nessun luogo è lontano - veronica de giovanelli

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SIAMO SOGGETTI ALLE ONDULAZIONI DEL TERRENO.

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Catalogue of the show - Nessun luogo è lontano - Veronica de Giovanelli, Andrea Grotto, Cristiano Menchini, Stefano Moras curated by Eugenia Delfini c/o Ex Macello, via Alvise Cornaro 1/b, Padua, October 2014.

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SIAMO SOGGETTI

ALLE ONDULAZIONI

DEL TERRENO.

1. Di lì, a poco più in là - 24 x 25,5 cm - olio su cartonlegno, 2012 Collezione Frase Contemporary Art2. Forsaken II - 110 x 105 cm - acrilico ed olio su tela, 20143. De Haruspicibus Auguribusque - 24 x 25,5 cm - tecnica mista su cartonlegno, serie 20144. D’estate, al Forte - 160 x 200 cm - acrilico ed olio su tela, 20135. Ventimila metri cubi d’acqua al secondo - 150 x 150 cm - acrilico ed olio su tela, 2012 Collezione Fondazione Bevilacqua La Masa6. Posidonia - 110 x 130 cm - acrilico ed olio su tela, 2014

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Nessun luogo è lontanoVeronica de Giovanelli

Andrea Grotto

Cristiano Menchini

Stefano Moras

_

dal 6 Settembre

al 5 Ottobre 2014

Ex Macello

via Alvise Cornaro 1/b

Padova

nessunluogo.tumblr.com

sottobosco.net

UN PROGETTO DI

Sottobosco

MOSTRA A CURA DI

Eugenia Delfini

PROMOSSO DA

Assessorato alla Cultura e Turismo

Comune di Padova

CON I PATROCINI DI

Fondazione Bevilacqua La Masa

FAI – Delegazione di Padova

Kio-A-Thau Sugar Refinery Artist Village

PROGETTO GRAFICO

Sottobosco

VISUAL IMPROVEMENT

Tiziano Manna

MEDIA PARTNER

Sherwood

SPONSOR TECNICO

Winezon

_P. D’Angelo, Filosofia del Paesaggio, Quodlibet, 2010U. Morelli, Paesaggio e mente, Bollati Boringhieri, 2011M. Jakob, Il Paesaggio, Il Mulino, 2009 Fi

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2014

La parola paesaggio designa tanto una porzione di territorio nella sua concreta realtà fisica e morfologica, quanto la rappresentazione di una porzione di spazio dotata di valori estetici: a partire da questo presup-posto, le ricerche in mostra indagano il paesaggio sia in quanto espres-sione della nostra identità sia in quanto generatore di esperienze este-tiche.

Nonostante a un primo sguardo si possano cogliere notevoli differenze stilistiche tra i lavori esposti, sono diversi gli aspetti teorici e metodo-logici che li accomunano. Per gli autori in mostra l’uomo è parte inte-grante del paesaggio, non esterno ad esso, e la pittura di paesaggio non un’attività di mimesi ma lo strumento attraverso il quale tentare di riav-vicinarsi e di riappropriarsi del reale. Questo movimento sui margini, tra il reale e la sua riproposizione estetica, permette loro di costruire una relazione sempre nuova con il mondo, di scoprirlo e di ripensare ciò che ci è conosciuto, contribuendo alla produzione di altri punti di vista. In questo lavoro di identificazione e successiva rielaborazione del pae-saggio, la tela diventa sinonimo di possibilità e il lavoro un procedere per gradi: il tempo per soffermarsi su un particolare vissuto o luogo e per dare visione al presente, qualsiasi cosa suggerisca.

Il nostro è sempre stato un paesaggio culturale, ovvero non solo na-tura ma anche opera umana, territorio sul quale l’azione dell’uomo ha inciso in profondità, attraverso i millenni, lasciando ben poco della sua conformazione originaria. Di conseguenza la nostra coscienza del paesaggio è quella di una natura percepita attraverso una cultura (Paolo D’Angelo) e l’esperienza che compiamo di fronte ad esso non può essere mai un’esperienza puramente sensoriale, ma un processo che organizza quel che vediamo sulla base di componenti immaginative, emotive, memoriali e identificative. Su questo discorso si innesta il lavoro di Veronica de Giovanelli che riflette sul paesaggio come dimensione relazionale frutto della mediazione tra stato di natura ed esigenze umane. La sua è una forma di esplorazione intima e di presa di coscien-za della singolarità dei luoghi, un’indagine costante tra sé e i contesti attraverso cui cogliere e restituire le qualità inespresse di un determi-nato spazio. Da sempre interessata a quelle che sono le energie sottese e le variabili dello stato di natura, da una parte nelle sue opere inscena manifestazioni di fenomeni naturali e dall’altra gli interventi per mano dell’uomo che hanno inciso profondamente sul paesaggio. Attraverso il punto di vista aereo e l’applicazione di velature fresche, fatte sedimen-tare in tempi diversi, Veronica evoca i luoghi e le strutture che abitano il nostro territorio, evidenziando l’idea di paesaggio come palinsesto e stratificazione vorticosa.

Il paesaggio è dentro di noi prima di essere intorno a noi (Ugo Morelli), per ciò la relazione con la natura non può ridursi alla sola identificazio-ne estetica, come mera immagine, ma va ricercata anche all’interno di dimensione cognitiva e simbolica del paesaggio. Negli ultimi anni Andrea Grotto ha attraversato diverse fasi di ricerca che lo hanno por-tato a ripensare il paesaggio come ad un insieme simbolico di oggetti: realtà di riferimento da cui partire per interpretare il mondo ed esplora-re i nostri universi concettuali ancorati al reale. Questo atlante simboli-co in progress, annette forme sedimentate nel suo immaginario, deline-ando da una parte una sua personale geografia emotiva e dall’altra il suo interesse per le connessioni esistenti tra le immagini che compongono la nostra quotidianità e quelle radicate nell’immaginario collettivo. Il tempo è sospeso, gli ambienti non sono riconducibili a qualcosa di identificabile, il paesaggio si fa scultura, il fruitore è libero di identifi-carsi con l’immagine o semplicemente di farla propria. Il serbatoio di immagini da cui attingere non è più allora solo il paesaggio ma la sua personale memoria, i ricordi d’infanzia e le suggestioni legate a specifici luoghi: è a partire da tutto questo che Andrea ricostruisce dei set attra-verso la sola riproposizione dei suoi elementi ausiliari - tappeti, scivoli,

vasi, bastoni e scatolini - come fossero muti testimoni da cui ripartire per una rielaborazione dei luoghi del vivere.

Rispetto a questo approccio sui confini tra il proprio mondo interno e quello esterno, Stefano Moras vive il paesaggio come una materia sempre ricca di suggestioni, luogo dell’accadere, palcoscenico delle trasformazioni organiche e vegetali.I suoi lavori sono il risultato di studi ravvicinati della natura, un discor-so molto personale tra autore e linguaggio, una ricerca costante che gli permette di comunicare e relazionarsi con il mondo. I suoi quadri sono come delle piattaforme sulle quali frammenti stratificati e parcellizzati della realtà si accumulano, scompaiono o riemergono. Fuori o dentro la superficie pittorica, la sua è una ricerca legata ai processi che possono suggerirci delle visioni del nostro reale, un modo di procedere nel quale ogni esperienza si sovrappone a quella precedente in un continuum ed incessante evolversi e ridefinire il suo apparire. Stefano non è interessato alla riproduzione o alla traduzione della realtà fine a sé stessa quanto alla sua rielaborazione a cui arriva attraverso un delicato lavoro di scompo-sizione e ricostruzione per frammenti. Così la tela diventa spazio vivo dove individuare delle coordinate e procede attraverso la proposizione di piccoli atti poetici, fatti di intagli, accostamenti, associazioni libere di forme, materiali e colori.Negli ultimi lavori in particolare l’ascolto dei fenomeni naturali e dei loro passaggi di stato non è più qualcosa di esterno ma qualcosa che si ritrova nel suo stesso fare, riscoprendoli come parte del processo pit-torico. Nulla è stabilito, si tratta di inseguire una necessità, legata al pro-prio sentire, che tende verso processi di scoperta ignoti e inaspettati che si cristallizzano in visioni di insieme, frutto del confronto costante con la realtà circostante.

Il paesaggio è allora ciò che risulta dalla nostra relazione con il mondo, ovvero il risultato artificiale di una cultura che ridefinisce perpetuamente la sua relazione con la natura, tanto che l’esperienza del paesaggio è in generale e in primo luogo, un’esperienza di sé (Michael Jacob).Perché esista un paesaggio devono allora esserci inevitabilmente un in-dividuo e la natura, e tra i due deve innescarsi una relazione. La ricerca di Cristiano Menchini nasce proprio dal confronto fisico con il pae-saggio, dal contatto diretto e dallo studio quasi scientifico di micro-cosmi vegetali. Muovendosi nello scarto che c’è tra il vero e la finzione, Cristiano ripropone universi simbolici, metafore di un mondo percepi-to, superfici dinamiche e indipendenti dalla realtà, non tanto per ripro-durre un semplice gioco di rassomiglianze, quanto per evocare spazi altri senza tempo, che da qualche parte forse esistono o sono esistiti. L’interesse è per i processi a noi invisibili che determinano lo sviluppo del mondo vegetale, la parte organica e morfologica della natura che cambia a seconda del clima, del vento, della luce. Alcuni suoi lavori evo-cano calibrati ecosistemi vegetali, altri invece scenari primitivi realizzati in scala reale, altri ancora infine, attraverso la ripetizione di un unico elemento vegetale nello spazio della tela, orientano il discorso verso l’astrazione formale.

Nessun luogo è lontano nasce come punto di incontro di più esperienze per osservare il quotidiano attraverso l’arte e per riflettere sui differenti modi di vedere, percepire e fare esperienza del paesaggio. In un’epoca in cui la relazione con la natura non è più data ed è da reinventare e ricreare, la mostra, vuole restituire il desiderio di entrare in risonanza con il paesaggio, provando a recuperare questa relazione attraverso la visione estetica e la sua rappresentazione. Il titolo della mostra, tratto dal libro omonimo di Richard Bach, riporta l’attenzione su questo: nes-sun luogo è lontano, tutto ciò che non è in mostra è possibile guardarlo fuori o ritrovarlo dentro di noi come qualcosa che non è mai andato perduto.

Eugenia Delfini

Una pratica che volge l’attenzione al paesaggio, all’esterno, a tutto ciò che sta fuori dall’uomo ma è l’uomo stesso in quanto estensione ed espressione della sua identità storico culturale: qual è stato il tuo percorso? E cosa ti ha portato, oggi, ad oc-cuparti di “pittura di paesaggio”?

La necessità di indagare su tutto ciò che ci sta attorno. “Siamo soggetti alle ondulazioni del terreno”1 scriveva E. Hemingway: questa frase sot-tende metaforicamente due elementi emblematici che riguardano la mia ricerca artistica. Da un lato, la necessità di evidenziare la connes-sione dell’uomo alla natura, o meglio, di ricordare che l’uomo é parte integrante della natura; dall’altro, l’interesse nel soffermarmi a riflet-tere sul rapporto fra l’uomo e i luoghi che abita. La pittura diventa strumento d’indagine che, attraverso una rappresentazione evocativa e immaginaria più che descrittiva, serve a evidenziare e spesso esasperare quel qualcosa che ci sorprende o ci intriga di un luogo, ma che spesso non riusciamo a definire, quel qualcosa che il poeta inglese G.M. Hop-kins ha definito inscape2. Inscape è un termine che l’autore non ha mai definito, non ha equivalente in italiano ma il termine odierno si può definire come “l’essenziale, distintiva e rivelatrice qualità di una cosa”3. Il poeta lo riferiva in particolare alla natura e all’ambiente circostante e tuttavia è da intendere anche come punto di vista soggettivo che definisce quel complesso di caratteristiche che conferiscono unicità ed esclusività ad un’esperienza individuale, risultando così differente da ogni altra. La pittura inoltre, implica un intimo e quotidiano corpo a corpo fra l’artista e l’opera: implica una forte costanza nel rituale della pittura, delle soste, un fermarsi a contemplare, una precisa attenzione, un’ossessiva osservazione, una fortissima consapevolezza delle proprie azioni e una sincera riflessione. Questi stessi atteggiamenti li dovremmo avere, a mio avviso, nei confronti di ciò che ci circonda.

Come vivi questo corpo a corpo con il paesaggio? Se il paesag-gio è estensione dell’uomo e la pittura strumento per ricreare mondi, in che modo sviluppi la tua indagine e quali luoghi del nostro presente destano la tua attenzione e perché?

Io credo che un pittore sia essenzialmente un esploratore di immagini. L’essere umano da sempre possiede un’innata propensione a viaggiare, all’esplorazione, a compiere missioni anche piuttosto surreali spesso con esiti imprevisti. L’arte è ricerca, una forma di esplorazione forse più intima ma altrettanto importante. Il contatto fisico con i luoghi è essenziale: fermarsi a scrutare un temporale, fare una passeggiata in montagna, perdersi in una città sconosciuta e così via. Essere vigili e coscienti nei confronti della singolarità dei luoghi che percorriamo tutti i giorni, dei piccoli cambiamenti che avvertiamo di ogni luogo, significa conoscerne le peculiarità, siano esse estetiche, naturalistiche o storiche, ed è la prerogativa per riuscire ad “abitare il mondo” in maniera etica. È infatti la scarsa consapevolezza di ciò che ci circonda che ci avvicina sempre di più al degrado ambientale, culturale ed estetico del paesag-gio. Per questo solitamente narro di luoghi che ho vissuto, che conosco bene, come succede nel ciclo di lavori riguardanti la laguna di Venezia.

Partendo dal concetto da te espresso per cui l’arte è ricerca e forma di esplorazione, volevo chiederti di raccontare quali sono i luoghi, e le storie ad essi connessi, che fino ad oggi hai scelto di rappresentare nelle tue opere.

I luoghi e le storie sono tanti e piuttosto diversi fra loro. Vorrei sof-fermarmi in particolare sul territorio della Laguna di Venezia dato che negli ultimi anni ho lavorato soprattutto su un grande ciclo di lavori che ha questo ambiente come punto di partenza. Si tratta di un sito che rac-chiude in sé diversi aspetti che mi interessano dei luoghi. Oltre ad essere un paesaggio che amo, che vivo e che non finisce mai di sorprenderemi, l’ambiente lagunare è infatti terreno fertile per investigare sulle temati-che come ad esempio il rapporto fra l’uomo e i luoghi che vive o abban-dona, la storia di un luogo, le tracce dell’uomo nella natura, l’artificiale e il naturale, le caratteristiche morfologiche e ambientali di un territorio, i cambiamenti sempre più evidenti dei nostri paesaggi, le peculiarità che rendono ogni luogo diverso da un altro (in un’epoca dove tutti i luoghi tendono sempre di più ad assomigliarsi, omologarsi). È questo luogo, con la sua immensa ricchezza e le sue problematiche, il punto di partenza per opere come Barene, Bricole, Velme e bassifondi, Forsaken II, e Ventimila metri cubi d’acqua al secondo. In quest’ultima opera, ad esempio, viene posta l’attenzione verso il particolare e fragile ambiente e il funzionamento del sistema della laguna di Venezia. Il titolo del dipin-to si riferisce alla massima portata di una marea complessiva di tutte e

tre le bocche di porto della laguna (Lido, Malamocco e Chioggia) in fase di sizigie, ovvero il momento in cui l’escursione fra l’alta e la bassa marea è al massimo livello.

Vuoi introdurci a De Haruspicibus auguribusque e attraverso questo lavoro spiegare perché prediligi il punto di vista aereo come punto di osservazione del paesaggio?

De haruspicibus auguribusque è un work-in-progress che consiste in una serie di piccoli dipinti ad acrilico e olio su cartonlegno. Il titolo di que-sto ciclo di dipinti allude ad alcuni riti divinatori praticati nell’Antica Roma: l’aruspicina, di origine etrusca, consisteva nell’esame delle viscere degli animali, nelle quali sembrava riflettersi la ripartizione della volta celeste, considerando la stretta relazione fra macrocosmo e micro-cosmo. Gli auguri invece, traevano degli auspicia grazie all’osservazione del volo degli uccelli; capivano così se l’agire umano fosse approvato o meno dagli dei. La veduta aerea di questi dipinti consente di acquisire immagini che, recando la traccia della stratificazione degli elementi che si sovrap-pongono incessantemente agli interventi umani, sembrano prefigu-rare un destino di ineluttabili e forse irreversibili trasformazioni del territorio. Più in generale per noi umani, che siamo spesso coi piedi per terra e così tanto terra-terra, la veduta aerea consente al nostro sguardo di abbracciare mondo. Essa comporta, un certo distacco, un punto di vista lontano ma allo stesso tempo più vicino: ci permette infatti di comprendere il paesaggio nella sua totalità e vertiginosa imponenza.

C’è una interessante associazione tra il metodo di stratifica-zione del colore che operi sulla tela e la dimensione paesag-gio in quanto costruzione generata per livelli dall’intervento umano: è come se tu consapevolmente leggessi il paesaggio attraverso i suoi strati e scegliessi di raffigurarlo strato dopo strato attraverso l’applicazione di una serie di velature. Esiste questa comunione tra il tuo metodo operativo e il soggetto da te scelto?

Partendo dal presupposto che il paesaggio è stratificazione di tracce, eventi, storia, persone, memorie – anche il fare pittorico mostra di contenere di per sé queste caratteristiche in quanto consiste in un pro-cesso creativo e sempre nuovo: “un fare che mentre fa inventa il modo di fare”4, ma che allo stesso tempo ha a che fare sempre con la nostra memoria, con delle tracce e delle immagini precedenti. Il paesaggio che vediamo attorno a noi racchiude in sé una una sua storia, così come un quadro finito è quello che vediamo e, in un certo senso, anche tut-ti i quadri fatti in precedenza. Inoltre, nelle mie opere si trova spesso una vera e propria sedimentazione “fisica” di diversi strati di pittura, fatti asciugare e rielaborati in tempi diversi, spesso piuttosto traspa-renti, in modo fa fare intravedere “quello che c’è sotto”, per evidenziare ulteriormente questa idea di paesaggio come palinsesto. Questa me-todologia pittorica la ritengo piuttosto efficace soprattutto nelle visioni dall’alto, dove sembra si possa leggere la terra, l’acqua e tutte quelle par-ticolarità della laguna come barene, chiari, velme e bassifondi. Infine, l’utilizzo di velature molto fresche e liquide, non perfettamente control-labili, sono, a mio parere, coerenti con l’incontrollabilità del paesaggio in costante divenire: penso a degli eventi atmosferici particolari, alle maree, o a quando la vegetazione si appropria dei ruderi abbandonati.

Mi piacerebbe tornare su Forsaken I e II per aprire il discorso intorno al tuo interesse per quello che Giles Clément chiama Terzo Paesaggio.

In ambito artistico i luoghi abbandonati hanno suscitato molto spesso un certo fascino, ma credo che l’abbandono di luoghi, soprattutto quelli di un certo valore artistico e culturale (ma non solo), sia un tema piut-tosto attuale e molto importante, basti pensare ai gioielli d’Italia che stanno andando letteralmente in frantumi, ma anche alle case dei centri storici dove nessuno ci vive più (e, ancora, Venezia è un buon esem-pio) o agli edifici industriali in disuso. Il completo abbandono di questi luoghi, sciupa il potenziale culturale, artistico, storico e naturalistico; fa dimenticare questi luoghi in favore di un immaginario collettivo carat-terizzato da paesaggi stereotipati. Però, allo stesso tempo, l’abbandono consente di garantire al luogo una certa incontaminazione, una sorta di salvaguardia dal turismo di massa, una preziosa ricchezza di biodiversità e una selvaggia e naturale bellezza. Mi chiedo se può esistere una via di mezzo fra i luoghi completamente abbandonati e quelli invece del tutto

saturi, strabordanti. I dipinti Forsaken (Santo Spirito’s Island) e Forsaken II nascono da una riflessione sui luoghi marginali della laguna, una sor-ta di omaggio a questi luoghi di straordinaria ricchezza. Il titolo ha una doppia valenza, in quanto in inglese il termine forsaken è il participio passato del verbo to forsake (abbandonare), ma significa anche “tradito”.

D’estate, al Forte è uno dei tuoi lavori sul Forte Marghera, uno spazio ameno dove ciclicamente con altri tuoi compagni di Accademia ti sei trovata a lavorare. Qual è la peculiarità che rende diverso questo luogo dagli altri nel paesaggio della ter-raferma veneziana e perché queste qualità sono un valore?

L’opera citata parla di un luogo che più di tutti è emblema di una delle possibili risposte alla diatriba tra l’abbandono ed il saturo. Forte Marghera è un luogo particolarmente interessante per il suo valore storico, per la sua posizione strategica, per la sua straordinaria ricchezza naturale, che ne fa una delle aree verdi più importanti della laguna, anche perché non è (o meglio, non è più e non è ancora) un luogo del tutto antropizzato. Ha una forte identità da salvaguardare e un incredibile potenziale, sfugge alle rotte battute dal turismo di massa e all’omologazione dei luoghi che sempre più avviene per l’eccessivo sfruttamento dell’ambiente. Inoltre, è anche un buon esempio, se pur in parte, di riutilizzo di un sito che è stato per anni completamente ab-bandonato. Svolgendosi eventi, mostre, feste, laboratori è diventato da qualche anno un vero e proprio luogo di ritrovo per gli abitanti delle città limitrofe. Dal 2008, ad esempio, nel capannone n.35 del Forte ha luogo il workshop estivo di pittura e disegno dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, coordinato dal Prof. Carlo Di Raco, al quale ho parte-cipato tutte le estati dal 2009.Questo significa riutilizzare uno spazio senza stravolgerlo troppo: met-tendolo in sicurezza ovviamente, ma lasciandogli quelle caratteristiche che lo rendono unico e veramente particolare, usandolo con un fine nuovo ed intelligente, a scopo culturale o semplicemente come spazio verde fruibile per evadere dalla routine della città. Il dipinto D’estate, al Forte, nasce da un mio personale affetto verso quel luogo che ho fre-quentato e dove ho realizzato diversi lavori.

Oltre a forme architettoniche o luoghi risultato dell’intervento umano, in diverse tue opere rievochi fenomeni atmosferici o elementi naturali, mi viene in mente in particolare l’ultimo tuo quadro Posidonia. Vuoi parlarmi di questo aspetto che ritorna fin dagli inizi della tua ricerca?

Posidonia è il titolo di uno dei miei ultimi dipinti e si riferisce ad una pianta marina il cui nome deriva dal greco Poseidon, il dio del mare. Si tratta di una pianta che si trova anche nel Mediterraneo (la cosiddet-ta Posidonia oceanica), anche se la sua diffusione nei fondali sta dimi-nuendo costantemente. È una pianta importantissima per l’ecosistema marino in quanto produce circa 14 l/mq all’anno di ossigeno e funge da riparo e nutrimento per molti organismi marini come pesci, molluschi, crostacei ed echinodermi. Inoltre, forma delle praterie sottomarine che esercitano una notevole azione nella protezione della linea di costa dall’erosione. Dopo aver scoperto nelle Baleari una pianta di Posido-nia lunga circa 8 km cui è stata attribuita un’età di 100.000 anni, un recente studio ritiene che questa pianta sia uno degli organismi viventi più grandi e longevi del mondo. Mi è sembrato affascinante dedicare un quadro ad una specie vivente così antica, per sottolineare la nostra connessione con tutti gli elementi naturali e gli esseri viventi, oltre che l’importanza della salvaguardia di questa pianta, così fondamentale sotto diversi aspetti. Nei miei dipinti cerco sempre di evocare elementi naturali che rimandano alle energie sottese della natura. La materia pittorica è un ottimo strumento per alludere a fenomeni atmosferici, pian-te viventi, superfici rocciose, notti di luna piena, vento e onde. Sono estremamente affascinata dalle piante che crescono sul mio terrazzo; la superficie dell’acqua, le nuvole a volte, l’arrivo dell’autunno, un temporale inaspettato.

UNA CON- VERSAZIONE TRA EUGENIA DELFINI E VERONICA DE GIOVANELLI

_Veronica de Giovanelli nasce nel 1989 a Trento. Nel 2012 consegue il Diploma di I livello in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia e nel 2013 vince il 2° premio della 97ma Collettiva Giovani Artisti della Fondazione Bevilacqua la Masa. Nel 2014 ha esposto da ArtLacuna e trascorso un periodo di studio alla Middlesex University di Londra seguendo il corso MA Fine Art Research and Development.

_1. E. Hemingway, Di là dal fiume e tra gli alberi, Oscar Mondadori, 20092. G.M. Hopkins, A. Spadaro a cura di, traduzione di V. Papetti, Poesie scelte, BUR, 20083. Collins Dictionary of the English Language, HarperCollyns Publishers LLC, Glasgow, 20104. Luigi Pareyson, Estetica, Teoria della formatività, Tascabili Bompiani, 2010