n.23 * agosto - aou-careggi.toscana.it
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2 Alcologia N. 23 – AGOSTO 2015
EDITORIALI
Editore/ Editor Fondazione Istituto Andrea Devoto Direttore responsabiIe/Editor in chief Valentino Patussi Comitato di Direzione/Assistant Editors Fabio Caputo Emanuele Scafato Comitato di Redazione/Advisory Board Arcangelo Alfano (Firenze) Mauro Ceccanti (Roma) Tiziana Codenotti (Padova) Gabriele Magri (CAR, Firenze) Fabio Voller (ARS, Firenze) Raffaella Rossin (Referente SIA) INTERNATIONAL EDITORIAL BOARD Henry-Jean Aubin (Paris, F) Jonathan Chick (Edinburgh, UK) Michel Craplet (Paris, F) Philippe DeWitte (Louvain-la-Neuve, B) James C. Garbut (Chapel Hill, USA) Antoni Gual (Barcelona, E) Paul Haber (Sidney, AUS) Susumo Higuchi (Tokyo, J) Evgeny Krupitsky (Sankt-Peterburg, RUS) Lorenzo Leggio (Washijngton, USA) George Kenna (Providence, USA) Otto Michael Lesch (Wien, O) Jannis Mouzas (Heraklion, GR) Jurge Rehm (Toronto, CDN) Katrin Skala (Wien, O) Rainer Spanagel (Mannheim, D) Robert Swift (Providence, USA) Nicolas Tzavaras (Alexandropolis, GR) Henriette Walter (Wien, O) Marcin Wojnar (Warszawa, PL) Tomas Zima (Praha, CZ) NATIONAL EDITORIAL BOARD Giovanni Addolorato (Roma) Roberta Agabio (Cagliari) Claudio Annovi (Modena) Mauro Bernardi (Bologna) Mauro Cibin (Dolo) Roberto Ciccocioppo (Camerino) Paolo Cimarosti (Pordenone) Giancarlo Colombo (Cagliari) Giuseppe Corlito (Grosseto) Giovanni Corrao (Milano) Elia Del Borrello (Bologna) Simona Del Vecchio (Sanremo) Cristina Di Gennaro (Parma)
Sezione tabacco/Tobacco Section Chief Mateo Ameglio Giuseppe Gorini Sezione inglese/English Section Chief Fabio Caputo Direzione operativa/Assistant Editor Tiziana Fanucchi Centro Alcologico Regionale Toscano Redazione/Editorial Office Centro Alcologico Regionale Toscano Azienda Ospedaliero Universitaria di Careggi Tel/Fax 0557949650 [email protected] Marco Domenicali (Bologna) Marco Faccini (Verona) Fulvio Fantozzi (Reggio Emilia) Angelo Fioritti (Bologna) Diego Fornasari (Milano) Andrea Ghiselli (Roma) Lucia Golfieri (Bologna) Giovanni Greco (Ravenna) Simona Guerzoni (Modena) Luigi Janiri (Roma) Ina Hinnenthal (Imperia) Ilaria Londi (Firenze) Fabio Lugoboni (Verona) Filomena Maggino (Firenze) Patrizia Malaspina (Roma) Franco Marcomini (Padova) Giovanni Martinotti (Chieti) Davide Mioni (Padova) Maria Cristina Morelli (Bologna) Luca Morini (Pavia) Antonio Mosti (Piacenza) Umberto Nizzoli (Reggio Emilia) Andrea Noventa (Bergamo) Daniela Orlandini (Venezia) Giuseppe Palasciano (Bari) Raimondo Pavarin (Bologna) Francesco Piani (Udine) Luigi Alberto Pini (Modena) Antonio Daniele Pinna (Bologna) Massimo Pinzani (Firenze) Fabio Roda (Brescia) Raffaella Rossin (Milano) Maria Teresa Salerno (Bari) Bruno Sciutteri (Salerno) Saulo Sirigatti (Firenze) Stefano Taddei (Firenze) Federica Vigna-Taglianti (Torino) Teo Vignoli (Lugo) Valeria Zavan (Novi Ligure)
Correzione di bozze e impagi-nazione/Proofreading and Layout Simone Ticciati CentroAlcologico Regionale To-scano Consulente di lingua ingle-se/English Language Consultant Susan West [email protected] Stampa/Printed by Premiato Stabilimento Tipografi-co dei Comuni Soc. Coop., San-ta Sofia (FC) Editori Precedenti/Past Editors Giovanni Gasbarrini (Roma) Remo Naccarato (Padova) Mario Salvagnini (Vicenza) Giuseppe Francesco Stefanini (Faenza) Calogero Surrenti (Firenze) LOCAL EDITORIAL BOARD Mateo Ameglio (Colle Valdelsa) Ioannis Anifantakis (Prato) Gabriele Bardazzi (Firenze) Marco Becattini (Arezzo) Massimo Cecchi (Firenze) Valerio Cellesi (Volterra) Ugo Corrieri (Grosseto) Paolo Costantino (Firenze) Maria Luisa Cucinelli (Arezzo) Fabrizio Fagni (Montecatini - Pistoia) Susanna Falchini (Firenze) Fabio Falomi (Grosseto) Angela Guidi (Mugello- Firenze) Guido Guidoni (Firenze) Guido Intaschi (Viareggio) Adriana Iozzi (Firenze) Dino Lombardi (Valle del Serchio - Lucca) Mario Lupi (Orbetello) Antonella Manfredi (Prato) Henry Margaron (Livorno) Milo Meini (Pisa) Daniela Monali (Massa Carrara) Donatella Paffi (Pisa) Patrizia Panti (Firenze) Mario Pellegrini (Siena) Ellena Pioli (Pisa) Andrea Quartini (Firenze) Lamberto Scali (Prato) Graziella Soluri (Pistoia) Maura Tedici (Empoli) Paola Trotta (Firenze) Tommaso Vannucchi (Prato) Maurizio Varese (Lunigiana – Massa Carrara)
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IN QUESTO NUMERO EDITORIALI Centro Alcologico Regionale Toscano (Valentino Patussi, Ilaria Londi, Tiziana Fanucchi, Ga‐briele Magri, Simone Ticciati, Jessica Trimarco) Non è tutto tecnica p. 5 ARTICOLI Emanuele Scafato, Valentino Patussi, Tiziana Fanucchi, Paolo Cimarosti, Gianni Testino, Or‐nella Ancarani, Doda Renzetti, Maria Francesca Amendola, Claudia Gandin, Bruno Sciutteri, Maria Raffaella Rossin Position Paper per l’organizzazione di base degli interventi sui Problemi e le Patologie Alcol Correlate (PPAC) p. 9 Emanuele Scafato Alcol e danno alla salute p. 17 Fulvio Fantozzi Nalmefene versus naltrexone p. 25 ENGLISH SECTION Gabriele Vassallo, Antonio Mirijello, Filippo Bernardini, Claudia Tarli, Mariangela Antonelli, Luisa Sestito, Antonio Gasbarrini, Giovanni Addolorato Liver transplantation in patients with alcoholic liver disease: current status and controversies p. 29 Marco Faccini, Fabio Lugoboni Slow infusion flumanezil for the treatment of benzodiazepine tolerance. A topic of interest to alcohologists p. 37 ATTI CONGRESSO SIA PUGLIA Atti del Congresso Monotematico Alcol: tra diritto al lavoro e diritto alla salute (Bari, 7 novembre 2014) p. 41 CONTRIBUTI DAL TERRITORIO Albino Ferrarotto, Editta Zenere, Lucia Graser Meno alcol PIÙ GUSTO p. 63 EUROCARE ITALIA Marta Babetto, Tiziana Codenotti, Franco Marcomini Introduzione alla sezione Eurocare p. 65 TABACCO Giuseppe Gorini, Tommaso Grassi L’esperienza del controllo del tabacco nel dibattito sulla legalizzazione della marijuana p. 69 Giuseppe Gorini, Tommaso Grassi World No Tobacco Day 2015: Fermare il commercio illecito dei prodotti del tabacco p. 72
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Innumerevoli sono le proposte relative al benes‐sere, alla realizzazione personale e alla crescita interiore che dagli anni ‘60 ad oggi si sono diffu‐se con nomi diversi, canali, tecniche differenti e modelli di riferimento vari e talvolta poco chiari. È tipico della metodologia di lavoro occidentale, soprattutto statunitense, creare percorsi struttu‐rati con un inizio e una fine, strategie di sopravvi‐venza per fronteggiare un mondo che si fa sem‐pre più minaccioso, ansiogeno e stressante. Il contesto socioculturale attuale come viene descritto, nelle sue molte sfaccettature malevole e poco rassicuranti, spinge le persone a cercare isole felici di benessere dove il ritmo incessante della vita si riduce e lascia lo spazio al respiro, al rilassamento, alla scoperta di sé amorevoli e di risorse interne per sopravvivere. La patologia narcisistica si sostituisce allo scena‐rio isterico, il disordine psicologico si manifesta non tanto nelle dinamiche di repressione e rimo‐zione emozionale come era in passato ma nella corsa a traguardi di successo e autoaffermazione sempre più grandiosi. Un orizzonte che rischia di spostarsi sempre più avanti e che presta il fianco ad una condizione di insanabile mancanza da colmare. Da diversi anni psicologi, psichiatri, filosofi e so‐ciologi si stanno domandando quali conseguenze patologiche possano esserci nell’uso della rete e dei social network nella sfera personale e rela‐zionale dell’individuo, non soffermandosi più tanto sull’annosa questione se siamo di fronte a “relazioni reali” o “virtuali”, sulla perdita dell’identità reale in innumerevoli second life ma concentrandosi, piuttosto, sulle conseguenze dell’esaltazione narcisistica del Sé. La relazione diventa un legame che ha la funzio‐ne di confermare la persona nella sua bellezza, nel suo successo e nella sua realizzazione. Il ter‐mine like utilizzato per definire l’interazione tra persone evoca il piacere come veicolo di apprez‐zamento, non come ponte tra un Io e un Tu, quanto tra un Io e un Io.
Non stupisce, allora, il fatto che la parola dell’anno 2013 secondo l’Oxford English Dictio‐nary sia selfie. Il selfie è un modo di presentarsi attraverso i social network che coinvolge soprat‐tutto i giovani ma non solo; ad una osservazione più attenta e scevra da pregiudizi, anche gli adul‐ti non sono assolutamente immuni da questa pratica, in questa società ultra capitalista dove la soddisfazione individuale viene considerata co‐me lo scopo finale di una vita di successo. Proprio per la condizione di insanabile ricerca di conferme dall’esterno, si tende a cercare fuori da sé anche la soluzione al malessere. Il malesse‐re non ha diritto di esistenza, come il contatto con emozioni di dolore, paura, ansia e angoscia. A tutto questo si pone rimedio affidandosi a per‐corsi che casualmente o meno si trovano sulla strada, delegandoci completamente ad esperti che si dicono in grado di dare risposte alle do‐mande e ai disagi che si percepiscono nel vivere. Spesso questi stessi esperti e con essi le grandi lobby economiche che vanno dalla produzione di farmaci alle assicurazioni, incasellano il tutto all’interno del concetto di malattia che alimenta e soddisfa la tendenza alla deresponsabilizzazio‐ne soggettiva e collettiva. Non sono io la causa dei miei disagi e delle mie malattie, la responsa‐bilità è al di fuori di me, la soluzione è affidarmi a qualcuno o a qualcosa che possa risolvere il pro‐blema. Serve che qualcuno mi insegni a contatta‐re il respiro, a fronteggiare gli eventi esterni, le pressioni, la prestazione, serve che qualcuno mi dica come, cosa e quanto devo bere e mangiare, quanto posso piegare la gamba per non sentire dolore, serve che qualcosa mi aiuti ad affrontare meglio tutto. In questo quadro il benessere appare completa‐mente in mano ai professionisti della salute e alle lobby economiche che, promettendo un fu‐turo migliore, sviluppano modelli di consumo abbassando cos ì la percezione di quell’autoefficacia che ciascuno può sperimenta‐re semplicemente entrando in contatto con sé
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CENTRO ALCOLOGICO REGIONALE TOSCANO (Valentino Patussi, Ilaria Londi, Tiziana Fanucchi, Gabriele Magri, Simone Ticciati, Jessica Trimarco)
Non è tutto tecnica
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stesso, ascoltando le proprie sensazioni e le pro‐prie emozioni. Come se i nostri stili di vita e le nostre scelte dovessero essere ufficializzate all’interno di tecnicismi che fanno apparire tutto quanto come qualcosa che va imparato da qual‐cuno più esperto e competente di noi. Un’insicurezza collettiva scandisce le tappe della ricerca del benessere, della sicurezza e della se‐renità finché un metodo o una tecnica non arri‐veranno a sanare le incertezze e il concetto di malattia a rassicurarci sulla nostra non responsa‐bilità. Numerosi sono gli esempi, da banali a complessi, che si possono fare relativamente all’abdicare competenze personali e strumenti di autodeter‐minazione ad esperti di settore e professionisti. Tra questi si può pensare alla sempre più diffusa mindfulness, parola inglese che negli ultimi anni ha fatto capolino in molti contesti, tradotta im‐propriamente con consapevolezza ma non facile da descrivere perché si riferisce prima di tutto ad un’esperienza diretta. La mindfulness ha una storia di oltre 2500 anni ed affonda le sue origini nelle tradizioni contemplative buddiste ma la descrizione più classica è quella fornita recente‐mente da Jon Kabat‐Zinn che ha avviato l’uso clinico della mindfulness descrivendola come un modo particolare di prestare attenzione, al mo‐mento presente, con intenzione e senza giudizio e ne ha dimostrato gli effetti positivi. In poco tempo la capacità di fermarsi, di rispondere a due semplici domande (dove sono e cosa faccio in questo momento) e di ascoltare il nostro re‐spiro e il nostro corpo, di concentrarsi su una cosa per volta senza anticipare con la mente gli eventi, è stata trasformata in una tecnica tera‐peutica di cui tanti si sono appropriati. Certa‐mente l’epistemologia di riferimento che anima la mindfulness è assolutamente condivisibile e ad essa si può ricorrere anche nella pratica lavo‐rativa ma non perché siamo esperti con la licen‐za di farlo ma in quanto esperiamo ogni giorno il benessere che procura lo stare nel presente, guardando ciò che ci passa davanti agli occhi e lasciando emergere le nostre emozioni. Di fronte al baluardo della professionalità si ten‐de a deresponsabilizzarci e questo favorisce l’impotenza individuale e collettiva. “Non posso farlo io perché non ho le competenze” è l’alibi dietro al quale ogni cittadino si nasconde per non assumersi la responsabilità rispetto a certi fenomeni che avvengono nella propria città o nel
contesto di vita. Siamo sempre meno abituati ad avere fiducia nella cosiddetta saggezza organismica che il no‐stro corpo è in grado di mettere in atto nel mo‐mento in cui si trova a fronteggiare uno stress o una situazione difficile, siamo sempre meno abi‐tuati a fidarci di noi stessi e delle nostre intuizio‐ni. Spesso si descrive la particolare condizione psi‐cofisica di fronteggiamento dello stress con il concetto di resilienza, termine derivato dalla scienza dei materiali che indica la proprietà che alcuni materiali hanno di conservare la propria struttura o di riacquistare la forma originaria do‐po essere stati sottoposti a schiacciamento o deformazione. In psicologia la resilienza connota proprio la ca‐pacità delle persone di far fronte agli eventi stressanti o traumatici e di riorganizzare in ma‐niera positiva la propria vita davanti alle difficol‐tà. Va concepita come una funzione psichica che si modifica nel tempo in rapporto all'esperienza, ai vissuti e, soprattutto, al modificarsi dei mecca‐nismi mentali che la sottendono. La resilienza è qualcosa che ha a che fare con l’istinto di sopravvivenza più profondo, non solo con le capacità emotive e cognitivo‐comportamentali che si mettono in atto per ri‐solvere un problema, capacità che per giunta la psicologia aveva già descritto come strategie di coping. Possiamo quindi considerarla una risorsa eccezionale in quanto la resilienza è un processo che l’individuo costruisce lungo il corso della vita attraverso lo sviluppo di autoancoraggi persona‐li, come valori etici e morali, relazioni significati‐ve e solidali che spingono a trovare un senso in ciò che il soggetto sta fronteggiando e attraverso lo sviluppo della capacità di usare il pensiero di‐vergente. Ogni individuo possiede una spinta alla vita in senso biologico ed emotivo e l’autoregolazione di questa capacità di resistere è qualcosa che si possiede in quanto tale. Si possono modificare e apprendere strategie di coping ma non il “mordente” per l’esistere. La resilienza, quindi, non si insegna e non si trasmette attraverso no‐zioni e informazioni, non si attiva per mano di esperti che possono solleticarla con interventi di training e consapevolezza. Il concetto di resilienza è anche applicabile ad un'intera comunità, non solo al singolo individu‐o; si sta affermando nell'analisi dei contesti so‐
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ciali successivi a gravi catastrofi di tipo naturale come terremoti o alluvioni o dovute all'azione dell'uomo quali, attentati terroristici, rivoluzioni o guerre. Vi sono difatti processi economici e sociali che, in conseguenza del trauma costituito da una catastrofe, cessano di svilupparsi restan‐do in una continua instabilità e, alle volte, addi‐rittura collassano, estinguendosi. In altri casi, al contrario, sopravvivono e, anzi, proprio in conse‐guenza del trauma, trovano la forza e le risorse per una nuova fase di crescita e di affermazione. La comunità sarà in grado di essere resiliente solo se alla base c’è un senso di appartenenza forte, un’idea etica delle proprie responsabilità e una percezione chiara che il mio “fare” ha un significato più ampio. Anche la resilienza sociale non si insegna nel momento di emergenza ma piuttosto si promuove attraverso processi sociali e politici che rimettano l’individuo in una posi‐zione di forza, rispetto alla condizione di impo‐tenza che può provocare la sensazione di “non saper fare”. Il riappropiarsi dei meccanismi di difesa e della capacità di promuovere la propria salute e il pro‐prio benessere è la nuova frontiera per gli opera‐tori della salute e, più in generale, per tutta la comunità in quanto disagi e catastrofi hanno sempre più un’origine antropogena rispetto al
passato. Rinunciare al pensiero onnipotente del controllo che la “tecnicizzazione” insegue e ri‐consegnare alle persone la loro capacità ontolo‐gica di dare un senso a ciò che vivono, dovrebbe essere l’obiettivo delle scienze sociali, mediche e psicologiche. L’alcologia, o almeno una parte di questa, sicura‐mente si distingue per il lavoro di promozione che si pone di fare, attraverso lo sviluppo di pro‐cessi di empowerment individuali e collettivi che si oppongono al modello di malattia cronica reci‐divante, supportato dalle grandi lobby economi‐che, e guardano alla complessità del fenomeno alcol e alla molteplicità dei fattori in esso impli‐cati, da quelli individuali, a quelli culturali, socia‐li, economici, commerciali, etici, spirituali. Voltaire diceva che il meglio è nemico del bene. Se utilizziamo noi stessi, le nostre emozioni e sensazioni, le nostre credenze e le nostre capaci‐tà, possiamo non fare il meglio ma solo ciò che siamo capaci di fare in quel momento specifico; se invece ci appoggiamo sulle tecniche, possia‐mo pure sentirci nella condizione di aver perse‐guito il meglio, ma quel meglio è qualcosa che non diventa nostro patrimonio, né della nostra comunità, ma soltanto una nuova e deperibile tecnica.
La campagna Too young to drink realizzata da Fabrica per il FASDay del 2015
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ARTICOLI
Indice 1.Strategie di prevenzione e di contrasto sull’alcol a livello Europeo 2.Linee di indirizzo per l’organizzazione di base degli interventi sui Problemi e le Patologie AlcolCorrelate (PPAC) 3.Livello Ospedaliero e Territoriale 4.Servizio di Alcologia Ospedaliero (SAO) 5.Servizio di Alcologia Territoriale (SAT) 6.Strutture residenziali e semiresidenziali accreditate 7.Comunità Terapeutiche residenziali con moduli spe‐cifici per PPAC 8.Livello Regionale: Centro Alcologico Regionale (CAR) 9.Formazione 10.Volontariato 11.Legislazione di riferimento 12.Bibliografia
1. Strategie di prevenzione e di contrasto sull’alcol a livello Europeo Negli ultimi dieci anni numerose sono le iniziative europee di contrasto al consumo di alcol promosse dalla Commissione Europea e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), e supportate a livello mondiale, tra cui:
“EU strategy to support Member States in reducing alcohol‐related harms” (1)
“WHO European Alcohol Action Plan to reduce the harmful use of alcohol 2012‐2020” (2)
Tali azioni sono supportate a livello mondiale dai seguenti documenti:
“Global strategy to reduce the harmful use of alco‐hol” dell’OMS (3)
“Action Plan for the Global Strategy for the Preven‐tion and Control of Non‐communicable Disease 2008‐2013” dell’OMS (4).
Tutti questi documenti sottolineano l’importanza di
attuare misure preventive a diversi livelli coinvolgen‐do il settore Primary Health Care (PHC) comprenden‐te tutti i contesti deputati all'Assistenza Sanitaria Pri‐maria. Tra questi, in particolare, la medicina generale che rappresenta un nodo cruciale per un’efficace strategia di intervento sull’alcol, sia per i contatti con la comunità, stimati attorno all’80% della popolazione degli assistiti nell’arco dell’anno, sia per l’elevata inci‐denza di PPAC che, nella medicina generale, riguarda‐no il 20% circa della popolazione afferente. In questo specifico contesto sono state sviluppate una serie di iniziative di contrasto al consumo di alcol a livello Europeo. Tra le attività recenti si sottolinea il Manifesto Europeo AMPHORA (Alcohol Public Health Research Alliance), presentato a Stoccolma nel 2012 da 71 ricercatori provenienti da 33 istituzioni di 14 paesi europei e finalizzato a fornire ai policy maker nuove evidenze sui temi del consumo di alcol e dei problemi alcol‐correlati in Europa e stimolare la mes‐sa a punto di misure di sanità pubblica efficaci. Al progetto, cofinanziato dalla Commissione Europea, ha partecipato anche l’Osservatorio Nazionale Alcol del CNESPS (Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorve‐glianza e Promozione della Salute) e il Centro OMS per la ricerca sull’alcol dell’Istituto Superiore di Sani‐tà. Il documento, con le azioni suggerite per ridurre i problemi alcol‐correlati nell’Unione Europea basate sull’evidenza scientifica, è stato tradotto ed adattato al contesto nazionale con la collaborazione del Centro Alcologico Regionale Toscano e della Società Italiana di Alcologia (5,6). Ancor più di recente, l’OMS ha reso disponibile una rinnovata cornice di riferimento per la prevenzione alcol‐correlata a livello di popolazione attraverso lo ”Action Plan to reduce the harmful use of alcohol 2012‐2020”, documento tradotto ed adattato in lin‐gua Italiana dall’Osservatorio Nazionale Alcol del CNESPS che ha collaborato, sin dalle sue prime fasi,
EMANUELE SCAFATO, VALENTINO PATUSSI, TIZIANA FANUCCHI, PAOLO CIMAROSTI, GIANNI TESTINO, ORNEL‐LA ANCARANI, DODA RENZETTI, MARIA FRANCESCA AMENDOLA, CLAUDIA GANDIN, BRUNO SCIUTTERI, MARIA RAFFAELLA ROSSIN* Si ringraziano tutti gli operatori che in questi anni, nelle varie sezioni SIA Regionali, hanno collaborato alla stesura delle bozze che hanno portato alla realizzazione del documento definitivo
*Coordinatrice del gruppo di lavoro
Position Paper per l’organizzazione di base degli interventi sui Problemi e le Pa‐tologie Alcol Correlate (PPAC)
Questo documento nasce all’interno del Direttivo Nazionale della Società Italiana di Alcologia (SIA), anche in ri‐sposta alle richieste ed agli stimoli pervenuti dagli operatori che lavorano nei servizi territoriali e ospedalieri. La stesura ha visto la collaborazione del Direttivo SIA, del Centro Alcologico Regionale Toscano, del gruppo congiunto formale di lavoro Istituto Superiore di Sanità (ISS) ‐ SIA e si è avvalsa della consulenza tecnico‐scientifica dell'Os‐servatorio Nazionale Alcol dell'ISS.
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alla definizione degli obiettivi (7,8). Tale documento ha una particolare importanza per quanto riguarda la prevenzione alcol‐correlata a livello di popolazione dal momento che l’Europa sta affrontando la valuta‐zione delle strategie in atto per poter calibrare al me‐glio interventi di contrasto al consumo dannoso o rischioso di alcol e di supporto alla prevenzione dell’alcoldipendenza. La novità rilevante del nuovo Piano d’Azione Europeo è l’ampio arco temporale di otto anni in cui la strategia europea dell’OMS si proietta attraverso un articolato piano di azioni speci‐fiche rispetto a dieci aree prioritarie coerenti con quelle contenute nella Strategia Gobale sull’Alcol, di più recente adozione da parte dell’Assemblea Mon‐diale della Sanità (3). Per la versione italiana della Strategia Globale per ridurre il consumo dannoso di alcol si rimanda al documento tradotto dall’Osservatorio Nazionale Alcol del CNESPS (9). Il Piano d’Azione Europeo richiama gli Stati membri a una prima revisione dei Piani Nazionali, quali ad e‐sempio il Piano Nazionale Alcol e Salute (PNAS) (10) che richiede una sua valutazione e un suo rilancio di supporto alle strategie europee in atto. Il richiamo alle infrastrutture necessarie per l’implementazione sollecita, in Italia, il ripristino della Consulta Nazionale sull’Alcol prevista dall’art. 4 della Legge 125/2001 (11). È inoltre rilevante il richiamo all’indispensabilità di un adeguato sistema di monitoraggio epidemiologi‐co che necessita, nel breve e medio termine, di un sostegno costante e continuo in termini di risorse al fine di ottemperare alle esigenze di revisione e ade‐sione alle rinnovate modalità di reporting formale periodico per la valutazione dell’efficacia delle politi‐che sanitarie e degli interventi adottati. A questo ri‐guardo è doveroso ricordare che, storicamente, l’Europa è stata la prima a entrare in azione e in pri‐ma linea per ridurre i danni causati dall’alcol ed è stata la prima Regione dell’OMS ad approvare un Pia‐no d’Azione sull’Alcol nel 1992. Tuttavia, indipenden‐temente da quanto ampio o rigoroso sia il Piano d’Azione adottato a livello nazionale, tutti i Paesi po‐tranno trarre beneficio dalla revisione, regolazione e rafforzamento delle azioni attraverso il Piano d’Azione Europeo per ridurre il consumo dannoso di alcol 2012‐2020. Gli obiettivi principali del piano deli‐neati da un comitato editoriale e di esperti tra cui quelli dell’Osservatorio Nazionale Alcol del CNESPS, si colloca in diretta continuità e integrazione con i pre‐cedenti Piani di Azione e si allinea con la Strategia Globale sull’Alcol dell’OMS con la finalità di:
incrementare la consapevolezza sull’impatto e la natura dei costi sanitari sociali e sul peso economico causato dall’alcol;
rafforzare e diffondere la base delle conoscenze; rafforzare la capacità di gestire e trattare i disturbi alcol‐correlati:
aumentare la mobilitazione delle risorse per azioni
concordate;
migliorare il monitoraggio e la tutela.
Le dieci aree di interesse (leadership, consapevolezza e impegno; risposta dei servizi sanitari; azioni nelle comunità e sui luoghi di lavoro; politiche e contromi‐sure per la guida in stato d’ebbrezza; disponibilità dell’alcol; commercializzazione delle bevande alcoli‐che; politiche dei prezzi; azioni per ridurre le conse‐guenze negative del consumo di alcol e dell’ubriachezza; azioni di riduzione dell’impatto sulla salute pubblica della produzione illegale e non auto‐rizzata di bevande alcoliche; monitoraggio e sorve‐glianza) comprendono anche le azioni da favorire che includono le “best buys”, i migliori acquisti per la pre‐venzione e il controllo delle malattie croniche. Tra‐durre le indicazioni fornite dal Piano in azioni coeren‐ti, con l’esigenza di tutelare in particolare i più deboli dall’impatto alcol‐correlato, è per l’Europa la sfida dei prossimi anni che richiede l’attivazione reale e condi‐visa da parte di tutti coloro che sono chiamati a con‐tribuire sulla base delle proprie competenze e re‐sponsabilità. Infine, un’attenzione particolare a livello Europeo è posta nei confronti di gruppi di popolazione partico‐larmente vulnerabili al consumo dannoso di alcol, come giovani e anziani. Per quanto riguarda i giovani, da oltre vent’anni o‐biettivo sensibile delle strategie europee di contrasto al consumo rischioso e dannoso di alcol ed uno dei target più vulnerabili della società, nel 2011, per ri‐spondere a tale esigenza/emergenza e per rilanciare la politica sull’alcol nell’UE, la Commissione Europea ha avviato un processo di riflessione insieme al CNA‐PA (Comitato per le Politiche e le Azioni Nazionali sull’Alcol) (12). Risultato importante di questo proces‐so sono le attività, finanziate dalla Commissione Euro‐pea e avviate nel gennaio 2014, della Joint Action on Reducing Alcohol Related Harm (RARHA), programma che mira a sviluppare una serie di strumenti comple‐mentari per sostenere sia lo sviluppo dell’evidenza, sia le politiche degli Stati membri e, potenzialmente, un maggior raggruppamento delle strategie per af‐frontare i danni alcol‐correlati. Nel mese di ottobre 2013, la Commissione ha proposto al CNAPA l’idea di un Piano d'Azione della durata di due anni, come mezzo per rafforzare il lavoro in alcune aree specifi‐che del consumo dannoso di alcol nei giovani, preoc‐cupazione comune a tutti gli Stati membri. I principali obiettivi del Piano d’Azione mirano ad af‐frontare i danni alcol‐correlati tra i giovani e il consu‐mo eccessivo episodico di alcol (binge drinking) e a sostenere così il raggiungimento dell’obiettivo di ridu‐zione dei danni alcol‐correlati previsto nella Strategia. Il Piano d’Azione si concentra su sei aree specifiche e mira ad attivare ulteriori azioni concrete nel quadro della strategia UE per affrontare le principali sfide e sostenere l'obiettivo principale della Strategia. La
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traduzione italiana del Piano d’Azione sul consumo di alcol nei giovani e sul consumo eccessivo episodico (binge drinking) (2014‐2016) è stata curata dal WHO Collaborating Centre for Research and Health Promotion on Alcohol and Alcohol Related Harm, Osservatorio Nazionale Alcol CNESPS, Reparto Salute della popolazione e suoi determinanti (13). Per quanto riguarda gli anziani, invece, è stato realiz‐zato il Progetto Europeo VINTAGE–Good health into older age, coordinato dall’Osservatorio Nazionale Alcol dell’Istituto Superiore di Sanità, nell’ambito del “Second Programme of Community Action in the field of health”. Le attività del Progetto VINTAGE, ufficial‐mente concluso nel novembre 2010, sono state rivol‐te a colmare le lacune sull’impatto sociale e sanitario associato al consumo dannoso di alcol negli anziani, attraverso:
la revisione sistematica della letteratura scientifica;
esempi pratici e concreti di progetti, programmi e “buone pratiche” volte a prevenire o ridurre il con‐sumo dannoso di alcol negli anziani, attraverso un’indagine ad hoc in tutti i Paesi Europei e la revi‐sione della letteratura grigia;
la diffusione dei risultati più rilevanti ai responsabili dei programmi e delle politiche sull'alcol e a coloro che operano nel campo della salute e dell'assistenza agli anziani a livello europeo, nazionale o locale (14,15).
Infine, e per concludere la panoramica delle strategie di prevenzione e di contrasto all’alcol sviluppate a livello Europeo, è necessario segnalare il contributo svolto dalle attività di due progetti finanziati dalla Commissione Europea e più specificamente focalizzati sulle politiche e sugli interventi sul consumo rischioso e dannoso di alcol quali:
ODHIN "Optimizing delivery of health care interven‐tions" rivolto ad ottimizzare gli interventi sull’alcol nella pratica clinica (16);
BISTAIRS “Good practice on brief interventions to address alcohol use disorders in primary health care, workplace health services, emergency care and so‐cial services” per intensificare l’implementazione dell’Identificazione Precoce e dell’Intervento Breve (IPIB) nei disordini alcol‐correlati in un’ampia gam‐ma di contesti oltre all’ambito dell’assistenza sanita‐ria primaria ed estendere le buone pratiche sull’IPIB riducendo le disuguaglianze sanitarie alcol‐correlate (17).
2. Linee di indirizzo per l’organizzazione di base degli interventi sui Problemi e le Pato‐logie AlcolCorrelati (PPAC) La Legge 125/2001 “Legge quadro in materia di alcol e di problemi alcolcorrelati” ha istituito per la prima volta in Italia l’intervento sulle principali tematiche alcolcorrelate colmando, dopo oltre dieci anni di di‐
scussione parlamentare, un rilevante gap legislativo, politico, istituzionale e culturale. Unico esempio in tutta Europa e citata come best practice dall’OMS, la 125/2001 ha trasformato in diritti i principi etici 1 e gli obiettivi della Carta Europea sull’Alcol, approvata nel 1995 (18) a Parigi dai governi degli stati della Comuni‐tà Europea, prendendo atto dell’impatto sociale e sanitario dell’alcol nella popolazione e ponendo in essere un’articolata serie di indirizzi indispensabili per giungere a prevenire, attraverso misure specifiche, i danni che l’alcol produce e concorre a produrre. In particolare la 125/2001 ha contribuito a focalizzare l’attenzione non solo sull’alcoldipendenza come feno‐meno di pochi ma sui Problemi e le Patologie Alcol‐correlate (PPAC), come definite dalla Società Italiana di Alcologia, espressione più ampia e complessa con cui si fa riferimento a tutti quei problemi di ordine fisico, psichico e sociale, connessi al consumo, episo‐dico o protratto, di bevande alcoliche, capaci di pro‐vocare sofferenze multidimensionali che si manifesta‐no in maniera diversa da individuo ad individuo e che coinvolgono l’intera società. La devoluzione regionale della sanità, attuata imme‐diatamente dopo la promulgazione della Legge 125/2001, se da una parte ha favorito l’autonomia, dall’altra non ha consentito la definizione strutturale omogenea del sistema di servizi e prestazioni alcologi‐che, contribuendo, piuttosto, a una oggettiva fram‐mentazione organizzativa e strutturale. In tal modo si sono andate a rafforzare le pratiche preesistenti basa‐te a volte su approcci più propriamente ospedalieri con prevalenza delle esperienze derivate dalle gastro‐enterologie, altre volte su approcci territoriali con prevalenza dei servizi per le tossicodipendenze e, talora, della salute mentale, altre volte ancora su ser‐vizi alcologici autonomi inseriti in dipartimenti territo‐riali, variamente denominati, accanto alla medicina primaria, alla riabilitazione, ai Ser.T, etc. È degli anni più recenti la tendenza al collocamento prevalente dell’alcologia all’interno dei dipartimenti per le dipen‐denze patologiche, attraverso forme variegate di or‐ganizzazione, formalizzate attraverso gruppi di lavoro, gruppi funzionali, a part‐time sino alle unità operative semplici, con differenti gradi di autonomia rispetto all’organizzazione del dipartimento. Le bevande alcoliche sono beni di consumo non ordi‐nari a causa della tossicità dell’alcol etilico, sostanza legale ma psicoattiva a tutti gli effetti, potenzialmen‐te cancerogena e capace di indurre dipendenza speci‐fica. Il consumo di alcol, tuttavia, gode in Italia di una diffusa normalizzazione e accettazione sociale, di fa‐miliarità e popolarità nonostante costituisca, come in tutta Europa, il secondo fattore di rischio di malattia, disabilità e morte prematura. In tal senso l’intervento in ambito alcologico non può non tenere conto di questi aspetti culturali e sociali che non sussistono per le sostanze illegali e che necessitano di un approc‐
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cio articolato e complesso, come mostrato dalle espe‐rienze maturate sul campo in questi anni e dai docu‐menti formali e di indirizzo. Dal 2001 si sono progressivamente implementate azioni a livello locale e regionale che sono andate a rafforzare le prime iniziative nate a seguito del Decre‐to Ministeriale del 3 agosto 1993 “Linee di indirizzo per la prevenzione, la cura, il reinserimento sociale e il rilevamento epidemiologico in materia di alcol dipen‐denza” e, nel tempo, hanno conferito dignità autono‐ma all’alcologia e alle PPAC, legittimando forme orga‐nizzative sanitarie di intervento consolidate attraver‐so la costituzione dei servizi di alcologia, in particolare nel nord e nel centro Italia prodotti dagli organismi di tutela della salute, sia a livello internazionale che na‐zionale (OMS, Commissione Europea, Ministero della Salute, Istituto Superiore di Sanità Società Italiana di Alcologia) e sempre più supportati dalle evidenze scientifiche indipendenti dagli interessi economici dell’industria. L’introduzione della categoria diagnostica consumo dannoso (harmful use) nell’ICD‐10 (19) e la successiva definizione del rischio alcolcorrelato come continuum diffusa dall’OMS (consumo a basso rischio, consumo rischioso, consumo dannoso e alcoldipendenza), han‐no aperto la strada ad un modello dimensionale dei PPAC che chiama in causa gli stili di vita del singolo, della famiglia e della comunità, sollecitando una pro‐fonda riflessione sul ruolo e sulle competenze neces‐sarie per delineare interventi congrui in ambito alco‐logico. Il concetto di continuum è stato recentemente rece‐pito anche dal DSM 5 (20) che ha eliminato sia la ca‐tegoria “Disturbi da dipendenza e correlati all'uso di sostanze”, sia la distinzione tra dipendenza e abuso di alcol e ha introdotto un unico Disturbo da Uso di Alcol (AUDs) che si sviluppa su un continuum di severità in base al numero dei criteri presenti tra 11: Lieve (2‐3), Moderato (4‐5), Severo (6 o più). Il termine “dipendenza” è stato abolito perché considerato im‐proprio e connotato negativamente così come anche il termine “abuso”, già eliminato anche nell’ICD 10. La persistenza di livelli di consumo alcolico che espon‐gono la salute a un incrementato rischio (consumo rischioso o hazardous) richiede prioritariamente un approccio basato sulla persona, teso all’identificazione precoce dei rischi e all’aumento di consapevolezza attraverso un intervento motivazio‐nale noto come “intervento breve” volto a indurre il cambiamento di stile di vita e il modello di consumo di quella persona. In questi casi, come indicato dalle linee guida cliniche internazionali ed europee, sull’Identificazione Precoce e l’Intervento Breve (progetto PHEPA e progetto in Fase IV EIBI dell’OMS) (21), i professionisti privilegiati, capaci di interventi dal minimo costo e dalla massima efficacia, risultano essere gli operatori dell’assistenza sanitaria primaria.
Nei casi di persone in cui sia già presente un danno alla salute fisica o mentale correlabile all’alcol (consumo dannoso o harmful, es. steatosi, pancreati‐te, cirrosi, cardiomiopatie dilatative, episodi depressi‐vi, etc..) è possibile, e spesso anche opportuno, avva‐lersi di competenze specialistiche di secondo livello e terzo livello, necessariamente in rete con i servizi di alcologia cui spetta la presa in carico per il consumo dannoso e/o la dipendenza. Per la persona con dipendenza da alcol (meglio defini‐bile oggi come disturbo da uso di alcol grave) diventa essenziale un trattamento specialistico che si articola sia a livello territoriale che ospedaliero in un sistema di continuità assistenziale che coinvolge anche il terzo settore, il mondo del volontariato, della cittadinanza attiva, dell’auto‐aiuto (Alcolisti Anonimi, Al‐Anon e Al‐Ateen) e delle comunità multifamiliari dei Club Alcolo‐gici Territoriali. Questo approccio che coinvolge e si rivolge alla comunità rappresenta una realtà consoli‐data negli anni che sarebbe auspicabile riproporre in qualunque modello organizzativo e gestionale specifi‐co. Le esperienze di lavoro in rete dei servizi di alcolo‐gia con altre agenzie pubbliche e/o private del territo‐rio su attività di prevenzione e promozione della salu‐te (vedi alcol & guida, alcol & lavoro, alcol ed incidenti domestici etc.) rappresentano un esempio concreto, percorribile e già realizzato in taluni contesti. È altresì ben documentato che un’organizzazione che non riesce ad utilizzare in maniera integrata tutte le risor‐se e ad impiegare in maniera congrua le professionali‐tà disponibili, incide negativamente sulla performan‐ce qualitativa dei servizi che, in caso, dovrebbero ri‐servare le attività specialistiche in via esclusiva alle persone con alcoldipendenza (disturbo da uso di alcol grave). A fronte della complessità gestionale sinora somma‐riamente delineata è evidente che un modello esau‐stivo ed unico che possa prestarsi a fronteggiare tutte le esigenze particolari delle differenti realtà geografi‐che, culturali, amministrative italiane, non è di facile definizione. Pur tuttavia, sulla base delle considerazioni poste in premessa, delle indicazioni e delle esperienze in atto a livello nazionale, europeo ed internazionale, è pos‐sibile tracciare un core set essenziale di elementi utili a stabilire un modello concettuale dell’offerta e dell’organizzazione dei servizi alcologici che sappia: a. delineare una rete ottimale di ruoli e competenze, di strutture e di programmi;
b. proporre un utilizzo ottimale di tutte le risorse sulla base del riconoscimento di un’autonomia sia fun‐zionale che organizzativa seppure integrata tra li‐velli;
c. favorire una corretta gestione delle professionalità idonee a fronteggiare un problema specifico ed un livello di rischio definito attraverso strumenti com‐petenti della promozione della salute, della preven‐
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zione, della diagnosi, della cura e della riabilitazio‐ne;
d. utilizzare in maniera congrua e diligente gli stru‐menti e le tecniche disponibili assicurando una rela‐tiva e professionale formazione continua.
In tale ottica sarebbero da articolare e prevedere nei Piani Sanitari Regionali e negli Atti Aziendali delle ASL, dei Servizi e/o Unità Operative di Alcologia territoriali organizzate con autonomia gestionale e funzionale, a seconda dei criteri di valutazione del rischio a cui è esposta la popolazione, la persona o il paziente e del tipo di intervento richiesto, con personale multidisci‐plinare opportunamente formato, afferente a spazi e setting logisticamente differenziati, protocolli di ge‐stione dedicati, garantiti da una programmazione anche economico‐ finanziaria pertinente, irrinuncia‐bilmente in rete con gli ospedali e le risorse territoria‐li, primi tra tutti i gruppi dell’auto‐aiuto (Alcolisti Ano‐nimi, Al‐Anon e Al‐Ateen) e le comunità multifamiliari dei Club Alcologici Territoriali. Pertanto, al di là della collocazione strutturale in un determinato ambito sanitario, valutazione che è evidentemente connessa alle esigenze organizzative regionali, diventa fonda‐mentale dare consistenza alle competenze e ai pro‐grammi specifici, tracciando sempre e comunque linee di indirizzo generali per l’organizzazione dei ser‐vizi di alcologia a valenza territoriale, ospedaliera e regionale, in sintonia con i Livelli Essenziali di Assi‐stenza e con l’esigenza di garantire ai cittadini un si‐stema equo, accessibile, efficace ed efficiente di in‐tervento alcologico che sia: a. coerente con gli indirizzi dell’Unione Europea e con le linee di indirizzo dell’OMS;
b. più efficace nella sua applicazione sul territorio; c. omogeneo, fruibile, accessibile e appropriato su tutto il territorio nazionale;
d. allargato alla comunità e ad azioni di promozione della salute;
e. basato sulle evidenze scientifiche esistenti e sulle buone pratiche e i relativi programmi che hanno dimostrato maggiore efficacia nella loro applicazio‐ne.
A tale riguardo è da sottolineare il contributo sostan‐ziale e originale fornito, a partire dagli anni ’30, dai gruppi di auto‐aiuto degli Alcolisti Anonimi e dalle comunità multifamiliari dei Club Alcologici Territoriali, tesi a mantenere le persone con PPAC nel contesto sociale di appartenenza, ad agire secondo un approc‐cio familiare e a promuovere interventi di comunità. Queste esperienze hanno favorito nel tempo il pro‐cesso evolutivo e la differenziazione culturale dell’alcologia dalle altre dipendenze. In definitiva, sulla base degli orientamenti emersi nel corso degli anni e prodotti, in particolare, dalla SIA, dall’ISS, da alcune esperienze in atto nelle Regioni, dai movimenti degli Alcolisti Anonimi e dei Club Alcologici Territoria‐
li, da altre agenzie del privato sociale e dagli atti della Prima Conferenza Nazionale Alcol del 2008, si ritiene che i programmi alcologici per la prevenzione e la promozione della salute, la diagnosi e il trattamento delle PPAC possano ispirarsi, svilupparsi e concretiz‐zarsi, in maniera evidentemente flessibile nella loro articolazione finale, attraverso l’analisi orientativa dei livelli di intervento ospedaliero e territoriale.
3. Livello Ospedaliero e Territoriale Il Servizio di Alcologia Ospedaliero (SAO) e Territoriale (SAT) sono strutture deputate a svolgere le seguenti funzioni: 1. accogliere e valutare la domanda di consulenza e/o di cura della persona con PPAC e della sua famiglia;
2. prendere in carico la persona con PPAC e/o la sua famiglia;
3. fare una valutazione diagnostica multiprofessionale e formulare una diagnosi;
4. definire percorsi di trattamento a breve e medio termine finalizzati a garantire un intervento specifi‐co;
5. organizzare percorsi di monitoraggio periodico pri‐ma e dopo le dimissioni dalla Struttura;
6. fare valutazioni alcologiche (ad es. violazione arti‐colo 186 codice della strada; idoneità lavorativa, etc);
7. organizzare interventi di informazione e prevenzio‐ne sulla popolazione;
8. organizzare interventi di formazione; 9. valorizzare il lavoro di gruppo sia a livello ospedalie‐ro che territoriale.
3.1 Servizio di Alcologia Ospedaliero (SAO). Rappresenta un’articolazione specifica della diagnosi, cura e riabilitazione delle PPAC. Il servizio si configura come unità operativa di riferimento regionale o di area vasta, qualora ubicato all’interno di un ospedale regionale, con funzioni di diagnosi, disintossicazione, cura e trattamento delle PPAC che svolge prestazioni ambulatoriali e/o di ricovero in relazione ai casi più complessi, acuti o cronici, che non possono essere gestiti a livello territoriale. Il SAO partecipa all’individuazione, elaborazione, attuazione e verifica del programma terapeutico e socio‐riabilitativo da svolgersi anche nelle altre strutture ricomprese nella rete operativa (ospedaliero e territoriale). Inoltre par‐tecipa alle attività di monitoraggio epidemiologico (SIND Alcol). Il SAO è dotato di un’equipe multidiscli‐plinare (medico, psicologo/psicoterapeuta, infermie‐re, dietista, operatore socio‐sanitario) di comprovata competenza ed esperienza alcologica anche in ordine all’approccio familiare e di comunità. Nell’assunzione e nell’assegnazione del personale ai Servizi deve essere attribuita una particolare valuta‐zione all’attività prestata nei servizi pubblici e conven‐zionati di assistenza agli alcoldipendenti e ai pazienti
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con PPAC. Per i profili professionali di medico e di psicologo deve essere attribuita maggiore rilevanza alla formazione professionale curriculare già richia‐mate attraverso le proposte e i pareri della Consulta Nazionale Alcol, e ai titoli conseguiti, per i medici nel‐le discipline di farmacologia medica, tossicologia, me‐dicina interna, gastroenterologia, psichiatria e medici‐na generale; per gli psicologi nelle discipline di psico‐logia clinica, psicologia sociale e psicoterapia.
3.2 Servizio di Alcologia Territoriale (SAT) È l’unità operativa di riferimento territoriale o di area vasta, configurazione organizzativa essenziale, auto‐nomo da un punto di vista gestionale e funzionale, dotato di personale interamente dedicato alle attività alcologiche e deputato alla presa in carico di persone e famiglie con PPAC e alla realizzazione di programmi di promozione della salute nella comunità. Il SAT svol‐ge attività di prevenzione, diagnosi, trattamento e riabilitazione nonché di counselling, consultazione e consulenza; inoltre supporta, ove previsto, tutte le funzioni informative, psico‐educative, di valutazione e certificazione clinico‐diagnostica. È dotato di un’equipe multidisciplinare (medico, psicologo/psicoterapeuta, infermiere, dietista, assistente socia‐le, educatore) per cui valgono le indicazioni in merito a formazione professionale e curriculare già richiama‐te nel SAT. Come tutte le strutture della rete alcologi‐ca, il SAT ha una sua autonomia organizzativa e deve interagire funzionalmente con tutti i Dipartimenti territoriali e ospedalieri, con le associazioni di volon‐tariato e cittadinanza attiva, con il Terzo Settore, con gli Enti Locali (Provincie e Comuni) sia per le azioni di promozione della salute nella comunità, sia per ga‐rantire percorsi di continuità terapeutica alle famiglie in carico. Inoltre partecipa alle attività di monitorag‐gio epidemiologico (SIND Alcol).
4. Strutture residenziali e semiresidenziali accreditate All’interno di un processo di continuità terapeutica‐assistenziale e in stabile coordinamento con i SAT e il livello ospedaliero (Servizio di Alcologia Ospedaliero), la disponibilità di setting residenziali rappresenta un importante riferimento per quei casi più complessi non gestibili direttamente né a livello territoriale, né ospedaliero in cui non si riesca a raggiungere una stabile astinenza dalle bevande alcoliche. Queste strutture richiedono programmi specifici sulle temati‐che alcologiche.
5. Comunità Terapeutiche residenziali con moduli specifici per PPAC La Comunità Terapeutica è una struttura residenziale accreditata dalla regione di appartenenza e rappre‐senta una tappa del programma riabilitativo concor‐dato con il SAT quando il programma territoriale non risponde alle caratteristiche del paziente che, per il
suo disturbo (poliassuntore o con problematiche psi‐chiatriche anche gravi), non è in grado di raggiungere gli obiettivi fondamentali del percorso alcologico, (astinenza alcolica e cambiamento dello stile di vita nelle aree di salute vitale – personale, sociale e lavo‐rativa).
6. Centro Alcologico Regionale (CAR) Il Centro Alcologico Regionale si identifica con un’agenzia regionale per la Promozione della Salute in ambito alcologico, autonoma e deputata ad attività di formazione, prevenzione, documentazione, monito‐raggio sulle PPAC, in collaborazione con i SAT e il SAO, con le Società della Salute, le municipalità, le provin‐cie, le prefetture, le realtà del volontariato e dell’auto‐aiuto e con le diverse agenzie regionali. Il CAR, in base alle necessità che si evidenziano, ha prerogative di attivazione di gruppi tecnici interprofessionali, usu‐fruendo e valorizzando le risorse presenti sul territo‐rio regionale in termini di competenze ed expertise al fine di realizzare interventi in ambiti specifici dell’alcologia. Le positive esperienze già esistenti a livello nazionale (Lazio, Liguria, Toscana) evidenziano la necessità, in ogni territorio, di un coordinamento regionale delle attività programmatorie e di monito‐raggio epidemiologico di settore.
7. Formazione Sia in ambito clinico che in ambito universitario è op‐portuno realizzare interventi di formazione che abbia‐no come obbiettivo: a. definire gli obiettivi generali e specifici della forma‐zione universitaria irrinunciabili e comuni a tutti i settori scientifico disciplinari interessati;
b. definire gli obiettivi specifici propri di ogni settore scientifico disciplinare;
c. pianificare il programma di formazione universitaria definendo i metodi, le risorse, i luoghi ed i tempi;
d. pianificare la valutazione per la formazione univer‐sitaria;
e. identificare i bisogni formativi dell’educazione con‐tinua;
f. pianificare il programma dell’educazione continua; g. pianificare la valutazione per l’educazione continua; h. la partecipazione di tutti i professionisti ad audit clinici (valutazione e miglioramento di qualità), lo‐cali e multicentrici;
i. la diffusione di pratiche basate sulle evidenze scien‐tifiche e l’utilizzo di linee guida;
j. il miglioramento della completezza e dell’accuratezza nella rilevazione delle informazioni per monitorare l’assistenza clinica e valutare gli esiti (outcome);
k. l’attuazione di un sistema di segnalazione, di indagi‐ne e di prevenzione degli eventi avversi;
l. la facilitazione nel comunicare i reclami da parte dei pazienti e dei loro familiari;
m.il coinvolgimento dei pazienti e dei loro familiari;
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n. la costante promozione della formazione e del training;
o. la ricerca e sviluppo; p. la collaborazione multidisciplinare; q. la valutazione del personale; r. la comunicazione e gestione della documentazione.
Tra gli interventi di formazione efficaci si individuano: a. formazione tramite outreach visits (visite educa‐tive);
b. reminders (manuale o computerizzato); c. interventi multipli (una combinazione che include due o più dei seguenti: audit e feedback, reminders, processi di consenso locali, marketing);
d. incontri formativi interattivi.
Tra gli interventi probabilmente efficaci: a. audit e feedback; b. uso di opinion leader locali (clinici riconosciuti dai colleghi come autorevoli o influenti);
c. processi di consenso locali; d. interventi mediati dai pazienti.
Tra gli interventi inefficaci: a. materiali formativi (distribuzione delle raccomanda‐zioni, materiali audiovisivi e pubblicazioni elettroni‐che);
b. incontri formativi didattici (come le lezioni frontali).
Si sottolinea come, nel testo di legge Legge 125 del 2001 (Art. 5) sia prevista l’introduzione di un insegna‐mento specifico sul tema dell’alcologia e delle dipen‐denze nei corsi di laurea di medicina, psicologia, scienze dell’educazione, scienze dei servizi sociali, etc.
8. Volontariato In Italia dal 1970 le Associazioni di volontariato che si occupano di PPAC come, ad esempio, Alcolisti Anoni‐mi, Alanon, Al‐ateen, Club Alcologici Territoriali che rivolgono le proprie attività ai singoli, alle famiglie, alla comunità e, comunque, alle reti relazionali, han‐no svolto un ruolo importante in termini di identifica‐zione precoce dei rischi alcol correlati, di promozione della salute e di cambiamento di stile di vita. Diventa quindi fondamentale la formalizzazione, all’interno di ogni territorio, di specifici protocolli di lavoro che prevedano la collaborazione tra SAO, SAT e gruppi di auto aiuto, ognuno con le proprie competenze.
9. Legislazione di riferimento Legge n.162 del 26 giugno 1990: Aggiornamento, modifiche ed integrazioni della legge 22 dicembre 1975, n. 685, recante disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazio‐ne dei relativi stati di tossicodipendenza. (GU n.147 del 26‐6‐1990 ‐ Suppl. Ordinario n. 45) Istituzione dei Ser.T.
Decreto del Presidente della Repubblica n° 309 del 9 ottobre 1990: Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di
tossicodipendenza.
Decreto del Ministero della Sanità n° 444 del 30 novembre 1990: regolamento concernente la deter‐minazione dell'organico e delle caratteristiche orga‐nizzative e funzionali dei servizi per le tossicodipen‐denze da istituire presso le Unità Sanitarie Locali (G.U. n.25 del 30‐1‐1991).
Decreto Ministeriale 3 Agosto 1993: Linee di indiriz‐zo per la prevenzione, la cura, il reinserimento so‐ciale e il rilevamento epidemiologico in materia di alcooldipendenza.
Legge n.86 del 28 marzo 1997: Sanatoria degli effet‐ti prodotti dai decreti‐legge adottati in materia di prevenzione e recupero dalle tossicodipendenze e di funzionamento dei SERT (G.U. Serie Generale n.76 del 2‐4‐1997).
Legge n. 125 del 30 marzo 2001: Legge quadro in materia di alcol e di problemi alcolcorrelati.
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Inquadramento generale L’Unione Europea (UE) è nel mondo l’area geografica con i più elevati livelli di consumo e con la più elevata proporzione di consumatori di bevande alcoliche. L’impatto sociale e sanitario dell’alcol è ben docu‐mentato in tutti i documenti formali e di indirizzo prodotti a livello comunitario ed internazionale da parte degli organismi di tutela della salute. Dalla fine degli anni 80, la letteratura internazionale è concorde nel sostenere le potenzialità cancerogene del consu‐mo di alcol o etanolo. Tale evidenza è stata più volte evidenziata dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (International Agency for Research on Can‐cer ‐ IARC) e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (World Health Organization, WHO). Sin dalla Monografia n. 44 del 1988 “Alcohol drin‐king” (International Agency for Research on Cancer, 1988), aggiornata nel 1998, la IARC riportava una se‐rie di valutazioni sul rischio carcinogenico delle be‐vande alcoliche nel modello animale e nell’uomo. L’alcol è causa di oltre 200 tipi diversi di condizioni patologiche e di danni alla salute, tra cui lesioni, di‐sordine psichico e comportamentale, patologie ga‐strointestinali, malattie cardiovascolari, immunologi‐che, dell’apparato scheletrico, infertilità e problemi prenatali e, non ultimi, numerosi tumori. La revisione sistematica della letteratura scientifica che ha esaminato tutti gli studi epidemiologici dispo‐nibili ha dimostrato che il consumo di alcolici può aumentare significativamente il rischio di sviluppare il cancro, in particolare a livello della cavità orale, farin‐ge, laringe, esofago e fegato. L’alcol, uso non solo abuso, aumenta il rischio di incorrere in tali problemi in misura proporzionale alla dose di alcol ingerita, senza alcun effetto soglia apparente. Come noto, fi‐siologicamente l’alcol subisce una metabolizzazione che è sostenuta principalmente dall’alcoldeidrogenasi (ADH) epatica (in misura minore a livello gastrico at‐traverso il cosidetto first pass metabolism). Il princi‐pale prodotto derivato dall’etanolo presente nelle bevande è l’acetaldeide, sostanza tossica e diretta‐mente implicata nel meccanismo di sviluppo dei prin‐cipali tumori del tratto gastrointestinale ed in partico‐lare dei tumori maligni all’esofago. Nel 2010, una mo‐
nografia della IARC ha fornito evidenze aggiornate sulla carcinogenicità dell’alcol contenuto in tutte le bevande alcoliche, e dell’acetaldeide ‐ metabolita principale dell’etanolo. I risultati, tratti da studi epide‐miologici di coorte, caso‐controllo e meta‐analisi con‐fermano con sufficiente evidenza che le bevande al‐coliche e l’acetaldeide associata a esse, siano carcino‐gene negli esseri umani. Oltre alle neoplasie per cui l’evidenza era già disponibile nel 1988 e 1998 si è aggiunta l’evidenza del potere carcinogenico dell’alcol anche per il cancro al colon‐retto e al seno, come confermato anche dal report del World Cancer Rese‐arch Fund (WCRF, 2007). La IARC ha riesaminato nel 2012 tutti gli agenti già classificati come cancerogeni accertati per l’uomo (gruppo 1) riconfermando l’alcol come cancerogeno per l’uomo (monografia IARC 100‐E, 2012). Nell’uomo il consumo di alcol è stato asso‐ciato a tumori di cavità orale, faringe, laringe, esofa‐go, colon retto, fegato (carcinoma epatocellulare) e seno. Inoltre, nell’uomo, è stata osservata una asso‐ciazione tra consumo di alcol e tumore del pancreas. In base agli stessi criteri è stata rilevata l’assenza di cancerogenicità per il tumore del rene e per il linfoma non‐Hodgkin. La monografia IARC 100‐E ha inoltre riconfermato l’alcol presente nelle bevande alcoliche come cancerogeno accertato per l’uomo (gruppo 1) in base alla sufficiente evidenza di cancerogenicità negli animali di laboratorio. Anche l’acetaldeide associata al consumo di bevande alcoliche è stata riconfermata nella monografia 100‐E come cancerogeno accertato per l’uomo (gruppo 1) in base alla sufficiente eviden‐za di cancerogenicità sia nell’uomo che negli animali di laboratorio. Nell’uomo, l’acetaldeide associata al consumo di bevande alcoliche causa tumori combina‐ti dell’esofago e delle vie aero‐digestive superiori. Si può, inoltre affermare che in considerazione del me‐tabolismo dell’alcol ingerito e della sua conversione ad acetaldeide, a sua volta ossidato in acetato, sia l’etanolo che l’acetaldeide sono entrambi canceroge‐ni e responsabili di un rischio sostanzialmente aumen‐tato di sviluppare tumori in particolare a carico dell’esofago e delle vie aero‐digestive superiori con particolare riguardo agli individui non in grado di ossi‐dare l’acetaldeide ad acetato. Nel caso degli esseri
EMANUELE SCAFATO ‐ Direttore Osservatorio Nazionale Alcol CNESPS, WHO CC per la promozione della salute e la ricerca sull’alcol e le problematiche alcolcorrelate
Alcol e danno alla salute
Lectio magistralis tenuta a Bari il 7 novembre 2014 nell’ambito del Congresso Monotematico Alcol: tra diritto al lavoro e diritto alla salute organizzato dalla Asl di Bari, l’Assessorato Politiche della Salute della Regione Puglia, la Società Italiana di Alcologia, in collaborazione con la Società Nazionale Operatori della Prevenzione (gli Atti sono pubblicati in questo numero di Alcologia a pag. 41)
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umani, l’evidenza della carcinogenicità dell’etanolo, derivata da studi epidemiologici di coorte e caso‐controllo, è stata giudicata da oltre dieci anni suffi‐ciente per cancro della cavità orale, faringe, laringe, esofago, fegato. La sensibilità e vulnerabilità all’alcol come canceroge‐no è maggiore nel sesso femminile. Le caratteristiche fisiologiche femminili (ad esempio la diversa costitu‐zione fisica, diverso patrimonio e assetto enzimatico, diversa capacità di diluizione e metabolizzazione ecc.) aumentano la suscettibilità della donna agli effetti negativi dell’alcol a tutte le età tanto che nella donna il danno organico è più grave e consegue a meno anni di esposizione al bere a rischio. Tale variabilità po‐trebbe essere anche alla base di alcune evidenze di‐scordanti riguardanti gli effetti di moderate quantità di alcol sulla mortalità generale e per causa e che oggi sono oggetto di discussione. La letteratura scientifica internazionale ha fornito nel corso degli anni copiosa evidenza sulla cancerogenici‐tà dell’alcol come quella autorevole pubblicata su Lancet Oncology nel novembre 2009 (Secretan B, Straif K, Baan R, et al. A review of human carcinogens. Part E: tobacco, areca nut, alcohol, coal smoke, and salted fish. Lancet Oncol 2009; 10: 1033‐34). Il Report on Carcinogens pubblicato nel 2011 dall’ U.S. Depart‐ment of Health and Human Services elenca, a partire dal 2000, il consumo di bevande alcoliche nella cate‐goria dei Cancerogeni riconosciuti per l’uomo (agenti per i quali esiste sufficiente evidenza di cancero‐genicità, prodotta da studi epidemiologici, che indica una relazione causale tra esposizione all’agente, come tale o in miscela e il tumore nell’uomo) (NTP, 2011). Tale classificazione si basa sulla sufficiente evidenza di cancerogenicità proveniente da studi sull’uomo. Numerose istituzioni di tutela della salute tra cui l’OMS e la FAO ( WHO/FAO, Joint WHO/FAO Expert Consultation on Diet, Nutrition and the Prevention of Chronic Diseases, in WHO Technical Report Series. 2003, WHO: Geneva. p. 95‐104 ) hanno ampiamente sostanziato la cancerogenicità dell’alcol contenuto nelle bevande alcoliche, concetto che oggi è condiviso dalla comunità scientifica internazionale e il cui ris‐chio è oggetto di comunicazione alla popolazione attraverso raccomandazioni nazionali, europee ed internazionali che hanno già provveduto a ridefinire le linee guida nutrizionali e le strategie di informazi‐one e prevenzione basate sull’evidenza scientifica disponibile. Sotto il profilo di salute pubblico è da anni acquisito che la distinzione tra uso e abuso, oggi correttamente sostituito con il termine introdotto dall’ICD10 di consumo rischioso e/o consumo dan‐noso, è considerata poco sostenibile ai fini delle rac‐comandazioni istituzionali a tutela della salute. Da questo punto di vista è ampiamente condiviso che la comunicazione del rischio su una probabilità di in‐
sorgenza di cancro derivante da un comportamento evitabile e prevenibile non può essere considerata irrilevante per l’impatto sanitario e sociale sull’indi‐viduo e sulla collettività. Per tale ragione le strategie internazionali, europee e nazionali rivolte alla riduzi‐one del danno alcol correlato nella popolazione richiamano l’attenzione sul rischio connesso all’in‐sorgenza di numerose patologie, tra cui il cancro, che è registrabile a partire e anche per moderate quantità di alcol (meno di 10‐12 grammi di alcol al giorno, meno di un bicchiere di vino o di un boccale di birra) per numerose tipologie di condizioni neoplastiche maligne come dimostrato ad esempio dagli studi di Bagnardi e Corrao presi come riferimento per la de‐finizione per il lancio della Strategia Comunitaria sull’alcol adottata dal Parlamento Europeo nel 2007 in riferimento al report “Alcohol in Europe. A public health perspective. A report for the European Com‐mission” (Anderson, P. & Baumberg, B. (2006), Lon‐don: Institute of Alcohol Studies). Nel corso del 2011 lo Studio EPIC, European Prospec‐tive Investigation into Cancer and Nutrition (EPIC) study, ha pubblicato sul British Medical Journal la stima della proporzione di cancro attribuibile al con‐sumo pregresso o presente di alcol in una coorte di 109.118 uomini e 254.870 donne, di età 37‐70 anni seguita dal 1992 in sette nazioni partecipanti tra cui l’Italia (Alcohol attributable burden of incidence of cancer in eight European countries based on results from prospective cohort study BMJ 2011;342:d1584) . Secondo lo studio EPIC risultano attribuibili al consu‐mo di alcol il 10 % di tutti i cancri registrati tra gli uo‐mini e il 3 % circa di quelli registrati tra le donne ; il 32 % dei cancri alcol correlati tra gli uomini e il 7 % circa di quelli registrati tra le donne sono attribuibili a con‐sumi eccedenti i 24 grammi di alcol al giorno per il sesso maschile e i 12 grammi al giorno per quello femminile, limiti questi ultimi coerenti con le linee guida per la nutrizione degli italiani dell’INRAN. La stima dello studio EPIC è in linea e confermata dall’elaborazione prodotta attraverso differenti meto‐dologie (Rehm J, Scafato E. Indicators of alcohol con‐sumption and attributable harm for monitoring and surveillance in European Union countries. Addiction 2011;106, 1 Suppl: 4‐10) sui dati di mortalità nazionali ISTAT nella Relazione del Ministro al Parlamento dall’Osservatorio Nazionale Alcol CNESPS dell’Istituto Superiore di Sanità (http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_ 1686_allegato.pdf ). A livello internazionale ed europeo numerose Nazioni hanno prodotto linee guida e raccomandazioni speci‐fiche. Tra le principali sono da segnalare alcune pubblicazio‐ne di rilievo:
NIH e del NIAAA : Beyond Hangovers understanding alcohol’s impact on your health. NIH Publication No. 10–7604 Revised May 2011. (http://
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pubs.niaaa.nih.gov/publications/Hangovers/beyondHangovers.htm )
World Cancer Research Fund (http://www.wcrf‐uk.org/cancer_prevention/recommendations/alcohol_and_cancer.php).del
Dipartimento di Salute Pubblica USA (http://ntp.niehs.nih.gov/ntp/roc/twelfth/profi les/alcoholicbeverageconsumption.pdf )
Cancer Council Australia (http://www.mja.com.au/public/issues/194_09_020511/win10641_fm.html )
American Cancer Society (Alcohol and cancer (http://www.cancer.org/acs/groups/content/@healthpromotions/documents/document/acsq‐017622.pdf ).
In Europa, la pubblicazione più esaustiva e recente è il rapporto dell’INCA “Alcool et risque de cancers”, l’Istituto Nazionale Tumori francese che ha sintetizza‐to lo stato delle conoscenze disponibili stilando anche le raccomandazioni per la prevenzione basate sull’evidenza. Nel testo è riportato l’aggiornamento estensivo delle pubblicazioni scientifiche più recenti e alle quali an‐che a livello europeo si fa riferimento per la produzio‐ne delle strategie e azioni specifiche in via di defini‐zione da parte della Commissione Europea, del Consi‐glio, del Parlamento Europeo. In tutte le pubblicazioni sinora citate, prevalentemen‐te di valenza governativa oltre che scientifica, si sot‐tolinea che l’obiettivo della prevenzione a livello di popolazione, in linea con le Raccomandazioni dell’OMS , si consegue attraverso la riduzione dei consumi medi pro‐capite sostenuta dalla riduzione dei consumi individuali da riportare e contenere sem‐pre nei limiti massimi consentiti di 10‐12 grammi per le donne e 20‐24 per gli uomini adulti evidenziando che il consumo di qualunque bevanda alcolica è sem‐pre un comportamento a rischio per la salute, in quanto l’alcol è una sostanza tossica e cancerogena i cui effetti non riguardano solo chi abusa o gli alcolisti, ma anche i cosiddetti bevitori sociali. Un’estrema cautela, concludono le indicazioni complessive, è per‐tanto da adottare nella comunicazione del rischio alla popolazione avendo cura di non generalizzare mes‐saggi non idonei alla popolazione giovanile, per la quale non si registrano mai vantaggi di salute derivan‐ti dal consumo di alcol e di sottolineare le importanti differenze di rischio attribuibile alle quantità di alcol consumate in funzione delle differenze di genere e di età che non consentono di poter proporre il bere mo‐derato come un vantaggio per la salute e la sicurezza della persona. È da segnalare che la Commissione Alcol che ha predi‐sposto la revisione dei LARN specifici per le racco‐mandazioni nutrizionali italiane che vedranno la luce nel corso del 2014 hanno già acquisito sia il richiamo all’evidenza che non esiste un “livello di sicurezza” e
che le quantità giornaliere a basso rischio devono allinearsi alle evidenze di un livello massimo da non superare (e quindi neppure raccomandabile) di 20 g/die per il maschio e 10 g/die per la femmina adulti. L’OMS, sulla base delle stesse evidenze è più categori‐ca nella Framework on Alcohol Policy ribadendo che le linee guida sull’alcol sarebbero superflue e dovreb‐bero semplicemente ribadire che non esiste un livello “safe” e che quindi “Less is better”, meno è meglio, rifuggendo alla tentazione di indicare soglie che, ad oggi, non supportano i livelli di tutela della salute e di sicurezza dell’individuo e della collettività (Boyle P, Autier P, Bartelink H, et al. European code against cancer and scientific justification: third version. Annal Oncol 2003; 14: 973‐1005. Alcool et risque de can‐cers. Institute National du Cancer, www.e‐cancer.fr 2007. World Cancer Research Fund. Food, nutrition, physical activity, and prevention of cancer: a global perspective.Washington: AIRC, 2010). Indicazione oggi ampiamente condivisa negli ambiti di Salute Pubblica espressa anche attraverso numerosi contributi della ricerca ed organizzazioni internazio‐nali che hanno sottolineato che l’atteggiamento più adeguato, dalle strategie nazionali ai singoli professio‐nisti della salute, dovrebbe essere quello di non indi‐care dosaggi di consumo alcolico privi di rischio sulla base dell’evidenza di una relazione dose‐risposta tra alcol e cancro in cui è impossibile definire un livello soglia di sicurezza (Winstanley MH, Pratt LS, Chapman K, et al. Alcohol and cancer: a position statement from Cancer Council Australia. MJA 2011; 194: 479‐82.). È stato anche osservato ed oggi anche maggior‐mente considerato da numerosi rilievi di carattere governativo europei ed internazionali che non garan‐tire la disseminazione delle evidenze scientifiche si‐nora citate esporrebbe al rischio di conseguenze anche legali alla luce dell’esigenza di garantire al con‐sumatore “informed choices”, scelte informate che, in Italia, anche alla luce dell’attuale Codice del con‐sumo, non risulterebbero ininfluenti relativamente all’esigenza di garantire sempre e comunque una in‐formazione non ingannevole o pregiudiziale per lo stato di salute. Qualunque forma di comunicazione relativa al consu‐mo di alcol, in particolare quella istituzionale e di pre‐venzione collettiva, dovrebbe sempre ispirarsi al prin‐cipio di precauzione ed essere sempre contestualizza‐ta per sesso, età, condizioni, contesti e circostanze (WHO Regional Office for Europe (2009). Handbook for action to reduce alcohol‐related harm. Copenha‐gen, WHO Regional Office for Europe). Indicazione parzialmente recepita anche dallo stesso mondo della produzione che ha attivato iniziative specifiche abbas‐tanza note (gravidanza, minori, sicurezza stradale ecc.). Nonostante possa sembrare implausibile assimilare la modalità di consumo di un bicchiere di bevanda alco‐
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lica (12 grammi di alcol in media) a quelle definite di consumo rischioso o dannoso, è oggi dimostrato da tutti i più accurati studi di settore che anche a consu‐mi bassi (10 grammi) il rischio per numerosi tipi di cancro e 60 patologie è aumentato. Notevoli variazioni di genere e di età non consentono di poter giungere ad una generalizzabilità di una indi‐cazione di soglia al di sotto della quale non si generi un rischio. Per tale motivo, al contrario di quanto avveniva qual‐che decennio orsono, a livello di popolazione, nessu‐na linea guida governativa “raccomanda” il consumo di alcol ma si limita tecnicamente ad indicare le quan‐tità massime, assolutamente moderate e pari a 10 grammi per la donna, per gli ultra65enni, per i giovani sino ai 20 anni circa e 20 per l’uomo, al di sopra delle quali il rischio alcol correlato aumenta. La definizione delle quantità da non superare consente di stimare la proporzione di individui che, a fronte di rilevati consu‐mi eccedenti i limiti, sono da considerarsi a maggior rischio e quindi suscettibili di un intervento. Nel corso degli anni i modelli del bere hanno mostrato in Italia tendenze estremamente variabili nei due sessi ; tra i maschi, un progressivo incremento nel numero di astemi ha condotto nel 2012 un italiano su cinque (20,5 %) a scegliere di non bere alcolici, una scelta condivisa da una donna su due (47 %) soprattutto grazie ad un forte incremento delle astemie registrato dal 2009 al 2012. Tra i maschi si sono progressivamente ridotti i consu‐matori giornalieri (oggi lo sono poco più di 3 consu‐matori su 10) a favore di quelli occasionali (4 su 10) che sono divenuti prevalenti rispetto alla modalità del bere. Tra le donne si sono progressivamente ridotte sia le consumatrici giornaliere e mantenute media‐mente stabili quelle occasionali. Le tendenze osserva‐te hanno sicuramente contribuito a perseguire la ri‐duzione dei consumi pro‐capite ma verosimilmente non in maniera prevalente e, soprattutto, non in ma‐niera tale da ridistribuire il rischio alcolcorrelato che per la quota prevalente è consumato per definizione (principio di Pareto) da quanti, pur pochi, che ne con‐sumano in maniera eccessiva, rischiosa o dannosa.
Consumo dannoso e alcoldipendenza Sebbene l’Italia abbia ridotto significativamente i consumi attestandosi a 6,10 litri di alcol puro an‐nuali pro/capite tale riduzione non appare essere stata conseguita dai consumatori definibili “heavy drinkers”, bevitori pesanti, quelli in pratica che in‐terpretano il bere secondo una modalità di consu‐mo dannoso di alcol definito dall’OMS come una modalità di consumo che causa un danno alla salute attribuibile a un consumo giornaliero e persistente di oltre 40 g di alcol per le donne e di oltre 60 g per gli uomini. Dei circa 8 milioni di consumatori a ri‐schio di età superiore agli 11 anni identificati an‐
nualmente da ISTAT e ISS è possibile ricostruire i livelli crescenti di consumo che in un continuum di esposizione che parte da zero giungono a determi‐nare livelli crescenti di rischio e in caso di persisten‐za di esposizione al danno agli organi. In Italia nel 2012 i consumatori giornalieri di sesso maschile superiori a 5 bicchieri di bevande alcoliche (1 bicchiere equivale in media a 12 grammi di alcol) sono stati circa 400.000. Oltre 220.000 sono le con‐sumatrici giornaliere “dannose” di oltre tre bicchieri di bevande alcoliche (324.00 se si considera il cut‐off a 3 bicchieri pari a 36 grammi circa). È di conseguenza possibile stimare in almeno 620.000 – 720.000 gli individui di età superiore a 11 anni che secondo l’OMS non sono solo “a rischio” ma che, in funzione dei danni registrabili clinicamente, si pongo‐no in stretta contiguità con un profilo suggestivo di dipendenza da alcol in atto e comunque di verosimile pertinenza specialistica e dei servizi di alcologia. Nella situazione italiana corrente, in presenza di un rilevato gap formativo specifico in ambito medico, appaiono quelle delle alcologie le competenze più idonee a valutare l’opportunità d’inserimento in un percorso di verifica specialistica delle PPAC incidenti (Patologie e Problematiche Alcol Correlate note a livello internazionale come AUD, Alcohol Use Disor‐ders) e di avvio in un possibile percorso terapeutico e riabilitazione. È, a tale riguardo, da ricordare che il DSM V assimila in termini diagnostici l’uso dannoso di alcol e la di‐pendenza da alcol supportando nei fatti la valutazio‐ne posta in essere dall’Osservatorio Nazionale Alcol CNESPS di una più vasta platea da ricomprendere nelle attività dei servizi. Nel 2012 le persone che si sono rivolte ai servizi di alcologia sono state 69.770; nel corso degli ultimi 6 anni non si sono registrati (ad eccezione del 2010) cambiamenti sostanziali rispetto alla tipologia di accesso degli utenti (nuovo utente o utente già in carico o rientrato). Sono stati oltre 620.000 nel 2012 le persone che a‐vrebbero potuto rivolgersi per ricevere un’assistenza e/o trattamento a causa dei problemi causati da un consumo dannoso di alcol suggestivo per alcoldipen‐denza o comunque per arrestare la progressione del danno e prevenire le complicanze. Sono stati “solo” 20623 i nuovi alcoldipendenti che si sono affiancati ai 49.147 già in carico ai servizi del SSN, una quota che lascia supporre uno squilibrio tra utenti osservati e utenti attesi sulla base dello status di consumatore dannoso. Ogni anno una quota non inferiore a 16‐20.000 nuovi utenti incrementa costantemente il numero di alcol‐dipendenti totali in carico che dai 12.675 del 1996 ha visto più che quadruplicato a 69770 (+ 57095 dal 1996) gli utenti con problemi legati all’alcol che fanno ricorso alle strutture del SSN. Tali strutture sono pas‐sate, in sedici anni, da 412 a 454 (+10 % circa). È da
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segnalare che nel corso degli ultimi anni il personale impiegato per servizio di alcologia è rimasto presso‐ché invariato pur in presenza di un aumento della domanda e quindi del numero di utenti per unità di personale sanitario presente nei servizi stessi deter‐minando un incremento del carico di lavoro da circa 3 a circa 16 utenti per unità di personale, rapporto che sollecita attenta valutazione e analisi dei bisogni. È da colmare, quindi, alla luce dei dati, il divario esi‐stente tra alcoldipendenti attesi e in carico ai servizi e da ampliare l’identificazione del sommerso e l‘emersione degli Alcohol Use Disorders come catego‐ria univoca di riferimento per il trattamento multidi‐sciplinare delle PPAC rilevabili a carico di un’elevata quota di persone di cui è nota ma non ancora inter‐cettata dal SSN la necessità di accesso e di ricorso alle prestazioni destinate al recupero dell’alcoldipendenza e , comunque, da seguire per consentire l’arresto della progressione del danno e la prevenzione delle complicanze. È verosimile che da ciò possa porsi la necessità di adeguamento dell’offerta assistenziale e di trattamento attualmente erogabili dai servizi di alcologia. Parallelamente è indispensabile sollecitare iniziative e programmi d’Identificazione Precoce ed Intervento Breve (IPIB) volti a rimuovere da un lato lo stigma sociale e sanitario e contemporaneamente ad attirare gli alcoldipendenti non ancora intercettati da sistemi di identificazione del rischio alcolcorrelato nella popo‐lazione che necessitano migliore formalizzazione di intervento e coordinamento (case management). Tra
queste iniziative, sono da privilegiare iniziative di co‐municazione dedicata, come ad esempio la campagna sostenuta dalle cinque principali società scientifiche di settore tra cui la SIA, Società Italiana di Alcologia, che hanno realizzato l’iniziativa www.unfinalemigliore.it. È soprattutto la realizzazione di un guadagno in termi‐ni di “human capital” che dovrebbe indurre a seguire con convinzione approcci atti a ridurre i livelli di ri‐schio, di danno ma anche di mortalità alcol‐attribuibile la cui stima per l’Italia è stata elaborata dall’Osservatorio Nazionale Alcol nell’ambito del pro‐getto Ccm: “L’alcol in Italia e nelle Regioni. Valutazio‐ne epidemiologica del rischio sanitario e sociale
dell'alcol in supporto al Piano Nazionale di Prevenzio‐ne e alla implementazione del Piano Nazionale Alcol e Salute”. I dati, che per la prima volta sono stati elaborati con un dettaglio regionale, mostrano che in Italia nel 2010 complessivamente 16.829 persone, di cui 11.670 uo‐mini e 5.159 donne di età superiore ai 15 anni sono morti per cause totalmente o parzialmente attribuibi‐le al consumo di alcol. La percentuale dei decessi alcol‐attribuibili varia in base al sesso e all’età delle perso‐ne, così come la categorizzazione del decesso; essa decresce all’aumentare dell’età ed i valori diminuisco‐no notevolmente nell’età adulta. La tipologia di decesso che caratterizza maggiormen‐te le classi di età giovanili è rappresentata da quelli avvenuti a causa di cadute, omicidi, suicidi e altri inci‐denti; nelle fasce di età anziane (ultra 60enni) il mag‐gior contributo deriva dalle malattie parzialmente attribuibili al consumo di alcol e da cadute, omicidi, suicidi e altri incidenti ad indicare che l’alcol è un fat‐tore di rischio per numerose patologie diffuse quali patologie vascolari, gastroenterologiche, neuropsi‐chiatriche, immunologiche e oncologiche. Il tasso STD di mortalità alcol‐attribuibile a livello re‐gionale relativo all’anno 2010, disaggregato per sesso mostra una variabilità regionale molto elevata con range che variano da un minimo di 3,03 (*10.000) decessi nelle Marche ad un massimo di 8,23 in Valle d’Aosta ogni 10.000 uomini ed un minimo di 0,19 decessi nel Lazio ed un massimo di 2,66 decessi in Molise ogni 10.000 donne.
Figura 1 Tasso STD di mortalità alcol‐attribuibile (%) per Regione e sesso
Tra gli uomini (Fig. 1) i valori più elevati di decessi alcol‐attribuibili si registrano in Valle d’Aosta nella Provincia Autonoma di Trento (6,11), in Molise (6,58), in Basilicata (6,0%) ed in Calabria (6,18%) mentre i valori più bassi si registrano in Sicilia e nelle Marche (3,03); tra le donne il valore più elevato si registra in Molise seguito da Valle d’Aosta (2,55), Puglia (2,58), Basilicata (2,32), Calabria (2,11), Piemonte (2,22) e Veneto (2,07); i valori più bassi si osservano nel Lazio (0,19) e in Sardegna (0,61).
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Figura 2 Caratterizzazione delle componenti della mortalità alcol‐attribuibile, per classi di età e sesso. REGIONI
Altre osservazioni: a. la percentuale di decessi per malattie totalmente alcol‐attribuibili è più elevata in Valle d'Aosta e nel‐le PA di Bolzano e Trento, in Basilicata ed in Friuli Venezia Giulia
b. la percentuale di decessi per malattie parzialmente alcol‐attribuibili è più elevata in Molise, in Valle d'Aosta, in Basilicata, in Calabria, in Puglia ed in Veneto
c. la percentuale di cadute, omicidi, suicidi e altri inci‐denti alcol attribuibili è più elevata nella PA di Bol‐zano, nel Lazio ed in Sardegna.
In Italia, il 20 % delle neoplasie maligne per i maschi e il 6.9% per le donne di tutti i decessi registrabili per neoplasie maligne è attribuibile all’alcol; i decessi per cancro causato dal consumo di alcol (oltre 4000/anno) incidono per 1/3 sul totale del numero di de‐cessi maschili alcolcorrelati ponendosi come prima causa di morte parzialmente attribuibile tra i maschi. Il 56 % delle cirrosi epatiche tra i maschi e il 24% di quelle femminili è attribuibile all’alcol. La frazione alcol‐attribuibile dei decessi per incidenti stradali è del 37 % per i maschi e del 18 % per le donne; 1 de‐cesso su 3 per i maschi e 1 su 5 per le donne potrebbe essere evitato NON ponendosi alla guida dopo aver bevuto. La netta prevalenza nel sesso maschile di un elevato numero di decessi per neoplasie maligne e incidenti sollecita l’urgente necessità di attivare inizia‐tive di sensibilizzazione di prevenzione oncologica mirata e di rafforzamento della sicurezza stradale. L’impatto sulla mortalità alcolcorrelata è evidente. Acuta o cronica si tratta di mortalità evitabile attra‐verso indispensabili azioni di contrasto le cui compe‐tenze non sono esclusivamente sanitarie ma coinvol‐gono interventi nei settori dei trasporti, della regola‐mentazione della promozione, vendita e somministra‐zione, ma anche del marketing le cui modalità posso‐no contribuire a determinare valori d’uso influenti sul rischio alcolcorrelato tra i giovani, in particolare quelli al di sotto dell’età minima legale. Volendo sintetizzare quanto sinora esposto in una
valutazione che miri a considerare le implicazioni so‐ciali e di salute pubblica relative all’impatto alcol cor‐relato nella popolazione si può riassumere che sulla base dell’evidenza scientifica è ampiamente docu‐mentata una relazione certa di tipo dose‐risposta tra alcol e numerosi tipi di cancro, verificabile a partire da quantità minime e per la quale non è possibile stabilire o definire con certezza un livello soglia di sicurezza. Di conseguenza non è possibile indicare livelli di con‐sumo alcolico privi di rischio o da raccomandare a livello di popolazione e appare opportuno avviare iniziative di comunicazione, informazione e sensibiliz‐zazione volte a garantire scelte informate da parte di chi consuma bevande alcoliche integrando tali attività con iniziative di identificazione precoce e intervento breve volto ad incrementare i livelli di consapevolezza individuali e a supportare le persone in un cambia‐mento auspicabilmente rivolto all’adozione di stili e modelli di consumo non rischiosi o dannosi per l’individuo e per la collettività. La normalizzazione dell’uso di alcol ha avuto e ha ri‐svolti evidenti su quote rilevanti di popolazione. Rile‐vanti cambiamenti culturali sono stati sollecitati da importanti investimenti nel marketing e nelle pubbli‐cità degli alcolici che hanno contribuito a creare un sistema valoriale di uso della sostanza psicoattiva legale e più disponibile, sollecitando sempre e co‐munque considerazioni individuali e collettive di be‐nessere, di successo, di piacere, di seduzione e di pro‐tagonismo che influiscono nel determinare fenomeni che vanno oltre il binge‐drinking e che oggi giungono a declinare il bere in varie forme di uso rischioso e dannoso di alcol, amplificate dall’uso delle tecnologie e delle community dei social network che, come pal‐coscenici virtuali, agevolano chiunque nella necessità di omologarsi e mettersi in evidenza attraverso il risk‐taking e la trasgressione delle leggi sull’età minima legale , inserendosi in circoli di nomination e di cate‐ne alcoliche sulle quali non è possibile alcun control‐lo. È un fenomeno che non riguarda la stragrande mag‐gioranza della popolazione ma il suo impatto non può essere ignorato anche in funzione dell’ampliamento
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della platea di coloro che seguono comportamenti a rischio e della difficoltà di iniziative di contrasto in contesti estremamente comuni. È un fenomeno che vira, culturalmente, sempre più verso le modalità proprie delle dipendenze da sostanze illegali, spesso integrandosi anche con altre addiction come quelle del gambling, delle slot‐machines, dei giochi online, dei gratta e vinci attraverso comportamenti agiti e incontrollabili per definizione. L’assenza degli adulti, in tutti questi casi che non sono evidentemente riferibili esclusivamente a soggetti disagiati ma spesso a ragazzi e ragazze del tutto nor‐mali, è drammatica e riflette il fallimento sociale dell’educazione che in parte ha travolto numerose realtà e troppi giovani come testimoniato dal ricorso ai servizi sanitari per gli effetti e le conseguenze del bere e dai dati di mortalità alcolcorrelata che vedono, ovviamente, l’alcol come prima causa di decesso pre‐maturo ed evitabile tra i giovani. Le strategie comunitarie e mondiali di contrasto al consumo rischioso e dannoso di alcol sollecitano mas‐sima allerta e attenzione alla prevalenza di logiche di mercato su quelle di tutela della salute anche alla luce dell’evidenza che i costi generati dall’alcol non sono solo quelli derivabili dalle valutazioni tipicamente sanitari come mortalità, morbilità o disabilità, bensì attribuibili anche a quelli legati alla criminalità, alla violenza, al danno alla cosa pubblica, a separazioni e ai divorzi, ai maltrattamenti familiari, sulle donne e sui minori, alla perdita di produttività, all’assenteismo e quindi al conseguente consumo di risorse da parte dei governi, in particolare attraverso i costi di fornitu‐ra di assistenza sanitaria e per far fronte alla crimina‐lità e problemi sociali e di ordine pubblico. Costi che paga la società e che potrebbe risparmiare alla luce di politiche per le quali la prevenzione ha un peso praticamente inesistente se non accompagnata da norme che, ove applicate, hanno mostrato di con‐trastare immediatamente tendenze negative come quelle legate all’incidentalità stradale e relativa mor‐bilità e mortalità diminuite grazie all’adozione del limite zero alla guida per i giovani sino ai 21 anni, per tutti coloro privi della pratica di almeno tre anni alla guida e per tutti i professionisti del trasporto pubblico o privato. Il Piano di Azione Europeo sull’Alcol, EAAP 2012‐2020 ( h t t p : / /www .ep i c en t r o . i s s . i t / t em i / a l c o l /PianoAzione2012‐2020.asp) identifica esplicitamente il livello di problemi e le priorità da considerare. La maggior parte dell’alcol viene consumato in occasioni in cui si beve molto, il che peggiora tutti i rischi. L’alcol può diminuire la salute individuale ed il capita‐le umano nel corso della vita, dall’embrione alla vec‐chiaia. In termini assoluti, sono soprattutto le persone di mezza età (e gli uomini in particolare) che muoiono a causa dell’alcol. Tuttavia, se si prende in considera‐zione tutto l’arco della vita, l’esposizione all’alcol du‐
rante la gravidanza può compromettere lo sviluppo del cervello del feto ed è associata a deficit cognitivi che si manifestano più tardi durante l’infanzia. Il cer‐vello degli adolescenti è particolarmente suscettibile all’alcol e più a lungo si ritarda l’insorgenza del consu‐mo di alcol, meno probabile sarà l’insorgenza di pro‐blemi e dipendenza dall’alcol nella vita adulta. Già queste considerazioni meriterebbero attenzione urgente e prioritaria quantomeno per arginare la con‐statazione che attraverso l’alcol, attraverso i frequen‐ti e comuni fenomeni di intossicazione o di eccedenza dei limiti indicati come a minor rischio, si stia favoren‐do tra i giovani l’adozione di altri altrettanto gravi comportamenti a rischio che non possono essere per‐cepiti adeguatamente come tali a causa dell’abbassamento della percezione del rischio che il consumo comporta. La conseguenza è il rischio con‐creto di una o più generazioni più deboli delle prece‐denti, evenienza da contrastare con tutti gli strumenti disponibili, a partire dall’identificazione precoce del rischio alcolcorrelato che ancora oggi non riceve ade‐guata attenzione e indispensabile supporto nonostan‐te le campagne di sensibilizzazione e gli appelli ai ser‐vizi sanitari regionali dell’Osservatorio Nazionale Alcol del CNESPS , alla formazione da garantire alle profes‐sioni sanitarie e a quelle commerciali. È dimostrato che le Nazioni più attive nella realizzazione di politi‐che e programmi sull’alcol basati sull’evidenza e sul rapporto costi‐benefici avranno benefici sostanziali in termini di salute e benessere, produttività e sviluppo sociale. La costruzione di capacità e il monitoraggio epidemio‐logico sono fondamentali per assicurare un cambio determinato di rotta che possa valorizzare le persone come risorsa per il contrasto al rischio e al danno al‐colcorrelato e quindi supportare il capitale umano di cui c’è necessità per costruire contesti e prospettive non minacciate da interpretazioni del bere e da disva‐lori relativi al consumo di alcol che con la salute e la sicurezza non hanno nulla a che vedere. Ridurre le conseguenze negative del bere è un cardine delle politiche di prevenzione universale e specifiche che l’Italia, l’Europa e il mondo possono affrontare come vera sfida di sostenibilità per le generazioni future e l’intera società.
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Premessa Il Nalmefene (NALM) è un farmaco antagonista degli oppiacei registrato nell’Unione Europea per la cura di persone con disturbi da uso di alcol (DUA) che stanno ancora bevendo, con finalità di riacquisizione di un certo grado di controllo sul bere. La putativa superiorità del NALM rispetto al Naltrexo‐ne (NTX) quanto ad efficacia per tale specifica indica‐zione clinica è stata già brevemente commentata da chi scrive ad un importante Convegno sull’Alcol svol‐tosi di recente a Verona: si vedano i relativi Atti, Capi‐tolo “Il ruolo del sistema oppioide: curare antagoniz‐zando” (1). La letteratura scientifica accademica ed “istituzionale” italiana è sorprendentemente silente sull’argomento, a differenza di quanto sta accadendo ad esempio in Gran Bretagna (3) ed in Germania (4). In attesa che anche il NALM trovi la sua collocazione nei Prontuari terapeutici ad uso SER.T. ed altri Centri pubblici che erogano cure farmacologiche gratuite a persone con DUA, sento di dover esporre ulteriori considerazioni, cliniche e medico legali, utili ad orien‐tare le scelte farmaco‐terapeutiche dei Medici che si occupano di Alcologia e che individuano pazienti per i quali l’obiettivo della riduzione (e non della cessazio‐ne) del bere risulta il più conveniente ed il più realisti‐camente raggiungibile, almeno nell’immediato.
La risonanza dei “nuovi trattamenti farma‐cologici non orientati all’astinenza” Curare persone alcoldipendenti senza pretendere da loro l’immediata cessazione del bere non è una novi‐tà. La storia dell’Alcologia laica è costellata di episodi, correnti di pensiero ed esperienze pionieristiche, talo‐ra infelici o catastrofiche (5), improntate all’obiettivo terapeutico del bere controllato in alternativa alla cessazione del bere: Autori geniali come A. Marlatt (6) e J.D. Sinclair (7) e più di recente nel nostro Paese valenti studiosi come M. Cibin e C. Chiamulera (8) hanno scritto pagine di davvero notevole caratura nel merito. Come Alcologo clinico allora impegnato nei SER.T., già 12 anni or sono ebbi modo di pubblicare su di una Rivista del settore (9) una traduzione / divulgazione su teoria e prassi dell’estinzione farmacologica del bere eccessivo; in essa discutevo dell’applicazione clinica delle acquisizioni scientifiche derivate dal pre‐zioso lavoro svolto per decenni nei laboratori Alcolo‐gici Finlandesi dal citato J.D. Sinclair, deceduto pur‐troppo il 6 aprile scorso. Egli spiegò bene come nella riduzione del craving reward e di conseguenza dell’introito alcolico del paziente alcolista trattato con NTX è il processo di estinzione a giocare un ruolo es‐senziale (7).
FULVIO FANTOZZI – Medico Legale, esperto in Medicina delle Dipendenze Patologiche, libero Professionista Per corrispondenza: via Che Guevara n. 55, Reggio Emilia [email protected]
Nalmefene versus naltrexone
Riassunto L’Autore tratta il tema della legittimità e della beneficialità del naltrexone per la cura di persone con disturbi da uso di alcol per i quali sia prescrivibile un trattamento di estinzio‐ne con un farmaco antagonista degli oppioidi, dunque con l’obiettivo terapeutico immediato della riduzione e non della cessazione del bere. Ricorda e sottolinea l’esperienza finlandese di estinzione del bere patologico mediante l’uso di tale farmaco nonché l’assenza di prove ad oggi (maggio 2015) della superiorità del nalmefene sul naltrexone quanto a profilo farmacodinamico e quanto ad efficacia clinica / sicurezza. Opina da ultimo che la scheda ministeriale del naltrexone consenta il suo libero utilizzo clinico come trat‐tamento “on label” in alternativa al nalmefene laddove quest’ultimo risulti di fatto inaccessibile al Medico Alcologo o non tollerato dal paziente. Parole chiave: naltrexone, nalmefene, disturbi da uso di alcol, estinzione farmacologica, “on label”
Abstract The Author deals with the issue of naltrexone as the first useful medical tool fit for alcoholics who are eligible for extinction treatment, which is aimed at cutting down alco‐hol drinking instead of quitting it. He cites and underlines the extensive and ongoing Finnish “expertise” about naltrexone ‐ based on extinction in alco‐holics, as well as the lack of demonstration of the putative better performance of nalmefene compared to naltrexone as regards its pharmacodynamic profile and thus about its effectiveness and clinical safety. He argues, finally, that Italian Health Institutions set special‐ized physicians free to use naltrexone within an “on label” frame until nalmefene is easily available in all public medi‐cal centers for the care of alcoholics or in the event of non‐tolerant patients. Key word: naltrexone, nalmefene, alcohol use disorders, pharmacological extinction, “on label”
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Da pochi anni e sulla scia della registrazione di NALM la letteratura “grigia” del nostro Paese ha proposto un “nuovo “modello di cura, consistente nel dare un farmaco, il NALM appunto, capace di contrastare il craving reward del soggetto che sta bevendo troppo senza previamente disintossicarlo dall’alcol. Ebbene, se è vero che NALM è l’unico farmaco in EU registrato formalmente e dichiaratamente per siffatto uso, non è vero che esso inaugura un nuovo corso della farma‐coterapia dei DUA. Chi in buona fede lo sostiene di‐mostra di non conoscere adeguatamente l’esperienza clinica, soprattutto Finlandese, condotta con il NTX su diecine di migliaia di pazienti ed ormai da più di 20 anni (1), esperienza correttamente ricordata nel bel Capitolo del volume degli Atti del già citato Convegno Alcologico veronese del 2014 che reca le firme di C. Chiamulera, I.M. Innenthal e M. Cibin (2).
Nalmafene versus Naltrexone: dati farmaco‐dinamici Che l’efficacia di NALM sia maggiore di quella del NTX per via del suo profilo farmacodinamico e segnata‐mente dell’azione agonista parziale sui recettori op‐pioidi K la quale conferirebbe a NALM un antagoni‐smo funzionale K (lo chiameremo “effetto K”, NdR) è almeno oggi un’argomentazione non ancora provata nell’Uomo. Su questo specifico tema una certa letteratura medi‐ca italiana, che non possiamo certo definire “grigia” a causa della levatura della sua fonte (10), si è invece, sempre a mio parere, sbilanciata parecchio laddove ha dato per assodata la rilevanza clinica dell’“effetto K” , la quale rilevanza, si ripete, assodata non è. Basta attingere a fonti bibliografiche comunemente non citate (11) ed a mio parere non meno autorevoli di quelle invocate (10,12,13) per capire che l’impatto terapeutico dell’effetto K è ad oggi da considerarsi presunto e non accertato nell’Uomo. In particolare a p. 761 della composta e neutrale rassegna di Anton e coll. (11) si riporta il seguente dato: “Mentre in alcuni modelli animali (roditori) il Nalmefene mostra un maggior K antagonismo del Naltrexone (Culpepper‐Morgan et al, 1995), entrambi i farmaci sembra inve‐ce abbiano simile affinità per i recettori K in Primati non umani (Emmerson et al, 1994)”.
Nalmafene versus Naltrexone: dati speri‐mentali Si diceva all’inizio che Autori inglesi (3) e tedeschi (4) si sono posti il problema se oggi sia o meno legittimo statuire la maggiore efficacia clinica (effectiveness) di NALM rispetto a NTX in Alcologia. In Italia la superiorità di NALM è stata invece data per scontata. La linea Guida N.I.C.E. sul NALM, del novembre 2014 (3), in estrema sintesi illustra l’assenza di studi che direttamente o indirettamente possano comparare
l’efficacia di NALM e NTX e conclude che poiché NTX non ha altre indicazioni al di fuori di mantenimento dell’astinenza e prevenzione della ricaduta non è op‐portuno insistere su tale argomento nel futuro. Il coevo documento tedesco in modo più analitico e chiaro, a mio avviso, giunge alla medesima conclusio‐ne sul piano scientifico, non contemplando però la decisione / conclusione in un certo senso “politica” del NICE di non doversi più insistere sul punto “NALM vs NTX” (4). Se dunque, fino ad oggi almeno, si deve convenire che i due farmaci NALM e NTX posseggono efficacia paragonabile / equivalente nel consentire al pz affet‐to da DUA un certo grado di controllo del proprio bere e quindi di giungere ad una sostanziale e conti‐nuativa riduzione dell’intake alcolico, l’unico motivo sostanziale (perché ve ne potrebbe essere uno ulte‐riore, di natura formale, che analizzeremo al paragra‐fo successivo) per accettare l’affossamento del NTX quale strumento di cura finalizzato al controllo del bere, potrebbe essere legato a questioni di safety. Ovvero, a parità di efficacia, sarebbe giusto e saggio abbandonare il NTX nella pratica clinica dell’estinzione ed attendere la maggiore accessibilità di NALM nei termini del suo ingresso nei Prontuari Farmaceutici se fosse accertato che il NTX è meno sicuro e meno maneggevole dell’altro. La prerogativa di NALM rispetto a NTX circa la safety attiene, in linea di massima (la postilla è che ancora una volta non vi sono studi comparativi definitivi tra i due) ed in primo luogo all’assenza di epatotossicità dose – dipendente ed in secondo luogo ad effetti più duraturi dopo la singola somministrazione giornaliera ed alla maggiore affinità per i recettori oppiodi. Pa‐recchi vantaggi di NALM su NTX, potremmo dire, ma… tutti potenziali! Troppo poco a giudizio di chi scrive per promuoverlo ad alternativa più sicura al NTX. In particolare, i pa‐zienti non (ancora) gravemente epato‐compromessi che possono beneficiare di un trattamento con un antagonista degli oppioidi sono infatti fortunatamen‐te tanti.
L’impiego del NTX nel trattamento di estin‐zione del bere patologico Sebbene non sia promosso in tal senso e sebbene nella sua scheda tecnica ciò non sia esplicitamente previsto, è mio parere che in Italia il NTX in soggetti che stanno ancora bevendo possa essere adoperato “on label”, pertanto senza bisogno di adottare le cau‐tele e le procedure previste dalla normativa in vigore per l’uso off label. È vero che le linee guida N.I.C.E. (3) così come l’appena pubblicata monografia USA sui trattamenti farmacologici in Alcologia (14) definiscono off label tale uso, ma è altrettanto vero che in Italia è ben più cogente la scheda tecnica del NTX , la quale diversa‐
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mente recita (ultimo aggiornamento del 09 aprile, 2013 ) : “Trattamento globale per la dipendenza da alcol al fine di ridurre il rischio di recidiva, di favorire l'astinenza e di ridurre il bisogno di assumere bevan‐de alcoliche”. L’interpretazione logica, ma anche letterale, di tale specifica formulazione delle indicazioni terapeutiche del NTX consente di comprendere perché nulla osta al suo impiego in pazienti che stiano ancora bevendo. “Ridurre il rischio di recidiva” innanzitutto non signifi‐ca che è necessaria la remissione completa dall’uso di alcol prima di potere iniziare il farmaco. Il NTX è inoltre idoneo, se bene impiegato, a ridurre il rischio di recidiva intesa non già come ripresa del be‐re non pesante, ma come ricaduta nel bere pesante e discontrollato, la quale genera il valore di malattia ovvero la menomazione psicofisica e sociale che qua‐lifica i DUA (6). In tal senso è utile ricordare che il do‐cumento Cochrane del 2010 (15) dedicato all’Alcol definisce a chiare lettere e correttamente il NTX come strumento farmacologico idoneo a prevenire elettiva‐mente la ripresa del “bere pesante” (alias relapse, alias ricaduta, NdR) e non la ripresa del bere tout court (alias lapse, alias slip, alias scivolone, NdR). Gli altri due requisiti clinici formalmente attribuiti dalla scheda ministeriale italiana al NTX (favorire l’astinenza e ridurre il craving) sono ben rispecchiati dall’esperienza concreta di “trincea”: chi ha adopera‐to il NTX con pazienti ambulatoriali ben sa che l’ “astinenza” dall’alcol quale obiettivo clinico differito, in attesa di tempi migliori sul piano motivazionale, è sì “favorita” dal bere controllato NTX – mediato; così come conosce il tangibile l’effetto di attenuazione del craving reward, ovvero dell’ “effetto del primo bic‐chiere”, posseduto dal NTX e quindi la sua capacità di “ ridurre il bisogno di assumere bevande alcoliche”. A latere si potrebbe convenire che la medicazione mirata [ora definita “as needed” ed anch’essa presen‐tata dai promotori del NALM come “novità” e senza citare lavori comparsi non proprio recentissimamente (addirittura 14 anni fa!) nella letteratura scientifica più accreditata (16)] vale a dire prendere la compres‐sa di NTX “se e solo se “si sarà esposti al bere, è off label per il NTX. In effetti legittimare anche la medica‐zione mirata risulta a mio parere un’operazione arbi‐traria. In concreto se si intende utilizzare il NTX “on label” in pazienti alcolisti che stanno ancora bevendo allora lo si deve somministrare quotidianamente, e non in modo pulsatile alias “medicazione mirata” a‐lias “as needed” alias “secondo necessità”. Per il NALM tale limitazione invece non vale laddove la me‐dicazione mirata è espressamente prevista nella sua scheda tecnica ministeriale.
Conclusione Ritengo che ad oggi il Medico Alcologo, nelle more della speriamo prossima dispensazione gratuita di
NALM da parte del S.S.N., possa liberamente intra‐prendere un trattamento con Naltrexone come medi‐cazione quotidiana “on label” per l’estinzione del be‐re patologico di un proprio paziente eleggibile per la cura con un antagonista degli oppioidi. In altri termi‐ni, fintanto che nelle “trincee” specialistiche dell’Alcologia Clinica il Nalmefene sarà materialmente precluso, o per questioni di costi o perché rivelatosi intollerato in un determinato paziente, un intervento di estinzione con Naltrexone somministrato quotidia‐namente sarà da considerarsi “on label” e quindi pie‐namente legale oltre che eticamente raccomandabile. Dichiarazione sul possibile conflitto di interessi: l’Autore ha ricevuto un compenso da Bruno Farma‐ceutici (Campral®) per una conferenza sulle farmaco‐terapie nei disturbi da uso di alcol tenutasi il 15 mag‐gio 2015.
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La campagna Know your limits del Servizio Sanitario Nazionale del Regno Unito (NHS)
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Introduction Alcohol consumption, in particular harmful alcohol use related to alcohol use disorders (AUD), accounts for 3.8% of global mortality and 4.6% of disability‐adjusted life years (DALYs) worldwide (1). A total of 9.5% of alcohol‐related DALYs is due to alcoholic liver disease (ALD) (2). At present, harmful alcohol con‐sumption still represents the most common cause of
liver cirrhosis in Western countries (3). The develop‐ment of ALD is influenced by environmental and host factors other than alcohol abuse only. In particular, the drinking pattern, the duration and amount of al‐cohol consumption have been reported as the most important factors for the development of ALD. How‐ever, the disease profile induced by comparable lev‐els of consumed alcohol shows a high individual vari‐
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GABRIELE VASSALLO1,2, ANTONIO MIRIJELLO2,3, FILIPPO BERNARDINI1,2, CLAUDIA TARLI1,2, MARIANGELA ANTONELLI1,2, LUISA SESTITO1,2, ANTONIO GASBARRINI1, GIOVANNI ADDOLORATO1,2 1) Department of Internal Medicine, Catholic University of Rome, Rome, Italy 2) Alcohol Use Disorders Unit, Institute of Internal Medicine and Gastroenterology, Catholic University of Rome, Rome, Italy 3) Department of Medical Sciences, IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza, San Giovanni Rotondo, Foggia, Italy Correspondence: Gabriele Vassallo, M.D. Institute of Internal Medicine Catholic University of Rome, Gemelli Hospital Largo Gemelli 8, 00168 Rome, Italy Phone: +39‐06‐30154334; Fax: +39‐06‐35502775 e‐mail: [email protected];
Liver transplantation in patients with alcoholic liver disease: current status and controversies
Abstract Heavy alcohol drinking is one of the main causes of liver disease in the Western world. Alcohol abstinence repre‐sents the cornerstone of the management of alcoholic liver disease. When total alcohol abstinence does not result in a significant improvement of liver function, liver transplanta‐tion represents the gold standard treatment for alcoholic hepatitis and end‐stage alcohol‐related cirrhosis. Liver transplantation for patients with alcoholic liver disease still represents a matter of debate, principally due to concerns about the risk of post‐transplantation recidivism. These issues, coupled with a perception that these patients are likely to have contraindications for transplantation (e.g. extrahepatic alcohol‐related disease or lack of self‐care) have contributed to a reluctance of many centers to offer liver transplantation to patients with alcoholic liver disease. The aim of the present review is to discuss the current status and the controversies of liver transplantation for patients with alcoholic liver disease. Key words: alcohol use disorder, alcoholic liver disease, alcoholic hepatitis, alcoholic cirrhosis, liver transplantation Abbreviation AASLD: American Association for the Study of Liver Disease AAU: Alcohol Addiction Unit AH: Alcoholic hepatitis AC: Alcoholic cirrhosis
Riassunto Il consumo dannoso di alcol è una delle principali cause di malattie del fegato nel mondo occidentale. L’astinenza da alcol rappresenta la pietra miliare della gestione della ma‐lattia epatica alcolica. Quando la totale astinenza non com‐porta un miglioramento significativo della funzionalità epa‐tica, il trapianto di fegato costituisce il trattamento migliore per l'epatite alcolica e per l'ultimo stadio delle cirrosi alcol‐correlate. Il trapianto di fegato nei pazienti con malattia epatica alcolica rappresenta ancora oggetto di discussione, principalmente a causa delle preoccupazioni circa il rischio di recidiva post‐trapianto. Queste complicazioni, insieme al rischio che questi pazienti possono avere controindicazioni al trapianto (ad esempio malattie alcol‐correlati extraepati‐ca o la mancanza di auto‐cura) hanno contribuito ad una certa riluttanza da parte di molti centri ad offrire il trapian‐to di fegato nei pazienti con malattia epatica alcolica. Lo scopo della presente review è quello di discutere lo stato attuale e le polemiche riguardo al trapianto di fegato per i pazienti con malattia epatica alcolica. Parole chiave: disturbo legato al consumo di alcol, malattia epatica alcolica, epatite alcolica, cirrosi alcolica, trapianto di fegato. ALD: Alcoholic liver disease AUD: Alcohol use disorders AWS: Alcohol withdrawal syndrome ESALD: End stage alcoholic liver disease OLT: Orthotopic liver transplantation
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ability in terms of severity and rapidity of progression. It has been reported that nutritional status, gender, ethnicity, iron overload, co‐existing metabolic syn‐drome, chronic viral co‐infections (particularly hepati‐tis B and C viruses), and polymorphisms of genes in‐volved in alcohol metabolism are important addi‐tional elements (4). Moreover, recent studies have suggested that gut microbiota could play an impor‐tant role in the pathophysiology of alcoholic liver in‐jury (5). All these factors can contribute to the pro‐gression from the early stage of ALD (fatty liver dis‐ease/steatosis) to alcoholic hepatitis (AH), fibrosis, cirrhosis and its complications (e.g. hepatocellular carcinoma). Regardless of the stage of disease, total alcohol absti‐nence represents the cornerstone of the manage‐ment of ALD (6). When liver function fails to improve with abstinence, orthotopic liver transplantation (OLT) is the treatment of choice. However, the indica‐tion to list AUD patients for OLT remains controver‐sial. In particular, the risk of alcohol recidivism after OLT, the organ shortage and the persistent percep‐tion of ALD as a “self‐inflicted disease” have contrib‐uted to create a reluctance to list AUD patients for OLT. The aim of the present review is to discuss the con‐troversies of OLT in ALD.
Alcoholic cirrhosis The treatment of patients with alcoholic cirrhosis (AC) is mainly symptomatic and no other therapies are currently available (3). Recently, several drugs have been tested to improve survival in patients with AC, including propylthiouracil, colchicine, antioxidants and phosphatidylcholine. Although some of these drugs have demonstrated promising results, no drugs have shown a substantial survival improvement in this cluster of patients (7). Studies regarding the im‐pact of the modulation of gut microbiota in patients with ALD are still in progress (5). At present, total alcohol abstinence is the main outcome to be achieved in these patients (3). Alcohol abstinence may reduce the disease progression; several studies showed that a stable liver function and a recovery from advanced liver failure can be achieved with alco‐hol abstinence in AUD patients with advanced ALD (8;9). To achieve total alcohol abstinence, these pa‐tients need to be managed by clinicians with exper‐tise in AUD in order to provide a comprehensive evaluation of the patient and to plan specific thera‐peutic approaches. At present, the psychosocial ap‐proach combined with pharmacotherapy seems to be effective in helping these patients to achieve and maintain alcohol abstinence (6). When even total alcohol abstinence does not result in a significant improvement of liver function, OLT represents the gold standard treatment for end‐stage alcoholic liver
disease (ESALD) (10). ALD is the second commonest indication for OLT in the United States and Europe (11) after HCV infection and contributes to about 15‐20% of all transplants performed in the United States (12). In patients with advanced ALD, the 5‐year sur‐vival without OLT is less than 25% (13), while it is higher than 70% if OLT is performed (14). Moreover, survival rates after OLT for ALD are similar or higher than survival rates of patients transplanted for other etiologies (15). This observation was recently con‐firmed in a study based on ELTR (European Liver Transplant Registry) database, which showed better survival rates in patients transplanted for ALD with respect to the survival rates of patients transplanted for other etiologies (16). However, advanced ALD is still considered a controversial indication for OLT. The reluctance to transplant AUD patients stems in part from the view that AUD patients bear responsibility for their illness (17), and there is also the perception that AUD patients are likely to relapse into alcohol use after transplantation and thereby damage the allograft. Therefore, there is the need to identify AUD patients at risk of relapsing to alcohol use after trans‐plantation (18). Moreover, AUD patients with ad‐vanced ALD usually have several co‐morbidities, such as alcoholic cardiomyopathy (19). AUD patients show a high prevalence of psychiatric co‐morbidity, such as anxiety disorders, affective disorders, schizophrenia and other drug addiction (20). In addition, after OLT, AUD patients appear to have a higher incidence of malignancies, especially of the upper airways and upper gastrointestinal tract such as, cancers of mouth, larynx, pharynx, and esophagus (21). The inci‐dence of these malignancies as cause of death is at least two fold higher in patients transplanted for ALD with respect to other indications (16), and it seems related in particular to relapse in heavy drinking (22). On the other hand, after transplantation, AUD pa‐tients have fewer episodes of acute cellular rejection than patients transplanted for other indications (23, 24). The incidence of retransplantation and histologi‐cal recurrence of disease after OLT in these patients is less frequent than other liver diseases (25). To make a comparison with hepatitis C virus (HCV), it is well known that virtually all transplanted patients have an HCV allograft infection, with a 10‐ to 20‐fold increase in levels of viremia after OLT; in these patients, the progression to HCV‐related cirrhosis is estimated to reach 20–30% at 5‐year follow‐up (26). On the con‐trary, in AUD patients an adequate therapeutic ap‐proach for maintaining abstinence could completely eliminate the pathogenic agent (27) with no recur‐rence of the disease. However, OLT for HCV‐related cirrhosis does not represent a debated indication, notwithstanding the “risk” of HCV re‐infection after transplantation (28). Finally, AUD should not be considered a self‐inflicted
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illness. It is a chronic relapsing disease according to the DSM‐V criteria (29), with genetic and environ‐mental influences and it should not be used to ex‐clude patients from transplantation. Obviously, an accurate stratification of potential candidates to iden‐tify those most likely to remain abstinent after OLT is needed. A multidisciplinary collaboration of trans‐plant hepatologists, surgeons and clinicians with ex‐pertise in AUD is mandatory to identify psychosocial predictors of long‐term sobriety and compliance after OLT in AUD patients (30, 31). The recidivism rate after OLT is lower if the patient has successfully completed an alcohol rehabilitation program prior to OLT (10). All this evidence strongly suggests taking some impor‐tant points into consideration when OLT is contem‐plated in AUD patients with ALD: appropriate man‐agement by a team of specialists, including physicians with expertise in AUD management, any extra‐hepatic alcohol‐related disease, the optimal timing for transplantation, the pre‐transplant abstinence (6 month‐rule) and the risk of recidivism after OLT.
Management of alcohol use disorder before and after liver transplantation Intervention to achieve alcohol abstinence represents the most effective treatment for AUD patients with ALD; however, drugs used to manage AUD in patients with ALD might worsen liver disease (6). At present, benzodiazepines are considered the ‘gold standard’ treatment for alcohol withdrawal syndrome (AWS), given their efficacy to reduce both withdrawal symptoms and the risk of seizures and/or delirium tremens (32). Long‐acting benzodiazepines (e.g. di‐azepam, chlordiazepoxide) provide more protection against seizures and delirium, but short and interme‐diate‐acting benzodiazepines (e.g. lorazepam, oxaze‐pam) are safer in elderly patients and those with he‐patic dysfunction (33) However, given the potential side‐effects of benzodiazepines in patients with ad‐vanced liver disease (e.g. hepatic encephalopathy) and the potential for abuse, preliminary research has been conducted to identify new medications for AWS, such as topiramate and baclofen (33) Anti‐craving drugs, such as disulfiram, naltrexone and acamprosate, are currently used in association with counselling to reduce alcohol consumption and pre‐vent recidivism in AUD patients (34). Gamma‐hydroxybutyric acid, a GABAB‐ergic drugs, is also used for the treatment of AUD, but it has only been ap‐proved in Italy and Austria so far (35). In the last few years, other GABAB‐ergic medications have been tested for the treatment of AUD with encouraging results (i.e. gabapentin, pregabalin, tiagabine and valproic acid) (36). However, these drugs cannot be recommended in patients with advanced ALD, be‐cause of the potential side‐effects, such as hepatotox‐icity (37), and have not been tested in this population
(6). A recent study conducted by Addolorato et al. showed that baclofen, a GABAB receptor agonist, is safe and effective in preventing alcohol recidivism in patients with advanced ALD (38); confirmatory stud‐ies regarding the safety of baclofen in cirrhotic pa‐tients are warranted (6). Several non‐pharmacological approaches have been evaluated for the management of AUD patients with ALD before and after OLT, but there is no standard‐ized approach; and available data are few and often controversial. In some liver transplant centres, AUD patients are encouraged to attend support groups, even if data on the efficacy of such treatment in this cluster of patients are at present lacking. In 2005, the UK Transplant Liver Advisory Group recommended the introduction of an ‘alcohol contract’ in which ALD patients listed for OLT provide written confirmation of their commitment to abstinence. However, a re‐cent study showed that there is no evidence that an ‘alcohol contract’ has any effect on alcohol consump‐tion after OLT (39). In a pilot study, Georgiou and col‐leagues (2003) reported that psychosocial interven‐tions could be a valid approach to support motivation in these patients (40). However, this study was con‐ducted on a limited number of patients, and the effi‐cacy of this intervention on alcohol recidivism after OLT was not evaluated. Bjornsson and colleagues (2005) evaluated the impact of the management of AUD patients by addiction psychiatrists, social work‐ers, and tutors in the period before OLT and reported a 22% prevalence of alcohol recidivism in the treated group versus 48% in the untreated group (41). Erim and colleagues (2006) evaluated the impact of psy‐choeducational therapy in this cluster of patients, showing low rates of alcohol recidivism. However, alcohol abstinence was only evaluated using blood alcohol concentration (BAC) determinations (42). In a recent trial, Weinrieb and colleagues (2011) evalu‐ated the impact of motivational therapy versus stan‐dard treatment (counseling or support groups) in AUD patients waiting for OLT. A modest effect of the motivational treatment was shown (43). Recently, Addolorato et al. retrospectively compared 55 alcohol‐related cirrhosis patients who underwent OLT followed by an Alcohol Addiction Unit (AAU) within the Liver Transplant Centre with 37 AC pa‐tients who underwent OLT followed by a team of psy‐chiatrists with expertise in addiction medicine not affiliated to the Liver Transplanted Centre. The analy‐sis showed that patients followed by the AAU pre‐sented a lower prevalence of alcohol recidivism and a significantly lower mortality. In conclusion, with the limitations of the retrospective design and of the small sample size, this study indicates that the pres‐ence of an AAU within the Liver Transplantation Cen‐tre could reduce alcohol recidivism after OLT (30). A large sample prospective study is needed to evaluate
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this approach in the management of AUD patients before and after OLT. Regarding pharmacological treatment, a randomized clinical trial with naltrexone administration after OLT failed to recruit patients, because they refused treat‐ments with anticraving medications (44). In the study by Addolorato et al, a very small subgroup of patients received a treatment with baclofen as part of the multimodal treatment before OLT. No patients in this subgroup showed alcohol recidivism after OLT (31). This preliminary observation is consistent with the ability of baclofen to promote abstinence, reduce alcohol craving and drinking in patients with severe liver disease (38). Larger prospective studies are needed to evaluate the potential use of baclofen be‐fore and after OLT to prevent alcohol recidivism.
Extra‐hepatic alcohol‐related disease Alcohol affects many organ systems in addition to the liver. For this reason, as well as evaluating the sever‐ity of the liver disease, the pre‐transplant investiga‐tion is based on assessing the patient’s conditions and co‐morbidities that might limit the potential for suc‐cessful transplantation. Chronic alcohol consumption can lead to progressive cardiac dysfunction, resulting in congestive cardio‐myopathy. Alcoholic cardiomyopathy is characterized by an increase in myocardial mass, dilation of the ventricles, and wall thinning. Changes in ventricular function may depend on the stage, in that asympto‐matic stage is associated with diastolic dysfunction, whereas systolic dysfunction is a common finding in symptomatic patients, leading to heart failure in lat‐ter stages (45). Wernicke’s encephalopathy and Korsakoff’s syn‐drome are nutritional disorders caused by thiamine deficiency. Chronic alcohol consumption can result in thiamine deficiency by causing inadequate nutritional thiamine intake, decreased absorption of thiamine from the gastrointestinal tract, and impaired thiamine utilization in the cells. Mental confusion is the main characteristic of these diseases, sometimes difficult to distinguish from hepatic encephalopathy. Treat‐ment consists of parenteral thiamine, but in the ma‐jority of patients with Korsakoff’s syndrome, recovery is incomplete. This situation represents a contraindi‐cation for OLT (45) Alcoholism is also responsible for dose‐related injury to the peripheral nervous system. Direct cumulative neurotoxicity from alcohol, nutritional and vitamin deficiencies associated with alcoholism, and liver cir‐rhosis itself each probably contribute to this periph‐
eral neuropathy (45). Moreover, chronic alcohol consumption leads to mal‐nutrition and alterations in body composition. Causes of malnutrition include a poor diet; increased break‐down (i.e., catabolism) of carbohydrates, proteins, and lipids in the body, as well as impaired absorption of nutrients, interruption of the bile flow (i.e., choles‐tasis), reduced pancreatic function, bacterial over‐growth, and/or alcohol‐induced injury to the intesti‐nal mucosa (46). The impact of nutritional status on outcomes after OLT has been studied. Poor pre‐operative nutritional status was associated with longer intensive care unit stays and increased likeli‐hood of post‐OLT infections. There is a clear association of heavy alcohol consump‐tion with cancers of the mouth, larynx, pharynx, and esophagus. Patients with ALD, particularly if they are smokers, appear to have a higher incidence of malig‐nancies after OLT, especially oropharyngeal carcino‐mas (47).
Timing for liver transplantation In an era of organ shortage, although OLT is recog‐nised as improving survival in patients with advanced AC, it is important to identify which group of patients could be offered standard treatment and which group of patients should be immediately listed for trans‐plantation. Poynard et al. evaluated the survival rate of trans‐planted patients for AC with respect to a conserva‐tively treated control group (48). The Authors found that the probability of 5 years survival was signifi‐cantly higher in transplanted patients than in control groups. However, the better survival outcome was restricted to patients with Child‐Pugh C score.1 A fur‐ther study demonstrated that immediate listing for OLT of patients with ALD and Child‐Pugh stage B cir‐rhosis did not show a survival benefit compared with conservative standard care and increased the risk of extrahepatic cancer (49). Previous studies have failed to demonstrate that other clinical manifestations of liver decompensation, such as variceal hemorrhage, hepatic encephalopathy, new onset ascites or sponta‐neous bacterial peritonitis, were independent predic‐tors of survival over and above the MELD score2 (50). Nonetheless, the onset of any of these features in an abstinent alcoholic should prompt the managing phy‐sician to consider referral to a transplant centre (51). In conclusion, OLT confers a survival benefit in pa‐tients with ALD classified as Child‐Pugh C and/or MELD score ≥15 (51).
1. Child‐Pugh score is used to assess the prognosis of chronic liver disease, mainly cirrhosis. Although it was originally used to predict mortal‐ity during surgery, it is now used to determine the prognosis. 2. MELD (Model for End‐Stage Liver Disease) is a scoring system for assessing the severity of chronic liver disease. This score is now used by the United Network for Organ Sharing (UNOS) and Eurotransplant for prioritizing allocation of liver transplants. MELD uses the patient's val‐ues for serum bilirubin, serum creatinine, and the international normalized ratio for prothrombin time (INR) to predict survival.
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The 6‐month rule In 1997, a consensus conference of the American As‐sociation for the Study of Liver Diseases (AASLD) and the American Society of Transplantation concluded that there is a strong consensus for requiring that AUD patients should be abstinent from alcohol for at least 6 months before they can be listed for OLT (52). This is often called the 6‐month rule and the initial purpose was to allow recovery of liver function. The United Network for Organ Sharing (UNOS) broadly agreed on this requirement, although they did not make it absolute and advised “exceptional” cases be referred to “regional review boards for considera‐tion” (53). The AASLD recent guidelines also advise 6 months of alcohol abstinence before OLT, but they emphasize that this rule as it stands is not a defining factor as to whether a patient is accepted as a candi‐date for a OLT (54). However, in most transplant cen‐tres, the 6‐month rule has been considered as a prog‐nostic factor for predicting alcoholic recidivism after OLT. This approach has been questioned, since it seems arbitrary and not evidence‐based (55) and there is growing evidence that the “6‐month rule” is unable to predict alcohol recidivism risk (56, 57). Al‐cohol abstinence time usually produces an improve‐ment of liver function, and a period of total alcohol abstinence is a mandatory criterion for the eligibility to OLT (58). The European Association for the Study of Liver (EASL) guidelines also advise a period of 6 months of alcohol abstinence before listing patients in order to obviate unnecessary OLT in patients who will spontaneously improve (51) In patients with severe AH and ESALD, the clinical conditions do not allow for a 6‐month waiting time. The above mentioned study by Addolorato et al (2013) showed no difference in the rate of alcohol recidivism in AUD patients followed by an AAU within the Liver Transplantation Centre with either > 6 or < 6 months of alcohol abstinence before OLT. Therefore, this study suggests that a pre‐transplant abstinence period could be shortened, at least in selected pa‐tients managed by physicians with expertise in AUD (30). In this regard, some reports already support this hypothesis (59, 60) and some investigators suggest that the cut‐off could be reduced to >3 months in selected patients (61). Future prospective studies are needed, however, to shed light on this point.
Recidivism Most of the concerns about OLT are related to the risk of alcohol recidivism often reported as the major argument against OLT eligibility (55, 60, 62). There is
still no consensus regarding the definition of recidi‐vism, relapse and slips after OLT among hepatologists and clinicians with expertise in AUD. Some experts define a return to alcohol consumption at a lower rate as a slip, and relapse as consuming over a set amount (such as 21 units/week for males and 14 units/week for females) (63). However, since alcohol use after OLT leads to a higher incidence of complica‐tions after OLT, many hepatologists define any post‐OLT alcohol consumption as recidivism (64). The most common causes of death in AUD patients with recidi‐vism after OLT are cardiovascular events and cancer (11, 21). In transplant patients who resume drinking alcohol, graft loss is rare (65, 66). Recurrence of AC is only about 10‐20% in transplant patients who re‐sumed harmful drinking. This could be explained by a lower susceptibility to alcohol damage by the donor liver (67). The lack of a commonly accepted definition of recidi‐vism, the different post‐OLT follow‐up periods, and the different tools used to investigate the amounts of alcohol consumed by these patients could explain the highly variable rate of recidivism after OLT reported in the literature, with a percentage ranging from 10 to 95% (41, 68). A psycho‐social assessment of such patients plays a fundamental role in the evaluation of the risk of recidivism (15). Several social factors, in‐cluding living alone, lack of a stable partner or ade‐quate family or friend support, lack or refusal of alco‐hol rehabilitation program before OLT, a family his‐tory of alcoholism in a first‐degree relative and psy‐chiatric co‐morbidities predicted early post‐OLT alco‐holic recidivism (69, 70). However, as recently re‐ported by Neuberger and Webb (71), existing psycho‐metric tools and assessments are not able to accu‐rately predict post‐OLT recidivism; further prospec‐tive studies on the topic are necessary (55).
Alcoholic Hepatitis Alcoholic hepatitis (AH) is a clinical syndrome charac‐terized by rapid onset of jaundice and liver failure that occurs in patients with harmful alcohol consump‐tion. The histologic picture consists of ballooned hepatocytes, Mallory bodies and lobular neutrophils. Common signs and symptoms include encephalopa‐thy, fever, ascites, and proximal muscle loss; typically, the liver is enlarged and tender (8). Alcohol absti‐nence is mandatory in AH, and in its milder forms is sufficient for clinical recovery. In the more severe clinical presentation, in which serum bilirubin levels are markedly elevated, death is common despite stopping drinking (72). Patients with severe AH
3. Maddrey's discriminant function is a score to predict prognosis in alcoholic hepatitis. It is calculated by a simple formula: (4.6 x (Prothrombin time test ‐ Prothrombin time control)) + Serum Bilirubin in mg/dl. 4. Lille model is a score to predict survival in patients with alcoholic hepatitis. A score of >0.45 identifies 75% of deaths. Lille model uses the age and the patient's values for serum bilirubin, albumin, serum creatinine and prothrombin time to predict survival. A score of >0.45 pre‐dicts a 6‐month survival of 25%, versus 85% survival when the score is <0.45.
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(determined by a Maddrey Discriminant Function3 > 32) should be considered as candidates for corticos‐teroid therapy or for pentoxiphylline treatment in the event of ongoing sepsis or bleeding (72). Response to therapy should be evaluated after 7 days of therapy using the Lille model.4 In non‐responders (Lille score > 0.45), the interruption of corticosteroids is recom‐mended, particularly in those classified as null re‐sponders (Lille score >0.56). These patients, in par‐ticular those with a favourable addiction profile, should be considered for OLT (51). Generally, trans‐plant centres require 6 months of abstinence prior to transplant listing. However, the short term mortality rate for severe AH is 35‐50% in those who do not re‐spond to medical therapy. Recent data showed the benefit of OLT for patients with severe AH with non‐response to steroids. In a prospective multicenter French study, 26 patients with severe AH who did not respond to steroids underwent OLT. Survival in these patients was much better compared with matched non‐responders at 6 months and at 2 years. At the 6 month follow up, no alcoholic relapse was observed although 3 patients resumed drinking beyond 6 months (73). Moreover, a retrospective study of 55 patients with diagnosis of AH when listed for trans‐plant were matched with patients with alcoholic cir‐rhosis (AC); at follow up they had similar graft survival at 1, 3, and 5 years, with a total of 14 (25%) of the AH patients and 44 (27%) of the AC patients ultimately losing grafts as well as similar patient survival (74). Initial data from the above case‐controlled multi‐center trial and retrospective analysis suggest no dif‐ference in patient and graft survival between AH and AC as well as improved 6‐month survival in non‐responders treated with transplant. Further prospec‐tive studies should be performed in this subset of patients.
Conclusion In conclusion, advanced ALD is a widely accepted indi‐cation for OLT. The experience of transplantation in patients with AH is very positive, although at the mo‐ment it is limited to a restricted number of patients with specific selection criteria. The survival rate after OLT is better than other indications. It is possible to put patients with ALD on the OLT waiting list. In this case, the management of AUD should be started as soon as possible by clinicians with expertise in AUD able to help patients achieve and maintain alcohol abstinence, monitor abstinence in those patients on the OLT waiting list, and offer therapeutic support to prevent recidivism before and after OLT. Clinicians with expertise in AUD should participate in the meet‐ings with all the other members of the OLT group and should play a key role in the final decision of those issues related to the patient’s alcohol use, such as, for example, including or removing patients from the OLT
waiting list, as well as approving in some specific cases the inclusion on the waiting list of patients with < 6 months of total alcohol abstinence (30). The main future goals are to formulate a well‐defined pre‐transplant approach, a single definition of alcohol recidivism and to establish useful strategies to man‐age alcoholic patient and prevent recidivism.
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Introduction The belief that benzodiazepine (BDZ) is one of the safest drugs on the market began to be questioned back in the 1960s, with the reports of the first cases of abuse and dependence. This did not, however, put a stop to its use and even today BDZs are still the most common psychoactive drugs and one of the most prescribed drugs. The prevalence of protracted use of BDZ (thus off label) is estimated at 2‐7% in the general population, while 2% of those taking BDZs are believed to have high‐dose dependency (1). These prevalence estimates are reported to be much higher in alcoholics (2). BDZs increase the release of dopa‐minergic neurons in the tegmental ventral area like narcotic substances, and thus carry a risk of abuse and dependency which represents a precise limit of their chronic use in subjects with substance abuse disorders. Tolerance, in the case of BDZs, has a num‐ber of different features with respect to other drugs of abuse: the low toxicity of BDZs when used alone (unlike opiates, stimulants or alcohol) and the ability to induce tolerance can lead to overdose which at times can be truly surprising (1).
Not all users develop dependency with protracted use of BDZs; this is more likely to occur with long peri‐ods of treatment, higher doses, and more potent BDZs with a shorter half‐life and a rapid peak of ac‐tion, in subjects with anxiety problems and, above all, in subjects who already have another dependency problem (3). It has been estimated that 8% of long‐term users develop tolerance and this may involve the use of high doses of BDZs (1). There are fewer reports of high dose users (HDU) of BDZs in the litera‐ture than of long‐term therapeutic dose users. The numbers of HDUs increase dramatically when sub‐stance use dependent subjects are considered (3). Like alcohol, BDZs have a GABA‐A receptor binding site and are the drug of choice in alcohol withdrawal syndrome due to their demonstrated efficacy in im‐proving symptoms and reducing the risk of seizures and delirium tremens. However, due to their addic‐tion potential and unsafeness when associated with alcohol, they are not recommended for maintenance of alcohol abstinence (2, 4). The widespread use of BDZs in alcoholics has been known for some time and the fear of causing depend‐
MARCO FACCINI, FABIO LUGOBONI – Medicina delle Dipendenze, AOUI Verona, Policlinico GB Rossi Correspondence: [email protected]
Slow‐infusion flumazenil for the treatment of benzodiazepine tolerance. A topic of interest to alcohologists
Abstract The prevalence of protracted use of BDZ is estimated at 2‐7% in the general population, while 2% of those taking BDZs are believed to have high‐dose dependency. It has been estimated that 8% of long‐term users develop tolerance and this may involve the use of high doses of BDZs. Alcohol‐ics often use high doses of BDZs to mitigate their absti‐nence symptoms and, due to the cross‐tolerance phenome‐non, they frequently need to take higher doses in order to test their anxiolytic effect. Traditional withdrawal management programs, lasting sev‐eral weeks, are often burdened by a significant number of drop‐outs from the detox treatment. When the objective is fairly rapid alcohol and BDZ detoxification, the use of slow infusion flumazenil (FLU) can be considered. These aspects are rarely of interest to the pharmaceutical industry but they are ethically inescapable since BDZ dependence is the most classic form of iatrogenic dependence. Key words: benzodiazepine, alcohol, detoxification, flu‐mazenil, treatment
Riassunto La prevalenza di uso protratto di BDZ è stato stimata essere del 2‐7% nella popolazione generale, con una stima di di‐pendenza da alte dosi pari al 2% di coloro che prendono BDZ. La tolleranza è stata stimata sopravvenire nel 8% degli assuntori a lungo termine e questo può comportare il con‐sumo di alte dosi di BDZ . Gli alcolisti spesso usano alte dosi di BDZ per mitigare i sintomi d’astinenza e, per il fenomeno della tolleranza crociata, hanno spesso la necessità di assu‐mere dosi più elevate per sperimentarne l’effetto ansioliti‐co. I programmi tradizionali di decalage, della durata di diverse settimane, sono spesso gravati da un significativo drop‐out dal trattamento di disintossicazione. Quando l'obiettivo è la detossificazione da alcol e BDZ in tempi relativamente bre‐vi, può essere valutato l'uso del flumazenil (FLU) in infusio‐ne lenta. Queste tematiche raramente incontrano interesse dell’industria farmaceutica ma sono deontologicamente ineludibili essendo quella da BDZ la più classica dipendenza iatrogena. Parole chiave: benzodiazepine, alcol, detossificazione, flu‐mazenil, trattamento
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ency is the main reason for the reluctance of doctors in the UK to prescribe BDZs to these patients, despite them still being considered the treatment of choice for physical alcohol dependency (2). Alcoholics often use high doses of BDZs to mitigate their abstinence symptoms and, due to the cross‐tolerance phenome‐non, they frequently need to take higher doses in order to test their anxiolytic effect. On the other hand, BDZ‐dependent subjects, above all those taking high doses, often use alcohol not as a way of dealing with craving, but to reinforce the ef‐fect of the drug, especially when trying to reduce the dose of the BDZ or because of difficulty in procuring the drug. The syndrome of abstinence from BDZ is almost iden‐tical to abstinence from alcohol and is characterised by a series of signs and symptoms that start to appear within a few hours or days of discontinuing the drug, depending on its half‐life. Seizures are a dangerous event, extremely traumatic for patients and poten‐tially lethal. Traditional withdrawal management pro‐grams, lasting several weeks, are often burdened by a significant number of drop‐outs from the detox treat‐ment. While withdrawal is long and fairly difficult for therapeutic‐dose users, it becomes practically a “mission impossible" in HDUs (5). Some authors have recently recognised and pointed out the serious prob‐lems connected with the abuse of BDZs and, in view of the difficulty in achieving a drug‐free status in these subjects, have proposed an “agonist – substitu‐tion” based on the model using methadone to treat heroin dependence (3). Nevertheless, several cases of use of high doses of BDZs require detoxification since long‐term use dete‐riorates memory to a considerable extent, reduces emotional reactivity, worsens mood, increases anxi‐ety, and the risk of falls and domestic and road acci‐dents. Last but not least, most subjects feel better after overcoming pharmacological dependence, be‐cause high‐dose BDZs have been shown to cause a marked deterioration in quality of life (6).
Flumazenil in patients with alcohol use dis‐orders When the objective is fairly rapid alcohol and BDZ detoxification, the use of flumazenil (FLU) can be con‐sidered, especially by slow intravenous or subcutane‐ous infusion (7). FLU has been tested in various clinical situations in alcohol‐dependent patients or those with alcohol‐related problems. In hepatic encephalopathy, FLU has a significant effect on short‐term improvement in some patients, but not on survival, and based on what is known up to now it cannot be recommended for routine clinical use (8). Some US hospitals have recently treated delirium with various doses of FLU, usually after a few days of abstinence therapy, with
significant improvements in around ¾ of cases, with‐out major side effects and with a reduction in hospital stay (9). FLU is universally used in acute BDZ intoxication and is usually considered an antagonist, with a high affin‐ity for BDZ receptors. Bolus administration of FLU precipitates withdrawal symptoms in BDZ tolerance and dependence. However, if administered slowly and for a prolonged period, FLU significantly improves the symptoms of withdrawal in mildly tolerant pa‐tients. These experimental results have shown that FLU acts as a partial agonist of BDZs, when adminis‐tered by slow infusion (7). When used for BDZ detoxi‐fication in tolerant patients, FLU showed the follow‐ing pharmacological effects: reduction of signs and symptoms of withdrawal, normalization and up‐regulations of BDZ receptors, resetting of the allos‐teric structure of the GABA‐A receptor and inhibition of the receptorial decoupling caused by BDZs, reduc‐tion of craving, and a reduced rate of relapse (10). Treatment with FLU makes it possible to decrease very high doses of benzodiazepine in a short time (7‐8 days) and in a way that is well tolerated by patients. The rapidity of FLU’s action has led some authors to consider this treatment as being much more effective than any other detoxification treatment currently available, with all the requirements needed to be‐come the standard therapy for BDZ abuse (1, 5, 7). These interesting scenarios have, however, been ig‐nored by centres dealing with alcohol and illicit sub‐stance dependence. To our knowledge, there are no more than five units in the entire world that currently use FLU in BDZ detoxification programs. FLU can also be successfully used in the treatment of alcohol and BDZ co‐dependence. Patients with these problems generally need very high doses of BDZ to control their abstinence from alcohol. The need to have to raise the dose of BDZ over what is habitually used should arouse a suspicion of tolerance of the patient to the drug. Once a dose that is effective for clinical stability has been reached, and once the absti‐nence from alcohol has been treated, the BDZ dosage must be reduced very slowly, bearing in mind that all the symptoms and the craving caused by this reduc‐tion must be dealt with. This generally involves a longer stay in the treatment centre and an increase in costs. Speeding up the reduction or using other treat‐ments (i.e. neuroleptics) worsens patient compliance and can lead to an increased risk of seizures, already present when alcohol is discontinued and greater when associated with high‐dose BDZ dependence. When FLU is used in the treatment of alcohol and BDZ co‐dependence, the rapid succession of particularly high doses of BDZ followed by FLU makes it possible to treat even heavily co‐dependent patients safely and effectively (11).
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Recommendations It is well known that the treatment of substance abuse should be an integrated multi‐professional strategy, since addiction is a chronic and recurrent disease. All detoxification treatments, even when believed necessary and urgent, should take the pre‐vention of relapse into consideration. The only study that evaluated relapse rates reported significantly lower figures in patients treated with FLU compared with traditional detoxification treatment (7). In conclusion, we can safely say that BDZ dependence is a widespread phenomenon. Nonetheless, there are still very few data available on the abuse of BDZ, de‐spite the fact that the potential problem with high doses of these drugs was already described by Hollis‐ter and his group back in 1961. The problem of BDZ dependence and abuse has in fact been ignored to a large extent. The treatment consisting of gradual, slow tapering of the drug, as commonly employed in treating cases of therapeutic dose BDZ dependence, may be insufficient in cases of HDUs, whether co‐dependent on other substances or not. We would like to mention a few points, addressing our remarks to clinicians and researchers: 1. Epidemiological research is still lacking on such an
important problem and especially as regards HDUs.
2. From a clinical point of view, the gradual tapering of BDZs, proposed as the only solution to the problem, is much too simple. If correctly em‐ployed, tapering generally works in cases of thera‐peutic dose dependency but to a much lesser ex‐tent in the case of HDUs. This is worthy of atten‐tion because the syndrome of abstinence from high doses of BDZ is a medically significant phe‐nomenon, very poorly tolerated and risky for the patient’s health.
3. HDUs represent the ideal setting for the use of slow‐infusion FLU. Nevertheless, it is estimated that there are no more than 5‐6 centres in the entire world that are able to offer this method despite its being available for some 20 years. What are the obstacles hindering a more wide‐spread adoption of the method?
4. The new millennium has seen the confirmed use of partial agonists in the treatment of some com‐mon dependence disorders, such as buprenor‐phine for opioid dependence, varenicline for nico‐tine addiction and nalmefene for alcohol depend‐ence. The same cannot be said for BDZs, although some molecules (abecarnil and flumazenil) have been under investigation for many years. The
pharmaceutical sector is encouraging the use of molecules similar to BDZs (Z‐Drugs), capturing significant shares of the market but often coming up against problems similar to those encountered with BDZs (1).
These aspects are rarely of interest to the pharma‐ceutical industry but they are ethically inescapable since BDZ dependence is the most classic form of iatrogenic dependence. Conflict of interest None
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I SESSIONE ALCOL E DIRITTO AL LAVORO
Lezione magistrale ANNA GUARDAVILLA
Alcol: tra diritto al lavoro e diritto alla salute
Premessa: i criteri di bilanciamento del diritto al lavoro e del diritto alla salute quali diritti costi‐tuzionali Secondo la giurisprudenza costituzionale (una per tutte, Corte Costituzionale, sentenza 9 maggio 2013 n. 85), la disciplina legislativa è chiamata a realizzare un “ragionevole bilanciamento tra diritti fondamenta‐li tutelati dalla Costituzione, in particolare alla salute (art. 32 Cost.) […] e al lavoro (art. 4 Cost.), da cui deri‐va l’interesse costituzionalmente rilevante al mante‐nimento dei livelli occupazionali ed il dovere delle istituzioni pubbliche di spiegare ogni sforzo in tal sen‐so”. Infatti “tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costi‐tuzione si trovano in rapporto di integrazione recipro‐ca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre «sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro» (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espan‐sione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzio‐nalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della per‐sona”. La Corte Costituzionale sottolinea, in tal senso, che “la Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. La qualificazione come “primari” dei valori dell’ambiente e della salute significa pertanto che gli stessi non possono essere sacrificati ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati… Il punto di equilibrio, proprio perché dinamico e non
prefissato in anticipo, deve essere valutato – dal legi‐slatore nella statuizione delle norme e dal giudice delle leggi in sede di controllo – secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, tali da non con‐sentire un sacrificio del loro nucleo essenziale”. Vediamo dunque come la normativa primaria di salu‐te e sicurezza sul lavoro abbia effettuato tale contem‐peramento.
D.Lgs. 81/08 e L. 125/2001 Ai sensi dell’art. 41 comma 4 del D.Lgs. 81/08, così come modificato e integrato dal D.Lgs. 106/09 (decreto correttivo del testo unico), “nei casi ed alle condizioni previste dall’ordinamento, le visite di cui al comma 2, lettere a), b), d), e‐bis) e e‐ter) [visita pre‐ventiva anche in fase preassuntiva, periodica, al cam‐bio mansione, alla ripresa lavorativa dopo 60 giorni di assenza per motivi di salute, n.d.r.] sono altresì fina‐lizzate alla verifica di assenza di condizioni di alcol dipendenza e di assunzione di sostanze psicotrope e stupefacenti.” In un’ottica di “gerarchia delle fonti giuridiche”, l’articolo 41 è la norma primaria alla quale occorre fare riferimento in materia e che fonda ad oggi la vi‐genza dell’obbligo di finalizzare le visite elencate nella norma anche “alla verifica di assenza di condizioni di alcol dipendenza” (oltre che di assunzione di sostanze psicotrope e stupefacenti) e pertanto di provvedere concretamente a tali accertamenti, “nei casi ed alle condizioni previste dall’ordinamento” (su questo pun‐to, si veda oltre). In nessun modo tale quadro può ritenersi modificato dal fatto che il legislatore del decreto correttivo abbia inteso prevedere “la rivisitazione entro l’anno [2009, n.d.r.] delle regole, contenute negli accordi Stato‐Regioni, dell’accertamento delle tossicodipendenze e della alcol‐dipendenza dei lavoratori, temi di ampia discussione” (Relazione di accompagnamento al D.Lgs. 106/09) attraverso l’inserimento, nell’art. 41, del comma 4‐bis secondo il quale “entro il 31 dicem‐bre 2009, con accordo in Conferenza Stato‐Regioni, adottato previa consultazione delle parti sociali, ven‐gono rivisitate le condizioni e le modalità per l’accertamento della tossicodipendenza e della alcol dipendenza”.
ATTI CONGRESSO SIA PUGLIA
REGIONE PUGLIA – ASSESSORATO POLITICHE DELLA SALUTE ASL BA – AZIENDA SANITARIA DELLA PROVINCIA DI BARI SIA – SOCIETÀ ITALIANA DI ALCOLOGIA SNOP – SOCIETÀ NAZIONALE OPERATORI DELLA PREVENZIONE
Congresso monotematico
Alcol: tra diritto al lavoro e diritto alla salute Bari, 7 novembre 2014
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Il termine del 31 dicembre 2009 contenuto in tale disposizione è un termine che giuridicamente possia‐mo definire “ordinatorio”, nel senso che ha semplice‐mente la funzione di organizzare e “ordinare” l’attività amministrativa dei soggetti a cui è rivolto (in questo caso la Conferenza Stato Regioni) indirizzan‐dola verso determinate procedure ed esiti e nella fattispecie verso l’emanazione di un Accordo (previa consultazione delle parti sociali). Da ciò deriva il fatto che tale Accordo non sia stato emanato entro il 31 dicembre 2009 non significa che non potrà essere emanato in futuro con piena validità dello stesso e quindi delle prescrizioni in esso conte‐nute.
I “casi e le condizioni previste dall’ordinamento” Come già evidenziato, l’obbligo contenuto nell’art. 41 comma 4 del D.Lgs. 81/08 sussiste “nei casi ed alle condizioni previste dall’ordinamento”. Mentre in materia di accertamenti relativi all’assunzione di sostanze stupefacenti e psicotrope, il legislatore non si è risparmiato nell’emanazione delle norme secondarie di riferimento atte a definire le modalità di attuazione di tale obbligo (Intesa1 della Conferenza Unificata del 30 ottobre 2007, in G.U. n. 266 del 15.11.2007; Accordo della Conferenza Stato‐Regioni del 18 settembre 2008, in G.U. n. 236 dell’8 ottobre 2008; provvedimenti seguiti da numerose delibere e circolari regionali), in materia di accerta‐menti di alcol dipendenza, a seguito dell’entrata in vigore dell’attuale art. 41 comma 4 del D.Lgs. 81/08 si è assistito a varie difformità interpretative originate dal generico rinvio operato dal legislatore del testo unico ai casi e alle condizioni previste dall’ordinamento e alla mancata emanazione di suc‐cessivi provvedimenti. Sul piano della gerarchia delle fonti, tuttavia, occorre partire dal dato incontrovertibile della volontà del legislatore contenuta nella norma primaria (art. 41 c. 4) di prevedere la sorveglianza sanitaria in tale ambi‐to, tanto più ove si consideri che tale norma deve essere letta unitamente alle disposizioni che prevedo‐no da un lato che il medico competente “collabora […] alla valutazione dei rischi, anche ai fini della pro‐grammazione, ove necessario, della sorveglianza sani‐taria” e dall’altro che egli “programma ed effettua la sorveglianza sanitaria di cui all’articolo 41 attraverso protocolli sanitari definiti in funzione dei rischi specifi‐ci e tenendo in considerazione gli indirizzi scientifici più avanzati” (art. 25 c. 1 lett. a) e b) D.Lgs. 81/08). Occorre dare dunque una lettura “sistematica” dell’espressione “nei casi e alle condizioni previste dall’ordinamento”, che tenga in considerazione i
provvedimenti già in vigore in materia di alcol, da interpretarsi alla luce della norma del testo unico introdotta nel 2008, e che valorizzi l’intenzione del legislatore emergente dal quadro normativo visto nel suo complesso. È stato autorevolmente osservato (Beniamino Deid‐da), in tal senso, che “il primo nodo posto dalla disci‐plina dell’art. 41 è costituito dall’inciso ‘nei casi e alle condizioni previste dall’ordinamento’. Va innanzitutto precisato che l’espressione va assunta nel suo signifi‐cato più ampio esaminando, cioè, quali siano oggetti‐vamente nell’intero nostro ordinamento giuridico i casi e le condizioni che impongano le visite mediche di cui all’art. 41 secondo comma del Testo Unico. Al riguardo si può dire con certezza che sono in vigore nel nostro Ordinamento due disposizioni strettamen‐te collegate che costituiscono un punto importante per configurare la natura degli obblighi e individuare i soggetti obbligati. La prima norma è contenuta nell’art. 15 della Legge n.125 del 2001 […]. Tale norma ha avuto talvolta un’interpretazione così ristretta da sembrare banale […]. La seconda norma è il provvedimento 16 marzo 2006 che contiene l’Intesa in materia di individuazione del‐le attività lavorative ai fini del divieto di assunzione e somministrazione di bevande alcoliche e superalcoli‐che emanata ai sensi del 1° comma dell’art. 15 della Legge 125”. La ratio della L.125 è “che nelle attività lavorative che comportano un elevato rischio di infortunio… il legi‐slatore si preoccupa di evitare non solo che sul lavoro non si beva ma soprattutto che non si lavori in condi‐zioni menomate di vigilanza e di attenzione. Un’interpretazione troppo ristretta finirebbe per pu‐nire solo il mero atto di assumere alcolici e non già lo stato di limitata vigilanza durante l’attività lavorativa […]. Il legislatore, stabilendo la necessità del controllo alcolimetrico “per le finalità previste dal presente articolo” obbliga l’interprete ad individuare queste finalità e non vi è dubbio che si tratti di evitare gli elevati rischi di infortuni sul lavoro, ovvero per la sicu‐rezza l’incolumità o la salute dei terzi, derivanti dall’assunzione di bevande alcoliche.” Infine, “non vi è dubbio che gli accertamenti sanitari relativi all’alcool intendono esplicitamente tutelare la sicurezza e la salute dei terzi oltre che quella del lavo‐ratore”.2
La tutela dei terzi L’emanazione dell’art. 41 comma 4 del Testo Unico ha portato, al pari di altri casi (ad es. il successivo Accor‐
1. Più in generale, l’Intesa Stato‐Regioni è un atto regolato dall’art. 3 del D.Lgs. 28 agosto 1997 n. 281. Essa è espressa in tutti i casi in cui la legislazione vigente preveda che sia sancita un’“intesa” con la Conferenza Stato ‐Regioni su una proposta di iniziativa dell’Amministrazione centrale. 2. B. Deidda (già Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Firenze) , Firenze, 14 giugno 2010.
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do Stato‐Regioni sulla tubercolosi; ed altri provvedi‐menti), ad un inquadramento dell’area di operatività della sorveglianza sanitaria, e quindi dell’attività del medico competente, come afferente non solo all’ambito della “salute” ma anche a quello della “sicurezza”, secondo una tendenza già riscontrabile nel D.P.R. 309/90 nonché nell’Accordo Stato‐Regioni del 16 marzo 2006 sul divieto di assunzione e sommi‐nistrazione di sostanze alcoliche3 e presente altresì nell’attuale definizione di «sorveglianza sanitaria» quale “insieme degli atti medici, finalizzati alla tutela dello stato di salute e sicurezza dei lavoratori, in rela‐zione all’ambiente di lavoro, ai fattori di rischio pro‐fessionali e alle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa” (art. 2 c. 1 lett. m) D.Lgs. 81/08). Inoltre va rilevato che sono oggetto della tutela ap‐prestata dalla normativa sull’alcol l’operatore stesso ed i terzi, conformemente al principio della sicurezza in sé dell’ambiente di lavoro,4 che vede come destina‐tari della tutela tutti coloro che si trovano sul luogo di lavoro in quanto autorizzati o per motivi connessi allo svolgimento dell’attività lavorativa, ed in base al qua‐le “anche i terzi, quando si trovino esposti ai pericoli derivanti da un’attività lavorativa da altri svolta nell’ambiente di lavoro, devono ritenersi destinatari delle misure di prevenzione”.5 Infatti, come ricordato anche di recente dalla giuri‐sprudenza, “le norme antinfortunistiche non sono dettate soltanto per la tutela dei lavoratori nell’esercizio della loro attività, ma sono dettate an‐che a tutela dei terzi che si trovino nell’ambiente di lavoro, indipendentemente dall’esistenza di un rap‐porto di dipendenza con il titolare dell’impresa.” (Cass. Pen., Sez. IV, 13 gennaio 2014 n. 956.) E ancora, “le disposizioni prevenzionali sono quindi da considerare emanate nell’interesse di tutti, finanche degli estranei al rapporto di lavoro, occasionalmente presenti nel medesimo ambiente lavorativo, a pre‐scindere, quindi, da un rapporto di dipendenza diretta con il titolare dell’impresa”. (Cass. Pen., Sez. IV, 8 febbraio 2013 n. 6363.) Il Codice ICOH, alla cui osservanza è vincolato il medi‐co competente che è la figura chiamata ad effettuare la sorveglianza sanitaria in materia di alcoldipendenza (art. 39 del Testo Unico: “L’attività di medico compe‐tente è svolta secondo i principi della medicina del lavoro e del codice… (ICOH)”), prevede in tal senso
che “qualora le condizioni di salute del lavoratore e la natura del lavoro svolto siano tali da mettere in peri‐colo la sicurezza degli altri… occorre informare la dire‐zione e, se previsto dai regolamenti nazionali, anche le autorità competenti.” (Par. 11 Codice ICOH.)
La tutela del lavoratore e il principio di prote‐zione oggettiva Si tenga poi conto che, per giurisprudenza costante, “le norme antinfortunistiche sono dettate al fine di ottenere la sicurezza delle condizioni di lavoro e di evitare gli incidenti ai lavoratori in ogni caso, e cioè quando essi stessi, per imprudenza, disattenzione, assuefazione al pericolo, possono provocare l’evento” (Cass. Pen. 22 luglio 2002 n. 10706; 21 mag‐gio 2002 n. 7454; 19 aprile 2003 n. 6377; 18 febbraio 2004 n. 3213; 24 marzo 2004 n. 5920; 14 febbraio 2005 n. 2930; Sez. Lav., 8 marzo 2006 n.4980). Un’interessante applicazione di questo principio alla materia dell’alcol sui luoghi di lavoro ci viene fornita da Cassazione Penale, Sez. IV, 20 settembre 2012, n. 36272: “La condotta maldestra, inavvertita, scoordi‐nata, confusionale per effetto dell’ebbrezza alcolica, null’altro è che un comportamento imprudente, an‐che a fronteggiare il quale è posto l’obbligo preven‐zionistico facente capo al datore di lavoro.” E “dunque non ricorre nel caso di specie alcun compor‐tamento anomalo del lavoratore e quindi non è rinve‐nibile in esso una causa da sola sufficiente a produrre l’evento.”
L’esigenza di tutela della salute e la tutela del diritto al lavoro secondo il sistema normativo La normativa di salute e sicurezza, come si è avuto modo di analizzare in dettaglio, esprime e pone dun‐que l’esigenza di una tutela del lavoratore e dei terzi dai rischi legati all’alcol in relazione ad “attività lavo‐rative che comportano un “elevato rischio” di infortu‐ni sul lavoro ovvero per la sicurezza, l’incolumità o la salute.” Al contempo, sul piano strettamente normativo, l’ordinamento giuridico appresta alcune garanzie. Anzitutto il Testo Unico prevede che “il datore di la‐voro assicura al medico competente le condizioni necessarie per lo svolgimento di tutti i suoi compiti garantendone l’autonomia” (art. 39 c. 4 T.U.) L’autonomia che deve essere esercitata dal medico competente e garantita dal datore di lavoro è collega‐ta alla funzione pubblicistica del medico competente,
3. Intesa in materia di individuazione delle attività lavorative che comportano un elevato rischio di infortuni sul lavoro ovvero per la sicurezza, l’incolumità o la salute dei terzi, ai fini del divieto di assunzione e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche, ai sensi dell’articolo 15 della legge 30 marzo 2001 n. 125. 4. Principio consacrato anche nella norma sugli obblighi dei lavoratori: “Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni.” (art. 20 comma 1 D.Lgs.81/08.) 5. Cass. Sez. IV, sent. del 7.7.1993 n. 6686. Il principio della sicurezza in sé dell’ambiente di lavoro trova poi puntuale riscontro normativo nell’art. 5 D.Lgs. 626/94, ai sensi del quale “ciascun lavoratore deve prendersi cura della propria sicurezza e della propria salute e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro […]”.
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il cui ruolo «è indubbiamente contraddistinto da con‐notati di natura pubblicistica. Infatti, il medico riveste, in seno all’azienda, una posizione caratterizzata da notevole indipendenza ed autonomia rispetto agli altri soggetti della prevenzione: è tenuto cioè ad ope‐rare imparzialmente, per la esclusiva finalità di tutela della salute e dell’integrità fisica dei lavoratori e non alla stregua di un semplice consulente tecnico sanita‐rio del datore di lavoro.» (F. Giunta e D. Micheletti, Il nuovo diritto penale della sicurezza nei luoghi di lavo‐ro, 2010.) La legge prevede poi, anche per le visite tese ad ac‐certare l’assenza di condizioni di alcoldipendenza, la possibilità per il lavoratore di ricorrere avverso i giudi‐zi del medico competente (art. 41 ultimo comma D.Lgs.81/08). Inoltre il sistema normativo affida un importante ruo‐lo ai Servizi Alcologici delle ASL e la possibilità di avva‐lersi di una loro qualificata consulenza specialistica. Non si dimentichi, infatti, che in caso di sospetto di alcoldipendenza nel corso di sorveglianza sanitaria, è previsto l’invio del lavoratore da parte del Medico Competente ai Servizi alcologici delle ASL per consu‐lenza specialistica (art. 39 c. 5 T.U.). La normativa prevede poi la conservazione del posto di lavoro per il tempo in cui la sospensione delle pre‐stazioni lavorative è dovuta all’esecuzione del tratta‐mento riabilitativo: “Ai lavoratori affetti da patologie alcolcorrelate che intendano accedere ai programmi terapeutici e di riabilitazione presso i servizi di cui all’art. 9, c. 1, o presso altre strutture riabilitative, si applica l’articolo 124 del […] D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.” (art. 15 comma 3 Legge 125/2001.) Infine, sotto il profilo del ruolo del sistema pubblico, un ruolo di estrema importanza è affidato ai Servizi di Prevenzione e Sicurezza Ambienti di Lavoro delle ASL, i quali hanno, tra gli altri, “il compito di:
promuovere il coordinamento delle strutture coin‐volte nell’applicazione delle procedure previste dal‐la attuale legislazione;
vigilare sull’osservanza negli ambienti di lavoro dei divieti di somministrare ed assumere bevande alco‐liche di cui all’art. 15 della L. 125/01;
vigilare sulla correttezza delle procedure adottate dalle aziende e dai Medici Competenti per dare effi‐cacia all’applicazione dell’Intesa Stato–Regioni del 16 marzo 2006 e garantire il rispetto dei diritti e della dignità dei lavoratori;
valutare i ricorsi dei lavoratori avverso i giudizi e‐spressi dai medici competenti ai sensi dell’art.41 del D.Lgs.81/08.” (Delibera Regione Piemonte BUR 15.11.2012.)
Tavola rotonda
Gli effetti della crisi sulla salute dei lavoratori
Moderatori: GIORGIO DI LEONE1 e FULVIO LONGO2 1 Presidente Società Nazionale Operatori della Pre‐venzione (SNOP) – Direttore Servizio Prevenzione e Sicurezza Ambienti di Lavoro (SPESAL) Area Nord Di‐partimento di Prevenzione ASL Bari 2 Direttore Servizio Prevenzione e Sicurezza Ambienti di Lavoro (SPESAL) Area Metropolitana Dipartimento di Prevenzione ASL Bari
Introduzione a cura di G. Di Leone La sessione “Alcol e diritto al lavoro”, dopo la brillante relazione introduttiva di Anna Guardavilla che ha fat‐to il punto sugli aspetti giuridici e giurisprudenziali inerenti la gestione dei problemi alcol correlati negli ambienti di lavoro, ragionando sulle figure deputate a farsene carico all’interno del sistema lavoro, prosegue con la tavola rotonda dal titolo “Gli effetti della crisi sulla salute dei lavoratori”. Il file rouge di tutti gli interventi previsti è da un lato la crisi socio economica che caratterizza questo lungo momento storico, avendo sullo sfondo l’alcol vissuto come “protesi” e come “automedicazione”, e dall’altro il rapporto qualità del lavoro/qualità della vita che spesse volte determina emarginazione ed espulsione o difficoltà alla immissione/reimmissione nel mercato del lavoro. A fronte di normative che vietano l’assunzione di alcol in occasione di lavoro (limitandone lo stato di vigilan‐za durante l’attività lavorativa) e impongono precisi adempimenti alle varie figure coinvolte nel sistema prevenzione negli ambienti di lavoro (a cominciare dai datori di lavoro e dai medici competenti aziendali per finire agli operatori dei Servizi Prevenzione e Sicu‐rezza negli Ambienti di Lavoro dei Dipartimenti di Prevenzione delle ASL e a quelli dei Dipartimenti per le dipendenze e dei servizi di alcologia), si osservano ancora evidenti difficoltà nella realizzazione di efficaci strategie preventive rivolte a problemi alcol correlati negli ambienti di lavoro. Da un lato riscontriamo l’isolamento del mondo imprenditoriale, fortemente coinvolto dall’attuale crisi socio economica e con reali esigenze di sopravvivenza delle realtà produttive, e dei medici competenti, troppo deboli contrattual‐mente di fronte ai datori di lavoro e chiamati a valuta‐zioni di idoneità all’attività lavorativa con significative ricadute su due diritti fondamentali costituzionalmen‐te tutelati (lavoro e salute), e dall’altro le difficoltà del sistema pubblico caratterizzate da preoccupanti ca‐renze strutturali e di risorse umane e da normative di riferimento ancora incomplete e confuse. I dati disponibili in letteratura scientifica internaziona‐le sugli effetti dei problemi alcol correlati in relazione agli eventi infortunistici negli ambienti di lavoro sono al momento ancora piuttosto scarsi. Ragioni etiche e di tipo previdenziale impediscono approfondimenti
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mirati sui soggetti infortunati. Non è però difficile immaginare quanto l’utilizzo di alcolici (ancora molto diffuso negli ambienti di lavoro) possa realmente inci‐dere sull’attenzione e sui riflessi dei lavoratori (in par‐ticolare in quelle lavorazioni già individuate come significativamente a rischio dall’attuale normativa), così come i primi dati che emergono dall’analisi delle attività dei medici competenti (comunicate ai sensi dell’art. 40 del D.Lgs. 81/08) sembrerebbero mettere in evidenza una significativa incidenza della positività agli alcoltest nei lavoratori sottoposti a sorveglianza sanitaria. Risulta peraltro evidente ancora oggi la difficoltà di mettere in rete i saperi e le scarse risorse con l’obiettivo di rendere più omogenei e efficaci gli inter‐venti su tutti i territori regionali. È questa una proble‐matica purtroppo molto diffusa in vari settori della sanità italiana ma che è particolarmente significativa per quelle attività nelle quali la comunicazione, la valorizzazione delle esperienze e la rete assumono un’importanza fondamentale (come per l'appunto è il caso dell’alcologia e delle dipendenze in genere o delle attività dei dipartimenti di prevenzione). L’obiettivo di questa tavola rotonda è pertanto pro‐prio quello di favorire un confronto tra professionalità molto differenti tra di loro e che difficilmente hanno l’occasione di incrociare conoscenze e progettualità, proprio in quella logica di rete che possiamo a giusta ragione ritenere l’unica strategia vincente per affron‐tare problematiche così complesse e delicate.
Di Leone Il primo ad intervenire è Claudio Renzetti, sociologo clinico di Torino nonché formatore e super‐visore metodologico in ambito dipendenze patologi‐che, salute mentale e cure palliative. A lui chiediamo quale sia l’impatto della crisi sulla vita delle persone. Renzetti Non siamo in grado di descrivere puntual‐mente l’impatto della crisi sulla vita delle persone, ma alcune ipotesi (o semplici congetture) sono lecite. 1. L’ideogramma cinese del termine crisi è composto da due parole, Pericolo/Opportunità. È una dinamica interessante, ma nell’esperienza delle persone è deci‐samente squilibrata: pericolo per molti/opportunità per pochi, almeno per ora. Nelle diverse stagioni della vita il presente viene percepito come una condizione ‘sismica’ (instabile e incerta) mentre il futuro non è più una promessa ma una minaccia. 2. Il rischio più significativo non è la perdita (lavoro – legami affettivi), ma il sentirsi perdenti, non più in grado di vedersi in prospettiva, dentro un processo evolutivo. Se il senso della mancanza è il motore che fa girare il mondo, allora è utile/urgente capire (valutare) come ad esso si cerca rimedio. 3. Quando la realtà è insopportabile o insoddisfacen‐te bisogna inventarsene un’altra. Si idealizza un altro‐ve (ovunque, ma non qui ed ora) e mentre lo cerchia‐mo (attivamente) o lo aspettiamo (passivamente) ci
circondiamo di protesi, chimiche o tecnologiche, for‐midabili integratori delle nostre mancanze; straordi‐nari rimedi alla fatica di essere se stessi; seducenti armi di resistenza. 4. Per molti di quelli che considerano la crisi come un fatto personale, e un punto di non ritorno, l’alcol (spesso combinato con psicofarmaci e/o droghe) rap‐presenta un rimedio possibile, anche se non sempre desiderabile, e – nella loro visione – venirne fuori significa precipitare nel qui ed ora, e dover affrontare quindi ‘disarmati’ le difficili sfide della contempora‐neità.
La prevenzione è un processo delicato e complesso, con aspettative francamente eccessive ed esiti incerti. Provo a riassumere alcuni criteri meritevoli di essere discussi e – magari – confutati. a. La prevenzione – per quanto possano essere varie le pratiche che la caratterizzano – è essenzialmente un atto comunicativo. Dunque dobbiamo decidere se per noi comunicare è un modo per fare proseliti (restando fermi sulle nostre certezze) o per capirsi, accettando il conflitto e il dissidio.
b. Il nostro interlocutore non è un guscio vuoto da riempire ma espressione di un punto di vista, di bisogni, di certezze e paure, esattamente come ciascuno di noi. Ecco perché la prevenzione non può che essere un processo dialogico, per nulla lineare e refrattario alla logica deterministica Pro‐blema > Soluzione.
c. Z. Bauman dice che la Verità è a suo agio in un les‐sico monoteista e – in ultima analisi – in un mono‐logo, e usare la Verità al singolare in un mondo poli‐fonico è come voler applaudire con una sola mano. Con una mano sola – continua Bauman – si può dare un ceffone e non applaudire. Ecco perché mol‐te volte il nostro interlocutore si sottrae, soprattut‐to quando avverte di dover accettare una Verità – che non è la sua – spesso presentata come ‘assoluta’.
d. La modifica dei comportamenti a rischio è una sfi‐da tanto importante quanto difficile, non solo per‐ché le persone sono reattive ad approcci etero di‐retti (governare la vita degli altri come se li posse‐dessimo) ma perché si tratta di far dialogare le mol‐teplici voci che ci abitano: autonomia e controllo; desiderio di lasciarsi andare e salda padronanza di se. In ultima analisi, solo chi riconosce queste ambi‐valenze può risultare credibile ed efficace.
Di Leone A Marco Frey, Direttore dell’Istituto di Management della Scuola Superiore di Studi Universi‐tari e di perfezionamento S. Anna di Pisa, poniamo la seguente domanda: “Una crisi così prolungata come quella che stiamo vivendo ha conseguenze negative sulla salute dei lavoratori e in particolare sulla capaci‐tà di gestione della prevenzione all’interno delle im‐
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prese?” Frey Un rapporto di Eurobarometer (Flash 398) pub‐blicato nel mese di aprile del 2014, esamina come la qualità del lavoro è stata colpita dalla crisi, soltanto poco più della metà dei lavoratori europei (53%) per‐cepisce come soddisfacenti le condizioni di lavoro nel proprio paese, e la maggioranza (57%) ritiene comun‐que che queste siano peggiorate negli ultimi 5 anni. Il dato risulta particolarmente critico per l’Italia dove la percezione del peggioramento riguarda l’85% dei ri‐spondenti e ben il 73% considera insoddisfacenti le condizioni di lavoro. In questa classifica in negativo siamo quarti dopo Grecia, Croazia e Spagna, non ca‐sualmente i Paesi che sono stati più fortemente colpi‐ti dalla crisi. Se si entra nel merito di ciò che viene fatto dalle im‐prese, questo differenziale tra l’Italia e la media dell’Europa a 28 viene meno. Anzi le risposte degli intervistati italiani sono per quanto critiche relativa‐mente migliori. Ciò riguarda la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro (86% contro l’85% medio europeo), l’informazione e la formazione ricevuta (dove l’86% dichiara che è stata svolta contro il 77% europeo), le misure per la prevenzione dei rischi (70% contro il 59%), le misure per adattare il luogo di lavoro alle persone più anziane (34% contro il 31%). Questo contrasto tra l’impatto rilevante della crisi sulla percezione delle condizioni di lavoro senza che però ciò sia particolarmente imputabile nel contesto italiano (contrariamente ad esempio da quanto av‐venga in Spagna e Grecia) alle imprese, pone alcuni elementi interessanti alla nostra riflessione. In primis sono le condizioni complessive di sistema, come il contesto socio‐economico, le politiche del lavoro, il dialogo sociale, che influenzano maggior‐mente la percezione di peggioramento rispetto a quanto avviene all’interno delle imprese. Vi è un’altra interessante domanda che riguarda quanto gli intervistati sono soddisfatti dell’equilibrio tra vita e lavoro; qui le risposte positive sono decisa‐mente più alte, ma comunque sotto la media europe‐a: il 70% degli italiani contro il 74% degli europei che ci pone nuovamente in quint’ultima posizione (con sempre Spagna e Grecia all’ultimo posto). Questo crescente squilibrio tra vita e lavoro appare più ricon‐ducibile oggi a un peggioramento sistemico della qua‐lità del lavoro, piuttosto che ad una dimensione con‐testualizzata ai luoghi di lavoro. Queste considerazio‐ni possono anche essere utili per la nostra riflessione odierna sull’alcol. Proseguendo nel nostro ragionamento basato sui dati di Eurobarometer si può osservare come lo stress risulti il più importante rischio percepito durante il lavoro (per il 53% dei lavoratori intervistati in Europa e 50% per gli italiani), con una crescita significativa negli ultimi anni, a scapito ad esempio di problemi fisici di natura muscolare o ossea.
Non appare casuale che simultaneamente alla pre‐sentazione di questi risultati il 7 aprile 2014, l’Agenzia europea per la salute la sicurezza sul lavoro (EU‐OSHA) abbia inaugurato la campagna di sensibilizza‐zione intitolata "Healthy Workplaces Manage Stress" ("Ambienti di lavoro sani e sicuri per la gestio‐ne dello stress") sui rischi psicologici, fisici e sociali connessi allo stress sul luogo di lavoro. Di Leone A Ignazio Grattagliano, Ricercatore e docen‐te di Criminologia clinica e psicopatologia forense della Facoltà di Medicina di Bari, chiediamo: “Qual è il nesso tra processi di emarginazione, espulsione del mercato del lavoro, uso di alcol e problematiche di tipo criminologico e che attengono il controllo e la sicurezza sociale?” Grattagliano Il mio intervento è quello dello Psicologo del Ricercatore che lavora in ambito forense e medico legale, ed è da questa prospettiva che intervengo nel dibattito scegliendo come " key word" che mi riguar‐da (ed è più vicina ai miei interessi professionali di studio e di ricerca), del complesso e bel titolo di que‐sta sessione e della nostra discussione, il termine "emarginazione". Lascio volentieri ai colleghi che in‐terverranno prima e dopo di me il compito di affron‐tare le altre tematiche costitutive il tema della sessio‐ne. Gli studi in ambito delle discipline e delle scienze cri‐minologiche e psichiatrico forensi hanno ampiamente dimostrato che l'alcol ed in genere le "sostanze di abuso" costituiscono fattori di rischio e di amplifica‐zione delle problematiche relative agli autori ed alle vittime nei reati ed in particolare nei reati violenti ancor più drammatici se commessi in contesti di " emarginazione e povertà non solo economica ma anche affettiva, culturale, simbolica, relazionale". Molteplici studi riconoscono all’uso di alcol e sostanze psicoattive un rilievo tutt’altro che marginale nello sviluppo delle dinamiche sottese al comportamento aggressivo e violento, sia sul versante dell’autore che su quello della vittima, generando una stretta aderen‐za fra ruolo criminogeno e vittimogeno. La compre‐senza di alcol e sostanze d’abuso in entrambi i sogget‐ti di reato è di frequente riscontro nella letteratura medico‐legale, soprattutto con riferimento a scenari di vittimizzazione in cui la relazione diacronica autore/vittima si articola su items complessi, che chiamano in causa l’elemento consensuale. Ciò appare oggi drammaticamente cogente se si pen‐sa, ad esempio, che i reati in famiglia ed in genere nelle relazioni di prossimità affettiva e relazionale, da anni sono in aumento. Si pensi che per particolari e gravi tipologie di reato, (per tutti gli omicidi), quelli commessi in famiglia o nelle relazioni di prossimità sono di gran lunga quantitativamente più numerosi rispetto ai tradizionali contesti o ambiti, oggetti di studio delle mie discipline, ad es. le rapine, o i reati
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propri della criminalità organizzata. Così anche per gli abusi fisici e sessuali su adulti ed in particolare sui minori, le statistiche giudiziarie ci dico‐no che quasi il 75% degli autori sono persone "note” e hanno familiarità con le vittime. L'alcol lo ritroviamo di nuovo come protagonista di tali particolari forme di reato. Infatti non a caso, la ricerca ha sempre identifi‐cato alcool e stupefacenti come mezzi impiegati per ottenere illecitamente prestazioni sessuali contri‐buendo a creare " vizi di consenso" agli atti sessuali. È noto come l’alcool favorisca l’insorgere di situazioni pericolose accrescendo l’imprudenza, l’insipienza, l’impulsività della futura vittima e attenuandone la capacità di discernimento critico. L’azione farmacolo‐gica della sostanza, già a bassi livelli di alcoolemia, causa disinibizione e loquacità incentivando le ten‐denze aggressive o provocatorie dell’assuntore men‐tre la ridotta risposta agli stimoli e il rallentamento dei riflessi ne pregiudicano la capacità di opporre una valida resistenza in caso di aggressione fisica. L’aggressività, così slatentizzata dalla sostanza si tra‐duce in fattore di vittimizzazione aggravato dalla vul‐nerabilità della vittima provocatrice. Le dinamiche sessuali, in particolare, chiamano in causa sia l’uso di alcool che quello di psicostimolanti unitamente alle benzodiazepine. Un esame della consistente letteratura criminologica su patologie di abuso e comportamenti violenti docu‐menta il costante interesse per tale tematica dalla specifica angolazione dell’autore del reato, essendo da tempo acclarata l’esistenza di un’interazione tra abuso di sostanze e condotte criminali. Sebbene le annotazioni più frequenti attengano alle potenzialità criminogene della sostanza, i risultati di recenti inda‐gini riconoscono, alle abitudini voluttuarie della vitti‐ma, un ruolo tutt’altro che marginale nel determini‐smo dell’evento delittuoso, con particolare riferimen‐to alla violenza intra‐familiare, di genere e a quella sessuale. Studi a carattere epidemiologico correlati con le statistiche giudiziarie individuano, nell’aggressione violenta e nell’abuso alcoolico da parte delle vittime, il principale nesso esplicativo tra elevato tasso alcolemico e comportamento deviante. Di Leone Gino Rubini, Web master di Diario Preven‐zione ed ex sindacalista CGIL (di Bologna) ci chiarirà "Come fare prevenzione rispetto al rischio di alcolismo nei lavoratori che hanno perso o stanno perdendo il lavoro". Rubini La lotta all'alcolismo tra i lavoratori risale alla fine '800. Le prime leghe sindacali nella fase costitu‐ente incontrarono tra gli ostacoli l'abitudine dei lavo‐ratori all'alcol, il loro dissipare il salario nelle osterie. La prima grande opera di prevenzione fu quella del sorgere delle coalizioni di lavoratori che rivendicava‐no autonomia e dignità del lavoro. La prima grande opera di prevenzione, in quell'epoca, fu fatta dai mo‐
vimenti caratterizzati da un forte protagonismo fem‐minile che individuarono nella lotta all'alcolismo di cui erano vittime i bredwinners una priorità per salva‐guardare condizioni di esistenza tollerabili nelle fami‐glie. È da questo aspetto che scelgo di partire per sviluppa‐re una serie di riflessioni sul tema. Come sindacalista ho maturato un'esperienza lunga di situazioni di crisi, di gruppi di persone che da un certo momento vivono la destrutturazione del loro essere sociale, della loro identità e autostima derivante dalla perdita del lavoro sia a livello di gruppo sia a livello individuale. In quest'epoca di crisi prolungata, di trasformazione della società e del lavoro, si moltiplicano le situazioni di vulnerabilità, migliaia di persone che avevano rag‐giunto un certo equilibrio e una condizione di vita decorosa si trovano, finita la CIG e i pochi altri stru‐menti di protezione sociale, all'improvviso proiettate nel “vuoto” dell'incertezza rispetto al loro futuro, senza un paracadute. Questo avviene peraltro in una società che in larga parte ha interiorizzato e accettato la cultura della rottamazione non solo degli oggetti ma anche degli umani non adatti o non più adatti in nome dell'effi‐cienza del sistema azienda e del ricambio generazio‐nale che si sta realizzando senza la mediazione di un patto di alleanza tra le generazioni. Condizioni di lavoro stressanti sono poi molto diffuse in quasi tutti i luoghi di lavoro che vanno bene anche in questa fase di crisi. Sono realtà che richiedono pre‐stazioni molto competitive con una selezione dura tra gli adatti e i non adatti. A questo aspetto della intensificazione del lavoro si associa la responsabilizzazione sul risultato del lavoro, una responsabilizzazione senza potere decisionale che viene spesso assegnata al singolo lavoratore o al piccolo gruppo senza che questi abbiano piena dispo‐nibilità di tutto quanto serve per realizzare nei tempi previsti gli obiettivi assegnati… Coloro che non ce la fanno sono messi da parte, poco importa se sono lontani dalla pensione o hanno fami‐glia con figli piccoli a carico. Il sentirsi abbandonati, umiliati e offesi, arrabbiati e impotenti fa parte dell'esperienza soggettiva di coloro che, perso il lavoro, non riescono a trovare un'altra occupazione, e il tempo che scorre senza risultati di‐venta per loro un supplizio. Esiste poi una platea di soggetti avvezzi all'alcol per scelte personali o per vicende sfortunate della vita per i quali l'alcol diviene ragione di licenziamento o emarginazione nel lavoro. Anche in questi casi sono le reti sociali il riferimento per la gestione del problema. Accordi sindacali per la reintegrazione nel lavoro delle persone dipendenti da alcol e sostanza, dopo un pro‐getto di svezzamento ve ne sono stati molti ma solo nelle aziende medio grandi.
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Le reti sociali come strumento di prevenzione Come si può fare prevenzione rispetto alle derive verso la dipendenza da sostanze e/o verso l'alcolismo e verso forme di autolesionismo, fino al suicidio, tra‐gedie che hanno occupato, purtroppo, le cronache locali dei quotidiani della mia regione? Il primo passo è quello di non lasciare sole le persone e/o i gruppi di lavoratori che hanno perso o stanno perdendo il lavoro. Le reti sociali formali e informali sono decisive per mantenere quella socialità necessaria a condividere le fasi di crisi personali. In questo ambito ho visto e pra‐ticato molte forme di aggregazione che nascono con l'obiettivo di non lasciare sole le persone. Una delle forme più tradizionali è il ruolo di accompagnamento del sindacato nel predisporre e gestire gli strumenti immediati di tutela contrattuale e anche burocratica delle persone. Esistono poi altre reti di protezione e tutela che si sono sviluppate in questi anni per dare una risposta ai bisogni non materiali ma di sostegno psicologico ai singoli, a quelle persone che non riesco‐no ad elaborare il lutto per la perdita dello status di lavoratore, di persona autonoma. A Bologna, ad esempio opera da più di cinque anni l'Associazione Rivivere che ha istituito il Servizio Pri‐mo Maggio che accoglie quei lavoratori e lavoratrici in crisi ove con gli psicologi intraprendono una narrazio‐ne della propria storia e ricostruiscono un nuovo pun‐to di vista di sé, della propria vicenda di vita e delle possibilità di essere anche altro rispetto alla vita pre‐cedente. In altre città della regione esistono gruppi di volonta‐riato che si prendono in carico le persone in crisi e fanno da tramite con i DSM. Purtroppo i tagli delle risorse hanno ridotto la capacità operativa delle strut‐ture pubbliche a prendere in carico per terapie brevi le persone in crisi a causa della perdita del lavoro. Conoscere il sistema di reti sociali e connettere la domanda di aiuto che viene dalle persone in crisi è il primo passo per fare prevenzione rispetto ai disturbi dell'adattamento che comportano atteggiamenti ne‐gativi verso la salute come l'uso di sostanze, alcol. Le reti associative e sociali hanno bisogno di linee guida e di formazione dagli esperti per non commet‐tere errori nel loro operare e nell'accoglimento delle persone che soffrono. Non serve infatti un atteggiamento presente spesso tra i colleghi di lavoro ispirato solo dalla pietas, teso a coprire gli effetti dell'alcolismo che finisce per ritarda‐re l'emersione del problema. Cosi come non serve un atteggiamento moralistico ispirato alla cultura della redenzione, serve un intervento pluridsciplinare che supporti la persona a intraprendere un altro progetto di vita con la fuoriuscita dalla dipendenza. Vedi l’esperienza svizzera supportata dall'Assicurazio‐ne SUVA sugli infortuni e malattie correlate al lavoro che si sostanzia nell'accettazione da parte dell'inte‐
ressato di un progetto, di cui è compartecipe l'azien‐da, di fuoriuscita dalla dipendenza e dal cui successo dipende la reintegrazione nel lavoro. In buona sostanza fare prevenzione rispetto all'abuso dell'alcol riferito al lavoro e alla perdita del lavoro richiede agli attori sociali e istituzionali la predisposi‐zione di reti sociali che siano in grado di accogliere ed ascoltare le persone che sono andate in crisi perché abbiano un luogo e supporti per ridefinire il proprio progetto di vita. Siamo molto lontani da ciò che sarebbe giusto e ne‐cessario fare. Di Leone Ernesto Ramistella, Medico competente di Catania nonché componente del direttivo della Socie‐tà Italiana di Medicina del lavoro e igiene industriale, ci chiarirà la posizione dei medici competenti su que‐sta complessa materia. In particolare, a lui chiediamo “Quali sono le esperienze e il contributo che i medici competenti possono fornire alla gestione (se non alla soluzione) di queste problematiche nei luoghi di lavo‐ro, non solo dal punto di vista della promozione della salute, ma anche da quello della diagnosi, della tutela dei posti di lavoro, del reinserimento nel mondo del lavoro e dell’avvio ai percorsi di recupero dei lavorato‐ri con problemi alcol correlati”. Ramistella Il mondo “globalizzato” degli ultimi 30 anni e la successiva crisi economica dei paesi dell'oc‐cidente industrializzato hanno provocato notevoli cambiamenti, nel nostro Paese, nell'ambito della po‐polazione lavorativa. Una delle principali conseguenze per l'Italia è costituita dalla notevole diminuzione dei lavoratori in fase attiva in tutti i comparti ma, in parti‐colar modo, nel settore industriale e nell'industria manifatturiera, condizione legata al cosiddetto pro‐cesso di “delocalizzazione” da parte di imprese – so‐prattutto multinazionali – che hanno preferito investi‐re in località estere dove sono maggiori i vantaggi fiscali ed economici e minori le tutele sociali delle maestranze. Questo fenomeno, legato anche alle caratteristiche del mercato del lavoro in Italia e agli interventi legi‐slativi degli ultimi anni, ha condotto a diverse impor‐tanti conseguenze, delle quali si citano solo quelle più rilevanti (in questo contesto): a) la precarizzazione del lavoro (sia pure definita, eu‐femisticamente, come “flessibilità”);
b) l'invecchiamento della popolazione lavorativa “italiana”, specie nella grande industria e nel pubbli‐co impiego (anche e soprattutto nel settore sanita‐rio);
c) l'incremento della popolazione lavorativa “immigrata” in mansioni con elevata componente manuale o considerate di basso profilo sociale (manovalanza nel settore edile e agricolo, cura di‐retta della persona anziana e/o disabile etc.).
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Il medico del lavoro è un osservatore privilegiato di tale nuova e preoccupante realtà. Intere zone del nostro Paese, in particolare del meri‐dione, sono ormai praticamente deindustrializzate. Come conseguenza di ciò, negli ultimi anni, come me‐dici competenti abbiamo visto decrescere nelle azien‐de in modo cospicuo l'attività di sorveglianza sanitaria per i rischi “industriali” quali: esposizione a sostanze chimiche (anche mutagene e/o cancerogene), esposi‐zione a rumore, esposizione a radiazioni ionizzanti etc. e aumentare di pari passo la sorveglianza sanita‐ria per gli impiegati e gli altri addetti al videotermina‐le. Al tempo stesso sono aumentate le visite preventive (condotte in fase pre‐assuntiva o meno) per lavorato‐ri assunti a tempo determinato e per brevi periodi, spesso sostituiti con elevato turn‐over alla fine dell'in‐tervallo considerato, in genere – quasi sempre – di pochi mesi. Questi lavoratori sono fortemente moti‐vati all'impiego e spesso nascondono o sottovalutano infortuni e problemi di salute che potrebbero, a loro parere, influire sull'assunzione e sulla idoneità alla mansione specifica. In molti settori è divenuto eleva‐to il ricorso a maestranze immigrate, che accettano le condizioni economiche e lavorative più disagiate, con le ovvie difficoltà di comunicazione e con i problemi sanitari complessi e difficili da gestire (si pensi, ad esempio, alla differenza per le vaccinazioni obbligato‐rie dell'età infantile o al rispetto del periodo del ramadan nei lavoratori musulmani). Lo stress legato a queste condizioni di fondo è certa‐mente cospicuo e difficile da valutare perché più lega‐to alla percezione individuale del soggetto che alle condizioni di organizzazione del lavoro (si pensi, ad esempio, al lavoratore precario di una grande indu‐stria, adeguatamente tutelato sul piano della sicurez‐za sul posto di lavoro ma che vede rinnovarsi il suo contratto a tempo determinato ogni 3 o ogni 6 me‐si…). Inoltre, le condizioni stressanti che possono ri‐scontrarsi in situazioni occupazionali particolari (tipico l'esempio dei call‐center) vengono in genere sottostimate dalle valutazioni dei rischi – spesso con‐dotte con minima collaborazione da parte del medico competente, e non solo per sua volontà – o bypassate delocalizzando tali centri all'estero. Nel tentativo di gestire tali condizioni stressanti, molti lavoratori possono così ricorrere a un elevato consu‐mo di sostanze d'abuso, quali l'alcol o farmaci psico‐tropi, droghe o altri stupefacenti. In questo scenario e in assenza di una nuova e diversa politica economica e sociale, pur da tutti invocata, le possibilità di intervento del medico competente sono abbastanza limitate e si rivolgono fondamentalmente nel valutare con attenzione la idoneità al lavoro del soggetto che si accinge a prendere servizio o dei lavo‐ratori attivi, con particolare riferimento all'invecchia‐mento della forza lavoro dei lavoratori italiani, conse‐
guenza dell'allungamento della vita media e dell'a‐spettativa di vita in “buona” salute e, di converso, dell'aumento dell'età pensionabile e dell'arresto del turnover che si è verificato in molti settori, come ad esempio nel pubblico impiego, da parecchi anni. Prescindendo dall'incremento della base produttiva, legato a scelte politiche ed economiche di tipo gene‐rale, sarebbe auspicabile invece che il medico compe‐tente venisse coinvolto – quale “consulente globale” dell'impresa – sin dall'inizio nelle fasi di valutazione del rischio e di corretta progettazione e organizzazio‐ne del posto di lavoro e del ciclo produttivo. Purtrop‐po la rigide scelte aziendali, talora impropriamente giustificate dai motivi economici legati alla crisi, osta‐colano o impediscono questo tipo di intervento atti‐vo. L'esigenza attuale del mondo delle imprese è, infatti, quella di ottenere il massimo rendimento im‐mediato da ciascun lavoratore, mentre il personale non idoneo (anche se con idoneità parziali o tempora‐nee) tende a essere espulso. Ciò avviene, comunque, non solo nel privato; si pensi, ad esempio, all'articolo 41 della legge di stabilità 2015, attualmente in discus‐sione in Parlamento. A conclusione di quanto detto, resta quindi fonda‐mentale mantenere la qualità della prestazione pro‐fessionale del medico competente ai massimi livelli non solo sanitari, ma anche e soprattutto deontologi‐ci ed etici, rimarcando le attività di tutela e di promo‐zione della salute in tutti i luoghi di lavoro e per tutti i “lavoratori”, considerati nell'accezione più estesa e ben rappresentata dalla definizione dell'art. 2 del D.Lgs. 81/08. Tra le attività di promozione della salute, particolare importanza riveste il counseling ai lavoratori per quanto riguarda il contrasto agli stili di vita errati e alle malsane abitudini voluttuarie, quali ad esempio l'alimentazione eccessiva e/o smodata, il tabagismo, l'alcolismo. Quando si fa riferimento a queste proble‐matiche, in particolare all’assunzione da parte di lavo‐ratori di alcol o sostanze psicotrope e stupefacenti, si deve sottolineare l’importanza del ruolo del medico competente e della relativa sorveglianza sanitaria nei luoghi di lavoro, imposta obbligatoriamente anche da una normativa specifica volta alla individuazione pre‐coce dell'abuso di tali sostanze. Nei confronti dell'as‐sunzione e abuso di bevande alcoliche, il medico com‐petente è chiamato a svolgere una funzione preventi‐va, a tutela della salute del lavoratore (ma anche, in questi casi, alla salvaguardia della sicurezza di terzi) assieme a una attività di peculiare promozione della salute individuale, nel caso di comportamenti a ri‐schio, nonché quale iniziatore dell'avvio di programmi terapeutici e/o riabilitativi, se si riscontrano condizio‐ni di vera e propria alcol‐dipendenza. I medici compe‐tenti, infine, rivestono un ruolo fondamentale anche per il corretto reinserimento nel mondo del lavoro di soggetti con problemi alcol‐correlati (o altre dipen‐
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denze) che hanno seguito a percorsi di disassuefazio‐ne, soprattutto in questo momento di grandi cambia‐menti del mondo del lavoro che tendono a incremen‐tare le rigidità economiche attenuando le tutele del cosiddetto stato sociale. In tali condizioni il medico competente può, quindi, rivestire un ruolo sociale decisivo quale attore della “prevenzione sanitaria” e della “promozione della salute” della popolazione lavorativa, in una veste con‐divisa solo con quella del medico di medicina genera‐le. Di Leone A Luciano Marchiori, Direttore SPRESAL di Verona e Coordinatore del Coordinamento Sicurezza sul lavoro della Conferenza Stato Regioni, poniamo la seguente domanda: “Quali sono l’attuale orientamen‐to del Coordinamento delle Regioni, gruppo PISLL, e dei Ministeri in merito alla verifica d'efficacia degli strumenti predisposti e i futuri orientamenti”. Marchiori Oggi, nel mondo del lavoro si assiste ad una crescente deindustrializzazione, accompagnata dalla diversificazione delle forme del lavoro a favore del precariato e della insicurezza del posto di lavoro, con profonde ricadute in termini di sicurezza, salute e benessere sul lavoro. Tale situazione di incertezza e insicurezza caratterizza sia il mondo dei lavoratori che quello imprenditoriale. È sempre più frequente la presenza di rapporti di lavoro full‐time denunciati come part‐time, altrettanto frequente è il ricorso a tipologie contrattuali atipiche e flessibili, come il con‐tratto a progetto o l’associazione in partecipazione o l’impiego di soggetti titolari di partita IVA, fattispecie dietro le quali sempre più spesso si celano rapporti di lavoro che hanno tutte le caratteristiche tipiche della subordinazione. Sempre più diffuso, inoltre, è il feno‐meno dell’appalto non genuino o della somministra‐zione irregolare di manodopera. Anche i collocamenti obbligatori dei lavoratori invalidi ai sensi della L. 68/99 risultano sempre più difficili e comunque a tempo determinato (alcuni mesi). Al quadro descritto si aggiunge il progressivo invecchiamento della forza lavoro dovuto ai più recenti provvedimenti in materia di pensionamento. Per un’analisi sanitaria, di tipo macro, del contesto descritto, si possono prendere in esame i dati deri‐vanti dalle comunicazioni dei medici competenti, ex art. 40, all 3B relativi alla sorveglianza sanitaria svolta nel 2013. Tale attività ha riguardato 9.556.000 lavora‐tori, dei quali 5.517.000 visitati nell’anno di riferimen‐to, rispetto a 22.420.000 lavoratori complessivamen‐te occupati in Italia. Il primo dato che emerge è relati‐vo alla % di lavoratori risultati non idonei, pari al 20 %, un terzo di questi in maniera permanete! Per quanto riguarda i problemi alcool e dipendenze correlati, a fronte dei circa 700.000 controlli effettuati nell’anno 2013 per alcol dipendenza, la percentuale dei lavoratori risultati essere inidonei alla mansione è
pari al 3%, mentre per i circa 600.000 controlli effet‐tuati per le sostanze stupefacenti è risultata una posi‐tività dei controlli dello 0,5%. Per quanto riguarda l’inidoneità per alcool in alcune regioni si sono registrate % di positività anche del 15%. Il contesto delineato, caratterizzato da dati epidemio‐logici significativi per quanto riguarda le inidoneità al lavoro, richiede in previsione del Piano Nazionale Prevenzione 2014‐18, una politica finalizzata all’attuazione di azioni di prevenzione, quali:
Lo sviluppo, in collaborazione con i medici compe‐tenti, della promozione della salute negli ambienti di lavoro (WHP) favorendo l’adozione di stili di vita salubri (alimentazione, contrasto del fumo e dell’alcool, attività fisica, ecc.).
Lo sviluppo del benessere organizzativo e la preven‐zione dello stress lavoro correlato negli ambienti di lavoro
La revisione dell’accordo Stato Regioni in materia di alcol e droghe, finalizzandolo maggiormente alla prevenzione, piuttosto che al controllo repressivo, oltre che all’efficacia dei test, evitando spese inutili per le aziende
Una ferma azione di vigilanza mirata al contrasto dei pericoli maggiori e gravi per la salute, delle irre‐golarità del lavoro (lavoro grigio, nero) in coordina‐mento con le Direzioni Territoriali dl Lavoro e le parti sociali.
Di Leone A Francesco Piani, Direttore del Dipartimen‐to delle dipendenze Medio Friuli di Udine e Coordina‐tore del sottogruppo di lavoro sui problemi alcol cor‐relati della Conferenza Stato Regioni, chiediamo quali siano “Gli effetti della crisi visti da un dipartimento delle dipendenze che tratta si persone/famiglie, con un problema alcol correlato, ma che deve predisporre progetti riabilitativi basati su tre pilastri essenziali: la casa, il lavoro e la socialità” Piani Come noto gli studi che riguardano l’impatto della crisi economica, intesa come aumento della disoccupazione, riduzione del guadagno, allentamen‐to delle reti e della coesione sociale, non riportano conclusioni univoche. In sintesi estrema gli studi si dividono tra quelli che dimostrano un rapporto positi‐vo tra crisi macroeconomica (correlazione “procyclical”) e quelli che dimostrano una correlazio‐ne negativa (counterclycal). I modelli interpretativi fanno riferimento alla variazione di reddito, alla mag‐gior disponibilità di tempo, e agli effetti psicoattivi e di “automedicazione” dell’alcol. Ci si vuole qui soffermare in particolare, sull’esperienza maturata sul campo all’interno di un dipartimento delle dipendenze (Azienda per i Servizi Sanitari n. 4 “Medio Friuli” di Udine) che si trova quo‐tidianamente a verificare “de vivo” gli effetti della crisi sui propri assistiti. Emergono le seguenti conside‐
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razioni, alcune piuttosto “banali” ma con impatto certamente “non banale” sulla vita delle persone e delle famiglie. 1. È sempre più difficile rispetto al passato, inserire al lavoro soggetti che hanno avuto problemi con l'alcol e/o con le sostanze. I motivi sono del resto facilmente comprensibili, in un mercato del lavoro dove anche i “migliori” trovano difficoltà talora insuperabili. Que‐sta è una differenza significativa che viene certamen‐te percepita dai servizi e che si discosta in modo note‐vole rispetto al passato. 2. Allo stesso modo è anche molto più facile, rispetto al passato, che chi ha avuto o ha problemi con l’alcol perda il lavoro. La tolleranza delle aziende è spesso molto più ridotta rispetto al passato, alle volte senza oggettive ragioni economiche. 3. Difficile dire, da questo osservatorio, se vi sia un aumento dei problemi alcol correlarti. Ciò perché un eventuale aumento dei consumi non si traduce da subito nella presenza di PAC, e nel conseguente ricor‐so ai servizi. 4. A fronte di questa situazione si assiste ad una note‐vole riduzione di risorse dei servizi (‐ 10% del budget per le borse di inserimento lavorativo, pagamento oneri sociali, ecc.), con la perdita concreta di posti di lavoro, e con un "clima" nelle aziende poco incline a favorire i soggetti in condizioni di svantaggio. Ciò ren‐de sempre più complicato l'inserimento lavorativo anche con borse di lavoro o altre facilitazioni non o‐nerose per le aziende. Spesso si surroga a queste diffi‐coltà con i corsi di formazione professionale, purtrop‐po il più delle volte senza concreti sbocchi lavorativi.
II SESSIONE ALCOL E DIRITTO ALLA SALUTE
Tavola rotonda Il lavoro di rete in alcologia
Moderatori: MARIA TERESA SALERNO1 ‐ VITO ANTO‐NIO CAMPANILE2 1 Referente Tecnico della Regione Puglia nel Gruppo Tecnico Interregionale Alcol della Commissione Salute delle Regioni e P.A. – Bari 2 Dirigente Medico Responsabile Centro di Alcologia Rutigliano (BA) – Dipartimento Dipendenze Patologi‐che – ASL BA I Parte Introduzione a cura di Maria Teresa Salerno La Costituzione nell’Articolo 32 del Titolo II Rapporti etico‐sociali recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività…..” Anche se dopo quasi mezzo secolo, il primo dei 5 principi etici della Carta Europea sull’Alcol (dicembre
1995) appare in sintonia con la nostra Costituzione e afferma che: “Tutti hanno diritto ad una famiglia, una comunità ed un ambiente di lavoro protetti da inci‐denti, violenza ed altri effetti dannosi che possono derivare dal consumo di bevande alcoliche”. Seppure con qualche variazione, figlia della nostra cultura permissiva sul bere (vedi la definizione consu‐mo che viene variata in abuso), l’Italia ha fatto sue le indicazioni della Carta e promulga la legge quadro sull’alcol 125 del 2001, unica in Europa, che nell’Articolo 2 riferito alle ”Finalità” riporta i 5 principi etici. Come ci ha esposto Emanuele Scafato i Problemi alcol correlati incidono sulle nostre comunità in termine di salute e costi sociali. Sono inoltre un problema complesso in quanto non solo fisico, ma anche di ordine psicosociale e relazio‐nale, che pertanto ha bisogno di una risposta com‐plessa, finalizzata alla promozione oltre che alla pro‐tezione della salute, non solo della singola persona, ma di tutta la comunità. Il più adeguato approccio ad un problema complesso è sicuramente un approccio di rete, che veda coinvolti attori pubblici e privati, che per le loro specificità, possano agire come nodi interattivi di una rete com‐petente. Delle Reti in Alcologia si parla da più parti, ma è tutto‐ra difficile vedere un buon esempio di rete attivata e fortemente complessa. Scopo della tavola rotonda è, attraverso l’esperienza e la competenza dei relatori, tentare di costruire una possibile rete di intervento, per quanto di livello es‐senziale, che permetta di fronteggiare i Problemi al‐colcorrelati, affrontandoli in un continuum che vada dalla prevenzione al trattamento delle patologie più gravi, senza tralasciare la ricerca e la formazione degli operatori.
Salerno Dott. Taranto, psichiatra, Direttore Diparti‐mento Dipendenze Patologiche ASL BA, ai Servizi del Dipartimento da lei diretto giunge la richiesta di aiuto di molte persone e famiglie con PAC. Credo che, per le finalità della Tavola Rotonda, sarebbe molto utile sapere come giungono, chi li indirizza e, molto breve‐mente, quali sono le risposte che i servizi riescono a dare con l’attuale prassi e con le attuali restrizioni. Taranto Il DDP della ASL BARI è costituito da 14 SerD e un Centro Alcologico che, complessivamente, rice‐vono circa 1500 pazienti all'anno con problemi alcol correlati. Fra queste 1500 persone si distinguono due grossi sottogruppi: a) quasi un migliaio di persone richiede la nostra pre‐stazione per problemi correlati all'idoneità alla guida di veicoli a motore e, molto meno spesso, all'idoneità lavorativa; b) circa 600 persone che richiedono trattamenti per
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“alcohol addiction”. Nel primo sottogruppo si tratta di persone che sono risultate positive ai test alcolimetrici in occasione di controlli relativi al rispetto del codice della strada o alla sicurezza sul lavoro. Dopo l'osservazione clinica e gli specifici accertamenti, dall’80 al 90% di questi sog‐getti riceve una diagnosi di “pregresso abuso di alcol, senza caratteristiche di dipendenza o di abuso attua‐le”. Dal 10 al 20% dell'intera coorte riceve, invece, una diagnosi di “dipendenza o di abuso protratto di alcol” e, quindi, viene invitato ad accettare un trattamento specifico per alcolismo. Nel secondo sottogruppo la maggior parte delle per‐sone richiedenti il nostro intervento ha una storia di dipendenza molto lunga, che ha già causato una gran‐dissima quantità di danni fisici e sociali che determi‐nano il bisogno di interventi complessi, interdiscipli‐nari e interistituzionali. La percentuale di persone con basso livello di complessità, cioè con complicazioni fisiche trattabili ambulatorialmente e deterioramento sociale non grave si attesta intorno al 20%. La mag‐gior parte dei pazienti giunge ai nostri servizi su inizia‐tiva propria o dietro forte pressione dei familiari o dei servizi sociali. Salerno Come è noto uno dei punti nodali per la pro‐mozione e la protezione della salute è il Medico di Medicina Generale. Dott.ssa Zamparella, Medico di Medicina Generale, nella sua esperienza e nell’esperienza dei suoi colleghi esistono linee guida o buone prassi che voi siate tenuti a seguire nei vostri ambulatori in caso di PAC o meglio nell’individuazione precoce delle persone a rischio di PAC? Zamparella Le problematiche e patologie alcol corre‐late devono essere gestite in un network di rete terri‐toriale con potenziamento soprattutto della preven‐zione ed educazione, compito specifico e di compe‐tenza del MMG che ha per soddisfare i bisogni di salu‐te dei cittadini, il modello olistico e l'approccio bio‐psico‐sociale nella gestione della cura, diagnosi e pre‐venzione della "persona". Uno sviluppo della gestione territoriale e di quella ospedaliera specialistica e spe‐cifica delle complicanze, può essere professionalizza‐to se il team multidisciplinare ha accesso negli ambu‐latori dei MMG e i dati sono collegati in rete. Da anni tutti i protagonisti dalle figure professionali sanitarie, parasanitarie e non sono stati impegnati nel migliora‐re la gestione delle problematiche e patologie alcol correlate e questo ha già portato qualche risultato, quale quello di essere presenti negli obiettivi di salute nei piani sanitari nazionali ed in molti piani sanitari regionali tra le quali la nostra Regione. Salerno Come abbiamo sentito nella sessione della mattina, nell’ambito della Medicina di Azienda e del Lavoro, da qualche anno si sta dibattendo e prenden‐
do decisioni normative su questo tema. Senza dubbio un ruolo fondamentale per proteggere la comunità dai problemi che l’alcol produce, anche in piccole quantità, in certi ambiti lavorativi lo riveste il Medico competente. Pertanto chiedo al Dott. Ditaran‐to, Segretario Generale dell’Associazione Nazionale dei Medici di Azienda e Competenti, di illustrarci se, nella sua attività lavorativa, siano previsti interventi, da tutti condivisi e standardizzati per l’individuazione delle modalità di consumo di bevande alcoliche dei lavoratori a rischio o già portatori di Problemi Alcol‐correlati e se sia compito dei competenti attuare pro‐grammi educativi, o inserire in una rete di intervento coloro che ne avessero bisogno. Ditaranto Negli ultimi anni la normativa in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro si è ar‐ricchita di numerose disposizioni finalizzate alla pre‐venzione delle conseguenze derivanti dall’assunzione di alcol e droghe negli ambienti di lavoro. Queste disposizioni, che riguardano soltanto i lavora‐tori che svolgono determinate mansioni, hanno com‐portato un salto culturale nell’approccio aziendale alla prevenzione comportando l’estensione delle tu‐tele anche ai «terzi» e cioè ai colleghi, altri lavoratori, clienti, fornitori, cittadini ecc., che possono subire i danni conseguenti a quei comportamenti (l’’estensione della tutela anche ai “terzi” è conforme al “principio della sicurezza in sé dell’ambiente di la‐voro” presente in numerose sentenze della Cassazio‐ne: anche i terzi, quando sono esposti ai pericoli deri‐vanti da un’attività lavorativa svolta da altri in un am‐biente di lavoro, sono destinatari delle misure di pre‐venzione). Tuttavia la gestione negli ambienti di lavoro dei casi di abuso alcolico e dei problemi e delle patologie alcol correlate è in realtà «antica», precedente a queste disposizioni legislative ed anche alla nascita dei Servizi/Nuclei operativi territoriali che si occupano di alcologia. Allora la gestione era generalmente basata su una triangolazione tra il medico competente (MC), la fa‐miglia ed il medico di base, ma in assenza di modelli strutturati di riferimento tutto finiva con l’essere so‐stanzialmente affidato all’esperienza ed al buon sen‐so. Pertanto i Servizi di alcologia, anche se non hanno su tutto il territorio nazionale il medesimo sviluppo e la stessa identità strutturale ed organizzativa, possono sicuramente costituire per il MC un importante riferi‐mento. In particolare evidenzierei tre livelli di interazione: 1.Il supporto dei Servizi al MC che lo richiede per la diagnosi di «alcol dipendenza» nei lavoratori che svolgono mansioni «a rischio» ai sensi del Provvedi‐mento della Conferenza Stato – Regioni del 16.03.2006;
2.La collaborazione con i Servizi per la gestione dei
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«casi» che emergono durante la sorveglianza sanita‐ria;
3.La collaborazione per la promozione della salute in tema di alcol e problemi alcol correlati.
Quale operatore sul campo, devo innanzi tutto richia‐mare l’attenzione sulla confusione ed ambiguità che tuttora permane nel quadro giuridico di riferimento:
la mancanza di coordinamento tra l’art. 15 della legge 125/01 e l’art. 41, comma 4 del D. Lgs. 81/08;
la perdurante attesa dell’accordo ai sensi dell’art. 41, comma 4‐bis sulla rivisitazione delle «condizioni e modalità per l’accertamento della tossicodipen‐denza e dell’alcol dipendenza» (il termine del 31 dicembre 2009 per la «rivisitazione» è infatti «ordinatorio» e non «perentorio»).
Nelle more di questa rivisitazione, varie Regioni han‐no poi pubblicato una serie di documenti amministra‐tivi (linee guida, atti di indirizzo, deliberazioni di Giun‐ta regionale ecc.), contradditori, spesso di difficile applicazione in un contesto di «medicina di azien‐da» [“La medicina di azienda è un’arte particolare: è una medicina del lavoro che si differenzia per molti lati dalla medicina del lavoro classica, materia di stu‐dio nelle Facoltà Mediche, e per numerosi versi anche dalla specializzazione in medicina del lavoro, così co‐me essa viene appresa nella maggior parte delle no‐stre scuole universitarie. Presupposto della medicina aziendale è una profonda conoscenza dell’azienda, dei suoi pericoli per la salute, del suo funzionamento; presupposto è anche una stretta intesa con il management aziendale e i tecnici della sicurezza, una cordiale collaborazione con il consiglio di fabbrica, e una attitudine di comprensione e di aiuto verso i lavo‐ratori” (Enrico C. Vigliani, 1987)]. Ciò ha creato tra i MC e nelle imprese, specialmente quelle con sedi o filiali in Regioni diverse, ulteriore sconcerto anche perché utilizzati come riferimento durante l’attività ispettiva, nonostante il loro valore nella gerarchia delle fonti giuridiche. Un altro aspetto complica ulteriormente l’incertezza del quadro giuridico: sebbene si sia tuttora in carenza della rivisitazione ai sensi dell’art. 41, comma 4‐bis, in realtà, per gli accertamenti sanitari sull’assunzione delle sostanze stupefacenti, disponiamo già da anni di un ordinamento che ne precisa la tipologia, la meto‐dologia e, soprattutto, la gestione dei risultati (Provvedimento della Conferenza Stato – Regioni del 18.09.2008). Invece, nel caso dell’alcol, non esiste un analogo ordinamento. Questo è un aspetto delicato alla luce delle obbliga‐zioni derivanti dall’applicazione dell’art. 41, comma 4. Infatti questa disposizione prevede per varie tipologie di sorveglianza sanitaria la considerazione nell’espressione del giudizio dell’idoneità allo svolgi‐mento delle mansioni «a rischio» ai sensi del Provve‐
dimento del 16.03.2006, anche della verifica dell’assenza di condizioni di «alcol dipendenza». Sappiamo che questa verifica non può essere fondata soltanto sui risultati delle indagini di laboratorio e dei questionari ed è invece spesso necessario anche il ricorso a valutazioni più approfondite, inerenti la sfe‐ra relazionale e comportamentale, che vanno ben al di là dei modelli abituali di sorveglianza sanitaria in ambito occupazionale, richiedendo il coinvolgimento di competenze qualificate e specifiche quali quelle presenti nei Servizi/Nuclei operativi di alcologia. D’altra parte il Provvedimento del 18.09.2008 dispo‐ne che i lavoratori risultati positivi ai test di primo livello per la ricerca di sostanze stupefacenti (tossicologico analitico e di conferma), siano giudicati «non idonei temporaneamente» ed indirizzati al Ser.T al quale l’ordinamento attribuisce proprio il compito di accertare le modalità e la frequenza di assunzione (stato di “consumatore”) o l’eventuale stato di “tossicodipendenza”. Quindi, pur condividendo quanto indicato nelle bozze elaborate dal Coordinamento Tecnico Interregionale ai sensi dell’art. 41, comma 4‐bis sul ruolo centrale del MC nella verifica dell’assenza di condizioni di alcol dipendenza e sulla necessità di evitare protocolli rigidi e complessi, ritengo che un ordinamento in materia di accertamenti sull’assunzione di alcol negli ambienti di lavoro debba anche chiaramente attribuire e ga‐rantire ai Servizi di alcologia un ruolo di supporto nel‐la diagnosi di «alcol dipendenza» al MC che lo richie‐de. Durante l’attività di sorveglianza sanitaria non è infre‐quente l’emersione di casi di «consumo rischioso» o addirittura «dannoso» spesso non accompagnati da un adeguato grado di consapevolezza da parte del lavoratore. Nell’ambito degli obblighi d’informazione che ha nei confronti del lavoratore sul significato e sui risultati della sorveglianza sanitaria ed anche per il suo ruolo di «promotore» di salute, il MC deve impegnarsi per cercare di rendere il lavoratore maggiormente consa‐pevole della sua condizione e delle sue implicazioni dal punto di vista sanitario e professionale, nell’intento di responsabilizzarlo (sentenza della Cas‐sazione Civile – Sezione Lavoro del 10 settembre 2010 n. 19361: lo stato di ebbrezza reiterato sul luogo di lavoro configura giusta causa per il licenziamento). In tale contesto il MC può diventare uno degli attori dell’intervento breve, un intervento motivazionale, incentrato sulla persona e finalizzato ad indurre il cambiamento nel modello di consumo alcolico. Peraltro l’opera di sensibilizzare del lavoratore consi‐ste anche nel prospettargli le opportunità esistenti nel territorio per avere un supporto per il cambia‐mento e l’adozione di comportamenti più virtuosi. In tale contesto possono sicuramente entrare in gioco le varie Associazioni di volontariato che nel territorio
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si occupano con varie modalità di alcolismo (consulenza, gruppi di aiuto‐aiuto ecc.) Tuttavia nei casi di consumo dannoso, quando si sono già manifestate delle alterazioni dello stato di salute, i Servizi, che svolgono anche attività di diagnosi, cura e riabilitazione, possono sicuramente svolgere un ruolo più efficace. Un aspetto molto importante da sottolineare in tale contesto è l’estensione operata dell’art. 15, comma 3 della legge 125/01 delle tutele previste dall’art. 124 del DPR 309/90 anche ai lavoratori con patologie alcol correlate che intendono accedere ai programmi tera‐peutici e di riabilitazione (ai sensi del Provvedimento del 18.09.2008 l’accesso ai programmi terapeutici e di riabilitazione è obbligatorio per i lavoratori risultati «tossicodipendenti» dopo gli accertamenti di secondo livello attuati dal Ser.T.). Interpreto questa norma come orientata a tutelare non soltanto i lavoratori con problemi alcol correlati che svolgono mansioni «a rischio» in base al Provve‐dimento del 16.03.2006, ma tutti i lavoratori con pro‐blematiche di questo tipo, indipendentemente dalla mansione svolta.
Salerno Molte persone con PAC vengono osservate e trattate presso le U.O. di Medicina Interna ,così come molte patologie di pazienti ricoverati nelle stesse Uni‐tà hanno un’eziopatogenesi alcolica misconosciuta. Prof. Palmieri, Professore Associato di Medicina Inter‐na, Clinica Medica “A.Murri” Policlinico di Bari, in rela‐zione alla sua esperienza di internista e di alcologo, a suo avviso quale approccio l’internista dovrebbe avere nella sua attività per proteggere e promuovere la sa‐lute di queste persone e con quali altre organizzazioni dovrebbe interagire per perseguire questo scopo? Palmieri In campo alcologico, l’internista svolge un ruolo fondamentale. La medicina interna, infatti, è la medicina della persona e della complessità e ha come suo oggetto precipuo la valutazione dei problemi di salute nel modo in cui essi si correlano con gli organi e i sistemi e contribuiscono a determinare la doman‐da assistenziale da parte del paziente. In campo alcologico, questo approccio trova un terre‐no particolarmente fertile in quanto la condizione di alcol dipendenza comporta una serie di alterazioni di funzioni e strutture di organi ed apparati strettamen‐te interconnesse fra loro e che richiedono una valuta‐zione appropriata col metodo proprio della medicina interna. La medicina interna, quindi, svolge in primo luogo il compito di valutare l’esistenza di un danno d’organo ai vari livelli in cui esso può esprimersi: fegato, appa‐rato digerente, sistema endocrino e metabolico, siste‐ma emopoietico, sistema nervoso centrale e periferi‐co, ecc. La medicina interna, inoltre, ha un ruolo chiave anche nella formulazione della diagnosi di grado di danno
alcol‐correlato, del grado di dipendenza, della sussi‐stenza di condizioni di rischio per sindromi astinenzia‐li gravi e fornisce inoltre un adeguato supporto assi‐stenziale per la gestione delle urgenze alcologiche, quali la intossicazione alcolica acuta e la sindrome astinenziale. Per raggiungere questi scopi, le strutture di medicina interna si avvalgono di supporti assistenziali differen‐ziati, in relazione alla tipologia dell’intervento e alla necessità di interventi urgenti o che richiedono co‐munque una ospedalizzazione celere del paziente con problemi di salute alcol‐correlati. In tal senso, la di‐sponibilità nella nostra regione di unità operative che assicurano servizi di day service, di day hospital o di degenza ordinaria, consente di raggiungere questi obiettivi. Un elemento strategico fondamentale in campo di prevenzione del danno alcol correlato e di educazione sanitaria della popolazione sui temi del consumo di alcol e dell’alcoldipendenza, è la valutazione sistema‐tica, anamnestica e clinica, di tutti i pazienti che affe‐riscono alle unità operative di medicina interna per qualunque tipologia di problema di salute. L’eventuale rilievo di una condizione di bere a rischio o già francamente problematica, infatti, è un passo fondamentale per attivare un percorso diagnostico ed eventualmente terapeutico appropriato.
Salerno Tra le patologie alcolcorrelate le malattie epatiche, a volte anche di grave entità, prevalgono. Oggi, per fortuna, esiste la possibilità di intervenire anche in questi casi con il trapianto epatico, le cui équipe vedono coinvolte molte professionalità. Il Prof. Testino, gastroenterologo, responsabile del Centro Alcologico Regionale – Regione Liguria, IRCCS AOU San Martino–IST Istituto Nazionale per la Ricerca sul Cancro di Genova, si sta impegnando da diverso tempo in campo locale e nazionale, affinchè nello staff per i trapianti venga inserita una nuova figura professionale: l’epatologo alcologo. Prof. Testino vuo‐le dirci quale profilo professionale dovrebbe avere l’epatologo alcologo e con quali altre professionalità od organizzazioni dovrebbe interagire prima, durante e dopo il trapianto per garantire la miglior riuscita dell’intervento? Testino Le malattie del fegato rappresentano un im‐portante capitolo della sanità’ pubblica, soprattutto in relazione agli elevati costi socio‐sanitari nelle fasi più avanzate e complicate per la presenza di cirrosi epatica. Le cause di epatopatia cronica sono molteplici, tutta‐via le più frequenti sono indubbiamente l’epatite da virus C, il consumo di bevande alcoliche e la steatosi non alcolica correlata molto spesso alla sindrome metabolica. È bene precisare come i casi di epatite C e le sue com‐plicanze, per i programmi di prevenzione in atto e
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soprattutto per l’immissione in commercio di potenti antivirali, tenderà a diminuire nelle prossime decadi, mentre a causa di stili di vita sempre peggiori le epa‐topatie da alcol o correlate alla sindrome metabolica (SM) tenderanno ad aumentare coinvolgendo soprat‐tutto soggetti giovani. Il 70% dei decessi da alcol è correlato a problematiche epatiche. Inoltre, attualmente la maggior parte dei decessi per cirrosi epatica è alcol correlata, con per‐centuali, in Italia, che superano il 60% nell’ambito della popolazione cirrotica maschile ed il 50% nell’ambito di quella femminile. L’eziologia alcolica rappresenta attualmente la secon‐da causa di trapianto di fegato. In Italia, sotto la regia del Centro Nazionale Trapianti, è in funzione una ottima rete trapiantologica che ga‐rantisce al nostro paese importanti risultati assisten‐ziali. Alla luce delle nuove evidenze scientifiche e soprat‐tutto alla luce del cambiamento culturale che sta in‐vestendo la nostra società con eventuali ripercussioni anche di ordine medico‐legale è opportuno riconside‐rare alcuni passaggi nel percorso che conduce il pa‐ziente affetto da Patologia Alcol Correlata (PAC) all’inserimento in lista per trapianto. Certamente quello maggiormente messo in discussio‐ne è il periodo di astensione pre‐trapianto. Attualmente la gran parte dei centri regionali italiani è orientata ad attenersi alla regola dei sei mesi di a‐stensione. Di per sé tale limite non deve essere totalmente mes‐so in discussione, ma certamente in alcune condizioni (cirrosi epatica scompensata in rapida progressione ed epatite alcolica acuta severa) può e deve essere rivisto. Tale criterio impedisce, infatti, a molti soggetti (talvolta giovani) di accedere alla terapia sostitutiva con un inevitabile decesso. Ciò contrasta non solo con l’attuale avanzamento culturale e scientifico, ma anche con il diritto alla sa‐lute che la nostra costituzione garantisce a tutti i cit‐tadini senza discriminazioni, senza nascondersi dietro falsi concetti di “patologia auto inflitta” o di un etica male interpretata. In caso di cirrosi scompensata se il soggetto continua a consumare bevande alcoliche ha una sopravvivenza a cinque anni inferiore al 30%. Se il punteggio Child‐Pugh è superiore a 7 e/o vi è presenza di un Model End Stage Liver Disease (MELD) superiore a 14 il soggetto deve essere sottoposto a studio per eventuale inserimento in lista per trapian‐to ortotopico di fegato (OLT). Per quanto concerne la classificazione Child‐Pugh, è stato rilevato come il vantaggio maggiore si abbia quando la terapia sostitutiva viene effettuata con un punteggio 10‐11. Nel 2008 l’European Liver Transplant Registry ha di‐
chiarato come l’alcol rappresenti la seconda causa di trapianto dopo i virus dell’epatite e tale dato è stato confermato nel 2009 dalla United Network for Organ Sharing. Nella Regione Europea si è assistito ad un incremento del trapianti alcol correlati fra il periodo 1988‐1995 e il periodo 1996‐2005: incremento per alcol dal 35.8% al 41.6%, per alcol più epatite virale dal 4.2 al 6.6%, mentre si è assistito un calo per i trapianti virus corre‐lati: dal 45.7% al 43.8%. Nonostante l’alcol rappresenti una causa importante di trapianto e nonostante i dati di sopravvivenza a 5 anni dimostrino come siano sovrapponibili o addirit‐tura in alcuni casi superiori ad altre cause (virali, au‐toimmunitarie, da accumulo, ecc), vi sono ancora perplessità nella popolazione generale e nella classe medica. Alcune considerazioni hanno sollevato alcuni proble‐mi di ordine etico. In particolare è diffusa l’opinione che l’epatopatia alcol correlata è una patologia “auto‐inflitta” e, quindi, la donazione di un organo dovrebbe essere effettuata solo in presenza di garanzie assolu‐te. Anche dove si presuppone che una breve astensione pre trapianto correla con un numero di recidive post trapianto maggiore, in realtà un periodo di astensione sicuro non è stato ancora ben definito. Il periodo di astensione più sicuro è stato valutato fra i 9 e i 18 mesi. Addirittura Vaillant ha riportato come più sicuro sia un periodo di 5 anni. È evidente, però, che periodi da 9 mesi a 5 anni non consentono, per la gravità dello stato clinico di acce‐dere al trapianto. Attualmente la maggior parte dei centri trapianto, sia europei che statunitensi, richiede un periodo minimo di astensione di circa 6 mesi: anche l’attesa di questo periodo può comportare il decesso di numerosi pa‐zienti. Veldt et al. hanno dimostrato, come in pazienti con “end stage liver diasese” (di cui solo il 18% con epati‐te alcolica acuta), il miglioramento sia possibile entro i primi tre mesi di astensione. Successivamente tale miglioramento non è raggiungibile. Viene suggerito, quindi, come un attesa di astensione di tre mesi possa essere sufficiente. Tali Autori, aggiungono come molti pazienti se non impostati in modo adeguato sono incapaci di mante‐nere un astensione sostenuta e, quindi, decedono entro 6‐12 mesi. Viene suggerito indirettamente un approccio diverso nei confronti di tali pazienti con un approccio epato‐alcologico e con un indispensabile coinvolgimento delle Unità Operative (UO) di Alcolo‐gia. Per quanto concerne l’epatite alcolica,essa può pre‐sentarsi in modo acuto (EAA) e sovrapporsi a quadri non cirrotici o francamente cirrotici creando scom‐
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penso od aggravando drammaticamente il quadro clinico. Il 20% dei soggetti con epatopatia alcol correlata sot‐toposti a biopsia è portatore di EAA e lo è il 10‐35% dei soggetti ospedalizzati. Le forme meno severe (lievi‐moderate) possono re‐gredire con l’astensione, mentre le forme severe (Maddrey Discriminant Function – DF ‐ > 32, MELD > 21) hanno una prognosi severa con una mortalità a un mese in circa il 35‐40% dei casi e a sei mesi in circa il 70%. In corso di EAA non responder alla terapia steroidea o con esordio con complicanze che peggiorano ulterior‐mente la prognosi (sanguinamento e HRS) la terapia sostitutiva non è indicata dalla maggior parte degli Autori per la presenza di consumo alcolico in fase attiva. Tuttavia si sta affermando la possibilità di in‐tervento anche in tempi inferiori a quelli previsti. In corso di EAA la gestione del paziente può essere certamente più complessa rispetto ai casi con cirrosi epatica scompensata, ma senza etilismo in atto. Considerando che spesso ci si trova di fronte a pa‐zienti fra i 40 ed i 50 anni, dal punto di vista etico ri‐sulta particolarmente difficile non offrire al soggetto la possibilità della terapia sostitutiva. Nella nostra esperienza 7 pazienti con severa EAA (MELD > 21, DF > 32) e con HRS tipo 1 sono stati sot‐toposti al posizionamento di TIPS (transjugular intra‐hepatic portosystemic stent shunt) e successivamente a OLT entro 5 mesi. A distanza di 5 anni nessun pa‐ziente è sostanzialmente ricaduto. Si precisa che i 7 pazienti continuano a frequentare i gruppi di auto‐mutuo‐aiuto. Recentemente Mathurin et al. hanno dimostrato co‐me il trapianto in pazienti con EAA possa essere un successo terapeutico. Salerno Il Prof. Palmieri ci ha illustrato non solo il fon‐damentale ruolo dell’internista nel fronteggiare delle patologie alcolcorrelate, ma ci ha fatto cogliere anche le possibilità che l’internista ha come promotore di salute nell’individuazione precoce. Ma gli internisti si sentono protagonisti in questo senso? Un ruolo importante a questo fine credo abbia la So‐cietà Italiana di Medicina Interna qui rappresentata dal suo Presidente Dott. Centonze. Dott. Centonze negli anni scorsi il Prof. Gasbarrini prima e poi il Prof. Palasciano hanno sollecitato la SIMI ad assumersi un impegno in tal senso, a suo avviso la Società ha un ruolo in merito? ha recepito la sollecitazione? E se si in quale maniera? Se no, da quanto ha finora ascolta‐to, crede che esistano per la SIMI possibilità di inter‐vento e di che tipo? Centonze Quale possa essere il ruolo della Medicina Interna e quindi della Società scientifica che la rap‐presenta, la SIMI, è sicuramente un tema di grande attualità sia in virtù dell’ampio bacino di competenze
che caratterizza la Medicina Interna sia per la sempre più crescente importanza che vanno assumendo le problematiche alcol‐correlate nel panorama sanitario nazionale. La Medicina Interna, inoltre, è chiamata ormai da tempo a confrontarsi col principio della “complessità”, che ha finito per diventarne il marchio identificativo, che sostanzialmente si concretizza nel bisogno di ricomporre e riaggregare le conoscenze, di superare quella frammentarietà che pure ha rappre‐sentato per lungo tempo e, in verità non senza un qualche vantaggio, il modello più utilizzato di approc‐cio ai problemi di salute. Il modello di “Persona malata”, infatti, non si esauri‐sce più nel soggetto portatore di una sola patologia acuta, ben nota e codificata, totalmente responsiva alla terapia farmacologica in un tempo ragionevol‐mente breve, ma da una “Persona cronicamente ma‐lata”, affetta da più patologie coesistenti , la cui evo‐luzione è condizionata ed influenzata non solo dai determinanti biologici malattia‐specifici ma anche da determinanti non biologici quali le condizioni psicolo‐giche, familiari, economiche, ambientali, sociali, cul‐turali (finalmente assurte al ruolo di veri e propri de‐terminanti di salute, mi permetto di aggiungere!) così come la disponibilità e la accessibilità alle cure, tutti fattori in grado di interagire fra loro a delineare la tipologia del “malato complesso”, con la necessità di una conoscenza che sia multidimensionale e multidi‐sciplinare. In questa ottica, appare evidente come le Patologie Alcol‐Correlate, per la loro capacità di aggredire diffe‐renti apparati, organi e sistemi finiscono per rappre‐sentare un modello naturale del “malato complesso” e, per conseguenza, di diritto patologie di interesse internistico. Inoltre, importanti testimonianze del profondo lega‐me esistente in tal senso sono la presenza in numero‐si Trattati di Medicina Interna di capitoli dedicati all’argomento in oggetto, la collocazione sul piano assistenziale di una gran parte delle Unità Semplici o Ambulatoriali di Alcologia all’interno di Strutture Complesse di Medicina Interna, così come il riscontro che alla carica di Presidente della Società Italiana di Alcologia si sono succeduti molti clinici medici interni‐sti, quali il prof. Giovanni Gasbarrini ed il prof. Ottavio Albano. A tale proposito, non posso non ricordare la straordi‐naria esperienza realizzatasi nell’Istituto di Clinica Medica “A. Murri”, diretta dal prof. Giuseppe Pala‐sciano nella quale ha operato per molti anni l’Unità di Alcologia di cui è stata creatrice e responsabile la dr.ssa Maria Teresa Salerno, internista, oltre che grande esperta delle problematiche di cui stiamo di‐battendo, e che ringrazio ancora per l’invito a parteci‐pare a questo importante Congresso, sia sul piano assistenziale che ha interessato la complessa gestione
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di un elevato numero di pazienti, sia su quello didatti‐co e scientifico con la produzione di eventi formativi e numerosissime pubblicazioni scientifiche, anche col contributo importante di altri “internisti” della stessa struttura quali lo stesso Prof. Palasciano, il mai abba‐stanza compianto Prof. Altomare, il suo allievo Prof. Vendemiale, il Prof. Palmieri, il Prof. Portincasa e, buon ultimo, il sottoscritto.
Salerno Nel 1979 a Padova nasceva la Società Italiana di Alcologia da allora molte cose sono state fatte e tentativi di lavoro in rete con altre organizzazioni im‐pegnate nel campo. Dott.ssa Renzetti, Consigliere Nazionale Società Italia‐na di Alcologia, in quali campi la SIA si è cimentata e ci ricordi brevemente quali i risultati ottenuti fino ad oggi ed i progetti per il futuro? Renzetti Organizzare e coordinare le ricerche, rende‐re stabili e fecondi i rapporti fra la cultura dei teorici e quella dei tecnici, comunicare ad un pubblico, il più largo possibile, i risultati degli esperimenti e delle ricerche, aprire possibilità sempre più ampie di colla‐borazione e ricerca sono gli obiettivi che da Cartesio a Leibniz rappresentano meglio l’impegno delle Società Scientifiche. La SIA non si differenzia da queste, anzi, forte della sua peculiarità di essere multidisciplinare, ha animato dal 1979 accesi dibattiti su uso ed abuso, l’alcol be‐vanda dannosa o salutare, dosi consentite delle be‐vande alcoliche, danni alcolcorrelati. La SIA è costituita da figure professionali di varia for‐mazione e consta pertanto di gastroenterologi, psi‐chiatri, medici legali, psicologi, internisti, neurologi, sociologi, igienisti che riconoscono nell'approccio multidisciplinare un valido metodo per affrontare i problemi alcolcorrelati. Uno dei primi atti della vita della società è stato favo‐rire un dibattito tra il mondo della produzione ed il mondo scientifico. Nel 2001 per evidenti conflitti d’interessi i produttori non hanno potuto più far par‐te della SIA. Da un punto di vista soggettivo, mediando tra i nume‐rosi interessi delle Sezioni Regionali e della SIA nazio‐nale, sono da segnalare nel 1994 la prima Consensus Conference sull'alcol, nell’ambito della quale si co‐minciò a discutere circa le “definizioni” in campo di alcologia, sulle dosi “dannose”, sui danni alcolcorrela‐ti. La SIA ha avuto inoltre un ruolo fondamentale nella realizzazione della Legge Quadro sull’Alcol (125 del 2001) i cui lavori hanno avuto inizio sette anni prima partendo dalla proposta del Presidente dell’epoca, Prof. O.Albano. Da menzionare nel 2005 la stesura della "Carta di Vietri", realizzata su iniziativa della Clinica Medica Murri di Bari, nell'ambito della quale sono state sanci‐te le caratteristiche della formazione in alcologia. In
particolare questa non può essere concepita se non in correlazione con l'attività di ricerca e l'attività assi‐stenziale. Con la Carta di Vietri si sottolinea la multidi‐sciplinarietà degli insegnamenti e la necessità di offri‐re pacchetti formativi innovativi. Il documento ha creato le premesse dell'inserimento dell'insegnamen‐to in Alcologia nell'ambito dei corsi universitari delle discipline sanitarie. Membri della SIA hanno fatto parte della Consulta Nazionale Alcol, partecipando ai tavoli governativi. La SIA inoltre ha avviato importanti partnership con l'ISS, grazie alla figura del suo attuale Presidente par‐tecipando ad iniziative di interesse nazionale ed euro‐peo sulle strategie di riduzione del danno. Dal 2002 promuove l'Alcol Prevention Day, giornata nazionale di sensibilizzazione sui problemi alcol corre‐lati Partecipa alla realizzazione del Piano Nazionale Alcol e Salute ed alla Relazione al Parlamento annuale su alcol e problemi alcolcorrelati. Dal 2006 partecipa alla pubblicazione di opuscoli informativi su alcol e lavoro, strategie europee, alcol e donna, alcol e guida. Dal 2001 con la promulgazione della Legge 125 la SIA si occupa di alcol e lavoro. Nel 2001‐2006 promuove il Progetto Nazionale Alcol e Lavoro (CAR Toscana). Nel 2006 partecipa alla Conferenza Stato Regioni, nel 2007 al PNAS e Guadagnare Salute. Nel 2009‐2011 promuove il progetto Nazionale "Formazione sull'Identificazione Precoce e l'Interven‐to Breve per la prevenzione dei problemi e danni al‐colcorrelati nei contesti lavorativi e nell'assistenza sanitaria di base" (Regione Toscana Car). Nel 2008‐2010, nell’ambito delle attività della Sez. Apulo‐Lucana, si concretizza il Progetto Alcol e Lavoro grazie alla collaborazione della Regione Puglia e di G. Di Leone e M.T. Salerno che nel Giugno 2011 realizza‐no il Convegno "Alcol e lavoro per la prevenzione dal‐la norma alla pratica" Nel Novembre 2011 la Regione Puglia nomina dei delegati esperti a partecipare alla Conferenza delle Regioni a Trieste ed a istituire un tavolo tecnico inter‐regionale di prevenzione igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro, nell'ambito del quale si evidenziarono le criticità dell'applicazione della normativa ex art 15 legge 125/01 e si delinearono le linee programmati‐che da perseguire in tale settore favorendo il lavoro di rete, promuovendo iniziative di informazione e protezione della salute nei posti di lavoro, favorendo l'applicazione delle norme già esistenti. È pertanto da tale epoca che si è pensato alla realizza‐zione del convegno “Alcol e lavoro: tra diritto al lavo‐ro e diritto alla salute”.
Salerno Dalle cose fino ad ora dette appaiono deline‐arsi le caratteristiche di una Rete di Lavoro seppure di livello essenziale per affrontare i PAC. Abbiamo ascol‐tato il parere di professionisti esperti nel campo, ma
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siamo veramente certi che quanto è stato detto, in scienza e coscienza, sia in grado di garantire il diritto alla salute delle persone che questo problema rischia‐no o di cui già soffrono? Bisognerebbe chiederlo ad ognuna di loro: cosa impossibile. Ma tra i partecipanti alla Tavola Rotonda abbiamo il piacere di avere il Dott. Baselice che, nel campo è un esperto sia da un punto di vista professionale, in qua‐lità di psichiatra responsabile di un Servizio di Alcolo‐gia nel Sert di Cava dei Tirreni, ma anche perché è Presidente dell’Associazione Italiana dei Club Alcologi‐ci Territoriali, che nei suoi oltre 2000 Club ospita il più gran numero di famiglie con Problemi Alcolcorrelati in Italia.Il Dott. Baselice, per la sua esperienza e per il continuo contatto con queste problematiche può, a tutti gli effetti, farsi portavoce dei loro diritti e delle loro esigenze rispetto alla salute. Dott. Baselice può brevemente illustrarci quali siano le esigenze e le aspettative delle famiglie dei Club e della nostra comunità rispetto ai PAC? e a suo avviso le suggestioni finora emerse dagli interventi che l’hanno preceduta sono in grado di salvaguardare il diritto alla salute delle nostre comunità attraverso un lavoro di Rete seppure di livello essenziale? Baselice I Club Alcologici Territoriali nel corso dei loro trentacinque anni di vita hanno da sempre affrontato, tra le numerose problematiche alcol correlate, anche il tema della qualità di vita della persona che fa uso di alcol e in particolare sia l’impatto di tale consumo sulla sicurezza personale e collettiva sui luoghi di la‐voro (edilizia ,trasporto, lavoro con uso di attrezzatu‐re di precisione in fabbrica,ecc.) sia le diseconomie correlate (assenteismo, malattie, infortuni, licenzia‐mento). Oltre ad essere uno spazio finalizzato ad un percorso di superamento dei disagi e dei disturbi psico‐fisici e relazionali dovuti al consumo di alcolici, i Club hanno maturato nel tempo la consapevolezza di essere luo‐go di educazione ad una cittadinanza responsabile da esercitare, non solo per il benessere della proprie famiglie, ma per tutte le famiglie della comunità loca‐le di cui i Club fanno parte come nodo della rete di protezione e promozione della salute della popolazio‐ne generale. In tale ottica le associazioni dei Club promuovono o supportano iniziative miranti alla sensibilizzazione sui rischi e i danni legati al bere alcolici anche nei luoghi di lavoro all’interno di programmi di cooperazione con aziende,maestranze,sindacati,agenzie pubbliche deputate alla sicurezza sul lavoro. Sono molteplici i programmi che vedono i CAT presenti in quasi tutte le regioni italiane,dalla Toscana al Veneto, dalla Campa‐nia alla Puglia, in programmi di sensibilizzazione dei lavoratori. Citiamo in particolare in Campania il progetto “I work No drink “che ha visto l’AICAT coinvolta come partner dell’Assessorato alla Sanità di Regione Campania e di
ASL, INAIL, Confindustria, associazioni di Medici del Lavoro in un percorso di formazione del personale sanitario e dei Medici competenti dell’ASL di Salerno, nonché di informazione dei referenti della sicurezza e dei lavoratori impegnati in mestieri ritenuti a rischio ai sensi del Decreto della Conferenza Stato‐Regioni del 16 marzo 2006.
Salerno Ringrazio i relatori per aver dato, malgrado i tempi brevi, un quadro credo esaustivo del complesso impegno che la multidimensionalità della problemati‐ca che stiamo affrontando richiede e delle risorse pub‐bliche (Enti,Ospedali, Servizi ASL, Università), private (Società Scientifiche, Volontariato) e comunitarie in senso lato che vanno responsabilmente mobilitate. Cerchiamo ora di capire come tutte queste risorse possono integrarsi, in un lavoro di rete, per favorire la promozione e la protezione della salute e gli interventi sui PPAC.
II Parte Vito Antonio Campanile Come è noto una rete è for‐mata da una pluralità di punti (nodi) legati tra loro da una pluralità di ramificazioni (percorsi); per definizio‐ne nessun punto è privilegiato rispetto a un altro, nes‐suno è subordinato in maniera univoca a quello o a quell’altro (Serres). Una struttura di rete pienamente affidabile e stabile (Saransono 1974), è una struttura i cui nodi riconosco‐no l'interdipendenza, sono disponibili a mantenere quest’interdipendenza offrendo o facendo per altri ciò che ci si aspetta da loro, con pieno senso di apparte‐nenza. Le caratteristiche di questo legame, pensato come unità, permettono di comprendere e di dar senso alle azioni dei protagonisti coinvolti (Mitchell): ‐ caratteristiche strutturali: descrivono la forma del network e si riferiscono al network di per sé, inteso come struttura; ‐ caratteristiche interazionali: fanno riferimento al funzionamento della rete, ai legami tra i suoi compo‐nenti ovvero al network come processo. Non è possibile ragionare di lavoro di rete se non par‐tiamo da questi presupposti. Chiedo, pertanto al dott. Taranto quali siano le azioni necessarie alla strutturazione della rete e come i servi‐zi che fanno capo al DDP possono porsi in termini fun‐zionali rispetto al lavoro di rete. Come funziona la rete dei servizi? Taranto La necessità di lavorare in network è legata alla complessità bio‐psico‐sociale della malattia addi‐tiva. Il paziente (con la sua famiglia) non può essere frammentato fra ambulatori psichiatrici, reparti ga‐stroenterologici, consultori familiari, tribunali, agen‐zie lavorative, famiglie ferite negli affetti e nell'econo‐mia, associazioni solidali e volontarie e quant'altro viene coinvolto nelle tristi storie. I diversi tipi di biso‐
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gno esistono nello stesso tempo e con analoghi livelli di urgenza, per cui ogni intervento non può essere considerato più importante o più urgente degli altri. Si rende, così, necessaria una regia delle cure e que‐sta idea è, ormai, universalmente diffusa ed è presso‐ché costantemente confermata dalla letteratura scientifica di settore: quando c'è una rete che funzio‐na, i risultati della cura sono migliori! Eppure la sensazione prevalente fra gli operatori è che sia veramente rara l'evenienza di una rete effi‐ciente. Secondo l'analisi dello scrivente le difficoltà nel funzionamento della rete aumentano in maniera direttamente proporzionale al numero dei nodi della rete stessa. Infatti con l'ampliarsi del network si mol‐tiplicano problemi di linguaggi tecnici, di differenti obiettivi di lavoro, differenti modelli organizzativi e, soprattutto, differenti stili esistenziali. Quando si par‐la di ecologia della mente bisogna considerare che ogni nodo del sistema non è solo una sorta di valvoli‐na o di ripetitore di un segnale che viene irradiato così come viene ricevuto, ma è, a sua volta, un piccolo sistema di persone, di per sé dotate di un tempera‐mento, una personalità e un sistema ideologico. La cabina di regia di questa rete non può, perciò, essere un centro di coordinamento o di potere o gerarchico; deve essere caratterizzata da una specifica professio‐nalità di gestione dei gruppi e dei sistemi umani che non può essere improvvisata da chi non abbia com‐piuto uno specifico training.
Campanile Come è noto uno dei punti nodali per la promozione e la protezione della salute è il Medico di M.G. Dott.ssa Zamparella nella sua esperienza e nell’esperienza dei suoi colleghi come i MMG possono porsi in termini funzionali rispetto al lavoro di rete? Zamparella Molto ancora è da farsi e noi MMG vo‐gliamo essere coinvolti nel costruire un PDTA (Piani Diagnostici e Terapeutici assistenziali) per queste "problematiche/patologie" che deve essere appro‐priato al territorio dove svolgiamo la nostra professio‐ne. Inoltre, vogliamo essere una frontiera tra la prevenzione/educazione – gestione/monitoraggio delle patologie alcol correlate. Campanile Senza dubbio un ruolo fondamentale, spe‐cie in certi ambiti lavorativi, lo riveste il Medico com‐petente. Pertanto invito il Dott. Ditaranto ad illustrar‐ci come il medico competente si inserisce nella rete di interventi, quali i nodi da attivare per coloro che ne avessero bisogno al fine di garantire il diritto alla salu‐te della persona oltre che il diritto al lavoro. Ditaranto Come emerge dalla letteratura e dalle nu‐merose esperienze sul campo, gli ambienti di lavoro offrono concrete opportunità per la realizzazione di strategie globali di “promozione della salute” (“il pro‐cesso che consente alle persone di esercitare un mag‐
giore controllo sulla propria salute e di migliorar‐la”(Carta di Ottawa, 1986); come specifica l’OMS: “un processo sociale e politico globale” che non compren‐de soltanto “azioni volte a rafforzare le abilità e le capacità dei singoli individui, ma anche azioni volte a modificare le condizioni sociali, ambientali ed econo‐miche”, con l’obiettivo di attenuare l’impatto sulla salute di tutto quanto è sfavorevole alla stessa e, con‐testualmente, di incrementare quanto può invece migliorarla). In un contesto giuridico che vede la promozione della salute tra le “finalità” della legge 125/01 (art. 2) e tra gli “obblighi” del MC (art. 25, comma 1a) del D. Lgs 81/08), la collaborazione su questo tema tra MC e Servizi può essere sicuramente proficua. Peraltro nelle imprese la gestione della normativa in materia di alcol e problemi alcol correlati comprende anche la formazione dei lavoratori. Specialmente quando viene estesa a tutti i lavoratori e non soltanto a quelli che svolgono le mansioni «a rischio», la for‐mazione può diventare per il MC anche occasione di promozione della salute. I MC, i Servizi ed anche le Associazioni di volontariato possono poi trovare un’importante sinergia nell’ambito delle iniziative della rete Workplace He‐alth Promotion (WHP) di cui molti MC hanno espe‐rienza operando in imprese che, secondo i principi della responsabilità sociale, hanno aderito al network. Per concludere, rimanendo proprio sul tema della promozione della salute e richiamando il titolo del congresso, “Alcol: tra diritto al lavoro e diritto alla salute”, vorrei ricordare che la “promozione della salute” è anche strumento di “promozione del lavo‐ro”. Infatti i programmi di promozione della salute attuati negli ambienti di lavoro possono avere un ruolo cru‐ciale nel processo di reciproca promozione tra lavoro e salute, aspetto che sta assumendo un particolare valore alla luce dei cambiamenti in atto nella demo‐grafia occupazionale della popolazione italiana. Non a caso si parla di “healthy ageing” per indicare un percorso finalizzato a promuovere la propria salute nel corso di tutta la vita attraverso la valorizzazione delle conoscenze, delle risorse, dei comportamenti e degli stili di vita virtuosi che possono prevenire l’insorgenza dei cosiddetti “big killer” (malattie car‐diovascolari, tumori, malattie respiratorie croniche, diabete tipo 2), delle patologie degenerative e delle disabilità, contribuendo a creare le condizioni per restare più a lungo attivi, autonomi e produttivi nella società.
Campanile Prof. Palmieri, in relazione alla sua espe‐rienza di internista e di alcologo, quali sono i nodi della rete che più frequentemente interagiscono con i reparti di medicina interna, e quali andrebbero attiva‐ti al fine di garantire le risposte più idonee per perso‐
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ne che verosimilmente presentano già patologie orga‐niche. Palmieri Le finalità di cui finora si è detto e che sono proprie della medicina interna, però, possono essere raggiunte se il medico internista opera in un contesto di relazioni dinamiche e strutturate con altri servizi, ospedalieri e territoriali, in grado di offrire competen‐ze e prestazioni professionali differenziate. Tale interrelazione, che si deve concretizzare nella creazione di vere e proprie reti professionali e civiche, deve essere il risultato della condivisione di linee gui‐da di comportamento e di protocolli di intervento, sia di tipo diagnostico (finalizzati a rilevare l’esistenza del problema e a definirne caratteristiche e gravità), sia di tipo terapeutico (finalizzati a mettere in atto procedu‐re per la cura del danno d’organo e la restituzione della persona alla sua integrità sociale, familiare, psi‐chica). La elaborazione di PDTA, cioè di Piani Diagnostici e Terapeutici assistenziali, pertanto, deve costituire uno degli obiettivi di chi opera come professionista in me‐dicina interna, ma più in generale deve essere uno degli obiettivi su cui deve promuovere iniziative spe‐cifiche la Società Italiana di Alcologia. È opportuno, inoltre, che la SIA si faccia promotrice di alcune iniziative di ricerca sul terreno nazionale, fina‐lizzate sia a rilevare caratteristiche proprie del danno alcol correlato, sia a favorire la diffusione di informa‐zione e formazione presso il personale sanitario e la cittadinanza nel suo complesso: iniziative in tal senso possono essere promosse a livello dei servizi di pron‐to soccorso, ad esempio, dove afferiscono la maggior parte dei soggetti con problemi di consumo acuto di alcol o anche nei reparti di medicina interna, attraver‐so la valutazione del tipo di abitudine alcolica. Da questo punto di vista, è ipotizzabile il coinvolgimento di alcune istituzioni quali l’Università che, attraverso le Scuole di Specializzazione (Medicina Interna, Medi‐cina di Emergenza ed Urgenza, Geriatria, Psichiatria, ecc.) può contribuire alla realizzazione di tali progetti di intervento e alla valutazione del loro impatto sulle prestazioni professionali del personale sanitario coin‐volto. Infine, è richiesto alla SIA la promozione di attività di ECM in campo alcologico, sia a livello locale che na‐zionale, con l’obiettivo di aumentare la sensibilità dei professionisti della salute alla valutazione e alla pre‐venzione del danno alcol correlato sulla persona e sulla comunità.
Campanile Prof. Testino vuole dirci quali nodi delle rete richiedono il supporto dell’alcologo in occasione di un trapianto di fegato e con quali altre professiona‐lità od organizzazioni dovrebbe interagire prima, du‐rante e dopo il trapianto per garantire la miglior riu‐scita dell’intervento? Testino Alla luce dei dati forniti ci si chiede se
l’astensione pre‐trapianto debba essere l’unico para‐mentro da considerare. Ciò soprattutto in due casi particolari: in corso di cirrosi epatica scompensata rapidamente progressiva ed in corso di EAA severa non responder alla terapia steroidea. Eticamente dobbiamo porci il problema di perdere il minor numero di vite possibili e mettere a disposizio‐ne del paziente tutti gli strumenti disponibili per il follow‐up dell’astensione post‐OLT. Tale azione deve essere effettuata con estrema con‐vinzione da parte dell’équipe che si prende carico del paziente. Per la valutazione della eventuale ricaduta post tra‐pianto il periodo di astensione pre‐trapianto non può essere l’unico parametro utilizzabile ed alcuni dei parametri indispensabili prevedono la presenza di reti informali e formali, quali la rete parentale e la rete assistenziale I parametri per la valutazione di astensione‐post tra‐pianto da inserire in varie combinazioni in un possibi‐le “risk score” sono sostanzialmente rappresentati da (* parametri indispensabili): ‐ Severità Alcoldipendenza ‐ Presenza di altre dipendenze* ‐ Accettazione del problema da parte del candidato e dei familiari*
‐ Consumo di alcol in famiglia ‐ Aderenza al percorso assistenziale* ‐ Assenza di severi disordini psichiatrici concomitan‐ti*
‐ Stabilità e supporto sociale (famiglia, amici, lavoro)* ‐ Presenza di figli ‐ Frequenza ai gruppi di auto‐mutuo‐aiuto o accetta‐zione di frequenza*
‐ HBAR test (high risk alcoholism relapse); SCL 90 Score
‐ Frequenza presso una Unità Operativa di Alcologia* ‐ Astensione durante il ricovero o a domicilio? ‐ Presenza di una “reale” rete costituita dalla collabo‐razione ospedale‐territorio (attività multidisciplina‐re integrata)
Le indicazioni che sono emerse da un gruppo multidi‐sciplinare Italiano rappresentano la seguente nuova proposta: ‐ Inserimento in lista pazienti con Child C e/o MELD > 15
‐ Rispetto agli altri candidati al trapianto maggiore attenzione alla componente cardio‐vascolare e neo‐plastica
‐ In caso di soggetti con MELD < 19 sei mesi di asten‐sione proponibili
‐ In caso di soggetti con MELD > 19 prospettare 3 mesi valutando altri criteri (soprattutto quelli indi‐cati con * nella Tabella III)
‐ In caso Epatite Alcolica Acuta non responder alla terapia e/o con esordio con complicanze severe
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come per es. la Sindrome Epato‐Renale, proporre trapianto anche prima dei tre mesi attraverso la valutazione di altri criteri già richiamati. Tali trapian‐ti non dovrebbero più essere considerati casi isolati
‐ Sia l’inserimento in lista che il follow‐up deve preve‐dere una stretta integrazione fra il centro di epato‐trapiantologico, il centro Alcologico Territoriale (possibilmente autonomo dal SerT), la famiglia e le Associazioni di Auto‐Mutuo‐Aiuto
Per tale ragione è indispensabile, in un programma di trapianto di fegato, la presenza di una figura profes‐sionale esperta nel settore alcologico. Nei centri ospedalieri dove sono presenti unità di alcologia o comunque alcologi con competenze epa‐tologiche l’approccio al paziente con “end stage liver disease” alcol correlata o con EAA è certamente mag‐giormente delineato. Purtroppo pazienti con ALD molto spesso arrivano all’attenzione delle unità alcologiche sia territoriali che ospedaliere in una fase troppo avanzata. Altami‐rano et al. riportano un intervallo di circa 40 mesi (12‐97 mesi). Nella esperienza del Centro Alcologico Re‐gionale Ligure (2006‐2011) l’intervallo fra l’insorgenza di ALD e l’invio presso la UO Alcologia è di circa 38 mesi (10‐50 mesi). Recentemente Addolorato et al. hanno evidenziato concretamente l’importanza della figura dell’alcologo nell’ambito di un attività trapiantologica. Gli Autori hanno valutato retrospettivamente l’impatto di una unità ospedaliera di alcologia sulla ricaduta alcolica post‐trapianto. Sono stati comparati 55 pazienti seguiti dalla competenza alcologica, a 37 pazienti seguiti da uno staff tradizionale. È stata dimostrata una ricaduta post‐trapianto più bassa in modo statisticamente significativo nel grup‐po di pazienti seguiti dalla figura dell’alcologo con competenze epatologiche. Il dato più rilevante è stato quello relativo all’impatto del periodo di astensione pre‐trapianto: nel gruppo seguito da un team com‐prendente l’alcologo il periodo di astensione pre‐trapianto appare ininfluente. Emerge pertanto con forza il concetto che la differenza non è in relazione al periodo di astensione, ma ad un modo nuovo di lavo‐rare (veramente multidisciplinare) con la presenza di una U.O. di Alcologia o comunque con la presenza dell’alcologo. Nel settore trapiantologico emerge con forza, quindi, la figura dell’epato‐alcologo. Infatti, sia nella fase pre che post trapianto è necessa‐ria la presenza di una figura professionale che conten‐ga competenze sia di ordine epatologico che alcologi‐co. È bene precisare come in realtà sia la figura dell’epatologo che quella dell’alcologo non siano pre‐visti ufficialmente nei corsi universitari. La connota‐zione di epatologo e alcologo deriva dalla formazione
culturale e dall’attività assistenziale dei singoli profes‐sionisti. Il successivo passaggio “culturale” verso la figura dell’epato‐alcologo si è resa necessaria dall’evidenza epidemiologica che i decessi per epatopatia sono nel‐la maggior parte dei casi alcol correlati e che l’alcol sarà, in associazione alla Sindrome Metabolica (SM), la prima causa di trapianto di fegato. Le funzioni dell’epato‐alcologo in un team trapianto‐logico sono: Periodo pre‐trapianto Monitoraggio dell’astensione alcolica Monitoraggio dell’astensione tabaccologica Sorveglianza neoplastica (epatocarcinoma e altro) Terapia neoadiuvante epatocarcinoma Coordinamento dell’attività multidisciplinare Partecipazione alla gestione della lista
Periodo post‐trapianto Gestione delle eventuali complicanze medico‐chirurgiche del graft Follow‐up della astensione alcolica Follow up dell’astensione tabaccologica Gestione nutrizionale (evitare‐contenere SM) Gestione stile di vita (evitare di rimanere troppo a contatto con il sole, movimento, ritmo sonno‐veglia, ecc) Gestione immunosoppressione Gestione eventuale componente virologica associa‐ta Sorveglianza oncologica Sorveglianza cardio‐vascolare Coordinamento attività multidisciplinare
In conclusione, vi è la necessità, quindi, di attivare in tutte le Regioni U.O. di Alcologia territoriali veramen‐te autonome. Inoltre, vi è la necessità a livello Ospedaliero di una UO di Alcologia Regionale con chiare competenze di ordine generale e inserita nell’attività interdisciplina‐re di trapianto di fegato. In caso non fosse presente la U.O. Ospedaliera i te‐ams trapiantologici devono avvalersi delle competen‐ze alcologiche territoriali con la presenza di un epato‐alcologo nel gruppo trapiantologico interdisciplinare. Campanile Dott. Centonze che ruolo la società scienti‐fica che rappresenta può avere e quali azioni in ambi‐to formativo e di ricerca la SIMI può mettere in campo per favorire l’implementazione del lavoro di rete in ambito alcologico? Centonze Il compito di una Società scientifica è so‐prattutto quello di promuovere la conoscenza e sti‐molare la ricerca, non vi è dubbio che sul piano pro‐gettuale vadano intensificati i rapporti scientifici e formativi fra la SIMI (Società Italiana di Medicina In‐terna ) e la SIA (Società Italiana di Alcologia) attraver‐
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so, ad esempio, l’organizzazione di Corsi specifici per medici specializzandi in Medicina Interna, la creazione di comuni protocolli di ricerca, l’inserimento nei pro‐grammi di insegnamento della Scuola di Specialità in Medicina Interna di un numero di ore dedicate all’argomento impostate anche su esperienze dirette come, ad esempio, lo svolgimento di una parte del monte‐ore stabilito in strutture dedicate alle proble‐matiche alcol‐correlate. Sento di poter concludere questo mio breve interven‐to affermando che le Patologie Alcol‐Correlate costi‐tuiscono appieno un ramo importante di quel grande albero rappresentato dalla medicina Interna. Campanile Dott. Renzetti che ruolo la società scientifi‐ca che rappresenta può avere e quali azioni in ambito formativo la SIA può mettere in campo per favorire l’implementazione del lavoro di rete in ambito alcolo‐gico. Renzetti Ribadisco la necessità di operare in rete an‐che se il primum movens del lavoro di rete è insito in noi stessi, nelle nostre capacità di mediare ed “affidarsi” ed è opportuno lavorare su questo smus‐sando le eventuali resistenze. Nel lavoro di rete è opportuno considerare rapporti ed interazioni con: gli alcolisti, con i familiari degli alcoldipendenti, con le istituzioni quali scuole, servizi territoriali, forze dell’ordine, associazioni presenti nel territorio. In tale contesto il volontariato è di esempio perché non si pone il problema di “chi sono io”, ma di “cosa possiamo fare”. C’è una responsabilità nella formazione, attivazione, conduzione e mantenimento di una rete che coinvol‐ge istituzioni pubbliche, gruppi sociali e terzo settore. Implementare una rete vuol dire far leva e forza sul numero di relazioni che ciascun nodo possiede, sui processi di negoziazione, sulla capacità di comunica‐zione e organizzazione, sulla pertinenza ed attuabilità degli obiettivi prescelti. Importante ruolo svolge la formazione che permette ai singoli di assumersi responsabilità nei confronti dei conflitti attraverso competenze acquisite. Pertanto questi processi vanno accuratamente pro‐gettati, motivati e valutati al fine di formare un team pluricompetente ed automotivante. Campanile Dott. Baselice la salvaguardia del diritto alla salute delle nostre comunità passa anche attra‐verso le attività dei Club Alcologici Territoriali (CAT). Ci può dire come i CAT si pongono in rete e quali connes‐sioni attivare ed implementare al fine di facilitare e rendere più efficace il lavoro dei CAT. Baselice Dagli interventi finora ascoltati si coglie la difficoltà di investire nel capitale sociale prodotto dai Club come risorsa per una qualità della vita in genera‐le e del lavoro in particolare sicuramente migliore a seguito del cambiamento dello stile di vita dei mem‐
bri dei CAT. Se il Club è luogo di educazione alla cittadinanza soli‐dale e competente, dobbiamo registrare purtroppo come sia ancora ignorato o sottoutilizzato da parte del territorio il contributo dei membri di Club nel ruo‐lo di operatori grezzi di salute che possono svolgere i membri di Club nei processi di miglioramento degli standard di sicurezza e di qualità del lavoro nelle no‐stre comunità. È incontrovertibile il dato che lì dove cresce il livello di sensibilità, di consapevolezza e di responsabilità nella tutela dei lavoratori lì abbiamo una comunità più ecologica perché più rispettosa dei diritti della persona.
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La campagna 2015 punta sull’ironia e sui giovani Ironica, divertente, che sa parlare ai giovani con il loro stesso linguaggio e in chiave positiva, promuovendo stili di vita sani e il divertimento senza alcol. La nuova Campagna 2015 di “meno alcol PIÙ GUSTO”, promos‐sa dal Gruppo Alcologia del Dipartimento per le Di‐pendenze dell’Ulss 6 di Vicenza, che anche quest’anno coinvolgerà ben 130 realtà per un totale di 144 giornate evento da aprile a ottobre, lancia “BRILLO O BRILLANTE”. Un nuovo concept comunica‐tivo, pensato e ideato per il 2015, volto a stimolare con ironia il senso critico e la consapevolezza nel con‐sumo di alcol: c’è differenza tra l’essere brillo e l’essere brillante, tra il biascicare e il saper porsi, tra il “perdersi” e l’essere efficaci. In sintonia con il proget‐to 2014, questa nuova edizione della Campagna pro‐pone in modo accattivante e divertente l’invito ad “esserci” come persona, perché questa è la condizio‐ne necessaria per riuscire nello studio, nel lavoro e nelle relazioni interpersonali. “La Campagna sta guardando sempre più ai giovani – spiega Enzo Gelain, Direttore Unità Operativa di Alco‐logia del Ser.D. di Vicenza – e questo era per noi fon‐damentale. Quando ho cominciato a lavorare in que‐sto campo, 10 anni fa, mi occupavo di persone di 60 anni. Oggi sono i giovani la parte debole. A fronte di grande informazione sulle conseguenze delle droghe, sull’alcol, sostanza legale, c’è un vuoto informativo clamoroso. Noi lottiamo ogni giorno af‐finché avvenga quel cambio culturale necessario. L’abbassamento dell’età in cui si fa abuso di alcol e alcune abitudini a rischio come gli happy hour, il con‐sumo fuori dai pasti dove l’assorbimento è maggiore e il binge drinking hanno conseguenze molto gravi, e questo deve essere capito. La caratteristica della Campagna – conclude Gelain – è di arrivare ai giovani con un linguaggio positivo, mai ‘proibizionista’ o bac‐chettone, che sicuramente sortisce l’effetto contrario, ma anzi, promuovendo il positivo, e quindi mostrando stili di vita sani che scindano il binomio del diverti‐mento‐sballo”.
Campagna e video Lo slogan diventerà presto molto “virale”, perché oltre a comparire in molti luoghi e spazi dedicati in città, #brillobrillante – questo l’hashtag della Campa‐
CONTRIBUTI DAL TERRITORIO
ALBINO FERRAROTTO, EDITTA ZENERE, LUCIA GRASER – Educatori professionali Regione Veneto AZIENDA ULSS N. 6 “VICENZA” Per corrispondenza: Viale F. Rodolfi n. 37 – 36100 VICENZA tel. 0444‐757550 fax 0444‐317061 e‐mail: [email protected]
Meno alcol PIÙ GUSTO
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gna sui social network – si declinerà in diverse forme comunicative. Quest’anno, infatti, lo staff di “meno alcol PIÙ GUSTO” ha ideato per i giovani anche tre video‐spot che, a suon di risate, raggiungeranno i giovani del mondo web 2.0 attraverso i Social‐network e WhatsApp, trasmettendo un messaggio molto chiaro: l’abuso di alcol riduce non solo le nostre funzioni principali, ma anche le possibilità di cogliere le occasioni belle che la vita offre. I video saranno visibili sulla Pagina Facebook https://www.facebook.com/menoalcolpiugusto oppure su youtube usando #brilloobrillante e sul sito www.menoalcolpiugusto.it, dove è possibile anche scaricare l’intero calendario eventi 2015. I video, sono sketch divertenti che attingono al mondo dei giovani, raccontando situazioni al limite che strappano un sorriso. Tra le novità di quest’anno anche i video‐tutorial per creare gustosi drinks analcolici e i ricetta‐ri.
Alcol e guida La Campagna 2015 presenta la nuova comunicazione grafica: “ALCOL e MOTORI… GUAI e DOLORI!” Ancora una volta “meno alcol PIÙ GUSTO” desidera porre l’attenzione sull’importanza di favorire la con‐sapevolezza e moderazione nel consumo di alcol per chi deve mettersi alla guida di veicoli. È ampiamente dimostrato infatti, che l’assunzione di qualsiasi quantità di alcol altera i riflessi delle persone
aumentando, conseguentemente, anche il rischio di incidenti stradali. Il Codice della Strada, pertanto, ai fini della sicurezza della collettività, pone l’attenzione sull’importanza di non superare i limiti consentiti.
I corsi gratuiti di drink analcolici Tra le iniziative più importanti della Campagna, che stanno avendo grande successo, ci sono i corsi di drinks analcolici aperti a tutti e gratuiti. Due i corsi in aprile ed uno a maggio. Per tutte le informazioni si può scrivere alla Segreteria Organizzativa con una mail a [email protected]. Tutte le altre informazioni sono disponibili sul sito www.menoalcolpiugusto.it.
Contest social Sempre pensato per i giovani, dopo il successo dello scorso anno, torna anche il Contest‐Social, dal titolo che richiama la Campagna 2015: “Scatta un selfie BRILLANTE ed incrocia le dita!”. In omaggio, per il selfie con più ‘Mi piace’ due biglietti per il concerto di Lenny Kravitz del 29 luglio a Piazzola sul Brenta e altri due biglietti per un altro grande evento in autunno in via di definizione. Partecipare al contest è semplicissi‐mo: basta cliccare “Mi piace” sulla Pagina Facebook di “meno alcol PIÙ GUSTO” https://www.facebook.com/menoalcolpiugusto, scattare un selfie, anche di grup‐po, degustando un drink analcolico oppure usando il selfie‐box appositamente realizzato per la Campagna 2015 che sarà disponibile nelle scuole, in alcuni punti strategici della città e nelle location degli eventi. Una volta scattato il selfie – che è possibile corredare di un breve commento – basta aggiungere la didascalia #menoalcolpiugusto #brilloobrillante (serve per par‐tecipare ufficialmente al contest), taggare la Pagina Facebook Meno Alcol Più Gusto e far partire i ‘Mi Piace’. L’Amministrazione dell’Ulss 6 di Vicenza e il Gruppo Alcologia del Dipartimento per le Dipendenze pro‐muovono “meno alcol PIÙ GUSTO” da ben 13 anni. Un appuntamento fisso ormai, cosa essenziale que‐sta, perché, come dimostrano tutti gli studi “evidence based”, uno dei fattori più importanti di efficacia negli interventi di prevenzione è rappresentato proprio dalla continuità dei progetti.
Per informazioni: Segreteria Organizzativa Ser.T. Ulss 6 “Vicenza” Tel. 0444‐757550; e‐mail: [email protected] Sito internet: www.menoalcolpiugusto.it
CONTRIBUTI DAL TERRITORIO
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L'alcologia, nel suo percorso di contributo alla costru‐zione della conoscenza nell'epoca storica attuale, si nutre di politiche che svelano contraddizioni e di ten‐tativi personalizzati di prendersi cura della sofferenza della gente che grida il dolore che li attraversa anche tramite gli apparenti baccanali alcolici o i più raffinati stati di intossicazione mediati dalla seducente estetiz‐zazione del sapore. Cultura, estetica, politiche e reto‐rica della cura concorrono, ricorsivamente a tenere ingarbugliato il filo di un discorso che si è smarrito più volte nel corso della storia dell'umanità. "In vino Veritas", ma quale verità? La verità di una malattia, l'alcolismo o la dipendenza alcolica, che col‐pisce fragili organismi geneticamente modificati e resi intolleranti al nettare degli dei, nell'attuale politeismo laico? La verità di una condotta intemperante e devi‐ante, figlia del declino dei sacri valori della compassa‐ta borghesia moralmente irreprensibile? La verità di un mancato e necessario investimento educativo che renda i soggetti abili e virtuosi fruitori della più antica delle droghe? La verità dei dati oggettivi e delle loro solerti interpretazioni tanto paludate quanto interes‐sate? La verità di una narrazione che oscilla nelle re‐toriche divergenti tra l'apoteosi degli effetti benefici dell'alcol e l'enfatizzazione terroristica dei danni? La verità di un populismo partecipativo che illude sulla libertà di parola con le sue torsioni accademiche che rende inutile la parola liberata attraverso la suppo‐nenza del tecnicismo? Ma non è solo una questione di verità da svelare. Si tratta di accedere al terreno fertile ed ambivalente dell'alcologia, luogo metaforico del mistero fin dall'antichità, con un quesito inquietante che ci fa oscillare tra la domanda del desiderio e l'ingiunzione dell'istituzione, come ci invita a fare Michael Foucault nell'Ordine del discorso: "Il desiderio dice: «Non vorrei dover io stesso entrare in quest’ordine fortuito del discorso; non vorrei aver a che fare con esso in ciò che ha di tagliente e di deci‐sivo; vorrei che fosse tutt’intorno a me come una trasparenza calma, profonda, indefinitamente aperta, in cui gli altri rispondessero alla mia attesa e in cui le verità, ad una ad una, si alzassero; non avrei che da lasciarmi portare, in esso e con esso, come un relitto felice». E l’istituzione risponde: «Non devi aver timore di cominciare; siamo tutti qui per mostrarti che il di‐scorso è nell’ordine delle leggi; che da tempo si vigila sulla sua apparizione; che un posto gli è stato fatto,
che lo onora ma lo disarma; e che, se gli capita d’avere un qualche potere, lo detiene in grazia nostra, e nostra soltanto»” (Michael Foucault, L’ordine del discorso, Torino, Einaudi, 1972, p. 4). Sfida affascinante che ci rende possibile esercitare la nostra capacità di essere luogo dove le verità sorgono o custodi fedeli del disarmo della parola. Attraverso l'alcologia, che trascende l'ordine discipli‐nare della specializzazione medica, si cerca di ricom‐porre la frammentazione, cercando un senso dove il senso sembra essersi smarrito, evitando le semplifica‐zioni che soddisfano il bisogno di sottrarsi al peso angosciante della verità, svelata, anche da una scien‐za coraggiosa ed indipendente, ma soprattutto da un pensiero libero e pensante e non calcolante. L'alcolo‐gia trascende gli ambiti specialistici tradizionali delle diverse discipline che hanno pretesa di collocarsi nel‐lo statuto moderno della scienza, attraversa l'umano nella sua molteplicità espressiva artistica, culturale, etica, religiosa, economica e politica, per costituirsi come paradigma che svela, nel sottile gioco di svela‐menti e velamenti che la verità sempre costituisce. La notizia che offriamo alla riflessione risale ai primi giorni di giugno e desidera porsi non come semplice dato informativo, ma soprattutto come spunto di riflessione, come pungolo critico a quanti si avventu‐rano nel campo dei consumi di bevande alcoliche e dei relativi problemi correlati e correlabili. L’esecutivo UE non ha nessuna intenzione di presentare una nuo‐va strategia anti‐alcol in sostituzione della preceden‐te, scaduta nel 2013, nonostante l'Europa sia l'area del pianeta dove si beve di più e dove ogni anno oltre 120mila morti premature sono legate all'alcol, con una spesa di circa 125 miliardi di euro l'anno in termi‐ni di sanità, costi associati al crimine e alla perdita di produttività sul posto di lavoro. È un messaggio chiaro che ci fa intuire quanto poco la UE abbia intenzione di investire sulla salute pubblica e sulla prevenzione. Il fatto ha scatenato l’ira delle ONG che hanno presentato le dimissioni dal Forum UE su Salute e Alcol, manifestando apertamente il loro disappunto. Non si tratta di mera attualità o di eventi di cronaca ma di fatti che svelano, a volerle vedere, palesi contraddizioni esemplari, a partire dall'alcologia, per l'intero universo di tutela e promo‐zione della salute. A noi la scelta di rispondere al desi‐derio o all'istituzione, tertium non datur.
MARTA BABETTO1, TIZIANA CODENOTTI2, FRANCO MARCOMINI1 1 Dipartimento Dipendenze ULSS 16 Padova 2 Presidente EUROCARE
Introduzione alla sezione Eurocare
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03/06/2015 Le ONG ritirano la loro adesione al Forum UE su Salute e Alcol poiché la Commissione non si decide a presen‐tare una nuova strategia per l’alcol Caro Commissario per la salute e la sicurezza alimenta‐re, dottor Andriukaitis, Le scriviamo, come gruppo di organizzazioni per la salu‐te pubblica, per esprimerLe la nostra profonda preoc‐cupazione poiché non vi è alcuna intenzione di svilup‐pare una strategia per combattere i danni dell’alcol all’interno della UE e pertanto presentiamo le nostre dimissioni dal Forum UE su Salute e Alcol per i seguenti motivi: 1) Il Forum è stato istituito come strumento per soste‐
nere l'attuazione della strategia per l’alcol, scaduta ormai nel 2012. Vista l'assenza di qualsiasi progetto per sviluppare una nuova strategia, la nostra parte‐cipazione al Forum UE non può più essere giustifica‐ta.
2) Il Parlamento europeo ha recentemente chiesto una vasta e mirata strategia (1) per affrontare la piaga degli eccessi di alcol in Europa. La Commissio‐ne ignora le persistenti richieste provenienti da 17 ministri della Salute degli Stati membri e dal Comi‐tato per le politiche e le azioni nazionali in materia di alcol (2).
3) La Commissione ignora anche i ripetuti appelli per una nuova strategia da parte degli enti sanitari pub‐blici e delle ONG (3).
È importante sottolineare che: Il fatto di aver incorporato le politiche alcologiche dell'UE all’interno del contesto della prevenzione delle malattie non trasmissibili non affronta sufficientemen‐te la piaga degli eccessi di alcol in Europa. Crimini, vio‐lenze, violenze domestiche, sfruttamento sessuale dei bambini e incidenti stradali sono solo alcuni dei proble‐mi associati all’abuso di alcol e attraverso questo tipo di approccio non verrebbero tenuti in considerazione. Molti dei firmatari di questa lettera sono stati anche membri fondatori del Forum, ma sin dal suo inizio era‐no dubbiosi sull’ effettiva efficacia del Forum stesso. Le preoccupazioni erano rivolte al fatto che non vi sono prove oggettive che dimostrino come interventi volon‐tari da parte delle industrie produttrici di alcol possano ridurre i danni provocati dall’abuso di bevande alcoli‐che. Nel corso della riunione del 18/05/2015 abbiamo sollevato obiezioni in quanto non vi è una struttura formale a disposizione degli organismi della sanità pub‐blica per discutere politiche efficaci sull'alcol in assenza di gruppi di interesse. Fino ad ora, siamo rimasti membri del Forum europeo sperando che la partecipazione e la cooperazione a‐vrebbero consentito di raggiungere dei progressi per ridurre i danni legati all’abuso di alcol. Tuttavia, ad og‐gi, non ci sono studi di valutazione che dimostrino l’effettivo impegno del Forum per quanto riguarda la salute pubblica.
Ora concentreremo i nostri sforzi per perseguire alcuni obiettivi in ambito di salute pubblica, liberi da conflitti di interesse, e siamo disponibili ad accogliere i vostri suggerimenti. Cordiali saluti Mariann Skar, Segretario generale, European Alcohol Policy alliance (Eurocare) Nina Renshaw, Segretario generale, European Public Health Alliance (EPHA) Katrin Fjeldsted, Presidente, Standing Committee of European Doctors (CPME) Wendy Yared, Direttore, European Cancer Leagues (ECL) Laurent Castera, Segretario generale, European Asso‐ciation of the Study of the Liver (EASL) Jan Peloza, Presidente, Alcohol Policy Youth Network (APYN) Ennio Palmesino, Delegato per l’Europa, European Mu‐tual Help Network for Alcohol related problem (EMNA) Prof Thierry Ponchon, Presidente della Commissione Affari pubblici, United European Gastroenterology (UEG) Mervi Jokinen, Presidente, European Midwives Associa‐tion (EMA) Peter Allebeck, Presidente, Nordic Alcohol and Drug Policy Network (NordAN) Kristina Mickevičiūtė, Vice‐Presidente con delega agli Affari esteri, European Medical Students' Association (EMSA) Professor Sir Ian Gilmore, Presidente dell’EAHF Science Group Katherine Brown, Direttore, Institute of Alcohol Studies (IAS), UK Eric Carlin, Direttore, Scottish Health Action on Alcohol Problems (SHAAP) Professor Nick Sheron, Rappresentante dell’EU Alcohol and Health Forum, Royal College of Physicians London, UK (RCP) Claude Riviere, Association Nationale de Prévention en Alcoologie et Addictologie (ANPAA) Adisa Dizdarević , Segretario generale, No Excuse Slove‐nia Tiziana Codenotti, Eurocare Italy Lauri Beekmann, Presidente, Estonian Temperance Union Suzanne Costello, CEO, Alcohol Action Ireland Gabriele Bartsch, German Centre for Addiction (DHS)
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03/06/2015 NGOs resign from Alcohol and Health Forum as Com‐mission ignores Member State and European Parlia‐ment Calls for Alcohol Strategy Dear Commissioner for Health and Food Safety, Dr. Andriukaitis, We write to you as a group of public health organisa‐tions to express our deep concerns that there are no plans to develop a comprehensive EU Alcohol Strategy and to tender our collective resignations from the EU Alcohol and Health Forum for the following reasons: 1) The Forum was established as a tool to support the
implementation of the EU Alcohol Strategy, which expired in 2012. Given the absence of plans to de‐velop a new Alcohol Strategy, our participation in the EU Alcohol and Health Forum can no longer be justified.
2) The European Parliament recently demanded a comprehensive and focused EU Alcohol Strategy (1). The Commission’s decision ignores this and also contradicts the requests from Member States via letters from 17 Health Ministers and the Committee of National Alcohol Policy Action (2).
3) This decision also ignores repeated calls from public health bodies and NGOs for a renewed Strategy (3).
We also wish to make the following points: The incorporation of EU alcohol policy into a broad framework for the prevention of non‐communicable diseases will not sufficiently address the burden of al‐cohol harm in Europe. Crime, violence, domestic abuse, child sexual exploitation and road traffic accidents are just some of the many externalities associated with alcohol harm that would be neglected through this approach. Several of the signatories to this letter were founding members of the Forum, but since its inception have raised concerns about its efficacy. Concerns have been raised about the lack of evidence to indicate that vol‐untary commitments from the alcohol industry lead to reductions in alcohol harm. We have also raised objec‐tions, including to yourself at the Forum meeting on 18/05/15, about the lack of formal structure available to public health bodies to discuss evidence for effective alcohol policy in the absence of vested interest groups. Until now, we have remained members of the Euro‐pean Alcohol and Health Forum, acting in good faith that participation and cooperation would allow us to achieve progress on reducing alcohol harm. However, to date, there have been no evaluation studies of Fo‐rum commitments which demonstrate any impact on public health. Moving forward, we will focus our efforts on working together to pursue public health goals, free from con‐flicts of interests, and would welcome your suggestions on how this might be achieved.
Yours sincerely, Mariann Skar, Secretary General, European Alcohol Policy alliance (Eurocare) Nina Renshaw, Secretary General, European Public Health Alliance (EPHA) Katrin Fjeldsted, President, Standing Committee of European Doctors (CPME) Wendy Yared, Director, European Cancer Leagues (ECL) Laurent Castera, Secretary‐General, European Associa‐tion of the Study of the Liver (EASL) Jan Peloza, President, Alcohol Policy Youth Network (APYN) Ennio Palmesino, Delegate for European Affairs, Euro‐pean Mutual Help Network for Alcohol related problem (EMNA) Prof Thierry Ponchon, Chair of Public Affairs Commit‐tee, United European Gastroenterology (UEG) Mervi Jokinen, President, European Midwives Associa‐tion (EMA) Peter Allebeck, President, Nordic Alcohol and Drug Policy Network (NordAN) Kristina Mickevičiūtė, Vice‐President on External Af‐fairs, European Medical Students' Association (EMSA) Professor Sir Ian Gilmore, Chair of EAHF Science Group Katherine Brown, Director, Institute of Alcohol Studies (IAS), UK Eric Carlin, Director, Scottish Health Action on Alcohol Problems (SHAAP) Professor Nick Sheron, Representative to the EU Alco‐hol and Health Forum, Royal College of Physicians London, UK (RCP) Claude Riviere, Association Nationale de Prévention en Alcoologie et Addictologie (ANPAA) Adisa Dizdarević , Secretary General, No Excuse Slove‐nia Tiziana Codenotti, Eurocare Italy Lauri Beekmann, President, Estonian Temperance Un‐ion Suzanne Costello, CEO, Alcohol Action Ireland Gabriele Bartsch, German Centre for Addiction (DHS) 1. European Parliament resolution of 29 April 2015 on Alcohol Strategy (2015/2543(RSP). Reference: http://www.eu ropa r l . eu ropa .eu/ s i de s /ge tDoc .do?t y p e = T A & r e f e r e n c e = P 8 ‐ T A ‐ 2 0 1 5 ‐0174&language=EN&ring=B8‐2015‐0357 2. Member States call on the European Commission for a new and comprehensive strategy to tackle harmful use of alcohol and alcohol related harm, Committee for national alcohol policy and action – scoping paper 2014 3. Call for a Comprehensive Alcohol Policy Strategy in the European Union http://eurocare.org/media_centre/previous_eurocare_events/6th_euro‐pean_alcohol_policy_conference_27_28_11_2014_brusse ls/ca l l_ for_a_comprehens ive_alcohol_po ‐licy_strategy_in_the_european_union
Alcune delle pubblicazioni realizzate e/o aggiornate negli ultimi anni dal Centro Alcologico Regionale Toscano
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Premessa Il mercato della marijuana del 2014 assomiglia al mer‐cato del tabacco prima del 1880, ovvero prima che le sigarette venissero prodotte in serie e pubblicizzate. Legalizzare la marijuana apre il mercato alle grandi aziende, tra cui le multinazionali del tabacco, che hanno le risorse finanziarie, la tecnologia per ottimiz‐zare l’erogazione di droghe psicoattive come la nicoti‐na o il tetraidrocannabinolo (THC), la capacità di com‐mercializzazione ed il peso politico per trasformare il mercato della marijuana in qualcosa di completamen‐te diverso da quello che i sostenitori della liberalizza‐zione avevano immaginato. Il modello uruguayano più di quello degli stati americani che hanno liberaliz‐zato la marijuana (Colorado, Washington) sembra in grado di rispondere a queste preoccupazioni.
Oggetto della trattazione Nell’attuale clima politico favorevole alla depenalizza‐zione della marijuana, i politici e le autorità sanitarie dovrebbero imparare dai successi e dai fallimenti ot‐tenuti nella regolamentazione del tabacco, sviluppan‐do così politiche che impediscano all’industria del tabacco (o ad altre multinazionali, come quelle del cibo o delle bevande gassate) di diventare protagoni‐sti del crescente mercato della marijuana, in modo da non replicare l’epidemia da fumo di tabacco.
Discussione Il divieto di vendita della marijuana ha molte conse‐guenze negative, come la detenzione di giovani per possesso di quantità medie di marijuana e lo sviluppo del mercato illegale che a sua volta genera crimine, violenza e corruzione. Se la vendita venisse legalizza‐ta, la tassazione della marijuana produrrebbe entrate per lo stato e potrebbe essere utilizzata a scopo tera‐peutico senza problemi. La marijuana infatti ha im‐portanti effetti terapeutici: riduce nausea e vomito durante i trattamenti oncologici, riduce la perdita di appetito nella sindrome da deperimento nell’AIDS, ha effetti analgesici (trattamento del dolore cronico neu‐ropatico) e antispasmodici (sclerosi multipla) (1). Sicu‐
ramente il fumo di marijuana poi è meno mortale del fumo di tabacco e determina una dipendenza più bas‐sa. Infatti solo il 9% di utilizzatori di cannabis rispon‐dono ai criteri di dipendenza riportati nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM‐5), rispetto al 32% dei fumatori di tabacco (2). Ci sono comunque importanti effetti sulla salute. Coloro che dall’adolescenza fumano marijuana per ≥4 giorni la settimana perdono 8 punti nel quoziente intellettivo nell’arco di 25 anni, tra i 13 e i 38 anni (3). In utilizza‐tori da molti anni sono documentati deficit di atten‐zione, memoria e apprendimento verbale. L’uso rego‐lare inoltre è associato a sintomi psicotici ed è consi‐derato un fattore di rischio per l’insorgenza di schizo‐frenia (1). Inoltre i fumatori di marijuana possono avere molti dei sintomi di bronchite cronica dei fuma‐tori di tabacco. Nel più recente studio di coorte su circa 50.000 svedesi seguiti per 40 anni, i “forti” con‐sumatori di marijuana (>50 volte nella loro vita) han‐no un rischio più che doppio di sviluppare tumore del polmone, anche dopo aver aggiustato per fumo di tabacco, condizione socio‐economica, uso di alcool e condizioni respiratorie (4). Per altre sedi tumorali i risultati sono insufficienti per una valutazione ade‐guata dell’impatto della marijuana sul rischio cance‐rogeno (5). D’altronde anche il tabacco non è stato tanto letale e capace di determinare dipendenza come lo è oggi (6). Nel 1880 pochi usavano il tabacco e le morti attribui‐bili a tabacco erano poche. Poi negli anni 1950‐70 oltre il 50% degli uomini italiani fumavano sigarette e qualche decennio dopo il tumore del polmone è di‐ventato una delle cause più frequenti di morte negli uomini e recentemente anche nelle donne. Questa trasformazione del tabacco da prodotto di nicchia a prodotto di massa è avvenuta attraverso innovazioni effettuate dall’industria del tabacco. Nel tempo l’industria ha sviluppato sigarette meno irritanti tra‐mite la sostituzione del tabacco burley con quello virginia, tramite lo sviluppo di nuovi procedimenti di cura e l’introduzione del filtro. Come effetto di questi
GIUSEPPE GORINI*, TOMMASO GRASSI° * SS Epidemiologia ambientale occupazionale, Istituto per lo Studio e la Prevenzione Oncologica (ISPO) ° Scuola di specializzazione in Igiene e Medicina Preventiva, Università degli studi di Firenze Per corrispondenza: [email protected]
L’esperienza del controllo del tabacco nel dibattito sulla legalizzazione della ma‐rijuana
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cambiamenti, i fumatori hanno iniziato ad inalare più profondamente, facilitando così l’assorbimento pol‐monare per velocizzare l’arrivo della nicotina al cer‐vello. Questi ben documentati procedimenti di “ingegnerizzazione della sigaretta” hanno determina‐to un aumento del potenziale di dipendenza del ta‐bacco e anche un aumento dell’assorbimento di tossi‐ne e cancerogeni. Oltretutto, l’industria ha aggiunto sostanze per migliorare il sapore e velocizzare ulte‐riormente l’assorbimento, senza tener conto degli effetti sulla salute di questi additivi (6).
Secondo alcuni esperti di “tobacco control” (7‐9), nel dibattito sulla legalizzazione non è stato ancora consi‐derato il potenziale effetto dell’entrata nel mondo della marijuana legalizzata delle multinazionali del tabacco (o di altre società, come le industrie alimen‐tari e delle bevande), con il loro potere di marketing e la capacità di progettare sigarette di marijuana per massimizzare il rilascio di tetraidrocannabinolo (THC), allo stesso modo di come hanno fatto per le sigarette attuali di tabacco. L’industria può quindi cambiare radicalmente ed espandere l’uso della marijuana.
Come risultato del contenzioso tra gli stati americani e l’industria del tabacco negli anni ‘90, tantissimi do‐cumenti aziendali di alcune industrie del tabacco sono stati depositati all’Università della California. Tramite una ricerca standard “snowball” con parole chiave “cannabis”, “marijuana” e termini simili, sono stati rintracciati documentati che parlassero appunto di questa sostanza (8). Almeno dal 1970 le aziende del tabacco si sono interessate alla marijuana e alla sua eventuale legalizzazione come una possibile area di espansione o anche come potenziale concorrente. Mentre è aumentata l’accettabilità sociale della mari‐juana e i governi hanno cominciato ad “ammorbidire” la normativa sulla criminalizzazione della marijuana, le compagnie del tabacco hanno adeguato le loro strategie per lo sviluppo di nuovi prodotti alla mari‐juana con potenziale di vendita elevato (8).
Ci sono importanti connessioni tra tabacco e marijua‐na. Durante gli anni ‘80 il tabacco era una porta di accesso per la marijuana, ma ora il calo dell’accettabilità sociale del tabacco e la crescente accettabilità sociale della marijuana hanno invertito questa tendenza. Infatti in uno studio condotto in Australia, il consumo di cannabis nell’adolescenza predice l’iniziazione al fumo tra i 20 e i 24 anni (10). Inoltre chi fa un uso concomitante di marijuana e tabacco rispetto ai fumatori di solo tabacco ha una maggiore probabilità di soffrire di bronchite cronica e ha anche meno probabilità di smettere (11). Fumare un sigaro o una sigaretta dopo aver fumato una canna per intensificare l’effetto di entrambe le droghe (nicotina e THC), può sostenere e rafforzare la dipen‐denza da tabacco‐nicotina negli utilizzatori di marijua‐na, cosa che l’industria ha già documentato nelle sue
ricerche sulla marijuana nei fumatori di sigarette al mentolo (10‐12).
Le sigarette elettroniche sono un altro nesso tra ta‐bacco e marijuana. Infatti possono essere usate come dispositivi di erogazione di marijuana tramite olio di hashish e sono difficili da distinguere dalle sigarette elettroniche tradizionali (13,14).
Per evitare di riprodurre un’epidemia sulla falsa riga di quella da fumo di tabacco, dovrebbe essere limita‐to il potere delle grandi aziende, tra cui quelle del tabacco, dall’assumere il controllo del mercato della marijuana modellandolo su quello delle sigarette. Certamente l’approccio di libero mercato del tabacco non è stato in grado di tutelare i consumatori e, no‐nostante lo sviluppo della Framework Convention on Tobacco Control (FCTC) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) (15), il fumo di tabacco rimane una delle cause principali di morte nel mondo. Sostanze in grado di sviluppare dipendenza meritano un approc‐cio regolatorio diverso dal libero mercato, come quel‐lo progettato dall’Uruguay.
Il sistema di regolamentazione della marijuana dell’Uruguay permette ai residenti maggiorenni di scegliere tra tre forme di accesso non medico alla marijuana: coltivazione per uso domestico, associarsi a club per coltivare in gruppo un numero limitato di piante e l’acquisto presso farmacie autorizzate fino a 10 grammi la settimana (16). I consumatori di mari‐juana dovranno registrarsi presso il governo per una delle tre opzioni. Tutte le forme di pubblicità e di pro‐mozione sono vietate, come fumare in spazi pubblici chiusi. Ma la cosa più significativa è la costituzione dell’Istituto per la regolamentazione e il controllo della cannabis (IRCCA) che produrrà direttamente cannabis generica senza marchio, fissando i limiti di THC nei prodotti in commercio. Producendo cannabis “di stato” la strategia uruguayana elimina, di fatto, l’incentivo alle aziende private a commercializzare e pubblicizzare prodotti competitivi. Una proposta ana‐loga fu avanzata anni fa all’interno delle strategie di “endgame” per il tabacco, il monopsonio di Borland (17). Lo Stato uruguayano concederà licenze ad agri‐coltori qualificati che venderanno all’IRCCA la mari‐juana prodotta. La regolamentazione uruguayana include anche una forte componente educativa. Le scuole, oltre a bandirne l’uso, sono obbligate a offrire supporto e informazioni sull’uso di marijuana. I club di utilizzatori devono educare e informare i propri membri sul consumo responsabile di marijuana e IR‐CCA deve promuovere strategie di riduzione dei rischi connessi al consumo problematico di marijuana.
Il Colorado e lo stato di Washington che hanno recen‐temente legalizzato l’uso di marijuana anche a scopo ricreativo, non limitano come in Uruguay lo sviluppo di un mercato privato competitivo per la produzione di marijuana, anche se regolamentano la quantità che
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si può possedere e la produzione‐vendita tramite un sistema di licenze (9). In Olanda invece la marijuana non è legalizzata. È però consuetudine il non procedere contro l'acquisto fino a 5 grammi di cannabis nei coffee‐shop autorizza‐ti, contro la detenzione di una piccola quantità per consumo personale e contro la coltivazione di un nu‐mero limitato di piante di cannabis, sempre per utiliz‐zo personale (9). In generale, al di là del modello uruguayano, la rego‐lamentazione per i prodotti del tabacco potrebbe essere il modello da seguire per la regolamentazione della marijuana: la tassazione, le restrizioni in materia di pubblicità, il divieto di distribuzione di campioni gratuiti, il divieto di sponsorizzazione di eventi, lo sviluppo del pacchetto generico e delle etichette con pittogrammi, il divieto dei distributori automatici, della pubblicità nei negozi e la vendita su Internet. Infine la lezione del tabacco è illuminante nella que‐stione della divulgazione degli ingredienti. Infatti, sia la Food and Drug Administration negli Stati Uniti sia le linee guida dell’OMS per l’implementazione degli arti‐coli 9 e 10 della Convenzione quadro (FCTC) non sono stati ancora in grado di regolamentare il contenuto delle sigarette. Quindi, eventualmente, la commercia‐lizzazione di prodotti di marijuana aromatizzati, di prodotti contenenti marijuana e nicotina, i metodi per ridurre i residui di pesticidi e di altri contaminanti e i limiti di concentrazione del principio attivo dovreb‐bero essere regolamentati a priori e non a posteriori, come è successo per il tabacco.(8,9)
Conclusioni Nell’attuale clima politico favorevole per la depenaliz‐zazione della marijuana, i responsabili politici e le autorità sanitarie dovrebbero sviluppare e attuare politiche che impediscano all’industria del tabacco (o altre multinazionali paragonabili) di entrare diretta‐mente nel mercato crescente della marijuana in mo‐do da replicare l’epidemia del fumo di tabacco.
Bibliografia 1. Grotenhermen F, Müller‐Vahl K. The therapeutic potential of cannabis and cannabinoids. Dtsch Arztebl Int;109:495‐501; 2012. 2. Hall W, Degenhardt L. The adverse health effects of chronic cannabis use. Drug Test Anal;6:39‐45; 2014. 3. Meier MH, Caspi A, Ambler A, Harrington H, Houts R, Keefe RS, McDonald K, Ward A, Poulton R, Moffitt TE. Persistent cannabis users show neuropsychologi‐cal decline from childhood to midlife. Proc Natl Acad Sci U S A;109:E2657‐64; 2012. 4. Callaghan RC1, Allebeck P, Sidorchuk A. Marijuana use and risk of lung cancer: a 40‐year cohort study. Cancer Causes Control;24:1811‐20; 2013. 5. Hashibe M1, Straif K, Tashkin DP, Morgenstern H, Greenland S, Zhang ZF. Epidemiologic review of mari‐juana use and cancer risk. Alcohol;35:265‐75; 2005.
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72 Alcologia n. 23 – AGOSTO 2015
Ogni anno il 31 maggio World Health Organization (WHO) celebra la giornata mondiale senza tabacco focalizzando l’attenzione sui rischi per la salute deri‐vanti dall’uso del tabacco e sostenendo la promozio‐ne di politiche mirate alla riduzione del consumo di tabacco. È importante ricordare che l’epidemia del tabagismo provoca la morte a livello mondiale di 6 milioni di persone ogni anno di cui circa 600.000 per fumo passi‐vo. Se il processo va a‐vanti senza nessun inter‐vento, si stima che entro il 2030 i decessi saliran‐no a una cifra vicina agli 8 milioni l’anno e colpi‐ranno in particolar modo i Paesi a basso e medio reddito. La giornata del 2015 si incentra sulla richiesta di collaborazione reciproca dei Paesi per la lotta con‐tro il contrabbando e la contraffazione, che insie‐me costituiscono il mer‐cato illegale dei prodotti del tabacco. Il fenomeno del mercato illegale del tabacco ri‐guarda fino a una siga‐retta ogni dieci consumate a livello mondiale. Il con‐trabbando costa all'Unione Europea e ai suoi Stati membri oltre 10 miliardi di euro all'anno in mancati introiti fiscali e doganali. In risposta a questa crescen‐te minaccia, la Comunità Internazionale ha redatto e approvato nel novembre del 2012 il “Protocollo per eliminare il traffico illegale dei prodotti del tabacco” che costituisce il primo protocollo per la WHO‐FCTC (Convenzione Quadro per il controllo del tabacco, Framework Convention on Tobacco Control). Gli obiettivi specifici per la campagna “World No To‐bacco Day” 2015 sono molteplici: aumentare la con‐
sapevolezza sui rischi derivanti dal traffico illecito dei prodotti del tabacco che si verificano soprattutto nei giovani e nelle persone meno abbienti, ovvero in quella fascia di popolazione che tende a rivolgersi più spesso proprio a questo mercato per i costi più bassi che propone. Un altro obiettivo è quello di mostrare
come tutte le complesse strategie messe in atto a livello mondiale contro il fumo di tabacco vengono di fatto minate dal traffi‐co illegale che sfugge completamente a queste regolamentazioni. Da sottolineare che la stessa industria del tabacco è stata coinvolta nel traffi‐co illegale delle sigarette. Allo stesso tempo è mol‐to importante ribadire che i ricavi del contrab‐bando costituiscono una fonte di ricchezza per gruppi criminali che va a sua volta a incentivare altre attività illecite di vario tipo, contribuendo quindi a peggiorare lo scenario relativo alla criminalità a livello mon‐diale. Infine sarà fonda‐mentale promuovere e
implementare l’adesione e la messa in atto del “Protocollo per eliminare il traffico illegale dei pro‐dotti del tabacco” della WHO‐FCTC del 2012 coinvol‐gendo di volta in volta tutte le parti interessate.
GIUSEPPE GORINI*, TOMMASO GRASSI° * SS Epidemiologia ambientale occupazionale, Istituto per lo Studio e la Prevenzione Oncologica (ISPO) ° Scuola di specializzazione in Igiene e Medicina Preventiva, Università degli studi di Firenze Per corrispondenza: [email protected]
World No Tobacco Day 2015: Fermare il commercio illecito dei prodotti del tabacco
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SONO APERTE LE ISCRIZIONI AL MASTER DI PRIMO LIVELLO “ALCOL E TABACCO: STILI DI VITA E PATOLOGIE CORRELATE”
A.A. 2015/16
FINALITÀ: Le finalità del Master “Alcol e tabacco: stili di vita e patologie correlate” sono quelle di am‐pliare le conoscenze teoriche e le competenze tecniche rispetto al trattamento delle Problematiche e delle Patologie Alcol‐Tabacco Correlate (PPATC) e la promozione di sani stili di vita. Il Master vuole of‐frire strumenti adeguati ad affrontare il fenomeno delle PPATC in termini di prevenzione, diagnosi e cura e si propone di aumentare il grado di adeguatezza nel pianificare l’intervento integrato (medico, psicologico, sociale) delle PPATC. Inoltre, offre ai corsisti una conoscenza integrata delle PPATC, appro‐fondendo gli aspetti tecnici e metodologici nelle varie discipline connesse all’alcologia e alla tabaccolo‐gia, fornendo a loro competenze rispetto alla gestione sia delle dipendenze associate da sostanze legali ed illegali sia dei disturbi dell’alimentazione e dei comportamenti compulsivi.
DESTINATARI: Laureati in Medicina, Psicologia, Scienze Infermieristiche, Scienze dell’Educazione, Servizi Sociali, Sociologia ma anche a coloro che sono in possesso di un titolo universitario: una laurea o D. U. ai sensi del previgente ordinamento; una laurea triennale o laurea specialistica ai sensi del D.M. 509/99. Il Master è rivolto prevalentemente ad operatori sanitari che operino a contatto, in modo diret‐to o indiretto, con problematiche connesse al uso di tabacco e/o di alcol, offrendo un approccio com‐pleto, multidisciplinare ed integrato. Gli Enti interessanti sono i Servizi Sanitari dell’area delle Dipen‐denze (Ser.T., Centri di Alcologia, Centri Antifumo, Tossicologia), della Medicina interna e le specialisti‐che fumo‐correlate (pneumologia, cardiologia, oncologia, gastroenterologia, ecc), i Dipartimenti di Sa‐lute Mentale e di Prevenzione e la Medicina Generale. I contenuti del Master possono riguardare gli operatori dei Servizi Socio Sanitari, Enti Ausiliari, Associazioni e privati.
CFU: 70 COORDINATORE DEL MASTER: Prof. Stefano Milani – Coordinatori didattici: Prof. Valentino Patussi, Dr. Mateo Ameglio; Dr. Jannis Anifantakis. – Tutor d’aula: Dr. Gabriele Magri SEDE: Università degli Studi di Firenze Dipartimento di Scienze Biomediche Sperimentali e Cliniche, Via‐le Pieraccini, 6 – Firenze e/o auletta dei Laboratori Esterni del Padiglione 13 ‐ Clinica Medica, Largo Brambilla, 3 ‐ Firenze STRUTTURA DEL CORSO: Lezioni frontali ‐ Lezioni FAD su piattaforma Moodle ‐ Esami in itinere su piat‐taforma Moodle ‐ Esame finale in presenza DURATA DELLE ATTIVITÀ DIDATTICHE: 11 mesi PERIODO DI SVOLGIMENTO DEL CORSO: febbraio 2016 ‐ dicembre 2016 INFORMAZIONI: [email protected] ‐ 055 7946736 ‐ 331 8350050
ISCRIZIONI: La domanda di ammissione deve essere presentata solo on‐line entro il 23 dicembre 2015 utilizzando la procedura all'indirizzo https://ammissioni.polobiotec.unifi.it/turul Pubblicazione graduatoria ammessi: 11 gennaio 2016 Scadenza delle domande di iscrizione al master: 29 gennaio 2016
QUOTA DI ISCRIZIONE: Euro 2.300,00 da versare in due rate: Euro 1.150,00 all’iscrizione e Euro 1.150,00 entro il 30 maggio 2016 Il comitato ordinatore erogherà borse di studio a rimborso per i più meritevoli.
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NORME PER GLI AUTORI
Obiettivi della rivista Alcologia intende promuovere uno scambio di opinioni ed informazioni su patologie e problemi alcol‐relati, comporta‐menti e stili di vita. Particolare attenzione viene data a que‐sti argomenti dal punto di vista medico, sociologico, psico‐logico, epidemiologico economico, legale e di igiene pubbli‐ca. La rivista pubblica articoli originali, la loro pubblicazione è di competenza del Comitato di Redazione e degli Esperti, individuati di volta in volta, che collaborano nella valutazio‐ne dei testi. Alcologia ha sottoscritto il Farmington Consensus Statement, pertanto anche gli autori degli articoli sono tenuti al rispetto dei principi in esso contenuti.
Inoltro dei lavori I lavori, in lingua italiana, dovranno essere inviati in dischet‐to al Dr. Valentino Patussi, Centro di Alcologia c/o Palazzo Clinche Mediche AUO Careggi, Viale Morgagni 85, Tel. 0557949650; oppure tramite e‐mail all’indirizzo: [email protected] In caso di accettazione tutto il materiale pubblicato resterà di proprietà esclusiva della rivista e sarà sottoposto alla revisione editoriale. Per ogni articolo i tempi di validazione scientifica saranno contenuti entro le 12 settimane, qualora la revisione del testo comporti un riesame completo, la risposta sarà inol‐trata entro 4 settimane. La pubblicazione dei contributi avverrà entro 12 mesi dal loro invio. I lavori non pubblicati verranno restituiti agli Autori. Si raccomanda di conservare una seconda copia del lavoro, in quanto la Rivista non si ritiene responsabile dell’eventuale smarrimento dell’originale.
Editoriali Non devono superare il numero di 15.000 caratteri e devo‐no essere così strutturati: titolo cognome e nome dell’autore, qualifica, indirizzo a cui invia‐re la corrispondenza (anche e‐mail) presentazione o premessa oggetto della trattazione discussione conclusioni bibliografia in ordine di citazione nel testo.
Articoli Devono essere così strutturati:
pagina introduttiva riassunto e parole chiave in italiano ed in inglese testo dell’articolo bibliografia figure e tabelle 1. Pagina introduttiva: Titolo del lavoro Cognome e nome degli autori Istituti di appartenenza Cognome e nome, indirizzo, numero di fax e indirizzo e‐mail
dell’Autore a cui dovrà essere inviata la corrispondenza 2. Riassunto e parole chiave in italiano e in inglese Deve essere conciso, comunque inferiore ai 1.000 caratteri, e riportare gli scopi, i risultati e le conclusioni del lavoro. Evitare abbreviazioni, note in calce, riferimenti bibliografici. Vanno completati con le parole chiave in italiano ed in in‐glese. 3. Testo dell’articolo introduzione materiale e metodi risultati discussione conclusioni 4. Bibliografia Le voci bibliografiche andranno numerate nell’ordine in cui vengono citate nel testo. Quelle riguardanti riviste dovranno essere complete di: cognome, iniziale del nome degli autori, titolo completo del lavoro, nome abbreviato della rivista, volume, prima e ulti‐ma pagina, anno di pubblicazione (es. KAUFMANN R.H.: Liver‐copper levels in liver disease. Studies using neutron analysis. Am. J. Med., 65, 607‐613, 1978). Quelle riguardanti libri, invece, dovranno essere complete di: cognome e iniziale del nome degli Autori, titolo comple‐to del lavoro, titolo del libro in cui è contenuto il lavoro, curatore, casa editrice, eventuali pagine, anno di pubblica‐zione (es. WEISTEIN M.C., FINEBERG H.V.: Clinical diagnostic process: an analysis. In Clinical decision analysis. Eds: Glam‐bos J.T., Williams R., Saunders W.B., Philadelphia, 4‐8, 1984). Nel caso di citazioni relative a pubblicazioni di atti: titolo, a cura di (cognome ed iniziali nome), casa editrice, pagine citate, anno di pubblicazione (es. Atti Consensus Conferen‐ce sull’Alcol‐Società Italiana di Alcologia, a cura di Ceccanti M., Patussi V., Scientific Press s.r.l.(FI), p. 49, 1995). La bibliografia può contenere un elenco dei Siti web consul‐tati con la denominazione dell’ente di riferimento o perso‐na fisica (es. Nel caso di Blog) e la data dell’ultima consulta‐zione (gg/mm/aaaa). Esempio di corretta formulazione: Siti web consultati: www.alcolonline.it. Ultima consultazione: 03/08/2007. 5. Figure e tabelle Figure e tabelle dovranno essere numerate con numeri arabi e citate nel testo. Ogni figura deve avere la propria legenda che deve essere breve e specifica.
Altri contributi (ad esempio segnalazioni, recensioni e lettere) Non devono superare i 5.000 caratteri. L’Editore non può essere ritenuto responsabile per errori o qualunque azione derivante dall’uso di informazioni conte‐nute nella rivista; le opinioni espresse non riflettono neces‐sariamente quelle dell’Editore. È condizione necessaria per la pubblicazione che gli articoli inviati non siano già stati pubblicati altrove e che non ven‐gano inviati contemporaneamente ad altre testate. Gli articoli pubblicati sono coperti da Copyright, pertanto qualunque forma di riproduzione, totale o parziale, deve essere autorizzata dall’Editore con documento scritto.
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INSTRUCTION TO AUTHORS Aims and scope Alcologia is a cross cultural journal publishing articles on all aspects of human being’s use and misuse of alcohol. It aims to provide a forum to exchange news and views and to promote interdisciplinary debate on alcohol in a broad sense. Articles are welcome on sociological, economic, legal and public health topic and on any other area related to alcohol and man. The journal publishes original research studies reviewed by peers for scientific merit, and a series of section with an informative and educational bias includ‐ing psyco‐social reports and contributions on the produc‐tion, storage, distribuction and consumption of alcoholic beverages. The journal is a signatory of the Farmington Consensus. The authors have also complied with the tenets set forth in that statement.
Submission Articles, in Italian language, should be submitted, by CD, to Dr. Valentino Patussi, Centro di Alcologia c/o Palazzo Clinche Mediche AUO Careggi, Viale Morgagni 85, Tel. 0557949650; or trough e‐mail at: [email protected] Submissions are accepted on the understanding that they are subject to editorial revision and peer review. For papers sent for full review, we aim to give a response to authors within a maximum of 12 weeks. For papers re‐turned as unsuitable without full refereering, we aim to respond within 4 weeks. Articles will be published within 12 month from their send‐ing. No published paper will be given back to Authors. We suggest to keep a manuscript copy because the editor isn’t responsible for eventual losing.
Editorials Maximum 15.000 characters. They must be so composed: Title Author’s surname and first name, authors affiliations (department or institution where the work was carried out), full address (including fax number and e‐mail) to send cor‐respondence. Introduction Materials and Methods Results Conclusions References
Articles They must be so organised: Title page Structured abstract and keywords in Italian and in English Text References Figures and tables. 1. Title page Complete manuscript title Author’s surname and first name Authors affiliations (department or institution where the
work was carried out) Full address (including fax number and e‐mail) of the author who will receive correspondence. 2. Abstract and keywords in Italian and in English The article should briefly summarized or abstracted in short paragraph (under 1.000 characters) and should contain Aims, Results and Conclusions. It should not contain notes and references. It should be completed with keywords in Italian and in English. 3. Text Introduction Materials and Methods Results Discussion Conclusions 4. References Bibliographic items should be typed at the end of the paper and numbered in the order of citation in the text. They should be complete with: surname and initials of the au‐thor’s first name, full title of the work, abbreviation of the review, volume, number of the first and of the last page of the work, year of publication (i.g. KAUFMANN R.H.: Liver‐copper levels in liver disease. Studies using neutron analy‐sis. Am. J. Med., 65, 607‐613, 1978). Bibliografic items concerning books must contain: surname and initials of the authors’ first name, full title of the paper, title of the book in which such paper is contained, editors of the book, publishing house, first and last page of the work, year of publication (i.g. WEISTEIN M.C., FINEBERG H.V.: Clinical diagnostic process: an analysis. In Clinical decision analysis. Eds: Glambos J.T., Williams R., Saunders W.B., Philadelphia, 4‐8, 1984). For collection’s reference: title, surname and initials of the editors, publishing house, first and last page of the work, year of publication (i.g. Atti Consensus Conference sull’Alcol‐Società Italiana di Alcologia, Eds: Ceccanti M., Patussi V., Scientific Press s.r.l.(FI), p. 49, 1995) References could contain an accessed World Wide Web list. It should contain the name of the subject (Institutions or person, i.g. Blog) and last access date (dd/mm/yyyy). I.g.: www.alcolonline.it . Last access: 03/08/2007. 5.Figures and tables Figures and tables should be cited in the text and numbered consecutively with Arabic numbers. Include legends for all figures. They should be brief and specific. Review and letters The Editor cannot be held responsible for errors or any consequences arising from the use of information con‐tained in this review, the views and opinions expressed do not necessarily reflect those of the Editor. A submitted manuscript must be an original contribution not previously published, must not be under consideration for publication elsewhere. All rights are reserved. No part of this publication may be reproduced, stored or transmitted in any form or by any means without the prior permission in writing from the copyright holder.
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