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Francesca Randisi Oltre Il Dolore

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OLTRE IL DOLOREOLTRE IL DOLORE

romanzo biografico

scritto da

Francesca Randisi

2 (Copyright © 2003 FrancescaRandisi, tutti i diritti riservati)

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Francesca Randisi Oltre Il Dolore

A Giuseppe, Enzo e StefanoA Giuseppe, Enzo e Stefano

Per il coraggio e la forzaPer il coraggio e la forza

Per la comprensione, l’amorePer la comprensione, l’amore

e la gioia che ho ricevuto ognie la gioia che ho ricevuto ogni

giorno sempre e sempre di più.giorno sempre e sempre di più.

Con tutto il mio amore ….Con tutto il mio amore ….

f.r.f.r.

3 (Copyright © 2003 FrancescaRandisi, tutti i diritti riservati)

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Francesca Randisi Oltre Il Dolore

Sento di poter essere di aiuto, a tutti coloro che stanno vivendoSento di poter essere di aiuto, a tutti coloro che stanno vivendo

situazioni simili alla nostra, ad affrontare le difficoltà consituazioni simili alla nostra, ad affrontare le difficoltà con

coraggio, fiducia, dignità, speranza, fede e amore, unici valori checoraggio, fiducia, dignità, speranza, fede e amore, unici valori che

danno un senso alla vita ,soprattutto in questi momenti.danno un senso alla vita ,soprattutto in questi momenti.

Ho scritto questa storia non per pubblicizzare la vita di mioHo scritto questa storia non per pubblicizzare la vita di mio

figlio, l’ho fatto per rendere omaggio a tutti i medici e glifiglio, l’ho fatto per rendere omaggio a tutti i medici e gli

infermieri che hanno “lavorato” per Stefano con amore,infermieri che hanno “lavorato” per Stefano con amore,

dimostrando che professionalità ed umanità sono un binomiodimostrando che professionalità ed umanità sono un binomio

indissolubile.indissolubile.

Mai dimenticherò quei medici di chirurgia pediatrica……Mai dimenticherò quei medici di chirurgia pediatrica……

Francesca RandisiFrancesca Randisi

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L’attesaL’attesa

E' il primo giovedì di maggio del 1995, il mio bambino è ricoverato da tre giorni al reparto di chirurgia pediatrica ed io sono con lui; qui a Palermo non fa caldo, nonostante in Sicilia maggio sia un mese praticamente estivo. Stefano è stato sottoposto a tutti gli esami, i valori sono tutti nella norma e domani sarà sottoposto ad un intervento lunghissimo dalla durata di circa cinque ore, come mi è stato riferito stamani dalle dottoresse Ferreri e Modena, le quali mi fanno presente tutti i rischi a cui può andare incontro il bambino; ciò che ci rassicura è che Stefano è ben nutrito è fisicamente forte, come ha più volte dimostrato e che la sua istintiva voglia di vivere sia semplicemente sbalorditiva.

Il mio orologio segna le ore 22’00, Stefano dorme, mi sento molto scossa e nervosa, fortunatamente sono di turno il dr. Aiaxit con gli infermieri Lorj e Totò con i quali posso esternare più facilmente le mie preoccupazioni, così passiamo parte della notte parlando di Stefano.

Il dr. Aiaxit ad un certo punto comincia ad elogiarmi per come ho saputo svolgere il “lavoro” nel periodo in cui sono stata a casa con Stefano; per come ho eseguito le dilatazioni con gli Hegher, per come l’ho alimentato tramite gastrostomia e per le sue buone

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condizioni di salute. Sento che dice queste cose anche per rassicurarmi, e non posso

fare a meno di esternare tutto ciò che sento, perché io so dal profondo del mio cuore che il merito è tutto di loro, che sono stati capaci di essere al tempo stesso genitori e dottori per il mio bambino e dei veri amici per me.

Non ce l’avrei fatta ad arrivare al punto in cui siamo senza il loro “calore” che ho avvertito sempre e sempre più forte.

Non so fino a che punto si rendano conto di quanto mi siano stati di aiuto. Riesco a dire tutto questo con assoluta sincerità guardando negli occhi il dr. Aiaxit il quale imbarazzato mi interrompe, con un tono di voce che tradisce l'emozione, anche gli occhi di Totò e Lorj brillano più del dovuto. <<Basta adesso signora…vada a dormire…Se no... la serata finisce in lacrime...>>. <<Vado…vado...>> gli dico, <<ma….ancora una cosa,…sono preoccupata per domani…comunque vada, so che voi farete tutto il possibile per il bambino.>>

Esco, vado sul balcone del reparto che si affaccia sulla scogliera a respirare ad occhi chiusi aria fresca, profumata di mare, quando riapro gli occhi mi ritrovo accanto Lorj e Totò decisi a non lasciarmi sola.

La serata è tranquilla, respiro forte quasi a voler entrare in sintonia con tale calma e tale bellezza, ma non ci riesco. Il gradevole rumore del mare, coperto ogni tanto dal fischio delle sirene di una nave in arrivo o in partenza dal vicino porto, contrasta la sera, col silenzio di questa ala dell'ospedale.

Chiunque potrebbe intuire il mio stato d'animo, figuriamoci Lorj che mi è sempre stata molto vicina, sa che ho bisogno di tranquillità, ma comprende anche, che in questo silenzio le mie paure, le mie preoccupazioni si acuiscono, si dilatano enormemente, mi abbraccia di slancio sussurrandomi :<<Francesca, , non so se al tuo posto sarei stata capace di tanto.

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Ancora uno sforzo....sei una mamma coraggiosa e comprendi che l'intervento è indispensabile per la sopravvivenza del bambino.>>

Le sono grata per questo slancio, ma le parole tradiscono quello che provo. <<Lorj...dovrei essere preparata ormai, ma....non riesco a non avere paura. Solo la speranza che Stefano possa un giorno mangiare come gli altri bambini e non debba sopportare altre sofferenze, mi fa accettare l'idea di una operazione così complessa e rischiosa.>> Mi accorgo che Totò è stato zitto tutto il tempo, gli chiedo per l'ennesima volta di descrivermi l'intervento e lui pazientemente usando termini di uso comune, affinché io possa meglio comprendere, ripete per me, tutte le fasi dell'intervento. E' una sequenza che ormai conosco a memoria, sono cose che temo, ma nelle quali devo riporre tutte le mie speranze.

Le spiegazioni di Totò, come sempre molto chiare, mi sarebbero servite, l’indomani, fuori dalla sala operatoria, per dare un senso all’attesa, per collegare ogni momento di essa ad una precisa fase dell’intervento ed esorcizzare la paura.

Lorj e Totò sono una coppia di giovani sposi che da due anni svolgono la professione di infermieri nel reparto di chirurgia pediatrica, hanno accudito Stefano con professionalità ed amore sin da quando è arrivato in questo reparto; lei è una ragazza molto dolce e aperta, lui è gioviale, sensibile e molto preparato professionalmente, e premurosi nei miei confronti come sempre, mi hanno tenuto compagnia fino ad una certa ora della notte, costringendomi infine ad andare a riposare.

Giuseppe, mio marito, era andato via dall'ospedale che erano circa le 20’30; sia i medici che il personale avevano fatto un eccezione alla regola dell'ospedale, perché lui aveva insistito affinché potesse rimanere ancora un po' con il bambino. Visto che le visite erano consentite dalle ore 19'00 alle 19'30, non volle lasciarlo così presto. Non so se quel voler a tutti i costi stare il più a lungo possibile con Stefano servì a Giuseppe per tranquillizzarlo

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o, se servì a lui per trarre dall’incosciente serenità del bambino la forza per affrontare sia la lunga notte alla quale andava incontro che il giorno seguente certamente pieno di ansia, paura e sofferenza.

Lo vidi andar via a testa bassa e, visibilmente angosciato. Lui diversamente da me, si trovava solo con la sua tristezza in

una camera d'albergo, dove non conosceva nessuno e non poteva quindi alleviare la propria ansia e preoccupazione parlandone magari con qualcuno come invece spesso facevo io.

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La risoluzioneLa risoluzione

I pensieri più tristi mi fecero compagnia in quella notte insonne.Pensavo e ripensavo a tutti i problemi vissuti con il mio bambino

e soprattutto mi sentivo responsabile, in parte, per aver fatto pressione al professore affinché si decidesse a fare quest'intervento, poiché non ne potevo più di veder soffrire il mio bambino sia a causa delle dilatazioni sia per gli attacchi di apnea.

Mi sento, ancora adesso, travolgere dal dolore e dalla rabbia, per ciò che ero stata " costretta" in un certo senso a fare per il bene del mio bambino. Le dilatazioni consistevano nell'infilare un Hegher, cioè, un dilatatore di acciaio con la punta arrotondata, nel buco della cervicostomia che gli era stato appositamente praticato sotto cute per favorire il drenaggio della saliva e dovevo eseguirle a casa due volte al giorno.

I medici chirurghi avevano iniziato a praticare queste dilatazioni della cervicostomia quando Stefano aveva due mesi e solo in seguito, prima che il bambino fosse dimesso mi avevano insegnato ad effettuarle, ed io avevo imparato; ma una volta a casa non me la sentivo da sola a continuarle, avevo paura di poter sbagliare e quindi di fargli del male.

Così, per un po’ di tempo, io e mio marito decidemmo di andare

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a Palermo ogni giorno, affinché le dilatazioni venissero eseguite dal medico.

Per circa due mesi abbiamo fatto su e giù Rivera-Palermo, fino a che questa situazione divenne insostenibile, poiché ogni mattina dovevamo svegliare il bambino prestissimo, affrontare due ore di autostrada per recarci a Palermo, e così facendo le dilatazioni potevano essere eseguite solo una volta al giorno, e non due, come era invece necessario per evitare che la cervicostomia si stenotizzasse.

I dottori Patti ed Ingros, due persone straordinarie oltre che due medici bravissimi, mi convinsero, dopo avermi visto “all’opera”,che ero all'altezza del compito, nemmeno loro avrebbero potuto, mi dissero, fare di meglio.

Rincuorata da queste parole e piena di fiducia per le mie insospettabili capacità di "chirurgo" iniziai a dilatare a casa il bambino.

Una volta alla settimana lo portavamo a controllo, per far costatare ai medici che tutto procedesse in modo corretto.

Tutte le volte che mi apprestavo ad iniziare il rito delle “torture quotidiane” Stefano cominciava a piangere, ed io cercavo di ignorare quello sguardo: il dolore era troppo forte perché lui potesse sopportare impassibile questa situazione e collaborare con me, piangeva talmente tanto fino a diventare cianotico. Giuseppe non è mai riuscito ad assistere a questa sofferenza, per cui non gli ho mai chiesto di aiutarmi, temendo che Stefano potesse captare il suo stato di ansia e nervosismo e per non appesantire una situazione già di per sé molto difficile anche per me, quindi ho preferito “lavorare” da sola.

Mio figlio Enzo, un bambino dell'età di nove anni, è l'unico che ha trovato il coraggio e la forza per potermi aiutare a tenere fermo Stefano, lo faceva mentre piangeva ,ed io, piangevo con loro. Per quattordici mesi ho eseguito le dilatazioni a casa, per due volte al

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giorno tutti i giorni, vivendo in una angoscia continua e, questo fu il motivo che mi spinse un giorno ad andare decisa da professore per convincerlo ad affrettare i tempi e trovare una soluzione definitiva per porre fine a questo strazio quotidiano.

Cosi quando il 24 gennaio del 95 e' stato fatto al bambino l'ultimo degli allungamenti dell'esofago secondo Kimura, dopo sei interventi precedenti e dopo che una parte dell'esofago era “ceduto”, a soli dieci giorni dall’intervento, a causa di un'infezione , da allora non ho fatto altro che sperare che il professore prendesse una decisione al più presto.

Un giorno mentre salivo in ascensore per recarmi nel suo studio, incontrai la d.ssa Ferreri, il silenzio con cui l’accolsi le fece capire immediatamente in quale stato di assoluta prostrazione si trovasse la mia anima. Lei, donna straordinaria, ha sempre saputo dimostrare di saper essere un’amica delle mamme oltre che una mamma per i bambini, capisce bene la mia impossibilità ad andare avanti e le spiego che ho bisogno di avere davanti a me la data dell'intervento per "l'anastomosi", cioè il collegamento dell'esofago con lo stomaco.

Insieme a lei per l’ennesima volta andai dal professore, e questa volta mi dice che ha bisogno di un poco di tempo per valutare bene la situazione.

Stefano continua il ricovero dal 20 gennaio al 28 febbraio a causa dell'infezione dell'esofago. Finalmente si programma la data per il prossimo intervento: 5 maggio 1995.

Ed io mi aggrappo a quella data che può segnare per noi tutti la fine di un incubo.

Uno dei tanti problemi che Stefano aveva sin dalla nascita erano le apnee , si verificavano tre, quattro volte al giorno senza che nessuno riuscisse a capirne bene la causa.

Potevano essere causate dalla distensione addominale, o, dal reflusso gastro-esofageo ma quel che era peggio e che nessuno

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poteva prevederle ed allora sia di giorno che di notte bisognava guardarlo a vista; e fu così che Stefano divenne un “sorvegliato speciale n.1”.

Il professore invece sosteneva che la causa derivasse dalla cervicostomia che s'intasava, e per asciugare la saliva che drenava, dovevo mettere delle garzine, che cambiavo ogni volta che si bagnavano, poi fu disposto che al posto delle garzine si mettessero i sacchetti di drenaggio, non fui d’accordo, temevo che un accumulo di saliva, ristagnasse nella cervicostomia con il conseguente rischio che quest’ultima si intasasse per questo ed altri motivi intavolavo spesso discussioni con il professore; io non ne potevo più di questa situazione, che era diventata per me insostenibile ed esasperante, ad aggravarla c’era il profondo stato di ansia e di preoccupazione in cui era caduto Giuseppe.

Lui vedeva i problemi dal di fuori, da una prospettiva diversa e, sembrava non riuscisse più a capirmi o forse ero io che cominciavo a non capirci più niente.

Il mio pensiero oltre a Stefano era legato anche all’altro mio figlio, Enzo. Ricordo la sua gioia quando seppe che una cicogna si era messa in viaggio per noi, voleva fortemente un fratellino alla fine si ritrova senza il fratellino e nemmeno la mamma.

E’ il 5 maggio, alle sei mi sono alzata ,Toto' e Lorj avevano finito di fare le terapie della mattina e prima di andar via si soffermano un po’ nella mia stanza per le ultime raccomandazioni a stare tranquilla ed io sicura di non poter mantenere la promessa strappatami da loro circa la mia tranquillità, guardai commossa Totò mentre giocava in corridoio con Stefano seguito da sua moglie Lorj.

Stefano andava pazzo per Toto' e Lorj, gli era molto affezionato ed anche loro volevano molto bene al mio bambino.

Li guardavo mentre Lorj insegnava a Stefano a infilare e sfilare

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l'astuccio di una penna e Stefano che ripeteva felice <<penna, tappo>>, Toto' invece cercava di attirare la sua attenzione giocando a nascondino, Stefano lo cercava divertito chiamando <<Toto'…, Toto'…>> e lui spuntando da dietro una porta gli diceva: <<Totò tu!>> e Stefano che rideva a crepapelle.

Questo gioco è durato per circa mezzora, poi vanno via abbracciando forte ed in silenzio me e il mio bambino. Vanno via di corsa lasciandomi appena il tempo di avvertire tutta la loro commozione e, adesso sono io che vorrei raccomandare loro di stare tranquilli, ma vanno via senza che nessuno di noi riesca a pronunciare una sola parola.

Alle sette iniziava il turno di Antonio, io per ingannare l’esasperante attesa faccio il bagnetto a Stefano. Finalmente arriva Giuseppe.

Quel giorno Stefano era il solo in programma operatorio, poiché l'intervento era lunghissimo. Alle nove passa il professore in visita, quella mattina erano presenti tutti: il dr Ingros, il dr. Patti, il dr Rossello, il dr. Garofly , il dr. Moschino ed il dr Aiaxit che, nonostante abbia fatto la notte, decide di rimanere per assistere all'intervento di Stefano.

Anche lo staff degli anestesisti è presente al completo: Ferreri, Modena e Sciarra. Alcuni minuti dopo l’arrivo di Giuseppe, vengono due infermieri Pino e Piero per fare la premedicazione a Stefano, mio marito cerca di rendersi utile tenendo fermo il bambino.

E’ giunta l’ora di accompagnare Stefano in sala operatoria, io non riesco a varcare quella soglia, mio marito intuisce il mio disagio, ci abbracciamo per farci coraggio ed è lui che questa volta accompagna Stefano, io resto lì davanti a quella porta di vetro che si è chiusa alle loro spalle.

In quel vetro vedo riflessa la mia figura e, come parlando ad un’altra persona mi dico: "su Francesca è per il bene del tuo

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bambino”, poco dopo la porta si riapre e al posto della mia immagine rivedo mio marito, ci abbracciamo d’istinto e le sue lacrime si confondono con le mie.

Ci siamo posteggiati sul balcone dell'ospedale e il tempo sembrava essersi dilatato, erano le 9:30 quando Stefano è entrato in sala operatoria, ora sono trascorse quattro ore e nessuno esce da quella porta di vetro, finalmente vediamo Giovanni un infermiere della sala operatoria, ci precipitiamo da lui, per chiedergli come va là dentro, <<Stanno lavorando! non so altro>> è la sua risposta e noi rimaniamo un po’ delusi.

Gocciolano lentamente i minuti e quella porta di vetro non si apre ancora , e noi non riusciamo a parlare con nessun medico, a dire il vero non riusciamo a parlare neanche tra di noi, di tanto in tanto i nostri sguardi si incrociano e sono molto più eloquenti di qualsiasi discorso.

Il suo sguardo spento e colmo di tristezza nulla ha più a che fare con lo sguardo vivo ed allegro di cui mi ero innamorata.

Riuscivo a leggere dall’espressione dei suoi occhi tutti gli interrogativi che si poneva: “che cosa abbiamo fatto di male per meritare tutto ciò? Forse non sono state abbastanza le difficoltà ed i problemi che abbiamo affrontato fino ad oggi”? Mentre continuavo a guardarlo negli occhi vedevo riflesso l’immagine del mio viso; triste e spento, così come il suo, che in più evidenziava un leggero tremore dovuto all’ansia ed alla preoccupazione.

Dopo avermi guardata a lungo, come se cercasse di comprendere i miei pensieri, Giuseppe si allontana da me per fumare l’ennesima sigaretta. Lo guardavo allontanarsi ed anche il suo modo di camminare cosi sedato mi faceva impressione, difficile ritrovare nei suoi modi di fare di adesso il Giuseppe pieno di energia, allegro e spiritoso di un tempo.

I miei pensieri scivolano indietro nel tempo, quando un pomeriggio di dicembre del 1982 ci incontrammo quasi per caso,

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io, appena diciassettenne, ero in compagnia di una amica, discutevamo su come organizzare una festa natalizia da fare con gli amici più intimi, e mentre attraversavamo la piazza del paese, quasi mi venne addosso un simpaticissimo ragazzo dagli occhi azzurri; sorridendo un po’ imbarazzati per l’involontario scontro, ci salutammo e il suo sguardo profondo e limpido, provocò in me una reazione inaspettata, sconosciuta e sentii quasi il bisogno di conoscerlo a tutti i costi. Giuseppe, questo era il suo nome, era guarda caso, il cugino di questa mia amica e, quindi non mi fu difficile convincerla ad invitare anche lui alla festa.

Quella sera venne alla festa, non appena entrò, lo vidi dal fondo della stanza che si guardava in giro, capii che mi stava cercando. Gli andai incontro salutandolo felicemente. La prima sensazione si rivelò poi quella giusta, Giuseppe era davvero un ragazzo simpatico. Abbiamo iniziato a parlare del più e del meno , poi ci siamo inoltrati in discorsi molto più personali con una spontaneità ed una naturalezza che non mi era mai successo prima. Lui mi raccontò della sua vita in Inghilterra di come stava bene, il lavoro che lo gratificava, l’ambiente che gli piaceva, della semplicità e la sincerità delle persone. Aveva 24 anni aveva fatto un corso di specializzazione ed era diventato coordinatore della ditta per cui lavorava, si sentiva realizzato e gratificato, quando parlava dell’Inghilterra vedevo i suoi occhi illuminarsi. Mi ero lasciata trasportare dal suo racconto, ed il suo entusiasmo per il paese in cui viveva, che ad un tratto senza che me ne rendessi conto, sentii uscire dalle mie labbra: <<mi piacerebbe sicuramente vivere come te in Inghilterra.>> Lui mi guardò meravigliato ed al tempo stesso compiaciuto del mio desiderio, perché comprese che, condividevo pienamente il suo modo di essere e di vivere. Io gli parlai di me, dei miei sogni, delle mie ambizioni, riuscii ad “aprirmi” come mai avevo fatto con altri, siamo entrati perfettamente in sintonia. Seguirono altre serate ed altri incontri e, quando mi accorsi di stare

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male in sua assenza, compresi di essermi innamorata, e ce lo dichiarammo la sera prima del suo ritorno in Inghilterra.

Trascorremmo quella serata come se dovesse essere l’ultima, c’era un misto di gioia di felicità di dolce malinconia, ci guardavamo negli occhi senza mai staccarci come se volessimo memorizzare i nostri volti, come per paura di dimenticarli una volta lontani.

La mattina seguente partì, seguirono giorni tristi e vuoti per me, quando mi arrivò la prima lettera, mi sentii, felice e sollevata perché le sue parole emanavano tanto calore da farmi percepire la sua vicinanza. Compresi che anche lui stava soffrendo molto per la mia assenza. Trascorsero due mesi ed il peso della lontananza si faceva sentire sempre di più, anche se ci confortava un poco l’arrivo di tre, quattro lettere a settimana. Un giorno in una lettera ricevette la notizia che voleva lasciare il lavoro per tornare definitivamente a Rivera. Io nell’apprendere questa notizia ero felicissima. Alla fine di marzo Giuseppe tornò da me.

Eravamo felici , lui trovò subito il lavoro nella ditta di mio padre, io stavo completando gli studi a luglio avevo gli esami per il diploma, così decidemmo che dopo gli esami ci saremmo sposati.

Il nostro amore, però, seppur forte non riuscì a renderlo intimamente sereno il lavoro e, soprattutto l’ambiente diverso lo rendevano inquieto e quel che era peggio, io non riuscivo, nonostante avessi ben compreso il suo intimo tormento a compensare tutto ciò, e con il trascorrere del tempo, vidi pian piano spegnere quella luce che lo aveva reso così speciale ai miei occhi.

Era un ragazzo dolce, tenero e sensibile, prima che i problemi e le avversità gli indurissero il cuore.

Dopo sei ore che teniamo lo sguardo incollato ai vetri di quella porta la vediamo aprire, sono le 15:30 esce il professore visibilmente stanco ma anche felice:

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<<l'intervento e' andato bene!>> dice <<Siamo stati fortunati perché l'esofago era lungo abbastanza da arrivare allo stomaco.>> Riconoscenti lo abbracciamo.

Il professore, uomo di poche parole, emozionato inizia un discorso circa il dovere e cose del genere e ci saluta dicendoci di aspettare istruzioni dagli anestesisti per vedere il bambino.

Ora da quella porta cominciano ad uscire ad uno ad uno alcuni infermieri tra le quali una che attira subito la mia attenzione perché particolarmente agitata.

Io, mentre saluto ed ancora ringrazio il professore, la seguo con la coda dell’occhio: la vedo prendere sottobraccio con fare circospetto una collega , mi insospettisco, “allungo” le orecchie e sento parole che mi pietrificano:<<Durante l’intervento sono state toccate le corde vocali, c’è il forte rischio che non possa più parlare.>> Ho tenuto questa notizia per me, come un segreto, non so perché non ho chiesto spiegazioni, non so perché non ne ho parlato con mio marito so solo che questa ulteriore preoccupazione ha oscurato quella felicità che stavo provando e forse proprio per questo non l’ho detto a Giuseppe; un forte senso di protezione usciva da me fino ad arrivare a coprire anche mio marito.

La d.ssa Ferreri ci raggiunge rassicurandoci che tutto è andato bene e che presto potremo entrare a vedere Stefano.

Ci accorgiamo che nonostante sia pomeriggio inoltrato non abbiamo bevuto nemmeno un sorso d’acqua quindi decidiamo di scendere al bar dell’ospedale illudendoci inutilmente di aver scaricato la tensione al punto da poter mangiare, ma l’ansia come un lucchetto aveva chiuso i nostri stomaci; riusciamo a bere solo un cappuccino.

Passa ancora del tempo e nessuno ancora ci chiama per entrare a vedere il nostro bambino.

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L’incuboL’incubo

Passa ancora un ora prima che la d.ssa Ferreri ci chiama per spiegarci che

<<la parte chirurgica dell'intervento è andata bene, è stato un intervento molto delicato, come sapevamo già, considerato che è stato aperto il torace per la seconda volta, e che è stato stirato l'esofago per collegarlo allo stomaco, adesso il bambino ha delle difficoltà nella respirazione.

Infatti è rimasto intubato oltre la durata dell'intervento, adesso ho provato ad estubarlo,- continua la d.ssa ma ho constatato che da solo non ce la fa, ha enorme difficoltà nel respirare, per cui lo voglio intubare nuovamente per alcuni giorni, dopodiché si vede come va, per il momento è estubato, se volete vederlo potete entrare>>.

Così, con il cuore che mi batte forte in gola dico a Giuseppe di entrare per primo, ritorna indietro quasi subito, pallidissimo in volto; credendomi più coraggiosa gli dico di tirarsi su di morale, non è certo il primo intervento né per il bambino né per noi, Giuseppe mi guarda come per voler dire cose che gli riescono difficili, il suo sguardo sconvolto mi preoccupa e mi precipito di volata in terapia intensiva, entro, e nel vedere Stefano mi si blocca il respiro.

Svengo senza rendermene conto.Era straziante guardare il mio bambino, lo stomaco che si

gonfiava come un pallone, quando si abbassava si vedeva la gabbia

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toracica, la ferita enorme nel torace, il visino gonfio e pallido, era stravolto, dormiva ancora a causa dell'anestesia, impressionante la difficoltà che aveva nel respirare.

Ripresami dallo shock sono rientrata, accanto a me la d.ssa Ferreri che mi spiega che presto lo avrebbero intubato per facilitarne la respirazione.

Mai avevamo visto Stefano in quello stato e la paura si impadronisce di noi, fino a stringere come una morsa i nostri cervelli che cominciano a formulare pensieri da incubo.

Quella notte la trascorsi per intero sul balcone, a vegliare su Stefano come fece anche mio marito, che non volendo andar via si sistemò in macchina fuori dall’ospedale e sono sicura che quella stessa notte il buon Dio vegliò su noi tre.

Nei giorni a seguire tutto sembrava procedere a meraviglia, si parlava addirittura di portarlo in reparto, quando una sera di quattro giorni dopo, noto in giro uno stato di agitazione sia da parte dei medici che degli infermieri che poco mi convince, entro in terapia intensiva e vedo dai monitor che la pressione sanguigna del bambino superava i 200, e che i battiti cardiaci erano alle stelle, il bambino aveva il viso di colore bordò, chiedo a tutti, quasi urlando, cosa stesse succedendo e nessuno sa dirmi niente.

Mi siedo in silenzio ed impaurita accanto al mio bambino, lo guardo mentre soffre e quasi avverto fisicamente le sue sofferenze, io continuo a rimanere là dentro, immobile, respirando piano per non far rumore, non voglio andarmene, perché non riesco a staccarmi da lui.

Erano circa le due di notte, quando vedo arrivare la d.ssa Ferreri, chiamata dal dr. Ingros, di turno quella notte, che nel vedere Stefano in quelle condizioni, perde la calma e la sicurezza, che l’avevano sempre contraddistinta, ed io capisco che è meglio uscire dalla terapia intensiva per far sì che possano lavorare liberamente. La solita attesa sul solito balcone, ma questa volta attendo

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inutilmente, perché nessuno mi dà notizie per tutta la notte. La mattina seguente ho saputo che il dr. Ingros si è sentito male,

e per alcuni giorni non ci sarà. Non ho potuto fare a meno di notare l'espressione triste sia dei

medici che del professore, nel momento in cui dice:<<Non è possibile…andava così bene. L'intervento è riuscito

perfettamente, io non riesco a capire.>>Io non riuscivo a parlare e nemmeno a chiedere spiegazioni;

avevo paura di ciò che potevano dirmi, Il mio cuore era rimpicciolito e sembrava battesse per forza di inerzia.

Non riuscivo ancora a capire cosa stesse succedendo, stavo male, avevo i brividi in tutto il corpo, la lunga notte trascorsa in quello stato di angoscia e agitazione aveva messo a dura prova sia il mio fisico che i miei nervi.

Intanto continuavano a fare esami, accertamenti, c'era il reparto in subbuglio, i radiologi venivano chiamati continuamente, persino i medici in ferie vennero richiamati.

La stessa notte la d.ssa Ferreri ed il dr. Sciarra intubarono nuovamente Stefano, questa volta inseriscono il respiratore automatico e lo sedano 24 ore su 24, perché rimanendo sveglio soffrirebbe molto, e perciò gli anestesisti assistono il bambino ininterrottamente alternandosi tra di loro, giorno e notte, per una intera settimana.

Mio marito di giorno stava in ospedale con me ed il bambino, anche se in terapia intensiva non riusciva a rimanere più di qualche minuto, ma per me la sua presenza era di grande conforto, insieme era come dividere il peso di quei giorni, la sera andava a dormire in albergo.

Stefano continua a stare male, mio marito una sera decide di ritornare a casa, per stare vicino ad Enzo, poiché a causa di tutti questi problemi era stato trascurato sia da me che da suo padre.

La mattina seguente, come sempre, puntualmente alle ore 8,

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vado a trovare il mio bambino in terapia intensiva, e siccome la situazione stava precipitando, la d.ssa Ferreri, decide di darci ulteriori chiarimenti, per cui attendiamo l’arrivo di Giuseppe che chiamato da me telefonicamente si precipita in ospedale, e con lui anche suo fratello, è evidente che ha tanta paura, tanto da cercare un ulteriore conforto da chi gli è più vicino oltre a me.

Entriamo in terapia intensiva dove erano presenti oltre alla Ferreri la d.ssa Modena, il professore e gli infermieri di turno; ad esporci il problema è la d.ssa Modena:<<Signori Scorsi , non so come dirvelo mi dispiace moltissimo>>, parlava con voce bassa e incrinata dal dispiacere,<<ma la situazione del bambino è questa: non sappiamo se riesce a superare la notte, dagli esami fatti si è visto che c'è un infezione da miceti che sta' logorando i polmoni, e si è diffusa in tutto il sangue>>, mi guarda tristemente e mi abbraccia come a volermi consolare.

Sento il mio sangue scaldarsi fino a diventare incandescente, sento uscire questo calore dal mio viso, il mio sguardo assume un non so che di feroce e in un totale sfogo di assoluta lucidità dico loro:

<< Voi potete dire quello che volete, gli esami possono dimostrarsi quelli che sono, ma nessuno di voi guarda la voglia di vivere che ha il mio bambino! Non vedete la tenacia e la forza di lottare che ha, non vi rendete conto che Stefano in passato ha

sfidato e vinto la morte, oppure questo lo avete dimenticato! E' di Stefano che stiamo parlando il bambino che voi stessi avete definito "Il piccolo superman", perché vi ha sorpreso tante di quelle volte, anche quando credevate che non ce l'avrebbe fatta, e adesso voi venite a dirmi che non sapete se supera la notte, perché avete visto gli esami! Comunque io non do ascolto a quello che dite, so che è vostro dovere fare presente tutto ciò, ma conoscendo bene il mio bambino so che c'è la farà ad uscire vivo da questo posto.>> <<Signora>>, dice il professore e la sua voce quasi fa eco per

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l’assoluto silenzio che si era creato,<<non deve aggrapparsi a speranze che non esistono, potrebbe avere delle sofferenze maggiori.>> <<Ma forse non lo avete capito, la mia non è un illusione, ho la certezza che il mio bambino ce la farà. Io credo che se il Signore me lo doveva togliere, lo avrebbe fatto appena nato! Oppure nell'intervento del primo allungamento dove ha rischiato pure la vita! Io non credo che esista un Dio tanto malvagio da fare soffrire una creatura piccolina per un anno e mezzo e poi prendersela, se lo ha salvato per due volte una ragione c'è, e non era certo quella di farlo soffrire invano. Per cui sono convinta che anche questa volta il mio bambino lo salverà. Perché credo che Dio è giusto ed in tutto questo periodo di sofferenza, ha dato sia a me che al mio bambino una carica interiore, una forza di lottare che voi nemmeno immaginate.>> Senza aspettare un’ulteriore risposta volto le spalle a tutti e vado via.

Mio marito mi raggiunge sul balcone, non voglio ascoltarlo perché so già cosa ha da dirmi, poi aggiunge che i medici non si aspettavano questa mia reazione, che a parer loro è la reazione di chi non vuole accettare la realtà dei fatti, gli rispondo che mi interessa in modo relativo quello che loro pensano di me, ciò che m'importa veramente è quello che pensa lui.

Allora gli chiedo se anche lui come i medici crede che Stefano non superi questo tragico momento; non risponde, ma quel che è peggio, non regge il mio sguardo, e mi rendo conto subito qual è la sua risposta, per cui cerco di scuoterlo dicendogli: <<Ti rendi conto che è il nostro Stefanino e dicono che sta' per morire! E’ questo che credi?>>e aggiungo con voce ferma e decisa: <<Non pensare assolutamente che Stefano non ce la farà, perché se non hai abbastanza forza tu di credere nelle sue capacità ed in quelle del Signore, l'avrò io per tutti e due>>

Rientrammo in terapia intensiva, io mi sedetti accanto al mio bambino ed incominciai a cantargli sottovoce la sua canzoncina

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preferita" Round, round," ad un tratto vidi sorgere dalle sue labbra una smorfia, che somigliava tanto ad un sorriso.

Vidi attraverso la vetrata mio cognato, la d.ssa Ferreri e Giuseppe che parlavano, mi avvicinai a loro, stavano concordando circa le modalità di trasporto nel caso di decesso del bambino, di scatto, senza riuscire a trattenere la mia reazione impongo a mio marito ed a mio cognato di non toccare più quest'argomento in mia presenza, poi prendo per mano Giuseppe e lo porto accanto al nostro bambino per fargli notare quei piccoli segni positivi, di cui solo io sembro accorgermene, gli davo la mano e me la stringeva con la sua, nel sentire la nostra voce cercava di svegliarsi lottando contro i farmaci, per cui dico a mio marito: <<Vedi la forza di lottare che ha? Non pensare più un solo istante al discorso che hai fatto poco fa con la d.ssa Ferreri, dobbiamo essere forti noi per trasmettere a lui la forza necessaria per lottare; non devi più pensare al peggio, perché se ci abbattiamo è finita per lui, e di conseguenza anche per noi.

Giuseppe col capo chino rientra in reparto, dove incontra il dr Ingros col quale sfoga la sua pena, e in una sorta di reciproca confidenza si scoprono ambedue incapaci a sopportare per più di qualche minuto la vista del bambino in quello stato; nel suo corpicino non c’era un cm. di spazio libero da fili, da una parte aveva drenaggi, dall'altra due vene chirurgiche, una flebo, la ferita iniziava dal centro del torace e finiva in modo orizzontale al centro della schiena, i redot per controllare i battiti cardiaci, il saturimetro per controllare l'ossigenazione del sangue, il braccialetto per la pressione sanguigna ed il tubo del respiratore automatico.

Giuseppe in serata ritornò a Rivera con Franco, per stare vicino ad Enzo.

Stavo seduta e guardavo il mio piccolino e non potevo capacitarmi perché tutto ciò fosse accaduto, mi tormentavano i rimorsi di quando non ho accettato felicemente la gravidanza per il

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mio egoismo. Forse il Signore ha voluto punirmi per questo? Piangevo, avevo i gomiti poggiati sulle ginocchia e nascondevo il viso tra le mani, per non farmi vedere dai medici, mentre pensavo a come a volte non apprezziamo la vita, giornate o momenti che ci sembrano vuote e banali, o quando litighiamo con il prossimo per un nonnulla e ci logoriamo con la tensione ed il nervosismo e mi rimproveravo per quando ero stata stupida e sciocca, perché i veri problemi sono adesso. Come vorrei ritornare a quelle giornate vuote e banali per non sentirmi il cuore stretto da questa morsa di dolore che mi fa soffocare, mi toglie il respiro e mi taglia la bocca dello stomaco in due come se fosse stato trafitto da una lama.

Mi asciugai gli occhi con una garzina sterile che avevo trovato sul lettino di Stefano, dimenticata da qualche infermiere. Mi alzai il viso e guardandomi in giro compresi che dovevo uscire perché dovevano medicare Stefano, e con un sorriso di comprensione annuii e mi avviai fuori con un passo leggero quasi a non voler far sentire la mia presenza.

La sera quando mi ritrovavo da sola nella stanzetta era diventata mia abitudine pregare, in un modo insolito; sfogavo la tensione accumulata durante la giornata piangendo e invocando Dio sottovoce, per non farmi sentire dalle persone che stavano nelle stanze accanto e di fronte, sfogavo i miei sentimenti le mie angosce, le mie paure le mie debolezze il mio limite di sopportazione in tutto questo strazio. Immaginavo di trovarmelo di fronte e piangevo a dirotto fino a che si esaurivano le lacrime implorandolo di salvare il mio bambino. Sentivo che un senso di protezione mi avvolgeva la notte, mi sentivo tranquilla ed al sicuro e riuscivo a riposare.

Ogni mattina come ero solita fare mi recavo nel grande bagno del reparto per lavarmi e sistemarmi, mentre mi accingevo a truccarmi di fronte ad uno dei tre specchi, stavo mettendo un po’ di cipria, un velo di fard e un leggero strato di lucida labbra, per dare un po’ di

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colore al viso pallido che mi ritrovavo segnato dalla tensione e dal dolore. Cercavo in tutti i modi possibili per farmi coraggio e non mi aiutava certo guardandomi allo specchio e vedere quel viso sciupato dalle lacrime che ogni sera versavo da sola chiusa in quella triste stanzetta. Mi stavo spazzolando i lunghi capelli per raccoglierli in una coda legata alla nuca, ero serena. Ero sempre serena la mattina prima di recarmi in terapia intensiva, poiché in cuor mio speravo di ricevere una buona notizia una volta entrata là dentro. Mentre stavo legando i capelli con cura, vedo entrare due signore si fermano davanti lo specchio accanto a me e dicono fra loro sottovoce:<< E’ la mamma di quel bambino che è in coma! Ma come gli viene dall’animo di truccarsi e pettinarsi così accuratamente.>> Io ignorando i loro discorsi continuo a sistemarmi i capelli, mentre loro continuano a fissarmi come se stesse commettendo chissà quale sacrilegio. Nel bagno c’erano due grande finestre aperte, mi sono avvicinata ad una di queste, mi sono accesa una sigaretta e mi sono seduta su un grande contenitore d’acqua coperto, posto sotto la finestra. Adesso ero io che le guardavo senza dire una parola, spiegavo loro con il mio sguardo, più eloquente di qualsiasi discorso che: <<Nessuno ha il diritto di giudicare il prossimo, che ne sapete dei miei sentimenti, di quello che sto provando adesso, di cosa è stata la mia vita fino ad oggi, ogni piccolo traguardo per me è sempre stato sinonimo di lotta e sofferenza sia nelle cose materiali che negli affetti e adesso sto affrontando la battaglia più terribile che un essere umano possa sopportare.

Con quale diritto voi, mi state giudicando? Lo avete un briciolo di sentimento e di umanità? Volete sapere del mio equilibrio? Sta attaccato ad un filo.

Non avete idea di ciò che adesso avrei di bisogno: non certo delle vostre critiche. Sento il bisogno di sentire due braccia forte che mi stringono al petto, una voce calda, profonda e sicura che mi dice:

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“Stefano sta bene.” Purtroppo non ce l’ho questo! Perché mio marito oltre a trovarsi a duecento chilometri di distanza, il suo stato d’animo è vacillante ed è colmo di scetticismo, perciò devo essere io a sostenerlo. Ma adesso sono stanca ed ho tanta paura.

Quando non potevo stare in terapia intensiva con Stefano, piuttosto che stare in camera, preferivo andare sul balcone per godere del bellissimo panorama. Proprio di fronte al balcone si imponeva alla vista una austera catena montuosa a picco sul mare e ai piedi della quale sorgevano dei paesini, che di notte, illuminati, sembravano dei piccoli presepi, ma il momento più spettacolare era senza dubbio il tramonto quando il paesaggio intero, compresa una fascia di mare, assumeva un innaturale colore rosa, talmente perfetto, che sembrava uscire dal pennello di un bravo pittore, tutto era così fantastico che potevo stare delle ore senza mai stancarmi di ammirare queste bellezze della natura.

Spesso, andavo anche di mattina prestissimo, perché anche l'aurora, offriva uno spettacolo da non perdere.

Mi sentivo come attratta da quel panorama e quando volevo concentrarmi nelle preghiere, fissavo intensamente quelle montagne e tanta bellezza mi faceva sentire più vicina a Dio.

Era più di un anno che venivo qua fuori a guardare questo paesaggio, che ogni volta mi appariva più bello, ed ho capito che è proprio in questi momenti così difficili che si acquisisce più sensibilità nel capire quali sono le cose essenziali della vita, rendendoci conto di ciò che realmente ha valore, e riesci a guardare quello che non vedevi nemmeno, con molto entusiasmo, mentre, non riesci più a dare valore alle cose di cui solo poco tempo prima ti preoccupavi enormemente; non contano più niente i beni materiali, come la casa, le proprietà, il denaro gli impegni sociali …..

Quando il frutto della tua stessa anima è in pericolo, tutto attorno a te si sgretola lasciando apparire più nitidi che mai gli unici

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sentimenti che sono le colonne della vita: la fede, l’amore e la speranza.

La stessa cosa accade con le persone: si riesce con estrema facilità ad avvertire l’ipocrisia e la superficialità di coloro che credevi amici, il cui solo interesse è la curiosità, riesci a focalizzare ogni vibrazione della voce, e a coglierne ogni falsità.

Le parole di conforto dette da chi sai non volerti bene ti irritano, ti indispongono, e riesci a rifugiarti, non temendo giudizi per le tue debolezze, magari in persone che hai appena conosciuto ma le cui anime le senti vibrare all’unisono con la tua, e ti accorgi che riescono ad avvertire, non si sa come i tuoi pensieri, senti di star bene in loro compagnia, li vedi soffrire e gioire con te e per te e nulla ha più importanza quanto il volersi bene, ed è come riprendere il filo di un rapporto che già esisteva forse da qualche altra parte ed in qualche altra vita.

Per questo motivo risultavo sempre più insofferente alla compagnia di chi non gradivo, mentre riusciva persino a rallegrarmi la compagnia di Giuseppe e di mio figlio Enzo, che di tanto in tanto veniva a trovarmi in ospedale, sperando ogni volta di riuscire a vedere Stefano, che sinceramente credeva morto visto che gli si impediva l’accesso in terapia intensiva per timore che potesse riceverne un trauma considerata la sua tenera età.

<<Voglio solo dare un bacino al mio fratellino, dice un giorno tra le lacrime, e assicurarmi che sia vivo.>> Il dr. Sciarra commosso ed intenerito dalla richiesta non può non accontentarlo; gli fa indossare il camice e lo lascia avvicinare a Stefano, Enzo si limita come promesso a dargli un bacio e a fargli una carezza anche se è evidente la sua voglia di abbracciarlo.

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La nascitaLa nascita

Mi convincevo sempre più che il mio bambino fosse protetto da Dio, io riuscivo ad avere una tale forza e un tale coraggio da stupire me stessa, mantenevo una grande serenità interiore che traevo dalla convinzione che tutto si sarebbe risolto per il meglio, sentivo che era solo una questione di tempo e io mi sarei riportata a casa Stefano, sicuramente con dei problemi irrisolvibili di alimentazione, ma vivo.

Ricordo quando il 18 Novembre 1993, alle ore 3:00 di Giovedì, da un parto spontaneo, nacque Stefano, che alla nascita pesava appena 1,900 Kg, era bellissimo, e nonostante fosse così piccolino aveva il visino rotondo come una pallina.

Il pediatra, che lo visitò appena nato, mi confermò che il bimbo stava bene, bisognava solo di qualche giorno di incubatrice per fargli guadagnare peso, e così venne trasferito in un altro ospedale di un’altra città.

Lo abbraccia, e lo vidi andar via dentro una culletta avvolto in una carta argentata, seguito da Giuseppe che lo accompagnò fino a Palermo.

Non avere il mio bambino accanto a me, mi rendeva inquieta oltre che triste, e per tirarmi su di morale mi ripetevo che presto Stefano sarebbe tornato a casa e saremmo stati tutti insieme, felici e contenti come tutte le favole che si rispettino. Accanto a me ad assistermi con premura c’erano tutti, mia zia Lilla, mia madre e mia suocera, che tentavano inutilmente di tranquillizzarmi e di sedare la

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mia ansia per non avere Stefano con me.<<Come mai Giuseppe non è qui? Dovrebbe già essere tornato da

Palermo>>, mi accorgo che questa mia domanda crea imbarazzo tra le due nonne, che lanciandosi una occhiata d’intesa tentano goffamente di nascondermi qualcosa, i loro volti si incupiscono e con gli occhi lucidi avanzano stupide scuse, inutilmente protesto per sapere la verità, alla fine mi arrendo e, seriamente preoccupata, altro non posso fare che attendere l’arrivo di Giuseppe, che ritorna da me molto tardi, quando ormai non lo aspettavo più, lo vedo entrare, in un tale stato che subito intuisco che qualcosa di grave dev’essere successo; e il mio pensiero va subito a Stefano.

Il racconto che Giuseppe inizia, abbracciandomi forte, quasi a voler lenire il dolore che sa di dovermi provocare, è un racconto che mi lascia senza parole, e con i pensieri in un totale stato di disordine tanto da non riuscire subito a comprendere a pieno la gravità dei fatti.

Stefano è in pericolo di vita, Giuseppe, contattato dai medici è dovuto ritornare immediatamente a Palermo, gli fa compagnia suo fratello Franco, che mai lo avrebbe lasciato solo in quelle condizioni, ed insieme affrontano il viaggio facendosi coraggio a vicenda.

La strada per giungere in ospedale sembra essersi raddoppiata, la macchina sfreccia sull’asfalto superando ogni limite consentito di velocità, dopo un viaggio che appare interminabile finalmente arrivano con il fiato corto per la paura.

Ad aspettarli, la d.ssa Ferreri ed il dr. Ingros e con loro altri due medici giovanissimi, il dr. Garofly ed il dr. Moschino, i quali li accompagnano nello studio del professore, che spiegandogli la situazione, li mette davanti ad una drammatica ed inimmaginabile realtà .

Stefano versa in condizioni disperate, la possibilità di salvezza è minima perché, è nato con l'atresia dell'esofago con fistola distale

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Long-gap ed ha pure i polmoni mal ridotti a causa dell’acqua glucosata che un’infermiera stava somministrandogli; acqua che era andata a finire dritta dritta ed imprevedibilmente nei polmoni, perché quel moncone di esofago che aveva era tra l’altro collegato con la trachea e Stefano stava morendo “annegato”, e ad aggravare ulteriormente la situazione il fatto che il bimbo pesa appena Kg 1,900, e in quelle condizioni, affrontare un intervento risultava altamente rischioso, ma non operarlo avrebbe significato farlo morire senza aver tentato il possibile; Giuseppe capisce solo di non avere scelta, deve assolutamente firmare per autorizzare l’intervento.

L'intervento, durato più di quattro ore, riuscì bene ed il bambino si dimostrò fisicamente forte nonostante le aspettative, anche se per quarantotto ore si mantenne in pericolo di vita.

Mi sentivo come se una montagna mi fosse franata addosso, tutti cercavano di farmi coraggio, l’angoscia si era ormai impadronita di me, il dispiacere aveva colpito tutti e quindi le parole di conforto che ci dicevamo a vicenda risultavano poco credibili e apparivano come un rituale al quale non sapevamo sottrarci.

Tre giorni dopo il parto fui dimessa dall’ospedale, le notizie che nel frattempo mi erano giunte da Palermo circa la salute di Stefano erano confortanti, ed io fremevo dalla voglia di andare da lui; e protesto fino all’inverosimile, perché tutti presi da un senso di protezione nei miei confronti che sinceramente in quel momento non capivo, cercano di impedirmelo, ma il mio posto è accanto al mio bambino e non possono fare a meno di accontentarmi.

Durante il viaggio che ci condurrà da Stefano, Giuseppe mi spiega in modo più dettagliato la situazione, ed io comincio ad avere una tale paura che cerco di nascondere, voglio apparire forte, anche se so di non esserlo, e per tutto il viaggio rimango in silenzio a guardare fuori dal finestrino.

La macchina rallenta la sua corsa e senza neanche accorgermene

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mi trovo di fronte ad un cancello: davanti a noi un lungo viale costeggiato da immensi e maestosi alberi secolari, alla mia destra, una bellissima costa marittima, la macchina avanza lentamente, e ad una ad una compaiono dal fondo del viale delle antichissime dimore, sicuramente abitate in tempi passati da nobili famiglie. Quel luogo, che vedevo certamente per la prima volta, mi appariva stranamente familiare, era come se tutto questo lo avessi già visto in un sogno che solo adesso la mia mente riportava a galla, disorientata da questa strana sensazione, continuavo a guardarmi attorno.

Una grande quercia copriva in parte dei piccoli caseggiati che, seppi in seguito, erano le dimore della servitù, e più in là un altro edificio, adibito all’epoca a panificio, e al centro di uno spiazzale poggiata su un alto piedistallo una statua in marmo a grandezza naturale di un uomo baffuto dall'aria signorile con lo sguardo rivolto lontano.

Tutto appariva bello, di una bellezza antica ed austera, e non capivo dove Giuseppe mi avesse portato, quando la macchina si ferma davanti al portone della villa che avevo visto dal fondo del viale, io scendo quasi come un automa continuando a guardarmi attorno, un po’ intontita.

Giuseppe, bussò al campanello, poiché il portone d'ingresso era chiuso, quel suono mi risuonò nelle orecchie così stridulo da scuotermi i nervi e bruscamente si ruppe l’incantesimo che quel luogo aveva in me suscitato.

Quelle nobili costruzioni erano diventati i padiglioni di un ospedale, e tanta bellezza contrastava con le tristi storie che ogni ospedale contiene. <<Buongiorno Signor Scorsi, un attimo che apro>> dice Ada, un infermiera affacciandosi da una finestra del primo piano e che evidentemente aveva riconosciuto mio marito.

Il portone si apre, e ci introduce in un piccolo ingresso dove c'erano due panchine ed una scala che partiva dal centro della

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stanza fino a raggiungere il primo piano, ci incamminiamo su per le scale ed entriamo nel reparto dove era stato portato Stefano.

La sensazione che provai nell’entrare in quel luogo fu piacevolissima, perché non somigliava affatto all’idea che io potessi avere di un ospedale, tutto sembrava molto più simile ad un asilo.

Alla mia destra si trovava un corridoio di circa 30 metri, il quale divideva le camere del reparto, che erano tre dalla parte sinistra dove ogni stanza ospitava quattro lettini, e tre dalla parte destra dove ognuna conteneva due cullette.

Il colore delle pareti del corridoio erano di un bel azzurro chiaro e, mi accorsi, guardandomi un po’ in giro che questo era il colore dominante dell’intero reparto, appesi un po’ ovunque, stampe coloratissime di pupazzetti ed animaletti .

Uscendo dal corridoio sulla destra si trovava un balcone, lungo quanto il corridoio, che si affacciava sul mare e da dove si poteva ammirare lo spettacolare panorama di quella costa marittima che avevo notato entrando nel viale. Era una bella e tiepida giornata di fine autunno, io e Giuseppe rimaniamo sul balcone in attesa che qualcuno ci chiami per poter vedere il bambino.

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L’incontroL’incontro

Vediamo venirci incontro un giovanissimo medico, alto, dai lineamenti ellenici, capelli lunghi e lisci con un taglio a caschetto che gli conferiva un’aria un pò infantile, grandi occhi castano scuro, e una sottile barbetta gli contornava il viso decisamente bello.

Era il dr Garofly, che, dopo le presentazioni di rito ci invita a seguirlo nella stanza di terapia intensiva, appena giunti davanti ad una grande porta a vetri, si ferma, la apre, e con un gesto eloquente della mano ci fa segno di accomodarci, e noi un po’ intimoriti entriamo, e dentro facciamo la conoscenza con alcuni infermieri: Rosalia, Gianni e Marina, tutti e tre dai modi molto gentili.

Rosalia mi aiuta ad indossare il camice sterile e mi accompagna dal mio Stefano che stava dormendo dentro una culletta di vetro, attorno a lui degli infermieri affaccendati che appena mi vedono non perdono tempo a suggerirmi come comportarmi, e in quel momento ho provato la sensazione più brutta della mia vita, non riconoscevo in quel neonato che dormiva nella culletta di vetro il mio bel bimbo dal visino tondo a pallina che avevo abbracciato appena nato; era come se quel bambino non mi appartenesse, impallidisco vistosamente tanto da rendere palese a tutti il mio malessere e me li ritrovo tutti accanto, medici ed infermieri che sicuramente abituati a scene del genere sanno benissimo come fare per farmi superare quel momento delicato.

Mi invitano ad avvicinarmi e a toccarlo e in quell'attimo Stefano aprì gli occhi, ed io gli presi la manina e la accarezzai e lui mi rispose stingendomi forte un dito.

In quel preciso istante, mi sentì travolgere da un ondata di calore

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che mi riscaldò il cuore, sentì il bambino veramente "mio," ed è stata una gioia immensa, che tenni tutta per me senza volerla condividere con nessuno, nemmeno con Giuseppe.

A Rosalia, che mi stava vicino rifilai una serie di domande una dopo l’altra freneticamente senza nemmeno darle il tempo di rispondermi volevo sapere tutto, e sentivo che era mio preciso dovere abituarmi subito a quella situazione.

<<Bene, bene, finalmente conosciamo la mammina del Mister.>> Sobbalzo, mi giro e vedo alle mie spalle, un uomo alto sulla sessantina, che indossava un camice bianco, con fare allegro sfoderava un sorriso affettuoso, quasi paterno, mi prende la mano e stingendola energicamente mi dice:<< Lo sa che ha un piccolo Superman per figlio? >>

Il mio sguardo incrocia il suo, era talmente scrutativo da mettere soggezione, aveva dei grandissimi occhi verdi, i capelli biondo chiarissimo pettinati all'indietro, avrei giurato che fosse di origini nordiche.

Rispondo solo dopo aver distolto lo sguardo dai suoi occhi e lo faccio con voce tremante non so se per l'emozione di trovarmi lì, o per l’imbarazzo che quello sguardo penetrante mi creava.<<Perché…. lo chiamate piccolo Superman il mio bimbo? Dottore…>>

<<Oh, mi scusi,>> mi interrompe gentilmente lui << non mi sono presentato, io sono il professore De Cretis. Lo abbiamo chiamato in questo modo, perché è stato cosi forte da superare sia l'intervento, che la fase postoperatoria.>>

Mantenendo il suo fare allegro e sicuro, mi informa che i primi giorni di dicembre potrò tornare in ospedale per rimanere con il bambino che, se tutto continuerà ad andar bene, verrà trasferito presto in reparto.

Ci intratteniamo a lungo con il professore che ci chiarisce punto per punto la situazione attuale rispondendo ad ogni nostra

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curiosità, dissipando per quanto possibile ogni nostro dubbio ed ogni nostra paura, e alla fine ci sentiamo in parte confortati perché da quel colloquio ci rendiamo conto che Stefano non poteva capitare in mani migliori; inutile dire che andiamo via dall’ospedale a malincuore.

Ogni due, tre giorni al massimo andavamo a trovarlo perché ci risultava difficile stargli lontano, io a casa non riuscivo a concentrarmi su niente, a mala pena riesco ad accudire ad Enzo.

Arriva dicembre, ed io comincio a preparare i bagagli per trasferirmi in ospedale dove c’era Stefano che mi aspettava e dove avrei imparato ad alimentarlo e a fare tutto ciò che era necessario per lui; e così di buon mattino ci avviamo ed inconsapevolmente vado incontro a quella che si rivelerà una tragica e disperata avventura.

Ad accoglierci, si fa per dire, un’assistente sociosanitario dai modi sbrigativi, freddi e dallo sguardo arcigno, facciamo la sua conoscenza nel peggiore dei modi iniziando subito un alterco davanti alla porta d’ingresso, da una parte noi che tentiamo di spiegare la nostra presenza lì, fuori dall’orario delle visite, e dall’altra parte lei che non vuole sentire ragioni, quel suo modo di fare mi appariva come l’unica nota stonata di un ambiente che mi era parso assolutamente favorevole.

Giunge in nostro aiuto un medico, la disputa si placa e noi possiamo entrare, soddisfatti per averla avuta vinta.

A farmi sentire subito a mio agio ci pensò Elena, l’infermiera che stava badando a Stefano prima del mio arrivo, di lei, ho in seguito potuto apprezzare la professionalità, l’umanità e la dolcezza del suo carattere.

Appena dentro la camera abbandonai i bagagli per terra per precipitarmi a braccia aperte da Stefano, e subito alle mie spalle si fa sentire la caposala, alla quale danno fastidio le mie valigie lasciate davanti la porta della stanza, a me sembrava più importante

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salutare Stefano che sistemare i bagagli nell’armadietto, ma ognuno di noi ha le proprie priorità, e dopo l’incontro con l’ausiliare arcigna, e con la caposala indisponente, mi sono chiesta: può l’abitudine al dolore altrui cui sono sottoposti giornalmente medici ed infermieri produrre quest’effetto, o è solo una questione di carattere; in seguito conoscendoli un po’ tutti e rendendomi conto di cosa sono stati capaci di fare e di dare in termini di lavoro e di affetto ho potuto fare delle distinzioni, c’è chi non si scompone davanti a niente e c’è chi è capace di commuoversi fino alle lacrime anche quando il dolore altrui costituisce la propria routine perché è solo una questione di cuore e la quasi totalità dei medici e degli infermieri che ho conosciuto in quell’ospedale hanno sempre dimostrato di avere un cuore grande così.

Mentre Elena esce dalla stanza per andare a preparare il latte, io rimango sola con Stefano è la prima volta che succede, ci guardiamo con un po’ di diffidenza, io più di lui e mi rendo conto che non posso trattarlo come un bimbo “normale” ma il guaio è che non so proprio come trattarlo, vorrei prenderlo tra le braccia, ma ho paura a farlo, e questa paura che mi ha preso alla sprovvista si fa strada dentro di me fino a trasformarsi in panico quando torna Elena e mi mostra come fare per dargli la poppata.

Stefano aveva un'apertura che gli era stata praticata nello stomaco, alla quale veniva collegato un tubicino in lattice di gomma chiamato "foley" e, tramite un siringone che si inseriva dentro questo tubicino, si alimentava il bambino.

Cominciai a sudare freddo, mi tremavano le gambe, sentivo che queste non mi reggevano più, dovetti sedermi per non cadere e piansi a dirotto tutte le lacrime che avevo finora trattenuto.

Giuseppe era ritornato a casa ed io mi sentii abbandonata, come se mi avesse voluto scaricare addosso un peso che non potevo assolutamente reggere.

Inutilmente Elena cercò di farmi ragionare, e tornare alla calma,

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ma ormai si erano rotti “gli argini” e non riuscivo più a trattenere la paura ed il disagio, e quindi si vide costretta a chiamare i miei familiari che giunsero solo l’indomani.

Nell’attesa mi resi conto di quanto quella realtà mi aveva sconvolto il mio unico desiderio era di allontanarmi e prendere le distanze da un dolore così forte che non riuscivo assolutamente a contenere e ad accettare.

Quella notte pensai e ripensai ad ogni singolo giorno della gravidanza; da quando mi accorsi di essere in “attesa” fino al giorno del parto, in cerca di un problema, una malattia, una medicina o un trauma che avevo magari sottovalutato e che invece era responsabile del problema di Stefano.

L’unica cosa che mi veniva in mente fu il turbamento iniziale che mi prese quando mi scoprì incinta, Giuseppe ed Enzo fecero dei veri e propri salti di gioia, e nessuno si accorse che l’unica a non essere contenta ero proprio io, ma per una ragione ben precisa, appena un anno prima avevo avuto un aborto spontaneo dove rischiai la vita e da allora l’idea di un’altra gravidanza mi spaventava, ma l’istinto materno si sa, e’ più forte di qualsiasi cosa e prese il sopravvento, e dopo pochi giorni cominciai anch’io a sorridere all’idea di avere nuovamente tra le braccia un altro neonato da dondolare e coccolare.

Il primogenito Enzo era ormai “grande” aveva otto anni, sufficienti per sentire la voglia di un altro fratellino ed ora che era stato accontentato, ne parlava ogni giorno, e mi faceva mille domande ,e cominciava a mettere da parte i soldi che i nonni di tanto in tanto gli davano per comprarsi i gelati o le caramelle per poi potergli fare un bel regalo di benvenuto.

Durante tutto il periodo della gravidanza io continuai a lavorare nell’azienda di famiglia, ero impegnata nella gestione del ristorante all’interno di un residence che comprendeva sala da ballo, piscina, e sala trattenimenti.

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Quando per la prima volta senti muovere Stefano, dentro di me, quei piccoli dubbi che ancora persistevano caddero e mi senti una mamma felice.

Cominciai i preparativi per il corredino, per la sistemazione della stanza e mi sentivo veramente bene ed attiva più che mai, e spesso erano gli altri a ricordarmi di riposare per non stancarmi inutilmente.

Finalmente si fece mattina, e la luce del sole fece sbiadire ogni mio pensiero e quando arrivò mia zia Piera per rimanere con Stefano, io me ne tornai a casa, e a distanza di anni ancora mi vergogno per essere stata tanto codarda.

Forse allontanarmi comunque mi fece bene, perché potei rendermi conto dell’errore che stavo commettendo e questa consapevolezza mi diede forza e grinta, per cui dopo solo due giorni ritornai decisa più che mai ad affrontare qualsiasi cosa per il mio bambino come si conviene ad una mamma degna di questo nome.

Giuseppe aveva assunto nei miei confronti un atteggiamento da genitore che timoroso e consapevole delle incapacità del proprio figlio fa raccomandazioni su raccomandazioni, suscitando in me solo nervosismo, perché mi rendevo conto che una cosa è parlare ed un altro è affrontare fisicamente tutte le difficoltà.

Non capivo e non trovavo giusto dover, in virtù del fatto di essere mamma, obbligatoriamente assumermi tutti i compiti ,provavo una sorta di invidia verso gli uomini che si nascondono dietro le donne siano esse mamme o mogli, tuttavia avevo la consapevolezza di non saper stare lontano da Stefano e quindi non osai ribellarmi e passivamente accettai il ruolo che gli altri mi avevano dato, cioè accudire a Stefano, anche se, né Giuseppe, né i medici, né nessun altro avrebbero scommesso un soldo bucato sulle mie capacità e sulla mia tenuta emotiva.

E fu così che mi ritrovai in una piccola stanza con delle tende

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pesanti alle finestre che non lasciavano filtrare un filo di luce, mi guardai attorno tutto appariva triste mi sentì sbalzata in una realtà surreale e presa da un impulso a scappare aprì la porta e mi affacciai sul corridoio dove altri bimbi in via di guarigione stavano giocando e le loro mamme passeggiavano su e giù chiacchierando e sorridendo.

Io avevo sempre avuto la fobia degli ospedali e delle malattie, per cui sinceramente non capivo come si poteva essere sereni in un posto come questo e mi sentivo come un innocente condannato all’ergastolo che continua a chiedersi incredulo perché.

Per i 23 giorni consecutivi che rimasi in ospedale un po' di coraggio era venuto fuori, ma di grinta neanche a parlarne; non facevo altro che piangere e disperarmi, non avevo voglia di parlare con nessuno mi ero chiusa in me stessa, e mi sentivo il cuore come stretto da una morsa.

I medici si rivolgevano a me chiamandomi la “signora delle lacrime”, ed io mi sentivo stupida, così da un giorno all’altro mi ripromisi di essere forte ,per me ,ma soprattutto per il mio bambino che aveva tanto bisogno di serenità e in questo non era diverso dagli altri.

L’unica persona che in quel momento sentivo veramente vicina era Elena che mi aveva preso a cuore e credendo anche lei che io fossi un caso disperato veniva continuamente a trovarmi per farmi coraggio e tirarmi su di morale.

Dopo circa una settimana una mattina arrivò un nuovo “ospite”, che misero nella stessa stanza di Stefano, mi chiesero di accudirlo perché la sua mamma sottoposta al taglio cesareo non era ancora stata dimessa.

Il piccolo Giampiero, così si chiamava, era stato operato di atresia anorettale, mi presi cura di lui molto volentieri anche perché ormai stavo prendendo dimestichezza con le malattie e con i malati.

I genitori di Giampiero erano dei Catanesi, persone davvero a

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modo che mi fece piacere conoscere, e che spesso ritrovo nei miei ricordi più belli.

La prima sera che la mamma di Giampiero rimase in ospedale mi chiese di aiutarla, e mi confessò le sue paure e il suo smarrimento: erano le stesse che avevo provato io, e sentì per lei una forte solidarietà che non mancai di dimostrarle.

Ci ritrovavamo spesso a parlare di noi, delle nostre famiglie, del nostro lavoro e di mille altre cose come vecchie amiche; mi accorsi presto che lei aveva riposto in me la sua fiducia, mi credeva capace ed io mi sentivo utile e caricata e adesso ero io che incoraggiavo e questo mi servì a ritrovare il mio equilibrio emotivo e psicologico, e le sono intimamente grata per quello che inconsapevolmente riuscì a darmi.

Durante la permanenza in ospedale imparai a dare da mangiare a Stefano tramite il tubicino che aveva collegato allo stomaco , a fare la medicazione ,ed ero riuscita a fare tante altre cose che credevo impossibili per me e questo mi dava tanta serenità nel tornare a casa con il bambino per festeggiare il Natale in famiglia in assoluta normalità, cosa di cui sentivo estremo bisogno; ma la mia gioia fu stemperata dalla tristezza di allontanarmi dalla mia nuova amica e da suo figlio.

Difficile tradurre in parole la felicità che provammo la prima sera che ci siamo ritrovati a dormire tutti e quattro insieme, e poco importa se la passammo insonne per sorvegliare Stefano che chissà per quale strano meccanismo emozionale temevamo di non ritrovare più al nostro risveglio.

Le festività natalizie trascorsero alternando serenità ed ansia per le sue condizioni di salute che cominciarono a preoccuparmi perché d’improvviso più volte al giorno il colore del suo viso diventava rosso scuro come se avesse dalle gravi difficoltà respiratorie ed andava in apnea.

Cominciai a tempestare di telefonate i medici che lo avevano in

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cura i quali cercarono di rassicurarmi, ma io non vedevo l’ora di ritornare in ospedale perché solo lì mi sentivo tranquilla.

Finite tutte le feste rientriamo in ospedale, e durante la visita che il professore fa a Stefano si accorge con stupore misto a rabbia che la cervicostomia si era chiusa, le dilatazioni che dovevano essere fatte giornalmente erano state sospese per via del nostro rientro a casa, per questo il buco da dove drenava la saliva si era stenotizzato col conseguente rischio di soffocamento e per questo motivo il professore andò su tutte le furie, e dal corridoio, dove mi trovavo lo sentì urlare contro i suoi collaboratori.

Provvedono immediatamente a dilatarlo e così ci sentimmo tutti più tranquilli, credendo che le apnee non si sarebbero più verificate.

Una sera dopo aver addormentato Stefano anch’io mi appresto a passare la notte accanto a lui sperando di poter riposare più tranquillamente, ad un tratto sento il solito e strano rumore che faceva il bambino quando si soffocava, ormai questo suono si era fissato nel mio cervello come un ossessione, ed ogni qualvolta si manifestava il cuore mi balzava in gola, apro gli occhi e lo vedo scuro in viso, terrorizzata, mi attacco al campanello suonandolo violentemente e non mi stacco finché non vedo arrivare gli infermieri Giuseppe e Nuccia, che mi tranquillizzano perché nel frattempo tutto era ritornato normale.

Io ormai ero fuori di me dalla paura, poiché questa situazione persisteva da parecchio tempo, senza che nessuno riuscisse a capirne la causa, e soprattutto avrei voluto tanto che qualcuno dei medici fosse presente quando si manifestavano le apnee perché vedendole coi propri occhi forse ci avrebbero capito qualcosa di più, ed insisto affinché informino il medico di turno.

Il dr. Rossello che arriva appena chiamato sostiene, visto il persistere di questo problema, che siano delle crisi di natura neurologica, legato al parto, o un trauma causato dall'intervento.

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<<Di bene in meglio>> dissi, cercando di commentare ironicamente la notizia e mi sentì male, un forte senso di nausea mi prese allo stomaco e corsi in bagno a vomitare.

Liliana era la mamma di una bimba di quattro anni e quella notte mi offrì gentilmente la sua compagnia, <<in due >>, mi aveva detto, <<possiamo controllare meglio Stefano, considerando il fatto che tu stai poco bene, io non me la sento di lasciarti da sola>>

Intanto il dr. Rossello si era sistemato in medicheria, rassicurandomi: <<nel caso dovesse succedere nuovamente non si preoccupi, suoni il campanello che arrivo subito, io sono nella stanza accanto alla sua.>>

Durante la notte il bambino per altre tre volte rischiò di soffocare, e il dr. Rossello, che finalmente aveva potuto costatarne di persona la gravità, preoccupato più di me chiese agli infermieri Giuseppe e Nuccia di rimanere nella stanza fino alla mattina seguente per assistere il bambino durante le crisi.

Nei giorni a seguire cominciano col fare a Stefano tutti gli esami necessari per sottoporlo all'intervento del primo allungamento dell’esofago.

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Il primo allungamentoIl primo allungamento

E' l’11 gennaio 1995, giorno del secondo intervento, che consiste nel primo allungamento dell'esofago.

Di buon mattino il professore manda a chiamare me e Giuseppe per parlarci dell'intervento che dovrà fare a Stefano, e dei rischi a cui andrà incontro.

Un infermiere ci accompagna nel suo studio, ci fa accomodare, ed il professore inizia il suo discorso:<<Signori Scorsi, volevo farvi presente che ci sono due tipi di tecniche che si possono adottare in questo caso; la prima consiste nel metodo tradizionale con il colon-plasto, e consiste nel lasciare il bambino nelle condizioni attuali per un anno, continuare ad alimentarlo per gastrostomia, continuare le dilatazioni e quando il bambino avrà raggiunto l’età, fare l'intervento, e sostituire l’esofago con una parte del colon, ma questo tipo di intervento comporta dei problemi, quali reflusso gastro-esofageo, aderenze intestinali, come è successo ad Ikram, una bambina tunisina di tre anni, attualmente ricoverata.

A lei abbiamo dovuto necessariamente adottare il metodo del colon-plasto perché non si poteva utilizzare il suo stesso esofago in quanto logorato a causa di una sostanza corrosiva che la bambina aveva accidentalmente ingerito.

Infatti, ad una settimana dall'intervento, è stata rioperata urgentemente per via di un blocco intestinale causato dalle aderenze formatesi.

Il metodo che voglio adottare oggi per Stefano è l'allungamento secondo Kimura, si tratta di una nuova tecnica scientificamente

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approvata ed adottata sia in Italia che in altri paesi, e consiste nell'allungare il proprio esofago e fissarlo sottocute sopra lo sterno, con altri successivi interventi, suppongo tre al massimo, e man mano che l'esofago va cedendo in lunghezza, noi lo andiamo spostando verso il basso fino a quando raggiunge la parte dell'esofago che è legato allo stomaco.>> Dopo aver ascoltato il discorso del professore, rientriamo in reparto contenti e soddisfatti per la scelta del metodo che, anche a noi pare la migliore; ad attenderci in medicheria gli anestesisti, Ferreri e Sciarra con l’autorizzazione per l’intervento da firmare, ora che tutto è stato chiarito e le formalità di rito espletate, Stefano è pronto per il primo allungamento; il tempo di abbracciarlo e lo portano in sala operatoria.

Per la seconda volta ci troviamo a rivivere una estenuante attesa fatta di quattro interminabili ore, di non so quante sigarette, di molte preghiere rivolte a Dio, di tantissima speranza, di lunghi respiri, e di sguardi impauriti tra me e Giuseppe.

Impossibile, in quei momenti, trattenere i pensieri, le immagini e i ricordi belli e brutti che si alternavano nella mia mente a ritmo veloce fino ad accavallarsi e confondersi tra di loro, ed impossibile era anche sottrarsi alla tristezza di quell’attesa.

Quando il professore esce dalla sala operatoria ci spiega che l'intervento è andato meglio delle nostre aspettative, l'esofago è stato allungato di due cm, felice dell'evento io gli chiedo: <<se alla nascita al bambino mancavano quattro cm. di esofago e adesso è stato allungato di due cm, questo può voler dire che al prossimo intervento il problema sarà risolto?>>

Il professore fa un cenno di approvazione con il capo, poi mi guarda sorridente e mi dice di non correre, con la fantasia, verso il futuro e di pensare al presente, dette queste , quasi profetiche parole, rientra in sala operatoria.

lo ero al settimo cielo per la gioia, e continuavo a ripetere

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:<<Giò, ti rendi conto che con due interventi il bambino riavrà il proprio esofago e finiranno tutti i problemi?>>

<<Si, lo capisco>> risponde lui, non mostrando il mio stesso entusiasmo, rimanendo con lo sguardo incollato alla porta della sala operatoria fremendo dall'ansia perché ancora nessuno dei medici usciva e questo stava a significare che l’intervento non era ancora del tutto finito.

A differenza di Giuseppe, il quale sembrava stare sulle spine, io ero tranquilla per la bella notizia che ci aveva dato il professore poco prima, per cui l'attesa non mi pesava più di tanto; tra un discorso ed un altro trascorsero altre due ore, e sinceramente anch’io cominciavo a non capire il motivo di quel ritardo.

Finalmente la porta a vetri si apre, ho un sussulto, il cuore mi balza in gola, perché intuisco immediatamente dal viso teso e preoccupato oltre che comprensibilmente stanco della d.ssa Ferreri, che qualcosa di imprevedibile doveva essere successo.

La seguiamo in medicheria, visibile è la sua difficoltà ad iniziare il discorso, che fa con un filo di voce tanto che riusciamo a sentirla a stento, cominciano a tremarmi le gambe, anche perché ad uno ad uno entrano nella stanza tutti i medici che hanno partecipato all’operazione, compreso il professore che ci spiega il procedimento dell'intervento ed i problemi che hanno riscontrato: <<Come vi avevo spiegato prima, l'intervento consisteva nell'allungare l'esofago, una volta stirato, questo è stato fissato circa due cm, sotto la regione mammaria destra dove è stata praticata appositamente un'apertura denominata esofagocervicostomia, siccome dietro l'esofago si trova la trachea , nel fare il lavoro questa è stata compressa per cui il bambino adesso ha delle difficoltà nella respirazione ed è per questo motivo che abbiamo deciso di intubarlo, in modo che la trachea, con il tubo inserito rimanga rigida permettendo il passaggio dell'aria ai polmoni.

Abbiamo deciso con gli anestesisti,- continua a spiegare il

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professore - di tenerlo intubato per tre giorni, nella speranza che reagisca bene, in caso contrario, l'unica alternativa sarebbe rifare l'intervento, cioè staccare l'esofago da dove è stato fissato e riportarlo allo stato originario, purtroppo c'è da considerare che un intervento imminente nelle condizioni in cui si trova adesso il bambino non può essere affrontato, se non con troppi rischi, per cui l'unica cosa che ci rimane da fare è aspettare e pregare per il bambino che riesca a superare questa fase ed una volta estubato, sperare che la trachea rimanga rigida.>> Mi accorsi che non riuscivo più a seguire quello che dicevano, mi sentì morire non potevo credere a quelle parole, e con lo sguardo perso nel vuoto riuscii solo a dire: <<Perché?, Perché? Signore perché?>> e come in trance uscii dalla stanza, non volevo sentire altro, avevo bisogno di stare un po' da sola per cercare di capire cosa stesse succedendo e raccogliere le forze per andare avanti ed affrontare quest’ulteriore problema.

Giuseppe rimase ancora un po' con i medici che continuavano a dargli spiegazioni, e quando mi raggiunse , era sconvolto, pallido, e negli occhi aveva tanta rabbia, ci abbracciammo per darci forza e coraggio e rimanemmo così, a lungo, nel silenzio della stanza senza che nessuno trovò il coraggio di venire da noi.

Stefano dormiva per l'effetto dell'anestesia, aveva il visino pallido ed aveva inserito il tubo del respiratore automatico nel nasino, e nel vederlo in quello stato aumentò il nostro senso di inutilità e ci rendemmo conto che l’unica cosa da fare per tutti era aspettare e sperare. Trascorrevo, quando mi era permesso dai medici, il più tempo possibile in terapia intensiva. Una mattina dopo aver lavato e cambiato il pigiamino a Stefano, mi ero seduta accanto a lui a coccolarlo, lo accarezzavo e lo guardavo con gli occhi colmi di lacrime mentre mille pensieri mi assalivano e si accavallavano nella mia mente, nonostante gli sforzi che facevo per non fare trasparire la mia tristezza e la mia preoccupazione per lo stato in

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cui si trovava, ad un tratto una voce gentile alle mie spalle mi distoglie dai miei pensieri: <<Buon giorno signora>> mi volto a guardare, è il dr. Moschino ed accanto a lui il dr. Garofly che mi sorride affettuosamente e gentile e premuroso come al solito, mi dice, guardandomi dritto negli occhi e comprendendo il mio stato d’animo: <<è inutile che le chiedo come sta’, la vedo preoccupata e comprendo perfettamente il motivo, abbi fede>> mi disse battendomi affettuosamente la mano sulla spalla. <<Di fede ne ho abbastanza>> rispondo io, <<il coraggio e la forza sono le due cose che mi lasciano a desiderare nell’affrontare quest’arduo e lungo cammino. Mai e poi mai avrei potuto immaginare che la mia vita sarebbe stata sconvolta da un tale evento……..A volte diamo tutto per scontato…….>>Ad un tratto il dr. Moschino che stava silenziosamente ad ascoltare mi interrompe, con la voce incrinata dall’emozione e mi dice: <<Sono convinto che suo figlio è un bambino abbastanza forte e non lo dico per farle coraggio ma perché è quello che ha dimostrato prima, e quindi supererà questo momento tranquillamente, e le chiedo, per quanto difficile possa essere, di stare calma e serena pure lei, se i problemi si affrontano con una certa serenità tutto sembra più semplice.>>

Quelle parole mi servirono in futuro e mi ritornarono spesso in mente nelle circostanze più disperate, e sono grata al dr. .Moschino ed al dr. Garoflay per il loro slancio emotivo ed il loro supporto morale.

Il dr. Garofly ed il dr .Moschino essendo i medici più giovani del reparto e essendo “gettonieri” cioè, non di ruolo, erano quasi sempre a disposizione dei genitori e dedicavano molto tempo ai pazienti ed ognuno poteva esprimere con loro liberamente le proprie ansie e preoccupazioni, senza che loro facessero trasparire alcun segno di premura o di ansietà per il tempo che gli veniva per così dire rubato, perché presi anche da altri doveri; con loro tutto ciò non accadeva. Per questo i genitori li adoravano erano sempre

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disponibili, sempre pronti ad ascoltare con pazienza ed interesse tutto ciò che avevamo da dire, veniva spontaneo con loro esternare i problemi , le ansie le preoccupazione che avevamo riguardante la salute dei nostri piccoli, perché comprendevano e mai si sono permessi come qualcuno faceva di dire<< Signora sta esagerando, oppure non è niente>>, loro ascoltavano e poi con molto garbo, gentilezza e comprensione, esprimevano la loro opinione. Erano un punto di riferimento per i genitori ed un appoggio morale.

E non si limitavano a questo. L’importanza della loro presenza andava oltre, tutto quello che i genitori raccontavano a loro, loro lo facevano presente al primario, e perciò il professore era sempre al corrente di tutti i problemi e di tutte le novità che giornalmente si manifestavano in reparto.

Ogni mattina puntualmente alle ore otto, si presentavano in reparto, e quando entravano portavano con la loro allegria, vivacità e simpatia un ondata di benessere in reparto. Erano sempre inseparabili, tanto che i loro colleghi li chiamavano Stasky ed Hurch come quel telefilm dei due poliziotti inseparabili.

Trascorsero i tre giorni, e la d.ssa Ferreri provò ad estubarlo, ma purtroppo Stefano non reagì bene e dovettero intubarlo nuovamente, perché solo così, il bambino riusciva a respirare bene, e decisero di proseguire per altri quindici giorni, sperando che la trachea rafforzandosi, assumesse la forma del tubo, e poter quindi escludere l'eventualità di un altro intervento.

Il giorno seguente dovevano esserci dei ricoveri in reparto e mi chiesero di lasciare la stanza perché non avevano dove sistemare i nuovi arrivati e visto che Stefano doveva rimanere per almeno due settimane in terapia intensiva decidiamo di andare in albergo in modo da poter essere in ospedale per l'ora delle visite, e stargli vicino per quel po’ che ci era consentito.

Il giorno che gli anestesisti estubarono Stefano, ci raggiunse mia sorella Lina, che come sempre, me la trovavo vicina nei momenti

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più difficili, e come noi, anche lei sentiva a pieno la tragicità del momento, tanto da scoppiare a piangere per prima quando la d.ssa Modena ci comunica che il bambino è stato estubato ed ha reagito bene.

Dopo tre giorni riportano Stefano in reparto.Il dr. Rossello, che sosteneva che le crisi di apnea fossero causate

da problemi neurologici, fece venire uno specialista, che lo visitò, accuratamente prima di escludere quello che effettivamente poteva sembrare; secondo il suo parere la causa di quelle crisi respiratorie erano da ricercare altrove.

Mi sentì sollevata nell’apprendere che non c’erano problemi di quel tipo, ed anche se non si era scoperta la causa, delle apnee, il fatto che il bambino neurologicamente non presentasse nessuna anomalia, mi sembrava davvero una bella notizia, e ringraziai il Dio per aver aiutato ancora una volta Stefano.

A causa dei tanti problemi causati dal primo intervento il professore ritenne opportuno far trascorre un lasso di tempo sufficiente prima di affrontare la seconda operazione, e così passarono lenti altri cinque mesi, duranti i quali ci siamo illusi che con l’intervento successivo programmato per il 9 giugno 1994 sarebbe finito il calvario di Stefano, ma non fu così.

Non si era preso in considerazione il fatto che il bambino “doveva” crescere, e lui cresceva molto bene; per cui la distanza tra i due monconi, quello che gli avevano allungato e quello legato allo stomaco andava aumentando motivo per cui Stefano ha subìto cinque interventi di allungamento dell’esofago prima di arrivare a quello definitivo cioè “l’anastomosi” .

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Con la speranza nel cuoreCon la speranza nel cuore

Nonostante le complicazioni si succedevano una dopo l’altra, e i medici non davano più speranze, io mantenevo un atteggiamento di relativa tranquillità, avevo fiducia in Dio e nei medici, ed era convinta che insieme lo avrebbero salvato.

Trascorsero tre giorni, da quando ci dissero che Stefano non avrebbe superato la notte, e invece pur rimanendo sempre nelle stesse condizioni, era ancora vivo.

Io e Giuseppe trascorrevamo le notti tra la terapia intensiva ed il balcone, di tanto in tanto chiedevamo notizie ai medici, e questi scuotendo la testa ci dicevano: “La situazione è stazionaria”.

Una mattina, la d.ssa Ferreri mi avvisò che dovevano fare una TAC e per far questo bisognava trasportarlo in un altro ospedale e quindi, staccarlo dal respiratore automatico: il rischio era alto, ma questo esame risultava indispensabile per sapere la reale situazione del bambino, individuare la causa di questa ulteriore complicazione, e cercare di intervenire in tempo per combatterla con il farmaco adeguato.

Ascoltai il discorso della d.ssa con il cuore pieno di speranza, anche se c’erano problemi non indifferenti per il trasporto, io, mi convinsi che ce l’avrebbero fatta.

Telefonai a Giuseppe che si trovava a Rivera dove era dovuto andare per risolvere dei problemi di lavoro che erano sorti tra mio padre e mio zio, e siccome anche Giuseppe lavorava nella nostra

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azienda, spesso si trovava in mezzo a diatribe familiari che sorgevano a causa di interessi comuni.

Non avevo capito bene di cosa si trattasse perché non avevo prestato attenzione al discorso che Giuseppe mi aveva fatto, ero totalmente presa dai problemi di mio figlio che in quel momento avevano la priorità assoluta su tutto, sulla mia stessa vita, di tutto il resto non me ne importava nulla, potevano sopravvenire problemi di lavoro, potevamo perdere tutti i nostri beni materiali, la cosa non mi toccava più di tanto.

L’indomani mattina alle otto, puntuale come al solito Giuseppe fu in ospedale, con lui anche mio padre, mia madre, mia zia Caterina e mia sorella Lina, nessuno di loro avrebbe rinunciato a starci vicino e a sostenerci nell’affrontare questo ulteriore patema d’animo.

Quel giorno in reparto si respirava un’aria pesante, carica di tensione e di nervosismo, perché gli anestesisti avrebbero dovuto staccare Stefano dal respiratore automatico, Suor Clara entrava e usciva dalla terapia intensiva, con gli occhi pieni di lacrime, i medici evitavano il mio sguardo, io mi rendevo perfettamente conto della gravità del momento eppure nel mio cuore c’era posto per tanta speranza, il fatto di non riuscire ad immaginarmi guai peggiori mi dava quella calma che invece tutti dimostravano di non avere, mi rendevo assolutamente conto che la vita di Stefano era legata ad un filo sottilissimo pronto a spezzarsi, ma ero anche consapevole di essere io l’elemento trainante del gruppo, ero io a dare la carica giusta a tutti e ad infondere coraggio e quindi, sentendo sulle mie spalle questa responsabilità, sapevo di non potermi assolutamente abbattere o sarebbe stata la fine per Stefano, per me e per tutta la mia famiglia.

Se avessi potuto far scorrere il tempo più velocemente possibile lo avrei fatto, per far finire tutto al più presto, ed invece, è proprio in questi casi, che il tempo sembra dispettosamente rallentare il suo incedere fino allo spasimo.

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I miei familiari rimasero giù nella saletta d’attesa, l’infermiera aveva fatto entrare in reparto solo Giuseppe, che era stato ricevuto dalla d.ssa Ferreri e dal dr. Sciarra , i quali lo informarono dei grossi rischi che il bambino avrebbe dovuto affrontare per andare a fare la TAC.

Per affrontare nel migliore dei modi questo trasporto, avevano dato inizio ai preparativi sin dal giorno precedente, avevano chiesto un’ambulanza attrezzata in modo adeguato alla necessità, ma dagli altri ospedali ne erano arrivate tre, una peggiore dell’altra e senza attrezzature per la rianimazione.

Erano le ore undici, di quel fatidico giorno, tutto era pronto, ed ancora si aspettava un’ambulanza che fosse all’altezza della situazione, e dopo un’ora d’attesa finalmente ne arriva un’altra, ma si accorgono subito che neanche questa è adatta, e considerando la gravità e l’urgenza della situazione, i medici decisero di non perdere altro tempo perché capirono che, se dopo quattro richieste, non riuscivano ad ottenere quello di cui si aveva bisogno inutile attendere ancora.

Animati di tanta forza e coraggio e facendo affidamento soltanto sulle loro capacità prepararono il bambino, e trattenendo il fiato, lo staccarono dal respiratore e subito la d.ssa Ferreri iniziò la ventilazione manuale.

Uscirono di volata dalla terapia intensiva con Stefano in barella, tutti i medici gli infermieri, i bimbi ricoverati e le loro mamme si riversarono sul corridoio e al suo passaggio molti, nascosero il viso per celare la loro commozione.

Si infilarono di corsa in ascensore, e scendono giù fino al pianterreno dove ci sono gli ambulatori, uscirono fuori dove ad attenderli un altro nugolo di medici e infermieri che vogliono vedere e salutare Stefano forse per l’ultima volta.

Stefano sempre accompagnato dalla d.ssa Ferreri, dal dr.Patti e da un’infermiera venne messo sull’ambulanza, e all’autista gli fu

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detto di correre il più veloce possibile. Giuseppe, io e mia zia Caterina con la macchina li seguimmo,

mentre a sirene spiegate sfrecciavano per le vie della città attraversandola in parte.

Finalmente arrivammo, il primo a scendere dall’ambulanza fu il dr. Patti che ci tranquillizzò, scese anche l’infermiera e poi Stefano con la d.ssa Ferreri incollata a lui, che continuava a ventilarlo.

Guardai Stefano da lontano, e già mi sentì meglio, perché io avevo bisogno, per tenere a bada la mia ansia, di averlo sempre sotto gli occhi e lo seguì, con lo sguardo, finché non sparì dietro una porta.

Noi rimanemmo fuori, da lontano vidi sopraggiungere la macchina di mio padre che incapace di aspettare per avere notizie ci aveva raggiunto.

Dopo una lunga attesa vedo il dr. Patti gli andiamo incontro e lui con modi garbati ci respinge dicendoci che avremmo tutte le notizie con calma al nostro rientro e che la situazione è comunque sempre sotto controllo.

Poco dopo uscì la d.ssa Ferreri con il bambino e l’infermiera, rientrarono tutti in ambulanza e ci avviammo più veloci di prima verso il “nostro” ospedale.

All’arrivo, ritroviamo tutti, sia il personale che i miei familiari ad aspettarci fuori, lì dove li avevamo lasciati.

Stefano era molto amato sia dal personale paramedico che dagli stessi medici, che lo hanno conosciuto ancor prima di me, in un anno e mezzo ha trascorso più tempo con loro che con la mia famiglia, gli hanno insegnato a parlare, si divertivano ad insegnargli le parolacce e per questo spesso suor Clara, borbottava e li richiamava e con il dr. Rossello che era ritenuto da lei il responsabile del tipo di linguaggio adottato da Stefano intavolava discussioni che sfociavano spesso in scherzose liti.

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Stefano era in ospedale quando ha incominciato a dare i primi passi, a dire le prime parole a fare i primi sorrisi, hanno gioito insieme a me quando ha imparato a fare ciao con la manina, e lo hanno sempre considerato un po’ anche figlio loro.

Anche Giuseppe ed io, ci sentivamo come in famiglia, mi sentivo tranquilla e protetta tra quelle persone e tra quelle mura, tanto da desiderare di tornarci al più presto quando mi trovavo a casa con i problemi di Stefano, per brevi periodi.

Anche Giuseppe pur non vivendo in ospedale come me, avvertiva quest’ondata di calore che tutti quanti emanavano, ed era chiaro che svolgevano il loro lavoro con passione e amore.

Intanto avevano sistemato Stefano in terapia intensiva, e dopo averlo riattaccato al respiratore automatico riprendemmo tutti a respirare liberamente.

Quando rividi il dr. Patti, gli chiesi di darmi notizie riguardanti i risultati della TAC, e con evidente volontà a non affrontare il discorso, almeno non subito e non da solo mi disse che il referto lo avrebbero avuto l’indomani, ma io replicai dicendogli che non mi interessava il referto firmato dal primario, volevo sapere quello che hanno visto loro, e subito il suo volto si rattrista, e mi dice che i polmoni del bambino sono stati compromessi da un’infezione causata dal versamento della mediastinite, e conclude il discorso dicendo <<mi dispiace signora Scorsi, ma non ci sono speranze, siamo tutti addolorati, perché vogliamo bene a Stefano che è cresciuto con noi>>.

Provai un senso di colpa infinito per aver insistito con il professore per accelerare i tempi di questa operazione, che se fosse avvenuta in un altro momento, magari in seguito, questo dramma il mio bambino forse non l’avrebbe vissuto, e lo dissi parlando a cuore aperto con il dr. Patti che mi rassicurò come meglio non poteva dicendomi che la decisione di operare il bambino non era stata presa a causa delle mie pressioni, ma perché

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loro avevano ritenuto opportuno, intervenire in quel giorno. << Quindi>>, continuò <<non si crei colpe che lei assolutamente

non ha, in quanto ai problemi post-operatori, sono cose che in qualsiasi momento ed in qualsiasi paziente possono accadere; sfortunatamente è successo a Stefano.>>

<<Lei ha detto che non ci sono speranze per il mio bambino, io questo non lo credo affatto, dall’ultima volta che mi è stato riferito che Stefano non avrebbe superato la notte, sono passati diversi giorni e grazie a Dio è ancora qua, con tutta la sua forza di volontà e la sua forza interiore per continuare a lottare.

Lo avete staccato dal respiratore, ed ha rischiato la vita, eppure ha superato anche questo momento, non toglietemi adesso……la speranza…io, non cerco di sfuggire la realtà creandomi false illusioni, se è questo che pensate, vi sbagliate, l’amore per il mio bambino e la fede in Dio sono le uniche verità in cui credo, e non posso assolutamente accettare una così crudele realtà abbandonandomi ad essa, senza lottare, se questo accadesse, sarebbe la fine. Finché il mio Stefano ha un alito di respiro, per me c’è sempre la speranza che possa salvarsi, e io, non posso e non voglio assolutamente perdere questa speranza.>>

Il dr.Patti dopo essere rimasto per qualche istante in silenzio, si avvicinò a me, e posandomi affettuosamente una mano sulla spalla mi disse: <<ha assolutamente ragione, al suo posto, anch’io sicuramente, avrei reagito come lei, trovo giusto il suo diritto a sperare, anche se gli esami dimostrano l’opposto, ma noi abbiamo il dovere di metterla di fronte alla realtà.>>

<<Lo capisco>> rispondo io, <<e mi rendo conto perfettamente della situazione reale del bambino, quello di cui voi non vi rendete conto è che io non posso farmi trasportare dall’angoscia, dalla disperazione e dalla paura in ogni momento della giornata, altrimenti impazzirei. La mia, è una lotta continua con la paura, l’angoscia e la disperazione, ho dei momenti di panico, di

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disperazione in cui piango, momenti in cui mi trovo da sola e mi lascio andare, e mi sento morire, nel pensare che il mio bambino si trova in terapia intensiva inerte, immobile costretto a dormire e non si sa come andrà a finire, ma fortunatamente questi momenti durano poco, trovo subito la forza di reagire e di farmi coraggio, per essere di aiuto a mio figlio, perché ogni volta che entro in terapia intensiva e mi siedo accanto a lui, sento il dovere di mostrarmi con l’animo sereno e tranquillo e trovo la forza di cantargli le sue canzoncine preferite, gli parlo con serenità, e anche se lui dorme in continuazione so che percepisce il mio stato d’animo, e in più, credo proprio di avere anche il diritto di contare sulla provvidenza divina, che come ha aiutato me a darmi la forza di lottare, credo che altrettanto farà con il mio bambino: gli darà la forza di superare questo drammatico momento.>>

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Ultima chanceUltima chance

Venuti a conoscenza del problema, che affliggeva i polmoni di Stefano, le d.sse Ferreri, Modena e Marsiglione riunite in consulto studiarono la terapia da iniziare; e decisero di somministrargli un antibiotico molto forte: il Fungizone che è un potente antifugino, però questo farmaco aveva delle controindicazioni pesanti, e questa terapia era da considerarsi, in questo caso, come un arma a doppio taglio: se il bambino fosse riuscito a sopportarla, si sarebbe potuto salvare, però c’era il rischio elevato, che la stessa terapia lo potesse uccidere, ed ancora una volta si trovarono di fronte ad una scelta molto difficile, alla fine di una serie di perplessità decisero di tentare comunque pur di dargli una, seppur remota, possibilità di salvezza.

Io ormai mi ero “trasferita” permanentemente in terapia intensiva, e mi ero fatta una cultura nel campo della rianimazione, conoscevo tutti i monitor, riuscivo a capire dai dati del respiratore automatico quando c’era un lieve miglioramento; tanto che, il dr. Sciarra, quando veniva a dare il cambio del turno alle sue colleghe, scherzosamente chiedeva a me le consegne.

Il dr. Sciarra, col suo carattere allegro e scherzoso risultava molto simpatico, era spesso impegnato a tirarmi su di morale, raccontando storie divertenti, facendo battute spiritose su tutto e il massimo della simpatia lo raggiungeva quando commentava fatti che accadevano a volte nello stesso reparto, in modo tanto spiritoso da riuscire veramente a farmi ridere, era capace di creare attorno a sé sempre un atmosfera distesa e allegra.

Nel frattempo, nel reparto non avevano più accettato ricoveri, perché gli anestesisti si alternavano giorno e notte per assistere

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Stefano, e tutti erano stremati dalla stanchezza sia fisica che psicologica, anche perché questa situazione di pericolo e di allarme durava ormai da diversi giorni.

La d.ssa Ferreri, al limite delle sue forze, un giorno rischiò il collasso dentro la vasca da bagno, senza riuscire a dare l’allarme tanto che credette di morire, ma siccome era anche una donna di spirito riuscì, l’indomani a raccontarci l’accaduto come se avesse vissuto una situazione comica tanto da farci sorridere, lei per prima, per una cosa assolutamente seria.

La d.ssa Modena, oltre a fare l’anestesista in ospedale, si occupava anche di agopuntura orientale, lei aveva addirittura cancellato tutti gli appuntamenti con i suoi pazienti privati, perché troppo stanca, tanto da non potersi occupare seriamente di questa sua attività, ed avendo messo al corrente della malattia di Stefano, i suoi pazienti, questi, ogni qualvolta volta le telefonavano per rinnovare l’appuntamento, le chiedevano notizie in merito.

Ho sempre pensato che la d.ssa Modena fosse una persona speciale, di una dolcezza unica ed una nobiltà d’animo indescrivibile.

La d.ssa Marsiglione, molto preparata professionalmente, era dotata di una grande carica umanitaria che la rendeva speciale.

Sono passati tre giorni da quando hanno iniziato la terapia con il fungizone. Stefano sembra reagire bene, nel senso che il farmaco non gli provoca effetti collaterali, anche se non è ancora evidente nessun segno di miglioramento.

Intanto, oltre alla scienza, ci eravamo affidati sia io, che gli infermieri, alla provvidenza di Dio: Nino M. che era rientrato da pochi giorni da Lourdes aveva portato dell’acqua benedetta, con la quale io, Elena e Francesca avevamo bagnato il bambino, Giuseppe S., aveva portato l’immagine di Padre Pio, Rosalia l’abitino di San Domenico Savio, e così tante altre persone, sulle prime un po’ timidamente o poi via via sempre più apertamente continuavano a

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portare immagini sacre di santi di ogni genere, e il lettino di Stefano nel giro di pochi giorni era diventato un vero e proprio santuario.

Anche il dr. Sciarra, un giorno portò una medaglietta raffigurante la madonnina di Lourdes, che lui stesso volle mettere addosso a Stefano, e dell’acqua benedetta.

Durante una delle tante notti trascorse in terapia intensiva, mi accorsi che il viso di Stefano era diventato gonfio fino a sembrare deforme, terrorizzata chiesi il perché al dr. Rossello , di turno quella notte e mentre mi tranquillizza, si confida dicendomi: <<Io ho la sensazione “epidermica”, la quale non mi tradisce mai, che Stefano c’è la farà.>>

Stupita, ma più che altro confortata, vado a riposare in camera.Il dr. Rossello è un vero amico, una persona su cui poter contare,

sempre disponibile nei momenti di bisogno, e per i bambini è stato capace di sostenere

lotte infinite, affinché loro possano avere il meglio e non vedano mai calpestati i loro diritti.

E’ trascorsa più di una settimana da quando hanno iniziato la terapia con il fungizone, il bambino non ha più l’ipertensione, né la tachicardia, dall’analisi dell’emogas si nota un lieve miglioramento per quanto riguarda l’ossigenazione del sangue,. sono delle piccole cose che fanno ben sperare.

Stefano era sempre intubato e attaccato al respiratore automatico, e lo tenevano per ovvi motivi, continuamente sedato e non era affatto fuori pericolo.

Giuseppe, che era rimasto a Palermo, una mattina venne da me, deciso a farmi uscire e andare un po’ in giro per la città, nel vano tentativo di farmi svagare, così come anche Claudia, mamma di Noemi, una bambina che era stata ricoverata, mi telefonava spesso, sia per avere notizie di Stefano, sia per invitarmi ad uscire con lei, ma io ero sorda ad ogni sollecitazione che mi giungeva anche da

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parta dei medici i quali addirittura mi consigliavano di andare a casa per qualche giorni per riposare e per stare con Enzo, ma niente e nessuno in quel periodo poteva distogliermi e allontanarmi dal mio bambino.

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Enzo: il figlio “abbandonato”Enzo: il figlio “abbandonato”

<<Enzo…>> pensavo, <<chissà come sta.>> Era da circa una settimana che non lo vedevo, ci sentivamo telefonicamente, ma in questo modo risultava molto difficile, se non impossibile fare la mamma , infatti io avevo, sospeso la mia “attività” di genitrice, nei confronti di Enzo, delegando tutto ai nonni paterni, che cercavano di compensare al meglio alle mie mancanze.

Per Enzo sono stata, decisamente una mamma diversa da quella che sono stata per Stefano, col quale non riuscivo minimamente ad imporre la mia autorità, e a dirgli di no, se mi avesse chiesto la luna sarei salita su nel cielo per prendergliela questo però non mi impediva di dargli una certa educazione per quanto le circostanze lo rendevano possibile.

Con Enzo ho vissuto per i primi nove anni un rapporto esclusivo essendo figlio unico, era anche il primo nipote per cui era molto coccolato da i nonni e dagli zii poi, bruscamente con la nascita di Stefano, questo rapporto si è traumaticamente interrotto provocando, in lui effetti prevedibili come l’aumento dell’aggressività, eccessivo nervosismo e tanta tristezza, e io mi sentivo incapace a placare questa sua intima sofferenza, anche perché tutte le mie energie erano rivolte in un’unica direzione.

Egli aveva di fondo un carattere mite ed affettuoso, mi ricordo che quando io avevo il pancione, lui sentendosi grande si metteva il mio grembiule e insisteva per aiutarmi nelle faccende domestiche, lo assecondavo con piacere, perché mi divertiva vederlo trafficare

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per casa o stare sulla sedia davanti al lavabo mentre tentava di lavare le stoviglie, riuscendo solo a fare tanta di quella schiuma, e la sera quando rientrava Giuseppe lui, fiero per aver aiutato la mamma glielo raccontava con orgoglio.

Anche Enzo ebbe da piccolo dei problemi di salute, a causa del piloro spasmo.

Vomitava di continuo il latte che gli davo; ed io feci il giro di tutti i pediatri della Sicilia, perché non mi fidavo di quello che mi dicevano, temevo che fosse qualcosa di grave, anche perché cresceva pochissimo.

Certo nulla in confronto a quello che ebbe Stefano, ma per me fu il massimo del dispiacere, per non parlare poi di quando fu operato di ernia inguinale, la cosa venne vissuta da me e di conseguenza anche da Enzo come una tragedia bella e buona, il risultato fu che Enzo si attaccò a me in modo morboso tanto da non voler più tornare all’asilo, e ci volle più di un mese per riportare tutto alla normalità.

Durante il periodo estivo, ci trasferivamo al mare perché iniziata la stagione noi aprivamo il parco con piscina e lì Enzo si divertiva come un matto, e aveva l’opportunità di fare tante nuove amicizie.

Con la nascita di Stefano la nostra vita cambiò totalmente ma quel che era peggio è che non riuscivamo a trasmettergli serenità e tutto questo creava molto sconforto in lui, anche se per telefono era lui stesso a tranquillizzarmi dicendomi che stava bene, ma io capivo che non era così, capivo che, un po’ spinto dai nonni, un po’ per la sua maturità tendeva a nascondermi i suoi problemi di bimbo costretto a stare lontano dalla famiglia, anche se ne conosceva perfettamente i motivi.

Pesava su di lui il pensiero costante di questo tanto desiderato fratellino che stava male, e che sapeva spesso in gravi condizioni di salute.

Avevo, l’amara consapevolezza che lo stavo trascurando, ed

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ancor di più sapevo che per quanto in seguito mi sarei potuta sforzare per recuperare, molto del nostro rapporto sarebbe andato irrimediabilmente perduto.

Mi stavo perdendo la cosa più bella: vederlo crescere, e questa cosa mi fa soffrire ancora adesso, più di allora.

Pensavo spesso a tutto ciò ma, sinceramente non sapevo come fare per ovviare visto che materialmente non potevo allontanarmi da Stefano anche perché ormai ero l’unica che sapeva accudirlo.

Nei momenti peggiori, quando tutto andava storto, arrivavo persino a dimenticarmi di lui, spesso erano i medici a chiedermi di Enzo, ed io rispondevo: <<Ah…si…Enzo, sta bene.>>

Stavamo assieme solo quando avevamo quei pochi giorni di permesso dall’ospedale e, anche allora c’era sempre Stefano presente, al quale dedicavo tutta la mia attenzione, e le sue esigenze passavano sempre in secondo piano.

Ogni volta che partivamo per Palermo, mi chiedeva: <<mamma, quanto tempo rimanete questa volta?>> Questa domanda mi inquietava perché non sapevo cosa rispondere, essendo la situazione di Stefano imprevedibile, infatti a volte andavamo in ospedale per una semplice dilatazione ed andava a finire che restavamo per oltre un mese, e per questo spesso mi trovavo a fare promesse che poi non mantenevo, soprattutto quando gli dicevo: <<Si, gioia mia, spero proprio che al massimo tra una settimana saremo a casa.>>

In quel periodo, volevo stare soltanto accanto a Stefano e, cercare di cogliere quanto più possibile, le piccole note positive del suo miglioramento e il pensiero per qualsiasi altra persona fosse anche l’altro mio figlio, mi dava la sensazione di distrarmi e di perdere la concentrazione.

Io, Giuseppe ed Enzo per parecchi anni avevamo vissuto quasi in simbiosi, trascorrendo una vita assolutamente normale e per questo serena e felice, e adesso lo smembramento a cui i nostri affetti

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erano stati sottoposti aveva fatto soffrire tutti, ed Enzo, che era il più debole perché piccolo aveva naturalmente pagato lo scotto maggiore, mi accorsi, col passar degli anni, che il mio atteggiamento nei suoi confronti cambiò drasticamente perché, mi resi conto che inconsciamente volevo farmi perdonare per quella mia, anche se non voluta, assenza.

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La forza della fedeLa forza della fede

Giuseppe di tanto in tanto ritornava alla carica per convincermi a farmi uscire dall’ospedale anche se per poche ore; un giorno accettai, ma ad una condizione, volevo che mi portasse in giro a fare delle compere.

<< Va bene, vada per le compere>>, disse felice per esserci riuscito e di poter stare un po’ con me, magari facendo finta di dimenticare tutti i problemi.

Ci avviammo verso il centro di Palermo, e come non succedeva da tempo, camminammo a piedi per le vie affollate e Giuseppe stringendomi amorevolmente le spalle con le braccia mi chiese in quale negozio volevo entrare.

<<Voglio andare a comperare dei vestitini estivi per Stefano, perché il bambino quando uscirà dalla terapia intensiva non ha niente da indossare. Siamo entrati in ospedale che era appena primavera, adesso c’è un caldo bestiale, ed il bambino non ha niente di estivo.>>

<<Comprati qualcosa per te>>, mi rispose staccandosi da me <<al bambino, se si riprenderà, dopo glieli compriamo.>>

Quel “se” non mi piacque affatto, mi diede la certezza che lui intimamente non credeva nella ripresa del bambino, ci sperava tantissimo, ma non ci credeva, avrei voluto urlargli che chi non crede non può avere il diritto di sperare, sarei voluta tornare indietro, invece ingoiai a vuoto e feci finta di non aver capito e insistetti affinché mi accompagnasse dove volevo io.

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Comprammo dei simpatici e colorati vestitini estivi, gli abbinai i calzini e i cappellini, e Giuseppe contagiato dal mio entusiasmo scelse un costumino.

Rimanemmo in quel negozio parecchio tempo, perché io cominciai a fantasticare e ad immaginare Stefano da grande, e mi ritornarono alla mente i bei momenti

passati, quando trascorrevo pomeriggi interi per i negozi, insieme ad Enzo per scegliere il corredo per il fratellino in arrivo.

Usciti da quel negozio entrammo in un altro, e poi in un altro ancora, e in ognuno comprai qualcosa per Stefano; soddisfatta, contenta e piena di sacchetti ritornammo in ospedale, dove mi vennero incontro Suor Clara e Rosalia curiose di sapere cosa avevo comprato.

Alla vista di quei vestitini le vidi piangere, io rimasi allibita, perché sinceramente non mi aspettavo quella reazione, e neppure il loro commento: <<Speriamo che li possa indossare>>, provavo un misto di rabbia e compassione per chi non riusciva a credere nella ripresa di Stefano, e per sdrammatizzare e spezzare la tensione, improvvisai su due piedi una battuta di spirito: <<Capisco che sono molto belli, ma fino al punto da farvi piangere mi sembra eccessivo>>, riuscii nell’intento e strappai un sorriso ad entrambe.

Mi era giunta notizia che in una chiesa c’era un prete, che definivano, dalla personalità carismatica, e che, a sentire le persone, aveva capacita particolari che lo portavano a guarire i malati.

Premetto che ho sempre avuto un atteggiamento un po’ scettico verso chi si definisce guaritore, ma quella volta, volli andarci, non senza averne prima parlato con Giuseppe.

Io, mi sentivo intimamente logorata, sentivo che la mia forza stava per esaurirsi e avevo bisogno di ricaricarmi e chi meglio di un prete poteva farlo?

Dai miei familiari, anch’essi colpiti in pieno da questo dramma

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spesso sentivo discorsi pessimistici se non addirittura catastrofici, che non mi piaceva ascoltare e che mi facevano star male, io sentivo l’urgente bisogno di fare il pieno di fiducia, di ottimismo e di speranza, e forse fu proprio questa mia intima necessità che non riuscivo in quel periodo a comunicare agli altri a farmi andare in quella chiesa, semplicemente per parlare con chi, davo per scontato, mi avrebbe capita.

In chiesa, trovai almeno un centinaio di persone che facevano la fila per essere ricevute da quel prete, guardandomi attorno un po’ delusa perché intuivo che difficilmente sarei riuscita a parlargli, vidi un altro sacerdote al quale chiesi se poteva dedicarmi qualche minuto, e da sola, quasi fosse una confessione, mi ritirai con lui nella sacrestia.

La mia fede non aveva mai un solo momento vacillato, e questa era stata la mia fortuna, mantenere sempre un atteggiamento di fiducia e credere nella forza del pensiero positivo mi era servito come scialuppa di salvataggio che mi aveva permesso di non annegare nel mare della disperazione.

Con il prete ebbi un colloquio pacato e sereno, insieme riflettemmo sul significato della vita e dell’amore, non vi è dubbio, mi disse, che in amore vince chi dà; essere forte e coraggiosa, fu la mia prova d’amore per la mia famiglia.

Da quel colloquio ricevetti una boccata di ottimismo e una ventata di serenità, che mi permise di continuare a credere con più accanimento di prima nella salvezza di Stefano e di trovare la forza di ignorare chi non ci credeva affatto.

Prima di ritornare in ospedale, volli andare a visitare altre due chiese e in ognuna mi soffermai per pregare e ringraziare Dio per quello che stava facendo per mio figlio.

Un’altra persona che mi fu di grande aiuto era Claudia, che di tanto in tanto veniva a trovarmi, e riusciva a volte a portarmi a casa sua dove trascorrevo qualche ora piacevole e mi accorgevo

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che mi faceva bene parlare con lei che era una persona simpatica e che su di me aveva un effetto positivo.

Avrebbe voluto averci a cena, ed insieme al suo ragazzo Gianfranco, ci aveva più volte invitato, ma non eravamo mai nell’animo giusto così finì che non accettammo mai, ma Claudia e Gianfranco erano persone molto sensibili e capivano ogni volta il perché del nostro rifiuto.

E’ passato più di un mese da quando Stefano è stato operato, e finalmente si cominciano a notare dei segni evidenti di miglioramento: dall’analisi dell’emogas si vede che l’ossigenazione del sangue è visibilmente aumentata, ed il respiratore automatico fu messo al minimo, il ritmo cardiaco si era stabilizzato e Il dr. Sciarra e gli infermieri ogni volta che notavano un miglioramento, con gioia me lo comunicavano, facendomi leggere i risultati delle analisi.

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Il miracoloIl miracolo

Erano le sette del mattino quando la d.ssa Ferreri, sbatacchiando la porta della camera mi svegliò quasi urlando di gioia: <<Francesca, che fai….dormi? Non sai che, chi dorme non piglia pesci? Alzati, che c’è una sorpresa per te!>>

Scattai in piedi, il cuore cominciò a battermi tanto forte che ne avvertivo il rumore, perché avevo capito che la sorpresa era qualcosa di positivo che riguardava Stefano.

<<Di che novità si tratta?>> le chiesi, mentre cominciava a montarmi l’ansia.

<<Sbrigati e vieni con me in terapia intensiva, perché è là che si trova la sorpresa.>>

Non curante del fatto che mi trovavo in pigiama, corsi come un fulmine, entrai, e vidi quello che fino ad allora avevo solo immaginato: Stefano era sveglio: il mio sogno era diventato realtà.

In un turbinio di emozioni che mi prese alla sprovvista e che non seppi controllare, abbracciai e baciai tutti: la d.ssa Ferreri, Lorj, Totò, Stefano, e poi di nuovo Lorj, Totò la d.ssa Ferreri, Stefano, ci abbracciavamo ci baciavamo e piangevamo, ma questa volta erano lacrime benedette perché scaturivano da una gioia immensa.

Era come se quel mese fosse trascorso solo per noi, e non per Stefano, che aveva ripreso a giocare con la penna di Lorj, così come stava facendo prima di essere operato.

Mi accorsi però che nonostante muovesse le labbra per parlare, dalla bocca non usciva nessun suono, e ritornò l’incubo che per

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diversi giorni mi aveva atterrito, e mi risuonarono nella mente le parole di quell’infermiera: <<Sono state lese le corde vocali, c’è il rischio che non potrà più parlare>>, per un istante il sangue mi si gelò nelle vene, decisi però, che questo problema andava affrontato a tempo debito, e lo misi da parte e continuai a gioire, abbracciando e baciando Stefano che era ormai zuppo delle mie lacrime, che per niente al mondo avrei mai trattenuto.

Fu subito chiaro che le crisi di ipertensione, non avevano in alcun modo compromesso il cervello, ed era un vero miracolo, che il fungizone non gli aveva arrecato nessun danno.

Quello che successe quella notte mi fu raccontato in seguito: la d.ssa Ferreri, che era di turno insieme agli infermieri Piero S., Giusy, Angela e Rita M., si accorse

che era finita la riserva di ossigeno, e mentre i tecnici ricaricavano l’ossigeno, a Stefano fu praticata la ventilazione manuale, si creò un po’ di trambusto e non si accorsero in tempo che stava svanendo l’effetto del sedativo, per cui Stefano cominciava a svegliarsi, si resero conto però, che stava respirando da solo, e la d.ssa decise di non addormentarlo più, pur rimanendo intubato con il respiratore al minimo, giusto per non affaticarlo, nel corso della nottata, gradatamente lo staccarono e lo estubarono, e così, il mio piccolo “super man” aveva vinto questa battaglia.

Lo guardavo estasiata, mi sembrava proprio che avesse un’espressione felice, e non mostrava nessun segno di sofferenza, mi stringeva forte la mano, e capivo dal movimento delle labbra che diceva “mamma, papà”.

Non avvisai Giuseppe perché volevo che anche lui provasse la stessa mia gioia nel ricevere questa bella sorpresa, infatti fu così, appena entrò rimase letteralmente a bocca aperta, e poi reagì quasi come me, baciando Stefano, me, e piangendo.

Dopo esserci ripresi un po’ tutti da questa scossa emotiva, decidemmo, di riservare al professore lo stesso trattamento, ed

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anche per lui ci fu lo shock della sorpresa.Ci accorgemmo tutti che anche i suoi occhi si inumidirono, e per

togliersi dall’imbarazzo con tono scherzoso si rivolse a Stefano dicendogli: <<Ecco il “mister”- e passandogli la mano tra i capelli, continuò a dirgli a voce alta – mi hai tolto dieci anni della mia vita, ed ho passato un mese senza poter chiudere occhio la notte, quando li chiudevo, mi venivano gli incubi pensando a quello che ti stava succedendo.>>

Poi, rivolgendosi a me disse: <<Signora sono orgoglioso di lei per il coraggio che ha dimostrato in questa circostanza, la vedevo soffrire con dignità, e non poteva che suscitare la mia ammirazione.>>

Capì che volevano veramente bene a mio figlio e che mai avrebbero lasciato niente di intentato per poterlo salvare.

<<Basta, adesso è meglio che vado a fare visita ai bimbi del reparto, altrimenti qua va a finire che ci lasciamo prendere dall’emozione>>, allegro, sorridente e soprattutto orgoglioso si avviò verso il corridoio che divideva le stanze.

Di lì a poco cominciarono ad arrivare di corsa ad uno ad uno tutti gli altri medici, i quali appresa la notizia, sentivano il bisogno di parteciparmi la loro soddisfazione e felicità.

Il dr. Ingros felice strapazzò Stefano di coccole e, mi confessò molto sinceramente che lui non credeva assolutamente che Stefano avesse potuto

superare questa fase, tanto che ogni volta che si trovava di fronte a me non aveva il coraggio di guardarmi negli occhi.

Il dr. Rossello, invece, era l’unica persona che mi aveva sostenuto nella mia lotta, e con orgoglio ricordava a tutti le sue previsioni e quella sua “sensazione epidermica”, che anche questa volta non l’aveva tradito, e si rivolse a Stefano in dialetto palermitano: <<hai visto piezzo di crastus che ce l’abbiamo fatta. Io ho sempre creduto nella tua tenacia, tanto che i miei colleghi mi davano del pazzo

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quando dicevo loro che tu ti saresti ripreso.>>La d.ssa Pigna, che era rimasta ad ascoltare questi discorsi si

lasciò prendere dall’emozione, e abbracciandomi mi disse che appena Stefano si fosse ripreso del tutto, tutti insieme saremmo dovuti andare in pellegrinaggio a Lourds perché lei, lo aveva promesso alla Madonna, facendone voto, per la salvezza di Stefano.

Anche Suor Clara mi riferì il suo voto al Signore, al quale rivolse questa preghiera: <<Signore, salva il piccolo Stefano, fa che esca da questa brutta malattia, sano come prima, cioè senza che il bambino sia compromesso dall’ipertensione dalla tachicardia o dal fungizone e da tutto ciò che può arrecargli danni. Signore, se salvi il “nostro” piccolo Stefano poi te ne potrai servire come meglio credi, puoi farlo diventare un tuo servitore, un sacerdote o quello che vuoi tu.>>

Queste prove d’affetto, che in questi anni tutti ci dimostravano continuamente, mi stupivano sempre più, e mi facevano capire la sincerità la bontà e la sensibilità d’animo che queste persone possedevano, e il modo assolutamente semplice con il quale lo dimostravano era a dir poco disarmante.

Gli altri medici presenti al racconto di Suor Clara, cominciarono scherzosamente a riderci su: <<Suor Clara, ma cosa fa! Viene pure a compromesso con il Padre Eterno? Ce la può fare una raccomandazione pure a noi?>>

La tensione si era definitivamente sciolta e adesso ridevamo e scherzavamo per un non nulla, e ci sentivamo tutti avvolti dalla stessa felicità.

In mattinata ricevetti le telefonate di Elena S. e Francesca V. che come sempre quando non erano in servizio, si informavano, per sapere come stava Stefano, e tutte e due le sentì urlare per telefono dalla gioia.

Passavano i giorni e le condizioni di Stefano andavano migliorando sempre di più.

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Il lunedì seguente, il professore mi fece chiamare per parlarmi: <<Signora Scorsi, lei sa l’attenzione che abbiamo avuto per Stefano, abbiamo addirittura chiuso con gli interventi per un mese per dedicarci a lui. Come lei ben sa, poiché è da parecchio tempo che vive qua, ci sono in lista d’attesa bambini che devono subire interventi delicati, e che non possono più aspettare. Stefano sta meglio e prima di cominciare con i ricoveri mi sembrava giusto farglielo presente, di mattina gli anestesisti sono tutti presenti, in reparto c’è sempre un medico di turno, per cui non ci saranno problemi per Stefano.>>

Ascoltavo il professore commossa e lusingata per avermi considerata fino al punto di farmi presente la situazione del reparto, lo ringraziai, e aggiunsi che comprendevo benissimo le esigenze degli altri piccoli pazienti e che ero sicura che Stefano avrebbe continuato ad avere l’attenzione dei medici e le cure necessarie.

Ci salutammo stringendoci le mani.Così il giorno seguente iniziarono i ricoveri e il reparto si riempì.Una settimana dopo il risveglio, iniziarono per Stefano gli

assaggi di acqua, thè e camomilla per bocca; la d.ssa Marsiglione, aveva dato il via all’alimentazione, ed aveva dato pure istruzione su come prepararle affinché piacessero al bambino, ma nel momento in cui Stefano li assaggiava gliele sputava regolarmente in faccia, perché evidentemente non li gradiva, e la d.ssa si disperava: <<Ma come è possibile che non ti piaccia, è così buono!>> L’unica cosa che Stefano assaggiava volentieri era l’acqua.

Finalmente arrivò il giorno in cui Stefano fu riportato in camera, la sera precedente Lorj e Totò comprarono dei palloncini colorati, e con l’aiuto di Elena Francesca, Giuseppe S. e Nino addobbammo la stanzetta, eravamo tutti eccitati e felici all’idea che Stefano stava uscendo dalla terapia intensiva dove avevamo vissuto tutti insieme tanta sofferenza, angoscia e dolore, e volevamo trasmettere a Stefano tutta la nostra allegria.

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Il primo giorno trascorso in camera, vennero a trovarlo, anche i primari, i medici e il personale di altri reparti, ricordo in particolare l’affetto dimostratomi dal dr.V. Tudisco ed Antonella l’infermiera della radiologia che erano stati molto solidali durante il drammatico periodo della terapia intensiva, e il primario della Cardiologia il prof. Bertolini che mi diede un bacio affettuoso, e mi elogiò per essere stata molto coraggiosa e per questo, degna della sua ammirazione.

Mi raccontò:<<Signora, ogni qualvolta veniva nel nostro reparto per fare l’elettro cardiogramma a suo figlio, la osservavo incuriosito, e vedevo in lei, una dolcezza, una gentilezza che piacevano infinitamente alle persone con cui trattava. In lei esisteva una garbata cortesia che veniva dal cuore e trascendeva le distinzioni sociali. Io non osavo chiederle i problemi di suo figlio non conoscendola, ma ci si accorgeva di qualcosa di toccante di commovente che c’era in lei, quasi una specie di malinconia. Chi la osservava aveva subito la sensazione che fosse capace di comprendere i grandi dolori e che ne avesse affrontato uno, anche se non c’era in lei un solo segno di avvilimento o di depressione. Guardandola si avvertiva un’aura di tristezza, una specie di solitudine. Solo in seguito dalla mia assistente ho saputo.

Tutti mi elogiavano, si complimentavano con me per essere stata una buona mamma. Ma in cuor mio sapevo di non aver fatto nulla di eccezionale, ho semplicemente fatto il mio dovere di mamma, e a dire il vero all’inizio nemmeno quello, perché sono stata codarda, mi sono lasciata sorprendere dalla paura da indurmi ad abbandonare per alcuni giorni il mio bambino.

Trascorsero ancora altri quattro giorni prima che la d.ssa Marsiglione desse disposizioni per cominciare l’alimentazione semi solida, e quel giorno rimase scolpito in me più di qualsiasi altro giorno; sentii forte, quasi fosse una sensazione fisica, la soddisfazione di averla avuta vinta sul destino, che sembrava voler

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Stefano perdente a tutti i costi, e pensai che se non avessi io sorretto tutti con la mia fede, non ce l’avremmo fatta.

Quando arrivò l’infermiera con la pastina e con il cucchiaino, io e Giuseppe ci emozionammo fino a confonderci, veder mangiare Stefano ci fece superare in un solo attimo tutta la stanchezza psicologica ed emotiva accumulata fino ad ora; il nostro unico obbiettivo era stato raggiunto.

Stefano cominciò a mangiare, e lo faceva talmente bene tanto da sembrare abituato da sempre, e mangiò tutto dimostrando anche lui grande soddisfazione, e appena gli misi in bocca l’ultimo cucchiaino di pastina, sentii scoppiare alle mie spalle un fragoroso applauso, mi voltai e li vidi tutti lì, medici ed infermieri ad assistere orgogliosi e contenti quanto me all’evento, e Stefano cominciò anche lui a battere le manine contento di essere al centro dell’attenzione.

Tra tutti, spiccava, a causa della statura alta, la figura del professore, anche lui “nascosto” dietro la porta con la d.ssa Marsiglione, ci guardammo, e sorridendomi andò via.

Nei giorni seguenti sia l’ora di pranzo che di cena rappresentavano una festa per gli infermieri che si radunavano attorno a Stefano, per la gioia di vederlo mangiare, e si divertivano ad ordinare ai cuochi della cucina un pasto diverso al giorno ; brodino vegetale, brodino di carne, pastina col formaggino ecc… Salvina gli portava la salsa di pomodoro che preparava lei, Maria portava le uova fresche, ed era una vera gioia vederlo mangiare con gusto, non sputacchiava né si sbavava come fanno spesso i bimbi della sua età.

Comunque c’erano ancora tanti problemi da risolvere, infatti, il bambino non riusciva a muoversi né tanto meno a camminare, perché era rimasto più di quaranta giorni immobile, quindi era necessaria la fisioterapia agli arti oltre che la fisioterapia respiratoria per aiutarlo nella respirazione che era in parte

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ostacolata dai residui dell’infezione precedente.Intanto Stefano aveva iniziato a parlare, sebbene con un filo di

voce, per cui era svanita anche questa angoscia, insomma le cose sembravano andare a posto da sole e si cominciavano a vedere le soluzioni per ogni problema, ed io mi sentivo felice.

Mi trovavo spesso a ripensare a tutto ciò che era successo ed ogni volta mi rendevo conto che i sacrifici, il calore e l’affetto che tutti i medici e il personale infermieristico ci avevano dimostrato, andava nettamente al di là del semplice dovere, mi appariva chiaro che dietro al loro lavoro c’era molto di più, c’era l’amore e lo notavo anche con gli altri piccoli pazienti per il modo affettuoso con cui gli parlavano le carezze sincere che gli dedicavano e non era strano vederli giocare con i bimbi in corridoio o vederli con qualche piccolo paziente tra le braccia, e per questo, ma non solo, anche per l’attenzione che avevano per me, per cui decisi che tutto questo non doveva rimanere nell'ombra volevo far saper a tutti che in quell'ospedale lavorano, soffrono e gioiscono degli angeli che al posto delle ali hanno un sorriso contagioso, hanno dedizione per il lavoro, hanno l’umiltà dei grandi, hanno la forza di lottare e la capacità di ascoltare.

Volevo ringraziarli, e volevo farlo in modo diverso, e soprattutto volevo farlo pubblicamente.

Confidai la mia idea al dr. Sciarra e al dr: Rossello, ed insieme scrivemmo alcune righe che con l’aiuto della mia amica Claudia furono pubblicate, all’insaputa di tutti, nel quotidiano di maggior tiratura.

<<Non dimenticherò quei medici di Chirurgia pediatrica…Malasanità non è un termine che si può attribuire al reparto di

chirurgia pediatrica dell’ospedale……di Palermo, dove professionalità ed umanità sono una costante del lavoro svolto dal personale medico e paramedico. Il mio bambino di 18 mesi, nato con una grave malformazione (atresia esofagea), la mancanza

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dell’esofago, è stato sottoposto prima a vari interventi preparatori ed in ultimo, quello nel quale gli è stata praticata la ricostruzione completa dell’esofago.

Nonostante l’intervento sia perfettamente riuscito, nel decorso postoperatorio, è sopravvenuta una grave infezione ai polmoni che ha richiesto una ventilazione assistita ed un trattamento rianimatorio per oltre un mese.

Dopo i lunghi giorni trascorsi nel reparto, dove ho vissuto in prima persona le difficoltà a cui i medici quotidianamente vanno incontro, sento il dovere di esprimere la mia solidarietà e la mia riconoscenza al prof. De Cretis ed a tutta la sua équipe; il dr. Ingros, il dr.Patti, la d.ssa Pigna, il dr. Rossello, il dr. Aiaxit. Il dr.Garofly, il dr. Moschino ed il medico pediatra la d.ssa S. Marsiglione. Al personale paramedico che si è prodigato oltre ogni misura, alla équipe Anestesiologica d.ssa G. Ferreri, d.ssa M.A. Modena, dr. M. Sciarra.>>

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La “ricaduta”La “ricaduta”

Tutto sembrava procedere a meraviglia, continuammo ancora per qualche giorno a godere di quella serenità e felicità che, personalmente a me ,sembrava spettarmi di diritto.

Giuseppe era rientrano a Rivera, mi telefonava diverse volte al giorno per avere notizie di Stefano, ed ogni volta lo sentivo sempre più tranquillo e fiducioso.

Un giorno, però mi accorsi che Stefano, mangiando, mostrava delle difficoltà nel deglutire, gli infermieri presenti, avvisarono la d.ssa Marsiglione, che decise di sospendere momentaneamente l’alimentazione e di riprovare più tardi.

Quando riprovammo, addirittura Stefano rigurgitò tutto, per cui si videro costretti a farlo mangiare ,almeno per quella sera per “gastro”.

L’indomani il professore programmò una endoscopia da fare il giorno successivo, nella speranza di risolvere e ripristinare tutto al più presto.

Era il 3 luglio, Stefano entrò in sala operatoria alle 9:30,e vi rimase per più di tre ore.

Stanca più che mai, ma soprattutto assuefatta, tanto da non reagire quasi più a tutti quei ripetuti rientri in sala operatoria, trascorsi l’attesa immersa in pensieri che mi portarono lontano, a quando ero appena una ragazza, e come tutte le ragazze giovani

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sognavo un futuro fatto di sola felicità, invece a me la vita ha insegnato che un po’ di felicità va pagata al prezzo di mille preoccupazioni.

La felicità è una sensazione estremamente soggettiva, e per me consisteva in piccole cose, ma molto importanti, come veder mangiare Stefano con il cucchiaio, i risultati positivi delle sue analisi, vederlo giocare e divertirsi anche se in un ospedale, l’abbraccio di Enzo, sentirmi dire : l’intervento è riuscito, lo sguardo affettuoso di Giuseppe, tutto questo era per me pura felicità.

Alle 13:30 finalmente uscì il professore dalla sala operatoria con il viso stravolto e

mi dice: <<E’ assurdo, non è riuscito a passare l’endoscopio abbiamo tentato con il filo del dilatatore che è sottile come uno spaghetto, ma nemmeno quello è riuscito a passare, siamo stati quattro ore là dentro, ma non sono riuscito a trovare il buco: non c’è buco.>> Il tono della sua voce era assolutamente disperato.

<<Non può essere una semplice stenosi, perché la stenosi non si chiude totalmente da un giorno all’altro, è assurdo,- continuava a dire il professore- fino all’altro ieri la pastina la mangiava e quindi il passaggio c’era, com’è che oggi non riesco nemmeno a trovare il buco?>>

Io e Giuseppe non avevamo proferito parola, avevamo ascoltato il professore con il capo chino, e alzando la testa, i nostri sguardi si incrociarono, io in quell’azzurro ormai spento da mille preoccupazioni, vidi tanta stanchezza, ma soprattutto tanta paura.

Per tutto il giorno Stefano dormì, per l’effetto dell’anestesia. L’indomani provammo a farlo bere, ma, neppure l’acqua riusciva a passare.

Il pomeriggio, mentre Stefano dormiva avvertì dei colpi di tosse che non mi convinsero affatto sembrava che stesse quasi per soffocare come in passato quando la cervicostomia si intasava, la

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mia preoccupazione e agitazione era totale, mi accorsi ad un certo momento che facevo dei gesti inutili, aprivo e chiudevo gli armadietti, andavo su e giù per il corridoio, prendevo e posavo cose inutili, insomma, il mio stato d’ansia stava crescendo a dismisura.

Tutto quello che stava succedendo non mi convinceva affatto, trovavo la situazione estremamente drammatica, il fatto che non riuscisse a bere, non poteva che significare una sola cosa, che l’esofago si fosse occluso del tutto , quello che non capivo era perché.

Continuavo a sorvegliarlo, senza staccare un solo istante il mio sguardo da lui, dopo un po’ svegliandosi, la tosse divenne più forte, e mi accorsi che stava per soffocare, il medico arrivato di corsa urlò di portare urgentemente l’aspiratore: l’esofago si era completamente occluso.

Il dr. Ingros mi guardò, e intuendo dal mio sguardo ciò che stavo per chiedergli mi rispose: <<Sta succedendo quello che lei sa già>>.

Come poteva essere accaduto tutto ciò, perché il destino si stava accanendo così, perché quando tutto sembrava essersi risolto bisognava invece ricominciare daccapo?

Secondo il dr. Ingros l’infezione che prima aveva causato i problemi polmonari, adesso si era localizzata nell’esofago, per essere sicuri di questo la d.ssa Marsiglione l’indomani avrebbe fatto analizzare il tampone faringeo.

<<E’ come se suo figlio avesse ingerito una sostanza chimica come candeggina o niagara >>, continuava a spiegarmi il dottore, <<e l’esofago si fosse bruciato con questa sostanza ed è diventato tutto raggrinzito fino a chiudersi del tutto.>>

Questa spiegazione mi lasciò di stucco: era peggiore di quella che avevo pensato.

Quella sera erano di turno Elena, Francesca, Giuseppe S. e Nino, che venuti a sapere di questo ulteriore complicazione non ci

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lasciarono soli un solo momento, e trascorsero la notte aspirando continuamente Stefano e consolando me; quella notte vidi Elena e Francesca piangere per Stefano.

In quei giorni era stato pubblicato l’articolo di ringraziamento sul giornale locale che io avevo dedicato a tutto il personale medico e paramedico dell’ospedale.

La mattina seguente, la d.ssa Ferreri, col suo solito fare affettuoso mi ringraziò, anche a nome del professore, che non se la sentiva di farlo personalmente dopo ciò che era successo a Stefano.

La dottoressa, un po’ imbarazzata, mi disse che non era necessario fare quell’articolo perché tutti avevano fatto solo il loro dovere.

Ma ciò che io ho visto era molto più del semplice dovere; ho visto lacrime negli occhi di alcuni medici mentre lottavano con tutti i mezzi e le loro capacità per salvare il mio bambino, ho visto le infermiere pregare e piangere per la sorte di Stefano, ho visto la d.ssa Ferreri dare tutta se stessa, lei non andava mai via, se prima non era sicura che tutto procedeva bene.

La d.ssa Marsiglione, anche quando era in ferie, veniva due o tre volte al giorno per preparare la terapia per Stefano.

I chirurghi, quando erano fuori servizio telefonavano per avere notizie di Stefano, così pure il professore.

<<Vi voglio bene, passeranno cento anni, quello che avete fatto per noi non lo dimenticherò!>> Le dissi questo, senza alcun pudore, come invece spesso mi succede quando metto a nudo i miei sentimenti.

Il giorno dieci luglio il professore fa un’altra esofagoscopia al bambino, ma anche questa volta senza alcun risultato.

Intanto la d.ssa Marsiglione ci dà conferma che la causa della stenosi è proprio una brutta infezione.

La fisioterapista, veniva ogni mattina, e siccome dopo qualche giorno sarebbe andata in ferie, ritenne necessario che io imparassi

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ad eseguire gli esercizi, per farli in sua assenza a Stefano.Ancora una volta mi trovai, a dover imparare cose, per me non

facili, ma dovetti metterci tutto l’impegno, perché la posta in gioco era alta, ed io a poco a poco stavo cominciando a dimenticarmi di me dei miei problemi, delle mie difficoltà ad affrontare questa vita, dei miei disagi, dovevo solo imparare a fare la fisioterapia, e dovevo anche imparare in fretta.

E’ trascorsa una settimana e Stefano continua ad essere aspirato giorno e notte,

sia io che gli infermieri a mala pena riusciamo a sopportare tutto ciò; ogni volta che Stefano si sente soffocare, apre la bocca e dice: <<appiratemi>>, nonostante sia una sofferenza per lui, sa che dopo si sente libero dalla saliva e dal muco che lo intasa.

Arriva il giorno in cui devo iniziare ad eseguire da sola la fisioterapia a Stefano ,

chiesi a Lorj e Rita di aiutarmi, ma per un strano meccanismo psicologico, io ero diventata un’infermiera impassibile, e loro che professionalmente erano abituate alla sofferenza altrui si intenerivano oltre ogni misura quando si trattava di Stefano, tanto da mostrarmi alcune reticenze nel prestarmi il loro aiuto, tanto da essere costretta a puntare i piedi e fare la dura per richiamarli all’ordine.

Quando c’era da lavorare su Stefano quasi mi infastidivano le loro lacrime, i loro timori, ma neppure io mi divertivo o ad eseguire questa “benedetta” fisioterapia, purtroppo questa era la necessità, so io quanto mi costava farlo.

Tra continue aspirazioni e fisioterapia, trascorsero altre due settimane da incubo, il professore decise di tentare un'altra endoscopia prima di andare in ferie, e così il 28 Luglio Stefano rientrò in sala operatoria.

Quella mattina erano venuti insieme a Giuseppe i miei genitori e mio cognato.

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Quando il professore uscì dalla sala operatoria, con gli occhi bassi e l’aria triste, disse solamente: <<Signora, non riesco a capire….., non è passato… io sto impazzendo….. non riesco a trovare “il buco”…. non c’è passaggio, mi dispiace….ma non so più cosa dirle.>>

Giuseppe per la prima volta diede sfogo a tutta la sua rabbia, prendendo a calci e pugni il muro davanti a lui; non provai nemmeno a calmarlo.

Tutti sapevamo perfettamente, anche se nessuno dei medici osava dircelo apertamente, che se non si risolve il problema bisogna ricorrere ad un altro intervento chirurgico, si sarebbe dovuto asportare la parte di esofago ormai rovinata dall’infezione, dove si era formata la stenosi cicatriziale serrata, dopo tutto quello che aveva subito per allungare l’esofago, adesso bisognava accorciarlo.

Rimanemmo tutta l’estate chiusi in ospedale, anche perché io avevo rifiutato di rientrare a casa, semplicemente per paura, anche se il professore mi dava la possibilità di portarmi l’aspiratore elettrico, che lui aveva comprato per me, e che io ormai sapevo usare benissimo.

Ad agosto il reparto era vuoto, c’eravamo io, Stefano due infermieri per turno, il medico di guardia ed un neonato piccino che era stato abbandonato dai genitori, si chiamava Antonino.

Stefano nonostante i problemi che aveva era felice e sereno, gli infermieri erano tutti per lui, i medici che lo coccolavano chi gli portava regali, chi lo faceva giocare e lui era sempre allegro.

Una sera, era il due settembre, c’era di turno il dr Wolf, un nuovo medico che era arrivato in reparto da circa un mese, Francesca e Giuseppe S., stavo dando la pastina a Stefano per gastro ed eravamo quasi alla fine del pasto quando all’improvviso Stefano cominciò a vomitare dalla bocca la pastina che aveva preso per gastro.

Il dr. Wolf, che aveva assistito a questo evento, era rimasto

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incredulo dicendo: <<Se non l’avessi visto con i miei occhi non ci avrei mai creduto, abbiamo tentato diverse volte e non c’era alcun passaggio, era tutto chiuso, lo dimostra il fatto stesso che non riesce a passare la saliva. Adesso lui che fa? vomita! Vorrei sapere una cosa>> chiese scherzosamente a Stefano, <<ma da dove ti è passato sto’ vomito, me lo dici … eh Stefano!>>

Il dr. Wolf raccontò telefonicamente l’accaduto, al professore che ebbe una reazione isterica: <<E’ assurdo! Se non impazzisco quest’anno con questo bambino non impazzisco più!, Sto’ bambino è un rebus, un mistero. Eri presente pure tu durante l’endoscopia – continuava a dire il professore al dottor Wolf – hai visto che non c’era nessun passaggio, non c’era nemmeno il buco per fare passare il filo del dilatatore, com’è che lui adesso vomita? Per farmi impazzire?>>

Il dr. Wolf raccontò il dialogo avuto con il professore a Francesca, Giuseppe e me, e fu impossibile trattenerci dal ridere.

Giuseppe, da gran simpaticone quale era cominciò a montare su questa storia, una delle sue solite battute: <<Ecco il mistero secondo Stefano Scorsi E’ nato, andava in apnea ed era un “mistero”, ha fatto il primo allungamento “sec kimura”, e tutti i medici compreso il professore credevano che non fosse riuscito a farcela, ed invece ha superato questa fase ed è stato un “mistero”. Quando fece l’intervento di anastomosi, tutti davano per scontato, compreso io, che non sarebbe sopravvisuto, invece, il bambino l’ha superato ed è stato un “mistero”, il professore non trova il “buco”, e il bambino se lo è creato da solo vomitando, altro mistero.>>

Giuseppe riusciva sempre a trovare i risvolti comici anche nelle situazioni tragiche, riuscendo a farci sorridere, anche quando nessuno di noi ne aveva voglia.

Tra risate, angosce, preoccupazioni e piccoli eventi positivi siamo arrivati al quindici settembre.

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Il lunedì rientrava il professore, dalle ferie, e subito programmò una dilatazione per il giorno diciannove.

Stefano entrò in sala operatoria, dopo due ore uscì il professore con il viso cupo, Riuscì solo a dirci: <<Non è passato.>>

Ancora una volta mi invitano ad andare a casa, questa volta accettai, erano quattro mesi e mezzo che stavo in ospedale e la sola idea di stare assieme a Enzo e a Giuseppe, di dormire nel mio letto, mi allettava non poco, così accettai.

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A casaA casa

Era il venti settembre, quello stesso giorno partimmo da Palermo per ritornare a casa, e durante il viaggio di ritorno, avvertì una strana leggerezza, mi sentivo felice, fra poco avrei abbracciato Enzo, mi mancava la quotidianità della vita familiare e, almeno per un po’ avremmo potuto goderci quello che per me era diventato un privilegio.

Arrivammo a casa nel primo pomeriggio, che erano circa le quindici e subito, amici e parenti, chi per affetto chi per curiosità invasero casa mia, mandando all’aria tutti i miei progetti di tranquillità.

Mi sentivo estremamente nervosa, perché avvertivo spesso di essere oggetto di commiserazione, le frasi di circostanza indirizzate nei miei confronti non facevano altro che appesantire il mio stato d’animo già di per se facilmente irritabile.

Mille problemi si accavallarono, dalla fisioterapia ai soffocamenti continui di Stefano che doveva essere aspirato giorno e notte, allo stato d’ansia di Giuseppe che cresceva a dismisura per ogni nonnulla.

Quel rientro a casa, si rivelò un’esperienza sconvolgente, altro che riposarmi e rilassarmi!

Chi stava godendo di un periodo di rilassamento e tranquillità era senza dubbio il professore e tutta la sua équipe.

Finalmente rientrammo in ospedale, io ero esausta e sconvolta dalla settimana trascorsa a casa, e non appena misi piede in reparto, tirai un sospiro di sollievo, anche perché consideravo

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Stefano al sicuro.La mattina seguente a Stefano fu fatta un'altra dilatazione. Era il 26 Settembre, il bambino era stato programmato per ultimo,

era entrato in sala operatoria alle ore 12:00, alle 13:30 esce il professore dalla sala operatoria, con l’espressione felice, dicendomi: <<l’aria di casa al bambino ha fatto bene.>> Erano riusciti a dilatarlo, sorridendo andò via, per noi fu la fine di un incubo.

Le dilatazioni continuarono per altre due settimane, permettendo così di riprendere ad alimentarsi per via orale senza difficoltà.

Le dilatazioni furono programmate inizialmente ogni quindici giorni, poi una volta al mese, e siccome tutto procedeva bene, nel senso che ormai Stefano non

soffocava più, e riusciva a mangiare i cibi liquidi e semiliquidi, fummo dimessi.

Dopo solo tre mesi di apparente tranquillità Stefano ha cominciato ad avere dei problemi di deglutizione, mangiava e rigurgitava, e tutto faceva pensare ad un’altra probabile stenosi.

Per cui il professore, prima di fare una dilatazione ha ritenuto opportuno eseguire un “transito esofageo in scopia”, una radiografia dell’esofago mentre il bambino beveva un liquido, e fu evidenziato un “diverticolo”; una parte dell’esofago in corrispondenza della stenosi si era eccessivamente dilatato, formando una “sacca”.

Questa “sacca”, si riempiva quando il bambino mangiava , provocandogli un senso di soffocamento, e nello stesso tempo ostruiva il passaggio del rimanente cibo nell’esofago.

Stefano, che fino a quel momento non aveva mostrato alcuna reticenza nel mangiare, adesso si rifiutava di farlo, perché tutte le difficoltà da lui subite ed affrontate lo avevano in qualche modo traumatizzato, per cui concordando il da farsi coi medici decidemmo di non forzarlo per evitare ulteriori problemi

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psicologici, e riprendemmo ad alimentarlo per gastrostomia.Il 22 dicembre ‘95, Stefano subisce un'altra dilatazione. Il

professore mi dà precise disposizione, cioè di alimentare il bambino per bocca, poiché non usando l’esofago rischia di stenotizzarsi del tutto.

Dopo un’ulteriore dilatazione il professore dispone l’alimentazione per via orale, e rientriamo a casa per trascorrere le feste natalizie.

Stefano rigurgitava tutte le volte che mangiava, io mi vedevo costretta a telefonare giornalmente in ospedale nella speranza che qualche medico mi autorizzasse a riprendere l’alimentazione per gastro, ma nessuno osava contraddire il professore.

Quando rientrammo in ospedale, Stefano che ormai rischiava la denutrizione, riprese, dietro nuove disposizioni ad alimentarsi per gastro..

Quando il professore rientrò, fu eseguito un altro “transito esofageo in scopia” dove si evidenziò un’ulteriore dilatazione del “diverticolo” .

Si delinea la paura di un altro eventuale intervento, io e Giuseppe a dire il vero lo avevamo intuito, ma la sola idea ci faceva rabbrividire.

Parlando con la d.ssa Modena, dell’intervento, mi sentii male, lei preoccupandosi, quasi mi abbracciò dicendomi: <<Si sente bene?>>

<<Da troppo tempo non so, cosa significa stare bene.>>Quelle parole mi fecero riflettere sul significato di “star bene”.Star bene ha forse qualche attinenza con l’essere felice?, forse

star bene può voler dire essere sereni e vivere in serenità con l’ambiente che ci circonda? star bene, forse vuol dire godere del benessere dei propri figli e della propria famiglia? vuol dire riuscire a dormire senza che gli incubi prendano il sopravvento? Se star bene ha questo significato, io è da tempo che non so cosa vuol

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dire star bene.Fino ad adesso abbiamo vissuto un calvario per raggiungere uno

scopo; che il bambino riesca ad alimentarsi per bocca, se questo adesso non è possibile, che senso hanno avuto tutte queste sofferenze?

L’intervento si programma per il 29 di Gennaio.Così dal due gennaio fino al giorno dell’intervento siamo rimasti

in ospedale.

L'imprevistoL'imprevisto

Mi tornava spesso alla mente un sogno che avevo fatto nel periodo in cui Stefano si trovava in terapia intensiva, quella sera, mi addormentai come al solito sulla sedia sdraio senza accorgermene, e mi trovai in macchina con Giuseppe che costeggiava un lungomare, le acque erano agitatissime, e d’improvviso fummo sbalzati con la macchina in mezzo al mare in tempesta, stavamo andando giù, e il senso di soffocamento che provai fu quasi reale, ma io riuscì a risalire portandomi dietro Giuseppe che trascinavo tenendolo per mano, appena affiorai dalle acque vidi poco lontano un pezzo di terraferma, che galleggiava, quasi fosse una piccolissima isola, mi diressi con la forza della disperazione, in quell’isolotto, sempre tirandomi dietro Giuseppe, ormai privo di forze, e riuscimmo così a metterci in salvo lottando

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disperatamente contro onde gigantesche che tentavano di trascinarci al largo.

Ogni volta che pensavo a quel sogno, mi sembrava di vederci dentro tanti significati, e mi sembrava anche di capire che io, con la mia forza sarei stata capace di uscire da questa “tempesta” di problemi, trascinandomi tutti dietro verso la “salvezza”.

Certe volte immaginavo il destino quasi fosse una persona, e lo vedevo sorridere con malvagità tutte le volte che succedeva un imprevisto, e questa volta quasi ne avvertì la risata.

Io ero avvilita e distrutta , ma non per questo volevo arrendermi, ed anche questa volta mi affidai alla forza del pensiero positivo, pensando a quando tutto sarebbe finito.

Guardavo in silenzio Giuseppe che si perdeva dietro il fumo di una sigaretta, conoscevo la sua rabbia e il suo dolore, e conoscevo anche il suo carattere poco incline ad esternare i sentimenti, per cui, a volte, risultava difficile consolarlo, spesso gli stavo vicina nella speranza di infondergli coraggio magari tenendolo semplicemente per mano, come nel sogno; e cosi feci quel giorno sul balcone dove attendemmo che finisse l’intervento.

Non è strano in Sicilia, godere di giornate assolate in inverno, e come due lucertole ci eravamo messi in quell’angolo di balcone soleggiato nella speranza di riscaldare anche i nostri cuori.

Durante l’intervento hanno dovuto asportare la parte dell’esofago dove c’era il diverticolo, hanno dovuto rialzare un po’ lo stomaco ed hanno rifatto l’anastomosi, e tutto naturalmente andò meglio del previsto.

Ogni volta che Stefano subiva un intervento, io avvertivo sempre un forte dolore fisico, in corrispondenza della parte in cui intervenivano : polmoni, gola, stomaco, e quando il dolore cessava, voleva dire che l’intervento era finito, ed anche questa volta fu così.

Non capì mai bene questa cosa, di certo era che io e Stefano

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ormai vivevamo in simbiosi, infatti spesso io intuivo prima dei medici, e addirittura delle volte riuscivo ad anticipare i problemi.

Stefano rimase in terapia intensiva quindici giorni, e dopo altre due settimane e precisamente il 4 Marzo, fu dimesso.

Tornammo a casa soddisfatti, anche se, mentre eravamo ancora in ospedale, come sempre qualcosa non mi convinceva, ma era qualcosa che non riuscivo a visualizzare per questo non ne parlai coi medici, infatti poco dopo il rientro a casa notai che il bambino non poteva stare coricato perché in questa posizione si manifestavano problemi di reflusso.

Di giorno bene o male riuscivo a gestire la situazione, ma di notte, questa diventava insostenibile, perché non appena lo sdraiavo nella culletta incominciava a vomitare, nonostante i cuscini per rialzarlo, o la posizione semiseduto, non c’era modo di evitare questo inconveniente.

Il professore mi aveva detto che era un problema legato all’intervento, visto che era stato rialzato lo stomaco, era inevitabile che sorgesse un po’ di reflusso, ma mi aveva anche assicurato che con la terapia adatta si sarebbe risolto.

Stefano, nonostante la terapia, continuava a vomitare sia di giorno che di notte, alzato o coricato, non sapevo più in quale posizione metterlo pur di non farlo vomitare e farlo riposare tranquillamente almeno un paio d’ore.

La notte era un vero incubo, dovevo sorvegliarlo continuamente, perché oltre a vomitare, diverse volte ha inalato, e ho dovuto aspirarlo.

La terapia farmacologica, non dava i risultati desiderati, pur avendone raddoppiato le dosi, per cui mi decisi a ritornare al “campo base”.

Provai, dietro suggerimento del medico, ad alimentarlo spesso e con dei piccoli

pasti, in modo da non riempirgli il pancino tutto d’un colpo, ed

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evitare così di stimolare il reflusso: ma fallì anche questo espediente, e la

situazione non cambiò nemmeno quando ritornammo ad alimentarlo per gastrostomia.

Il mio intuito mi avvisava che un nuovo intervento era in arrivo, e quando il professore chiamava me e Giuseppe insieme solitamente era per darci brutte notizie.

Durante una esofagoscopia, si era evidenziata un grave forma di reflusso che era la causa dei gravi segni di irritazioni all’esofago, quindi diventava necessaria fare una plastica anti-reflusso e necessariamente chiudere la gastrostomia.

Dopo tante peripezie, nulla ci sorprendeva più, ormai si parlava di interventi come se fossero delle dilatazioni.

L’11 Aprile del ’96 si fece l’intervento dell’Isolamento Gastrostomia / Mobilitazione Esofago / Plastica Pilastri Diaframmatici / Fundo Plicatio Secondo Nissen.

Ci eravamo talmente abituati a vedere entrare Stefano in sala operatoria che, almeno io, non riuscivo più a piangere, e questa cosa mi faceva davvero paura, anche perché mi ero accorta di aver assunto un atteggiamento professionale, tanto da essere diventata fredda e distaccata nei confronti della malattia di Stefano.

Questo mio atteggiamento cominciava seriamente a preoccuparmi; forse per il troppo tempo trascorso in ospedale, oppure per i troppi dispiaceri avuti nel giro di poco tempo, capì che questa probabilmente era diventata una forma di autodifesa contro le avversità, comunque sia, temevo una completa assuefazione che come conseguenza mi poteva portare ad accettare passivamente il tutto, ed invece io non volevo perdere la grinta, la forza, e la speranza che, fino ad ora mi avevano sorretta.

L’unico pensiero che mi sfiorò quella mattina fu: “ma che cos’è diventato il mio bambino?”.

Dopo l’intervento solita trafila, alcuni giorni di terapia intensiva e

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poi la convalescenza in reparto.

Il “nuovo arrivato”Il “nuovo arrivato”

Il 15 aprile giorno di Pasqua vennero a trovarci, per trascorrere tutta la giornata con noi, oltre a Giuseppe ,anche i miei genitori ed i miei suoceri, mi fece molto piacere la loro presenza, anche perché vidi Stefano felice, mentre si assaporava le coccole dei nonni, ed io ne approfittai subito per poter uscire dall’ospedale e trascorrere un intero pomeriggio sola con Giuseppe.

In quei giorni ero stata particolarmente triste, perché sapevo di dover trascorrere le feste in ospedale, oltre a questo, il dr. Wolf, che era tra l’altro uno dei medici tra i più disponibili, era andato via definitivamente, perché trasferito in un altro ospedale della città.

Quando ci salutammo, gli manifestai il mio dispiacere, lui mi rassicurò che sarebbe ritornato a trovarci, ma io sapevo che stavo perdendo un amico, perché col tempo sarebbe stato sempre più difficile rivederci.

Io e Giuseppe, ormai da tempo consideravamo i medici e gli infermieri di quel reparto come facente parte della nostra famiglia

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e, quando vidi attraverso i vetri della finestra, la macchina del dr. Wolf allontanarsi per l’ultima volta, un nodo mi strinse la gola.

Quello stesso giorno, arrivò un nuovo medico il dr. Elmador, si vociferava che fosse un bravo medico, e per di più, specializzato in problemi di esofago, mi rallegrai, perché faceva proprio al caso nostro.

Quando mi fu presentato, la sensazione che ne ricevetti, non fu molto positiva, forse, perché aveva preso il posto di un medico a me molto simpatico e per questo mi sentivo un po’ reticente nei suoi confronti; al contrario, mi sembrò di aver fatto su di lui una buona impressione, infatti fu nei miei confronti gentile oltre misura, e avvertii nelle sue parole una velatura di presunzione, quasi volesse fare colpo su di me.

Non misi mai in dubbio la sua preparazione, ma io, mi ero abituata a ben altro tipo di persone, di grande spessore, di altissima moralità, di profonda umanità, di grande simpatia e disponibilità, persone allegre e solari, che cercavano in tutti i modi di fare sempre del loro meglio non solo per i piccoli pazienti, ma anche per noi mamme che tenevano in altissima considerazione; e quel suo fare un po’ sopra

le righe, quel suo modo di girare tra le stanze del reparto sciorinando ad ogni occasione tutta la sua preparazione, non mi piaceva affatto, anzi mi apparì subito come una persona capace di rompere quel perfetto equilibrio che si era creato tra noi, per cui decisi di non dargli alcuna confidenza.

Stefano, ormai da alcuni giorni mangiava senza grossi problemi, e si faceva sempre più vicino il giorno in cui potevamo andare a casa e non fare più ritorno in ospedale se non per dei controlli.

Ho pregato con forte convinzione affinché il buon Dio ci assista e perché non sorgano più altri complicazioni, anche perché sinceramente in quanto a problemi e complicazioni nulla ci era stato negato.

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Una sera mi trovai a parlare con il nuovo medico della storia di Stefano e ad un certo punto mi interruppe chiedendomi se tutte queste esperienze servono a qualcosa nella vita; cioè, voleva capire come ci si sente a vivere un calvario per due anni e mezzo e lo stato d’animo che una mamma si ritrova alla fine di questa situazione.

<<Nella vita si vive indubbiamente meglio, senza aver vissuto queste situazioni estreme>> dissi ironicamente, volendo sulle prime sottrarmi alla domanda, ma poi dopo una prima esitazione continuai e la mia risposta fu una specie di sfogo, più che a lui, era come se parlassi a me stessa, come se finalmente sentendomi alla fine della storia, volessi tirare le somme, e continuai il discorso: <<Di negativo c’è che si è sconvolta in modo definitivo la vita mia e di tutta la mia famiglia, la mia emotività di base si è letteralmente alterata, quando si tocca con mano la caducità della vita si diventa fragili, si ha paura di tutto, io ho paura del domani, ho paura di perdere i miei affetti.

Mi è stata negata la serenità familiare oltre che personale, ho perso molto, sia nel rapporto con Enzo sia con Giuseppe col quale ho dovuto sospendere un rapporto affettivo da riprendere successivamente e chissà se lo ritroverò intatto, ho perso occasioni di lavoro e ai miei figli chi più gli ridarà la spensieratezza che gli è stata negata, sono dovuti crescere troppo in fretta tutti e due anche se per motivi diversi, uno ha dovuto fare a meno della mia presenza e, in parte, di quella di suo padre, per troppo tempo, l’altro ha dovuto affrontare sofferenze indicibili con conseguenze che si porterà dietro per tutta la vita.

Vuol sapere se provo rabbia? Adesso non più, però ne ho avvertita tanta nei confronti del destino, ma ad un certo punto mi sono sentita come Don Chisciotte che combatteva contro i mulini a vento, e per non fare la sua stessa fine ho smesso di accanirmi contro il destino perché ho capito che era come provare rabbia per la vita, è questo va contro i miei principi, contro quello che ho

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voluto insegnare ai miei figli: la vita va accettata, vissuta in tutte le sue sfaccettature, mai subita o contrastata.

E’ cambiato il mio modo di pensare e vedere la vita, sono cambiate le mie priorità ciò che non è cambiato sono i miei sentimenti che invece si sono rafforzati, ho sempre pensato che Stefano avesse bisogno di tutto il mio amore per superare i problemi, e ho sempre creduto che questo fosse l’unico modo per proteggerlo da tutto, e tenerlo al riparo da ogni conseguenza più estrema.

Il mio amore è stato per Stefano la sua linfa vitale da dove trarre forza lui stesso per vivere.

Mi sono vista costretta a fare di necessita virtù e perciò ho dovuto pur dare un senso a tutto ciò, necessariamente, ho cercato di trarre qualcosa di positivo da questa esperienza, ho imparato a dare senza pretendere di ricevere nulla in cambio, ho capito che l’amore di una madre è l’unico bene inesauribile che si rafforza col tempo. Ho imparato l’importanza di un sorriso, di uno sguardo, di una stretta di mano e di tutti quei piccoli gesti che nella vita ti segnano più di quelli grandi.

Ho conosciuto la vera amicizia, e ho imparato a distinguere meglio di prima l’ipocrisia dalla sincerità, ho scoperto dentro di me risorse che non credevo di avere e che invece tutti noi più o meno abbiamo, come il coraggio, la speranza, l’amore e il senso della lotta e li senti come sentimenti primordiali, che fanno parte della tua struttura di essere umano, solo che prima non lo sapevi.

Come mi sento adesso? Stanca, profondamente stanca e fortunata, perché nonostante tutto Stefano è vivo, il resto si affronterà come abbiamo imparato a fare.

Ma tutto quello che le sto dicendo io, glielo può dire qualsiasi altra mamma che sta vivendo esperienze analoghe alla mia, se non peggiori>>.

Ed il mio pensiero andò ad Antonino, a quella piccola anima

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andata via troppo in fretta e alla sua mamma che non aveva avuto il tempo di scoprirsi migliore di quello che credeva di essere.

Mentre parlavo, cercavo di comprendere il perché di questa domanda, non capivo come mai, con tutta l’esperienza che si ritrova, gli riusciva difficile capire certi stati d’animo, e per un attimo fui cattiva nei suoi confronti, pensai che forse nell’ascoltarmi poteva godere del più bieco e cinico compiacimento; mi pentii quasi subito di questo pensiero.

Sono trascorsi dieci giorni da quando ho pensato che il calvario di Stefano fosse terminato, purtroppo non è stato così perché da alcuni giorni Stefano manifesta problemi di deglutizione.

E’ il 26 aprile, Stefano non riesce a mangiare niente, ha l’esofago completamente occluso; non passa l’acqua e tanto meno la saliva che non riuscendola a deglutire gli si accumula con il rischio di soffocare.

La disperazione si trasforma in pena cocente tutte le volte che Stefano corre piangendo dietro le infermiere che distribuiscono il mangiare, piange e le implora perché ha fame, ha sete e ci sentiamo tutti messi a dura prova.

La diagnosi è sempre la stessa: possibilità di stenosi, o scarsa tonicità dell’esofago.

Comincia a nascere dentro di me una grande angoscia, poiché incomincio a mettere a fuoco quello che avevo cercato di ignorare, volevo illudermi che le nostre sofferenze fossero finalmente terminate; e adesso invece cosa salta fuori? Che l’esofago non ha una peristalsi attiva! Ancora una volta sento echeggiare dietro di me una risata cattiva ma in cuor mio sento che neanche questa volta l’avrà vinta, e cerco di raccogliere tutte le mie forze per poter continuare a guardare avanti.

<<Perché il destino è così malvagio e crudele?Perché la vita fa questi scherzi?>>Tanti “perché” mi assalivano la mente ma mai sono riuscita a

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trovare una risposta benché ci pensassi giorno e notte, all’inizio avevo vissuto tutto questo come una punizione per non aver accettato subito la mia gravidanza, ma non poteva essere così, il Dio in cui credo è un Dio buono e non avrebbe permesso tutto ciò.

Smisi di tormentarmi quando capii che ognuno di noi ha un destino, ha un cammino stabilito da percorrere, ha delle prove da superare attraverso le quali si diventa più consapevoli, ma poi compresi che neanche questo era vero, stavo solo

cercando di trovare una motivazione a tanta disperazione al solo scopo di farmela accettare.

Nonostante le continue dilatazioni, che accertavano l’assenza di stenosi, Stefano continuava a mangiare con difficoltà, in compenso non aveva perso la sua vivacità e la sua voglia di giocare, spesso lo si vedeva nel corridoio del reparto rincorso da qualche infermiere, o rincorrere lui stesso il primo medico che passava, e tutti anche se indaffarati gli dedicavano sempre qualche minuto.

Nei giorni scorsi Stefano aveva eseguito una specie di training per l’esofago, sotto precise disposizioni del dr. Elmador, che consisteva nel somministrare al bambino

alimenti di natura liquida e semiliquida, come il semolino, lo yogurt ecc. anche se con difficoltà riusciva ad ingoiarne qualche cucchiaiata.

Però il mio atteggiamento era di totale diffidenza sul sistema adottato dal nuovo medico, perché tutte le volte precedenti, quando si effettuavano le dilatazioni, per almeno una settimana non si presentava nessuna difficoltà, questa volta invece le cose andarono diversamente, Stefano non riusciva a mangiare.

La mattina seguente vidi entrare in camera per la solita visita di routine il professore con al seguito la sua équipe, tra i quali il dr. Elmador, e quando gli riferii che la sera precedente Stefano aveva mangiato con difficoltà il semolino, tra lo stupore generale, vedemmo il professore andare su tutte le furie urlando: <<Chi ha

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dato disposizione di dare il semolino al bambino? Non lo sapete che è appiccicoso e quindi ha difficoltà ad ingoiarlo? Non sapete che può mangiare solo la “sabbiolina”? Da domani pastina!>>

Raramente in tutti questi anni lo avevamo visto così adirato, ci guardammo tutti negli occhi, l’unico sguardo che non incontrai fu quello del dr. Elmador che al contrario mi appariva stranamente soddisfatto.

Siccome mai avevo trasgredito ad una loro precisa disposizione, a meno che la cosa non veniva prima discussa, quelle parole mi ferirono perché mi sentii chiamata in causa, ciò che mi faceva più rabbia era vedere come il dr. Elmador, ideatore di quella terapia, ora messa in discussine, approvava e condivideva l’affermazione del professore.

<<Signora, il professore dice che il bimbo deve mangiare la pastina, quindi da oggi in poi suo figlio mangerà solo pastina!>>

Nel sentire quelle parole non riuscii a trattenermi dalla rabbia, e contrariamente e quelle che erano le mie abitudini, alzai il tono della voce, dicendo: <<Scusate....., state scherzando vero? Perché se parlate seriamente, non posso attenermi più alle vostre disposizioni, poichè non siete coerenti e in questo modo, vi prendete gioco delle persone, scherzando con il loro equilibrio.

Ditemi come devo orientarmi adesso con il mio bambino, se fino a due settimane fa, il metodo che mi avete fatto adottare, per voi era ottimo, mentre adesso che riscontrate dei problemi, questo non va più bene, e c’è di più, vi infuriate con me come se sia stata io a decidere tutto ciò, mentre in realtà non è così; c’è stato qualcuno che mi ha dato queste disposizione e che riteneva il metodo infallibile. Mi dite come devo continuare ad avere fiducia in voi?>>

Il professore non mi rispose e si allontanò contrariato.Il dr.Patti soffermandosi un attimo nella mia stanza e con uno

sguardo di approvazione mi sussurrò: <<Ha fatto bene, quando ci vuole, ci vuole.>>

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Mi sentii ferita, presa in giro, e fu in quel momento che nacque in me una totale sfiducia nei confronti di questo medico, che si rivelava ai miei occhi volubile ed ipocrita.

L’incoerenzaL’incoerenza

Per tutto il giorno pensai e ripensai a quella discussione, per nulla al mondo avrei voluto litigare con il professore o avrei messo in discussione il suo operato, ma non potevo nemmeno accettare passivamente un suo inutile rimprovero, ero molto risentita nei confronti del dr. Elmador che ritenevo il responsabile di tale situazione.

Avvertivo un fastidioso senso di imbarazzo nei confronti di tutti i medici, perché mai mi sarei permessa in altre occasioni di alzare la voce, e di scontrarmi con loro. L’indomani mattina incontrai nel corridoio il dr. Elmador e con il suo solito sorrisetto mi chiese se ero ancora arrabbiata con lui.

<<Sono indignata e delusa!>> risposi seccamente.<<Vede, Francesca>>, disse con un tono come se parlasse ad una

bambina, che mi fece irritare ancora di più <<ci sono delle situazioni in cui una persona non può sostenere le proprie teorie, anche se le ritiene valide, come per esempio ieri, io non ho potuto contrastare il professore durante la visita.>>

<<Non ha voluto >> replicai duramente. Perché se si è convinti, che quello che si fa è veramente valido, non ci sono “professori” che tengano; ho visto, in passato, dei medici contrastarlo anche pubblicamente per sostenere le proprie convinzioni che ritenevano

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valide. Siamo parlando di vite umane, dr. Elmador! Non di giochi di

potere e di ambizioni, per cui non mi racconti le favolette, perché sono cresciuta ormai.>>

Lo salutai freddamente e mi allontanai ripensando alla sensazione negativa che provai la prima volta che mi fu presentato, e poi non mi piacque per nulla il tono confidenziale col quale mi parlò; dopo anni di conoscenza e di confidenza nessun medico si era mai permesso di rivolgersi a me chiamandomi solo per nome.

Intanto Stefano non riusciva a mangiare niente, né il semolino, e nemmeno la pastina; ingoiava due al massimo tre cucchiaini dopodiché li rigurgitava.

In quei giorni circolava in reparto una tendenziosa calunnia nei miei confronti, e cioè che io non ero più in grado di gestire Stefano.

compresi subito la fonte, e non mi curai più di tanto perché ero consapevole che tutti conoscendomi bene mi stimavano, tanto da aver sempre apprezzato ed elogiato il modo in cui accudivo il bambino; Il “nuovo arrivato” stava creandosi un alibi, spostando il problema su di me, ma io ero sicura di sapergli tenere testa, perché orgogliosa di aver fatto crescere il mio bambino bene e di avergli trasmesso tutto l’amore e la serenità di cui aveva bisogno.

Ritornammo a casa, ma solo per pochi giorni, perché i problemi erano tali che quando chiamai l’ospedale il dr. Ingros mi consigliò di rientrare in ospedale, nel frattempo lo dovetti alimentare per gavage, cioè tramite il sondino naso gastrico che avevo imparato ad inserire.

In quei giorni trascorsi a casa oltre ai problemi di Stefano non sono mancati certo i problemi creati dalla situazione finanziaria con mio zio, problemi burocratici e tutto l’accavallarsi di situazioni. Telefono a mio marito che si trovava a Rivera, per informarlo del problema di Stefano e di tutto ciò che mi aveva riferito la d.ssa.

Giuseppe era andato via dall’ospedale la sera prima, era stato

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chiamato da mio padre perché erano sorti dei problemi con mio zio circa la società che avevano in comune.

Quando mio marito venne a vivere a Rivera, iniziò a lavorare come autista nella ditta di mio padre, che da circa un anno era in società con mio zio, il fratello di mia madre. Accettò a malincuore questo lavoro poiché non era ciò che lui aspirava, aveva lasciato in Inghilterra il posto di coordinatore che si era guadagnato con i suoi sacrifici, mentre qua non si sentiva affatto gratificato. Ma nonostante ciò si inserì bene nel lavoro e guadagnava abbastanza bene, “leggevo” delle insoddisfazione solo sul lato morale.

Purtroppo Rivera nonostante fosse una cittadina prospera, non offriva altre alternative come lavoro al di fuori dell’agricoltura e dell’edilizia.

Grazie all’incremento dell’agricoltura del nostro paese, migliorò il tenore di vita della popolazione, e l’edilizia si è ulteriormente sviluppata. Inoltre con la nascita di nuovi quartieri, il paese ha ampliato la sua estensione ed il lavoro si è triplicato. Anche la nostra ditta ha avuto una forte ascesa economica, abbiamo infatti costruito un villaggio residenziale a Lidogrande una borgata estiva a 7 km dal paese, ed un altro villaggio in fase di costruzione nei pressi di Pianagrande pure questo in un luogo balneare.

In seguito nel giro di un decennio, la crisi economica si abbatté sul nostro paese, colpendo l’agricoltura e di conseguenza l’edilizia e l’artigianato, fino a provocare un decremento che costrinse molte persone ad emigrare.

Purtroppo anche la nostra società risentì molto di questa crisi, poiché avevano affrontato tanto capitale nella costruzione del residence di Pianagrande molti villini rimasero invenduti e di conseguenza si trovarono in un grave disagio economico.

A causa di questo disagio e di altri motivi personali, a mio zio venne a mancare il suo solito modo di fare e strafare come era abituato prima con i soldi, senza che nessuno lo controllasse e se ne

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accorgesse. Mio padre, aveva delegato alcuni anni prima mio marito nella gestione amministrativa, e avendo mio zio trovato pane per i suoi denti, in quanto Giuseppe molto attento, aveva intuito molto bene le sue “intenzioni” ed aveva scoperto i suoi sotterfugi, dei quali molto spesso ne aveva parlato con mio zio, cercando chiarimenti, e lui cercava di raggirare l’argomento, trovando scuse senza alcun fondamento.

Un giorno mio marito mi parlò chiaramente dei problemi che aveva riscontrato con mio zio e delle sue sensazioni negative che aveva avuto circa il futuro della società. Così decidemmo insieme di parlarne con mio padre, che nell’ascoltare i nostri discorsi, non credette alle proprie orecchie, non poteva accettare l’idea che suo cognato fosse capace di trarlo in inganno. Allora mio marito replicò che non voleva più fare parte della società e, che aveva ricevuto una proposte di lavoro che gli assicurava un futuro sereno e tranquillo, e non voleva continuare con loro nell’incertezza di chissà come andrà a finire. Aveva suggerito a mio padre, di stare in ufficio con mio zio e, di tenere gli occhi bene aperti. La mattina seguente Giuseppe si reca all’ufficio per andare a prendere il tesserino di disoccupazione, e lì trova mio zio con mio padre, il quale, la notte aveva riflettuto su ciò che gli aveva detto mio marito ed aveva cominciato a comprendere la verità. Era andato da mio zio per avere delucidazioni e se non li avesse ricevuti in maniera soddisfacente aveva intenzione di dividersi. Mio padre in cuor suo sapeva che Giuseppe stava per prendere la decisione giusta per il suo futuro. E non tenta affatto di fermarlo. Mio zio invece cominciò a fare la morale a mio padre dicendole:<<Come..... fai andare via tuo genero senza alzare un dito? Tutti i sacrifici fatti fino ad ora, per chi li stiamo facendo se non per loro?>> Poi rivolgendosi a mio marito con tono affettuoso gli dice:<<Abbiamo costruito due residence, io e tuo suocero, abbiamo pensato al futuro dei nostri figli. Un altro anno di sacrifici e tutto ciò che abbiamo passa a voi

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senza alcuna interferenza da parte nostra. Abbiamo posto in voi tutte le speranze per il futuro e se adesso tu ci lasci, ci ritroviamo nei pasticci. Non devi cercare lavoro altrove, giacché qua hai un prospero avvenire. vuoi andare a fare il semplice impiegato, o essere il proprietario di un complesso che vale miliardi di lire?>> Mentre gli faceva questo discorso aveva le lacrime agli occhi , ed il tono deciso ed affettuoso di un padre che rammenta il bene al proprio figlio. Sembrava così sincero che mio padre e mio marito si lasciarono convincere a rimanere ancora insieme. Trascorsero altri due anni, ma delle promesse fatte non ne mantenne nemmeno una, continuava a fare ciò che sempre aveva fatto. Così mio padre decise di mettere tutto in chiaro con mio zio . Ma lui non volle comprendere e, a tal punto costrinse mio padre a prendere la decisione di dividersi. Lui accettò; fecero delle condizioni, mio padre non volendo più dividere nulla con lui, decise di avere tutto il capitale che gli spettava in denaro, ed a lui rimanevano tutti gli immobili contenuti nel residence. Nel frattempo mio marito era con me a Palermo perché stavamo vivendo il dramma di mio figlio. E anche mio padre era nelle condizioni meno adatte a prendere questa decisione, considerando lo stato d’animo che aveva, a causa delle condizioni in cui si trovava il nipotino. Ma mio zio non volle attendere oltre.

Alcuni giorni dopo, si riunirono dall’avvocato per fare la divisione dei beni e quindi stipularono il nuovo contratto che conteneva la somma di denaro destinata a mio padre.

La sera che Giuseppe venne chiamato da mio padre, essendo stato un mese a Palermo non era a conoscenza di quanto fosse accaduto, arrivato a casa, mio padre gli diede la notizia: mio zio, indubbiamente d’accordo con l’avvocato, li aveva truffati, poiché il contratto che lui aveva firmato non aveva valore, invece quello che aveva firmato mio Padre circa i beni immobili destinati a mio zio, era valido.

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In poche parole ci siamo ritrovati senza soldi, senza lavoro e senza proprietà,. Una vera e propria carognata.

Ma mio marito non si arrese così facilmente. La stessa sera, dopo che io gli telefonai mettendolo al corrente del grave problema di nostro figlio, andò a trovarlo, come se fosse ignaro di tutto ciò che fosse accaduto con mio padre. Gli chiese una somma di denaro perché avevamo gravi problemi con il bambino e non sapendo come andasse a finire…., gli spiegò, c’era la possibilità che potessimo andare al nord, fuori dalla Sicilia con Stefano.

Senza battere ciglio, poiché la coscienza gli rimordeva, dopo alcuni giorni gli fece avere il denaro. Mio marito diede la metà del denaro a mio padre, e questo è quanto ricevemmo dalla divisione. Erano briciole in confronto a ciò che ci spettava. In seguito mio padre, proseguì per via legale, ma fino ad oggi non ha ancora ricevuto

denaro. Giuseppe stava vivendo un periodo di totale sconforto perché

non riusciva ad accettare questo stato di cose, aggravato dal fatto che quando tutto sembrava che stesse per risolversi ad un tratto invece si ritornava al punto di partenza, ed io non riuscivo a scuoterlo da questo stato di ansia e di apprensione, i suoi pensieri erano sempre incentrati su un unico fatto e cioè che Stefano da quando è nato non riesce a mangiare ed ancora oggi dopo i numerosi interventi che ha subito siamo al punto di partenza.

Cercavo in tutti i modi di fargli coraggio, facendogli capire che le cose non sempre possono andare male, che dovrà pur venire il momento in cui Stefano non avrà più questi gravi problemi e, anche se dovrà in parte portarseli dietro per tutta la vita, l’importante è che stia bene, perché a questo punto era necessario convincersi che quella di Stefano non era una malattia di cui disperarsi, ma una condizione da accettare e con la quale conviverci sia lui che noi per tutto il resto della vita.

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Oltre a fare coraggio a lui, con i miei discorsi cercavo anche di convincere me stessa che il peggio era già passato, anche se la situazione reale sembrava non darmi ragione.

Stefano tra un ricovero e un rientro a casa continuava a subire dilatazioni su dilatazioni, ma i problemi persistevano, ed erano ormai trascorsi più di quattro mesi dall’ultima volta che era stato dilatato, ma di progressi neanche l’ombra.

Era il 9 marzo quando ritornammo a Palermo intorno alle ore 17,00 per l’ennesimo ricovero, ed anche questa volta, come ogni volta, sperai proprio che fosse l’ultimo.Fummo accolti dai medici e dagli infermieri in modo molto caloroso, a dimostrazione del fatto che dopo gli ultimi scontri verbali causati in parte dal dr. Elmador in parte dalla stanchezza reciproca, nulla era cambiato.

Incontrai il professore De Cretis, mentre stavo andando al bar con Stefano, e appena ci vide già da lontano allargò le braccia per accoglierci, ci lasciammo abbracciare e baciare sia io che Stefano con molto piacere e con un po’ di commozione, mai negli ultimi anni eravamo stati tutti questi mesi, per l’esattezza cinque, senza vederci e sia noi che loro avevamo sentita la mancanza di entrambi.

Devo confessare che questa accoglienza così affettuosa mi colse un po’ di sorpresa, perché prima di andar via avevo avuto la netta sensazione che i rapporti tra noi si fossero un po’ incrinati, a causa del fatto che i problemi di Stefano non riuscivano a risolversi e loro non avendo più delle risposte concrete e positive da darmi cercavano in tutti i modi di evitarmi. Ma mi sentii felice e sollevata nell’accorgermi di essermi sbagliata.

Si programmò per l’indomani l’ennesima dilatazione, e questa volta, approfittando del fatto che Stefano comunque doveva essere anestetizzato, ritennero opportuno approfittarne per intervenire sulle due ernie inquinali che aveva dalla nascita.

Il risultato questa volta era che l’esofago non era così stenotico

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come io supponevo anzi, si presentava abbastanza morbido, le ernie, furono rinviate ad un’altra volta. Ritenne opportuno sottolineare che le mie non erano affatto supposizioni, ma la realtà, siamo stati quasi cinque mesi a casa non perché tutto andasse bene, piuttosto ci siamo sacrificati e abbiamo sofferto per evitare di sottoporre il bambino a queste continue anestesie, allora gli chiesi: <<Se non è un problema di stenosi, allora è la peristalsi dell’esofago che non va?>>

La risposta del professore fu concisa: <<Che l’esofago non abbia una buona peristalsi era una cosa che già si sapeva.>>

La peristalsi dell’esofago consiste nell’attività motoria dell’esofago stesso che permette con una buona attività della muscolatura circostante di far scendere il cibo, invece in Stefano tutto ciò non avveniva, e il cibo doveva scendergli nello stomaco per caduta diretta, e da lì tutte le conseguenze immaginabili, ecco perché era costretto a mangiare solamente roba liquida o semiliquida.

In seguito fu eseguita tramite l’inserimento di un sondino la PH metria, perché oltre a tutti i problemi di deglutizione si era aggiunto pure il reflusso gastro - esofageo.

Nonostante Stefano si nutriva esclusivamente con alimenti di base alcalina, era stata evidenziata una zona dell’esofago piuttosto acida e tutto ciò a parere del medico sembrava alquanto strano, a meno che non ci fosse un ristagno nell’esofago.

Se effettivamente il dr. Aiaxit non si sbagliava, e c’era un ristagno nell’esofago,

due potevano essere i motivi, e cioè, o si era formato nuovamente un diverticolo, oppure, l’esofago non avendo una buona peristalsi, non riusciva a spingere il bolo alimentare con conseguente ristagno, e comunque in entrambi i casi la situazione era abbastanza critica.

Si scoprì successivamente che Stefano aveva sia un diverticolo che la peristalsi completamente assente.

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Il professore decise di dilatare la Nissen, cioè la plastica antireflusso, ma neanche questo servì a risolvere il problema.

In quel periodo mi trovavo sola, perché Giuseppe era dovuto andare a Vicenza per motivi di lavoro, a me quella solitudine pesava più di qualsiasi cosa, e un giorno non seppi trattenermi dal chiamarlo dicendogli di rientrare, capii successivamente che il mio fu un atto egoistico, ma allora lo vidi come un bisogno primario, e poi mi faceva quasi paura, notare come il professore ed il dr. Elmador spesso risultavano incoerenti nelle terapie e nelle soluzioni.

Era diventata indispensabile dover parlare con il professore per chiedergli alcuni chiarimenti, e volevo farlo con Giuseppe, lui capì e nel giro di pochi giorni fece ritorno a Palermo.

Quando entrammo nello studio del professore, vidi che anche il dr. Elmador ci stava aspettando, la sua presenza a me appariva incombente ed ingombrante, sinceramente avrei preferito avere con il professore un colloquio riservato, ma ormai dovevo rassegnarmi al fatto che probabilmente il “nuovo arrivato” aveva un forte ascendente su di lui.

Ci fu spiegato che il bambino non avrebbe dovuto avere problemi di alimentazione, almeno non con la roba che lui mangiava, perché dal transito si era evidenziato che non c’era stenosi, non c’era nessun diverticolo, la peristalsi è buona, quindi, visto che due più due fa quattro, tirarono le somme e sentenziarono che il problema del bambino era di tipo psicologico e che si riteneva necessaria una consulenza o addirittura un ricovero in neuropsichiatria infantile.

Era chiaro come il sole che il dr. Elmador stava facendo terra bruciata attorno a me ed a mio figlio, anche se non ne capivo la ragione, ma quello che non tolleravo era che il professore potesse darle ragione. Fu così che per la seconda volta ebbi uno scontro con il professore, del quale mi pentii dopo essermi calmata perché mi resi conto che stavo facendo il gioco del “nuovo arrivato”.

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I problemi di mio figlio erano di natura fisiologica e non psicologica come invece sostenevano loro. Io che vivevo ogni istante della giornata con lui, avevo imparato a riconoscere ogni suo problema, ne individuavo i sintomi riuscivo a capire da un semplice battito di ciglia o dal respiro quali potevano essere i suoi stati d’animo, i suoi pensieri, Stefano era cresciuto in modo diverso dagli altri bimbi, ma non per questo era da ricoverare addirittura in neuro psichiatria infantile. Mi sentivo bollire dalla rabbia e non feci nulla per mascherare questo mio sentimento.

Per cui chiesi di poter fare una manometria esofagea in modo da poter vedere come funzionava la peristalsi.

Per fare questo tipo di esami bisognava andare in un altro ospedale perché là non era disponibile la strumentazione adatta e bisognava programmare la consulenza e rispettare i tempi di attesa, ma tutto ciò non era un problema per me, avevo a disposizione tutto il tempo necessario. Nel frattempo Stefano continuava ad avere problemi tanto che i medici hanno ritenuta necessaria l’alimentazione notturna con il pediasure a goccia lenta tramite sondino.

Fino al due di Luglio, giorno programmato per la consulenza per la manometria esofagea al Policlinico, restammo all’ospedale, perché Stefano non riusciva a mangiare.

Il referto della manometria fu: “zona di alta pressione a circa 28 cm, di 2 cm di lunghezza e pressione di18 mmtty. Assenza di attività peristaltica, presenza di onde motorie non progressive post-deglutizione”. In altre parole l’esofago non funziona affatto!

Il professore la mattina seguente mi chiamò nel suo studio per chiarirmi il problema, spiegandomi che l’esofago del bambino è assente di attività peristaltica ed è per questo che sussistono difficoltà nella deglutizione, a prova di quanto io avevo sostenuto.

L’unica soluzione a questo problema era rifare un intervento con la tecnica che per vari motivi aveva scartato all’inizio, e cioè con il

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colon-plasto, ma considerando le condizione fisiche del bambino sarebbe stato bene attendere un bel po’ di tempo

prima di prendere una decisione del genere.Mi chiese se volevo andare a casa, se mi sentivo in grado di

gestire questa situazione da sola, faccio cenno di si con il capo, esco dallo studio con gli occhi colmi di lacrime e mi avvio nella mia stanza.

Ed ecco ripresentarsi nuovamente l’angoscia e la paura, perché trattandosi di un problema di funzionalità nessuno può darci delle risposte concrete; troppi chissà e troppi forse, sento che bisogna trovare delle soluzioni che diano a Stefano delle certezze, non so cosa sia meglio per il mio bambino , se adeguarsi a questo tipo di vita e non poter mangiare come gli altri o scegliere l’altra alternativa quella dell’intervento con il colon, cioè eliminare tutto il lavoro che è stato fatto sino ad oggi e ricominciare da capo.

Io e Giuseppe ci sentiamo come smarriti, in preda al panico, terrorizzati da questa nuova realtà, anche se negli ultimi tempi avevamo intuito che sarebbe andata così, però capii che questa volta avevo cercato di illudermi, che la soluzione finale poteva essere diversa e meno drastica. Toccava a me e a Giuseppe prendere una decisione e doveva essere necessariamente quella giusta, perché si trattava della vita di nostro figlio.

Il nostro dovere di genitori è quello di assicurargli un futuro migliore, non volevamo certo che il nostro bambino si sentisse diverso dagli altri; che crescesse con dei complessi, che abbia problemi per tutta la vita.

Abbiamo paura, tanta paura, prego Dio di non farci fare la scelta sbagliata, e comunque di continuare a fare tutto ciò che sia bene per lui.

Oggi a distanza di nove anni, stiamo ancora cercando dentro di noi la giusta decisione, e nel ripensare a quella che è stata la vita di Stefano, la vedo come divisa da una linea di demarcazione, di là la

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sua malattia, le cure, le sofferenze, la sua diversità, la nostra paura, la lotta, il dolore. Di qua la sua gioia di vivere, la sua spensieratezza e allegria, l’amore e la curiosità per tutto ciò che lo circonda, la sua unicità la sua serenità unita ad uno straordinario equilibrio interiore che, nonostante tutto dimostra di avere.

Abbiamo sempre cercato di insegnargli che nella vita bisogna avere sempre forza e coraggio per superare tutte le avversità che questa ad ognuno di noi ci riserva.

Da Stefano abbiamo imparato che la vera forza ed il veroDa Stefano abbiamo imparato che la vera forza ed il vero coraggio sta nel superare quella linea e sapere andare oltre ilcoraggio sta nel superare quella linea e sapere andare oltre il dolore.dolore.

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I N D I C EI N D I C E

Cap. 1 ...................... L’attesaCap. 1 ...................... L’attesa

Cap. 2 ...................... La risoluzioneCap. 2 ...................... La risoluzione

Cap. 3 ...................... L’incuboCap. 3 ...................... L’incubo

Cap. 4 ...................... La nascitaCap. 4 ...................... La nascita

Cap. 5 ...................... L’incontroCap. 5 ...................... L’incontro

Cap. 6 ...................... Il primo allungamentoCap. 6 ...................... Il primo allungamento

Cap. 7 ...................... Con la speranza nel cuoreCap. 7 ...................... Con la speranza nel cuore

Cap. 8 ...................... Ultima chanceCap. 8 ...................... Ultima chance

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Cap. 9 ...................... Enzo: il figlio “abbandonato”Cap. 9 ...................... Enzo: il figlio “abbandonato”

Cap10…………….... La forza della fedeCap10…………….... La forza della fede

Cap.11 ...................... Il miracoloCap.11 ...................... Il miracolo

Cap.12 ...................... La “ricaduta”Cap.12 ...................... La “ricaduta”

Cap.13...................... A casaCap.13...................... A casa

Cap.14 ...................... L’imprevistoCap.14 ...................... L’imprevisto

Cap.15 ...................... Il “nuovo arrivato”Cap.15 ...................... Il “nuovo arrivato”

Cap.16 ...................... L’incoerenzaCap.16 ...................... L’incoerenza

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