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ANNO 52 N.2 MAGGIO 2015 PERIODICO DELL’AZIONE CATTOLICA ITALIANA Diocesi di Bergamo Non di solo PANE

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ANNO 52 N.2MAGGIO 2015

PERIODICO DELL’AZIONE CATTOLICA ITALIANA Diocesi di Bergamo

Non di solo PANE

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ResponsabileLuigi Carrara

RedazionePaola Massi, Paolo Sanguettola, Paolo Bellini, Elena Cantù, Elena Valle, Assunta Elia, don Flavio Bruletti, Mons. Silvano Ghilardi. Amministrazione e RedazioneCentro Diocesano di Azione Cattolica24122 Bergamo, Via Zelasco, 1Registrazione n. 425 del Tribunale di Bergamo del 24 marzo 1964

Progetto grafico e impaginazioneGF Studio - Seriate

StampaAlgigraf - Brusaporto

Orari del centro diocesano di AClunedì, mercoledì e venerdì: 15.00/18.00martedì: 9.30/12.30 - 15.00/18.00 giovedì: su appuntamento

Numeri utilitel. e fax 035 239283; e-mail [email protected]'Azione Cattolica di Bergamo è on line; visita il nostro sito:www.azionecattolicabg.it

Non di soloPANENon di solo pane 1

La realtà sorprende l’idea 2

Un amore più grande 4

La vita offerta a Dio per amore dei giovani 5

L’Azione Cattolica in don Seghezzi 6

Mangia! Devi finire tutto! 8

Inserto - Campiscuola 2015 9

La CARITAS ad Expo 14

Eureka: Insieme funziona! 16

EMMAUS: un’esperienza di sequela 17

Il sapore della vita 18

NOTIZIE E APPUNTAMENTI 20

Per sostenere la stampa associativa e le attività del Centrodiocesano potete effettuare liberamente un versamento sulC/C Postale n. 15034242, intestato a Azione Cattolica Italiana- diocesi di Bergamo. Grazie

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Non di solo pane vive l’uomo mail pane, il cibo, è una condizioneessenziale per la sopravvivenza.Quindi, se oggi – diversamente dacinquanta anni fa, come ci diconogli esperti - la produzione di cibosul pianeta è di per sé sufficiente asfamare l’intera famiglia umana,c’è qualcosa di decisamentedistorto e sbagliato che causa lamalnutrizione e la fame di unapersona su sette. Ben venga alloraun’occasione come quella rappre-sentata da Expo Milano che sti-moli il maggior numero possibiledi persone a ragionare sulla gran-de responsabilità di tutti e di cia-scuno in ordine al diritto al cibo dichi oggi non ne ha e, soprattutto,delle generazioni future.Strettamente collegato al tema delcibo è quello del rispetto dell’am-biente. Se da un lato non si devesottacere di uno scatto di respon-sabilità, dall’altro non si possono

ignorare le domande fondamen-tali sul significato e sui criteri ditale responsabilità: che cosa signi-fica essere responsabili dell’am-biente? Come si può adempiereun tale compito? È un problema diquantità o di qualità? Quali leggiper garantirlo e, soprattutto, qualeeducazione?A nuovi stili di vita, corrispondentiad un tipo di economia diverso daquello al quale siamo stati abitua-ti, siamo chiamati. E questi nuovistili dovranno essere caratterizzatida alcune virtù, fra cui fondamen-tali sono la sobrietà, la responsa-bilità e la solidarietà.Un agire sobrio, che non eccedenelle aspirazioni da soddisfare alfine di promuovere la partecipa-zione di tutti al bene comune,trova nella responsabilità il criteriosecondo il quale bisogna misurarei propri comportamenti sul benealtrui. Mi faccio carico del bene

dell’altro in misura adeguatamen-te corrispondente all’impegnoinvestito per conseguire il mio per-sonale: “ama il prossimo tuocome te stesso”.Ma non basta: non solo esiste cor-rispondenza tra bene personale ebene comune, va anche postaattenzione verso i più deboli, per-ché il vantaggio di alcuni nonvada a scapito dei meno garantiti.Senza una forte tensione morale espirituale, che è anche condannaaperta di ogni logica meramentespeculativa, l’inversione di ten-denza da tanti invocata comenecessaria non potrà però concre-tizzarsi. È a questa tensione che ilmessaggio di Papa Francesco inoccasione dell’apertura di Expoha voluto richiamare tutti, dandovoce specialmente ai bisogni e alleattese di tutti i poveri della terra.C’è da fare: rimbocchiamoci lemaniche e sporchiamoci le mani.

Non di solo panedi Paolo Bellini

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2 • LAVORIAMO INSIEME

Tra i 700 delegati provenienti da quasi 200 diocesi di Italia presentia Roma il 24/26 aprile al convegno delle presidenze c’eravamoanche noi!È stata come sempre un’esperienza di largo respiro poter conosce-re altre realtà associative, in alcuni casi anche molto diverse dallenostre, ma accomunante dall’unico desiderio di mettere al centro ilprimato della vita. Ci si è interrogati su quali strade intraprendereper farsi sempre più missionari e sempre più fedeli alle consegneche il Papa ha affidato all’AC un anno fa. I lavori del convegno sonoruotati attorno ad alcune parole chiave dell’esortazione apostolicaEvangelii gaudium: poveri, popolo, misericordia, gioia, dialogo.Per ciascuna è stato realizzato un mini-convegno di approfondi-mento con una relazione introduttiva e il racconto di esperienzeconcrete, buone prassi da riproporre nelle proprie realtà per contri-buire in maniera fattiva, aperta e serena alla vita civile del nostropaese e per farsi carico delle sofferenze delle persone accompa-gnandole nelle fatiche del quotidiano.Si è ribadita la grande importanza della parrocchia come realtà fon-damentale per la missionarietà della nostra associazione e di un lai-cato sempre più consapevole del ruolo che gli è proprio e che èinsostituibile nella e per la società ecclesiale e civile.Quindi ancora una volta siamo tornati carichi di desiderio e di pas-sione per la nostra Chiesa e la nostra associazione perché certi econsapevoli che nulla di ciò che operiamo è inutile se affidato all’a-zione dello Spirito.

«Non lasciamoci rubarela forza missionaria,piuttosto sbilancia-

moci in avanti. In termini calcistici,passiamo da un prudente, difensi-vo e a volte comodo modulo 3-5-2ad un coraggioso modulo d’attac-co 4-3-3, che richiede più estro,più fantasia, maggiore capacità direazione ai rischi dello sbilancia-mento, ma che ci proietta in avantinella partita della vita». È conquesta metafora che chiude il suointervento il Presidente nazionaleMatteo Truffelli, al termine deilavori del Convegno dellePresidenze diocesane di Ac.Facendo nei fatti proprio, a nomedi tutta l’associazione, quandoindicato da Francesco al n.109della Evangelii gaudium: «Le sfideesistono per essere superate.Siamo realisti, ma senza perderel’allegria, l’audacia e la dedizionepiena di speranza! Non lasciamo-

La realtà sorprende l’idea a cura della

Presidenza diocesana

Convegno nazionale delle Presidenze diocesane

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perché senza fiducia la battaglia èpersa», sottolinea il Presidentedell’Ac. Chi non ha fiducia presta il fiancoal più grande dei pericoli: la deser-tificazione spirituale denunciatada Francesco (e da BenedettoXVI) ai nn. 85 e 86 della EG. «Neldeserto c’è bisogno soprattutto dipersone di fede che, con la lorostessa vita, indichino la via versola Terra promessa e così tengonoviva la speranza».«Fiducia significa anche nonavere nessuna nostalgia dei tempipassati» spiega Matteo Truffelli,«ma “gettare” il proprio contributocome fa il seminatore (che abbia-mo scelto come icona del trien-nio), che non sceglie la stagione oil tipo di terreno, ma cui spetta unasemina copiosa, generosa e a piùmani». Anche per questo- annuncia ilPresidente nazionale dell’Ac -«abbiamo deciso, con appunta-menti regionali, di incontrare tuttipresidenti parrocchiali Acd’Italia». Affinché ciascun “semi-natore” di Ac, «viva la centralità el’unicità della propria opera didiscernimento e ritrovi la bellezzadell’essere associazione».Insieme – aggiunge Truffelli -«daremo vita a un Libro Biancodell’Ac. Per rendere condivisaogni piccola parte di Chiesa checi è affidata». Allo stesso tempo,«incoraggiare a prendersi curadella vita delle persone, dando

concretezza agli impegni presidalla XV Assemblea nazionaledell’Associazione». Impegni dianimazione e di promozione, dicondivisone e partecipazione«per realtà belle come Casa sanGirolamo a Spello (vero polmonespirituale per tutta l’Ac), ma rivoltianche all’editoria associativa, allastampa e al portale Ac, chiamati afare rete delle esperienze di Acsui territori». Per essere al meglioun’associazione «capace di par-lare a partire da un’identità pro-pria, vissuta ed alimentata». E perpoter parlare al meglio «quandoavremo qualcosa di nostro e signi-ficativo da dire».Non dobbiamo sottovalutare nulla.Compresa la nostra storia. «Perquesto ci prepareremo tutti a cele-brare tra poco più di un anno, i150 anni dell’Azione cattolica ita-liana, consapevoli dell’importanzache l’Ac ha avuto nella formazionedi tante generazioni di questoPaese». Una storia che ci invita,l'ha ricordato il presidente Truffelli,«a costruire legami di amiciziacon i nostri pastori», che ci aiuta-no con generosità a vivere ilnostro impegno laicale e il nostro:quello di un Ac che ha capito chesolo Dio tiene le chiavi del cuoredell’uomo e amandolo sopra ognicosa ne intuisce i desideri, neascolta la chiamata e lo seguecon generosità, ricevendone incambio vita piena che mette adisposizione di tutti. ■

ci rubare la forza missionaria!».Nel ripercorre i lavori di questa tregiorni dei “quadri” associativi dio-cesani dell’Ac, riuniti a Roma perinterrogarsi su come risignificare ilproprio impegno alla luce delmagistero di Francesco, il presi-dente Truffelli sottolinea da primacome «l’essere missionari signifi-chi accorgersi innanzitutto che è ilSignore stesso che abita la vita diciascuno». Ciò comporta, logica naturale, illasciarsi incontrare dalla vita con-creta delle persone, «capaci disoffermarsi di più sulle domandeche salgono dalle persone, dallefamiglie, dalle comunità». Comefare? Quale Ac può rispondere piùefficacemente? Per Truffelli «nonc’è un modello unico. Bisogna partire dalla realtà speci-fica che ci è data da vivere eavere la capacità come Ac di darerisposte specifiche efficaci perquel territorio, per quella datarealtà». Ad una realtà complessaoccorrono azioni complesse. Ildiscernimento diventa dunquecentrale per ciascuno, interrogatoda attese e da bisogni diversi.«Come Ac abbiamo un patrimoniovero da mettere a disposizionedella Chiesa. Un patrimonio chevive e respira la centralità di cia-scuna realtà parrocchiale. Non servono dunque attendereimput centrali per poter agire daAc nei propri territori, intensificaree migliorare la propria azione mis-sionaria. Certo restando in rete ecomunicando quello che si stafacendo, come parte e in ragionedi un'unica esperienza diChiesa». Ciò che dunque conta dipiù – sia per le grandi che per lepiccole realtà di Azione Cattolica– è saper “abitare il proprio esserepiccolo o grande periferia” dellaChiesa. «Facendolo con fiducia,

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4 • LAVORIAMO INSIEME

È per la prima volta che mireco a Torino per la Sindone.Che cosa mi ha portato ad

affrontare questo pellegrinaggio?Ad essere sincero è stata la sempli-ce curiosità! Curiosità nel vederequel tessuto di lino dal vivo, nelvedere quelle deboli tracce impres-se in esso, non pensando il legameche c'è tra la Sindone e la città diTorino, soprattutto nelle persone enei Santi che l'hanno abitata.Che cosa ho trovato? Prima di tuttoun gruppo di persone, anche lorospinte da motivazioni diverse chipiù vicine alla Sindone, chi invecepiù alla figura di don Bosco, chi achissà quali altre motivazioni perso-nali. Le persone dei due pullmanche hanno condiviso il viaggio, lapreghiera e la giornata, ma anchequelle che abbiamo incontrato nellalunga fila di attesa e avvicinamentoal sacro lino, come quelle incontratea Valdocco. È davvero impressio-nante vedere quanto possa muove-re gli animi “un pezzo di stoffa”,come l'hanno definita provocatoria-mente i miei figli adolescenti.Ripenso a questa dimensione parti-colare e importante del pellegrinag-

gio, che è un evento comunitario epersonale, che muove diverse per-sone con le loro storie e intenzioniparticolari verso un luogo comune.Questo mi riporta all'esperienzaeffettiva della nostra vita, dellaChiesa e dell'associazione. In unepoca dove dilaga il pensiero auto-centrato, l'individualismo che ciporta a pensare che tutto ruotaattorno a noi e gli altri sono solodegli ostacoli alla nostra felicità, èbello riscoprire l'ovvietà (ma è pro-prio così ovvio?), di come cioè lanostra vita sia un pellegrinaggio, unviaggio verso la meta dell'incontrocon il Signore, accompagnati -come i discepoli di Emmaus- daaltre persone che scopriamo perstrada lungo il cammino e che tantevolte non siamo noi a cercare. Cosìè anche la nostra esperienza inassociazione e nella Chiesa: scom-mettere sul fare un pezzo di stradanon da soli, ma insieme perché l'al-tro mi permette la prima esperienzaspirituale di apertura alla trascen-denza, a qualcuno che è al di fuoridi me e aiuta a trovare un pezzettodel puzzle della mia vita.In secondo luogo ho trovato, senza

aspettarmelo, è stata una sorpresa,quel legame tra la Sindone e Torinocon i suoi santi, in particolare donBosco, dato dal titolo dell'ostensio-ne 2015: un amore più grande. Ilpercorso per arrivare alla Sindone èstato accompagnato dalle figure deisanti e beati che hanno segnatouna storia nella città, hanno lasciatouna traccia significativa del loroessere cristiani nel mondo. Penso inparticolare a Piergiorgio Frassati,così vicino all'Azione Cattolica: èstato emozionante passare appenaprima di contemplare la Sindone,davanti alla sua tomba. Così comepenso alla figura di don Bosco, checonoscevo già, ma in modo un po'superficiale.La testimonianza delle persone checi hanno accompagnato aValdocco mi ha fatto riscoprirecome la vita di don Bosco sia stataanch'essa segnata da quell'amorepiù grande che l'ha mosso, che hadato vita a un sogno che sembravaimpossibile, che è diventato realtà.Quell'amore più grande a cui lastessa Sindone, con le piaghe e leferite ben evidenti che la segnano,ci rimanda. Di fronte a quel “pezzodi stoffa” non si può rimanere indif-ferenti, perché da un lato rimandavisivamente a ciò che i vangeli cidicono della passione e morte diGesù e dall'altro richiama tutte lepiaghe che segnano le nostre vite,segnate da terremoti reali e spiritua-li, che a volte, come nella sindone,lasciano un segno indelebile nellanostra esistenza. Un'esistenza cheè però trasfigurata dalla luce dellarisurrezione: senza quella nonavremmo avuto la testimonianzache ci regala la Sindone, quell'amo-re più grande presente nella vitache ci invita ad amarci come Lui ciha amati.Buona continuazione del pellegri-naggio! ■

Un amore più grandedi Anacleto Grasselli

Pellegrinaggio a Torino 1 maggio 2015

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S e penso a don AntonioSeghezzi mi viene sponta-neo sentirlo vicino come un

amico, un confratello, un compagnodi viaggio. Don Antonio prima diessere un martire dell’amore offertoa tutti - in faccia alla follia dell’odionazi-fascista - è una persona caraalla mia spiritualità e un testimonecoraggioso del Vangelo.Ho avuto la grazia di essere presen-te all’apertura del processo di bea-tificazione di don Antonio e di parte-cipare al pellegrinaggio a Dachau.Ho potuto ascoltare dalla viva vocedi Mario Benigni, suo compagno nelcampo di prigionia, il racconto deifatti intercorsi fino alla sua morte.Credo che don Antonio abbia com-preso l’inevitabilità del suo destinoall’interno di una scelta di vita carat-terizzata dall’obbedienza e dallafiducia nel Padre e dal desiderio diun dono totale di sé, fin da giovanesacerdote. Dentro questa sceltaradicale si è affacciata la Croce,non come una cosa che poteva nonesserci, ma come un evento in lineacon tutta la sua esistenza. La vitaofferta a Dio per amore dei giovanie della Chiesa l’ha portato ad espor-si alla sofferenza, alla condanna,alla prigionia e anche alla morte,come Gesù.Don Antonio mi ha lasciato comeprimo beneficio spirituale la bellez-za di vivere, lo stupore per il mondo.Il canto dell’alba e la poesia del tra-monto. “Cose belle e buone che ilSignore ha creato”: sapeva vivere insintonia con tutte le cose. Cercavatra le vette dei monti, nel cielo stel-lato, nella luce tra le foglie, l’incantoche Dio vuole trasmetterci. Bastasedersi ai piedi del suo albero, nelLuogo della Speranza, guardarsiattorno, ammirare la Presolana, perscoprire come lui che “c’è Dio aspasso per il mondo!”. Se questopaesaggio ha portato tanta pace

nel suo cuore lo farà anche nelnostro. Ognuno dovrebbe trovaredei luoghi di trascendenza, per ritro-vare sé stesso, per sapere cosa èveramente conta, per tornare daColui che ci ha amato per primo.Il secondo beneficio che ho avutodagli scritti di don Antonio, soprat-tutto dalle sue lettere, è il legamecon Cristo. Lui si sentiva talmentepreso da Gesù da vivere in perma-nente sintonia con Lui: “Vivere pen-sando, vestendo, amando Cristo”.Nella mente, negli atteggiamenti,nei gesti si è conformato a Cristo,ha assunto i suoi tratti umani, diuomo libero, di operatore di pace,di medico delle anime, di testimonedella Verità. Don Antonio sapevaintrodurre gli altri in questa sua fami-liarità con il Signore. Lo faceva inse-gnando a pregare con spontaneitàe con fiducia filiale. “Per scoprireCristo bisogna saper pregare”. Lapreghiera incessante crea intimità,alimenta il desiderio, è ricerca con-tinua di Lui: “Folleggia con Gesù”.

Come si fa con l’amante o con l’ami-co più caro, perché al Signore inte-ressa il nostro amore. Si aspetta diessere desiderato con tutto il cuore,con tutta la mente e con tutte leforze.Ma il tratto più caratteristico cheammiro in don Antonio è la letizia.“In letizia si deve vivere: è il Vangelopuro questo”. Più si è vicini alla sor-gente e più l’acqua è pura. IlVangelo è la sorgente della nostragioia. E l’esito del Vangelo non c’è lamorte di Gesù, ma la sua risurrezio-ne. La letizia nasce nelle donne checorrono al sepolcro il mattino diPasqua, nasce nei discepoli diEmmaus mentre conversavano conlui lungo il cammino, prima di rico-noscerlo allo spezzare del pane.“Cristo è la gioia. Vivere la vita diCristo vuol dire vivere la vita dellagioia”. Don Antonio ha fatto dellasua vita un canto di gioia alla bontàdel Signore. L’invito più bello chepotevi lasciarci per essere semprelieti. Grazie, caro fratello. ■

di don Renzo Caseri

La vita offerta a Dioper amore dei giovani

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6 • LAVORIAMO INSIEME

L’Azione Cattolica in don Seghezzi

«S antificarci è dovere imperioso, santifi-carci è vivere: solo così la vita è postasu di un piano di salvezza perché il

vivere quotidiano diviene mostruosamente piatto emortificante appena si autolimita e rifiuta ogni valo-re trascendentale. È ora di dir chiaro che la salvezza è nel vivere ingrazia di Dio» (Scritti editi I, p. 150).

Idee direttrici prima dei programmi di azioneL’AC nazionale con la presidenza Gedda e di con-seguenza quelle regionali, diocesane e parrocchia-li, si stavano organizzando con proposte caratteriz-zate da nuovi programmi annuali che sollecitavanodirigenti e soci ad agire. Anche nel Centro diocesa-no bergamasco di AC prevaleva la linea di realizza-re programmi di azione.Don Seghezzi, sin dall’inizio del suo incarico diAssistente diocesano dei giovani di AC, manifestòcon chiarezza le sue convinzioni sulla finalità dell’o-pera educativa.

Il compito dell’Azione CattolicaPer cogliere le linee fondamentali del pensiero edella prassi educativa di don Antonio nell’AC, ènecessario tenere presenti la situazione generale,le strutture politiche, l’ecclesiologia, la strutturasociale della comunità ecclesiale, la visione e il giu-dizio circa le realtà terrestri. Egli parte dall’adesione sempre più profonda allavolontà di Dio, per giungere, anche attraversomomenti di oscurità e di purificazione, al serviziodei fratelli, considerato come l’attuazione concretadel «fare la volontà di Dio». Come in tanti educatori,anche in lui la fede, come adesione alla volontà diDio, ha il primato assoluto sia all’origine che nellosviluppo delle attività, quando si fa carità nell’agire,collaborando con Dio. Santificarsi, vivere in grazia di Dio, trasformarsi inGesù: sono queste le finalità che sin dai primi mesidon Seghezzi ribadisce continuamente ai suoi gio-vani, come scrive nell’articolo pubblicato nel 1938sulla rivista nazionale della GIAC. Il compito dell’AC è santificarsi e aiutare i fratelli asantificarsi, perché ogni socio è in associazione«per essere santo» (Quaderno Maria SS.). DonAntonio, convinto che «il mondo ha bisogno disanti» (Lettera a M. Zanchi, [30.11.1937]), che lui

pure deve farsi santo1, che «ci vogliono dei santinell’AC», ritiene santità innanzitutto il «vivere in gra-zia di Dio per dare Dio agli altri» (QuadernoConferenze A.C. 11 dicembre [1938]): questa, esolo questa, è la vocazione all’AC. La grazia di Dioè la vita che ci eleva, che ci trasforma, che «sabene [...] trasumanarci» (Scritti editi I, p. 172) per-ché «l’abbondanza della vita è il Cristo vivo in noi».In altre parole la santità è Gesù che opera tutto innoi, che aiuta anche oggi, che conquista2. Ad ognigiovane don Seghezzi chiede di amare Cristo conentusiasmo [«Vivi amando e ardendo di amore perGesù Amore. Ripeti sempre “Gesù Amore” contenerezza, adagio, con gioia» (Lettera a F.Gualandris, 16.4.1941); «Sii forte per il dolcissimoGesù che tutti c’innamora. AmaLo molto. DiGli 100volte al giorno “Gesù ti amo”» (Lettera a G.Giavazzi, 15.7.1942)], di camminare dietro a Lui:«cerca di trasformarti in Lui». Solo uniti a Gesù «entreremo nella Verità e quindinella Via... e porteremo la Verità» (Scritti editi I, p.145). Nella cronaca pubblicata sul quotidiano loca-le L’Eco di Bergamo, circa una giornata vissuta daigiovani di AC in pellegrinaggio col Vescovo ad unsantuario mariano nel giugno 1942, scrive cheoccorre «vivere in ogni istante il dramma sublime diCristo», definito come «la via non una via, non untreno ma Il treno», «l’abbondanza della vita», laVerità.

Che cosa è l’Azione CattolicaPer rendere ancora più esplicite le sue convinzionicirca la necessità di avere prima idee direttrici e,solo dopo, programmi di azione, l’Assistente dioce-sano della GIAC si serve di molte immagini. «Lavera A.C., che è freschezza di vita, che è letizia egioia» (Caro fratello, p. 50), aiuta ad aumentare lavita che è donarsi a Dio, alla Chiesa, alla Patria, allafamiglia, agli amici. «L’A.C. è tutta qui, niente fac-ciamo con le sole circolari se non c’è la vita» (ibi-dem, p 102). A nome suo e dei giovani l’Assistenteafferma: «vivere, vivere noi vogliamo» (Scritti editi I,p. 92). La vita dell’AC si traduce in passione per igiovani: «questa nostra gioventù, che è la nostrapassione e gioia» (Lettera a don L. Cagnoni,7.11.1940) e richiede di costruire l’unione che nonè «uniformità, identità. Via le distinzioni, le esclusioni», «Unione perché se

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1. Nei suoi appunti don Antonio chiarisce: «Io voglio cantare per me, farmi Buono, Santo. Dio miohaec est vita qui, qui» (Diario II, 29 [gennaio 1931], p. 123); «La vita è un continuo vincersi cosìsi prepara meriti pel cielo. Devo guardare a Dio è così che mi incendierò e farò da santo sempreeguale a me stesso e agli altri» (ibidem, 6 maggio [1931], p. 135); «Celebrare! grazie o Gesù,sono 3 anni di questi giorni che offrivo il primo sacrificio; per tua bontà fammi più santo» (ibi-dem, 26 febbraio 1932, p. 168); «Prega, prega. Fammi santo che io viva di Te che io Cristifero,che io divenga Cristo. Mi ci vuole santità» (Quaderno Esercizi ai giovani); «Se io non dico“Voglio farmi santo, presto santo, grande santo” io non concluderò nulla se io resto in lotta»(Quaderno Mutualità scolastica); «Additiones. Idea fissa, voglio farmi santo» (Quaderno Rho1939, 9 Ottobre); «Voglio, devo, posso farmi santo... idea fissa, se no mi danno. Perché solo ilsanto scuote, se no saranno i parrocchiani in condemnationem» (ibidem); «Non dire “Devofarmi santo malgrè mon ministère” ma santificarci dentro e per il nostro ministero. […] Santodevo essere non solo perché celebro ma perché la mia vita è Completa se io accetto il mioposto e al mio posto io devo santificarmi» (Quaderno Copertina nera); Voglio farmi santo e cioèrimedi al peccato a) ripetere atti contrari al vizio b) preghiera…c) sacramenti…» (QuadernoSenza titolo II).

2. Don Seghezzi assicura che: «Gesù che in te opera è Lui che conquisterà» (Caro fratello, p. 43);«Cristo conquista i giovani con questa vita nuova che egli solo può donare» (Scritti editi I, p.150).

3. «L’A.C. - sostiene don Antonio - è amicizia, non è fare adunanze (servono sì…ma…) l’A.C. èavvicinare personalmente l’Assistente e ascoltarlo. L’A.C. è aprire il cuore del fratello e galva-nizzarlo. L’A.C. è scrivere la lettera al fratello, fargli vedere un articoletto della nostra stampa cheaggiorna e dà alle idee di oggi i rimedi di oggi» (Lettera a don A. Nodari, 16.7.1942).

4. Scritti editi II, p. 471; «I giovani dell’AC - assicura don Antonio - hanno capito che bisogna ren-dere la santità amabile e possibile e non fuori della vita» (Diario IV, 30 agosto [1940], p. 61).

no la divisione è desolazione,non si vive in pace». Infatti, scri-ve don Antonio: «non ci si rag-gruppa contro qualcuno, ma peraiutare», perché «l’unione fa laforza, state uniti voi tutti dell’AC eavrete gioia e voglia di farebene» (Lettera a C. Perolari,10.6.1939). La vera AC è perdon Seghezzi una fraternità. Sindai primi interventi scritti comu-nica la volontà di tradurre il van-gelo in AC mediante la frater-nità, contrastando la tendenzapresente in associazione asoprattutto voler fare. Ecco isuoi consigli: «Teniamoci vin-colati da questa fraternità, cheè tutto Vangelo», «se siete diA.C. siate generosi collabora-tori e conquistate altri». L’ACquindi non sta principalmen-te e soprattutto nel fare adu-nanze3, nella politica, nelvagabondaggio, nel buffet,non è distrarsi.Vivere l’AC è vivere laChiesa. E di conseguenza «vogliamoessere uniti a Cristo», «dobbia-mo aprire il cuore verso il cuoredi tutti i fedeli», perché l’AC «èsaper ascoltare, è saper averepazienza, è sapere portare ildono di Cristo ai fratelli, è dun-que prima di tutto saper capiregli animi dei fratelli» (Scritti editiI, p. 145) e deve essere un’asso-ciazione presente in tutti gli stratidella società capace di portarebenefici in tutte le manifestazionidella vita privata e pubblica.Infatti per don Antonio «La voca-zione all’Azione Cattolica è unachiamata a capire e ad amare iltempo in cui viviamo»4. ■

(parte I, continua)

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8 • LAVORIAMO INSIEME

C redo che a molti della generazione degli anni’70 come me, sia capitato da bambini di subi-re una minaccia simile di fronte ad una por-

zione di spinaci, cavolini di Bruxelles o fegato cheproprio non si riusciva a mandare giù. Non so perché,ma è la prima cosa che mi è venuta in mente nel pen-sare a questo contributo sul tema del cibo per la rivi-sta. Una minaccia che per qualche motivo oscurodeve essermi rimasta dentro da piccolo, per divenirequasi un refrain stereotipato condiviso con i compa-gni degli anni dell’adolescenza fino ad essere assun-ta, definitivamente svuotata di ogni significato pro-prio, a ridicolo simbolo degli ultimi scampoli di “pote-re autoritario” dei genitori sui figli. Insomma, quasiuna frase fatta e consunta, scontata ed educativa-mente inutile. O forse no?Certamente esprime la mentalità dell’epoca in cuisiamo cresciuti quando, mentre si affievoliva lamemoria della fame negli anni della guerra, i primisupermercati cominciavano ad allineare sui loro scaf-fali il prototipo dell’abbondanza, e l’Africa era un lon-tano continente. Il senso, voleva probabilmente esse-re “È un peccato sprecare il cibo, perché è una risor-sa limitata, anzi proprio per questo, non puoi nongodertela visto che adesso ce l’abbiamo. Ci sonoposti in cui si muore di fame (sottinteso: per ora, ma

porteremo la civiltà anche a loro).” Ah! le sorti magni-fiche e progressive…! eppure è un retaggio che mipare in buona parte ancora presente dentro allanostra cultura attuale.Da allora molte cose sono cambiate. L’Africa è qui,più vicina di Genova se si parte da Orio; l’Africa è qui,nei visi di persone che incontri per strada, che sono inostri vicini di casa; e non è l’Africa, ma molte nazionidi diversi continenti; qualcuno è arrivato irregolar-mente, molti sono morti in questo tentativo disperato.I supermercati aumentano ancora i quantitativi sugliscaffali, con offerte scontatissime pur di invogliarci adacquistare cibi in quantitativi eccessivi e sovradimen-sionati (Mangia! Devi finire tutto!). E la fame comun-que, di cui si è persa definitivamente la memoria, nonè certo un problema che ci attanaglia pur in questotempo di crisi.Dagli anni ’70 al 2011 però, l’Italia ha perso unasuperficie agricola pari a Liguria, Lombardia edEmilia Romagna messe insieme. Ed il cibo – tutto –viene dalla terra e, in minor misura, dal mare (ma il cuiequilibrio ambientale sembra piuttosto precario).Finora questa riduzione di superficie coltivata non siè tradotta in una proporzionale perdita di produzioneagricola (e quindi di disponibilità alimentare) grazieall’introduzione di tecniche innovative che hanno

di Emanuele Bertone

“Mangia! Devi finire tutto!Lo sai che i bambini in Africamuoiono di fame?!”

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permesso di innalzare la produttività per ettaro edintensificare le attività zootecniche; oggi però l’imple-mentazione di tali tecnologie sul territorio non sembrapiù in grado di tradursi in un ulteriore incremento diproduzione. L’Italia attualmente produce circa l’80-85% delle risorse alimentari necessarie a coprire ilfabbisogno dei propri abitanti. In altre parole, la pro-duzione nazionale copre poco più dei consumi di treitaliani su quattro. L’Italia è il terzo Paese nell’UnioneEuropea per deficit di suolo agricolo e il quinto suscala mondiale. Dove lo prendiamo il cibo che ciavanza?“Mangia! Devi finire tutto! Lo sai che i bambini inAfrica muoiono di fame?!”Una frase terribile. Adesso che ho imparato a man-giare quasi tutto ed il genitore sono diventato io, nonoso ripeterla ai miei figli; temo mi rispondano con ladomanda che mi facevo da ragazzo senza avere laconsapevolezza necessaria per esplicitarla: “Ma perché noi dobbiamo a tutti i costi mangiare il ciboche manca a loro?”A dispetto della sua apparente ingenuità, questa èuna domanda tosta. E per niente astratta, visto che citocca da vicino ogni volta che gettiamo nell’umido delcibo avanzato o scartato, saliamo preoccupati sullabilancia per scenderne affranti, ritroviamo confezioni

scadute di cibo sul fondo dello scaffale delle scortealimentari (ogni famiglia che si rispetti ha una dispen-sa con scorte adeguate in caso di guerra nucleare) odimenticate in frigo in attesa di consumarle in occa-sione più adatta (che nelle tempistiche frenetiche divita di una famiglia di oggi non è mai predeterminabi-le). Ed anche perché abbiamo finalmente presocoscienza del fatto che le risorse del nostro pianetahanno dei limiti precisi, cui su scala globale stiamorapidamente e preoccupantemente avvicinandoci.Expo 2015 ci aiuterà a fare culturalmente qualchealtro passo avanti? Riusciremo a recuperare la perce-zione del cibo come elemento vitale, più ancora delrespiro? Riallacciare il legame perso del cibo con laterra e l’acqua piuttosto che con uno scaffale ed uncodice a barre? Con i tempi di necessario riposo el’alternanza delle stagioni? Sì perché ho dovuto pro-prio spiegarlo ai miei figli che il cibo non è esattamen-te un prodotto equivalente ad un tablet, una magliettao una bicicletta. Ma non devo essere riuscito a tra-smettere bene il messaggio…: ancora non sembranopienamente convinti che mangiare è una cosa indi-spensabile, e che sedersi a tavola non è una fastidio-sa imposizione determinata da obsolete consuetudinifamigliari (imposta proprio quando il monopattino è lì,che aspetta sul terrazzo!). ■

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P er la Caritas, ma più in gene-rale per la Chiesa, Expo2015 è un’occasione irripeti-

bile per rimettere al centro l’uomonella sua globalità come attore deiprocessi di nutrizione e alimenta-zione. I valori fondanti di Caritas,quali il rispetto per la vita e per ladignità umana, l’accoglienza del-l’ultimo e del più vulnerabile, l’impe-gno per la giustizia sociale e lasobrietà nei consumi, possonocontribuire a incidere sui dibattiti esulle risoluzioni riguardanti le politi-che alimentari, ecologiche, socialie culturali.Il cardinale Òscar RodríguezMaradiaga, presidente di CaritasInternationalis, negli scorsi mesicosì scriveva: «La mancanza dicibo fa parte di un circolo viziosoche va stroncato alla radice. Nonvanno eliminati i poveri, ma lecause della povertà e della fame».

Si muore di fame a Bergamo?È possibile riportare questi discorsisulla fame nel mondo nel nostrocontesto bergamasco? Non risultache nella Bergamasca negli ultimianni qualche persona sia morta perinedia dovuto alla mancanza dicibo. Non possiamo cioè dire che aBergamo la gente soffra la fame, èuna presa in giro nei confronti dellepopolazioni e delle terre dove effet-tivamente ci sono problemi legatiall’acqua e al cibo. Non siamo cioènella situazione di tanti popoli delmondo che attendono che dallasontuosa tavola dei “ricchi epuloni”ricadano abbondanti resti sulle loromani nell’atto implorante di chi hafame davvero. A volte ci spaventano i tanti stranie-ri che giungono sul nostro territorio,ma facciamo fatica a ricordare cheper la quasi totalità di loro il restarenei loro paesi vuol dire morire difame. Loro sì scappano da territori

dove l’alternativa ai cosiddetti viag-gi della speranza è anche il moriredi fame. A Bergamo non siamo inpresenza di un’emergenza alimen-tare causata dalla riduzione dellequantità di cibo disponibile.Piuttosto abbiamo a che fare conun’emergenza economica che, acausa di una riduzione generaledei consumi, sta determinandosignificative conseguenze anchesul fronte alimentare. Poiché alcunicosti sono difficilmente comprimibili- le bollette, l’affitto, le rate di undebito o di un mutuo - per far qua-drare le spese si taglia laddove,pur con sofferenza, si può tagliare:istruzione, salute e, appunto, cibo.

Il pane per i poveri di BergamoIl pane è il simbolo della rispostaalla fame: siamo pieni di tanti tipi dipane eppure sempre più spessonon riusciamo più ad avere il piace-re di annusare il profumo del paneappena sfornato, a volte diventia-mo anche insensibili a sentire i sin-tomi della fame vera, magari per-ché insensibili all’urlo di tante “fami”che fanno inaridire il nostro spirito ela nostra generosità non solo eco-nomica ma soprattutto spirituale.Pensiamo al significato dello spez-zare il pane nell’Eucarestia, segnodi riconciliazione, della pace ritro-vata, della disponibilità alla condivi-sione, della solidarietà vissuta,della donazione senza limiti.Bergamo è una terra ricca, capacedi tanti gesti generosi di solidarietà.Gesti che trovano nel “dare pane”uno dei segni più evidenti di atten-zione al povero. Quando parliamo di poveri pensia-mo subito alle mense per i poverioppure a dare pacchi alimentari aipoveri.

Le mense per i poveriPer quanto riguarda le mense per i

poveri, si deve ricordare la mensapresente nei locali della CaritasDiocesana, che offre il pasto gratui-tamente sia per il pranzo che per lacena a 35 persone. C’è poi lamensa cosiddetta “della stazione”che ogni sera vede la presenza dialmeno 100 persone. Esiste poiuna mensa aperta solo a pranzo,presso i frati Cappuccini, che è piùrivolta a famiglie, per un centinaiodi posti giornalieri. A fianco di que-ste due realtà si devono poi richia-mare le mense sia del NuovoAlbergo Popolare e del PatronatoSan Vincenzo che sono a serviziosoprattutto dei loro ospiti.Tanti posti per permettere a tutti diavere un pasto caldo. Senza pen-sare a quelle esperienze presentisul territorio provinciale, in primis ipasti caldi portati a domicilio allepersone più povere e sole.

I pacchi alimentari alle famigliepovereSe invece pensiamo all’erogazionedi pacchi alimentari, è difficile pen-sare di fare sintesi delle tante deci-ne di esperienze di enti, associa-zioni, ma anche semplici cittadiniche in modi diversi aiutano famigliein situazione di bisogno. Pensiamosolo all’esperienza dei Centri diPrimo Ascolto e Coinvolgimentoparrocchiali che solo nel 2013hanno cercato di aiutare oltre 9.000famiglie, con un fortissimo incre-mento di famiglie italiane. Ma poidovremmo pensare anche ad altrisoggetti, come le Conferenze SanVincenzo presenti sul nostro territo-rio, al Banco Alimentare, ai CAV ealle tante associazioni che in modomolto variegato ma capillare cerca-no di accompagnare famiglie insituazioni di bisogno. Si parla tran-quillamente di oltre 70 tonnellate dicibo date ai poveri a Bergamo.E ancora al fondo famiglia lavoro,

La CARITASad Expo di Marco Zucchelli

della Caritas Diocesana

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promosso dalla Caritas Diocesanaa sostegno delle famiglie in diffi-coltà economica per la perdita dellavoro: parliamo di oltre 650 milaeuro solo per l’erogazione di buonialimentari a famiglie in difficoltà,una parte degli oltre 4 milioni dieuro erogate a sostegno di questefamiglie.

La solitudine della mancanza diciboC’è qualcosa che lega tutte questeforme di solidarietà e di vicinanzacon i poveri e le persone fragili? Dadove nasce questo desiderio difare qualcosa di bene per gli altri?Nella lettera pastorale “Donne euomini capaci di Eucarestia” ilnostro Vescovo ricordava come ilgesto del donare cibo è segno diospitalità. Il nostro è pane di ospita-lità: “è quindi non gesto del super-fluo, del dare in più, ma desideriodi con-dividere con un altro la famedi relazione, di amore, di giustizia”.Per un povero la paura più grandenon è quella di restare senza cibo,ma di restare solo. La mensa richiama con forza ilbisogno di mangiare insieme, didividere insieme una parte del pro-

prio tempo. Preoccupa di più non lamancanza di cibo quanto piuttostola mancanza di relazioni, dell’ospi-talità nello spezzare il pane.Pensare al cibo vuol dire però pen-sare anche al rifiuto del cibo, espe-rienza tipica delle società sviluppa-te che hanno prodotto il “male delvivere”: l’anoressia e la bulimia. Lapovertà delle relazioni e del sensostesso della vita porta spesso adun rapporto di rifiuto del cibo, vistocome strumento per affermare lapropria identità e la fatica del viverein una società così individualista eper certi versi indifferente come lanostra.

ConclusioniColpisce questa situazione: da unaparte il bisogno di avere cibo permangiare, dall’altra l’enorme quan-tità di cibo dato ai cosiddetti “pove-ri”; da una parte il rifiuto del cibo,dall’altra un’alimentazione che fadella obesità e delle malattie con-nesse ad uno stile di vita sbagliatoun dualismo inconcepibile a primavista.Dov’è il senso del limite? Fino dovemi posso spingere nella ricercaspasmodica della felicità? Sempre

più spesso oggi si parla di recupe-rare una dimensione di sobrietà neiconsumi personali, nei consumicollettivi: è normale volere sempre ilmeglio. Non è l’avere il meglio diogni cosa che ci fa felici ma è l’ap-prezzare il meglio di ogni cosa chesi ha. Non è l’avere di più ma avereil minimo di cui si ha bisogno cherende felici. La povertà relazionaleè una delle povertà più insidiose epericolose.Vi invito a “conoscere la povertà”,anzi a incontrare i poveri sul vostrocammino e a porvi in un atteggia-mento di condivisione. In cosa i poveri possono credereoggi? Non solo e tanto nel ciboquanto nel rispetto della lorodignità. Non è un modello gestiona-le e prestazionale, di mercato, maanche e soprattutto sociale, etico. Equesto è possibile solo se c’è unincontro tra uomini e donne allapari.E poi come conseguenza di que-sto atteggiamento un secondonodo, oserei dire più politico.Povertà e cittadinanza: i poveripossono aspettarsi di essere aiuta-ti per bisogno o per diritto?Obiettivo allora non è tanto “il dare”quanto piuttosto aiutare a nonavere più bisogno di aiuto. Andareoltre alla “cultura dello scarto” edella “ineguaglianza”.Lo scandalo per i milioni di personeche soffrono la fame non deveparalizzarci, ma spingerci ad agire,tutti, singoli, famiglie, comunità, isti-tuzioni, governi, per eliminare que-sta ingiustizia. Il Vangelo di Gesù cimostra la strada: fidarsi della prov-videnza del Padre e condividere ilpane quotidiano senza sprecarlo.Incoraggio la Caritas a portareavanti questo impegno, e invito tuttiad unirsi a questa “onda” di solida-rietà».(Papa Francesco, UdienzaGenerale 11 dicembre 2013). ■

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16 • LAVORIAMO INSIEME

EUREKA, che parola strana… sapete chi fu il primo a dirla? Si,proprio lui: Arichimede, lo scienziato. Un bel giorno,mentre faceva il bagno, infilandosi nella vasca, feceuna grande scoperta che risolse un problema che gliavevano posto. Trovata la soluzione, saltò fuori dallavasca e, ancora svestito e bagnato, si mise a correreper le strade della città urlando “Eureka!” (trad. “Hotrovato”)… era talmente tanta la gioia della scopertache non poteva attendere, doveva dirlo a tutti!I ragazzi dell’ACR hanno fatto lo stesso. No aspetta-te… non si sono messi a correre svestiti per il paese,ma avendo fatto una grande scoperta non potevanofare a meno di condividerla con tutti e così ha presoforma la Festa Diocesana che si è svolta Domenica 12Aprile 2015 all’oratorio di Colognola.

INSIEMEcon tutte le parrocchie della nostra diocesi. Insieme:bambini, ragazzi, giovanissimi, giovani, adulti e adultiLX. Insieme per un’intera giornata di festa, di famiglia,di relazioni, di gioco, d’impegno, di scienza, di… di…di tutto il bello che possiate immaginare possa scatu-rire dallo stare insieme. Vi do’ solo qualche esempiodei momenti vissuti: l’incontro/presentazione della par-rocchia di Costa di Mezzate che ha “Acceso l’AC”,bambini e adulti che giocano insieme con le bolle disapone e risolvono rompicapi nelle attività della matti-na, la celebrazione presieduta dal nostro VescovoFrancesco che ha unito l’AC alla comunità diColognola, un fantastico pranzo condiviso e tantodivertimento e allegria.

FUNZIONA, questo volevano dirci i ragazzi dell’ACR. Stareinsieme è la formula universale che permette allecose di funzionare al meglio. Un ingranaggio da solo gira a vuoto, ma insieme atutti gli altri elementi mette in moto qualsiasi mecca-nismo. E se, per esempio, guardate bene gli ingra-naggi che muovono gli orologi, non ne troverete maidue uguali, magari saranno simili, ma mai uguali. Ese noi possiamo paragonarci a questi ingranaggi,chi è l’inventore che ci ha forgiati? Lo so, non serve che ve lo dica, ma pensate a chegrande progetto ha fatto su di noi rendendoci deipezzi unici, capaci di mettere in moto qualsiasi

di Valerio Dall’Acqua

cosa semplicemente trovando la giusta combina-zione con gli altri.

Concedetemi un momento di ringraziamento adalcune colonne portanti che hanno reso possibile laFesta Diocesana. Grazie quindi alla presidenza dio-cesana, alle Equipe Giovani e Adulti, agliAnimanicanti, alle associazioni parrocchiali diBonate, Comenduno, Grumello, Leffe e S. Lucia inBergamo, alla comunità di Colognola per l’acco-glienza sempre calorosa, al Vescovo e ai nostriAssistenti per la loro preziosa presenza, a FunScience per averci fatto scoprire una scienza diver-tente e all’Equipe ACR che ha tenuto le fila dellagiornata anche se nell’ombra.Sono state tante le persone coinvolte e a tutti, inparti uguali, va il merito della riuscita di questa gior-nata che è la prova provata che: “Eureka: InsemeFunziona!”

Eureka: Insieme funziona!

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A nche nella nostra Diocesi di Bergamo, dopoalcuni anni di lavoro in equipe, è iniziato aottobre scorso un cammino vocazionale per

giovani, dai 20 ai 30 anni, che hanno già fatto per-corsi di fede nel Gruppo Samuele, in AzioneCattolica, in parrocchia, in movimenti o attraversocammini personali con una guida spirituale. Natooriginariamente nel 1936 nella Diocesi di Milanocon il nome di Cenacolo e riattualizzato e ribattez-zato nella nostra Diocesi con il nome di “Emmaus”,il percorso si propone di aiutare i giovani, chehanno già un certo “vissuto di fede”, a determinarsidentro una vocazione nella Chiesa. La durata è ditre anni e sviluppa tre contenuti - la preghiera, lacomunione e la testimonianza - che ciclicamentevengono riproposti. Al termine di ogni anno i giova-ni sono invitati a consegnare la loro regola di vita.Nel cammino di discernimento sono contemplatetutte le vocazioni: al matrimonio, alla vita religiosao consacrata, al sacerdozio, missionaria, etc.Sarebbe tuttavia riduttivo limitare lo scopo diEmmaus ad una funzione solo vocazionale. Comesappiamo la vocazione non è equiparabile al rap-porto tra soldato semplice e suo superiore; Dio nonci ordina cose da fare. Il discernimento vocaziona-le deve essere scopro iscritto invece nella dinami-ca della relazione d'amore. È nell'innamoramento enella sequela di Gesù che nasce la propria voca-zione. È rendendomi conto di ciò che Dio perprimo ha fatto per me che ciò che io posso fare perLui. Ecco che allora Emmaus è un'occasione disequela, di crescita nella fede e di impegno nellaChiesa, a servizio di altri. Il primo percorso di Emmaus, in questo anno

EMMAUS:un’esperienza di sequela

di Davide Sobatti

pastorale, ha raccolto circa una ventina di giovanida ogni parte della nostra diocesi che, nella festadell’Ascensione, hanno consegnato al Vescovo lapropria “Regola di vita”, frutto del percorso didiscernimento iniziato a ottobre scorso e che, ascadenza mensile, ha offerto loro pomeriggi diriflessione, condivisione e preghiera davantiall’Eucaristia. Insieme al percorso di accompagna-mento spirituale, ciascuno con la propria guida. ■

Camminando…Come per i due discepoli, anche per me il cammino “Emmaus” vissuto quest’anno è stato un’occasione per aprire gli occhi. Ho avuto la possibilità divivere un’esperienza di discernimento vocazionale ritagliandomi del tempo dadedicare alla mia spiritualità, per riflettere sulla mia fede, grazie anche al con-fronto con i miei coetanei e con validi testimoni, e per rinverdire la mia espe-rienza di Dio molto spesso funzionale al vissuto anziché fondante la mia vita. Mi rendo conto di essere ancora in cammino ma questa esperienza mi hadonato nuovo slancio, curiosità e impegno.

Francesca

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Q uando un po’ di tempo fami sono visto recapitarein posta elettronica dal

Centro Diocesano la proposta delpercorso "Il sapore della vita",sono rimasto subito colpito eincuriosito. Mi sono chiesto: "Cos'è che da sapore alla vita?” Tutti

abbiamo voglia di vivere una vitache "sappia di buono" e molti pro-vano a soddisfare questo nostrodesiderio profondo, con propostea volte veramente fuori di testa,come se tutti noi dovessimoessere dei supereroi. In realtàbisogna fare lo sforzo di intra-

prendere un viaggio introspettivoper cercare di andare alle radicidel nostro io più profondo, allenostre relazioni costitutive, alnostro vissuto.È stato bello condividere le nostreesperienze personali, il nostrocammino che si è arricchito di

Il sapore della vita dell’Equipe

Diocesana Adulti

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Vogliamo dare spazio anche in questo numero di Lavoriamo Insieme, ai pen-sieri di chi ha preso parte alla seconda edizione del corso “Il Sapore della Vita”proposto dall’Equipe Adulti. Informiamo inoltre che nel prossimo autunno avràluogo la terza edizione del corso che verrà attivata in un vicariato, nell’ottica diuna maggiore vicinanza alle associazioni e per favorire la partecipazione.

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incontri con maestri e testimoniche hanno senza dubbio incisosul nostro cammino di fede eumano e che ci hanno aiutato ascorgere i segni indelebili dell'a-more di Dio. Saper cogliere que-sto amore è il vero sapore dellavita, che da forma al nostro mododi essere cristiani nel mondo.Grazie quindi per l'opportunitàche mi è stata regalata, e se qual-cuno nel frattempo si fosse incu-riosito, non disperate: ci sarannosicuramente altre edizioni del per-corso. Tenete le orecchie benaperte. Carmine

Ho deciso di partecipare agliincontri "il sapore della vita" perriflettere sulla mia vita cristiana;dato che troppo spesso mi dedi-co più alle cose pratiche da farelasciando così per ultima l'impor-tanza di arricchire anche la partespirituale. Fermarmi e vederedentro di me quante cose belle horiscoperto con l'aiuto delle rifles-sioni vissute all'incontro e dellepersone che in modo semplice mihanno dato la loro testimonianzadell'amore di Cristo.Mi ha fatto capire che c'è ancoramolto lavoro da fare per scoprirela gioia nello stare insieme, neldonarsi all'altro con i nostri limiti,sapendo che la misericordia diDio è infinita. Accettare l'altrosenza giudicarlo e pensare cheogni creatura ha in sè il positivo diDio e che noi abbiamo il compitodi averne cura. È necessario faticare, fare sacrifi-ci, rinunciare, per costruire unmondo migliore con Cristo che ciè vicino, che ci aiuta, ci incorag-gia e ci sostiene nelle difficoltà,solo che troppo spesso ce nedimentichiamo. Orietta

Che dire? Quando sei lì sedutocon gli altri, cogli subito che l’in-contro è stato pensato, che chil’ha preparato ci ha creduto, chenon c’è niente di raffazzonato oappiccicato a forza. Senti ancheche intorno a te i tuoi compagni sistanno aprendo e ti fanno parteci-pe di qualcosa del loro intimo. È un dono che un po’ ti commuo-ve. E tu che sei lì e ascolti, nonpuoi che nutrire rispetto per que-sto impegno e per questa apertu-ra. E a tua volta scavi dentro te emostri agli altri un po’ di quelloche scopri di te. Sì, perché è cosìtanto tempo che non ti interrogavicon impegno né ti ascoltavi cheproprio in questi incontri ti rendiconto, con un po’ di stupore, diessere cambiato nel tempo senzache te ne accorgessi. Devo dire laverità, non mi sono pesati questiincontri. Anzi li ho sentiti come un

regalo. Certo poi quando si tornaa casa, la vita di sempre ti ripren-de nella sua danza e ti trascinama, ci torni con più consapevolez-za. C’è un po’ più di luce nel tuoagire. “Conosci te stesso!” è l’im-perativo che ci ha lasciatoSocrate, ma questa è oggi unaforma inusuale dello stare insie-me: insieme ci si aiuta a capirsi.Potrebbe essere un modo nuovodi affrontare i nodi che stannodentro di noi: i rapporti genitori-figli, i rapporti con gli altri, con noistessi. Certo ci vuole maturità emisura nel condurre gli incontri e imembri del gruppo devono inqualche modo essere pronti, ricet-tivi. È comunque qualcosa chedovrebbe rispondere meglio alleinclinazioni delle nuove genera-zioni che mal digeriscono veritàpreconfezionate e calate dall’alto. Franco ■

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Auguri di un felice matrimonio colmo di ogni benedizione del Signore a Maria,presidente dell’AC di Bariano e a Marco, suo sposo!

20 • LAVORIAMO INSIEME

IN RICORDO DI PIETRO

Pietro Arnoldi fu eletto per la prima voltaSegretario associativo nel triennio2008/2011, carica importante che ricoprìcon continuità e slancio, partecipandoanche a vari appuntamenti associativi dilivello nazionale. In seguito gli vennechiesto di occuparsi della gestione della

Casa Stella Mattutina, ruolo che svolsecon grande profusione di energie, mettendo

a diposizione le proprie consolidate competen-ze di organizzatore e amministratore. Pur impe-

gnato nel nuovo incarico continuò sempre a colla-borare con la Segreteria del centro diocesano,assicurando la propria presenza costante e flessi-bile. Negli ultimi mesi collaborò, da casa, all'am-ministrazione dell'Associa zione don AntonioSeghezzi dimostrando la capacità, a quasiottant'anni d'età, di sapersi avvalere degli stru-menti informatici più avanzati. La sua scomparsalascia il vuoto di una presenza umana e di volon-tariato delle quali certamente l'Associazione habeneficiato e per questo custodisce nei confrontidi Pietro il sentimento della gratitudine.

Marco Dusatti

Sposi novelli in associazione

L’assemblea ordinaria della ASSOCIAZIONE DON ANTONIO SEGHEZZI è convocata il giorno 22 giugno 2015 alle ore 18,30 preso la sede in Bergamo, viaZelasco 1, per discutere e deliberare sul seguente ordine del giorno:1) bilancio consuntivo 2014 e bilancio preventivo 2015.

La Presidente Paola Massi

NOTIZIE E APPUNTAMENTI

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Agli occhi di Gesù il pane è sempre qualcosa da chiedere e quindi un donodi cui ringraziare.Per mangiare bene non è sufficienteprendere e nemmeno avere il coraggio di compiere le altre azioni eucaristichecome condividere e dare: è necessarioringraziare.Il pane viene sempre dalle mani diColui che quotidianamente lo elargisce:chi, ingrato, se ne dimenticasse non lo tratterebbe secondo la giustiziaevangelica, neppure quando lo condividesse con chi non ne ha.Correrebbe infatti il rischio di presumersi “padrone del pane”, mentre solo Dio è il Signore del pane,proprio come è l’unico Signore della vita.Perciò il Figlio ringrazia non solo prima di mangiare, ma anche prima di condividere e di donare.

(Giovanni Cesare Pagazzi, La cucina del Risorto)

Elemosina dei confratelli della Misericordia dipinto murale XIII secolo d.c. - Museo della Cattedrale, Bergamo

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