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ASPETTI DELLA CRISI DELLA CULTURA ITALIANA ATTRAVERSO LE LETTERE DI ADOLFO OMODEO 1910 - 1946 Ci avviene spesso di sentirci tratti a riconoscere nella storia di un uomo alcuni degli aspetti fondamentali di un’epoca e tanto più quando ci accade di incontrare una forte personalità che abbia sofferto i problemi dell’età sua e li abbia vissuti drammaticamente nei giorni e nelle ore della sua propria vita. Al fine di ricostruire con la storia di un uomo la storia del suo tempo, recano un contributo essenziale le raccolte epistolari, so- prattutto quando alla ricchezza della documentazione si aggiunge il carattere organico che guida attraverso la sequenza cronologica l’analisi chiarificatrice delle vicende. La lettera, quando è espres- sione libera ed insospettata di sentimenti e di pensieri, contiene in se una sostanza preziosa che, mentre ci permette di ricreare l’atmosfera stessa in cui l’uomo vive, ci porta anche a scoprire quel fuoco profondo dal quale nasceranno le opere, facilitando l’interpretazione di quelle, spesso solo in apparenza chiuse nel loro obiettivo distacco. La validità di tutte queste considerazioni trova una testimo- nianza autorevole nell’epistolario di Adolfo Omodeo, una delle più importanti raccolte che siano uscite in questi anni 1. Essa va dal 19 10 al 1946, anno della morte dell’autore; sono 994 lettere inviate alla moglie, ai figli, ai familiari ed a parecchi amici. Man- cano purtroppo le lettere inviate al Croce, pare a causa di una disposizione testamentaria del Croce stesso; mancano altre lettere che non furono reperite; di queste qualcuna significativa cite- remo nelle pagine seguenti. E ’ necessario, tuttavia, osservare che questo epistolario come altri che raccolgono in prevalenza lettere inviate ad un familiare, in questo caso alla moglie, presenta necessariamente delle interru- 1 A. Omodeo, Lettere 1910-1946, pref. di A. Galante Garrone, Torino, Einaudi, 1963.

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Page 1: New ASPETTI DELLA CRISI DELLA CULTURA ITALIANA · 2019. 3. 5. · Aspetti della crisi della cultura italiana attraverso le lettere di Adolfo Omodeo 7 il Borgese, il Lombardo Radice,

A S P E T T I D E LL A CRISI D E LL A C U L T U R A IT A L IA N A A T T R A V E R SO LE L E T T E R E DI ADOLFO OMODEO

19 10 - 1946

Ci avviene spesso di sentirci tratti a riconoscere nella storia di un uomo alcuni degli aspetti fondamentali di un’epoca e tanto più quando ci accade di incontrare una forte personalità che abbia sofferto i problemi dell’età sua e li abbia vissuti drammaticamente nei giorni e nelle ore della sua propria vita.

A l fine di ricostruire con la storia di un uomo la storia del suo tempo, recano un contributo essenziale le raccolte epistolari, so- prattutto quando alla ricchezza della documentazione si aggiunge il carattere organico che guida attraverso la sequenza cronologica l’analisi chiarificatrice delle vicende. La lettera, quando è espres­sione libera ed insospettata di sentimenti e di pensieri, contiene in se una sostanza preziosa che, mentre ci permette di ricreare l’atmosfera stessa in cui l’uomo vive, ci porta anche a scoprire quel fuoco profondo dal quale nasceranno le opere, facilitando l’interpretazione di quelle, spesso solo in apparenza chiuse nel loro obiettivo distacco.

La validità di tutte queste considerazioni trova una testimo­nianza autorevole nell’epistolario di Adolfo Omodeo, una delle più importanti raccolte che siano uscite in questi anni1. Essa va dal 19 10 al 1946, anno della morte dell’autore; sono 994 lettere inviate alla moglie, ai figli, ai familiari ed a parecchi amici. Man­cano purtroppo le lettere inviate al Croce, pare a causa di una disposizione testamentaria del Croce stesso; mancano altre lettere che non furono reperite; di queste qualcuna significativa cite­remo nelle pagine seguenti.

E ’ necessario, tuttavia, osservare che questo epistolario come altri che raccolgono in prevalenza lettere inviate ad un familiare, in questo caso alla moglie, presenta necessariamente delle interru­

1 A . Omodeo, Lettere 1910-1946, pref. di A . Galante Garrone, Torino, Einaudi, 1963.

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zioni, che sospendono un tipo di confessione più libera. La fiducia e la confidenza infatti aprono la via alla sincera espressione dei più intimi moti dell’animo e dell’intelletto, in una parola ai giu- dizi, che nella corrispondenza con altri, anche sicuri amici, escono di necessità più controllati, seppur escono, specialmente in tempi difficili e nelle crisi dolorose dei rapporti umani che i tempi dif­fìcili portano con se.

Solo da poche lettere ad amici, sono ricordati gli anni dal 1920 al 1924 e dal 1926 al 19 3 1 ; ci mancano interamente scritti che portino la data del 1925, nonostante alcuni dubbi riguardo a una o due lettere.

Dal 1932 in avanti appare un maggior numero di corrispon­denze inviate molto saltuariamente a pochi amici, alla moglie ed ai figli; lo scambio si fa invece più intenso e vario dal 1941 al 1945, salvo per il 1944 quando di appena 19 lettere, 15 sono destinate al figlio Pietro prigioniero in Africa.

Putroppo, come è logico, le lacune alle quali abbiamo accen­nato, ci privano della testimonianza di momenti storici assai im­portanti, come, ad esempio, le vicende della vita politica italiana del 1925; di tali momenti, infatti, possiamo cogliere soltanto i riflessi frammentari nelle corrispondenze successive. Tuttavia, se certe lacune sono gravi, pure chi legge questo epistolario non ha l’impressione che l’atmosfera si sospenda; questo arco di vita ap- poggia su due basi estreme così ampie e così ricche di elementi, che non si spezza mai, anche se per necessità è interrotto da pa­rentesi più o meno lunghe, dentro le quali è pur facile al lettore intelligente avvertire la materia che manca.

La serie di corrispondenze che vanno dall’8 marzo 19 16 al 4 novembre 1918, costituisce la preziosa fondamentale documen­tazione della guerra; essa è preceduta da numerose lettere degli anni dal 1 9 1 1 al 19 15 in cui già riecheggiano tutti i motivi in­formatori dell’intensa vita di Adolfo Omodeo, studioso, soldato ed uomo politico.

In questa sezione dell’epistolario, dal 1 9 1 1 al 1918 , dalla pri­ma giovinezza fino alla compiuta esperienza della guerra, si pos­sono cogliere già tutti i fattori essenziali della personalità del­l’autore, che rivela fin dai primi moti i caratteri fermi di quel

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processo lineare che nell’ultimo Omodeo ci farà ritrovare ancora lo slancio del giovane che il 24 ottobre 1 9 1 1 scriveva:

« Ho una sete intensa di poesia, di operosità, di lavoro fecondo, ho sete di Dio ».

E più avanti commentando i primi successi della guerra di Libia:

« Io amo la mia terra, la cultura e la tradizione della mia gente, con un’intensità d’affetto tanto più profonda quanto meno apparente. Il luogo comune del patriottardismo nazionalistico, l’entusiasmo prorompente smo­dato, l’offende questo mio amor patrio» (24 ottobre 19 11 a Èva Zona).

E un mese dopo confessava un suo sogno:« La patria nuova : è questo di cui abbiamo bisogno : non la patria

vecchia, la patria dei retori, ma la patria vivo senso, aspirazione dell'anima rinnovata, che la patria, diceva Mazzini, è la coscienza della patria. E io sono figlio di Mazzini... E in questo vasto ideale converge tutta la mia vita e lo storico, l’erudito vi collaborant», anche se non immediatamente. Perchè, se io mi fo beffe dell’insulsa frase ciceroniana dell’« historia ma- gistra vitae » pure considero la storia come il momento più elevato dello spirito, in cui, sussunto entro di se il passato, l’anima si sente signora del- l’avvenire, libera creatrice come Iddio» (a Èva Zona, 14 novembre 19 11).

Con questo sogno l’Omodeo s’avvia a percorrere i primi passi sul cammino degli studi e del lavoro, in un’epoca in cui un gkv vane che avesse voluto intraprendere la carriera dello studioso e fosse sprovveduto di mezzi suoi, doveva affrontare aspre diffi­coltà ed imporsi una dura disciplina di rinuncia e di sacrificio.

La società in quel tempo non offriva molte strade; all’uomo di studio non si apriva che la carriera scolastica, mal tollerata nella maggior parte dei casi, accettata a malincuore come mezzo per risolvere il problema pratico della vita, nell’attesa impaziente di poter almeno evadere verso l’ insegnamento superiore.

Non sarebbe forse inopportuno osservare qui di sfuggita che una ricerca spregiudicata di storia del costume potrebbe, a questo proposito, smentire tante affermazioni convenzionali, e porterebbe a considerare il problema della scuola nel passato e nel presente sotto punti di vista meno astratti e meno retorici e più realistici; forse uno scarso ottimismo potrebbe anche concludere che si tratta di un problema insolubile.

Così, in fondo, pensava anche l’Omodeo quando anni più tardi nel 19 19 in uno scritto pubblicato nell’ « Educazione na­

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zionale » facendo un accurato esame di tutti gli aspetti negativi del problema, giungeva a conclusioni che si potevano' concretare tutte in un giudizio scoraggiante sulla scuola:

« Siamo caduti così in basso perchè il nostro è un mondo senza sele- zione: c’è posto per tu tti» 2.

Vediamo pertanto l’Omodeo professore in una scuola tecnica di Catania: ,

« ... [i colleghi] tranne qualche trivialità, tutte buone persone: certo che con nessuna potrò avere una vera e viva comunicazione spirituale : già comincia a sembrare una cosa strana la mia qualità di professore stu- dioso » (a Èva Zona, 5 ottobre 1912).

Qualche mese più tardi scrive al Gentile:

« La mia scuola è sempre la stessa : non è il tempo, non è la fatica che mi costa che affligge, ma la completa sterilità della mia opera. Con più di duecento scolari, non ho un vero scolaro. E la colpa non è mia, lo sento. Le scolaresche non esigono che un professore burocratico, il professore del voto e del bollo di licenza, e non vogliono saper d’altro. E ’ triste, ma mi ci rassegno sperando di uscir presto da questa galera delle scuole tecniche» (a G. Gentile, 13 febbraio 1913).

Le mortificanti esperienze pure non abbattono e non abbat- teranno mai il suo animo che la riflessione e la visione razionale delle cose salveranno sempre in ogni momento della vita secondo la severa esortazione socratica: affidati al ragionamento come ad un medico.

« E bisogna farsi animo e, poiché il mondo è fatto di creta, non ri­fuggire dall’impastarci pure le mani con la sicurezza che quel fango non arriverà mai all’anima nostra. Dico che le cose volgari non dobbiamo rifuggirle, ma dobbiamo vigorosamente affrontarle e superarle quotidia­namente » (a Èva Zona, 6 maggio 1913).

Con questi propositi l’Omodeo va incontro alle quotidiane dif­ficoltà della vita, divisa tra la scuola, i concorsi per l ’insegna-mento, la piccola eterna storia delle ingiustizie e degli intrighie delle delusioni da una parte e l’appassionato studio dall’altra,al quale lo chiamava l’ ingegno con tutte le sue speranze. T ra­spare fin da allora da queste lettere il mondo dei maestri, degli avversari e degli amici, quel mondo che incontriamo nella storia della cultura italiana: il Gentile, il Donadoni, il De Ruggiero,

2 A . Omodeo, Libertà e storia, Torino, 1960, p. 15.

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il Borgese, il Lombardo Radice, il Silva e parecchi altri; il Croce, che pur avrà tanta parte nella vita dell’Omodeo, è apparso finora soltanto di scorcio, intravisto appena in qualche fuggevole incon- tro, e, soprattutto, attraverso le opere.

Il 22 dicembre 1914 , da Cefalù dove insegnava, l ’Omodeo scriveva al Donadoni:

« Mi preoccupa non poco la crisi europea, in cui secondo ogni pro­babilità dovrà impegnarsi l'Italia. Ma se si spiegherà nuovamente la ban­diera del risorgimento, ci sarò anch’io: costi che costi » (22 dicembre 1914).

Si annuncia cosi anche per l ’Omodeo come per tutta la gio­ventù italiana di quegli anni, l’esperienza fondamentale della vita: la partecipazione alla guerra che sarebbe stata per tutti la rottura con quel mondo di speranze e di consuetudini che pareva tanto sicuro; per molti, più sensibili e più pensosi, la rivelazione subi­tanea e drammatica di problemi che la coscienza e l ’intelletto avevano già presentito; per troppi, infine, sarebbe stata l’espe­rienza suprema della morte.

La guerra coglie l’Omodeo in pieno fervore di studi che fino a questo momento sono le ricerche sulla storia del Cristianesimo, dalla quale egli partirà per ampliare sempre più la sfera dei suoi interessi di storico, come vedremo; lo coglie anche in un momento felice della sua vita di uomo che ha fondato la sua famiglia; l’ n luglio 19 15 sul punto di partire per Messina come sottote­nente di artiglieria scrive al Gentile;

« Ho seppellito per ora i miei studi e voglio essere solamente sol­dato ».

Con quale animo ha affrontato il nuovo destino lo rivela una lettera del 26 settembre 19 15 dal Forte di Menaia alla moglie:

« D ’andar su non mi preoccupo, come fanno tant’altri. Nè timori nè esaltazioni : seguo il corso degli eventi che mi porterà dove è giusto che mi porti... Molte cose mi fan cara la vita... ma appunto perchè amo la vita non la macchierei d’una viltà o di un sotterfugio per timore della morte ».

Lo spirito indagatore delio storico e l’ interesse umano lo por­tano a studiare l’anonimo protagonista della guerra, il soldato:

« Il soldato non è un personaggio melodrammatico pieno di fanatico slancio, sicuro del fatto suo, a cui importi poco vivere o morire, il cliché ridotto dello spartano alle Termopili che sogliono dipingere i giornali. Sono, invece, anime in crisi in cui il pensiero e l’immagine della morte

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sempre presenti suscitano spasimi ed entusiasmi; vogliono vivere e perciò sanno anche combattere. E ’ più bello intendere la profonda umanità dei combattenti: li si ammira di più; perchè si può meglio apprezzare il loro tragico sforzo. Invece in Italia, il paese della retorica, anche i nostri buoni soldati, buoni sul serio, devono essere travestiti secondo un tipo con- venzionale » (alla moglie, i aprile 1916).

In queste osservazioni si rivela già il futuro scrittore dei « Momenti della vita di guerra ». L ’esperienza della guerra guer­reggiata non tarda a giungere; POmodeo partecipa con la sua sezione di artiglieria all’offensiva sull’ Isonzo nell’estate del 1916, che porterà alla conquista di Gorizia; l’entusiasmo dell’azione è, tuttavia, in lui segnato qua e là da sospensioni piene di interro­gativi che scaturiscono dalla non sopita consapevolezza dell’uomo di meditazione:

« Nel tumulto dell’azione non arrivo a penetrar bene il corso della storia di questi anni turbolenti : mi par d ’essere come travolto da una marea. Assorto nello sforzo d’affermare il diritto d’Italia in questo con­flitto di popoli, non arrivo a raggiungere un punto di vista storico che mi soddisfi. Insoddisfatto delle spiegazioni della guerra che danno le parti in conflitto, non ne trovo neppur io una che mi soddisfi. Sento più che non mi spieghi il diritto d’Italia per cui si combatte. Ad altri giorni questa più serena speculazione sulla nostra guerra: ora devo montare gli obici della nuova posizione» (a G. Gentile, Z. d. g., 27 agosto 1916).

Il soldato che ha la vaga coscienza di combattere per un fine ideale che è l’affermazione di un diritto, non fa tacere in lui lo storico che di tale diritto esige la persuasione razionale; è tuttavia un attimo solo, oggi anche l’uomo di pensiero non sente altro imperativo che l’azione. Questo processo critico e le riflessioni più o meno serene che esso porta con se spetteranno « ad altri giorni ».

Siamo nell'estate del 19 16 sul Carso; Gorizia è stata espu­gnata da poche settimane, la batteria dell’Omodeo ha partecipato attivamente alla battaglia; l’entusiasmo della vittoria cede il passo alla malinconica osservazione:

« Troppe manchevolezze, troppe colpe, troppi torti verso la nostra patria avevamo; e la guerra prima della vittoria dev’essere un lungo pur­gatorio delle nostre colpe nazionali. Speriamo che venga presto la libe­razione da questo limbo, non foss’altro per merito dei poveri morti, che a migliaia a migliaia riposano su questi colli maledetti dell’Isonzo; a pas­sare per quei cimiteri sterminati si prova una stretta d'angoscia al cuore » (a G. Gentile, Z. d. g., 16 settembre 1916).

Dinanzi sta la materia umana di questa Italia che, improv­

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visandosi guerriera, ha chiesto ai suoi figli prove tremende di virtù e di valore:

« Forse la cosa più commovente della guerra è la sublime pazienza alla più perfida vita. Pazienza nei soldati, pazienza negli ufficiali. Ragazzi imberbi, studenti che hanno lasciato con la scuola i comodi delle loro case, divenuti sottotenenti improvvisati, comandano le compagnie, dormono a ciel sereno, tremano di freddo sotto la tenda, si tirano appresso i soldati nella trincea fangosa, combattono e muoiono » (alla moglie, z. d. g., 29 set­tembre 1916).

« E ’, dice l’Omodeo, il lato bello della nostra borghesia che si nobilita in guerra ». La sostanza di queste considerazioni che scaturiscono da un continuo assillante esame critico della realtà psicologica della guerra, riecheggia più avanti in una lettera al giovane cognato che si appresta a combattere:

« Più ancora che il rischio t’opprimerà il disagio, più che la fatica ti snerveranno le lunghe attese, le stasi opprimenti. La guerra ti si pre­senterà sotto una faccia ben diversa da quella che tu immagini nella bal­danza dei diciotto anni. Bada di non fare come tanti che non trovando la guerra bella ed eroica nella foggia che si sono immaginati sbuffano e sbraitano, e buoni soldati per una guerra immaginaria, sono cattivi nella guerra reale» (a Casimiro Zona, z. d. g., 3 aprile 1917).

Dalla cruda esperienza della guerra l’uomo sente che verrà una radicale trasformazione di tutto il suo essere, che ne uscirà più maturo ma « molto martellato »; qualche mese dopo confes­serà più esplicitamente:

« Non so, ho come l’impressione che la mia vita debba essere sfregiata come da una cicatrice perpetua, da questi anni di guerra, e di lontananza che han logorato la mia giovinezza e mi fan credere vecchio a ventotto anni » (alla moglie, Begliano, 19 settembre 1917).

Tutto questo ordine di sensazioni è a tratti sopraffatto da un’onda nostalgica:

« Mi sento molto rimoto da quel che ero prima della guerra anche in fatto di studi : non so dire con precisione : ma sento che devo supe­rare la parola del cannone; il che, ben più che non paia, implica una profonda trasformazione dei problemi. Certo, non sarà un affar semplice raccogliere il povero testone inselvatichito come la vigna di Lorenzo Tra­maglino : vorrei parlare con persone colte, risentire mille voci e mille impressioni ora remote come il mondo della luna; in una parola, ripigliar me stesso in raccoglimento e quiete, prima di riprendere il filo della mia povera opera mille volte intermessa » (alla moglie, z. d. g., 12 gennaio 1917).

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I O B ia n c a C e v a

Sentimenti che non possono tuttavia cancellare la tragica vi- sione di un crepuscolo sul Carso:

« Vien giù la sera grigia a coprire la landa carsica. Lontano il San Mi­chele maledetto. Più vicino Doberdò desolato; e poi, le quote su cui ser- peggian le trincee. Un martellare inquieto d’artiglierie, qualche fucilata che crepita; la sonnolenza irrequieta della guerra vien giù colla sera » (alla moglie, Osservatorio, 26 marzo 1917).

Il pensiero dell’Omodeo corre all’avvenire, egli cerca di im­maginare quale sarà la situazione dell’ Italia uscita dalla guerra:

« Ho bisogno di raccapezzarmi in tante cose, di studiare bene la posizione spirituale mia e del mondo in cui vivo. E sento che, a guerra finita, ci saranno' tante e poi tante lotte da combattere, perchè, dopo aver impegnato la nazione in una così dura lotta, non si possono trascurare a pace conchiusa i problemi che ne conseguiranno e la lotta degli inte­ressi generali, perchè la esperienza di guerra mi ha dimostrato che ogni colpa ed ogni errore dei governi passati e presenti,’ ogni incuria della cosa pubblica da parte dei cittadini s’è pagata ed espiata con sangue pre­ziosissimo, con tesori enormi bruciati dalla guerra, con le sofferenze tre­mende di questa crisi» (alla moglie, z. d. g., 22 aprile 1917).

Nel maggio del 1 9 17 mentre nelia temporanea stasi traduce l’Apocalisse:

« ... scritto molto consono alle doglie del mondo presente »

coglie i preoccupanti motivi di un fatale abbattimento degli spiriti:

« ... ho come l’impressione che alle nostre spalle la nazione si sia un po’ accasciata, e come sempre sia pessimamente governata. E ’ la cancrena d’Italia l’incapacità di governarsi. Almeno fruttasse la dura lezione della guerra! Ma abbiamo sempre al governo o vacuità assolute o uomini ba­cati » (alla moglie, z. d. g., 21 maggio 1917).

Lo scambio di lettere con la moglie è in questi mesi ricco di osservazioni letterarie religiose e politiche: si colgono qua e là acuti giudizi che si rifletteranno sulle future considerazioni dello storico:

« Non so, forse sarà perchè nessuno è giudice equanime dell’età sua, sento assai poca grandezza in questa guerra mondiale. Il Kolossal di cui è suggellata questa guerra d’iniziativa tedesca non è il grande: è il farra­ginoso, è un barocchismo. E mi pare che le scaramucce di Maratona, di Calatafimi di Valmy valessero ciascuna per sè ben più di questa guerra triennale, come grandezza morale e storica. Tolstoi trova piccolo Napo­leone il grande : chissà che avrebbe detto di Guglielmo, di Wilson e tutti i grandi uomini di quest’epoca? » (alla moglie, Carlino, 8 agosto 1917).

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Aspetti della crisi della cultura italiana attraverso le lettere di Adolfo Omodeo i

Tutto il dramma di Caporetto rivive nell’ immediatezza e nella forza del racconto che leggiamo in una lettera alla moglie del 19 novembre 1 9 17 :

« Quello che m’è passato per l ’animo non te lo posso descrivere, anima cara, dalla notte fra il 25 e il 26, quando giunse l’ordine di riti' rata, fino a questi giorni che pare si riconsolidi la linea. L'incubo orrendo di quella prima notte : smontare i pezzi dalle istallazioni, metterli sugli affusti di via; e intorno turbinavano camions a sfollare le retrovie dei materiali recuperabili e le trattrici che trainavano le artiglierie. Pareva un delirio, un sogno pauroso. E la mattina, quando riapparve la luce, il pae­saggio mi parve trasfigurato. Pareva che la pace, il silenzio fosse ritornato sul Carso desolato, sul San Michele, sul Sei Busi, sul Faiti tormentato, parevano una rievocazione di cose vedute e che non dovevano più ritor­nare davanti agli occhi. Poi, i nemici cominciarono un fuoco d’inferno sulle nostre linee. Occuparono il Faiti, ma furono ributtati subito. Le fan­terie resistevano. Ma la ritirata della IIIa armata continuava per una scon­fitta non nostra... L ’esercito si va ripigliando e fra non molto spero di rivederlo ricostituito e risollevato. Tutto questo però se i cittadini non continueranno nell’opera parricida di disgregamento : se in Parlamento non si continueranno a giocare partite elettorali puntando sulle carte i destini della patria, se le città non tumultueranno perchè saran private dei grissini. Tali cittadini, tali governanti disfanno l’esercito, perchè il loro contegno è un insulto per chi tutto rischia nell’impresa : sono essi che hanno aperto al nemico le porte d’Italia: e t’assicuro che più che la sconfitta grava la vergogna; e se odio il tedesco, ancora più abomino i tedeschi d’Italia» (alla moglie, 19 novembre 1917.).

Un ripensamento della sua passione di interventista, che tro­verà certo un’eco nel cuore di coloro che a quella guerra parteci­parono con lo stesso animo dell’Omodeo e che oggi dopo cin­quantanni possono con sereno distacco rivivere la fatale espe­rienza della loro giovinezza, è contenuto in una lettera dellTi mar­zo 1918, alla moglie:

« Ti confesso che non mi pare che mi sia mai mancato l’entu­siasmo : solo che in me e per fortuna in tanti altri, dinanzi alla difficoltà profondissima d’investire del proprio sentimento la massa amorfa della nazione, il contadino", l’ignorante che forman la massa dei soldati, l’en­tusiasmo s’è scaltrito, è divenuto più pacato e rassegnato : s’è dovuto adattare ad una forma scevra d’effervescenza e di ribollimento. Davanti ai miei soldati rarissimamente pronuncio la parola « patria », non faccio mai paroioni, li conosco diffidenti e repellenti a entusiasmi, perchè dinanzi alla visione reale della morte, credimi, bisogna che gli entusiasmi sian ben radicati e diventino fede profonda per reggere. E mi sforzo di edu­carli più virili e coraggiosi, insensibilmente, a poco a poco, senza che scorgano e s’insospettiscano del mio proposito di creare lo stato d'animo

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della santa cocciutaggine. Eppure, non credo d’essere frigido : mi dor- rebbe assai se mi togliessero dalla linea di combattimento e sento che saprei anche morire da coraggioso.

Il compito del garibaldinismo era del tutto diverso: allora bastavan pochi avventurosi per scrollare vecchi edifici tarlati come l’assolutismo metternichiano, lo stato borbonico, la teocrazia papale (eppure, quale vi­cenda di delusioni e di tracolli!); e ora si tratta d’animare la pigra mole di tutta la nazione fin nelle ultime molecole, di farla resistere al paragone e al cozzo di organismi nazionali e statali ben altrimenti saldi e forti. Non ho mai sentita così remota da me l’epoca del nostro Risorgimento, come adesso. Ben altra è la fisionomia storica dell’età nostra. E, credimi, tenacia tenacia occorre, cioè entusiasmo ribadito e trafilato. Ogni altro entusiasmo è falso, è sbandieramento, gridio di « Viva l’Italia! », enfasi da discorsi di deputati che non passan la buccia, che non impediranno domani di bestemmiare se il pane è razionato, o di spendere al cinema­tografo i soldi che bisognerebbe dare al prestito.

Quanti di questi entusiasmi ho visto naufragare nel fango immondo delle trincee, o sbollire nell’agonia dei lunghi bombardamenti! Uomini duri, una generazione di ferro ci occorre e vinceremo. E così sia ».

Si annuncia, ormai l’ora della grande ultima offensiva, quella che porterà alla vittoria italiana;

« C’è in me qualcosa d’implacato e d’implacabile da allora in poi, e non m’è bastata la scorsa battaglia del Piave, in cui coi miei cannoni ho contribuito a sterminare il fiore dell’Ungheria, non mi soddisfano ancora i successi di questi giorni; quel che ho patito allora è così terri­bile che ancora adesso non ho finito di gustarne l’amarezza » (alla mo­glie, z. d. g., 28 ottobre 1918). « Certo davanti a noi il terreno oggi do­veva essere sgombro, ma lo sgombero poteva essere conseguenza d’uno sfondamento dalle parti di Vittorio Veneto. Non so che darei perchè si trattasse d’una disfatta nemica : che gustino anche loro la sventura, e fulminea e irreparabile, e che lo sterminio li colga sulla terra d’Italia. Strane queste improvvise catastrofi d’eserciti poderosi! Ma, comunque sia. le cose vanno bene e io, vecchia vedetta del Piave, me ne compiaccio, perchè nell’evento prospero sento il frutto d’una tenacia ch’è anche mia, d’un coraggio di ripresa dopo la disfatta a cui ho partecipato con tutte le forze dell’animo e con tutte le mie energie di comando. Faccio un po’ come il vecchio Dio: « Vidit omnia quae fecerat et erant valde bona».

Ma certo ora posso adeguatamente stimare la forza d’animo che ci volle a partita perduta, dopo anni di spaventosi sacrifici sul Carso per dire : « Fa nulla, cominciamo da capo » e potrò con vanto dire : « Io fui di quelli, e da me attinsero forza e tenacia i miei soldati » (alla moglie, z. d. g., 30 ottobre 1918). «V iva l’Italia! Il nemico ha sgombrato la riva di Piave di fronte a noi, e si spera che sgombri tutta la riva destra. Tre­ma il cuore di gioia, e la febbre fugge via dalle vene. Abbiamo restituito l’esercito d’Italia e ridato l’onore alla nazione, e chiunque ha vissuto le

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giornate scorse potrà dir con vanto d’esservi stato » (alla moglie, s. d., ma 3 1 ottobre 1918).

A ll’annuncio deH’armistizio, balza al cuore il sogno della casa lontana:

« E insieme una cristallina serenità di coscienza per quello che si è sperato, per quello che si è sofferto, per le angosce patite, per le lacri- me versate nella ritirata amara, per la morte tante volte guardata in volto. Ormai è la fine » (alla moglie, Fagarè, 4 novembre 1918).

Nelle lettere successive si manifestano già i primi sintomi di quella crisi del dopo guerra, dalla quale si svilupperà tutta quella fitta germinazione di problemi che tormenteranno la vita della nazione, prostrata dalla grande prova, e ne segneranno l’inesora- bile destino.

La voce dell’Omodeo si confonde allora con l’immenso coro di protesta dei superstiti dalla guerra, che si leva subito all’in- domani della vittoria:

« Certo, ho un gran desiderio di tornare, ma voi, cari borghesi, siate un pochino meno spaventati di quanto ci si accorge dai discorsi e dagli articoli di giornali del nostro ritorno : a momenti pare che si debba schiu­dere un’immensa galera. Invece i bravi soldati sono tranquillissimi e di­sciplinatissimi. Certamente, qualche pugno pesterà la schiena di qualche imboscato : poco danno. Certamente, bisognerà dar lavoro ai reduci; ma, se i signori che sono all’interno si spaventano di meno, non s’impappine­ranno : e, se chiaccherassero di meno, meno ghiribizzi sveglierebbero in qualche testa calda. Li impieghino rapidamente in lavori e industrie i capitali guadagnati in guerra, anche se non ci saranno grossi guadagni, anche se ci sarà qualche perdita, i cafoni arricchiti facciano meno sfarzi, si stiano zitti e quieti, e tutto andrà liscio. Bisognerebbe anche invitare i signori diplomatici a tergiversare meno e, per quanto complessi siano i problemi della pace, ad affrontarli di petto e subito e a non stancare la pazienza di nessuno. Così la vedo la situazione. Certo bisognerà, per evitare violenze, che chi ha guadagnato esageratamente sia disposto a rigurgitare un po’ dei suoi guadagni. Bisogna che lo facciano di buona grazia» (alla moglie, Carbonera, 17 novembre 1918).

Noi sentiamo qui tutti i motivi dell’immediato e del lontano futuro, sentiamo il combattente che ha diviso giorno per giorno le fatiche, gli sforzi, i sacrifìci, le ribellioni dei soldati e che ne coglie e condivide l’anelito di giustizia. Se negli sfoghi che leg­giamo nelle lettere di questi mesi, prevale, come è naturale, l’uomo di passione, tuttavia, possiamo scorgere qua e là qualche momento di riflessione al quale lo storico che è in lui non può suo mal­

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grado rinunciare; egli infatti vede già nel caos qualche triste bar- lume di verità:

« ... temo che la pace sia stata uccisa una volta per sempre il lu- g.lio 19 14 » (25 novembre 1918, alla moglie). « Tutto fa credere che si tornerà alla vecchia Italia, con una burocrazia affamata e rivoluzionaria e un governo debole e imprevidente» (15 dicembre 1918, alla moglie).

Lo stato d’animo del combattente che, appena cessato il fra­gore delle armi, ripiega se stesso ad ascoltare le voci desolate del suo io più profondo e si sforza di cogliere qua e là qualche luce di speranza, sola condizione per continuare a vivere ancora, è tutto espresso nella lettera del 16 dicembre 1918 , alla moglie:

« ... Par quasi che la nostra vita spirituale anteriore alla guerra sia defunta sul serio, una nostalgia profonda per un momento di vita più rigoglioso che non questo gelido inverno del fin di guerra. Ma risorge­remo. Tante cose paiono avvizzite e distrutte, tanti pensieri son defunti del tutto, la guerra ha distrutto tanti atteggiamenti spirituali più radi­calmente di una ben congegnata discussione. Si sente il bisogno di una revisione del nostro pensiero, d’un esame più rigoroso di noi stessi. Se ti dovessi dire con precisione che cosa è morto dentro il mio spirito in questi quattro anni, non saprei dirti : mi sento ancora incapace d’una accurata disamina; ma tante cose, tante concezioni ormai mi lasciano freddo: impressione che provo leggendo articoli di Gentile o di De Rug­giero, in cui certi pensieri si son pietrificati in un « cliché » che dà copie sempre più sbiadite. Ora avrei bisogno di grande raccoglimento.

Riflettendoci bene, desidererei potere non insegnare per almeno un anno: perchè mi pare che per insegnare bisognerebbe ricostruire un pen­siero vivido e caldo che animi ed avvinca. Anche qui si tratta [di] ri- costruzione del dopoguerra.

Situazione penosa la nostra, di passeri sbattuti dall’uragano, di gente smarrita nella nebbia: si va fluttuando incerti tutti quanti, in ogni cam­po, barcollando a tentoni; pare che sia morto il sole che orienta e illumina. Ma si tornerà a vivere, o meglio ritroveremo una migliore vita ».

Congedato nei primi giorni del 1919, a fatica inserito nella vita degli studi e della scuola, professore di scuola tecnica a Ce- falù più tardi chiamato a ricoprire per incarico la cattedra di Storia della Chiesa nell’Università di Messina, assiste sdegnato ed incerto alle fasi drammatiche della crisi italiana: da un lato il travaglio penoso delle trattative diplomatiche, dall’altro la de­pressione interna che si manifesta nelle forme più convulse: scio­peri, disordini, miseria e fame, di fronte all’ incapacità dei gover­nanti a dominare una situazione diffìcile che avrebbe richiesto virtù quasi introvabili nella storia dei governi italiani, un alto

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concetto di giustizia e la ferma energia per attuarne le forme pra- tiche nell’ interesse di tutto il popolo, in una parola: il senso dello stato.

. « E viene una grande tristezza, sai, a questa fatale dissoluzione so- dale, come dinanzi a una grave malattia di persona cara. E quel che rattrista è questo : che in tale situazione, così come sono impostate le cose, mi sento uno spostato... » (8 luglio 1919, alla moglie ).

Qualche giorno più tardi confessa al Gentile:« ... mi domando spaventato come si rinnoverà la vita pubblica ita-

liana; perchè, è inutile nasconderselo, le classi dirigenti han fatto banca- rotta » (23 luglio 1919).

La ripresa dell’insegnamento medio rinnova in lui l’antica avversione alla umiliante prassi della scuola:

« Oggi c’è stato un quid simile d’un consiglio di professori e ne sono uscito mezzo sconcertato : alza, abbassa voti, boccia, promuovi. Qual­cosa di nauseabondo, perchè dovunque era assente ogni sintomo di co­scienziosità e di serietà morale. Di miserie umane ne ho viste assai in guerra, ma mi pare che nulla sia così profondamente immorale e disgu­stoso come il retrobottega della scuola : qualcosa di simoniaco, dove i più elevati valori vengono trattati alla stregua delle più misere cose » (io ot­tobre 1919, alla moglie).

Le corrispondenze si fanno più rare negli anni immediata­mente successivi; le poche lettere dell’Omodeo al Gentile tra il 1920 e il 1922 testimoniano con la devozione al suo antico pro­fessore anche il rinnovato fervore di studi, accanto alle preoccu­pazioni per la sua carriera di insegnante, accompagnate dall’assillo costante di provvedere adeguatamente ai bisogni della famiglia.

In una lettera inedita al Gentile il 29 ottobre 1922, all’in- domani della marcia su Roma, cogliamo, tuttavia, una frase rive­latrice dei prodromi di quel processo in cui vedremo più tardi concludersi il dramma dell’allievo che la retta coscienza porterà, suo malgrado, a giudicare e a condannare il maestro.

« Mi auguro che questa mia Le giunga quando sarà dissipato l’ incubo che grava su tutta l’Italia ».

Per ora non sembra che l’Omodeo si induca ad accomunare l’uomo di cultura, Giovanni Gentile, ai capi della fazione che ha assunto il potere in Italia; in questi primi momenti di disorien­tamento per la maggior parte degli italiani, anche tra coloro che pur non erano disposti ad approvare uomini e sistemi e che

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intravvedevano nei recenti avvenimenti minacce oscure per l ’av­venire della Nazione, era difficile stabilire responsabilità precise che solo più tardi si riveleranno. Così vediamo l’Omodeo lieto per la nomina del Gentile a ministro della Pubblica Istruzione:

« La sua nomina al Ministero m’ha dato una gran gioia, ma al tempo stesso una grande preoccupazione per Lei. So quante difficoltà si frap­pongono sulla Sua via, quanto scarsi siano i mezzi di cui potrà disporre, e quanti odi si attirerà perchè più che creare nuove leggi bisognerà far rispettare quelle che vi sono, con un lavoro di polizia, fecondo d’inimi­cizie. Io seguo con trepidazione la Sua opera e con l’augurio che sia fe­conda di bene» (a G. Gentile, io novembre 1922).

Le speranze dei giovani studiosi usciti dalla scuola del filo­sofo palermitano, quando durava ancora la sua solidale collabo- razione col Croce, erano poste soprattutto nell’attuazione della riforma scolastica, che ebbe nome dal Gentile, per quanto ispirata dal Croce stesso. In una lettera dell’Omodeo a Vito Fazio-Allmayer leggiamo:

« Ti son parso freddo? Per nulla! Solo preoccupato: perchè so quanto poco valgano in Italia (e forse fuori) le leggi senza chi vi ponga mano energicamente, e il mio desiderio vivissimo è che G(entile) possa appli­carla lui, senza di che la riforma sarebbe compromessa. Divido profon­damente i criteri ispiratori, e ho ammirato il profondo senso liberale di tutta la riforma. Ho già scritto da un pezzo a G(entile) congratulandomi. Che faccia rigar diritti i professori, adesso che fanno come le vespe a cui si sia bruciato il bugno! Poche parole (a differenza dei fascisti che ne fanno, mi pare, troppe e molte fuori chiave) » (a Vito Fazio - Allmayer, s. d., ma 12 maggio 1923).

Nonostante il tono entusiasta di questa lettera, l’Omodeo co­glieva fin d’allora la fragilità delle basi sulle quali la riforma si appoggiava; lo confesserà molti anni dopo:

« ... non ero tra i fanatici della riforma scolastica che si compiva in quegli anni, perchè avevo l’impressione che alla riforma non corrispon­desse un sentimento pubblico capace di sostenerla » 3.

Giunto per concorso all’insegnamento universitario, ai primi del 1923 l’Omodeo occupa la cattedra di storia antica nell’Uni­versità di Catania e successivamente quella di Storia del Cristia­nesimo nell’Università di Napoli, che tenne fino alla fine della vita, in mezzo a continui contrasti ed opposizioni dell’ambiente accademico.

3 La collaborazione con Croce durante il ventennio, in « Libertà e storia », Torino, i960, p. 49O.

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L ’incessante pratica degli studi storici, testimoniata dalle pub' blicazioni di quegli anni, tra le quali primeggia la « Storia delle Origini Cristiane » ed in particolare la monografia su Paolo di Tarso, ed il lavoro assillante non distolgono lo sguardo dell’Omo' deo dai gravi problemi che ogni giorno affiorano dalle vicende politiche; la crisi provocata dall’assassinio di Giacomo Matteotti scopre il volto inequivocabile della realtà:

« Per la questione politica, anch’io ho scarsissima stima delle oppo' sizioni. Ciò però non impedisce che questo governo della teppa, questa demolizione folle d ’ogni norma giuridica e morale e di quelle scarne tra­dizioni nazionali che si erano costituite in settant’anni, che questo delirio futuristico dello stato fascista che si deve sostituire, per un cerebrale arbi­trio, allo stato liberale, siano un disastro nazionale. Ora, come agire? » (a G. Gentile, 27 agosto 1924).

In quell’anno l’amicizia e la devozione dell’Omodeo per il Gentile cominciavano a raffreddarsi, soprattutto dinanzi agli atteg­giamenti di scarsa dignità che il filosofo assunse dopo il suo allon­tanamento dal Governo, insistendo a teorizzare su lo Stato forte e su lo Stato etico e sforzandosi così di offrire al fascismo trion­fante una base astratta di teorie filosofiche e di pure ideologie, che nessuno gli chiedeva e di cui nessuno dei protagonisti del regime, a cominciare da Mussolini, sentiva il bisogno.

Così commenta l’Omodeo un articolo del Gentile su « L ’ Idea Nazionale » :

« Per quanto scaltrito negli scherzi maliziosi della storia, Le confesso che non arrivo a scorgere non dico l’aderenza, ma nemmeno il germe del suo programma in questo rivoluzionarismo allo stato cronico, che con tanta leggerezza sovverte ogni norma giuridica e morale, senza crearne una nuova; che dà così facile prevalenza agli avventurieri e ai mercenari; che dissipa l’autorità dello stato in un feudalesimo provinciale, sovverti­tore e corruttore; che con tanta leggerezza viola tradizioni che bisogne­rebbe consolidare; che rompe l’unità morale dei cittadini che dovrebbe sussistere pur nella più accanita lotta dei partiti; che confonde milizia con vita politica, stato con partito, monarchia con un cesarismo presi­denziale.

Non arrivo a scorgere neppure lo stato forte, come non arrivo a scorgere lo stato etico, perchè non credo che la violenza sia forza; perchè non credo che per esser forti sia necessario tener sempre in parate le forze, e impegnarle tutte in prima linea, come faceva Cadorna prima di Caporetto; perchè questa forza che si esplica nella minaccia e nell’incubo della guerra civile si logora, e ne logora e distoglie infinite altre da scopi nazionali » (a G. Gentile, 15 ottobre 1924).

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Segue nella stessa lettera un periodo che ci colpisce per un’a- cuta intuizione del futuro:

« Sono stato soldato quattro anni, e so da quale sottosuolo profondo si attingano le forze che fan grandi le nazioni, e penso con sgomento a quel che succederebbe quando si dovesse chiedere il sacrificio supremo a moltitudini avvilite e bastonate, o ad uomini che dal terrorismo pic­colo o grande abbiano appreso a chiudersi nei loro egoismi. Sarebbe una catastrofe da secondo impero » (a G. Gentile, 15 ottobre 1924).

Dopo aver vanamente tentato di indurre il Gentile a non avallare più col suo nome « questa politica che degrada così in basso » l’Omodeo sente che ormai la frattura si è aperta e se ne duole per quell’affetto che lo legava al Gentile, ma non fino al punto di rinunciare a se stesso:

« Il mio cruccio più amaro di questi giorni è il pensiero di poter apparire duro ed ingrato verso di Lei, seguendo quella via fuori della quale io non sarei più io. Ma Lei, ne son certo, riconoscerà che ho scelto la via più difficile e la più penosa » (a G. Gentile, 22 maggio 1925?).

La corrispondenza col Gentile, tuttavia, non si interrompe anche se l’Omodeo senta ormai che la via ch’egli ha prescelto lo porta necessariamente a schierarsi in favore del Croce in quel- l’ultima fase polemica che allontanerà per sempre l’uno dall’altro i due pensatori, che se un ideale di cultura aveva fraternamente unito, una scelta morale aveva aspramente diviso. Di fronte ai violenti attacchi di certa stampa fascista contro il Croce, l’Omo- deo prende ferma posizione in una lettera al Gentile:

« ... attaccare persone che non dispongono di tutta la libertà di mo­vimento e talora si sentono più inceppate di quanto siano effettivamente, e han vivo in cuore il rimpianto di negate libertà, provoca esasperazioni incalcolabili4. ... Poiché i linciaggi fisici e morali sono una tristissima realtà presente, poiché dal desiderio di demolire Croce son dipese molte vessazioni che paralizzano la vita culturale, (e ne sa qualcosa Lei, con­dannato a far da cariatide a un edificio di cui continuamente si attaccano le fondamenta), si ponga termine da parte nostra a polemiche che tra­scendono di troppo le persone di Croce e di Gentile e compromettono la stessa vita culturale. Questo domando io, e questo domandano tanti altri giovani che desiderano lavorare » (a G. Gentile, 27 ottobre 1927).

A questo punto nulla ormai poteva più impedire che cia­scuno seguisse il suo destino; dal viluppo dei compromessi che

4 Queste parole si riferiscono anche al fatto che l ’Omodeo ritenne in quel momento di dover interrompere, per lealtà, la sua polemica religiosa col Buonaiuti, che l’ anno prima era stato scomunicato.

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pullulano all’ infinito quando tace la coscienza morale, l’Omodeo si salvò, e non fu in quei tempi e in quell’ambiente cosa facile, per un senso profondo della dignità di sè, come uomo di cultura:

« Io tante volte mi domando perchè mi trovo in questa condizione. Mi esamino e mi trovo spoglio di ogni ambizione. Ho rinunziato, senza esitazione e senza rimpianti, a imboccare una via su cui molti che valgon meno di me han trovato onori, successi e vantaggi d’ogni genere: che sarebbero stati vantaggi, oltre che per me, per i miei figli. Vivo gli anni più tristi della mia vita in una solitudine squallida: non ho esitato da­vanti a rischi che han reso vili tanti altri. Eppure, sento che devo fare cosi: sento contro tutta questa tristezza la stessa forza che mi sorresse in guerra, e ho il convincimento d’ubbidire al dovere che, nella mia con­dizione, per ciò che sono, ho verso la mia patria » (a G. Gentile, 1 feb­braio 1928).

Appena tre lettere ci rimangono ancora indirizzate al Gen­tile; in data 16 febbraio 1929 leggiamo:

« Mi creda, mi sento scorato assai, e invece devo reagire perchè sento che i miei compiti diventano più ardui: e bisogna pure che faccia qualcosa per salvare ciò che è minacciato : almeno l’onore della cultura italiana » (a G. Gentile, 16 febbraio 1929).

L ’ultima lettera, del 4 dicembre dello stesso anno, tratta solo di materia di studi, per i quali, come egli stesso dice, ha deciso di raccogliersi in lavori di pura scienza.

In una lettera del 9 ottobre 1928 l’Omodeo così scrive al Lombardo Radice:

« Ho da vario tempo iniziato uno studio sulle lettere e diari dei caduti : un saggio di storia sulla vita morale della nostra guerra, da cui verranno fuori, se il materiale continuerà ad essere come quello che ho finora saggiato, tesori ignorati ».

Già si annuncia qui il libro « Momenti della vita di guerra » nel quale l’Omodeo volle rievocare tutta « la luce spirituale che illuminò la nostra lontanante giovinezza e la fede che sostenne l’ Italia nella terribile prova » 5.

Egli si avvicinò a quel tema in un momento oscuro della sua solitudine, quando gli parve che accanto ai morti del Carso fosse rimasta la parte migliore di sè; sentì allora che un dovere si im­poneva a lui superstite, il richiamo supremo dell’Antigone di Sofocle: « ... per più lungo tempo io dovrò essere cara a coloro

5 A . Omodeo, Momenti della vita di guerra, Bari, 1933.

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che stanno sotto la terra, che non ai viventi; sotto la terra, in­fatti, dormirò per sempre ».

Il pensiero di raccogliere e ricomporre con le parole più pure l’ideale della sua generazione, l’accompagnera incessante in quegli anni, pur in mezzo all’affannoso lavoro scientifico del quale aveva già dato alta testimonianza con il saggio su « L ’età del Risor­gimento » :

« E mi pare con l’aiuto dei morti d’arrivare ad intendere la vera anima della nostra guerra, sopra le ciarle e la retorica reboante dei gior­nalisti e degli eroi dell’armistizio. Ma chissà se la voce dei morti arriverà a farsi sentire sulle triste passioni dei vivi? » (a G. Lombardo Radice, 7 feb­braio 1929).

Questa ricerca sugli epistolari e sui diari dei caduti per rico­struire quella che egli chiamava; « la storia spirituale della guer­ra » attraverso « il retaggio dei morti », impegnerà l’Omodeo in questi anni fino al 1933, quando le puntate che una dopo l’altra erano state pubblicate su la Critica del Croce, saranno rac­colte dal Laterza nel volume dal titolo « Momenti della vita di guerra ».

A tal punto, anche perchè in una lettera del 1931 vi è un accenno interessante a quest’opera che l’Omodeo andava compo­nendo, vorrei rendere noto un piccolo, ma interessante gruppo di lettere che non compaiono nell’epistolario e che furono indirizzate dall’Omodeo al palermitano prof. Francesco Collotti, che fu più tardi professore di storia delle dottrine politiche nell’Università di Trieste. In questa breve serie di corrispondenze saltuarie, la prima porta la data del 1926 e l ’ultima del 1 9 3 1 : per l’ interesse che può presentare, in quanto illumina di riflesso la nobile figura di Fran­cesco Collotti, e nello stesso tempo pone in rilievo il prestigio dell’Omodeo come uomo di studi, pubblichiamo in nota il testo integrale della penultima lettera in data 1 gennaio 1931 6.

6 Caro Collotti, grazie delle sue lettere, e auguri vivissimi di ogni bene a Lei e ai suoi.

Su quel grave argomento son d’accordo con Lei nel non parlarne. Le mandai un ritaglio nel dubbio che Lei non conoscesse. Certe sciagure bisogna purtroppo conoscerle e riconoscerle. Io non mi facevo più illusioni: ma non credevo che giungesse a quel punto. Ma ormai è come se mi avessero passato la pietra infer­nale sulla piaga. E ’ cicatrizzata. Mi mandi pure la lettera di quel caduto con la necessaria notizia biografica. Vedrò se se ne può trar profitto. E ’ incredibile la ricchezza di vita spirituale che vien fuori da questi epistolari di guerra. Danno

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Intorno al 1928 era cominciata la collaborazione delFOmo- deo alla Critica e con essa quella amicizia col Croce che durò

un senso grande di conforto. Non si può nè si deve disperare, come fanno leg­germente molti, delle sorti del popolo che ha prodotto uomini di quella tempra.

Circa i Suoi studi non oso darLe consigli. Forse non farà male a perseverare nella storia della filosofia perchè proprio mi dà da pensare il disgusto che si va diffondendo in tutta Italia per gli studi filosofici. Grazie agli iperfilosofi, che, come ai tempi di Platone, si credono abilitati a governare e a pedagogizzare gli uomini nonché le proprie patrie, si è creato una tale repulsione alla filosofia quale neppure, forse, ai tempi del positivismo. Circa l’argomento non so che consigli darLe. Il tema deve scaturire da un problema nostro. Penso che uno studio sul Leibnizianismo non sarebbe inutile. L ’importante non è ü tema, ma una revisione metodologica e una amplificazione di interessi. Finora si son prese certe intuizioni spaventiane di derivazione hegeliane, non, quali effettivamente erano, come pre­ludi e assaggi che dovevano essere ampliati e approfonditi, ma come solida costru­zione. E questo schema un po’ arido, è stato ancor più inaridito. La storia della filosofia si è svolta ricamando e cincischiando e arabescando lo schema spaven- tiano. La storia del pensiero la si è compendiata in una catena di Fachgelehrte, riscissi da tutti i grandi moti umani. Il De Ruggiero ha cercato di ampliare: ma ha aggiunto e commisto una storia défia cultura ad una storia tecnica: non le ha risolte in una vera storia del pensiero e dello spirito. Ora questo rinnova­mento e ampliamento della concezione spaventiana credo sia essenziale per risol­levare gli studi di storia della filosofia.

Circa l’ altro argomento credo che siamo assai meno discordi di quanto Lei crede. L'intolleranza del nostro pensiero si concilia benissimo con una liberale tolleranza pratica. Il nostro pensiero intollerante può indurci a combattere le opi­nioni contrarie. Ma a quale fine? A quello di portare gli altri a sentire come noi; che la verità nostra rigermogli in altri animi. Quando io dagli altri estorco, come tutti i S. Uffizi antichi e recenti, una adesione sforzata, fittizia, quando faccio ribalbettare da scolari iurantes in verba magistri la mia presunta verità, questa verità è sfiorita: è diventata astratto contenuto. Il trionfo della mia verità sta nel consenso di liberi spiriti, nell’ intellezione approfondita nel suo agire con le sole forze, senza bisogno di sollecitazioni col manganello. L ’ intransigenza dottrinale perciò io la vedo congiunta con questa libertà; altrimenti si uccide ogni verità come ha fatto il Gentile. Così pure, a proposito della frase del mio articolo gio-bertiano, io, contro ogni scaltro pedagogismo (...) ho sostenuto che la forza no­stra è solo nel punctum saliens dell’unica verità dinanzi a cui pieghiamo le gi­nocchia e che noi intronizziamo.

Senza di che cadiamo nell’assurdo tentativo di voler dominare storicamentee sfruttare praticamente il pensiero che pensiamo. E ’ il tentativo gentiliano, imi­tazione scolastica del giobertismo; un voler saltare oltre la propria ombra. Circa l’apprezzamento della storia politica dopo il Risorgimento, la constatazione storica che una differenziazione di partiti allora non era possibile è una cosa diversa dal fare un ideale dell’indifferenziamento politico. Allora non era possibile ladistinzione perchè contro l ’ Italia era armata la Chiesa, gravava l’ostilità diplo­matica, e perchè l’urto di metodi del Risorgimento si era esaurito col compimento dell’unità. Certo ciò era segno di povertà di vita politica. Ma il difetto non si poteva correggere artificialmente come concepiva il Bonghi. I problemi veri allora erano i problemi regionali e quello del partito d ’azione: non un’artificiosa distin­zione di destra e di sinistra. Questo il mio pensiero storico. Solo la ricchezza e la potenza di vita politica possono portare a differenze di programmi. Ma mi accorgo che per iscritto l’esplicazione di certe idee diventa lunga. Cerchiamo di rivederci qualche volta e avremo di che discorrere, caro Collotti. Ancora auguri a Lei e ai Suoi.

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22 Bianca Ceca

sempre fino alla morte dell’Omodeo, anche se alcune divergenze politiche intorno al 1945 parvero gettarvi sopra qualche ombra, come vedremo.

« Cominciò allora la nostra collaborazione nella casa che si andava facendo sempre più deserta di frequentatori... Il senatore mi faceva tele- fonare col pretesto di bozze da correggere : capivo che desiderava un po’ di compagnia e scendevo giù dal Vomero. Lavoravamo alla stessa grande scrivania, scambiavamo poche parole. Ormai il consenso delle nostre idee era così profondo che quasi non avevamo bisogno di comunicativa... Il silenzioso proposito era quello di non lasciar cadere quest’ultima posizione della cultura italiana incontaminata dal fascismo : la febbre di lavoro giun­geva alla frenesia. Intorno, ad uno ad uno molti cedevano... » \

Dalle poche lettere che l’epistolario raccoglie per gli anni 1930, 193 1 , non traspare nulla di quel dramma doloroso che fu per l’Omodeo, come per qualche altro, l’essere stato costretto a prestare il giuramento richiesto ai professori universitari, per non incorrere nella destituzione certa che avrebbe reso molto difficili le condizioni economiche della famiglia. Tali condizioni non erano certo fiorenti, poiché, essendo noti i sentimenti dell’Omodeo e chiaro il suo atteggiamento contrario al regime e palese la sua fedeltà al Croce, egli non fu certo in quegli anni tra i favoriti con prebende, incarichi, contratti editoriali, soprattutto per testi scolastici, in virtù dei quali molti uomini di studio e di scuola intorno a lui trassero allora a prezzo di servilismo forti vantaggi economici. Una cattedra di storia del Risorgimento in un Isti­tuto pareggiato di Napoli dopo qualche anno gli fu tolta per di­sposizione del De Vecchi, che privava di ogni incarico i profes­sori che non avessero la tessera del partito fascista. In qualche frase che leggiamo in una lettera alla moglie da Roma il 2 gen­naio 1933, cogliamo tutta la sofferenza di quegli anni:

« In quanto a me faccio ogni sforzo per riprendere un po’ di sere­nità: ma in certi momenti provo l’impressione che mi davano le gite troppo violente in montagna: mi pare che mi scoppi il cuore. Questo durare nella fatica, nella tristezza, nell’assenza di speranze per anni ed anni senza una sosta, senza un raggio di luce! ».

Gli studi ch’egli andava allora facendo sul Cavour, e su gli uomini del Risorgimento non avevano il potere di estraniarlo dal presente :

' La collaborazione con Croce durante il ventennio, ed. cit., p. 493.

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« Io di questi tempi sono molto depresso. Forse per stanchezza non arrivo a lavorare e l’interruzione del lavoro è terribile per me. Mi sento un uomo perduto » (a L. Russo, 23 maggio 1933). « Mi ripeto il motto preso in prestito da Lutero : « In sdendo ac spe erit fortitudo vestra », e tiro avanti. Ma quanti anni pesanti e duri nella mia vita! Ne sento come un incubo fisico nel petto » (a L- Russo, 14 giugno 1933).

Qualche tentativo è stato fatto, come ad esempio il « Ritratto di un ventennio » del Flora, per rievocare l’atmosfera di quegli anni, in cui il regime, ormai consolidato, regolava fin nei minimi particolari la vita della nazione, che era come un’immensa massa manovrata da una stessa leva di comando. Nessuno, tuttavia, ha finora avuto il potere di ricreare tutta quella pesante realtà, poiché non è facile immaginare monotonia più tragica di quella che regna su un popolo, a cui siano state tolte tutte le libertà:

« Gli anni passavano senza una loro immagine, senza un rilievo. Bisogna fare uno sforzo di memoria per stabilire in che cosa il 1930 dif­ferisse dal 1928, in che cosa il 1936 si differenziasse dal 1937. Anche i fatti più rumorosi della cronaca dell’epoca non arrivano a venare il ricordo tenebroso degli anni della tirannide e la loro tristezza uniforme »8.

Pertanto, il fatto di aver nobilmente e coscientemente sop­portato questo tormento fece sì che alcuni uomini di cultura, come il Croce e l’Omodeo e qualche altro che, serbatosi immune, soffrì dolorosamente di quella totale mancanza di ossigeno che soffo­cava spiriti ed intelletti, si trovarono, in fondo, in una miglior situazione di altri che, inseriti nel regime, non esitarono a pro­stituire intelligenza e dignità. A costoro la rinata libertà non potè restituire ciò che avevano perduto, nonostante gli sforzi di un impenitente trasformismo.

L ’Omodeo sente che anche questa angoscia può avere una sua ragion d’essere; al giovane Alessandro Galante Garrone il io aprile 1934 scrive:

« L ’unica cosa che ti posso dire, per una mia più lunga esperienza di vita, è questa: che vi sono nella vita lunghi periodi o di letargo o di lenta quasi fisiologica maturazione, che paion tristi e son necessari... Per­ciò non ti dico di non tormentarti; ma ti dico di non disperare ».

Il tema della solitudine è quello che domina nelle lettere di questi anni:

« Qui nulla di nuovo tranne un approfondimento della solitudine » (a F. Albeggiani, 16 novembre 1934).

La collaborazione con Croce, cit-, p. 497.

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24 B ta n c a C e v a

Un mese più tardi a Luigi Russo dava notizie del Croce:

« Il nostro amico è immerso nella lettura dei classici di tutti i tempi e di tutti i paesi... E ’ più solo che mai, e si raccomanda a me perchè gli tenga compagnia. Io vado da lui quanto più posso... » (13 dicembre 1934).

Si delinea qui il particolare dramma delPuomo di cultura, la pena inflitta dalla nuova barbarie dei tempi, quella che fu la segreta sofferenza di Benedetto Croce, quando confessava lo sco­ramento ch’egli provava nel sentir circondate da un silenzio ostile, a mano a mano nascevano, opere a cui egli aveva affidato l’animo e l’ ingegno: La Storia d’Italia; la Storia d’Europa nel sec. XIX; la Storia come pensiero e come azione; quella pena che l’Omodeo per se e per l ’amico commentava con le parole amare:

« Questo lavorare senza sentire l’appoggio e il conforto di una cul­tura che procede con noi dà smarrimenti non piccoli » (a L. Russo, 29 giu­gno 1939).

Accanto alla nota della solitudine, riecheggia quella dello sdegno per le difficili condizioni in cui egli è costretto a svolgere la sua opera di storico, pur intensa in quegli anni in cui conti­nuava gli studi sul Cavour e sul Risorgimento, estendendo le ri­cerche sul tema della Civiltà moderna e cattolicesimo nel sec. XIX.

(( Certamente a nessun patto io cambierei con nessuno degli storio­grafi laureati o degli accademici d'Italia. Ma ciò non impedisce che mi senta pieno di sdegno per questa sudicia oligarchia, che va facendo di me un proletario e mi lesina i mezzi di lavoro » (a E. Codignola, 7 gen­naio 1935).

Dalla sventura che nell’aprile del 1935 lo colpì con la morte di una figlia adolescente, l’Omodeo ebbe la forza di risollevarsi « per disperata coscienza del dovere » alla quotidiana battaglia della vita per lui particolarmente aspra in quei tempi ostili; il io agosto 1935, scrivendo alla moglie, si soffermava malinco­nicamente ad osservare lo sfasamento che sentiva nei suoi rap­porti coi giovani e ne traeva un’analisi acuta di questa quasi im­possibilità di accordo, come se si parlassero lingue diverse:

<( M’accorgo che quello sgomento che faccio ai giovani è un po’ quello dell’anacoreta che cala a predicar penitenza e rinunzia, a perseguir qual­cosa che si conquista con pena e dolore. Per lo meno quest’aspirazione a libera e autonoma vita che è l’esigenza mia prima, fa a loro l’impressione che alla capra farebbe la vita dello stambecco, o al cane quella del lupo.

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Non critico per questo, capisco che la nuova generazione vive sotto un nuovo segno, matura una nuova esperienza di vita gregale, che avrà i suoi pregi, e che elimina le note, diciam così romantiche dell’ambizione, del- l’autonomia; ma c’è un distacco che io vorrei, ma non posso superare: perchè questa aspirazione di libertà la sento come un valore eterno, e non posso rinunziarci » (alla moglie, io agosto 1935).

Qualche giorno più tardi riprendeva lo stesso tema con ac- centi più appassionati:

« Solo, ho creduto e credo che ciò che ha valore si attua nella libertà e per la libertà: cioè per l’umanità liberata dai nostri privati egoismi.

Per il resto io non critico la gioventù, non predico nè rinunzia nè sacrifizio agli altri; ma sento la mia vita legata a una missione, ad affer­mare un mio ideale, e perciò mi trovo spiritualmente differenziato dagli altri. Certo, anch’io sento e soffro l’oppressione della dura vita. Ma è stato formalismo puritano quello che ce l’ha resa così pungente? Io ne sento la concatenazione, e non arrivo a capire dove avrei potuto inserire qualcos’altro, senza tradire un dovere, il dovere del momento, che una volta mi portava alla frontiera, un’altra mi faceva lottare per redimere la famiglia dalla povertà, un’altra a prender netta posizione di contro al passo falso di certi nostri amici » (alla moglie, 14 agosto 1935).

Intanto gli avvenimenti politici si fanno ogni anno sempre più preoccupanti nel loro fatale corso verso la guerra; il 14 set­tembre 1939 l’Omodeo scrive al figlio Pietro:

« L ’idea della guerra, non di quella italiana che spero non si faccia, ma di quella europea in genere mi rattrista. Ormai son convinto che la guerra non aggiusta niente e si creano guai anche per altre generazioni. E poi non mi piace pensare che i giovani, di qualunque popolo, muoiano ».

La guerra, invece, verrà e lo toccherà da vicino attraverso l’esperienza del figlio Pietro ufficiale in Africa:

« Tu mi chiedi di mio figlio. Sta bene; è ad Agedabia e per ora sta tranquillo.

Soffre gli uragani di sabbia e i primi sintomi dell’estate che si avvi­cina... Questa guerra interminata mi dà addirittura l’oppressione fisica, come se mi mancasse il respiro » (ad A. Galante Garrone, 17 maggio 1942).

Fin dalla primavera del 1943 quando gli animi già presen­tivano il precipitare degli eventi, dopo le sconfitte di Grecia, di Russia, e d’Africa, l’Omodeo sente che l’ostracismo verso di lui sta cessando; egli non è ormai più l’ indesiderato, condannato alla solitudine dall’ostilità di un regime:

<( Continuo a ricevere inviti da tutti gli editori e direttori di riviste.

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2 Ó Btanca Ce va

Perdo un tempo inverosimile a risponder negativamente... Maledetti ani- mali, potevano cercarmi dieci anni fa! » (alla moglie, 24 aprile 1943).

L ’intenso studio sul Cavour, di cui egli andava allora pub­blicando i discorsi parlamentari e le ricerche sul primo Ottocento francese, hanno il potere di deviare il suo pensiero dalla tormen­tosa preoccupazione per la prigionia del figlio nel deserto egi­ziano, e dal drammatico succedersi delle vicende politico-militari, che andavano rapidamente maturando.

# * #

La crisi del 25 luglio porta subito l’Omodeo alla ribalta degli avvenimenti:

« Sabato mattina, appena mi giunse l’espresso di De Ruggiero, che tu mi avevi spedito, partii sul momento. Viaggio movimentato e faticoso fino a Roma, dove giunsi verso le diciotto. Lunedì e martedì conferii col ministro e con De Ruggiero. Mi vogliono in una commissione per le pro­poste di riordinamento ed epurazione delle università. Ci ' sono non poche difficoltà da parte mia. Ma una parte del compito potrei assolverla. Pare anche che mi vogliano dare il rettorato di Napoli : ma ancora non c’è nulla di certo, perchè i ministri vogliono e disvogliono, si contraddicono fra di loro ed entro se stessi. La situazione in complesso (oltre le faccende scolastiche) è oscura e confusa, e i pericoli sono molti » (alla moglie, 13 ago­sto 1943).

Il nuovo prestigio e i nuovi incarichi ai quali l’Omodeo sente di non potersi sottrarre, non gli impediscono di cogliere con l’oc­chio critico i caratteri delle nuove vicende:

« Io sono molto sollevato dall’incubo fascista, ma preso dalle nuove preoccupazioni, che sono ora nostre responsabilità. A Roma le cose si pre­sentano molto confuse ed incerte. La posizione politica è contraddittoria. La guerra è contro la libertà: i sospetti e le diffidenze sono grandi nè del tutto ingiustificati... Il nostro amico (il Croce) sta bene, anche se intorno a lui ferve la lotta fra chi vuole accaparrarselo» (a L. Russo, 15 agosto 1943).

La sensibilità politica fa cogliere all’Omodeo gli elementi oscuri che gravano sulla situazione italiana:

« I nuovi avvenimenti mi hanno in parte sollevato dal macigno che mi gravava addosso: ma non sono del tutto persuaso ed ora sento la re­sponsabilità dell’ora » (a A. Galante Garrone, 17 agosto 1943).

Rientrato in Napoli il giorno 2 ottobre appena le prime pat­tuglie americane ebbero preso possesso della città, come egli stesso

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racconta nello scritto « Le vicende politiche del periodo napo­letano » °, l’Omodeo nella città evacuata dai tedeschi colse il volto orrendo della guerra, segnato il 12 settembre da quell’epi­sodio di « apocalittica infamia » che fu l’ incendio e la distru­zione dell’Università:

« Sono giunto a Napoli sotto un diluvio d’acqua. Lo spettacolo della guerra è pauroso. La situazione però è meno paurosa di quanto si diceva. Tranne un po’ di tifo, nessuna epidemia. Mancano la luce, l'acqua e il gas. Le distruzioni sono numerose, ma meno di quanto avevano detto. Infame è l’incendio dell’Università. Il palazzo nuovo è quasi tutto distrutto, tranne le biblioteche. Gli incendi furono appiccati dal rettifilo a piazza San Domenico.

Ho trovato la città animata per tre giorni di combattimento soste­nuto soprattutto dai ragazzi, gli scugnizzi, che han messo più volte in fuga i tedeschi. Questo risveglio popolare è l’unica cosa buona » (alla mo­glie, 5 ottobre 1943).

Nell’atrio devastato il 14 ottobre prese possesso come rettore dell’Università stessa, con un discorso che fu poi pubblicato col titolo « L ’orrendo volto della Germania » 10.

Le lettere di questo periodo alla moglie ed al figlio prigio­niero contengono tutte, dal più al meno, interessanti ragguagli intorno alle vicende politiche che si andavano svolgendo nel sud in quei travagliatissimi mesi, vicende nelle quali l’Omodeo appariva come uno degli elementi più attivi; lo vediamo qui per la prima volta appassionarsi alla vita politica, come sempre quando egli intravedeva un preciso dovere da compiere. Il 29 novem­bre 1943 scrive al figlio:

« Ieri ho ricevuto solennemente all’Università Croce e Sforza. La cerimonia accademica ha assunto un notevole significato politico. Ma non posso — non so se lo consentirebbe la censura — chiarirti il pro­blema e le difficoltà in cui ci dibattiamo per aiutare il nostro disgraziato paese. In certi momenti l’amarezza rasenta la disperazione. Ma poi ci si fa animo e si continua a portare la croce. Quello che sorprende ed esa­spera è il pullulare di piccole e meschine ambizioni nella catastrofe della patria, e la mancanza completa di devozione al servizio pubblico, di co­raggio e d’iniziativa. Al più stanno a guardare e t’incoraggiano quando le cose ti sono andate bene e l’incoraggiamento è adulazione strisciante. Ma, siccome nessuno fa nulla, io che faccio qualcosa brillo come astro di prima grandezza nel firmamento di Napoli. Come ci ha ridotto il fasci-

5 V . Libertà e storia, cit., p. 309. 10 V . Libertà e storia, cit., p. 87.

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28 Bianca Ceva

smo, figlio mio! La rovina morale è forse peggiore della rovina delle città ».

Aderente al Partito d’Azione, interpretò in senso mazziniano il concetto di operare politicamente che

«...non è un vizio immondo, ma desiderio di servire la comunità; sappiamo che l’operare adesso significa esporsi a portare il carico di colpe non nostre, soffrire sotto l’onda di contumelie e maledizioni che non pos- sono raggiungere i veri responsabili, reagire contro passioni impulsive e cieche. Anche ad affrontare le ingiustizie dobbiamo esser pronti con maz­ziniano coraggio » u.

La coerenza politica lo impegnò a fondo nella lotta antimo­narchica; conosciamo dalle pagine stesse dell’Omodeo nello scritto già citato su le vicende politiche del periodo napoletano le fasi movimentate del Congresso dei partiti che si tenne a Bari alla fine di gennaio del 1944, quando il Croce stesso con un accla­mato discorso separò nettamente le responsabilità della nazione da quella della monarchia, e provocò all’unanimità, un ordine del giorno che ripudiava il re.

Il 6 febbraio successivo l’Omodeo così scrive al figlio per in­formare lui e i suoi compagni di prigionia intorno alle cose d’ Italia:

« C’è un fatto che non potete conoscere : la vergogna delle sette set­timane seguite all’armistizio : la preoccupazione del governo di salvar la monarchia invece del paese, e a spese del paese, sì che quei 45 giorni ci son costati più che tre anni di guerra; la losca coalizione dei respon­sabili militari insieme col re; il tradimento di altri marescialli e generali che non opposero ai tedeschi la necessaria resistenza; il tentativo di con­servare un regime fascistico-monarchico, non ostante la sconfitta; l’oppo­sizione, sorda ad ogni tentativo di riscossa nazionale, han creato una si­tuazione complicata. Ma non mi posso diffondere in una lettera ad un prigioniero, perchè c’è il rischio che la censura la distrugga. Ti basti sapere che uomini assai moderati, come Croce e Sforza, sono anche più risoluti dei comunisti contro il re.

Dal resto d’Italia si hanno notizie un po’ vaghe: pare che la guer­riglia sia vivace. Le infamie tedesche sono indicibili ».

Tormentava l’Omodeo il fatto di dover riconoscere questa totale eredità di corruzione e di mali che il fascismo aveva lasciato negli spiriti, molto più palese ora che nel passato:

« ... dopo aver patito per vent’anni il fascismo ora devo portare la croce dei guai che ci lascia in eredità in un paese distrutto. La situazione 11

11 Al Circolo « Pensiero ed azione » di Napoli, 18 gennaio 1944.

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politica è difficile e spinosa, il disordine è immenso. Non c e altro da fare che sacrificarsi... Il problema è circa la capacità dei galantuomini ».

Divenuto ministro della Pubblica Istruzione nel governo Ba­doglio a Salerno nell’aprile del 1944, deve combattere aspramente contro violente ostilità personali, soprattutto da parte della massa studentesca sobillata per il fatto che l’Omodeo riteneva oppor­tuno intensificare la partecipazione italiana alla guerra degli A l­leati :

« Finalmente si avanza verso Roma. E ’ amaro il pensiero che il no­stro contributo è esiguo, perchè non siamo giunti ancora alla piena al­leanza. Dall’altra parte i patrioti si battono bene. Giungono notizie di ferocie orribili... Si attende di giorno in giorno la notizia della caduta di Roma » (al figlio, 2 giugno 1944).

Dopo l'entrata degli Alleati in Roma, in attesa della solu­zione della crisi determinata dal ritiro del re e dall’occupazione della città, crisi che si risolverà con il governo Bonomi, l’Omodeo confida al figlio la speranza di poter lasciare il ministero:

« Sono ufficiale di complemento anche nella politica. E perciò un congedo, che mi restituisca ai miei studi, su cui poggia ormai quel po’ di nome che mi son fatto, non mi dispiacerebbe. Quello che mi angustia è di lasciare ai miei figli l’Italia ridotta come una latrina da campo. Non puoi immaginare a quale degradazione il fascismo ha ridotto gli uomini, anche quelli che si presentano come antifascisti. E pensare che ventisei anni fa, proprio di questi giorni di giugno sul Piave portavamo al vertice il prestigio d’Italia! Che generazione, la mia! » (al figlio, io giugno 1944).

Qualche tempo dopo leggiamo:

« Io, lasciato il ministero, mi son goduto alcuni giorni di vero riposo. Ma ora son ricominciate le burrasche all’Università, che rischia d’esser nuovamente requisita, e nel Partito d’Azione, di cui faccio parte e dove fanno scemenze su scemenze. E ho un gran desiderio di essere in una campagna in collina a leggere Omero in greco » (al figlio, 28 giugno 1944).

Nell’agosto l’Omodeo partecipa a Cosenza al Congresso del Partito d’Azione, del quale leggiamo nel volume più volte citato Libertà e Storia una relazione che pone in evidenza la crisi già in atto di quell’agglomerato di forze democratiche che aveva dato grande contributo nella lotta contro il fascismo e che avrebbe voluto essere e non potè essere « un partito al di fuori e al di sopra di tutti gli schemi di classe ».

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3° Bianca Ceva

Qualche giorno più tardi l’Omodeo scrive al figlio:

<( Il congresso non mi ha soddisfatto troppo (naturalmente io sono rimasto con la minoranza) ma il veder gente, il parlare senza bavaglio è pur sempre un grande conforto» (n agosto 1944).

Tuttavia, le crisi e i contrasti politici si fanno più intensi; in particolare le lotte che l’Omodeo come rettore deve affrontare contro la massa studentesca aizzata contro di lui dagli elementi monarchici conservatori e pseudo liberali; in realtà fascisti tra' vestiti, che diedero luogo a quella ignominiosa agitazione nel gior- no dell’apertura dell’anno scolastico, che leggiamo descritta in una pagina del diario inedito dell’Omodeo 12 e della quale egli dà notizia il 14 novembre 1944 in una lettera al figlio;

« Gli studenti, sobillati dai monarchici, han fatto disordini durante l’inaugurazione dell’anno accademico. Però infine son riuscito a vincere io:11 ho costretti a sentire in silenzio tutte le più dure rampogne : li ho trattati da imboscati che non hanno decoro italiano (schiamazzavano per la rivincita, facevano dimostrazioni xenofobe, e cantavano l'inno di Ma- meli, i vigliacchi) da uomini che non han sentito la mitragliatrice neanche in piazza d’armi; ho rinfacciato loro il crollo del prestigio dell’Università che io avevo portato in alto : e, dopo aver sfogato la mia collera, ho ripreso il discorso e l’ho portato a termine. L ’Italia tarda troppo a ri­pigliarsi ».

Lo studioso di problemi storici, che è sempre vigile nel- l ’Omodeo, vede di tutto questo faticoso e scoraggiante travaglio le cause e gli aspetti più preoccupanti e più immediati, quelli che egli denuncia all’ inizio di quel Preludio che inaugura la pubbli­cazione di una sua rivista politica, VAcropoli:

« Dopo il ventennio' è cosa ardua risvegliare nel paese la coscienza e la vita politica : pare che il fascismo ne abbia corroso la sostanza. L ’a­spetto negativo, quello del politicantismo, della caccia a posti e ad onori, dei fini loschi mascherati da solenni parole, di qualcosa di affine all’asso­ciazione a delinquere predomina nel convincimento di molti, di troppi. Tende a formarsi una saldatura fra un’amara conclusione scettica dell’av­ventura fascista e il discredito della vita politica, ad arte diffuso dal fascismo » 13.

La guerra, comunque, non era ancora finita; si presentava anzi, la necessità che forze militari italiane partecipassero in modo efficiente all’avanzata degli Alleati; l’Omodeo sente imperioso que-

12 V . Libertà e storia, cit., p. 238.13 V . Libertà e storia, cit., p. 220.

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sto dovere e si sdegna a tal punto di fronte all’ indifferenza e alla viltà che lo circonda, da chiedere per se il richiamo alle armi.

« La studentaglia qui non si è comportata bene. O meglio su 12.000 studenti, qualche centinaio ha schiamazzato per il richiamo. Il grave è che gli altri non hanno reagito. E allora per dare una lezione a quei gaglioffi, e anche perchè quando si ricopre una carica bisogna accettarne tutte le conseguenze, ho chiesto di essere richiamato alle armi. Il giorno io feb- braio, messe le cose a posto, partirò per un reparto mobilitato. Credo che mi daranno una batteria, e quando mi sarò impratichito del nuovo mate­riale, seguirò la divisione in linea » (al figlio, 30 gennaio 1945).

Qualche giorno più tardi all’amico Luigi Russo:

et Circa il mio telegrammau, la spiegazione è semplice. Alcuni agita­tori di quinta colonna (monarchici e così detti socialisti rivoluzionari del tipo Salvarezza) avevano levato il grido '« Non vogliamo combattere ». Il peggio fu che il grosso degli studenti non dette segno di reazione. Allora per salvare l’onore dell’Università dinanzi agli Alleati (i gridi erano risuonati anche dinanzi ad un generale inglese in visita), e per staffilare la vigliaccheria, feci e pubblicai il telegramma. L ’agitazione è immediata­mente cessata. L ’esercito regio mi repugna, ma mi repugna la passività nella liberazione del territorio. Nulla da parte mia di fascistico, nessuna coazione al volontariato.

Io fremo di rabbia a veder nelle mani d’inetti e di egoisti calcola­tori le sorti del paese » (a L. Russo, 7 febbraio 1945).

Intorno a questo tempo cominciano a manifestarsi in forma abbastanza risentita i dissensi politici col Croce, legato al rinato partito liberale, che, nel giudizio dell’Omodeo, era composto di gente che si dichiarava tale « per coprire interessi e salvaguar­dare situazioni personali o collettive, che si ride della libertà a cui fìnge di credere... » (lettera inedita).

Nonostante il Croce in un articolo « In difesa di un amico calunniato » comparso il 28 marzo 1945 su Risorgimento L ibe' rale avesse risposto energicamente ad un attacco pubblicato da Alberto Consiglio contro l’Omodeo, su un giornale monarchico, pure il dissidio si mantenne penoso anche per un vago atteggia­mento autoritario che il Croce aveva preso verso l’Omodeo. Que­sti, pur con dolore, si ribellò, tanto da rivendicare la sua posi­zione di uomo libero, che non ha mai mirato a procurarsi pre­bende « sui redditi morali della fama di Benedetto Croce » e che 14

14 Un telegramma al ministro della Guerra, nel quale aveva chiesto di essere richia^ mato in servizio nell’esercito combattente.

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ha il dovere di far sentire una voce diversa « da quella dei pap­pagalli lusingatori anche a costo di passare per arrogante e teme­rario » (lettera inedita).

Un’eco di questa situazione incresciosa è nella corrispondenza del 2 i aprile 1945 alla moglie:

« Il caso di don Benedetto non ci voleva. Io credo d’aver veduto giusto : senza uno slancio generoso, un coraggio quasi temerario, uno spirito d’abnegazione, non si può riconquistare alla libertà la nostra gene­razione. E ’ spaventoso quanto poco essa abbia imparato dalla tremenda lezione ».

Un giudizio più sereno e più staccato su questa vicenda chiude le pagine su La collaborazione con Croce durante il ven­tennio che l’Omodeo scrisse per il primo numero del 1946 della Rassegna d’Italia che il Flora aveva dedicato al filosofo nel suo ottantesimo compleanno:

« Intanto nel Croce il bisogno di ripresa di vita sociale si faceva sempre più vivo. Si costituiva intorno a lui, poco prima e poco dopo la caduta del fascismo, una specie di surrogato del vecchio salotto. Ebbi l’impressione che qualcosa s’inframmezzasse e ci discostasse. D’altra parte, capisco benissimo che certa mia spregiudicatezza risoluta non gli garbasse. La politica ci separava nella valutazione degli uomini e delle opportunità. Il compagno di lavoro si è persuaso che un ciclo si è chiuso : la collabo- razione del ventennio — completa nel pensiero e nell’azione — appartiene al passato. Rimane un profondo accordo nel campo teorico. E nel collabo­ratore rimane la convinzione che l’eroica difesa della cultura italiana ed europea sostenuta dal Croce non va misurata col canone delle diverse parti in cui gli Italiani •— il Croce compreso —• si sono in seguito iscritti, ma ha un valore universale per quanti aspirano a più nobile vita fra gli uomini » 15.

Il reparto d’artiglieria nel quale l’Omodeo continua il servizio militare, rimane di riserva all’esercito alleato che, intanto, pro­segue nella sua avanzata; quando è palese che la sua divisione non potrà entrare in azione, l’Omodeo chiede di essere restituito ai suoi compiti civili.

Il fatto che il figlio non sia ancora stato liberato dalla pri­gionia, nonostante gli sforzi del padre, è la nota amara che risuona continuamente nelle lettere di questi mesi:

« Del mio Pietro ancora nessun principio di ritorno. Rientrano su richiesta, clericali, ex gerarchi del fascismo, birri di ogni genere, ma lui

15 V . Libertà e storia, cit., p. 499.

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no, benché come assistente di Bergami sia iscritto nella lista italiana e in quella inglese tra le persone necessarie alla ricostruzione. Si tratta dei comandi italiani, che dipendono dal commissario per i prigionieri di guerra, generale Gazzera ex ministro di Mussolini! » (a L. Russo, 4 maggio 1945).

Il figlio sarà liberato, fra gli ultimi, solo nel febbraio 1946, tre mesi prima della morte del padre.

Questo ultimo anno della vita di Adolfo Omodeo è segnato da una febbre di attività quasi egli presentisse vicina la fine:

« Di questi tempi scrivo molti articoli, sino a stancarmi : oltre quelli su l’« Acropoli », su « l’Italia libera », di Milano e lo « Stato Moderno »... Cercherò di scrivere per « Belfagor » benché di questi tempi la mia musa sia politica. Per gli studi sereni mi difetta tempo e raccoglimento » (a L. Russo, i i settembre 1945).

Su Stato Moderno egli pubblicò allora quello scritto su Le v i­cende politiche del periodo napoletano che è una delle testimo­nianze più autorevoli per chi voglia ricostruire l’intricatissima storia dell’Italia « tagliata in due ».

La « musa politica », animata dalla sensibilità storica, lo porta ad analizzare la situazione verificatasi in Italia dopo la liberazione con la costituzione del ministero Parri:

« Qui l’atmosfera politica è grigia ed incerta. Lotto come e quando posso, ma in certi momenti mi scoraggio. Se ci avessero fatti membri di una confederazione europea forse ci saremmo adattati benino. Ma dobbiamo continuare ad essere una nazione europea mutilata nelle ambizioni, mor­tificata nell’orgoglio, immiserita economicamente, con due grossi partiti, il cattolico e il comunista, che operano in funzione di interessi non ita­liani. E ’ un compito quasi impossibile. Intanto gli alleati, che, mentre combattevano qui e liberavano la Francia, potevano andare organizzando intorno a sé una confederazione di democrazie occidentali, con tutto il nobile costume della libertà, han perduto la condizione favorevole e, se ora volessero far questo, che è nel loro stesso interesse, rischiano d’en­trare in conflitto con la Russia, la quale invece è andata assimilando molto più abilmente l’Oriente dell’Europa. « Videbis, fili mi, quam parva sa­pienza regitur mundus»!» (al figlio, 1 novembre 1945).

Il 24 novembre in una breve missiva alla moglie commenta con poche ma forti parole gli attacchi del partito liberale al mi­nistero Parri: « La crisi mi fa schifo. Non ho veduto don Be­nedetto ».

Caduto il governo, l ’Omodeo fa la storia della crisi in un

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articolo dal titolo II Partito liberale e la crisi del novembre 1945 16 dal quale con l’atto d’accusa contro il partito di Benedetto Croce, esce la difesa del governo nato dalla guerra partigiana e dalla liberazione:

« Non avevano da imputare al Farri se non leggi che essi stessi o i loro ministri avevano approvato. Il governo Parri aveva fatto tutto quanto era possibile al governo di un paese a cui non è ancora ricono­sciuta la piena sovranità. Gli uomini del Partito d’Azione avevano lavo­rato sul concreto del loro meglio... Dapprima i liberali avevano sussurrato che il Parri era un nuovo Benedetto Cairoli, perchè non aveva le fur­berie piccine che essi pregiano... poi quando videro che aveva il colpo d’occhio cominciarono ad insinuare che era un mistico, un fanatico da cui poteva venir fuori un nuovo dittatore. Avevano anche la sfacciatag­gine di accusare di inettitudine il ministero al quale essi avevano fornito più di un ministro scadente... Questa la storia sciagurata di un gruppetto di « abili » i quali han vagheggiato d’industrializzare per fini politici la dottrina di Benedetto Croce, su per giù come gli attualisti avevano indu­strializzato l’« atto puro » al servizio del fascismo » 17.

Ormai la veemenza critica con la quale l’Omodeo giudica posizioni di partiti e di uomini nel quadro travagliato dell’ Italia appena uscita dalla guerra, lo porta ad uno stato di esasperazione, e lo fa un po’ rassomigliare ad un cavaliere che nel nome di ideali troppo lontani dalla politica, difficili a realizzarsi in un mondo in rovina, combatte solo, a spada sguainata, contro una turba che in cerchio lo assale. I colpi cadono or sugli uni or sugli altri:

« I giornali liberali mi attaccano in istile fascistico. Non importa. Ma se Sparta piange, Messene non ride e anche il Partito d’Azione è in condizioni deplorevoli per inettitudine e cretinismo. Al congresso si dovrà pur concludere qualcosa, altrimenti è inutile restarci » (a L. Russo, 22 gennaio 1946).

Il 15 febbraio scrivendo alla figlia Anna, le annuncia:« In fatto di politica saprai che mi son dimesso dal Partito d’Azione ».

Per la sua autorità come uomo di studio è invece sollecitato da tutte le parti; riviste, giornali, compresa la Critica del Croce, chiedono insistentemente la sua collaborazione di storico del R i­sorgimento e dell’antico Cristianesimo. In questi mesi, tuttavia, la stanchezza fisica lo aveva prostrato; era già cominciata quella

16 Acropoli, n. n , 1945.17 Libertà e storia, c it ., p. 3 7 1 .

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terribile febbre che tra incubi e spasimi lo trasse rapidamente a morte il 28 aprile 1946, quando egli sognava di riprendere « pu- rificato dei caduchi interessi dell’empirica vita » la sua opera di studioso, attratto dal fascino «delle primavere storiche, delle grandi età creatrici, delle grandi eruzioni e dei grandi protagonisti della storia » 1S.

Con questa visione cadde la sua mano su l’ultima pagina interrotta: « la nostalgia del passato ».

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Commetteremmo un errore di giudizio se volessimo ricreare la personalità dell’Omodeo misurandola a schemi ideali, e ricer- cando quello che egli non fu.

Anzitutto non combattè il fascismo da una aperta trincea di opposizione; negò anzi la possibilità e l’efficacia della cospira­zione e dell’ insurrezione di fronte alla forza repressiva di uno stato moderno. Il che non ci impedisce, tuttavia, di pensare che la sua sensibilità di mazziniano e di storico del Risorgimento lo abbia portato ad un moto di solidarietà morale verso coloro che negli anni oscuri dell’oppressione avevano testimoniato nelle car­ceri, negli esili e nella morte la loro fede nella libertà. Di questo nulla, pertanto, traspare nel lungo epistolario; egli combattè co­raggiosamente la battaglia per l’autonomia e la dignità della cul­tura; perciò, come abbiam detto, il suo fu il dramma dell’intel­lettuale in tempi di servitù, e fu per lui e per altri come lui, aspra e nobile sofferenza.

« Nel triste ventennio ci angustiava assai veder ristretta la cultura militante in poche persone, che dovevan conservare germogli e virgulti a cui parevan ostili la terra e il cielo » 18 19.

Quando sulla distesa delle rovine riapparve la luce della libertà, anche l’Omodeo visse la sua stagione politica; vissero tutti la loro grande illusione, credendo tutti di poter finalmente parlare lo stesso linguaggio. Si accorsero, peraltro, ben presto che il fascismo non era stato tanto un regime politico, quanto un modo di vivere, un costume che non solo durava, ma sarebbe durato chissà quanto

18 II senso della storia - 35 anni di lavoro storico, Torino, 1955, p. 13 .19 II senso della storia, cit., p. 16, luglio-agosto 1945.

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tempo ancora; allora a poco a poco i più vulnerabili si ritrassero, feriti dalla crudele verità. Altri più preparati e meno illusi resi' stettero piegandosi alle dure condizioni della prassi politica, che più di un procedimento lineare esige troppo spesso un procedi' mento tattico; alcuni, loro malgrado, nella speranza di recare il loro disinteressato contributo al progresso civile della nazione.

Altri, invece, accettando metodi antichi in uomini che si dicevano nuovi, intrapresero la via dei compromessi, spinti dalla forza dell’ambizione, che offuscò il ricordo di ideali e di sacri' fici lontani.

L ’Omodeo, anche nelle ore tempestose del suo agire pratico, rimase uomo di studio, incapace di sacrificare ai principi del rea- lismo politico, la fedeltà al principio morale, del quale egli rite- neva che la cultura, intesa nel senso più alto, dovesse in ogni momento essere vigile custode.

Bianca Ceva.