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NEWSLETTER OTHEREARTH www.otherearth.it Numero 5 – Ottobre-Novembre-Dicembre 2011 La tendenza dell’uomo alla distruzione della natura in onore di GEOGE PERKINS MARSH Atti del convegno tenuto a Roma nella sala del Senato della Repubblica via di Santa Chiara 5 il 6 dicembre 2011 INDICE Questa newsletter di OtherEarth pag. 2 Introduzione: Man the disturber di Vittorio Sartogo pag. 2 Usi di natura ed energia: effetti sulla natura di Giorgio Nebbia pag. 6 Paesaggio e dissesto Opera imperfetta dell’uomo secondo George Perkins Marsh diBernardo Rossi Doria pag. 10 Il ritorno dei beni comuni di Giovanna Ricoveri pag. 15 Associazione OtherEarth Forum energia ricerca e-mail: [email protected] sito web: www.otherearth.it - 1 -

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NEWSLETTER OTHEREARTHwww.otherearth.it Numero 5 – Ottobre-Novembre-Dicembre 2011

La tendenza dell’uomo alla distruzione della naturain onore di

GEOGE PERKINS MARSH

Atti del convegno tenuto a Roma nella sala del Senato della Repubblica via di Santa Chiara 5 il 6 dicembre 2011

INDICE

Questa newsletter di OtherEarth pag. 2Introduzione: Man the disturber di Vittorio Sartogo pag. 2Usi di natura ed energia: effetti sulla natura di Giorgio Nebbia pag. 6Paesaggio e dissestoOpera imperfetta dell’uomo secondo George Perkins Marsh diBernardo Rossi Doria pag. 10Il ritorno dei beni comuni di Giovanna Ricoveri pag. 15

Associazione OtherEarthForum energia ricerca

e-mail: [email protected] web: www.otherearth.it

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Questa newsletterdi OtherEarth

Pubblichiamo le relazioni del prof. Giorgio Nebbia, del prof. Bernardo Rossi Doria e della dott.ssa Giovanna Ricoveri nonché l’introduzione al ricordo di George Perkins Marsh, svolte il 6 dicembre scorso, presso la sala del Senato di via di Santa Chiara a Roma. Cogliamo l’occasione per ringraziare il sen. Vincenzo Vita e la sua collaboratrice Daria Mastrantonio per la cortese disponibilità ad ospitare l’incontro.

A conclusione dell’incontro il prof. Nebbia ha suggerito di costituire un gruppo di “marshiani”, atteso che in varie parti d’Italia vi sono cultori del suo pensiero e che in maggio si terrà a New York, secondo una notizia riferita dalla dott.ssa Lucia Ducci, un Convegno dedicato a Marsh. Peraltro, nel prossimo luglio ricorrerà il 130mo anniversario della morte di Marsh e potrebbe essere l’occasione per un ulteriore momento di riflessione con la partecipazione anche degli studiosi che per vai motivi non han potuto essere presenti il 6 dicembre scorso. Comunque va meditato il suggerimento del prof. Nebbia e su di esso dunque torneremo. Intanto sul sito di Otherearth è aperta una pagina dedicata a Marsh, in cui accogliere idee, e riferire iniziative, oltre alla documentazione, anche fotografica, dell’incontro del 6 dicembre scorso.

Con gennaio 2012 la nostra newsletter riprenderà il suo corso mensile dedicato ai grandi problemi dell’energia e di una crisi internazionale la cui soluzione - più che nel rigore dei conti, nell’affievolimento ulteriore dei diritti di chi lavora o cerca lavoro, nella discriminazione di genere e del diverso e nella irrilevanza assegnata alla natura in funzione della ripresa della crescita quantitativa, finanziaria e materiale, che è all’origine della crisi stessa e del mantenimento delle strutture di potere economico e sociale che producono enormi diseguaglianze e perdita di democrazia – andrebbe ricercata impegnandosi nella faticosa ricerca di nuove strade. Che per noi si chiamano riconversione ecologica della produzione, eguaglianza, armonia con i processi naturali: strada impervia ma necessaria ed urgente.

Sia il 2012 un buon anno in questo senso. Tanti auguri da OTHEREARTH

Introduzione: Man the disturberdi Vittorio Sartogocoordinatore OtherEarth, forum energia ricerca

Perché abbiamo voluto questo incontro per ricordare George Perkins Marsh? E chi era Marsh? Perché è importante guardare a quello che ha fatto e scritto? Il titolo dell’incontro “ La tendenza dell’uomo alla distruzione della natura” è quello stesso di un paragrafo del capitolo 1° dell’opera di Marsh “L’uomo e la natura. Ossia la superficie terrestre modificata per opera dell’uomo”, nell’edizione a stampa italiana del 1872. La prof.ssa Fabienne Vallino - curatrice della ristampa anastatica dell’opera, cui ha premesso una introduzione importantissima per inquadrarla nel contesto suo proprio, per comprenderla e per capire chi ne fosse l’autore - ha tenuto a precisarmi che la traduzione italiana lascia molto a desiderare rispetto all’inglese scelto con particolare cura da Marsh. Ma ecco alcuni brani:“L’uomo ha troppo dimenticato che la terra gli è stata concessa soltanto perché egli ne tragga frutto ma non la esaurisca, e tanto meno la devasti spensieratamente… Quando non agisca l’azione ostile dell’uomo, il mondo organico e l’inorganico sono…stretti assieme da mutue relazioni e proporzioni che assicurano, se non l’assoluta stabilità e l’equilibrio di entrambi, una lunga durata delle stabilite condizioni di ognuno in

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qualunque dato tempo e luogo, o almeno un lentissimo e graduato succedersi di mutamenti in quelle condizioni. Ma l’uomo è in ogni luogo un agente perturbatore…I vegetali e gli animali indigeni sono estirpati e sostituiti da altri di origine straniera; la produzione spontanea è impedita o limitata, e la faccia della terra interamente spogliata…Questi mutamenti fatti con proposito deliberato e queste sostituzioni costituiscono…grandi rivolgimenti; ma per quanto grandi ne siano la estensione ed importanza, sono però insignificanti, come vedremo, in paragone degli effetti imprevisti e casuali che ne sono derivati.”Sono già valutazioni sufficienti per suffragare l’urgenza di studiare e riproporre analisi che, oggi, sembrano scomparse come direzione dell’agire umano. Marsh, di fatto, propone concetti attualissimi, quali la distinzione tra i lentissimi tempi biologici, naturali, e i tempi storici, o la parzialità delle condizioni della conoscenza; diremmo oggi l’agire in un contesto di incertezza, che dovrebbe far valere il principio di precauzione. Nella prefazione all’edizione originale, dicembre 1863, Marsh usò proprio questa parola:“Lo scopo del presente libro è quello di indicare la natura e, approssimativamente, l’estensione dei cambiamenti indotti dall’azione dell’uomo nelle condizioni fisiche del globo che abitiamo; mostrare i pericoli che può produrre l’imprudenza, e la necessità di precauzione in tutte quelle opere che, in grandi proporzioni si interpongono nelle disposizioni spontanee del mondo organico e inorganico…”E insiste : l’uomo non“si limita a soddisfare l’appetito, egli perseguita senza posa, fino alla distruzione, migliaia di esseri organici che non può consumare...(in nota Marsh osserva che l’indole terribilmente distruggitrice dell’uomo è dimostrata in modo evidente dalla caccia di grossi mammiferi e di uccelli per ottenere un solo prodotto… pelli… corna…lingua…denti… osso…con un intero sciupio di enormi quantità di carne, e di altre parti dell’animale) [e]quando diviene necessaria, fino ad una certa misura, la trasformazione della superficie terrestre…per mala sorte questa misura è stata oltrepassata dall’uomo. Egli ha abbattuto le foreste, le radici fibrose delle quali legavano la terra vegetale allo scheletro roccioso dei monti; ma se avesse permesso qua e là ad alcune striscie di boschi di riprodursi per spontanea propagazione, molti danni derivanti dalla spensierata distruzione dei naturali protettori del terreno si sarebbero potuti evitare. Egli non solo ruppe i serbatoi naturali delle montagne, da cui colando le acque per invisibili canali venivano ad alimentare le sorgenti...;ma ha trascurato di conservare le cisterne e i condotti di irrigazione che una saggia antichità aveva costrutto per neutralizzare le conseguenze della propria imprudenza. Mentre l’uomo ha distrutto il tappeto erboso che proteggeva e legava la terra leggera di estese pianure, e ha disperso le file di piante semiacquatiche che orlavano la costa e arrestavano l’espandersi delle sabbie della spiaggia, non ha impedito lo estendersi delle dune piantandovi una vegetazione artificiale…e la sua azione di struggitrice diviene sempre più potente e spietata quanto più egli procede nella civiltà…”Tremenda conclusione, ampiamente confermata sia dalle recenti pesantissime sciagure di Toscana, Liguria, Sicilia, sia più in generale dai disastri del reattore di Fukushima e dello sversamento di petrolio nel Golfo del Messico, o dal progressivo e accelerato aumento dell’inquinamento dell’aria, del suolo, dell’acqua, per ricordare solo alcune delle tante tragedie grandi e meno grandi che costellano ormai per frequenza e intensità il nostro tempo. Walter Benjamin scriverà che “il maltempo stesso è un indice dello stato di questo mondo” e “il denaro fa il paio con la pioggia, non con il sole”, legando indissolubilmente, con il procedere del cosiddetto progresso, denaro e maltempo. Non per caso Marsh, quando nel gennaio 1870 compilerà l’avvertenza per il pubblico italiano segnalando la pubblicazione, due anni prima, dell’opera “La terra” di Reclus e raccomandandone la lettura, aggiungerà:“Tuttavia il signor Reclus si trattiene più specialmente intorno all’azione conservatrice e restauratrice dell’industria umana, anziché intorno all’azione sua distruggitrice, e fa un quadro incoraggiante e attraente delle influenze miglioratrici dell’azione dell’uomo, e dei compensi coi quali egli consapevolmente o inconsapevolmente rimedia al deterioramento che ha prodotto nelle condizioni fisiche del mezzo in cui abita.”

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“L’uomo il disturbatore” era il titolo pensato da Marsh, l’uomo sconvolgitore delle armonie della natura a loro volta frutto di complesse dinamiche interattive, il turbatore degli equilibri degli ecosistemi diremmo oggi, che poco sa come porvi riparo, cosicché la Terra ne resta segnata. Ma l’editore non accettò il titolo, parendogli in contrasto con il sentire dell’epoca e fu scelto alla fine quello che conosciamo, restando solo nel sottotitolo l’accento sulla “funzione” disturbatrice dell’uomo. La prof.ssa Vallino approfondisce, nella citata introduzione, il complesso nodo problematico in cui si inserisce la ricerca di Marsh. E così fa anche David Lowenthal nell’introduzione alla riedizione del 1965. E’ un dibattito cui qui non possiamo dedicare che pochi cenni sintetici, sperando di schivare, almeno, i più gravi pericoli di schematismo e superficialità. Nel clima scientifico che fa da sorgente per l’opera di Marsh si stagliano, com’è noto, notevoli figure. Georges Louis Buffon che con la sua “Storia della natura” disegna un processo di trasformazione incessante, per così dire incontenibile risultato di forze interagenti; critico della rigida classificazione di Linneo, Buffon deriva dal movimento l’equilibrio naturale e si può risalire al suo farsi nel tempo attraverso la raccolta di dati che ne identifichino le epoche, tra le quali l’ultima vede il fiorire dell’uomo come elemento cruciale di cambiamento. Il tempo di Buffon, la seconda metà del ‘700, è il tempo dello illuminismo, dei fisiocratici, dell’Enciclopedia, di Adam Smith che guardano la natura come una creazione di Dio, ma con una sua autonomia. Alexander von Humboldt che studia la geografia delle piante, e non solo la loro classificazione, con un approccio che diremmo oggi interdisciplinare e olistico, cercando di ricostruire la storia stessa dei continenti. Le grandi figure di Goethe, dello stesso Kant, di Friedrich Schelling e la nuova filosofia della natura. Darwin ovviamente e Alfred Russel Wallace e l’evoluzione in cui l’ambiente resta determinato dall’interdipendenza tra i differenti organismi viventi che lo compongono e dalle relazione di questi con i connotati fisici, chimici, geologici dei minerali e delle acque. Ernst Haeckel che per primo usa la parola ecologia, la natura appunto come casa degli esseri viventi, tutti, anche dell’uomo. Ovviamente tantissimi altri autori e pensatori, tra cui l’americano Emerson della vita nei boschi e del Club di Boston, dai quali, e dalle sue proprie osservazioni Marsh trae la consapevolezza dell’irriducibilità della scienza ad ogni finalismo trascendentale, della inesistenza di un Grande Disegno che si rivelerebbe nell’interpretazione della natura. Scopo dello studioso è quello di conoscere l’organizzazione della realtà fisica, mentre la ricerca di Dio resta al fuori del mondo fisico come atto intimo dell’individuo. Contemporaneamente, Marsh condivide l’opinione della forza dell’intelligenza umana nel soggiogare la natura. E’ un’opinione che si trova anche in Karl Marx, e nel Manifesto del 1848, dove scrive che “ nel suo dominio di classe, che dura appena da un secolo, la borghesia ha creato delle forze produttive il cui numero e la cui importanza superano quanto mai avessero fatto tutte insieme la generazioni passate. Soggiogamento delle forze naturali, macchine, applicazione della chimica all’industria e all’agricoltura, navigazione a vapore, ferrovie, telegrafi elettrici, dissodamento di interi continenti, fiumi resi navigabili, intiere popolazioni sorte quasi per incanto dal suolo – quale dei secoli passati avrebbe mai presentito che tali forze produttive stessero sopite in grembo al lavoro sociale?” e se la borghesia sembra a Marx uno stregone che non può più dominare le potenze che ha evocato, così per Marsh la forza distruggitrice dell’uomo dev’essere intanto riconosciuta per capire i disastri che sta compiendo e per poter almeno evitare guai peggiori. Marsh dimostra qui la sua modernità, la lucidità della sua analisi, la profondità e l’umiltà del vero pensatore. Il paragrafo finale del libro “In natura niuna cosa è piccola” è esemplare:“E’ una massima legale, che la legge non si cura delle cose minime: de minimis non curat lex; ma nel vocabolario della natura, il piccolo e il grande non sono che termini comparativi, essa non conosce nulla di minimo o di insignificante, e le sue leggi sono inflessibili tanto se si tratta di un atomo, quanto di un continente o di un pianeta. Le operazioni umane menzionate nei precedenti paragrafi e nelle note, agiscono quindi certamente nei modi loro assegnati, sebbene le nostre limitate facoltà siano ora, e forse saranno sempre, inette a calcolare le loro immediate, e molto meno le loro ultime conseguenze. Ma la nostra impotenza ad assegnare un valore definito a queste cause perturbatrici delle disposizioni naturali non è una ragione per ignorare l’esistenza di cosiffatte cause in qualunque considerazione generale dei rapporti fra l’uomo e la natura, e noi non abbiamo mai ragione quando asseriamo che una forza è insignificante perché

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non ne possiamo accertare la misura, o anche perché nessun effetto fisico può ora essere indicato come originato da essa.”

Salvatore Settis, nel suo ultimo libro “Paesaggio costituzione cemento” sintetizza così il lascito di Marsh: “Nato dalla natura, l’uomo ne è diventato il peggior nemico, e solo la consapevolezza dei rischi e delle distruzioni (per esempio la desertificazione prodotta dalle deforestazioni) può rallentare quel fatale processo o capovolgerlo mediante strategie di conservazione.” Processo estremamente arduo, anche perché, a seguito dell’urbanizzazione come sottolineò a suo tempo Lewis Mumford, gli esseri umani “perdono il contatto con la natura e il senso di affinità con essa” . Mumford scrisse che “il futuro dell’uomo è nero” perché, tra l’altro mentre le capacità tecnologiche e scientifiche sono enormemente progredite altri importanti elementi della cultura umana, dall’etica alla religione all’educazione si sono “disintegrati”, cosicché se “vogliamo raggiungere un qualche grado di bilancio ecologico, dobbiamo mirare anche al bilancio umano” (Man’s Role). Una rivoluzione culturale è necessaria, diremmo oggi, per la “ristaurazione delle armonie perturbate” secondo l’espressione usata da Marsh. Ristaurazione che su suo impulso ha dato vita alla istituzione dei grandi Parchi statunitensi; ristaurazione che non può essere lasciata alla volontà dei singoli ma divenire preminente funzione dello Stato. Scrive una nota di impressionante modernità:“Il motto che il mondo è troppo governato sebbene sfortunatamente troppo vero in molti paesi…ha fatto molto danno ovunque è stato accettato senza condizioni come assioma politico. Il timore del popolo di essere troppo governato, e, forse, più ancora la paura di essere troppo tassato, ha grandemente contribuito a promuovere lo abbandono generale di certi doveri governativi… Senza dubbio l’organizzazione e la direzione di queste istituzioni per parte del governo sono soggette ,come tutte le cose umane, a grandi abusi…Ma la corruzione che ne viene, per quanto sia grande, non ferisce mai tanto addentro quanto quella delle società private;… L’esempio degli Stati Americani dimostra che le società private – la cui regola d’azione è l’interesse della società, e non la coscienza dell’individuo - sebbene composte di elementi ultrademocratici, possono divenire i più pericolosi nemici delle libertà nazionale, degli interessi morali della repubblica, della equità della legislazione, della purità dell’azione giuridica e della inviolabilità degli interessi privati”.Purtroppo oggi, l’opinione corrente dei governi europei è tutt’altra, è piuttosto quella di rimuovere ciò che chiamano i tabù che frenerebbero la competitività. Tabù che identificano nei cosiddetti privilegi di pensionati e lavoratrici o lavoratori, piuttosto che nel potere del denaro che vuole crescere illimitatamente, comunque in un modello sociale e produttivo che non pone al centro l’interesse dell’impresa privata. Così abbiamo governi tecnici, più propriamente di contabili, che riducono lo Stato ad azienda considerando la parità di bilancio la tavola della legge, che tassano la povera gente e a cui sfugge totalmente che ci potrebbe essere un’altra via d’uscita dalla crisi, con un potere pubblico che investa e premi il restauro del territorio, la qualità dell’abitare e del muoversi mediante la crescita non dei consumi individuali, ormai volti alla sola sostituzione, ma di beni e servizi collettivi e ambientali.

“L’uomo e la natura” contiene, lo abbiamo accennato, descrizioni e analisi pensate per il pubblico italiano, sia all’inizio poiché comincia con paragrafi dedicati ai vantaggi naturali del territorio dell’Impero Romano e al decadimento fisico di quel territorio e di altre parti del mondo antico; sia perché in varie parti del libro tratta del Po, dei fiumi toscani, della bonifica della Maremma, delle acque carsiche, del Monte Testaccio presso cui poi lui stesso riposerà e tuttora riposa. “I rottami di stoviglie delle vecchie città della Magna Grecia compongono strati di tale estensione ed altezza che sono stati nobilitati con l’appellazione di formazione ceramica…”

Il nostro incontro non è specificamente dedicato alla vita e all’azione diplomatica di Marsh, al suo amore per gli italiani e alla sua vicinanza alle lotte per l’indipendenza del nostro Paese e a figure eminenti del Risorgimento e del primo periodo post-unitario. Marsh, molto fiducioso nel futuro della nazione italiana,

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tuttavia vedeva con lucidità gli ostacoli da superare: dalla presenza ingombrante e condizionante della Chiesa, alla situazione economica e sociale così differente tra le diverse regioni, al bassissimo livello dell’istruzione, all’arretratezza dell’agricoltura, ecc… aggravate dalla modestia che riscontrava nei punti di vista dei governanti.Il Centro Studi Americani di Roma ha tenuto recentemente un convegno dal titolo:"150 anni di rapporti diplomatici tra Italia e Stati Uniti: George Perkins Marsh 1° ambasciatore", con una relazione del prof. Daniele Fiorentino. Ed è presente la prof.ssa Lucia Ducci che ha curato la raccolta delle lettere di Marsh come ambasciatore, edite da l’Ornitorinco con il titolo emblematico “l’Unità debole”. Dal quale riporto l’ultima parte di una lettera di Marsh, in cui egli rileva i limiti del pensiero e dell’azione politica del regio governo sulla questione romana, E’il 3 gennaio 1871, a commento della visita del Re a Roma, tre giorni prima solo per alcune ore, scrive“Secondo il modesto punto di vista dei politici italiani, la visita a Roma è guardata come una abile mossa, perché evita per il momento, la necessità di discutere ogni questione connessa con le relazioni personali e ufficiali tra il re e il Papa, così come altre imbarazzanti questioni…Io non penso, comunque, che niente sarà raggiunto, nel lungo termine, con trasferimenti ed espedienti negli accordi tra il re e il papato, e come ho spesso fatto notare, sono fermamente convinto che una forte e determinata azione da parte del governo italiano fin dall’inizio avrebbe già portato una soluzione a queste difficoltà, che adesso sembrano più remote che mai.”

In articoli pubblicati negli Stati Uniti, Marsh si occupò dell’educazione della donna italiana, condizione necessaria per il suo progresso. Verso l’emancipazione della donna mostra un interesse per niente episodico o marginale: nel 1844 aveva svolto una Conferenza presso la Società del New England di New York sull’argomento e il tema del rispetto della donna, delle sua dignità, del riconoscimento della “eroica fermezza” e delle sue qualità morali “sono temi costanti nel pensiero del grande studioso – nota Fabienne Vallino - , rintracciabili sempre nei suoi scritti sino alla fine della vita. ”

Marsh, una figura straordinaria, ci ha lasciato una lezione di grande lucidità: il rapporto con la natura non può essere di dominio ma neppure di separazione; va preservato integrando in essa l’azione dell’uomo, facendo in modo, come scrisse che dove è necessario operare“le condizioni primitive geografiche e climatologiche …[siano] per quanto possibile conservate”. Ed è per questo che abbiamo chiesto ad alcuni studiosi di parlarne qui oggi. Ad essi passo ora la parola.

Usi di natura ed energia: effetti sulla naturadi Giorgio Nebbiaprofessore dell’Università di Bari

L’opera principale di George Perkins Marsh, “L’uomo e la natura. Ossia la superficie terrestre modificata per opera dell’uomo”, (databile alla seconda metà degli anni sessanta dell’Ottocento, gli stessi in cui Haeckel “inventa” la parola ecologia) stimola a chiedersi “perché” e come l’uomo, in quanto animale speciale, è stato capace di modificare, e in modo così rilevante, la Terra. La vita nella biosfera, per centinaia di milioni di anni, è stata caratterizzata da un continuo scambio di materia e di energia da un organismo all'altro e da ogni organismo vivente al mondo circostante.

I flussi di materia e di energia che coinvolgono organismi produttori, consumatori, decompositori --- cioè gli attori del grande affascinante dramma della vita --- sono a ciclo chiuso, con limitate modificazioni del mondo

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fisico circostante e tali sono rimasti fino a pochi milioni di anni fa quando, fra alcuni primati, è comparso un animale che ha seguito una propria strada ed ha cominciato a manifestare i caratteri che noi attribuiamo al genere Homo.

Per tre o due milioni di anni i nostri antichi predecessori non sono stati molto differenti dagli altri animali al livello trofico di “consumatori”. La principale differenza stava forse nella capacità di osservare, di comunicare in qualche modo i risultati delle proprie osservazioni ad altri animali dello stesso genere, nella tendenza ad usare le zampe anteriori, liberate dalla funzione di locomozione grazie alla posizione eretta sulle zampe posteriori, per toccare e modificare il mondo circostante.

Sta di fatto che per lunghissimo tempo i nostri predecessori si sono nutriti di bacche, foglie e radici trovate e raccolte nel loro andare per il mondo, si sono protetti dal caldo e dal freddo e dai predatori cercando rifugio in grotte o caverne, e con la caccia --- caratteristica dei predatori --- hanno ricavato cibo da altri animali. Queste piccole comunità di raccoglitori-cacciatori sono sopravvissute a glaciazioni e alluvioni interglaciali e hanno lentamente perfezionato la propria esperienza preparando quella che sarebbe stata la prima grande rivoluzione della storia.

La rivoluzione agricola si è verificata circa 10.000 anni fa, alla fine del Paleolitico e all'inizio del Neolitico, quando alcuni gruppi di persone (persone, ormai e non più solo animali) hanno scoperto che certe piante potevano essere riprodotte e certi animali potevano essere catturati, tenuti entro spazi limitati, allevati e uccisi senza bisogno di rincorrerli in una faticosa caccia. Da tali animali potevano essere tratti carne alimentare, pellami, latte. Si è avuta così la transizione da piccoli gruppi di raccoglitori-cacciatori a comunità di agricoltori-allevatori che hanno cominciato a fermarsi su un territorio.

Questa transizione ha avuto alcune conseguenze, appunto, rivoluzionarie. La prima è stata l'introduzione dei concetti di "proprietà" e di “classe”; alcuni gruppi o individui hanno considerato "propri" i campi e la terra e gli animali. Gli altri, quelli esclusi dalla proprietà, i più poveri, o più deboli, o meno capaci, hanno dovuto ottenere il cibo vendendo il proprio lavoro che così, pur nelle sue forme più primitive, è divenuto merce. E' nata in questo modo una stratificazione fra una ristretta classe dominante e un'altra, più numerosa, di donne e uomini soggetti ad altri. La violenza di alcuni umani su altri, di alcune classi su altre, si è tradotta ben presto anche in una violenza contro la natura.

Dopo millenni passati al freddo e al caldo, nelle caverne o all'aria aperta, le nuove comunità stanziali hanno cominciato a costruire delle abitazioni durature, a usare il fuoco degli alberi come fonte di energia. Qualcuno ha così scoperto che certe pietre o terre potevano essere utilizzate per costruire case o edifici con cui difendersi dagli animali selvaggi, o per proteggersi dal caldo e dal freddo, muri con cui circondare, a fini di difesa, il villaggio. Si trattava adesso di cercare, nell'ambiente circostante, le pietre più adatte per la costruzione di edifici e rifugi scartadone una parte come scorie delle cave.

Qualcun altro ha scoperto che col calore del fuoco era possibile trasformare certe pietre in “cose” dure e resistenti, chiamate metalli, con i quali era possibile tagliare meglio le rocce e le pietre, macellare meglio e scuoiare gli animali, uccidere coloro che tentavano di invadere i campi o di rubare il bestiame, operazioni che generavano scorie e fumi.

La natura diventò così non più solo sede della vita, ma fonte di materie prime, minerali e metalli e la specie vivente "diversa" la andò modificando attraverso le cave, i fumi dei fuochi. L'estrazione dei metalli richiedeva fonti di energia e la più accessibile era il legno dei boschi, per cui è cominciato un lento diboscamento, anche per ottenere maggiori spazi per le coltivazioni agricole e per i pascoli. Col passare del

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tempo vennero fatte altre scoperte: la conservazione della carne e delle pelli è facilitata dall'aggiunta di sale, una sostanza bianca che si trova qua e la, in giacimenti o che si forma per evaporazione dell'acqua di mare. Chi viveva lontano dai giacimenti o dalle coste marine doveva andare a cercare il sale altrove.

Così alcuni membri della comunità, più intraprendenti, o coraggiosi, affrontarono i mari e terre sconosciuti alla ricerca della materia prima strategica. Per ottenerla dovevano portare con se prodotti agricoli o pelli o metalli e, una volta tornati al posto di partenza, potevano chiedere un premio per il loro coraggio e intraprendenza. Si formò in questo modo un'altra classe di persone, i mercanti, che potevano esigere case altrettanto belle come quelle dei capi e dei re. Nelle case delle classi dominanti l'alimentazione era migliore, le donne e gli uomini coprivano il proprio corpo con qualcosa di più raffinato delle semplici pelli, si cercavano sostanze capaci di condire e dare sapore al cibo. Chi possedeva materie rare, come il sale, i metalli, le spezie, o ornamenti come l'ambra, poteva barattarle con altri prodotti e spesso diventava ricco o ricchissimo.

Se coloro che detenevano materie importanti --- strategiche, come diremmo oggi --- non accettavano gli scambi, venivano piegati con la forza e le guerre, guerre che oggi chiameremmo imperialiste per la conquista delle materie prime: gli sconfitti venivano fatti prigionieri e schiavi e rappresentavano una grande riserva di mano d'opera gratuita che poteva essere comprata e venduta come merce.

Sodoma e Gomorra, le città ricchissime e, a sentire il racconto biblico, peccaminose, dovevano la loro ricchezza al commercio del sale di cui esistevano intere montagne sulle rive del Mar Morto e di cui forse avevano una specie di monopolio. Il racconto biblico (Genesi 14 e 19) della distruzione delle due città riflette il ricordo di guerre condotte con successo dai popoli vicini per la conquista della preziosa materia prima.

La stratificazione in classi e l'imperialismo fecero sentire ben presto le loro conseguenze. La prima conseguenza del possesso delle merci è la rottura dei cicli chiusi naturali: per fini "economici" i beni vengono tratti in crescente quantità dalla natura, vengono trasformati in oggetti, cose utili, merci, e alla natura non tornano più o tornano sotto forma di scorie non più decomponibili nè assimilabili di nuovo nei cicli naturali. Così nella, anzi "sulla", biosfera si inserisce un nuovo mondo, la "tecnosfera", l’universo dei beni naturali trasformati in merci dagli esseri umani.

Da quando i beni naturali della biosfera vengono trasformati e modificati dalla tecnica umana, la presenza e l'attività degli esseri umani fanno sì che certi territori della natura vengano impoveriti (di pietre, minerali, animali, legname, erba dei pascoli, eccetera). Una parte dei materiali viene immobilizzata per tempi lunghi e lunghissimi (per esempio negli edifici) e una parte va a contaminare i territori della natura sotto forma di scorie dei processi umani di trasformazione della natura.

Per alcuni millenni questa operazione è stata relativamente lenta, ma negli ultimi tremila anni si è andata facendo sempre più rapida. Ancora oggi possiamo riconoscere le voragini delle cave da cui gli egiziani traevano le pietre o i minerali; i segni del diboscamento avvenuto in epoca greca e romana per aumentare la superficie dei campi coltivati; troviamo in Toscana depositi di scorie delle attività di estrazione del ferro praticate dagli etruschi; troviamo le gallerie delle miniere nel Sinai, in Sicilia, nell'Attica e i segni (e le conseguenze ecologiche) del diboscamento provocato dalla crescente richiesta di fonti di energia.

Nel mondo umano comincia a comparire il concetto di sfruttamento della natura, intesa come riserva di cose utili e di merci per gli esseri umani. Si è trattato di una reazione a catena, in cui popoli anche lontanissimi nello spazio hanno scambiato esperienze e conoscenze, materie prime e merci, accelerando tale sfruttamento. E ben presto è stato possibile riconoscere le profonde differenze che esistono fra gli scambi di materia e di

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energia nelle altre forme di vita e quelli che coinvolgono gli esseri umani. Tutte le società del passato sono state caratterizzate da perfezionamenti della tecnica, dalla produzione di crescenti quantità di merci e dal conseguente crescente irreversibile degrado della superficie terrestre, quei fenomeni che così bene ha descritto Marsh un secolo e mezzo fa.

Gli stessi che descriveva, con parole simili a quelle di Marsh --- cito per tutte le pagine 49-50 dell’edizione in italiano di Barbera del 1872, quelle pagine che sono state lette ad alta voce dalla dott. Giovanna Ricoveri nel nostro incontro di oggi --- Friedrich Engels nel saggio: “La parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia", databile anch’esso negli anni sessanta dell’Ottocento ma pubblicato soltanto negli anni venti e trenta del Novecento.

"L'animale --- scrive Engels --- si limita a usufruire della natura esterna, ed apporta ad essa modificazioni solo con la sua presenza; l'uomo la rende utilizzabile per i suoi scopi modificandola: la domina. Questa è l'ultima, essenziale differenza fra l'uomo e gli altri animali, ed è ancora una volta il lavoro che opera questa differenza. Non aduliamoci troppo tuttavia per per nostra vittoria sulla natura. La natura si vendica di ogni nostra vittoria. Ogni vittoria ha, infatti, in prima istanza, le conseguenze sulle quali avevamo fatto assegnamento; ma in seconda e terza istanza ha effetti del tutto diversi, impreveduti, che troppo spesso annullano a loro volta le prime conseguenze.

"Le popolazioni che sradicavano i boschi in Mesopotamia, in Grecia, nell'Asia minore e in altre regioni per procurarsi terreno coltivabile, non pensavano che così facendo creavano le condizioni per l'attuale desolazione di quelle regioni, in quanto sottraevano ad esse, estirpando i boschi, i centri di raccolta e di deposito dell'umidità. Gli italiani della regione alpina, nell'utilizzare sul versante sud gli abeti così gelosamente protetti al versante nord, non ... immaginavano di sottrarre, in questo modo, alle loro sorgenti alpine per la maggior parte dell'anno quell'acqua che tanto più impetuosamente quindi si sarebbe precipitata in torrenti al piano durante l'epoca delle piogge...

"Ad ogni passo ci viene ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo da essa, ma che noi le apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo; tutto il nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di adoprarle nel modo più opportuno".

Più avanti, Engels continua "Il singolo industriale o commerciante è soddisfatto se vende la merce fabbricata o comprata con l'usuale profittarello e non lo preoccupano gli effetti di tale attività sulla natura. Prendiamo il caso dei piantatori spagnoli a Cuba, che bruciarono completamente i boschi sui pendii e trovarono nella cenere concime sufficiente per una generazione di piante di caffè altamente remunerative. Cosa importava loro che dopo di ciò le piogge tropicali portassero via l'ormai indifeso 'humus' e lasciassero dietro di se nude rocce ? Nell'attuale modo di produzione viene preso prevalentemente in considerazione, sia di fronte alla natura che di fronte alla società, solo il primo, più palpabile risultato. E poi ci si meraviglia ancora che gli effetti più remoti delle attività rivolte a un dato scopo siano completamente diversi e per lo più portino allo scopo opposto."

I 150 anni che ci separano dalle pagine di Marsh e di Engels hanno visto continui ulteriori “progressi” tecnico-scientifici, cioè merceologici, una continua dilatazione della tecnosfera e una crescente modificazione negativa della superficie della Terra in seguito alla sottrazione di materie e di energia utili e allo sversamento di scorie solide liquide e gassose. Una constatazione che induce a disperazione?

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Si e no; il processo è altrettanto irreversibile quanto il procedere della vita stessa di ogni essere, con buona pace degli ecologismi, delle proposte di sostenibilità o delle illusioni di economie stazionarie. Forse è la misteriosa bellezza del destino umano, con tutte le sue contraddizioni cominciate dal peccato originale. Il secondo racconto della Genesi, capitolo 2, dice che il dio degli Ebrei ha posto l’uomo in un giardino bellissimo perché lo coltivasse e custodisse, ma il destino dell’uomo era che dovesse appropriarsi del frutto proibito dell’albero della conoscenza che non era suo. Forse il vero peccato originale è stata l’aspirazione al possesso, alla proprietà, al di più, e tale peccato non ci sarà perdonato mai.

Paesaggio e dissesto-Opera imperfetta dell’uomo secondo George Perkins Marshdi Bernardo Rossi Doria Professore di urbanistica dell’Università di Palermo

Paesaggio e dissesto Opera imperfetta dell'uomo

Nel primo capitolo del saggio Man and Nature, George P. Marsh documenta che il territorio del bacino mediterraneo era originariamente ricco e fertile, tanto da consentire, l'approvvigionamento dei crociati e dei predoni saraceni durante le loro scorrerie.Mostra anche che l'intervento dell'uomo, per positivo e sviluppista che fosse, richiedeva di essere accompagnato da una politica di restauro ambientale.In sintesi Marsh ha insistito sul fatto che l'intervento umano provoca danni irreversibili che richiedono interventi di restauro.Il restauro è una modalità di gestione del territorio con riscontri visibili e percepibili sul territorio. Non si tratta di ripristino (impossibile) ma di un nuovo assetto del territorio diverso da quello originario.In Europa, questi interventi, sono stati effettuati con la costruzione di nuovi paesaggi, diversi dal paesaggio naturale originario.Questo nuovo assetto è risultante dalla ricerca di nuove e diverse relazioni con la natura. Esse derivano principalmente dalla attività di allevamento e messa a coltura. Cioè da un diverso rapporto dell'uomo con la terra e con gli animali.Non sempre questa attività produce equilibrio e stabilità. Spesso induce squilibrio e instabilità.Le componenti incontrollabili della natura vi fanno fronte ricercando equilibri conseguenti. (Ad esempio nuovi assetti geologici ed idrici).Tra i casi dell'antichità, Marsh cita quello del territorio dell'impero romano, impoverito dai governi imperiali con il prelievo di prodotti agricoli per l'approvvigionamento dell'impero, con l'imposizione fiscale, ecc.Già nel Medioevo invece, e poi col Rinascimento l'attività dell'uomo ha ottenuto risultati virtuosi.Il paesaggio, in particolare il paesaggio agrario, ne è la risultante.Nel Mediterraneo l'espressione di questa azione di restauro è il paesaggio del giardino mediterraneo così come riconosciuto dagli storici del paesaggio agrario (francesi e poi europei).

Il Buon Governo e il Cattivo Governo del territorio

Chi conosce la letteratura sulla storia del paesaggio agrario italiano non può fare a meno di ricordare che già nel 1348 il senese Ambrogio Lorenzetti aveva prodotto i suoi mirabili affreschi sul buon governo e sul cattivo governo (delle città e del territorio).

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Gli effetti del Buon Governo sono illustrati con la rappresentazione di città e spazi agricoli felicemente abitati, mentre gli effetti del Cattivo Governo sono città e territori abbandonati e degradati. Sono cioè effetti di guerre ingiustizia, cattiva amministrazione.

Figura 1: Effetti del Buon Governo in città

Figura 2: Effetti del Buon Governo in Campagna

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Figura 3: Allegoria del cattivo Governo

Figura 4: Effetti del Cattivo Governo in Campagna

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In Italia in tempi moderni questa bella rappresentazione pittorica è stata assunta come criterio di valutazione della qualità del governo del territorio Per questa ragione il paesaggio ha incorporato una dimensione “estetica" che ha introdotto la dimensione visuale della “tutela" che caratterizza la nostra legislazione.Si ricorderà che la legge originaria del 1939 si proponeva di tutelare i punti di vista ed i panorami, e che anche i suoi aggiornamenti contemporanei gli sono coerenti.

Il contributo di George Perkins Marsh

Marsh propone nuove riflessioni e problemi da esplorare. Sollecita l'ampliamento degli sguardi, e sollecita a fare degli sguardi l'oggetto di osservazione, cioè e di riflessione problematica.Non propone soluzioni, ma mostra la necessità di indagare e riflettere.Se guardiamo all'epoca in cui sono proposte queste sollecitazioni, ci rendiamo conto di quanto la problematica del restauro del territorio fosse distante da quella della conservazione e tutela del paesaggio proposta in Italia in tempi moderni.In questo senso non si può affermare che Marsh fosse un promotore della tutela del paesaggio dalle sue alterazioni.Piuttosto è lecito affermare che egli proponesse di considerare il paesaggio come una alterazione più o meno virtuosa della superficie della terra.Anche se la parola ecologia gli era ancora sconosciuta, la sua idea di restauro faceva riferimento alla necessità di assecondare la tendenza alla Stabilità della natura.Considerava il bel paesaggio come indice di una consapevolezza della necessità di compensare il danno delle trasformazioni umane. Il degrado del territorio era invece l'esito di politiche irresponsabili e inconsapevoli di appropriazione di risorse.Le cronache di questi giorni sul dissesto dei territori, non solo italiani, sulle alluvioni e sugli esiti delle stesse, ci propongono diversi interrogativi, forse retorici, ma importanti.La mancata attenzione delle società dominanti durante il cosiddetto secolo breve, riguardo ai problemi della manutenzione del territorio, dopo che già al momento dell'insediamento del governo dell'Italia Unita, un osservatore attento proveniente dal nuovo mondo, come G. P. Marsh, aveva sollevato il problema in maniera straordinariamente documentata, assume oggi il significato di una denuncia nei confronti delle classi dirigenti che hanno operato in Italia (e in Europa) durante i 150 anni chestiamo celebrando.Eppure nei testi di cui parliamo oggi si trovano abbondanti riferimenti agli effetti ecologici devastanti che sarebbero conseguiti alla irresponsabile opzione che oggi chiameremmo Consumista e Sviluppista, ovvero dilapidatrice, che ha prevalso a dispetto di quella straordinaria denuncia.In sostanza il messaggio di GP Marsh è rimasto ignorato e in ogni caso inascoltato.Ma cosa bisognava fare?Due sono le sue sollecitazioni:

• Il passaggio dall'uso di risorse naturali, all'uso di risorse prodotte in colture e allevamenti domestici, altera gli equilibri naturali (ecologici) della superficie della terra. Per questa ragione occorre la ge-stione (governo) del territorio. Ma, anche se la trasformazione agricola del territorio fosse fatta aven-do cura di mantenere un buon governo dello stesso, occorre prevedere e prevenire fenomeni naturali determinati dal fatto che la natura ricerca in ogni caso nuovi equilibri.

• L'uomo può intervenire solo in parte nell'orientare i nuovi equilibri (assetto del suolo, governo delle acque superficiali, gestione della vegetazione erbacea e arborea, ecc.) Ma vi sono anche eventi natu-

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rali le cui conseguenze non sono prevedibili ne governabili dall'uomo: sommovimenti geologici, eventi meteorologici, ecc.

L'impatto delle “Grandi Opere"

Gli Sguardi di G.P. Marsch sono anche quelli rivolti alla realizzazione di quelle che sono oggi chiamate le “Grandi Opere" dell'uomo.In particolare ai molteplici progetti di canalizzazione delle acque dei grandi fiumi a cominciare da quelle dell'antichità, alla progettazione e la realizzazione spesso fallita del taglio di Istmi, alla ricerca di comunicazioni tra il Nilo e il Mar Rosso, tra gol_ del bacino mediterraneo (Corinto, mar di Marmara, MonteAthos ecc.), per poi trattare dei grandi progetti moderni come il taglio dell'istmo di Suez e i canali nel Mare del Nord, le grandi Bonifiche dei Paesi Bassi, e le grandi opere proposte per il territorio del nuovo mondo dove si situa il suo punto di osservazione.La descrizione di ciascun caso dell'antichità come dei tempi moderni propone riflessioni importanti ed affini a quelle riferite alle conseguenze della costruzione di paesaggi .Anche in questo caso a distanza di 150 anni si propone una riflessione su quelle che oggi si chiamano “grandi opere" e che sono già oggetto di resistenza da parte di movimenti partecipativi locali e di reti di movimenti.

Riprendere la lezione di G.P. Marsch

Da una parte ci si pone un interrogativo sugli scenari ipotetici di assetto della superficie terrestre che avrebbero potuto verificarsi ove vi fosse stato un tempestivo ascolto delle riflessioni di G P Marsch .Dall'altra è di attualità una ipotesi di riascolto, pure tardiva, di quelle sollecitazioni:Cosa si dovrebbe e si potrebbe ancora fare ora che il territorio Europeo, Mediterraneo e globale _e devastato dalle incontrollabili (anche se persino previste) reazioni della natura?Il movimento “ambientalista" è diviso tra

• fautori della crescita e dello sviluppo ritenuti “compatibili" che alla lunga continuano ad alterare gli equilibri ecologici.

• fautori di nuovi modelli di governo delle risorse , ecc crescita zero, riciclaggio, arresto della urba-nizzazione dei suoli agricoli, riqualificazione “ecologica" degli insediamenti esistenti, produzione locale e consumi km zero, produzione energetica locale, risparmio energetico dell'edilizia.

Per sintesi conviene rendere esplicita la contrapposizione tra prospettiva della riqualificazione compatibile (o sostenibile) e la prospettiva della riconversione ecologica, ed aprire un confronto programmatico.

La prospettiva dello sviluppo compatibile

In questo modello, sviluppo significa crescita. Crescita sarebbe crescita del PIL.IL PIL è il ricavato della vendita delle merci prodotte nei diversi settori (agricolo, manifatturiero, culturale). La vendita presuppone che vi siano dei consumatori che acquistino i prodotti. Ma la riduzione dei salari riduce il consumo. I prodotti non si vendono.L'aumento dei salari non è possibile perché gli utili, invece di essere reinvestiti vanno ad incrementare i patrimoni, causando una iniqua distribuzione della ricchezza. L'acquisto dei prodotti viene allora finanziato col debito (carte di credito dei consumatori e altre tipologie di prestiti per le imprese).

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Solitamente i prestiti si fanno a fronte delle cosiddette garanzie che sono beni materiali mobili e/o immobili. E siccome l'insieme delle merci (quelle consumate dai lavoratori e dai piccoli produttori) diminuisce a causa delle iniquità di cui sopra, diminuiscono anche i beni dati in garanzia.In linea di principio non vi sarebbero ulteriori beni da dare in garanzia. I debitori (per fame, bassi salari ecc.) dovrebbero risultare inadempienti, ed il sistema sociale ed economico dovrebbe entrare in crisi. Documentando così la impraticabilità della prospettiva della crescita, ed aprendo la strada a diversi scenari economici.E’ a questo punto che le garanzie si virtualizzano. Interviene la finanza (le banche) che moltiplica il valore delle merci creando altra liquidità fittizia con la vendita del debito a terzi, costruendo così i cosiddetti derivati. )Questo cumulo di debiti non si traduce in utile ma si trasforma in prodotti finanziari. (Titoli, azioni ecc. il cui valore è fittizio o virtuale).Nel mondo si calcola che i prodotti finanziari hanno un valore virtuale tra dieci e venti volte il valore dell'insieme del PIL, cioè delle merci prodotte.Questa differenza è la cosiddetta “Bolla". Che non si sa come (o non si vuole) sgonfiare. A causa della finanziarizzazione del debito la grande finanza andrebbe in crisi e per questo fa di tutto per impedire la volatilizzazione dei crediti derivati.Ma più i prodotti finanziari si gonfiano, più si riducono i salari e la capacità di consumo. E la “crescita" produce beni invendibili ed invenduti (si guardi al settore della produzione di infrastrutture ed immobili). E’ drogata ed entra in crisi. E’ questo il motivo del dissesto e del degrado ambientale.

La prospettiva di un futuro senza 'crescita'

Invece, sono sempre più attendibili affermazioni come questa:

E’ ora di pensare - e progettare seriamente – un mondo capace di soddisfare i bisogni di tutti e di consentire a ciascuno una vita dignitosa anche senza - crescita. Semplicemente valorizzando le risorse umane, il patrimonio dei saperi, le fonti energetiche e le risorse materiali rinnovabili, gli impianti e le attrezzature che già ci sono; e rinnovandoli e modificandoli solo per fare meglio con meno. Non c'_e niente di utopistico in tutto questo; basta - ma non è poco - l'impegno di tutti gli uomini e le donne di buon senso e di buona volontà. (Guido Viale)

In questa maniera il Paesaggio non potrà che essere oggetto di Buon Governo del territorio, e frutto di consapevolezza e partecipazione civica.Sarebbe l'unico governo possibile, e tale da escludere ogni altra forma degenere.Naturalmente, la proposta ha come obiettivo la riduzione e la prevenzione in qualche maniera efficace e significativa del danno ambientale provocato dall'uomo.Ma il messaggio di Marsh ci invita a considerare che vi sono degli eventi naturali la cui prevedibilità ed il cui controllo non è governabile dall'uomo. E che l'uomo non è onnipotente.

Il ritorno dei beni comunidi Giovanna Ricoveristudiosa di ecologia politica

George Perkins Marsh - “celebre geografo, fine giurista e accorto diplomatico” secondo Fabienne Vallino autrice della bellissima introduzione al suo libro più importante, L’Uomo e la Natura. Ossia la superficie

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terrestre modificata per opera dell’uomo, era nato all’inizio dell’Ottocento nel Vermont, allora coperto da immense foreste. Imparò dunque ad amare e a “frequentare” la natura sin dalla prima infanzia, e fu anche testimone dei “selvaggi, insensati disboscamenti” delle grandi foreste del New England, operati dai coloni quando si trasformarono in farmers.

Questa esperienza giovanile ebbe sicuramente un peso importante nella sua formazione scientifica e nelle sue scelte di vita. Poliglotta (conoscena 12 lingue, incluso il latino e il greco), raccolse le osservazioni raccolte nel suo libro nei suoi innumerevoli viaggi in America, in Europa e in Italia, in Asia e in Africa,. Scrisse il suo libro più importante in età matura – proprio nel nostro paese, dove fu il primo ambasciatore Usa nel Regno d’Italia appena costituito.

Nel suo libro, denuncia in modo preciso e circostanziato i danni che l’azione umana reca alla natura, spesso anche a causa della ignoranza dei nessi sottili che ne regolano il funzionamento. . Ma – aggiunge - l’uomo non è solo il “disturbatore” della natura; può anche esserne colui che la restaura, se vuole.

Tra le azioni umane disturbatrici della natura, una soprattutto voglio qui richiamare, per la sua importanza specie in un paese come l’Italia, geologicamente giovane e fragile dal punto di vista idrogeologico. Afferma dunque: “La vegetazione è l’unica difesa efficace contro le frane e le alluvioni, e il disboscamento l’unica origine certa dei danni e dei costi da esse provocati.” Alla pagina 49 così spiega la sua affermazione:

“Le devastazioni commesse dall’uomo sovvertono le relazioni (interne ed esterne alla natura, NdA) e distruggono l’equilibrio che la natura aveva posto fra le sue creazioni organiche e inorganiche; ed essa si vendica dell’invasore scatenando sulle sue regioni oltraggiate le energie distruttrici, tenute fino ad allora in freno dalle forze organiche, destinate ad essere le migliori alleate dell’uomo, ma che egli ha spensieratamente disperse e scacciate dal territorio di azione. Quando la foresta è scomparsa, il grande serbatoio di umidità accumulato nella sua terra vegetale si disperde in forma di vapore acqueo, e ritorna solo in forma di dirotta pioggia che spazza la polvere riarsa in cui si è convertita quella terra. Le colline boscose ed umide si sono mutate in pendici di arida roccia che franando ingombrano le pianure e i corsi d’acqua di pietre, di ciottoli di terra… e tutta la terra, salvo che non venga con l’arte umana difesa dal deterioramento fisico a cui tende, diviene un ammasso di nude montagne, di sterili colline, e di pianure paludose e malsane”.

Questo messaggio, lanciato 150 anni fa, è sempre più attuale ma anche sempre più inascoltato da parte dei governi di tutto il mondo, e dell’Italia in particolare. In questi giorni, a Durban in Sudafrica, si tiene la 17 conferenza sul cambiamento climatico, per concretizzare gli impegni presi dalla comunità internazionale nel 1997 con il Protocollo di Kyoto. E’ un incontro destinato a fallire come tutti i precedenti, mentre le emissioni di CO2 aumentano e con esse cresce la temperatura media del pianeta e si sciolgono i ghiacciai.

Il piano di riassetto idrogeologico, di cui l’Italia ha un bisogno estremo per non incorrere nei costi umani ed economici della cementificazione del suolo e del cambiamento climatico, delle frane e delle alluvioni, non è neanche citato nel pacchetto di interventi anti-crisi decisi in queste ore dal governo Monti ed è difficile sperare che l’attuale ministro dell’economia e delle infrastrutture abbia intenzione di inserirlo tra gli interventi urgenti da realizzare. L’Europa pensa ad altro e tiene il fiato sospeso per la sorte della moneta unica sotto attacco da parte dei mercati, “inarrivabili e capricciosi dei dell’Olimpo”. I governi dei principali paesi europei sembrano infatti convinti che la crisi finanziaria si può superare rilanciando il modello liberista che ha provocato la crisi, e ignorano la questione ambientale come se non vi fosse nessun collegamento tra crisi finanziaria e crisi climatica.

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Il ritorno dei beni comuni, auspicato e praticato dai movimenti di tutto il mondo, potrebbe essere un’arma efficace per invertire la rotta – per sconfiggere il luogo comune secondo cui non vi è nessuna alternativa all’economia di mercato, neanche nella fase matura della globalizzazione e della finanziarizzazione. La classe politica italiana ed europea, cresciuta a industrialismo e neoliberismo, è portatrice di una visione riduttiva e devastante: non riesce – o non vuole - capire le trasformazioni profonde che la globalizzazione ha fatto emergere e le opportunità che quelle contraddizioni potrebbero offrire.

E’ difficile pensare infatti che la megamacchina del finanzcapitalismo – per dirla con Luciano Gallino - possa essere sensibile ad aggiustamenti marginali come quelli che in passato avevano temperato le sperequazioni sociali del capitalismo industriale. Ma la situazione potrebbe cambiare, se le forze politiche di sinistra fossero in grado di indicare una prospettiva diversa da quella del mercato capitalistico – un orizzonte che decostruisca i luoghi comuni del neoliberismo e identifichi i contorni di una modello capace di soddisfare i bisogni delle popolazioni nel rispetto delle leggi della natura; una sinistra che creda nei movimenti, invece di cavalcarli e demonizzarli.

Priva di qualsiasi formazione ambientale e incapace di comprendere i meccanismi sottili che regolano il funzionamento dell’immenso organismo naturale – che Marsh descrive invece con dovizie di particolari nel corso di tutto il suo libro - la classe politica non si rende conto che per il mercato capitalistico la natura non esiste: è solo la “miniera” da cui prendere gratuitamente le risorse naturali e la “discarica” per liberarsi dei rifiuti prodotti dalla società dell’usa-e-getta. Non sa – o fa finta di non sapere - che la natura è il più grande produttore di beni e servizi, da cui dipende la vita stessa. La soluzione della crisi ambientale – non quella della crisi finanziaria o la crescita - dovrebbe pertanto essere al primo posto dell’agenda politica, almeno di quella della sinistra.

Un’altra questione che la classe politica non riesce o non vuole vedere è il ruolo dello Stato, che non svolge più il ruolo di mediazione tra i soggetti in campo, poiché le grandi imprese e la finanza contano più degli Stati: Stato e Mercato sono diventati un soggetto unico, e questo ha svuotato di contenuto la democrazia di mandato, valorizzando tutte le forme di partecipazione e di democrazia diretta. Un’altra questione riguarda i movimenti e le nuove comunità, che in tutto il mondo lottano in difesa delle proprie condizioni di vita, delle risorse naturali, e dello sviluppo locale autocentrato: sul territorio si riunificano infatti produttori e consumatori, si ricostruiscono i rapporti sociali, si pratica la solidarietà anziché la concorrenza internazionale, si concretizzano forme nuove di democrazia diretta che integrano e rilegittimano la democrazia di mandato, divenuta insufficiente nella globalizzazione. Sul territorio si valorizzano energie e risorse, che altrimenti vanno perdute.

“In natura niuna cosa è piccola”, questo il titolo dell’ultimo paragrafo del libro di Marsh, che così prosegue: “La legge non si cura delle cose minime: de minimis non curat lex, ma nel vocabolario della natura il piccolo e il grande non sono che termini comparativi; la non conosce nulla di minimo o insignificante, e le sue leggi sono inflessibili tanto se si tratta di un atomo, quanto di un continente o di un pianeta”. E’ una osservazione che a mio parere vale anche nella vita sociale e nella dinamica della produzione, dove il grande e il piccolo sono egualmente importanti, e come tali dovrebbero essere entrambi considerati e valorizzati.

I beni comuni, specie quelli di sussistenza legati alla natura – aria, acqua, terra ed energia – non sono un reperto del passato, ma una esperienza ancora viva sia per le comunità del Sud del mondo che ogni giorno lottano contro la recinzione delle risorse naturali su cui esse vivono, sia per i movimenti del Nord come ad esempio in Italia il Comitato NoTav della Val di Susa. Elinor Ostrom, la studiosa statunitense della Indiana University, premio Nobel per l’economia nel 2009, che studia i beni comuni da quarant’anni, è arrivata a conclusioni innovative e importanti. Le persone che operano all’interno di una comunità, sostiene Ostrom,

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sono capaci di auto-organizzarsi e di prendere decisioni che non mirano solo al profitto. E non è certo un caso che queste conclusioni siano state riprese recentemente da Zygmunt Bauman, nella introduzione alla nuova edizione del suo libro più famoso, La modernità liquida, come un segnale che va nella direzione di un nuovo orizzonte della storia, della politica e del rapporto uomo-natura..

Il ritorno dei beni comuni, intesi come un paradigma di organizzazione sociale e istituzionale diverso dal mercato, dovrebbe dunque trovar posto nell’agenda della politica. La tesi da me qui sostenuta, argo-mentata più compiutamente in Beni comuni vs Merci (Jaca Book 2010), è che la difesa dei beni co-muni (dove essi ancora esistono) e la loro riproposizione (dove sono stati cancellati) non è tanto o soltanto un problema di giustizia distributiva delle risorse ma la risposta più robusta possibile alle forze distruttive del sistema dominante. Il modo di produzione capitalistico riconosce infatti solo due fattori come motori della produzione, il lavoro e il capitale (o lavoro morto, secondo Marx), trascu-rando la natura e il mondo fisico e relazionale che essa incorpora, temi che sono invece ben presenti nella riflessione di George Marsh.

Nel sistema capitalistico la natura resta un territorio di saccheggio, che nessuna economia della riprodu-zione analizza. Il modo di produzione capitalistico ha così immiserito le fonti della ricchezza, spre-cando la cornucopia di beni e servizi ecosistemici prodotti gratuitamente dalla natura. Ha trascura-to inoltre il fatto che in ogni prodotto esiste un pezzo di natura consumata e ha perciò indirizzato la produzione di beni e servizi senza tener conto dei flussi di materia prima naturale (acqua, terra, le-gno, ferro, etc), necessari per produrre ciascuno di quei beni e servizi: ha così compromesso i cicli vitali della materia e gli equilibri complessi in cui la natura si organizza e vive; ha destrutturato le catene invisibili che tengono insieme il mondo.

Gli stili di vita consumistici, affermatisi soprattutto nei paesi del Nord dopo la seconda guerra mondiale, hanno fatto fare un salto di qualità alla distruzione del mondo fisico ad opera dell’uomo. La natura funziona in modo sistemico, e pertanto l’inquinamento dell’aria e dell’acqua di una fabbrica o di una centrale non riguarda solo gli abitanti dell’area dove la fabbrica o la centrale sono localizzate. Si estende invece a tutte le parti della terra e incide anche sui cittadini di aree lontane, sulla vita di popolazioni che da quelle produzioni non traggono alcun vantaggio. Ciò dipende dal fatto che i beni comuni naturali sono spesso sia locali che globali, come nel caso dell’acqua, dell’aria e della biodiversità, e che le nuove recinzioni del capitalismo maturo e di quello finanziario - come il riscaldamento climatico - tendono a rafforzarne la dimensione globale, con un progressivo peggioramento del rapporto Nord-Sud.

In conclusione, l’importanza dei beni comuni di sussistenza sta dunque nel fatto che essi rimettono al centro del processo di produzione e della vita sociale la natura e il mondo fisico e relazionale che essa incorpora, avviando un percorso che permette di superare la cancellazione della natura, che è la causa ultima di tutte le crisi del sistema capitalistico, incluso quella finanziaria: l’aumento costante del prelievo di risorse naturali, e il conseguente aumento delle emissioni inquinanti connesse con quel prelievo, altera i cicli naturali e nel corso del tempo ciò diventa insostenibile e mette in crisi il sistema.

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