.

La macchina era stracolma di roba e oltre a me e Claudia c’erano mia figlia e il suo ragazzo brasiliano.

La storia è lunga e la sintetizzo in poche righe. A diciassette anni mi sono messo con una tizia della mia città, il capoluogo pugliese appunto, e abbiamo vissuto le nostre avventure insieme per tre anni. Nell’81, a ventun anni, abbiamo avuto una bellissima bambina, Alice Luna.

Lei ha abitato con la mamma nei successivi otto anni a Parigi, poi si sono trasferite in Brasile. Da lì proveniva col ragazzo in quel gennaio 2000, e lì sarebbe tornata a febbraio, partendo da Malpensa.

A Londra non potevamo esimerci dal dragare Kensington Road e din-torni. Ne uscimmo lei con i capelli tinti di rosso e io tinti di blu elettrico.

Quella sera, abbastanza ciucchi, facemmo una storica foto con Jim Bowden, il recordman speleosub texano dai capelli bianchi, che sembrava una manifestazione di esacerbato nazionalismo pan-francese o pan-ameri-cano.

Insomma, tra frontiere e autostrade, alle guardie questi tizi dai capelli punk non la raccontavano giusta, per cui ci paravano in continuazione.

Lasciata Alice all’aeroporto, proseguimmo per il Garda passando da Gallarate, sede del noto ometto citato, e da Bergamo, dove risiede e ha la sua attività uno degli istruttori citati nel racconto sull’aria esaurita al Mag-giore, nostro sponsor per i gas respirabili.

La sede degli allenamenti e prima opzione per il record era Riva del

Garda. Nel paesino confinante, Torbole, avevamo preso un appartamento. A Riva ci allenavamo al porto, comodissimo per il parcheggio e una parete che cominciava con uno scalino roccioso sotto poche decine di centimetri d’acqua, in cui mettevamo sulle spalle le bombole per tuffarci senza alcuna fatica nell’acqua gelida.

Non avevamo esperienza dei laghi, a parte un po’ di immersioni fatte a Bracciano anni prima e nel Maggiore per i corsi istruttore.

Tutta roba sostanzialmente poco edificante.A gennaio il Garda era grigio e freddo, ma praticamente sempre una

tavola.Ci serviva soprattutto acclimatarci al freddo e fu abbastanza traumatico

scoprire che dopo un’oretta di immersione le labbra si desensibilizzavano e cominciavano a far sempre meno presa sul boccaglio.

Mi ero sempre chiesto perché certi erogatori svedesi avessero dei boc-cagli abnormi, che sverginavano le bocche più elastiche. Ora avevo la ri-sposta.

Il posto scelto per il record stava esattamente sulla sponda opposta. Tempesta, un sobborgo di tre case della già minuscola Torbole.

Palestra dei sub, una discesa verso l’abisso a gradoni, attrezzata da un centro subacqueo locale con un’area delimitata segnalata da alcune boe galleggianti.

Facemmo una visita al laboratorio di Idrobiologia, che stava ai piani superiori della ex fortezza austrungarica di Riva, proprio dove facevamo le immersioni.

L’acqua era sempre alla stessa temperatura oltre i cento metri per tutto l’anno. Le uniche variazioni misurate che si modificavano sostanzialmente erano quelle del termoclino superficiale, che viene influenzato dalle sta-gioni.

Avremmo fatto una deco al freddo, ma quella era la parte più facile e ci interessava di meno.

Ci preoccupava soprattutto il congelamento degli erogatori. Pochi sanno che è stato calcolato che l’aria respirata dalle bombole ha una temperatura media inferiore di quasi trenta gradi a quella ambientale. Significa respirare gas intorno a –20° C. se l’acqua circostante, come nel Garda, è a 7°C.

Il problema, a parte il raffreddamento rapido del nostro organismo, era che si poteva verificare un blocco per congelamento del primo stadio.

In realtà ciò che fa congelare quest’ultimo non è tanto la temperatura,

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quanto l’acqua che vi entra. Un erogatore secco è solo un pezzo di metallo ghiacciato, in cui niente ostruisce i canali di passaggio dei gas. Viceversa, se in quest’ultimi ci fosse una importante componente di vapore acqueo, a basse temperature si potrebbe verificare la formazione di ghiaccio e l’o-struzione dei millimetrici forellini.

La soluzione fu prestare attenzione particolare durante le ricariche delle bombole che effettuavamo noi stessi durante gli allenamenti, spurgando i filtri della condensa del compressore con maniacale frequenza, e procedere con un protocollo diverso i giorni pre-record e per il record stesso.

Anche per quello decidemmo di spostarci successivamente sul Lago di Iseo. Era vicino alle sede del nostro amico e sponsor, che ci ricaricava ogni volta le bombole, provvedendo prima a svuotarle completamente con un aspiratore per sottovuoto, per poi immettervi gas sintetici e quindi assolu-tamente secchi.

Le giornate di allenamento a Riva trascorrevano tranquille. Eravamo soli.

La mattina ci svegliavamo di buon ora, facevamo una corsetta e poi andavamo sul luogo di immersione, scaricando bombole e compressore dal carrellino che avevamo dietro la macchina.

A volte nevicava, a volte pioveva, ma sempre con discrezione, senza disturbarci affatto.

Solo la domenica il posto si riempiva di subacquei, a centinaia, prove-nienti da Trento ma anche dall’Emilia, dal Veneto. Tempesta era frequen-tata anche da toscani e romani, che salivano per fare immersioni tecniche senza l’angoscia delle perturbazioni che rovinavano al mare i fine settima-na.

Quando c’era tutta quella folla evitavamo di comparire. A me veniva la nausea.

Fece eccezione una domenica, giornata di sole che anticipava di mesi l’esplosione della Primavera, in cui decidemmo di sobbarcarci quell’an-goscia.

Portammo le bombole più in fondo possibile sul lungolago, alle spalle del molo portuale.

Dovemmo fare lo slalom tra un’infinità incredibile di soggetti.Da una parte c’erano tizi dall’aria macho che si vestivano con mute

Viking tutte uguali, con l’aria di dire ehi, guardaci, siamo noi i più cazzuti del luogo. Peccato che i monobombola testimoniassero impietosamente un

range operativo esattamente identico a quelli equipaggiati di mute umide e snorkel (nota*31), che combattevano il freddo con l’entusiasmo e lo spirito di sacrificio dei novizi.

Quel giorno ci vennero a trovare dei ragazzi di Trento, che volevano fare qualche ripresa.

La mia immersione fu breve, la muta s’era rotta ed entrava acqua, an-tipatica con quel modello, fatto di tessuto impermeabilizzato da gomma. Non galleggiava e in caso di allagamento diventava pericolosa, lascian-doti praticamente nudo e appesantendosi come una zavorra. Aspettavamo a giorni modelli diversi, fatti di neoprene e su misura, con caratteristiche di galleggiabilità e protezione termica ideali per quel tipo di immersione.

Mentre preparavo la roba per andarcene, senti un urlo accorato, qualcu-no chiedeva ossigeno per un infortunato.

Presi una delle nostre bombole deco e mi affrettai verso la fortezza.Un capannello di curiosi guardava verso l’acqua, immobili, ciarlanti.

Una tizia, istruttrice o guida, borbottò acida che si svolgeva un addestra-mento, alla domanda di un allievo. Altri erano visibilmente preoccupati.

A venti metri dalla riva, appena sul bordo del costone roccioso som-merso, galleggiava un corpo. Aveva l’aria di un incosciente lontano un chi-lometro. C’erano subacquei che gli passavano vicino uscendo da un’im-mersione e gridammo loro di prenderlo, ma niente. Ero vestito con la tuta da ginnastica, loro in muta, e se avessi avuto un lanciafiamme e li avessi pagati con un paio di mesi soltanto di galera, sarebbero stati già tutti cada-veri abbrustoliti.

Saltai in acqua scivolando sulla roccia coperta di alghette e fracican-domi. Bestemmiavo e insultavo l’universo. In poche falcate incerte fui sul corpo e lo trascinai verso la folla, dalla quale qualcuno finalmente si era deciso a muovere il culo. Aveva una faccia già vista, cereo, con bava mar-rone e schiuma biancastra che fuoriusciva dalla bocca. Pallonata, sicura lacerazione polmonare, embolia, forse già morto.

Quel disgraziato galleggiava lì da almeno dieci minuti.Mentre gli cercavamo di praticare una respirazione artificiale sul prato,

al bordo del muretto che dava sull’acqua, si accostò un subacqueo in lacri-me e la storia fu subito chiara. Era un maresciallo dei carabinieri, caposta-

nota*31) E’ il tubo di plastica che serve per respirare senza bombola in superficie, tipico dei subacquei ricreativi meno esperti.

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zione di qualche paese non lontano, che faceva per hobby l’istruttore. Quel giorno si era portato alcuni allievi, tra i quali quel tizio, un suo sottoposto, provando la muta stagna appena acquistata.

A una cinquantina di metri aveva avuto qualche problema, o con la sta-gna, o un malore, o la narcosi… probabilmente tutto insieme, come al soli-to. Il collega, inesperto, l’aveva soccorso. Impaurito dal rischio di malattia da decompressione, probabilmente incapace di controllare la situazione e portare la vittima su, aveva optato per la soluzione più semplice, gonfiargli il gav e spararlo su. Spararlo, si, in tutti i sensi. Da un lato l’azione combi-nata dell’aria che si espandeva risalendo in gav e muta, aveva accellerato esponenzialmente la velocità. Se quel maresciallo aveva qualche chance, a meno che per culo la testa non si fosse posizionata indietro aprendo le vie respiratorie, il normale reclinare in avanti del capo di un incosciente, mantenuto così dall’attrito dell’acqua in risalita, aveva chiuso la trachea bloccando il gas all’interno del corpo. La sua espansione esplosiva doveva aver squarciato i tessuti.

D’altro canto, non aver accompagnato gradualmente l’uomo su e aller-tato i soccorsi, con quella massa di inetti superficiali pagliacci domenicali, era equivalso a lasciarlo galleggiare inanimato per minuti preziosi, in cui la malattia da decompressione si era rapidamente aggravata.

L’idea di star soffiando aria in quella bocca vomitosa di un caramba con cui ventanni prima forse ci saremmo tirati pistolettate, mi faceva ridere nonostante la situazione. Tra l’altro per me ormai era morto.

Come da manuale, una volta superata l’indifferenza della massa dei pe-coroni, stava scattando la fase del largo-ci-penso-io.

Si erano raggruppati nel classico capannello a cerchi concentrici, mor-bosamente affascinati dall’immagine di come ciascuno di loro poteva pri-ma o poi finire steso per terra.

Un paio di tizi avevano iniziato a criticare arrogantemente le operazioni di CPR (rianimazione cardiopolmonare). Oh, si accomodassero, se gli ve-niva il cazzo duro all’idea di poter raccontare d’aver baciato un cadavere e inghiottito i suoi fluidi, c’era spazio e tempo per tutti.

L’elicottero del 118 arrivò venti minuti dopo, per altri venti minuti cin-cischiarono con defibrillatori e mascherine d’ossigeno e poi qualche anima pia stese sul corpo una coperta che nascondesse a quelle iene affamate la vista del cadavere, in attesa del magistrato.

Noi eravamo già andati via e ci raccontarono la fine più tardi in un pub,

davanti a una birra fresca e un panino con hamburger e patatine fritte.Ci spostammo sull’Iseo i primi di marzo.Nel corso della mia attività professionale ho contratto un numero estre-

mamente alto di mdd diciamo minori. Dopo un po’ di tempo, quando ci siamo accorti che la maggior parte dei subacquei non le nota, scambian-do i sintomi per raffreddori, dolori articolari, stanchezza o altro, si è fatta strada una certezza. Il mondo dell’industria subacquea (medici, giornalisti, didattiche, aziende e operatori turistici), è unito e complice nel negare a spada tratta qualsiasi aspetto negativo. Nei corsi istruttori della più grande agenzia al mondo, se un candidato, durante l’esposizione di una lezione, fornisce una qualsivoglia impressione di rischio, viene bocciato per aver dato un’immagine negativa. Il rischio di incidente, le statistiche di questi e della mortalità, sono falsati e nascosti.

Noi, semplicemente, prendevamo coscienza che ci facevamo più o meno male.

Ad un certo punto, per me, le mdd minori sono diventate come qualsiasi contrattura, botta e infortunio che si prende giocando a calcio, a rugby, sciando o cavalcando. Ordinaria amministrazione.

Ho cominciato a vedere la subacquea come una attività in cui si scende, si fa del male al nostro corpo e lo si guarisce, più o meno, risalendo.

Acido acetilsalicidico per rendere la circolazione del sangue più fluida e aumentare lo scambio gassoso, antinfiammatori e antidolorifici, vitamina E antiossidanti vari, sono comparsi e si sono insediati stabilmente nel set da viaggio e nell’armadietto del bagno di casa.

Tutto, secondo me, è questione di scelta consapevole.Dopo dieci anni di attività estrema ho tre dita del piede sinistro peren-

nemente semiaddormentate, alcune fasce del quadricipite sinistro necrotiz-zati, una fastidiosa desensibilizzazione cutanea.

Ho ricostruito la struttura muscolare potenziando fasce che non usavo nell’area colpita, me ne frego della desensibilizzazione, che anzi torna utile (provo meno dolore quando mi ferisco e ho maggior tolleranza al freddo), trovo i fastidi sopportabili.

La maggioranza di noi non sa quanto i pesticidi nei cibi o le radiazioni di Chernobyl e Three Mile Island siano causa dei tumori al seno o alla pro-stata che contraiamo. Non sappiamo realmente che responsabilità abbiano le sigarette fumate dai nostri genitori, parenti e congiunti in casa o i pesti-cidi della rivoluzione verde nei cibi sulle malattie del nostro organismo.

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Quanto mi faranno male le mie mdd, alla fine? Non lo so, sinceramente non me ne frega niente.

Quello che mi preoccupa sono le midollari, che sono appunto le malattie da decompressione più pesanti e pericolose.

Ne ho contratte due, e sono loro che hanno lasciato traccia non solo sul corpo, ma anche sulla mente.

Mi spaventano perché potrebbero non ammazzare, ma lasciare storpi, paralizzati, per tutto il resto della vita.

La prima mdd grave, grave sul serio, la beccai proprio quel 17 marzo del 2000, in quel lago.

Ci stavamo allenando ormai da qualche giorno con delle difficoltà. E’ un lago fetente l’Iseo. Il Garda è abbastanza luminoso, probabilmente per-ché più grande e quindi riceve bene la luce solare. Sono entrambi di origine glaciale e molto profondi, fino a oltre 350 metri, ma l’Iseo, parecchio più piccolo, ha le montagne che lo stringono d’assedio e lo tengono in ombra. Il Maggiore è altrettanto trasparente, però più buio, intermedio tra i due. Senza luce artificiale non si leggono i dati dei computer da polso sui cen-to metri nel Garda, verso i sessanta nel Maggiore e sui trenta, quaranta, nell’Iseo.

Il luogo dove si immergevano i nostri amici e dove avremmo fatto il record era poco distante da un cementificio. Posto spettrale, la roccia cade direttamente sulla strada che costeggia il lago dal lato opposto Brescia.

Il cementificio ha una brutta cava, che apre una ferita grigia nella mon-tagna.

Il primo giorno io e Claudia avevamo pinneggiato nell’acqua gelida, di tre gradi più fredda che al Garda, fino a un centinaio di metri dalla riva. Ci guardavano, i locali, scuotendo il capo.

«Ma scendete senza luci?» Aveva chiesto uno.«Seee, tanto siamo abituati e non andiamo fondo, solo fino a 80 a dare

un’occhiata…» era stata la mia risposta.Sguardi dubbiosi.Con noi in acqua un ragazzo romano, er Pomata. Figlio di palazzinari

e ristoratori, BMW giallo canarino ribassata, muta stagna DUI TLS con scarponcino RookBoot alla moda, tutto ao so er mejo.

Dopo tre sgambate fece retromarcia.Va be’, non si può avere tutto dalla vita, dovevamo sopportare la figura

di merda e cinque punti in meno.

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Arrivati sul punto che poteva andare, un nulla in mezzo all’acqua, ci guardammo un attimo e sgonfiammo i gav.

L’acqua era verde, poco limpida, fredda.A trenta metri, senza degnarsi di avvertire, da verde diventò improv-

visamente nera.Feci appena in tempo ad allungare il braccio e toccare Claudia per se-

gnalarle di interrompere e risalire, che era scomparsa.Trattenendo il respiro sentii il gorgoglio delle sue bolle e poco dopo,

mentre ritornavo su spinto dal gas immesso nel giubbetto, ne vidi la traccia.Mi fermai un attimo per capire se saliva o se aveva continuato alla cieca,

ma eccone la sagoma indistinta.Nuotammo scocciati verso riva.Facce divertite.Decisamente avevamo suscitato una certa perplessità sulle nostre reali

capacità.C’era comunque tempo per rimediare, e così fu nei giorni successivi.Luci, compagni di immersione, partenze da riva scendendo lungo il fon-

do digradante rapidamente, ci familiarizzarono con locali e lago.Sembrava brutto, era anche peggio.Avevamo deciso di non caricarci di gas inerti eccessivi prima del gran

giorno. Parte di ciò che si introduce nel nostro organismo deve essere espulso per risalire, ma una certa quantità resta e non fa male, venendo desaturato in superficie nel tempo. Per questo vengono fatti dei calcoli per stabilire la durata delle immersioni successive alla prima in cui l’organi-smo non ha saturato nulla.

La mattina di quel venerdì 17 non ero affatto contento. Non sono super-stizioso, l’ho già detto e ripetuto, ma non vedo perché si debbano andare a stuzzicare certe radicate opinioni.

Avevamo un gommone appoggio e provavamo l’equipaggiamento esat-to del giorno dopo.

Si scendeva a centotrenta, se non mi sbaglio, su una cima con dei pesi sotto e una boa sopra. Dovevamo provare una configurazione decisamente idiota, che era stata proposta da Jim Bowden nei suoi exploit a oltre due-centottanta metri nel cenote di Zacaton.

Due gav monosacca uno attaccato all’altro, tra schienalino metallico e bombole, invece di un’unica sacca con due camere gonfiabili separate in lattice interne. L’idea era che se qualcosa penetrava nella sacca e bucava

una camera, faceva lo stesso con l’altra. Separandole con due strati di tes-suto Cordura™ il problema non si poneva. Macchinoso.

Andammo giù.A un certo punto il pulsante di carico della sacca posteriore andò in ero-

gazione continua. Non chiedetemi perché, non l’ho mai capito.Il gav cominciò a tirarmi verso l’alto. Cercai di prendere il corrugato,

ma si era messo dietro, tra bombola e sacca, e avevo qualche difficoltà. Presi al volo la cima per bloccarmi e con la luce segnalai a Claudia di in-tervenire, mentre scaricavo il gas da una delle valvole di emergenza. Lei non capì un tubo.

Era buio, i segnali impossibili tra sciabordare di luci, visibilità reale venti centimetri e bolle. Lei mi era un po’ sotto, se non ricordo male, molto vicina perché se no non potevamo vederci per niente, e la sua respirazione mi mandava una colonna di aria gorgogliante in faccia.

Il peso di zavorra del cavo era decisamente leggero, per consentire ai due ragazzi sopra di tirarlo su senza ammazzarsi di fatica, e cominciò a venire su insieme a me, che tenevo stretta la cima.

A un certo punto mi ruppi il cazzo, letteralmente.Con un vaffanculo alla direzione della mia socia e del mondo lasciai la

presa. Ci mancava solo che mi portassi via la cima di risalita che serviva anche a lei per qualsiasi evenienza. Stavamo a cento metri nel nero assolu-to, non a fare una passeggiata di salute.

Mentre venivo su cercavo di sistemare le cose, rallentare la velocità. Inutile.

«Che sta succedendo, guarda quante bolle…»«Allontanati, allontanati ch’è meglio! »Il dialogo dei due su fu breve, il gommone fu spostato appena in tempo

da vicino alla boa che io saltai fuori come un missile Patriot lanciato da un sommergibile nucleare. Se lo prendevo con una craniata lo affondavo.

Guardai i due compari in cagnesco e chiesi una bombola di ossigeno, dato che come nella configurazione del record non ne portavo, delegando allo staff di assistenza il compito di rifornircene.

La presi e scesi giù.Mi ero fatto male. Sentivo dolore al petto e prima di immergermi nuo-

vamente avevo sputato un grumo di sangue e muco. Allegria.Le pallonate ad elio peggiori si curano recomprimendo la vittima in

camera iperbarica fino a una massima profondità di cinquanta metri. Oltre

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pare che sia inutile. O forse è solo che hanno stabilito questo protocol-lo perché le ditte di solito non costruiscono camere omologate per essere compresse a più di sei atmosfere o Bar (nota*31).

Chi come noi lavorava e praticava subacquea profondistica ed estre-ma senza avere l’ausilio delle camere, aveva elaborato un protocollo di ricompressione in acqua (RIA), mutuato dai protocolli medico-ospedalieri, tenendo conto del fattore quantità di gas reale disponibile durante le im-mersioni e della necessità non di curare, ma semplicemente di contenere la malattia e superare il suo aggravamento, fino a un ricovero in struttura idonea.

Ero arrabbiatissimo. Come avrei fatto il giorno dopo per il record?Cominciai a risalire da cinquanta, e dopo una ventina di metri sentii che

i dolori da mdd mi prendevano dappertutto. Non avevo abbastanza gas per chissà che ricompressione terapeutica e comunque sentivo freddo, ero solo e non stavo più sulla cima. Se avessi perso conoscenza sprofondavo e tanti saluti.

Feci delle tappe respirando ossigeno molto profondo, per darmi una ri-pulita, ma sentivo di aver bisogno di ben altro.

Mi stufai. Si, lo so, sembra assurdo, ma mi stufai.Medito sempre più sulle immersioni molto profonde perché da anni ho

un’insofferenza terrificante verso le soste decompressive, e l’ossigeno mi irrita i nervi ancor di più.

Credo che smetterò di scendere molto profondo, di cercare di fare re-cord, più per questo mio limite che per il rischio sul fondo.

A un certo punto mi parte qualche rotella e decido di uscire.E lo feci quella volta, di punto in bianco, limitandomi alle tappe deco di

una immersione normale.In poche ore stavo malissimo. Dolori dappertutto, insensibilità e formi-

colio, la gamba sinistra gelida, una stanchezza infinita.Non volevo che mi portassero in camera iperbarica, non volevo rinviare

ancora il record né lasciare Claudia completamente sola.Non c’era una sola persona lì che potesse darle assistenza sul serio,

avevamo cominciato quel trend assurdo che poi si protrasse nel tempo, per

cui scendevamo a fare i record avendo paura per il buon 90% dei nostri assistenti.

La sera, risalendo in camera dopo cena, la gamba sinistra cedette e caddi per terra. Alleluia.

Mi buttai a letto e non chiusi occhio.Claudia ogni tanto si svegliava, poveraccia, già spaventata per i fatti

suoi, e mi chiedeva come stavo.Aspettavo di pisciare, ecco come stavo. Sapevo che se non si urina le

cose sono gravi sul serio e si producono danni irreparabili.Ricompressione e catetere, d’urgenza.Pagatele voi le bollette, i debiti.Pagatele voi le spese di un’impresa sportiva che ci faceva sborsare de-

cine e decine di milioni con un rientro da parte degli sponsor inesistente, corrispondente solo a una diminuzione dei costi da sostenere.

Dovevo resistere, non si poteva rinviare ancora, avremmo chiuso bot-tega.

Alle quattro di notte uno stimolo si concretizzo in qualche goccia di pipì. Ok, era fatta, ora dovevo solo cercare di dormire, anche solo per un’ora.

Non dormii per niente.Il resto è storia.Claudia conquistò il primo record del mondo subacqueo con miscele,

ufficializzato da un cartellino del cazzo.Quella donna straordinaria, che è così confusionaria e pasticciona che

si pensava se avesse avuto un problema sarebbe morta da sola, lasciandosi dietro due figlie e un coro di critiche e insulti, mi salutò a cento metri e scese nel nero, avendo fatto forse cinque immersioni sui cento metri in un lago, trenta in tutto nella sua vita così profonde.

Nessun suo record e impresa, poi, è stato come quello.La profondità non era granché, solo sei mesi dopo, da quei centosessan-

tacinque metri avremmo cominciato gli allenamenti per i duecentoundici.Nel Lago di Iseo, quel giorno, fu qualcosa di straordinario.Avevo deciso di restare appeso lì ad aspettarla, ma scesi di altri trenta-

quattro metri prima di vedere la sua lucina che risaliva, perché ritardava e non ce la facevo ad attendere oltre con quell’ansia.

La gamba sinistra era un pezzo di ghiaccio, ma quella sprofondata mi fece del bene. Credo che nessuno mai si sia curato con una ricompressione a meno 134 metri, è uno dei miei record personali.nota*31) La pressione sott’acqua si calcola sommando alla prima atmosfera, che corrisponde

alla superficie del mare, una aggiuntiva ogni dieci metri di profondità.

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Claudia mi raggiunse e a quella quota, come al solito, mi volle spiegare come era andata. Come era scesa fino a centosettanta metri, ma avesse per-so il cartellino per il freddo alle mani e l’avesse poi inseguito per un paio di metri, rischiando di perdere anche la cima.

Claudia… che incredibile mix di coraggio e ottusità, di bontà sconfinata e approssimazione, rivoluzionaria e conservatrice, venuta con me fino alle stelle e giù sino alle stalle.

Quello è il suo vero record, che nessun subacqueo, maschio o femmina, ha ancora saputo battere.

A riva, un omino in cerata gialla, mentre parte del team ci aspettava sulla barca appoggio (una roulotte appoggiata su quattro longheroni di al-luminio galleggianti), dava le sue indicazioni ai nostri collaboratori. Se qualcosa fosse andato storto, diceva, bisognava prendere le distanze.

Perché «porco dio, nel lago si muore e quei due sono pazzi!», diceva con voce tonante e ducesca, camminando nervosamente con le mani in-trecciate dietro le spalle, a passettini rapidi e nervosi, unica andatura con-sentita dalla bassa statura.

…la maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo, fino a dire che un nano è una carogna di sicuro, perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo (nota*31).

VIINON TE LA DO…

Ogni anno si tiene la fiera nazionale della subacquea sportiva e turistica. Viene organizzata da un’associazione che riunisce gli operatori del settore e che negli anni si è ridotta sostanzialmente a fare solo quello, curando gli interessi di una ristretta cerchia di aziende che ne alimentano lo scarso potere economico.

Dopo il record dell’Iseo ci recammo a Bologna, il cui impianto fieristi-co ospitava per quell’edizione la manifestazione, che si chiama European Diving Show, o EuDi per gli introdotti.

Doveva essere passato meno di un mese, fatto sta che ero ancora molto provato fisicamente.

La sera del record di Iseo riuscivo a tenermi in piedi ma a fatica, la gam-ba sinistra mi sosteneva poco e quando andammo a ballare per festeggiare, produsse una serie di swing involontari che mi fecero passare per ballerino originale e pittoresco.

Odiavo l’idea di optare per la terapia in camera iperbarica. Tra l’altro, la teoria che andava per la maggiore tra i medici era che passate un tot nume-ro di ore da un incidente, se la vittima non peggiorava e non era dunque ri-chiesto un intervento per evitarne la morte, non servisse comunque a nulla.

La mia opinione nei confronti dei medici iperbarici è sostanzialmente qualcosa di molto vicino allo zero assoluto.

E’ una specializzazione post-laurea presa all’Università di Chieti, dove il padre-padrone della categoria ha occupato militarmente una cattedra di Fisiologia e dagli albori sforna uno stuolo di personaggi di secondo piano, che cercano malamente di ritagliarsi un posticino al sole.

La specializzazione ha avuto un periodo di splendore all’inizio, quando oltre a vivere di luce riflessa delle ricerche innovative e originali del suo mentore, una società privata inviava i giovani medici in giro per cantieri archeologici e camere iperbariche di emergenza sulle isole. Poi il tesoriere scappò con la cassa, lasciando un buco di svariate centinaia di milioni. In qualche modo quell’episodio coincise con una crisi di idee, contenuti e figure umane da cui non si sono più ripresi.

nota*31) Un Giudice, di F. De André - G. Bentivoglio - N. Piovani

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*****

Avevo avuto a che fare con il sistema della medicina iperbarico-subac-quea nel ’95, alla prima stagione come istruttore subacqueo professionista.

Con Claudia avevamo acquistato un po’ di attrezzature e un gommonci-no, col quale portavamo gli allievi su alcune discrete pareti rocciose a sud di Civitavecchia, partendo da una spiaggia di ciottoli.

Facevamo parecchie immersioni durante la giornata e alla sera caricava-mo tutto in auto, attaccavamo il carrello col gommone e tornavamo a Roma dove abitavamo, lasciando tutto l’equipaggiamento nel garage del nostro maestro, lungo strada, a Cerveteri.

Una domenica feci una delle cose che scoprii in seguito provocavano numerose malattie da decompressione alle guide e istruttori.

Dopo tre o quattro immersioni ripetute, avevo accumulato una certa quantità di azoto residuo nell’organismo. Niente di importante, erano tutte discese entro i dieci, venti metri. Sarei tornato a casa tranquillamente come al solito e quella quantità di gas inerte avrebbe desaturato nei pochi giorni successivi.

All’ultimo, invece, mentre stavamo togliendo l’ormeggio per portare il gommone a riva, caricarlo ed andarcene, si incagliò l’àncora.

Ovviamente eravamo stanchi e abbrutiti, non vedevamo l’ora di andar via.

Il fondo era a pochi metri, forse sei, forse dieci, non di più.Non feci altro che tuffarmi in acqua e, scendendo in apnea, liberai l’àn-

cora.Già mentre tornavamo in città, inchiodati nell’interminabile coda serale

sull’Aurelia antica prima del tragico semaforo di Torrimpietra, iniziai a sentirmi stanchissimo, prostrato.

Arrivato a casa crollai a letto, piombando in un sonno febbricitante. Dopo alcune ore mi svegliai con un dolore acuto al mignolo della mano destra, che cominciava a irrigidirsi come in preda a un crampo irrisolvibile.

La mia prima mdd lieve, ordinaria, altra amministrazione che quella contratta nell’Iseo descritta sopra.

Robetta, in seguito ci avrei riso, ma quella notte non eravamo così al-legri.

La mattina dopo Claudia mi accompagnò al Policlinico Umberto I, dove c’è una camera iperbarica.

Il dottore di turno riscontrò una malattia da decompressione, disse che a quel punto erano passate oltre sei ore e che doveva essere stabilizzata e formulò la frase più famosa della medicina subacquea: «impari a fare più attenzione e ora stia lontano dall’acqua per sei mesi».

Gliela insegnano con un corso apposito, ne sono certo.Piuttosto perplessi, pensando alle bollette da pagare e alla stagione esti-

va di lavoro ancora ben lungi dal terminare, ce ne andammo con una pessi-ma impressione di quel tizio in camice e zoccoli.

Mentre giravamo per i sotterranei, una voce ci chiamò dalle spalle. Era l’infermiere che stava in piedi al fianco del tavolino del medico, e non aveva profferito parola durante il colloquio (non c’era stata alcuna visita, detto en passant).

«Aspetta. Ciao, sono un tecnico iperbarico, lavoro qua. Sono un subac-queo anch’io. Il dottore non ci capisce niente, non va sott’acqua. Fai così, prenditi un’aspirina al giorno, qualche antinfiammatorio e della vitamina E. Se puoi aspetta una settimana o due, altrimenti vai in acqua e cerca di stare più basso che puoi, non fare immersioni profonde, e fai qualche tappa in più di quello che dice il computer. Ok? Bravo, stammi bene.»

La nostra prima lezione sulle teorie della medicina subacquea, poche idee ma confuse.

Così, comunque, feci. Mi sembrava più razionale. E funzionò alla gran-de. Avevo cominciato a capire che se volevo lavorare sott’acqua dovevo scoprire da me molte cose.

Ancora oggi, quando leggo magari su un forum internet, le pessime impressioni dei partecipanti ai convegni di medicina iperbarica subacquea, mi sorprendo di come la gente non riesca ad arrivare a certe conclusioni.

Si lamentano perché non vengono date informazioni realistiche, e per-ché quando uno che appena appena ha un po’ di esperienza fa domande precise su argomenti precisi, gli interlocutori svicolano, non rispondono, scivolano sugli specchi.

E’ semplice, non ci capiscono una mazza.

*****

Stavamo cincischiando nello stand di uno sponsor quando fui raggiunto da Trifix.

Voleva sapere se ero disponibile a dargli una mano insieme a Cristiano

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a tirar su un peschereccio da tonni, affondato davanti Napoli durante un fortunale, sugli ottanta metri di fondo.

Era una discreta bestia, centocinquanta tonnellate di stazza, scafo lungo trenta metri, in metallo.

Dissi di si.Per parecchi mesi mi recai nel capoluogo partenopeo per questa opera-

zione di recupero.Aspettavamo che mettesse mare decente o che fossero pronti questi o

quegli arnesi che ci servivano per la bisogna, e andavo in acqua saltuaria-mente.

Ero così debilitato dalla mdd che dovevano mettermi letteralmente l’at-trezzatura addosso, vestirmi e spedirmi in acqua, o raccogliermi da essa, senza che riuscissi a farlo da solo.

Eppure, non appena scendevo sotto i venti metri, iniziavo a stare me-glio. Sul fondo non avevo mezzo sintomo e schizzavo come un pesce, tirando cavi di acciaio pesantissimi, pinneggiando su e giù e svolgendo tranquillamente da solo i miei compiti.

Risalivo e tornavo a sentirmi uno straccio, ma mi accorsi subito che stavo sempre meglio, immersione dopo immersione.

Imparai che non era affatto vero che le mdd non si possono più cura-re dopo del tempo, né che le immersioni profonde facciano peggiorare le cose. Anzi. Stavo decisamente migliorando.

Come anzidetto, le prime settimane di lavoro dovevo essere aiutato con il mio equipaggiamento in superficie. Soprattutto le bombole erano un peso quasi inaffrontabile. Dopo un po’ però iniziai a farcela da me. Restavano comunque un peso gravoso, superiore al normale.

Il peschereccio giaceva in assetto di navigazione. La procedura di recu-pero consisteva nel passare due coppie di cavi di acciaio lunghi una qua-rantina di metri a poppa tra il timone e l’elica, a prua nel condotto trasver-sale allo scafo dell’elica di prua, che serve a ormeggiare più facilmente aiutando la manovra in porto.

Prima passavamo delle cime di polipropilene, una plastica galleggiante, che andavano dalla superficie allo scafo e risalivano dalla parte opposta. A questi assicuravamo i cavi di acciaio, pesanti alcuni quintali, che venivano accompagnati giù e poi filati, utilizzando in parte del lavoro dei palloni di sollevamento.

Fu durante questa operazione che, un giorno, provai la magnifica espe-

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rienza di respirare la miscela.Una volta passati i cavi dentro e sotto il peschereccio, questi andavano

posati con le loro estremità verso il centro della nave. Lì dovevamo far scendere una parallelepipedo di acciaio (foto 16), che pesava da solo due tonnellate, a cui agganciare i quattro occhielli con degli enormi grilli, dal peso di quasi cinquanta chili ciascuno.

A sua volta, questo imbraco del peschereccio doveva essere collegato alla superficie da una serie di quattro coppie ulteriori di cavi, lunghi venti metri ciascuno. Una nave gru li avrebbe sollevati per tutta la loro lunghez-za, staccando i cavi usciti dall’acqua, collegando le coppie rimanenti e ri-prendendo l’opera fino alla definitiva fuoriuscita in superficie della Stella del mare.

Per portare le estremità al centro nave, attaccavamo agli occhielli dei palloni che, riempiti di aria, si sollevavano alzando dal fondo i cavi. Passa-vamo da ottanta a sessanta metri, dopodiché scaricavamo da delle apposite valvole un po’ dell’aria imprigionata nei palloni, provocando lentamente il riaffondamento dei cavi. A quel punto spingevamo pinneggiando, portando gli occhielli nel punto desiderato.

Durante questa manovra, la nostra posizione era spesso a testa in giù, con l’estremità inferiore delle bombole assicurate sulla schiena che si tro-vava verso l’alto.

Mi toccava l’estremità destra di uno dei cavi di poppa, mentre Cristiano stava lavorando all’altra.

Arrivai come al solito sul peschereccio, assicurando la bombola di emergenza della miscela di fondo alla struttura della gru, che a centro nave serviva a tirare a bordo i tonni, che pesano anche fino a cinquecento chili.

Diedi un’occhiata a Cristiano, che stava facendo qualcosa sulla murata di sinistra, e poi pinneggiai verso poppa. Scesi posandomi sul ponte e poi lo scavalcai tirandomi oltre il parabordo, iniziando a seguire il cavo, che posatosi sul fondo fangoso era in parte affondato in esso.

Il pallone da mille chili di spinta era già stato assicurato dall’immersio-ne precedente e galleggiava reso positivo da un po’ di aria, trattenuto dalle sue corde al grillo assicurato all’occhiello del cavo metallico.

Avevo un’altra bombola, da quindici liti, appesa davanti. Mi misi sotto il pallone e cominciai a gonfiarlo aprendo il rubinetto di quella.

In poco tempo i tremila litri di aria contenuti nella bottiglia di ferro si riversarono nell’involucro di plastica sollevando il tutto. Mi appesi sotto il

La Stella del Mare in cantiere dopo il recupero; si calano le due tonnellate di bilancino, la campana, e per una volta è il ricordo di una nave riportata su, che riprende a vivere.

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pallone e mi lasciai tirare su fino a quasi sessanta metri.I cavi erano stati precedentemente assicurati allo scafo, di modo che una

quantità eccessiva di aria non mandasse a monte il lavoro sparandoli verso la superficie.

Si mise in tensione, restando sulla perpendicolare della nave. Sotto di me vedevo Cristiano armeggiare sempre sulla murata sinistra.

Salii sopra il pallone, dove si trovava la valvola, iniziando a espellere un po’ d’aria. Mentre cominciai a spingerlo in basso verso il centro del peschereccio, la mia posizione cambiò, con le pinne verso la superficie e la testa in basso. Diedi una respirata… e stavo per affogare.

Acqua. Respiravo acqua?Nei polmoni mi doveva essere entrato un secchio intero di liquido. Gli

occhi mi si appannarono e cominciai a tossire. Provai a dare con caute-la un’altra respirata ma niente, era acqua. Non riuscivo a capacitarmi di cosa fosse successo e stavo decidendo che fare in frazioni di secondo, per-ché non respiravo, ero in apnea con conati di vomito e tosse convulsa. Le bombole sulle spalle erano separate tra loro, pensando fosse un problema dell’erogatore passai a quello dell’altra, ma niente, ancora acqua.

E’ buffo pensare a come immediatamente dopo l’incidente di Leuca rac-contato nel primo capitolo, i medici e gli amici subacquei dilettanti si siano preoccupati della poca acqua che probabilmente avevo immesso nei pol-moni. Per alcuni giorni dovevo prendere degli antibiotici, pena infezioni e polmoniti fulminanti. Stavo sotto traccia, come si dice, e non mi andava di scontentarli, già mi ero comportato come un coglione. Però, sapessero quello che mi sono respirato qua e là…

Tra le lacrime vedevo la Stella del mare, quasi un’ombra, blu scuro nell’indaco.

In questi casi la gente va in panico e parte verso la superficie. Da sessan-ta metri, in apnea, si muore cercando una salvezza impossibile.

Per noi lì, era diverso. Lavoravamo a casa nostra.Scesi verso il basso in apnea. Sputacchiavo e tossivo e borbottavo fu-

rioso.Istintivamente mi diressi verso Cristiano, scendendo sul ponte, metten-

domi in ginocchio e facendogli il solito cenno di esaurimento dell’aria con un altro invito a venire da me.

Stava oltre il bordo esterno, vedevo la testa e parte del busto, le braccia all’interno della murata, concentrato su qualche nodo.

Sollevò appena lo sguardo, mi fissò mezzo secondo e abbassò la testa scuotendola in segno di rifiuto.

Come sarebbe a dire.In superficie, dopo, negò di essersi messo a ridere. Ma lo fece strizzan-

do gli occhi e le labbra, con quella faccia di bronzo che assumeva quando prendeva in giro qualcuno e cercava di non far trapelare il riso che lo scuo-teva dentro.

Non stetti a pensarci su, lì ci morivo.Tra andare verso di lui e strappargli a cazzotti un erogatore utile e pin-

neggiare di fretta e furia verso la bombola di sicurezza, scelsi per quest’ul-tima. Non per niente, in quel momento mi stava decisamente più simpatica.

Arrivai sulla gru e cercai di aprirla, ma incominciavo a perdere forza e lucidità e il rubinetto non girava. Finalmente fece il suo dovere. La staccai dalla struttura metallica e me ne tornai in superficie.

Vicino alla nostra barca, quando misi la testa fuori, c’era una moto-vedetta della Polizia che era venuta a trovarci. Conoscevamo bene tutti, soprattutto un sommozzatore, che guardava con interesse il nostro arma-mentario.

Intanto stavamo cercando di capire cos’era successo. Gli erogatori erano a posto, e adesso, respirandoci, davano gas come se nulla fosse avvenuto.

Non mi ero nemmeno tolto la muta, guardavo con sospetto la mia attrez-zatura, divenuta improvvisamente ostile. Trifix scese sulla piattaforma di poppa per spostare all’interno della barca il bibombola.

«Uaneme, e che r é. Che c’hai quaddentro il piombo?»Ci guardammo. Spostammo lo sguardo sulle bombole. Ci guardammo

nuovamente.Saltò di là della murata e si diresse alla cabina comando, da dove uscì

poco dopo con un martello dalla testa di gomma.Con gesti rapidi e sicuri svitò il primo stadio dal rubinetto di una delle

bombole e aprì il flusso del gas alla massima potenza. Il rubinetto si con-gelò rapidamente nel rumore assordante della fuoriuscita del contenuto. I gas compressi, se lasciati disperdere nell’ambiente liberamente, producono il raffreddamento dei condotti attraverso cui passano. Il vapore acqueo sul metallo si trasformò in brina.

Normalmente all’interno questa formazione di ghiaccio ostruisce il pic-colo buco da cui passa il gas nel rubinetto delle bombole, ma in quel caso ce n’era ancora poco, per cui terminò prima di restare intrappolato dalla

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gelida occlusione.Con un paio di colpi sulla manopola, il rubinetto ruotò su se stesso e fu

possibile vincerne la resistenza e svitarlo dal collo della bottiglia metallica.La barca della Polizia era ormai a soli due tre metri e ondeggiava dol-

cemente a poppa. Tre paia d’occhi osservavano curiosi e interessati le ma-novre.

Girammo il bibo verso l’acqua, rovesciandolo.Dal foro uscirono almeno otto litri di acqua marrone, mista a schiuma

giallastra.Qualcuno emise un ohhhhhh, dall’altra imbarcazione.Prima che potessi dire ah, alla domanda che gli fu rivolta immedia-

tamente, Trifix rispose guardandomi dritto negli occhi con il sorriso che glieli faceva brillare perfidamente.

«Oh, ma che sfaccimme è? »«Idrox! (nota*34) Ma si proprie ‘gnorant’ oh, e che cazzo di sommozzato-

re… E’ una miscela speciiiiaaale, per alta profondità.»Ne ridiamo ancora. Quel ragazzo è poi stato edotto sulla reale natura di

quell’intruglio, ma all’epoca aveva un rispetto reverenziale per l’amico, che giustamente considerava un esperto del settore estremamente rischioso e complesso delle immersioni profonde.

Per giorni e giorni avevo ricaricato le mie bombole su un ‘’fondo’’ di acqua, entrata probabilmente durante qualche immersione in cui avevo completamente esaurito il gas sul fondo. Avevamo assemblato i bibombola con rubinetterie doppie, che si usano di solito nelle immersioni ricreative per mettere su un’unica bottiglia due primi stadi, invece di fare l’octopus descritto nella nota 14.

Il rubinetto doveva essersi aperto, chissà come, sfregando su una cima, urtato da una delle bombole che appendevamo qua e là in deco e che a volte ci sbattevano sui corpi indifferenti, stanchi e assonnati.

Forse era stato un colpo di pinne, dato inavvertitamente da uno degli altri.

Fatto sta che era entrata l’acqua e io non me n’ero accorto, perché per me comunque il peso di quella roba era superiore al solito, ancora debili-tato dalla mdd.

Non mi ero mai accorto nemmeno di avere sistematicamente caricato meno gas del solito in quella bottiglia. Il manometro forniva comunque la pressione desiderata di carica, l’unico segnale che qualcosa non andava doveva darmelo la durata, ridotta della metà e oltre, dei tempi di utilizzo. Ma anche quello era un segnale ignorato. Non facevamo nessun caso alla quantità di gas che utilizzavamo. I consumi variavano a seconda dello sfor-zo anche di tanto da un’immersione all’altra, per cui in automatico passa-vamo da questa bombola a quella, e quando si esaurivano quelle addosso, ne avevamo altre qua e là sul peschereccio. Si sostituiva l’erogatore in bocca e si continuava a lavorare, o si veniva via se i venti minuti stabiliti per ogni immersione erano passati.

nota*34) In realtà una miscela con quel nome, l’Hidrox, esiste sul serio. E’ composta da idro-geno e ossigeno, quest’ultimo in percentuale mai superiore il 4% perché altamente esplosivo, combinato al primo gas. E’ stata utilizzata in immersioni molto profonde, oltre i duecento metri, per sopperire agli effetti debilitanti sul sistema nervoso dell’elio, che in determinate situazioni provoca la cosiddetta sindrome nervosa di alto fondale (l’acronimo anglosassone è HPNS). In questo caso si giocava anche sul fatto che in alcuni film e documentari televi-sivi, si vedono a volte immagini di subacquei che respirano liquidi invece che gas. Esistono effettivamente ricerche per l’utilizzo di questo sistema speciale.

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VIIIALLORA SEI PROPRIO DEFICIENTE

Alla fine dell’agosto di quell’anno, ci spostammo in Sicilia.Il boss della nostra didattica, preso atto che non eravamo morti nel lago

e che sembrava fossimo capaci di fare quel che sostenevamo possibile, infrangere record di immersione con miscele, aveva preso contatti con il vecchio allenatore di Enzo Maiorca.

Questi organizzava quasi ogni anno un record di apnea con qualche suo pupillo e anche quell’estate aveva in programma un evento.

Si trattava di battere il record del mondo del cubano Pipin, nella specia-lità No Limits®.

Provava a farlo un ragazzone ligure, Gabriele Del Bene.Noi dovevamo fornire assistenza alla quota massima, prevista a 175

metri, e poi continuare oltre i duecento per far stabilire a Claudia il nuovo record in acque libere, cioè in mare.

Dopo un disastroso periodo di allenamento a Siracusa, arrivammo a Ustica, sede di una grande manifestazione finanziata dalla Regione Sicilia, che prevedeva l’exploit subacqueo nel menù.

Nella città del clan degli apneisti, avevamo boccheggiato ogni notte con temperature africane, perdendo in un niente tutta la preparazione atletica dei due mesi precedenti.

Ero ritornato in ottima forma, dopo il lavoro di Napoli, e le prime im-mersioni, tra i centodieci e i centoquaranta metri, erano andate benissi-mo. Addirittura avevamo cominciato a ritoccare significativamente i tempi deco, e rispetto all’esperienza di soli sei mesi prima, prevedevamo di scen-dere oltre sessanta metri più giù riducendo invece di aumentare il tempo totale di immersione.

Il caldo era il solo problema.L’omino faceva qualche corso subacqueo, brevettando un po’ di istrut-

tori da quattro soldi da quelle parti.Claudia poteva passare in secondo piano rispetto alle sue esigenze, per

cui si prendeva la sola imbarcazione messa a nostra disposizione, per usci-re a farsi i fatti propri la mattina presto, quand’era ancora possibile respi-rare senza boccheggiare.

Probabilmente aveva paura che mettesse anche un po’ di mare, nel qual

caso era possibile che i suoi candidati scoprissero l’inanità che lui non vo-leva vedere, svenendogli ai piedi in maniera imbarazzante.

O forse sveniva lui.A noi toccava l’uscita di mezzogiorno, l’una.Sopravvivemmo.A Ustica ci imbarcavamo ogni mattina su una nave salvataggio som-

mergibili della Marina Militare, nave Proteo.Fummo accolti in maniera squisita.L’equipaggio era quasi tutto di marinai di leva, salvo ufficiali e tecnici

di carriera e il gruppo di sommozzatori e palombari del Comando Subac-queo Incursori, il COMSUBIN.

Prevedevamo una certa resistenza, forse un vero e proprio rifiuto nei confronti di Claudia, in quanto donna.

Fummo piacevolmente smentiti.Le avevo detto di evitare di farsi aiutare da chicchessia, per dimostrare

che fisicamente non era inferiore a nessuno. Cosa vera, oltretutto. Claudia mangiava letteralmente in testa alla maggioranza dei nostri colleghi, con una resistenza, una forza e una determinazione che non aveva pari.

In più, sua arma segreta, aveva una sopportazione del dolore fuori dal normale, facendo cose che lasciavano sbalorditi.

Nave Proteo ormeggiava su una fossa profonda oltre trecento metri, a qualche miglio fuori dal porticciolo dell’isola.

Era l’ancoraggio più profondo che avessero fatto e ne erano particolar-mente fieri.

Due enormi àncore erano state calate a centinaia di metri tra loro, sui bordi dello strapiombo, a oltre centoquaranta metri. Da queste delle catene salivano in superficie, assicurate a due grandi boe, e la nave si ormeggiava nel mezzo, tirandosi su spesse gomene con i verricelli di poppa e di prua.

Il primo giorno c’era una corrente di tre nodi e mezzo.Il Comandante ci guardava poco convinto.Sul lato di dritta, era stata abbassata la scaletta laterale per farci risalire

coperti dalla forza del mare dallo scafo, e una cima con un peso all’estre-mità era calata fino a oltre centocinquanta metri.

Saltammo in acqua e cominciammo la discesa.Se lungo la chiglia della Proteo avevamo faticato, sotto di essa eravamo

stesi come una bandiera che garrisce al vento, nonostante quasi ottanta chili di attrezzatura addosso a ciascuno.

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La corda curvava in maniera abbastanza preoccupante, la si vedeva an-dar via nella visibilità straordinaria di quel mare.

Era così bello vedere l’intera chiglia di oltre cento metri sopra di noi che la preoccupazione faceva fatica a farsi strada.

Scendemmo fino a un centinaio di metri e lì la corrente si invertiva. La cima faceva un’enorme esse in acqua e ci trovammo a scendere dall’altro lato di quella singolare perpendicolare.

Non mi piaceva per niente, e soprattutto cominciavamo a soffrire per la fatica che ci costava tenerci assicurati con le braccia all’unico modo per ritornare sulla nave.

Era prevista l’assistenza di un gommone dei sommozzatori militari, che avrebbe seguito l’eventuale deriva di uno di noi, se perdevamo il contatto avvertendoli lanciando un pallone di segnalazione, a cui saremmo rimasti attaccati con il solito sagolino. Con il senno del poi, non so cosa sarebbe successo se avessimo perso il contatto con la cima entrambi…

Ma immaginavo il peggio con quella forza d’urto e non mi andava di starci a combattere.

Risalimmo.Claudia non volle l’aiuto di nessuno, consegnò le sue bombole decom-

pressive a un marinaio sceso sulla pedana vicino alla superficie dell’acqua e salì con le tre bombole da 15 litri (e 17 chili) l’una sulle spalle.

Si sedette su una panca, circondata dai sommozzatori militari, che le parlavano e chiedevano informazioni. Ero molto divertito dalla discrezione con cui ciascuno di loro cercava di cogliere informazioni dal display del suo computer da polso.

A un certo punto uno di loro lesse la profondità, alcune decine di metri oltre i cento. La tensione si sciolse, le cortesie diventarono se possibile più sincere e incontenibili e fu chiaro che rifiutare oltre l’aiuto sarebbe stata una scortesia bella e buona.

Da quel momento i rapporti furono tra pari e amici, e tali rimasero per tutto quel periodo.

Il record saltò per una perturbazione che causò molte vittime in Cala-bria e Sicilia e danni ingentissimi anche a Ustica. Nave Proteo rimase alla cappa, andando avanti e indietro contro e in favore del mare forza otto, per due giorni, tanta era la determinazione di quei marinai di far fare il record a Claudia partecipandovi. Potevano andar via, rinunciare a rischiare danni e soprattutto stare inutilmente nel mare in tempesta, ma fintanto che avevano

l’autorizzazione a restare lì non si mossero.Fu un vero peccato non fare il record lì, condividendolo con tutti loro.

Dopo alcune immersioni di ambientamento passammo alle prime prove vere e proprie di avvicinamento ai duecento.

Il giorno in cui scendemmo a centosettanta, la quota alla quale avremmo prestato assistenza a Del Bene, mi feci di nuovo male.

Non ho mai capito con certezza perché e quando.L’immersione si svolse come da programma. Arrivato a una trentina di

metri percepii una fitta molto forte e duratura nel gluteo destro.Pensai a una botta, di cui non mi ero accorto, ma salendo mi faceva

sempre più male.Non avevo ancora esperienza delle malattie di decompressione da elio

contratte per aggregazione di microbolle causate dall’interruzione del flus-so sanguigno. Le conoscono in pochi, dato che a scendere a quelle quote non siamo tantissimi, poche decine al mondo.

Col senno di poi abbiamo capito che a causarmi la mdd fu la cintura dei pesi, che fu successivamente eliminata.

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Salivo in orizzontale, sempre in bandiera, sia per la corrente ancora sul nodo, nodo e mezzo, sia per abitudine, perché mi piaceva far dondolare sotto di me le bombole decompressive e di fase (sono chiamate così quelle contenenti una miscela non decompressiva, diverse da quelle tenute sulla schiena).

La cintura di zavorra, tra l’altro in quella occasione inutile, aveva schiacciato con il suo peso i canali della circolazione superficiale della bassa schiena. L’elio si era cercato un’altra strada.

Avrei potuto riprendermi facilmente, se mi fossi reso conto del pro-blema. Invece di fare tappe aggiuntive, continuai a salire, convinto fosse stata una botta di cui non mi ero reso conto sul momento, forse contro le bombole, chissà.

Mi tenni il dolore salendo ancora, e aggravando la situazione.A una decina di metri dalla superficie ero sicuro fosse una mdd.Che fare?Scelsi la soluzione a me più congeniale, quella sbagliata.Non mi andava assolutamente di mettere in agitazione la Marina. Quel-

la nostra impresa sembrava già di per se una pazzia, dargli una certezza con un bell’incidente a pochi giorni dall’X-day mi sembrava fuori luogo.

Uscii insieme a Claudia, stringendo i denti per il dolore.Il mio team fu subito allertato e mi aiutarono a spogliarmi senza dare

nell’occhio.Mentre Claudia e altri chiacchieravano e mantenevano la situazione nel-

la norma, mi feci portare a terra.Non mi sentivo bene, ma il dolore era sopportabile. Nei mesi precedenti

ero stato decisamente peggio.Poco più tardi mi misi la muta, prendemmo una bombola d’ossigeno

e mi feci portare in una grotta semisommersa. Volevo mettermi discreta-mente lì, al riparo dei marosi e degli occhi indiscreti, ricomprimermi a una decina di metri e respirando ossigeno fare un po’ di terapia.

Dopo pochi minuti iniziarono ad arrivare barche a noleggio e con le gui-de turistiche. Entrai più dentro la grotta. Un rumore sopra di me m’avvertì della presenza di subacquei in escursione.

Come un animale spinto dai cacciatori, mi addentrai tra le rocce, infilan-domi in un buco nero e angusto. Stavo lì, invisibile nella mia muta nera di neoprene, non troppo soddisfatto per la profondità, di pochi metri, secondo me insufficiente.

Terminata la bombola non sentivo miglioramenti.Avevo freddo e fame, decisi che avrei fatto una bella ricompressione il

giorno dopo.L’occasione perfetta era la prova della slitta.Il nostro capoccione aveva progettato un cestello di acciaio circolare,

saldato a un tubo che scorreva sulla cima di discesa. Poteva contenere otto bombole, più altre due attaccate sul tubo (foto 19).

Era molto simile ai carrelli di zavorra con cui scendevano gli apneisti e doveva servire a permetterci di scendere a 175 metri con le sole bombole sulle spalle, per poter dare assistenza comodamente e in sicurezza all’ap-neista. Poi, risalito Del Bene, avremmo proseguito con una scorta adeguata di gas fino alla quota del record femminile.

Ritirare su quell’aggeggio era un’operazione complicata senza i mezzi della nave militare, e io volevo vedere se era possibile farlo da soli, usando un pallone di sollevamento.

Avevamo pianificato di scendere a cinquanta metri, provando conte-stualmente l’impianto frenante (un rubinetto industriale con la valvola a sfera modificata). Per l’occasione, un video operatore avrebbe girato un po’ di filmati.

Con la scusa di questa manovra, intendevo scendere giù a cinquanta molto rapidamente, schiacciando le bolle nel mio organismo in modo da fargli trovare la strada giusta per uscire. Sarei risalito respirando miscele sempre più ossigenate ed effettuando tempi lunghi di permanenza altri-menti incomprensibili, per girare filmati e scattare foto promozionali.

Perfetto come piano, salvo che stavo per fare una dicagnata.Scendemmo come voluto, tutto funzionava egregiamente.A cinquanta metri Claudia cominciò a salire mentre io preparavo il pal-

lone e lo gonfiavo.La slitta prese l’abbrivo con scioltezza, non si verificava alcun intoppo

apparente e scivolava sul cavo che rimaneva bello teso.Mi aggrappai mentre mi passava davanti alla parte terminale, d’istinto.Feci alcuni metri pensando di lasciare, poi era troppo divertente e pren-

deva velocità, poi sfilavo davanti al video e ai fotografi e allora, ehilà, ragazzi, vogliamo fare qualche bella foto e ripresa o si dorme?

Quando mi decisi a lasciarla andare, la mia stagna e il gav erano gonfi di aria in espansione e mancavano forse quindici metri dalla superficie.

Non feci in tempo a ridere della mia inguaribile idiozia che ero fuori

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dell’acqua fino alla cintola.Sbucai davanti al gommone guidato da Trifix, che capì immediatamente

e mi rivolse uno sguardo tra il disgustato e il rassegnato.Lo salutai con la manina, diedi un’occhiata in giro per vedere se nessun

altro era stato testimone della mia dabbenaggine e ridiscesi plasticamente.Non mi sono mai completamente ripreso da allora.Feci poca o punto decompressione, rinviando al record. A oltre duecen-

to metri, a distanza di un paio di giorni, mi sarei rimesso come nuovo.Il mare decise altrimenti.Per giorni fummo bloccati sull’isola, per mesi attendemmo l’occasione

buona e io stavo fisicamente uno schifo.Si necrotizzarono alcuni muscoli, non sentivo quasi niente sulla super-

ficie della pelle di entrambe le gambe, avevo una specie di mattone nella carne delle chiappe e della schiena.

Le tre dita del piede sinistro erano già andate dall’Iseo e da allora stanno più o meno sempre così.

Non mi è mai importato davvero.Claudia commentò sibillina: allora è ufficiale, sei proprio deficiente.

IXCOAZIONI

In psicologia, la coazione è la tendenza a ripetere dei comportamenti senza riuscire a inibirli, anche se inappropriati, fuori luogo e irrazionali.

Sono stato a lungo un fautore dell’immersione profonda con uso di aria compressa, nonostante sappia bene quali siano gli effetti della narcosi.

Devo dire che lo sono sostanzialmente ancora, anche perché le mie ra-gioni sono sempre state diverse da quelle altrui.

L’aria viene usata per abitudine, per malcostume, per mancanza di equi-paggiamenti e soprattutto per indisponibilità di elio.

Per lungo tempo è stata – ed è usata tutt’oggi – per ignoranza crassa.E per tossicodipendenza…La narcosi è una droga, una forma di alterazione comportamentale non

costosa – se si esclude corsi, attrezzature subacquee e spese varie per prati-care –, per il momento lecita, che non lascia conseguenze se si sopravvive a ogni immersione.

Farsi una canna, prendersi una sbornia e immergersi ad aria sotto i cin-quanta metri – ma anche sotto i trenta per i meno tolleranti e tossici – sono la stessa cosa.

Se vi piace sballare sott’acqua, è una meraviglia.Prima della consapevolezza dell’uso dell’elio come alternativa, quello

c’era e quello si faceva.Se l’elio non è disponibile e si deve scendere, bene, si può fare, ci si

riesce.Diventa diverso quando si spaccia aria profonda come si spaccia droga.I centri subacquei portano in posti veramente fetenti gente che torna e

ritorna e ancora torna solo perché sono sotto i trentacinque metri. Le per-sone si stonano, non capiscono e soprattutto non ricordano granché. Se non hanno avuto esperienze sgradevoli, l’effetto dell’aria profonda dà loro una sensazione di piacere per cui invece di chiedere indietro i soldi, rifaranno la stessa immersione la domenica successiva.

Se hanno esperienze negative ma senza conseguenze particolari, le vi-vono in modo diverso, ovattato, inconsapevole.

Nel racconto del capitolo V, ricorderete che nonostante fosse stata a un passo dalla morte, Claudia la sera aveva una percezione del fatto molto

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superficiale. Quando descrive le sensazioni di quell’episodio, dice che tra se e se parlava e commentava con tranquillità il fatto che stava morendo, che avrebbe lasciato le figlie, e che in fondo si sentiva bene, non stava sof-frendo e qualcuno avrebbe pensato a loro.

A differenza sua, io quella sera avevo la febbre, ero completamente prostrato dalla chiara percezione del rischio che avevamo corso e che la miscela trimix mi aveva fatto vivere con piena lucidità.

Alcune didattiche, in particolare quella con cui abbiamo insegnato noi per alcuni anni, fanno dei corsi di ‘’gestione’’ dell’aria profonda.

Sono anche abbastanza ben fatti, hanno un senso per operatori che pro-prio non possono fare altrimenti e devono essere capaci di gestire altera-zioni comportamentali.

Il problema è che gli operatori professionisti ritengono la loro pelle cosa abbastanza importante, e visto che siamo nel terzo millennio, preferiscono che sia un robot a scendere dove rischierebbero la vita stupidamente. A ragione.

Per cui, i corsi di aria profonda sono diventati un business sulla pelle degli scemi.

Quanto più sei stupido e incapace, tanto più sei un soggetto adeguato a pagare per fare quei corsi.

Con Claudia siamo stati per tre o quattro anni istruttori della specialità. Mano a mano abbiamo brevettato persone capaci, bocciandone molte altre e alla fine smettendo, perché c’erano altri sistemi e soprattutto non si sele-zionava affatto, non si insegnava nulla.

All’inizio credevamo anche noi che i subacquei che si lamentavano per la scarsa capacità degli istruttori volessero qualità e competenza, poi ci sia-mo accorti che non era così, che la gente colleziona solo patacche, brevetti. Da noi, che avevamo la fama di bocciare chi non era capace, non venivano più nemmeno i buoni conoscenti, che preferivano istruttori compiacenti e morbidi.

Ho usato spesso, e nelle maniere più disparate, l’aria in profondità.Il record dell’Iseo fu traumatico.Immergersi con una narcosi pari a zero in quell’acqua gelida, nera,

dall’abbraccio mortale, era pauroso.Non esistono leggi anti-doping nella subacquea, così dopo quell’espe-

rienza ci dicemmo che un pizzico di narcosi per rilassarci in situazioni pericolose non era una cattiva idea.

Le miscele subacquee possono essere fatte come meglio ci aggrada. Possiamo ricreare con i gas scenari diversi dalla realtà. Andare a cento me-tri respirando gas che ci mettono nella stessa situazione che se respirassimo aria in superficie, o dieci, o trenta, o quel che vogliamo metri più giù.

Come con l’elio possiamo essere lucidissimi a cento metri, usando l’ar-gon e superato il disgusto per il suo sapore vomitevole, potremmo avere all’inverso una narcosi da cinquanta metri di profondità in una comune piscina.

Noi operavamo bene con l’aria a cinquanta metri, non c’era situazione di pericolo o problema che tenesse, lo superavamo con destrezza. Creare una narcosi di fondo sui quaranta metri significava, se voluto, farsi un bic-chiere di birra per calmare l’ansia.

Più di quello era pericoloso e poteva ingenerare l’effetto opposto. Oltre-tutto bisognava sempre tener presente la quota a cui si operava e quella del fondale. A volte non coincidono, e allora va tenuto conto, nella creazione della miscela, il margine necessario a mantenere la lucidità massima se si dovesse sprofondare per qualche problema da risolvere.

Queste alchimie mi portarono al mio primo episodio di coazione mani-festa sott’acqua.

Avevamo scoperto al largo di Gallipoli due relitti della Seconda Guerra Mondiale.

Entrambi segnati approssimativamente sulle carte nautiche, secondo un nostro allievo proprietario di un centro subacqueo a Santa Caterina di Nar-dò, non ci era andato mai nessuno e non si sapeva cosa fossero.

Li cercammo e trovammo, cominciandovi una serie di immersioni.Nella primavera del 2000, appena migliorò il tempo, ci recammo su

quello più profondo, che avevamo trovato da poco.Era un cargo armato, con uno squarcio a poppa, dietro il castello, che

sembrava testimoniare un’esplosione dall’interno all’esterno.Secondo le fonti storiche, un convoglio di navi inglesi era stato bom-

bardato da aerei nazi-fascisti partiti dall’aeroporto di Leverano, nell’entro-terra.

Poteva essere. Non c’era più un ponte di coperta, il che faceva pensare che in origine fosse fatto di legno. In oltre cinquantacinque anni poteva essere marcito e crollato.

Nella parte di scafo circostante lo squarcio, non c’erano motori, serbatoi o quant’altro potesse far pensare a un’esplosione interna causata da roba

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imbarcata.Una bomba di aereo poteva plausibilmente essere penetrata nel ponte di

legno, attraversandolo senza esplodere, e poi, all’impatto con la paratia di metallo, aver provocato il disastroso aprirsi verso l’esterno delle lamiere.

Dovevamo fare foto e filmati, per cui in quei primi giorni era mio com-pito piazzare una serie di cime su cui ormeggiare e poter far scendere i subacquei indifferentemente a poppa, al centro e a prua.

L’àncora aveva preso sul castello di poppa, e alla prima immersione con una idonea miscela d’elio non mi ero trovato bene.

Ero impaurito, provavo malessere, consumavo moltissimo, anche per-ché essendo l’elio meno denso dell’azoto, si respira con facilità anche a pressioni elevate.

Non avevamo molto tempo. Perturbazioni a parte, da lì a poco biso-gnava essere pronti per la spedizione ufficiale. In due, tre immersioni al massimo mi dovevo spicciare.

Decisi di scendere con l’aria. Avrei consumato di meno e la narcosi avrebbe a sua volta calmato i nervi eccitati e sensibili.

Il fondo era a novantacinque metri, ma dovevo solo assicurare cime sulle strutture, a una media di settanta. Facile.

La prima immersione andò liscia come l’olio.Scesi sul relitto e feci il mio lavoro sul castello di poppa.Ovviamente, fatto come una pigna, pensai bene di scendere dentro il

relitto e dare un’occhiata allo squarcio, per curiosità.Da settanta eccomi a oltre novanta in un battibaleno.Tutto bene, nessun problema.Nel mio cervello covava come sempre la consapevolezza che vai per

fare una cosa, dici a te stesso e agli altri che ti devi attenere ai programmi, e poi fai tutto il contrario.

Sono un duro, un cazzuto figlio di puttana, che sarà mai. Frottole.Il giorno dopo toccava alla cima centrale.Scesi da poppa, con una serie di cimette arrotolate, lunghe una trentina

di metri ciascuna. Era meglio che portarsi una cima unica, che di solito, anche se ben raccolta e sistemata, in acqua si incattiviva e impicciava.

Quello che in superficie facciamo in cinque minuti, sotto ci prende tre ore.

Portavo con me anche alcune lattine da cinque litri, quelle dell’acqua distillata per capirci.

Avrei assicurato la prima cima su uno degli alberi del bigo di carico centrale, poi avrei attaccato l’altro capo a una lattina e gonfiandola l’a-vrei mandata su. A quel punto sarei salito lungo la cima perpendicolare, svolgendo il mio lavoro sempre più in alto e sempre più in sicurezza. Per non perdere tempo con i nodi, ogni estremità era dotata di asola e relativo moschettone. La perfezione.

Arrivai a una settantina di metri, forse meno, sopra il castello, lasciando la cima su cui era ormeggiato il gommone e scendendo in diagonale verso prua.

Scesi sull’albero previsto, che aveva una piattaforma circolare alla sua estremità superiore .

Mentre tiravo fuori dal retino una delle cime, adocchiai qualcosa tra i molluschi che concrezionavano il metallo.

Legai la cima ed estrassi la lattina, che gonfiata salì verso l’alto portan-do con se la cima. Da manuale.

A quel punto focalizzai la mia attenzione sull’oggetto, prendendolo. Era un bossolo di proiettile, un calibro da mitragliatrice, forse contraerea.

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Poteva essere mai degli aeroplani che avevano bombardato la nave? Era una nuova prova?

Invece di risalire, a quel punto ero ben motivato per un’esplorazione, e perché non dieci o quindici metri più giù?

Andai a dare un’occhiata, tanto c’era tempo. C’è sempre tempo.La mente umana è stupefacente, e sott’acqua fa delle cose spettacolari.Alle volte mi sentivo come uno scienziato, che osserva con distacco i

batteri sguazzare nella soluzione zuccherina di un vetrino di coltura, da dietro le lenti di un microscopio.

Sentivo me stesso scisso in due, una voce che diceva cose tipo che cazzo fai e un’altra che rispondeva vado a dare un’occhiata, che c’è di male?!

Di solito si parte con un sacco di roba nella bombola e ci si ritrova un attimo dopo col vuoto totale, il cuore in gola, rassegnati a morire questa volta, per l’ennesima cazzata.

La narcosi si fece più netta, lo stordimento strizzava il cervello.Si parla un sacco ad alta voce in quei casi. Parli nel boccaglio, gorgo-

gliando frasi coerenti, ma poco lucide.A volte scuoti la testa come un ubriaco che cerca di cacciare le farfalle

che gli ronzano nel cranio, liquido come la roba che s’è bevuto.Trovai un altro bossolo e soddisfatto cominciai a risalire. Che person-

cina ragionevole, cosa sarà mai, visto?, sono sceso, sono risalito, tutto a modino, come dicono i conterranei del Sommo Poeta.

A una cinquantina di metri galleggiava la tanica.

Mi fermai, misi in assetto il gav, tirai fuori la seconda cima e comin-ciai a svolgerla. Dopo averla assicurata all’estremità della prima tenevo in mano il moschettone a cui dovevo attaccare l’altra tanica. Mentre armeg-giavo per tirarla fuori dal retino, lo persi, e quello cominciò a cadere lento verso il fondo, rallentato dall’attrito dell’acqua sulla cima.

Fu immediato. Un attimo ero lì, bello e sicuro in assetto neutro a cin-quanta metri, immersione finita, tutto nella regola. Tempo di far l’occhio-lino a una bella sirenetta ed eccomi pinneggiare freneticamente verso il fondo, all’inseguimento del moschettone traditore.

Scendevo e ascoltavo la voce numero due che diceva alla prima «… ma allora sei tutto scemo. Scusa, che cazzo stai scendendo a fare? Prendi la cima che sta qua a lato e ritira su il moschettone, no?! Ma ti fermi razza di rincoglionito o ci vogliamo fare male?».

Chi non ha mai provato un episodio di sdoppiamento penserà che rac-conto frottole. Manco per niente.

Ridevo. Ridevo di me stesso ed ero preoccupato. Disquisivo del fatto che avrei dovuto scrivere un manuale e che quello era un caso perfetto. Sapevo di star facendo una pirlata e la facevo senza riuscire a fermarmi. E mentre lo affermavo, con sicurezza, continuavo a farla.

Presumo di essere arrivato quasi sull’albero, quando ho raggiunto il mo-schettone. La cimetta si era tesata, ed essendo caduto discosto dalla prima, anche per effetto di un po’ di corrente, ora stava spostandosi lateralmente per congiungervisi.

A quel punto, naturalmente, si sarebbe incattivita, girandovi attorno. Un classico.

Lo presi e cominciai a risalire nuovamente.Pensavo che, come da manuale, la narcosi non passa anche se diminuisci

la pressione, te la porti appresso, come una sbronza che scema lentamente.Guardai il manometro, tanto già sapevo che sarebbe stato a fondo scala,

anche quello era da manuale. Correggevo queste mie performance come al solito con erogatori da schifo, così duri e non manutenzionati da impedire un consumo eccessivo di gas, ma non era una grande consolazione.

Finii l’immersione con una mdd, ovviamente.Roba da niente, qualche dolorino alle spalle che aspirina e Aulin avreb-

bero fatto passare in men che non si dica.Quanti sono morti così? Convinti di essere immortali, che nulla può

succedergli, che tutto andrà bene?

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Sono questi episodi che, nel tempo, mi hanno portato alla convinzione che da una parte vi sia il libero arbitrio, la necessità di lasciare a ciascun es-sere umano il diritto di scegliere consapevolmente da se il proprio destino.

Dall’altro vi deve necessariamente essere la tutela, esercitata dalla Co-munità, del diritto altrettanto inalienabile di essere difesi dall’avidità com-merciale e dalla sua massima espressione, l’indifferenza per la sorte altrui.

Per me, negli anni di professione subacquea, è stato facile sia notare come vi siano veri e propri casi di circonvenzione di incapaci, sia come la maggior parte delle persone raziocinanti, messe di fronte alla realtà dei fatti, lo capisca.

Come raccontavo sopra, sono stato imputato di un processo per diffa-mazione a un tizio, titolare di una di queste didattiche subacquee, che mi accusava di averlo ingiustamente vilipeso e di avergli attribuito comporta-menti e intenzioni offensivi del suo onore (sic!) e della sua professionalità (doppio sic!).

Un giudice, la stessa Pubblica Accusa, una volta ascoltati testimoni e parti, hanno stabilito che dovevo essere assolto per non aver commesso il fatto.

Si erano semplicemente fatti la convinzione che quel che affermavo sul-la pericolosità di sistemi e sulla leggerezza con cui si usano, fosse la verità.

Ne ho esperienza diretta, per la miseria.Oggi politici a caccia di voti elettorali, disegnano leggi e si preparano a

nominare ‘’esperti’’ che regolamentino la subacquea nella stessa maniera, a proprio uso e consumo, senza arte né parte, solo e soltanto per tutelare le proprie riserve di caccia all’imbecille, al disadattato, all’ignorante incon-sapevole.

In pochi anni ci sono entrato, in quel mondo, in altrettanti me ne sono tirato fuori, e non mi mancherà.

XIGNORANZA O IPOCRISIA?

La questione della gravità, della cura, della gestione e comprensione delle malattie da decompressione credo resterà aperta a lungo.

Nessuna sperimentazione umana è sostanzialmente più possibile e le aziende di lavori subacquei come COMEX, un colosso francese che ha fat-to molta ricerca negli anni del boom petrolifero con gli impianti off-shore del nord Atlantico, ormai hanno poco o punto interesse a continuarla.

Lo stesso dicasi per i militari.Robotizzazione e mezzi importanti per la gestione protocollata dei si-

stemi che hanno funzionato per tanti anni nelle saturazioni, hanno portato altrove l’interesse scientifico.

Forse qualcosa ripartirà con i primi segnali di una commistione tra spazio e abissi marini. Da pochi anni alcuni equipaggi degli Shuttle della NASA, l’ente spaziale statunitense, si addestrano in una minuscola base sottomarina, alcuni metri sotto la superficie del mare negli arcipelaghi co-rallini della Florida, la Aquarius.

Non sappiamo però se siano fuochi di paglia o meno.Come descritto nei precedenti capitoli, con gli anni ci siamo resi conto

che quel che i medici dicevano si potesse fare, quello che dicevano non si potesse fare e, soprattutto, le conseguenze di tutto ciò, fossero molto lon-tani dalla realtà.

C’era ignoranza o ipocrisia, dietro tanta confusione? Entrambe, direi, a seconda degli interlocutori.

Da un lato una grande paura di ammettere di non saperne poi molto, dall’altro altrettanta paura di essere considerati responsabili di comporta-menti spericolati, o addirittura di incidenti.

Quello di cui queste persone, i medici iperbarici, sapevano e sanno di più era evidentemente ciò che concerneva l’immersione ad aria e le sue conseguenze.

Sia per un discreto numero di dati statistici, anche se spesso falsati; sia per le ricerche compiute dalle aziende come la succitata compagnia transalpina, che si basavano soprattutto sull’alto numero di immersioni del personale addetto alle manutenzioni.

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Per quanto concerne le miscele, le aziende di lavori in alto fondale e i militari, si sono sempre limitati all’uso di una miscela binaria contenente i soli ossigeno e azoto, e a fare immersioni partendo da una campana som-mersa, restando chiusi per decomprimersi in ambienti iperbarici monitorati e alimentati dalle apparecchiature delle navi appoggio; tutta un’altra cosa dall’immersione libera, sportiva e non.

Del resto, col tempo, ci siamo resi conto che le teorie dei medici e degli appassionati del settore dilettantistico, sono fondamentalmente basate su dati scientificamente poco rilevanti e, spesso, falsi.

Senza entrare nel merito, una vera e propria moda si è scatenata sull’u-tilizzo di tappe decompressive profonde, i cosiddetti deep stop. Siamo ar-rivati al punto che questi, nati a ragione o a torto come soste aggiuntive a quelle richieste dai programmi di decompressione e significando letteral-mente tappe profonde – parliamo di sessanta o più metri -, in un recente congresso medico internazionale, sono stati proposti per quote inferiori ai quindici metri.

E’ chiaro che l’uso del termine, in questo caso, è solo strumentale, ac-chiappa-allocchi.

La nostra esperienza era sostanzialmente controcorrente.Nell’estate del 2002 stavamo cercando di recuperare a basso costo un

peschereccio di una ventina di metri affondato a quasi centotrenta.Lavoravo sempre tra i centoventisette e centoventidue metri, non essen-

do l’imbarcazione più alta di così sul fondo.In un primo momento, considerando i tempi lunghi di permanenza a

quelle quote, che andavano tra i dieci e i venti minuti, avevo pensato di provare due tecniche considerate importanti novità per salvaguardare la propria salute: risalire lentamente anche dal fondo ed effettuare soste de-compressive molto corte, ma aggiuntive e profonde rispetto alle pianifica-zioni generate dai software decompressivi.

Si trattava per esempio in questo caso, di fare qualche sosta di poche decine di secondi a ottanta, sessanta metri.

Premetto che i medici iperbarici con cui avevo avuto modo di discutere delle nostre immersioni, si schieravano su due fronti contrapposti. Da un lato chi diceva che la velocità di risalita doveva essere sempre inferiore ai diciotto metri al minuto partendo da qualsiasi quota, dall’altro chi sostene-va che era indifferente nella prima metà, partendo dal fondo, per immer-sioni profonde.

Al mio team sembrava empiricamente che quest’ultima tesi fosse cor-retta. Noi salivamo sempre a grande velocità fino ai cinquanta metri. Col tempo, soprattutto nelle immersioni oltre i cento, cominciammo a rallenta-re verso gli ottanta, più per scrupolo che per qualche dato preciso.

Certo, le nostre immersioni avevano tempi di fondo risibili, per cui po-teva essere una correlazione tra permanenza sul fondo e quota a determina-re diversi risultati empirici.

Per questa ragione decisi di provare a seguire i dettami della nuova scuola di pensiero.

Sarei rimasto molto sorpreso, pochi mesi dopo, scoprendo che era fon-data su un numero inferiore di immersioni e quindi di esperienza, da parte di un intero team di subacquei nordamericani, di quelle che avevo fatto io in quella stagione. Per il momento, però, dovevo fare una scoperta sulla mia pelle.

Il peschereccio era affondato per distrazione. A bordo dormivano quan-do la rete a strascico aveva fatto imbarcare acqua da poppa, frenando im-provvisamente per chissà quale motivo la barca.

Si erano svegliati con l’acqua alle ginocchia e tre minuti dopo galleg-giavano in mare in attesa di soccorso mentre il peschereccio scendeva ver-so il fondo.

Giorni dopo, un parente del comandante e armatore, con il proprio pe-schereccio aveva strascicato vicino al relitto sperando che vi si affollasse pesce, e vi aveva incagliato la sua rete sopra.

Mi toccava cercare di mettere una cima di ormeggio sicura, che partisse da sopra all’imbarcazione, facendomi largo tra una rete gigantesca che svo-lazzava infida nell’acqua torbida dai novanta metri di profondità.

Fu cosa lunga, e soprattutto dolorosa.Cercare un relitto di quelle dimensioni con cinque centimetri di visibili-

tà sul fondo fangoso è una pena.Una volta, seguendo un cavo d’acciaio di uno dei divergenti che tengo-

no larga la rete, ci andai a sbattere con la testa. Alzai un braccio e toccai un pezzo di rete, per cui decisi, credo saggiamente, di tornarmene da dove ero venuto.

Salivo piano dal fondo, e mi venivano continuamente le vertigini.La testa mi girava e la bocca mi si riempiva del solito sapore metallico,

come per effetto di un anestetico ospedaliero.

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Facevo un deep stop a cento e poi un altro a ottanta e a sessanta, e cominciai a fare tappe più lunghe dove la PPO2 (vedi nota 1) era di 1.6, ai cambi gas.

Uscivo incriccato.Usiamo questo termine per definire i sintomi di mdd che piegano lette-

ralmente il corpo per il dolore.Era un problema, e serio, perché il mare non era mai granché e per

quanto salpassimo dal porto ogni volta alle quattro, cinque di mattina, re-stavamo in giro fino a tardi. L’armatore stava chiedendo un mutuo sulla casa per recuperare il peschereccio, non avendo un’assicurazione, e i primi tempi ci si imbarcava sulle barche dei suoi colleghi, che si prestavano a turno per solidarietà.

Però dovevano tornare quanto prima, per ripartire a pescare e non per-dere la giornata, e mi facevano forti pressioni. Le barche erano lente e per raggiungere il punto del naufragio ci volevano dalle due alle tre ore e mezza.

Mi immaginavo con angoscia, in caso di emergenza, quella lenta cara-collata verso il porto.

E ovviamente successe.Dopo una decina di immersioni senza successo, riuscimmo a prendere

la rete impigliatasi con un ancorotto e cominciammo a cercare di portar-la via. Strappandone pezzi perse molti galleggianti e la sua struttura fu indebolita, così dopo un paio di mareggiate, la corrente di fondo l’aveva arrotolata su se stessa.

Riuscii ad arrivare sul peschereccio senza rischiare molto e assicurai finalmente una cima a cui potevamo ormeggiare, tesandola col verricello e permettendomi di scendere e salire sulla verticale.

Un giorno, dopo aver lavorato duramente sul relitto per togliere pezzi di rete e altra roba che impediva di raggiungere la poppa, che dovevo ispezio-nare per valutare la fattibilità di passarvi sotto una braca, sentii un dolore acuto al braccio destro, a più di ottanta metri.

Mi prese un accidenti.Avevo contratto tante mdd ormai, che si manifestavano sott’acqua. Sa-

pevo bene o male esattamente quanta deco in più a ossigeno dovevo fare, per farle passare, e da che quote.

Da quella profondità, però, la vedevo male.Mi fermai, ritornai giù di qualche metro e poi ripresi a risalire. Niente.

Mi ricordava quando una bolla si insinuò in una capsula dentistica du-rante i lavori di recupero della Stella del Mare.

*****

Dovevamo finire gli agganci delle brache d’acciaio dalla tonnara alla superficie. Avevamo messo un pontone senza motore sulla verticale e, quel giorno, mi toccava andare a sistemare un cavetto guida, che doveva essere portato giù a una sessantina di metri e attaccato con un grillo.

Scesi per un’operazione rapidissima, sopra attendevano tutti che risalis-si al volo per tirare con un verricello.

Stava alzando mare, bisognava essere rapidi, pena la perdita di parte del lavoro e danni economici importanti.

Andò tutto bene, ma mentre risalivo, sui trenta metri, mi venne una fitta al dente, un premolare devitalizzato e incapsulato dell’arcata superiore.

Provai a ridiscendere un po’ per comprimere la bolla di aria che si era formata la dentro, dopodiché ripresi a salire. Nada.

Incominciando a innervosirmi feci su e giù più volte.Maledizione, niente.Faceva male, ma era ancora sopportabile.Continuai a risalire fino a una decina di metri, ma ormai il dolore era

fortissimo, mi veniva da piangere. Tra l’altro avevo solo un monobombola e non potevo stare lì a cincischiare in eterno. Maledissi la solita Legge di Murphy. In barca avevamo mascheroni con sistema di comunicazione tra subacqueo e superficie, ma quella era una cosa banale, rapida, giusto un tuffo e avevamo quasi tirato a sorte per chi doveva andare, mentre si mangiava un piatto di riso liofilizzato gustosissimo, dopo già una decina di ore di permanenza in mezzo a mare sotto il sole, lavorando e aspettando, lavorando e aspettando.

Cercai di salire una volta, ma lanciai un urlo arrivato a pochi metri dalla superficie. La bolla cresceva e premeva sulla gengiva, e meno male che non avevo più il nervo o credo che sarei svenuto.

Dopo alcuni minuti sentivo sulla mia pelle il nervosismo degli altri so-pra di me. Immaginavo Trifix, che aveva anche chiamato un cazzone di fotoreporter che in quel momento era a bordo, al limite dell’isteria.

Decisi di salire comunque, dire di cominciare a tirare, dare l’allarme sulle mie condizioni e ridiscendere.

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Arrivai in superficie ululando per il dolore, ma improvvisamente sentii come qualcosa che mi esplodeva dentro la bocca e nel naso, una fitta più feroce e poi nulla, un sordo ma sopportabilissimo pulsare della mascella.

Guardai in su e diedi le mie indicazioni a facce piuttosto strane. Sem-bravano preoccupati. Uno gridò che mi ero fatto male, in direzione della barca dei sommozzatori.

E che ne sapeva?Pinneggiai verso di quella e feci per salire sulla pedana, quando il foto-

reporter gridò di fermarmi e di non togliermi assolutamente la maschera. Si precipitò verso la macchina fotografica e tornò da me, scattando foto.

Mi era scoppiato qualcosa, si. La bolla che si espandeva senza riuscire a sfogarsi dentro la capsula, aveva trovato la sua strada attraverso l’ottura-zione e il canale del nervo, salendo su lungo la cavità nell’osso mascellare. Era scoppiata insieme a sangue e muco nella maschera, che era di silicone trasparente, chiazzandola di porpora.

Litigai poco dopo col fotografo e non ho mai visto quelle foto svilup-pate.

*****

La salita in superficie fu altrettanto lenta e dolorosa. Misi la testa fuori dall’acqua dopo aver consumato tutte le bombole che avevo e me ne feci passare una di ossigeno di riserva.

Il braccio destro e parte della spalla erano doloranti e irrigiditi.Sperimentavo un dolore nuovo, non so come descrivere la differenza tra

mdd di elio e mdd di azoto. Si sente proprio fisicamente la disuguaglianza tra la loro molecola atomica. L’uno leggero, l’altro pesante, i dolori diffe-riscono sostanzialmente, questo è sicuro.

Alla fine dovevo salire in barca. Mi spogliai del gav e delle bombole in acqua, e a ogni movimento era come se mi avessero punto mille spilli. Da ragazzino, nel periodo di liberazione sessuale e delle droghe, avevo prova-to una volta una pera di morfina. La stessa sensazione, ma in questo caso faceva male, male parecchio.

Mi aiutarono a salire. Operazione complessa, a bordo di pescherecci che non avevano scalette laterali. Quelle manovre non erano contemplate, così usavamo mettere in acqua un divergente, una sorta di tavola da surf di legnaccio rinforzata da piastre di acciaio, che mi serviva da piattaforma per

salire poi sull’alta murata.Mi spogliai e andai a buttarmi su una branda.La navigazione fu insolitamente corta, mi ero addormentato.Una scossa gentile mi avvertì che eravamo entrati in porto.Mi lasciarono tranquillo, scaricando l’attrezzatura e ricaricandola nel

furgone. Non volevo allarmarli, e avevo detto di essere particolarmente stanco.

Salii e misi in moto. Fu un viaggio lungo, per quei cinquanta chilometri che mi separavano da Bari. A un certo punto cominciai a piangere per il dolore.

Le mdd crescono, diventano più gravi se non ricomprimi le bolle. Si racconta che alla fine dell’ottocento, a Londra, gli amministratori della so-cietà che costruiva il primo tunnel sotto il Tamigi, offrirono un pranzo di festeggiamento nel suo punto centrale. Furono aperte e scolate molte bot-tiglie di champagne, che con disappunto dei convenuti non scoppiarono né fecero le classiche bollicine. Il gusto era invariato, per cui alla fine nessuno si lamentò oltre. Finché, tornati in superficie, le bollicine fecero il loro effetto… (nota*35).

Chiamai al cellulare il mio medico iperbarico, una delle poche persone esperte, sincere e consapevoli di questo ambiente che giudico poco serio. Mi avrebbe fatto preparare la camera iperbarica del centro di cui è direttore e al più presto sarebbe arrivato personalmente, trovandosi fuori sede per un precedente impegno.

Non volevo andare in camera bagnato di acqua (muta un po’ vecchiotta e provata, non era del tutto stagna) e puzzolente. Telefonai a una mia amica chiedendole di venirmi a prendere subito e mi diressi a casa, dove lasciai il furgone e mi feci rapidamente una doccia cambiandomi. Stavo sempre peggio, ma stringevo i denti. Anche quella, penso, fu una sorta di coazione. Non lo dovevo fare e lo feci lo stesso.

In auto scoppiai a piangere una seconda volta per quanto mi faceva male. Ridevo e piangevo, istericamente, cercando di tranquillizzare quella poveraccia, spaventatissima.

nota*35) Cit. in F. Ashcroft, Oltre ogni limite, Mondadori, Milano, 2002, pag. 64.

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In ospedale mi portarono come di prassi dal centro iperbarico al pronto soccorso. Ero arrivato bello pulito, sulle mie gambe, e ragionavo, davo indicazioni. Soffrivo come un cane, ma riuscivo ancora a fare il duro, pen-sando che bastava resistere ancora un po’ e mi avrebbero ricompresso, il dolore sarebbe passato.

C’era folla, non esattamente la reception di E.R. Medici in prima linea, diciamo piuttosto un classico caos da ospedale della periferia barese, anzi del CEP, le case popolari, il regno della mafietta locale.

A un certo punto il mio infermiere iperbarico parlottava gradevolmente con una collega delle ambulanze.

Toccava cedere.Lo presi per la giacchetta e con voce flebile dissi «Oh, io sto svenen-

do…». Credo che furono le copiose lacrime più che quella frase a smuo-verlo.

Mi passarono al volo da carrozzella a lettiga, partì un ago in vena, una dottoressa mi chiese nome e cognome e volarono a ritroso per corridoi al centro iperbarico.

Fui proiettato in camera, la mia prima volta da ammalato (avevo fatto una prova con un ufficiale medico e uno dei sommozzatori del COMSU-BIN su Nave Proteo), e giù, ai diciotto metri, per una classica terapia con tabella sei (un protocollo ricompressivo elaborato dalla Marina Militare USA).

Non fu una bella esperienza.Dopo poco il dolore passò. Intorno ai dodici metri era già solo la solita

pulsazione sorda del sangue, che riprendi a sentire dopo che il corpo si è concentrato sulla sofferenza. Le bolle, schiacciate, non premevano più.

Fleboclisi, vitamina E, aspirina. Il solito. Reidratazione, antiossidante, fluidificante ematico.

Dopo l’incendio della camera iperbarica all’ospedale Galeazzi di Mila-no, in cui bruciarono vive una decina e più di persone, anche se la masche-rina sul viso manda ossigeno e lo espelle fuori dalla camera stessa, il flusso dell’aria con cui viene costantemente lavato l’ambiente è quasi costante. Il rumore mi metteva ansia.

L’ossigeno in pressione non solo è tossico, ma se satura un locale diven-ta anche combustibile. Basta un comburente, un innesco, e prende fuoco.

Niente abiti in fibre derivate dal petrolio, niente accendini ovviamente, o apparecchi elettrici.

Per me il problema non si poneva, ero in maglietta e pantaloncini di co-tone, steso sotto una coperta come quelle che si vedono sempre in ospedali, caserme e galere.

Mano a mano che stavo meglio, che la prostrazione e il sonno conse-guente passavano, iniziava a diventare intollerabile la claustrofobia indotta dalla camera e dal senso di oppressione nella respirazione.

Fintanto che ero schiacciato a quasi venti metri era semplice respirare l’ossigeno, ma a mano a mano che si risaliva verso la superficie, depressu-rizzando quel cilindro in cui ero chiuso, l’erogatore a domanda diventava vieppiù duro.

Mi soffocava.Un altro regalo della Stella del mare era quella claustrofobia, ma questa

è un’altra storia.Arrivò il mio amico medico, chiaccherammo sulle possibili cause. Concordavamo sulla possibilità che l’elio, in profondità, pur molto

schiacciato, creasse aggregazioni di microbolle quando facevo movimenti e sforzi. Mi sembrava, e lui pensava fosse possibile, che ogni volta che contraevo un muscolo, che provocavo una costrizione flettendo un braccio o una gamba, succedesse qualcosa.

Era molto diverso che fare una passeggiata, seppur profonda, su un re-litto, o addirittura farsi trainare da uno scooter.

Avrei avuto modo di sperimentarlo.Nelle immersioni seguenti feci i miei esperimenti, oltre a lavorare. Sco-

prii qual era la mia soglia del dolore, e che l’elio poteva lasciarmi a sbattere come un pesce tirato in barca all’amo, ma che poi il dolore passava in po-che decine di minuti, respirando ossigeno, e non c’era traccia dell’evento.

Imparai in quei mesi di lavoro tante di quelle cose… che ancora ora ne so meno di prima, contraddicendo teorie e affermazioni che vanno per la maggiore.

Il doc, conoscendo già la risposta, mi chiese se volevo essere trattato an-che l’indomani e che avrebbero dovuto ricoverarmi. Dissi che avrei firmato la liberatoria per uscire appena finito quel trattamento.

Era venerdì, il lunedì successivo dovevo tornare a immergermi sul pe-schereccio.

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CONCLUSIONI

Mentre lo scrivevo ho avuto sempre più la sensazione, che a mano a mano è diventata convinzione, che questo libro sia una sorta di esorcismo.

Dopo l’incidente di Leuca, che ha inutilmente spaventato e traumatizza-to la mia donna del momento (ancora scusa, Ju), Michi e Vittoria, scosso la fiducia in me di alcuni tra i miei migliori amici e offeso la cortesia, dispo-nibilità e professionalità dei marinai, degli ufficiali e dei medici presenti, in qualche maniera mi sono sentito prostrato e insicuro.

Ho sempre affermato che se avessi causato la morte in acqua di qualcu-no senza volerlo, cioè senza commettere un omicidio intenzionale, voluto e premeditato, mi sarei ritirato per sempre.

Sono stato molto vicino a farlo anche in questo caso, e spesso ci ri-fletto su.

Successivamente a quell’episodio, ho fatto un paio di immersioni tecni-che, niente di che, sempre sugli ottanta metri. Ho avuto difficoltà, non mi sono sentito a mio agio e ho sragionato. Ho provato paura prima, durante, dopo. Non quella paura che mi ha accompagnato in una vita rischiosa oltre l’immaginabile da chi non conosce la mia storia. Non la paura che ti fa riflettere su ciò che devi fare, che incanala concentrazione e controllo, e che sparisce quando comincia l’azione, lasciando il posto a gelida deter-minazione e rabbiosa aggressività.

Ho conosciuto invece la paura debilitante, tremebonda, che ti fa pregare anche un dio di cui non credi l’esistenza.

In parte mi diverte l’idea di pubblicare il mio primo libro con alcune delle peggiori espressioni di me. L’ambiente della subacquea è l’apoteosi della menzogna e della millanteria fanfarona e le persone che vi bazzicano sono perennemente celate dietro maschere.

Un caro amico che ha letto la bozza, mi ha detto «sai che ti daranno ad-dosso, vero?». Si, lo so, e mi fa sorridere.

L’ho scritto, più o meno corretto e impaginato in meno di dieci giorni, tra il 16 e il 30 settembre, facendo altro per due fine settimana lunghi. Ovviamente ne risente la già poca capacità letteraria, ma avevo bisogno di sputarlo fuori, come la bolla incastratasi nel dente dell’ultimo capitolo.

Ho violato tutte le regole sullo scrivere apprese dal libro di Stephen King On writing, autobiografia di un mestiere (nota*36).

Mi consola che tanto non mi leggerà mai e non scoprirà quanto lontano, abissalmente lontano, sono dal mio modello di bello scrivere.

Questo libro è dunque un personale sacrificio pagano, consegnato alle folle (sic!) urlanti e assetate di sangue. Sono sciamano officiante e vittima sacrificale al tempo stesso.

Magie della scrittura. Spero funzioni. Preferisco recuperare la forza per mangiarmi il cuore

del nemico che mi sfotte a ragione, piuttosto che nascondermi nell’ombra, timoroso per ogni frusciar di fronde.

«Se tu non sei marcio diranno che sei pazzo. Ma se sei marcio sputeran-no su di te. Mentre se tu sei pazzo, di te avranno paura. Non ti perdoneran-no di non essere simile a loro e ti combatteranno ma fino al momento in cui tu mostrerai la tua forza. Allora si inchineranno e fino a quel giorno, tu devi attendere con pazienza e presentare loro un viso impenetrabile.»

Dal Corano

nota*36). Sperling & Kupfer, Milano, 2001.

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Ringraziamenti

Come ogni libro che si rispetti, non posso esimermi dal ringraziare chi in qualche maniera ha contribuito alla sua realizzazione. Debbo a Gigi di avermi mostrato la strada della subacquea con cinismo divertito e intelligente, che me ne ha fatto innamorare nonostante la marea di stronzi galleggianti. Un grazie, reso amaro per la triste separazione delle nostre rispettive strade, va a Claudia, compagna di vita e di avventure per lungo tempo (forse troppo a suo avviso), e a Cristiano, scomparso prematuramente due anni fa. E’ stato insieme a lui che siamo cresciuti in questo mestiere.

Le fotografie che corredano questo libro più che immagini di subacquea, sono una sorta di percorso, incompleto e del tutto personale, della memoria. Mancano tantissime immagini, purtroppo, alcune perse negli anni, altre mai scattate se non dentro il mio cervello. Anch’esse vogliono essere una sorta di ringraziamento.

Grazie a Michela per avermi dato sostegno in un momento difficile senza aspettarsi nulla e per aver letto e corretto le bozze: qualsiasi errore, refuso e non è colpa sua! (scherzo, scherzo). E alla Dama, per aver controllato con attenzione e competenza la comprensibilità degli argomenti subacquei più tec-nici e delle note.

Voglio ringraziare indistintamente tutti coloro che si ritroveranno in queste avventure per averle vissute insieme a me in qualche maniera. Anche quelli con cui non ho più nulla a che fare, con cui mi sono scontrato e che ancora prendo a calci in culo. Sono stati attori protagonisti di questo scorcio di pal-coscenico della vita. Alla fine, polvere eravamo e polvere ritorneremo. Per cui, se non fossimo animali strani e dannati, costretti a convivere con la con-sapevolezza della nostra caducità e sempre affannati nel tentativo di far finta di niente, tutte queste storie non conterebbero assolutamente nulla e le nostre divergenze sarebbero parte di questo niente.

Scusatemi se non ho fatto nomi e cognomi, per una volta mi sono divertito a comportarmi diversamente dal solito.

Infine, grazie ancora a Julie. Per i venti mesi che mi ha dedicato della sua preziosissima vita e per avermi provocato gli stimoli giusti per scrivere e finire il mio primo libro, da dedicarle con amore…

C’è una donna dietro le azioni di ogni uomo, dicono.Se non si era capito, ho accusato e rosicato ‘na cifra.

Fotografi

Foto 1, 2, 4, 5, 6, 7, 8, 15, 16, 17 Stefano Di Cagno; 3 Fabio Ferrero; 9, 11 Feliciano Lorusso; 10 Cristian Pizzi; 12 Stefano Luzzi; 13, 14 Fabio Perozzi; 18, 21 Archivio Captain Nemo Magazine; 19 Lidia Fiorini; 20 Francesco Sesso; pubblicità CN: a sx foto di Stefano Di Cagno, a dx di Fabio Perozzi.

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E' arrivato il momento che "Morire..." diventi un ebook open source. Buona lettura.

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