numero speciale - triduo pasquale

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NUMERO SPECIALE LA SANTA PASQUA Sulle ote dello Spirito «Esulti il coro degli angeli - esulti l’assemblea celeste: un inno di gloria saluti - il trionfo del Signo- re risorto! Gioisca la terra inondata da così grande splen- dore: è la luce del re eterno, che ha vinto le tene- bre del mondo. Questa è la notte pasquale, che i credenti in Cristo salva dall’oscurità del peccato e dalla corruzione: li consacra all’amore del Padre e li unisce nella comunione dei santi. O notte veramente gloriosa, notte in cui Cristo, spezzati i vincoli della morte, risorge vincitore dal sepolcro…».

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Numero Specialela SaNta paSqua

SulleotedelloSpirito

«Esulti il coro degli angeli - esulti l’assemblea celeste:

un inno di gloria saluti - il trionfo del Signo-re risorto!

Gioisca la terra inondata da così grande splen-dore:

è la luce del re eterno, che ha vinto le tene-bre del mondo.

Questa è la notte pasquale, che i credenti in Cristo salva dall’oscurità del peccato e dalla corruzione:

li consacra all’amore del Padre e li unisce nella comunione dei santi.

O notte veramente gloriosa, notte in cui Cristo, spezzati i vincoli della morte, risorge vincitore dal sepolcro…».

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Sulle Note dello Spirito

NEL CUORE DELLA SACRAMENTALITÀ: IL TRIDUO PASQUALE

Salvatore Marsili

Sotto questo titolo preferiamo riunire tre interventi. Nel loro insieme costituiscono un mini dossier sulla teologia liturgica del Triduo pasquale. Il percorso di questi contenuti si muove dalla rilettura teologica dei contenuti della ce-lebrazione per convergere in una spiritualità che si radica nell’esperienza dei santi misteri. Da questa esperienza del Triduo prende forma, poi, tutta la realtà pasquale che si dipana nell’anno liturgico. La «lettura» che il padre Marsili compie di questi santi giorni – da ricordare che il compimento del Triduo è nel giorno di Pasqua, e che il giovedì santo costituisce un unicum con il venerdì, primo giorno del Triduo – può risultare emblematica ed esemplare per come «leggere» tutti gli altri giorni in cui si articola il mistero della Pasqua e viene riproposto per l’imitazione dei fedeli (N.d.D.).

* * * * * * * *

La cena del Signore: Pasqua sacramentale della Chiesa

Il Triduo sacro, ossia il gruppo dei tre giorni consacrati in modo particolare al ricordo e alla cele-brazione dei grandi avvenimenti con i quali Cristo portava a compimento il mistero della salvezza, si apre con quello che comunemente chiamiamo «giovedì santo». Ma l’appellativo di «santo», che il giovedì del Triduo ha in comune con gli altri giorni della settimana, conosciuta appunto come la «settimana santa», pur rilevando che si tratta di un giovedì «diverso» da tutti gli altri dell’anno, non ne specifica ancora il ruolo particolare che ha in seno alla stessa settimana. È quello che, invece, fa molto chiaramente la denominazione liturgica, che lo chiama «Giovedì della cena del Signore». Nel Vangelo di Matteo leggiamo:

«I discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: dove vuoi che ti prepariamo per mangiare la Pasqua?… Venuta la sera si mise a mensa con i Dodici. Mentre mangiavano… Gesù prese il pane e, pronunciata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: Prendete e mangiate: questo è il mio corpo. Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro dicendo: Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per tutti in re-missione dei peccati» (Mt 26,17 ss).

Il racconto evangelico chiaramente ci dice che la cena di cui si parla è la «cena pasquale», e l’importanza che essa assume nella narrazione del Vangelo e poi nella vita della Chiesa, non va vista solo nel fatto che fu per Gesù l’ultima cena che egli fece nella sua vita terrena, ma perché in essa raggiunge l’apice dell’opera di salvezza che egli è venuto a compiere nel mondo.

Nella Scrittura la Pasqua rappresenta il momento nel quale Dio libera Israele dalla schiavitù e lo fa suo popolo stringendo con lui un’alleanza, che per Israele sarà sempre la continua garanzia dell’amore indefettibile che Dio ha nei suoi riguardi. Questi due avvenimenti: la liberazione dalla schiavitù e – cinquanta giorni dopo alle falde del Sinai – l’alleanza di Dio con il suo popolo, furono sempre celebrati da Israele in quella che si chiamò «festa di Pasqua» o «festa del passaggio» liberatore di Dio che viene a salvare il suo popolo.

La festa, che si celebrava alla luna piena di primavera e cioè al 14 del mese di nìsan, era ca-ratterizzata dal fatto che ogni capofamiglia doveva offrire in sacrificio un agnello, che poi alla sera veniva mangiato da tutta la famiglia con accompagnamento di pane azzimo, ossia non lievitato, e di erbe campestri amare. Alla fine, la cena veniva chiusa bevendo un ultimo bicchiere di vino, il ter-zo della serata. Ma era una cena «rituale» e quindi molto sobria e semplice nella quale preghiere, canti di Salmi e racconti degli antichi avvenimenti della liberazione erano un elemento dominante, che le davano il suo significato religioso. Era, cioè, una cena «memoriale» in cui gli avvenimenti 10

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Sulle Note dello Spirito

antichi non erano solo ricordi di tempi lontani, ma erano annuncio che quella stessa salvezza di una volta, di cui avevano sott’occhio il segno nell’agnello pasquale sacrificato e posto sulla men-sa, si sarebbe realizzata ancora in maniera più totale e profonda nell’avvenire e cioè al tempo del Messia. In Esodo si leggeva:

«Questo giorno sarà per voi un memoriale e lo celebrerete come festa del Signore di genera-zione in generazione, con rito solenne» (Es 12,14).

«Quando i vostri figli vi chiederanno: Che significa questo rito? Voi direte loro: È il sacrificio della Pasqua, ossia del “passaggio” del Signore, quando il Signore “passò”, colpendo l’Egitto e salvando le nostre case» (Es 12,26-27).

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E un’antica tradizione ebraica commentava questi passi dell’Esodo, spiegando che nella storia del mondo vi sono «quattro notti» nelle quali si è rivelata la potenza di Dio. Di queste «notti» la prima è quella della creazione, quando Dio creò la luce, la seconda è quella del sacrificio di Isacco, che vide le perfezioni di Dio, la terza fu la liberazione storica d’Israele, quando Dio discese nel mezzo della notte a salvarlo; della quarta notte poi si dice:

«La quarta notte sarà quando verrà la fine del secolo. Allora Mosè verrà dal deserto e il Messia dall’alto, camminando su una nube, e in mezzo a loro sarà il Verbo di Dio. Sarà la notte di Pasqua, notte fissata e riservata per la salvezza di tutte le generazioni in Israele».

In questa atmosfera di attesa si muoveva Gesù in quell’ultima sua cena della notte di Pasqua, come ci rivelano le sue stesse parole: «Ho desiderato tanto ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione» (Lc 22,16).

Così, quando egli al principio della cena presentò ai discepoli il pane azzimo, tipico pane pasquale, commentò questo suo gesto dicendo le parole rituali che sempre in quell’occasione l’accompagnavano: «Questo è il pane dell’afflizione e della miseria, che i nostri padri mangiarono in Egitto, ecc…». Cominciata così la narrazione dell’antica storia, culminata in una liberazione, che era il simbolo di quella che si sarebbe compiuta nella Pasqua del Messia, egli la concluse parlando della «afflizione» che egli avrebbe sofferto nella sua imminente passione. Così il «pane dell’afflizione» antica si trasformava tra le sue mani e sotto le sue parole in «pane della sua passione», e quindi terminava il suo dire invitando tutti a mangiare quel «pane che è il suo corpo sacrificato». L’antica liberazione si dileguava come un’ombra in lontananza e si entrava nella realtà nuova del regno di Dio.

La cena, come s’è detto, si concludeva con un terzo bicchiere di vino, da cui tutti dovevano bere. Dalla preghiera, che precedeva quest’ultimo bere «rituale», che era preghiera di ringraziamento a Dio per la fedeltà alla sua prima alleanza, Gesù traeva motivo per introdurre quel vino che in occasione delle nozze di Cana aveva promesso alla Madonna di dare, quando fosse «giunta la sua ora» (Gv 2,4). Mentre la preghiera sul calice, che Gesù teneva in mano, richiamava al sangue dell’antica alleanza del Sinai, Gesù volgeva il suo spirito al sangue che egli avrebbe versato sulla croce e che avrebbe sancito la «nuova alleanza», che per mezzo del profeta Geremia (31,31) a Dio aveva promesso a compimento della prima, e così egli terminò dicendo: «Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue della nuova alleanza, versato per tutti in remissione dei peccati» (Mt 26,27; Lc 22,20). E aggiungeva: «Fate questo in memoria di me» (1Cor 11,25; Lc 22,19).

La Pasqua, da annuncio a realtà di salvezza, aveva raggiunto la pienezza: era liberazione e alleanza definitiva e perfetta. In Cristo tutti gli uomini erano ormai dei liberati e dei redenti, riuniti con un’alleanza d’amore indistruttibile al loro Dio.

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Il concilio di Trento ha così sintetizzato autorevolmente tutto il profondo significato della «cena del Signore»:

«Così facendo, Cristo lasciò se stesso come “nuova Pasqua”, affinché la Chiesa lo offrisse in sacrificio, attraverso il ministero dei sacerdoti, in memoria del suo “passaggio” [Pasqua] da questo mondo al Padre, quando egli ci diede la redenzione con il suo sangue e, liberandoci dal potere delle tenebre, ci trasferì nel suo regno» (Sess. XXII).

E tutto questo è chiamata a celebrare la Chiesa nel «Giovedì della cena del Signore». Essa si raccoglie attorno a Cristo, ricostituisce oggi attorno a lui tutto il gruppo fedele dei suoi discepoli che vogliono mangiare con lui la Pasqua, la sua Pasqua. «Mangiare la Pasqua» vuol dire credere che per la passione-morte-risurrezione di Cristo, unica Pasqua reale di salvezza, gli uomini sono passati in Cristo e con Cristo dalla morte del peccato alla vita di Dio. «Mangiare la Pasqua» vuol dire unirsi realmente e attualmente nel sacramento e cioè nel simbolo del pane e del vino consacrati, a quella stessa Pasqua di Cristo, che fu morte e risurrezione, in modo che questo evento di salvezza non resti solo un ricordo di avvenimenti lontani nel tempo, ma sia, per la presenza reale del sacrificio di Cristo, un nostro uscire volontario dalla sfera del peccato e un accogliere in noi la presenza salvifica di Dio. «Mangiare la Pasqua» vuol dire, insomma, far diventare realtà personale di ognuno di noi quello che Cristo realizzò per noi: il ritorno al Padre in un atteggiamento di conversione in cui si esprima la nostra volontà di ubbidienza amorosa e filiale; di questo infatti è simbolo l’essere accolti alla «mensa del Signore».

Il «Giovedì della cena del Signore» è il giorno in cui nella Chiesa l’Eucaristia riassume appieno in forma visibile il suo ruolo fondamentale di sacramento dell’unità della Chiesa, ruolo già espresso da Paolo:

«Il calice della benedizione, che noi beviamo, non è forse comunione al sangue di Cristo? E il pane, che noi spezziamo, non è forse comunione al corpo di Cristo? Poiché unico è il pane, noi, pur essendo molti, siamo un unico corpo; tutti infatti partecipiamo di quell’unico pane» (1Cor 10,16-17).

La parola della fede è chiara: tutti noi che mangiamo il corpo di Cristo nel sacramento, formiamo il corpo unico di Cristo nella realtà. Ed è una parola che certamente diventa realtà in ogni comunione eucaristica, dovunque e comunque essa avvenga. Lo chiediamo espressamente nella «preghiera eucaristica» ogni giorno:

«Ti preghiamo umilmente: per la comunione al corpo e al sangue di Cristo lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo».

«A noi, che ci nutriamo del corpo e del sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo, perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito».

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«A tutti coloro che mangeranno di quest’unico pane e berranno di quest’unico calice concedi che, riuniti in un solo corpo dallo Spirito Santo, diventino offerta viva in Cristo a lode della tua gloria».

E si potrebbe continuare con san Cipriano, che nota come «noi da singoli numeri che eravamo, siamo stati portati all’unità, comunicando al corpo di Cristo» (Lettera 63). Se poi ascoltiamo sant’Agostino egli ci avverte:

«Sulla mensa del Signore c’è il vostro mistero e nella comunione voi ricevete il vostro mistero. Al sacerdote che nel comunicarvi vi dice: “Il corpo di Cristo”, voi rispondete: “Amen”; voi cioè dite “Amen” a quello che siete e confermate di volerlo essere: corpo di Cristo. Siate dunque veramente membra del corpo di Cristo, affinché il vostro “Amen” sia sempre vero… Il Signore infatti sulla sua mensa ha consacrato il mistero della nostra unità» (Serm. 272).

E facendo eco a questa antica teologia dei padri, il Vaticano II ci ripete con san Leone Magno:

«La partecipazione al corpo e al sangue di Cristo a null’altro tende che a trasformarsi in quello stesso che riceviamo, e cioè in corpo di Cristo» (Lumen gentium 26; cf. Leone Magno, Serm. 63,7).

Ma quello che è vero sempre, nella «cena del Signore del giovedì santo» deve apparire anche esternamente. Di qui la tassativa disposizione che in una parrocchia o in altra chiesa pubblica, pur essendovi più sacerdoti, abbia luogo una sola celebrazione alla quale tutti insieme partecipino: i fedeli come popolo di Dio e i sacerdoti come concelebranti, radunati tutti attorno a un unico altare per un’unica Eucaristia sotto un unico presidente della celebrazione.

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Di questa unità Cristo non ci ha lasciato solo il sacramento nel suo corpo, ma ce ne ha dato anche l’esempio, con un gesto innovatore inserito nel rituale della cena pasquale ebraica. Leggiamo:

«Gesù si alzò da tavola, depose le sue vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò l’acqua in un catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto… Quando ebbe lavato i loro piedi e riprese le vesti, sedette di nuovo e disse: “Sapete ciò che vi ho fatto?… Io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi; anche voi dunque dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri”» (Gv 13,4ss).

Nel sacramento dell’unico pane Cristo ha voluto comunicarsi a ognuno per tutti riunire nella realtà del suo amore che, dato indistintamente a tutti gli uomini, non fu puro sentimento, ma fu un mettersi a servizio di tutti, e non pretesa a essere servito.

La risposta che il Signore aspetta da coloro che egli ha invitato alla sua cena è che ognuno, «alzandosi come lui dalla cena, deponga le proprie vesti» per «stare in mezzo agli altri come uno che è a loro servizio» (Lc 22,37). Assumere un atteggiamento di umile servizio verso gli altri, avere un senso di schietta e paziente fraternità per ogni miseria, non chiudersi nel proprio egoismo ma aprirsi generosamente e anche con sacrificio: questo sarà il segno che anche quest’anno la cena del Signore è stata una Pasqua vera, fatta di liberazione del male che è in noi, e di alleanza che, nata dall’amore di Cristo, si trasforma in amore per i fratelli.

Finita la Messa, l’Eucaristia che è avanzata, viene solennemente portata nel luogo dove sarà conservata sino all’indomani per essere consumata nella celebrazione della passione del Signore. Il rito che oggi assume un particolare rilievo, perché è ad esso peculiare, nell’antichità era uso del tutto normale, motivato da due ragioni: bisognava conservare parte dell’Eucaristia per eventuali comunioni di chi non aveva potuto partecipare alla celebrazione (per esempio, malati, pellegrini di passaggio…); d’altra parte, non si riteneva che l’altare fosse fatto per conservarvi l’Eucaristia,

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e così questa, chiusa in un recipiente adatto e decoroso, veniva portata in sacrestia e lì veniva conservata.

Con lo svilupparsi, attorno al XII-XIII sec., della grande devozione eucaristica non si ammise più che il trasporto dell’Eucaristia, soprattutto nel giorno ad essa particolarmente consacrato, avvenisse in forma quasi inavvertita né che essa venisse conservata in un luogo chiuso e appartato come la sacrestia. Nacque così l’uso che la «riserva eucaristica» del giovedì santo fosse sottolineata da un grande addobbo floreale e di luci e drappi preziosi e, naturalmente, dalla presenza continua di adoratori.

Per una strana anomalia, talvolta favorita anche da usanze liturgiche locali, la «riserva eucaristica» del giovedì santo – che in fondo non è altro che il comune «tabernacolo» nel quale si tiene l’Eucaristia – in molte parti ha preso il nome di «sepolcro». Non solo, ma s’è sviluppata nel popolo una strana forma di pietà che si chiama «visita ai sepolcri», che consiste nel fatto che visitatori quasi sempre frettolosi uniscono la devozione di una breve devozione di preghiera con il piacere di ammirare l’addobbo del «sepolcro» di una chiesa e di confrontarne la bellezza e la genialità con quella del «sepolcro» visto altrove.

Nella chiesa cattedrale il vescovo, oltre la «cena del Signore» alla sera, celebra nella mattinata una Messa detta «crismale». Il nome le viene dal fatto che in essa il vescovo consacra il crisma, olio profumato che si usa per il sacramento della Confermazione, e insieme con esso consacra l’«olio dei catecumeni», con cui si segnano i battezzandi, e l’«olio degli infermi», necessario per il sacramento dell’Unzione degli infermi.

Tanto il crisma che gli altri olii vengono, poi, distribuiti in tre distinte ampolle a tutti i parroci della diocesi. Questi però sono invitati a concelebrare con il proprio vescovo l’Eucaristia della Messa crismale in segno di unità sacerdotale e pastorale con lui, in attesa poi di celebrare alla sera, ognuno con la propria famiglia parrocchiale, la «cena del Signore».

La Pasqua, che già nei tempi antichi una prima volta costituì in popolo di Dio le tribù d’Israele e ogni anno ne riformava spiritualmente l’unità attorno al suo Dio, anche ora nel sacramento della cena del Signore «rifonda» la comunità dei cristiani nell’unità del corpo di Cristo, che è la Chiesa. In una delle più antiche omelie pasquali che conosciamo (fine del II sec.) leggiamo:

«O Pasqua divina, tu hai unito spiritualmente a noi il Dio che i cieli non possono racchiudere. Per te la grande sala di nozze si è riempita; tutti indossano la veste nuziale. Per te più non si spengono le lampade delle anime, ma divinamente in tutti trascorre il fuoco spirituale della grazia, alimentato dal corpo e dallo spirito di Cristo».

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Venerdì della passione del Signore: Pasqua del Nuovo Testamento

L’entrata in una chiesa al pomeriggio del venerdì santo, per la «Celebrazione della passione del Signore» – così essa si chiama – ci pone davanti a uno «spettacolo» inconsueto: non vi compaiono fiori e luci, non si odono canti. Vediamo infatti che, davanti a un altare nudo e spoglio di qualunque addobbo, i ministri della celebrazione e il popolo sono prostrati in una preghiera umile e silenziosa. Per sé la cosa non ha nessun’altra misteriosa ragione se non quella di riportarci indietro nei secoli, ai primi tempi della Chiesa, in cui appunto così si cominciava ogni celebrazione. Resta però il fatto, certamente non senza significato, che successive trasformazioni per le quali la celebrazione liturgica in genere, già in apertura di rito si è arricchita di luci e di canti, mentre sono diventate normali per tutti i giorni dell’anno, non abbiano invece toccato il venerdì santo, che ha conservata viva l’antica forma.

Senza fare appello al sentimento, come fece il Medioevo, che vide un voluto squallore di

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tristezza là dove invece c’era solo la semplicità della liturgia linearmente spirituale delle origini, dobbiamo pur rilevare che l’avvenimento della morte di Cristo, che tutta la storia del mondo ha spaccato in due – cioè nel «prima di Cristo» e nel «dopo Cristo» –, viene celebrato in una forma che è ben lontana da qualunque gestualità trionfante. E infatti questa non è stata vista dalla liturgia come adeguata all’avvenimento della morte del Signore, che nel disegno di Dio e nella stessa parola di Cristo non doveva essere altro che l’umile e silenzioso «seme il quale solo cadendo in terra e morendo può portare molto frutto» (Gv 12,24).

E in verità quel che la liturgia del venerdì santo postula, al di là di ogni sentimento di tristezza che non intende favorire, è soprattutto una profonda attenzione al vero intimo valore teologico della morte di Cristo, che viene oggi rivissuta nella celebrazione; e sarà la stessa preghiera di apertura del rito a darci di quella passione e morte la vera chiave di lettura, quando ci ricorda che «con la sua passione Cristo inaugurò il mistero pasquale». Quel mistero pasquale, che già nel giovedì santo Cristo ci ha dato nel rito sacramentale della sua cena, ora nel venerdì santo ci viene presentato in tutta la sua realtà di sacrificio cruento offerto da Cristo nella sua morte sulla croce. E appunto sotto la croce di Cristo si raccoglie oggi la liturgia, perché anche oggi «si compie la Scrittura che dice: Vedranno chi è colui che hanno trafitto» (Zc 12,10 in Gv 19,27).

Il sentirsi presenti e partecipi al «mistero pasquale» di Cristo, il sentirsi cioè oggetto della definitiva liberazione dal peccato e dell’alleanza eterna con Dio che Cristo compie sulla croce: ecco l’atteggiamento che ci può dare il senso unitario dei tre distinti momenti in cui la celebrazione si articola e che sono, nell’ordine: parola di Dio, rivelazione e adorazione della croce, comunione.

– La Liturgia della Parola, che sarà chiusa dalla «preghiera universale», è strutturata su tre letture: una dall’Antico Testamento e due dal Nuovo Testamento. Nella prima lettura risuona quello che in Isaia è noto come «il quarto canto del servo del Signore», servo innominato, ma la cui sofferenza, così grande da sfigurare il suo aspetto umano, costituisce un fatto tanto inaudito, che tutti ne resteranno meravigliati e stupiti fin quasi a non credere che esso sia mai avvenuto.

«È come un virgulto e una radice che sorga da terra arida, non ha apparenza né bellezza capaci di attirare lo sguardo. Disprezzato e rifiutato dagli uomini, uomo dei dolori, è uno davanti al quale ci si copre la faccia per non vederlo, è uno del quale nessuno ha stima… Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì bocca; come un agnello fu portato al macello, e non aprì bocca. Con l’oppressione e con ingiusta sentenza fu tolto di mezzo, e non ci fu chi si affliggesse per la sua sorte» (Is 53,2-3. 7-8).

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Il profeta ci porta però al di là di quel che si vede e ci svela come in tutto questo fosse all’opera la potenza di Dio. Infatti:

«Mentre noi lo giudicavamo un percosso e un umiliato da Dio, egli appariva così, perché si è caricato delle nostre sofferenze e si è addossato i nostri dolori. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, s’è lasciato schiacciare per le nostre iniquità; per la nostra salvezza su di lui si è abbattuta la pena, e le sue piaghe sono la nostra guarigione. È Dio che gli ha fatto portare l’iniquità di tutti noi, che come pecore sperdute seguivamo ognuno la propria via. Ma dopo il suo intimo tormento egli vedrà la luce, e a lui il Signore darà in premio le moltitudini dei popoli» (Is 53,4-6.11).

A questo annuncio del profeta, che ci scopre l’intima ragione della sofferenza di Cristo nella salvezza degli uomini, la passione del Signore si trasfigura e si ammanta della luce meravigliosa dell’amore di Cristo per noi; e la sua ingiusta durezza, apparentemente così mostruosa da essere inspiegabile, si rivela essere la santa e invisibile «liturgia di espiazione» del nuovo sommo sacerdote Cristo – come dice la seconda lettura – che a tutti apre l’accesso a Dio e alla sua grazia e misericordia.

Nella terza lettura, il racconto della passione del Signore secondo il Vangelo di Giovanni, divenne la descrizione del «passaggio», ossia della Pasqua del Signore, e precisamente nell’intento esplicito di fare della passione-morte di Cristo il compimento, sul piano della salvezza, di quello che era il significato profondo della Pasqua antica. Si sa, infatti, che tutto il Vangelo di Giovanni è scritto all’insegna di Cristo-Agnello pasquale del Nuovo Testamento. Esso comincia con il mostrarci che Gesù dà inizio alla sua vita pubblica quando, nei giorni di Pasqua, confuso tra la folla, viene al Giordano per farsi battezzare da Giovanni il Battista, e questi guardandolo con l’occhio degli antichi profeti, annuncia che in lui è ormai presente «l’Agnello di Dio, che viene a togliere il peccato del mondo» (Gv 1,29.36).

E alla fine, nello stesso Vangelo, la morte di Gesù non solo accade al giorno e all’ora in cui nel tempio di Gerusalemme si sta facendo il sacrificio dell’agnello pasquale, ma, al di là della coincidenza di tempo, essa è presentata come quella in cui finalmente «si compie la Scrittura» ossia ciò che in essa si legge relativamente all’agnello pasquale (Gv 19,36). In altre parole: la morte di Cristo «compie», porta cioè a livello di realtà presente, quella salvezza di liberazione e alleanza di cui il sacrificio dell’agnello era l’annuncio profetico in simbolo. A questa salvezza ormai realizzata pensava Paolo, quando esclamava: «Come nostro agnello pasquale è stato immolato Cristo» (1Cor 5,7).

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Ed ecco come al II sec. Melitone di Sardi, nella celebre omelia pronunciata appunto in un venerdì santo, esprime questo passaggio dalla profezia alla realtà; alle parole, riprese dall’haggadàh della Pasqua ebraica, aggiunse quelle del canto pasquale del Nuovo Testamento, come si legge in Ap 5,9-10; e dice:

«Cristo è l’agnello pasquale che ci ha fatto passare dalla schiavitù alla libertà, dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita, dalla tirannide al regno eterno [haggadàh], e ha fatto di noi il sacerdozio nuovo e il popolo eletto in eterno [Apocalisse]. Egli è la Pasqua della nostra salvezza».

In questa fede, che vede nella morte di Cristo la salvezza del mondo, ben si situa la «preghiera universale» a chiusura della Liturgia della Parola. Essa ci si presenta ancora oggi nella sua forma più antica, che è più solenne nello stile e più impegnativa sul piano personale, pur essendo una preghiera comunitaria. Mentre la nostra attuale «preghiera dei fedeli», che si ispira alla formula introdotta al VII sec. da papa Gelasio, è più semplice e veloce nello svolgimento, perché a ogni intenzione fa seguire una sempre uguale invocazione di supplica di tutta l’assemblea. La «preghiera universale» del venerdì santo si compone dell’annuncio di un’intenzione, cui segue la preghiera eseguita in due tempi: prima come preghiera «silenziosa» individuale da parte dei singoli, poi come preghiera «solenne» a voce alta del sacerdote, che riassume e, «per Cristo», presenta al Padre la preghiera di tutti. L’attuale «preghiera universale»,pur conservando la forma antica, è stata tuttavia rivestita e aggiornata con la riforma liturgia del Vaticano II a situazioni più in consonanza con i nostri tempi.

– Il rito della croce costituisce il secondo momento della celebrazione e si attua in due tempi: la «rivelazione-ostensione» della croce e le sue «adorazioni». Il rito è originario di Gerusalemme e sul finire del IV sec. viene conosciuto in Occidente attraverso il Diario di viaggio di Ethèria, una pia pellegrina della Francia meridionale, annotatrice diligente e intelligente degli usi liturgici riscontrati a Gerusalemme nei giorni della settimana santa. Essa così descrive il rito, visto a Gerusalemme:

«Ai piedi della croce, che si erge sul Golgota, il vescovo prende posto nella sede che gli è stata preparata. Davanti a lui c’è una mensa, coperta con tovaglia, e attorno ad essa stanno in piedi i diaconi. Si porta sulla mensa un cofanetto d’argento dorato, nel quale è racchiuso il legno della croce; il vescovo l’apre ed espone sulla mensa il legno, poggiando le mani sulle due estremità di esso. Secondo l’usanza, tutti a uno a uno vengono alla mensa, fanno un inchino e posano prima la fronte poi gli occhi sul legno, lo baciano e si ritirano, senza che alcuno tocchi mai il legno con le proprie mani. I diaconi poi vigilano affinché non accada, come si racconta sia già avvenuto, che qualcuno nel baciare il legno, lo morda con i denti per portarsene via un frammento».

A Roma, nella basilica costantiniana – detta appunto «Santa Croce in Gerusalemme» perché vi si conservava una parte notevole del legno della croce – era ovvio che si imitasse il rito di Gerusalemme. Così quando con i libri liturgici romani, che emigrarono verso il resto

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dell’Europa, il rito divenne dappertutto una delle componenti della celebrazione del venerdì santo, anche là dove non c’era il legno della croce, una qualunque croce di legno servì a rimpiazzare quello.

In conformità, dunque, di quello che fu l’uso prima di Gerusalemme e poi di Roma, il rito della croce comprende prima la «rivelazione-ostensione» della croce e poi la sua «adorazione». La «rivelazione-ostensione» può svolgersi in due modi: a) il celebrante va a ricevere la croce all’ingresso della chiesa e la porta verso l’altare, sostando tre volte per proclamare: «Ecco il legno della croce», cui il popolo risponde: «Venite, adoriamo» e poi s’inginocchia; oppure b) la croce viene portata, ancora velata, al celebrante che l’attende ai piedi dell’altare; questi, salito all’altare, la scoprirà e la mostrerà al popolo, con triplice proclamazione e risposta del popolo, come sopra. Il fatto della croce «velata» è un residuo dell’uso medievale che, quindici

giorni prima di Pasqua, esigeva si coprissero con veli violacei, in segno di lutto, tutte le immagini della chiesa. A parte l’usanza medievale, in se stessa discutibile, lo «svelamento»

solenne della croce è un rito profondamente suggestivo, perché è come il simbolo di ciò che la precedente Liturgia della Parola voleva provocare: un ulteriore, più chiara «rivelazione» del mistero della morte di Cristo,

in modo che anche oggi nell’assemblea «si compia» la parola del

profeta: «Vedranno chi è colui che hanno trafitto»(Zc 12,10). Dei due modi di seguire il rito, quello (a) di prendere la croce all’ingresso

della chiesa e portarla in processione tra le due ali di popolo, è soprattutto un rito di «ostensione», e forse è troppo simile alla processione che si farà al sabato

santo con il cereo benedetto, per essere raccomandata anche al venerdì. Il secondo modo (b), che all’«ostensione» premette lo «svelamento» della croce, ci sembra che riveste molto opportunamente un aspetto di «rivelazione», che può essere molto ben valorizzato nella catechesi o almeno nella didascalia che deve accompagnare i riti.

Dopo l’«ostensione», la croce, accompagnata da accoliti con candele accese, viene portata dal celebrante all’ingresso del presbiterio, dove, sostenuta ai lati da due altri accoliti, tutti, dopo il celebrante, sono invitati a baciarla in segno di venerazione. Il rito dell’«adorazione» è accompagnato da canti, detti «rimproveri» o «lamenti» del Signore. In essi, sotto il simbolo degli antichi avvenimenti, il Signore ci ricorda accoratamente l’amore con cui si è prodigato per noi e ci chiede una risposta. Il popolo non ha altra risposta che quella di chiedere insistentemente «pietà», e la chiede intrecciando un’invocazione latina a un’invocazione greca: «Hàgios o Thèos - Sanctus Deus! Hàgios athànatos elèison hymàs - Sanctus immortalis miserere nobis!». Così ancora oggi, dopo molti secoli, questo rito dell’«adorazione» della croce presenta nell’invocazione greca la firma delle sue lontane origini orientali.

– Il rito di comunione chiude la celebrazione del venerdì santo. L’Eucaristia, rimasta dal giovedì santo, viene portata senza alcuna solennità all’altare, e

premessa solo la preghiera del Padre nostro, detta insieme dal celebrante e dai fedeli, si procede come al solito alla comunione, che oggi anche il celebrante farà

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solo al sacramento del corpo del Signore, perché esso e non il sacramento del sangue era stato conservato. Prima della riforma liturgica del Vaticano II, solo il celebrante e non i fedeli facevano la comunione. Ma più anticamente ancora, al VII sec., s’incontra a Roma una doppia usanza: il papa e i suoi ministri che celebravano a Santa Croce in Gerusalemme non si comunicavano, ma i fedeli che lo desideravano potevano fare la comunione nelle altre chiese presbiterali. Non era certo questione di minor devozione negli uni e di maggior devozione negli altri. Si trattava solo di fedeltà a una diversa tradizione.

La primitiva tradizione cristiana non aveva Eucaristia nei giorni di digiuno. Quest’uso cominciò a cambiare sul finire del II sec., così vediamo Tertulliano occupato a persuadere i riluttanti sulla ragionevolezza di chiudere il giorno di digiuno con l’Eucaristia (cf. De orat.). Con il tempo la nuova prassi si affermò, ma non fino al punto di imporsi ai giorni di digiuno consacrati alla morte di Cristo. Infatti ancora agli inizi del V sec. papa Innocenzo I scrive a Decenzio, vescovo di Gubbio, che lo aveva interrogato in proposito, per dirgli:

«È chiaro che gli apostoli in questi due giorni del venerdì e sabato santo furono in profonda tristezza… e senza dubbio digiunarono in modo che è diventata tradizione il non celebrare i santi misteri in questi due giorni…».

Evidentemente, però, il nuovo corso, nonostante resistenze e ragioni come quelle di Innocenzo I, nel popolo si era affermato senza far distinzioni tra i giorni di digiuno. Questo spiega perché al VII sec. il papa, fedele alla primitiva tradizione – che è anche quella di Innocenzo I –, non si comunichi mentre il popolo può comunicarsi, e ciò semplicemente in conformità a quello che fa negli altri giorni di digiuno. Con il tempo l’uso seguito dalle celebrazioni presbiterali, che sono quelle nelle quali il popolo comunica, prende il sopravvento sulla celebrazione papale, e in esse comunicano tanto il celebrante che i fedeli. E così fino a quando il presbitero sarà solo a comunicarsi, perché la comunione dei fedeli non solo al venerdì santo, ma in tutti i giorni dell’anno si dirada fino a scomparire. Fu così che si trovò a comunicarsi solo il celebrante nel venerdì santo, come in quasi tutte le celebrazioni dell’anno. Non bisogna, infatti, dimenticare che nel 1215 si dovette comandare con precetto grave «almeno una volta all’anno»!

Quest’uso certamente anomalo in tutti i sensi, è stato giustamente corretto dalla riforma del Vaticano II, che consente la comunione ai fedeli e non solo al celebrante, affinché tutti anche al venerdì santo – giorno in cui Cristo si offre come Agnello pasquale del Nuovo Testamento –, noi nel sacramento del suo corpo partecipiamo al suo sacrificio, per diventare anche noi davanti a Padre offerta viva in Cristo.

* * * * * * * *

Sabato santo: giorno di silenzio e notte santa della luce

Il giorno del sabato santo è veramente il giorno più «nuovo» e insieme il più «antico» dell’anno liturgico. Il più nuovo perché, in effetti, si distingue da tutti gli altri in quanto è fatto solo di preghiera, senza speciali forme di celebrazione, e la preghiera stessa avviene in una chiesa spenta e disadorna, come non è mai nel resto dell’anno. Ma questo che forma la «novità» del sabato santo nei confronti degli altri giorni dell’anno liturgico, è il segno della sua «antichità», perché in esso noi viviamo la più antica forma di giorno di digiuno e preghiera secondo il primitivo uso cristiano.

Ma al di là di questa reminiscenza storica, il sabato santo è il giorno del silenzio della Chiesa, che segue Cristo nel lungo e silenzioso cammino, per il quale egli, attraverso i meandri e gli abissi oscuri della morte, va aprendo agli uomini la via che li porterà con lui alla vita gloriosa di Dio. È un silenzio intriso di preghiera-colloquio con Dio perché ci aiuti a comprendere il senso del dramma di Cristo: l’intima sofferenza che noi, come lui, proviamo in conseguenza della nostra fedeltà a

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Dio e alla sua Parola, non è una notte senza stelle, è anzi la notte dalla quale nasce per noi la luce di una vita nuova e divina. E in verità i protagonisti della celebrazione alla quale c’introdurrà il sabato santo al suo finire, sono una notte che fugge e la luce che avanza fino a prendere il chiarore luminoso del Cristo risorto.

– Veglia pasquale nella notte santa è il nome proprio della celebrazione che nella notte segue al silenzio del sabato santo. È un nome che riporta a Es 12,41 che, parlando del momento in cui Dio liberò Israele dalla schiavitù, dice:

«Notte di veglia fu quella per il Signore, quando fece uscire gli israeliti dalla schiavitù; e notte di veglia sarà essa per Israele in onore del Signore».

In quella prima notte pasquale la fuga degli ebrei dal paese della schiavitù fu rischiarata da una nube luminosa, segno della presenza protettrice di Dio (Es 13,21-22). La notte pasquale della Chiesa sarà anch’essa una «veglia» tutta invasa da un’apparizione di luce, il cui nome sarà ormai «luce di Cristo».

– Il rito della luce, che ora nella liturgia romana apre solennemente la veglia di Pasqua, trae la sua origine da un analogo rito ebraico, che apriva la celebrazione del sabato alla sera del venerdì, e che fin dai tempi antichissimi fu imitato da molte Chiese cristiane, le quali lo celebravano però giornalmente con il nome di «lucernare», quando all’ora del vespro l’oscurità ormai incombente rendeva necessario accendere le lucerne. Roma – che non sembra averlo mai avuto nella sua liturgia quotidiana – lo accettò invece come particolare rito pasquale verso il VII-VIII sec.

Nella sua forma attuale è previsto che il celebrante prepari un grosso cero, disegnando su di esso una croce, sulle cui aste orizzontale e verticale vengono infissi cinque grani d’incenso in ricordo delle cinque piaghe di Cristo, e nei quattro lati, formati dall’incrocio delle stesse aste, incide le quattro cifre che formano il numero dell’anno in corso, per indicare simbolicamente che

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Cristo, a cui «appartengono il tempo e i secoli», vuole illuminare della sua luce ogni nostro anno, ogni anno della redenzione del mondo. Ciò fatto, si snoda la processione della luce, aperta dal celebrante o dal suo diacono, che porta il cero acceso. Entrando in chiesa, che è tutta immersa nell’oscurità, il celebrante per tre volte si arresta elevando il cero e, ogni volta con tono di voce più alto, canta: «Cristo, luce del mondo!» cui tutto il popolo, che forma corteo dietro il cero, con lo stesso tono risponde: «Rendiamo grazie a Dio!». Intanto ognuno dei presenti accende dalla luce, che uno ha preso dal cero, la propria candela, e così dall’oscurità della chiesa, che il cero da solo non riesce a diradare, si vedono emergere uno dopo l’altro i volti dei fedeli, illuminati ognuno dalla fiammella della propria candela, finché, giunto il cero nei pressi dell’altare, dove viene issato sul suo candelabro, tutte le lampade si accendono, e così anche la chiesa resta tutta inondata di luce.

Questo espandersi progressivo di luce, che partendo dalla lingua fiammeggiante del cero, tutto e tutti investe, provoca con la sua carica, così fortemente simbolica, un’esperienza interiore che non può non prorompere. Ed ecco che un cantore sale sull’ambone e proclamando che «è giusto esprimere con il canto l’esultanza dello spirito», intona con mistico slancio un inno che nella luce del cero vede apparire e risplendere lo splendore luminoso del Cristo risorto:

«Esulti il coro degli angeli - esulti l’assemblea celeste: un inno di gloria saluti - il trionfo del Signore risorto! Gioisca la terra inondata da così grande splendore: è la luce del re eterno, che ha vinto le tenebre del mondo. Questa è la notte pasquale, che i credenti in Cristo salva dall’oscurità del peccato e dalla corruzione: li consacra all’amore del Padre e li unisce nella comunione dei santi. O notte veramente gloriosa, notte in cui Cristo, spezzati i vincoli della morte, risorge vincitore dal sepolcro…».

Con questo «Solenne annuncio della Pasqua» – tale è il nome liturgico dell’inno – la celebrazione ha ormai imposto il suo significato: altissima lode e fervido ringraziamento per la risurrezione di Cristo, che sanziona la salvezza degli uomini.

– La veglia battesimale. Nell’antichità cristiana la notte di Pasqua era dedicata soprattutto al Battesimo dei nuovi cristiani o, meglio, all’«iniziazione cristiana» dei nuovi fedeli. Al Battesimo

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seguiva, infatti, ad opera del vescovo, l’imposizione delle mani per la Confermazione, e poi, ammessi ormai a pieno titolo nella comunità cristiana, potevano per la prima volta partecipare all’Eucaristia. Era anzi la prima volta che ne vedevano la celebrazione, perché nelle altre domeniche, dopo aver ascoltato con tutti la Liturgia della Parola, i non battezzati erano pregati di uscire dall’assemblea, non potendo presenziare al rito della «mensa del Signore».

Quelli che tra i nuovi convertiti alla fede erano stati giudicati, dopo la prima lunga preparazione, essere pronti per il Battesimo, nella quaresima che precedeva la Pasqua nella quale dovevano

essere battezzati, venivano giornalmente radunati per una più intensa istruzione e formazione, che comprendeva tra l’altro la dettagliata spiegazione e l’apprendimento a memoria del Credo e della preghiera del Padre nostro. Finalmente nella notte di Pasqua gli insegnamenti fondamentali venivano ancora ripresentati e riassunti ai battezzandi, proponendo loro un certo numero di letture bibliche. A Roma nei tempi antichi il numero di queste letture variò da quattro a dodici; ma nell’ultima riforma liturgica del Vaticano II queste letture sono state fissate, come norma, nel numero di sette.

Che queste letture avvengano alla luce del cero pasquale, simbolo di Cristo pasquale, che continua ad ardere in continuità dell’ambone, mentre le altre luci sono state nuovamente spente, è un fatto che va al di là di una circostanza puramente esteriore, perché già esso ci mostra che le letture devono essere fatte in chiave – come si dice – «tipologico-cristiana», dando cioè all’avvenimento il valore del «tipo».

Ci spieghiamo. Il termine «tipo» viene usato dal linguaggio biblico e liturgico con significato molto diverso dall’attuale, in quanto esso si rifà al senso originario della parola greca typos, che si dice di figura incisa in negativo (si pensi, ad esempio, al cliché tipografico o al negativo fotografico). Se l’incisione in negativo, ossia il «tipo», viene riprodotta per impressione, il suo disegno e il significato di esso diventano subito chiaramente intelligibili. Nel caso nostro, gli avvenimenti narrati dalle letture bibliche sono appunto avvenimenti-«tipo», tali cioè che acquistano tutto il loro significato e tutta la loro realtà quando vediamo che quel che in essi viene

narrato, si verifica in Cristo e nella sua opera. Sono insomma avvenimenti che, al di là della realtà di fatti un giorno accaduti, annunciano profeticamente nel futuro tempo del Messia, avvenimenti analoghi a quelli, ma di dimensioni e di valore infinitamente superiori. Il rapporto che passa, in concreto, tra gli avvenimenti-«tipo» dell’Antico Testamento e Cristo nel Nuovo Testamento, sarebbe il rapporto che c’è tra il disegno abbozzato di un’opera e la sua realizzazione definitiva. È

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chiaro che una lettura tipologica dell’Antico Testamento, oltre a non essere per sé né immediata né facile né tantomeno abituale al nostro popolo, esige sempre una parola di introduzione o almeno di spiegazione a lettura avvenuta, con l’inevitabile conseguenza di un prolungarsi eccessivo, per i nostri gusti, della celebrazione. A evitare questo inconveniente si può ricorrere alla facoltà concessa di «ridurre» il numero delle letture anche a due o tre soltanto. In questo modo, anche in numero ridotto, le letture della veglia pasquale assolverebbero ancora al loro ruolo di richiamare alla coscienza di tutti, che attraverso il Battesimo quegli antichi avvenimenti trovano ora, per mezzo di Cristo, pieno e reale compimento in noi.

E in effetti, finite le letture dell’Antico Testamento, ecco Paolo a ricordarci che ormai per noi la salvezza è una realtà dal momento che, per il Battesimo, siamo diventati partecipi di Cristo e del suo mistero salvifico di morte e risurrezione. Ed è esaltante la certezza che vibra nella parola dell’apostolo nel presentarci questa realtà: «Guardate a quello che siete: morti al peccato, viventi per Cristo, a Dio». È un solenne annuncio di vita nuova, vita in Cristo, cui non può esservi altra risposta che quella lieta ed esplosiva di:

«Alleluia. Celebrate il Signore perché è buono; perché eterna è la sua misericordia! Alleluia. La destra del Signore si è alzata; la destra del Signore ha fatto meraviglie! Alleluia. Alleluia!».

Risuona così nuovamente festoso l’Alleluia, tipico segno della gioia pasquale. Ma è un peccato che la recente riforma liturgica abbia fatto cadere troppo della solennità, così piena di attesa, con cui prima si diceva al celebrante: «Ti annuncio una grande gioia: c’è di nuovo l’Alleluia» e dopo il celebrante per tre volte, in tono sempre più alto, e con melodia molto ispirata cantava l’Alleluia. Dato sfogo al canto dell’Alleluia, non resta ormai che svelare il fondamento della nuova realtà di vita e di gioia, che già il solo annuncio del Battesimo, come momento della nostra risurrezione, aveva provocato. E la rivelazione spetta all’evangelista, che ci parlerà della risurrezione di Cristo.

– La liturgia battesimale da sempre ha formato l’anima profonda e la ragion d’essere della veglia pasquale. Che questo aspetto battesimale della notte santa si sia poi mantenuto sostanzialmente inalterato, anche quando, per secoli, il conferimento del Battesimo si è nella pratica sganciato totalmente dalla Pasqua, può certo spiegarsi con la normale stabilità propria della tradizione liturgica. Ma ciò nonostante pensiamo che il fatto abbia in se stesso un altro significato: è cioè l’indice dell’intimo nesso che lega il Battesimo e, con esso, gli altri sacramenti dell’«iniziazione cristiana» al mistero pasquale. Infatti, è proprio per questi misteri dell’iniziazione che il mistero pasquale della salvezza non resta, per così dire, chiuso e confinato in Cristo, ma passa agli uomini con la stessa pienezza di realtà che esso ebbe in Cristo. E in verità, quale che sia per ognuno di noi il giorno del nostro Battesimo, quel giorno fu per ognuno la «prima» Pasqua della nostra vita, e quindi ogni celebrazione pasquale è sempre un ritornare in contatto vivo e operante con quella prima Pasqua realizzata appunto con il nostro Battesimo.

Nello svolgimento attuale del rito è prevista una duplice forma a seconda che il rito culmini nell’effettiva celebrazione del Battesimo dato a un nuovo cristiano, o nella commemorazione del Battesimo da parte di coloro che già sono cristiani. Nel primo caso si deve procedere prima di tutto alla «benedizione del fonte battesimale», a cui segue poi il «rito del Battesimo». Anche nel secondo caso c’è una «benedizione dell’acqua» detta «lustrale» o di purificazione, che ha solo il compito non di conferire, ma di ricordare il Battesimo già ricevuto e, appunto in vista di questo ricordo, si aggiunge il rito delle «promesse battesimali»: rinnovata rinuncia al male e rinnovata professione di fede. Si tratta di ricordarsi che bisogna vivere in conformità al proprio Battesimo, portando il sacramento nella pratica realtà della vita. Solo così, infatti, un cristiano può anche quest’anno celebrare la Pasqua. Anticamente, quando la Chiesa era in fase di crescita, avveniva anche tra noi come avviene in certi luoghi di missione. La notte santa era tempo di generale Battesimo di tutti i neoconvertiti. Era un momento spiritualmente suggestivo vedere risalire, uno

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dopo l’altro, dal fonte battesimale e indossare la veste bianca della vita nuova, i «rinati» dall’acqua e dallo Spirito Santo. Erano uomini e donne, giovani e anziani, per i quali, come leggiamo in un’omelia pasquale del III sec.:

«Nell’immolazione del vero Agnello pasquale, Cristo cominciava la vita. Cristo, infatti, offertosi vittima per la nostra salvezza, aveva annullato la loro vita di prima, e attraverso la rinascita dall’acqua, viva imitazione della sua morte e risurrezione, aveva loro dato il dono di cominciare una vita diversa» (Ps. Crisost., Sulla Pasqua, 7).

Possiamo immaginare noi che cosa provassero quegli uomini e quelle donne che, dopo una lunga prova e una lunga istruzione, si trovavano di fronte a un rito, accettare il quale valeva per loro – come abbiamo ascoltato – «l’annullamento della loro vita di prima»? Sant’Agostino, ricordando la notte di Pasqua del 387, in cui egli all’età di 33 anni, insieme con il figlio quindicenne Adeodato e l’amico Alipio ricevettero il Battesimo dalle mani di sant’Ambrogio a Milano, sintetizza in due parole i suoi sentimenti di allora, sentimenti di contenuta gioia:

«Fummo battezzati. E da noi caddero via tutte le preoccupazioni della vita di prima» (Agostino, Conf. 9,6).

Ma anche per i cristiani già battezzati la notte santa si caricava allora, e si può e deve caricare oggi, di ricordi incancellabili perché i più profondamente determinanti per la vita di ognuno.

Gli antichi cristiani erano, anzi, soliti celebrare l’anniversario della loro «rinascita» in Cristo, iniziazione di una vita che non muore. E siccome nella loro «rinascita» battesimale, avvenuta nella notte santa, aveva sperimentato la loro Pasqua, ossia il loro «passaggio» da una vita a un’altra, essi chiamavano quel giorno con il nome di Pascha annòtinum, e cioè «Pasqua anniversaria della rinascita». A questa medesima idea – sul piano della realtà sacramentale, benché non su quello del calendario – tende chiaramente il rito attuale, con l’estendere a tutta la comunità presente alla veglia la «rinnovazione» delle «promesse battesimali». Rinnovando il proprio impegno contro il male e la propria adesione a Cristo, si rafforza in noi il suo dono e la sua grazia.

Della luce che sgorga dalla notte santa ci parla Paolo in contesto battesimale:

«Un tempo eravate tenebre, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce, e il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate ciò che è gradito al Signore e non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre, ma piuttosto condannatele apertamente… Per questo sta scritto: Svegliati, o tu che dormi, destati dai morti e Cristo ti illuminerà» (Ef 5,9-14).

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PREPARARE E CELEBRARE IL TRIDUO PASQUALE

Daniele Piazzi

Apertura del Triduo: la sera del Giovedì santo

Preparare e celebrare la Messa nella Cena del Signore

Giovedì santo sera: apertura, non primo giorno del Triduo pasquale

Capita ancora spesso di vedere scritto nei bollettini parrocchiali che il Giovedì santo è il primo giorno del Triduo pasquale, tanto che poi si è costretti a mettere la Veglia al Sabato Santo. In realtà il Giovedì santo è l’ultimo giorno della Quaresima. Solo la sera è rilevante, perché si apre il Triduo commemorando l’Ultima Cena. Si inizia, in pratica, a seguire il vangelo della passione -risurrezione secondo la cronologia dei sinottici. In una sorta di «mimesi» (imitazione passo passo) delle ultime ore di Cristo, lo accompagniamo ora per ora dalla notte della cena e del tradimento fino alla notte della risurrezione. Solo allora la sequela non sarà più semplicemente commemorativa delle sue ultime ore (tipo celebrazioni anniversarie), ma finalmente sarà «misterica» attraverso i sacramenti pasquali (battesimo, cresima, eucaristia), solo allora saremo immersi anche noi pienamente nel mistero pasquale. Solo con i sacramenti dell’iniziazione, infatti, non si fa semplice ricordo del Cristo morto, sepolto e risorto, ma si «diventa» il Cristo morto, sepolto e risorto. L’anno liturgico – triduo compreso – non serve a conteggiare il tempo, ma a «riempirlo» (dargli senso) con gli eventi della salvezza.

Cosa si celebra nell’eucaristia serale del Giovedì santo?

È l’unica volta in tutto il Messale che le rubriche si preoccupano di sintetizzare le tre commemorazioni celebrate in questa sera:

Nell’omelia si spieghino ai fedeli i principali misteri che si commemorano in questa Messa, e cioè l’istituzione della santissima Eucaristia e del sacerdozio ministeriale, come pure il comandamento del Signore sull’amore fraterno (Messale Romano, n.5, p. 136).

È anche l’unica volta in cui i gesti rituali della cena consegnatici da Gesù (prendere pane e vino, rendere grazie, spezzare il pane, dare pane e vino), sono usati per commemorare se stessi. Di solito nelle altre eucaristie dell’anno non si fa memoria dell’ultima cena, ma usiamo i gesti della cena per celebrare la Pasqua.

Inoltre, seguendo il vangelo di Giovanni, questa sera ricordiamo anche la consegna del comandamento nuovo.

Un pò più fragile liturgicamente e biblicamente la terza commemorazione indicata: l’istituzione del sacerdozio ministeriale. Infatti, il «Fate questo in memoria di me» è da sempre pensato rivolto a tutta la Chiesa e non solo agli apostoli. Infatti, se interroghiamo i testi liturgici e biblici, l’attenzione celebrativa è portata sull’eucaristia innanzi tutto e poi sul comandamento dell’amore. Così recita la colletta:

O Dio che ci hai riuniti per celebrare la santa Cenanella quale il tuo unico Figlio,prima di consegnarsi alla morte,affidò alla Chiesa il nuovo ed eterno sacrificio,convito nuziale del suo amore,

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fà che nella partecipazione a così grandemistero attingiamo pienezza di carità e di vita. Per.

Come si vede dai corsivi si celebra l’istituzione dell’eucaristia affidata alla Chiesa come sorgente di carità e di vita (comandamento nuovo). Le letture che si proclamano tornano sul concetto di eucaristia come sintesi della nuova alleanza e rito memoriale perenne (Prima lettura, Esodo 12,1-8.11-14: Prescrizioni per la cena pasquale), come memoriale della morte e della risurrezione di Gesù (Seconda lettura, Prima Corinti 11,23 26: Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunciate la morte del Signore).

Il vangelo, invece, è coraggioso. Da sempre non proclama il racconto della cena, ma della lavanda dei piedi (Giovanni 13,1-15: Li amò sino alla fine). Se è importante questo vangelo perché ci affida il comandamento nuovo, non dobbiamo dimenticare il vero motivo della sua collocazione in questa sera, proprio all’apertura del Triduo. Infatti, perché Gesù fa il gesto profetico di lavare i piedi ai suoi discepoli? Perché «sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1).

Come si celebrano i misteri di questa sera?

Una celebrazione «modello»

Quali sono le modalità rituali attraverso le quali commemoriamo l’istituzione dell’eucaristia? Semplicemente celebrando «bene» l’eucaristia stessa, ritmando i quattro gesti compiuti da Gesù nell’ultima cena e affidati alla Chiesa: prendere il pane e il vino, rendere grazie, spezzare il pane, dare il pane e il vino.

Per questo oggi si vietano le messe private e nei piccoli gruppi e si celebra un’unica eucaristia alla quale devono essere presenti tutti i ministri della comunità; per questo il tabernacolo va lasciato vuoto (per indicare lo stretto legame tra celebrazione e comunione eucaristica); per questo si danno indicazioni sulla processione offertoriale, si ordina che le ostie per la comunione dei fedeli siano consacrate nella stessa celebrazione e sufficienti per oggi e per il giorno seguente; inoltre, si consiglia che anche agli infermi si porti la comunione dai diaconi e dai ministri straordinari, prendendo il pane direttamente dalla mensa (Congregazione per il Culto Divino, Preparazione e celebrazione delle feste pasquali, [= PCFP] Roma 1988, nn. 44-53).

Sarebbe certamente opportuno distribuire la comunione sotto le due specie, in obbedienza all’invito del Signore: «Prendete ... mangiate ... bevete».

Il segno del «mandatum»

Il rito che ricorda il comandamento nuovo è affidato alla imitazione del gesto di Gesù nell’ultima cena. Non va pare un pò bruttina l’espressione: lavanda dei piedi? Il latino era più nobile, parlava di mandatum, cioè «consegna». Chissà perché nel Missale Romanum hanno preferito lotio pedum.

È un rito intenso, se si fa bene. Ma non l’abbiamo reso una cosa da bambini? Così recitano i documenti ufficiali: «La lavanda dei piedi, che per tradizione viene fatta in questo giorno ad alcuni uomini scelti, sta a significare il servizio e la carità di Cristo, che venne non per essere servito, ma per servire» ( PCFP n. 52). Perché non scegliere, allora, tra le diverse persone giovani e adulte che svolgono un ministero o un servizio nella comunità? Oppure poveri o anziani? Il Missale Romanum parla di viri selecti, l’italiano traduce con uomini e ragazzi. Di per sé non si lascia spazio alle donne. Inoltre la rubrica afferma che la lavanda si fa « dove motivi pastorali lo consigliano» (Messale Romano, n. 6 p. 136).

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Ricordo che fino al 1955 il rito della lavanda era riservato alle chiese cattedrali e abbaziali, cioè dove risiedeva una comunità canonicale o monastica e si faceva alla fine della Messa e del vespro anticipato, o meglio la rubrica prescriveva: «Dopo la spogliazione degli altari, a un’ora adatta fatto segno con la tabula,i chierici si riuniscono ad faciendum Mandatum». Lo ricordo perché questo rito non si enfatizzi troppo. In alcune comunità, che preferiscono ometterlo, si è dato risalto al gesto della condivisione e dell’offerta in apertura della processione offertoriale. Dopo l’omelia e la preghiera universale tutti si siedono, mentre si prepara l’altare si raccolgono le offerte dei fedeli destinate all’impegno caritativo scelto all’inizio della quaresima e una volta raccolte si portano all’altare con il pane e il vino.

La reposizione dell’eucaristia

Sul significato e sulle modalità celebrative concrete lascio la parola ai testi ufficiali che sono chiari nelle disposizioni circa la processione di reposizione e soprattutto circa il luogo della reposizione dell’eucaristia:

Si riservi una cappella per la custodia del santissimo sacramento e la si orni in modo conveniente, perché possa facilitare l’orazione e la meditazione: si raccomanda il rispetto di quella sobrietà che conviene alla liturgia di questi giorni, evitando o rimuovendo ogni abuso contrario. Se il tabernacolo è collocato in una cappella separata dalla navata centrale, conviene che in essa venga allestito il luogo per la reposizione e l’adorazione (nda: qui si vuol dire che se già esiste una cappella della custodia eucaristica è quella che si deve usare anche questa sera). Terminata l’orazione dopo la comunione, si forma la processione che, attraverso la chiesa, accompagna il santissimo sacramento al luogo della reposizione. Apre la processione il crocifero; si portano le candele accese e l’incenso. Intanto si canta l’inno «Pange lingua» o un altro canto eucaristico. La processione e la reposizione del santissimo sacramento non si possono fare in quelle chiese in cui il venerdì santo non si celebra la passione del Signore. Il Sacramento venga custodito in un tabernacolo chiuso. Non si può mai fare l’esposizione con l’ostensorio. Il tabernacolo o custodia non deve avere la forma di un sepolcro. Si eviti il termine stesso di «sepolcro»: infatti la cappella della reposizione viene allestita non per rappresentare «la sepoltura del Signore», ma per custodire il pane eucaristico per la comunione, che verrà distribuita il venerdì nella passione del Signore. Si invitino i fedeli a trattenersi in chiesa, dopo la messa nella cena del Signore, per un congruo spazio di tempo nella notte, per la dovuta adorazione al santissimo sacramento solennemente lì custodito in questo giorno. Durante l’adorazione eucaristica protratta può essere letta qualche parte del Vangelo secondo Giovanni (cc. 13 17). Dopo la

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mezzanotte si faccia l’adorazione senza solennità, dal momento che ha già avuto inizio il giorno della passione del Signore (PCFP nn. 49. 54-56).

Preparazione all’austerità dei giorni della morte e della sepoltura:il silenzio delle campane e la spogliazione dell’altare

La celebrazione della sera del Giovedì santo è arricchita da altri due riti. Il primo collocato all’intonazione del Gloria consiste nel far suonare a distesa le campane e, in alcune chiese, anche i campanelli per poi farli tacere fino alla Veglia pasquale. Difficile dire da dove nasce il rito: ricordo di tempi in cui non si usavano le campane ma le tabulae di legno? Di tempi in cui non si usavano strumenti musicali per il canto (come fa tuttora l’Oriente), visto che durante il Triduo anche l’organo e gli strumenti devono tacere o accompagnare solo sobriamente il canto? In

ogni caso oggi questo rito indica l’ingresso nei giorni della passione.

Ugualmente la spogliazione degli altari. Da necessità pratica di togliere gli arredi dalla mensa, come facciamo nelle nostre case finito il pranzo, divenne nei secoli allegoria della spogliazione di Cristo. Oggi è ridotto a un gesto extraliturgico senza ritualità precise:

Terminata la messa viene spogliato l’altare della celebrazione. È bene coprire le croci della chiesa con un velo di colore rosso o violaceo, a meno che non siano state già coperte il sabato prima della domenica V di quaresima. Non possono accendersi le luci davanti alle immagini dei santi (PCFP n. 57).

Alcuni problemi pastorali: il giro dei «sepolcri» e le prime comunioni

In molte regioni d’Italia è uso popolare fa il giro dei «sepolcri» o delle «sette chiese» dopo la Messa nella cena del Signore. Altre comunità hanno tradizionalmente l’uso o l’hanno introdotto di fare una adorazione eucaristica serale. Chiaro che occorrerà dire ai fedeli che non si va a dei sepolcri. Già le

norme ci consigliano di meditare Gv 13-17, allora perché non organizzare il giro degli altari o l’adorazione come «imitazione» della preghiera notturna di Gesù e ricordo del tradimento di Giuda e dell’abbandono degli apostoli? I riti orientale e ambrosiano hanno conservato questo elemento «mimetico» mentre si accompagna il Cristo nelle ultime ore. Inoltre potrebbe essere l’occasione di motivare il digiuno pasquale del venerdì e del sabato santo aiutando i più sensibili ad entrare nei giorni in cui lo Sposo è tolto.

Un altro problema è dato dall’inserimento nella Messa in cena Domini delle prime comunioni. Si possono capire le motivazioni: è la sera in cui Gesù ci dona l’eucaristia, così non c’è distrazione folcloristica... Ma attenzione: se c’è una celebrazione adatta per la prima eucaristia questa è l’eucaristia della Veglia pasquale! Attenzione a non snaturare l’eucaristia e insieme il Triduo pasquale. Celebrando l’eucaristia noi non facciamo memoria della cena, ma con i gesti della

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cena celebriamo il mistero pasquale. Perciò i giorni in cui ammettere ai sacramenti pasquali per la prima volta sono: la notte di Pasqua e l’assemblea domenicale normale.

Primo giorno del Triduo: Venerdì Santo Preparare e celebrare la celebrazione della passione del Signore

Che cosa si celebra?

La storia dei riti del Venerdì santo è articolata e complessa in tutte le tradizioni liturgiche sia orientali sia occidentali. Al di là delle differenze tra famiglie liturgiche e al di là della stessa storia che ha conosciuto la celebrazione della passione nella liturgia romano – franca, penso si possa affermare che celebrare il Venerdì santo è mettere in atto una articolata struttura rituale sulla falsariga storico – cronologica così come è fornita dal testo evangelico della Passione. La preoccupazione, però, non sarà solo quella di ripetere materialmente gli avvenimenti, ma quella di «entrarvi dentro» attraverso la fede, di venire alla presenza degli eventi narrati. Al Giovedì santo, aprendo il Triduo, commemoriamo la Pasqua rituale, al Venerdì la Pasqua – passione e alla Veglia pasquale, dopo la pausa silenziosa della discesa agli inferi, celebriamo la Pasqua – risurrezione. Così sintetizza il mistero oggi celebrato la Memoria dell’Ufficio della Passione della Liturgia Bizantina:

Oggi si celebra la memoria della santa, salvifica e tremenda passione del Signore e Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo: gli sputi, gli schiaffi, le percosse, gli insulti, i motteggi, la tunica di porpora, la canna, la spugna, l’aceto, i chiodi, la lancia e, prima di tutto, la croce e la morte, volontariamente accettate per noi; e inoltre anche la confessione salvifica sulla croce del ladro riconoscente crocifisso con lui. // Tu sei il Dio vivente, anche se morto sul legno, o morto e nudo e Verbo del Dio vivente! // Aprì le porte chiuse al ladro con la chiave del “Ricordati di me”! // Per la tua straordinaria e infinita misericordia verso di noi, o Cristo, abbi pietà.

Un altro testo ci aiuta a leggere sinteticamente il senso della celebrazione odierna, è l’antifona che apre l’adorazione della croce, di origine orientale entrata nell’uso romano nel IX secolo circa:

Adoriamo la tua croce, Signore, lodiamo e glorifichiamo la tua santa risurrezione. Dal legno della croce è venuta la gioia in tutto il mondo.

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Oggi è il primo giorno del triduo e celebriamo la pasqua come passione, come passaggio del Figlio di Dio da questo mondo al Padre, come patire del Figlio di Dio solidale con i peccatori per distruggere il peccato del mondo. E nella sua ora, finalmente giunta, volontariamente accolta, scorgiamo già la gloria della risurrezione, poiché è una morte che vince le nostre morti.

Oriente e occidente nel tradurre ritualmente la celebrazione di questo mistero e strutturando il triduo, soprattutto oggi, seguono drammaticamente i racconti della passione e percorrono ora dopo ora, anche cronologicamente, gli eventi del Cristo tradito, giudicato, flagellato, caricato

della croce, crocifisso e morto. Questa tensione permea ancora le diverse ore dell’Ufficio divino di oggi. Con gruppi preparati o i presbiteri della stessa comunità o di più comunità potrebbero darsi il tempo di celebrare anche le ore minori di terza, sesta e nona che soprattutto oggi ripercorrono la passione? Perché non farlo nelle città episcopali in una chiesa riservata in questo triduo alla liturgia delle ore? Perché non invitarvi in questi giorni anche i religiosi e le religiose, chi può o a turno?

Le diverse parti

La struttura rituale attuale, come prevista nella riforma della settimana santa del 1955, si articola in tre parti: la liturgia della Parola, l’adorazione della croce, la comunione eucaristica. Non mancano una apertura e una conclusione.

L’apertura è affidata alla prostrazione dei ministri e alla preghiera silenziosa di tutta l’assemblea, che viene chiusa da una orazione, da scegliersi tra le due proposte. La prima sottolinea il tema della passione che «inaugura» la Pasqua, la seconda contempla la vicenda di Cristo e ne vede le conseguenze per la salvezza dell’uomo.

La chiusura del rito prevede, quasi specularmene all’apertura, un’orazione di benedizione sull’assemblea e lo scioglimento silenzioso della stessa. L’orazione sul popolo apre alla speranza della risurrezione.

La liturgia della Parola

La celebrazione della Passione consiste essenzialmente in questa prima parte. Oggi la Parola domina qualsiasi altro segno. È la Parola che narra l’evento della passione, ad esempio, a fissare l’ora più consona della liturgia di oggi: l’ora nona. È la Parola che oggi assume in pieno la sua forza sacramentale e narrando del Servo del Signore (prima lettura) e del sacerdote – vittima (seconda lettura) ci porta a scoprire in

colui che «è innalzato da terra» il sovrano/despota che sconfigge la morte (passione secondo Giovanni). La Parola dona alla celebrazione odierna un particolare carattere «rivelativo», poiché ad ogni generazione di discepoli occorre sempre «mostrare» più che «spiegare» come la morte del Messia riveli e non nasconda l’opera di Dio.

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Apre la liturgia della parola il quarto canto del Servo del Signore (Is 52,13-53,12). Difficile distinguere se è un popolo o se è un singolo, ma alla luce del NT il servo sofferente è certamente un individuo. Apre il brano la presentazione che Dio stesso fa del suo servo. E già fin dalla presentazione si annuncia il suo successo (Is 52,13-15). Fanno poi eco i popoli (Is 53,1-7), che l’hanno accettato, perché sfigurato dalla sofferenza. Il canto termina con un nuovo oracolo divino (Is 53,8-12), che glorifica il servo e gli promette un futuro fecondo.

Il salmo responsoriale, il salmo 30, è il grido di fiducia di un uomo provato duramente e disprezzato dai suoi. Riprende il motivo del disprezzo da parte dei «suoi» e della incrollabile fiducia in Dio nella persecuzione, insieme al gridare a Dio di salvare chi si affida a lui.

La lettera agli ebrei è già stata letta per tre settimane nell’ufficio delle letture in quaresima. Il brano di oggi (Eb 4,14-16; 5,7-9) sottolinea la relazione tra Cristo, sommo sacerdote in forza della offerta della sua vita, e i fedeli. È colui che capisce le nostre infermità, le ha sperimentate, è il nostro sommo sacerdote intercessore, è il modello per la nostra sofferenza. Santificando il suo sacerdozio con l’obbedienza al disegno del Padre, egli è in grado ora di salvare coloro che gli sono obbedienti. Questa lettura ci avvia a leggere la passione di Cristo come compartecipazione alla sorte dell’uomo e come servizio di mediazione sacerdotale a favore dell’umanità.

Difficile sintetizzare i molteplici temi della passione secondo Giovanni. In essa trovano compimento diversi temi dello stesso vangelo: la venuta dell’ ora (Gv 2,4; 13,1; 17,1); il tema della «glorificazione innalzamento» (Gv 3,14; 8,28; 12,32); il tema della intronizzazione regale che forse è l’emergente in tutta la passione, agendo Gesù da vero protagonista e arbitro della sua volontà di andare fino in fondo al progetto del Padre (Gv 18, 4-9. 37; 19,30). Altri spunti possono essere offerti dalle particolarità narrative, dove Giovanni annota episodi propri: la scritta sulla croce che lo proclama re (19,19-22), la tunica senza cuciture che non deve essere divisa (19,23-24), la consegna della madre a Giovanni (19,25-27), la sete dopo che «tutto è compiuto per adempiere la scrittura» (19,28-30), il colpo di lancia che permette di volgersi al trafitto (19,37). Dal solenne Io sono del giardino dell’arresto (non dell’agonia!), al Tutto è compiuto sulla croce, la passione di Giovanni è la narrazione solenne, ricca di rimandi pedagogici all’Antico testamento che proclama la rivelazione divina di Cristo e il superamento della croce - scandalo.

Le indicazioni liturgiche raccomandano una breve omelia. Basterebbe, se proprio si vuole farla, scegliere un versetto – tra i principali – e commentarlo attualizzando. Oppure basterebbe un’idea: – la croce albero di vita; – l’unità del mistero pasquale (morte - sepoltura - risurrezione) orientando a vivere il triduo o addirittura tutto lo sviluppo pasquale del mistero (passione, risurrezione, ascensione, dono dello spirito); l’esperienza del dolore dell’uomo e la risposta di una croce - trono.

Reso partecipe della passione del suo Signore, il corpo ecclesiale si pone davanti al Padre come popolo sacerdotale che intercede per il mondo. L’articolata e complessa preghiera dell’assemblea trova davvero nelle dieci intenzioni proposte un respiro di universalità. La preghiera universale che segue il racconto traduce in preghiera il desiderio della Chiesa di associarsi all’obbedienza gloriosa del Figlio di Dio, che regna dalla croce e attrae a sé ogni creatura. La preghiera spazia su un mondo crocifisso e di crocifissi per il quale Cristo viene proclamato «potenza di Dio e sapienza

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di Dio» (1Cor 1,24). Preghiera che è come il grande sacrificio vespertino offerto sull’altare del mondo.

L’adorazione della croce

Oggi viene portata la croce perché «sia vista». «Essi guarderanno colui che hanno trafitto» così chiude Giovanni il racconto della passione e così oggi fa la Chiesa. Sia la prima che la seconda forma, sia che si porti la croce velata e la si sveli, sia che la si mostri processionalmente tre volte, il rito sta a indicare che non si vogliono suscitare solo dei bei ricordi, perché Gesù è morto, ma proclamare simbolicamente che ora «tutto è compiuto», che tutto è svelato. Se osserviamo i canti che accompagnano l’ ad-oratio, cioè il bacio, della croce, vediamo che rispondono al gesto rivelativi, sono antifone e inni di lode, oppure negli Improperia sono un invito ad andare oltre la croce e la sofferenza inflitta al Servo del Signore per vederne l’efficacia salvifica.

La comunione eucaristica

La terza parte prevede la comunione eucaristica. È caratteristica della tradizione romana e variamente realizzata lungo i secoli, fino a diventare comunione del solo presidente. Sconosciuta alle altre liturgie latine, questa parte può essere interpretata come una normale partecipazione all’eucaristia dei giorni quaresimali, oppure considerata come elemento disturbante della commemorazione di oggi e toglie spessore alla celebrazione eucaristica conclusiva della grande veglia del terzo giorno della pasqua.

I segni e i riti

Il silenzio e la prostrazione

Inizio semplice ma di una solennità senza pari, se veramente si invita al silenzio, a inginocchiarsi, se i ministri entrano senza fretta e non dalla porta «di servizio». Anche la prostrazione è un segno gravido (attenzione, davanti

all’altare, davanti alla roccia che è Cristo). Anche questo grande silenzio può raccogliere e riunire la presenza orante dei fedeli e «imposta» tutta la celebrazione sulla tonalità dell’ascolto.

Il silenzio è anche il grande sfondo di tutta l’Azione liturgica: niente campane, niente strumenti (è proprio impossibile oggi cantare senza di essi, anche se sono consentiti per sostenere il canto?)... Ma non è il silenzio di un tragico funerale. È il silenzio della tragicità della morte, delle domande, delle attese e delle speranze dell’uomo. È un silenzio che attende la risurrezione.

La proclamazione della passione

In questi decenni si è scritto di tutto. Ad alcuni la “sceneggiata” dei tre lettori non piace, ad altri è stragradita, fino a far starnazzare cori al posto della folla e a dividere accuratamente i diversi personaggi tra voci maschili e femminili. Altri hanno persino drammatizzato il racconto con bambini e giovani... E se rimanessimo ai tre lettori? Casca proprio il mondo a mantenere una tradizione medievale?

Oppure potremmo dividere la lettura in parti con più lettori, introducendo brevemente le scansioni e intervallandole con canti adatti. Se si volesse dividere la passione di Giovanni in brani

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potremmo seguire questa scansione, incastonadovi le strofe del bel corale Tu nella notte triste (cfr. E. Costa - G. REmondi, Alcuni suggerimenti di regia celebrativa, in A. CatElla - G. REmondi (edd.), Celebrare l’unità del Triduo pasquale. 2. Venerdì santo: la luce del Trafitto e il perdono del Messia, LDC, Leumann (TO) 1995, pp. 211 -226):

Gv 18, 1-14Tu nella notte tristedell’uomo che tradisce,Signore, morirai?Nel pane della cenamemoria dell’Agnello,tu vivo resterai con noi.

b) Gv 18, 14-40

Tu nel silenzio viledell’uomo che rinnega,Signore, griderai?Al mondo che condannatu, sazio di dolore, tacendo t’offrirai per noi.

c) Gv 19,1-18Tu dall’ingiusta crocedell’uomo che uccide,Signore, scenderai?Nell’ora che redime,mistero dell’amore,tu santo morirai per noi.

d) Gv 19,19-42Tu dalla tomba mutadell’uomo che dispera,Signore, tornerai?Immerso nella morte,prepari la vittoriadel giorno nuovo che verrà.

La preghiera universale

È lunga, ma proprio oggi dobbiamo avere fretta? I celebranti che possono cantino le orazioni. Si lasci davvero il silenzio tra l’invito alla preghiera e l’orazione, oppure si riempia con un breve facile Kyrie, eleison. I repertori ne sono pieni. Chi ha fretta può sempre scegliere tra le intenzioni alcune. Ad es. potrebbe riassumere le prime tre, premettendo ,’invito: Preghiamo il Signore per la santa Chiesa: per il papa N., per il vescovo N., per tutti i vescovi, i presbiteri e i diaconi, per tutti coloro che svolgono un ministero nella Chiesa e per tutto il popolo di Dio. L’orazione potrebbe essere la prima o la terza.

Ma si potrebbero invece tenere tutte e dieci le preghiere abbreviando l’invito alla preghiera, utilizzando come monizione il titolo stesso delle intenzioni: Preghiamo per la santa Chiesa... preghiamo per il papa.. ecc. Suggerimenti per abbreviare il formulario, rispettandone la struttura si possono trovare in appendice (p. XXX).

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Chi ha voglia di un linguaggio un pò diverso o di rielaborazioni più vicine a noi può trovare proposte per questo formulario in: COMUNITÀ DI BOSE, Preghiera dei giorni, Gribaudi, Torino 1993, pp. 242-248; a. CatElla - G. REmondi (edd.), Celebrare l’unità del Triduo pasquale. 2. Venerdì santo: la luce del Trafitto e il perdono del Messia, LDC, Leumann (TO) 1995, pp. 227-229.

L’adorazione della croce

Il rito consente due modalità: l’ingresso della croce (nuovo), lo scoprimento della croce (antico). Ha senso svelarla se o si sono velate croci e immagini, o effettivamente non ci sono croci visibili. Certo lo «svelare» la croce è gesto carico di simbolismo e di rivelazione. Attenzione a farlo bene, altrimenti è ridicolo svelare crocifissi coperti malamente e in maniera goffa. Sottolineo che si mostra la croce, non il crocifisso. I riti non orientano verso una interpretazione dolorosa e sanguinolenta del crocifisso, ma all’esaltazione della croce.

I canti di oggi hanno una notevole importanza. Soprattutto in questo momento spiegano come noi interpretiamo la croce. Occorrerà sceglierli con cura. L’antifona Adoriamo la tua croce è troppo significativa per non cercare di cantarla. Per quanto riguarda gli improperi e la loro possibile connotazione antisemita, non entro nel merito. Io li ho sempre sentiti r e cantati come rivolti alla Chiesa di oggi, nuovo Israele e non come improperi contro gli uccisori del Figlio di Dio. Un tentativo bello di riformulazione l’ha fatto la Comunità di Bose (vedi: Preghiera dei giorni, op. cit., p. 249).

Memoria della beata vergine Maria sotto la croce

Rito pensato per l’anno mariano, introduce una nota «popolare» e anche mariologica al venerdì santo, da questo punto di vista carente e che nella liturgia latina ha lasciato tutto in balia di pii esercizi. Si può fare terminata l’adorazione della croce. Se non è necessario, è meglio non collocare in presbiterio una immagine della Vergine, ma andare al suo altare oppure esporre in qualche luogo visibile della chiesa un quadro o immagine dell’addolorata. Oggi l’immagine della Madonna non deve «coprire» la croce.

Secondo giorno del Triduo: Sabato Santo

Nella prassi pastorale questo secondo giorno del triduo è dimenticato. Il Giovedì santo apre il triduo commemorando l’eucaristia, la pasqua rituale affidata alla Chiesa. Il venerdì santo celebra la pasqua passione e la veglia pasquale la pasqua-risurrezione. Al Sabato santo spetta celebrare il momento più silenzioso e di abbassamento nella morte. Celebra la pasqua-passaggio nella sua fase discendente più bassa. Se l’incarnazione porta Cristo sulla terra, la sepoltura lo pone nel ventre della terra. Nella nostra tradizione liturgica non esistono assemblee particolari. Rimane però l’opportunità ci celebrare parte della liturgia delle ore, che soprattutto nell’Ufficio delle Letture sviluppa con inni, antifone, salmi e letture il mistero di questo giorno.

Se non si riesce a celebrare le lodi negli altri giorni, penso che anche nelle piccole comunità nella mattina di oggi si dovrebbe proporre un momento orante, che annunci il mistero della sepoltura del Signore.

Approfittando del fatto che in genere oggi si confessa tutto il giorno, si potrebbe mettere in evidenza, dove c’è, la statua del Cristo morto o un bel quadro della pietà (deposizione della croce) e invitare i fedeli non ad accendere la candela, ma ad offrire dei fiori recisi, posti in un cesto (perché non quelli del Giovedì santo?), a baciare il Cristo e a recitare una preghiera. L’orazione di oggi è adattissima. Se proprio non partecipano a nessuna pare della liturgia delle ore, almeno la devozione personale li porterebbe a riflettere su questo aspetto della pasqua.

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La fretta di preparare per la veglia trasforma oggi la chiesa in un via vai affannato. Non è possibile lasciare veramente tutto spoglio fino al tramonto? O preparare a chiesa chiusa? Chi entra e trova una chiesa silenziosa e vuoto, la sola croce illuminata dai ceri che domina, riceve già un messaggio che dice attesa, vuoto che chiede di essere riempito.

Terzo giorno del Triduo: Domenica della Risurrezione Preparare e celebrare la Veglia pasqualetc “Preparare la Veglia”

Non è questa la sede per richiamare la teologia liturgica, la storia e l’importanza pastorale della celebrazione principale di tutto l’anno liturgico. I suggerimenti rituali, che ne normano la preparazione, dicono essi stessi la sua rilevanza.

«Nell’annunciare la Veglia pasquale si abbia cura di non presentarla come ultimo momento del sabato santo. Si dica piuttosto che la veglia pasquale viene celebrata nella notte di Pasqua, come un unico atto di culto. Si avvertano i pastori di insegnare con cura nella catechesiai fedeli l’importanza di prendere parte a tutta la veglia pasquale» (Congregazione per il Culto Divino, Preparazione e celebrazione delle feste pasquali del 1988 = PCFP n. 95).

Si veglia nella notte. Questa norma è di stretta interpretazione ( PCFP n. 78). Non dovremmo a Pasqua preoccuparci dell’orologio. Una veglia pasquale fatta con calma e senza una lunga omelia, ma con i battesimi, richiede dalle due alle tre ore. Sempre la mia esperienza mi dice che è possibile celebrare così a lungo: basta celebrare bene e far entrare i fedeli nel ritmo in crescendo della Veglia stessa.

Alla Veglia devono essere presenti tutti i ministri della comunità. Anzi, dove piccole comunità non potessero garantire una solenne celebrazione, sono invitate a celebrarla insieme ( PCFP nn. 43 e 93-94).

Le diverse partitc “Le diverse parti”

a) Prima parte: liturgia della luce

Il sussidio sceglie la forma più solenne prevista dal Messale: benedizione del fuoco e processione con il cero. Se si sceglie la forma solenne,non si tralasci l’opportunità di far seguire altriplice Lumen Christi della processione conil cero, un ritornello o un canto sul temadel Cristo - luce.

Il lucernario, però, non va enfatizzato. L’importante è il segno del cero e l’annuncio pasquale. Può essere utile scegliere, in base alla preparazione dell’assemblea, alla disposizione architettonica della chiesa, la seconda forma, cioè la benedizione del fuoco in un braciere alla porta della chiesa.Il rito romano più antico sembra non conoscere l’uso del fuoco pasquale.

Ancora oggi la liturgia ambrosiana ha una ritualità sobria per quanto riguarda il lucernario. Perciò mi sono permesso di segnalare nell’Appendice una forma di lucernario più semplice, con l’ingresso nella chiesa buia e il cero già acceso. Forse piccole comunità, o grandi assemblee, che vogliano dare più rilievo alla liturgia della parola risparmiando tempo e fatica o l’inflazione dei segni, potranno trovarlo più adeguato alla loro situazione celebrativa. Non mi sento di fare

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o proporre una scelta tra le tre opportunità: benedizione del fuoco all’aperto, benedizione del fuoco alla porta della chiesa, ingresso dal fondo con il cero già acceso. Le ho provate tutte e tutte, se preparate e realizzate con cura, raggiungono lo scopo di iniziare la Veglia con un gioioso passaggio dalle tenebre alla luce.

Chiude il lucernario l’Annuncio pasquale (Exsultet). Per sua natura esige il canto. Se non c’è il diacono, lo canta il sacerdote. Se non lo sa o può cantare può essere affidato anche a un cantore. L’edizione italiana del Messale ha già apportato alcuni adattamenti, proponendo una forma breve e inserendo un ritornello. È opportuno seguire il suggerimento.

b) Seconda parte: liturgia della Parola

Prima proposta: Proclamare tutte le letture e cantare i loro salmi responsoriali. «Le letture della sacra Scrittura formano la seconda parte della Veglia. Esse descrivono gli avvenimenti culminanti della storia della salvezza che i fedeli devono poter serenamente meditare nel loro animo attraverso il canto del salmo responsoriale, il silenzio e l’orazione del celebrante... Pertanto tutte le letture siano lette, dovunque sia possibile, in modo da rispettare completamente la natura della Veglia pasquale, che esige il tempo dovuto» (PCFP n. 85). Bastano buoni lettori (anche solo tre o quattro per chi ha problemi di ministri) e due salmisti preparati che si alternano. È necessario che un breve commento prima di ogni lettura faccia percepire all’assemblea la progressione storico - salvifica che ha portato alla scelta di quei brani dell’Antico testamento.

Seconda proposta: proclamare tutte le letture e omettere alcuni salmi responsoriali sostituendoli con il silenzio. Si potrebbero cantare solo i salmi delle letture dispari e sostituire il salmo delle pari con un momento di silenzio. Il commentatore può stimolare la riflessione con alcune domande. Nel sussidio sono segnalati questi interventi.

Terza proposta: proclamare quattro letture secondo l’uso romano antico. Qui si potrebbero cantare tutti i loro salmi, oppure ometterli tutti, tranne il Cantico di Mosé, perché la terza lettura che narra la prima Pasqua si deve sempre fare. In questo caso più ministri

potrebbero fare una breve omelia-catechesi sulle letture per guidare i presenti a una migliore comprensione della storia della salvezza.

È una soluzione pastorale e rituale opportuna per comunità poco preparate. L’osservanza rubricale stretta di fare tutte le letture in fretta e senza canti, certamente non risponde allo scopo di far vegliare nell’ascolto della parola.

Si potrebbero utilizzare le prime tre letture con

l’aggiunta a scelta di una lettura profetica, oppure leggere la prima, la terza, poi a scelta Isaia o Baruc, e Ezechiele, soprattutto se ci sono battesimi.

Quarta soluzione: tre letture soltanto. È una soluzione permessa, ma è minimale. In questo caso vale la pena scegliere la prima, la terza, la settima lettura e cantare i loro salmi responsoriali.

Le orazioni. Dopo il salmo o dopo il silenzio è opportuno che il diacono o il celebrante stesso si rivolgano ai fedeli con una breve monizione che spieghi il senso della colletta che interpreta in chiave cristiana le letture veterotestamentarie e li inviti a un momento di preghiera silenziosa (PCFP n. 86).

Il Gloria. È consuetudine simpatica e, ritengo, da mantenere, di riprendere a questo punto il suono di organo, strumenti e campane. Dopo le lunghe letture è un intermezzo allegro. Non capisco

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molto la rubrica di accendere qui le candele dell’altare. Mi astengo da interpretazioni allegoriche. Se è agevole e non disturba può aggiungere una nota gioiosa, se occorre arrampicarsi su altari barocchi è meglio tralasciare questo rito prescritto dalle rubriche, ma non spiegato nemmeno da PCFP n. 87.

Le letture dal Nuovo Testamento. «Si legge l’esortazione dell’apostolo sul battesimo come inserimento nel mistero pasquale di Cristo» (PCFP n. 87). Segue la ripresa del canto dell’Alleluia. Il Messale non lo dice, ma lo prescrivono PCFP n. 87 e il Caeremoniale Episcoporum: si può conservare l’uso medievale della triplice intonazione fatta dal celebrante alzando di volta in volta il tono. Il cantore canta il salmo alleluiatico. E si arriva così al vero annuncio pasquale: il brano evangelico, culmine di tutta la liturgia della Parola. In questa notte è opportuno usare l’evangeliario (da deporre sull’altare prima della Veglia) e ripetere l’ Alleluia anche dopo la pericope o un altro ritornello di lode. «Non si ometta di fare l’omelia, per quanto breve, dopo il Vangelo» (PCFP n. 87).

c) Terza parte: liturgia battesimale

È la parte della veglia che deve rispondere a diverse realtà pastorali. Può assumere cinque modalità diverse: con il battesimo degli adulti, con il battesimo di bambini in età di catechismo, con il battesimo dei bambini, con la solo benedizione del fonte, con la benedizione dell’acqua lustrale. Il sussidio che ho curato (ed. Queriniana) presenta i seguenti schemi rituali:

Schema A: benedizione del fonte e battesimo di adulti e bambini in età di catechismo; Schema B: benedizione del fonte e battesimo dei bambini; Schema C: benedizione del fonte senza battesimi per le chiese parrocchiali; Schema D: benedizione dell’acqua lustrale per le chiese non parrocchiali. Quando si devono battezzare insieme adulti e bambini nati da poco, si segue il rito degli adulti,

avendo l’avvertenza nelle monizioni di rivolgersi anche ai genitori e ai padrini dei bambini.

Quarta parte: liturgia eucaristica

«La celebrazione dell’Eucaristia forma la quarta parte della Veglia e il suo culmine, essendo in modo pieno il sacramento della Pasqua, cioè memoriale del sacrificio della croce e presenza del Cristo risorto, completamento dell’iniziazione cristiana, pregustazione della Pasqua eterna» ( PCFP n. 90). « Conviene che tutti i riti e tutte le parole raggiungano la massima forza di espressione» ( PCFP n. 91). Se le prime tre parti della veglia sono un unicum nel corso dell’anno, la liturgia eucaristica di questa notte, invece, rischia di essere svuotata dall’abitudine. Occorrerà introdurla adeguatamente. Peccato che il Messale non preveda una monizione del presidente, come per le altre parti.

La processione fatta dai neofiti adulti, se ce ne sono, o dai fedeli va curata. Non dimentichiamo l’espressività di un solo pane e di un solo calice. Il canto deve esprimere il meglio della festa dell’assemblea.

La preghiera eucaristica va cantata nelle sue varie parti (prefazio per primo). Nel sussidio è proposta la preghiera eucaristica III con gli embolismi propri della notte, ma -contravvenendo alle rubriche -non vedo inadatta la preghiera eucaristica IV, come sintesi di tutta l’opera della salvezza.

È opportuno che la comunione sia distribuita per intinzione sotto le due specie ( PCFP n. 92). Fare la comunione durante la Veglia è veramente «fare Pasqua». Dividere il pane in più patene e il vino in più calici alla la frazione del pane è certamente significativo. Occorrerà, in mancanza di più sacerdoti e diaconi, preparare alcuni laici che aiutino i ministri ordinati nella distribuzione della comunione sotto le due specie. La forma per intinzione ritengo sia la più consona alle grandi assemblee e alla sensibilità attuale.

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Chi desiderasse, può usare la proposta della CEI per l’anno mariano e inserire un saluto alla Vergine prima della benedizione finale.

I segnitc “I segni”

Il fuoco, il cero pasquale e le candele per i fedeli. Ricordo la norma che prescrive che il cero sia veramente di cera e cambiato ogni anno (PCFP n. 81). Ugualmente preoccupazioni di pulizia della chiesa non possono impedire di distribuire le candele a tutti i fedeli. Ne va della natura stessa del lucernario. È meglio collocare il cero vicino all’ambone, piuttosto che vicino all’altare. Lo si accenderà in tutte le domeniche di Pasqua, fino a Pentecoste.

Se si accende il fuoco pasquale, il rito raccomanda che sia un fuoco che divampi veramente. Una bella fiamma alta in un cortile o sagrato buio esprimono senza grandi parole il significato della luce che rompe la notte e la riscalda.

Il libro dei vangeli. È opportuno l’uso dell’Evangeliario. Portato in processione dall’altare all’ambone esprime meglio che l’annuncio evangelico è il vertice della liturgia della Parola. Questa notte è meglio non usarlo nella processione d’ingresso, perché in essa l’attenzione è rivolta al cero. Lo si prepari prima sulla mensa dell’altare.

Il fonte battesimale. Dove è possibile ci si rechi ad esso per la benedizione dell’acqua. Altrimenti si collochi in presbiterio un recipiente bello e capace, ornato a festa, per la benedizione dell’acqua battesimale o lustrale. Nelle chiese parrocchiali dove il battistero non sia in vista dei fedeli, l’acqua benedetta vi potrà essere portata processionalmente.

Il battesimo per immersione. Lo richiede la pienezza del segno. Chiesto il permesso dell’Ordinario, basta preparare alcuni ministri e le cose necessarie per asciugare e rivestire i neofiti. Adulti e bambini già grandi si possono far entrare nel fonte con una tunica scura, che sarà poi cambiata nella veste bianca. Occorrerà far uscire dalla chiesa i catecumeni eletti per prepararsi rapidamente all’inizio della liturgia battesimale. L’assemblea intanto potrebbe anticipare qui la riaccensione delle candele ed eseguire di nuovo un canto sul tema della luce o di carattere battesimale. Dopo i battesimi va previsto un canto battesimale relativamente lungo, perché i neofiti abbiano il tempo di asciugarsi e rivestirsi. La sagrestia o un locale in comunicazione con la chiesa va attrezzato allo scopo con alcuni ministri, uomini e donne, che aiutino i neofiti e sappiano già in precedenza cosa e come fare. Anche il celebrante e l’eventuale diacono devono, durante le litanie, prepararsi con vesti più agili al battesimo per immersione.

Se proprio si ha timore di questa ritualità molto «corporea», piuttosto della infusione romana è meglio l’immersione ambrosiana, che fa immergere tre volte nell’acqua almeno la nuca dei catecumeni.

La rinnovazione delle promesse battesimali e l’aspersione della assemblea. Le rubriche del Messale prescrivono due volte le promesse battesimali: la prima volta per i catecumeni, la seconda per l’assemblea. La CEI ha semplificato i riti, prescrivendole una sola volta. È opportuno che l’aspersione sia fatta con solennità, passando veramente in mezzo all’assemblea. È opportuno che anche visivamente un ministro prenda davanti a tutti con il secchiello l’acqua dal fonte appena benedetto.

Perché non riprendere a far portare a casa dai fedeli un pò d’acqua battesimale per la preghiera in famiglia prima del pranzo pasquale? Basta benedire una congrua quantità d’acqua e mettere alla porta della chiesa delle piccole bottigliette con un foglietto che porta la benedizione del pranzo pasquale (il testo si trova nel Benedizionale pp. 691-693 e nel sussidio CEI, La famiglia in preghiera, pp. 130-131).

Il pane e il vino. «È desiderabile che sia raggiunta la pienezza del segno eucaristico con la

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comunione della Veglia pasquale ricevuta sotto la specie del pane e del vino. Gli Ordinari dei luoghi sapranno valutare l’opportunità di questa concessione e le circostanze che l’accompagnano» ( PCFP n. 93).

Occorre preparare un calice grande e una patena grande: un solo pane e un solo calice. È più espressivo. All’Agnello di Dio più ministri si avvicinano all’altare con più calici e patene quanti sono necessari. Ai lati dell’altare si divide il vino dal calice principale in altri, ugualmente il pane lo si distribuisce in più patene.

Non va dimenticato il gesto di frazione. Occorre preparare un pane grande che possa essere realmente spezzato in più pezzi da distribuire ai fedeli. Necessariamente anche l’ Agnello di Dio deve essere prolungato per il tempo necessario a dividere il pane e il vino.

Il modo più agile di distribuire la comunione sotto le due specie è per intinzione. Basta che il ministro ordinato tenga il calice, e che un altro ministro o laico adulto gli si affianchi a sinistra con la patena con il pane. I movimenti divengono più scorrevoli. Il commentatore deve avvertire che la comunione viene distribuita per intinzione e che perciò non si riceve l’eucaristia sulla mano, ma sulle labbra.

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CANTARE LA PASSIONE DEL SIGNORE

In questo giorno non si celebra l’eucaristia. Oggi si fa una riunione difficile e severa, avvolta di silenzio, intorno al segno di una vicenda di cui ognuno è in qualche modo responsabile e be-neficiario nello stesso tempo. Comunque una ri-unione da non disertare e neppure da sostituire con altre pratiche più popolari e più devozionali come la Via Crucis o la processione serale della passione. La croce oggi è luogo d’incontro, pie-no di riconoscenza, per un solenne atto di fede nella gloria di Dio che si manifesta dovunque c’è una croce da portare, dovunque si ama così tanto da lasciarci la vita.

Liturgia della Parola

Dopo che il silenzio, nota dominante del Ve-nerdì santo, ha preparato la preghiera e l’ascolto della Parola, il primo pezzo musicale da esegui-re è il Salmo responsoriale dopo la prima lettura: Padre, nelle tue mani. Dopo la seconda lettura ci si prepara alla proclamazione della Passione cantando l’atto di fede dell’apostolo Paolo: Can-to al Vangelo: Filippesi 2,8-9. Cristo che muore sulla croce è il Figlio di Dio che porta fino in fondo la sua missione. La sua non è la morte di un uomo sconfitto, ma la morte di un uomo vitto-rioso, che trasforma la croce in un podio sul quale gli viene conferito il titolo di «Signore», il nome divino ineffabile, che nessuno mai prima osava pronunciare, ma che dal giorno della risurrezione diventerà il suo nome proprio, l’unico nome che, invocato con fede, può portare salvezza: Gloria e lode a te.

La preghiera universale: è un rito solenne con il quale l’assemblea di oggi rende testimonianza all’amore senza confini di un Dio che in Gesù Cristo apre le braccia a tutta l’umanità. Si potrebbe cantare almeno Per Cristo nostro Signore e l’Amen conclusivo dell’assemblea.

Adorazione della croce

La croce è il simbolo dell’amore di Cristo. Con questa semplice liturgia viene presentata e innalzata davanti all’assemblea affinché questa si senta ancora profondamente amata. Questa liturgia, però, non si fa solo per dare spazio ai sentimenti. Come propone il Messale Romano alle pp. 152-157, si tratta di un grande segno popolare di fede e accettazione dell’offerta sacrificale di Cristo. I movimenti della processione, della estensione e della venerazione della croce devono rispondere a questo appello comunitario: anche gli spostamenti che il percorso richiede devono essere studiati in funzione di questo corale interessamento al Signore crocifisso. Ciò che l’ascolto della passione comunicava nel testo evangelico, si traduce ora in gestualità sobria e calma.

Annuncio e acclamazione: Ecce lignum crucis; Ecco il legno, di P. Comi, in Per ogni uomo, Pa-oline p. 30; Ecco il legno della croce.

Durante l’adorazione: In te la nostra gloria; Ti saluto, o croce santa, di GazzERa-damilano; Croce

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di Cristo, di F. Rainoldi; O mio popolo (Vitone o Julien); O popolo mio, di P. Comi, op. cit; Che male ho fatto, di CaPPEllo-RonCaRi-Rossi; Per il tuo corpo, di Rimaud-Costa; Croce di Cristo (canone).

La comunione

Può essere opportuno il silenzio e verso la fine un canto corale ispirato alla passione, per esem-pio Ecco l’uomo; Signore dolce volto, di BaCh-BiasiCh; O capo insanguinato; Tu nella notte triste, di BaCh-Poma; oppure Per il tuo corpo; Tu sei.

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CANTArE LA VEGLiA PASquALE

È ovvio che i canti della Veglia pasquale non possono essere improvvisati. Né ci si può accon-tentare di quello che la gente sa. Bisogna partire all’inizio della quaresima. I quaranta giorni devono servire anche per la preparazione dei canti con i quali si celebra la Pasqua. Le stesse corali, che di solito si preoccupano della 'grande messa' del giorno di pasqua, devono convertirsi e cominciare a mettere come obiettivo prioritario del loro studio e della loro preparazione il servizio alla Veglia. Non basta la preparazione spirituale. Ci vuole anche quella 'tecnica'. Il canto è un grande segno pasquale, che caratterizza il raduno dei cristiani a cominciare dalla Veglia. La celebrazione della pasqua va fatta cantando. Se si sa quello che celebriamo, non possiamo non cantare.

Sarà opportuno, allora, che ogni comunità si faccia un programma, magari a lungo termine. Inizialmente si faranno le cose essenziali, poi, di anno in anno, si aggiungeranno altri elementi fino a cantare tutto ciò che può essere cantato. Non si deve aver paura che la gente non parte-cipi alla Veglia a causa del canto. Se non vi partecipa, probabilmente non ha ancora recepito il grande valore simbolico-sacramentale di questo raduno straordinario e unico nel suo genere e che sta all’origine dell’esperienza cristiana. Dosando in modo intelligente le diverse parti, evitando lungaggini e pause inutili, e facendo scelte buone, variate e indovinate, che creano coinvolgimen-to e partecipazione, si può cantare tanto, purché non sia solo un gruppo o la corale a farlo. Se l’assemblea tutta ha le sue parti e si sente protagonista, alla fine sarà stanca, ma non annoiata. Provare per credere.

Proposte per un programma

Segnaliamo, anzitutto, una proposta globale, di notevole interesse liturgico-musicale, di grande immediatezza e semplicità, che comprende tutti i canti della Veglia: a. PaRisi, O notte gloriosa, Paoline 1995, e una proposta per il Lucernario e la Liturgia della Parola: aa.VV, Veglia pasquale, Canti per la liturgia della Veglia, Paoline 2002. Si trovano in commercio lo spartito con accompa-gnamento, la cassetta e lo spartito per le sole voci.

Lucernario

Le scarne indicazioni del Messale non impediscono di organizzare in maniera più vivace e fe-stosa il momento del raduno della comunità attorno al segno del fuoco nuovo e, successivamente, attorno al segno del grande cero. Con una comunità preparata, in un luogo adatto, con un buon animatore e con tempi non misurati, potrebbe essere di grande effetto e fascino sostare con canti attorno al fuoco, prima di passare alla liturgia del cero. Si potrebbe fare così:

Attorno al fuoco: - Esperienza del buio (a fuoco spento): cfr. G. noVElla, Celebrare con le cose, LDC, p. 99. Si apre con un grido, come Kyrie, Kyrie (Canti di Taizé, LDC), preparato da brevi indi-cazioni di situazioni locali e mondiali che hanno qualche analogia con il buio.

- Invocazione della luce: Vieni, stella del mattino; Conducimi tu; Salmo 129; Signore, brucia il cuore; Mi tiene amore; Noi veglieremo; Tu quando verrai; Perenne fiamma; Invocazioni.

- Accensione del fuoco e benedizione: Gloria a te; Il fuoco della pasqua.

- Preparazione e accensione del cero: Sorgete dal sonno; Il Signore è la luce; Tu sei la luce; Luce splenda nella notte.

- Processione verso la chiesa: Lumen Christi (gregoriano); Cristo,luce del mondo; O luce radiosa.

- In chiesa: Tu sei come roccia; oppure silenzio.

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- Annuncio pasquale: La traduzione italiana dell’Exsultet non ha ancora trovato una melodia ufficiale. Qui ci limitiamo a elencare le principali proposte fatte fino a oggi. Quale sia entrata nell’uso e quale sia rimasta solo sulla carta, non è possibile sapere. È un pezzo lungo e dif-ficile da interpretare musicalmente. Ma forse il problema più grande è quello di far riscoprire il suo significato e la sua importanza nella dinamica della Veglia pasquale. Pasqua è gioia di F. Rainoldi; Exultet (dal Breviario di Bose) di P. Comi, in Il mio Dio sei tu, Paoline; Annunzio pasquale di a. zoRzi; Preconio pasquale di t. zaRdini; Annuncio pasquale/Exultet di a. PaRisi, in O Notte Gloriosa, Paoline; Esulti il coro degli angeli/Annunzio pasquale di m. FRisina, in Veglia pasquale, Paoline; O notte di F. sChERmidoRi (come contrappunto al testo declamato).

Liturgia della Parola

Occorre riservare particolare attenzione ai salmi responsoriali, qualunque sia il numero delle letture. Non devono essere sostituiti con altri canti o canzoni varie (CPFPn. 86). È necessario preparare un bravo salmista. Possono essere interamente cantati con ritornello, solo declamati con ritornello cantato, o recitati a cori alterni o tutti insieme dall’assemblea con il ritornello cantato all’inizio e alla fine.

Dopo la terza lettura (Esodo): Mia forza e mio canto, di P. Comi, in Sulle orme di Israele, Paoline; Mia forza e mio canto, di F. sChERmidoRi; Mia forza e mio canto, di s. maRtinEz; Il canto del mare, di m. FRisina.

L’Inno di lode (Gloria) tra le letture dell’Antico e del Nuovo testamento: Gloria in excelsis Deo (GREGoRiano); Gloria in excelsis Deo (léCot); Gloria a Dio (BERthiER); Gloria a Dio (PiCChi); (zaRdini); Gloria a Dio (BERlEsE).

Il canto dell’Alleluia. È il canto-grido tipicamente pasquale. Interrompe un silenzio di quaranta giorni. Va, perciò, adeguatamente introdotto. Esso si svolge come un rito, alternandolo con il Sal-mo 117. Si potrebbe sceglierne uno che faccia come da segnale per tutto il Tempo di pasqua.

Liturgia battesimale

È il momento in cui si compie, mediante i sacramenti dell’iniziazione cristiana, la rigenerazio-ne nell’acqua e nello Spirito, o se ne fa memoria. Uno stacco, sapientemente creato dall’omelia, potrebbe contribuire a rilanciare l’assemblea e aiutarla a percepire il senso e l’importanza della liturgia battesimale.

Litanie dei santi. È un pezzo difficile per chi ha fretta o teme di tediare la gente. Bisogna farlo diventare una specie di ‘giochetto’ con un vivace botta e risposta. Non è un rito penitenziale! È una solenne invocazione-intercessione, che rivela le vere dimensioni della chiesa.

Benedizione dell’acqua. È un rito particolarmente suggestivo. Il Messale propone i moduli per il canto. Meriterebbe, però, una più immediata partecipazione dell’assemblea attraverso qualche accla-mazione. Può essere un breve ritornello di lode, o se ne faccia preparare uno adatto da qualche bravo musicista. Come inizio Sorgente d'acqua; poi Gloria a te, Signore; Noi ti lodiamo e ti benediciamo; Amen.

Rinuncia e professione di fede. Dopo la rinuncia a satana e la professione di fede dei battez-zandi o dei genitori, l’assemblea esprime il proprio assenso con l’acclamazione: Questa è la nostra fede; oppure viene direttamente coinvolta nella risposta.

Dopo i battesimi e all’aspersione. Dopo i battesimi si potrebbe cantare Alleluia, oggi la chiesa e durante l’aspersione dell’assemblea Nell’acqua che distrugge; Un solo Signore; Ecco l’acqua che sgorga; Acqua viva.

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Alla confermazione. Nel caso ci fossero battezzati adulti o in età scolare, tra battesimo e con-fermazione si può eseguire un canto, ugualmente durante la crismazione: Vieni, Santo Spirito; Veni,Sancte Spiritus; Spirito Santo, vieni; Vieni, o Spirito del cielo; Spirito di Dio (anche solo il ri-tornello ripetuto); Lo Spirito del Signore è su di me, di P. Comi, in Preghiera di un povero, Paoline; Nello Spirito Santo; Rendiamo gloria.

Liturgia eucaristica

È la parte più consueta. Ma è anche sacramentalmente e simbolicamente la più forte. L’assem-blea, però, potrebbe sentire un pò la stanchezza. Bisogna tenerne conto e consentire di prendere fiato, affidando all’organista o al coro il compito di riportarla alla giusta tensione e rilanciarla per la grande azione di grazie. Nel frattempo si prepara la mensa, si raccolgono le offerte e si portano il pane e il vino.

Suggeriamo di curare particolarmente la Preghiera eucaristica con le rispettive acclamazioni cantate (vedi Giovedì santo nella Cena del Signore).

Alla comunione, poi, occorrerà tirar fuori il meglio dei canti. È il momento culminante della pa-squa.

Alcuni titoli: Andiamo con gioia alla mensa, di GomiERo-BERthiER; Nulla con te mi mancherà (dal Salmo 22); Pane del cielo; Cristo nostra pasqua con il Salmo 33; È la pasqua del Signore, di G. amadEi, in La nostra festa è Cristo, Paoline; Pane vivo; Tu festa della luce; Cristo uomo nuovo; Ri-surrezione; Sai dov’è,fratello mio; Sei tu, Signore, il pane; Tu fonte viva; Quello che abbiamo udito; Tu percorri con noi; Cristo è risorto; Cristo nostra pasqua, di P. Comi, in Per ogni uomo, p. 40 (solo inizio e coda).

Come canto dopo la comunione o canto finale: Gioia del cuore; Tu sei stupenda luce; Rimani tra noi; Cristo è venuto tra noi; Surrexit Christus, alleluia; Surrexit Dominus vere (canone).

Oppure come finali, se non si fa il saluto alla Madre di Dio prima della benedizione: Regina coeli; Regina dei cieli; Rallegrati, Maria; Alla Madre di Dio.

FRanCo GomiERo in Preparare e celebrare il Triduo pasquale (a cura di Daniele Piazzi), Queriniana, Brescia 2003, pp. 39-45.

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CANTARE LA MESSA NELLA CENA DEL SIGNORE

Questa celebrazione serale riveste un enorme interesse: non si tratta di una messa più ‘caricata’ o più ‘commovente’ di altre, anche se può riuscire di grande utilità per il prete e i suoi collaboratori liturgici fare un «esame di coscienza» e una serena verifica sul proprio modo di celebrare e vivere abitualmente l’eucaristia.

inizio e Liturgia della Parola

Un leggero e piacevole preludio musicale, che faccia ambiente e accoglienza. Poi un canto di festa piuttosto sobrio, ma mirato. Per esempio: Questa è la pasqua, di P. Comi, in Sulle orme di Israele, Paoline; Nostra gloria è la Croce, di m. FRisina; In te la nostra gloria. Inno di lode: Gloria in excelsis Deo (GREGoRiano); Gloria in excelsis Deo (léCot); Gloria a Dio (BERthiER); Gloria a Dio (PiCChi). Salmo responsoriale: Il tuo calice, Signore; Il calice di benedizione. Canto al Vangelo: Gloria a Cristo Signore; Cristo Signore,gloria e lode a te; Gloria a Cristo.

Alla lavanda dei piedi

Se si fa, l’assemblea sia aiutata a concentrare l’attenzione sul gesto. Se si canta, attenzione ai testi e ai ritmi. Per concentrare l’attenzione dell’assemblea sul gesto da vivere con profonda partecipazione potrebbe essere opportuno un interludio musicale con proclamazione di versetti del Vangelo (vedi le antifone consigliate dal Messale). Alla conclusione si potrebbe cantare per esempio: Amatevi, fratelli; Passa questo mondo; Quando venne la sua ora; Un comandamento nuovo; È giunta l’ora, di sCaGlianti. Da ricordare che il tradizionale Ubi caritas non va cantato durante la lavanda dei piedi, ma durante la processione offertoriale.

Liturgia eucaristica

Dopo aver lavato loro i piedi, quella sera Gesù spezza il pane sotto gli occhi degli apostoli e glielo dà da mangiare. Lo stesso fa con il vino. Era una cena-testamento. Dopo quella Cena, infatti, Gesù fa la cosa più grande: si consegna a chi ha deciso di ucciderlo. È stato un atto di offerta totale di sé. I discepoli presenti quella lezione non l’hanno mai più dimenticata. Ogni cena eucaristica delle nostre comunità sia come la cena che egli ha dato ai suoi discepoli e all’umanità intera. Non un mimo esteriore, ma una imitazione interiore, in cui il pane che mangiamo è come il pane del quale Gesù poté dire che è il suo corpo e il vino che beviamo come quello del quale poté dire che è il suo sangue.

Alla presentazione dei doni: Ubi caritas; Dov’è carità e amore; Il frutto della terra, di alBisEtti-Rainoldi; O Dio dell’universo.

Preghiera eucaristica: il Messale prevede il prefazio proprio (Eucaristia I) e alcune aggiunte nel racconto dell’istituzione. Nel Canone romano anche una particolare preghiera di offerta. Preparata dalla presentazione del pane e del vino con i doni e le offerte per i poveri, frutto della penitenza quaresimale, questa Preghiera eucaristica sia veramente azione di tutta l’assemblea, che «si unisce con Cristo nel magnificare le grandi opere di Dio e nell’offrire il sacrificio della nuova alleanza» (MR, n. 54). Si potrebbero usare le melodie proposte dal Messale con le acclamazioni e la dossologia che l’assemblea già conosce.

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Il gesto dello spezzare il pane ed eventualmente della distribuzione del vino in diverse coppe sia particolarmente evidenziato e accompagnato dall’acclamazione litanica Agnello di Dio.

La comunione, almeno questa sera, sia fatta con il pane e il vino, nella maniera ritenuta più opportuna. Durante la comunione si può cantare: Andiamo con gioia alla mensa, di GomiERo- BERthiER; Ecco l’uomo; Mistero della cena; Adoriamo Gesù Cristo; Sei tu Signore il pane; Pane per noi spezzato; Chi ha fame di amadEi; Quando venne la sua ora; Venuta l’ora, di sCaGlianti; Tu nella notte triste, di BaCh-Poma.

Reposizione, spoliazione dell’altare e adorazione prolungata. Questi tre gesti, di cui il secondo è condotto in silenzio ed è coestensivo al terzo, non hanno bisogno di enfasi indebite. Si cerchi soltanto, sulla scorta di quanto raccomanda il Messale Romano alle pp. 143-144, di evitare che la solenne reposizione si identifichi con una solenne sepoltura, cui si cerchi di rimediare con un di più di ornamenti e di luci. Si tratta soltanto della conservazione del pane consacrato per la comunione dell’indomani, come avviene abbastanza normalmente nelle celebrazioni settimananali lungo tutto l’anno, quando non si prevede di poter partecipare alla messa. L’adorazione, che si protrae dopo la reposizione, può essere sostenuta da alcuni momenti di preghiera comune, utilizzando elementi della Liturgia delle ore del Giovedì santo, tratti dall’Ufficio delle letture, dai Vespri e dalla Compieta.

Durante la processione si può cantare: Pange lingua; Adoriamo Gesù Cristo; Pane di vita nuova, di M. FRisina; Chi mi seguirà, di a. PaRisi; Il tuo popolo in cammino, di P. sEquERi; Ecco l’uomo.

FRanCo GomiERo; in Preparare e celebrare il Triduo Pasquale, a cura di Daniele Piazzi, Queriniana, Brescia 2003.

“Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”.

“...disse alla madre: Donna ecco tuo figlio.Poi disse al discepolo: Ecco la madre tua”.

“In verità ti dico: oggi sarai con me in paradi-so”.

“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandona-to?”.

“Ho sete”.

“È compiuto!”.

“Padre, nelle tue mani rimetto il mio spirito”.

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CANTI PER IL TRIDUO PASQUALE1.

Questa sezione vuole essere d’aiuto e di indicazione per la scelta dei canti per la Celebrazione Eucaristica considerando la liturgia del giorno e il tempo liturgico.

La numerazione è riferita al libretto Dio della mia Lode anno 2011.

05 APRILE - GIOVEDI SANTO - IN COENA DOMINI

05 APRILE - GIOVEDI SANTO - MESSA CRISMALE

06 APRILE - VENERDI SANTO

07 APRILE - PASQUA DI RISURREzIONE DEL SIGNORE

COME DATRADIZIONE

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Il tuo ca li ce, Si gno re, è do no di sal vez za.- - - - - - -

1. Che cosa renderò al Si2. Agli occhi del Signore è pre3. A te offrirò un sacrificio di ringrazia

gnoziomen

re,sato

per tutti i benefici che mi hala morte dei suoi fee invocherò il nome del Si

fatdegno

to?li.re.

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1. Alzerò il calice della sal2. Io sono tuo servo, figlio della tua3. Adempirò i miei voti al Si

vezschiagno

zava:re

e invocherò il nometu hai spezzato ledavanti a tut

delmieto il

Sicasuo

gnotepo

re.ne.polo.

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Giovedì Santo - In Coena Dominisalmo responsoriale

(dal salmo 115)

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Giovedì Santo - In Coena DominiSalmo Responsoriale

(dal salmo 115)

SALMODIE•

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Sulle Note dello Spiriton

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Giovedì Santo - Messa CrismaleSalmo Responsoriale

(dal salmo 83)

Can te rò per sem pre l'a mo re del Si gno re.- - - - - - -

1. Ho trovato Davide, mio2. La mia fedeltà e il mio amore saranno

sercon

vo,lui

con il mio santo olio l'ho consae nel mio nome s'innalzerà la sua

crafron

to;te.

- - --

1. la mia mano è il suo so2. Egli mi invocherà: "Tu sei mio

stepa

gno,dre,

il mio braccio èmio Dio e roccia della

lamia

suasal

forvez

za.za".

- - -- - -

Giovedì Santo - Messa Crismalesalmo responsoriale

(dal salmo 88)

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Sulle Note dello Spirito

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Venerdì SantoSalmo Responsoriale

(dal salmo 30)

Pa dre, nel le tue ma ni con se gno il mio spi ri to.- - - - - - -

1. In te, Signore, mi sono rifugiato, mai sarò de2. Sono il rifiuto dei miei nemici e persino dei miei vicini, il terrore dei miei cono3. Ma io confido in te, Si4. Sul tuo servo fa' splendere il tuo

luscengnovol

so;ti;re;to,

- - - - - -

- - - - - - - - -- -

-

1. difendimi per la tua2. chi mi vede per strada3. dico: "Tu sei il mio Dio, i miei giorni sono nelle4. salvami per la tua mise

giumitueri

stisfugmacor

zia.ge.ni".dia.

- -

--

- - - - - - - - -

1. Alle tue mani affido il mio spi2. Sono come un morto, lontano dal3. Liberami dalla mano dei miei ne4. Siate forti, rendete saldo il vostro

rito;cuore;micicuore,

tu mi hai riscattato, Signore, Dio fesono come un coccio da gete dai miei persecuvoi tutti che sperate nel Si

detatogno

le.re.ri.re.

- - -

- - - - -- -

- -

Venerdì Santosalmo responsoriale

(dal salmo 30)

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Sulle Note dello Spiriton

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Veglia PasqualeSalmo dopo la Iª lettura

(dal salmo 103)

Man da il tuo Spi ri to, Si gno re, a rin no va re la ter ra.- - - - - - - - -

1. Benedici il Signore, ani2. Egli fondò la terra sulle3. Tu mandi nelle valli acque4. Dalle tue dimore tu irrighi5. Quante sono le tue opere,

masuesoriSi

mibagimongno

a!si:veti,re!

Sei tanto grande, Signore,non potrà mai vaperché scorranoe con il frutto delle tue opere si saziaLe hai fatte tutte con

miociltra ilasag

Dilamontergez

o!re.ti.ra.za;

- - -- - - - - - -

- - -- -

- - - -

1. Sei rivestito di maestà e di splen2. Tu l'hai coperta con l'oceano come una3. In alto abitano gli uccelli del4. Tu fai crescere l'erba per il be5. la terra è piena delle tue crea

doveciestiatu

re,ste;lomere.

avvolto di luce comeal di sopra dei monti stavanoe cantano trae le piante che l'uomo coltiva per trarre cibo dalBenedici il Signore, ani

di unlelelama

manacfrontermi

to.que.de.ra.a.

- - -- -- -

- - -- - - - - - -

Veglia PasqualeSalmo dopo la I lettura

(dal salmo 103)

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Sulle Note dello Spirito

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Veglia PasqualeSalmo dopo la II lettura

(dal salmo 15)

Pro teg gi mi, o Di o: in te mi ri fu gio.- - - - - -

2. Per questo gioisce3. Mi indicherai il sentiero

1. Il Signore è mia parte di ereditàildel

emiola

miocuorevita,

calice:ed esulta lagio

nelle tue mani è lamiaia

miaapie

vinima;na

ta.

-- - - ---

-

2. anche il mio corpo riposa al si3. alla tua pre

1. Io pongo sempre davanti a me il Sicusen

gnoro,za,

re,

-- - - -- -

--

2. perché non abbandonerai la mia vita negli inferi, né lascerai che il tuo fedele veda3. dolcezza senza fine alla

1. sta alla mia destra, non potrò valatua

cilfosde

lasa.stra.

re.

--

- - - - - - - - - -

Veglia PasqualeSalmo dopo la II lettura

(dal salmo 15)

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Veglia PasqualeSalmo dopo la III lettura

(Es 15,1b-6.17-18)

Can tia mo al Si gno re: stu pen da è la sua vit to ria.- - - - - - - -

2. Il Signore è un guer3. Gli abissi li rico

1. "Voglio cantare al Signore, perché ha mirabilmente trion

4. Tu lo fai entrare e lo pianti sul monte della tua ere

riepri

fa

di

ro,rono,

to:

tà,

- -

- - - - - - -- -

- - - - - - -

2. Signore è il suo3. sprofondarono come

1. cavallo e cavaliere ha gettato nel

4. luogo che per tua dimora, Signore, hai prepa

nopie

ma

ra

me.tra.

re.

to,

-

-- - -

-

Veglia PasqualeSalmo dopo la III lettura

(Es 15,1b-6.17-18)

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Veglia PasqualeSalmo dopo la IV lettura

(dal salmo 29)

Ti e sal te rò, Si gno re, per ché mi hai li be ra to.- - - - - - - - -

2. Cantate inni al Signore, o suoi fedeli, della sua santità celebrate3. Ascolta, Signore, abbi pie

1. Ti esalterò, Signore, perché mi hai risolil rità

lecordi

vado,me,

to,- -

- - - - - - -

- - - - - - -

2. perché la sua collera dura un istante, la sua bontà per tutta3. Signore, vieni in

1. non hai permesso ai miei nemici di gioirelamio

suvia

dita.iuto!

me.--

2. Alla sera ospite è il3. Hai mutato il mio lamento in

1. Signore, hai fatto risalire la mia vita daglipiandan

intoza;

feri,e al mattinoSignore, mio Dio, ti renderò grazie

mi hai fatto rivivere perché non scendessi nellaper

lagiosem

fosia.pre.

sa.- -

- - -

- -

Veglia PasqualeSalmo dopo la IV lettura

(dal salmo 29)

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Veglia PasqualeSalmo dopo la V lettura

(Is 12, 2. 4-6)

At tin ge re mo con gio ia al le sor gen ti del la sal vez za.- - - - - - - - - - -

2. Attingerete acqua con3. Cantate inni al Signore, perché ha fatto cose ec

1. Ecco, Dio è la mia salgiocel

veziase,

za;alle sorgenti della salle conosca tutta la

io avrò fiducia, non avrò tivezter

moza.ra.

re,--

-- -

-- - - - - - -

2. Rendete grazie al Signore e invocate il suo3. Canta ed esulta, tu che abiti in

1. perché mia forza e mio canto è il SinoSi

gnome,on,

re;--

- -

2. proclamate fra i popoli le sue opere, fate ricordare che il suo nome3. perché grande in mezzo a te è il Santo

1. egli è stato laèd'I

miasusra

salblie

vezme.le.

za.-

- ---- -

Veglia PasqualeSalmo dopo la V lettura

(Is 12, 2. 4-6)

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Veglia PasqualeSalmo dopo la VI lettura

(dal salmo 18)

Si gno re, tu hai pa ro le di vi ta e ter na.- - - - - - -

2. I precetti del Signore sono3. Il timore del Signore è

1. La legge del Signore è per

4. Più preziosi del

retpu

fet

l'o

ti,ro,

ta,

ro,

fanno gioire ilrimane per

rinfranca

di molto oro

cuosem

l'a

fi

re;pre;

nima;

no,

--

--

- - -

- - - -

-

-

-

-

2. il comando del Signore è lim3. i giudizi del Signore sono fe

1. la testimonianza del Signore è

4. più dolci del

pide

sta

mie

do,li,

bile,

le

illusono

rende sag

e di un fa

mitut

gio

vo

nati

il

stil

gli ocgiu

sem

lan

chi.sti.

plice.

te.

--

---

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- - - - --

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-

-

- - -

Veglia PasqualeSalmo dopo la VI lettura

(dal Salmo18)

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Veglia PasqualeSalmo dopo la VII lettura

(dal Salmo 41)

Co me la cer va a ne la ai cor si d'ac qua, co sì l'a ni ma mi a a ne la a te, o Di o.- - - - - - - - - - - - -

2. Avanzavo tra la3. Manda la tua luce e la tua ve4. Verrò all'altare di

1. L'anima mia ha sete difolriDi

Dila,tà:o,

o,la precedevo fino alla casa disiano esse a guia Dio, mia gioiosa esul

del Dio viDidartan

veno,mi,za.

te:

--

--

- - - - -- - -

- - - - - - -- -

2. fra canti di gioia e di3. mi conducano alla tua santa mon4. A te canterò sulla

1. quando verrò elotace

vedegna,tra,

dròdi una moltituallaDio,

il voldituaDi

tone indio

difemomi

Dista.ra.o.

o?

--

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Veglia PasqualeSalmo dopo la VII lettura

(dal Salmo 41)

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Pasqua di Risurrezione del SignoreSalmo responsoriale

(dal salmo 117)

Que sto è il gior no che ha fat to il Si gno re: ral le gria mo ci ed e sul tia mo.- - - - - - - - - - - -

1. Rendete grazie al Signore perché è2. La destra del Signore si è innal3. La pietra scartata dai costrut

buono,zata,tori

perché il suo amore è perla destra del Signore ha fatto proè divenuta la pietra

sempre.dezze.d'angolo.

- -- - -

1. Dica Isra2. Non morirò, ma resterò in3. Questo è stato fatto dal Si

ele:vitagnore:

"Il suo amoree annuncerò le opereuna meraviglia ai

èdelno

perSistri

semgnooc

pre".re.chi.

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- - -

Pasqua di Risurrezione del SignoreSalmo responsoriale

(dal Salmo 117)

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