omenica emanuela audisio domenica maggio 2008 di...

19
Tempo Macchina Al Cern di Ginevra sta per essere avviato l’Lhc, il più grande acceleratore di particelle del mondo Ci riporterà al Big Bang e ai suoi misteri Siamo andati a visitare quest’opera straordinaria GINEVRA A cavallo della frontiera franco-svizzera, fra il lago Lemano e il paese di Voltaire, la storia del mondo si prepara a una svolta. In mezzo a paesini ordinati coi loro campanili, i prati ben rasati, i vigneti e le mucche che brucano, l’umanità intera sta per fare un passo avanti, un salto forse, nella conoscenza dell’universo, della ma- teria e delle forze sconosciute che lo tengono insieme. «Sappia- mo che qualcosa succederà — dice Fabiola Gianotti, milanese —. È un momento storico per la scienza, e quel che scopriremo potrebbe cambiare i libri di testo. Fra un anno o due, c’è la pos- sibilità che si scopra l’origine della materia oscura che costitui- sce il venticinque per cento dell’universo». Quando sente parole del genere, un povero profano ha due scelte. O si arrende, volta le spalle e torna alla sua esistenza se- mi-animale, alle prese con forme di materia rozza (carta, benzi- na, asfalto, pastasciutta). Oppure passa i cancelli del Cern, si af- fida a una serie di gentili scienziati compatrioti che qui lavora- no, e prova — se non a capire — a immaginare almeno, a perce- pire le vibrazioni del momento storico. Mancano poche setti- mane. Poi il più grande acceleratore di particelle del mondo, l’Lhc (Large Hadron Collider), verrà avviato. (segue nelle pagine successive) H erbert George Wells pubblicò questo romanzo breve nel 1895 come Una esplorazione per il futu- ro. E a dire il vero, l’esplorazione e l’esperimento e il futuro furono la vita stessa di Wells. All’inizio del romanzo il viaggiatore nel tempo, così chiama- to, si rivolge ai suoi amici raccolti nel salotto, uno psicologo, un matematico, un medico, il Sindaco provinciale, tutti ad ascolta- re un nuovo paradosso del viaggiatore. Il problema che vuole trattare è che qualsiasi corpo reale de- ve estendersi in quattro direzioni: lunghezza, larghezza, spes- sore e durata. Ma per una imperfezione di natura viene trascu- rato l’ultimo fattore, ai tre corpi dello spazio conosciuti occorre aggiungerne un altro, lo spazio del tempo. Del resto gli scien- ziati, dice il viaggiatore, sanno perfettamente che il tempo è sol- tanto una specie di spazio. La grande difficoltà, secondo lo psicologo, è che ci si può muo- vere in tutte le direzioni dello spazio, ma non nel tempo. Il viag- giatore nel tempo, sorridendo, risponde che noi ci muoviamo liberamente nello spazio, certo, liberamente in due dimensio- ni, ma la gravità ci pone dei limiti. (segue nelle pagine successive) con un’illustrazione di MIRCO TANGHERLINI i luoghi Il museo dei soldatini, giocattoli da re ALESSANDRO BARBERO e GIAN LUCA FAVETTO cultura Quando D’Annunzio querelò Scarpetta LEONETTABENTIVOGLIO,BENEDETTOCROCEeSALVATOREDIGIACOMO l’attualità I duellanti, condannati all’odio-amore EMANUELA AUDISIO l’incontro Spike Lee, così cambia la mia rabbia MARIA PIA FUSCO FABRIZIO RAVELLI DANIELE DEL GIUDICE il reportage Famagosta, la bella addormentata MARCO ANSALDO e DARIO BIOCCA la memoria Pissard, lo stregone del petrolio FILIPPO CECCARELLI FOTO CORBIS Nella del DOMENICA 25 MAGGIO 2008 D omenica La di Repubblica Repubblica Nazionale

Upload: dangtruc

Post on 24-Feb-2019

219 views

Category:

Documents


0 download

TRANSCRIPT

TempoMacchina

Al Cern di Ginevra sta per essere avviato l’Lhc,il più grande acceleratore di particelle del mondo

Ci riporterà al Big Bang e ai suoi misteriSiamo andati a visitare quest’opera straordinaria

GINEVRA

A cavallo della frontiera franco-svizzera, fra il lagoLemano e il paese di Voltaire, la storia del mondosi prepara a una svolta. In mezzo a paesini ordinaticoi loro campanili, i prati ben rasati, i vigneti e le

mucche che brucano, l’umanità intera sta per fare un passoavanti, un salto forse, nella conoscenza dell’universo, della ma-teria e delle forze sconosciute che lo tengono insieme. «Sappia-mo che qualcosa succederà — dice Fabiola Gianotti, milanese—. È un momento storico per la scienza, e quel che scopriremopotrebbe cambiare i libri di testo. Fra un anno o due, c’è la pos-sibilità che si scopra l’origine della materia oscura che costitui-sce il venticinque per cento dell’universo».

Quando sente parole del genere, un povero profano ha duescelte. O si arrende, volta le spalle e torna alla sua esistenza se-mi-animale, alle prese con forme di materia rozza (carta, benzi-na, asfalto, pastasciutta). Oppure passa i cancelli del Cern, si af-fida a una serie di gentili scienziati compatrioti che qui lavora-no, e prova — se non a capire — a immaginare almeno, a perce-pire le vibrazioni del momento storico. Mancano poche setti-mane. Poi il più grande acceleratore di particelle del mondo,l’Lhc (Large Hadron Collider), verrà avviato.

(segue nelle pagine successive)

Herbert George Wells pubblicò questo romanzobreve nel 1895 come Una esplorazione per il futu-ro. E a dire il vero, l’esplorazione e l’esperimentoe il futuro furono la vita stessa di Wells.

All’inizio del romanzo il viaggiatore nel tempo, così chiama-to, si rivolge ai suoi amici raccolti nel salotto, uno psicologo, unmatematico, un medico, il Sindaco provinciale, tutti ad ascolta-re un nuovo paradosso del viaggiatore.

Il problema che vuole trattare è che qualsiasi corpo reale de-ve estendersi in quattro direzioni: lunghezza, larghezza, spes-sore e durata. Ma per una imperfezione di natura viene trascu-rato l’ultimo fattore, ai tre corpi dello spazio conosciuti occorreaggiungerne un altro, lo spazio del tempo. Del resto gli scien-ziati, dice il viaggiatore, sanno perfettamente che il tempo è sol-tanto una specie di spazio.

La grande difficoltà, secondo lo psicologo, è che ci si può muo-vere in tutte le direzioni dello spazio, ma non nel tempo. Il viag-giatore nel tempo, sorridendo, risponde che noi ci muoviamoliberamente nello spazio, certo, liberamente in due dimensio-ni, ma la gravità ci pone dei limiti.

(segue nelle pagine successive)con un’illustrazione di MIRCO TANGHERLINI

i luoghi

Il museo dei soldatini, giocattoli da reALESSANDRO BARBERO e GIAN LUCA FAVETTO

cultura

Quando D’Annunzio querelò ScarpettaLEONETTA BENTIVOGLIO, BENEDETTO CROCEeSALVATORE DI GIACOMO

l’attualità

I duellanti, condannati all’odio-amoreEMANUELA AUDISIO

l’incontro

Spike Lee, così cambia la mia rabbiaMARIA PIA FUSCO

FABRIZIO RAVELLI DANIELE DEL GIUDICE

il reportage

Famagosta, la bella addormentataMARCO ANSALDO e DARIO BIOCCA

la memoria

Pissard, lo stregone del petrolioFILIPPO CECCARELLI

FO

TO

CO

RB

IS

Nella

del

DOMENICA 25MAGGIO 2008

DomenicaLa

di Repubblica

Repubblica Nazionale

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25MAGGIO 2008

la copertinaMacchine del tempo

Un tunnel circolare, lungo ventisette chilometrie profondo cento metri, costruito per “sparare” fascidi protoni alla velocità della luce e farli collideresotto lo sguardo di ottomila scienziati. Permetteràdi far luce su misteri della fisica come la materiaoscura, l’antimateria, la “particella di Dio”

Fatta di lastre di acciaioper contenereil campo magnetico

Lastre d’acciaio

Entrata protoni

Serpentina cilindricadi magneti

alt

ezza

15 m

etr

i

peso12.500 tonnellate

lunghezza 21 metri

ATLAS

QUATTRO STRATI

LHCBAnalizzale differenzetra materiae antimateria

Lastre d’acciaio

Lastre d’acciaio

Serpentina

cilindrica di magneti

CMS

ELETTRONI

FOTONINEUTRONI

PROTONI

MUONI

CMSSEZIONE TRASVERSALE

Wagner-Sancho ha avuto il merito di ri-cordare che qui al Cern qualcosa di sen-sazionale sta per avvenire. Non «fine dimondo» ma, casomai, la messa in scenadel suo inizio.

Nella sala controllo del Cern un fisicoitaliano, Roberto Saban, tiene d’occhiosui monitor l’anello sotterraneo che si av-via verso il momento dello start. È il re-sponsabile del collaudo. «Il fascio di pro-toni viaggia all’interno di una conduttu-ra sotto vuoto, e viene guidato da magne-ti che gli danno la curvatura necessarialungo l’anello. Sono 1232 magneti super-conduttori, ognuno un bestione lungo 15metri e pesante 32 tonnellate, alimentatia 12mila ampére. Specie di thermos, cheall’interno hanno una massa raffreddataa 1,9 kelvin, cioè meno 271 gradi». A quel-la temperatura, le bobine di niobio-tita-nio non presentano resistenza. Se si usas-sero magneti “caldi”, per raggiungere lastessa energia l’anello dovrebbe esserelungo 120 chilometri, e consumerebbe40 volte tanta elettricità. «Sono magneti“di frontiera”, che lavorano al limite del-la loro progettazione — spiega Saban —Così come la criogenia, cioè il sistema diraffreddamento».

Tutto qui è di frontiera, innovativo,avanti: l’ingegneria, i materiali, i progetti.In ogni campo, la sperimentazione pro-duce ricadute che fanno fare passi avantialla vita di tutti i giorni. La tecnologia de-gli acceleratori trova applicazione incampo tumorale e nella diagnostica me-dica, così come nello studio dei super-conduttori, o nei sistemi di screening del-le merci negli aeroporti. Il Cern è, insom-ma, anche un buon affare per gli Stati chelo finanziano, Italia compresa. Ma vedia-mo l’anello che Saban sta collaudando. Ifasci di protoni (cento miliardi di protoni,

in 2800 «pacchetti») viaggeranno all’in-terno di un condotto (dieci cm di diame-tro interno) dove viene creato l’“ultra-vuoto”, più vuoto che nello spazio, un de-cimillesimo di miliardesimo della pres-sione al livello del mare. I protoni an-dranno alla velocità della luce, e farannoil giro dei 27 chilometri undicimila volteal secondo. Alla massima potenza del-l’Lhc, ogni fascio avrà un’energia pari aquella di un auto lanciata a 1600 chilo-metri orari. Ogni protone 7 tev (tera elet-trovolt), quindi ogni collisione raggiun-gerà i 14 tev: una soglia mai raggiunta, econsiderata necessaria per liberare e ri-conoscere particelle mai viste. Saban siprepara a controllare l’anello, i magnetiche guidano, ripuliscono e concentranoil fascio, le temperature di esercizio: «Al-l’inizio, succederà che non sapremo pilo-tare la macchina, ma ci aggiusteremopresto».

Lungo il percorso, dentro enormi ca-verne sotterranee, ci sono i rivelatori,quattro in tutto. Due (Atlas e Cms) sono“general purpose”, hanno cioè compiti diosservazione più larghi, seppure con tec-nologie diverse. Gli altri due (Alice e Lhcb)sono indirizzati a obiettivi più specifici.Paolo Giubellino, fisico torinese dell’Infn(Istituto nazionale di fisica nucleare), èuno dei responsabili di Alice (A Large IonCollider Experiment): «Alice studia lamateria nucleare ad alta densità, e cioè ilmomento in cui si è passati dalla pappa diquark-gluoni alla formazione di protonie neutroni. Circa venti milionesimi di se-condo dopo il Big Bang». Sarà la prima fa-se dopo l’avviamento del grande accele-ratore, quando per creare Qgp (il plasmadi quark-gluoni) si faranno scontrare nu-clei di piombo: «Alice è progettata per la-

vorare a intensità più bassa, quindi per ilprimo anno lavorerà bene. A bassa inten-sità, gli eventi sono più rarefatti. Poi gli al-tri si metteranno a correre. Ma tutti equattro continueranno a prendere datiinsieme. Qui è come se si lavorasse ingrandi esplorazioni geografiche, con ungran numero di persone: per ogni rivela-tore c’è il contributo di cento istituti diuna trentina di paesi diversi».

I rivelatori sono macchine enormi, co-struite intorno alla condotta centrale do-ve passerà il fascio. Fabiola Gianotti lavo-ra ad Atlas, un arnese lungo 46 metri conun diametro di 25 e pesante circa sette-mila tonnellate: «Qualunque sia la fisicanuova che si rivelerà, Atlas e Cms la ve-dranno. Oggi conosciamo bene il mondodelle particelle elementari, descritte dal-la teoria del Modello Standard. Il model-lo spiega bene, ma non risponde a tutte ledomande. Sappiamo che nell’universoc’è un venticinque per cento di materiaoscura, e un settanta di energia oscura.Nessuna delle particelle che conosciamopuò spiegare la materia oscura». Il Mo-dello Standard è una teoria che disegna lasituazione delle nostre conoscenze. Mala cosa che sembra sensazionale (a unprofano) è che tutto quello che si cono-sce, la cosiddetta materia ordinaria di cuinoi e ogni oggetto sulla Terra sono costi-tuiti, non rappresenta che il sei per centodella materia ed energia dell’universo.

La nostra ignoranza è sconfinata: «Al dilà del Modello Standard ci sono molteteorie, e fenomeni che oggi non cono-sciamo, anche se abbiamo qualche idea.La soglia in cui il Modello Standard co-mincia a dare segni di cedimento è pro-prio a quella scala del tev, di energia, che

Puntod’impatto

ACCELERAZIONEDue fasci di protoni che viaggianoin direzione opposta vengono acceleratiquasi alla velocità della lucepercorrendo l’anello più voltementre attraversano una serie di rilevatori

CMSUno dei due grandirilevatori costruitointorno a un solenoideIndividua un ampiospettrodi particelle

(seguedalla copertina)

Due fasci di protoni comin-ceranno a viaggiare, neidue sensi, lungo il tunneldi ventisette chilometri acento metri sotto terra. Siscontreranno in quattro

rivelatori, sorta di colossali macchine fo-tografiche che fisseranno le immaginidell’impatto.

Vedremo l’origine dell’universo, checosa è successo un decimo di miliardesi-mo di secondo dopo il Big Bang, perchéquelle sono le condizioni che verranno ri-create. Un progetto simile non è mai sta-to tentato, ed è il più ambizioso al mondo.Non poteva succedere che qui al Cern, ilpiù importante laboratorio planetarioper la fisica delle particelle, l’impresa che(dal 1954) tiene insieme venti stati mem-bri europei, e circa sessanta di tutto ilmondo, impegnando ogni giorno otto-mila scienziati. Da luglio in avanti, e per iprossimi anni, ci si aspetta di scoprirequalcosa che non è mai stato visto, ma so-lo immaginato coi modelli teorici. Ogget-ti misteriosi come la materia oscura, l’an-timateria, le supersimmetrie “Susy”, o ilbosone di Higgs, ipotetica particella ele-mentare che il Nobel Leon Max Leder-man ha chiamato (facendo storcere labocca a molti colleghi) «la particella diDio».

L’attenzione (non eccessiva) dellagente normale verso questo progetto èstata risvegliata poco tempo fa dall’ini-ziativa di due personaggi che hanno ten-tato di bloccarlo. Con un appello al tribu-nale delle Hawaii (uno dei due abita lì, e viha fondato l’orto botanico), Walter Wa-gner e Luis Sancho hanno sostenuto chel’Lhc è una sorta di «arma fine di mondo»come quella del Dottor Stranamore, chepuò produrre “buchi neri” in grado di in-ghiottire Ginevra e poi l’intero pianeta.Tesi bizzarra, che gli scienziati conside-rano un’autentica fesseria. Già in passa-to esperimenti simili (ma più limitati)avevano fatto gridare al pericolo di finedel mondo, e poi non era successo nien-te. Ma, paradossalmente, la boutade di

FABRIZIO RAVELLIl’acceleratore Lhc per la prima volta rag-giungerà. Il termine materia oscura indi-ca anche la nostra ignoranza. Siamo difronte a un muro, e abbiamo moltissimedomande. In questo senso, ci si può apri-re un nuovo mondo, e la posta in gioco èbellissima».

Tutti i libri di testo potrebbero finire inarchivio. Dietro quel muro si potrebbescoprire l’esistenza del bosone di Higgs,finora solo ipotizzata: un campo di ener-gia che determina le diverse masse delleparticelle. O delle particelle supersim-metriche dette “Susy”, che potrebbespiegare la materia oscura, e di massa ab-bastanza elevata da non poter essere sta-te prodotte finora artificialmente. Noncon il Lep, l’acceleratore del Cern che hapreceduto l’Lhc.

Guido Tonelli, fisico pisano, è uno de-gli scienziati responsabili del Cms, l’altrogrande rivelatore. Ha gli stessi obiettivi,grosso modo, di Atlas, ma con tecnologiediverse. E ciascuno dei due, in pratica, ve-rifica i risultati dell’altro. «Osserveremoun miliardo di collisioni al secondo. Fraqueste ne sceglieremo centomila che po-trebbero essere interessanti, e alla finesolo cento da immagazzinare su disco. Eun flusso di informazioni paragonabile,in quell’istante, all’intero flusso di infor-mazioni del mondo». Ecco quindi che, inun caverna adiacente a quella di Atlas, c’èuna grandissima “farm” di computer perselezionare i dati prima di inviarli al cen-tro di calcolo.

Il tunnel sta per essere chiuso, in pre-parazione dello start. L’ultimo segmentoaperto è quello che ci mostra FrancescoBertinelli, ingegnere milanese, che perandare avanti e indietro sotto terra usa lasua mountain-bike: «Questa che vedia-mo al Punto 4 è la cavità di radiofrequen-

All’origine dell’universo

COLLISIONEE RIVELAZIONE

Fasci di protoni lanciatigli uni contro gli altri

si scontrano. L’esplosionedi energia emette nuove

particelle. Queste passanoattraverso una seriedi rivelatori disposti

a strati comeuna cipolla

Disegna l’esatto tracciatoche ogni particella caricata sta compiendo

Cattura l’energia di elettronie protoni

Rileva i muoni, le unicheparticelle cariche che possonosfuggire agli altri strati

Cattura l’energia di adroni,particelle come protoni,neutroni, pioni e kaoni

ALICERicreale condizionisubito dopoil Big Bang

Repubblica Nazionale

ILLU

ST

RA

ZIO

NE

DI M

IRC

O T

AN

GH

ER

LIN

I

Entrataprotoni

Diametro 8,5 km

Circonferenza 27 km

peso7.000 tonnellate

alt

ezza

25 m

etr

i

lunghezza 46 metri

Pista sagomata da magneti

NEUTRINISono così piccoli che passanoattraverso il rilevatore senzaessere rilevati. La loro presenzasi deduce dalla differenzatra l’energia inizialee finale della collisione

ATLASIl secondo dei duegrandi rilevatoriche analizza ancheparticelleche potrebberoformare materiaoscura

LA MACCHINAIl Large Hadron Collider

è un acceleratore di particelle:un tunnel circolare lungo

27 km cento metri sottoterra

GLI SCIENZIATIAl Cern lavorano ottomilascienziati. Gli Stati membri

del laboratorio sono sessantanel mondo e venti in Europa

LE APPLICAZIONILa tecnologia Lhc, tra l’altro,

ha applicazioni nella diagnosticamedica, nei superconduttori,nello screening delle merci

Pista sagomatada magneti

ELETTRONI

NEUTRONI

MUONI

ATLASSEZIONE TRASVERSALE

Gli esploratori del futuro

Puntod’impatto

za, in pratica il pedale dell’acceleratore.Ad ogni passaggio il flusso di protoni au-menta la sua energia». Moltissima tecno-logia è di produzione italiana: un terzodegli enormi magneti, per esempio, o i tu-bi senza saldature della Dmv di Costa Vol-pino. Infine l’ultimo rivelatore, l’Lhcb:«Questo è diverso dagli altri — spiega Car-lo Forti, romano — perché non è circola-re ma asimmetrico. Osserverà i mesoni B,che dopo la collisione vanno da una par-te sola. E studieremo l’asimmetria mate-ria-antimateria, un miliardesimo di mi-liardesimo di secondo dopo il Big Bang. Auna temperatura di dieci milioni di mi-liardi di gradi».

Tutti i dati degli esperimenti finisconoal Computer centre: «L’analisi è la partefinale — spiega Massimo Lamanna, udi-nese — Ma qui è anche il punto di ingres-so nella struttura del Grid». Qui, nel 1990,Tim Berners-Lee inventò il web, quelwww che tutti ora conoscono: c’è ancora,in vetrina, il pc marca Next che venne usa-to. E qui si è creato adesso il Grid: «La ne-cessità di calcolo era enorme, e si è pen-sato a una “griglia” che funzionasse comela rete elettrica. L’Lhc produrrà 15 milio-ni di gigabytes di dati ogni anno, qualco-sa come tre milioni di dvd». Questa capa-cità di calcolo, e di stoccaggio dati, è statadistribuita in circa duecento centri spar-si per il mondo, e interconnessi. In Italia ilnodo è Bologna, a sua volta collegato conaltri nove istituti.

Bene, qualche settimana e l’Lhc co-mincerà a funzionare. Ma c’è qualcos’al-tro, al di là delle probabili rivelazioni ingrado di sconvolgere la conoscenza, cheimpressiona qui al Cern. Si sono fatte tesidi sociologia e di antropologia per capirecome può funzionare tanto bene: «Qui la-vora gente di culture diverse, senza avereuna struttura coercitiva — dice PaoloGiubellino —. E si cerca, quindi, ogni vol-ta il consenso». «C’è competizione, ma inassoluta trasparenza e totale condivisio-ne dei dati — dice Guido Tonelli —. Èqualcosa che in una struttura privata nonesiste».

Uscendo dal Cern, dopo questa sbor-nia di eccitazione per il futuro in arrivo,c’è solo da chiedersi: perché non esiste unCern per la cura del cancro o dell’aids?

DANIELE DEL GIUDICE

(segue dalla copertina)

È curioso che il romanziere inglese affronti questotema nel 1895, prima ancora che nel 1905 il giova-ne fisico tedesco Albert Einstein pubblicasse i pri-

mi lavori sulla simmetria della relatività ristretta. Era for-se l’epoca per una narrativa scientifica, e nelle sue fatti-specie anche per il “romanzo di utopia” che mirava conuna fantasia precisa all’ambito sociale.

Ritornando al racconto, il nostro viaggiatore discutecon i suoi amici della novità concreta di una quarta di-mensione temporale. Passo per passo Wells e il suo viag-giatore cercano di accreditare ai loro amici la possibilitàdi un esperimento. Un viaggio nel tempo! Gli altri amici,fortemente scettici, chiedono come sia possibile. Ma ilviaggiatore ne ha fatto già l’esperienza. A fatica, sonoconfortati dalla prova fornita dal viaggiatore, che pre-senta la Macchina con cui viaggiare nel tempo. Ma lamacchina non è quella vera che si aspettavano, è un pic-colo modello nel salotto. Bellissima astuzia di Wells perprolungare l’attesa degli astanti, e le loro curiosità. Lamacchina vera è nel laboratorio del viaggiatore: sporca,acciaccata per gli incidenti nell’attraversamento di se-coli e millenni.

Incantati dalla grandezza della macchina gigantesca evera, smagliante nella sua nuova tecnologia, gli amici siattendono l’esperimento promesso e quindi una par-tenza immediata del viaggiatore. Scopriamo invece cheil viaggiatore nel tempo non è in partenza, anzi è appenaritornato. Stanco, dolorante, devastato per quello che havisto e sofferto, e così la narrazione procede all’indietro.

Il racconto che ci offre il viaggiatore è una sequenza di

stazioni in cui ha sostato con la sua macchina specialis-sima. La prima stazione, ricorda, è stata nel mondo del-l’anno 802.000, una stazione successiva all’Età dell’oroquando i popoli ci avrebbero superato nelle scienze, nel-le arti, insomma in tutto, avrebbero superato anche leprevisioni più ottimistiche su una futura umanità moltoaustera e intelligente. Ma il viaggiatore nel tempo a unastazione successiva, incontra anche il Tramonto dell’u-manità, gente totalmente indolente, priva di interessi efacile a stancarsi.

In una stazione ancora più successiva il viaggiatore neltempo scopre un popolo sotterraneo, i Morlocchi, crea-ture del buio, creature della terra del profondo illimitato.E che in un momento sono emersi in superficie, e gli han-no rubato La macchina del tempo.

In questo mondo tellurico il viaggiatore non riesce acredere che queste creature possano vivere nel sotto-suolo. La prima ipotesi che formula è quella di una so-cietà del benessere, affrancata da ogni lavoro e mante-nuta da una specie di proletariato antropologico che vi-ve nelle viscere della terra e lì lavora producendo le cosenecessarie per il sostentamento di quella società “di so-pra”. In questo senso, la divisione tra sopra e sotto mi ri-corda le divisioni esasperate in classi sociali nelle grandicittà europee a cavallo del secolo, tra Ottocento e Nove-cento.

Nel grande esperimento in corso al Cern di Ginevra, inquesti tempi, fisici, matematici, tecnici hanno accoltocon molta felicità la lettura specifica de La macchina deltempo di Wells. A tal punto che il Grande Lhc, Large Ha-dron Collider, l’acceleratore più potente al mondo, po-trebbe trovare un modo per viaggiare nel tempo.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 25MAGGIO 2008

l’esperimento

COLLISIONEE RIVELAZIONE

Fasci di protoni lanciatigli uni contro gli altri

si scontrano. L’esplosionedi energia emette nuove

particelle. Queste passanoattraverso una seriedi rivelatori disposti

a strati comeuna cipolla

Disegna l’esatto tracciatoche ogni particella caricata sta compiendo

Cattura l’energia di elettronie protoni

Rileva i muoni, le unicheparticelle cariche che possonosfuggire agli altri strati

Cattura l’energia di adroni,particelle come protoni,neutroni, pioni e kaoni

Il passaggio avvieneattraverso magnetinon composti da pesantilastre d’acciaio. Questo rendela struttura più grandema meno pesante del Cms

QUATTRO STRATI

I RIVELATORIL’impatto delle particelle avvienein quattro rivelatori che fissanole immagini dell’esperimento:

Atlas, Cms, Alice e Lhcb

Repubblica Nazionale

l’attualitàOltre lo sport

Oggi è Inter-Roma. Prima erano state Juve-Roma,Mazzinghi-Benvenuti, Coppi-Bartali. Sfide infinitetra avversari che si giocavano molto più della vittoriaPerché nella lotta tra Frazier e Ali, Borg e McEnroe,Trillini e Vezzali, Rossi e Biaggi quello che conta davveroè liberarsi dall’incubo dell’appuntamento con la nemesi

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25MAGGIO 2008

Lo sport è promiscuità, è sen-tire l’altro vicino, troppo vi-cino. Roma contro Inter,again. Un serial infinito,pieno di repliche e di prossi-me puntate. Conrad l’aveva

capito: l’odio di chi duella non ha maipace. Non è solo agonismo, è molto dipiù. Un impasto di cose brutte: rancore,gelosia, ossessione. E di roba freudiana:invidia, diversità, tu che ti specchi e vedil’altro. E ogni volta sembra la prima. Ilnemico, quel nemico, sempre tra i piedi.Lui sale, tu scendi. Ti ruba il fiato, la vita,il desiderio. Insomma, ti scassa.

Una spina che non ti togli, che viaggiadentro e ti fa uscire pazzo. Anche dire co-se assurde e farne altre da mascalzone,sbattere fuori l’altro, il compagno disquadra. Odiarsi un po’, per tre anni, an-zi meglio speronarsi. «Ayrton pensa dinon poter morire perché crede in Dio»,così nell’89 il francese Alain Prost, ragio-niere della pista, laureato in FormulaUno, liquida il suo nemico, il brasilianoSenna, che incurante della pioggia alquarantaseiesimo giro a Suzuka lo at-tacca come uno squalo. Morsi in velo-cità, di chi sguazza nel talento. E alloratiè, ti vengo addosso. La rabbia non hal’alzheimer, ma solo precedenti. Bracimai fredde. L’anno dopo, stesso circui-to, è Senna in partenza a centrare Prost,passato alla Ferrari. A Jerez de la Fronte-ra nel ‘97 Schumacher rovina la fiancatadella Williams di Jacques Villeneuve chelo sta sorpassando. Lui è un computer,mai un guasto, l’altro è un ragazzino ri-belle che suona il rock, gira in infradito,e diventa campione del mondo. Franca-mente troppo.

Le rivalità sono nuove e antiche, fan-tasmi che non se ne vanno. La geneticadello sport crea nuove permalosità. Ilnemico non si perde, si trasforma. Pri-ma era Juve-Roma, nord contro centro,la fabbrica contro i palazzinari, il poterecontro gli emergenti, chi è abituato a co-mandare contro chi non vuole più ubbi-dire, noi lupi, voi Agnelli, il gol di Turonecancellato, i refusi del calcio sempre adanno di chi vorrebbe scrivere paginenuove. Ora la faida è Inter-Roma, i bian-coneri sono stati sostituiti dai nerazzur-ri. L’Inter compra, la Roma vende; l’In-ter è internazionale, parla straniero, laRoma ha il vivaio e un accento locale;l’Inter spesso si perde, la Roma spesso siritrova; una è più tattica, l’altra fa piùmovimento. Questione di feeling, chenon c’è. L’Inter, per i giallorossi, è la nuo-va Juve: arrogante, prepotente, antipa-tica. Quando il presidente Moratti spen-deva duecento milioni di euro l’anno eperdeva, stava simpatico. Ora che vincenon più, è solo un petroliere che allo sta-dio dice parolacce. La Roma non sop-porta che l’Inter si sia aggiunta sulle ma-glie lo scudetto vinto a tavolino e poi tut-to quel vantarsi di fare parte della bandadegli onesti. Se non ti offrono la tenta-zione, inutile dichiararsi santi. E così idifetti del vecchio nemico (Juve) diven-tano i tratti somatici di quello nuovo (In-ter).

Nel libro di Conrad i duellanti sono iltenente Feraud e il tenente D’Hubert,soldati nell’esercito napoleonico. Fe-raud è un solitario e violento, D’Hubertè un aristocratico, capace di avere lega-mi. Due tipi opposti, condannati a inse-guirsi, a non sopportarsi per tutta la vita,anche sotto la stessa divisa. Come Ali eFrazier, entrambi neri, americani e pu-gili. Frazier, ultimo di dodici figli, a tre-dici anni lascia la scuola per andare a ru-bare macchine, va a lavorare in un mat-tatoio, nel ‘65 passa professionista. Aliper deriderlo lo chiama Gorilla o zioTom. I loro tre incontri, anzi scontri, nel‘71, ‘74, ‘75, sono passati alla storia comela più grande tragedia shakesperiana sulring. «La cosa più vicina alla morte»,confessò Ali. Nel primo combattimentoFrazier vince ai punti grazie a un ganciosinistro che frattura la mascella di Ali. Larivincita a Manila è ancora più violenta.

Ali vinse, ma pisciò sangue. Non si reg-geva in piedi, aveva la bocca tumefatta,l’occhio destro viola. Imelda Marcos loaccompagnò al buffet, lui urlò: «Quel-l’uomo è una bestia». Anche Joe Frazierera al buio. L’occhio sinistro era nero,Eddie Futch con la lama da rasoio tagliòil bozzo troppo tardi, per far defluire ilsangue. Delirava: «L’ho colpito con deipugni che avrebbero fatto crollare i mu-ri di una città. Cosa l’ha tenuto in piedi?».Quando nel ‘96 ai Giochi di Atlanta videil suo vecchio avversario, con la torcia inmano, tremare per il parkinson, di-chiarò: «Spero bruci anche all’infernoquel bastardo». Ali gli rispose: «Se lo ve-dete, ditegli che è sempre un gorilla».

Mazzinghi-Benvenuti è la versioneitaliana di quella rivalità. Coppi e Barta-li che scendono dalla bici e se le danno.Sandro era il toscano ombroso, Nino iltriestino spavaldo. Il primo ruvido e ma-linconico, il secondo bello e moderno.L’Italia si divide: Mazzinghi è generoso esfortunato, perde la moglie in un inci-dente d’auto, lui ne esce con una frattu-ra alla scatola cranica. Non è ancora aposto, ma è campione del mondo e de-ve difendere il titolo entro sei mesi. Luci

a San Siro. È il ‘65, Sandro com-batte, si spreca, ma è Nino con unmontante destro a vincere al se-sto round. La rivincita, sei mesi do-po, a Roma. Mazzinghi fa il match,però il successo ai punti è di Benvenu-ti. Sandro non la manderà mai giù, néperdonerà. «Nino è stato molto scorret-to, nessuna tecnica da parte sua, solograndi scorrettezze, mai rilevate dall’ar-bitro che stava per lui. Dopo il match, dalsuo camerino invocavano un medico.Mandai il mio. Mi avesse mai detto unaparola per quella gentilezza».

Niente da fare. Se l’altro ti ruba la glo-ria, tu ti senti portare via la vita. Però len-tamente diventa parte della famiglia. Ti

EMANUELA AUDISIO

VALENTINO ROSSILa rivalità con Biaggi,

l’altro campioneitaliano di moto,

è definita spaghetti dueldalla stampa

anglosassone

BJÖRN BORGIl campione svedese,

asso del giocoda fondocampo,

è ancor oggil’unico ad aver vintosei Open di Francia

AYRTON SENNAIl campione brasilianomorì per un incidente

in pista nel 1994Nell’88 fu con Prost

alla McLaren: celebrela loro rivalità

NINO BENVENUTIMondiale

dei superwelterai danni di Mazzinghi

nel 1965. Passaai pesi medi e vince

anche lì, nel 1967

MUHAMMAD ALIIl grandissimo

campione combattécontro Joe Frazier

in tre incontri:una sconfittae due vittorie

BEN JOHNSONPerse per doping

l’oro olimpicoe il record mondialesui 100 m. Sconfittosette volte da Lewis

prima di batterlo

CON IL NATIONAL GEOGRAPHIC DI GIUGNO

U N O S T R A O R D I N A R I O S P E C I A L E

Uno sterminato altopiano sferzato dal vento sul tetto del mondo, un popolo che

da oltre mezzo secolo lotta per preservare la propria autonomia culturale e religiosa

dal dominio cinese: è il Tibet, protagonista delle cronache internazionali degli

ultimi mesi per le manifestazioni represse nel sangue dalle truppe di Pechino.

DAL 28 MAGGIO A 5,80 EURO IN PIÙ CON

Repubblica Nazionale

il reportageMuri

Nel 1974, quando l’invasione turca del nord di Ciprosembrava conclusa, i soldati di Ankara occuparonoa sorpresa anche un’ultima città. La popolazione grecadovette fuggire in poche ore. Tutto è rimasto fermocom’era quel giorno: pentole nelle cucine, libridi scuola, foto alle pareti, auto con le chiavi nel cruscotto...

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25MAGGIO 2008

NICOSIA (Cipro

Da più di trenta anni Fama-gosta, lungo la costaorientale di Cipro, è cir-condata da un muro grigio

di cemento e filo spinato, presidiata dasoldati. Non ci sono varchi né checkpoint. Motovedette turche impedisconola navigazione nel raggio di alcune mi-glia. È proibito anche fotografare la bar-riera che separa la città dal resto del mon-do. Tra gli edifici e dalle crepe dell’asfal-to, con il passare degli anni sono cresciu-ti alberi di cedro, palme e fichi d’india;nelle piscine degli alberghi hanno nidifi-cato i fenicotteri; sulle spiagge, tra gli om-brelloni strappati dal vento, approdanoindisturbate le tartarughe.

Famagosta è stata il centro commer-ciale di Cipro e del Medio Oriente ma è di-venuta il fantasma di se stessa. A chi entranella città, eludendo la sorveglianza deisoldati, si apre uno scenario desolante estraordinario, unico al mondo. È unacittà immobile che vive nel silenzio, sen-za voci né rumori. Lentamente la naturase ne impadronisce.

La popolazione di Famagosta, alcunedecine di migliaia di donne e uomini inlarga parte di lingua e cultura greca, è fug-gita nell’estate del 1974 per la paura, i col-pi di mortaio e le bombe lanciate dall’a-viazione turca; ancora oggi non può tor-nare a visitare, anche solo per qualcheora, le proprie case, i giardini, gli oggettiabbandonati nella fuga. Nelle abitazionisono rimasti abiti e pentole da cucina, li-bri di scuola e foto appese ai muri; nei vi-coli sono parcheggiate auto ricoperte dipolvere, le chiavi nel cruscotto. Oggi illungo muro costruito intorno alla cittànon separa più religioni né etnie, nonpreviene conflitti e non protegge da as-salti; è un muro diverso dal fence israelia-no e dal wall messicano; il muro di Fa-magosta nasconde il mare, cancella lamemoria, aspetta che gli anni passino.Fino a quando dall’altra parte non vi sia-no profughi a ricordare che quella era laloro città.

Nell’OtelloShakespeare descrive l’im-mensa fortezza di Famagosta e il grandeporto chiuso ogni notte da una poderosa

catena di ferro. Settecento anni fa, si leg-ge nei libri di storia, la città era la più riccaal mondo, la più bella, la più contesa. Ric-cardo II la conquistò sulla via di Gerusa-lemme, poi giunsero i Templari, quindigli arabi, i genovesi, poi i veneziani e i bi-zantini; gli ottomani ne fecero l’avampo-sto dei loro commerci verso la Siria e l’E-gitto. E ciascuno degli invasori, invece disaccheggiare, arricchì la città di torri mer-late, tesori di architettura e opere d’arte;anche nel corso dei lunghi assedi, le navipuntarono i cannoni con cautela evitan-do danni irreparabili alla città. Alla fine,nel 1878, giunsero gli inglesi con le lorocorazzate, ma non spararono (a Fama-gosta) neppure un colpo. Quando nel1960 i ciprioti ottennero finalmente l’in-dipendenza, sembrò aprirsi un capitolonuovo per l’isola di Makarios e per la stes-sa Famagosta, riconsegnata intatta aisuoi abitanti. Invece la libertà durò appe-na qualche anno: nel 1974 arrivarono,improvvisamente, le forze armate turcheche occuparono il nord dell’isola e, sen-za ragioni apparenti, si impadronironoanche di Famagosta nascondendola almondo.

Le operazioni militari ebbero inizio inluglio. Il governo di Ankara, da tempopersuaso che i nazionalisti di Nicosia —con la complicità della giunta dei colon-nelli di Atene — volessero annettere l’i-sola alla Grecia, intervenne senza procla-mare lo stato di guerra né consultare glialleati. Gli attaccanti guadagnarono ra-pidamente il controllo dei cieli e lancia-rono i primi paracadutisti. Anche le forzenavali si mossero trasportando mezzi co-razzati, artiglieria e truppe. La guerrasembrò concludersi in pochi giorni conla conquista della periferia settentriona-le di Nicosia.

Alla fine di luglio i rappresentanti diTurchia, Grecia e Gran Bretagna, garan-ti dell’indipendenza di Cipro in ragionedi un accordo siglato nel 1960, si impe-gnarono a consentire l’inserimento diuna forza multinazionale di pace in unazona cuscinetto. Il controllo della bufferzone fu affidato a una missione delle Na-zioni Unite, la Unificyp, che avrebbetracciato una “linea verde” lunga circatrecento km separando non solo la capi-tale Nicosia in due parti ma dividendovillaggi, fiumi, strade, campi, consen-tendo alla popolazione greca di migrareverso sud e alla popolazione turca di mi-grare verso nord. L’invasione assunse ilcarattere di una vasta pulizia etnica e se-gnò la fine di una secolare convivenza:migliaia di persone furono uccise neigiorni del conflitto, più di 230mila furo-no i rifugiati — quasi il novanta per cen-

to dei greci residenti al nord.In agosto, mentre sembrava delinear-

si un accordo stabile, i comandi militariturchi lanciarono l’attacco improvvisocontro Famagosta, rimasta fino ad allorasotto il controllo del governo cipriota. Letruppe irruppero dal mare e da terra la-sciando alla popolazione solo uno stret-to corridoio di fuga. Dopo una breve resi-stenza, migliaia di greci lasciarono la cittàportando con sé ciò che potevano carica-re sulle spalle, chiudere in una valigia, te-nere tra le mani. Le forze di Unificyp ac-colsero i profughi e li scortarono fino aicentri di raccolta di Limassol e Larnaka,nel sud dell’isola — dove molti di loro an-cora vivono.

Occupata Famagosta, i militari turchieressero immediatamente il muro perimpedire il ritorno dei profughi e pocodopo, finalmente, firmarono il cessate-il-fuoco. Anche a Nicosia, nei mesi se-guenti, i militari di Ankara eressero unmuro per delimitare la zona sotto il lorocontrollo; i greci fecero subito altrettan-to. Nel mezzo della capitale si aprì dun-que (e rimane ancora) una ferita, un lem-bo di terra di nessuno con edifici vuoti,carcasse di auto, negozi saccheggiati,macerie, proiettili conficcati nel cemen-to delle case. I due muri di Cipro diven-nero il simbolo di una pace fragile, mina-ta dal risentimento, dalla paura e dal ri-cordo di sofferenze e lutti.

Nel corso della guerra i militari turchicostrinsero i ciprioti di etnia greca ad ab-bandonare case, negozi, fattorie, ma an-che monasteri, scuole, siti archeologici,monumenti, opere d’arte, biblioteche emusei. Venne cambiato il nome anche al-le strade e alle città; le chiese, anche la ce-lebre cattedrale di San Nicola, divenneromoschee, il passato fu cancellato. Solo aFamagosta, chiamata dal 1974 Gasima-gusa, il governo di Ankara non consentìl’ingresso della popolazione turca né laconfisca dei beni appartenuti ai greci, im-pedì la devastazione. Forse l’occupazio-ne della città era intesa ad acquisire unostrumento per negoziare nuovi confinitra i due Stati. Ma i negoziati non si apri-rono. E quando Kofi Annan, nel 2004, sot-topose alla popolazione un piano di pa-ce, la comunità greca rifiutò il riconosci-mento dell’occupazione turca e si oppo-se alla federazione tra i due Stati; i turchi,al contrario, si dichiararono pronti a trat-tare e restituire Famagosta. In cambio,speravano, avrebbero ottenuto il ricono-scimento della comunità internazionalee l’ingresso nell’Unione europea.

Nell’entroterra, intorno al muro di Fa-magosta, è sorta in questi anni una cittànuova che sembra temporanea, artificia-

DARIO BIOCCA

Nelle piscine vuotedegli alberghinidificano i fenicotteri

Una barrieradi cementocirconda l’abitato

a lavorare insieme. Abbiamo conservatoa Famagosta tutto ciò che potevamo. Aben guardare, quel muro è anche unsimbolo di pace…».

Gli fa eco Umit Inatci, artista, scrittoree protagonista di una lunga e appassio-nata battaglia in difesa di Famagosta edell’identità culturale cipriota: «Moltagente che vedete è nata qui, alcuni porta-no persino nomi veneziani. A Famagosta,dietro il muro, ci sono anche le loro case,i loro ricordi, la loro storia. Vorrei che i gre-ci tornassero a vivere qui come prima.Non siamo noi a tenere chiusa la città, so-no quelli che trenta anni fa hanno fatto diCipro e di Famagosta il loro campo di bat-taglia... Gente che ha saputo fare la guer-ra e che adesso non sa fare la pace».

L’autore, docente di storia contemporanea, lavora a uno studio

sui muri e le barriere di separazione nelmondo. Un suo saggio su Famagosta

è di prossima pubblicazione sulla rivista Nuova Storia Contemporanea,

diretta da Francesco Perfetti

le, senza storia; le palazzine sono basse,bianche, i tetti coperti di parabole satelli-tari e rostri di cemento armato protesiverso il cielo. Da nessun angolo della cittàsi intravedono il porto e il mare. Vivonoinsieme turco-ciprioti e turchi, in preva-lenza agricoltori provenienti dall’Anato-lia, attratti o spinti dalla politica colonia-le di Istanbul. Tra le due comunità ci sonodifferenze profonde e ben visibili: le abi-tudini, il colore degli occhi, gli abiti, per-sino i gesti. I turco-ciprioti, in particolare,si sentono spogliati della loro identità, so-praffatti numericamente dai coloni.

Il sindaco della città, Oktay Kayalp, èun uomo intelligente, cordiale, giunto alsuo terzo mandato; è turco-cipriota,parla misurando le parole. Spera di esse-re lui a riaprire i varchi del muro. Ci haspiegato, incontrandoci nella sagrestiadella cattedrale di Famagosta, eretta daiveneziani e ora trasformata in una gran-de moschea: «La città non riceve aiuti,neanche dalle Nazioni Unite; da soli nonpossiamo ricostruirla né salvarla, i poli-tici devono trovare una soluzione. Moltiedifici e monumenti dovranno esseredemoliti, altri restaurati, avremo davve-ro molto da fare. Ma turchi o greci, noisiamo ciprioti, siamo pronti a restituire,

Famagostala bella addormentata

Repubblica Nazionale

FAMAGOSTA

Nicosia

Larnaca

Limassol

Pafos

CIPRO

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 25MAGGIO 2008

LE IMMAGINILe foto che illustrano queste paginesono di Laura Bizzarri. Nelle immaginipiccole in alto e in basso, vedutedelle abitazioni abbandonatedi Famagosta. La fotografia grandeè un poster con i ritratti dei cipriotidispersi nell’invasione del 1974,esposto in un piccolo museoin Leda Street, l’arteria principaleche divide NicosiaAccanto, la cartina dell’isola

L’ultima istantanea da Cipro è beneaugurante. Mostra due giova-ni uomini politici, i nuovi presidenti della parte greca e di quellaturca dell’isola, il comunista Demetris Christofias e il socialde-

mocratico Mehmet Ali Talat, dividersi una coppa di limone dentro unagelateria presso una breccia del Muro da poco aperta. Quanta strada equante ferite ha dovuto sopportare Cipro per arrivare alla vigilia di unnegoziato che, oggi più che mai, può sbloccare un’impasse che dura datroppo tempo, da secoli?

Famagosta intorno al 1200 era il porto più ricco del Mediterraneo, cir-condato da mura di pietra rinforzate quasi quattrocento anni dopo da-gli ingegneri militari veneziani che si preparavano all’arrivo degli otto-mani. L’invasione avvenne nel 1570, sbarcarono in cinquantamila. I tur-chi bombardarono le mura con centomila palle di cannone. Alla fine, isoldati veneziani di Marcantonio Bragadin proposero stremati la resa.Invano. Infuriato per le perdite subite, Lala Mustafa Pash continuò l’ec-cidio e ordinò l’atroce morte del rivale, che fece spellare vivo e a cui fu-rono tagliati naso e orecchie.

Ferite mai chiuse da secoli e riaperte nel 1954, quando due navi grechesbarcarono sulla costa occidentale. A bordo quintali di esplosivo e un ex col-laboratore dei nazisti, George Grivas, leader dell’Eoka, la famigerata Orga-nizzazione nazionale dei combattenti ciprioti. Con una missione: cacciaregli inglesi presenti a Cipro da fine Ottocento, quando gli ottomani cedette-ro loro l’isola, e riunire il Paese alla Grecia. È il progetto di enosis, subito vi-sto come una minaccia per la minoranza turca (diciotto per cento). Nel 1959gli inglesi decidono di concedere l’indipendenza ai ciprioti.

A tutti è chiaro che Grivas non intende fermarsi, e che i turchi sono pron-ti a rispondere militarmente. Per prevenire il disastro la Gran Bretagna or-ganizza in Svizzera un incontro che partorisce un accordo fragile: una nuo-va Costituzione, un capo dello Stato greco cipriota, un vice turco cipriota euna consistente rappresentanza della minoranza in Parlamento. L’annodopo nasce la Repubblica di Cipro, con un ex leader dell’Eoka, l’arcivesco-vo Makarios, come presidente. Fin dalle prime battute la convivenza si tra-sforma in un incubo. Gli squadroni della morte, formati da nazionalisti gre-ci, cominciano a eliminare i turco ciprioti. La minoranza si ribella, si armae risponde. La Linea verde, istituita nel 1963, non serve a fermare i combat-timenti. Makarios chiede aiuto all’Onu, che invia i caschi blu. Ma gli scon-tri continuano. Nel sangue. Per anni.

Nel 1974 entra in scena Atene, accusata dall’arcivescovo di minare ilsuo potere. Percepita l’ostilità di Makarios alla stregua di un tradimen-to, un manipolo di funzionari di destra sbarcano a Nicosia devastandoil palazzo presidenziale e costringendo il capo dello Stato alla fuga. Cen-tinaia di greco ciprioti moderati, sospettati di comunismo o di debolez-za verso i turchi, vengono uccisi. Poche ore dopo, Makarios è sostituitoda uno dei leader dell’Eoka, Nikos Sampson. La mattina seguente, il 24luglio, una piccola flotta turca sbarca a nord, con seimila soldati. Com-paiono nel cielo i jet di Ankara. La battaglia si trasforma in massacro. Gliaerei bombardano le postazioni militari, decimano i blindati greco ci-prioti, ripuliscono le montagne. L’«Operazione Pace» continua per tresettimane, mentre la diplomazia internazionale tenta freneticamenteuna soluzione. La Turchia aumenta il contingente fino a raggiungere itrentamila uomini. I soldati di Ankara sconfinano, occupando più di unterzo dell’isola e creando una frontiera che diventa l’attuale confine frale due Cipro.

Nessuno è disposto a scordare il passato. Anche se un’intesa sembral’unica soluzione possibile. Scrive Yannis Papadakis, considerato unodegli studiosi più autorevoli ed equilibrati dell’isola, nel suo recenteEchoes from the Dead Zone, Echi dalla zona morta (I.B. Tauris): «Cipro èun posto dove i morti sono stati ammucchiati insieme sottoterra. Re-stano là, non tumulati, con i cimiteri tutti intorno. Un posto abitato daifantasmi dei dispersi. Fantasmi che possiedono proprietà, ricevono sa-lari e risultano sposati. Un posto dove si dice che i morti parlino più for-te dei vivi, e dove solo ai defunti è permesso di parlare, mentre i vivi de-vono inchinarsi, ascoltare attentamente e obbedire ai loro ordini. Tuttinoi a Cipro, i greco ciprioti da una parte della Zona morta, i turco cipriotidall’altra, siamo ossessionati da una domanda: “A chi dare la colpa?”».

L’isola dove i mortiparlano più dei vivi

MARCO ANSALDO

FO

TO

LA

UR

A B

IZZ

AR

I

Repubblica Nazionale

la memoriaMicrostoria

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25MAGGIO 2008

Il fuoco, le eruzioni, il ruggito del-la terra, le colonne d’acqua cheallagano le vasche, il vento chenon dà tregua, le resistenze dellaroccia, gli schizzi di fango, lo sfer-ragliare delle macchine. E poi le

urla dei pompisti che si trasmettono gliordini, i muti calcoli degli ingegneri cheli scrivono lì, col gessetto, ai piedi del-l’impianto, incuranti delle zaffate diidrogeno solforato. E ogni tanto, anzisempre, c’è qualcosa che non va, qual-cosa che rimane o precipita giù nel poz-zo, l’incidente, magari la domenicanotte, magari con un caldo infernale,oppure sotto zero; e allora salgono alcielo le bestemmie dei meccanici in tut-ti i dialetti d’Italia, e poi in tutte le linguedel mondo.

Eppure scavare bisogna, e poi ancorascavare, a forza di pistoni, carote, aste,ciabatte, perché il gergo dei perforatoriè iniziatico e colorito, per cui ci sono an-che «zampe d’elefante», «preventori»,«cucchiaie», «manicotti», «code di pe-sce», comunque occorre scendere sem-pre più in basso, nel profondo dell’ipo-geo, poi anche nell’abisso dei mari, a3.500 metri, il che significa vincere leonde, dominare la natura, rapinarleenergia in forma di gas e petrolio, con-quistare ricchezza — e nemmeno per sestessi.

Un’epopea è appunto un’epopea: e araccontarla come il mito di Prometeotorna utile al giorno d’oggi un’innocen-te e sbrigativa inconsapevolezza. Eppu-re forse è arrivato per tutti il tempo direndere merito a quelli che in un passa-to ormai remoto la retorica definiva«eroi del lavoro»: perché lo furono sulserio. Leggendari protagonisti del lavo-ro italiano, entità d’incerta definizione,virtù estinta o in via d’estinzione, un mi-

usano la tecnica del «lancio del cappel-lo», oppure portano nel campo un bam-bino e gli fanno fare pipì — e là precisa-mente ha inizio lo scavo.

Romanzo a suo modo tenero e gran-dioso di un’Italia così spartana da risul-tare irriconoscibile. Volonterosi e pove-ri italiani spediti a zonzo per il pianeta,a cercare petrolio e magagne, ammira-zione e sconfitte. Pagine così ricche distorie che il responsabile culturale del-l’Eni, Giorgio Secchi, ne ha tratto unacanovaccio per farlo recitare a un atto-re (Flavio Albanese, del Piccolo) davan-ti agli anziani dell’Eni, e alla fine moltinel pubblico avevano gli occhi lucidi.

Però, a veder bene, c’è anche da ride-re. Mazzini ricorda quando, convocatoa Roma per una dimostrazione alla mo-stra autarchica del minerale, dalle partidel Circo Massimo, si trova davanti il se-gretario del Pnf Starace che gli chiede fi-no a quanto può calare la sonda. Sono2.500 metri. «Allora si proceda» ordina.L’imprevista penetrazione del suolodell’Urbe va avanti per tre mesi fra viva-ci peripezie, compreso l’allontana-mento da parte delle maestranze di unsupposto iettatore con spruzzi limac-ciosi.

Poco dopo Pissard è spedito in Africaa cercare invano il petrolio su una torri-da isoletta davanti a Massaua, popolatada placidi galeotti eritrei e temerari av-voltoi che durante i pasti scendono inpicchiata sul cibo, e in assenza di alcol ilmedico cura le ferite con la benzina. Ul-cera perforante, e salvifico ritorno inItalia.

Ma pure qui in patria, con la guerra epoi i bombardamenti, le vendette, leepurazioni, i sabotaggi sindacali, ecco,non è che la vita sia così facile. Eppure lamissione è la solita: scavare, bucare, in-dagare, succhiare via i fiumi neri e gas-sosi del sottosuolo. E allora ricomincia

il giro, Casalpusterlengo, Podenzano,Crema: sempre c’è Pissard, con le sueeterne recriminazioni contro i laureati,dietro la scoperta del fantastico e cele-bratissimo bacino di Cortemaggioreche dà l’avvio all’era di Mattei. Così co-me lo si trova nel mezzo dell’incendiospettacolare di Bordolano, cento metridi fiamme visibili nel raggio di cinquan-ta chilometri, scenario dentro cui s’in-travede l’abbagliante ed esplosiva con-clusione di quella stagione.

Sempre lì, sul pezzo, a disposizione,con tanto di famiglia ormai ridotta in fe-lice condizione nomade. Monta esmonta cantieri, segue l’evoluzionetecnologica, azzarda soluzioni, risolvegrane, impartisce e riceve cicchetti, sisforza di far quadrare i conti, batte i tac-chi, gonfia il petto e piange in cinese perottenere fondi e macchinari. In quellaspecie di compagnie militari e azienda-li che furono allora l’Agip e poi la Sai-pem egli rappresenta la punta di dia-mante e insieme il modello dei quadritecnici e operativi, forse i migliori, certoi più avventurosi di cui l’imprenditoriaitaliana abbia mai disposto. Mattei lientusiasma, li trascina, li premia, li pa-ga meglio di qualunque altra aziendaitaliana. Ma in buona sostanza gli pren-de la vita e l’anima, al condottiero bastaun’occhiata per ricevere in cambio unaobbedienza totale. Sono i monaci-guerrieri dell’autonomia energeticanazionale, per essa disdegnano localinotturni ed entreneuses, si sentono «na-ti — come si legge nel diario — soltantoper lavorare».

Così Pissard, ormai capo-perforatoredella Saipem, viene spedito in America,la Mecca petrolifera, a studiare e a trat-tare con un ristretto gruppo di managerl’acquisto di nuovi impianti. Qui scoprela Polaroid e fotografa tutto, come i ci-nesi in Europa qualche anno fa. Dopo

FILIPPO CECCARELLI

IL LIBRO

È il secondo numero della collana editorialedell’Archivio storico EniSi intitola La leggenda

del pioniere. Diario di MazziniGaribaldi Pissard (a cura

di Daniele Pozzi). È lo scrittoautobiografico del tecnico

minerario sardo che ripercorrela sua vita di cercatore

di petrolio e scavatore di pozzi per l’Agip e l’Eni dagli anni

Venti agli anni Ottanta

scuglio d’inventiva, coraggio, spiritod’adattamento, armonia, abnegazio-ne, furbizia e spavalderia; una vitalitàrapida e imprevedibile, «alla bersaglie-ra», come si diceva, o «alla garibaldina».

Ecco, appunto. Questo eroico prota-gonista della ricerca petrolifera in Italiae all’estero, personaggio del quale l’ar-chivio storico dell’Eni lodevolmentepubblica un diario che fu scritto per i ni-potini (La leggenda del pioniere, a curadi Daniele Pozzi, con una ricca e poeti-ca appendice del figlio Paolo), è una fi-gura singolare fin da come si chiamava.Mazzini Garibaldi era infatti il suo no-me, che più repubblicano non potevasuonare, e Pissard il cognome. Famigliaoriginaria della Savoia, lui orgogliososardo mai più ritornato nell’isola, studidi perito minerario a Iglesias negli anniVenti del secolo scorso, poi professio-nalmente stabilizzato (anche per via diun felice matrimonio) in Emilia, tra Par-ma e Piacenza, zona di giacimenti.

E quindi: i primi arcaici impianti del-l’Agip, a percussione, nella campagnadella Bassa, dormitori e pasti di fortuna,carri tirati da animali, biciclette rubate,l’insidia della ghiaia, delle falde inatte-se, delle ispezioni dei superiori, dellasolitudine. Il racconto procede vivace,vera storia umana e imprenditoriale dalbasso: i pozzi ricchi e quelli sterili, lo stu-pore della neve, lo spirito dei precurso-ri, gente straordinaria, pazzi e assenna-ti, maestri e lestofanti.

C’è un ingegnere scapolo che vivecon una anziana governante rumena,orba, che gli ha salvato la vita nei Balca-ni. C’è un capo-cantiere che a ogni no-tizia di ritrovamento tira fuori il revolvere spara sul soffitto. Ci sono illustri geo-logi, non sai bene se più bizzarri o ispi-rati, rabdomanti e al tempo stesso stre-goni del petrolio, che al momento di de-cidere dove cominciare la trivellazione

Lo stregone del petrolio

L’oro nero è sempre più raro, costa sempre di più,è al centro della crisi economica globaleÈ il momento giusto per celebrarne l’epopea. L’Enilo ha fatto pubblicando “La leggenda del pioniere”,il diario di Mazzini Pissard, un “eroe per caso”che girò il mondo per procurare energia all’Italia

LE IMMAGINIDa sinistra, il catalogo della Mostra autarchicadel minerale (Roma 1939) e un biglietto d’ingresso;i campi petroliferi di Montechino; Enrico Matteia Cortemaggiore nel 1951; Mazzini Pissard(nel cerchio) con i colleghi. Le immagini, concesseda Paolo Pissard, sono tratte dal libro La leggendadel pioniere (Archivio storico dell’Eni)

• LA VIA ITALIANA ALLA BANDA LARGACome creare una convergenza di attori diversi oltre a Telecom per realizzare le nuove reti in fibra ottica

• I MINATORI URBANIIn Cina, India e Giappone è corsa al recupero dell'oro e del rame nascosto nei telefonini

• LA CUCINA CHE LAVORA DA SOLASempre più microprocessori negli elettrodomestici stanno per cambiare la vita nelle nostre case

• GOOGLE, UN MOTORE ANCHE PER IL DNAIl gruppo entra nella società “23andMe”, che vende un kit per la rilevazione del patrimonio genetico

Nel numero in edicola domani con

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 25MAGGIO 2008

I DOCUMENTIQui sotto, la pergamena donata a Pissardper la pensione (1968); una cartolina dell’Agipcon le colonie italiane nel Corno d’Africa(1937); un autografo di Pissard

trattative epiche, da quel giro in Texasnasce la piattaforma “Scarabeo”, mera-vigliosa città d’acciaio galleggiante; poisarà la volta della “Perro Negro”, che pe-sa 5.200 tonnellate e arriva a estrarre pe-trolio a 4.500 metri.

Dalla Patagonia, trecento pozzi sca-vati da quattrocento italiani con fami-glie e anche scuole al seguito, fino aimonti Zagros, in Persia, dove le trivella-zioni sono eseguite a 3.000 metri di alti-tudine, il passo sembra breve, ma non loè per niente. Poi è la volta del Brasile,dell’Arabia Saudita, del mare del Nord edell’Egitto, dove le grane sono tutte po-litiche, i tecnici italiani finiscono spes-so in galera, gli impianti rischiano laconfisca e, insomma, oltre al resto arri-vano addosso a Mazzini Garibaldi Pis-sard compiti di puro lavoro politico e di-plomatico.

È così fino al momento della pensio-ne, dicembre del 1968. Lo congeda Eu-genio Cefis: «Al momento dell’abbrac-cio mi omaggia di un orologio da polsoVacheron Constantin raccomandan-domi che è da sera. Lo uso di tanto intanto. È nella cassaforte».

Fa parecchie consulenze per i privati,per altri dieci anni non riesce a stare lon-tano dai campi, dalle trivelle. Ma anchein seguito, con qualche malinconia, si faaccompagnare nei cantieri: «Gli im-pianti — scrive — sono talmente sofisti-cati che mi fanno sbavare dalla meravi-glia e sentire obsoleto». È a questo pun-to che comincia a scrivere i suoi ricordi.La leggenda del pioniere cessa una not-te di giugno del 1997. Poco dopo com-pare in sogno al figlio Paolo. «Come stai,babbo?», gli chiede e lui sorride, indie-treggia, prende una breve rincorsa e faun salto mortale in avanti, come gliacrobati del circo che amava tanto. «Ec-co come sto», gli disse, scomparendopian piano in dissolvenza.

Repubblica Nazionale

i luoghiIn mostra

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25MAGGIO 2008

do, un racconto, unafantasia; a suggerirequelle storie che i bam-bini hanno sempre in-ventato giocando con lo-

ro. Qui ci sono marinai ezuavi, arabi e garibaldini,

truppe coloniali e croceros-sine, cucinieri, bersaglieri ci-

clisti e alpini sciatori. Soprat-tutto ci sono cavalleggeri, lan-

cieri, ussari, ulani e dragoni checavalcano fra il Diciottesimo e il

Ventesimo secolo. Anche egiziani,cavalieri medioevali e antichi roma-

ni. E cantinieri, trombettieri, fab-bri, guardie svizzere. Ci sono ita-

liani, spagnoli, inglesi, francesi,tedeschi, turchi, canadesi. Spa-

rano, galoppano, fanno la

rivista, bevono, festeggiano, accendono fuochi, tra-scinano cannoni, compiono gli abituali gesti dellavita da campo.

Sono di carta, di legno, di stagno, di piombo. Piat-ti, semitondi e tondi. Pieni e vuoti. Alti trenta milli-metri. Ottanta, se montano a cavallo. Ma arrivanoanche a centoventi o a centoquarantacinque milli-metri. Formano un colorato esercito diviso in reggi-menti, legioni, compagnie. Più che un esercito, unpopolo nomade costituito da tribù differenti — inun’altra vita e in un’altra storia, nemiche. Più che unpopolo, una sorprendente società multietnica conuomini di tutte le razze e fedi, epoche e ideologie. Piùche una società, un vero universo, cominciato qual-che secolo fa come gioco e ora diventato una prezio-sa collezione ammirata da fanciulli cresciuti.

Da due collezioni, in effetti, arrivano i settanta-duemila soldatini finiti agli ordini del tenente colon-nello Giuseppe Dieni, dal 2001 direttore del museodi Pinerolo. Due collezioni donate da privati nei me-

si scorsi. La prima è composta da 7.328 uominipiantati in una mezza dozzina di plastici che

sembrano scene da film. Raccontano la bat-taglia di Waterloo. Li ha donati il cavaliere

Carl Bächstädt-Malan, uno dei vecchiproprietari della Caffarel, la fabbrica

che produceva cioccolato. Un mo-dellista, uno che i soldatini se li co-

struisce. Monta, smonta, piega,modifica, colora, reinventa e tipiazza davanti agli occhi unaserie di sequenze animate, deifotogrammi cinematograficidegni di Abel Gance o SamPeckinpah. Con tanto di fumo

in forma di cotone che esce daifucili. E ufficiali che guidano l’as-

salto. E corazzieri francesi che silanciano alla carica contro gli high-

landers scozzesi. Su tutti domina, dalsuo angolo, il sergente Ewart dei Royal

Scots Greys che ha catturato l’aquila, lostendardo del 45° reggimento di fanteria

di Napoleone.Non c’è guerra nelle altre sale, non

c’è Waterloo, ci sono uomini di tren-ta millimetri in uniforme. Marcianoin pattuglia, formano squadre o ca-pannelli, piccoli cortei. Qualcunoha portato gli strumenti, tromba,trombone, flauto, tamburo, cor-no, anche il sax. La maggior parte èa cavallo e lo guida al passo. Sem-brano fermi, ma è un luogo comu-ne, un’illusione ottica, una pigriziadella vista. Se osservi bene, a muo-

verli sono le tante possibili storieche raccontano. Un arcobaleno di

possibilità, visti i colori delle diviseche indossano, giallo acceso, rosso

cadmio, blu cobalto, verde cinabro, ma-

genta, scarlatto, arancio, sabbia, grigio piombo. Cinquemila sono in libera uscita, esposti in am-

pie vetrine. Altri sessantamila sono rimasti in con-segna nei loro appartamenti, nelle loro camerate,che poi sarebbero scatole di confetture di mele co-togne o di Vecchia Romagna etichetta nera o diTimberland o di Carpano Vermouth. Sono in buo-na compagnia, insieme a decine di macchinine, tre-ni e carrozze; ad alcune squadre di pompieri anglo-sassoni; a pezzi di Polo Nord e Antartide con esqui-mesi, orsi, balene e pinguini; a un variopinto circofatto di tigri, elefanti, leoni, giocolieri e clown.Aspettano con pazienza di essere catalogati e di tro-vare il loro posto al sole, la loro vetrina. È solo que-stione di tempo e di turn over. Appartengono tuttialla collezione dell’architetto Remigio Gennari, do-nata dalla moglie Livia Laura Gennari.

Le bighe e la cavalleria romana affiancano le mi-lizie del Faraone. I crociati se la intendono con ipersiani. I dragoni di Luigi XIV, i lancieri di Federi-co II, i portastendardi dell’impero germanico, igranatieri spagnoli del tempo che fu, gli ulani zari-sti di inizio Novecento, le Life Guards di sua mae-stà britannica, le truppe anglo-sudanesi, i mame-lucchi francesi, il Nizza Cavalleria del Regno d’Ita-lia, tutti cavalcano insieme. E poi ci sono gli ussari.Te li raccomando, gli ussari. Sono nati ungheresi,ma ce ne sono di polacchi, francesi, tedeschi, au-striaci, russi, britannici. Come diceva un loro ge-nerale, Antoine Charles Louis Lasalle, primo scia-bolatore di Francia: «Un ussaro che a trent’anni èancora vivo è un cialtrone». Lui è morto quattro an-ni in ritardo sulla tabella di marcia, nel 1809, in bat-taglia, con una palla in fronte. Si pavoneggiano, gliuni accanto agli altri, gli ussari neri teutonici equelli inglesi finiti contro i cannoni russi a Balacla-va insieme a un reggimento di dragoni.

Ma in mezzo a tanta gloria ed eroismo, i pezzi piùpregiati sono tre cavalieri francesi di latta di fine Ot-tocento, sciabola, kepy, divisa blu, cavallo giallo earia da tinello. Ancora più preziosi, una ventina di ca-valieri tedeschi di legno con ambulanza e cucina alseguito. Molto rari sono i dieci elementi di una ban-da bavarese in divisa verde. Non sarà raro, non saràprezioso, ma quello con il drappo giallo che spuntain mezzo a un gruppo di armati spagnoli del Cin-quecento è il più tenero, il più malinconico. Lo dire-sti Don Chisciotte. Accanto, ha Sancio Panza.Ussaro (XIX sec.) Esercito prussiano (XIX sec.) Bersagliere (XX sec.) Esercito pontificio (metà XIX sec.) Guardia svizzera

SoldatiniIl giocattolo dei re

PINEROLO

Di regine ce ne sono dieci. Sarebbesempre la stessa, in verità, ElisabettaII d’Inghilterra, inconfondibile. Il fat-to è che compare in pose diverse e in

differenti dimensioni, così risulta, di volta in volta,unica: seduta sul trono, in piedi mentre saluta mili-tarmente, in sella a un cavallo. Alcune Elisabette so-no ancora chiuse negli scatoloni, insieme a mille al-tri armati e popolani, ufficiali e gentiluomini. Unpaio, invece, spiccano nel centro di due vetrine: unasfila fiera a cavallo, con tanto di guardia reale e ban-da; l’altra preferisce rimanere solitaria, in attesa diomaggio. Niente borsetta o cappellino, niente abiticivili: tutte sfoggiano una sgargiante uniforme ros-sa. È qui per quello che è, rara donna in un mondostoricamente maschile. E per quello che è viene trat-tata: mica femmina, mica bambola, ma soldatino. Èuno dei settantaduemila, e nemmeno il più pregia-to, che occupano un’ala di uno storico palazzo di Pi-nerolo, provincia di Torino, ricco di cimeli, stendar-di, armi, divise, cavalli e leggende. Sette stanze tutteper loro — otto, contando quella usata come provvi-sorio magazzino, zeppa di cassette, scatole, imbal-laggi che ammassati insieme danno l’idea di una for-tezza inespugnabile.

Nella vetrina di fronte a quella di Elisabetta, c’è an-che il Papa, portato a spalle da dodici valletti. Vistoda vicino, ha le sembianze di Giovanni XXIII. Sebbe-ne appaia più smilzo di corporatura, i lineamenti el’espressione ricordano quelli di papa Roncalli. Unsoldatino anche lui, qui, in queste teche, in que-ste stanze bene illuminate, al secondo pianodel Museo storico dell’arma di cavalleria,già caserma Principe Amedeo.

Come tutti i soldatini, anche laregina e il papa sono normalenostalgia di un’azione.Bloccati nel tempo aevocare un ricor-

GIAN LUCA FAVETTO

Corazziere francese (1980)

Il Museo storico dell’arma di cavalleria, a Pinerolo, ha appenadedicato otto stanze ai settantaduemila militari in miniaturadonati da due collezionisti privati. Lancieri, ussari, dragoni; zuavie garibaldini; alpini sciatori e bersaglieri ciclisti: tutti lì, congelatinel tempo a evocare un racconto, un ricordo, una fantasia...

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 25MAGGIO 2008

Più che un giocattolo, i soldatini sono una metafora del po-tere. Non per nulla li hanno inventati i Faraoni: al museodel Cairo sono esposti due reparti di soldatini di legno,

fanteria pesante egiziana e arcieri numidi, ritrovati nella tom-ba di un principe che voleva continuare a comandare nella vi-ta futura come aveva fatto in questa. Anche il primo imperato-re Qin, che unificò la Cina due secoli prima di Cristo, desidera-va continuare le sue conquiste nell’altro mondo, e ovviamen-te aveva bisogno di un esercito. Perciò si fece seppellire a Xiancon oltre ottomila guerrieri di terracotta; che peraltro è arduodefinire “soldatini”, visto che sono a grandezza naturale, e tut-ti diversi l’uno dall’altro.

In Europa, l’epoca del soldatino comincia con le monarchieassolute del Sei-Settecento. Quei sovrani sono i primi a non co-mandare più squadre di vassalli armati ed equipaggiati cia-scuno a proprie spese, come i re del Medioevo, o bande di mer-cenari reclutati da imprenditori privati, come i monarchi delRinascimento: ora gli eserciti sono composti da reggimenti re-golari, vestiti con divise fornite dal governo, e addestrati a mar-ciare in ordine chiuso con la precisione d’una macchina. È na-turale che nasca il desiderio di riprodurre in miniatura le loroformazioni meravigliosamente ordinate, espressione della su-periore razionalità dello Stato. Imparando, fin dalla più teneraetà, a manovrare reggimenti e a mandarli con un cenno al mas-sacro, i principini si abituano senza accorgersene al loro me-stiere di re.

Non tutti si accontentavano dei giocattoli. All’inizio del Set-tecento il principe ereditario di Prussia, il futuro Federico ilGrande, si vide regalare dal padre una compagnia di soldatiniin carne e ossa, bambini della sua età vestiti in uniforme, e potédivertirsi a farli manovrare sulla piazza d’armi di Potsdam; masi sa, la Prussia era un piccolo paese dove il mestiere militareera preso tremendamente sul serio. Gli altri principi si accon-tentavano di soldatini di cartapesta o magari d’argento, comequelli del Re Sole: che peraltro da adulto li fece fondere in unmomento di difficoltà finanziaria, per la disperazione dei col-lezionisti d’oggi.

L’Ottocento è il vero secolo del soldatino. Diventato un pro-dotto di massa, grazie al diffondersi dello stagno, è anche mez-zo di propaganda e di riscrittura della storia. Nel 1838 il capita-no William Siborne espose a Piccadilly un colossale dioramadella battaglia di Waterloo, di sei metri per otto, con ben set-tantamila soldatini. Siborne, che sperava di arricchirsi conquell’opera, aveva impiegato otto anni per allestirla e si era in-debitato fino al collo; dovendo attrarre visitatori a tutti i costi,preferì ignorare il contributo delle truppe olandesi, belghe e te-desche, che costituivano l’ottantasette per cento delle forze al-leate, ed esaltare spudoratamente l’eroismo di quelle britan-niche. Il duca di Wellington fece sapere che non intendevaavallare un’operazione del genere, e si rifiutò sempre di anda-re a vedere i soldatini di Siborne; ma il capitano era ormai ac-creditato come la massima autorità su Waterloo, e pubblicòuna storia della battaglia che fece subito testo, alimentando losciovinismo dell’Inghilterra vittoriana.

Il trionfo ottocentesco del soldatino va di pari passo con l’af-fermazione dello stato nazionale: ormai il soldato in uniformenon è più visto come lo strumento della tirannia, ma come il di-fensore della patria, e i soldatini fanno parte dell’educazione ditutti quelli che possono permetterseli. Il divario classista co-munque rimane: le immagini di Epinal ritagliate dai bambiniborghesi servivano a convincerli che è bello e nobile marciareinquadrati seguendo la bandiera, ma gli squadroni e le batteriecon cui giocava il piccolo Winston Churchill al castello diBlenheim avevano lo scopo chiarissimo di creare un condot-tiero. Sovrani e ministri del 1914 furono gli ultimi a giocare, daadulti, con reggimenti di uomini veri in divise sgargianti, così si-mili, per bellezza e meccanica obbedienza, a quelli di piomboche avevano manovrato da bambini. All’orizzonte si profilavagià l’epoca delle mimetiche, del fango e della plastica: i soldati-ni, beninteso, si sono adeguati, ma non è più la stessa cosa.

Prussia, l’esercito bonsaidi Federico il Grande

ALESSANDRO BARBERO

Antico romano Cavaliere medievale spagnolo Trombettiere spagnolo (XVI sec.) Ufficiale spagnolo (XVI sec.) Lanciere del Regno Unito (XIX sec.)

Dragone. Impero britannico (XIX sec.) Truppe coloniali inglesi (XIX sec.) Cavalleria bavarese (seconda metà XIX sec.) Lanciere del Regno Unito (XIX sec.) Regina Elisabetta d’Inghilterra (XX sec.)

Ufficiale zarista (1910) Dragone del Regno d’Italia (fine XIX sec.) Cavaliere spagnolo (metà XIX sec.)

Truppe coloniali inglesi (XIX sec.)

Cavalleria piemontese (fine XIX sec.)

Guardia di Sua Maestà Ufficiale spagnolo (seconda metà XIX sec.)

Cavalleria francese. Mammelucco (XIX sec.) Guardia reale inglese. Tamburo maggiore

Repubblica Nazionale

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25MAGGIO 2008

CULTURA*

La parodia alla sbarraNAPOLI

Storia di uno spettacolobuffo e accidentato, di ungeniale commediografonapoletano che perse il

sonno nell’impresa, di un poeta inva-sato e compiaciuto del proprio talen-to, oltre che inviperito contro even-tuali sbeffeggiatori, e del processoepocale che derivò dal loro incontro-scontro. Il vorti-coso impiccioparte la sera del 2marzo 1904,quando al Liricodi Milano debuttaLa figlia di Jorio diGabriele D’An-nunzio, protago-nista la giovaneIrma Grammati-ca, nuova fiamma(così si mormora)del Maestro. Fre-netici applausi elodi compatte perl’autore di questaenfatica tragediapastorale: l’ecodel trionfo attra-versa l’Italia e col-pisce la fantasia diEduardo Scarpet-ta, che ha appena presentato al Valle diRoma una pièce parodistica, La Gei-sha, nata nel segno dell’orientalismodiffuso all’alba del Novecento. Nellospettacolo ha festeggiato tra l’altro l’e-sordio di uno dei suoi figli: Eduardo DeFilippo, che a quattro anni recita vesti-to da giapponesino. Subito dopo quelsuccesso, il copione dannunziano gliispira un’esilarante parodia intitolata

Il figlio di Jorio, che gioca sul capovol-gimento caricaturale della trama esulla trasformazione dei personaggimaschili in femminili e viceversa.

L’esito è una catastrofe, un fiascosenza precedenti nella carriera di Scar-petta. Poco dopo quella prima e unicarappresentazione, avvenuta il 3 di-cembre del 1904 al Mercadante di Na-poli, Marco Praga, fondatore e diretto-re della Società italiana autori editori eamministratore privato di D’Annun-zio (con evidente conflitto d’interessi),

presenta una querela per plagio e con-traffazione contro Scarpetta in rappre-sentanza sia del Vate che della Siae. Ta-le è la fama dei contendenti e la novitàdel tema (è il primo processo sul dirit-to d’autore) che la questione balza sot-to i riflettori, anche per il livello dei pe-riti di parte: Benedetto Croce si schieracon l’imputato, Salvatore Di Giacomodifende D’Annunzio. Memorabili so-no le arringhe per argomenti giuridicie preziosità oratorie. E il processo di-venta un palcoscenico, dove Scarpetta

LEONETTA BENTIVOGLIOoffre irresistibili exploit teatrali. Ilmondo ne parla, i giornali si accendo-no, scoppiano tra i membri dell’intelli-ghenzia partenopea diatribe feroci,l’aula è sempre gremitissima. Il caso sirisolverà con un giudizio favorevole aScarpetta (il reato non esiste), dunquecon un implicito via libera a tutte le pa-rodie successive: filoni interi di spetta-coli e film che scherzano su nobili tito-li precedenti, come nel cinema di Totòe di Franco e Ciccio.

L’episodio, con annessi e connessi,è stato scovato negli archivi del Tribu-nale di Napoli dall’avvocato e sceneg-giatore Antonio Vladimir Marino, chelo ha proposto al regista Francesco Sa-ponaro. Dalla documentazione nasce‘A causa mia (cioè “la mia causa” o “ilmio processo”, titolo di un poemettodedicato alla vicenda da Scarpetta),evento multimediale che Saponarofirma per la prima edizione del NapoliTeatro Festival in coproduzione conTeatri Uniti e due Stabili: il Mercadan-te di Napoli e quello d’Abruzzo. La pri-ma fase della messinscena, concepitacome “work in progress”, debutterà il18 giugno (fino al 21) in una delle salepiù fastose di Castel Capuano, sedestorica del Tribunale di Napoli, e laversione definitiva approderà al SanFerdinando in autunno, con ulterioriaggiunte nella ripresa all’Aquila.

‘A causa mia usa un intreccio di lin-guaggi, nel senso che «a sequenze fil-miche», spiega Saponaro, «s’alterneràil teatro vero e proprio. Scarpetta è l’in-carnazione dell’arte scenica: apoteosidella napoletanità ed eroe carnale edenso di passioni (lo dimostra anche lasua bizzarra doppia famiglia: quellacon la moglie Rosa De Filippo e quella,parallela e dichiarata, con Luisa De Fi-lippo, nipote di Rosa). Dunque ciò chelo riguarda, in ‘A causa mia, s’affiderà al

Intorno all’accusadi plagiomemorabili arringhee un tribunaletrasformatoin palcoscenico

D’Annunziocontro

Scarpetta

L’EVENTO

Lo spettacolo ’A causa mia è unadelle quaranta produzioni originalidella prima edizione del Napoli TeatroFestival Italia (6-29 giugno), sottola direzione artistica di Renato QuagliaTra le novità, la prima compagnia teatraleeuropea: attori e professionisti di variPaesi della Ue, affidati a un regista diversoogni anno. www.napoliteatrofestival.it

www.micromega.net

EMERGENZAXENOFOBIA

interventi di

padre Alex Zanotelli

Alessandro Dal Lago

Marco D’Eramo, don Enzo Mazzi

Ulderico Daniele, don Luigi Ciotti

Luigi Irdi, Fernando Savater

don Paolo Farinella

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 25MAGGIO 2008

linguaggio vivo del teatro. D’Annunzioè invece aereo, inafferrabile. Si spec-chia in un bianco e nero trascendenteed è un artista sedotto dal cinema. Per-ciò il racconto a lui riferito scorre in filmfatti per l’occasione, mostrati in scenae girati nello stile del cinema muto. Uti-lizziamo anche brandelli dell’unica te-stimonianza filmica rimasta di unarappresentazione della vera Figlia diJorio, ripresa nel Vittoriale». Cornice dialtre nuove parti filmate è un fascinosomausoleo di gusto floreale, riadattatodallo scenografo Lino Fiorito. Immersotra le più belle ville storiche di Napoli, avia Posillipo, l’edificio sfoggia scalesontuose e colonne corinzie, riprodu-cendo i climi decadenti e onirici dellavilla di Marina di Pisa, dove D’Annun-zio apparirà circondato da tiratricid’arco e fanciulle discinte in pose daSan Sebastiano.

Sono nel cast di ‘A causa miaattori dispicco quali l’“eduardiano” Gianfeli-ce Imparato (Scarpetta), il cantantedegli Avion Travel Peppe Servillo(D’Annunzio), Andrea Renzi (MarcoPraga) e Gigio Morra nel ruolo di Lu-stig, l’insigne giurista che curò l’istrut-toria del processo, celebrato a CastelCapuano il 30 aprile 1908 con gli inter-venti di Benedetto Croce (lo interpre-ta l’antropologo Marino Niola) e Sal-vatore Di Giacomo (Enzo Moscato).«Dalla perizia del secondo», prosegueSaponaro, «si evince una rivalità esa-cerbata nei confronti di Scarpetta, dicui Di Giacomo segnala la povertàd’ingegno in base alla bruttezza dellasua parodia. Croce replica che se si do-vessero processare tutti i creatori dicose brutte i tribunali esploderebbe-ro. Sono due mondi a confronto: ilconservatore reazionario e il progres-sista che invoca la libertà d’espressio-ne». Le due perizie, in ‘A causa mia, sa-

ranno presentate come interviste «fat-te dalla televisione in tempo reale».

Perché la parodia Il figlio di Jorioscomparve dalle scene? «Fu un pro-getto sfortunato fin dalla genesi», ri-sponde Saponaro. «Rosa, moglie diScarpetta, vi si oppose subito. Capìche quel genere di parodia arcaica ri-schiava d’essere un passo indietro ri-spetto alle commedie brillanti del ma-rito, che col personaggio di FeliceSciosciammocca aveva costruito unafortuna immensa. Infatti era ricchissi-mo, con una villa strepitosa al Vomerochiamata “Santarella”, come una del-le sue opere». Tuttavia l’autore di Mi-seria e nobiltà non sente ragioni e si re-ca a Marina di Pisa per ottenere dal Va-

te un permesso scritto. D’Annunzioglielo nega, ma i due si lasciano conapparente cordialità. «Poi il poeta ci ri-pensa, teme una pubblicità dannosa,scatta la querela. E alla prima de Il fi-glio di Jorio irrompe in platea un grup-po di incattiviti dannunziani mano-vrato per fare scandalo. A inizio se-condo atto, all’acme comico dellospettacolo, quando Scarpetta sta perentrare in scena vestito da donna, so-no tali le urla e le aggressioni che l’at-tore deve far calare il sipario. Onta e fe-rita non rimarginabile per una star.Cinque mesi dopo l’assoluzione deci-derà di ritirarsi dalle scene. Confes-serà che ancora sente l’amarezza diquel fallimento».

Racconta il regista Saponaro:“Cinque mesi dopo la sentenzal’autore di ‘Miseria e nobiltà’decise di ritirarsi dalle scene”

LE IMMAGININella foto grande, un’udienzadel processo intentatoda Gabriele D’Annunziocontro Eduardo ScarpettaSopra, dall’alto: l’ultimapagina del manoscrittoautografo del Figlio di Jorio

di Scarpetta (per gentileconcessione di Maria VittoriaScarpetta); due fotoritrattidi D’Annunzio e Scarpettae i due in una caricaturadell’epoca relativaal processo. A sinistra, la teladi Francesco Paolo MichettiLa figlia di Jorio (1895)che ispirò D’Annunzio

Il lavoro, il travaglio, le sofferenzeche sono dietro al parto di un’operad’arte sono entità sacre e vanno ri-

spettate. Noi siamo artisti. Noi siamoartisti e giudichiamo col cuore. Noi sia-mo artisti e non sappiamo portare il ri-gore della razionalità, della dialettica làdove invece siamo sopraffatti dall’im-pulso dei gagliardi sentimenti che siagitano nell’anima nostra. Come vole-te che l’artista si compiaccia di vederele sue creature esposte al riso della fol-la? Scarpetta con la sua parodia ha feri-to il D’Annunzio nelle pieghe più im-penetrabili della sua anima. Cosa do-veva fare il poeta, restare inerme difronte a tale affronto? Non esistononell’arte teatrale italiana precedenti diparodie sceneggiate come Il figlio di Io-rio di Eduardo Scarpetta. In questa pa-rodia si segue il dramma pastorale delD’Annunzio non solo scena per scena,ma quasi verso per verso. È così assiduaed inviolata la prevalenza dell’origina-le che non è difficile constare che l’or-ditura della commedia presepiana, co-sì nel primo come nel secondo atto, sal-vo qualche lievissima infrazione, de-nunzia costantemente il risultato diuna imitazione tutt’altro che acciden-tale. Inefficaci riescono i ricordi e la tra-sposizioni di usi, costumanze e riti ca-ratteristici dell’Abruzzo nell’ambientedi Pozzuoli. Se bastasse ad una vera tra-sformazione comica mutare il sesso al-le figure della poesia e dell’arte e atte-nuarne la nobiltà del linguaggio nellepedestri e pur tanto espressive formedialettali, anche dei più celebri capo-lavori sarebbe facile cogliere la fisio-nomia comica. Il sesso, il linguaggioed anche il contributo di un deter-minato attore che trasforma nelsuo accento e nei suoi atti anchel’eloquio più alto e passionale inridicolo, non possono essere senon elementi secondari in unlavoro, che voglia aver carat-tere di parodia. Ma Scarpetta, anzi che opera

di parodista, ha compiuto con il Figliodi Iorio, opera da riproduttore. [...] Il fi-glio di Iorio contiene triviali e disador-ne traduzioni dei magnifici versi dell’o-riginale: è stomachevole.

“Un’imitazionestomachevole”

SALVATORE DI GIACOMO

Per risolvere il quesito se il figlio diIorio sia contraffazione o parodia,bisogna distinguere bene due ter-

mini che gli illustri periti che mi hannopreceduto mi pare abbiano confuso.Contraffare un’opera d’arte significaappropriarsi dell’effetto artistico diquell’opera, sia col tradurla sia col ri-durla, sia col mutare superficialmentequalche nome o qualche particolare,sempre mirando a sostituire con l’ope-ra così camuffata e alterata quella origi-nale, dando luogo in tal modo a una ve-ra concorrenza sleale. La contraffazio-ne presuppone l’inganno, la frode e, perle forme ingannevoli che assume, nonsempre può essere colpita dalla legge.Essa può cambiare anche le forme este-riori, ma rimane il germe, lo spirito, laparte inventiva che costituisce l’animadel lavoro contraffatto. La parodia inve-ce ha un’esistenza propria per il tono, ilgenere, l’emozione diversa rispetto al-l’opera a cui si è ispirata. Suscita il risoanziché il pianto, sostituisce un matri-monio ad un assassinio, la soluzionegioconda ad una catastrofe.

La parodia può conservare moltissi-mi particolari e perfino quasi integro illinguaggio dell’opera parodiata; ma nemuta sempre lo spirito animatore. Orache ciò sia accaduto nel figlio di Ioriodello Scarpetta rispetto alla tragedia pa-storale del D’Annunzio è cosa che a noiappare evidente. La parodia è nell’arteperché è nella vita: accanto all’infinita-mente grande vi è l’infinitamente pic-colo. Non a caso qualcuno ha definito ilridicolo come il sublime al rovescio. Edè ovvio quindi che delle opere più in vo-ga, dei capolavori, in ogni tempo, si siasempre fatta la parodia. Sotto questoaspetto la parodia è un tributo all’auto-re e non un’ingiuria. [...] Lo Scarpettaforse avrà ingiuriato l’arte facendoun’opera sbagliata ma non ha offeso ildiritto del D’Annunzio, facendogli slea-le concorrenza. Qui siamo innanzi adun Collegio che amministra giustizia,non dinnanzi ad una commissione chedeve concedere un premio artistico. Sesi ammettesse di condannare in giudi-zio gli autori di opere letterarie sbaglia-te, troppo gran lavoro avrebbero i Tri-bunali.

“Ma è un tributonon un’ingiuria”

BENEDETTO CROCE

Il genio del teatro comico aveva messo in scenaun pastiche ispirato a “La figlia di Jorio”. Il Vate lo fecequerelare. Di Giacomo e Benedetto Croce furono peritidi parte. Dagli atti di un processo celebre e dimenticatonasce uno spettacolo per il nuovissimo Festival di Napoli

Repubblica Nazionale

tori di cinema degli anni Sessanta», comeli definisce nella lunga videointervista didue anni fa con Paul Cronin, In the Begin-ning Was the Image, anch’essa proiettata aBellaria e a Bologna.

Con Antonioni (oltre che con Godard,ma con esiti grotteschi), ha avuto occasio-ne di confrontarsi un paio di volte, ai tem-pi delle riprese a Londra di Blow Up: «Laprima è stata quando giravo A Rare RollingStones Film (1966) sul tour in Irlanda deiRolling Stones, che ne ha fatto delle star an-che cinematografiche, primo gradino diuna escalation ora giunta a Shine a LightdiMartin Scorsese. Antonioni ha visto unmontato nel mio appartamento a Sohoprima di girare la celebre scena in cui JeffBeck degli Yardbirds fa a pezzi la chitarra.La seconda volta è stata per Tonite Let’s allMake Love in London, sulla scena pop de-gli anni Sessanta: gli era molto piaciuta lasequenza in cui faccio andare avanti e in-dietro, a fisarmonica, lo zoom, per seguirei su e giù dell’inno nazionale».

Giovane, istintivo, entusiasta, Whi-tehead non si è mai fatto sfuggire una com-mittenza, anche quando filmare era unsalto nel buio: «Quando ho detto sì almanager dei Rolling Stones, nonavevo ancora ascoltato una lo-ro canzone. È anche vero cheloro non erano ancora i Rol-ling Stones... Sono stato laloro cavia e, forse, un po’il loro trampolino: li hofilmati proprio l’atti-mo prima che dive-nissero famosi. Esat-tamente quel che èsuccesso con i PinkFloyd: sono stato il pri-mo a riprenderli. Il fil-mato in cui si esibisconoa Londra al poi mitico Ni-ght Club Ufo è il loro batte-simo di celebrità: fino a quelmomento non erano nessu-no. Senza saperlo, mi hanno ri-cambiato il favore: grazie alla rie-dizione in dvd nel ‘94 dei miei filma-ti, il mondo del cinema e della musica miha “riscoperto”».

Figlio, e padre, dei leggendari Sixties(«mi hanno definito il regista degli anniSessanta. Ma quando filmavo, filmavoquel che vedevo, non mi ero fatto un pro-gramma, tipo: sto documentando un’e-poca. Memorizzavo solo esperienze, emo-zioni, ribellioni di quel momento. Solo do-po, sarebbero divenute storia»), Whi-tehead ha stipato dentro una cinemato-grafia contratta in poco più di dieci anni,dal ‘64 al ‘77, un patrimonio di eventi e diicone, non solo musicali: da Robert Rau-

THE ANIMALSFormatosia Newcastletra il 1962 e il 1963,il gruppo fu filmatoda Whiteheadcon effetti specialidi stampo bellico

Èstato l’occhio del pop, prima

della leggenda. Occhio di falco,come i rapaci di cui è da sempreamico, allevatore e, un po’,suddito fedele. Lui stesso è unaleggenda prima della leggen-

da: da quando, ex studente prodigio aCambridge, incline all’arte e alla scrittura,imbraccia a metà anni Sessanta una Eclaire comincia a filmare le notti e gli happe-ning di Londra, non ancora ma già swin-ging London. Talento versatile e rapido,subito cameraman Rai («è stata la mia ve-ra scuola») ai tempi delle corrispondenzedi Sandro Paternostro, lesto nel cogliere alvolo altre opportunità italiane, intrufo-landosi nella troupe di Tinto Brass quan-do in un night uno sdegnoso John Lennonsi nega al suo obiettivo, Peter Whitehead,inventore del videoclip moderno, archi-vio vivente della protesta giovanile inGran Bretagna e Stati Uniti (‘68 e dintor-ni), è il protagonista perduto e ritrovatodella prima personale italiana (dopo l’in-tegrale dell’anno scorso alla Cinémathè-que Française de Paris) organizzata dal 5al 15 giugno da Bellaria Film Festival e Bio-grafilm di Bologna.

A settantun anni d’inalterato charme,fluida chioma ora color neve e pelle leviga-tissima, cui han dovuto soccombere le piùinvidiate celebrità della prima generazio-ne in minigonna (da Bianca Jagger alla “lo-lita” Mia Martin, alla modella Alberta Ti-burzi, Niki de St. Phalle, Nico), il cineastasarà presente a entrambi i festival, dovefilm e videoclip da noi inediti riaccende-ranno l’iconografia grande schermo di bigband e vocalist allora emergenti: RollingStones, Led Zeppelin, Pink Floyd, Small Fa-ces, Beach Boys, Jimi Hendrix, Nico. Vederrifluire, in massa, le star allora implumi diun’infinita arca del rock, il ‘68 di chitarreelettriche e batterie indemoniate, urli sof-fiati nei doppi microfoni, strilli e sveni-menti isterici di ragazzine all’assalto, saràcome iniettarci negli occhi un concentratodi Woodstock, un’overdose d’utopie an-che sonore, di sogni formato slogan.

«Mio primo obiettivo è sempre stato ditrasferire nell’immagine l’energia dellamusica», dice oggi Whitehead, che, in LedZeppelin del ‘70, martella e trapassa loschermo con i gridi riccioluti, quasi fem-minili, della band, rovesciandoci addossole chitarre taglienti, con effetti di 3D al na-turale, senza bisogno di occhialini polariz-zati. Ma la cinepresa di Whitehead — e, so-prattutto, il suo meticoloso montaggio —non si dà come unico orizzonte il palco-scenico. Le neo-star suonano e si rotolanoalla ribalta, ma fuori, attorno a quella mu-

sica, ci sono i suoni della guerra (all’epocail Vietnam, «prova generale dell’Iraq»), lemanifestazioni di protesta, gli assalti dellapolizia, le barricate che stanno dividendol’Europa del passato da quella del futuro.

Nel filmato del ‘66 sui Beach Boys (vocenarrante Marianne Faithfull, poi compa-gna di Whitehead), le camicie pop, un po’galeotte, a larghe strisce bianche e blu, si al-ternano agli statici, millenari passi ritmati,davanti a Buckingham Palace, della Guar-dia della Regina. E nell’impressionante vi-deoclip su Eric Burdon & the New Animals(When I Was Young), le immagini sgrana-te e danzanti d’un documento tv su cabra-te e avvitamenti dei caccia nei cieli di mor-te della Seconda guerra mondiale caden-zano il respiro musicale dell’artista. Maanche nel chiuso covo di fumo, fili elettricie riflettori, dentro il cerchio magico di unaribalta ridotta a un volto e una chitarra —Jimi Hendrix (Hey Joe) — il regista sa susci-tare l’eco d’un’epoca. Capigliatura corvi-na, la bocca scolpita dai controluce, in unopsichedelico va e vieni di rosso e di nero,che ridipinge mani e faccia, Hendrix, chebacia e lecca la chitarra, è un uccellacciosolitario, l’ultimo milite d’una trincea mu-sicale: già un fantasma, il mito che, dopo,lo riporterà in vita. Ma il capolavoro è LadyJane (1967). Le immagini dei Rolling Sto-

nes e Mick Jagger, gote di poppante, scivo-lano dolci sullo schermo in un astratto ra-lenti, che avvolge la canzone in un tempodi panna, soffice schiuma, nebbiosa, so-spesa. Si parte da un sussurro e si finisce inuno spezzone di cinema muto.

Nel cinema di Whitehead si trova soloun’altra immagine d’incanto tanto limpi-do: in Fire in the Water, il film “d’addio” del1977, l’aerea cascata — cui ci conduce il ca-priccioso pellegrinaggio agroturistico diNathalie Delon (altra love story) — cheperde ogni forza di gravità e si dipana nelvento, in uno svaporìo di gocce senza pe-so. Si era letta, ai titoli di testa, un’epigrafebrechtiana: «Delle grandi metropoli nonrimarrà nulla: solo il vento che le ha sfiora-te». La magia di Whitehead, “registratore”attento, tempestivo della cronaca, dell’i-stante che diventerà storia, è anche que-sta: il suo cinema si gonfia, vola, si fa vento,è il falco che si solleva in solitudine, ripla-smando il suo sguardo e spalmando loschermo di immagini liquide, pennellatesulla tela — fire in the water, fuoco nell’ac-qua — promuovendo le asprezze della pri-ma occhiata a una fluida rotazione di vi-sioni e di simboli. Antonioni, Bergman,Fellini: sono i registi, insieme al Godarddelle provocazioni intellettuali, che Whi-tehead chiama a modello, «i veri grandi au-

Ngli anni Sessanta riprese per primola Londra “swinging”. Poi portòla musica nel cinema lavorando

con Hendrix, Stones, Led Zeppelin, Pink Floyd, Beach BoysUna decina di film e l’addio negli anni Settanta. Ora il Bellaria FilmFestival e il Biografilm di Bologna gli dedicano una retrospettiva

SPETTACOLI

dei

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25MAGGIO 2008

MARIO SERENELLINI

VideoclipL’inventore

Whitehead, l’occhio pop

PINK FLOYDUna delle più grandiband musicaliche fin dagli esorditrovò con Whiteheaduna splendidacollaborazione

LED ZEPPELINLa bandfu protagonistadi un celebrevideoclip nel 1970Whitehead li fecesuonare e rotolaresulla ribalta

PETER WHITEHEADPeter Whiteheadfotografatocon la macchinada presaper le stradedi New Yorknel 1968

LE RASSEGNE

La prima personale italianadi Peter Whitehead è l’evento didue rassegne, Bellaria FilmFestival - AnteprimaDoc, direttada Fabrizio Grosoli,

e Biografilm Festival di Bologna, diretta da Andrea

Romeo. Alla presenza del cineastabritannico, i film, per la maggior parteinediti in Italia, verranno presentatia Bellaria Igea Marina dal 5 al 9e a Bologna dall’11 al 15 giugnoL’iniziativa, che ha il sostegnodella Regione Emilia-Romagna,è completata dalla pubblicazione,prodotta dal Festival di Bellariae edita da DeriveApprodi,della monografia Peter WhiteheadCinema, musica, rivoluzione,a cura di Laura Buffoni e Cristina Piccino, con contributi critici,tra gli altri, di Nicole Breneze di Giandomenico Curi(176 pagine, 13 euro)

Repubblica Nazionale

cui s’è dedicatoalla scrittura, alla

ceramica e all’alleva-mento dei falchi in Ara-

bia Saudita, Whitehead ètornato dietro la macchina da presa per gi-rare a Vienna Terrorism Considered as Oneof the Fine Arts(Il terrorismo come una del-le belle arti) ispirato a un suo racconto: «Il“film” Svariati aerei missileche Bin Ladenha abilmente concepito e realizzato l’11settembre non è un supremo esempio diarte d’avanguardia?», è la caustica spiega-zione. Di nuovo, con la cinepresa, sulletracce di un’altra leggenda, stavolta san-guinosa. Con l’immutata disposizione al-la quête solitaria e già disillusa d’ogni suofilm. «Cerchiamo qualcosa che ci paia tan-to reale da poter dimenticare noi stessi e lanostra solitudine, per un secondo, un mi-nuto, forse per anni... Sfuggiamo all’assur-do confidando fermamente in momenti dicomunione con il mondo fuori di noi»,scriveva, già nel ‘67, in I Destroy Therefore IAm (Distruggo dunque sono). Parole chepotrebbero essere pronunciate dal foto-grafo di Blow Up, anch’egli alle prese conl’illusoria registrazione d’una realtà subitomitizzata, perciò inafferrabile, di cui nonrimane tra le mani che un’invisibile pallada tennis: o «il vento che l’ha sfiorata».

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 25MAGGIO 2008

FO

TO

JA

ME

S J

AC

KS

ON

/GE

TT

Y IM

AG

ES

schenberg e Bob Kennedy in The Fall(1969) a David Hockney (con un paio d’oc-chialoni alla Elton John ricavati dalla scrit-ta luminescente “zOOm!”), alla celebreperformance della gallina bianca striscia-ta su una tastiera e poi sbattuta (“suonata”)contro i resti del pianoforte distrutto, finoallo storico reading nel ‘65 di Allen Gin-sberg alla Albert Hall, epico raduno londi-nese della Beat Generation (da Ferlinghet-ti a Corso) racchiuso nei trentaquattro mi-nuti di Wholly Communion, secondo re-portage (videoclip letterario?) del cinea-sta. Dopo trentun anni di esilio dal set, in

MICK JAGGERPeter Whiteheadpettina Mick Jaggerprima delle ripreseAccanto, il leaderdei Rolling Stonesin un fotogrammadi Charlie

BEACH BOYSNel filmato del 1966Whitehead alternai passi del gruppoa quelli della Guardiadella Regina davantia Buckingham PalaceA centro pagina:Sandie Shaw nel 1967nella sua boutiquedi Londra

JIMI HENDRIXWhitehead scelseper il videoclipdi Hendrix effettipsichedelicicon grandizoomate di lucerossa e nera

FESTARCH

Repubblica Nazionale

i saporiRiscatto rosa

Come tutti i mestieri di successoanche quello di chef è declinatoal maschile. L’Italia non faeccezione ma può vantarela pattuglia di cuoche pluristellatepiù folta d’Europa. Ora due libriraccontano le storie di volontà e sacrificiodi chi è riuscita a rompere con la catenadi montaggio alimentare casalingae a tradurre il suo talento in piatti griffati

LICIA GRANELLO

Nadia SantiniDAL PESCATORE Località RunateTel. 0376-723001Canneto sull’Oglio (Mantova)

TORTELLI DI ZUCCADue studenti di scienze politiche si innamorano:il ristorante di famiglia da salvare, la suocera,Bruna, ancora in cucina, a supportodi Nadia, mentre Antonio sta in sala. Piatto-culto,i tortelli di zucca mantovana: sfoglia soavee ripieno arricchito da amaretti, mostarda, pepe,noce moscata, chiodi di garofano,cannella e parmigiano

Annie FeoldeENOTECA PINCHIORRIVia Ghibellina 87Tel. 055-242757Firenze

FEGATO GRASSO AFFUMICATOUna marsigliese bella e indomita, un espertodi vini, una città magica. A Firenze nascecosì l’enoteca più prestigiosa del pianeta,impreziosita da piatti affascinanti. Il tradizionalefoie gras francese viene elaborato e servitocon una composta e gelatina di meleA côté, pane tostato alle prugneper accompagnare la dolcezza del fegato

Luisa ValazzaAL SORRISO Via Roma 18Tel. 0322-983228Soriso (Novara)

FUNGO DEL SORRISOAutodidatta di talento, entra in cucinadopo la laurea in Lettere, rilevando un localedi tradizione con il marito Angelo. La graziaartistica (è pittrice) si esprime nel porcinoin doppia cottura: cappella passata pochi istantiin forno, gambo tagliato in lamelle, spadellatocon erbe fresche e ricomposto, con emulsioned’olio e prezzemolo

«Quandola gastronomia sarà una religione, conil suo calendario, i suoi santi e i suoi confesso-ri, le sue vergini e i suoi martiri, la Mère Filliouxsarà canonizzata e diventerà una delle patro-ne della cucina francese». Scriveva così, ado-rante e mistico, monsieur Curnonsky — alias

Maurice-Edmond Sailland — principe dei gastronomi francesi ne-gli anni Trenta. Oggetto di tanta devozione, Francoise Fayolle spo-sata Filloux, una de “Le Mères”, le Madri della cucina francese, pic-colo gruppo di indomabili donne dei fornelli che a cavallo tra le dueguerre riscattarono generazioni di cuoche silenziose e dimentica-te, conquistando il Gotha dell’haute cuisine internazionale a colpidi Tre Stelle Michelin. Solo pochi mesi fa, Anne Sophie Pic è riusci-ta a rinverdirne i fasti, conquistando la terza stella e il titolo di mi-gliore chef di Francia.

Due libri e un pranzo di piazza celebrano in questi giorni gli splen-dori dell’alta cucina al femminile, movimento a lungo trascurato emisconosciuto in nome di una superiorità maschile tradotta in pre-mi, stelle e classifiche gourmand. Da una parte, Le cuoche che avreivoluto diventare, di Roberta Corradin (Einaudi); dall’altra EugénieBrazier e le altre, scritto da Alessandra Meldolesi per Le Lettere. Inentrambi i casi, scrittrici-gourmand e cuoche provette pronte ariannodare il filo con le radici del proprio savoir-faire: ovvero dire,

fare, raccontare cucina e dintorni.«Gli uomini sono dei geni, ma

noi siamo la storia», ama ricordareNadia Santini, chef tristellata dauna dozzina d’anni, considerata lapiù grande cuoca italiana. Non è lasola, se è vero che, unico caso almondo, la guida Michelin attribui-sce il massimo dei giudizi possibilia ben tre donne dello stesso Paese(Annie Feolde, pur nata in CostaAzzurra, vive a Firenze da oltre

trent’anni). A loro, vanno aggiunte altre tre super-cuoche con duestelle Michelin: come dire che in nessun altro posto la cucina fem-minile viene riconosciuta, apprezzata, amata come da noi.

Eppure, quando si parla di cucina d’autore, facce, nomi e indi-rizzi sono tutti declinati al maschile. «Questione di fatica, di orari, disacrifici», sostengono i critici gastronomici (uomini), svelando so-lo una parte di verità. Perché le donne cucinano da sempre, coniu-gando come possono il meglio e il peggio della quotidianità ali-mentare, dalla necessità di variare i menù ai pochi soldi con cui rea-lizzarli, accontentando bimbi svogliati e adolescenti a dieta, mari-ti ipertesi e anziani diabetici. Così, nella maggior parte dei casi, ledonne lasciano il palcoscenico all’artista di turno, ritagliandosiruoli esterni al cono di luce della celebrità, diventando sous-chef,executive, capi brigata. In quanto alle nostre Magnifiche Sei Pluri-stellate, le loro storie sono storie di straordinaria volontà: spose conmariti eredi di trattorie e locali, supportate da suocere disposte apassare i loro saperi, assemblando amore, passione lavorativa e vi-ta famigliare.

Ma le più giovani non ci stanno. Rivendicano una professionalitàsvincolata dal passaporto matrimoniale. Vogliono essere cuochecome sarebbero medici, insegnanti, avvocate, artigiane. Se nonavete tempo e modo di fermarvi in uno dei tanti indirizzi di alta cu-cina femmina sparsi per l’Italia, regalatevi una sera a teatro a Bolo-gna. A luglio, dopo uno degli appuntamenti che fanno ricco il car-tellone dell’Arena del Sole, potrete godervi una meravigliosa cenanel chiostro annesso, curata dagli chef stellati dell’Emilia Romagna.Scoprirete il talento di Aurora Mazzucchelli, stella Michelin a Sas-so Marconi: giovane, sveglia, bravissima. Perfino senza avere unmarito accanto.

Nadia, Luisa,Annie e le altre

TRE STELLE MICHELIN (Italia)

cucinaLa

delleDonne

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25MAGGIO 2008

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 25MAGGIO 2008

Nadia MoroniIL LUOGO DI AIMO E NADIAVia Montecuccoli 6Tel. 02-416886Milano

SPAGHETTI AL CIPOLLOTTODue chef per una storia d’amore e di cucinache dura da più di mezzo secolo. Oggi, Aimoè soprattutto affabulatore in sala, mentre Nadiaè ancora e sempre in cucinaGloriosi i suoi spaghetti Senatore Cappelli,spadellati in un sugo di cipollotti, alloro, aglio,timo, origano, pomodori, peperoncini,rifiniti con extravergine e basilico

Valeria PicciniDA CAINOVia della Chiesa 4Tel. 0564-602817Montemerano (Grosseto)

PiCCIONE CON CROCCHETTA DI CASTAGNETrent’anni fa, la studentessa-sposina Valeriaentrò nella cucina della trattoria dei suocericon il neomarito sommelier Maurizio, facendoneun approdo goloso e raffinato. Strepitosoil piccione con le sue frattaglie a guisa di patèe crostino, con crocchetta di castagne del monteAmiata e salsa di uva fragola allo champagne

Maria SalcuniLA TENDA ROSSA Piazza del Monumento 9Tel. 055-826132San Casciano (Firenze)

BOCCONCINI DI CALAMARIUn felice tandem romagnolo-pugliese:lui, Silvano, in sala, lei, Maria, ai fornelliVent’anni di pizza come specialità della casa,poi il grande salto nell’alta cucina Golosissimi e appetitosi i bocconcini di piccolicalamari, farciti con la polpa dell’astice,appoggiati su vellutata di porciniaromatizzata al timo

Carme RuscalledaSANT PAUCalle Nou 10Tel. (+34) 93-7600662Sant Pol de Mar (Barcellona)

TONNO CON PISELLI TENERIAutodidatta virtuosa, capacedi inventarsi cuoca quando, insieme al maritoToni, trasforma in locale gourmand un vecchiohostal di fronte al mare in CatalognaIl cubo di tonno rosso, dalla doppiaconsistenza – croccante e sapido all’esterno,crudo e dolce all’interno – si gusta al megliocon una zuppetta tiepida di primizie di piselli

Penso che esista un approccio realmente diverso tra la cucina femminile e quella maschile. Noi cuciniamo in unmodo molto più fisico, mentre gli uomini agiscono secondo termini più astratti. Per carità, non credo si debbafare necessariamente una divisione di sesso, nel modo di fare e gustare il cibo. Però, in un certo senso, la nostra

è una cucina più morbida e sentimentale, ancorata alla nostra origine, alla nostra storia millenaria, alla nostra attitu-dine a nutrire le persone. È un compito ancestrale che ci portiamo dentro, ed è strettamente connesso con la vita.

Nutrire, sfamare, sono imperativi che arrivano perfino prima di cucinare e infinitamente prima di “giocare” con ilcibo. Da sempre ci prendiamo cura del prossimo, a partire dalla nostra famiglia. Stiamo più attente all’intero percorsodel nutrire, dalla materia prima all’accoglienza del cliente. Ci riesce naturale. La vera differenza è questa. “Chez Pa-nisse” è nato così, nel 1971, come bistrò di quartiere, dove mangiare esattamente come per un “dinner party” a casa:goloso, piacevole, informale. Ogni sera serviamo menù a prezzo fisso che cambiano quotidianamente, secondo gliingredienti di stagione e la spesa del mercato.

Per quanto riguarda la cucina, il mio non è approccio gastronomico tout court, non ho mai pensato a me stessa co-me una chef in maniera stereotipata. Ho cominciato a fare questo lavoro, a vivere le mie prime esperienze nel setto-re, cercando semplicemente di dare il meglio di me stessa. Avevo come idea principale, quella di ricercare ed esalta-re i sapori, i gusti primari. Fin da subito, ho scelto di usare materie prime biologiche, privilegiando un rapporto diret-to con gli agricoltori. Piuttosto che procacciarmi gli ingredienti da negozianti o commercianti, ho deciso di andare al-la fonte. C’è gente che mette tutta la propria coscienza e la propria passione nel lavoro che fa. Sono queste le personecon cui mi piace relazionarmi.

Un’altra tappa importante è stata la nascita della “Fondazione Chez Panisse”, nel 1996. Lo staff è formato da tuttedonne. Supportiamo programmi di educazione alimentare nelle scuole, per far sì che il cibo serva non solo da nutri-mento, ma anche per formare e dare forza ai ragazzi. Siamo riuscite a trasformare i cortili scolastici in orti. Gli “EdibleSchoolyards” rappresentano un’esperienza che può cambiare la loro vita, visto che obesità e diabete sono malattiesempre più diffuse tra i nostri giovani. In classe, si studiano anche i problemi ambientali e i principi dell’agricolturabiologica. Non è un caso se tra i libri che ho scritto, uno, Fanny at Chez Panisse, è dedicato proprio ai bambini, con ri-cette e piccoli racconti… Ma non pensiamo solo ai più piccoli. Nel 2003, abbiamo supportato l’avvio dello “Yale Su-stainable Food Project”, con l’obbiettivo di rendere il cibo parte integrante dell’esperienza universitaria. L’altro im-pegno forte, è all’interno del “San Francisco Ferry Plaza Farmers Market”, l’associazione che promuove i mercati con-tadini e il consumo di cibo biologico e locale.

Al di là di queste attività con una grande presenza femminile, mi piace pensare che le nostre qualità culinarie e quel-le maschili siano egualmente utili. Ciò non toglie che continuo a giudicare la cucina delle donne più strutturata. Cer-to, quando cercano di cucinare alla maniera degli uomini — così razionale e artistica, ma non voglio mettermi con-tro la mascolinità, almeno per come gli chef cucinano qui, negli Stati Uniti! — perdono qualcosa di stesse. Invece, ledonne che cucinano col cuore, sono convinta possano far passare questa pienezza, farla arrivare nei piatti, al palatoe all’anima dei commensali.

L’autrice, considerata una delle più colte e prestigiose cuoche del mondo,gestisce il ristorante “Chez Panisse” a Berkeley, California, ed è vicepresidente di Slow Food International

ALICE WATERS

Anne-Sophie PicMAISON PIC285, avenue Victor HugoTel. (+33) 475441532Valence (Drôme)

AGNELLO CON GIALLO DI CECINipote e figlia di cuochi “tristellati”(il nonno André nel 1934, il padre Jacquesnel 1973) è salita sul podio più alto l’anno scorso,dopo quarant’anni di assenze femminiliIl trancio di sella di agnello da latte arrostitain casseruola viene adagiato su un ristrettofondente di verdure aromatizzato alla cannella,con sfera cremosa di ceci

TRE STELLE MICHELIN (Europa) DUE STELLE MICHELIN (Italia)

L’appuntamentoAppuntamento femminile

e goloso, oggi, a San Vincenzo,Livorno, regno del “Gambero Rosso”

di Emanuela e Fulvio Pierangelini. All’internodella festa “Tutti pazzi per la palamita”

che ogni anno celebra le virtù del fratellinomisconosciuto del tonno, il grande ribelle

della cucina d’autore, dedicherà un pranzointero alle “over 65”, in segnodi riconoscenza per la grandetradizione culinaria perpetrata

ai fornelli dalle donnedel borgo

Siamo nutrici, ci mettiamo il cuore

FO

TO

WE

BP

HO

TO

Repubblica Nazionale

le tendenzeCorsi e ricorsi

Nata povera, la maglina che Chanel e Pucci reserocelebre torna oggi come protagonista assolutadegli abiti primaverili firmati e non. Leggerissima, versatile,ingualcibile, esalta il corpo delle donne, appaga la creativitàdegli stilisti e promette perfetti drappeggi.Verrà festeggiata tra qualche giorno con una mostra che s’inaugura a Prato

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25MAGGIO 2008

Èun tessuto duttile, sensuale,

perfetto per le donne. E chequest’estate farà da filo con-duttore alla moda sia sartoria-le che casual. Il jersey fa da as-so pigliatutto, imperversa

nelle collezioni e, magicamente, metted’accordo tutti gli stilisti che lo amano elo considerano la «maglina dalle milleopportunità». «É confortevole, fluida,malleabile, piacevole al tatto — spiegaAntonio Marras, lo stilista di Alghero chea Parigi disegna Kenzo —, la maglia di jer-sey non manca mai nelle mie collezioni.Trovo che sia un tessuto con un alto indi-ce di femminilità: conservo gelosamentediverse foto di mia madre che risalgonoagli anni Sessanta, quando indossavameravigliosi abiti in jersey fantasia».

Il jersey, che ha mille varianti tecnichecelebrate al museo di Prato, dove (dal 20giugno) s’inaugura la mostra su L’evolu-zione del tessuto per lo sport, ha una sto-ria che parte nel secolo scorso, ma a far-lo grande fu nel 1916 madame Coco cheaveva puntato gli occhi su questo mate-riale perfetto per realizzare capi essen-ziali. Da allora il jersey si è conquistatoun posto importante nel mondo dellamoda. Ma i fasti veri li ha conosciuti ne-gli anni Sessanta, grazie a Emilio Pucci.«Ricordo una mitica sfilata a New York— spiega Mario Boselli, presidente del-la Camera della moda e “re del jersey” inquanto imprenditore del settore —. Ilmarchese Emilio Pucci, osannato dalle

signore americane, per dimostrare le in-credibili performance del jersey avevaportato in scena una modella in calza-maglia. Davanti a un pubblico incurio-sito, la ragazza apriva un beauty case,prendeva un pigiama palazzo, lo indos-sava, sfilava in passerella. E poi, sotto gliocchi di tutti, si cambiava indossandoun abito da sera che estraeva sempre dalbeauty. Questo gioco la modella l’ha ri-petuto dieci volte, dimostrando così chein un contenitore piccolo piccolo pote-va starci un guardaroba completo. Tut-to in jersey, confortevole e chic».

Negli anni Sessanta il jersey era moltopopolare. La stragrande maggioranzadelle donne aveva le classiche vesta-gliette fantasia, più o meno colorate,morbide, confezionate dalle sarte o ac-quistate nei negozi dove si faceva largo ilprimo pret-à-porter industriale.

«Il jersey è uno dei pilastri del guarda-roba femminile», conferma Anna Moli-nari di Blumarine che per l’estate haproposto abiti cortissimi, dai colori bril-lanti, arricchiti da drappeggi, perfettiper le ragazze dai corpi scolpiti in pale-stra. Il jersey è donante e, come dice Al-berta Ferretti, «ha un grande pregio: saesaltare le curve femminili e attenuarele silhouette troppo spigolose o tropporotonde».

Una versatilità che ne fa il tessutoideale per mise sensuali. DonatellaVersace stravede per il «jersey di se-ta che accarezza il corpo delle don-ne e segue, con naturalezza, tutti iloro movimenti». Tra i fan del jer-sey ci sono anche Prada, Moschi-no, Max Mara, Dior, Cavalli, Ice-berg, Francisco Costa di Calvin Klein(«l’effetto scultura è sorprendente») eTomas Maier di Bottega Veneta («lafluidità del jersey è impareggiabile»). E,come ricordano i due giovani stilisti diFrankie Morello, il jersey ha pure un’a-nima democratica: «Nella sua versati-lità si piega a tutto, diventando il mas-simo della semplicità e del comfort,con le tradizionali t-shirt». A tutto jer-sey anche le collezioni “low price” diZara, Benetton, Stefanel, H&M, Mangoe Combipel.

LAURA ASNAGHI

La riscossa del tessutoche si piega a tutto

Jersey

SENSUALEAnche le “signoregrandi forme”di Elena Mirò,marchiodel gruppoMiroglio,apprezzanola sensualitàavvolgentedel jersey

DA VIAGGIOAbito stile imperocon doppiacinturasotto il senoDa Stefanella collezioneestiva è riccadi abiti in maglina:non si sciupano,ideali da viaggio

GRINTOSOI miniabitidi Hugo Boss,con le spallineche si incrocianodavanti, hannola grinta che piacealle ragazzeAi piedi, gli stivaliestivi in morbidocamoscio

RIGOROSOUn rigorosotubino neroin jersey di Chanelimpreziositoda una “pettorinadi piume”,costata cinquegiorni di lavoroagli artigianidella Maison Desrues

SPETTACOLAREL’abito di Blumarine,disegnatoda Anna Molinari,è all’insegnadel glamourIl corpo è fasciato,esibito e la scollaturasul seno abissaleLa gonna lungae frusciante,è perfettaper il “red carpet”

AFFUSOLATOLinee affusolatee stampe dai millecolori. La nuovacollezioneEmilio Pucci,disegnatada MatthewWilliamson, giocasu stampecon onde e stelle

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 25MAGGIO 2008

«Ètutta donna. È la donna più donnache abbia mai visto», disse allibitoArthur Miller la prima volta che in-

contrò Marilyn Monroe. Quel giorno Marilynindossava un impalpabile abito in maglina dijersey di Emilio Pucci. Un nulla, un soffio,quanto di più sexy potesse accarezzare il suocelebre corpo. Oggi quella stoffa leggerissimae inconsistente la diamo per scontata, elasti-ca quanto basta, pratica, luminosa, donante.In realtà lo sdoganamento del jersey non fucosì automatico. E anche le sue metamorfositecniche.

Le origini sono poverissime. Il jersey era untessuto di maglia che vestiva i pescatori dell’i-sola di Jersey, per questo si chiama così. Ful’attrice Lily Langtry, oggi dimenticata, a usa-re per prima questa stoffa per i suoi abiti, neglianni Venti. Detta anche Jersey Lily perché eranata in quell’isola, era considerata una delledonne più belle ma anche più eleganti del suotempo, conosciuta più che per il suo talentonel recitare perché diventò l’amante del prin-cipe del Galles, il futuro Edoardo VII.

Ma fu grazie a un’altra donna che negli stes-si anni il jersey venne nobilitato: colei che tra-sformò radicalmente l’eleganza femminile,non più basata sull’opulenza strutturale e sul-l’affettazione dei dettagli e dei tessuti, bensìsulla semplicità, sulla linea sciolta, sulcomfort. Fu Coco Chanel a inserire con pre-potenza la maglia e la maglina nel panoramadell’alta moda.

Una moda prevalentemente sportiva, pra-tica — quella disegnata da Mademoiselle — diderivazione maschile, nel rispetto delle esi-genze del corpo, in aperto contrasto con il gu-sto imperante. Ma «la moda passa e lo stile re-sta», teorizzò Coco Chanel. Una rivoluzioneepocale, la sua: aver mandato in soffitta i cor-setti e le stecche di balena, aver liberato la don-na dal busto e dalla gabbia delle impalcaturee delle stoffe troppo rigide è il motivo per cuipasserà alla storia. La maglina, il tessuto lieve-mente cedevole ma che impeccabilmentetorna al suo posto, è un po’ la sua stoffa sim-bolo. E non importa che questa stoffa abbia, onasconda, umili origini: «Alcune personepensano che il lusso sia l’opposto della po-vertà. Non lo è. È l’opposto della volgarità», so-steneva Coco Chanel.

Ma dovettero passare vari anni prima che lamaglina di jersey avesse un rilancio glamourcome quello impressole dal marchese EmilioPucci, il sarto (la parola stilista non si usava an-cora) del jet set nel vero senso della parola:quelli e soprattutto quelle — ancora assai po-che — che si spostavano continuamente in jete apprezzavano un bagaglio leggero e ridotto.Vestiti esclusivi, certo, ma soprattutto pratici,no iron. Non poteva essere che in maglina dijersey il suo abito più famoso, da sera ma cheripiegato aveva l’ingombro di un fazzoletto danaso e pesava appena centosettanta grammi,perfettamente ingualcibile anche se stretto inun pugno, e coloratissimo grazie ai nuovi si-stemi di tintura. Una tavolozza rubata alla na-tura: il rosa acceso della buganvillea mediter-ranea, il giallo dei limoni di Capri, il verde deiprati di Toscana, il turchese dei fondali mari-ni fotografati dallo stesso sportivissimo Pucci,accostati e rimixati come in un caleidoscopio.

Era tutto nero, per la verità, l’aderente edelastico tubino che Marilyn indossava al pri-mo incontro con Arthur Miller. Altre donnemolto celebri, non solo star ma aristocratichepaladine del gusto, diventarono testimonialdi Emilio Pucci e dei suoi abiti leggeri come unsoffio: Consuelo Crespi e Diana Vreeland,Gloria Guinness e Lauren Bacall, Marisa Be-renson e naturalmente Jacqueline Kennedy,tutte ingualcibili, nel viso e nello chemisier,tutte vestite di maglina destrutturata.

Il resto è storia di anni recenti. Armani, percitare solo il più noto. Ma anche Loris Azzaro,che negli anni Settanta creò vestiti in jersey co-sì fluidi e sciolti da sembrare dipinti addosso.Perché un vestito deve soprattutto donare.Deve stare bene e fare sentire bene chi lo por-ta. E poi Azzedine Alaia, già apprendista scul-tore, virtuoso dell’abito fasciante che somi-glia a una seconda pelle.

Per tutti la moda del peplo, puntualmen-te rilanciata a ogni Olimpiade. Provate a fa-re un peplo con la seta cruda, con il rigido ra-so, con il ricco broccato, con le stoffe nobili:impossibile.

Quel soffio sexyaddosso a Marilyn

LAURA LAURENZI

MINIMALISTAIl bello del jerseyè che sa scolpire

magicamenteil corpo. Così

pensa FranciscoCosta, il creativo

di Calvin Klein,abile nel fondere

minimalismoe sensualità

MORBIDOAbiti gioielloper AlbertaFerretti, amatadalle stardel cinemaI drappeggiin jerseyattenuanole silhouettespigolose

EMILIO PUCCIÈ datato 1966 l’abito in jerseyin stampa multicolore creatodal marchese Emilio PucciFu lui, il sarto del jet set,che nobilitò e rese di modala fluidissima maglinaoggi tornata in augeIl vestito da sera più celebrerealizzato da Puccipesava solo 170 grammi

ACCESSORIATOL’abito nero,da gran sera,

di Dior fa partedella collezionededicata al jazz

I sandali,con tacchi

scultura,sono tempestati

di cristalliSvarowski;

la borsaè zebrata;

il basco è nero,ricoperto di anelli

SENZA TEMPOCon il jersey,tessutoad alto indicedi seduzione,Antonio Marrascrea abitisenza tempo,perfettisia per l’estateche per l’inverno

Repubblica Nazionale

l’incontroArrabbiati

CANNES

“Obama 08” è lascritta in biancosul nero della t-shirt di Spike Lee e

accanto, a colori tenui, un disegno stiliz-zato suggerisce un astro nascente. Nes-sun dubbio, «No if!» ripete Spike Lee co-me uno slogan e, se la candidatura diObama risvegliasse barlumi di razzismonegli americani democratici, «we shallovercame», dice perentorio. L’incontrocon Spike Lee avviene in un padiglionesulla spiaggia della Croisette a Cannes,dove il cineasta «più arrabbiato d’Ame-rica» è arrivato per presentare Miracle atSt. Anna, il film che sarà pronto per la fi-ne di luglio, l’uscita negli Stati Uniti èprevista il 20 ottobre e successivamentenel resto del mondo, magari dopo la par-tecipazione al festival di Venezia o di To-ronto. Tratto dal bestseller dell’ameri-cano James McBride, Miracle at St. Annaracconta la vicenda di quattro soldati dicolore della 92ma divisione dell’esercitoamericano che nel 1944 si ritrovaronointrappolati a Sant’Anna di Stazzema inToscana, a combattere contro i nazisti econtro il razzismo dei loro superiori.

Spike Lee lo definisce «il mio tentativodi rinnovare il genere del cinema diguerra. Dico che è come David Lean inItalia, ha lo stesso spirito dei film del re-gista inglese. È una storia epica, per usodi mezzi e di persone è la più impegnati-va della mia carriera, più di Malcolm X. Èanche il film della maturità, dieci anni fanon avrei potuto farlo, non ero pronto. Èvero che in tutti i film c’è qualcosa di per-sonale dell’autore, ma questo è il piùpersonale, anzi famigliare». E ricordache, da bambino ancora in Georgia — ènato ad Atlanta nel 1957 — ascoltava iracconti di famiglia sulla guerra e «nel li-bro di McBride li ho ritrovati. Non miopadre che aveva problemi di salute, ma i

suoi fratelli erano stati nella Secondaguerra mondiale. Guidavano camion,perché allora, all’inizio del conflitto agliuomini di colore non era consentitocombattere, potevano occuparsi deitrasporti, delle pulizie, della cucina, la-vori umili. Solo più tardi fu permesso lo-ro di combattere, una delle prime divi-sioni di neri combattenti fu la 96ma chesbarcò ad Anzio e in Sicilia».

Per Lee bambino, ancora SheltonJackson — Spike (punta) era il modo incui lo chiamava sua madre sgridandoloper gli eccessi di vivacità ribelle —, «mol-to prima del Vietnam la guerra era quel-la di cui parlavano i miei zii: parlavano dipaura, di fughe, di compagni perduti, didistruzione, il nemico erano i tedeschi.Come molti reduci avevano bisogno ditirare fuori l’orrore che si portavanodentro. Ma Miracle non è solo un filmsugli afroamericani in guerra, è sul lororapporto con la Resistenza e i civili ita-liani, per loro erano i salvatori e si uniro-no per combattere insieme contro i na-zisti. So che i partigiani in Italia sono unargomento delicato e che qualcuno vor-rebbe riscrivere la Storia, soprattuttocon un governo di destra, ma abbiamofatto ricerche accurate, abbiamo rispet-tato la verità. Comunque penso che ilfilm non piacerà a Berlusconi», dice poialzando il braccio nel saluto fascista, «èvero che il sindaco di Roma era uno co-sì?». Alla risposta affermativa ride.

Spike Lee non è uno di quelli dalla tri-ste storia di ghetti e di violenza. Suo pa-dre era un musicista jazz, sua madre in-segnante, ma da giovanissimo, da quan-do la famiglia si trasferì a Brooklyn la-sciando la Georgia devastata dai disor-dini per i diritti civili, ha recepito i pro-blemi del razzismo, che hanno poialimentato il suo cinema, spesso irrive-rente, dove di frequente qualcuno grida«Wake up!». Un cinema scomodo e nonsolo per i bianchi. Film come Jungle Fe-ver, in cui ironizza sulla «mitologia ses-suale della donna bianca consideratasimbolo della bellezza e sugli uomini dicolore dotati di organi extrasize», oBam-boozled, una satira feroce sulla tv, su co-me i bianchi mostrano i neri in tv, ma an-che sull’immagine che gli afroamerica-ni offrono di se stessi, hanno irritato par-te della popolazione nera. «Un film nonpuò e non deve accontentare tutti. Noncapisco perché a me chiedono sempre“pensa che piacerà agli afroamericani?”.Ma a un regista bianco chiedono mai seil suo film piacerà a tutto il pubblico delsuo colore?».

La fama di «più arrabbiato» l’ha con-quistata fin dagli inizi con il cinema in-dipendente e a basso costo, prodottocon la sua compagnia chiamata “40acres and a mule filmworks” in riferi-mento alla promessa, mai mantenuta,fatta dai politici sull’abolizione dellaschiavitù dopo la Guerra civile. Il suo fuun esordio grandioso, Lola darling, co-stato 175mila dollari, in parte messi in-sieme dalla nonna, ne incassò sette mi-lioni. Gli Studios di Hollywood sono

realismo, è un omaggio a Ladri di bici-clette, Paisà, Roma città aperta». La dif-ferenza da Spielberg? «Spero che il pub-blico la capisca quando lo vedrà. Io la soma non sta a me dirla». La dice il produt-tore Cicutto: «C’è chi tende allo spetta-colo della guerra e chi, come Spike, cer-ca l’umanità di chi la guerra subisce».

Con il film Lee ha realizzato un sogno.«Sono venuto in Italia per la prima voltaa presentare Lola darling, il mio primofilm, e mi sono trovato così a casa che hodeciso di girare in Italia appena possibi-le. Sono passati più di vent’anni e ci so-no riuscito». Lo Spike Lee timido e smar-rito che vent’anni fa scopriva Roma «èandato, non c’è più. Spike Lee è cresciu-to, oggi è un padre, un marito, un film-maker più bravo», dice lui. Molte cosesono cambiate nella sua vita. Non appa-re più sulla stampa pettegola che ne sta-nava i flirt con modelle e attrici (una eraHalle Berry) e appare in pubblico con lamoglie Tonya Lewis e i due figli, è passa-to da Brooklyn a Manhattan, ha impara-to a ridere delle sue contraddizioni: co-me quella di non aver mai preso la pa-tente e aver girato spot per una marca diauto; o il contrasto tra il suo cinema dagrande schermo e la partecipazione co-me giudice a Babelgum, il concorso perbrevissimi film destinati all’online. Nonè cambiato però nell’attaccamento allafamiglia, padre, fratelli e sorelle sono im-pegnati nella produzione e a Manhattanha comprato una casa gigantesca dovesono sistemati i diversi nuclei famigliari.

Ma è rimasto «il più arrabbiato»? «Nonvado in giro a mordere la gente, ma i mo-tivi per esprimere rabbia ci sono sem-pre». L’ultimo è stato l’uragano Katrina,su cui ha realizzato un bellissimo, com-movente film documento, Requiem inquattro atti. Fu un’esperienza dolorosavedere i miei concittadini, per la mag-gior parte afroamericani, vivere quel-l’orrore ed ero scandalizzato dalla len-tezza degli interventi del governo fede-rale. Ogni volta che vengo in Europa igiornalisti mi fanno domande sulla si-tuazione dei neri, come se fossi il porta-voce di quarantacinque milioni di afroa-mericani, e non lo sono. Non avevo ri-sposte alle tante domande che mi face-vano in quell’occasione, ma mi confortòche anche la stampa italiana era scanda-lizzata, qualcuno scrisse che New Or-leans non sembrava America, ma TerzoMondo».

Tornato in patria le risposte le ha tro-vate. «Misi insieme una piccola troupe aandammo a New Orleans. La prima sco-perta fu che a distruggere la città non erastato tanto l’uragano quanto il sistemadi fognature che si era rovinato e cheaveva allagato l’ottanta per cento del ter-ritorio. Ho scoperto anche che, mentregli abitanti di New Orleans sparivanonell’acqua o erano costretti a lasciare lacittà con mezzi di fortuna, la signora Ri-ce era a Madison Avenue a comprare lescarpe di Ferragamo, Cheney era in va-canza, e così pure il presidente Bush.Che interruppe la vacanza ma aveva al-

sempre pronti ad accogliere i registi chefanno soldi, ma il rapporto con Spike Leeè stato sempre disturbato. Nel 1992 riu-scì ad ottenere di fare Malcolm X grazieanche a Denzel Washington, che conl’interpretazione del leader dei diritti ci-vili ebbe la candidatura all’Oscar, e «so-prattutto perché convinsi NormanJewison, che era stato scelto per primo,che solo un afroamericano poteva rac-contare quella storia». Ma nel 2001 nongli fu concesso di dirigere Will Smith inAlì, un film che sentiva “suo”. «WillSmith mi disse che avrebbe dovuto es-sere un film di grande respiro interna-zionale e capii subito che ripeteva l’ideadei produttori che non mi ritenevano al-l’altezza».

Non è un caso che per Miracle of St.Annanon è riuscito a trovare i quaranta-tré milioni di dollari negli Usa e conside-ra «un altro miracolo l’intervento deglieuropei, soprattutto degli italiani Ro-berto Cicutto e Luigi Musini che mi han-no permesso di fare il film, che peraltroè molto diverso da film di guerra anchebelli come Soldato Ryan di Spielberg,appartiene alla grande scuola del neo-

tri impegni prima di dirigersi a New Or-leans».

Requiem in quattro atti«è stato il lavo-ro più duro della mia vita. Per chiunquecredo sia difficile andare a parlare conpersone che hanno perso famigliari eamici, che non hanno più niente, nean-che la speranza. Ma penso che valesse lapena. Intanto ha dimostrato quanto aBush interessi poco la vita e il destino deipoveri e degli afroamericani, la maggio-ranza degli abitanti di New Orleans. Ècurioso che, se succede un disastro na-turale in Birmania o in Cina, leggiamoche il governo Usa è subito pronto ad in-tervenire… Il film è stato utile nel tempo,ha risvegliato le coscienze di tanti ame-ricani che ignoravano la realtà ed è di-ventato difficile per il governo non darsida fare per la ricostruzione».

Per ora c’è un’altra rabbia repressache Lee vorrebbe sfogare in un film:quella per i disordini di Los Angeles e peril comportamento razzista della polizia,su cui ha raccolto una lunga documen-tazione e steso una prima sceneggiatu-ra, ma non riesce a trovare qualcuno di-sposto a finanziare il film. Per fortuna staper andare in porto un altro progetto chegli è caro. Spike Lee è appassionato dimolti sport, compreso il calcio, è un am-miratore entusiasta dell’Arsenal, è ami-co da anni dell’ex capitano ThierryHenry, gli piace indossare la maglia del-la squadra. Ma il vero amore è il basket,non a caso nei suoi film c’è sempre qual-che personaggio che ne discute. E se nelcinema il suo film preferito è Il cacciato-ree il suo autore è Michael Moore, nel ba-sket l’idolo è Michael Jordan. Si sono in-contrati per la prima volta in occasionedegli spot per la Nike e «ho scoperto unessere umano fantastico con una bellis-sima storia personale da raccontare.L’ho scritta e, quando avrò finito Miracleof St. Anna, comincerò a girarla. Michaelè prontissimo e mi ha espresso spesso ildesiderio di venire a Cannes. L’annoprossimo ci saremo con il film».

Una pellicolanon può e non deveaccontentare tuttiNon capisco perchéa me chiedonosempre: “Pensache piaceràagli afroamericani?”

Sta ultimando “Miracle at St. Anna”,il suo primo lavoro “italiano”,un’opera sul massacro nazistaa Sant’Anna di Stazzema, che usciràin autunno. Lo chiama “il film

della mia maturità,il più personale,un omaggioal neorealismo”Il suo rimane ancoraun cinema scomodo,spesso irriverente,e non solo per i bianchi

“Non vado in giro a morderela gente - dice -. Ma i motiviper esprimere rabbia ci sono sempre”

MARIA PIA FUSCO

Spike Lee

FO

TO

CA

TA

RIN

A V

AN

DE

VIL

LE

/ E

YE

DE

A

‘‘

‘‘50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25MAGGIO 2008

Repubblica Nazionale