#numerouno - una voce di notte

32
1

Upload: contempo

Post on 21-Jul-2016

224 views

Category:

Documents


3 download

DESCRIPTION

 

TRANSCRIPT

Page 1: #numerouno - Una voce di notte

1

Page 2: #numerouno - Una voce di notte

Il #numerodue di con.tempo

SIMMETRIE

uscirà ad Aprile 2015

Se vuoi pubblicare un tuo racconto

invialo entro il 20 marzo 2015 a [email protected];

per info: www.contempo.cc

EDITORE: Associazione Culturale con.tempovia di Bugia, 23 – Loc. Caldine – 50014 – Fiesole (FI)DIRETTORE EDITORIALE: Carlo BenedettiREDATTORI: Guia Bigazzi, Daniele Corsi, Valentina De Matteis, Federico Fastelli, Francesca Guercioni, Alberto Di Matteo, Daria Porciatti, Davide Sibilia, Elia Spiga, Letizia Spiga, Sergio Villani, Elisa Zuri. IN–HOUSE GRAPHIC DESIGNER: Maria Cristina Giustozzi STAMPA: Tipografia Toscana – Ponte Buggianese (PT)

Scopri dove trovare con.tempo su www.contempo.cc

Scrivici a: [email protected]

con.tempo è una rivista gratuita per i soci dell’associazione culturale con.tempo

Redazione

Le illustrazioni di questo #numerouno sono di SERGIO LEONE.

Sergio è nato nel 1979 a Caltagirone e si è laureato in architettura a Firenze. Dal 2010 produce brevi storie a fumetti.L’amore è spesso protagonista dei suoi racconti con le scoperte, gli incontri e le illusioni che si sedimentano nel quotidiano. Le storie si svolgono in luoghi piuttosto precisi, a volte autobiografici. “Ogni giorno ci succedono un sacco di cose meravigliose e crudeli. Credo che non si possa che parlare d’amore, in una forma o nell’altra. Questo è ciò che disegno”.Le illustrazioni di questo numero prendono ispirazione dai film di Michelangelo Antonioni.

http://comeilpomodoro.blogspot.it/

Page 3: #numerouno - Una voce di notte

Sembra impossibile dover scrivere un secondo editoriale. Eppure il lavoro degli autori, di tutta la redazione, dell’illustratore e della nostra in-house graphic designer lo state stringendo fra le dita.

Proprio ora che la lettura su carta non è più l’unico modo di lettura possibile e che i racconti sembrano relegati all’autopubblicazione, spesso sciatta e trascurata, con.tempo è insieme attuale e superata. Non siamo dei luddisti, il digitale è inevitabile e, in alcuni settori, è già la norma. Siamo piuttosto degli “ecologisti”: vogliamo conservare un ambiente diverso da quello che diventa sempre più diffuso. Non credo ci sia niente di più attuale che resistere all’omologazione.

In questo numero parliamo di ‘una voce di notte’, di quella voce che non riusciamo a ignorare, con un racconto di Vanni Santoni e sette di autori esordienti. A loro, che fanno e sono con.tempo, il nostro grazie.

Per saperne di più e per sostenerci, visitate il nostro sito: www.contempo.cc.

Buona lettura e arrivederci al #numerodue!

Carlo BenedettiDirettore Editoriale

Editoriale

1. UNA NOTTE – Vanni Santoni, p. 12. PIANO SEQUENZA – Fabrizio C. Carta, p. 43. CON-TATTO NELLA NOTTE – Attilio Mazzoni, p. 74. ORIONE E LO SCORPIONE – Ferdinando Silvestri, p. 95. BELLA DI NOTTE – Caterina Tua, p. 136. NOTTE DI PIOGGIA A CATINELLE – Giuseppe Paolone, p. 177. POCO DA DIRE – Fabio Taffurelli, p. 208. IPOTESI SULLA SCOMPARSA DI UN CORPO – Mirko Tondi, p. 23

Indice

Page 4: #numerouno - Una voce di notte

4

Page 5: #numerouno - Una voce di notte

1

Una notteVANNI SANTONI

Arrivarono di pomeriggio, davanti a loro sulla scaletta gente allegra, spagnoli di ritorno, olandesi

in vacanza. Tra tutti erano i meno abbronzati e sotto le lenti scure gli occhi affessurati e pesti già guardavano al ritiro bagagli, già sognavano il letto. Dopo il pullman e un paio di stazioni di metro, giunsero a una stradella bordata di oleandri, ribollente di polline. Una delle case, sul colonnino del cancello, aveva una maiolica con una luna che dormiva tra nuvole cilestrine, e la scritta “La luna”.E si dormiva, alla “Residencia La luna”. C’erano lavoranti che facevano la colazione agli ospiti, che lavavano loro i vestiti. I letti erano morbidi,

le pareti spesse e la strada indolente come sembrava. Si lasciarono svenire sotto la doccia fin quando veniva a riscuoterli la fine dello scaldabagno, abusarono di asciugamani puliti, di lenzuola, di colazioni. Non li attirava la città, se non per cenare e subito rientrare: sentivano la stanchezza delle notti olandesi, della coca e dei funghi e dell’alcool e del continuo stato di fattume, e di giorno Madrid era troppo calda, troppo gialla, troppo grande e inospitale, troppo capitale. Spendevano i pomeriggi al parco lì vicino: Giovanni leggiucchiava, Piero palleggiava con una specie di Super Tele trovato sotto a un cespuglio il primo giorno. Quando anche il parco appariva troppo lontano, la veranda, o la saletta sotterranea col computer e il frigo delle birre, gli erano sufficienti per spendere i pomeriggi. – Com’è che avevamo deciso di venire qui, dopo Amsterdam?– Eh, sai… la movida…Risero, aggrappati alle bottiglie di Estrella.Al quinto giorno Piero si trovò davanti in corridoio una delle lavoranti, una rumena snella e slavata. Le chiese se stesse lì anche d’inverno; lei scoppiò a piangere, in quel caldo pomeriggio pianse che non poteva permettersi di continuare a studiare, che le mancava solo la tesi ma “non era veramente una lavandaia”. Piero la guardò e pensò che lui non era neanche una lavandaia. Quella si asciugò le lacrime:– Scusami, è che ho saputo oggi che anche l’ultimo dei miei compagni di scuola si è laureato – e sparì dietro l’angolo.Piero rimase lì ritto per qualche secondo, poi scese in saletta e strappò una pagina da una vecchia agenda ma, quando stava per mettersi al tavolino con carta e penna, scese Giovanni:– Dai Pierino, almeno stasera andiamo. Guarda questo posto, potrebbe essere decente – e gli mostrò dei flyer sbertucciati, tutti colorati.Il locale non era diverso da un qualunque

Page 6: #numerouno - Una voce di notte

2

discopub; la gente cominciò ad arrivare quando erano al terzo cocktail, lì seduti al banco, tirati a lucido e ben incamiciati. Giovanni si alzò per andare in bagno e Piero, cercando in tasca le sigarette, sentì il foglio e la penna. Allora li tirò fuori e controllato che il pezzo di banco davanti a lui fosse asciutto, stese il foglio e scrisse, uno sotto l’altro: Bencini Bernini Bessi D’Avanzo Dellamore Donnini Federigi Foggia Fontani (Gambassi) Gherardi Menicucci Papini Rotesi Surchi Tassi Zatini Zecchi. Contò i nomi e vide che erano diciotto. In classe erano ventuno. Non si prese la briga di ricordare quelli che mancavano e scrisse:

Bencini – Laurea in storia. Lavora nell’agriturismo dei suoi. È stato consigliere comunale.

Bernini – Il miglior studente della scuola non finisce giurisprudenza a Firenze né a Siena. Collaboratore a contratto col Comune.

Bessi – Lasciata farmacia. Commesso nella cartoleria dei genitori.

D’Avanzo – Laurea in ingegneria. Dottorando in Svezia.

Dellamore – Laureata in scienze della formazione. Maestra d’asilo precaria. Sposata, divorziata e risposata.

Donnini – Dottore in geologia. Carriera universitaria interrotta dalla morte del suo professore di riferimento. Disoccupata.

Federigi – Lascia psicologia al secondo anno per lavorare nella ditta del padre. La ditta fallisce nel 2005.

Foggia – Mai finita economia. Ogni tanto lavora come barista. Collabora con una radio locale che sicuramente non paga.

Fontani – Lasciata o mai cominciata l’università. Finita in una setta tipo Sai Baba.

(Gambassi)

Gherardi – Laurea in giurisprudenza. Lavora in

banca.

Menicucci – Sposata subito dopo il liceo, due figli. Contratto a progetto in una casa di riposo.

Papini – Laurea in fisica. Fa supplenze e lezioni private.

Rotesi – Disoccupato, è diventato una specie di nazista, almeno a giudicare dalle cose che scrive sul suo blog.

Surchi – Morto.

Tassi – Laureato in lettere. Disoccupato.

Zatini – Laurea in scienze del turismo. Cassiera alla Coop.

Zecchi – Medico.

Ripassò la lista e aggiunse:

D’Avanzo – Laurea in ingegneria. Dottorando in Svezia. Prende il buio e il freddo per accodarsi in un meccanismo che lo vedrà insegnare, se tutto va bene, tra venticinque anni.

Gherardi – Laurea in giurisprudenza. Lavora in banca. Se si impegna riuscirà a guadagnarsi un posto a uno sportello, dove si annoierà da lì alla sua morte.

Si fermò sulla Zecchi, aggiunse “dieci anni tra laurea, tesi e specializzazione” ma realizzò che i dieci anni erano già passati. Valutò che il sangue faceva schifo, ma era pneumologa. Pensò che l’aria, l’odore degli ospedali faceva schifo, ma certo non era una cosa che gli avesse mai dato pensieri. Pensò al Surchi, blu in fondo al mare, poco prima delle boe dei trecento metri. Valutò che di certo era stato ripescato e se ne stava solo un po’ gonfio a disfarsi nel legno zincato, ma a quel modo gli venne più difficile figurarselo. Lo interruppe la voce di Giovanni:– Che fai con quel foglio? Bencini, Bernini, Bessi… Classe nostra? Io di quella gente non ricordo neanche i nomi. Fai vedere… Ma ti sei scritto i mestieri che fanno?– Facevo mente locale su cosa combinano. Tra

Page 7: #numerouno - Una voce di notte

3

tutti, non hanno compicciato chissà che.– Ah! Schadenfreude!– Che?– È quando godi per i guai dei tuoi amici.– Mica godo. E non sono miei amici. Comunque sia, non hanno ottenuto granché.– Ma cosa vuoi ottenere. Io ho il culo che i miei hanno il negozio, e infatti ho fatto presto a capire che dovevo lasciare farmacia senza troppi pensieri.– Non ti deprime l’idea di fare il cartolaio all’Impruneta?– Mi rimane il tempo per le mie cazzate. C’è quest’idea secondo cui tutti dovrebbero fare, non so, l’art director a Berlino… Oh, guarda quelle due! Dai, una volta che ce l’abbiamo fatta a uscire, diamoci da fare! – disse Giovanni.In quella, notò che Piero si era fermato e guardava verso l’ingresso. La lavorante della “Residencia” stava entrando nel locale. Era truccata e aveva addosso un abituccio misero misero, che però le metteva in risalto le gambe. – Deve averci sentiti quando dicevamo di venire qui.– Gio’, è venuta per me – disse Piero, ma Giovanni l’aveva già superato; fece in tempo a vederla che lo salutava, poi l’amico le fu addosso. Si strizzò la bocca con la mano e abbassò gli occhi mentre quelli parlavano, ridevano, ridevano ancora, sparivano in una pista laterale. Giovanni riapparve quasi un’ora più tardi. Piero era rimasto seduto al banco, un’ombra che gli tagliava il viso. Quello gli si sedé accanto come se non fosse stato via più di cinque minuti e gli mollò una pacca:– Che zozza!– Sei un cane – disse Piero guardando fisso di fronte a sé.– E fatti una risata, Gambassi… Una birra, madame! – gridò alla barista.– Era venuta per me.– A me pare che fosse venuta più per me – fece Giovanni assestandosi sullo sgabello.– Era venuta per me, e lo sai.– Pierino, non è mica colpa mia se sei diventato un fesso – e gli mollò uno schiaffetto sulla gota, leggerissimo, ma sufficiente per essere troppo, realizzò nell’attimo in cui il pugno dell’amico lo colpiva sulla bocca, e crollava all’indietro, e la sua nuca sbatteva sul pavimento, e Piero gli montava

sopra e gli cazzottava la faccia finché non arrivavano quelli della sicurezza a percuoterlo con le loro lunghe torce nere.

Page 8: #numerouno - Una voce di notte

4

Piano sequenzaFABRIZIO C. CARTA

Questa notte la luna è sfumata di un rosso cremisi, accerchiata da un bagliore sinistro. Le leggende narrano di lei e nessuno spreca parole per me. Un giorno, sono sicuro, ci saranno pagine che racconteranno le mie gesta, i miei amori, i miei fallimenti. Sì, accadrà. Mi distendo sul fianco destro per dar le spalle alla finestra; ad occhi aperti sento le travi del soffitto assestarsi, insetti cantare e poi eccolo, il profumo di santità che i fedeli più incalliti dicono di sentire ovunque: un odore familiare, il tuo, così dolciastro ma allo stesso tempo maschile, incastrato tra i radi peli della tua barba. Non so perché mi sia venuto in mente proprio questo ricordo. Nella culla in cui mi trovo, ripercorro a ritroso gli eventi che hanno fatto di me il migliore amico dei tuoi amici ed il prediletto ed unico figlio di nostra madre. Mamma… cosa ho dovuto fare per attirare le tue patetiche attenzioni? Certe volte mi chiedo se ne sia valsa la pena. Il passato non si cambia, si pensa solo a nuovi modi per debellare la noia attraverso un gioco perverso. Inspiro ad occhi chiusi e riconosco gli stessi odori di un tempo, quando ti dedicavo i miei anni peggiori e bramavo il calore del tuo corpo fraterno come una coperta intessuta con i nostri stessi geni. In tutto questo ti odiavo, lo sai? No, certo che non lo sai… ero il tuo piccolo sognatore. Restavo ore ad ascoltarti suonare nella tua maledetta ‘camera del suono’, la tua stanza pulita e ordinata come l’ala di un museo. Mi sedevo ai piedi del pianoforte, le ginocchia incrociate, di solito con il mento appoggiato sui pugni chiusi, e ti ascoltavo. Prima di chiudere gli occhi osservavo i tuoi gesti, i rituali di preparazione che mi davano ai nervi. Stiravi le dita, appoggiavi l’indice della mano destra su un tasto e lo abbassavi lentamente mentre il pollice della sinistra picchiettava ripetutamente su un altro. Facevi lunghi respiri e la luce era sempre la stessa: ambra e paprika. Ti piaceva suonare il pomeriggio, quando la luce rende bellissima ogni

cosa, persino il tuo animo. Decidevi tu quale fosse l’ora giusta per concederti quel momento di riflessione o chissà cosa. Chiedevi a nostra madre di non disturbarti e lei rispondeva gioviale che non era mai successo e che non sarebbe di certo accaduto quel giorno. Odiavo la vostra complicità, detestavo ogni singola parola uscisse dalle vostre labbra. Dall’uscio della mia camera mi salutavi e una volta preso possesso del tuo santuario non chiudevi mai la porta; l’accostavi per far scivolare via il suono e immergere la casa nella tua arte. La musica riempiva il salone

e la cucina come il profumo di biscotti appena sfornati e tu eri contento. Nostra madre era contenta. Io… beh, ho già detto cosa pensavo di te. Sgattaiolavo senza dire una parola ed entravo nel tuo spazio. Prendevo posto e attendevo l’inizio dell’esecuzione. La finestra socchiusa, l’aria che entrava e accarezzava la tenda di lino.

Page 9: #numerouno - Una voce di notte

5

La diagonale di luce e i riccioli di polvere che vi vorticavano dentro. Le caviglie incrociate, i piedi nudi sulla moquette color sabbia: eri bellissimo e maturo. Suonavi per te stesso come io scrivo per mio piacere. Osservavo ogni cosa di te e mi facevo mille domande.Tutte senza risposta. Un pomeriggio mi alzai e mi sedetti al tuo fianco, ma non dicesti nulla, eri troppo impegnato a comporre. Azzardai e toccai i tasti liberi con le dita: nacquero dei bei suoni e piano piano, con un po’ d’incertezza, si trasformarono in una melodia che fece amicizia con la tua. Ero incredulo, non pensavo di saper suonare. Mi era capitato spesso di violare il tuo santuario, ma non mi ero mai permesso di prendere il tuo posto. Entravo nella tua stanza e riversavo sul pavimento il mio disprezzo mentre t’immaginavo seduto sullo sgabello. Quel giorno, invece, scoprii una cosa nuova. Armonizzammo il suono e creammo

“La Sinfonia dei Fratelli”, un titolo banale e simpatico. Con la coda dell’occhio ti guardavo e sorridevi ad occhi chiusi. Avrei voluto sfregiarti il volto col taglierino che avevo in tasca, ma lasciai perdere, in fondo quell’attimo piaceva anche a me. Una volta sazio di note chiudevi l’esecuzione con uno scatto del busto e tutto precipitava nel

silenzio. Era bello starti accanto, così tanto da non volerti lasciare. Quel giorno decisi di prendermi qualcosa di più, di lasciar parlare la mia invidia, il mio disagio, la mia follia come ringraziamento per avermi fatto crescere troppo in fretta quando pastelli di cera davano corpo al cielo e abbracci mi strappavano da quei fogli con una brama che sapeva di alcolici. Mi alzai e chiusi la porta a chiave con noi due dentro. – Perché lo fai? – domandasti alzandoti, con la solita espressione da vittima consenziente.– Perché ho voglia di rovinare qualcosa di bello.Accadde. Non era mai successo in quella stanza. Volevo distruggere il tuo rifugio, volevo che le pareti ti ricordassero ciò che avrebbero visto e il pavimento sentito. Chiudesti il coperchio sopra i tasti ed espirasti rumorosamente. Anima e corpo solo per te. Dopo quel pomeriggio smettesti di suonare e la

tua maledetta camera del suono divenne la mia stanza preferita, quella che ora occupa le mie notti, i miei tormenti e i miei sacrifici emotivi. Tra queste pareti armonizzo maledizioni destinate a chi non è in grado di darmi ciò che voglio, ospito nel mio corpo i miei nuovi amici e insieme a loro suoniamo i tuoi strumenti mentre piangi la

Page 10: #numerouno - Una voce di notte

6

tua vergogna in chissà quale buco universitario che ti sei scelto dopo aver detto la verità a tutti, lasciando a me l’onore di ammettere che razza di bastardo sei stato in tutti questi anni. Oramai sei un reietto e nostra madre mi prepara ogni giorno torte diverse e mi guarda come la vittima che sono. È quasi l’alba, pregusto il nuovo dolce che mi aspetta giù in cucina. Allungo una mano sul materasso fino a trovare le dita del qualsiasi di turno, un nome come un altro, e le intreccio alle mie. Mi allungo su di lui, lentamente gli sfioro una guancia e all’orecchio gli sussurro…

Page 11: #numerouno - Una voce di notte

7

Al suono della sveglia, Giovanni si destò di soprassalto. Era buio. Si alzò dal letto e si allungò per sgranchire i muscoli di braccia e spalle. Uscì dalla camera a passi lenti e si recò in bagno, tastando il muro con le mani in cerca della porta. L’intera casa era immersa nel buio. Si posizionò davanti al lavandino, accarezzò con le dita le setole dello spazzolino all’interno del bicchiere. Si

Con-tatto nella notteATTILIO MAZZONI

lavò i denti, si diede una sciacquata al viso, si mise in ascolto. Qualche anno prima, quando viveva ancora in città, non era in grado di analizzare i suoni provenienti dall’esterno. L’incessante sfrecciare delle automobili qualche metro sotto le sue finestre copriva tutto il resto. In campagna, invece, la vita scorreva più lentamente ed era meno caotica: lì aveva imparato ad ascoltare la

Page 12: #numerouno - Una voce di notte

8

notte. In quel momento Giovanni sentì che fuori pioveva. Il ticchettio sulle grondaie era regolare ed insistente: non era una pioggerella passeggera. Non c’era vento, però. Qualche gabbiano garriva in lontananza, in direzione della spiaggia. La casa odorava di aria umida. Tornò in camera ed esaminò al tatto i vestiti riposti nell’armadio. Si decise per pantaloni lunghi, soprabito, camicia, calzini di cotone felpato e scarpe italiane in pelle. Giovanni imboccò il corridoio, mettendo un piede davanti all’altro, con sicurezza. Ogni suo movimento era freddo, calcolato. Il passaggio era talmente stretto che poté appoggiare ciascuna mano sulle pareti a lato. Arrivò al mobiletto del telefono, ma colpì qualcosa per terra. Si accucciò cercando l’oggetto, tastando il pavimento con il palmo della mano. Sentì qualcosa. Dalla forma capì che era un accendino. Lo raccolse e lo mise al suo posto. Cercò il telefono appoggiando le dita sulla superficie del mobile. Prese la cornetta, strisciando i polpastrelli dell’altra mano sui tasti, senza premerli. Poi, nonostante il buio, compose un numero di telefono, senza alcuna esitazione. Dall’altro capo si udì una voce dolce, rassicurante, di una donna non più giovanissima ma nemmeno vecchia.– Sì pronto, gastronomia Ricci. – Pronto Marta, sono io… – Oh, salve signor Piacenti. In effetti mi aspettavo una sua telefonata.– Perché? Sono in ritardo? È arrivato quello che ho ordinato la settimana scorsa?– Guardi, è appena arrivato. Glielo porto appena posso. Mi scusi, ma non ho proprio avuto tempo prima! Se...– No, no, non si disturbi. Passo io, magari tra una mezz’oretta.– Oh, una mezz’oretta va benissimo. Allora l’aspetto.Giovanni appese la cornetta e si diresse verso la porta trascinando i piedi. L’ingresso era largo e l’uomo si aiutava tenendo la mano aperta sul muro. Allungò il braccio davanti a sé, fino a sfiorare la porta con la punta delle dita. Trovò la maniglia. Sotto di essa, le chiavi erano infilate nella toppa. Le ruotò in senso antiorario e le prese. Si accovacciò leggermente e allungò il braccio verso l’angolo. Tastò il pavimento ed il muro, ma non trovò niente.– Oddio, dove diavolo l’ho messo? – mormorò.

Si rialzò in piedi. Si fermò a riflettere.Fece qualche passo indietro e tornò al telefono. Appoggiò la mano sinistra sul mobiletto e si piegò verso il basso: eccolo. A questo punto uscì di casa e chiuse la serratura. Era buio pesto anche lì fuori, sul pianerottolo. Alzò la mano libera, annaspando nell’aria per qualche secondo. Trovò il cappello appeso sull’appendiabiti ad albero e lo indossò. Piegandosi, raggiunse l’ombrelliera. Tastò vari ombrelli finché non fu certo di aver trovato quello che desiderava. Lo prese e scese le scale, sorreggendosi al corrimano sulla sinistra, un passo alla volta, molto lentamente. Uscì dal portone della palazzina aprendo l’ombrello per non bagnarsi. Avanzò a piccoli passi, picchiettando qualche metro davanti a sé il bastone ritrovato sotto il mobiletto, a sinistra e a destra, descrivendo una specie di semicerchio.Sorrise.Un’altra notte stava per incominciare.

Page 13: #numerouno - Una voce di notte

9

Orione e lo scorpioneFERDINANDO SILVESTRI

Pochi passi, tutte le sere tranne il sabato, mi portano nella viuzza buia, alle spalle del palazzo in cui abito. È un’abitudine degli ultimi due o tre anni, vale a dire da quando a Benevento c’è la raccolta differenziata. È una cosa sacrosanta il fatto che uno come me, un ultrasessantenne in pensione, uno che non ha molte occasioni di uscita (ormai quasi solo la domenica a messa per accompagnare la moglie), possa rimandare a dopo cena il rito delle pantofole. La stradina è deserta, raramente ci trovo un vicino di casa che è lì per lo stesso motivo, più frequentemente mi fa compagnia un gatto. È bello sentire l’aria di fuori, tranne quando piove a dirotto. Anche solo un refolo lieve mi ricorda che sono vivo. Ecco il rito: esco dal portone, giro a sinistra, scendo dal marciapiede e giro ancora a sinistra, percorro una breve discesa che si insinua tra il mio palazzo e quello di fianco, infine entro nella viuzza. Dodici o tredici passi ancora leggermente in diagonale a sinistra e arrivo ai contenitori della differenziata allineati lungo un muretto. Oltre c’è l’aperta campagna. Deposito il sacchetto e torno indietro facendo il percorso inverso. Il tepore di casa torna ad accogliermi, materno.Aggiungo qualche dettaglio importante della liturgia: già quando sono a metà della discesa, la luce dei lampioni quasi non mi raggiunge più. Allora alzo la testa e, se il tempo è clemente, mi metto a guardare le stelle. Quando arrivo ai bidoni, è quasi completamente buio. L’ultimo tratto lo faccio camminando con la testa alzata, tanto se anche ci fossero escrementi di cane, neanche potrei individuarli. Quel buio ricorda a una parte della mia coscienza che negli ultimi anni, nel parcheggio sulla destra a poche decine di metri dai bidoni, ci sono state due o tre rapine. Forse sono fortunato, non lo so, ma a me non è successo mai niente e questo basta a dileguare la preoccupazione.Sollevo il coperchio del contenitore, di solito con

la testa ancora alzata, e deposito meccanicamente l’immondizia.Il cielo estivo è bello, riconosco costellazioni che mi sono care dall’infanzia – il Cigno, la Lira, lo Scorpione e l’Aquila, attraversata da quella nebulosità indistinta che è la Via Lattea – ma il più delle volte c’è foschia. Il cielo invernale, invece, quando il tempo è buono, è semplicemente magnifico. Le stelle in inverno sono gemme di luce vivida, persino il fondo blu del cielo sembra brillare. E io sto lì, a contemplare Orione e la sua cintura, Sirio, Aldebaran e le Pleiadi. Questa sera di febbraio è tiepida. Il cielo non è completamente libero, ma le nuvole mi hanno fatto il piacere di ammassarsi verso est, dove altri palazzi mi impedirebbero comunque la visuale. In un buco fra la massa di nubi fa capolino pure Giove, come un occhio del dio di cui porta il nome. Il lato sud del cielo è libero. È mercoledì, stasera tocca alla plastica.All’improvviso, senza che la vita abbia avuto la buona creanza di avvisarmi, accade quello che non doveva accadere: da qualche parte una donna urla. Resto bloccato nell’atto di posare il sacchetto. Non ci metto molto a realizzare che il suono proviene dal parcheggio. Penso che stasera il destino abbia deciso di farsi beffe di me, di confutare il teorema che in tanti anni sono andato via via costruendo, cioè quello secondo cui io sarei uno solo sfiorato dal dolore, uno di quelli che non restano mai invischiati in faccende strane.

Orione: grande costellazione a cavallo dell’equatore celeste, nota a quasi tutti i popoli della Terra, così recitano i manuali. Verso la fine degli anni Cinquanta vivevo con la mia famiglia al quarto piano di un palazzo di viale Mellusi, edilizia popolare, per intenderci. Lo Sputnik e Laika avevano già avuto il loro momento di gloria. Nell’appartamento di fianco al nostro

Page 14: #numerouno - Una voce di notte

10

abitava un brav’uomo che faceva l’assistente per un professorone di Napoli. Lui e la moglie s’affezionarono a me e ai miei fratelli. Avevo nove anni quando ci regalarono un libro di astronomia per ragazzi. Dentro c’era una mappa del cielo, non un vero astrolabio, ma sufficiente ad individuare le costellazioni principali. Era estate e subito mi misi a caccia di costellazioni, ma dovetti aspettare l’autunno per riuscire ad aggiungere Orione alla lista delle costellazioni “catturate”. Prima ne individuai la famosa cintura, tre stelle quasi allineate (e ancora ricordo il senso di esaltazione!). Subito dopo la cintura, toccò a Betelgeuse e Rigel: rossa la prima, azzurra la seconda; una la spalla, l’altra il ginocchio sinistro del gigante.

Al primo urlo ne segue un secondo, poi arrivano parole distinte: – Stronzoooo! Stronzodimmerdaaa!!!Forse c’è una colluttazione tra la donna e il suo aggressore. La donna sta provando a reagire. “Mio Dio! Mio Dio! Devo intervenire!”, mi dico, ma le gambe non si muovono, sono due pali ancorati al terreno.

Pochi raggi di luce filtrano attraverso la volta di un bosco. Avvolte dalla penombra, a poca distanza l’una dall’altra, tre figure avanzano in silenzio: Orione, gigantesco cacciatore, armato di una mazza di bronzo; Sirio, il cane dell’eroe; Artemide, dea della caccia. Le fiere del bosco fuggono terrorizzate a quella vista. Poco più avanti, una radura si apre davanti ai passi del terzetto. La preda è vicina e uno sguardo d’intesa corre tra Orione e Artemide. Il cuore della dea sussulta e i suoi propositi di castità vacillano, ma oggi non c’è tempo per la passione. Illuminata in pieno dal sole, al centro della radura una figura nera, enorme, li attende.

Sento i passi. C’è qualcuno che dal parcheggio si avvicina correndo. La mia visuale è parzialmente coperta da una bassa costruzione, la bottega di un falegname. Riesco a scollare le gambe dal terreno e finalmente faccio qualche passo in direzione del parcheggio.

Il grande toro, essere spaventoso emerso dall’Ade, carica i tre. Artemide tende l’arco, ma esita. Sirio ringhia e si prepara a balzare. Orione solleva la

grande mazza e la abbatte sul mostro. Passeggiavo per Roma con mia moglie, una quindicina d’anni fa. Ero andato a trovare mio figlio, il primo, che allora lavorava nella capitale. A un centinaio di metri dal Vittoriano mi infilai in una libreria, deciso ad acquistare qualcosa. Trovai un libro che raccontava l’epopea di Gilgamesh, eroe dei miti sumerici e assiro-babilonesi. Già prima di andare alla cassa della libreria, cominciai a sfogliarlo avidamente e a caso trovai il passo in cui la dea Ishtar inviava il Toro celeste per tentare – vanamente – di abbattere l’eroe. Una moltitudine di eroi si fonde in un unico archetipo.

Rapidi mi attraversano pensieri di morte: “Quanti saranno gli aggressori? Avranno pietà o mi infileranno una lama nella pancia? O magari mi pesteranno a sangue fino a uccidermi?”. Vedo

Page 15: #numerouno - Una voce di notte

11

mia moglie e i miei figli piangere in chiesa, di fianco alla bara.

Veloci come un battito di ciglia gli anni passano. Una lunga, estenuante giornata è passata e Orione si lascia cadere sul suo giaciglio, in una capanna nel bosco. Sirio si accuccia ai piedi del padrone. Quando entrambi sono sprofondati nel sonno, da dietro alcuni sacchi accatastati emerge una figura da incubo, un enorme Scorpione.

Finalmente lo vedo, lo stronzodimmerda, una sagoma scura che corre verso di me. Stringe al petto qualcosa, con la destra. Una frazione di secondo mi basta per capire che deve essere la borsa della donna. O della ragazza, magari una studentessa universitaria che rientra a casa. Qui attorno parecchi appartamenti sono affittati agli studenti.

Chi ha inviato la mostruosa creatura? Artemide, inviperita dall’interesse che il gigante ha mostrato per quelle smorfiose delle Pleiadi? O Febo Apollo, geloso della passione che la sorella prova per il mortale?Lentamente, la bestia si avvicina alle sue vittime inconsapevoli. Ricordo ancora una notte di un febbraio di forse trent’anni fa. Mia figlia, la seconda, allora aveva due anni e si era presa l’influenza. Aveva la febbre altissima. Io e mia moglie la svegliavamo per farle gli impacchi con l’alcool, per abbassarle la temperatura, che non voleva saperne di scendere con le medicine. Alle quattro di mattina mi prese il desiderio di affacciarmi al balcone. Orione, che avevo visto sette o otto ore prima, era ormai sparito sotto l’orizzonte e ad est si alzava magnifico lo Scorpione.

Spostandomi verso il parcheggio ho già lasciato alla mia destra e alle mie spalle la salita, quella che prima ho indicato come discesa. Non posso più scappare ormai, neanche se lo volessi. Fremiti intensi mi attraversano i muscoli dell’addome. Ho paura.

Quando lo Scorpione punge Orione, l’eroe si sveglia di soprassalto e grida. Dolore e rabbia si mescolano. Il veleno agisce rapidamente e in un attimo il gigante è immobilizzato. Sirio si drizza sulle zampe e attacca, ma la coda del mostro è troppo veloce. L’aculeo letale colpisce di nuovo. In pochi istanti, per il gigante e il suo fedele compagno sopraggiunge la morte.

La sagoma scura ora è più vicina: un uomo dall’età indistinta, tra i venti e i trenta anni. Faccia da lupo, predatore rabbioso. Risale a quarant’anni fa il mio ultimo incontro di lotta greco-romana. Le probabilità a mio favore sono scarsissime.

Nella capanna è calato di nuovo il silenzio. Lo Scorpione, adempiuto il suo compito di morte, si allontana dai due corpi senza vita. L’oscurità che lo ha generato torna ad accoglierlo.

Il tizio mi sfreccia accanto. Ha valutato che non sono un pericolo per lui e per la sua impresa. C’è disprezzo nel suo sguardo. A quel punto, con la stessa naturalezza con la quale ogni tanto

Page 16: #numerouno - Una voce di notte

12

passo la mano tra i capelli per ravviarli, sposto di venti centimetri il piede destro e gli faccio uno sgambetto. Lo stronzodimmerda cade prima su un ginocchio, poi mette avanti le braccia per non rompersi la faccia. La borsa della ragazza gli sfugge di mano. Fa per rialzarsi. Mi sta dando le spalle. Come se stessi calciando la palla per mio nipote, gli sferro una pedata appena sotto la natica. Quello ricade, ma subito si mette in piedi. Forse ho compiuto il mio ultimo errore.

Zeus, adirato per l’accaduto e mosso a pietà per l’eroe, colloca Orione e il suo cane tra le stelle del cielo. Anche lo Scorpione, perché i mortali ricordino quanto è pericoloso incrociare il cammino degli Dei, viene posto tra le costellazioni, ma il padre degli immortali decide che vittime e carnefice siano agli antipodi, in modo che il mostro non possa più nuocere all’eroe e al suo cane.

Il balordo, dopo un attimo di esitazione, corre via su per la salita, senza proferire parola. Mi è andata bene. Raccolgo la borsa della ragazza, che tra pochi secondi arriverà trafelata nella viuzza e mi ringrazierà. Anche io ho voglia di ringraziare qualcuno, ma non so a chi indirizzare il senso di gratitudine che sto provando per il fatto di essere ancora vivo e di poter tornare da mia moglie, mettere le pantofole e infilarmi a letto. Guardo ancora in alto. Un vento leggero spinge dolcemente le nuvole e tra quelle, in un buco di cielo sgombro, vedo Giove occhieggiare benevolo.

Page 17: #numerouno - Una voce di notte

13

L’urlo che svegliò Alfredo nella notte era stato talmente acuto da aver fatto abbaiare il cane dei vicini. Lo avevano sentito anche gli altri abitanti del suo stesso stabile. Era uno di quei rumori capaci di minare la sanità mentale di un uomo e lo stesso Alfredo dubitò per pochi secondi che potesse essere stato veramente prodotto dalla sua gola. Forse aveva sognato o forse era semplicemente stanco per il giorno prima, ma ormai non aveva più bisogno di dormire. Si vestì e preparò del tè verde aspettando che il cellulare squillasse per il primo lavoro della giornata.Erano le tre e il cielo era ancora vuoto e buio quando, con una telefonata, la sua agente lo chiamò per indicargli le coordinate della prossima cliente. Stranamente adorava la sua voce. Se non l’avesse mai vista avrebbe dubitato della sua natura umana perché riusciva ad essere sempre distaccata e fredda come l’assistente vocale dei cellulari, ma ascoltarla riusciva a rilassarlo a tal punto da non desiderare un tono di voce diverso. Anche questa volta aveva solo riferito l’indirizzo e la parola chiave, senza aggiungere niente, con un tono piatto, quasi robotico. Si era sentito dire spesso che anche le stranezze più gravi con la ripetizione sistematica diventano prassi, ma con la morte non è così: lei continua a bussare alla porta e noi apriamo.Mentre camminava nei vagoni della metro, la voce dell’altoparlante ripeteva incessantemente le misure di sicurezza da tenere nei luoghi pubblici, mentre una scritta luminosa scorrevole mostrava il numero totale delle vittime che l’epidemia aveva fino ad ora totalizzato nel mondo: milioni, decine di milioni. Nessuno sembrava farci più caso. Sceso dal vagone percorse il viale, stordito dall’odore del fango autunnale e dal freddo della notte. Svoltò l’angolo e si trovò davanti il bar corrispondente all’indirizzo assegnatogli. Infilò la mano nella tasca del cappotto e sfilò da un astuccio di pelle rossa una fiala trasparente,

Bella di notteCATERINA TUA

senza etichetta, e quella che poteva sembrare una penna: i suoi colleghi la chiamavano “Beatrice”. Dicevano che fosse stata creata per gli agenti segreti negli anni della guerra fredda e che poi fosse stata dimenticata. Alla vista sembrava una comune penna a sfera d’argento ma al posto della punta aveva un sottile ago chirurgico invisibile ad occhio nudo. All’altra estremità era posto un piccolo pulsante in vetro rosso che si illuminava se premuto. Preparò il dispositivo e lo mise in tasca, ormai erano due anni che faceva parte dei Traghettatori e questa procedura riusciva a farla ad occhi chiusi. Solitamente doveva nascondersi, ma nel cuore della notte in una strada disabitata non doveva preoccuparsi di essere visto. Come gli avevano insegnato, iniziò a rallentare il battito cardiaco. Poi cercò il buio nella sua mente concentrandosi solo sull’insegna del bar. Eliminò uno ad uno i rumori che lo circondavano, prima il suono lontano del traffico, poi quello del vento. Adesso sentiva solo il suo respiro, era calmo. Fece partire l’orologio ed entrò nel bar. Come da addestramento in testa aveva solo la parola chiave datagli dall’agente: Gelsomino notturno.Nei due anni precedenti aveva imparato a non farsi influenzare da niente, ad essere distaccato, perché ogni essere umano può covare dentro di sé un desiderio di morte, se spinto al limite. Ma quella notte non ci riuscì.Mentre cercava qualsiasi rimando al fiore del gelsomino – un’immagine, un odore, un oggetto – la sua attenzione fu attratta dai capelli rossi di una ragazza al bancone e dal fermaglio che li raccoglieva. Era un’antica spilla di legno con inciso un grande fiore bianco: un fiore di gelsomino. Aveva individuato il cliente. Ora non restava che finire la missione. Decise di alzarsi per raggiungerla, ma nell’attimo in cui distolse lo sguardo dai capelli della ragazza vide lo stesso fermaglio indossato da un’altra donna seduta ad un tavolo poco lontano da lui,

Page 18: #numerouno - Una voce di notte

14

intenta a parlare con un uomo. Per un attimo credette di essersi sbagliato. Sentiva che stava per perdere il controllo. Cosa fare? La regola dei Traghettatori gli imponeva di rinunciare, ma non poteva lasciare il cliente insoddisfatto, non poteva nuovamente abbandonare un uomo nel dubbio atroce: continuare semplicemente a vivere e vivere davvero. Non dopo i numerosi morti che l’epidemia aveva fatto.Meditò se avvicinarsi alla ragazza sola al bancone e parlarle pur sapendo che avrebbe infranto una regola ma, poco prima che potesse decidere, la ragazza lo raggiunse al tavolo e si sedette. Rimase in silenzio mentre sorseggiava il caffè senza mai guardarlo negli occhi. Sembrava che stesse aspettando il momento giusto per iniziare una conversazione. Quando arrivò all’ultimo sorso poggiò la tazzina sul tavolo, alzò lo sguardo e sorrise.– Starà pensando che sia molto invadente, immagino! – asserì la ragazza mentre Alfredo impietrito la guardava – Da quando è entrato e si è seduto a questo tavolo non riesco a levarmi dalla testa una domanda: Lei è un Traghettatore, vero? – chiese.Alfredo tacque.– L’ho capito dal cappello, è troppo datato. Lei deve essere un uomo che vive di passato o sbaglio? – continuò – Sono brava a capire queste cose. È un talento familiare, mio nonno la chiamava “la vista”. – disse mimando le virgolette con le dita – Lei porta un cappello usato, consunto oserei dire, che non ha più la sua forma originale. Eppure lo indossa lo stesso, quindi ha un forte valore affettivo. Il modello è vecchio perciò non riesce a staccarsi da qualcosa che le è accaduto o forse da qualcuno! – il suo sguardo si fece improvvisamente serio mentre Alfredo rimaneva ancora in silenzio – Comunque mi chiamo Zelda. Vuole tenermi compagnia mentre celebro con un altro caffè scadente l’anniversario della morte di mia madre?Una lampadina si accese nella mente di Alfredo: era lei. Non aveva più dubbi, lo aveva cercato e stava ricordando un caro scomparso da poco. – Non sapevo che i Traghettatori fossero privi della parola. Non che questa serva per il vostro lavoro, ma almeno potrebbe dirmi come si chiama? – arricciò gli angoli della bocca e lo fissò – Due anni fa mia madre è stata l’unica del mio

quartiere a non essere stata uccisa dall’epidemia. I dottori quel giorno erano talmente presi dall’emergenza che non mi dissero neanche la causa. Si limitarono a costatare che non era stato il virus e lasciarono in corsia il suo corpo appoggiato a una sedia! – la sua voce rimaneva ferma e decisa – Pensi quanto conta la morte di una persona quando le vittime sono centinaia al giorno! – continuò mentre le dita giocavano con dei granelli di zucchero – E ora sono qui che confido tutto questo ad un uomo col cappello stropicciato di cui non conosco neanche il nome.– Alfredo!Quelle lettere uscirono dalla sua bocca e squarciarono il silenzio di quel triste bar ancora aperto a notte fonda. Non sapeva perché le aveva pronunciate, aveva vomitato il suo nome come se fosse sempre stato lì tra i suoi denti, incastrato tra lingua e palato, inerte nella paura di essere scoperto.Zelda era riuscita ad identificarlo solo dal

Page 19: #numerouno - Una voce di notte

15

cappello e adesso lui doveva ucciderla, perché era lei il cliente e in questo consisteva il suo lavoro. Alfredo e i suoi colleghi portavano sollievo a chi non sopportava più la realtà. Alcuni li chiamavano falene, ma loro preferivano Traghettatori, rendeva più dolce il compito. Questa volta però non c’era nessun lato positivo: come poter uccidere una donna dopo che lui stesso da due anni si tratteneva dal vivere davvero? Dopo la dipartita di suo fratello e sua madre a causa della grande epidemia, la sua vita aveva cambiato ritmo, si era unito ai Traghettatori ed era stato due mesi in addestramento. Erano stati mesi durissimi, ma aveva potuto scordare il lutto e concentrarsi su un solo obiettivo e una volta finito l’allenamento aveva iniziato con i clienti veri. Nonostante questo però non voleva ricordare di aver avuto degli amici, non voleva ricordare niente di quello che era accaduto prima di quelle perdite. Ma era bastata una parola, il suo nome a fargli aprire gli occhi improvvisamente. Non appena aveva messo

piede nel campo di addestramento la sua identità era diventata top secret, non esisteva più Alfredo Ermini, nessuno lo aveva più chiamato così per due anni, per tutti i colleghi era un numero. Non poteva avere rapporti con altri umani. Per questo, quando sentì il suo nome risuonargli nelle orecchie, ebbe come la sensazione di essere preda della risacca del mare. Avrebbe voluto conoscerla e poterle spiegare cosa erano davvero i Traghettatori. Avrebbe voluto spingerla fuori da quel bar e farle assaporare il freddo della notte. Fu improvvisamente preso dalla voglia di abbandonare il suo compito e le sue regole e fuggire con quella fanciulla che a mala pena conosceva. Non era un colpo di fulmine, Zelda non era bella, ma era riuscita a percepirlo, nel profondo. Lei aveva capito che, pur avendo cercato di dimenticare il passato con tutte le sue forze, quel dolore era rimasto con lui. Ma quando i suoi occhi si posarono sul fermaglio che le legava i capelli, quei minuti di alba improvvisa scomparvero, risucchiati dal senso del dovere. Fu un attimo: da sotto il tavolo spinse il bottone rosso della penna e fece penetrare l’ago nel ginocchio di Zelda. Silenzio. Si alzò e fece per andarsene.– Sono contenta di averla incontrata Alfredo e di aver parlato con lei. Sta per nevicare e non mi piace la neve e tanto meno vederla cadere da sola – gli disse mentre guardava fisso fuori della finestra. Alfredo la fissò per pochi secondi poi uscì dal bar e, stanco, si incamminò verso la metro.Avrebbero trovato Zelda morta nel sonno il mattino seguente. Così agiva il composto che usavano, si attivava solo quando il corpo era a riposo e né lei né la squadra di controllo malattie avrebbe riscontrato traumi, solo un semplice arresto cardiaco.Se non avesse avuto quel fiore tra i capelli avrebbe potuto essere la finestra di una nuova vita, il primo giorno di un’esistenza diversa, la voce che rende ogni notte sicura. E invece dopo poche ore cominciò a nevicare e ad Alfredo non restò che la solita fiala di vetro vuota ed un nome nel cuore: Zelda.Con lo spuntare dell’alba il bar all’angolo si riempì e ad uno dei tavoli la donna con il fermaglio uguale a Zelda e l’uomo che era con lei esaminavano il conto:– Caro che ore sono? – chiese lei.– Quasi le sei! Era tanto tempo che non facevamo

Page 20: #numerouno - Una voce di notte

16

colazione insieme prima di andare a lavoro, mi hai davvero sorpreso oggi! – disse l’uomo.– Volevo che fosse un giorno speciale! – rispose lei sorridendo appena.– Lo è tesoro. Sbaglio o hai anche un odore diverso?– Si chiama “Bella di notte”, è un profumo che ho comprato da poco.– Somiglia all’odore del rampicante che abbiamo in giardino – le disse mentre si accingeva a pagare.– Esattamente caro! È proprio quello! Gelsomino notturno.

Page 21: #numerouno - Una voce di notte

17

Notte di pioggia acatinelle

GIUSEPPE PAOLONE

«Con mano tremante l’uomo collocò l’ultimo tassello. L’immagine che apparve lo paralizzò sulla sedia. Un rumore di vetri rotti lo costrinse a voltarsi, vide una sagoma scura alle spalle che gli si avventava contro...» Il professor Mariani percepì un senso d’angoscia. Lesse con la fronte corrugata le ultime righe del libro. Poi, lo chiuse con un movimento deciso della mano, provocando un tonfo che lo fece trasalire.Non riusciva a togliersi dalla testa il protagonista del racconto appena letto. Costruiva un puzzle che riproduceva un uomo chino su un tavolo, in un salotto del tutto simile a quello dove era seduto. L’ultima tessera ritraeva una figura alle sue spalle. Scavalcava l’unica finestra nella stanza con un coltello in mano. La scena faceva intuire la fine che avrebbe atteso lo sventurato personaggio.Dopo essersi alzato dalla poltrona, il professore scrutò più volte la finestra dietro di sé. Assicuratosi che non ci fosse nessun malintenzionato, si sforzò di soffocare un sorriso amaro che gli contorceva la bocca.Era una persona che non si faceva facilmente suggestionare, anche quando leggeva storie dell’orrore. Insegnante di matematica in pensione, Mariani non aveva sprecato più di un minuto, in tutta la sua vita, a interrogarsi su storie di fantasmi e le sciocchezze sugli ufo ed entità extraterrestri.Il soprannaturale esisteva perché le menti umane non erano in grado di dargli una spiegazione logica. Lo aveva ripetuto per tutta la sua carriera. Quella notte, però, un pensiero lo preoccupava. Si tolse gli occhiali, carezzandosi il volto ben rasato, e si diresse verso il piccolo balcone che

dava sul retro della casa a due piani. Da quel lato, si respirava il profumo della natura. Alberi secolari e piante ornamentali rendevano la vista piacevole e riportavano la serenità.Il professor Mariani, rincuorato, indirizzò il suo sguardo analitico sull’oggetto che più lo aveva incuriosito quando era ancora uno studente. Aveva scoperto, così, che il mondo dei numeri e della scienza lo avrebbe ospitato per il resto della vita.“Capanna meteorologica”, così la chiamava lui. Una forma artigianale d’igrometro.Era la più emblematica dimostrazione di quanto il mondo intellegibile fosse pervaso da teorie e leggi scientifiche inconfutabili. Nemiche dichiarate della suggestione e di tutto ciò che non era indagabile dall’occhio oggettivo delle scienze esatte.Non lo avrebbe condizionato di certo un racconto ben scritto e ingegnosamente architettato. Il suo autore doveva essersi ispirato a qualche leggenda metropolitana. Mariani sapeva bene che il timore verso l’ignoto portava l’uomo ad affidarsi alla scienza e quando questa non era in grado di spiegare il mondo reale, subentrava la religione. Se anche quest’ultima falliva, l’insicurezza s’impadroniva della parte razionale dell’uomo, incutendo terrore come pipistrelli in una caverna.L’immagine di quei vampiri, sospesi a testa in giù, fece rabbrividire l’anziano insegnante. Fu costretto a rincasare. Non era mai riuscito a sopportare la vista di quegli esseri dalle orecchie aliene e il muso rincagnato. Quando non si sentiva a suo agio, si dirigeva alla vetrinetta degli amari per trovare un po’ di coraggio in forma liquida. Il tintinnare della

Page 22: #numerouno - Una voce di notte

18

bottiglia e bicchiere scatenava sempre la reazione di sua moglie Egidia. – Hai intenzione di prosciugare la nostra riserva di alcolici? – gli aveva urlato dalla cucina, mentre strofinava con vigore i piatti nel lavello.Alle sue lamentele Mariani rispondeva sempre con un numero. Erano i minuti di tregua in cui non voleva essere disturbato. Dedicati a esorcizzare i propri timori. Erano attimi sacri, inviolabili.Le paure per lui dovevano essere tangibili. Non si poteva catalogarle tra gli eventi ultraterreni. Concrete o astratte che fossero, dovevano essere reali, non c’erano trattati di logica che potevano dimostrare il contrario. I timori esistevano perché l’uomo li percepiva. Ci sudava sopra quando li sentiva arrivare, e il sudore, si sa, non mente.– E se qualcuno dovesse avere paura dei fantasmi? – gli aveva chiesto un alunno più sveglio degli altri.La sua risposta era stata lapidaria: – Il giorno in cui riusciranno a catturarne uno, sarà la scienza a decretare se si potrà da temerli o no.Il professor Mariani aveva chiesto trenta minuti di “isolamento” per quella notte. I preziosi secondi passati di solito sull’amaca del terrazzo, sopra l’ingresso della villetta, non erano sempre piacevoli.Non lo infastidiva la presenza di cipressi e nemmeno il bagliore dei lumicini che tremavano nell’aria notturna. L’inquietudine si materializzava per colpa di un coro di voci che gli toglieva il respiro. Era solito intonare una filastrocca che risvegliava un ricordo spaventoso nel professore. Credeva di averlo sepolto da tempo in un punto abbandonato dell’inconscio, incapace di reclamare il proprio spazio.Invece, udire di nuovo la cantilena terrificante, lo aveva fatto quasi ribaltare dall’amaca e, per puro riflesso, era riuscito a non bruciarsi con il sigaro che stava fumando. Gli capitava di sentirla da alcuni mesi nelle notti di plenilunio, quando, con l’aiuto della luna splendente, riusciva a distinguere alcune figure umane che s’introducevano nel cimitero.In quel luogo era stato costretto a dimostrare il suo coraggio. Lì aveva scoperto cosa fosse la paura. La filastrocca richiamava lugubri scenari di tempi passati.Le voci sarebbero tornate anche quella notte, portando il loro sospiro fatale:

Era una notte di pioggia a catinelle,andavo in giro senza le bretelle...

Nascondersi sotto il letto alla sua età non era più un’opzione da considerare. Aveva passato mesi a cercare una soluzione per affrontare i suoi timori, definitivamente.Dopo ore di riflessione, Mariani aveva trovato la variabile che gli avrebbe consentito di risolvere la questione, come fosse stata un problema di matematica elementare. Doveva solo attendere un nuovo plenilunio.La notte tanto attesa era arrivata, accompagnata da una luna nitida. Il professore osservava le nuvole pronte a coprire il cielo illuminato, sospinte da un vento furioso. Le sottili ombre, cresciute ai piedi dei cipressi, scomparvero rapidamente. Il camposanto restò al buio, illuminato appena da timide fiammelle che sembravano tremare di paura.La macabra filastrocca fu intonata dopo l’ultimo rintocco delle campane, che segnava mezzanotte. Il vecchio insegnante la sentì, respingendo l’istinto di rintanarsi in camera. Era scosso da una serie di brividi che lo fecero cadere dal suo giaciglio.

A un certo punto vidi un cimitero:com’era buio, com’era nero.Girovagando tomba dopo tomba,vidi una bionda, mamma mia che bionda,era il fantasma della zia Gioconda,che ripuliva la sua tomba nera e fonda.I vermicelli freschi di giornata,se li mangiava come insalata,e il gatto nero re del cimitero,era in agguato come fosse un gufo nero.

La nenia aveva sempre scatenato terribili incubi. Lo costringeva a veglie notturne, popolate da personaggi raccapriccianti.Con gli occhi lucidi il professore si rialzò ed entrò in casa. Alle sue spalle un sigaro abbandonato emetteva lievi segnali di fumo come se volesse presagire una tragedia imminente. Una pioggia grossolana lo spense e mise fine alla sua breve esistenza.

La signora Mariani saltò sulla sedia nell’udire grida spaventose provenire dal lato della casa che dava sul cimitero. Solo allora si accorse

Page 23: #numerouno - Una voce di notte

19

dell’assenza di suo marito.C’era qualcos’altro che la incuriosiva. Si era trovata gli album delle foto di famiglia in disordine. Con un gesto meccanico della mano, si sistemò gli occhiali da lettura sul naso. Una foto in particolare mancava all’appello: ritraeva il professore in primo piano.Il tonfo della porta d’ingresso la fece sobbalzare di nuovo. Rimase sbalordita nel vedere suo marito, completamente bagnato, che cercava di liberarsi dall’impermeabile sporco di fango. La gola le si serrò per lo stupore quando sentì la sua voce.– Scusa, cara. Sono andato a salutare alcuni ragazzi che cantavano davanti al mio sepolcro.Il professore tornò in veranda con un ghigno soddisfatto, senza aspettare la replica di sua moglie. Vestire i panni del fantasma per una notte era stato divertente.Nessuno avrebbe più disturbato i suoi momenti di meditazione serale. L’ultima strofa della filastrocca gli uscì dalla bocca lentamente, come fosse un addio definitivo alle sue paure di adolescente:

Questa canzone non ha significato,è come fare il vino con il bucato,è come dire buona notte al muro,e lavarsi i denti con il cianuro!

L’idea di costruire una finta lapide, nel punto più esposto del cimitero, gli era sembrata una soluzione azzardata. Con l’aiuto di una sua vecchia foto e un po’ d’improvvisazione, era riuscito a far tacere le voci della notte che lo terrorizzavano. – Le paure si possono combattere anche con il sopraggiungere delle tenebre – recitò il professore affacciandosi sul terrazzo.Prima di recarsi a letto, si avvicinò al tavolo del salotto per risistemare la foto nell’album. Un rumore violento alle sue spalle lo fece quasi svenire. Senza motivo, iniziò a respirare con irregolarità. Si girò con indolenza verso la finestra, sperando di non trovare nessun delinquente pronto ad aggredirlo. Scoprì, invece nella penombra, la sagoma di uno spettro vestito di bianco. La sua voce femminile lo fece quasi imprecare.– Le fobie più grandi nascono con il favore dell’oscurità.

Era una notte di pioggia a catinelle e il professor Mariani aveva scoperto che combattere le paure ricorrendo ai rudimenti della scienza non era la strada più certa per sconfiggerle.

Page 24: #numerouno - Una voce di notte

20

Poco da direFABIO TAFFURELLI

Sono solo un uomo davanti ad una finestra aperta, che fissa un camioncino della nettezza urbana scaricare nella propria pancia i resti della mie cene e di quelle dei miei vicini: gente che saluta con voce pacata, qualche frase la mattina presto in ascensore, un sospiro di circostanza se ci si incontra di sera al rientro dopo le nostre giornate lavorative e ci diciamo che anche per oggi è finita, che fatica, quanto andremo ancora avanti, la crisi, e quando partiremo per un’isola tropicale. Sono solo un uomo in attesa; che il ciclo di risciacquo sia finito, così che possa trasformarmi in un uomo sul proprio balcone, intento a stendere le proprie camicie nel lucido silenzio notturno. Sento il sibilo delle auto come moscerini di metallo, molecole della materia notturna: sfiorano la lunga fila di specchietti delle auto parcheggiate, poi si immettono nella piazza. In mezzo, riparati da platani e querce, un gruppo di ragazzi conversa ad alta voce, fa rotolare bottiglie di birra sul selciato. Qualche ragazza grida, qualche ragazzo ride. Ho dimenticato la suoneria del cellulare spenta. Ogni tanto sento la vibrazione delle email in arrivo. In tutta l’Asia, gente con camicie fresche di lavanderia sta scrivendo agli insonni europei. Nel giro di dieci ore i nostri ruoli si invertiranno. Sarò solo un uomo davanti allo schermo di un computer portatile appoggiato sulle ginocchia, un orecchio teso all’altoparlante che annuncerà l’imbarco del mio volo per Madrid, e intanto scriverò email a un popolo intero di insonni, uomini dagli occhi a mandorla e un centinaio di camicie nell’armadio, uomini davanti a finestre aperte che guardano il traffico di Tokyo, di Shanghai, di Bangkok, scorrere sotto i loro occhi come fiumi cangianti di fluidi meccanici.Controllo la mia auto, sporgendomi leggermente dalla finestra. È la penultima della fila di sinistra. Un ragazzo in jeans e una felpa nera sosta nei pressi della macchina dietro la mia. Si guarda

intorno, come un animale durante una battuta di caccia. Sfila dalla felpa un pezzo di metallo, simile a un ferro da maglia. Cerca di infilarlo tra il finestrino e la portiera del guidatore, all’altezza della serratura. Fa tutto questo con naturalezza, senza un movimento brusco. Dietro di me, il suono della centrifuga si attenua. Il motore rallenta i giri, sogno di sentire la lavatrice che scali le marce. Il ragazzo apre la portiera, si tuffa dentro la macchina lasciando fuori solo un piede a fare da palo. Rimane in apnea una ventina di secondi, tiene tra le mani qualcosa. Si rialza con movimenti pigri. Chiude la portiera, si incammina in direzione del mio palazzo. Alza lo sguardo verso i balconi dei primi piani: difficile dire se mi abbia notato, anche se non faccio nulla per nascondermi. Scompare all’angolo della strada, cammina senza fretta. Il cellulare vibra

Page 25: #numerouno - Una voce di notte

21

nuovamente. Lo prendo in mano, compongo tre cifre. Mi fermo un attimo, poi lo rimetto sul tavolo. Mi affaccio all’oblò della lavatrice. Tutto rallenta, gradualmente, e sto lì a fissare le camicie rotolarsi addosso, per un tempo che mi pare lunghissimo. Inizio a tirarle fuori, una ad una. Sono fresche, emanano un aroma sanitario e leggermente alcolico, di immacolato. Dopo averle stese tutte, incastro le mollette avanzate nell’ultima fila dello stendino. A testa in su, sulla stessa fila, nell’angolo sinistro. Non ne lascio mai nessuna sparsa sullo stendino, le raggruppo vicine. Non so perché lo faccio, ma lo faccio sempre. Mi dà sicurezza sapere che nella prima fila ci siano tutte le mollette avanzate, e siano lì pronte all’uso. Sul marciapiede sotto il mio balcone, il ritmo costante di un paio di tacchi riverbera fino al mio piano, prosegue oltre strisciando sul calcestruzzo della facciata creando una sottile eco cavernosa, un suono rotondo che dà idea di una certezza assoluta, intransigente, femminina. La voce della donna accompagna i propri passi con pause cadenzate. Parla lentamente, come se non avesse fretta di dire ciò che ha da dire, anche se dalle parole che riesco a udire posso intuire che il suo tono calmo nasconda della rabbia che non sa come esplodere. Tace per pochi istanti, forse

intenta a seguire un suo filo logico o forse perché dall’altra parte qualcuno non sa cosa dire e sta appeso alla conversazione, tergiversando. I silenzi telefonici. Li ho sempre odiati, come ho sempre odiato i telefoni. Quella cecità comunicativa che ti rende asettico, contro la quale l’unica arma è alzare il volume della voce, parlare rapido scandendo bene ogni sillaba, ridurre drasticamente le variazioni di tono. Quando parlo al telefono, con chiunque, immagino sempre il mio interlocutore intento a fare facce idiote e insensate per commentare le mie parole rese fragili e secche, come foglie autunnali, dalla pessima qualità audio. Mi immagino mia madre addormentarsi e parlare nel sonno, i miei amici che si mettono a tirare pugni all’aria intanto che propongo loro di uscire a bere qualcosa insieme. E immagino lei. Gli occhi che scrutano il cielo fuori dalla sua finestra, lo sguardo liquido e distaccato, rispondere a monosillabi ad ogni mia domanda. E immagino qualcuno nella stanza, accanto a lei, che le stringe la mano, le accarezza il collo. La immagino così, vestita in modo casual, struccata, algida nel portamento. E immagino sempre che ci sia un lui, senza volto, ma con l’inconscia certezza che abbia i lineamenti da delinquente. Nel buio telefonico lei diventa una statua di ghiaccio e lui, ammesso che ci sia, un potenziale serial killer senza faccia. Riprendo il telefono. Compongo sei cifre. Resto immobile qualche secondo, osservo il buio della sala senza avere una chiara percezione delle cose intorno. Sul divano è rimasto aperto il giornale di oggi. Accanto al divano, per terra, scarpe e pantaloni. Il tipo di disordine che mi infonde un senso di pietosa tristezza, quello che si trova nelle case di uomini che da anni non sono più abituati a vivere da soli. Così si inizia a lasciare le cose in giro, senza badarci, un po’ per distrazione, un po’ per poca abitudine. Poi lo si fa per comodità: si crea confusione per avere una scusa per farsi pena e al mondo intero di riflesso. I vestiti sparsi, cibo avanzato dove non dovrebbe essere. Dopo la comodità, arriva la speranza, l’illusione di rendere le nostre case un posto vivo, che si muova e respiri, che sappia di noi. I primi tempi mi fermavo anche a parlare sul pianerottolo con i vicini. Mi piaceva l’idea di sostare in quei pochi metri quadri, l’intimità grossolana del buon vicinato, le ultime vacanze, il traffico e “Signora dove ha comprato quei bei pomodori?”. Mi

Page 26: #numerouno - Una voce di notte

22

piaceva il fatto che le nostre voci si espandessero in verticale, che su altri pianerottoli altra gente potesse sentire le nostre frasi. E adoravo il fatto che dietro le porte delle case ci fosse qualcuno ad aspettare il mio interlocutore a cui poi sarebbe stato chiesto chi fossi, da dove arrivassi, cosa ci facessi lì. Poi ho smesso; lentamente mi sono ritirato come una marea, ho iniziato a rispondere a monosillabi. Non ne sentivo più il bisogno. Tutto stava iniziando a diventare stucchevole. Le chiacchiere da pianerottolo erano diventate un compito da assolvere, come se fossi costretto a far vedere chi fossi a gente che vedevo per venti secondi al giorno, in un ascensore stretto, con la moquette umida.Mi rimetto a letto, la luce sul comodino accesa, le lenzuola stropicciate ai piedi. Ricompongo il numero, per intero, fino all’ultima cifra. Sta sicuramente dormendo, ma so che lascia sempre il cellulare silenzioso. Uno squillo. Due. Due e mezzo.– Ehm...?Respiro lentamente, un paio di boccate d’aria che si alternano alle sue.– Che c’è? Che ore sono?– Temo sia tardi. Scusa.La sento muoversi mentre mugugna il suo torpore notturno.– Sono le due e mezza.– Non pensavo che ti avrei svegliata. So che lasci sempre il telefono silenzioso di notte.– Non più, Alberto.Com’è strano sentirla chiamarmi per nome. Lo faceva solo quando era stanca o sovrappensiero.– No? – mi costrinsi a chiedere – Ok!– Non mi va. Non per ora.Sorrido, sbuffando. Adesso mi sento da schifo per averla svegliata, anche se non volevo. Cosa volevo, di preciso, non so neanche dirlo; forse che vedesse la mia chiamata l’indomani mattina, o sapere se anche lei soffrisse d’insonnia. Sento in gola il sapore della pena che mi sembra di farle, il suo non volermi ancora chiudere fuori dal proprio mondo, dal nostro, da quello di nostra figlia.– Come sta Agata?– Dorme.– Già – sussurro imbarazzato.– Sta bene. Ha preso otto al compito di matematica oggi.

– Davvero? Sta diventando secchiona come te.Sorride, intanto che sbadiglia. Cerco di non farmi contagiare, così trattengo lo sbadiglio e le mandibole vibrano e scricchiolano. Ha sempre odiato sentirmi sbadigliare al telefono.– Che ci fai ancora sveglio? Fammi indovinare: lavori?– Magari. Ho steso ora le camicie sul balcone.– Oh santo cielo!– Cosa?– Ti avessi visto farlo una sola volta in dieci anni – esclama con tono canzonatorio. Non lo dice per provocarmi, ma solo per prendermi in giro.– Un tizio ha scassinato una macchina poco fa – le dico, anche se è stupido raccontarle una cosa del genere.– Non mi stupisce visto dove sei andato a cacciarti!– Era la macchina vicino la mia.– Sento il terrore nella tua voce – ribatte strascicando le sillabe. Sono certo abbia gli occhi chiusi. Non sono invece sicuro che abbia acceso l’abat-jour.– Hai acceso la luce? Intendo adesso, quando hai risposto – le chiedo.– Stai facendo il gioco “Quante cose conosco della mia ex moglie”?– L’hai lasciata spenta – affermo, sicuro di me.– Quando vieni a trovare tua figlia? – chiede distratta.– Presto.– Per la laurea? Ce la fai?– Non essere sciocca. Verrò nel week-end – rispondo, fissando il quadro di fronte al letto. Me lo ero portato via il giorno del trasloco, sentendomi in colpa. Ce lo aveva regalato una sua cara amica, ma a differenza mia, a lei non era mai piaciuto.– Adesso cosa fai?– Provo a dormire. Tu?– Metterò il telefono in modalità silenziosa – dice, con una sottile vena divertita nella voce.Sorrido anche io.Un’ambulanza sfreccia nella via stretta. Appoggio il cellulare sul comodino. Senza motivo, mi viene in mente che ho dimenticato di aggiungere l’ammorbidente prima di accendere la lavatrice. Se fossi stato un uomo asiatico divorziato, questo non sarebbe mai successo.

Page 27: #numerouno - Una voce di notte

23

– Sono scomparso.Cos’era stato? Le esse marcate gli dettero l’impressione che si fosse trattato di un innocuo sibilo del vento, o forse di un rumore soltanto immaginato, ma un attimo dopo dovette ricredersi, quando si vide riflesso nel vetro della finestra con la cornetta del telefono all’orecchio.– Sono scomparso, – ripeté la voce con tono allarmato.Adesso non era più solo un sibilo: gli giunse come una stridente vibrazione dallo strascico prolungato, qualcosa che si è percepito e che eppure i sensi stentano ad accettare, per dissonanza con ciò a cui si è abituati. Balbettò una risposta, per niente sicuro di aver capito bene: – Pronto? Chi... chi è scomparso?Si domandò se avesse giocato a sfavore un eccesso di distrazione o forse soltanto un po’ di legittimo sonno.– Io sono scomparso! – disse la voce.Ma sì, aveva capito bene allora. A quella linea telefonica chiamavano di solito persone che ne cercavano altre, e gli scomparsi erano fuggiaschi, rapiti, poveracci, reietti, debitori, smemorati, adolescenti ribelli o adulti in preda alla disperazione, morti o morti ammazzati. Il vigile urbano che era di turno quella notte veniva da un pomeriggio di riposo disturbato e, soprattutto, disturbanti litigi con la moglie. Era uscito di casa consapevole di non aver risolto le cose, che tanto poi mica le risolvevano mai le cose quando si mettevano a discutere così. Anzi, il lavoro fungeva da puntuale pretesto per scappare da quella trincea in cui lui si rifugiava ogni volta, una fossa nel divano che aveva ormai assunto la forma adiposa del suo culo.

Ipotesi sulla scomparsa di un corpo

MIRKO TONDI

– Mi sta dicendo che si è allontanato da casa per qualche ragione ed è stato dichiarato scomparso?– No, macché.– È fuggito di proposito allora?– Magari fosse così.– E allora com’è, me lo dica lei.– Gliel’ho detto... sono scomparso. Quando sono andato a letto c’ero e adesso non ci sono più. Mi sono alzato per andare in bagno, sa io mi alzo sempre la notte per andare in bagno, ho fatto pipì, mi sono lavato le mani, mi sono sciacquato un po’ il viso, perché insomma, fa caldo stanotte, e poi ecco, mi sono guardato allo specchio e, zac!, sparito.– Come sarebbe a dire che è sparito? È uno scherzo vero?– Secondo lei ho la voce di uno che scherza?– Uno che scherza sa fare tutte le voci.– Per carità, di scherzi telefonici ne ho fatti anch’io, ma è roba di quand’ero ragazzino. E devo dire che i vigili non mi sono mai stati simpatici, d’accordo... ma qui la situazione è grave, non potrei scherzare su una cosa del genere, glielo assicuro.– Grave in che senso?– Nel senso che sono scomparso.– Ma via, nessuno scompare così, all’improvviso.– Io sì.– Ho capito, si tratta di una di quelle robe tipo esistenzialismo... guardi che io non ho nessuna voglia di filosofare alle quattro del mattino.– Nemmeno io, se è per questo. A me interessa solo ritrovarmi.– Ecco, sicché non è altro che psicologia da quattro soldi: devo ritrovare me stesso, non so più chi sono, eccetera, eccetera.– Veramente no.

Page 28: #numerouno - Una voce di notte

24

Page 29: #numerouno - Una voce di notte

25

– Senta, io sto per perdere la pazienza: o mi dice cosa le è successo di preciso oppure chiudiamo qui la conversazione e diciamo che è stato solo un falso allarme.– Io non so come spiegarglielo meglio di così: se mi guardo allo specchio, non ci sono più. Magro lo sono sempre stato ma mica al punto di sparire del tutto!– Cioè... non c’è rimasto niente?– Niente di niente.– E, vediamo un po’... come sta messo con le diottrie?– Ci vedo perfettamente, mai portato occhiali.– Disturbi mentali?– Nessuno, almeno fino a prima di andare a dormire.– E se fosse un vampiro con una crisi d’identità?– Impossibile, sono emofobico.– ...– Ho paura del sangue.– Capisco. Quindi lei mi sta dicendo che, così, d’un tratto, è diventato invisibile?– Sì, è quello che sto tentando di dirle dall’inizio. Ci sono e non ci sono. Sono qui, ma il mio corpo non c’è.– Fenomeno interessante. Le giuro che non mi era mai capitato di sentirla questa. Voglio dire, nei romanzi di fantascienza o al massimo nei cartoni o nei fumetti, ma nessuno aveva mai chiamato per lo stesso motivo.– È la prima volta che mi succede, non so che dirle.– Ricorda com’era vestito prima di sparire?– Fa differenza?– Non molta, ma è la prassi. Devo compilare un modulo in cui il chiamante fornisce età, descrizione fisica dello scomparso e pure che abiti indossava l’ultima volta che è stato visto.– Mmh... va bene, capisco: ho quarantasette anni, sono alto circa un metro e ottanta, mi piacerebbe definirmi atletico ma piuttosto direi magro, capelli biondicci e occhi chiari. Segni particolari nessuno, a parte un tatuaggio sulla mano sinistra in cui c’è scritto in piccolo “Ricordati di non farlo mai più”.– Non fare mai più che cosa?– Non me lo ricordo.– D’accordo, non fa niente... mi dica invece dell’abbigliamento.– Quando mi sono visto l’ultima volta, indossavo

un pigiama estivo, maglietta coi bottoni e pantaloncini, bianco con degli aeroplanini rossi.– Una bella fantasia...– Ci sono affezionato, è un regalo di mia madre.– Avete un bel rapporto?– È morta.– Dio, mi dispiace...– Non si preoccupi, in realtà la odiavo: mi obbligava sempre a indossare vestiti ridicoli.– Come il pigiama bianco con gli aeroplanini rossi?– Esattamente.– E ricorda cos’ha mangiato ieri sera?– Perché? È importante?– Potrebbe esserlo, perché no. Magari qualche alimento al quale lei è intollerante, effetti collaterali, qualcosa di questo tipo... no?– Dubito che sia dovuto al cibo... ho mangiato molto leggero, tra l’altro: risotto in bianco e fagiolini lessi.– Non si può dire che lei si dia alla pazza gioia col cibo, sembra un perfetto menù da ospedale.– Mangiare sano è importante.– Io sono sovrappeso sa?– Provi a cambiare alimentazione allora.– Sì, e poi magari sparisco del tutto, come lei... – gli scappò una risata, – perdoni la battuta.– Non è divertente. Io sono preoccupato.– E perché dovrebbe esserlo? Ma scusi, lei lo sa quante cose può fare senza essere visto?– Dice?– Sì, certo. Mettiamo che, per esempio, lei abbia un capo al lavoro che è un vero stronzo... lei si presenta lì e gli fa lo sgambetto, oppure gli tira giù i pantaloni davanti a tutti.– Ha ragione, potrei farlo, il mio capo è un vero stronzo.– Ecco, vede? Oppure, che ne so, mettiamo che lei vede una bella ragazza entrare in un negozio di intimo... insomma, si intrufola nel camerino, attende e si ritrova la ragazza lì, che si spoglia davanti a lei.– Perché no?! Non farei niente di male!– No, niente di male... oppure, se posso darle un’altra idea, mettiamo che ci sia una categoria che proprio lei non sopporta, guardi per me possono essere pure i vigili urbani, non c’è problema... lei ne vede uno per la strada e, boom!, gli tira un bel ceffone. Che ne dice?– Fantastico.

Page 30: #numerouno - Una voce di notte

26

– Ammetterà che non è poi tanto male.– Affatto. Dovrei ringraziarla.– Ma si figuri, il dovere è dovere.– No no, dico davvero. Lei mi ha fatto tornare il buon umore. Ieri sera, prima di addormentarmi, ero molto inquieto, e anche triste. Ora mi sento bene, sono proprio sereno.– Prego, non so cosa ho detto per farla stare meglio, ma mi fa piacere. Però, mi raccomando, ci aggiorni se si ritrova.– Senz’altro, lo farò. Buonanotte.– Buonanotte.Il vigile urbano mise giù il telefono. Dette un’occhiata al modulo compilato, poi si guardò attorno. Accartocciò il foglio, ne fece una palla e la gettò nel cestino.– Il solito scherzo? – gli chiese il collega.Accennò un sì con una smorfia del viso. Guardò l’orologio appeso al muro, non era passato poi molto tempo. Ripensò a sua moglie, che lo aspettava a casa di lì a poche ore, forse ancora sveglia e intenzionata a regolare i conti. Avvertì un brivido di tristezza. Poi una sensazione fisica che assomigliava al prurito. Da principio era solo un fastidio sulla punta delle dita, ma presto divenne un formicolio sulla mano intera, e qualcosa che da leggero si faceva pesante e si espandeva, come se piano piano salisse su a rosicchiare il braccio. E dopo la spalla e dopo tutto il resto. Si guardò riflesso nel vetro della finestra: stava scomparendo poco a poco.

Page 31: #numerouno - Una voce di notte

Via Aretina, 35LECCIO - Reggello (FI)

Page 32: #numerouno - Una voce di notte

28