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1 Nomen Nomen Nomen Nomen omen? omen? omen? omen? 1. 1. 1. 1. Le funzioni del nome. Le funzioni del nome. Le funzioni del nome. Le funzioni del nome. Tra le funzioni dell’attribuzione di un nome (proprio) nelle diverse società umane, gli antropologi hanno messo in evidenza l’importanza dell’identificazione e della classificazione. La prima è finalizzata a distinguere: il riferimento-nome è utile a riconoscersi quando si viene chiamati e nel contempo serve a essere riconosciuti. Si tratta, chiaramente, di finalità sociali, che operano nell’ambito di gruppi. Attraverso il nome, infatti, una singola persona è individualizzabile, distinguibile all’interno di un insieme di altre persone, più o meno esteso. La funzione di classificazione serve, in modo complementare, a rinviare a una serie di appartenenze (familiari, tribali, politiche etc.). Il nome partecipa così della fondazione identitaria di ciascun individuo, assicurando la sua integrazione all’interno della società e concorrendo alla definizione della sua personalità, sia singolare sia sociale. 2. 2. 2. 2. Il nome nel diritto positivo italiano Il nome nel diritto positivo italiano Il nome nel diritto positivo italiano Il nome nel diritto positivo italiano. . . . – Proprio tale rilevanza del nome fa sì che il diritto oggettivo s’interessi alle modalità della identificazione personale, predisponemdo regole, che da una parte ne stabiliscono la composizione e ne

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Nomen Nomen Nomen Nomen omen?omen?omen?omen? 1.1.1.1. Le funzioni del nome.Le funzioni del nome.Le funzioni del nome.Le funzioni del nome. –––– Tra le funzioni dell’attribuzione di un nome (proprio) nelle diverse società umane, gli antropologi hanno messo in evidenza l’importanza dell’identificazione e della classificazione. La prima è finalizzata a distinguere: il riferimento-nome è utile a riconoscersi quando si viene chiamati e nel contempo serve a essere riconosciuti. Si tratta, chiaramente, di finalità sociali, che operano nell’ambito di gruppi. Attraverso il nome, infatti, una singola persona è individualizzabile, distinguibile all’interno di un insieme di altre persone, più o meno esteso. La funzione di classificazione serve, in modo complementare, a rinviare a una serie di appartenenze (familiari, tribali, politiche etc.). Il nome partecipa così della fondazione identitaria di ciascun individuo, assicurando la sua integrazione all’interno della società e concorrendo alla definizione della sua personalità, sia singolare sia sociale. 2. 2. 2. 2. Il nome nel diritto positivo italianoIl nome nel diritto positivo italianoIl nome nel diritto positivo italianoIl nome nel diritto positivo italiano. . . . –––– Proprio tale rilevanza del nome fa sì che il diritto oggettivo s’interessi alle modalità della identificazione personale, predisponemdo regole, che da una parte ne stabiliscono la composizione e ne

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determinano la stabilità (art. 6 Cod. civ.), e dall’altra ne tutelano (in via sia inibitoria, sia risarcitoria) l’utilizzazione (artt. 7, 8 Cod. civ.). Il nome gode peraltro, nel nostro ordinamento, di una difesa di livello costituzionale: secondo l’art. 22 della Carta nessuno per motivi politici può esserne privato (la norma accomuna il nome alla cittadinanza e alla capacità giuridica). Come diritto costituzionalmente protetto, quello al nome (“personalissimo”) è assoluto, inalienabile, imprescrittibile. Nel diritto italiano, il nome è composto da un cognome tramandato, che indica l’appartenenza a un gruppo familiare (e, tradizionalmente, è quello della famiglia paterna), e un prenome, che individua il singolo, normalmente attribuito dai genitori. Questo nome (cd. nome civile) è soggetto a pubblicità nei registri dello stato civile: come tale non è passibile di mutamenti se non all’esito di procedimento amministrativo o sentenza. L’ordinamento, accanto a questo nome ufficiale, tutela anche il cd. pseudonimo (denominazione che il soggetto si autoattribuisce), qualora abbia acquisito, per l’uso (solitamente per motivi attinenti all’arte o alla professione del soggetto), l’importanza del nome (art. 9 Cod. civ.; art. 8 della L. 633/1941 sul diritto d’autore). Trattandosi di uno strumento di integrazione sociale (che deve evitare isolamenti ed emarginazioni), il nome e il cognome possono essere modificati (ovviamente, come si è già accennato,

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tali cambiamenti hanno carattere eccezionale, vista l’importanza del segno identificativo, e sono ammessi – attraverso un procedimento amministrativo disciplinato dagli artt. 84 ss. del D.P.R. 396/2000 – esclusivamente in presenza di situazioni oggettivamente rilevanti e di significative motivazioni; ad esempio nel caso in cui il cognome sia ridicolo o vergognoso o perché riveli un’origine naturale: art. 34 D.P.R. 396/2000). 3.3.3.3. Il nome romano.Il nome romano.Il nome romano.Il nome romano. –––– La storia del nome affonda le sue radici nell’antichità più remota. La tradizione romana antica dei tria nomina (i “tre nomi”) ne rappresenta uno stato già alquanto avanzato. In età medio- e tardorepubblicana si era stabilizzato questo uso: ciascun Romano (maschio) si identificava (normalmente) con l’utilizzazione combinata di un prenome, di un nome gentilizio e di un cognome. Nell’uso ufficiale si aggiungevano anche il patronimico e talvolta il nome del nonno (in alcuni casi anche l’indicazione della tribù, distretto territoriale di appartenenza). Marcus Tullius Cicero costituisce il nome completo del noto oratore e uomo politico del I secolo a.C., dove Marcus è il prenome, scelto dal padre e assegnato al figlio al momento della nascita. Tullius è il gentilizio, che indica l’appartenenza alla gens, ampio gruppo familiare (che nell’età più antica conservava una struttura di tipo politico) i cui membri, non avendo memoria della (presunta) comune origine, si

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riconoscevano, appunto, nel nome condiviso. Cicero è, infine, il cognome, una identificazione di uno specifico ramo nel più ampio ambito della gens. Tra Cicerone e suo fratello (che ovviamente appartiene alla stessa gens e alla stessa familia) la differenza (e dunque l’identificazione) sta nel prenome: Quinto invece che Marco. Nei documenti ufficiali Cicerone aggiungeva M.f.M.n.: l’indicazione patronimica: “figlio di Marco, nipote di Marco”. Secondo una tesi storiografica che ha avuto un certo seguito, il nome gentilizio avrebbe origini composite, potendosi collegare a numerali (ad esempio per le gentes Quinctia, Nonia e Decia), a caratteristiche fisiche o attitudini lavorative (ad esempio: i Flavii, la gens dei biondi, i Nauti, navigatori o battellieri), a credenze totemiche (con riferimenti a nomi, ad esempio, di animali: Asinii, Porcii). L’appartenenza alla stessa gente, in età storica, oltre a determinare alcuni riti religiosi comuni, ammetteva alla tutela e alla eredità legittima del gentile, quando mancasse un parente più prossimo. Il cognomen, nella storia romana affermatosi in epoca molto più recente rispetto al nome gentilizio, derivava anch’esso frequentemente da un soprannome indicante una caratteristica (di solito fisica) di un membro della famiglia (poi trasmesso ai suoi discendenti maschi). Per comprendere: Cicero richiama cicer=“cece”, probabilmente per un’escrescenza dalla forma di

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quel legume. Nel principato le cose si complicarono molto, in seguito all’uso, nell’ambito dell’aristocrazia, di accumulare i cognomi e di aggiungere al proprio anche il gentilizio della madre. Diversa l’onomastica muliebre (corrispondentemente alla differente posizione giuridica e sociale della donna). Se per l’età più antica ci sono attestazioni di qualche prenome, accanto al gentilizio, per l’epoca medio- e tardorepubblicana il nome femminile corrisponde a quello della gens: le sorelle si distinguevano tra loro con l’aggiunta di un qualificativo che ne indicava l’ordine di generazione (Antonia maior e minor; Aemilia prima e secunda). 4. L’autonomia gentilizia.4. L’autonomia gentilizia.4. L’autonomia gentilizia.4. L’autonomia gentilizia. –––– Per quanto riguarda la storia più antica delle gentes si ricordano interessanti provvedimenti relativi ai nomi (più precisamente: ai prenomi) dei loro membri. Esistono infatti attestazioni di divieti di portare determinati praenomina, validi a livello gentilizio. La questione è interessante sotto diversi punti di vista. Il primo è una specie di autonomia normativa della gens. Pur appartenendo completamente alla civitas, cioè alla città politicamente organizzata, e sottomettendosi al suo sistema giuridico, che era condiviso con gli appartenenti a gentes diverse, le antiche compagini familiari conservavano alcuni margini di indipendenza

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e di autoregolamentazione. Secondo la tradizione questa autonomia gentilizia era in età risalente tanto estesa da giungere fino alla autodeterminazione bellica: ancora nel 478 a.C. (ma è l’ultimo caso attestato) una gens patrizia, quella dei Fabi, condurrà una guerra privata contro la città etrusca di Veio. La conseguente terribile sconfitta subita dai Fabi costituirà la fine di quest’uso e la definitiva sottoposizione militare delle gentes alla politica cittadina. 5. Divieti gentilizi di attribuzione di prenomi.5. Divieti gentilizi di attribuzione di prenomi.5. Divieti gentilizi di attribuzione di prenomi.5. Divieti gentilizi di attribuzione di prenomi. –––– Per quanto riguarda l’attribuzione dei nomi, l’autonomia gentilizia risulta particolarmente rilevante, anche perché le fonti ci mostrano le modalità di decisione (decretum e consensus gentilizio, in particolare). Il primo caso noto è quello relativo a Marco Manlio, che nel 384 a.C. fu processato e messo a morte per aver “aspirato al regno” (una delle fattispecie di reato più gravi durante la Repubblica). Cicerone, nella prima orazione Filippica (Phil. 1.13.32) ricorda che, a causa dello scelus (cioè il crimine particolarmente nefando) di questo solo Marco, per decreto della gens, da allora in poi nessun Manlio patrizio si sarebbe potuto chiamare con quel prenome. La notizia è confermata, alla lettera, da una fonte storiografica, Tito Livio (Ab Urbe condita 6.20.14), che ripete quello che potrebbe suonare come

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testo del decreto (quod gentis Manliae decreto cautum est ne quis deinde M. Manlius vocaretur). La forma della regola appare essere, in questo caso, una specifica decisione (decretum, appunto), vigente poi (per secoli) nei confronti di tutti i gentiles. I fasti (registrazioni dei magistrati) e più in generale la prosopografia attestano la lunga validità di questa norma gentilizia. Molto simile il racconto, tramandato da Svetonio, il biografo dei Cesari, relativo alla gens Claudia (quella di Tiberio, Claudio e Caligola). Meno noti, rispetto a quello di Marco Manlio, i casi che coinvolsero due Claudi, ambedue di nome Lucio (la fonte è Svet. Tib. 1). Il primo era stato condannato per latrocinium (ruberia, pirateria), il secondo per caedes (strage). A seguito di queste due devianze criminose, la gens stabilì che mai più un Claudio avrebbe potuto portare il prenome Lucio (questa volta la forma della regola non sembra direttamente conseguire ad un atto, ma appare piuttosto di natura consuetudinaria: la gente intera Lucii praenomen consensu repudiavit). Anche in tal caso è attestata la lunga vigenza del divieto. In età imperiale in alcuni casi sarà il Senato a vietare l’uso di determinati nomi all’interno di talune famiglie. 6. La causa dell’inibizione. 6. La causa dell’inibizione. 6. La causa dell’inibizione. 6. La causa dell’inibizione. –––– La tradizione erudita antica (in particolare si v. Gell. Noct. Att. 9.2.11) intende queste

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regole come esito del comportamento illecito e della conseguente messa a morte dei soggetti portatori del nome che acquisisce in sé e per sé una valenza negativa. Le stesse parole che esprimono quei nomi si intendono defamata, infamate e dunque infamanti. Ma – guardando un po’ più a fondo e connettendo all’interpretazione storica un aspetto antropologico – si tratta della costruzione di una struttura di previsione. Se un Marco Manlio si è comportato male (e, di conseguenza, ha messo in crisi l’intera compagine gentilizia) si deve fare in modo che tale comportamento negativo non venga a ripetersi. Una esorcizzazione si ottiene evitando la ripetizione del nome. L’aspetto antropologicamente rilevante è la credenza che l’attribuzione del nome incida sulla persona fino a orientarne i comportamenti. La testimonianza relativa ai Claudi è, forse, in tal senso ancora più esplicita: per determinare il divieto si è atteso in quel caso il secondo Lucio delinquente, quasi che la reiterazione del crimine da parte di due gentiles con lo stesso nome attestasse con qualche grado di certezza la negatività della denominazione e richiedesse, per il futuro, l’inibizione di quel prenome. 7. Tra antico e moderno. 7. Tra antico e moderno. 7. Tra antico e moderno. 7. Tra antico e moderno. –––– La strutturazione di questa credenza, che nel XXI secolo può apparirci “primitiva”, in realtà sta ancora oggi alla base della replicazione dei prenomi in

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ambito familiare o della assegnazione di un nome di un personaggio caro, famoso, di successo, anche al di fuori dello stretto legame di sangue. In Italia, ad esempio, vi è ancora l’uso di denominare il primo nipote maschio con il nome del nonno (seppur mitigata nell’uso, come un po’ tutti i costumi tradizionali). In Roma antica normalmente il primo figlio recava lo stesso prenome del padre ed eventualmente del nonno (come nel caso di Cicerone, considerato più sopra): pratica vietata dal nostro diritto (si v. ancora il citato art. 34 D.P.R. 396/2000) perché, a differenza di quella antica società, nella quale prevaleva la classificazione (di appartenenza a una stirpe), oggi domina l’esigenza di identificazione del singolo. L’assegnazione del nome corrisponde molto spesso a un rito, del tutto irrazionale, che vorrebbe partecipare alla determinazione un futuro positivo per il nuovo nato. Denominare un bambino “Fausto” o “Fortunato” o come un santo particolarmente miracoloso ha questo profondo e antico senso, che rivive (modificato) nel chiamarlo come un abile (e ricchissimo) sportivo o nell’attribuire a una neonata l’esotico prenome di una modella o attrice di successo. E le norme (vigenti) che prescrivono il divieto di attribuzione di nomi ridicoli o strani recano, per converso, la ratio di non doversi turbare lo sviluppo di una personalità attraverso un uso improprio di questo importantissimo segno identificativo, che è destinato ad

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accompagnare il soggetto lungo tutta la vita. Tutto è relazione: il nome è uno dei primi strumenti di contatto con il prossimo; la portata (in termini ampi) sociale del nome ha un effetto sui nostri rapporti interpersonali. La funzione di classificazione fa riconoscere un Marco Manlio come un pericoloso criminale, ma anche un Gennaro X come un probabile napoletano (e – per converso – un Ambrogio Y come un milanese), con le conseguenze che ciascun ambiente e ciascuna persona possono connettere (ma con quale grado di razionalità?) con questo dato. 8. Un caso della prassi8. Un caso della prassi8. Un caso della prassi8. Un caso della prassi. . . . –––– Passiamo, sia pure in breve, all’analisi di un caso della prassi, verificatosi non nell’antica Roma, ma nell’Italia del terzo millennio. La questione è nota per essere stata dibattuta in tre gradi giurisdizionali, fino alla decisione della Suprema Corte (nr. 25452/2008). Due genitori, a Genova, nel 2006, impongono al figlio il nome di “Venerdì” al momento della dichiarazione di nascita. L’ufficiale di stato civile, secondo diritto, solleva l’obiezione della stranezza del nome. I genitori non esprimono la volontà di modificarlo. Il Comune di Genova, come dovuto, segnala il caso alla Procura della Repubblica. Il Procuratore chiede al locale Tribunale la rettifica. Quel Collegio accoglie l’istanza motivando, ai sensi dell’art. 34 co. 1. del D.P.R. 396/2000, che “è vietato imporre al bambino nomi ridicoli o vergognosi”, occorrendo evitare che,

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con l’attribuzione di un tale nome, si possano creare situazioni discriminanti e difficoltà di inserimento della persona nel contesto sociale. In particolare, il Tribunale rilevava che il nome imposto dai genitori al figlio evocava il personaggio romanzesco creato da Daniel Defoe nel noto romanzo Robinson Crusoe: una figura caratterizzata dalla sudditanza e dalla inferiorità, che non raggiungerebbe mai lo stato dell’uomo civilizzato. Di qui la “prognosi” di un probabile disagio per il bambino (e poi anche per il futuro adulto), esposto al senso del ridicolo, in ragione di quello strano richiamo al personaggio letterario. In ciò il Giudice vedeva un limite alla libertà di scelta dei genitori: nel richiamo al sentire della comunità a e al significato proprio dei nomi al suo interno. I genitori proponevano reclamo in Corte d’Appello, chiedendo la riforma del decreto del tribunale e la declaratoria di legittimità del nome imposto al figlio. Secondo i ricorrenti, il paventato senso del ridicolo andava escluso perché quelle connotazioni negative potevano essere proprie solo nella società inglese del XVIII secolo (dei tempi di Defoe, insomma), non certo in quella attuale caratterizzata dalla parità degli individui e anche dalla diffusione di nomi facenti riferimento ad altri giorni della settimana (Domenico, Sabato, Sabatino; in realtà sono nomi della tradizione cristiana, aggiungiamo in questa sede) o, addirittura, ad animali (Lupo, Delfina; ma anche questi sono nomi di santi) o eventi religiosi richiamanti sentimenti

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di inferiorità e di sofferenza (come per esempio Genuflessa, Crocefissa, Addolorata, Incatenata). Tuttavia, la Corte d’Appello di Genova confermava il decreto del Tribunale. La peculiare rilevanza del prenome, quale primo elemento connotativo dell’individuo nella sua proiezione sociale, attraverso la sua comunicazione in ogni contatto relazionale, avrebbe infatti, secondo quella Corte, esaltato il carattere ridicolo e suscettivo di ironia e scherno, proprio del nome prescelto, con un grave nocumento alla persona. Il nome Venerdì, specie nel sentire infantile, corrisponderebbe, dunque, pienamente, a un carattere “inusuale, strano, bizzarro” e perciò da evitare. Non solo: nella tradizione popolare sarebbe connesso con la “sfortuna”. Questa irruzione di un concetto non verificabile razionalmente e oggettivamente nella giurisprudenza dovrebbe far riflettere. A seguito di tale decisione, i genitori, non domi, proponevano ricorso per cassazione, ma la Suprema Corte, avendo ripercorso l’intero svolgimento della questione, con sentenza già citata, lo dichiarò inammissibile, ponendo fine al caso. Dunque, il bambino mantenne il nome impostogli dal Giudice. Forse, a casa, in famiglia, hanno continuato a chiamarlo Venerdì, ma ufficialmente il suo nome è Gregorio. Perché? Perché il Tribunale di Genova, dovendo necessariamente operare una scelta, gli attribuì il prenome

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corrispondente a quello del santo del giorno della sua nascita. Un criterio tradizionale, molto tradizionale. Basato sulla credenza (ovviamente del tutto legittima) che il santo del giorno possa influire positivamente sul suo “protetto”. Si tratta, anche in questo caso (e pur se in maniera non del tutto conscia), di una “prognosi”. Alla previsione dell’influenza negativa del nome “Venerdì” si contrappone quella (non detta, debole quanto si vuole, ammantata di una legittimazione di tipo tradizionale) dell’efficacia positiva del nome di un santo che – essendo quello del giorno della nascita – accompagnerà il bambino (e poi l’uomo). Nient’altro, mi pare, che una struttura di previsione basata sul “destino” di un nome: nomen omen. Erano, poi, così primitivi i Romani? Cosimo Cascione Professore ordinario di Storia del diritto romano Dipartimento di Giurisprudenza, Università degli Studi di Napoli Federico II