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Mythos & Logos Organigramm a Autori

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Mythos&

LogosOrganigramma

Autori

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Differenze ed

affinità

Logos e Religione

Evoluzione storica

Mythos nel mondo Greco

Il distacco del Logos

Origine Mythos

Etimologia

Mythos &

Logos

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Nota lessicaleMythosa parola, detto, discorso, discorso pubblico, conversazione, dialogob consiglio, ordine, intenzione, pensiero, proposito, disegnoc fama, diceria, notizia, messaggio, voce, oggetto di discorso, detto,

sentenzad racconto, storia, narrazione, favola, leggenda, mito, racconto

favoloso, intreccio Notare i passaggi dai significati “parola”, “detto”, “discorso” a

“racconto”, “narrazione”, fino al termine “mito” che fa riferimento a un racconto favoloso.

Logosa parola, discorso, b dichiarazione, affermazione, risposta, promessa, detto, decisione,

ordine, proclamazione, insegnamento, dottrina, definizione, ipotesi, condizione, patto

c fama, tradizione, leggenda, diceria, voce, notiziad rivelazione, oracolo, responso, parola rivelata (nel mondo ebraico,

cristiano), Logos, Verbo (in teologia)

Mito deriva dal greco mythos, che ha un equivalente pressoché diretto nel latino fabula ; quanto alla origine etimologica della parola greca mythos, non esiste un parere unanime fra gli studiosi. Tuttavia l'orientamento prevalente è quello di far derivare mythos dal verbo myo, che vuol dire, appunto, essere racchiuso, stare chiuso in se stesso. Vedremo come questa possibile etimologia sia anche in grado di fornire indicazioni importanti per quanto riguarda il significato della parola mythos.

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Il mito è innanzitutto un modo di approccio alla realtà, una forma di conoscenza. Esso è assai diffuso nel mondo arcaico: solo quando la filosofia e la componente razionale-logica della conoscenza prendono piede, esso comincia ad essere considerato come un semplice repertorio di belle favole, marginalizzato e reso specialistico. Al di là di questa considerazione, esso è in ogni caso la cultura di un popolo illetterato, il raccontare della tradizione orale. Esso è variabile in quanto continua ad essere elaborato, raccontato in modo sempre diverso (è dunque importante considerare le varianti come categorie di analisi). Inoltre è flessibile dal momento che ha diversi significati e si apre a plurali interpretazioni, modificandosi nelle continue riprese. In sostanza, esso è un'intelaiatura che viene sempre ripresa e modificata, fino anche ai giorni nostri. Chi elabora il mito lo pensa come autentica conoscenza, narrazione dotata di realtà. In questo senso il mito è la sapienza propria elaborata da una civiltà, un suo elemento di coesione, di memoria storica. Il mito è, in questo senso, una tipica fonte di modelli di comportamento e regole dell'agire.

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Fino a tutto il quinto secolo il termine greco mythos coincide, dal punto di vista del significato, con il termine che invece successivamente verrà usato in opposizione a mythos, cioè con il termine lògos.

Da Omero fino, all'incirca, a Platone e a Tucidide, mythos è l'equivalente di parola o discorso; viene anche usato come sinonimo di consiglio, ammonimento e in qualche caso anche di ordine, indipendentemente dal contenuto di verità o falsità di questo discorso.

Esiste, in un certo, senso una qualche coincidenza di significato o, se vogliamo, una indistinguibilità di significati fra mythos e lògos, nel senso che entrambi alludono a discorsi in senso generico, senza alcuna precisazione circa il loro contenuto di verità o falsità.

E' solo appunto con il quarto secolo, con Tucidide e con Platone, che si assiste invece ad una netta distinzione fra il termine e più ancora, ovviamente, il concetto di mythos e quello di lògos.

E' proprio Tucidide a sottolineare la necessità di espungere dal racconto storico che intenda essere storico "tò mythòdes", cioè l'elemento mitico, tutto ciò, in qualche modo, che sia connesso con la tradizione orale;

ed è proprio poi Platone che opera una distinzione molto precisa, ad esempio nel "Sofista", fra i discorsi dei filosofi presocratici, i quali a lui sembrano raccontare un mythos quando alludono alle forme in cui si esprimerebbe l'arché della fysis, il principio della natura, e la necessità di contrapporre a questi mythoi, a questi discorsi dal contenuto non vero, secondo Platone, la verità del lògos.

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Il mythos accompagna tutto l’arco della civiltà greca. Il mythos viene narrato, rappresentato e scritto, prima durante e dopo l’avvento del logos filosofico che nasce, si confronta, si differenzia e da esso prende congedo perché ormai quella verità che il mythos proponeva in veste allegorica, ora viene espressa dal discorso logico-razionale ovvero dalla filosofia (Aristotele) e dalla storia (Tucidide). La domanda intorno al senso del mythos è un interrogativo posto alla vicenda storica della filosofia greca e della civiltà greca in quanto tale. La risposta va delineata attraverso una indagine che interpelli la religione, la filosofia, la poesia, ma anche Erodoto, Tucidide, Teagene di Reggio, Ecateo di Mileto, Evemero di Messene… ovvero tutti coloro che si sono occupati del mythos e che si sono cimentati nel tentativo di comprendere il senso del mythos all’interno del mondo greco.Tra l’VIII e il IV secolo a. c. in Grecia avviene la separazione e l’opposizione del mythos al logos:  il primo è assurdo ed è finzione, mentre il secondo è razionale ed ha a che fare con la realtà. Il punto di partenza è una condizione indistinta, linguistica e non, dove il mythos convive col logos, si confonde con esso, ne è sinonimo. Ambedue i termini descrivono una parola viva e calda, una storia raccontata, narrazioni tradizionali, discorsi sacri, che hanno per oggetto gli déi, gli uomini, la città e il mondo. In questo senso il mythos è eziologia storica ovvero esso narra di un tempo primordiale fondante l’attuale ordine del mondo. Un tempo originario recepito, celebrato e custodito nel culto.Il mythos non appartiene ad un testo e ad un genere letterario preciso. Lo troviamo, infatti, nell’epica, nella lirica corale, nella tragedia e nella tradizione popolare di cui è “voce”. Il mythos sembra essere una sorta di tema fisso, atemporale, che viene trasmesso di generazione in generazione, con ridotte variazioni. La sua origine si perde nella notte dei tempi: esso è sempre esistito e viene semplicemente tramandato perché brilla di luce propria. Il poeta o il narratore non ne possono disporre come credono, ma può essere tradotto da una lingua all’altra: il mito di Atlantide, riportato nel Timeo da Platone, che lo presenta come un logos.  Il mythos, inoltre, è una narrazione orale che Omero, o chi per esso, ha messo per la prima volta per iscritto, salvandolo per sempre e, al contempo, rendendo inaccessibile la natura propria del mythos: l’oralità. La tradizione scritta di Omero è certamente la versione più antica del mythos, ma non è l’unica: la figura di Esiodo, di Epimenide e la tradizione orfica ce lo ricordano.

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Quando nel V secolo Erodoto e Tucidide vogliono fare storia si imbattono nel mythos e si chiedono che cosa dice, se è una narrazione attendibile e se è utilizzabile per scrivere di storia. Erodoto lo giudica assurdo, insulso e inconcepibile perché non resiste ad un confronto con la realtà nota e perché frutto di ignoranza. Per Erodoto, comunque, il mythos è ancora una fonte da interpellare e da vagliare, mentre per Tucidide è da dimenticare. Egli afferma che il lavoro dello storico deve procedere al vaglio delle notizie e dei racconti tradizionali per trattenere ciò che è verificabile ossia la storia recente. Il mythos, appartenendo ad un tempo remoto, non può essere verificato e, quindi, non ha valore storico: meglio lasciar perdere, meglio espungerlo completamente dal lavoro dello storico e lasciarlo ai poeti, ai logografi e ai “narratori di miti”, appunto. Con Teagene di Reggio (VI secolo) e Evemero di Messene (IV-III secolo) troviamo documentata la lettura allegorica del mythos: per il primo esso parla della natura, mentre per il secondo dietro il mythos si cela la storia. La storia della filosofia ci documenta  dapprima una condizione indistinta del mythos e del logos (Parmenide), in seguito il sospetto nei confronti della capacità del mythos di asserire la verità (Senofane) e infine il  passaggio dal mythos come verità narrata  al logos come verità argomentata. Il passaggio in questione ha come momenti decisivi quello della sofistica (il mythos è discorso non vero, mentre il logos è discorso “vero”), di Platone (il mythos è comunque utile perché dice qualcosa laddove il logos tace e nella “città ideale” trova posto come strumento, opportunamente emendato in senso etico, di educazione e persuasione degli uomini), di Aristotele (la meraviglia è la comune origine del mythos e del logos, ma è ormai scoccata l’ora del logos, della verità argomentata, mentre il mythos è un abbozzo di discorso razionale, residuo di una umanità arcaica che ora non esiste più), dello stoicismo e del neoplatonismo che offrono una lettura allegorica in senso fisico o morale del mythos, portatore comunque di un logos.

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Il mondo greco ci ha consegnato la sopravvivenza del mythos nella mitografia, nella poesia, nella religione e nella interpretazione allegorica, il congedo dal mythos come luogo della verità perché esso è finzione, assurdità e sfugge ad ogni verifica, e la scelta del logos come deputato all’asserzione della verità, che è argomentata e universale. In questo modo il passaggio dal mythos al logos contiene in sé una dichiarata superiorità perché si guadagna in universalità, incontrovertibilità, eticità e verità, abbandonando le sponde della finzione, dell’assurdo, dell’immorale, dell’oscuro a favore della luce del logos. La comprensione del passaggio in questione come l’accedere ad un livello superiore offre una visione positivista del mythos: una tappa del cammino della verità che appare nella forma della rappresentazione della fede o il primo stadio evolutivo della storia dell’umanità. In ogni caso rimane posto l’interrogativo circa il linguaggio e il discorso del mythos: è in grado di dire la verità? La “filosofia prima” ovvero il sapere originario può solamente assumere il volto del logos oppure anche il mythos è un sapere originario e fondante, in una forma simbolica?

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Il Mito in PlatoneIl V° secolo è quello della tragedia che usa ancora il mito in combinazione con il logos filosofico (la sofistica) ed è anche il tempo di Platone, il quale pensa al mito in modo ambivalente. Da una parte, egli considera i miti immorali in quanto irrispettosi della religione, escludendoli dall'educazione con forme di censura: è la Filosofia, e soprattutto la Politica, ad essere realmente importante per Platone, ed è proprio questa a controllare la poesia e la letteratura, all'interno della città ideale. D'altro canto, però, Platone stesso fa spesso uso di miti di vario genere all'interno delle sue opere, questo perché egli considera il mito come strumento per esprimere in modo piacevole verità profonde. In sintesi, per Platone il mito assume una funzione prettamente comunicativa, persuasiva, complementare all'argomentazione filosofica: esso diventa un mezzo per parlare di realtà che stanno al di là della capacità di indagare della ragione, per superare i confini del pensabile e, per così dire, proseguire i "sentieri interrotti" della Filosofia. Attraverso il mito si possono allora formulare teorie verosimili (indimostrabili, ma che si possono ritenere vere), utilizzando il grande potere comunicativo e suggestivo della metafora. Nella sua produzione infatti troviamo:•         miti COSMOGONICI che riguardano la formazione struttura universo come quello del Demiurgo o di Atlantide. •         miti METAFISICI che colgono difficili verità metafisiche inaccessibili per l’intelletto senza l’ausilio della metafora, come quelli della biga alata e della caverna •         miti ESCATOLOGICI sul destino ultraterreno dell’anima, ne sono esempio “Il mito di Er”, o quelli dell’anima •         miti della CIVILIZZAZIONE e della STORIA come quello di Prometeo •         miti della FRATELLANZA e DIVERSITA’ degli uomini, ad es. “Il mito delle stirpi”.

 

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Durante il XIX secolo, il mito viene considerato, secondo varie scuole di pensiero (tutte influenzate dall'evoluzionismo darwiniano), come un prodotto grossolano della mentalità umana primitiva, il linguaggio dell'irrazionale e dell'illusorio. Similmente, agli inizi del XX secolo, stando alle tesi di Lucien Levi-Bruhl (1857-1939), il mito è manifestazione del pensiero di popolazioni primitive, inferiori, uno stadio pre-logico interamente in balìa dell'emotività e del misticismo, una condizione che può riaffiorare nel linguaggio infantile o addirittura riemergere nel delirio degli schizofrenici. Successivamente, grazie anche a studi compiuti su popolazioni in Africa e Oceania, la conoscenza mitica viene per la prima volta considerata come una forma di razionalità diversa dalla nostra, ma non per questo meno evidente: un elemento centrale nell'organizzazione e nella vita di una società arcaica. Al giorno d'oggi, secondo la recente antropologia, il mito è la forma di conoscenza delle popolazioni primitive, il modo in cui esse si "appropriano" della realtà. Secondo la psicanalisi, inoltre, sono immagini di tipo mitico quelle che affiorano nei sogni e nell'inconscio del singolo individuo (secondo Freud) o al livello dell'inconscio collettivo (secondo Jung).

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«In principio era il Verbo,il Verbo era presso Dioe il Verbo era Dio.Egli era in principio presso Dio:tutto è stato fatto per mezzo di lui,e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.[...]E il Verbo si fece carnee venne ad abitare in mezzo a noi;...»(Vangelo di Giovanni 1,1,14)

Nel Cristianesimo il logos compare all'inizio del Vangelo di Giovanni , dov'è coincidente con Dio creatore.

Filosofia (greca) e religione (cristiana) convergono dunque nell’idea per cui

è innaturale non agire seguendo il logos, la ragione, che tuttavia necessita di un

allargamento del suo concetto così come del suo uso possibile rispetto a quella

«riduzione del raggio di scienza e ragione» avvenuta nella modernità. In seguito a tale riduzione, infatti, le domande riguardanti il senso della vita umana e del mondo in generale, non essendo passibili di una risposta imperniata sul nesso di matematica ed empirica, sono andate incontro ad

una radicale soggettivizzazione: la coscienza personale è rimasta «l’unica

istanza etica».

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Progetto realizzato dallealunne classe 3° H

Francesca Marcone

Marika Guglielmo

Francesca Palmieri

Melody Shoffner

Fabiana Lubreglia