nicosia citta' di sicilia, antica, nuova, sacra e...

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Pubblicato sul sito http://web.tiscalinet.it/herbita a cura di Filippo Costa © 2003 1 NICOSIA CITTA' DI SICILIA, ANTICA, NUOVA, SACRA E NOBILE del Teologo Dottor Bartolomeo Provenzale Canonico dell'Insigne Collegiata Matrice Chiesa di S.Nicolò di Nicosia In Nicosia, MDCXCV I° TOMO Trascritto dall'originale manoscritto che si conserva presso il Sig. Alabiso di questa città di Nicosia. La presente copia, incominciata nel mese di Giugno (28 - 1926) e terminata l' 8 - luglio - 1926. L'originale manoscritto del I° tomo, ch'era al 1926 di proprietà Alabiso, è stato da questi venduto nell'anno 1930 al Municipio di Nicosia, ed oggi si conserva nella Biblioteca Comunale di Nicosia. II° TOMO Copia fedele fatta sopra l'originale manoscritto che si conserva dall'Ill.mo Barone di Marrocco Sig. Nob. Antonino Gentile di questa città di Nicosia. La presente copia, incominciata nel mese di Aprile e terminata il 14 Maggio 1921, vigilia della XXVI Legislazione, elezione politica da eligere 24 deputati al Parlamento Italiano, che debbono rappresentare tre province della Sicilia: CT ME SR. AVVERTENZA Questo lavoro è la trascrizione al computer del I° Tomo, manoscritto originale conservato nella Biblioteca Comunale della Città di Nicosia, e della copia del II° Tomo manoscritta dal B.ne Guglielmo Salomone di Nicosia e conservata nella Biblioteca privata del suo discendente e nipote B.ne Guglielmo Salomone. L’originale del II° Tomo, in possesso del Barone di Marrocco Antonino Gentile è andato disperso dopo la vendita, da parte degli eredi, del palazzo sito in Piazza Garibaldi e degli arredi e suppellettili ivi custoditi. Il testo contiene sicuramente refusi ed errori di battitura, ma è ugualmente un documento di grande importanza per la storia della Città di Nicosia perché citato da tutti gli storiografi e cronisti locali e non. Da oggi, per la prima volta, viene messo a disposizioni di tutti grazie alla tecnologia di Internet. Filippo Costa Nicosia 5 novembre 2003

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1

NICOSIA CITTA' DI SICILIA, ANTICA, NUOVA, SACRA E NOBILE

del

Teologo Dottor Bartolomeo Provenzale Canonico dell'Insigne Collegiata Matrice Chiesa di S.Nicolò

di Nicosia

In Nicosia, MDCXCV

I° TOMO Trascritto dall'originale manoscritto che si conserva presso il Sig. Alabiso di questa città di Nicosia. La presente copia, incominciata nel mese di Giugno (28 - 1926) e terminata l' 8 - luglio - 1926. L'originale manoscritto del I° tomo, ch'era al 1926 di proprietà Alabiso, è stato da questi venduto nell'anno 1930 al

Municipio di Nicosia, ed oggi si conserva nella Biblioteca Comunale di Nicosia.

II° TOMO

Copia fedele fatta sopra l'originale manoscritto che si conserva dall'Ill.mo Barone di Marrocco Sig. Nob. Antonino

Gentile di questa città di Nicosia. La presente copia, incominciata nel mese di Aprile e terminata il 14 Maggio 1921, vigilia della XXVI Legislazione,

elezione politica da eligere 24 deputati al Parlamento Italiano, che debbono rappresentare tre province della Sicilia: CT ME SR.

AVVERTENZA

Questo lavoro è la trascrizione al computer del I° Tomo, manoscritto originale

conservato nella Biblioteca Comunale della Città di Nicosia, e della copia del II° Tomo manoscritta dal B.ne Guglielmo Salomone di Nicosia e conservata nella Biblioteca privata del suo discendente e nipote B.ne Guglielmo Salomone.

L’originale del II° Tomo, in possesso del Barone di Marrocco Antonino Gentile è andato disperso dopo la vendita, da parte degli eredi, del palazzo sito in Piazza Garibaldi e degli arredi e suppellettili ivi custoditi.

Il testo contiene sicuramente refusi ed errori di battitura, ma è ugualmente un documento di grande importanza per la storia della Città di Nicosia perché citato da tutti gli storiografi e cronisti locali e non.

Da oggi, per la prima volta, viene messo a disposizioni di tutti grazie alla tecnologia di Internet.

Filippo Costa Nicosia 5 novembre 2003

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PRIMO LIBRO

(Nicosia Antica) A L L E T T O R E In un letargo profondo, in grembo alla scordanza, è giaciuto fin'ora della Costantissima e Fedelissima Città di

Nicosia, che nè secoli trasandati chiamavasi Erbita, l'originaria fra erezione e fondazione primiera, o perchè non potendo penna volgare vergar su la candidezza delle carte le glorie d'Aquila che trapassa col volo della terza regione le nubi, e non potè conoscere la via il più sapiente del Mondo (Viam Aquilae in coelo); o per non portar cò suoi vanti gloriosi l'emulazione alle glorie dell'arte più cospicue stimate nel Regno;o perchè per descrivere il volo di un uccello a Giove sacrato sono assai disadatte le penne di un volatile che non sa alzarsi da terra; o perchè non volendo incorrere nella taccia descrivendo per iperbolico il vero, , han dissimulato per la regia d'Ecate il carro luminoso di Febo; o perchè essendo delle montagne mediterranee Eroina, per avverare che fasti dè Grandi meglio si lodano tacendo, e con mutola riverenza s'adorano (più) che con applausi di penna leggiera s'esprimono..........però sfuggire la nota d'ingratissimi........ della lor.........nel pozzo......., ............eminente, saranno stimati che bevettero l'acqua della fonte di Beozia che fa scordar ogni cosa, e però l'hanno della magnificenza spogliato, senza far riflessione ch'ella è Città Supra Montem Posita, ed agli occhi di tutti palese.

Indarno si han palesato parti di vipera, poichè il sole alle pupille d'un Mondo i suoi trionfi già scuopre, figli invero che nell'Oriente l'han fatto provare l'occaso.

Non è com'altri stima andata infeconda questa Genitrice d'Eroi di parti eruditi, c'han fatto, ed alla giornata pompeggiano nel lor profondo sapere, come a suo luogo dirassi.

Ma a che prò se l'han lasciato incenerire colla dimenticanza dell'origine le sua fondamenta famose ? Dovrei io agli insegnamenti d'Arpocrate fermar la mia penna e tacere, non ostante che di Aquila tale sia figlio,

benchè non habbia sì generoso il volo, nè così l'intelleto perspicuo? Dovrei paventare il dente devoratore dè critici, giacchè espongo di fiori rettorici un mal'acconcio embrione ? Non è la mia penna così erudita che possa, se le comparse del Mondo agli ingegni di quest'oggi avvezzi a devorar

volumi tutti conditi di mele nell'Ibla di un'eloquenza famosa e tempestata di fiori recisi negli esperidi giardini d'un fiorito stile, apportar diletto alcuno: solo mi dà spinta la brama, ch'io tengo, di veder che tralampi qualche sottilissimo raggio della mia Patria, che tanto tempo è stata tra le tenebre oscure involta; e pur mi fò coraggio d'armar la destra inesperta ed imbelle contro qualsiasi poderosa scordanza, c'ha trionfato tanti anni. Non vi ha campo sì sterile che non l'adorni con le stelle animato di flora; così anche non dee il candido campo di foglini ammantarsi di fiori.

L'Istoria richiede una chiarezza tutta candore, no l niego, è un campo in cui sola fan pompa di Pomone in frutta, ma perchè nasconda fiori non possono andar scompaginate da questi, solo bensì in alcune parti nelle quali l'arte nella narra si specchia: la rusticità in bella donna di pretiosi ornamenti arricchita, si fa ammirar per Dea, è di bisogno alle volte la verità mascherarla con inorpellimenti neri, per farla maggiormente spiccare; sono le frutta allo spesso tempestate di fiori, sì scadenti che solo all'esterno più belle che nella sostanza odorose.

Non erra dunque chi la narra nelle sue opere, ma se la vedrai, o lettore, in quei libri imitata, ti priego a non inarcar le ciglia, poichè Orazio già scrisse (De....Poet. f.280): "........omne tulit punctum, qui miruit utile dulci lectorem delectando pariterque monendo".

E se l'impresa malaggevole si rende contro una guerra di pensieri sì fiera, non tingo di cinabri nè di pallotti le guancie, poichè un esercito di prodi e veterani guerrieri in vastissimo campo mi attende per la mia fievolezza avvivare, acciochè sappian i posteri deportarsi da figli d'Aquila generosa nelle loro proprie azioni.

Non per altro è scritta l'Istoria, che la definì Cicerone: "Historia testis temporum lux veritatis vita memoris, Magistra vitae, nuntia vetustatis".

Come volete che io lasci all'oblio le azioni famose degli Erbitensi sagaci ? Se quei sono a Nicosiani suoi premi di gloria, è norma far lor vivere.

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PROTESTA DELL'AUTORE Lo scriver che io fò nel C.I° del Libro IV° degli Uomini Illustri in Santità, mi protesto non intendo voler descrivere

le Persone per Santi, nè Santità tribuirli, o beatitudine, che la Chiesa non ancora l'ha dato: onde non ardisco dar quello che le Persone del Mondo l'attribuiscono di Santità, Grazia di Miracoli, di Profezia, di Visioni, Illustrazioni, che appariscono sopranaturali.

Mi protesto e confesso che tutte quelle cose in tal forma le propongo e riferisco, e che non presumo s'intenda da veruno come dalla Santa Sede Apostolica esaminate ed approvate, e nè meno pretendo si presti fede se non fondata su l'autorità umana, sottoponendo il tutto a giudizio della S.S. Apostolica Romana, alla quale appartiene tali cose risolvere.

E perciò di nuovo pretendo conformarmi ed ubbidire col sottopormi ai Santi Decreti publicati in tempo dalla Santa memoria di Urbano VIII° e della Santa Inquisizione negli anni 1625, 1631, 1634.

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DESCRIZIONE DEL PAESE CAPO I°

Il volere dare proprio a descrivere della Città di Nicosia le sterminate grandezze e l'iinumerevoli glorie così nella

Santità come per gli Uomini Illustri nelle battaglie, così nella nobiltà come nelle scienze, così nelle azioni sublimi come nelle arti meccaniche e liberali, senza dar qualche delineamento in iscorcio del Regno di Sicilia ubertoso in cui ella pompeggia, sarìa capriccio d'intelletto malsano, trasgredendo gli ordini e le leggi degli scrittori famosi, non ostante ne vada in molti volumi pomposamente fregiata, e da penne erudita descritta come ella va di fiori e di frutta ubertosa.

Non sarìa da mestiero (se) con la penna mendica le sue glorie sfregiassi, non potrà la povertà del mio dire tributarle quegli applausi dovuti perchè tanti ingegni sublimi hanno in ossequio mostrato i suoi vanti, che l'han collocata su l'Apogeo dè suoi gloriosi trionfi; ma imitando la sacrilezza degli olmi che la loro infecondità arricchiscono con i piropi ubertosi delle viti che sostentano in aria, mi varrò a prò di quella delle descrizioni più fine.

Ha dato questa Isola opulenta materia a poeti, non chè agli storici, per celebrare con armonici canti le sue glorie, stimando quasi disadatte delle sirene i concerti; ella sola, fral'altre nell'Europa, porta il vanto così per la grandezza (che conta 600 miglia in ciruito e cinquanta, in circa fanno gli Autori) come per la bellezza del sito, che per la delizia del mare, il quale per tutte le parti con le sue molli labbra d'argento palesa, chè tutto, chè tenerezza di cuore, venerate sue rare fattezze.

Ed invero non è in Sicilia la fertilità della terra l'arsenale dè viveri, l'abbondanza del Mondo con li suoi olii, la dolcezza delli paesi stranieri con il suo mele, il condimento della frutta con i suoi zuccheri, il pasto dell'uomo con la sua sete di Bacco indeficiente catino e di Cerere ubertoso granaio ?

Cotanto dagli Scrittori antichi e moderni (è) celebrata (in) abbondanza. Cicerone, testio di vista, la disse: " Cellam penariam", tale chiamandola.

Marcello, da Cicerone riferito, la disse: "....rei publicae nrae, nutricem plebis romanae Siciliam nominavit" e siegue dicendo: "...hos vero experti sumus Italico maximo, dificillimo que bello Siciliam nobis non pro penaria cella, sed pro erario illo maiorum vetere ac referto fuisse, nam sine ullo sump.unto, coriis, tuoricis, frumentoque suppeditato, maximos exercitus nostros vestivit, aluit: armavit".

Forse non fu per la soverchia frugalità che finsero i più famosi Poeti che in Sicilia fosse di Saturno, di Giove o di Cerere nascosta la falce ?

Come riferisce Natale Comite nella sua Mitologia Ingegnosa, portando da più celebri Autori autenticati i suoi detti: "Falcem Saturni vel Iovis vel Cereris occultatam fuisse in Sicilia fabulari sunt, propter Insulae frumenti, rerumque vicini necessariorum fertilitatem; nam Insularum omnium prope fertilissima est Sicilia ut scripsit Livius L.I Istoria"; e segur l'istesso Comite amplificando le glorie di questa: "Est enim Sicilia omnium prope Insularum Optime et Amplissima dignitate atque frequentia hominum, et imprimis ab antiquis e recentioribus scriptoribus celebrate".

Arricchisce questo suolo la Madre Natura con miniere d'oro, d'argento, di ferro, di solfo ed alume; Amaltea col suo corno ha depositato pietre preziose nel di lei seno fecondo, come sono smeraldi, agate; genera una Pietra Bertina lucida con molte macchie in mezzo nere (per farla più opaca) e bianche, ed in forma di varie figure o uccelli, bestie, uomini o d'altra forma della natura, a capriccio; alcuni naturalisti asseriscono che vaglia era il morso del ragno e scorpioni: e a queste propietà Solino ci aggiunse favolose insegnanze, disse che fa anche fermare il corso velocissimo à fiumi, e che Pirro pietra di questa sorte incastata in un anello (in cui scolpito Apollo con la cetera ed il coro delle G. muse con le loro insegne, e di collane ornate) portava.

Cavasi da sottoterra in abbondanza il Berillio, ed altre Pietre porferite rosse, di macchie verdi e bianche tramezzate, che le fanno di gratissima vista.

Evvi anco la Pietra Iaspide, rossa variata di macchie lucide verdi e bianche, la quale è del porfido più nobile e di pregio maggiore.

Nel mar di Messina e drepanitano si pescano Coralli, che fuor dal mare diviene pietra di grandissima stima. E' la Sicilia assai celebre per la cacciagione dè capri, cignali, starne ed attagine, volgarmente dette francoline, come

d'alati uccelli e quadrupedi per diletto ed utilità in gran copia, oltre delli falconi e spravieri che continuamente si prendono.

La pesca vi si trova in abbondanza nel mare, precise di tonno e pesci xifii, dal volgo detti pescespada, e di tutte altri sorti di pescaggione ammirabile, ed anco nei fiumi mediterranei.

Tutto questo è portato da Tomaso Porchachi nel suo libro intitolato "L'Isola più famosa del Mondo", nella descrizione fortunata e felice della nostra Sicilia.

Non va mendicando o dall'Arte o da Bagni stranieri la nostra Sicilia, poichè in essa ve ne scaturiscono in abbondanza acque calde e tiepide sulfuree, ed altre sorti, che da qualunque infermità rendono gli uomini sani: e di queste ve ne sono a Sciacca e Termini.

E' però da Re ed Imperadori e Nazioni diverse ambita ed abitata, perchè da molti si dice che il frumento (cibo connaturale dell'uomo) nella Sicilia fu inventato a moltiplicarsi nel seno della terra sepolto, ove pria nascea da se stesso, senza che fosse a questa difacerato con vomeri il seno, come il più sublime poeta, Omero, descrisse: "Omnia sponte sua hac sine aratro, aut semina surgunt hordea, frumentum, vites que mollia vina producunt, augentque Iovis gratissimus Imber".

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E lo stesso Claudiano, celebrando le sterminate grandezze della Sicilia, afferma con dire: "Salve gratissima tellus quam nos pretulimus eq.lo tibi gaudia nostri sanguinis et caros uteri commendo labores: Premia digna manent, nullo patiere et nullo rigidi versabere vomeris ictus sponte tuus florebis ager, cessante iuvenco dictior oblatas mirabitur Iucola messes".

E' stimata la Sicilia fertilissima per le biade abbondanti, i vini esquisiti, suavissima frutta, e per la molta varietà dè fiori da dove l'ape ingegnosa sugge il miele e ne forma la cera. Ben cantò le glorie della nostra Trinacria Silio Italico: ".....multe solo virtus jam redderi semen aratris, jam montes umbram olea dare nomina Bacco compendemque citum sirius generasse ferendis nectare Cecropeas Hybleo accendere ceras".

Apollonio chiama nel Libro degli Argonauti, la nostra Sicilia pinguissima Isola, abitante gratissima delli Nocchieri, dove è stata sepolta la falce di Saturno e di Cerere ancora: "Insula perpinquis, statio gratissima nautis, Hucribus attritus, sub qua mihi pascite muse non dico haec arcana lubens falx conditur illa, qua secuit Patrem Saturnus, sunt quoque falcem qui dicunt Cereris, qua fuerit cedere messes namque Ceres quoddam terris habitavit in illis".

Per essere la Sicilia formata a triangolo della nave, fu dagli Antichi nominata Triquetra, per i suoi tre promontori, Pachino, Lilibeo e Peloro, come dolcemente Ovidio cantò: "Sicaniam trebus haec crebirrit in equo (r)valinguis quibus embriferas versa est Pachinos ad Austos, mollibus erpositum Zephyris Lilibeon, ad Aretos equoris expertes spectant, Boveamque Pelorus".

E fu anche Trinacria chiamata come scrisse l'istesso Ovidio nei Fasti per la forma triangolare che tiene e le comunica tal nome: "Terra tribus Seopalis vastum procurrit in equor Trinacris apposita nomen adepta loci". Prese anche di Sicania il nome e Diodoro discorre con l'autorità di Tirico che fosse così chiamata dalli Sicani antichissimi abitatori di essa, li quali si partirono da quella Isola per le continue rovine del fuoco che inondava con le sue fiamme il paese; fu alla fine detta Sicilia, come dimostrano Polibio e Dionisio, delli Sicoli (antichissimi e popoli molto potenti) che pure in questa abitarono.

La nobiltà e bellezza di tutta quest'Isola nasce dalle ricche e nobili città, terre, ville, castelli, e altri luoghi d'ammiranda bellezza che i cuori innamorano al solo vederle, maggiormente poi d'averla in possesso, tanto con la sua cetera fa risuonare a tutto il mondo Ovidio: "Grata domus Cereri, multa ea possidet urbs".

Hanno i Siciliani nel favellare fecondia grandissima, e con la forza de' loro ingegni sono stati dell'arte oratoria de' versi Buccolici e Pastorali ed altre cose di memoria degne, inventori, e per tali Silio Italico li và celebrando con dire: "Hic Phebeo et Musis venerabile vatum ora excellentum Sacras, qui Carmina Silvas, qui Syracusia resonant Helicona Camera Promiste Zeus lingue est cadem cum bella rieret portus equoris suete insignire trofeis ".

La Sicilia è in tre valli da molti scrittori divisa, e dicono essere in tal forma da Saraceni disposta, una col nome di Valdemoni, l'altra di Noto e la terza di Mazzara, e così fin'oggi a seguito.

Valdemoni così detta o da Lacedemoni, per essere da questa gente abitata quando passarono in aiuto de' Siracusani in Sicilia (questo par che confermi Aristarco); o altri lo traggono da Vallis Nemorum per li molti e grandi e folti boschi che nella valle si trovano; o altri da Vallis Demonum per essere nella stessa valle Mongibello, regno di Pluto e delli Demoni reggia funesta. Ed è questa che dà proprio nel detto Peloro Promontorio famoso abbracciando il lido del mar di sopra e di sotto, e d'una parte il fiume Ieria e Liasa, e dall'altra il fiume Imera, il quale scorre a passi da gigante nel mar Tirreno a sboccare; piena di altissimi monti, di profondissime sbalze, di continuati colli, di folte selve e di boschi irrigati, che forman lave irte d'orrori e di molta vaghezza, come sono i Monti Erei, oggi detti Monti Montissori. E' di sito delle altre valli più alta ed elevata, con superbissimi monti e fra gli altri il più sublime pompeggia Etna, il quale erge la cresta fino a coronarla di stelle, non contento di averle alle falde animate: si mostra d'inverno e d'estate con le nevi tutto vigore, con le fiamme tutto fuoco e fumo; in somma, sotto si' orribilissimo viscere mostra dell'Inferno il veritiero teatro; verso alle fiamme ostenta giardini di frutta opulenti, che sono la vaghezza del mondo; apre una bocca spaziosa alle cime, che a tutt'ora stride, fiammeggia, freme eruta, vomita, tuona, folgora, borbotta, ribomba, sgorga da quella fetida bocca una voragine di fiamme alle volte, che atterrisce mentre vomita un torrente di fuoco, come ben lo dipinse con una descrizione erudita Silio Italico: "At non Equus amat Trinacria Muleibes autra; non Lipare vastis saper depacta caminis sulphureum vomit creso de vertice fumum Ast Etna eructam treme factis cantibus ignes: Inclusi, gemitus, pelagique imitate furorem Murmura per Caelos tonat irrequieta fragoras nocti, dieque simul, fonte a Phlegetantis, ut atro flammanum exundat torrens, picemque precetta sensi ambusta rotat liquefactis saxa cavernis: sed quamquam largo flammarum exstuantintus turbine et assidue subnascens prosbuit ignis summo Canna jugo vigore adentes horrent scopuli, stat vertice celsi collis, hyens calidamque nivem tegit atra favilla".

Val di Noto dal fiume Teria incomincia e dentro va con lui insieme, e passando per la città di Enna scende col fiume Gela, ch'è di TerraNova vicino, come scrive Cluverio.

Val di Mazzara contiene tutto il vasto della nostra Sicilia; in due parti divisa dal fiume Imera, oggi Salso chiamato, l'una verso Oriente verso Occidente l'altra, poicchè dalle altissime montagne dei Nebrodi degli antichi scrittori (oggi di Madonia o Petralia) sgorgando, si divide in due rami: l'uno scorre verso il mezzodì fino a sboccare vicino la Licata nel mar di mezzodì o come altri chiamano Africo, l'altro braccio (ramo che dalle Madonie montagne scaturisce verso tramontana) s'invia e va a confondersi con le acque del mar Tirreno.

Nell'un piè occidentale vien Val di Mazzara, che al Promontorio di Lilibeo corrisponde; l'altra di nuovo in due parti divisa, l'una col Pachino promontorio corrispondente detta Val di Noto (i cui termini sono, come asserisce Fazello, avvicinandosi per via di spiaggia di mare, dalla Licata infino a Catania, e per terra infino ad Assoro), l'altra corrispondente col promontorio Lilibeo, chiamata Valdemoni.

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In questa valle fioriva Erbita antica e pur pompeggia la nuova, oggi detta Nicosia, il cui territorio è confine di tutte e tre le parti, cioè Val di Noto, Val di Mazzara e Valdemoni; ed essendo la sicilia in forma Triangolare, di sito Erbita antica (e tanto maggiormente la nuova) per esser nel mezzo delle tre valli, viene ad essere l'umbelico di Sicilia, ma non come altri d'esser tali si fregiano, chiaramente lo mostrano della Sicilia le piante antiche o moderne alla luce delle stampe mandate, e più schettamente lo manifesta la medaglia di sicilia, che la forman con tre gambe, con altre tante spiche di formento per dichiararla feconda, stante che la ragione è chiarissima per essere Erbita lontana dal Mar di Tusa 24 miglia, dal Peloro 92 miglia e dal Pachino 120 miglia incirca, dal'Lilibeo altre tanto; che però non essendo la nuova Erbita non molto lungi dall'antica, quello che dell'una dirassi s'intende pronunciato dell'altra.

Sicchè due sono state le città d'Erbita, l'una antica che nella magnificenza e nella nobiltà superava ogni altra, come al dì d'oggi la nuova chiamata Nicosia nelle mediterranee non se ne mira altra che trionfasse in tante glorie sublimi; la prima fù, come si pruoverà a suo luogo, dagli abitanti in abbandono lasciata per le ruberìe di Verre sfrontate, mentre resse da Pretor la Sicilia da' Romani mandato, essendo allora il regno sotto il dominio dell'Impero Romano.

Conosciuto adunque il nome, si vede il suo sito e proprio luogo, mostratoci dall'antiche rovine e dalla tradizione veridica degli antichi a quest'oggi trasmessa.

Miransi sovra Erbita Antica certe eminenti montagne che possedeva ed ancor oggi possiede Nicosia, che innalzan le lor creste superbe in aria, e da queste cime si vede il mar Tirreno; sono verso il mezzodì scoscese e verso tramontana non tanto; dove fioriva Erbita antica vi si stendeva un vastissimo piano, dove poteasi far giornata campale, nominato li Casilini; in que' tempi queste montagne la difendevano dagli empiti degli Aquiloni tremendi, ma non per questo non eran delle nevi sostegno; altri monti la circondavano per coronarla delle mediterranee eroina, come più diffusamente nel capo IV di questo libro dirassi.

L'aria sempre salutifera e benigna si trova, perchè da venti ed aure allo spesso agitata; vi sono fonti d'acque sorgenti, che al presente si mirano in tanta copia che abbonda le sue campagne alattandole, in cui si vagheggiano le sue sontuose reliquie e chiaramente si conosca del luogo villaggi abitati da molti erbitensi.

Gli antri nelle pietre scavati, mostrano l'abitazioni di quelli; si rappresentano agli occhi selve assai vaghe situate in pianure, colli e montagne piene di alberi selvaggi e domestici; villaggi così ben disposti che sembrano giardini famosi, le vigne sotto la città vetusta ch'ancor oggi fioriscono nella contrada della Vaccarra chiamata e producono ottimi vini, situate in colli e pianure; ma più vista tiene la nuova, come dirassi a suo luogo.

Il territorio d' Erbita antica era vastissimo, che da Erbita verso mezzo giorno va infino a' confini d'Argirò, ed Assoro al ponente infino dopo l'Artesina, del levante 15 miglia lontano, ma verso tramontana s'allargava il suo vasto dominio infino al mar di Caronia, e da questo infino a Tusa dilazavasi. Mistretta era sotto la sua giurisdizione, come anche Alesa città fabbricata da Arconide Prefetto e Principe d'Erbita, come pure di Calacta città, e di ciò se ne discorrerà più sensatamente nel capo IV di questo stesso libro.

Miransi continuati monti e spessi colli, pianure e valli innumerabili sì deliziose al vedere che inebria gli animi d'allegrezza indicibile, si chè gli Erbitensi stavano sicuri spalleggiati da tutta giocondità, e contenti passavano i suoi giorni felici sotto il governo di Arconide lor Principe invitto, mentre fu il terror de' Tiranni che regnaron in Sicilia.

Erbita sola fu che, tra le tempeste le quali sbalzavano un regno, godette la pace. La nova Erbita come si è detto non molto dall'antica lontana, verso mezzodì e verso tramontana situata, e parte verso

l'Oriente e parte verso l'Occidente si stende, all'altezza del Polo Artico gradi 38°, e di larghezza 37 e 1/2. Coronata anch'ella di monti, benchè sia in due monti di sassi, e pianure e valli distese, che vedono vaga, e sono così dalla natura i monti disposti che vedono l'aere salubre con dilettevoli viste che a qualunque cuor mesto riempie di gioia.

Si scorgon vedute dagli abitatori non solo le proprie montagne, ma le Neibrodi, Mongibello, di Troina, d'Argirò, di Capizzi e cent'altre. La vista arriva a penetrare infino alle pianure di Catania, che sono vastissime, e se non fosse interdetta dalle proprie montagne, scorgerebbe l'istesse marine.

Verso Oriente tiene un monte detto "la Castagna", altissimo, d'alberi fronzuto adorno, che si distende in molte altre montagne e colli; verso mezzodì vi sono altri monti che sieguono l'un dopo l'altro, e rendono gratissima vista, ma lungi verso occidente ed anco da vicino, bellissimi monti si mirano, e fra tanti vi è il monte dell'Artesina, dove abitavano i Padri Eremiti di San Pietro; ed altri monti, che vanno chiamati col nome de' feghi.

Da questo monte Artesina nasce un'abondantissima fonte d'acqua gratissima, dal cui seno sgorgando il superfluo forma il terzo capo di Gelo (o come falsamente suppone il Fazello, Imera), che nasce il detto fiume Gelo dal fiume Imera, il quale poco scorrendo Amurello si chiama, e mezo Caltanissette e Petrapretia in luogo angusto passando, ch'oggi si chiama Capo d'Arco, si tramiselia col fiume Salso, detto anticamente Imera.

Dice Fazello: "Tertium Gela caput ad montem Artesinam ex fonte ejusdem nominis oritur, qui paulum excurrens Amurellus appellatur, et inter Caltanissettam et Petrampretiam nova oppida in loco angusto, qui Caputarsum hodie dicitur, fluvio Salso miscetur".

Ma Cluverio conchiude che Gelo sia quel fiume vicino Terra Nuova. Dal chè ben si conosce quanto amplissimo sia stato d'Erbita il territorio, e non si sa come ristretto Nicosia, o forse

per sollievo de' Re, o per dare alle terre o città convicine erette in tali campagne i loro territori.

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DELLI FIUMI E FONTI CAPO II°

Sono è vero dell'Archittetura i precetti che per l'eletione dei luoghi dove s'hanno da fabbricar le città, devesi

effettuare primieramente le salubrità dell'aria e l'abbondanza delle acque correnti, ch'è il latte dell'erba per render le città ubertose, poichè l'acqua è quella che fa produrre alla terra le piante e le frutta, erbe e fiori: si rende ogni cosa senza l'acqua infeconda, la copia dell'acque che scorron all'altrui paese non chè al proprio, portano la fertilità in seno alla terra.

E l'amenità dopo dell'aria siegue quella dell'acque, poichè se sono di qualità infelici generano infermità negli uomini, che si rendono sempre malsani e di brevissima vita; ma quando l'acque son buone e l'aria salubre, fanno star gli uomini giulivi e festanti per l'ottima salute che godono, e la veduta dell'abbondanza dell'acque rallegra il cuore, come la mancanza totale fa star mesti delle città gli abitanti.

L'acque pure per esser il nutrimento degli animali, senza di queste ne muoiono. Faceano pompa in questa superba città fontane feconde, che innalzate dall'arte, sembravano monti ove le Ninfe di

marmo al naturale scolpite l'additavano per un'elicona: si vedevano draghi di pietra marmorea animati dall'arte, che vomitavano l'acque pretiose dal seno e l'innalzavano in aria tant'alto che pareano voler guerreggiare col cielo, e Giove avvezzo a voler fulminare i Titei, stimava di quelle abbassar l'ardire.

Ma che danno può far tuono di fuoco, per chi sorto la sù va d'acque armato? Saria stata gran fortuna degli abitatori di questa se ivi havesse la lor patria restata, poichè nel tempo dei leoni focosi

averìa gli orti molto vicini, che questi tiene sei miglia lontani, ed invero in quelle campagne produrrebbe la terra gran cose e con maggior frugalità, ed abbondanza migliore.

Queste due condizioni a meraviglia fiorivano in Erbita antica, che benchè poco lontana da' fiumi, sono in tanta abbondanza le acque, le quali scorrono dalle montagne, che formano fiumi, come nella contrada della Vaccarra s'esperimenta, che alle volte non si possono passare a cavallo per i cavalloni che porta.

Più fonti scaturiscono in dette montagne, che mulini d'acqua fabbricarsi potriano, come infatti se ne diede principio senza perfetione veruno; si chè incominciando dalle montagne d' Erbita più vicine, sgorga una fonte in abbondanza.

L'acque, che non si potendo nel suo proprio alveo contenere per li continui sovrabbondanti gorgogli, che pria rinchiusa andava nella città a formar più fonti, esce al presente ad allagar le campagne che formano un fiume, e non è fego di questa città che non veda arricchito di fonti d'acque correnti che continuamente gorgogliano.

Non va di fiumi questa città mendica, giacchè la natura e l'arte, rendendola deliziosa del tutto, volle anche quella provida per farla più preziosa e più gloriosa d'ogni altra, e del fiume col nome di Salso arricchirla, fiume molto diverso da quello che ha sua foce da Petralia la Sottana e dalle montagne Nebroidi, oggi dette Madonie, verso Resottana ne scorre e con suoi liquidi passi s'avvicina al monte Artesino; il capo secondo, che pria passando per le saline si rende salato, e ne prese il nome Salso, drizza i suoi passi verso la Licata.

Fazello lunga descritione ne tesse, dicendo che pria chiamavasi il fiume Gela: "Caput habet Gela fluvius triplex: unum ad Nebrodidem montem, Madoniam hodie dictum, qua meridiem respicit, ex fonte cui donna Alta est nomen ab aedicula Divinae marique ibi Licate, cuius acquae deinde plurimum incrementum accipiunt ex nonnullis fontibus, qui supra Petraliam oppidum in collium iugis Madoniae continuatis emanant, et a S.Archangelo, ab quo de eisdem nominis cognominant, et lfuvium giungunt qui Petraliam Inferiorem lambit, eiusque nomen ad se trahit; dilapsus inde fluviolum excipuit nomine Pillirarum inter Gangium et Petraliam oppida oriundum: et panto post Iuttam Sarraceni diruti oppiduli, quod praeterlabitur aquis angetur. Caput aliarum habet Gela ad Gangium novi nominis oppidum ex propinquis defluens collibus qui pauloinferius fluente provehens ad sinistram flectitur, et rayhat Ioanne A Sarracenico etiam jacente oppido clisto parvorum fontium salsas adsorbet aquas a quibus salsi tum primum nomen induso. In quod erinde Gangi cognomento veteris (Sarraceni, et a Federico Siciliae secondo nega solo equati oppidi; super cuius ruinis Monasterium est structum octum ordinis D. Benedicti) fontes duo, quorum alter, qui olim oppidi erat fons intra Caenobium, alter ad eius ortos oritur sinistrorsum illabuntur.

Unde recto deinceps fluru pergens mineras salis, et lapidicinas complues interfluit quarum acquis et augmentatur et saltior redditus.

Duo deinde (ezinde?) ii fluvii saltus et Petraliae propriis quisque alveis decurrentes ad locum, qui Madraplani hodie dicitur, sub arce Rasicudiae quam ad M.P. et in edita rupe sitam destrorsum relinquunt, simul juncti confluunt, et alterius nomine prorsus annesso, fluvius ingens, qui ex duobus factus est unus, Salsi tantum congnomentum retinet.

Tertium Gelae caput ad Montem Artesinum ex fonte eiusdem nominis oritur, qui pauretatum excurrens Amarellus apellatur, et inter Caltanissettam et Petrapetriam nova oppida in loco angusto, qui Caput Arsum hodie dicitur fluvio Salso miscetur".

Questo poco saldo scrittor, allo sboccar del tumido torrente, ne descrisse superbamente gli encomi, ma brevi passi ne scorse che la tumidezza sfiatò, restando egli sorpreso da' suoi soliti errori, chiamandolo Gela quando dalla culla ne portò il nome d'Imera; non s'avvede l'incauto che altri classici autori con gli argini di più fondate ragioni l'avevano già prevenuto chiamandolo Imera: eccoli che veritieri in campo aperto sgridano lui e qualunque altro che osasse attestarlo, come ne rapporta Cluverio aderendo alla sentenza di Tolomeo, che dice: " Himera id Tolomeo intelligitur esse flumen, quod ointre totius Siciliae, mari. Num, vulgo nune accolis ab rei argumento vocatur Salsi. Atque huc alii etiam gravissimi consentunt auctores Plinius, Livius, Diodorus, Strabo et alii".

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Anzi maggiormente ne viene un tale errore dal medesimo Cluverio ripreso con la sua turgida frase, affermendo: "Immensum errarunt illi qui cum fluvium voluerunt esse Gelam, qui huius lateris, sui licet meridionalis Siciliae, maximus et totius Insulae longissimus nunc (o nune) vocatur Salso. Hic quippe antiquus est Himera".

Ed anco Ambrosio Calepino siegue l'opinione di Cluverio fondata, rendendola più ubertosa: "Himera fluvius Siciliae, qui in duas partes dividit, in altera dulcem saporem, in altera salsum retinet".

Così anco Cicerone, Silio Italico e Plinio. Ed il nostro sotto il feudo di S.Giaime ha il suo capo, ed alcune miglia scorrendo il suo capo vi si aggiunge là dove

era Erbita Antica, e dalli feudi delli Casalini riascende nella valle del feudo della Vacarra chiamato Pietra Asgot, di questa città territorio amenissimo, e col detto si aggiunge ad intumidirlo. Il terzo capo dal feudo delle nostre montagne ne procede e va scorrendo in abbondantissime acque, che formarono il Paratore dagli antichi appellato, e quandanco al detto fiume s'aggiunge, quivi poco discosto viene il Passo di Castrogiovanni chiamato, dove volendo passare i temerari villani si arrestano, soffocati dall'abbondanza dell'acque; al ché, volendo i Padri Costrittori rimediare, mandarono a S.Giaime un ambasciatore fecondo per farvisi un ponte, ed ottenuta la grazia diede ordine che si tenesse un consiglio, da quale fondo della città si dovesse erogare in tale fabbrica: votò il Consiglio che s'imponesse nuova gabella duratura per infino che si finisse di tutto punto il ponte, data il dì 12 Aprile 1524; la gente si pose, non ebbe il ponte proprio, e la gabella non averà mai fine (Libro delle Grazie - fol.77). Onde ne siegue che i baldanzosi tutto fuoco per venire alla Patria, le loro fiamme in queste acque si estinguono.

Non va questo fiume nelle sue dolcezze sicuro, poichè dalle nostre tanto rinomate saline un fiume formato ne viene, il cui capo dal feudo dopo il Figilino ne scende, e quivi passando s'unisce con esso, ed attossicandolo con le onde sue salse lo fa chiamar salato, e ne prende il nome di Salso.

Il quarto capo scende dal feudo di S. Agrippina chiamato, e il quinto ne gorgoglia dal feudo di S. Martino, che impetuoso ne scorre.

Il sesto ne proviene dalla propria città, dalla chè verso Aquilone pompeggia; e qui tre capi si uniscono insieme a formar la sua foce in un stretto detto dell'Olivera, ed indi scorrendo verso il Molino, dove il Salato si unisce col Salso.

Vi sono rizzari in aria nelle sponde amene di questo fiume ondoso altri Molini per uso della nostra città, e facendo passi da gigante ne scorrono lungi da esso non più di 2000 passi in circa, e se ne va verso la Gran Signora del Soccorso, a cui con passi veloci ne viene il settimo capo, che procede d'altri monti vicini alle mura della città verso mezzo dì.

Molti altri capi compongono questo fiume famoso, che se tutti li volessi descrivere, potrei comporre per questo solo un volume, e per brevità li tralascio.

Non ferma i suoi passi di liquidi argenti, ma ne va a passare sotto Argirò verso l'Oriente, e serpeggiando per molte campagne, si va a giungere col fiume della Giarretta, vicino Catania, a tributare i suoi ondosi effetti nel molle Sen di Nettuno.

Guizzano in questo fiume le anguille le più preziose del regno, e nella grandezza e nel gusto, le Tinche ed altri pesciolini assai cari. Vi si trovano delle Varie, in latino delle Lurve, come Calepino asserisce, per 12 miglia del suo corso, e ne godono l'abitanti: de' cui testicoli dagli aromatari si compone un farmaco assai mirabile. La pelle di questo animale, ch'è di quadripede, e di pesce ha la natura, ha così morbido e bello il pelo, ch'è in gran pregio stimata, e di caro prezzo si vende da circa 4 scudi ascendente: la coda tiene di pesce, e l'tutto il Castorlo forma.

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AMENITA' ED ABBONDANZA DI ERBITA ANTICA E NUOVA

CAPO III Cercavano gli Antichi luoghi proporzionati nel fondar le città, d'onde cavando Vitruvio Architetto famoso, e pure

secondo i precetti de' sapinti filosofi, diede insegnamendi ben sodi corrispondenti alla sodezza di quelle. La fortezza, dic'egli, del luogo deeve essere la base nell'idea dell'architetto ingegnoso, per rendersi quasi

inespugnabile e non essere così facilmente dall'oste nemica abbattuta. La salubrità dell'aria che allunga la vita e rende i corpi imbalsamati di perfetta salute, e dell'acque correnti che

rendono fecondi i terreni, la fortezza della primiera Erbita eran dall'arte fondate, e nella storia da se stessa palesa l'invincibilità naturale, non essendo d'adornarla di mendicate parole, avendosi palesata per tale al Conte Ruggiero, che mal puote espugnarla e fu forzato partire.

Nell'una e nell'altra la salubrità dell'aria fa pompa, ripurgata da' venti che fanno sventolar la bandiera gloriosa di Cloto in faccia d'Atropo parca crudele, poichè gli abitandi di quella e di questa trapassan, per così dire, gli anni di Nestore.

Le campagne di Erbita nuova, benchè delle città vicine non abbiano tant'abbondanza d'acque correnti, pure sono di Cerere fecondi granai.

Gli alberi che sono di Pomona gli erarii, si trovano a tutte parti piantati e producono frutta sì gustosa al palato che avanza tutta quella del Regno, perchè oppresse dall'affluenza delle acque, mutano i dolci in sciapiti sapori, come sono fico, castagne, noci e nocciole, mandorle, poma, pere d'ogni sorte, pistacchi, e tant'altra frutta, e se d'alcuni va sterile per cagion delle brine, che altrove n'è prodiga, la frequenza degli esteri la rende ubertosa, ed alla mensa di tutti imbandisce saporosi i suoi parti, che quasi si stima di Tivoli e Frassati più celebre, là da tutte le parti del regno il più delizioso e sostanziale è trasmesso quanto di bello e di buono altrove fa pompa, in quei villagi in abbondanza campeggia.

Imitando Amaltea, porta in seno tutte le delizie di un regno, anzi sono di nutrimento di quello. Vi sono per l'Inverno orti vicino alla città che la circondano, ove tutta sorte di foglia in quella piazza verdeggia, e

tutte specie di erbe commestibili; il zaffarano poi è il più eccellente del regno. Torreggiano i Mori, pasto del verme detto Cavaliere, che morto veste de' Cavalieri il superbissimo fasto.

Della nostra città, nella dedicatoria (che) fa il P.M. Benedetto Granatrio del III° Ordine di S.Francesco, per le sue conclusioni (che in questa pubblicamente difese nella Chiesa del detto suo Ordine sotto Titolo di S. Maria della Consolazione, dedicata alli spettabili Giurati di questa nel Fine " disputabuntur publicae in Ecclesiae S.Mariae Consolationis civitatis Herbitae in comitiis Provincialibus anno 1641", stampate a Palermo), volendo egli assomigliar questa città, non trovò altro paragone più adattato che di chiamarla un Paradiso Terrestre, si' credo io per la molta frugalità ed abbondanza de' viveri, con dire: "Terris pares adiuvenire convictus, celestibus, et terrestri Paradiso Patriam vestram equiparabo".

D'armenti è così fertile che ne provvede le città bisognose: posso senza rossore valermi di tutto quello che scrive Columella della coltura degli orti, se quanto quegli dice tutto in questi orti si trova: " Jam breve cherofitume et torpenti grata palato in tuba, jam teneris frondes lactucula fibris aliaque in fractis spicis et o lentia late. Ulpica quae q. fabris habilis fabrilia miscet. Jam siser, Assirioque venit, quae semine radix; secta q. praebetur madida sociate Lupino ut pelusiaci provit et poiula Zythi tempore non alio vili quoquo salgama merce Capparis, et tristes inulae ferulaeque minaces plantantur, nec non serpentia gramina mentae et bene adorati flores spargunt anethi rutaque Palladis baccae victura saporem, seque lacessenti Hectam factum sinapis, atque saris pulli radis lacrimosaque capa ponitur et factis gustum, que condiar herba orbe vireus, pariter Plebi, regique superbo frigoribus caules, et veri Cymata mittit".

Ed anche fuori di questa città ne' suoi fertilissimi orti sono quelle erbe che nomina ne' suoi eruditi carmi il Padre Bernardino Stefanio della Compagnìa di Sesà, ove descrive come degli orti nostri parlasse: "Hic mentae virides, hic lenta sisymbria surgunt, hic metitur plenis ardens eracula palmis, et timbra suavis, et odoriferae panaceae, feniculumque, etc...".

E molto meglio Aurelio, uso negli orti Esquilini, va celebrando le glorie, benchè in altre occasioni, di questi nostri orti fecondi, con dire: "Non desunt tristes inulae, ratae que salubres, et menta, et Nhaumi Coriandraque pendula filo, marrubiumque salax, et amica papavera somno. Quin adiunt betaeque humiles, tersuraque dentes salvia, quaeque acrem late jaculantur odorem Punicae de pexa coma, sed lacte crura est".

In queste nostre campagne è così fertile la caccia de' lepri, conigli, cignali e volpi, pernici, colombi, e altri uccelli, che per li grati pascoli si rendono il più grato cibo della selvatichina, che potrassi giammai nelle altre città a bocconi d'esperienza gustare.

Di caccia anche d'uccelli d'acqua si rende dovitiosa; 8 miglia lontano di questo opulentissimo paese verso Occidente vi fa pompa un pantano, che sembra un vastissimo lago di potersi varcare, ed un altro più piccolo in cui sorvolano uccelli di corporatura a guisa d'oche, che sono chiamati Colli Verdi, e papaveri ed anitre.

Vi sono anche in abbondanza anguille, cefali, ovvero tinche, ed altri pesciolini di sapore così eccellente che di gran lunga le anguille del tanto decantato Faro di Messina eccedono, e se chi legge le pare iperbolico sogno, se ne procacci, che ne confesserà senza tortura per l'esperienza maestra del tutto la verità inconcussa.

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Ubertosi sono i terreni di Miniere di sale, sol dalla città 4 miglia lontani, in cui miransi una grandissima Cava, molto celebre e decantata da molti scrittori di nome per essere la migliore che trovasi in Sicilia, dal non essere così mordace come quella di Castrogiovanni, ma condisce i viveri di si' gran sapore al palato, che non le resta più grata cosa a gustare.

Il terreno di questi nostri villani è così ricco che forma miniere d'oro, d'argento, di Marchesita precorridrice di questi, di zolfo, ambre assai fine e di tal grandezza ne genera che in un pezzo sol d'integra massa scolpì l'arte ingegnosa a tutto rilievo la Trinità adorabile della terra Gesù, Maria e Giuseppe, alti più di mezzo palmo.

Esculapio per poter comporre gli antidoti tralascerebbe ogni servilissimo campo, ogni altissimo monte, ogni sollevato colle, e qui in questi campi fecondi pianterebbe sua stanza, tante sono le varietà e molte le specie d'erbe salubri: sarìa di mestiere formare un volume più vasto del Mattiolo, se le volessi descrivere. Basta sol dire che da Paesi lontani e forastieri si trasferiscono nelle nostre campagne gli Erbuari più dotti: vi sono piante si' celebri che non se lo credono coloro che esercitano questo curioso mestiere.

Benchè dal regno di Nettuno lontana non più di 12 miglia, non ci mendica della muta suo gregge, al peso però di onze 40 alla sottile è il rotolo della pescame.

Gli alberi selvaggi, che servon di legna per arder nelle cucine, n'è così abbondante che tutto il dì se ne fa nella Piazza buon mercato, nè sono dalla città molto lontano.

Anche i feudi che essa possiede al numero diecinove, esposti verso le quattro parti del mondo, nominati nel nostro proprio idioma:

San Martino Campanito Sambucchetti Iumenta Casalini Suprani Casalini Sottani (ne' quali torreggiava pomposa in un piano la magnificenza d'Erbita Antica) Cialambilieri Graffagno Fegotto Passo delli Cannelli La Grassa Marrocco Canale Roccascino Le Noci Santa Venera Chiuppo Malfettano sono feudi quasi tutti di lavoro a bestiame per pascervi con qualche poco di pietre, abbondantissime d'acque, come

dissi, legname ed altre cose necessarie al vivere umano. Potriamo addurre quel tanto che per altro luogo descrisse senza nota d'infamia nè di racconto iperbolico il Padre

Antonio Millileo Gesuita, nel Masses Viator: "Undique pieta oculis, hortorem assultat imago quos Zephiri et Poma colant, quos ardua vallo protegat aprico clauso munimine sepes: tempestiva super deriverit nubila ror es: et foveat molli Titan mitissimus astro. Omnia quae magno compensat faenore tellus talis visa viris facies subiecta per agros villarum, nemorumque decus, segetumque maniphi surgentes cumulis instructas mergite metas. Pomiferis circum porrecta umbracula Sylvis; tum vitrei laticum rivi, et viridantia strata pratorum, aeroses, stillantes nectare tophi: viribus umbrati colles et dulce renidens sax.a per et rupes tuonidis vindemia botris laeta boum possim spissis armenta catescis, lanigerique greges, errant, quibus ubera largo lacte fluunt".

Fiorisce in queste campagne la bestiame, che rende la città fertilissima di latticini, ed al sommo ubertosa, che molte altre città del regno arricchisce.

E se flora per le brine nemiche delli suoi teneri parti non può rendersi in questa affatto feconda, pure a dispetto di queste sa far pompa delle sue rare bellezze e vaghezze.

Sono così amene di questa città le campagne, che paiono i cieli discesi in terra, per la varietà di tante stelle odorose, sono distese in pianure ed intumidite in altissimi colli, che fanno lontananze si' amene alla vista, intessute di alberi e cespugli, quanto formano prospettive si' vaghe che fermano de' peregrini le pupille vaganti; i cittadini non sono per deviarsi dalle cure mordaci del mondo costretti ad uscire in campagna, ma dalle proprie fenestre e balconi delle case e palagi godono delle pianure, montagne e colline i più vaghi prospetti.

Scorrono gli occhi di coloro che tengono verso il mezzo dì le loro abitazioni più di 30 miglia di piano e di colli, così bene dalla parte disposti che paiono lontananze iperboliche a coloro che si rappresentano iniscorcio, e se le vedessero realmente coll'occhio confesserebbero che la centesima parte ha l'arte in queste carte descritto.

Quante mercanzie in questa di sovrabbondanti opulenze si praticano; non si discorre qui delle fiere e de' mercati, che sono questi due volte la settimana, con franchezza, il lunedì (così di chi compra come di chi vende) ed il sabato egualmente, che vi concorrono molti forastieri, nemmeno della fiera che per tutta la Sicilia ed oltre il regno celebrata ne viene negli ultimi di agosto con l'occasione della Solennità del Santo Apostolo S. Bartolomeo: ma delle mercanzie

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cotidiane di formento, ricotte, vino, olio, lino, lana, legumi, cascavalli, formaggi, tavole, legname, casse, botti e tante altre cose necessarie agli usi del pubblico.

Otto condizioni rendono le città conspicue secondo lo Stagirita Filosofo: gli Agricoltori, gli Artefici, i Forensi, i Mercadanti, Mercenari, Gladiatori, Giudici, Ricchi e Magistrati.

Se dalle città si tolgoni i primi, d'ogni abbondanza ed amenità vanno i campi e le città denudate. Se mancano gli Artefici, d'ogni cosa è mancante. I Forensi sono quelli che mantengono le città popolate e senza questi divengono deserte. I Mercenari sono il mantenimento de' Nobili ed anche degli Artefici, tolti sol questi sarìa una confusione evidente. Come potrebbe senza i Gladiatori la sua franchiggia e libertà conservare se non vi fosse chi la difenda con le armi ? Sono l'anima del gran corpo cittadinesco i Giudici, che le differenze de' popoli, alla propria passione soggetti,

secondo la ragione saggiamente decidono, quale anima (io dissi) è questa che al corpo popolare dà vita. I Ricchi sono nelle città necessari poichè sono questi che a' bisognosi somministrano i denari; e coloro al servizio di

questi impiegati, gli uni cogli altri fomentasi. Il Magistrato conserva la politica, la quale nella plebe non risiede, stando che senza troppo ragionare ella vive,

formerebbe un caos senza di questo che ragionevolmente la regge: e nelli casi dubbi, decide secondo il giudizio disinteressato lo Giudice.

Tutte queste condizioni a meraviglia fioriscono nella Nuova Erbita, come nell'Antica fecero pompa. Gli Agricoltori quasi innumerabili, che alle altre città del regno somministrano aiuti. Gli Artefici non fa mestier stancar la mia penna a descriverli, che a tutta la Sicilia è ben noto se di tante opre da per

tutto largamente provvedono. I Mercanti sono quelli che comprano e vendono, sono in gran numero e tengono la città in una continua fiera. I Mercenari alle volte restano senza operare per la moltitudine che in questa fiorisce, anzi che vanno in altre città a

dare nel loro mestiere soccorso. Gente d'Arme ve n'è grandissima copia in caso di doversi difendere la libertà parte. I Giudici sono stati in numero che la credenza umana eccede, come dirassi a suo luogo. I Ricchi furono e ve ne sono attualmente assai. I Magistrati fioriscono così nel Criminale, Civile, ed Appellante; Capitano, Senatori per il governo della città, e tanti

altri, come descriveremo a' suoi luoghi.

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DELLA CITTA' D'ERBITA ANTICA

CAPO IV Entra la penna mia in un pelago a varcar pieno di sirti e cariddi, e con tutto che sia in se stessa leggiera e che

galleggi sulle acque, dubito non sia di queste dopo fatto scherzo dalle onde assorbita. Vi furono, nol niego, o leggitore benigno, emoli della nostra città famosa d'Erbita alcuni Casali, che arrogandosi il

nome di questa pretendono le lor piciolezze ingrandire col chiamarsi con questo nome superbo. Furono dunque in Trinacria detti altri Castelli o Casali, sotto questo titolo da' siciliani e forastieri chiamati, che han

reso gli scrittori sorpresi da un equivoco manifesto e palese; avanti l'incarnazione di Cristo fiorirono, e noi per togliere affatto l'anfibologia che negli autori che scrivono ha nato, e per dicifrarla astretti con la spada di Gorgia più fina, toglieremo quanto noto intrigato, che sono i più famosi scrittori, porremo in chiaro l'equivoco e faremo vedere le opinioni contrarie che non hanno sodezza, e pure hanno posto in un caos di confusione il tutto.

Il tempo che divora ogni cosa ed il tutto consuma, a suo dispetto adunque toglierassi la benda per rendersi il tutto palese.

Furono quei due Casali diroccati, o per le forze non bastanti a difendersi subito presi o dal timore degli eserciti nemici volentieri gli abitatori cacciati, in abbandono i Casali lasciati

furoni in poco tempo resi trofeo dell'obbrobrio. L'uno era situato vicino Eraclea, per il suo male cotanto dalli scrittori resa famosa, dopo Agrigento verso il Ponente,

di cui Plinio descrive i confini, cacciando le nubi che offuscano la chiarezza del Sole: "Hyblenses, Herbitenses, Herbenses, Herbulenses, Helicienses, Hadrianitani, Imacarenses, etcc...."; e Cicerone, meglio: "Herbitenses, Heraclenses, et aliusque, ego em vel Herbitensem, vel Heraclensem securi esse percussunt dico", volendo dire le violenze usate contro il Governatore di Erbita o contro quell'altro di Eraclea, ammazzati da Verre.

L'altro Casale da Fazello descritto, ch'era appresso il Castello di Aidone, verso l'Oriente in un colle superbo dalle vicine città, Cittadella chiamato, di cui alcune antiche vestigia si miravano d'antiche rovine, che per ingordigia de' Tiranni nacquero ne' secoli intestine discordie, e di Castelli, Casali e di città abbandonamenti totali e distruzioni perpetue, che per il sol desiderio d'acquistare tiranneggiavano un regno, ed in luogo d'accrescere non miravano che il loro Impero sminuiva affatto, e gli abitatori lasciando con Ave d'Omei la lor patria diletta alla discrezione di un mostro che divora ogni cosa.

Non fia meraviglia adunque se diroccò poche case di Casali si' piccoli, che Tolomeo assegnando di questo Casale i confini nella sua Geografia del Mondo, con queste parole il descrive: "Id oppidum inter Agurium et Leontinos, sive inter Centuripes et Menas oppida, quae vocantur Mineo, - la Cittadella - quam Herbitam antiquam fuisse".

Soggiunge Cluverio: "Fazellus quoque suspicatus est"; e Maurolico nella sua Sicilia, all'indice alfabetico degli oppidi, monti e fiumi di Sicilia, dice: "Herbita prope Aedonem putatur fuisse, quae nunc Cittadella dicitur", volendo con esser Messinese assieme con gli altri errare.

Ma Tassimondo, che scrive d'Erbesso in Sicilia de' Leontini colonia, non chiama questo Casale Erbita ma Erbesso, che evacua l'opinione di Tolomeo a cui Fazello aderisce, chiamandolo Erbita, e tale lo dice Cicerone contro Verre.

Marzio Arezio nella descrizione di Sicilia, chiaramente dice: "Quamvis Herbessum inter Leontinum et Syracusam, nec procul a Megara constituat Livius".

E così chiaramente si vede che per le discordie fra Sicoli e tra l'ingordigia de' Tiranni che voleano regnare, s'atterrarono li belli Casali: e però nate sono d'Erbita tante opinioni diverse, ed invero tante anfibologie d'Erbita qual sia stata la vera.

Ma li scrittori, non considerando la differenza che vi è di città e di Casali, han presa l'una per gli altri, o solo fondati nel nome non penetrando il midollo, o l'usurpazione di tal nome solo dal principio alla gran città d'Erbita posto, non riflettendo che la nostra Erbita di cui scriviamo era una città di sito magnifico e di molta grandezza, maestosa per gli edifici, numerosa di popoli, come appresso dirassi; città che sotto il suo dominio il Casale di Mistretta, e si stendea il suo dominio vastissimo infino al lido di Tusa, ed indi infino a San Marco, gloriandosi Nettuno con le sue labbra d'ar-gento imprimere a' piedi del suo genitore Saturno, re del Lazio famoso, mille baci d'ossequio per esser di questo regno quasi abitator primiero, come narravan l'Istorie che stiman da tal tempo esser d'Erbita città l'originaria erezione.

Il dominio d'Erbita, che sia stato tale qual finora da noi è stato descritto, Cluverio lo conferma, poichè lasciò scritto: "At Jo Nicosiam, si intelligas esse antiquam Herbitam, triginta circitex numerantur millia ad Alesam, nullo alio olim intercedente; oppido praetor Mutistratum Castellum, five oppidum, quod at ipsum una cum proximo circa Alesam litore, haud dubie in Herbitensium fuit dictione".

Il che prova l'ampiezza del territorio della gran città d'Erbita, il cui Impero si dilatava non solo in se stessa ma sovra altri Casali, infino alle spiagge del regno di Nettuno, ch'è il più vasto, ed insieme chiarisce l'anfibologia degli intelletti che sono tutti capricci, ma poco sodi.

Siam certi che non han letto Diodoro Siculo, nel 14° Libro, il quale parlando d'Arconide d'Erbita Principe, porta un argomento sodissimo ed indissolubile, da uomo che ha senno e le glorie della nostra città accresce: se Erbita di cui era Arconide Principe fu situata alli Casalini, feudi di Nicosia, dove al presente si scorgono ancora poche reliquie di fabbriche, poichè dovendo fondare a sue proprie spese la città d'Alesa per colonia d'Erbita seco portò gran moltitudine di gente la quale tenea in Erbita, che per la furia de' Tiranni s'era in essa per iscampo introdotta, Arconide Principe d'Erbita (che senza sodezza gli scrittori già dissero essere d'Ibla o di Centoripe vicina) invano avrebbe fabbricato Alesa

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per colonia d'Erbita tanto lontana, che fu eretta fra Tusa e Calacta, non avrebbe possuto guidare i suoi popoli in salvo, o d'Agrigento o di Centoripe, in occasione di guerra, poichè si contano 62 miglia da Centoripe ad Alesa e d'Agrigento si numerano 62 miglia alla stessa.

Adunque, per essere la vera Erbita nostra non più distante dal mar di Tusa che 20 miglia e d'Alesa 8 e meno miglia lontana, si deve conchiudere che, avendo fabbricata Alesa otto stadi dal mar distante sovra un colle per sua colonia Arconide, egli era Principe della più vicina d'Alesa, e non di quelli duoi Casali (vanamenti detti Erbita) di Centoripe o d'Agrigento, che si chiamavano Erbesso; come adduce d'entrambi Girolamo Renda-Ragusa nella sua opera intitolata Siciliae Bibliotheca vetus, ove dice che in Sicilia v'è Erbesso antiquissima e celebre città, che Domenico Negro nella descrizione della Sicilia giudica essere quella ch'oggi volgarmente si dice Vicari .

Due città furono con questo nome d'Erbesso insignite da Polibio, Diodoro e Livio, l'una al lato Orientale, l'altra all'Occidentale riguarda; quest'ultima è quella di cui porta Polibio e Diodoro nella prima guerra de' Romani quando assediavano Agrigento famosa, poichè collocarono le squadre de' soldati contro Eraclea avanti la città che fu Erbesso, il quale Casale (dice Polibio) non era lontano dall'esercito: tale Casale viene oggi detto da Fazello "Le Grutte".

Anche Maurolico, nel Iudice alle cose Sicane, lo giudica esser la Grutte già detta. L'altra Erbesso è da Siracusa non molto lontana (come narra Diodoro) che Livio la pone mezzo di Siracusa e

Lentini: "Herbessum antiquissimam et celebrem Siciliae urbem, Dominicus Niger in descriptione Italiae, quae nunc Cirami. Sed quod errant danda est venia in exteris verum nostrarum minus gratis, porta duas Herbessi nomine civitates insignitas fuisse ex Polibio, Diodoro et Livio constat. Utraque Sicalorum fuit ex Diodoro, utraque Mediterranea ex Plinio et Ptolomeo, sed altera Siciliae latus orientale, altera spectabat occidentale. Atque haec illa est, cuius meminit Polibius et Diodorus. Et enim primo Bello Punico Romanis obsidentibus Agrigentum, locatis ante urbem castris adv. Heraclem, frumenti horrei, ac panè ( o penè) forum unde res venales aducherentur Herbessus fuit. Id oppidum, Polibius ait, a Romanorum castris non longe abevat.

Id hodie Gruttas Fazellus (de Rebus Siculis Dec.1-L.1) et Maurolicus (in Iudice ad res Sicanias) esse putant. Altera Herbessus a deò procuit Syracusis fuit, ut significat Diodorus. Syracusa et Leontinum inter Livius

locat, Hippocrati et Epistidi e Leontinis eidem nocte perfugium fuit. Hanc Aretius, Fazellus Pantalicam nominamus.

Argumentum quo Fazellus ducitur est, Origo nominis, quo Erbessus locum cavernosum significat. Sed Cluverius Fazellum reicit, conjicit ex Livio Palazotum esse Herbessum, et si a speluncis nomen deduxeris,

multas hic invenies. Quo tempore Herbessus interierit, incompetum est: Saracenis Insulam vastantibus, crediderimus iisdem dominantibus corruptum nomen, et Pantalicam dictam incerta natione".

E Carlo Stefano, nel suo Dizionario Istorico, Geografico e Poetico, disse: "Herbessus, Herbesus prot. Erbessum, Polybio oppidum olim Siciliae, Vicari dicitur. Item Herbessus altera urbs Siciliae, et ipsa eversa inter Syracusas et Leontinos Pantalica Fazello, Populi Herbissenses Plinio, Silio Herbessos (L.14).

Non Herbessos iners, non Hacilocha pigra pericli sederunt". E dopo, per conferma di quanto avea detto, porta a Bocarto Gracco scrittore, che va dal luogo, argomentandone il

nome: "De nomine Bochartus supra Agrigentum inquit in Mediterraneis Sicanorum urbs fuit Herbessus, de qua Polibius (L.s.4) et Diodorus (L.20 et 23) hodie le Grutte, sev Criptae dicta, propter Cryptas subterraneas. Itaque Herbessus Paenis erat".

Deducendo Bocarto in lingua ebraica il nome d'Erbesso, dice: "Har bessa mons foves seu crypts, quod etiam dici potest de altera Herbesso ad fontes Anasti fluminis. Proinde negletta compositione, haec Sicanorum Herbessus, etiam Ebraice Besta, vel Vesta dicta est. Quippe in his Polieni verbis, quae Cluverii diligentiam fungisse rate observat Palmerius", e, nell'idioma greco portato, dice che Vesta senza dubbio fu d'Erbesso: "Omnino Vesta est Herbessus Sicanorum urbs inclitan procul ab Agrigento, in qua regnabant Phalaris. Alioqui enim Vesta nulla mentio apud veteres. Nec Ortellii coniectura qui pro Vesta Inessam legit ullo modo est probabilis. Quia sita erat Inessa circa Etnam intractu plane diverso, neque umquam fuit Magna urbs hoc oppidum. Ita testant Tucydide (L.4 et 6) ac Strabo (L.6) ac Maurolico"; e d'Erbesso parlando, dice che ve ne sono due, questa di Siracusa e di Lentini vicina, l'altra non molto da Sottera lontano, detta le Grutte: " Herbessum oppidum fuit inter Syracusas et Leontinum, in loco ut perhibent Cavernoso, quod hodie Pantalica dicitur. Item aliud eiusdem nominis non longe a Sothera, ubi nunc Gruttae oppidum a spelunchis dictum".

Non può dirsi dalli scrittori più chiaro mentre l'assegnano il sito, ed apertamente si vede non essere state città come fu Erbita, dagli Antichi celebrata cotanto: nemmeno fosse in quelle parti collocata dove non ebbe mai sussistenza, e gli Autori hanno con la lor prnna sulle carte posto cose assai strane ed oscure, sicchè per far conoscere al mondo l'anfibologia di costoro, si ha voluto stentare per esser le cose lontano dalla memoria degli uomini, e quello che fa il maggior sforzo si è nessuno averne pria di queste nostre poche fatighe dato notizia, solo alcuni scrittori di passaggio n'hanno qualche poco parlato.

E di questo ne dice Bonfiglio nella sua Sicilia, parlando de' Cartaginesi, dice: "Per il chè il Senato, eletto Hannone Capitano esperto con potente apparato di mare e di terra, e molti elefanti, lo mandò in Sicilia, il quale nel primo arrivo prese Erbesso a tradimento, dove erano riposti gli apparati della guerra, molti cavalli, e faceano i Romani trattenere gli ostaggi delle città rese".

Era questo Casale di Erbesso vicino ad Eraclea ed Agrigento. Or veniamo all'altro, di cui ne parla Frate Leandro Alberti, ch'è verso l'oriente vicino di Lentini, nella sua

descrizione d'Italia, e particolarmente dell'Isola di Sicilia, ove dice: " La onde Sosi e Diarmeno Capitani, condussero

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quei soldati a Megara, e quindi con alquanti cavalli passarono ad Erbesso, credendo di ottenerlo per trattati che vi avevano dentro".

E così abbiamo chiaramente veduto che quelli due Casali, chiamati Erbesso, sono Casali e non città, come vanamente sognavano gli Autori, che per esser stranieri, non avevano giammai con occhi propri veduto quei Casali, nonchè la nostra Sicilia, sicchè li chiamavan città ed or Casali, come veniva a lor più acconcio, così come da altri non tanto esperti delle nostre città o Casali.

Sicchè non vi è da dubitar che Erbita sia quella vicino a Leontini nè quella ad Eraclea, ma la città popolata ed Insigne Erbita sotto il governo di Arconide, suo invittissimo Principe, che dopo aver Dioniso Tiranno cogli Erbitesi la pace firmata, uscì Arconide con grandissimo apparato di gente rifugiata sotto il suo vastissimo Impero nelle campagne al suo dominio soggette, e vedendo un colle sovra cui mirò un vastissimo piano lungi otto stadi dal mare vicino il fiume Aleso, vi diede le fondamenta alla città di Alesa, come a chiare note Diodoro lo scrive: "Arconides Herbitae Praefectus, posteaquam populus Herbitensium pacem cum Dionysio firmaverat, nous urbis condende animum adiecit. Mercenarios quid pre complures habebat, et promiscuantur in urbe turbam, quae belli Dionysani metu eo confluxerat. Snielti (?) quoque Herbitenses in coloniam hanc ultro nomina profitebantur. Multitudine itaque quae convenerat ad sumpta, collem quemdam occupat VIII stadia a mari dissitum, in quo Alesae urbis fundamenta eiecit".

Si devono attentamente ponderare queste parole che chiariscono quanto si è detto (....et promiscuantur urbe turbam), che Erbita dove era Principe Arconide era città famosa, e non Casale o Castello, come alcuni Autori hanno preso equivoco, già evacuato di sopra.

E tanto maggiormente si rende più chiaro, che Filippo Cluverio, molto sagace della politica de' Principi, e de' luoghi delle città osservatore diligente, rimprovera coloro che sognar si pretesero esser la città d'Erbita dove era Principe o Prefetto Arconide, o vero quel Casale vicino Agrigento, mentre dice egli le sarebbe stata troppo lontana e di nessun giovamento il fabricar la colonia che gli potea servire per occasione di qualche ritiro, nè per il Principe nè per i Popoli, volendo la ragione altro, che insegna le colonie fabricar non tanto lontane.

Le parole che scrive Cluverio, sopra ciò poco inanzi addotto da Diodoro, sono quelle che sieguono: "Ex Diodori igit: istis verbis, clare, ac dilucide perspicitur Herbitam non fuisse Cittadellam: a qua ad Calactam et Alesam contendere si voluissent Herbitenses vel Centuripinorum vel Agyrieusium vel denique Ennensium floreatium tunc civitatum permendidi fiussent fines. Eaque ratione, minus fiusset commodum Herbitensibus rs. -circiter millibus passum a Siculo mari- dissitis ad alterum, ac longius remotum mare, quod Tuseum vocabatur, coloniam deducere, eamque ibi turv.".

E volle dire Cluverio che quei dati Casali che furono sotto il nome di Erbita per equivico dagli Autori chiamati, quando invece si chiamavano Erbesso, mai Arconide (dell'uno o dell'altro Principe o Prefetto) avrebbe fabricato Alesa per loro colonia, poichè averìa fatto una mera pazzia in quanto a quello di Centuripe vicino Leontini il mare non è più distante di 25 miglia, e quindi a che prò fabricare Alesa per colonia d'Erbita cotanto lontana ?Prova del Sole più chiara, argomento infallibile che porta una conclusione verissima: ed infatti che riparo o fortezza sarìa una città per colonia, o per condurvi la colonia di un'altra città tanto distante, quando avrebbe avuto vicino vi è più il mare, che andar cercando altrove assai più lontano con aventurar la colonia sotto i fieri colpi delle spade nemiche in mezzo al cammino, e così esser degli nemici preda sicuro ?

Adunque si deve confessare che Erbita fu città amplissima,fortezza, e dello struggimento de' Tiranni ricovero; fu distinta ed altra di quell'Erbita che in verità si chiamava Erbesso, di Lentini o di Centoripe vicino, o d'altra vicina d'Eraclea e d'Agrigento, ch'erano ambidue Castelli o Casali assai piccoli, come di sopra si è abbastanza provato.

E questa nostra Erbita è sempre stata dagli Autori antichi chiamata Urbs non chè città, ch'è titolo più celebre dato da' Greci e Latini.

E pure il detto Cluverio nella Pianta della Sicilia Antica, pone Erbita al luogo designato dove ella fioriva, e dei 2 Casali non ne fà menzione; evidentissimo segno che erano destrutti, e solo nomina Erbita città che sempre si mantenne in piedi nel trono delle sue glorie e nel suo floridissimo stato mentre visse Arconide, suo invittissimo Principe, di cui Marco Arezio, nella sua opera "de Situ Insulae Siciliae", parlando di Nicosia, riferisce: "...alii a proximo loco Casalinis nomine illuc eam translatam ajunt", come dirassi più largamente appresso.

Marco Tullio Cicerone contro Verre, fu testio oculato in Sicilia, se per censore da' Romani mandato, ben vide il tutto e vi pose i confini con dire: "Herbitensis ager, et Assorinus"; ed altrove più distintamente favellando già scrisse: "...Hoc Herbitenses. hoc Amestratini, ...."; ed in altro luogo: "...Hamestratinue, Herbitense, et multarum praeterea civitatum".

E il Padre Benedetto (a) Passaflumine, nell'opera che egli fa "de Origine Ecclesiae Cephaleditane", con dire: "...longe a veritate aberrant putantes Herbita fuisse urbem Aidonis propinquam, nam Herbita (ut ait Cicero) fines suos cum Amestratinis habebat".

Visto già il luogo dove era Erbita Antica, è di mestiere nostro dare cercando il suo fondatore, e chi dal suolo l'eresse; noi non abbiamo sin ora possuto investigare qual sia stato nè da scrittori antichi nè da moderni, per quanto nei libri ricercar abbiam possuto, benchè il Padre (a) Passaflumine dica, per certi manoscritti ch'ebbe alle mani composti da Vincenzo Falco Nobile Nicosiense, esser fondata o da Ducezio Re dei Sicoli, ovvero da Arconide Principe degli Erbitesi, con dire: "Vincentius Falcus Nobilis Nicosiensis, qui horuit anno 1570, asserit in eius manuscriptis eandem, vel a Ducezio Siculorum rege, vel ab Arconide Herbitentium Principe, erectam ": che il Padre (a) Passaflumine dica quanto fondato sopra li manoscritti del Falco è degno di scusa, ma che il Falco senza verun

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fondamento habbia scritto che Ducezio o Arconide abbiano eretto Erbita, senza aver fatto riflessione a quello che lui scrive, e cioè che Ducezio fabricò solamente Menone, Palica, Noto Nuova, Calatina città di Sicilia, ed altra città non nomina; dice infatti Fazello: "Ducetius, Siculorum rex, Patria Neontinus fuit vir quidem ut acri, et vehementi ingenio, ita ad facinora obeunda, ac res magnas aggrediendas animo simul, et manu promptissimus; Menonem, Palicam, Neam Novam, Calatinam urbes in Sicilia condidit".

Quanto questo Autore racconta parte è vero e parte no, come vedrassi appresso. Esaminando il vero adunque per distinguerlo dal falso, è dibisogno cominciar di Ducezio la storia dal proprio, per

fondar bene la nostra intenzione a far conoscere che invero è incognita ed incerta l'originaria fondazione di Erbita, tanto famosa appresso i Romani, da Cicerone contro Verre cotanto lodata, ncomiato ripiglio si' per le armi e le vittorie ottenute come per la numerosità de' popoli.

Nol neghiamo, o Lettore, che non si sappia chi la pria pietra vi pose là dove era situata mezo delli 2 feudi delli Casalini Suprani e Sottani. Questo a nostro parere è gloria di Erbita, pocchè quanto dalle trasandate memorie ella va smemorata, vuole palesar che altrettanto coll'eternità (se può dirsi) nel proprio gareggia, poichè da nessun scrittore certamente è descritto il suo natale per l'incertezza incognito, e rende i suoi primi albori della stessa antichità più vetusti: arguisce li suoi primi fondamenti quasi nel proprio col Mare e colla Terra.

Chi sia il primo che habbia eretto le sue mura superbe io non ho possuto sin'ora rintracciarlo col cannochiale Istorico, prova con alterigia nostra superba (ma vera) che sia tra le città della Sicilia la più canuta; se i suoi natali fossero certi o dopo l'altre che ostentano di primiera nel regno, per avvilire i suoi preggi avrebbero o con nere o con candide pietre i suoi dì annotati, per renderla funesta o per dichiararla fastosa.

Era, per dar proprio al discorso, Erbita 6 miglia in circa lontano da quella che oggi Nicosia si chiama; potriamo senza iperbole dire che Erbita habbia avuto i suoi gloriosi natali dopo la morte di un mondo tra l'acque del diluvio affogato, già chè i primi abitatori della nostra Sicilia (come nel primo capo si disse, e narran di comune consenso l'Istorie, e ne son molti libri in abbondanza descritti) furon Cam figlio di Noè, i Ciclopi o Giganti o Lestrigoni, e che a quelli seguirono Saturno, Egizio ed Eulo germe di Giove; successero i Sicani e dopo i Sicoli, da' quali ereditò il nome di Sicania e Sicilia; vennero fabricate da poca gente alcune abitazioni per riparo all'incostanza dei tempi, e le situarono vicino quasi delle più alte montagne della Sicilia, benchè in un vastissimo piano sopra le falde di quelle, difesa dalle montagne mediterranee per gli imperi d'Aquilone che sovente soffiano, ove eressero famosi e sontuosi palazzi di grandezze tali che eran lo spavento degli occhi, fabriche si' massicie che contrastavano con la falce crudele del tempo, le strade così ben situate dall'arte che pareano tirate a dirittura da' raggi del Sole, circondata dappertutto di mura sì grosse che le reliquie rimaste insino a' nostri tempi ne faceano indubitata fede della maestà che ostentano altissime torri per guardia della città, che la coronavano di glorie le superbissime porte, che servivano d'archi trionfali alla meraviglia del mondo, le quali fregiavano i suoi gloriosi trionfi; era insomma una città di cui disse Diodoro: " Quidpe potentem, lateque imperitantem fuisse civitatem satis".

Ed alcuni ampiissimi antri in massici di pietra incavati, non lungi ma fuor dalle mura che al Ponente si mirano, già che andava a poco a poco col tempo crescendo che si formò una città si' grande, vi nacquero uomini così robusti e guerrieri ch'erano più valorosi delli giganti di Hegra, già che ossa e teschi di tal grandezza di sotterra gli antri hanno scoverto, che fanno per la smisurata grandezza inarcar le ciglia a' mortali, e se ne conservano in sino ad dì d'oggi certe coste di lunghezza 5-6 palmi in circa, una nel Convento di S. Francesco d'Assise e l'altra nella chiesa antica di San Benedetto.

E però non si è venuto a cognizione chi fosse stato che le diede le prima fondamenta per dichiararla antichissima, se Calacta ed Alesa città famose, di questa Aquila Generosa potentissime figlie, sono da Fazello nella sua Sicilia chiamate "Pervetuste": argomenta, o lettore, quanto vetustissima sia la Genitrice Feconda.

Sicchè, con giusta ragionevolezza, habbiamo detto che Erbita habbia dalli Ciclopi o Giganti l'origine, in quelle prime abitazioni della Sicania di cui nessun autore ne scrisse; però sono i suoi fondatori all'umane notitie incogniti, giacchè se a tempo ch'era adulta i Giganti fiorivano, se fosse stata come Roma da breve tempo dal suolo inalzata, s'havrebbe avuto notitia chi a quella diede l'origine, come di quella fu Romolo e Remo, e così di tante altre città sono stati i lor fondatori descritti, e per mostrar l'antichità vetustissima d'Erbita dalla memoria dell'uomo assai lontana, è d'uopo portar noi di Ducezio Re de' Sicoli l'Istoria, valevole a mostrarla tale quale fin oggi l'habbiamo descritta.

Ducezio dunque "..di Patria Neetino", come dice Diodoro, o secondo Padre Brietio Gesuita ne' suoi Annali del Mondo, che lo chiama "...Ducezio che pria regnò in Sicilia da Capitan Gente", o come dice Fazello che lo fa "...Re de' Sicoli", e dal Mugnos fra i filosofi della Sicilia annoverato nel suo nuovo Laerzio.

Questi edificò la città Menone detta, e le possessioni circonvicine divise alli cittadini di essa, secondo i capi delle famiglie; movè pian piano alla città di Morgantio fiorissima guerra che la prese per forza, e da tal vittoria si acquistò appresso i Sicoli e i Greci un gran nome di Bravo e Capitan valoroso, con aver costretto tutte le città del regno, eccetto Ibla, a pagargli ugual tributo; accrebbe quasi di ricchezza un infinito tesoro, e divenuto molto potente s'impossessò di molte città del regno; edificò una città detta Pantalica , tal nome prendendolo dal Tempio della Dea Palica vicino a detta città da lui fabricata, e di salde e grosse mura la cinse, divise agli abitatori i terreni (come dice Fazello).

Fabricò anco la Nuova Noto e Calatina, giusta la dottrina del detto Fazello poco anzi addotta. Egli fu nobile di sangue e di quei tempi un Creso per le ricchezze, di acutissimo ingegno e d'animo pronto a

qualunque impresa; si fa inoltre assoluto Padrone e Signore di Enna. Per il chè i Siracusani si armarono contro Ducezio, creando per loro Capitan Gente Boccone, che venendo a giornata

campale contro Ducezio, ne fu rotto, restando lui trionfante. Inteso dai Siracusani questo fatto d'armi a loro funesto,

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crearono il nuovo Capitano con espresso desiderio di prendere Ducezio; si unirono dell'uno e dell'altro gli eserciti presso Noma, e si combattè così audacemente che cadettero molti dell'una e dell'altra parte; alla fine, resi più forti, i Siracusani sbaragliarono di Ducezio l'esercito, e questi salvatosi ne' luoghi più vicini e più forti.

Alla fine abbattuto da' Siracusani e dagli Agrigentini (a loro aggiunti), riconoscendo le sue forze mancate per esser da' suoi soldati abbandonato di notte tempo, si conferì a Siracusa cedendo al Senato, che l'esiliò ad abitar Corinto.

Ma egli, dopo alcun tempo, fingendo d'esser comandato con espresse minaccie dagli Dei che si conferisse in Sicilia per edificare una città da chiamarsi Calacta, vi ritornò, come dice Diodoro: "Ducetius oraculo se jussu simulans ut Calactem in Sicilia condere cum magna honum novas sedeis quaerentium turba in Insulam trajecit".

Il chè è contrario di quello che riferisce Bonfiglio, che dice di esser di Diodoro sentimento, quando Diodoro altrimenti discorre, poichè il comando e le minacce degli Dei non furono a' Sicoli che ricevessero Ducezio (come dice il Bonfiglio), ma fu Ducezio che finse (dice Diodoro) esser dalli Dei minacciato, e li Sicoli andarono all'incontro di Ducezio, e fra gli altri Arconide degli Erbitensi invittissimo Principe: "Adjungere se etiam - siegue Diodoro - Siculorum nonnulli, et inae hos Archonides Herbitentium Princeps".

Questo terror de' Tiranni ricevè Ducezio e lo riverì come Re; stimiamo che sia stato a Ducezio amicissimo mentre gli passò questo officio, nonostante fosse de' Siracusani e degli Agrigen- tini nemico, poco curando benchè potenti fossero quelle due Nazioni.

Di questo Arconide non troviamo Autore che dicesse di che Patria o Nazione egli fosse, onde è ovvio conchiuder essere stato Erbitense, d'Erbita non Padrone ma Principe eletto dal popolo per averlo per capo, senza il quale il corpo della Repubblica è morto, come dimostrerassi a suo luogo.

Il riferito Ducezio regnò gli anni del mondo 3593; tralasciando le opinioni di alcuni Autori, come del Padre Marcello Barone dell'Ordine de' Predicatori (che scrisse della creazione del mondo fino alla natività di Gesù Cristo esservi solo trascorsi 3707 anni), del Padre Orazio Tursellino Gesuita (che nota esservi interpellati 4000 anni), del Padre Filippo Brietio Gesuita, alla cui autorità ci appigliamo in quest'opera per gli anni c'hanno regnato e fiorito alcuni personaggi in questa addotti (come si vede ne' suoi Annali del Mondo, la cui opinione è che siano trascorsi 4503 anni), se volessimo seguire l'opinione del Martilologio Nom.no, il computo porta che regnò Ducezio gli anni del mondo 3593.

Donde chiaramente si conosce che Erbita era governata da Arconide e detta città dovesse esser eretta dalle fondamenta molto tempo assai innanzi, vogliam dire di più centinaia, come dissimo de' Sicani, anzi un poco più avanti.

La perdita di Ducezio ch'ebbe con li Siracusani, e l'esser dalla Sicilia bandito per ordine dei medesimi confinato in Corinto, e la finzione che fece d'esser dagli Dei comandato ritornar in Sicilia, fu il luminoso fanale da scoprire le glorie di Erbita Antica, che nella tomba della scordanza era sepolta: l'invenzione capricciosa del Neetino Ducezio fu qual alba precorritrice del Sole delle Montagne, che non solo portò d'Erbita la notitia alla propria Trinacria, ma anche alla maggior parte dell'Universo, avendola mostrato al gran capo del Mondo, e fece conoscere che la città reggeasi a guisa di Repubblica col Principe Arconide, di cui si apprese il brio assoluto e le sue ricchezze inesauste, e quanto era la sua temuta potenza, se in Erbita albergavano tutti i fuggitivi delle altre città, terre, castelli e casali da Dioniso abbattuti e desolati, che non poterono alla tirannìa di costui più resistere.

Giacchè al ritorno da Corinto Ducezio venne per fabricar Calacta nelle sponde più amene del mar di Sicilia, che sono dov'è Caronia, e non come scrive Geronimo Renda-Ragusa nella sua "Biblioteca degli Elogi degli Uomini Illustri di Sicilia in dottrina", portando che Calacta da Ducezio fabricata sia stata Caltagirone; oppure, come fra gli altri, Il Maurolico nel suo "Compendio Rerum Sicanarum", errando descrive Calacta essere dove al presente eretta si trova Caltagirone, dicendo: "Lego etiam alibi Duretium Neetinum Tyrannum conditorem Minei, Palicae et Calactae; quae nunc ab instauratore Calacta-Hieronis nuncupari creditur"; ed in altra parte soggiunge parlando di Ducezio: "..cui adhaesit Archonides Herbitae Princeps, et eius ductu Collatina in pulcro littore conditur", contradicendo se stesso, dicendo prima essere Calacta fabricata da Ducezio solo, e dopo da Ducezio ed Arconide nel lido del mare.

Stupenda meraviglia infatti si è, che Caltagirone dove suppone essere stata Calacta, 20 miglia in circa lontana di mare, dica "...in pulcro littore conditur", che se ciò fosse vero le città tutte mediterranee della Sicilia si direbbero fabricate nel lido; sarebbe una mostruosità non veduta giammai nel mondo che tutte le città e terre che nel principio del loro nome vi pongono -Calacta (come sono Calata-Xibeta, Calacta-nisseta, Calacta-vuturo, Calata-biano, Calata-fini ed altra, che di tal nome ne portano l'esordio), stimar si dovessero erette dalle rovine di Calacta, conforme credo che tal autore vaneggiò.

Non lesse, mi suppongo, Cluverio che, espiegando Diodoro Siculo sopra da me riferito, dicendo esser stata Calcta eretta da Ducezio ed Arconide nel più bel lido del mare, si dichiara dicendo che altro lido più bello non fiorisce in Sicilia che quello di Caronia, dove fabricata ne fu Calacta, asserendo: "Sed et ipsa Caroniensis littoris excellens amenitas, ac pulcritudo, quam diligentissimo oculo per totum hoc litus quae sivi Calactos hoc situ fuisse aperte clamat apud Strabonem ita scriptum est".

Non so dunque dove appoggiato s'havesse questo autore Maurolico dicendo esser Calacta dove al presente si trova Caltagirone, qual'è dentro terra e non nel più bel lido di Sicilia, e che solo Ducezio l'habbia fabricato, quando chiara-mente Diodoro dice che fu eretta dal suolo da Ducezio ed anche da Arconide, che (come dissimo sopra) andò a Ducezio all'incontro con li mercenari che seco portava, e tra lo spazio di anni sei fu, unito con quello, alla perfetione costruita, come (dice Fazello) Diodoro ne scrive: "Fuit autem condita Calacte urbs a Ducezio Siculorum rege, et ab Archonide Herbiteorum Principe, ut Lib.12 scribit Diodorus".

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Ma Cluverio, nella "Sicilia Antica", porta l'autorità di Diodoro, che nel tempo di soli sei anni fu Calacta a tutto punto di fabricarsi spedita: "Sexto demum anno post absolutam fuisse Calactam idem testatur Diodorus Lib.14"; e le genti che questa città abitarono furono di quei mercenari portati da Arconide, e parte di quelli condotti da Ducezio.

Era questa città così ben situata dall'arte ingegnosa che l'averesti giurata nata da se stessa nel suolo; i palagi così artificiosamente intrigati che pareano delitiosi labirinti degli occhi, non chè teatri del mondo; le strade così ben disposte ed a dirittura tirate, per darla a divedere città non della Terra ma dall'Empireo discesa, se gli abitatori non fussero stati Idolatri. Le stesse navi che vicino passavano per questa spiaggia, doppiamente felici erano dalla vaghezza fermate per farsi mirare, trattenute assai meglio di quelle d'Ulisse, ch'erano dall'armonia delle Sirene incantate: città che, come dicono Fazello (il quale adduce Tolomeo) e Diodoro: "Nam cum Ptolomeus Calactam in hac ora collocata, et Diodorus Lib.12, eam ad pulchrum Siciliae hoc litus, quod ipsum Calacta, et eius nomen Graecis sonat fuisse conditam scribant, et si ille eam paulo superius Aluntium, et Alesam posuerit, cum tamen nullum sit aliud praeter hoc; tata ora pulchrum litus huc usque extent vetustatis monumenta, frustra mihi videtur diutius apud Ptolomeum de eo ambigere, quod oculis decisum habere arbitror".

E Maurolico, nel suo "Compendio delle cose Sicane", dice "Duretius", così stampato per incuria dell'Impressori, dovendo dire "Ducetius", oppure tale descrisse l'autore equivocandone il nome: "Syracusanis deditur, et exul Co-rinthum mittitur et oraculi pretextu reversus a Siculis recipitur; cui adhesit Arconides Herbitae Princeps, et eius ductu Collatina in pulcro littore conditur".

Ma quel che Erbita a più gloria resulta, si è lo restar per la morte di Ducezio, che avvenne a settantaduoi anni (come scrivono Diodoro, Fazello e Cluverio), in possesso Arconide Principe, come da jure toccava, per esser stata fabricata a spese comuni; e che ciò sia vero lo pruova il fatto che Arconide finì di vivere dopo molti anni Re di Sicilia, come scrive Fazello "Defuncto Archonide eorum rege", poichè era in tanta grandezza il suo dominio ampliato che meritò di Re di Sicilia glorioso il nome.

Questa città era abbondante di tutto quanto si richiede, correnti, fiumi, come il Chyde così detto in latino ed oggi Rosmarino chiamato, che dalli monti Montissori tiene il suo capo, come dice il Fazello : "Chyde fluvius ostium Ptolomeo, cui nunc a Rosmarino vulgatissima a rosmarinorum copia appellatio: orit ex Montisoriis Montibus", che sbocca nel mar di Caronia, ove in abbondanza nelle sponde di questo fiume si estolle questa nobilissima pianta, la quale in se stessa contiene quelle qualità salutifere che quasi in tutte le piante la Natura divise, che perciò fu detta nel nostro idioma Rosmarino, e per la gran copia di questa che alle sue riviere pomposamente campeggia.

Arricchiva anche nel vicino di questa bella città il Furiano fiume, che procede dalle fonti feconde di Solazzo, Marascotti e Miraglie, monti che hanno per confine Troina e San Filadelfo, e scorre nel mare vicino dove era Alesa.

Questi monti sono detti Erei, benchè Fazello li dica "Aurei", fondato sopra quanto legge in Diodoro Siculo nel libro che fa delle "Istorie di Sicilia", ove scrive: "Furiani Novi fluvu ostium est post Alesam, oritur ^am ex fontibus Solatii, Marascotti et Miragli in montibus in Troynam, et Sanctum Philadelphum in excelsum surgentibus, atque huic orae prominentibus. Hi sunt montes celeberrimi, quos Aereos appellat Diodorus Siculus L.5"; stimandosi error di stampa il dir Diodoro "Aereos", dovendo dire "Hereos", come si cava da quello che prima disse Diodoro stesso: "Sunt in Sicilia Herei montes"; e se avesse letto Fazello il L.8 di Diodoro, al sicuro non avrebbe scritto "Aereos appel-lat", ma "Hereos appellat".

Per onde si scorge che nell'istesso capo Fazello fa differenza di quei monti da quelli che chiama Montissori, che invece sono gli stessi, benchè in detti duoi luoghi, come chiaramente si scorge dalla pianta della Sicilia che porta il Mercurio Geografico del Sansone-Bandrand e Cartelli, che dice Monti Erei, oggi Monti Montissori.

E così quei Monti Erei sono Montissori, dove le Ninfe passeggiavano per divertirsi dall'ozio, giacchè sono sempre un aprile, e dicono che da Mercurio e Dafne ne fu generato un bellissimo fanciullo, Dafni detto per la moltitudine degli allori che in quei monti verdeggiano, e ve ne sono in abbondanza, e però sortì eo tal nome e fu questo figliolo dalle Ninfe educato; di molti armenti e bovi fu possessore, inventò i "versi bucolici", o ver pastorali, tanto in quel regno e altrove stimati.

Dall'altra parte tenea un fiume, Serravalle detto, che scende dalle montagne delli Santi Pietro e Costantino, e molla

confratte che mandano d'acque al mar di Caronia, torrenti per mezzo di questo fiume, da cui trae il nome un Casalotto nomato Serravalle.

Ne fa fede di ciò Fazello, benchè prenda grandissimo errore, come si è detto, prendendo Alesa per Calacta: "Uberius post amnem Serravallis Caroniae fluvii ostium e torrentibus collium SS. Petri et Constantini, et Mollis confrasti sequit, et nomen eiusdem recens oppidulum ubi ad littus Alesa pervetusta olim erat urbs (si Straboni credimus) qui Alesam post Cephaludim ad 30 p.m. ponit".

Onde Strabone avrebbe detto assai meglio: "....ubi ad littus Calacta pervetusta olim erat urbs, qui Calactam post Cephaludim ad 30 p.m. ponit"; ma Strabone che fu il primo, per esser forastiero è degno di compassione mentre scrisse (crediamo) secondo le notitie ch'ebbe, e Fazello lo siegue nel medesimo errore con esser Siciliano, come appresso dirassi.

Ma non son queste che le metà delle glorie d'Erbita, che s'inoltrano a più stupende meraviglie. Dioniso Tiranno, che regnava nelle Siracuse l'anno della Creazione del Mondo 3657, dopo aver soggiogato al suo

Impero l'inespugnabile Enna, n'andava baldanzoso, e nelle sue tirannìe vi è più avanzato per alcune vittorie ottenute. Incaminò alle campagne vicine d'Erbita il suo poderoso esercito: non vide l'altiero che sopra di una porta della città, la maggiore, alzata vi era per corpo d'impresa che gli animi degli Erbitesi palesava invincibili, un'Aquila de' volatili eroina

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suprema, che tra gli artigli tenea un Basilisco, simbolo de' Tiranni molto espressivi, e dall'Aquila come schiavo trattato, e se Dioniso avesse questo attentamente mirato, averìa senza rossore abbandonato l'assedio; ma il cielo alle volte per abbassar de' superbi l'orgoglio, permette che s'imprendano capricci al lor valore disadatti.

Invano pretese con minacce e terrori di dar a ferro e fuoco il tutto, se al suo Impero non si rendea soggetta; poichè degli Erbitesi l'ardire sagace nulla temendo delle di lui sfrontate minacce, assediò molto tempo, ma senza frutto, perchè petti animosi degli avversari sprezzan l'ardire, in modo tale che fu forzato stabilire cogli Erbitesi perpetua pace, e dall'assedio partirsi e far vergognosa ritirata, e l'esercito guidar verso Catania; ciò conferma Diodoro, con dire:

"At Dionisus Syracusanorum Tyrannus Castris inde promotis Erbitentium urbem oppugnare adgressus est, sed cum res non succederet, pacem cum illis inita, copias adversus Catanam duxit".

Carlo Stefano, nel suo "Dizionario Storico, Geografico e Poetico" modernamente dato alle stampe, ed accresciuto per Nicolò Iloido l'anno 1693, proba con energia di parole al nostro intento molto a proposito, adducendo il Diodoro citato ed altri scrittori ancora, dicendo:

"Proinde Dyonisus Etna, Leontinis, et Enna occupatis, Herbitam frustra atteritavit, et cum res non succederet pacem cum Herbitensibus inire coactus est".

Questo successo dona materia assai ampla agli intelletti umani di argomentare con prove sodissime che Erbita allora era città popolata e di prodi guerrieri arricchita, ed ancorchè fu città avanti assai tempo eretta dal suolo, quanto tale da poter cacciare dall'assedio un Dioniso Tiranno, e che chiede prìa di partirsi la pace.

Fatto invero che spinse Diodoro a pronunciare non solo parole, ma elogi di gloria: "Quidpe - osservale bene, che di più non si può dire - potentem lateque imperitantem Civitatem satis, vel ex eo

adparet, quod a Dionisio Tyranno expugnari nequirerit"; elogio invero solo adattato alla nostra antichissima Erbita, che la palesa città amplissima; a te leggitore, lasciamo

che ponderi queste auree parole, e minutamente consideri quanto d'ammirabile in ristretto contengano ed in iscorcio rappresentano queste turgide parole di Diodoro, che in se stesse racchiudono una catena di encomi supremi.

E Cluverio conchiude, volendo attestare quanto vetustissima sia Erbita, che Diodoro ne fa menzione essere annotata nell'Olimpiade ottuagesima terza, cioè innanzi la natività di G.C. 446 anni: "Caeterum vetustissima Herbitae memoria apud Diodoro L.12, adnotata est in Olympiade 83 i.e. ante natum I.C. 446".

Ma la grandezza degna di essere celebrata, l'appalesa l'istesso Cluverio dicendo: "Sed celebritatem eius maxime indicat in dicta actione quinta, ....", parlando di Cicerone che và celebrando Erbita con queste parole: "Videamus Herbitensibus civitas honesta et antea copiosa, quem admodum spoliata ab isto, ac vexata sit ?" (discorrendo di Verre).

Non può dirsi da uomo che ha senno, che sia stata Erbita vicino a quei tempi fondata, poicchè le città le quali non solo resistono ma ancora vittoriose si appellano per i loro trionfi, è impossibile che in breve tempo s'innalzino, ma vi vogliono più di centinaia di anni che si frapponghino; dunque Erbita fu assai tempo innanzi di questo fatto stupendo, ed arguisce i suoi natali dopo il diluvio universale del mondo.

Vorrei che il lettore di quest'opera una riflessione facesse sulle parole di Diodoro Siculo nel L.14: " .....sed cum res non succederet, pacem cum illis inita..", che riferisce agli Erbitesi e che mostra come Erbita fosse Repubblica, poicchè la pace si firma con gli Erbitesi e non con Arconide, di costoro Principe invitto, che se Arconide fosse stato di Erbita Principe e Padrone, Diodoro direbbe: "...pacem cum Archonide inita"; il che pruova quanto tanto dissimo sopra Erbita reggersi da Repubblica, e quanto fondato sia il nostro pensiero lo conferma ancor più chiaramente Diodoro: "Post ea quam populus Herbitentium pacem cum Dyonisio firmaverat".

Firmata questa pace tra gli Erbitesi e Dioniso Tiranno, Arconide Principe che tenea popolo numerosissimo in Erbita, refugiato sotto l'ala della sua Aquila protettrice per le tirannìe del mediterraneo, per darle qualche impiego, uscì in campagna con proposito di voler fabricare una città, ed arrivato vicino al mare vidde certo colle un sol miglio lontano, ove era un piano, a proposito di fondarvi un'insigne città: era questo monticello vicino al fiume Aleso, così dalli Latini anticamente detto, e con tutto questo popolo che seco portava, ascese questo colle e diede proprio alle fondamenta di questa città; così asserisce Diodoro: "Archonides Herbitae Prefectus, post ea quam populus Herbitensium pacem cum Dyonisio firmaverat, nous urbis condende animum adjecit. Mercenarios quidpe complures habebat, et promiscuam in urbe turbam, quae belli Dyonisiani metu eo confluxerat. Multi quoque Herbitenses in coloniam hanc ultro nomina profitebantur; multitudine itaque quae convenerat adsumpta. Collem quemdam occupat VIII stadia a mari dissitum, in quo Aleuse, urbis fundamenta ejecit".

Gran campo mi si para davanti con questa dottrina di Diodoro per celebrare di Erbita le glorie supreme, che forse non sono in altre città più famose del regno stimate, poichè il dire " ...Archonide Herbitae Prefectus" e non Principe, volle dichiarar Diodoro che Erbita vivea da Repubblica, tanto maggiormente che disse " Post ea quam populus Herbitentium pacem cum Dyonisio firmaverat", che volle significare che Arconide era solo per duce in Erbita e non assoluto Padrone, nè gli Erbitesi vassalli ma popolo libero, tanto che la pace fu fatta tra il popolo Erbitese e Dioniso Tiranno.

E se Arconide inclinò il suo animo a fondar una nuova città, palesa ciò di questo Prefetto la potenza e la richezza; inoltre la molta turba di popoli rifugiata in Erbita per timore delle guerre di Dyonisio, mostra che Arconide era guerriero temuto da tutti, e però tutti sotto l'ale della sua proterve correano.

E' necessario che qui si adduca il vuoto che fece in un arcipelago assai vorticoso il P. Fazello, in assegnare il luogo dove fu fabricata Alesa, città famosissima, dicendo: " ....ubi ad littus Alesa pervetusta olim erat urbs (si Straboni credimus) qui Alesam post Cephaledim ad 30 p.m. ponit", affermando che dopo il fiume Serravalle siegue il fiume

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di Caronia, dove fu la città d'Alesa eretta, siegue con dire l'istesso Fazello: " ...ubi fragmenta, ac veteres ruine pro maxima pt.e obrute, ad Aedem Annunciatae circa Caroniae littora adhucjacent"; poco dopo l'istesso Fazello disse, nella stessa data e capo, come della città di Calacte sopra si è detto; è questo che mi fa dar nelle smanie si è che nel medesimo capo dice il detto Fazello che la città d'Alesa, benchè non sia nominata in una tabella intagliata in idioma greco, che mentre stava la sua opera sotto il torchio, n'ebbe notitia, nella quale si nomina più volte il fiume Aleso e non la città Alesa denominata dal fiume Aleso già detto: " ...verum et si Alesa - dice egli - urbs in ea tabula marmorea non nominatur, quia tamen de Alesio fluvio pluries memoria repetitur, non omnino eam Alesam non fuisse affirmo, sed anceps adhuc mihi est animus, dum ex veterum criptorum, quae nondum forte sunt editi monumentis veritas haberi non possit"; come può dunque giustificarsi se Diodoro Siculo Istoriografo antico scrisse esser fondatore d'Alesa Arconide Principe d'Erbita, che la fabricò in un piano sopra un colle, che se ciò havesse letto non averìa scritto d'Alesa che fu nella spiaggia dove ora è Caronia.

Ad Aedem Annunciate, se dopo egli dice che le città sono denominate da' fiumi vicini, come Gela da Gelo, e da Aleso Alesa, come asseriscono gli antichi scrittori, e fra gli altri Virgilio, il quale dice che la città di Gela sortì cotal nome dal fiume Gelo vicino: "Apparet Camarina procul campique Geloi Immanisque Gela fluvius cognosmine dicta (Virgilio L.3 - Eneide)".

Cotal nostro proposito più meglio di ogni altro Silio Italico conferma il tutto a chiarissime note, col dire: "Venit ab omne trahens nomen Gela venit Alesa", volendo apertamente conchiudere che Alesa, avendo preso dal fiume Aleso il nome, è di bisogno che non sia tanto lontana ma vicino dal fiume da cui il nome già prese.

Come può dire che fu vicino Caronia fondata, anzi nella stessa spiaggia, quando Alesa era otto stadi dal mar lontana (ch'è quanto dire mille passi), sopra una pianura di un colle, giusta quel tanto Diodoro già scrisse, di Fazello più antico ?

O Fazello deve negar Calacta, che negar non lo puotrà giammai mentre ne scrisse, o deve conceder che Alesa non fu nella spiaggia dov'oggi è Caronia, dove disse che fu fabricata; se negar non può dunque che Calacta sia stata, e che fu nella spiaggia di Caronia fabricata, come potrà a queste ragion fondate rispondere ?

Se Calacta, dopo la morte di Ducezio, successe tutta ad Arconide, e detta città sempre si mantenne in piedi mentre visse Arconide Principe di Erbita, ed era sua colonia abitata dalle sue genti e da lui dominata, a che fine doveva erogare si' ingentissima somma inutilmente per fondar un'altra città (Alesa) vicino di Calacta per sua colonia e d'Erbita ancora, quando per tale effetto si potea di Calacta servire, ch'era città famosissima ?

Dunque dee dirsi francamente che Alesa fu fabricata dal detto Arconide per colonia d'Erbita, non potendosi così facilmente valere della città di Calacta ch'era lontana, si fabricò Alesa, in parte più vicina d'erbita e più comoda e più facile a condurvi i suoi popoli, la quale fu del fiume Aleso vicina, e per far giusta la denominatione del fiume sopra i monti di Pettineo, modernamente tale chiamato, e detto fiume non d'altra parte provede se non da' monti di Pettineo e monti vicini, come scrisse l'istesso Fazello, che contradicesi in ogni periodo, parlando del fiume Aleso, già scrisse: "Oritur is fluvius ex montibus propinquis Pettineum situs est".

Ma Filippo Cluverio, più sottile indagatore del vero, con potentissime ed indissolubili ragioni, confuta Fazello dicendo: "Hae certe ruinae sunt Calctae, quam Tabella XXX millibus passum a Cephaledio ponit apud Strabonem pleroque intervallarum supputationes vel ipsius errore, vel librariorum incuria false sunt. Sed et ipsa Caroniensis littoris excellens amenitas, ac pulchritudo, quam diligentissimo oculo per totum hoc litus quae sivi, Calactam hoc situ fuisse aperte clamat, apud Strabonem ita scriptum est". E già come dissimo sopra, la denominatione d'Alesa nacque dal nome del fiume, e dal Castello di Tusa, di Frombola un tiro distante, vi si mirano certe reliquie d'una città desolata, ch'egli (Cluverio) chiamava Tissa , e da queste ruine un tiro di pietra lontano.

Queste sono le parole di Fazello: "Post hanc urbem prostratam ad §HH aetum lapidis, fluvius Pettinei sequitur, qui Alesus in tabella marmorea vocatur, a quo, si haec urbs Alesa est, nomen, veluti, et pheres alios a proximis fluviis adeptam fuisse arbitrandum est".

Par che si vada al vero accostando, ma non per questo non si truova maggiormente intrigato, con avverare l'assioma vulgata "Incidit in Scyllim cupiens evitare Carybdim", non scuoprendo del suo discorso l'errore, stante che non è Alesa alla spiaggia del mare fondata ma sopra un colle un miglio lontano dalle sponde del mare, e Calacta per Alesa confonde, or ponendo Alesa dopo il fiume Aleso ed or vicino Caronia, ch'è quasi 12 miglia distante dal fiume Aleso.

E pur maggior errore prende Maurolico, che posso affamigliarlo al Sole in Ariete che muove gli umori e l'infermità non risolve, mentre dubbioso ne scrive: "Alesa, vel Caronia est, vel iuxta eam fuit".

Come con ragione Cluverio corregge Antonio nel suo Itinerario, che anche prese nella supputazione delle miglia grossissimo errore: "Apud Antonium - dice Cluverio - prescripto itinere numerus Millium XXVI inter Alesam, et Calactam corrigendus, est ex Fabula itineraria, ac documentis modo allatis in XII"; sicchè dove facea pompa Alesa, si contano, infino dove era Calacta, dodeci miglia: Cluverio, in un'estasi di stupore sospeso, si fa gran meraviglia che Fazello sia persuaso esser il fiume di Pettineo anticamente chiamato Aleso, e dopo ponga la città d'Alesa dopo Serravalle fiume vicino Caronia, in parte tanto lontana; e quanto dice Fazello, a chi non porterebbe ammiratione?

Così dunque scrive Cluverio: "Quam omnino persuasum habuerit Fazellus Pettineum esse veterum Alesum; miror, qui ipsam urbem Alesam longius inde remotum, eltra, et Serravallis, et Caroniae amnis statuere potuerit"; e segue chiamando grandissimo errore di Fazello collocar la città di Alesa nella spiaggia assai bella di Caronia: "Que per ingentem errorem Fazellus (dec.1 Lib.9 cap.4) ad id collocat oppidum".

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Altri dissero che Alesa sia stata fabricata da' Cartaginesi a' tempo che statuiron la pace Dionisio con Amilcare, come riferisce Diodoro dal Cluverio portato: "Eterum sunt, qui Alesam a Cartaginensibus primum conditam memorant, quo tempore pax inter Amilcarem et Dyonisium coivit".

La verità si è, dice Cluverio, quel tanto che Diodoro afferma Arconide d'Erbita Principe o Prefetto dalle fondamenta quella eresse: "Conditam ab Arconide, refert Diodorus, anno secundo Olimpiadis XCIML Athenis Euclide summum gerente magistratum; id est ante natum Iesum CCCCIII"; nella cui città gli Erbitensi spontaneamente e senza tema si dichiaravano tali per esser ella lor colonia dal suo Prefetto fondata.

E giacchè siamo certificati del luogo, a' descrizione delle campagne verghiamo e poscia di essa. Le campagne di questa città sono fertilissime, e abbondano fiumi e fontane ammirabili: evvi il fiume Aleso che

scorre dalle montagne di Pettineo, non lungi dal mare (oggi fiume di Pettineo chiamato), che pria era territorio di Erbita; e Fazello conferma che questo fiume da detti monti nasce, con dire: "Orituris fluvius a montibus propinquis, in quibus Pettineum situm est oppidum. Cui, deinde, Motta Fermi succedit, atque dextrorsum in Mediterraneis ad passus M.6 Amestrata haeret urbs, Mistretta hodie dicta".

Nelle campagne di Alesa si narra esservi stata limpidissima fonte, come nelle sue Epistole Cicerone già scrisse portando per autentico (col suo dire erudito) quel che riferiscono Afro, Dioniso e Solino (cosa invero dall'umana cre-denza lontano, perchè non può naturalmente provarsi), che quando si tace dagli uomini che sono ivi presenti, quieta e tranquilla si rende; ma se ivi si suonano liuti o flauti, etc, come fosse incantata, al canto quasi lieta s'innalza, gonfiandosi quasi dalle voci ammirata, ebra d'amore, e le campagne co' suoi liquefatti argentei arricchisce: " In Alesino agro Iulio, Solino et Afro Dionisio auctoribus - dice l'eloquente Romano - fons est, qui cum silentius, quietus et tranquillus est, siv autem tibiae sonant, exultabundus ad cantum elevatur, quasi miretur vocis dulcedinem, ultra margines intumescit".

E Prisciano o altri, che sia stato riferito da Cluverio, cantò: "Meic et Alesinus fons est mitissimus undis tibia, quem extollit. Cantu saltare videtur musicus, et ripis Laetans excurrere plenus".

Fu questa fonte detta da Solino Ipyrro. Era questa città d'Alesa d'aria salubre, abbondantissima d'acque vicina di fiumi, poco lontana dal mare per tenere gli

abitatori ne' suoi giorni felici, così ben situata di strade e così ben composte che l'occhio più purgato non avea ch'emendare; i palazzi così ben disposti e sodissimi, e le case erano quasi all'eternità consacrate, avea della montagna e marina; gli abitatori sempre lieti e festanti, poichè il lor signore era il Principe Arconide, il Terrore de' Tiranni; l'abbondanza di ogni cosa desiderabile li tenea sempre operanti e ricchi, stavano contenti i loro cuori, godeano una pace tranquilla, che non solo era l'abbondanza per loro contenuto, ma il superfluo era di sollievo agli altri Paesi. Roma arricchita dagli avanzi di Calacta e d'Alesa, che nuotavano fra l'abbondanza de' formenti, vino, olio, bestiame bovino e numerosissimi armenti (rifiuti questi dell'ubertissima Erbita lor genitrice feconda, che la servivano per pubblica Piazza di mercato ferace, ove portavano gli Erbitensi tutti i viveri detti sopra), e perchè i Romani da Alesa caricavano le navi di queste vettovagli esquisite, fece immuni gli Alesini da Gabelle, così nel vendere come nel comprare; tali cose Diodoro le scrive: "Romanos immunitatem Alesinis dedisse".

E più largamente Cicerone lo disse contro Verre, allegando: "Siciliae civitatis multae sunt ornatae, atque onestae ex quibus in primis numeranda est Civitas Alesina, nulla enim reperietis, aut officiis fideliorem, aut copiis locupletiorem, aut auctoritate graviorem".

"Ac etiam Immunem, liberam, cum quatuor aliis" siegue Cluverio; e Cicerone dicchiarando quali siano le altre città che sono immuni, e cioè Centoripe, Alesa, Segesta, Alicia e Palermo, afferma: " ...quinque praeterea sine faedere Immunes Civitates ac liberae: Centuripina, Alesina, Segestana, Haliciensis, Panormitana".

Alla descritta città, Claudio, per darle proporzioni le leggi, congregò tutti i Marcelli che allora nella Sicilia trovavansi, e con la sentenza di questi determinò a prò del governo che dovea somministrarsi in Alesa, e fra le altre dell'età de' Nobili che dovevano entrare per Senatori al Governo, (che) non fossero meno dell'età di 30 anni.

Questo Cicerone lo scrisse, con dire: "C. Claudio adhibitis òi 6 Marcellis qui tum erant, de eorum sententia Leges Halesinis dedit, in quibus multa sanxit de etate homum: ne quis minor triginta annis natu"; e che nessun mercadante alla dignità Senatoria ascender potesse: e Verre, disse Tullio, la vendette a' figlioli di 16 anni incirca: "Ab isto, qui voluit istum ordinem, pretio mercatus est. Et pueri annorum senum, septenumque Senatoruum nomen nundinati sunt".

E pure Cicerone nelle sue "Epistole" commenta la somma grandezza d'Alesa con dirla "Lautam et Nobile", ed altrove ancora: "In Alesina civitate tam lauta quam nobili conjunctissimos habeo"; che per questa franchezza ed immunità di Gabella, Piazza Universale di tutte le Nazioni divenne, poichè in essa depositavansi tutte le merci, e questa con la sua abbondanza facea gemere col pesantissimo incarco le navi di mercantie per il ritorno, e crebbe di sito grandissimo e numerosa di popolo, come affermò Diodoro: "Posterioribus inde temporibus urbi Alesine tum propter negotiationes maritimas, tum ab Immunitatem a Romanis concessam maximum incrementum accepit".

In tal forma che vennero gli Alesini de' Romani compagni, come Cicerone lo scrisse: "Alesinos antiquissimos et fidelissimos - aggiuse Cluverio nella sua Sicilia Antica - Populi Romani - e secondo la mente di Tullio che siegue in detto luogo Cicerone - socios atque amicos".

Fà riflessione, o lettore, sopra "Alesinos antiquissimos....": fu Alesa città fabricata dal Prefetto d'Erbita Arconide e d'Erbita figlia; potiam dir noi quanto sia la madre veterana nell'antichità veterana, benchè non saputa ?

E' però degna Erbita d'esser celebrata, non sol per antica fra quasi tutte le città di Sicilia, la quale ebbe i suoi natali dopo il Diluvio Universale de' Mondo.

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E chi di vetustissima celebrasse le sue glorie il nome, darebbe al di lei capo degna corona; e se i trionfi d'Alesa cotanto da Cicerone vengono stimati, ridondano ad elogio d'Erbita primiera città famosissima.

Così dunque dice Cicerone d'Alesa gli encomi: "Et quod Alesini antiquissimi et fidelissimi socii atque amici Romae impetrarunt ut apud se, ne suffragiis quidem fieri liceret id precio, ut fieri posset, effecit".

E così non poteano li cittadini d'Alesa esser eletti per Senatori, nè per potenza nè per denari, ma eligger doveansi coloro che ripudiavan l'impiego, e Verre lo vendeva agli incauti. Alesa a tal posto era innalzata che godea la preminenza di Senato, come riferisce Cicerone: "Demonstravit in Senata homo summo ingenio, summa auctoritate Halesinus Aenius"; e lo mantenne con fasto ammirabile assai celebre, come disse Cluverio parlando di Alesa: "At magno nomen satis, atque celebrem fuisse civitatem"; la quale rende Erbita assai più pomposa per esserle genitrice feconda, e tanta stima ebbe appresso Stefano, che arrivò a dire: "Herbita urbs Siciliae, auctore Ephoro, gentilitium inde est Herbitens".

Glorie solo degne d'Erbita Antica: bastava dire essere uomo della città di Erbita per esser dicchiarato di nobilissima schiatta, e come non dovea esser celebrata per tale quando tenea sotto il suo dominio Calacta ed Alesa, città famosissime, ed anche assoluta Padrona del Castello di Mistretta, il cui invittissimo Duce, Principe e Prefetto Arconide, nella fortuna avanzato, s'impadronì di molte altre città, terre, Casali e Castelli in Sicilia, onde si pose sul capo il diadema reale, e venerato per tale, alla fine gloriosamente se ne morì.

In felicissima Erbita, per l'addietro celebrata quale eroina delle mediterranee città, la morte del suo invittissimo Duce fu la rovina di Calacte, Alesa e di tutte le altre città sotto il suo dominio; le città e Castelli stavano in pace per esser dal suo irrefrenabile potere guardati, onde Fazello apertamente già scrisse che dopo si mossero molti a soggiogar le città: "Gelsas quoque ad summittendos, milites excitarunt, Siculorum postremo complures urbes (defuncto Archonides eorum rege) Societatem cum Philippo quoque inierunt".

Il che Cicerone conferma con queste parole contro Verre, allegando: "Videamus Herbitensis civitas honesta, et antea copiosa, quemadmodum spoliata ab isto, ac vexata sit"; cioè dalle ruberìe di Verre che non puote mentir nel suo nome, mentre privò la Sicilia delle sue immense ricchezze; disse " ...antea copiosa", dinotar volendo allor che dominava Arconide, la città d'Erbita sempre fiorì nel suo stato eminente, non mai fu da' Tiranni (che atterrivan la Sicilia) toccata, crebbe in tale grandezza di sito per l'innumerabile popolo, e il primo anno che venne Verre in Sicilia contava 257 Castaldi, che voglion dire Fattori che gover- nano e guidano della villa le cose, come rinfacciò Cicerone a Verre, il quale per li suoi ladronecci, la ridusse al terzo anno a 70; e che furono costretti ad abbandonare i campi lor pruopi, non chè la città, ed insieme il regno: "Ut aliquando ex eorum agris atque ex urbibus abirent". La barbarie interessata di Verre distrusse più città che non fece la tirannìe di regnare.

Eravi in Calacte Eupolemo, uomo ricchissimo: un dì questi richiese a Verre se volesse desinar con lui, e per non esser delli suoi vasi d'argento spoliato, gli pose innanzi tutti gli argenti piani senza lavori, che ne possedeva gran copia, eccetto solo due tazze mezzane le quali eran di figure adornate. Verre, quasi burlando, per non partirsi dal convitto senza darle l'aggiunta alla pranza de' convitati, ordinò che le figure delle tazze fossero tolte per arricchire la sua galeria formata di furti, con quelle altre di rapina sfacciata; Cicerone chiaramente lo scrive: "Quid Eupolemo Calatino homini nobili Lucullorum hospiti, ac perfamiliari qui nunc apud exercitum cum Lucullo est, non idem fecit ?

Cenabat apud eum argentum illi ceterum purum apposuerat, ne purus ipse relinqueretur: dum pocula non magna verum tamen cum emblematibus. Hic quasi festivum Acroama, ne sine corollario de convivio discederet, ibidem convivis inspectantibus emblemata evellenda curabit".

Così pervennero queste famose città dalla barbarie di Verre un deserto, spopolate e lasciate in abbandono da' lor cittadini, si resero lubridio del tempo, con dimostrar a' posteri l'incertezze se furon distrutte o dagli abitatori costretti all'oblìo; d'Alesa disse Cluverio non esser stato possibile averne notitia chi la destrusse nè quando fu diroccata: "....quando et a quibus mortalibus urbs destructa fuerit incertum est"; e lo stesso disse di Calacta ed Erbita lor genitrice feconda.

Di già abbiam veduto con chiarezza Erbita non esser stata quella di cui alcuni Autori già scrissero esser vicino Aidone o Lentini, nè quell'altra vicino ad Agrigento ed Eraclea, l'una e l'altra chiamavansi Erbesso, ed eran duoi piccoli Casali, benchè alcuni abbian detto che furono città famosissime, o perchè non le viddero o perchè non ne furono bene informati, poichè nominandosi Erbesso, li chiamarono Erbita senza verun fondamento, stante Erbita essere una sola in Sicilia, la quale fu alli Casalini feudi di essa fondata; ebbe sotto il suo Impero Calacte ed Alesa città celebri, ed il Castello o Casaletto di Mistretta; il suo territorio amplissimo si stendea da Assoro insino all'Artesina, e indi a Tusa, Alesa e Calacte, dove ora è Caronia, e ritornava insino ad Assoro.

Ella fu città regia governata da Arconide invitto de' Sicoli, e però in tanta altezza sollevata dagli antichi scrittori nelle sue glorie che per la sua incognita fondazione è chiamata "pervetustissima".

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DELLA CITTA’ DI NICOSIA

CAPO V Delle infestazioni e ruberie suddette di Verre, e per li continui assalti de' nemici di questo povero regno e come

anche per non aver Duce che li regesse, infastidivansi più di ogni altro gli Erbitensi, senza Principe da poterli difendere, nemmeno haveano a chi poterne cercare per lor Prefetto, acciò resistere potesse alle violenze degli Pretori che mandava il Senato Romano.

E' di mestiere intanto favellar prìa sopra la Devastazione di Sicilia, che per lo tirannico governo di Cajo Verre agli ultimi estremi divenne: un'Isola adorna di tante belle città magnifiche per la struttura, popolate di gente, ubertosa di viveri, ricca di possessioni, pomposa per gli ornamenti, abbondante di pretiosissime gioje, perle, e di molti altri artificiosi ornamenti d'avorio, oro argento, statue di metallo, come Cicerone allega, che di tutto ciò ne fu spoglita nel triennio che Verre la resse:

"Siciliam Provinciam, C. Verre, per triennium depopulatus Siculorum Civitates devastassi, domos exinanisse, fama spoliasse dicitur".

Per poscia venire alla dissipazione di Erbita Antica: non lasciò città che non la rendesse un deserto, le case spogliate dagli ornamenti, derubando delli Dei falsi i Templi, non ostante fossero de' Romani amicissimi e molto più che fedeli, come l'istesso Cicerone scrisse:

"Ut antiquissimi soci, fidelissimi Siculi" delli quali dice l'istesso che tutta la Sicilia Provincia tanto ricca quanto antichissima, decorata di tante

nobilissime città, di tante famiglie opulenti, nella quale non vi fu vaso d'argento di Corinto, o da Delo nessuna gemma, margarita, oro, o cosa d'Avorio, statua di metallo marmo, pittura o di tessitura fosse, che Verre ricercato non l'habbia, veduta non la derubasse, e non si prendesse tutto ciò (che) gli piacque:

"Neso - dice egli - in Siciliam tam locuplete tam vetere Provincia, tot oppidis, tot familiis, tam copiosis, ullum argenteum vas, ullum Corinthium, aut Deliacum fuisse, neso ullam gemmum aut margaritam fuisse, aut quiquam ex auro aut ebore factum signum, ullo ereum, marmoreum, eburneum: neso ullam picturam, neque in tabulis, neque textilem fuisse, quiquae si erit, inspexerit: quot placitum sit: abstulerit";

non lasciò nelle case cose di pregio, nemmeno nelle città o Casali, ogni cosa già tolse, non permise restasse statue nelle pubbliche Piazze, nè Tempj, volle il Siculo non possedesse cosa veruna, niente appo il cittadino Romano che in Sicilia abitava; quanto vidde l'occhio di Verre e gli piacque, tutto lo pre- se, non vi fu cosa di Privato o Pubblico, nè di Tempio sacro o profano capriccio, che non se ne avesse impossessato:

"Nihil in Aedibus cujusquam, nè in oppidis quidem, nihil in locis communibus, nè in Iovis quidem, nihil apud Siculum, nihil apud civem romanum, denique istum, quod oculos, animumque ascenderit, neque privati, neque pubblici, neque profani, neque sacri, tota in Sicilia relinquisse".

E poscia lasciando da parte l'universale, scende al particolare declamando quanto havean rappresentato i Centuripini, i Catanesi, gli Erbitensi, gli Ennesi e molti altri, qual fosse de' campi la solitudine, la desolazione, e qual degli aratori la fuga, quanto abbandonata e non operata la terra, e che haveano ogni cosa dietro le spalle lasciata:

"Audistis Centuripinos, Catanenses, Herbitenses, Ennenses, complures alios, pubblice dicere, quae solitudo esset in agris; quae vastitas, quae fuga aratorum, quam deserta, quam incolta, quam relicta omnia".

Or vengasi ad osservare quanto questo uomo pessimo operò nella nostra Erbita Antica, a quali rovine non la ridusse, a quali estremini non la portò !

Furono gli Erbitensi costretti a far mutazione di luogo, variar sito, prendere inespugnabili fortezze, luoghi eminenti, che quasi inacessibili rendonsi, fabricar castelli e nuove abitazioni, per stare securi dalle ruberie esecrande, dalle calunnie della Sicilia vessata, dagli inganni de' Governanti e dalle ingiurie de' Decumani; da questa Erbita partendosi volontariamente lascia- rono alla nostra penna il descriverlo, e non non avendo più petto a resistere, si diedero dalla bella Patria alla fuga, come Cicerone scrisse:

"Qui non modo ex agris ejecti sunt, sed etiam civitatibus, ex Provincia, denique bonis fortunisque omnibus ereptis profugerunt".

Si partirono i Nobili con questo poro resto avanzo sfortunato della crudeltà dei Pretori Romani per mutare abitazione, e se sortir li potesse fortuna migliore, sei miglia in circa lontano da Erbita Antica verso il mezzodì viddero gli Erbitensi sagaci un'eccelsa mole di pietra, che vi creò la Natura, ma dalle acque dell'Universal Diluvio scoverta: s'innalzavano sopra questa massa grandissima 2 colline fra loro divise, che dalla medesima mole spiccavano una verso l'Oriente e verso l'Occidente l'altra, sopra le quali architettò due Castelli l'arte di superbo Ingiegnere, e li sposò con un ponte si' maestoso che porge da l'uno all'altro, appaniato il tragitto di palle di pietra rotonda sovra i ripari adornato, che mostra insieme arte e difesa, maggiormente in quei tempi; molte case e Palagi alla condizione d'ogni uno disposte e fabricate, molte grotte cavate nella medesima petra, in cui abitavano le tante reliquie d'Erbita Antica che in abbandono lasciarono, seco portando d'Erbita solo glorioso lo stemma alla nuova abitazione d'insuperabile rocca.

Le continue guerre etiamdio sono dai più valorosi aborrite, non perchè gli Erbitensi lasciarono la Patria natìa si devon codardi tacciare: il cercar fortuna migliore non è di cuore imbelle, ma di prudente coraggio; il mutar luogo

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che prìa era alle scorrerìe de' Tiranni lo scopo, è di Popoli assenati Politica; l'aver cercato fortezze di inacessibili rupi, per ivi assicurarsi dalle insidie de' Barbari, è di sapiente Consiglio.

Però partiti da quella Patria, ch'era in un piano di sito e non potea agli insulti delli nemici resistere, vennero a fabricar la Nuova; gli stessi Erbitensi furono quelli che fuggiti dalla Patria primiera per li latrocini di Verre, fabricarono questa sotto il medesimo nome e titolo, come riferisce il Padre Benedetto (a) Passaflumine, nella sua opera intitolata "De origine Eccl.ae Cephaleditanae", dicendo che tal nome gli posero gli Erbitensi sagaci per non cadere dalla Maestà primiera:

"Nicosia enim a Populis Herbitensibus constructa caput esse videtur; ideoque tali digna laude nè superior inferiori cadere dicatur".

E questa dottrina l'appoggia su quella declamazione di Cicerone, che fra le altre ragioni contro Verre adduce che di Erbita l'amene campagne in abbandono lasciarono 132 padri di famiglia, e come forusciti partironsi:

"Ager Herbitensis primo anno habuit aratores duecentos quinquaginta septem, tertio centum viginti, hinc centum triginta septem patres familias extorres profugerunt".

E come non dovean fuggire dalla Patria gli Erbitensi malamente trattati da Verre il quale non andava a convitti, che non havesse tolto gli ori e gli argenti, usure sfacciate commettea contro gli abitatori delle città e terre e Casali, e più maggiormente nella nostra Erbita Antica, dove si comprava di vilissimo prezzo il formento, e poi si vendea agli stessi di prezzo assai rigoroso, come più chiaramente si vede in Cicerone in Roma le accuse per tale operato delitto, perlocchè mossi gli Erbitensi deliberarono fuggire dalla lor Patria nativa, e cercar nuovo cielo:

"Herbitensis ager et Ennensis, Murgentinus, Assorinus, Macharensis, Agyrensis, ita relictus erat ex maxima parte, ut non solum jugerum, sed etiam dominorum multitudinem quaereremus"; significar volendo quanto furono le estorsioni e ruberìe di Verre, spogliando la città, non chè i territori, mentre non solo le campagne restarono inculte, ma nemmeno i Padroni operanti trovansi, e nella stessa situazione furono, dice egli, di questo territorio il primo anno vendute le decime per 18 medine d'argento: l'Ufficiale e Ministro havea comprato le decime, se ne venne in Erbita con nome di Capo, e quivi d'Ordine Pubblico costrinse gli Erbitensi, in luogo della somma dovuta, a dargliene 3700, trentasettemila moggia di grano:

"Coguntur Herbitenses lucridare tritici modium XXXVII millia, cum Decume, venisset tritici modium XVIII".

Furono forzati dall'Università soddisfarle, poichè in Erbita si portò una copia di Ministri confacenti ad un ladro, e così venne il popolo astretto a dargli di lucro ventiseimila moggie di grano, ed inoltre duemila sesterzi d'aggiunta; dice Tullio: "Io non sono chiarito se ad Apronio sia stata data la mercede ed il prezzo della sua imprudentia".

"Et Prefecti nomine cum venisset Herbitam cum venereis: locusque ei pubblice quò diverteretur datus esset, coguntur Herbitenses ei lucridare tritici modium XXXVII millia", e quel che siegue legasi Cicerone e troverassi più di quel che finora si è detto.

"Atque hoc triticum lucri dare pubblice eum etiam privati Aratores ex agris spoliati, atque exsagitati decumanorum inyuriis profuggissent";

vi è, più inoltrandosi, di Verre e suoi Ministri l'empia barbarie, Cicerone già scrisse: "Anno secundo cum emisset Apronius decumas tritici modium 25 millibus et ipse Herbitam cum illa

predonii copia manuque, venisset populus pubblicae coactus est ei conferre lucri tritici modium XXVI et accessionibus H5 Mm de accessione dubito, au Apronio ipsi data sit merces feve preciumque impudentiae";

e pur qui non finiscono di Cicerone le accuse, perchè le ruberìe di Verre e suoi Ministri pur non davano fine. Il terzo anno Verre seguì in questo territorio i costumi de' regi stranieri; sogliono i re Barbari de' Persi e Siri

molte mogli tenere, quasi a spese delle loro città, alle quali in tal modo l'assegnano: dia la tal città alla mia donna gli ornamenti del capo, quell'altra del collo, e per fine quell'altra ancora della chioma superba, onde sia evidente che non sol i Ministri sian consapevoli della loro libidine, ma anco quella a tutte le lor città sia manifesta.

Ritrovandosi petulante erodiade e amante di Verre la nominata Pippa, il suo marito Escrione Siracusano fu delle decime d'Erbita nuovo Gabelliere creato; gli Erbitensi vedeano che se fosse detta gabella ad Escrione rimasta, sarebbon (secondo le voglie di Pippa) spogliati e destrutti; quanto puotero giudicare di contribuire fra loro feron l'offerta maggiore: secondo la quale avanzando Escrione, non temendo poichè la sua moglie decumana di Verre Pretore non permettea gli venisse alcun danno, furon date le decime ad Escrione per 2000 medine, la metà quasi più dell'anno passato. Parlando Cicerone degli Erbitesi:

"Anno vero tertio in hoc agro consuetudine usus est regia solere ajunt Barbari reges Persarum ac Syrorum plures uxores habere, his autem o uxoribus Civitates attribuere, hoc modo: haec Civitas mulieri redimiculumpraebeat; haec in collum, haec in crines, ita populos habent universos, non solum conscios libidi-nis suae, verum etiam administros eamdem istius, qui se regem Siculorum esse dicebat: licentiam, libidinemque cognoscite".

E quel che siegue in detta azione, poco dopo Cicerone scrisse: "Hic Eschirio Pippae vir, adumbratus in Herbitensibus decumis novus instituitur publicanus. Herbitenses,

cum viderent, si ad Escrionem pretium reddisset, se ad arbitrium libidinosissimae mulieris spoliatum iri: liciti sunt usque eo quo ad se efficere posse arbitrabantur. Supra adjecit Eschirio neque enim metuebat, ne Pretore Verre decumana mulier damno affici posset. Addicitur medinis M:M: dimidio fere pluris quam superiori anno aratores funditur evertebantur".

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Legga questa quinta azione attentamente chi vuole informarsi delle ruine d'Erbita, e della fuga degli aratori, che mossero Fileno Erbitense a difendere, benchè nulla con la sua dottrina impetrasse, ma vi è più incalzando i decumani, che non avendo gli Erbitensi frumenti con che pagare le decime, fu il pubblico sforzato esborsare quelli denari, che non puote il privato; dicovi, o Giudici, non puote un tal beneficio servire a poter liberare gli aratori dall'ingiurie e vessazioni de' Decumani o Decimatori, fu questa prontezza degli Erbitensi, forse per non render guaste degli aratori le facoltà derubate, causa di farli fuggire, e partirsi dalla loro città tanto apprezzata. Così Cicerone discorre:

"Atque nunc eum frumenti numerum, et eas pubblice pecunias decumanis ab Herbitensibus aetas esse dico, quo illi frumento, et quibus pecuniis, tamen a Decumanorum injuriis, cives suos non redemerunt. Perditis enim, et direptis aratorum bonis haec Decumanis merces dabatur, ut aliquando eas eorum agris, atque ex urbibus abirent".

Non potendosi Cicerone contenere nel proclamaro nella quinta azione, egli dice: "Consideriamo un poco come spogliata e rovinata sia l'onorata, e per l'addietro ricca città d'Erbita non mai celebrata abbastanza. E città di che sorte ? Ripiena di molti aratori dal foro alieni, da giudizi e dalle liti lontani, a' quali doveva uom malvagio avere riguardo, e con diligenza trattarli": "Videamus Herbitensis Civitas, honesta et copiosa quemadmodum spoliata ab isto, ac vexata sit. At quorum hominum ? Summorum aratorum remotissimorum a foro, Iudiciis, et controversiis, quibus parcere, et consulere homo impurissime, et quod genus homum conservare debuisti".

E non cessa d'incalzar contro Verre ragioni in dimostrare le ruine che fece in Erbita, inanti la di lui propria presenza, e de' Giudici, a' quali ripete quanto hanno detto i Centuripini, Agirensi, Catanesi, Erbitensi, Ennensi, e molti altri, i quali pubblica testimonianza v'han fatto, quanto e come que' paesi fossero in abbandono lasciati e ruinati, qual fosse degli aratori la fuga, i territori inculti e desolati:

"Audistis Centuripinos, Agirenses, Herbitenses, Ennenses...". Come si disse di sopra, furono gli Erbitensi costretti mandar in Roma Fileno Erbitense, che poco fa se ne fece

memoria d'uomo letterato, di famiglia assai nobile, per declamar d'Erbita le già dette ruine, il quale così al vivo rappresentandole, mosse de' Romani le pupille a seco deplorar d'una città le desolationi patenti, come Cicerone riferisce:

"Itaque cum Philinus Herbitensis homo discretus et prudens, et domi nobilis de calamitate aratorum, et de fuga, et de reliquorum paucitate publice diceret; animadvertistis Iudices gemitum populi Romani".

Non pur finirono qui le scelleraggini di Verre, ma con empietà inudita fe' trucidare d'Erbita il Governatore, ed ancor quel d'Eraclea, come l'istesso Cicerone riferisce, con dire:

"Ego enim Herbitensium cum Eracliensem securi esse, percussum dico; versatur mihi ante oculos indignitas calamitatis eorum, nè agrorum colonos, ex quibus maxima vis frumenti quotannis plebi Romanae illorum operis, ac laboribus, quaeritur".

E chi potrà giammai negare che gli istessi Erbitensi fuggiti, non habbian fabricata la Nuova, dov'ora è Nicosia ? Anche se la dottrina del Padre (a) Passaflumine non esistesse nel mondo, anzi chiaramente egli siegue scrivendo

la fabricarono i Nobili, e la maggior parte e numero degli Erbitensi, e ciò con evidenza appare, che questa città di Nicosia, come oggi si chiama, prima appellavasi Erbita, mentre conserva dell'Antica abbandonata l'Insegna, qual si vede nell'antichissima chiesa di S. Nicolò del Piano della medesima città, cioè un'Aquila che tiene fra gli artigli un Basilisco oppresso:

"Nicosiam a principalioribus, et maiori Herbitensium numero constructam. Hoc clare apparet, quod haec urbs adhuc nomen, et insignia Herbitae conservat, ut in antiqua Sancti Nicolai Ecclesia ejusdem Civitatis videntur: Aquila scilicet lapidea unquibus arrectum tenens Basiliscum".

La conseguenza da noi indubitatamente si tira Erbita Nuova esser stata fabricata nel tempo medesimo di questa fuga e dell'accuse contro Verre che facea Cicerone, quando disse che cento trenta sette Padri di famiglia partironsi, e non andarono lungi, ma a questo monte di pietra, ed allora incominciarono ad edificare le mura; fu questo al computo degli annali del Padre Brietio gli Anni del Mondo tre mila novecento ottanta quattro, e innanzi l'Incarnazione di Cristo (al computo del detto Padre Brietio) cento trenta un'anno: si chè si deve confessare a Ca-stelli, palagi, e molte case, che gli Erbitesi dal suolo innalzarono al cielo, e le fu posto dal principio d'Erbita il nome; come apporta il detto (a) Passaflumine, che scrive: "Accedit ad hanc opinionem Joseph Moletius (Fol.76, n.38), ubi sic ait: Herbita, Sanctus Nicolaus, nunc Nicosia".

Ed Ambrogio Calepino portando il nome di Herbita, dice: "Herbita Ptol. Siciliae urbs est, a qua Herbitenses Populi, quorum meminit Plinius (Lib.3, cap.8), hodie Sanctum Nicolaum vocant".

E Don Rocco Pirri, nel libro (che) egli fa intitolato "Sinonimi Verbo Nicosia", dice chiaramente: "Nicosia, q. Herbita secundum aliquos". E meglio canto il nostro Poeta Latino, di cui teniamo pochissimi squarci M.S., di Nicosia parlando: "Herbita, quae fertur de Urbe etiam nomine eodem Fazellus meminit, de hoc nihil ipse tulit". Le ragioni addotte sono bastanti a persuadere un cuore di selce, nonchè diamantina una mente, però voglio con

questo seguente confonderli: chiaramente scorgendosi esser Nicosia rampollo di quell'Erbita eccelsa, che al dì d'oggi ancor di cotal nome gloriosa si fregia, che non solo dal privilegio del Senato di questa, in cui leggesi a chiare note lo Stemma di quella (che) in tal privilegio delineasi, e vedesi sotto detto Stemma trasportato dall'Antica alla Nuova in questo superbissimo Tempio di Nicolò il Magno eroe di Patara, ma anche fra molti autori gravi e di grido ne' lor volumi, usciti dalle stampe per render dovitioso un mondo letterato con le sfolgoreggianti lor glorie, come negli

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annali si scorge de' Padri Capuccini del Padre Zaccaria Boverio composti, del Padre D. Ottavio Caetani nelle "Vite dei Santi eroi Siciliani", come pure del Padre Pietro Tognoletto nel suo "Paradiso Serafico", del Padre Benedetto (a) Passaflumine nella sua opera intitolata "De Primatu Ecclesiastae Cephaludesis", e da una fede da questo Senato uscita a favor del Padre Giuseppe da Golesano, da molte altre che se ne potrebbero addurre, e maggiormente ne spica la verità, già proposta da molte iscritioni e da epigramme latine incise nel frontispicio dei Mausolei eminenti de' Cavalieri di questa, che se ella non fosse originata da quell'Erbita Antica, non anderebbe fastosa con tal proprio e non usurpato nome, che mai i Nicosiensi s'han pregiato portar nome a lor non dovuto, e come meglio si pruova nel libro secondo, terzo e quarto di questa, facendone non poca fede i Forastieri, non chè i Cittadini Scrittori: legga il curioso che troverà pienamente soddisfatto il suo genio.

Abbiamo di sopra già detto, qualmente Erbita disse esser Cittadella Fazello , che fu da Cluverio con ragione confutato, stimando più certa e sicura di Diodoro Siculo l'opinione fondata, essendo egli più pratico del sito delle città della Sicilia, poichè nato in Argirò, città non lungi da Erbita Antica che 18 miglia, e da Erbita Nuova (over Nicosia) 12 miglia, ed in prospetto l'una e l'altra si vedono; afferma non poter esser giammai che Cittadella fosse stata Erbita, come nel capo precedente diffusamnte si è detto.

E Filippo Ferrerio nel suo "Lessico Geografico", asserisce con Fazello che Erbita sia Cittadella, assunto veramente sognato: "Herbita Cittadella teste Fazello urbes Siciliae excisam inter Ennam 8:, et Platiam in eurum 6: M.P. Populi Herbitenses Cic. sunt quibus Nicosia esse videtur, sed situs repugnat".

E con molta ragione dice il sito "repugnare", non diligentemente osservando che il chiamar Erbita quella, la quale è fabricata tra Enna e Piazza non si chiama Erbita, ma per equivoco de' scrittori, nominar dovendo Erbesso la dissero Erbita, come il Don Rocco Pirri nel libro (che) egli fa de' Sinonimi poc'anzi addotto, nel verbo Grotte disse "Gruttae arum, Herbesum sit".

E così benchè non convenga nel luogo e'l sito, conviene nel nome, poichè solo Nicosia è stata quella che d'Erbita il nome glorioso ha tenuto, e non altre città, nè terre o Casali; e però ben disse il Ferrerio:

"Sunt quibus Nicosia esse videtur"; che però nel Tesoro della Lingua Latina, si legge Pro Nicosia San Nicolò: "Pro Nicosia legitur Sanctus Nicolaus"; poi, sotto il nome di Sicilia, annoverando le città moderne, assolutamente egli dice: "Nicosia sit vulgo, olim Herbita, ut videtur". Stimiamo che meglio delle cose di Sicilia informato e della vera Erbita, volendo di nuovo già dire quello che nel

capo quarto già dissimo, che duoi Castelli o Casali tenean nome d'Erbesso, emoli delle glorie d'Erbita città conspicua nel regno e d'eroi famosa e da' regi abitata, lusingavansi di tal nome, e col pregiarsi andavan dicendo con milanterie da' lor capricci sognate, esser lor d'Erbita nati per ostentarsi de' nobilissima schiatta, e però gli scrittori prendono per vero quanto era per ambizione arrogato: scrissero infatti che Erbita era Cittadella destrutta, overo quegli Erbessi vicino Agrigento o Leontini.

Ma il Padre (a) Passaflumine del tutto ci sgombra con fugar le tenebre dalla mente oscurata da malcontenti delle glorie d'Erbita Nuova, dopo San Nicolò chiamata, e finalmente Nicosia, con dire:

"Nicosia, quae antiquo nomine Herbita dicta est urbs Siciliae vetustissima ex illis Herbitae ruinis constructa, quam Cicero in Verrem honestissimam vocat";

e dopo infierisce quello (che) poco innanti si è detto: "Accadit ad hanc opinionem Joseph Moletius, fol.76, ubi sic ait: Herbita, Sanctus Nicolaus, nunc Nicosia".

Il non aderire a questa sentenza, o dottrina, è discorstarsi dal retto discorso dell'uomo di ragione dotato, poichè anche nel Tolomeo, in Idioma Italiano ridotto, pure si dice Erbita San Nicolò, ora Nicosia; e Giuseppe Rosacci nel suo "Mondo Elementare", nella settima tavola dell'Europa, nelle moderne città, mette Nicosia a dirimpetto dell'Antica Erbita.

E non parla qui d'Erbita Antica, ma della Nuova, ove al presente Nicosia fa pompa, poichè di Nicosia parlando dice che chiamasi San Nicolò, e dal principio che fu Nicosia eretta, nominassi Erbita, di cui il Padre (a) Passaflumine conchiude asserendo:

"Longe a veritate aberrant scriptores putantes Herbitam fuisse Aydoni propinquam, nam Herbita (ut ait Cicero) fines suos cum Amestratinis habet".

Quest'Erbita Antica non è l'Erbita Nuova, che fu reliquia di essa, ma nella sua origine sortì d'Erbita il nome, è sol avanzo di Erbita Antica, il cui fasto deplorò Cicerone nell'azione sua contro Verre, e da tal tempo si può congetturare con molta ragione, anzi tenere per opinione probabile simboleggiante il vero, che gli Erbitensi d'allora s'elessero questa fortissima rocca a guisa degli Erodii, che su l'alte cime de' monti sopra gli alberi più superbi forman suoi nidi, come l'atterrator de' Giganti cantando descrisse:

"Herodii domus dux est eorum, montes excelsi ceruis petra refugium Herinacijs". Così gli Erbitensi famosi eressero sopra una montagna di pietra scoscesa le case, per ivi intronizar le loro glorie,

vollero rendersi stabili, e trionfanti dagli emoli fabricar duoi Castelli, come il nostro Latin Poeta cantò: "Hic super horrendam rupem struxere superbam Arcem parietibus tangit, et Astra suis". Parlando Carlo Stefano nel suo "Dizionario", sotto il medesimo verbo Herbita, della Nuova, al presente Nicosia

nominata, adducendo Bocarto scrittore ebraico, il quale deduce il nome d'Erbita da Har Beta, che in Idioma Greco vuol dire "Monte tuto e sicuro", afferma:

"Har beta dici punice videtur, id est in Greco Mons tutus et securus".

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Non può dirsi questo d'Erbita Antica, la quale non fu fabricata sovra un monte, ma in un vastissimo piano, e d'Erbita Nuova scrisse Fazello, nella sua "Sicilia", che con un lungo assedio Ruggiero soggettar a sè non la puotè, come havea fatto delle altre:

"Nicosia igitur Saracenorum oppidum primum obsidet, cuius obsidio in longum protrahitur Trynenses seditionem redintegrant", e un poco più sotto scrisse:

"Verum Rogerius rumore accepto omissa Nicosiae obsidione". E l'Alberti, nella "Descrizione della Sicilia", disse: "E camminando più verso il mezzogiorno, pur anche sopra del difficil monte, videsi Nicosia oppido". Il che chiaramente pruova questa che oggi chiamasi Nicosia, primieramente nominavasi Erbita. E conchiude Cluverio, prorompendo in queste degne parole: "Haec igitur potius antiquorum illa Herbita, ex

cuius interita postea crevit Nicosia"; e se Nicosia è reliquia d'Erbita Antica, a che prò sarebbe metter Nicosia, la quale prima nominavasi Erbita, se

non havesse ella pria stata decorata di tal nome, e dopo fu chiamata San Nicolò, ed ora Nicosia ? Si chè sempre devesi dire che l'istessa Nicosia fu dagli Erbitensi eretta, con ragion Erbita chiamar si dovette,

come riferisce cantando il sopra citato Poeta Latino: "Herbita, quae fertur de urbe etiam nomine eodem Fazellus meminit, de hac nihil ipse tulit"; edopo col tempo le fu posto San Nicolò, e poscia Nicosia, qual dirassi appresso nel capo degli abitatori d'Erbita

Nuova. Questa città è situata e disposta in teatrica scena per la maggior parte verso l'Antartico Polo, e parte verso

l'Artico, dal cui Polo è di linghezza gradi trenta sette, e trenta minuti, di larghezza gradi trenta otto, in parte montuosa erge i suoi fasti, che per dichiararla celeste alza una rocca, la cui fronte pretende cozzarla col cielo, molti sontuosi palagi la rendon magnifica, le chiese, e duoi Tempi superbi che son le Matrici Colleggiate Insignite, la fan predicare dagli Esteri per città oltre modo cospicua, derivante da quell'Erbita Antica, città dalli scrittori più celebri cotanto laudata, e che ciò sia vero, Mario Aretio nel suo libro intitolato "De situ Insulae Siciliae", così lasciò a noi scritto:

"Nicosiae nomen incertum esset, nisi coniectura, quam Herbitam antiquitus adpellabant honestam, et copiosam civitatem esse docerat. Alii a proximo loco Casalinis nomine illuc eam translatam aiunt, a qua haud procul Sperlinga arx in rupe ex una parte in excelsa altitudine excisa oppidum ubi antiquitus fuisse, quod ruinae, atque antiquitatis adhuc visuntur vestigia, vicini populi testantur";

pruova questa dottrina che non fu Erbita vicino Leontini, nè di Agrigento, ma situata ne' feudi delli Casalini, ove un tempo fiorì gloriosa, come glielo testificano i popoli a lei convicini; e dopo scrisse per ordine successivo, passando a Gangi Lo Vecchio d'Erbita Antica 6 miglia in circa lontano:

"Engium pervetus, et exiguum oppidum nostra tempestate Gangium inter mediterranea Ptolomeus numerat";

e dopo siegue il cammino a Polizzi, e da questo infino a Palermo, per antonomasia detta "La Conca d'Oro". Chi può ora negarci che Tolomeo non habbia apertamente errato il luogo d'Erbita Antica vicino Aidone e

Lentini, quando con chiarezza s'ha veduto che li confini d'Erbita Antica e Nuova sono Assoro e Mistretta, come di Nicosia al presente si vede, con tutto ciò sia stato il territorio ristretto, che connessione dunque possono havere i confini d'Erbesso, Erbita falsamente detto, vicino Leontini o Aidone, e di quell'altro Erbesso dopo Agrigento, tutti duoi Casali assai piccoli, con Mistretta, che fu suo territorio, confine al presente d'Erbita Nuova ?

D'Erbita vetustissima disse Cluverio, come sopra si scrisse ed ora più largamente discorresi: "Haec igitur potius - della nuova parlando - antiquorum illa Herbita - dell'Antica dicendo - ex cuius interitu

postea crevit Nicosia"; ecco che da questa antichissima Erbita ne pervenne la Nuova. "Caeterum vetustissima Herbitae memoria apud Diodorum", il quale inoltrando la penna a più alti ed

espressivi pensieri, soggiunse queste degne parole d'esser incise in lamine d'oro il più purgato del Gange, o scolpite al men in tabella di marmo, che in questa mostrerebbono la candidezza del vero, ed in quelle la chiarezza del suo nativo splendore, in cui si leggono di Tolomeo palesamente gli errori, e di coloro che i suoi insegnamenti ne seguono nell'assegnar delle città e terre il vero sito e certissimo luogo:

"Verum ut frequentissime, ac fere semper alibi, sic ab Herbitae quoque vero, ac germano situ, longius aberrasse Ptolomeum".

E però coloro che modernamente scrivono sopra Tolomeo, gli hanno emendato l'errore, come l'accennato Moletio nel Latino e nell'Italiano, colui che lo trasportò dal latino vi aggiunse come di sopra portiamo:

"Herbita, Sanctus Nicolaus, nunc Nicosia", e siegue Cluverio nel luogo citato di sopra: "Ego vero eorumque potius subscribendum sententiae censuerim, qui Herbitam Interpretantur esse

Nicosiam oppidum supra expositis oppidis Ennae, Assaro, Agurio, et Capitio conterminum". Parla Cluverio d'Erbita Nuova e non dell'Antica, poichè come dic'egli, Nicosia chiamavasi prima Erbita, ed a

questa sentenza soscriversi intende. L'esser chiamata Nicosia anticamente Casale, e dopo terra, d'essa è grandissima lode, mentre dimostra haversi

sempre avanzata e di sito accresciuta, tal la descrissero chiamandola "oppidum", la quale è vicina più d'Enna, Assoro, Argirio, e Capizzi che non fu Erbita Antica, la quale era sei miglia incirca dalla Nuova lontano; oltre,

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quando ciò scrisse Cluverio "Erbita Nuova su li principii per Casale nomavansi", che poscia crescendo hebbe il nome di terra, e finalmente dalli re delle Spagne onorata col titolo di Città Costantissima.

Abitaron molto tempo gli uomini di bassa condizione in Erbita Nuova, ma perchè il volgo è gente volubile e tutta dedicata a' villaggi, non stava in questa contento; però determinarono far all'Antica Patria ritorno: ivi si fabricaron la chiesa, quando ricevettero la fede cattolica, sotto titolo di San Nicolò, per esservi molti Greci del Popolo, che in quelle reliquie abitavano, e di tal chiesa miransi le fondamenta sopra terra rimaste, ed anche vi è la fonte all'ora del Sagrosanto battesimo, come narran gli antichi, ed al presente con propri occhi si vede; e quest'abitazione fu dagli Erbitensi il Casale Migeti chiamato, perchè il nome d'Erbita alle fabricate Castella fu posto, dove ora di Nicosia la sua gloria pompeggia, soggetto però nell'Erbita Nuova, o Nicosia, la quale pagava alli re di Sicilia per lo seminerio i torraggi di quello; tutto ciò per un privilegio appare di molte condonazioni (che) fa il re Federico, mentre in Nicosia ritrovavasi, che fra l'altre vi si legge di detti terraggi la relassazione tottale, ed altra datio, che la terra di Nicosia dovesse per tale Casale, non solo per questa volta, ma per sempre in perpetuo, con dire: "Nec non et totum terraggium, et quamlibet dationem, quam annuatim Curiae nostrae dare consuevistis de terris Casalis Migeti, ut libere, et absolute terras ipsas, atque omni datione perpetuo possideatis concedimus. Datum Nicosinis Anno Dominicae Incarnationis MCCVIII. Mense Maij XII. In dictione".

E più distesamente dirassi nel Libro 2 cap.I, nel quale detto privilegio diffusamente è quasi intiero portato. Il detto Casale fu anche dagli abitatori lasciato, e vennero a riunirsi a Nicosia con li loro terrazzani e padroni. E

così quelle reliquie d'Erbita Antica e famosa, chiamata Migeti, abitazion della plebe erbitense, furon dal tempo atterrate.

L'haver cambiato il nome d'Erbita Antica in Migeti, pruova evidentemente che alli Castelli già detti e alle abitazioni (che) vi erano attorno, fu posto indubitatamente d'Erbita il nome; ed anche per il trasporto (che) gli Erbitensi fecero del loro Stemma superbo.

E però per non render uguale Erbita Nuova all'abitazion della plebe, con giusta ragione posero i Nobili e Principali d'Erbita Nuova il nome all'abbandonata Migeti, e per far perdere affatto la memoria d'Erbita Antica trasportata alla Nuova.

Questa non ha paludi che la circondano e son della parca omicida ministre; gli abitatori, dove quest'acque otiose fan pompa, benchè vivi, portan pallori nel viso della morte l'insegne; ma per contrario i cittadini di questa son sempre vivaci, mostrando sulle labbra il riso, e nel volto una primavera feconda, ed in tutto il corpo della salute l'insegna pregiate.

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ABITATORI D'ERBITA ANTICA

CAPO VI

Sono delle campagne l'amenità feconde, e quasi calamite potenti con viva forza allettano, e maggio naturale traggono i cuori i più duri degli abitatori, e dei forastieri gli animi stessi che mostran ritrosìe manifeste non sanno da quelle ubertose campagne scostarsi; la fortezza del luogo, la sicurtà ed abbondanza de' viveri sono ceppi, e catene amorose, anzi prigionìe volontarie. Qualità si' lodevoli fiorivano in Erbita Antica, ma non si può conjetturare da quando fu eretta ed abitata per conchiudersi cosa di buono e di sodo, poichè non è scrittor che lo dica (come si è già veduto nel capo quarto) se non pochi che han celebrato le sue glorie sublimi, come Diodoro, Cicerone, Cluverio, e qualch'altro sopra di questi all'ora descrissero quando ella vantava infinità di lustri, nè fa memoria il primo l'anno del mondo tre mila cinque cento e novanta tre.

Fu la Sicilia primieramente da' Giganti abitata, che dall'Amenia ne vennero, come lasciò scritto il primo cronista del mondo, e questo lo conferman l'Istorie e l'Esperienza infallibile maestra, poichè in Sicilia si trovano ossa di smisurata grandezza, e sepulture di venti cubiti lunghe per li corpi di tale altezza, e l'hanno trovato sotterra, cone scrive Fazello d'essersi rinvenute più volte gran cose nelle campagne contigue ad Erbita Antica, benchè dicono alcuni non dar fede veruna, nè certa, che la città sia stata da detti Giganti fondata, puotendo accadere che ivi sian morti, e dopo la città fabricata, così anche avrebbe possuto succedere nel passar per quelle campagne senza averla fondata, o vero abitata, e quivi fossero estinti poscia, che furon gente inquieta, che non nelle città dimorava ma sempre altrove vagava, come scrive Euripide, e le città fuggendo le campagne abitavano, e negli antri dormivano: " Gigantes antra habentes, non tecta demorum usi sunt pastores, nec ullus ulla in re alteri paret".

Come anche potrebbesi già dire che d'altra parte quell'ossa trasportate ne fossero, poichè i Giganti abitavano nell'asprezza de' monti, nelle spelonche più tetre, ed ombrose caverne, come cantò Virgilio Marone: "Infandi Cyclopes, et altis montibus errant".

Come infatti in detti luoghi ossa di meravigliosa grandezza si trovano, e l'attesta Solino: "Gentem Cyclopum vasti testantur specus".

E Strabone dice che debolissima pruova è conchiudere, o apportar per argomento dell'antichità, l'ossa de' Giganti ivi trovati, ma in Cicerone il contrario si legge, poichè un Ciclope tutta la Sicilia col dominarla infestava, e l'altra tenea Etna sola, e questa parte della Sicilia: "Cyclops alter multo importunior. Hic enim totam insulam obtinebat, ille Etnam solam, et eam Siciliae partem tenuisse dicitur".

E così non essendo, come dice Solino, Strabone e Virgilio, che pure abitavano nelle città, non è dunque debolissima pruova il trovar ossa di Giganti, da' quali non possa arguirsi esser quelle fabricate da questi, quando ivi, o fuori, vi si truovano ossa di si' smisurata grandezza, si chè si potrebbe stimare che Erbita Antica fosse dalli Giganti eretta, o vero abitata, per quello (che) inanzi si è detto.

Non puonsi dimostrare scritture, perchè d'Erbita nessuno ne parla, per quanto habbiamo possuto leggere, questo bensì puotrasi addurre, che nel Convento di San Francesco d'Assisi di questa, nel claustro, habbiam veduto una costa sospesa lunga cinque palmi in circa, ed un'altra nella Chiesa Antica di San Benedetto di questa della medesima grandezza.

Ma per sapere sotto quali Imperi è stata la Sicilia soggetta, e per conseguenza la nostra Erbita Antica, è necessario avvertire da chi fosse la Sicilia abitata; come di sopra si disse che furono li Ciclopi (o Lestrigoni o Giganti), secondo quanto c'insegna Tucidide, e Plinio nel secondo capo, e Strabone (Lib.VI), Beroso, Caldeo, Quinto, Milesio, e con molti altri Solino; a questi seguirono Saturno, Egittio, ed Eulo figlio di Giove; vi soggiogarono dopo i Sicani, che furono discacciati; restando i Sicoli.

A questi subintrarono i Morgetti, e vi abitarono sin che Dedalo Ateniese ne venne dopo i Greci, poscia i Cartaginesi; fu questo regno dopo in poter de' Romani per opera del gran Pompeo, a cui seguì l'Impero Costantinopolitano e Vandalico, infino alla venuta di Belisario Capitano assai prode, che vinse il Re de' Gotti, ed il suo successore Totila.

Indi ritornò in potere de' Greci. L'anno di Cristo sei cento cinquanta, regnando però Costante Secondo, vi entrarono i Saraceni (gli Imperiali già

discacciati) per lo spazio d'anni quattrocento regnando, e secondo altri più meno; finchè venne Maniace dell'Imperadore Costantinopolitano Capitan Generale, riacquistandola al suo Signore; ma poco durolli, che fu da' Saracini ripreso, e vi si mantennero sin chè dell'in tutto ne presero possesso i Normanni, i quali ferono l'acquisto della pace, che ancor noi sperimentiamo felice.

Erbita mentre fu sotto gli auspicij e governo del suo Principe Arconide, sempre visse tranquilla, e degli emoli trionfatrice superba; non vi fu nazione, perchè da tutti temuta, che l'havesse al suo Impero soggetta, sempre libera e sempre Repubblica, perchè il suo Prefetto Arconide col solo suo nome faceva che gli inimici stassero dalle sue mura lontani.

Dopo la morte di questo, fu anche ella sotto varij domini, incominciando dall'Impero Romano; era questa città l'asilo e refugio de' fuggitivi del regno per lo tirannico imperio che i Dionigi faceano assediando la nostra invincibile Erbita, ed il loro assedio esperimentandolo vano, vollero con gli Erbitensi, come si è detto ne' trascorsi capi, conchiusa la pace e verso Catania partirsi.

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ABITATORI D'ERBITA NUOVA

CAPO VII

Dominando la Sicilia l'Impero Romano, fu Verre per Pretore mandato, inoltrandosi l'avarizia di costui non solo a spogliare dei loro averi gli abitatori di questa, ma i tempij alle loro false Deità consagrati, come nel capo antecedente s'è detto, chiaramente si vede e colle mani palpasi di questo ladro impertinente l'orgoglio, le tante veridiche accuse alli Giudici da Cicerone allegate, che ben mostrano della Sicilia, non chè d'Erbita, la totale ruina, la fuga de' cittadini dalle loro proprie case delle campagne, l'abbandonamento dei terreni incolti, gli aratori dispersi, i furti degli ori ed argenti, le usure e le estorsioni de' Popoli.

Con evidenza ciò conosciuto, non possiamo persuaderci che intelletto purgato non dica qualmente poco dopo queste rappresentazioni da Cicerone già fatte, e di tanti abitatori la fuga non si habbian ritirato gli Erbitensi e fabricati la Nuova Erbita, che oggi Nicosia appellasi, investendo con tal nome che porta infino al trecento in circa della nostra salute, nel cui tempo un Cavaliere ed una Donna dal loro regno partiti, vennero ad abitare la Nova Erbita.

L'amor coniugale ne' Grandi è stato così valoroso e di tempra così fino, che insuperabile resosi, talvolta ha fatto a dame reali prender partito dell'onesto lontani; e quali disgrazie mondane non ha indotto gli abbacinati vassalli di questo Nume, ch'è cieco, con tutto che vi sia nel cuore introdotto sotto specie di permessi, o di sagri Imenei.

Narra ne' suoi manuscritti il nostro Nobile Vincenzo Falco, che un Principe o Cavalier valoroso, Nicolò chiamato, non dice di qual Patria egli fosse ma può stimarsi di sangue reale, deponendo ogni rigor militare, a' piedi della figlia del re di Cipro, Isia nomata (era costei di si' ammirabil bellezza dalla natura dotata, propria invero delle Ciprie Donzelle, atta ad accender l'amore ne' selci più dure), di questa bellezza invaghito, che anche in lui a meraviglia fioriva, l'una e l'altro s'accesero in tal fuoco d'amore che la pretese per moglie, e questa per suo amatissimo sposo.

Resisteva di Nicolò alle richieste il Genitor Coronato; ma nulla puotè il divieto, anzi più maggiormente infiammolli. Risolsero dal regno partirsi per altrove celebrare le nozze bramate, attentato che mosse il regnante descritto a far

partenza dal regno per rintracciar nel mare e terra dell'infante eroina il non saputo cammino. Onde molto bene ne cantò il Nostro Poeta Latino di quest'occorso in Cipro, benchè da inesperto Garzon venne

lacerato il foglio, e però non possiamo far palese il racconto ove disse: "Raptus amore fuit natae fortissimus Heros Cypri Regis amans optat amore frui. Unitur, et flammis equitis pactasque Himeneos....", e qui finisce, come dissimo sopra.

Seguiva di Cipro l'eroe coronato, per poter avere entrambi alle mani, e non gli puote sortire. Giunsero, dopo un lungo viaggio per terra e per mare, alla fortunata Isola di Sicilia e, dubitando con restare in città

al mare vicine d'esser dal Genitore trovati, s'inoltrarono nel mediterraneo, ed osservati alcuni luoghi non confacenti al loro disegno reale, finalmente capitati alla Nostra Erbita Nuova, fissando lo sguardo all'altezza sublime ed osservando minutamente l'inespugnabil fortezza, vollero dentro di essa introdursi per ritrovarvi la loro sicurtà.

Portò a si' nobilissimi ospiti con la sua abbondanza felicissimo stato, ed agli abitatori consuolo indicibile, con sicuro e felice possesso; la mirarono che le sue glorie inalzava sovra salsose balze, ed alle falde selve intrigate con alberi ornate, riconobbero esser l'aria salubre, la grandezza del sito da poter l'ampliare, osservarono de' Terrazzani l'affabilità ed affetto, con i quali furono officiosamente ricevuti, domentre i Popoli a' loro maestosi aspetti e simetrie reali tutti ossequij mostraronsi, essendo dalla forza di tal calamità restati; viddero questi refugiati eroi gli edifici de' due castelli eminenti, atti a poter resistere a più numerosi eserciti, benchè fossero i più temuti del mondo, e quello che potesse forse la paterna possanza ammassare, erano le riferite fortezze quasi in aria elevate sovra pietra scoscesa, una verso Oriente (che viè più su alte balze dell'altra s'inalza, in cui ostenta i suoi superbi edificij l'arte maestra) e verso Occidente la seconda, che per ambo le parti minaccia agli assalitori orgogliosi gli ultimi esterminii di morte.

Molte cisterne d'acqua dall'umano capriccio nella medema pietra scavate, che per render la rocca abbondante sono dentro le mura formate.

Snello sia quanto si voglia l'avversario, non può giammai ascendere a si' inacessibile rupe. Su quello verso Levante pompeggiano sette fortissime Torri, di mura ancor circondate, dentro del quale viddero un

pozzo d'acqua nella stessa pietra cavato, la cui vastissima capacità più di tre mila botti d'acqua contiene. Introduce, il nostro Poeta Latino, Nicolò e Isia che tra loro parlano di quanto con lor gusto han veduto: "En placet

haec statio nobis tutissima Constans Hospita Edem tellus assidueque domus. Hic locus est nobis semper tutis-simus ajunt, est haec urbs Constans, Iupiter est bonus. En trabibus Sylvae umbrifere, et lata prata frequentes ingenua est Constans Herbita clara nimis. Est igitur nimium felix urbs Herbita multis praeclaris placuit, quam calluisse viris".

Qui fermarono il piede, in cui riconobbero tute le condizioni d'una abitazione perpetua; ma non lungi andò che viddero cinte le mura da soldati del re tradito, ed anche presente vi fu il genitor d'Isia, che volle tentar la scalata ad una terra invincibile; sortirono vani i disegni, poichè erogarono il tempo ad un'impresa impossibile, come cantò il nostro Poeta Latino: "Multis muros Genitor Rex fortis, et armis sternere, quo nullo tempore, possit eos".

Fabricaron costoro la chiesa di San Nicolò verso mezzodì e del Castello vicina; questa fu la principale e prima chiesa in questa nostra città, o che sia stata fabricata da' Greci dopo ricevuta la fede, che dal primo al secondo non v'è molto divario.

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Volle questo nobilissimo ospite mutar d'Erbita il nome in San Nicolò, onde i scrittori sopra Tolomeo, come Giuseppe Moletio, già nel capo II° adotto a chiare note, l'esprime Herbita, Sanctus Nicolaus, nunc Nicosia: e come pure ne scrisse Ambrogio Calepino sopracitato.

Ma Isia, rampollo reale, non puote (io stimo) tollerare che d'Erbita si mutasse il nome con chiamarla San Nicolò, senza averne anch'ella portione in tal denominatione congionta, propria delle donne l'ambizione naturale; veggiamo, e non senza fondamento, che Isia allo spesso brontolasse di non essere anch'ella in tal fasto partecipe, ci chè Nicola colla spada alla discretione, dal proprio nome l'ultima sillaba (qual Gorgia famoso) troncando, volle connetter dal nome della sua sposa diletta l'ultima sillaba, e formò nome composto e perfetto Nicosia, come il Nobile Falco lasciò ne' suoi manuscritti notato, e con ragione, poichè della donna capo è lo sposo, del cui nome prendendo i primi elementi e della sposa l'ultime lettere, rinuovando le gare tra Romolo e Remolo nel nominare la città fabricarono Roma.

O vero, perchè essi traendo i natali da Cipro, in cui fa pompa di tal nome la Regia o Principale città, per aver sempre l'abbandonate mura a memoria, vollero Nicosia nominarla.

Trovansi, da giornalieri coltivanti la terra a' detti Castelli vicina, molte monete antiche, o voglian dire medaglie d'argento o altro metallo, da una parte come qui sotto improntata una testa di donna, e dall'altra un carro da quattro destrieri tirato, sovra cui una persona assisa in atto di sferzare vedeasi, come dice il Falco nelli manuscritti esser d'Isia medaglia.

qui qui la va il testa di cocchiere donna

S'affollavano quasi tutte le Nazioni del mondo per questa città abitare, come tutti gli Imperi della terra per occupar

la Sicilia correano; l'anno del Signore due cento cinquanta nove dominavan li Greci, quali furon vinti da' Goti, popoli della Scitia presso Daua e Norvegia (a' nostri tempi appellati Svevi, Ruffi, o Visigoti, od Ostrogoti della Gotolandia); contro questa nostra Sicilia, ch'alla vastità della terra per un sol punto si mostra, tutti corsero armati, infieriti ed in crudeltà dilatati più che Barbari, posero il tutto a fuoco ed a ferro, e pur da Vandali il Re Genserico volle contro una fronda (che il vento la toglie) la sua potenza impiegare: potea allora ben dire con Giobbe: "Contra folius quod vento rapitur, ostendis potentiam tuas".

Ch'a tal segno era delle battaglie già dette la Sicilia ridotta ancor volse far egli mostra della sua albagiosa potenza contro un regno destrutto, da tante nazioni svenato, ch'apena potea reggersi in piedi: ma di qual vanto ?

Mentre opprime l'oppresso, ch'havea d'ogni suo ardire deposto il fasto ed il brio naturale, non eran le sue debolissime forze atte a fronteggiar l'inimico.

E ciò successe l'anno di Cristo quattro cento e venti tre. Non fu dunque gran valor l'impossessarsi d'un regno ch'era fievolissima fronda, de' vastatori crudeli avanzo spolpato

e disprezzato rifiuto. E' d'animo effeminato volersi mostrar trionfante in tempo che l'avversario è abbattuto, potriamo già proferire quel

che Giovan Barolaio, a nome d'Arsia, ad Arcanbrote già disse: "Quid impari nec necessaria pugna, frustra inter istos fastitudinem consumis ? Ergo te vincent indigni, quos superes, et vel mortem, vel victoriam maculabis ignobilitate certaminis".

Gli allori di Genserico e le palme cambiaronsi in cipressi di morte. Sarà il Cielo giusto vendicatore de' suoi ricevuti oltraggi; sa bene impugnar la sua spada invincibile, che fulminerà

tuoni d'orrori i capi, che in alto s'estellono fannosi a' fulmini più vicini, e soggetti. Fu da Belisario con suo rossore Genserico fugato, e da Catania i Goti, e di Genserico l'ardire represso, e fu

quest'Isola sfortunata all'Impero di Giustiniano rimesa, e dopo questa i Goti in due giri naturali di Febo feron ritorno, e furon due Re ammazzati con universal applauso, Totila per loro Re acclamato, il quale l'Isola approdando se la rese senza repugnanza al suo Impero soggetta; ma poco n'andò, che Artabone del Gran Giustiniano Capitan Generale la rimese nello stato primiero sotto l'Impero di Giustiniano benigno.

In queste mutazioni di tempi Erbita Nuova, o San Nicolò, o Nicosia, fu da fortissime mura intorno cinta; ma perchè il popolo aumentandosi andava crescendo, fu anche di bisogno nel sito avanzarla, e questo occorse tre volte, ed al dì d'oggi ne appaiono alcune reliquie dell'antichità non consunte: correa del comun Redentore l'anno cinque cento trenta sei in circa.

I Saraceni adoperaron l'armi esecrande e magiche superstizioni, con le quali avrebbero la loro pestifera setta soggiunte la Siria, Persia, Egitto, Media, Portia, Cunnaria, e genti di molte terre dell'Etiopia.

L'Alessandria anch'ella ammassò numerosa armata contro poco palmi di terra per danneggiarla, e da Olimpio Esarco Capitan dell'Imperadore Costanzo in una sanguinosa battglia di mare furon rotti, e fugati, e da questi ritornò in potere de' Greci l'anno del Signore sei cento cinquanta.

Ma regnando Costante di questo nome Secondo, entrarono i Saracini, e dopo aver cacciato gli Imperiali, ressero il regno per lo spazio di quattro cento anni, e secondo altri assai meno, sinchè Maniace Capitano dell'Imperadore di Costantinopoli venne in Sicilia, ed al detto suo Signore la rimesse; dindi a poco da' Saracini ripresa, fu da loro albergata

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sinchè i Normanni la soggiogarono affatto, e cacciando dal regno que' pochi rimasti, acquistarono quella pace che fin'oggi si gode.

Altrettanto ha successo nella nostra Erbita Nuova, che si può dire quasi da tutte le Nazioni del mondo abitata; gli istessi Giudei che andavan per tutto il mondo raminghi, vollero sotto questo Cielo anche far la sua stanza, poichè quanto per Nicosia udiron le loro orecchie di gloria più colle mani la toccaron, stante l'affabilità ed affetto ch'a forastieri fra l'altre città famose mostrava più di ogni altra in modo eminente, proprio de' Siciliani.

Onde tutti colla fiaccola di Diogene un ciel cercavano così benigno abitare; questi, già risoluti farsi di Nicosia terrazzani, incominciaron fuor dalle mura fabricarsi un quartiere con la lor Sinagoga, come sin'oggi la Giudea si nomina, e si mirano dentro le case del detto Tempio le reliquie rimaste; costoro lungo tempo in Nicosia dimorarono, e per la loro avarizia e perchè non vollero la vera Cattolica Fede abbracciare, furono dalli cittadini cacciati, ed anche da tutto il regno banditi, l'anno del Signore 1492.

In que' tempi il popolo numeroso, col concorso di Nazioni straniere, l'agi, comodità e buon vivere andava in quella crescendo, e molte famiglie nobilissime, e con l'occasione di passaggi di Re o di Regine in Sicilia, o per Ufficiali mandati, o per causa di matrimoni, molte prosapie Nobili piantarono in questa il lor Nobile sangue, come da Cremona, Turone di Francia, Roma, Napoli, Lombardi, Normanni, Spagnuoli, e di tante altre Nazioni, che può ben dirsi la piazza unuversale del mondo per le sue qualità ammirabili e condizioni amabili, come lasciò nella descrizione di Nicosia scritto il nostro Poeta Latino: "Felix o igitur nimium est urbs inclyta Constans infensis nullis excuperanda viris. Hic mansere reges, Duces, Equitesque potentes. Urbs nimium felix, quam dicet omnis honor".

Ma se volessimo (dire) tutti coloro che nel medesimo regno hanno qui abitato, sarìa necessario tessere lunghissima serie di famiglie, che per matrimoni, o per Ufficiali, sono in questa venuti dalle Città o Terre più conspicue del regno, come da Palermo, Messina, Catania, Siracusa, Termine, Noto, Naro, Castrogiovanni, Piazza, Polizzi, Troina, San Filippo, Cefalù, Caltanissetta, Gange, Cerame, Castelbuono, Naso, e di tante altre; par che Nicosia fosse stata abitazione comune d'un mondo, non chè d'un regno.

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LIBRO SECONDO

(Nicosia Nuova)

Ho fin'ora d'Erbita Antica e Nuova nel I° libro abbastanza discorso: e le sue glorie tanto tempo sotto l'ombre del silenzio ammantate alla luce del mondo scoverte, benchè la mia penna da tanti fasti arrossita s'è resa impossibile celebrare a pieno i suoi vanti, giacchè non professa ricami si' vaghi al di lei eminentissimo trono dovuti, le rapportate diciture sono poverissimi cenci, e hanno un'eroina delle montagne rozzamente vestita, e s'ella per nuda s'ha ravvisato, non isdegnerà al sicuro del mio discorso sfiorato lo stile, chè quanto lacero più tanto più bello.

Avrei voluto prestarmi i più ricchi arazzi dell'Arabia, se questa non l'havesse sfregiati con le sue superstizioni esecrande per sottoporli al fasto d'una città, che sopra i più alti monti lampeggia, o gli aghi di Frigia per fregiar d'Erbita Nuova e Antica i gloriosissimi fasti; ma non posso ridire menoma parte de' suoi superbissimi vanti, se ogni penna si palesa stemprata nel sol pensare, c'ha da scrivere d'un Erbita che tralampa splendori, ed inoltrarsi a mostrare chi dominato l'havesse; onde è bisogno ricorrere a più alta sorgente da dove la notizia dipende, cioè da' Saracini e Normanni, per porre in chiaro della Sicilia i varji successi, e le mutazioni de' regi, che la dominarono in tanti tempi diversi, e pur lo provò Nicosia come umbelico e cuore di essa, per esser situata in mezzo la divisione delli tre valli, come sopra si disse.

Dovrassi dunque da' Saracini dar principio alle mosse del mio brieve discorso.

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NICOSIA SOTTO I SARRACINI CAPO I

La nazion Saracina, che fe' nelle sue azioni spicar più la brutalità che le umane fattezze, ebbe principio nell'Arabia

felice l'anno sei cento di Cristo, da Genitore Arabo e da Israelita consorte, da cui Macometto ne nacque, che dando leggi di vita assai libera, furon dall'umana fralezza prontamente registrate ne' cuori.

Non ambì mome di Re o Signore, anzi Legislator fessi chiamare, gran Profeta, della salute Autore, e finalmente Indovino.

Mandava l'astuto Capitani allo spesso, che conduceano seco apparato di guerra per dilatar il suo dominio funesto. Nella Mecca si estinse la vita di quest'uom bestiale l'anno seicento cinquanta due. Li successe Califfa, onde lasciato d'Agareni o Ismaeliti il nome, vollero Saracini esser chiamati; fecero molti avanzi

nell'Asia, Africa ed Europa, e rovinarono quel gran Colosso del Sole in Rodi (ch'era una meraviglia del mondo); di Califfo il nome durò infino a Saracone, il quale da Califfo fu chiamato in aiuto contro Almerico, che inaspettatamente aveva perduto il regno, e d'allora in poi i Califfi sovra lo spirituale regnarono, con l'autorità di confirmare il re coronato.

A Saracone Saladino successe, e dopo molte mutazioni (secondo i tempi ch'occorsero), Ucobo Ammiraglio avendo tutta l'Africa debellata e vinta, ivi stabilì l'Imperial suo trono, che fu poscia da Maramolino accresciuto (quando dal Conte Giuliano chiamato, assaltò la Spagna e, Rodorico re dei Goti già vinto, ne prese il possesso): si dilatò nel dominio sottomettendo quanto la sua spada incontrava, e pur la Sicilia.

In questo tempo Olimpio Esarco da Italia, per opporsi, allestì potentissima armata, combattè e la vittoria ne ottenne (benchè riuscì sanguinosa), ed entrato in Sicilia, cacciò tutti i Saracini dal regno e poco dopo pagò alla morte l'Universal tributo.

Da Costantinopoli si partì l'Imperatore Costante II, diede il sacco a Roma, e facendo ritorno arrivò in Sicilia, e fu da Massenzio in Siracusa ammazzato, ed in luogo di questo si fè eliggerre Imperadore Supremo, dove il suo Impero sei mesi durò, poichè fu da Costantino miseramente ucciso.

In questo mentre i Saracini d'Eggitto, apparecchiato poderosissimo esercito, per esserli riferita di Costante la morte, verso la Grecia e la Tracia avendo il cammino loro inviato, e trovandole molto ben fortificate e da soldati guardate, contro la Sicilia voltarono l'arme, saccheggiando Siracusa; e per esser lontani da' suoi, d'avanzarsi temeano scorgendosi d'Italia vicini: ed allora, carichi di buona preda, feron ritorno all'Eggitto.

Trovandosi molto deboli dell'Imperio le forze a tempo di Michele Balbo regnante, ed eglino fatti molto potenti, s'armarono e contro la Sicilia ne vennero: ma per opera di Bonifacio Conte di Corsica, furono costretti a partirsi, poichè il Conte in Africa entrato, portava alla lor Patria gran guasto, che per soccorrerla abbandonaron Trinacria.

L'anno seguente tornaron sotto condotta di Sabba, e contro loro l'Imperadore mandò Teodosio gran Capitano, che dimandato del Veneziano l'aiuto, ebbe sessanta galee: a questo apparato di guerra il Sabba andando all'incontro, alla riviera di Crotoniato le ruppe, e non fè poco Teodosio a salvarsi la vita, con la perdita però di ogni casa.

Da questa vittoria sortita, il Saracino insuperbito fe' molti avanzi, e carico di grandissime prede, non ritornò in Trinacria ma verso l'Africa drizzò la proda.

Non andò molto, che ritornò in Sicilia con armata poderosa e fiorita, se la rese tutta al suo Impero soggetta, e la dominarono quattro cento anni, secondo (quanto) dicono alcuni.

Il Saracino qual dissi, con legge più di bestia che d'uomo, stimò stabilire con barbarie l'Impero, altri facendo scannare, molti a pugnalate uccidere, altri vivi in caldaie bollire, alcuni spiranti far pendere da uncini, altri impengolati arrostire; in somma tanto crebbe la crudeltà e fierezza di costoro, che atterriti gli uomini stimavano a somma grazia esser venduti per ischiavi, e così regnarono tanti anni barbaramente da mostri.

Erano in questi tempi i miseri Siciliani della fortuna lo scherzo e da tante angustie già vinti, faceano a' Principi Cristiani ricorso con chiedere segretamente aita, ma eran tutti aspidi sordi; sicchè mandarono Imbasciadori a' Sommi Pontefici, con rappresentare l'imminente pericolo di perder fede per l'insoffribile giogo di patimenti continui; si commosse Sergio Papa mosso da pietà degna veramente di pianto, e pur non ebbe la Pontificia intercessione l'effetto, con aver esortato Ludovico che tenea dell'Occidente l'Impero, acciò suvvenisse con le sue armi la vastata Sicilia.

E benchè (vi provarono) l'Imperador d'Oriente, la Signorìa di Venezia, e altre Monarchie potenti, finalmente l'Imperador Costantinopolitano Michele, con Michele Maniace Capitan Generale, dal Regno di Sicilia li cacciò; mai però fu libera affatto da' Mori, che molto più crescendo nel numero i patimenti avanzavano, e li Normanni infine nella sua libertà primiera la posero con le sue armi temute.

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NICOSIA SOTTO I NORMANNI CAPO II°

La Natione Normanna trasse da' Gotti popoli settentrionali la sua origin primiera, che la Dania dell'Ocean penisola

haveano a forza d'armi occupata; e dopo Lusacco delli Danni regnante, dal suo regno mandò molta gente di valore incorrotto, della quale venne fatto Capitano Rollone nell'anno di nostra salute 880 per acquisto di nuovi regni e paesi, il quale passato per la bocca del fiume Secuana, prese della Neustria possesso, e della Francia ne saccheggiò buona parte, ove il semplice Carlo regnava, e dubbioso di perder il regno, patteggiò con Rollone che se la fede Christiana abbracciava, l'avrebbe dato Gilsa, o Egidia, sua figlia per moglie, e la Neustria per dote; piacque a Rollone il partito, si battezzò e si pose nome Ruberto, e volle che la Neustria si chiamasse Normandia.

Da costui Guglielmo ne venne, e dopo Ricardo, il quale avendo adocchiata una contadina assai bella che Dunnor era per nome chiamata, se ne invaghì e la prese per moglie, generando Riccardo, Ruberto e Guglielmo, ed altretante femmine.

Dopo la morte di Rollone, come primogenito Riccardo successe, e per non aver germogli cedette il regno a Ruberto, uomo di sommo valore, il quale colla spada ammazzò Aroldo Re d'Inghilterra, e di quel regno si fece assoluto padrone, e da costui ultimamente ne venne Tancredi Conte d'Altavilla, il quale da Manilla sua primiera consorte ne procreò Sarno, Goffredo, Drogone, Tancredi, Malogeno, Alborado, Goffredo II° e Frumentino.

La di lui seconda consorte fu Tredefenda, o Frezenda, da cui ne nacque un altro Guglielmo (che per l'insuperabil sua forza fu detto "Ferrabacco"), Ruberto nominato Guiscardo (che vuol dire "errante"), Unfredo e Ruggiero (detto "Bosso" per esser d'alta statura, feroce ed in guerra valoroso e bravo); Tancredi lor genitore, per esser di ricchezze mancante, per tutta Normandia a far acquisto di nuovi regni s'accinse, e passò con loro in Italia a' tempo che Sergio IV° regnava Pontefice al mondo, e nella Francia il Re Ludovico, ed entrati in Lombardia, da molti Potenti presero soldo, e per tutto si riputaron famosi, e furon per la bravura in combatter per terror della terra stimati.

Pandolfo, ch'intese di costoro le glorie, poichè pretendea muover guerra a Guaimaro Principe di Salerno, li condusse al suo servizio con averli gran doni promesso, ma poscia consideranto quel che poteva riuscire, ne prese sospetto e col Principe statuita la pace, diede a si' famosi guerrieri licenza.

Morì in questo tempo Tancredi, a Guglielmo Ferrabacco lasciando il dominio, come degli altri maggiore. Nulla di meno il Baronio nell'anno del Signore 1120 "intorno alle Cose del Mondo" diversamente li porta, e nel

numero delle volte che vennero in Italia i Normanni, de' quali quaranta in abito di peregrini per visitare il Santo Sepolcro n'andavano, ed al ritorno da Gerusalemme, arrivati in Salerno, combatterono con li Saracini e li vinsero.

La seconda venuta che fecero i Normanni in Italia fu con maggior stuolo, sotto la felice condotta di Ridolfo uomo assai potente e audace, conferitosi in Roma a' piedi di Benedetto VIII°, all'ora Sommo Pontefice nell'anno 1018: fu dall'istesso Pontefice mandato per discacciar li Greci, occupatori dell'Imperio Romano, e nella prima ed altre due sanguinose battaglie li vinse.

Passarono la terza volta in Italia (come l'istesso "Baronio" già scrisse) in grandissima quantità e moltitudine, più delle prime potenti.

Il "Fazello" la quarta vi aggiunse a' tempo di Sergio IV° Sommo Pontefice, nell'anno 1009, quando comparve il Conte d'Altavilla, Tancredi e Costanza co' suoi valorosi germogli.

In questi tempi erano i Cristiani in Sicilia da' Saracini con tirannico impero e barbàrie inaudita dominati, onde Giorgio Maniace (che dell'Imperador di Costantinopoli era Capitan Generale) chiamò Guglielmo Ferrabacco in aiuto co' suoi valorosi fratelli, e i Principi di Salerno e di Capua, per cacciar dalla Sicilia i Saracini spietati, con patto però che mettendosi quattro eserciti intieri a spese comuni, dopo la vittoria si dividesse a tutti il bottino acquistato.

Nell'anno dunque 1004, allestito l'esercito e passato il Faro vicino Messina, vi si pose il campo, che fu costretta a rendersi senza tante battaglie.

Presa Messina e fortificata di gente, l'esercito suo ver Siracusa drizza la proda, questa custodita d'Arcadio Saracin Gran Capitano e di sperimentato valore, che in alcuni assalti fu vincitore e li cristiani intimoriti restarono.

Guglielmo, per questi insoliti avvenimenti sdegnato, con buona parte de' suoi combattè (così) valorosamente ch'alla fine colle proprie mani Arcadio ammazzò, e la maggior parte de' Saracini (furono) fatti in pezzi dalli fulmini della sua spada vittrice: i rimasti vivi disanimati fuggirono; dal buon successo prese occasion Maniace di presidiar Siracusa.

Scorsero tutto dal resto del regno, mentre da Maniace s'andava i Saracini dalla Sicilia cacciando o per dir meglio uccidendo, Apolofaro ed Apocardo fratelli, de' Saracini Capitani famosi, congregarono un esercito di cinquantamila soldati tra Cartaginesi e Saracini, e vicino Troina s'azzuffarono con nostri e restarono vinti, ed ondeci città acquistò Maniace; ma per aver pagato con ingrata corrispondenza i Normanni Signori di Capua e Salerno, non corrispondendo a' patti promessi, vennero a marziali contese, e passati in Puglia con occasione di svernare, in essa molti luoghi occuparono; s'aggiunsero altri 40 mila soldati de' Normanni che da Gerusalemme ritornavano, perciò fattosi Guglielmo più forte, assaltò, vinse e di tutta la Puglia si fece assoluto Padrone.

Venendo tutto ciò di Maniace all'orecchio, nelle sue forze fidato ed intumidito per le vittorie passate, volle andar a far guerra in Puglia e stuzzicare Guglielmo, e ne fu superato. E ritornando in Sicilia con la perdita della maggior parte de' suoi, fu da' Saracini assalito, i quali dall'Africa chiamaron soldati, e così di nuovo s'impadroniron del regno.

Non però si disanimò Maniace, ch'allestito un esercito, creò Capitan Gente Stefano dell'Imperadore nipote, e datosi il segno alla zuffa, si combattè e vinse.

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Maniace insuperbito per la vittoria ottenuta, ardì venire alle mani con Stefano, il quale a suo zio in Costantinopoli scrisse che Maniace ordiva all'Imperadore tradimento, e lo fece del suo officio privare.

Per poi l'Imperadore placarsi, seco portò da' Sicilia di Sant'Agata e Santa Lucia Vergini e Martiri intieri i lor corpi, e glieli presentò; ma non gli riuscì il pensiero, perchè Iddio essendo giusto vendicator delle colpe, lo volse castigar per la rotta fede a' Normanni, e fu dunque la ricompensa data a tale misfatto la continua prigione.

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NICOSIA SOTTO RUGGIERO CAPO III°

Essendo dunque in Costantinopoli Maniace in prigione, Stefano (che in Sicilia restò al governo) portossi malamente

nel reggere, e ai malcontenti del regno vi si aggiunsero li Saracini, i quali furono rinforzati da gente rebellata dell'Africa; e di nuovo prendendo del regno il possesso, si mostrarono con li Siciliani si' fieri in crudeltà inaudita, mentre la facean più da tiranni che da uomini, e precise contro i Messinesi pretendeano scuotere i Siciliani infelici da si' pesantissimo giogo, trattenuti però dalla difficoltà che se li parava davanti.

Dimandava la povera Sicilia opportuni gli aiuti, ma non vi era chi sollevar la volesse; in questa angustie vi stette finchè alla pietà del Signore piacque con occhio benigno mirarla, e quando men se la pensò le diè la mano, non potendo più sulle spalle portar l'intollerabile peso.

Tre Nobili Cavalieri Messinesi in una Faluca s'imbarcarono col mostrare che verso Trapani voleano drizzare la proda, ma infatti veleggiarono a Roma per prostrarsi a' piedi del Pontefice Nicolò, di questo nome II°, per qualche piega a' loro affanni trovare, come nel libro terzo Maurolico afferma: "Tres memorati, idest (Anselmus de Patis, Nicolaus Camulias et Jacobus Saecanus) Messanenses assumpta navicula, quasi Drepanum profecturi, Miletum venientes. Primo Pontificem compellentes: Rogerium deinde, qui tunc Deiparae Virgini forte supplicabat, conveniunt, lacrymisque Ducem commovent".

Il Conte Ruggiero, per eterna memoria del Soccorso ch'ebbe dal Cielo, fece a caratteri d'oro queste segnate parole (prese dal regio Salmista) benchè di fortissimo acciaio nello scudo piantare: "Dextera Domini fecit virtutem, Dextera Domini exaltavit me"; ed indi la trapiantò ne' sugelli, e fece frutta di gloriosi trionfi.

L'origine dunque della libertà di Sicilia da' riferiti tre cavalieri già nacque, i quali dopo del Papa, a Ruggiero esposero de' Siciliani la brama, la facilità dell'impresa e de' cristiani l'aiuto contro gli inimici della Santissima Sede, e per fine l'inabilità de' Saracini, i quali più per il numero che per il valore mostravansi potenti.

Confirmò Bettimeo Capitan Saracino quanto que' Cavalieri aveano detto con le pupille annegate nel pianto: era costui andato da Ruggiero per le discordie ch'havea con Belcane Vicerè Saracino in Sicilia; molto caro a Bettimeo sarìa stato se per mezzo delle temute forze Normanne si vendicasse del suo nemico giurato, aggiunse che la Sicilia all'Impero de' fedeli doveasi, e che per non esser le città ben munite, con facilità se ne acquisterebbe il possesso, poichè non era da' soldati presidiata nè di vettovaglie provvista, e che ben conoscea i suoi Saracini, più tosto nati per la zappa che per imbracciare lo scudo e maneggiare la spada, ed esser da' Siciliani al sommo odiati.

Ruggiero, la cui scaltrezza e prudenza superava ogn'altro ne' trattati di guerra, stette alquanto sospeso e non dava risposta, dubitando in se stesso forse di qualche inganno nascosto, e diede alla fine con buone parole alcun tempo; Bettimeo, ch'era assai sagace, conobbe e senza indugio prese l'Alcorano e giurò sopra questo esser più che vero quant'egli havea esposto !

Prese Ruggiero da' Messinesi di fedeltà il giuramento, e dopo diede principio all'apparecchio di grossissim'armata e ne venne in Sicilia, e prima d'ogn'altra in Messina; uscirono i Saracini armati all'incontro, ma superati non fecero più fuori delle mura comparsa, havendo il lor Capitano perduto e molt'altri de' suoi ammazzati.

Ruberto, inteso dalla Puglia quanto facea il Conte in Sicilia, mandò una bandiera di Normanni in aiuto al fratello, che fu con grande allegrezza da Ruggiero ricevuta, poichè stava intento di Messina all'assedio, che non ebbe l'effetto sperato.

Tolse dunque il presidio Ruggiero, il quale fece in Reggio ritorno per rinforzare l'esercito; ne venne con altri molti Normanni e soggiogò gloriosamente Messina l'anno 1060.

Essendo della campagna padrone, scorse con tutta facilità e s'impadronì delle piazze, ed insino ad Enna fatto progresso.

Belcane stimò in questo mentre apparecchiare un grossissimo esercito, quasi di quindeci mila soldati; ciò inteso da' Puglia, Ruberto venne per dare aiuto al fratello.

Preparata la zuffa, assaltò i Saracini l'invitta potenza de' valorosi Normanni, i quali ruppero e vittoriosi restarono, de' Saracini pochi lesti di piedi in Enna salvaronsi, come in fortissima piazza de' codardi refugio securo.

Lasciò a Ruberto Ruggiero per assedio, giacchè Enna con questo solo per la fortezza si potea soggiogare, con Bettimeo e buon numero de' soldati; scorse insino a Giorgenti, e perchè si richiedea molto tempo per soggiogar le piazze dove i Saracini abitavano, fece un Forte ivi vicino, detto Calassibetta, buona provisione di soldati lasciandovi, si ritirò in Calabria per isvernare.

Ma per non dare franchigia di riaversi, appena ebbe ristorato l'esercito, alle mediterranee città fece ritorno col diroccare de' Saracini tutte l'abitationi superbe, ed alcune si davano spontaneamente a Ruggiero, ed in particolare i Troinesi, che all'apparir di Ruggiero apriron le porte per riceverlo con solennissima pompa, con accompagnamento del Clero, e tutta la città cantando Inni di Gloria, potendosi stimare eguali a que' di Betulia, quando entrò vittrice la casta Giuditta, o a quelli che cantò Gerusalemme al pastorello Davidde, Dio ringraziando della libertà acquistata.

Ivi lasciò la sua consorte Enemburga nella fortissima rocca, e congregato un fioritissimo esercito per devastare della città di Nicosia le campagne e dar a' Saracini un fierissimo assalto, che in questa città all'ora maggiormente fiorivano; pose bensì l'assedio ma invano, rendendosi la fortezza invincibile, come il Fazello già scrisse: " Nicosia, igitur Saracenorum oppidum primum obsidet,. cuius obsidio, dum in longum protrahitur, Troynenses seditionem redintegrant".

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In questo mentre i Troinesi diedero giusto principio a tumultuar contro i Normanni, ch'avean dell'onestà rotte le leggi, non poteano tollerar tale l'ingiuria senza farne la dovuta vendetta; aveano di già circondata la rocca dove s'erano ritirati i Normanni per isfuggire d'animi giustamente adirati il furore.

Faceano intanto resistenza i Normanni all'ira del popolo offeso, e benchè fossero inferiori di numero, eran di valore maggiori.

Sentirono i Saracini, abitatori de' luoghi non molto lontani, questi nuovi tumulti, e cinque mila persone in Troina mandarono contro i Normanni.

Udita da Ruggiero questa nuova, lasciò di Nicosia l'assedio, e si trasferì in Troina per dare a' nuovi sollevamenti quiete, come scrisse Fazello: "Verum Rogerius, rumore accepto, omissa Nicosia obsidione, qua celerrime Troynam ad sedantores res novas petiit". E questo, come riferisce l'istesso, fu l'anno del Signore 1063.

Ma dall'invincibile valore di Ruggiero furono rotti, molti uccisi e molti in fuga andati; restò dunque di Troina Ruggiero assoluto Padrone e Signore pacifico.

Trenta mila Saracini ed Arabi, a cavallo e a piedi, mentre tornava a Troina Ruggiero da Cerame poco distante, vennero con Ruggiero alle mani, il quale essendo dal re degli Astri e dall'Eroina dell'Empireo con occhio benigno guardato e favorito, riportò segnalata vittoria con metterli in fuga, ed altri al suolo distesi, e da tal vittoria reso terribile, venne a cacciar da Nicosia i Saracini, e ne conseguì il dominio.

Viene descritto col suo armonioso pletro dal nostro Poeta Latino tutto il narrato ne' suoi manuscritti: "Duxit ad oras comitante Troynae turba enneburgam, hic inde reliquit eam. Normanusque Comes movet certamina in hostes ut Saracenos is depopulando premat. Bella parat saevus constantem tristia in Urbe namque inimica locum turba colebat eum evasit bella urbs constans constantior ante, moenia non poterunt sternere gensque comes.

Arcibus urbs constans validis fortissima saevit, cui titulus constans Herbita clara datur. Cum que Troynenses Normannos praelia in hostes movissent prudens diffugit inde Comes. Et dirimens rixas Constanti ex Urbe recedit, antiqua velox urbs, et arva petit. Multas post pugnas Dominus comes ipse Troynae mansit Rugerius, sic fruiturque pace.

Gens inimica venit contra dum bella cieret Rugerium infensi saevia bella voluit. Divino tamen auxilio confixus in urbe tunc mansit Dominus nobilis ipse comes. Diffugat infensos Saracenos atque urbem constantem, qui coluere diu".

Ruggiero dell'acquistato bottino ad Alessandro Pontefice Sommo mandò quattro Cameli onusti d'oro, gioie e spoglie pretiose de' Saracini in riconoscenza d'ossequio.

E poco dopo, ristorato l'esercito, si portò a Palermo, dove arrivato pose l'assedio a due parti: ma perchè quivi erano grandi de' Saracini le forze, in vano si rese il tentato, con spargimento di sangue così dell'una come dell'altra parte; alla fine per intelligenza de' cristiani di dentro, li furono spalancate le parte, non senza aiuto della Regina de' Cieli che sopra la porta della città gloriosa l'apparve, e così prese Palermo.

Stabiliti colà gli affari, e de' Saracini già rintuzzato l'orgoglio, tornò verso le mediterranee città. Ordinarono una congiura i Saracini rimasti in Piazza, Butera ed Enna: macchinarono dar a Barametto Saracino la

loro fortezza, il chè Ruggiero scoverto, da' fondamenti la destrusse (com'era dovere), diede agli abitatori il meritato castigo e le fortezze fortificando al meglior modo che puotè in Piazza, lasciovi Verzello Bajolo Cavaliere Normanno per Capitano e Governatore.

Per tutto il resto del regno scorrendo, nell'anno 1076 prese Trapani, e con poca fatiga tutte l'altre città di Trinacria, fuor che Noto, Enna e Butera, nel quale si facean i Saracini assai forti, e fra brevissimo tempo prese Butera e sbandì i sediziosi; Noto ed Enna si resero, e così fu della Sicilia Padrone, come il nostro Poeta Latino ne' suoi manuscritti lasciò registrato: "Trinacriae Dominus solus, victorque remansit Rugerius palmam non superandus habens".

Morì Enemburga di Ruggiero consorte, che gli lasciò Goffredo e Giordano, ed egli alle seconde nozze passando, ebbe per moglie la figlia del Marchese Bonifacio, Adelasia chiamata, la quale generò Simone e Roggiero, che fu il primo re di Sicilia, ed anche altri figlioli ne nacquero.

Morì Ruggiero dopo aver soggiogata al suo dominio tutta quanta la Sicilia e tolsi dal fierissimo giogo de' Saracini i fedeli di Cristo.

Così anche fra gli altri scrittori lasciò ne' suoi manuscritti il nostro Poeta Latino: "Mox Saraceni sunt Comitis virtute repulsi, Trinacriae Sceptrum mansit, et ille tenens. Urbem Constantem Galli tenuere coloni et simul Insubres hunc coluere locum".

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NICOSIA SOTTO RUGGIERO RE DI SICILIA CAPO IV

Si passa in silenzio di Simone figlio primogenito del Conte Ruggiero, il quale nacque da Adelasia seconda sua

moglie, perchè non habbiam cosa per la nostra Erbita Nuova; ma di Ruggiero re di Sicilia si discorre. Estinto Simone, il suo fratello Ruggiero, uomo di senno e di gran lavoro, da fanciullo fece argomentare quali

progressi nella virilità dovea fare, sì ne' principi dell'uso della ragione sì all'uso delle armi, e perfetto guerriero a guisa del padre divenne, ed il dominio di Sicilia lo conobbe sì grande che volle intitolarsi re dell'Italia ed anche della Sicilia; onde arrivò a grandi rotture con Onorio e Callisto Pontefici, e ne seguitarono fierissime guerre.

Perciò questi ne venne con molti Cardinali a Benevento per dare aiuto alla rocca nominata Niceforo, assediata dal potente Ruggiero: infermossi il Vicario di Cristo e fu costretto ritornarsene a Roma, e così Ruggiero s'impossessò della Puglia e Calabria.

Morto Callisto, successe al Ponteficato Innocenzio, il quale si preparò a far guerra contro Ruggiero. Dopo la morte di Guglielmo Guiscardo, che reggeva la Puglia da Duca e in cui la famiglia Guiscarda s'estinse,

pretendette in detto Ducato succeder la Chiesa, come in fatti ne mostrò gli eserciti: ma vennero assaliti con impeto si' feroce da Ruggiero, il quale vinse e con l'aiuto di Guglielmo Principe di Taranto prese i Papi con tutti i Cardinali e li pose in prigione, benchè liberolli poco dopo, per haver Ruggiero quanto pretendea conseguito, fuor che di Re il titolo, che poscia ricevè da Celestino Secondo nell'anno 1129.

Coronato dunque dell'una e dell'altra Sicilia, il suo stato ne possedette in pace. Non potea star quieto Ruggiero per l'inclinazione c'havea all'armi, onde passò in Africa con potentissima armata

contro i Saracini, saccheggiò la riviera, prese Tripoli, l'Africa e se ne fece Padrone, e di Tunisi re coronasi. Era Ruggiero dell'Imperador Greco Emanuele inimico, e volle farli anco guerra con apparecchiar di Siciliani

potentissima armata, ed altre Nationi, principalmente di soldati Normanni: passando in Grecia s'impadronì di Corfù, Tebe e Negroponte, e diede lor un formidabile sacco.

Ludovico re della Francia in questi tempi era de' Saracini prigioniero, che Ruggiero assaltò, vinse e diede la libertà al re e a' suoi della Francia.

Passò dopo in Costantinopoli, buttò fuoco avanzi gli occhi dell'Imperadore a' suoi borghi, insino ad abbattere e combattere l'Imperiale Palazzo, entrovi nel giardino e le frutta gustando con le sue proprie mani, alla finestra dell'Imperadore scoccò freccie d'oro massicie.

Al ritorno in Sicilia, da' Veneziani assaltato, perdette venti galee e con gran fatiga ne puotè scampare. Giunto in Palermo, si diede al buon governo del regno, e l'uso della seta seco portando nelle tessitrici famose di

drappi, che n'investì la Sicilia, e buona parte in Nicosia ne condusse, come al capo 10 di questo libro si scrive. Ruggiero di tanti vittoriosi trionfi alla fine fu dalla parca crudele già vinto, ed al cinquantesimo anno della sua età

trionfante, di nostra salute (secondo il Fazello) mille cento quaranta nove quelli giungette.

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NICOSIA SOTTO GUGLIELMO IL MALO CAPO V

Morto che fu Ruggiero re di Sicilia, figlio del Gran Conte Ruggiero Bosso, successe Guglielmo nel regno, che per il

suo infelice governo, vita licenziosa perversa condusse, e per li molti successi di consideratione nel regno, nell'anno mille cento cinquanta richiese dal Sommo Pontefice subito la conferma del regno, che dalla Santa mente di Adriano, all'ora regnante, l'era stata negata.

Perlochè Guglielmo allestì un fioritissimo esercito della più prode soldatesca, che in Sicilia tenea in molte città e terre dispersa, passò a vele piene e con felice viaggio di Nettuno, prese Benevento, Caprara e Baccio, città della Chiesa Romana.

A sentir questo il Sommo Pontefice usò la più fiera arma che tenea dell'anatema contro Guglielmo, ma furon dal Principe di Capua al Papa ambasciadori mandati, da Ruberto Altavilla ed altri Signori, a pregare il Sommo Pontefice ch'havesse egli venuto in persona a prendere il possesso e ripigliarsi l'occupato dall'invasore Guglielmo, protestandosi darli tutti quelli aiuti necessari ch'avesse stimato.

Congregò allora un fioritissimo e numeroso esercito il Papa, venne in San Germano, ov'era da molti Baroni col resto della milizia aspettato, li giurarono fedeltà, ed in breve si rinvestì di quanto era spogliato, ed inoltre una buona parte della Puglia e Calabria, benchè tutto questo riuscisse invano, poichè saputosi ciò da Guglielmo, con grandissima rabbia entrato in Puglia, il tutto diede a ferro e fuoco, e spargimento di sangue; e vicino Brindisi con l'esercito del Papa fece giornata campale e lo vinse, onde fu il Pontefice ristretto a ricevere in grazia Guglielmo, non ostante che molti Cardinali non l'havessero a gusto.

Delle due Sicilie il Papa li confirmò la corona, con farlo prima giurar di non mai più muover contro la Chiesa battaglia veruna; gli restituì ogni cosa Guglielmo, il quale avendo in Puglia e Calabria quanto era dovere ordinato, passò con la sua armata in Egitto, dove sortirono molti vittoriosi trionfi, e ritornò carico di vittoriosissime prede, ed incontratosi coll'armata dell'Imperadore di Costantinopoli suo inimico mortale, perchè non volle dargli la figlia per moglie, non ostante che fosse inferiore per forze, investì, la vinse e portossi in Palermo con l'acquisto di cento cinquanta legni.

Poscia tutto all'ozio occupato, si diede ad accumular ricchezze, oro, argento, ed inventò la moneta di cuoio, per restargli tutta quella d'oro ed argento che si trovava in Sicilia.

Fece molte ordinazioni e leggi, le quali furono la destruzione del regno: che nessuno de' Signori senza suo consenso e licenza si potesse ammogliare, e tutto ciò al re fu da Majon suggerito, causa a Guglielmo di porlo in precinto di perder il regno e la vita, onde il Majone già detto operò che il Conte Simone nelli carceri custodito ne fosse per certi sospetti.

Pietro Eunuco non potè più tollerare il mal procedere del Majone, liberò i Baroni tutti ed il Conte Simone, i quali si trovarono radunati in Palazzo nel dì prefisso, e Simone (per vie cognite a lui solo) secreto si presentò avanti al re con Tancredi, e vedendoli venire alla fuga si diede, atterrito, e non potendosi così presto salvare, da' congiurati fu preso che lo volevano ammazzare.

Ma il Conte d'Alesia, Guglielmo e Ruberto Banvese li pregarono ch'al re avessero perdonato la vita s'egli rinunzierebbe al regno; non fece questo profitto veruno, se Riccardo Mandra non avesse l'impeto di coloro frenato: per allora posero il re in prigione, diedero il sacco al Palazzo, gli altri eunuchi tagliarono a pezzi, e rivolti contro gli altri Saracini, che nella città dimoravano, ne fecero grandissima strage.

Poscia al figliuolo del re, per nome Ruggiero, ordinaron sopra un cavallo salire, che rappresentava una montagna di neve, condottolo per la città re l'acclamarono e legitimo Signore del regno, tutto ciò afferma la istoria Normanna.

Il popolo, ch'è più della canna incostante, si fece sentire contro i congiurati, volendo che il loro re carcerato regnasse: mutato dall'opinione di prima, s'armò e volea dar sacco al Palazzo se la libertà non li davano, onde li congiurati non sapeano che fare.

Il tumulto del popolo andava avanzandosi, nè eran potenti le scuse al tempo che domandavan bastanti a poterli racchettar dell'ardire; onde i congiurati per placare il tumulto, furono forzati il re scarcerare e mostrarlo al popolo, che vi è più per la veduta di quello infierito, li parve con la prigion maltrattato, e così minacciaron i congiurati; ma il re quietò i popoli e lasciò che i congiurati esenti dalla pena n'avessero andati liberi, e svanì alla fine il bisbiglio.

Non restarono i congiurati esenti dalla pena reale, poichè Guglielmo dopo la scarcerazione, infierito, fece così grandi le stragi contro costoro che penna volgar si rende incapace a poterli descrivere: diroccò le città dove di congiura ne puote immaginare sospetto, o della carcerazione ch'ebbe, non lasciò in quelle terre memoria alcuna da dove ne potè sognare la causa; basta sol dire quello che di lui scrisse Fazello: "Fuit Gulielmus ingenio alioqui solerti, et militia strenuus, cupiditate vero, ac avaritia simul, et crudelitati nulli secundus".

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NICOSIA SOTTO GUGLIELMO IL BUONO CAPO VI

Fu la Sicilia tant'anni dal re Guglielmo il Malo così fieramente oppressa, come si è di già osservato. La pietà dell'Altissimo consolare la volse col reggimento benigno di Guglielmo il Buono, e si compiacque

compensar le sciagure passate con questo, che sortì come rosa nata da quella spina pungente; n'ereditò il nome, ma furono i fatti assai diversi dal padre, poichè acquistossi con le sue eroiche e regie azioni di "Buono" l'agnome; fu un'allegrezza la più maggiore del regno a confronto della malinconia già trascorsa.

Questo buono Guglielmo agli anni quattordeci della sua età pervenuto, prese del regno il possesso, come afferma l'istoria Normanna, con indicibile gioia ed universale contento; dagli albori sereni s'argomenta più delle volte di tutto il giorno la chiarezza bramata.

Se da corporale bellezza s'arguisce la purità incorrotta d'un uomo, quella in Guglielmo il Buono fioriva al maggior segno: era d'aspetto vaghissimo, di semetria ammirabile, di personale assai grave, nel trattare cortese, eloquente e gratioso, nel dire moderato, nella castità un'armellino purissimo, con tutti liberale, alle sue azioni faceva si prevenisse il conseglio, i virtuosi sovra ogn'altro stimava; perlochè nel suo governo l'equità, giustizia e soddisfazione universale spiccavano, il regno conservò in una pace tranquilla, perdonò i rubelli ed ancora richiamò i sbanditi per le passate sedizioni del padre, restituendo a ciascheduno i suoi stati, che confiscati li furono.

Fece molte guerre e, dopo molti fatti illustri e gloriose imprese, al vigesimo quinto anno del regno, e dell'età trenta nove, se ne morì in Palermo senza eredi nell'anno 1180, e fu nella matrice di Monreale secondo la sua disposizione sepolto, in terra però senza alcuna magnificenza di Real Maestà, e nell'anno di nostro Signore 1570, dalla pietà di Ludovico Torres di detta città Arcivescovo, li fu un sontuoso Mausoleo eretto di finissimo marmo, e fu dopo tant'anni trovato il suo corpo incorrotto, con capelli biondi e poco canuta la barba. Il Conte d'Alba, all'ora Vicerè in Sicilia, volle alla detta translazione intervenire, e presasi la spada del defunto Guglielmo, la mandò a Filippo II° re delle Spagne, e n'ebbe un rimprovero meritato, giacchè a Regnanti nè in vita nè in morte si dee togliere la spada.

Morto come si disse questo re senza erede, Clemente III° Pontefice Sommo procurava la Sicilia occuparsi alla Chiesa; ma i Baroni e Signori del regno, per l'affetto che a' Normanni portavano, si risolsero eleggere Tancredi re di Sicilia, del re Ruggiero figliolo naturale. Sicchè dopo la morte di Guglielmo il Buono, ad elezion di Tancredi suscitaronsi molti disturbi e contese con gli Pontefici Clemente III° e Celestino III°, i quali investirono del regno Errigo Svevo, donandoli per moglie Costanza di Tancredi sorella, legitima figlia di Ruggiero re primo in Sicilia.

Per la morte di Tancredi, successa l'anno 1195, la famiglia Normanna s'estinse, avendo in Sicilia per lo spazio di anni 135 regnato.

Nicosia, come Francesco Nigro già scrisse, mandò guerrieri in aiuto a' Piazzesi nell'anno 1189, assieme con il Conte di Capizzi e Randazzo, al numero di tre mila fanti, per la morte del buon re che molto favoriva i Piazzesi, dic'egli dunque. Non tanto presto il mal Guglielmo ordinò che fusse destrutta Piazza, che reedificata nel 1163, e dopo dal figlio favorita, fu obbligata così bambola armarsi contro i sediziosi, accompagnata da Nicosia, Capizzi e Randazzo, al numero di tre mila fanti per la morte del buon re difeso nel 1189, poichè Papa Clemente III° procurò incorporar la Sicilia alla Chiesa, ma i Signori del regno per gratitudine elessero Tancredi, che il buon Guglielmo tenea in casa sua, come del sangue per non haver figliuoli.

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NICOSIA SOTTO ERRIGO SVEVO VI IMPERADORE CAPO VII

Dopo di Tancredi la morte, successe Errigo Imperadore di tal nome sesto, nella città di Roma s'incoronò assieme

con Costanza sua sposa re di Sicilia, regnò solo cinque anni, ma con rigore inudito, poichè tutti que' Chierici che furono presenti alla coronazion di Tancredi, li fece morire, e dopo fè passaggio all'altra vita al 1199.

Seguì nel regno Federico II°, Imperadore di Roma, ancor bambino, sotto la tutela di Innocenzio Pontefice Sommo, nell'istesso anno fu re di Sicilia chiamato, e s'accoppiò in matrimonio con Costanza figlia del re d'Aragona.

Attenti alla fedeltà e servigi sempre osservati alli re di Sicilia da questa nostra città, i suoi popoli sono stati chiamati "fedeli", ed esser tali si può francamente pregiare avendola dimostrata prontissima nell'occorrenze maggiori dell'ossequio reale, con innumerabili donativi d'ingentissime somme ed uomini, che per servigio de' re il sangue, non chè la vita, hanno prontamente donato.

Fiderico, che chiaramente conobbe quanto havea Nicosia per la Corona operato, gli fa un privilegio ubertoso di grazie: era solita mandar Nicosia della plebe due cento novanta sei uomini ogn'anno per servirlo sopra le Galee da marinai, e poscia cento quaranta, e finalmente cento trenta sei; onde, per detti servigi fatti non solo a lui ma anche alli re suoi antecessori, e de' Nicosiensi la molta fedeltà sommamemte lodando, rilascia per sua benignità Fiderico il mandar uomini da Nicosia, ma di più vuole, e li permette per i loro servigi far legna, soliti farsi ogn'anno, nella foresta di Mascali, e tagliar alberi per li propri usi che sua Maestà li condona tutti gli interessi, come anche tutti li terraggi che deve per conto di Migeti proprio Casale, ch'era reliquia d'Erbita famosa dove anticamente fioriva (come si è detto nel I° libro, capo V); e di più, che possono tagliare e trasportare legna aride in qualunque parte del suo dominio reale, ed inoltre perpetuamente concede, non solo alli presenti ma a tutti li successori della terra di Nicosia, che possano liberamente possedere Pietra Asgota, o Igot, e con altro nome Baveri, lo feudo della Vaccarra chiamata, del quale ne godette il titolo di Barone queste città, come vedesi nelle tasse de' donativi regij dell'anni 1684 e 1690 de' titoli di questo regno mandato alle stampe, per le quali, come gli altri Baroni dle regno, Nicosia con tal titolo viene tassata pagare alla Deputazione de' medesimo, e con tutti i suoi tenimenti e pertinenze; e che nessuno possa molestare li terrazzani presenti, nè alli loro successori; in perpetuo tutto ciò che s'è detto, costa per privilegio, che così dice:

"Fidericus Divina favente Clementia Rex Siciliae, Ducatus Apuliae, et Principatus Capuae, cum munificentia suggerit, et disponitur industria, ut subjectorum servitia non debeant inremunerata transire, inde est, quod nos attendentes fidei puritatem, et gratia servitia, quae vos Homines, et Nicosini fideles Nostro Domino Imperatori, et Dominae Imperatrici, quondam Parentibus nostris die, et nocte, Nostraeque celsitudini studuisti hactenus fideliter exhibere, considerantes etiam labores, et damna, quae pro nostra fidelitate multipliciter passi estis, volentes vobis, et successoribus vestris omnes bonos usus, et consuetudines, quibus temporibus felicium regum praedecessorum nostrorum usi estis de abundantiori nostra munificentia, et eiusdem Imperatoris Patris nostri largitionibus inhaerentes perpetuo confirmamus vobis, et successoribus vestris id, quod vobis a prefato Domino Imperatore per suum privilegium est concessum V.t cum tricentos marinarios minus quatuor tempore regis Gulielmi Secundi pro servitio soli curiae nostrae singulis annis dare consuevistis CXXX ex ipsis ab eodem Patri nostro vobis sicut patet tenore sui privilegij sunt remissi.

Vobis, et successoribus vestris perpetuo duximus remittendos. Et ut de bono in melius ad fidelitatem, et servitia nostra ad nostrum beneficium vos inducat reliquos CXXXVI marinarios vobis, et successoribus vestris da nostra liberalitatis abundantia perpetuo relaxamus, condonamus etiam vobis perpetuo servitium lignaminum, quae in Densina Mascali annuatim attrahere solebatis, nec non et totum terragium, et quamlibet dationem, quam annuatim Curiae Nostrae dare consuevistis de Terris Casalis Migeti, ut libere, et absolute terras ipsas, atque omni datione perpetuo liceat vobis, et haeredibus vestris libere, et sine aliqua exactione forestagij capere, et deportare ligna sicca ubicumque inventa fuerint, etiam in memoribus Dominij Nostri. Insuper , et de nostra liberalitatis abundantia perpetuo concedimus vobis, et successoribus vestris libere possidendum Petram Asgoti cum omnibus justis tenimentis, et pertinentiis suis mandantes, et firmiter praecipientes, et nullus vos, et successores vestros deinceps praedictis omnibus quomodo libet molestare praesumat. Ad huius autem concessionis, et confirmationis remissionis nostrae memoriam, et robur perpetuo valiturum praesens privilegium per manus Andreae Notarii, et fidelis nostri Scribae, et Majestatis Nostrae Sigillo praecipimus communiri. Anno, Mense, et Indictione subcriptis.

Datum Nicosinis Gualterii de Palena Vener. Catanensis Episcopi, et Regni Siciliae Cancellarii. Anno Dominicae Incarnationis MCCVIIII, Mense Maij, XII Indictione, Regni vero Domini nostri Fiderici Dei gratia Regis Siciliae, Ducatus Apulie, et Principatus Capuae Anno XII, feliciter Amen per registratum est praesens privilegium ex originali de mandato Principis".

Morì Fiderico l'anno di Cristo 1250 e fu nella Conca d'Oro sepolto; lasciò più figlioli, Corrado legitimo della sua sposa Costanza, Errigo Manfredi e Federico bastardi.

A Fiderico successe Corradino, suo legitimo figlio, sotto la cura di Manfredi, incoronato nel 1251; di cui dicesi che per opera dell'istesso Manfredi se ne morì velenato, poichè incoronatosi re, la corona di Sicilia usurpossi, e malvolentieri soffrendo che Corradino arrivando a tempo d'esser bastante regger il regno, egli ne fosse privato; a questo molte città acconsentir non volendo, furono da Federico Lancia con titolo di Governatore, seco portando un grossissimo esercito, sottomesse a Manfredi.

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Onde inviossi a Piazza, della quale non senza travaglio ne prese possesso, poichè era di Manfredi nemica, tutti i suoi contrarii fece morire; Castrogiovanni ed Aidone, ciò inteso, alla buona si resero.

Urbano IV, che tenea nelle mani del Pescatore le chiavi, tollerare non potè della Sicilia li funestissimi aggravii; deliberò investirne il Conte di Provenza Carlo Angiò che, dopo aver allestito un grande esercito, contro Manfredi verso Benevento inviossi; la battaglia attacatasi, all'or che il suo squadrone spinse, Manfredi si vide abbandonato da' suoi: egli per non esser da codardo notato, postosi l'elmetto che li cadette (ciò per malaugurio !), prendendolo già disse: " Hoc est signum Dei", e nella battaglia cacciossi; li fu il destriero con un colpo di lancia nell'occhio ferito, questo in aere levatosi, lo fece cadere, fu da' nemici assaltato e, non conoscendolo, lo privarono di vita, e dell'armi ed insegne reali spogliato, sconosciuto fra gli altri estinti restonne.

Ma Carlo, intendendo non esser Manfredi nel campo, giacchè di lui non seppe la morte, fece cercare il corpo, e trovatolo tutto coperto di fango (dal Conte Bartolomeo ravvisato e conosciuto), con dolorosi omei e lacrime lo fece seppellire onoratamente, e dopo per ordine del Papa trasportato fuori dallo Stato Papale.

Carlo dunque preso il possesso e la corona, governò con rigidezza assai fiera, e con poca soddisfazione del regno, mentre permettea che i soldati a briglia sciolta corressero ed alli Siciliani proferissero molte ingiurie indecenti.

Dieci sette anni passarono tra queste afflizioni, e li Siciliani non potendo più sofferire tutti li tagliarono a pezzi, come narran l'Istorici antichi e moderni.

Non può mente umana comprender ciò che il re Carlo sentisse, onde per castigar i Siciliani, ne venne con potentissima armata nella città di Rigio, e nonostante l'armata fosse di cinque mila cavalli e cinquanta mila pedoni in cento cinquanta navi distintamente alloggiata ed altri navigli, e minacciava che dopo il Vespro Francese, volea la compietà Siciliana cantare, il chè non successe, come immaginossi nel capo.

In questi tempi medesimi il re Pietro d'Aragona, della figlia di Tancredi amatissimo sposo, a cui legalmente toccar dovea la successione del regno, s'apparecchiava di andar contro i Mori di Barbaria: all'ora giunsero gli Ambasciadori da' Sicilia mandati,che gli domandarono con umilissime suppliche il suo aiuto reale, per ripigliarsi il regno liberandolo dalla dura servitù de' Francesi; ponderate dal re le ragioni, risolvette di venire in Sicilia, primieramente in Trapani volle approdare, dopo se ne passò in Palermo, dove li fu giurata fedeltà dalli popoli ed anche dalli Signori del regno, fe' passaggio dopo a Messina, e da tal nuova il re Carlo a singolar tenzone il re Pietro provocar pretese, ed accettata l'impresa, disegnarono per accordo comune portarsi nella città di Bordeos in Guascogna al primo di Giugno; aggiuntevi molte altre condizioni in cotali affari richieste, il successe diversamente (è riferito d'alcuni scrittori, e per non farsi a proposito al nostro intento per la brevità, si tralascia).

Dopo la morte del re Pietro (che regnò solo quattro anni) nel 1285, successe Giacomo Aragona con sua moglie Costanza nel 1286: alli 2 di Febbraro ricevè la corona in Palermo, e costui molte guerre intraprese e tante altre vittorie n'ottenne, e precise contro Carlo d'Angiò. Tenea per Generale dell'Armata navale Ruggiero d'Oria, il quale con quaranta galee Sicole combattè contro sessanta di quelle di Carlo, le vinse e ne prese quaranta, con molti Signori Napolitani e Francesi.

Nella Calabria questo re contò più vittorie che giornate campali, e quasi tutta se la rese soggetta; mostrossi con i suoi vassalli cortese.

Intesa la morte del re Alfonso, in Aragona passò, lasciando Governadore del regno Federico suo affettuoso fratello, ed avendo d'Aragona preso possesso, a Carlo re di Napoli renunciò la Sicilia.

Questa nuova arrivata a Ruggiero, subito con altri Signori e Baroni di Sicilia al Castello di Caltanissetta sen'andarono per trovare a Raimondo Alemanno, fecero intorno a ciò molti ponderati consegli, per li quali si stabilì coronare Fiderico del renunciante Germano, il quale intimò General Parlamento; fra questo mentre il detto re Giacomo, ragguagliato del tutto, mandò d'Aragona un religioso Domenicano a Federico in Sicilia, con lettere che fulminavan minaccie, se non renunciasse il re a Carlo, a cui l'havea consignato.

Non volle dare al Corbello (quest'era del religioso il nome !) se pria non tenesse conseglio, e speditolo si risolvette però di non renunciare il regno, e tutti li Signori e Baroni di Sicilia fedeltà li giurarono, benchè fosse di poca durata, acclamaronlo re di Trinacria.

Ciò da Giacomo inteso, venne a Napoli con sessanta galee, fece contro Federico lega con Carlo, a cui havea renunciato il regno, e più volte alle mani si venne con molta perdita dalla parte di Federico, che fu abbandonato da' suoi perchè temerono molto l'arme di due collegati reami.

Ruggiero d'Oria, però, e Pietro Salvacasa co' li Siciliani molto fermi ne stavano. Fra questo fu necessitato il re Giacomo per Catalogna partire l'anno 1290, e Ruberto di Calabria già Duca (che fu

dopo re di Napoli) e Ruggiero col Conte San Severino, passano in Sicilia con le sessanta galee, e con Filippo figlio di Carlo Principe di Taranto con grosso esercito assediaron Randazzo, ma senza frutto, e sorprendono molte città per haversi Manfredo Maletta accostato alla parte nemica, nonostante che fosse di Federico camariere fidato.

Si fecero molte battaglie con vittoria de' nostri, e Federico poco dopo se ne morì l'anno 1336. Successe Pietro suo figlio, ed in questi tempi molte sedizioni si spinsero.

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NICOSIA SOTTO PIETRO D'ARAGONA II° RE DI SICILIA

CAPO VIII

Da Federico Aragona Pietro suo figlio ne nacque di questo nome II°; dopo la morte del padre fu con universale allegrezza di tutti re acclamato.

In esser alla regia dignità assunto, fe' subito pompa della sua naturale clemenza, trasse i cuori di tutti ad amarlo e riverirlo col dovuto affetto, e così conservò il regno da' padre con tante fatiche acquistato.

Nell'istesso tempo ove fi da re riverito, diede il titolo di Conte a Rosso di Rossi Messinese, di Cerami a Matteo Palicio, della Noara a Guglielmo Ramondi Monte Catino, Adornò a Scaloro degli Uberti Fiorentino figliuolo, a' quali diede il vessillo dell'usanza reale (come dice il Fazello).

Questa pace e tranquillità del regno non fu di molta durata, per causa che gli odi fra Francesco Ventimiglia Conte di Geraci, Matteo Palici e Giovanni Chiaramonte incominciarono a farsi palesi; ebbero a' tempo di Federico sotterraneo principio, sotto il nuovo governo uscirono con tanto empito fuori, che Matteo e Giovanni con insidiose congiure che procurarono di Francesco la morte, attendevano l'occasione più comoda per tramargli l'insidia.

Il re Pietro, inconsapevole degli odi, in Catania ordinò un'adunanza di tutti li Baroni del regno, ove concorsero le cose di Sicilia comporre.

Fu per lettere, a nome del re, Francesco chiamato, tutto arte di Damiano Palicio (Cancelliere Reale) e del Conte Matteo (Mastro Razionale): questi eran Germani e compagni, e del re consultori; temea Francesco di Matteo e Giovanni le frodi, ed era ottimamente informato dell'animo loro contro esso, ma segretamente volea purgarsi del tutto con lettere appresso la Maestà, che regnava alla Rocca di S. Anastasia che si chiamava La Motta, dove promise al re la sua venuta aspettare, mentre in questo luogo l'attendeano molti suoi aderenti, e dalla Corte Reale dierono a Francesco notizie dell'insidie parate, e l'avvertirono di se stesso haver cura: il che inteso, La Motta non la stimò luogo sicuro, finse che Francischello suo figlio Conte di Golisano era di febbre pericolosa sorpreso e l'affetto paterno a far partenza lo strinse, senza aspettare del re le risposte, e sen'andò a Geraci.

Questa sua subitanea partita al re non poco dispiacque, e ricevette la sua scusa con benignità veramente reale. Giunto Francesco in Geraci, capì che l'ira reale era contro di lui fomentata dalla congiura de' Palici; il re tutto ad

accomodar la pace si diede e scrisse esortando Francesco venire a Messina, dove farsi il Parlamento dovea, e che questo era il suo giusto (sotto la sua parola reale) per darli il giuramento di sua fedeltà.

Non volle Francesco andare in Messina, e l'aversi agli ordini reali contumace mostrato svegliò di quello l'ira e lo sdegno mortale.

Finito il Parlamento, ritornò Pietro in Catania, e Francesco mandò Francischiello suo figlio in suo luogo, acciò rappresentasse alla presenza reale le sue ragioni efficaci, ma il re tosto che fu Francischiello comparso, ordinò fosse posto in prigione, con tutti coloro ch'erano venuti con lui.

E Romualdo Rosso da Cefalù Maggiordomo di Francesco, a forza di tormenti per suggestione de' Palici, scuoperse le lettere e gli ordini di Ruberto e Francesco mandati più inanzi ed al presente ancora, le quali dichiaravano Francesco e Fiderico d'Antiochia Conte di Capizzi contro il re haver fatto congiura, costoro finsero giusta ragione del loro tradimento.

Francesco vedendosi per traditore scoverto, si perdè d'animo e ribellasi alla corona con tutti i suoi Castelli: qual cosa seguì l'anno della nostra salute 1337.

Il re Pietro, conosciuto di Francesco il tradimento con aversi da lui ribellato, lasciò Francischello, Romualdo ed altri Ministri di Francesco sotto la guardia di Ruggero Passaneto, per reprimer la loro audacia nella Rocca Leontina li pose, e sen'andò con l'esercito a Nicosia, dove raccolto da' Baroni publico ed universal Parlamento nella Chiesa Maggiore e più antica, sotto titolo di San Nicolò del Plano, per Blasco Alagona di Giustizia Maestro in questo regno, il primo di gennaro dell'anno 1337 condannò Francesco Ventimiglia di perduellio, che tanto val quanto dire di Lesa Maestà, benchè innocente ne fosse.

Il Fazello scrivendo questo fatto, già disse: "Petrus Rex comperto pro facinore illorum repressurus audacia Francischello, Romualdo, et caeteris

Francisci Ministris sub Rogerij Passaneti comitis custodia in arce Leontina relictis Nicosiam cum exercitu contendit. Ubi in publico proceru conventu Franciscum Ventimilium proditorem in area Divi Nicolai per Blascum Alagonam Siciliae Magistrum Iustitiarium, ac Iudices Magnae Regiae Curiae salutis anno 1337 pridie Jannuarii perduellionis Reum agit".

E Maurolico nel "Compendio della Sicilia" scrisse: "Tunc Petrus Rex e Catana Nicosiam profectus penultimo die Decembris Franciscum capitis reum

pronunciavit". E decorò detta Chiesa Maggiore col regio suo stemma, eretto nel portico di essa Matrice sopra lapide di marmo

intagliato nel mezzo del triangolo delli due archi, dove si pose il trono reale, e se ne vedono ancora in alcune mura di aplagi antichi, ch'al presente sono ridotti in Convento de' Padri Minori del Santo Padre Francesco, in una lapide, che si stima sia stato Palagio del detto Francesco Ventimiglia confiscato per la regia Corte, com'effetti d'un condannato rubello.

E ne Fazello, tradotto dal latino in lingua toscana dal Fiorentino, più meglio si dice: " Re Pietro scoperto la scelleratezza di quel tradimento, lasciati Francischello, Remualdo e gli altri Ministri di Francesco sotto la

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guardia del Conte Ruggiero Passaneto per reprimere la loro audacia, postogli nella Rocca Leontina, se n'andò coll'esercito a Nicosia, dove raccolto il Parlamento publico de' Baroni in San Nicolò, per Blasco Alagona Maestro di Giustizia del Regno di Sicilia e per li Giudici della Regia Corte, il primo del mese di Gennaro del MCCCXXXVII condannò Francesco Ventimiglia per ribello".

Nel medesimo giorno che dichiarò per ribello Francesco, erano state rilette l'informazioni da Federico re di Sicilia padre di Pietro, il quale condannò Giovanni Chiaromonte, conobbe Pietro l'imposture che li furono fatte dagli emoli, ne venne da quell'accusa assolto e reintegrato nel Contado di Modica alli 2 di Gennajo.

Il re promulgò per sentenza esser traditori Fiderico e Francesco d'Antiochia, Emanuele e Francesco Alduino, Filippo Giordano, Fiderico e tutti gli altri figliuoli del Francesco Ventimiglia.

Ciò fatto, ritornò a Catania e remunerò con i Castelli a Ramondo Peralta; dopo da Catania partito, andar con l'esercito verso il Castel di Geraci dispose, ove Francesco Ventimiglia s'era fortificato al miglior modo che puotè, ed arrivato a Nicosia, d'indi assaltò il Castel di Sperlinga e lo prese al 31 di Gennaro; impadronissi per accordo di Gangi, del cui esempio mossi Golisano e l'una coll'altra Petralia se li resero.

Andato a Geraci, dove Francesco Ventimiglia trovavasi con due suoi figliuoli ritirato, ancor con Roberto Campolo Messinese Vescovo di Cefalù della congiura e tradimento il primiero, non volendosi arrendere, il re s'accostò al Castello, e i Popoli vedendolo si dichiararono suoi perpetui vassalli.

Francesco si risolvette finalmente fuggire, lo conobbero gli nemici e fu in un fosso ammazzato; il chè inteso da' Popoli, si diedero al re volentieri, e tutti li figli di Francesco, così maschi come femmine, furono divisi fra loro e mandati in diversi Castelli.

E così restò il re della fortezza padrone. Si ribella al re (anche) Ruggiero Passaneto, che n'ebbe dal medemo perdono a preghiera di Blasco Alagona, il quale

con ragione insistendo che della contumacia la colpa in Francesco Ventimiglia da' Palici originata ne venne, si rivoltò subito al riacquisto de' Castelli delli nemici già tolti, e non molto tempo dopo i Palici banditi se ne fuggirono a Pisa l'anno di nostra salute 1340.

Fece il descritto Regnante il lor Palazzo spiantare, e tutta la robba alli soldati divise. Il Castello di Scaloro (cioè Assaro) e la Gatta, e quegl'altri ch'erano sottoposti a Matteo Palici, furono dati dal re al

Duca Giovanni, l'officio di Cancelliero che Damiano esercitava, lo diede a Raimondo Peralta, e quel del Protonotariato (possesso del Conte Scaloro) al Cavalier Timeo Turturetti.

Il re volendo andar a visitar di Sicilia il suo regno e considerar bene i suoi Castelli, in quel di Calascibetta giunto, s'infermò gravamente all'otto di Agosto del 1342; avendo regnato sei anni, rese l'anima a Dio e lasciò tre figliuoli (Ludovico, Giovanni e Federico), con haver prima dichiarato per suo successore nel regno Ludovico suo figlio maggiore, e Giovanni Bailo di Sicilia; il suo corpo fu trasportato a Palermo e nella Matrice Chiesa sepolto.

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NICOSIA SOTTO ALTRI RE

CAPO IX Morto il re Pietro, successe nel regno in età di sei anni Ludovico; però da Palici, Artale Alagona e Chiaromontani

seguirono molte rivoluzioni in Sicilia: molti ribelli si trovavan in Enna che tumultuarono, e ne successero molte uccisioni da parte de' Chiaramontani, ed altri famosi successi.

Il re Ludovico s'ammalò in Faci, e nell'età di 17 anni morì l'anno del Signore 1360, ed anco Blasco Alagona, prode Capitano, fu preso dalla morte ultrice.

Successe nel regno Fiderico suo fratello (Fiderico III°), per non haver figliuoli lasciato; questi già detto il Semplice, venne da' provetti di Nicolò Cesario travagliato non poco, e al re di Napoli Luigi si diede.

Le due sorelle del re, Bianca e Violante, fatte prigioniere, nulladimeno furono dal re Luigi con grand'onore accolte. Fiderico dopo molti successi andonne in Palermo, dove la moglie Costanza partorì una figlia, che nel battesimo le fu

posto nome Maria. Morì poco dopo Costanza nell'anno 1363, ed il re prese per moglie Antonia, stretta in sangue con la reina Giovanna,

e questa coronata col re Fiderico, il quale partitosi per Messina all'infretta, assaltollo una febbre maligna, che fra sette giorni lo fece dal mondo fuggire l'anno 1378, a cui successe Maria in testamento lasciata al governo del regno sotto la tutela d'Artale Aragona, la quale dopo fu moglie di Martino Aragona, figlio di Martino Duca di Montalbano fratello del re d'Aragona.

In questi tempi si trovò Nicosia nelle sollevazioni comuni del regno, mentre furono fatte da tutte le città, terre, casali e castelli di esso li sconvolgimenti; il re Martino poi la reintegra nello stato primiero e nella sua grazia, nonostante le sollevazioni, seguite col privilegio che Nicosia fosse sempre stimata fedele a' suoi regi, e sempre fossero stati vassalli fidelissimi della sua Maestà coronata, e tutte le gratie ch'avea li conferma, ed anche tutti li privilegi dalli suoi antecessori concessi, ed il feudo chiamato Pietra Asgoti, over "la Vaccarra", e con altro nome "Baveri", datoli dallo stesso re per decisiva sentenza, con tutto ciò che il Fisco pretendea arrogarlo al patrimonio reale, come consta per privilegio "datum Catane Anno Dominice Incarnationis MCCCXCVI. Die primo Decembris V Inditionis dicti regis Siciliae quinto. Registratum in Cancellaria penes protonotarium".

Morì la regina Maria, e Martino alle seconde nozze passando, si prese Bianca per sua legitima sposa figliuola del re di Navarra, e celebrate le nozze, per la Sardegna si partì da' Sicilia, la qual conquistata, venne da febbre acuta assalito; da quella mal'aria assalito, se ne morì nel 1409; e non lasciò altri figli fuorchè Martino, il quale visse due anni e poi morì.

Troncate le speranze della povera Sicilia, entrarono molti potentati pretendenti la corona del regno, ma dopo lunghe e crudeli contese, che riferisce Fazello, a favor di Ferdinando d'Aragona (della sorella di re Martino figliuolo) venne dichiarata toccar la corona, quale per rare virtù che ne' suoi costumi fiorivano, meritò che fosse da tutti il Giusto chiamato.

Nel 1412, ma per castigo de' Siciliani, la sua vita fu di poca durata. A questi successe il suo fratello Alfonso, il quale mandò a Pietro suo fratello per Vicerè in Sicilia, avendolo creato

Duca di Noto. Fece Alfonso alla città di Nicosia molte grazie, poichè l'Università mandò due Ambasciadori per confirmar li

Capitoli, che seco portavano, li quali contenevano le domande infrascritte, e cioè " ..se piacesse a Sua Maestà che Nicosia non mai si possa vendere, ne passare in mani di Barone, che il nobile Giovanni Dexer fosse di Castellano di questa rimosso, e tutto quello che per ragioni di fiscalie alla Regia Corte si deve, ovvero escandescenza, esigger non si possa da qualunque persona che non è insignita da ufficio reale, e siano per confermati tutti li privilegi che tiene, e dagli Antenati di Sua Maestà tutte le grazie concesse, e confirmar tutto quello che per detti Capitoli alla prefata Maestà si dimanda", come appare per suo privilegio nel libro delle Grazie e Privilegi di questa città, per il quale si dice:

Alphonsus Dei gratia Rex Aragonum Siciliae, Valentiae, Maioricarum, Sardiniae, Corsicae, Comes Barchinonum, Dux Athenarum, et Neopatriae, ac etiam Comes Rosilionis, et Ceritanie visis, et coram nobis reverenter ostensis Capitulis infrascriptis Capitula exhibita, et presentata per Franciscum de Iamblundò, et Petrum Lombardo Syndacos, et Ambasciatores Universitatis terre Nicosie Regni Siciliae Regis Maiestati, et graziose per eandem confirmanda, et ponenda, seu rediganda in regium privilegium o_i debita solemnitate vallatum in maximum regale servitium Iuris observat ne_m, et generale beneficium dicte Universitati sati. Fait Maiestati nostre per vos fideles nostros Franciscum Iamblundo, et Petrum Lombardo syndacos, et Ambasciatores Universitatis terre Nicosiae prae dictati.

E dopo molti discorsi dice: Nos vero supplicationi huiusmodi intuitu servitiorum per utilium laudorum per Universitatem prefatam

Nostre Celsitudini praestitorum etc. In cuius rei testimonium praesens privilegium fieri jussimus sigillo nostro comuni negotiorum Siciliae impedenti Munitum. Datum in civitate Durolij Ul. Die.... Mensis Maij in anno a Nativitate Domini Millesimo quadrigentesimo vigesimo sexto regnia Nostri Undecimo.

Rex Alphonsus Dominus Rex mandavit mihi Joanni olma. Registratum est ex originali de mandato principis. Il re Alfonso dopo molte battaglie morì l'anno 1436, e nel suo testamento al suo fratello Giovanni lasciò di Sicilia il

regno, e quel di Napoli al suo natural Ferdinando.

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Il detto Giovanni regnò dunque in Sicilia in luogo del suo fratello Alfonso, e prese per moglie Giovanna dell'Almirante di Castiglia, rampolli dalla quale ebbe Ferrante e Ferdinando.

Nell'anno 1474 fece esenti per tutto il regno della Regia Doana li abitatori di questa, per li servigi fatti alla sua Maestà in tutte l'occorrenze reali, rinovando nelle lodi la loro fedeltà incorrotta, con dire:

Nos Joannes Dei gratia Rex Aragonum Siciliae, Navarrae, Valentiae, Maioricarum, et Neopatriae, ac etiam Comes Rosolionis, Ceritaniae, aequo animo volumus, quam prompti, paratique semper extiteritis, et sitis vos dilecti, et fidelis Nostri Iurati Universitatis, et singulares personae terre nostre Nicosiae ad omnia, quae vel putuntur pro servitio nostro, vel vos nostro servitio conducere existimatis, qui saepe numero in satis magis necessitatibus ultro nostre majestati subvenistis cum animo, voluntate, et devotiones in vobis singularibus induimur, et libenter utimur munere liberalitatis nostre extendamus esse. Panormi IIII Maij IIII Indictionis MCCCCLXXIV.

Dopo la morte del detto Giovanni, successe al 1479 Ferdinando suo figliuolo, e prese per moglie Isabella sorella d'Errigo IV re della Spagna, il quale discacciò gli ebrei da' suoi regni, ed altre molte cose di sollievo fece a' vassalli nel 1482.

In luogo di Ferdinando regnò Carlo V Imperatore, poichè per la morte di quello la famiglia Aragonese s'estinse senza a verun successore nell'anno 1516, e fu seppellito in Granada avendo questa famiglia in Spagna e Sicilia 230 anni regnato.

Venne Carlo V in Sicilia nel 1535, cui tutte le città del regno fecero donativi opulenti, e quel di Nicosia non fu minore dell'altre, e perchè egli portava il nome per antonomasia di Magno volse significar le grandezze di questa città, confirmandole tutti li privilegi, grazie, esenzioni dalli re ed Imperadori suoi antecessori concessi, e la decorò con un privilegio amplissimo, nel quale li servigi fatti alli re dalli nostri cittadini rammenta con l'amplificar, che gli abitatori di questa possano con armata mano difendersi senza veruna nota d'infamia, come il tutto appare per detta mercede conservato nel libro delle Grazie, che dice:

Quia sic voluit, et ita sibi placuit fieri in augmentum remunerationis servitiorum, et obsequiorum per dictam Civitatem, et Universitatem Nicosiae Cesariae, et Cathaliae Majestati, et dictae R.C.: hactenus prestitorum Anno Dominicae Incarnationis M0LV. Indictionis XIV. Die vero Undecimo Mensis Decembris.

Questo fu un privilegio confirmante due altri, concessi dalla detta Maestà Cesarea, con li quali confirma tutti li privilegi ch'ella tenea, l'uno dato in Palermo (die septimo mensis Octobris VIIII Indictionis M0XXV, con la sotto-scrizione yo el Rey) e l'altro dato in Messina (die primo mensis Novembris Nonae Indictionis anno a Nativitate Domini Millesimo Quingentesimo Trigesimo Quinto, con l'istessa sottoscrizione yo el Rey), come nel libro delle Grazie registrati ne stanno.

E' stata questa città decorata con la preeminenza d'eligger per bussolo due Patrizi, in questa forma: otto nobili di mastra si metteranno in bussolo, ed uscendone due, quelli che usciranno saran li Patrizi, come costa per privilegio concesso dall'eccellenza del Signor Don Giovanni de Vega all'or Vicerè in Sicilia, dato in Palermo Die XXIII Decembris XI Indictionis 1552; e come per esecuzione di detto, ho ritrovato più sottoscrizioni nelle presentate delle lettere di Giustizia (..Chiancius de Baldo unus ex Patritiis civitatis Nicosiae).

Questa vetustissima città ogni re di Sicilia l'ha con occhio sempre benigno e grazioso aspetto guardato, ed i loro luoghitinenti lusingando il genio reale, non han lasciato che grazie singolari, ed alla di lei fedeltà convenienti onori.

L'eccellenza del Sig. Marchese de los Veles, Vicerè e Capitan Generale, si degnò dar privilegio alli Giurati di questa, che li sia dato di "Spettabile" il titolo perpetuo, dove si dice:

Ex parte suae excellentiae, obligandose a pagar alla R.C. quattro centos onzas dentro de un anno para la fabrica del Capo Paxaro se les de luogo titulo de spettabile de ague adelante alos Giurades presentes y futuros perpetuamentes, Datum Panormi Die 13 Novembris 1607

con la sottoscrizione El Marquez de los Veles e per atto di ricevuta di dette onze quattro cento pagate a Gio. Vincenzo de Ganga della città di Noto, come

procuratore eletto per sua Maestà e per la R.C. del Real Patrimonio in virtù di lettere date in Palermo a 13 Agosto Indictionis 1609 per lo spettabile Don Giuseppe Gallo, uno delli Giurati della città di Nicosia, per apoca di ricevuta agli atti di Notaro Giovanni de Evandro Neetino sotto il dì 8 del mese di Settembre g.e Indizione 1610.

Filippo IV re delle Spagne e della Sicilia, trovandosi per le molte guerre astretto a dimandar di denaro soccorso, avendo la città di Nicosia come Costantissima e sempre fedele a' suoi re, per via dell'eccellentissimo Principe di Paternò, offerto asborzarli di dodeci mila scudi la somma, le fa la seguente lettera:

Il Rey A los Fieles y Amados Iurados de la Ciudad de Nicosia, magnificos Fieles y Amados nostros, del prencipe dè

Paternò mi primo presidente y Capitan General en esso Regno entendereis de stado en que el y dos de mas de mi Monarchia se hallan per las guerras tan continuados que estos annos han tenido contra los emulos desta corona y enemigos de nostra Santa fee Catholica per los accidentes tan extremos, que aminazan particolarmente en Italia con las imbasion que los Franceses han hecho en mi estado de Milan, deque ressulta ser urgente y precisa la necessitad que insta estade aventurada no solo mi Monarchia sino la Religion y su la libertad lo qual obliga à que todos mis regno se agan lo possibile en lanze tan apritado para vedir este anno que viene al riparo de tanto danno come se premete a exemplo delo que sehaze en esto mis reynos de Castillas los des mas que Dios me ha encomedato pues' sobre mas de doze millonze con que me, servieron en l'anno, mi serviren agora con atros diez y

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mas y assi me ha parecido de mas de lo que el dicho prencipe os di racerca desto significares la satisfacion y confianza con que quedo de que conforme a nostra gran fidelitad, es amor mi servirezze con la quantitad aiustada a lo que entenderedes de dicho Prencipe fiando de la finezza y prontitud con que siempre acudis à mi servitio de Madrid à 27 Agosto 1638.

yo el Rey

E' stata pure a questa città grazia concessa del Refugium Domus, a guisa della città di Palermo, per coloro che sono debitori ad alcuno; ed anche di reedificare li Casaleni depersi, con depositare in due soluzioni il prezzo di quelli, giusta delli maestri in tal mestiere eletti la stima, col fare il deposito in potere del Mastro Notaro delli spettabili Signori Giurati, e qualsisia creditore non possa agere contro i compratori, ma solo sopra il Deposito fatto, ne meno contro la fabrica eretta, e li detti spettabili Giurati possano in altre usar toga, e due Mazzieri ben vestiti nelle loro famose comparse, ed il Capitano della città voglia inanzi di esso portar otto Alabardieri per privilegio. Datum Panormi Die 3 Martij VI Inditionis 1638.

Inoltre l'istessa Maestà di Filippo IV, re delle Spagne e della Sicilia, nell'occorrenza di bisogno, fece un'altra lettera alli Giurati di questa, conoscendo la fedeltà esperimentata più volte:

Il Rey

Alos magnificos Fieles y Amados nostros Iurados della Costantissima Ciudad de Nicosia. Fieles is Amados nuestros. Aunque es notorio en todas partes del estado en che sè halla mi Monarchia y el

extremo y necessitad à que sè ha reducido mi real patrimonio per las prevenziones, y assistenzias milateres que ha sido forzado hezer toda via lo entendereis conmas particolaritad del Prencipe dè Paternò que al presente governa esso Reyno à qui en me remito y como ha sido in esarsable valerme tambiande avestra ayuda para la continuacion de dichas assistencias y assions encargo que acudays do que el prencipe os significarò en mi nombre con el zelo y affatto; que de vostros espero Aziendo tal demostracion que me quede memoria della para hazeros merced en las occasiones que se os offrezioren de Madrid a 2 April 1638.

yo el Rey

E' stata di più questa Costantissima e fidelissima città decorata col nobilitarla l'istesso re di Senato, con tutte quelle preeminenze annesse, che nell'altre città fioriscono, e con titolo d'Illustrissimo che godono, e tutte quelle grazie concesse d'esenzioni, prerogative, onori e privilegi, come pienamente si vede per la mercede encomiastica di Senato concessale dall'Eccellenza del Vicerè all'ora regnante, che fu l'eminentissimo Cardinal Trivulzio, in cui si da principio:

Philippus etc.: Locumtenens et Capitaneus in ha regno Siciliae Ill.bus Spett.bus Magnificis, et Nobilibus Regni ejusdem officialibus Majoribus, et Minoribus quatenus deinceps Iuratos ipses civitatis Nicosiae appellant, habeant, reputent pro Senatoribus, et civitatem ipsam pro Senatu cum omnibus prerogativis, honoribus, titulis, privilegiis immunitatibus, et gratiis, etc. Datum Panormi Die Septimo Junii 1648. Il Cardinal Trivultio .

Da quanto fin'ora si è detto, chiaramente si scorge il pregio, stima e concetto della nostra città appresso il re di

Sicilia, Imperadori e loro luogotenenti, mentre l'han decorata con tante preeminenze, grazie e favori, con esaltarla infino alle stelle, ma quello che ogn'altro eccede, essendo un tempo col nome di terra, ebbe il Sindaco, ed un dè Giurati più volte col titolo d'Ambasciadori, quando occorreva mandarli l'Università a parlare con regi e Capitan Generali del regno, e che i propri Nicosiensi sudditi e regii vassalli siano stati con tali preeminenze fregiati, non ad altre terre e città di questo regno concesse, è argomento chiarissimo concludente che in grandissima stima fu l'osservanza ossequiosa alli re delli cittadini di questa, sono glorie tutte della nostra Erbita Nuova, che gareggia con le repubbliche più cospicue del mondo.

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TITOLI DI NICOSIA CAP. X

Varii furono della città di Nicosia li nomi, or Erbita, or fan Nicolò, or Nicosia alla fine appellossi, come si è

pienamente nel primo libro provato; d'altri tanti titoli è stata delli regi di Sicilia onorata. Ella fu dagli Erbitensi fondata sull'eminenza d'un fastoso monte, così hanno le Corone cercato con titoli sollevarla

alle stelle; portò dall'uturo d'Erbita le fecondità ubertose, che però ne venne da Cicerone chiamata fra l'altre città ella sola di Roma indeficente granaio, volendo egli dire che la frugalità in essa sola fioriva, Nicosia che negli andati tempi e presenti, è stata quella con le sue abbondanze di frumenti, ed altri viveri ha dato copioso sollievo alle città e terre del regno.

Non s'ambisce in ciò di scribenti apportar le dottrine, che sono alle volte del proprio capriccio deliranti fantasme, ma chiaramente s'have veduto dagli addotti privilegi nel capo trascorso, come pure di Costantissima e fedele i titoli francamente si pregia, corrispondendo in somma alla costanza del sasso, sovra cui ella erge il suo fasto superbo, o perchè sempre costante a' suoi regi ne trasse l'epiteto di città Costantissima, o perchè ella è con donativi di considerazione ed uomini mandati alli servigi reali sempre mai mostrata indefessa, questa è pruova che la dichiara costante; e però di Costantissima con molta ragione encomiata ne venne, perchè i cuori de' Nicosiensi dalla fedeltà alli regnanti dovuta sempre s'han dimostrato d'un animo, la fede da' sudditi resasi con invidiabil fermezza viene da' regi sommamente gradita, e chi giammai potresse celebrare per costante al pari di questa, mentre nella profizia ed aversa fortuna de' Coronati si è palesata uniforme al traballar dell'altre città, ella imperterrita ha la costanza sopra immobile base piantato, e se alcune de' Gerioni s'han mostrato, questa da Scevola sempre salda ne' suoi propositi, non han paventato cozzarla con la morte.

Titolo che in se stesso, come in erario famoso, tutte le preeminenze immaginabili della terra raschiude, e se tutte l'altre virtù il costante nel seno contiene (come disse il Peraldo: "Costantia generalis, quae attenditur in perseverantia propositi, quae omnem virtutem circuit), palesa coll'esser costante chiamata aver di tutte le virtù l'aggregato: solo gli accidenti impensati pruovan la fermezza di un petto maschile, ove s'opera con costanza, ogni pericolo immaginato svanisce, però di quella i figli con Zanclei imbarcati alla volta di Costantinopoli in aiuto d'Arcadio partirono, il che successe l'anno del Signore quattro cento trenta (anni di Cristo 430), questo Imperadore d'Oriente da' Nicosiensi e Messinesi nell'assedio de' Bulgari liberato ne venne, come nel capo seguente dirassi, e perciò decorò Nicosia in riconoscenza di un tanto servigio con l'insegna di una candida croce, che in campo rosso ne spica, dando a diveder a' posteri che la candida fede de' nostri galleggiò in un mare di sangue sbuccato da' corpi de' Bulgari, e ben dovea di tale insegna arricchirli, poichè de' Nicosiensi la gloria tra gli astri vitali di coloro nuotava.

A' Messinesi poi fregiolli con una croce rossa in campo d'oro, essendo stemma che rende vittorioso chi nelle guerre l'imbraccia, poichè "in hoc signo vinces", e negli assalti più fieri trionferà della morte.

Tutto questo nelli manoscritti del nostro Vincenzo Falco si legge, e nel privilegio Arcadio si scorge là in Messina, e da tal giorno lampeggiante a lor prò chiarori di glorie, l'una e l'altra s'han chiamato sorelle.

Come anche riferisce il Padre (a) Passaflumine, di Nicosia già parlando: "Temporibus dehine Arcadii Imperatoris Cruce alba in campo rubeo fuit in signum gratitudinis decorata: nam Messinenses, et Nicosienses eundem Arcadium ab hostili invasione abstulerunt".

Dandole Arcadio a Nicosia il titolo di Costantissima, che per maggiormente assodarsi avendone ella di tal privilegio smarrita la copia, l'ebbero confermato nell'anno del Signore 1528 dall'Eccellenza del Duca di Montalbano, in quel tempo Vicerè di Sicilia.

Del titolo di "Fedele" pienamente si è già di sopra discorso, e delli privilegi che tiene, apertamente veduto.

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DELLI COSTUMI DELLI NICOSIENSI CAP. XI

Il benigno aspetto del cielo e le amenità delle campagne fa argomentare a chi a senno, quali sian degli abitatori li

costumi, non è mestiero mendicare d'autori antichi e moderni le pruove, quando l'esperienza a chiari caratteri lo palesa ad un mondo: sono i Nicosiensi d'acutissimo ingegno, però sospettosi e nella malizia periti maestri, adulatori, esaltano chi si truova presente, con gli assenti si palesano da' nomi; superbi che l'uno all'altro non cede, di novità anelanti cervelli, invidiosi a tal segno che di penne di corvo vestono i bianchi Alcioni, a loro convenedo di Sanazaro il detto famoso "L'invidia fratel se stessa macera".

Quando non posson con altri sfogarla, loro stessi uccidono, vendicativi, al sommo facili all'ira, oziosi, e con molte lingue favellano. Come gli influssi celesti influenzano le cose (come disse dell'Astrologia il Maestro), così riescono agli abitatori di questa, inchinandoli alla natura del paese, e però sono da tali passioni vessati, e ne vengono alle virtù o alli vizi portati.

L'esser la nostra città fabricata sovra colli eminenti e valli, rende alcuni paesani incostanti, arguti ed astuti nel parlare, nell'inventare sottili, nel governo prudenti, in tutte le facoltà scientifiche letterati e fecondi; in tutte le città nelle arti periti, esercitati nell'armi, amici degli esteri, poichè se questi una volta v'entrano, non trovano adito all'uscita, benchè ella sia tutta porte; fra loro inemici, che si perseguitano a morte.

Tutto ciò che si è detto non è in tutti egualmente disposto, poichè molti vi sono i quali sulla natura trionfano, e sanno tenere a freno le lor passioni.

Gente bellicosa, nelli manoscritti si legge quel memorabile fatto d'armi nel capo trascorso di passaggio toccato, nell'anno del Signore 430.

Regnando Arcadio in Costantinopoli dell'Oriente Imperadore Supremo, il suo Governatore Ruffino (che tenea impastata di brio la natura, e governata d'ambizione suprema) pretendea della terra, Lucifero arrogante, incoronarsi d'oro le tempia, con arte più di bestia che d'uomo, sollecitando i Goti ed altre Nazioni più barbare ad impugnar l'armi, con intimar guerra a quei popoli dell'Imperadore soggetti e fedeli, i quali l'havean di già per traditore scoverto; la superbia in un uomo già lo mostra non aver capo nel corpo: stimò impiego ordinario l'esser Governadore, domentre volea imperare.

Il cielo, giusto vendicator de' Nembrotti, non andò molto che lo fece castigare, dagli esattori della nostra caducità, a pagare il dazio finale, mentre fu dagli Italiani fedeli ad Arcadio con fine infelice della vita privato.

I Bulgari dall'ampie e liberali promesse del detto Ruffino allettati, contro Arcadio i scudi imbracciarono ed imbrandiron le spade, e ridussero l'Imperadore a si' miserabile stato che non puotè valersi delle proprie forze già estinte; non bastante il brando impugnare, si valse della penna per lettere officiose, chiedendo da molti regni il soccorso da tutti negato, poichè l'oppresso indarno cerca l'altrui sollievo, i cuori che ambiscon la pace non si piegan di Bellona alli prieghi quando uno è ridotto dalli nemici all'angustie, non vi è chi a lor dia l'assalto, tanto maggiormente quando li mira vicini agli applausi e d'incoronarsi vittoriose le tempia d'alloro: solo dagli Erbitesi e Messinesi molti valorosi campioni su le candide ali delle navi confidarono il lor valore all'indiscrezione de' venti, i quali dal cielo imploravano propizi, e questi alle lor brame arridendo, fra breve spazio di tempo arrivarono di Costantinopoli alle sponde bramate, e giunsero in Tessalonia, ove nelle campagne Arcadio fu rotto, ed in esse rifugiato, l'assediavano i Bulgari; ed allor che sbarcati fermaron sopra la terra le piante, molte teste calcar presumeano, al suon delle trombe ed al fragor dell'armi tremava la terra, ed a' Bulgari al suolo presagiva la tremenda caduta.

Sfoderaron le spade pendenti dal fianco, si vidde mentr'era ne' suoi chiarori il cielo che da quelle destre vibravan lampi, o per dir meglio scoccavan fulmini, cantavano i Siciliani più morti de' Bulgari che colpi, poichè molti di questi dal terror di que' baleni tremendi prima d'esser feriti, esalavan la vita.

Scompigliato l'esercito, vittoriosi restarono i Nicosiensi e Messinesi, e così rimesero Arcadio quasi dal trono caduto. Che siino stati i Messinesi così valorosi, il Bonfiglio volendo le glorie di questa città collocar sul trono, già scrisse (e

sono da Tolomeo nominati per più famosi questi popoli, cioè Messeni, Siracusani, Catanesi ed Erbiti), ma nonostante il Buonfiglio rapporti nella sua "Sicilia" (Sicilia par... lib... fol.74) mutilato quanto a favor di Nicosia nel privilegio di Arcadio era scritto, stimasi che per far solo della sua patria le prodezze spiccare. abbia quelle della nostra estinte, poichè ogni nano scrivendo i fasti superbi della sua Genitrice feconda non si arrossisce abbassare quelli degli altri forse migliori, con non averli addotti giusta l'originale che tiene; ma non mi lascian mentire li manuscritti che tengo, dalli quali ho cavato quanto fin'ora si è detto, ed anche il nostro Poeta Latino ne' suoi encomiastici metri, ingegnosamente cantò, ed io non posso propalare il vero ch'occorse:

"Herbita stemma crucem tenuit clarissima victrix stemma clara crucem sub campo insignia rubro, pinxit nam Arcadius Scetriger illa dedit propterea urbs constans Zancle germano vocatur. Hoc diplomatibus nobilis urbs ondem(?)".

Ne men di questo e quell'altro, quanto i fatini che quest'abitavano, i quali spogliar pretesero i Greci che d'Erbita Antica nella Nuova passarono, e di molte lor giurisdizioni godeano; dopo molte sanguinose contese, vennero un giorno con l'armi alle mani a sfidarsi per dar fine con la vita degli uni o degl'altri, in compagne ad una lite si' fiera. Uscirono dalla città ben armati in un luogo prefisso, che dopo di questo fatto in più scritture di parecchi Notari è descritto come Serrabattaglia chiamarsi, dal suon delle trombe e tamburi marziali avvivati, quelle da' fiati inviperiti animate, mandavano suono così terribile che l'aria stessa assordava, e questi da mani infierite percossi entrambi gli animi suscitavano a combattere da prodi; giunti al destinato campo fatale, non lungi dalla terra dove la morte avea fatto innal-

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zare il suo trono (era questo luogo un superbissimo piano sovra una collina disteso), diedero il segno alla zuffa, che li sfidava alla battaglia; non udì mai l'orecchio di Marte si' terribilissimo suono al lampeggiar degli acciai che sfoderaron da' fianchi, nel fender l'aria parea che cadesser saette dalle nubi scoccate e non dalla destra umana, gli scudi a si' fierissimi colpi non eran bastanti a resistere, ma divisi per mezzo lasciavano libero il varco alle spade per più facilmente ferire, e se qualcheduno fosse stato di tempra si' fina che puoteva resistere, era di quel colpo tale il fracasso che parea un rimbombo di tuono; vedeasi quinci, e quindi cadere gli estinti e moribondi al suolo, di questi non si udivan gli omei allo strepitoso fragore dell'armi; sgorgava dall'ampie ferite a torrenti il sangue, il quale sopravvanzando i colli, portava a galla come il Mar Rosso gli estinti; e per i moribondi, invece di dar vita, quello serviva per l'efusione ad accellerarli la morte.

Avendosi il Castel di Mistretta, o Casalotto come dagli antichi autori ed Istoriografi venne chiamato, dilatatosi per l'accrescimento de' popoli, e di giorno in giorno avanzandosi nell'ampiezza del sito, crebbe una vasta e popolata terra, e scuotendosi il giogo della servitù odiosa ancor da' Nicosiensi non ambìto il dominio, e poscia col nome di città decorata da serva d'Erbita Antica divenne emulatrice di Nicosia, e competitrice superba, nonostante esser rampollo di quella, tentò i suoi confini slargare col prender d'un feudo possesso.

Gli animi invitti de' Nicosiensi, germi generosi di quelli Alcidi tremendi degli Erbitensi famosi, non potendo tollerar tal'ardire, già aveano più volte dimostrato il loro bellicoso brio, due volte in diversi tempi vennero all'armi (leggi severe inventate da' popoli per decidere senza provista di tribunali maggiori quello ch'a lor capo resembra giustizia), e dopo molte sanguinose battglie, restati i Nicosiensi con le palme alle mani per li vittoriosi trionfi ottenuti (il chè è stato origine in questi due popoli di perseverare inimici), restò del "Contrasto" al detto feudo il nome, il quale è tra li limiti dell'una e dell'altra città situato, e se non provedea il Tribunale del Real Patrimonio arrogandolo alla Zienda Reale, ancor si vederebbero guerre intestine.

Il nostro Poeta Latino considerando di questa le gloriose imprese, così cantando, ne scrisse: "Plura fuere viris hac gesta sub urbe superba que nemo poterit dinumerare canens". Sono ancora di Erbita Nuova i popoli tutti dedicati a' guadagni, gente che non sà star oziosa e questo la rende

ammiranda, si è che quasi senza acqua corrente vicino la città, dove fanno gli ortaggi, pure questi così fertili palesansi con adacquarli a forza di mano e di braccia, che riescono stupendi.

Le donne ancor attendono a' lor lavori, e ve ne sono si' perfette nel tesser lini e lana in varie sorti con fiorami di rilievo si' grati alla vista, che paion rasetti o velluti; compongono certi tapetti di lana a' telari di si' ammirabil testura, imitatrici delli tessitori di Frigia, e trasportano ne' lor telai i vivi parti di Flora, della Icania le fiere così al naturale, che fiuti dagli aghi portan pure terrore.

Saranno discendenti di queste donne che Ruggiero re di Sicilia, figlio del Conte Ruggiero, nell'anno del Signore 1151, avendo scorso l'Europa da dove facea scelta di nobili e ricche Donne, ritornato poi in Sicilia, alla fine fatta pace con l'Imperadore Manuele, diede la libertà tanto cara a' cattivi, riserbando però alcune Donne perite nel tessere; e così tal'arte oggi fiorisce.

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DELLI MAGISTRATI E TRIBUNALI CAP. XII

In questa città, per suoi Tribunali, la Giustizia amministrata ne viene ad ogn'uno, nelle cause Criminali e Civili;

presiede un Capo che Capitano si dice, esser questo cittadino nobile di Mastra, a cui è stato concesso, per mantenere la dovuta autorità, un decoro di otto Alabardieri, un Portiero Algozino, con la verga di giustizia, dieci Compagni armati ed altri tanti di rispetto chiamati da noi nell'occorrenza di ladri; il Portiero e gli Alabardieri precedono il Capitano (il cui Tribunale tiene i suoi Officiali, Magistrati, Giudice, Avvocato Fiscale) e il Mastro d'atti di detta corte per mercede reale (ch'è proprietario), chiamato col titolo di Barone, con tutti gli altri suoi Officiali minori: in esso si riconoscono le cause così urbane come rurali, a lui per esser capo supremo.

Vi è inoltre il Tribunale del Senato, che costa di sei Giurati Nobili che Senatori vengon detti, ch'amministrano della città il governo, Uffizio di grandissimo onore rappresentando la Maestà del Real personale: questo illustrissimo Tribunale non solo è servito da due Mazzieri togati di velluto chermisino rosso con lo stemma della propria città, ma d'altri Officiali minori con le loro livrie di rosso consistenti in sei pavonazzo over Contestabili, e quattro Trombettieri che, quando dalla lor corte fanno l'uscita per qualche comparsa, rassembrano agli occhi comuni un decorato trionfo; tiene il Mastro d'atti mandato perpetuo col titolo di Barone per mercede reale.

Vi fa pompa il Conseglio di quaranta persone, cioè 20 Nobili e altretanto Artigiane, le quali ogn'anno s'eliggono per iscruttinio, e questi sono coloro che nominano i Senatori per esser dal Vicerè confirmati.

Costoro si radunano nella Sala capace del Palazzo della lor Corte con l'istesso Senato, quando si deve discorrere delle cose importanti sul governo politico del publico e particolarmente della Città, per dar anche li prezzi a' formenti, orzi, musti, vini, formaggi ed altre cose commestibili. Questa Corte ha i suoi Ministri Maggiori, come il Consultore, Tesoriero, Secretario, Detentetore, Proconservadore, Archiviario, ed altri Officiali minori.

Da un altro Tribunale, che conosce le cause Civili, è questa decorata con li suoi Ministri, Giudice e Mastro d'atti, che in questa Corte si fanno, ed altri Officiali minori.

Il quarto Tribunale è dell'Appellazione, formato di Giudice, Mastro d'atti, ed altri Officiali minori. Il quinto Tribunale Perpetuo è quello del Secreto Reale, e tiene il suo Giudice, Mastro d'atti, Serviente, ed altre

preeminenze decorate, e sopra ogni altro ha incombenze a tutte le cause a favore del reale patrimonio; quest'ufficio di Secreto è appropriato col titolo di Barone, al capo della famiglia Speciale, e tiene sopraintendenza nella sua Comarca, che sono le città di Capizzi, e le terre di Gangi, Sperlinga e Villadoro; di più presiede il Militare, al quale tiene la sovraintendenza il Senato e Proconservadore, e consta di Cavalleria e Fanteria: la prima è governata da un Alfiere, di condizione circospetta, che in suo potere conserva uno Stendardo con lo stemma Reale e quello della Città, e sotto di sè tiene 50 soldati a cavallo, 4 soldati di questi cittadini e 3 della terra di Gagliano con una trombetta; la seconda viene governata da un altro Alfiere, che per lo più si eligge persona nobile, che in suo potere conserva una bandiera con l'istessi stemmi, e comanda 190 fanti, 150 di questo suolo e 40 della riferita terra, che consta del medesimo Alfiere, un sergente maggiore, sei caporali o vero capi di squadra, e due tamburi, ed il resto soldati semplici valorosi della più fiorita gioventù e mastranza, che quando esce da questa Città par che ponghi paura a chi la vede.

Oltre di questi vi sono il Giudice del Regio Appalto, tanto per questa città quanto per tutta la sua Comarca, che consta di un Giudice sostituto, Assessore, Mastro d'Atti, Fiscale ed un Portiero.

Quello della Reale Zecca, che pure consta di un Giudice, Mastro d'atti ed un Portiero. Quello delle Saline, che anche fa la sua Corte intiera, cioè Giudice, Mastro d'atti e Portiero, e dieci Forati. Anche lo stato spirituale fiorisce con aver le sue corti, come il Vicario Foraneo, che la sua giustizia amministra

decoratamente con i suoi Ministri, Assessori, Mastro d'atti, Procurator Fiscale ed alarii; v'è il Visitator di Giustizia dal medesimo Ord.rio creato, come il Visitator de' Monasteri di Donne claustrate, e il Delegato de' Legati per cause pie.

Non manca in questa Città il Commissario dell'Inquisizione Santissima, uno degli assegnati nella concordia, Officio di molta autorità ed onore, e l'amministrano sempre persone Ecclesiastiche in dignità constituite; formano i Signori Inquisitori da Palermo il suo Capitano, Recettore, Mastro d'atti, venti famigliari, quattro Portieri, Espurgatore di libri e Preti onesti: esso tiene giurisditione non solo in questa Città e territorio, ma anche in altre terre e luoghi del suo Distretto.

Presiede il Delegato Ordinario del Tribunale della Reale Monarchia con i suoi Officiali dovuti. Come anche il Commissario della Crociata Santissima con la sua corte formata. Non v'è un Tribunale che manchi in questa Città fioritissima di tutte le preeminenze immaginabili: si chè può

francamente vantarsi essere delle Mediterranee Eroina, ed a nessun'altra la cede.